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dimanche, 10 avril 2011

Machiavelli the European

Machiavelli the European

Dominique Venner

Translated by Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

Machiavelli.jpgEven his own name has been turned against him. Indeed it is hardly flattering to be described as “Machiavellian.” One immediately envisions a hint of cunning and treacherous violence. And yet what led Machiavelli to write his most famous and scandalous works, The Prince, was concern for his fatherland, Italy.In his time, in the first years of the 16th century, he was, moreover, the only one who cared about this geographical entity. Then, one thought about Naples, Genoa, Rome, Florence, Milan, or Venice, but nobody thought of Italy. For that, it was necessary to wait three more centuries. Which proves that one should never despair. The prophets always preach in spiritual wastelands before their dreams rouse the unpredictable interest of the people.

Born in Florence in 1469, dying in 1527, Niccolò Machiavelli was a senior civil servant and diplomat. He participated in the great politics of his time. What he learned offended his patriotism, inciting him to reflect on the art of leading public affairs. Life enrolled him in the school of great upheavals. He was 23 years old when Lorenzo the Magnificent died in 1492. That same year, Alexander VI Borgia became pope. He temporarily made his son Cesare (in this time, the popes were not always celibate) a very young cardinal. Then he became Duke of Valentinois thanks to the king of France. This Cesare, who was tormented by a terrible ambition, never troubled himself about means.  In spite of his failures, his ardor fascinated Machiavelli.

But I anticipate. In 1494, an immense event occurred that upset Italy for a long time. Charles VIII, the young and ambitious king of France, carried out his famous “descent,” i.e., an attempt at conquest that upset the balance of the peninsula. After being received in Florence, Rome, and Naples, Charles VIII met with resistance and had to withdraw, leaving Italy in chaos. But it was not over. His cousin and successor, Louis XII, returned in 1500, staying longer this time, until the rise of Francis I. In the meantime, Florence had sunk into civil war and Italy had been devastated by condottieri avid for plunder.

Dismayed, Machiavelli observed the damage. He was indignant at the impotence of the Italians. From his reflections was born The Prince, the famous political treatise written thanks to a disgrace. The argument, with irrefutable logic, aims at the conversion of the reader. The method is historical. It rests on the comparison between the past and the present. Machiavelli states his conviction that men and things do not change. He continues to speak to the Europeans who we are.

In the manner of the Ancients – his models – he believes that Fortune (chance), illustrated as a woman balancing on an unstable wheel, determines one half of human actions. But, he says, that leaves the other half governed by virtue (the virile quality of audacity and energy). To the men of action whom he calls to do his wishes, Machiavelli teaches the means of governing well. Symbolized by the lion, force is the first of these means to conquer or maintain a state. But it is necessary to join it with the slyness of the fox. In reality, it is necessary to be lion and fox at the same time: “It is necessary to be a fox to avoid the traps and a lion to frighten the wolves” (The Prince, ch. 18). Hence his praise, stripped of all moral prejudice, of pope Alexander VI Borgia who “never did anything, never thought of anything, but deceiving people and always found ways of doing it” (The Prince, ch. 18). However, it is the son of this curious pope, Cesare Borgia, whom Machiavelli saw as the incarnation of the Prince according to his wishes, able “to conquer either by force or by ruse” (The Prince, ch. 7).

Put on the Index, accused of impiety and atheism, Machiavelli actually had a complex attitude with respect to religion. Certainly not devout, he nevertheless bowed to its practices. In his Discourses on the First Ten Books of Titus Livy, drawing on the lessons of ancient history, he wonders about the religion that would be best suited for the health of the State: “Our religion placed the supreme good in humility and contempt for human things. The other [the Roman religion] placed it in the nobility of soul, the strength of the body, and all other things apt to make men strong. If our religion requires that one have strength, it is to be more suited for suffering than for strong deeds. This way of life thus seems to have weakened the world and to have made it prey for scoundrels” (Discourses, Book II, ch. 2). Machiavelli never hazarded religious reflections, but only political reflections on religion, concluding, however: “I prefer my fatherland to my own soul.”

Source: http://www.dominiquevenner.fr/#/edito-nrh-53-machiavel/3813836

samedi, 09 avril 2011

L'Africom e la sua funzione strategica nel Continente africano

L’Africom e la sua funzione strategica nel Continente africano

di Giacomo Guarini


Fonte: eurasia [scheda fonte]


L’Africom e la sua funzione strategica nel Continente africano

Negli ultimi mesi l’US Africa Command (AFRICOM) è tornato a far parlare di sé sulle pagine dei giornali in due particolari occasioni.

La prima di queste risale a dicembre ed ha ad oggetto le rivelazioni da parte di Wikileaks di note dell’ambasciatore USA in Italia, Ronald Spogli, in merito all’istituzione di sotto-comandi AFRICOM presso basi italiane (1).
La seconda è ancora più recente e riguarda l’attuazione della risoluzione O.N.U. 1973 in Libia: sul comando delle operazioni vi è stato un passaggio di responsabilità dall’AFRICOM alla NATO, anche se l’AFRICOM continuerà ad avere importanti ruoli nelle operazioni, come dichiarato in una recente intervista (2)  dal generale Carter F. Ham, responsabile del Comando africano.

L’AFRICOM nasce come autonomo Comando del Dipartimento della Difesa USA nel 2008. Scopo dichiarato è il rafforzamento della partnership militare con i Paesi dell’area africana, al fine di contrastare il terrorismo internazionale e garantire la pace e la sicurezza continentale, nell’interesse comune delle popolazioni africane e degli Stati Uniti.

Dalle opinioni di analisti e politici USA emerge dopo l’11 settembre la preoccupazione per il fattore Africa, come possibile centro di nascita e sviluppo di realtà legate al terrorismo internazionale. La sicurezza interna degli USA non è in realtà né l’unico né evidentemente il maggiore elemento di preoccupazione dell’establishment americano: diventa infatti sempre più delicato il problema della garanzia di acquisizione delle risorse africane.

Indicava J. Peter Pham (3) nel 2008, fra le priorità strategiche degli USA in Africa, “la protezione dell’accesso agli idrocarburi ed altre risorse strategiche di cui l’Africa dispone in abbondanza” e “la garanzia che nessun’altra parte interessata, compresi Cina, India, Giappone e Russia, ottenga monopoli o trattamenti differenziati” (4) e questo anche in previsione della grande crescita della domanda di energia africana da parte degli USA nel breve-medio periodo.

Una rapida panoramica dei principali scenari di coinvolgimento del Comando  conferma l’importanza dello stesso come strumento tanto di controllo strategico di spazi e risorse, quanto di contenimento dell’affermazione in Africa di altri attori globali, Cina in primis.

Si noterà inoltre che le aree nelle quali l’AFRICOM opera maggiormente erano già oggetto di attività strategico-militare USA prima ancora dell’istituzione del Comando africano, nel 2008. Quest’ultimo ha in effetti permesso un più efficace coordinamento e consolidamento della presenza militare statunitense ma, se si volesse idealmente indicare la data di inizio di una politica militare ‘pervasiva’ degli USA in Africa, si dovrebbe tornare indietro all’11 Settembre, come già accennato. Fino agli anni ’90, infatti, le attività militari che hanno coinvolto direttamente gli USA nel continente sono state poche e di scarso rilievo, fatta eccezione per l’intervento  contro la Libia del 1986; è invece proprio con la dichiarazione di guerra al terrorismo globale, fatta sotto l’allora presidenza Bush, che le cose cambiano.

Nel novembre 2002 viene istituita la Pan-Sahel Initiative (PSI), finalizzata all’eradicazione di realtà terroristiche nella regione sub-sahariana e basata sulla collaborazione con Mali, Mauritania Niger e Chad. Nel 2004 tale progetto verrà sostituito dalla Trans-Saharan Counterterrorism Initiative (TSCTI), la quale prevederà un consistente allargamento dei Paesi interessati al progetto; la responsabilità delle operazioni di addestramento e supporto delle forze militari della regione passerà dal US European Command (EUCOM) all’AFRICOM nel 2008, per concretizzarsi nell’Operation Enduring Freedom Trans Sahara che attualmente coinvolge gli eserciti di 10 Stati (5) in una regione tanto instabile quanto ricca di risorse.

Sempre nel novembre 2002, parallelamente all’Initiative nel Sahel, gli USA istituiscono la Combined Joint Task Force per il Corno d’Africa (CJTF-HOA) e l’anno successivo si insediano definitivamente nella base militare di  Camp Lemonnier (Gibuti). La posizione della base è di grande rilevanza strategica per il controllo dell’entroterra africano orientale e delle vie marittime del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, passando per il Golfo di Aden, nonché per la vicinanza con la penisola arabica. Anche la CJTF-HOA è passata nel 2008 sotto il Comando AFRICOM; in precedenza la responsabilità era del United States Central Command (USCENTCOM).

Passando al lato opposto del continente, vediamo che un’area di grande sensibilità per gli interessi USA è il Golfo di Guinea, per le enormi riserve di idrocarburi dei Paesi che ivi si affacciano. E’ per questo che la sicurezza marittima dell’area è stata oggetto di grande attenzione (6) da parte del Comando africano sin dalla sua costituzione.

Arriviamo poi alla regione dei Grandi Laghi; anche qui rileva la preoccupazione USA per il controllo degli equilibri regionali, la quale è dimostrata dall’organizzazione di grandi esercitazioni militari congiunte con i Paesi della regione (7) e dai tentativi di sconfiggere i ribelli del Lord Resistance Army ed eradicare la loro presenza dal nord dell’Uganda. Alla fine dell’anno appena trascorso i paesi dell’area hanno approvato le strategie proposte dagli USA a tale scopo, in occasione della Conferenza Internazionale sulla Regione dei Grandi Laghi, discutendo anche del massiccio sfruttamento illegale delle ingenti risorse dell’area (8).

Durante questi suoi pochi anni di vita, è sorto un vivo dibattito sul Comando africano e la sua presenza nel continente. Si constata l’atteggiamento quantomeno ambiguo e timoroso dei Paesi africani, anche quelli più vicini agli USA, nei confronti della nuova presenza militare; un segno tangibile di simili prevenzioni è dato dal fatto che l’AFRICOM ha ancora la sua sede in Europa, a Stoccarda, e le grandi potenze continentali come Algeria, Nigeria, Sudafrica hanno preannunciato il loro fermo rifiuto all’installazione della sede centrale entro i propri confini.

Numerosi analisti africani guardano con preoccupazione ad una simile presenza nel loro continente, percepita come un ritorno alle trascorse esperienze coloniali che vanificherebbe gli sforzi compiuti nell’ultimo secolo per l’autodeterminazione (9) e che ricorderebbe i tempi della Conferenza di Berlino del 1884 (10). D’altronde, anche gli analisti statunitensi convinti promotori del progetto AFRICOM, come il già citato J. Peter Pham, riconoscono le difficoltà derivanti dalla percezione di un rinnovato pericolo colonialista (11).

Un’interessante chiave di lettura geopolitica del ruolo dell’AFRICOM è offerta nel lavoro di tesi di dottorato di uno studente ugandese, ripreso dal sito di informazione panafricana All Africa(12). Lo studio vede l’azione degli USA e dei suoi alleati occidentali come finalizzata ad indebolire i sistemi politici interni dei Paesi africani per ottenere il controllo delle risorse. L’azione dell’AFRICOM viene inquadrata nell’ambito delle strategie delineate da Samuel Huntington, in particolare nel suo saggio Next pattern of conflict, secondo quella che da alcuni è stata definita la ‘militarizzazione della globalizzazione’.

Si è fatto cenno alla crescente influenza cinese nel continente africano e al fatto che la stessa AFRICOM venga vista, come accennato, in funzione di contrasto alle ambizioni di Pechino. La penetrazione cinese negli ultimi anni si è dimostrata molto efficace; Pechino ha saputo prevalere sugli altri competitori globali grazie alle sue politiche molto convenienti per gli stessi Paesi africani e basate sull’erogazione di credito a condizioni vantaggiose, su importanti investimenti nelle infrastrutture e nello sviluppo tecnologico, e sulla non-ingerenza negli affari interni degli Stati. Il Presidente del Senegal ha avuto modo di dichiarare recentemente: “in meno di 10 anni di cooperazione con la Cina, l’Africa ha ottenuto 1000 volte più di quanto ha avuto in 400 anni di relazioni, di chiacchiere e dolori con l’Europa” (13). L’espressione colorita sintetizza probabilmente un pensiero condiviso da molti leader africani.

Gli USA dal canto loro hanno spesso fatto leva su istituzioni internazionali quali l’F.M.I. per contrastare l’avanzata del Dragone (14) e da questo punto di vista l’AFRICOM avrebbe le medesime finalità, avvalendosi strumentalmente della potenza militare statunitense.

In conclusione riportiamo la lettura che del Comando Africano fa uno stratega cinese, membro dell’Accademia di Scienze Militari: “Geograficamente, l’Africa è affiancata dall’Eurasia, con la sua parte settentrionale  ubicata nel punto di congiunzione dei continenti asiatico, europeo ed africano. L’attuale dislocazione militare statunitense globale si concentra su di un’instabile “zona ad arco” dal Caucaso, Asia centrale e meridionale, sino alla penisola coreana, e così il continente africano è usato come solida base per sostenere la strategia globale statunitense. Quindi, l’AFRICOM facilita l’avanzata degli Stati Uniti nel continente africano, il controllo del continente eurasiatico, e la conquista del timone dell’intero globo” (15). Un’analisi che converge con quella di Tiberio Graziani, direttore della rivista Eurasia, il quale legge la penetrazione statunitense in Africa come diretta non solo al controllo e al sicuro approvvigionamento delle risorse, ma anche ad una politica perturbativa delle relazioni sud-sud (il cui consolidamento è evidentemente fonte di non poche preoccupazioni a Washington) ed infine alla disposizione di “un ampio spazio di manovra, da cui rilanciare il proprio peso militare sul piano globale al fine di contendere alle potenze asiatiche il primato mondiale” (16).

Vedremo allora quale sarà la sorte del continente africano nei decenni a venire e se questi riuscirà ad affermarsi come soggetto, più che come oggetto, della competizione globale. Sembra evidente che attualmente l’unica via alla sua emancipazione è data dalla leva potenziale dei progressivi fenomeni di integrazione sud-sud succitati, laddove invece una realtà come AFRICOM non potrà che costituire ulteriore ipoteca all’autodeterminazione e allo sviluppo dell’Africa. E molti africani sembrano consapevoli di questo.

1)   Giulio Todescan, “I segreti della base Usa di Vicenza finiscono su Wikileaks”, “Corriere del Veneto”, 4 dicembre 2010
2) Trascrizione dell’intervista reperibile sul sito ufficiale dell’AFRICOM al seguente indirizzo: http://www.africom.mil/getArticle.asp?art=6311&
3) Consigliere dei Dipartimenti di Stato e della Difesa USA.
4) Pham J. Peter, Strategic Interests, World Defense Review, 5 febbraio 2009.
5) Algeria, Burkina Faso, Marocco, Tunisia, Chad, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, e Senegal. http://www.africom.mil/oef-ts.asp
6) Maritime Security in Africa, U.S. AFRICOM Public Affairs Office, 7 febbraio 2008.
7) Kevin J. Kelley, Uganda: Big U.S. Military Exercise for Northern Region, Global Research, 12 ottobre 2009.
8 ) Elias Mbao, Great Lakes Bloc Backs U.S. Kony Strategy, All Africa, 16 Dicembre 2010.
9) Tichaona Nhamoyebonde, Africom – Latest U.S. Bid to Recolonise the Continent, Global Research, 9 gennaio 2010.
10) Itai Muchena, Germany – Hotbed of imperialism, The Herald, 7 aprile 2010.
11) V. nota n. 4.
12) Julius Barigaba, Oil, Minerals and the Militarisation of Globalisation, All Africa, 22 Marzo 2010.
13) v. Luca Alfieri, La politica estera della Cina in Africa e nel resto del mondo, Eurobull, 30 ottobre 2009.
14)  Renaud Viviene et alii, L’ipocrita ingerenza del FMI e della Banca mondiale nella Repubblica democratica del Congo, Voltairenet, 19 ottobre 2009.
15) Lin Zhiyuan, U.S. moves to step up military infiltration in Africa, People’s Daily, 26 febbraio 2007.
16) Tiberio Graziani, L’Africa nel sistema multipolare, Eurasia, 3/2009, Settembre-Dicembre.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

AFRICOM und der Krieg in Libyen

AFRICOM und der Krieg in Libyen

Emile Schepers

Die amerikanische Beteiligung am Krieg in Libyen wird offenbar von einem früheren Stützpunkt der französischen Fremdenlegion in Dschibuti aus, einem kleinen Land mit einer halben Million Einwohner am Horn von Afrika, organisiert. Hier befindet sich die vorgeschobene Basis von AFRICOM, dem Oberkommando für die US-amerikanischen Militäroperationen in Afrika, das 2007 vom früheren Präsidenten George W. Bush und seinem Verteidigungsminister Robert Gates, der auch unter Präsident Barack Obama im Amt blieb, eingerichtet wurde. Warum die USA dieses besondere Regionalkommando für Afrika einrichteten, bedarf der Erläuterung.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/emile-schepers/africom-und-der-krieg-in-libyen.html

Enthüllt: So menschenverachtend ist US-Präsident Oboma

Enthüllt: So menschenverachtend ist US-Präsident Barack Obama

Udo Ulfkotte

Der amerikanische Präsident Obama ist selbst bei seinen ehemaligen Anhängern schon lange in Ungnade gefallen. Die anfängliche Euphorie ist der Ernüchterung gewichen. Wenn die Amerikaner in den nächsten Tagen allerdings erst einmal mitbekommen werden, wie die Obama-Regierung den Einmarsch saudischer Truppen und die brutale »chinesische Lösung« gegen die Demonstranten in Bahrain abgesegnet hat, dann dürften dem Friedensnobelpreisträger Obama wohl auch noch die letzten Sympathien abhanden kommen.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/udo-ulfkotte/enthuellt-so-menschenverachtend-ist-us-praesident-barack-obama.html

Joschka Fischer: belliciste vert!

joschka-fischer.jpg

Anton SCHMITT :

Joschka Fischer : belliciste vert !

 

L’ancien ministre allemand des affaires étrangères Joschka Fischer appelle son pays à faire la guerre à la Libye !

 

Le paragraphe 80 du code pénal de la République Fédérale d’Allemagne prévoit des sanctions pour tout citoyens qui appelle à lancer une guerre d’agression. Concrètement, tout appel à une guerre d’agression devrait, selon le code pénal « être puni de détention à perpétuité ou d’une détention non inférieure à dix années ». Ce paragraphe n’a jamais été sollicité avant la réunification allemande de 1989-1990. Cette disposition du code pénal correspond aux principes sous-tendant l’article 26 de la Loi Fondamentale (Grundgesetz). Le passé très récent nous montre que la justice allemande cherche des échappatoires pour ne pas avoir à poursuivre le délit d’appel à la guerre d’agression.

 

Lorsqu’en 2006 plusieurs plaintes sont déposées contre d’importants décideurs politiques de la RFA à cause de la participation d’agents allemands du renseignement à la guerre contre l’Irak, ces plaintes ont été considérées comme non recevables.  Ainsi, le Procureur général de la République, écrivait, le 26 janvier 2006, dans le texte du Document 3 ARP 8/06-3 : « D’après le texte univoque de l’ordonnance, c’est la préparation à une guerre d’agression, et non la guerre d’agression en elle-même, qui est punissable, si bien que la participation à une guerre d’agression, préparée par d’autres, n’est pas punissable ».

 

Indépendamment du fait que l’on rejette ou non comme abominable la guerre civile que mène le dictateur libyen Kadhafi, l’immixtion perpétrée par l’OTAN et, plus particulièrement, par la France, la Grande-Bretagne et les Etats-Unis, dans ce conflit intérieur libyen constitue bel et bien une guerre d’agression. L’ONU n’a décrété que l’établissement d’une zone de « non survol » et décidé que des mesures soient prises pour protéger les civils contre les attaques lancées par les fidèles du Colonel Kadhafi.

 

Les résolutions de l’ONU n’ont jamais évoqué l’intervention militaire de l’OTAN aux côtés des adversaires de Kadhafi. L’Allemagne, avec le Brésil, la Chine, la Russie et l’Inde, s’est abstenue lors du vote au Conseil de sécurité de l’ONU. Malgré cette sagesse, il se trouve des follicules, en Allemagne, pour déplorer le fait que le pays « se soit isolé » sur le plan international. Pourtant, vu l’article 26 de la Loi Fondamentale, l’Allemagne ne pouvait pas faire autre chose que s’abstenir.

 

Or voilà que Joschka Fischer  —membre du parti écologiste qui fut le ministre fédéral des affaires étrangères sous Gerhard Schröder—  a exigé que le pays se positionne autrement. Dans les colonnes du « Süddeutsche Zeitung », cet « homme d’Etat » (?) manifeste bruyamment sa désapprobation : « Il ne me reste que la honte face à la démission de notre gouvernement et, hélas aussi, face à celle des dirigeants rouges et verts de l’opposition, qui ont encore eu le toupet d’applaudir à cette scandaleuse erreur ». A la suite de cette déclaration, Fischer adoptait le ton moralisant : « cette option [du gouvernement fédéral allemand actuel] n’a plus rien à voir avec une politique étrangère liée à de hautes valeurs morales ni avec les intérêts de l’Allemagne et de l’Europe ».  Bien qu’en prononçant ces vives paroles, Fischer légitime par le verbe une guerre d’agression, il ne doit pas craindre qu’un policier vienne l’arrêter au petit matin à son domicile. Quand on applique les paragraphes du code pénal allemand en matières d’ « excitation du peuple à la haine » (« Volksverhetzungsparagraphen »), on pense à toutes sortes de choses mais certainement pas à la conduite d’une guerre d’agression.

 

Anton SCHMITT.

(Article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°13/2011 ; http://www.zurzeit.at/ ).

Sous haute surveillance politique

Préface de Pierre le Vigan au livre “ Sous haute surveillance politique” de Philippe Randa
(Chroniques barbares VIII – Éditions Dualpha)

Le_ViganRanda_2.gifComme adjectif, le mot « chronique » désigne quelque chose qui dure longtemps. Comme une maladie, ou comme l’avenir dont chacun sait, au moins depuis Althusser, qu’il dure longtemps puisque sous ce titre il publia un livre. Précisément, les chroniques de Philippe Randa, dont il nous livre le hui­tième volume, concernent une maladie durable. C’est celle de notre pays. Comment nommer ce mal ?
Comme toutes les maladies graves, elle a plusieurs aspects. Elle atteint le corps et l’âme. Elle vient à la fois du corps et de l’âme.
C’est la maladie d’un pays qui vit à crédit, mais c’est aussi et surtout la maladie d’un pays qui ne se respecte plus, c’est la maladie d’un pays qui accepte une immigration de peuplement et de remplacement, mais aussi qui dévalorise le travail manuel, c’est la maladie d’un pays qui donne des leçons de morale au monde entier et ne montre pourtant que l’exemple de l’assujétissement volontaire aux États-Unis, d’un pays ubuesque qui prétend réduire la criminalité tout en licenciant des compagnies de CRS, dont les gouvernants ont affiché la proposition de « travailler plus pour gagner plus », alors qu’ils n’ont en réalité su que faire venir plus d’étrangers pour faire baisser plus encore les salaires.
C’est le drame d’un pays où les collusions entre les « élites », de droite comme de gauche et les grandes entreprises n’ont jamais été aussi flagrantes, jusqu’à devenir caricaturales.
Bref, notre pays est schizophrène et il accepte d’être dirigé par des imposteurs. Il grogne contre ceux qui lui mentent et ne se donne pas les moyens de les sortir du jeu politique. Notre pays ne veut pas prendre de risque. Aussi, il reconduit au pouvoir la vieille droite et la vieille gauche et il prend tout simplement le risque de mourir. Il est vrai que tout est mis en œuvre par les élites pour développer les faux choix. Si vous êtes anticapitalistes, l’ultragauche vous propose de rejoindre son combat, mais vous im­pose plus d’immigrés et des régularisations automatiques des sans papiers. Si le déclin du sens des responsabilités vous insupporte, la droite vous propose son prêt-à penser pro-américain, la collaboration à des expéditions néo-coloniales en Afghanistan, et un anti-islamisme instrumentalisé pour accréditer la thèse du choc des civilisations et vous solidariser avec toutes les entreprises atlantistes présentes et à venir. Comme peut-être, demain, une croisa­de contre l’Iran. Au nom de la « liberté » et des « droits de l’homme » bien sûr.
Et peut-être, demain encore, le choix électoral en France sera-t-il : Sarkozy ou Strauss-Kahn ? Et, pour les penseurs, pourquoi pas : Jacques Attali ou Alain Minc ? Au plan politique, le « système », comme disait Jean Maze (auteur de L’anti-système, 1960), met en place de faux choix pour que « tout bouge sans que rien ne change. »
C’est une entreprise scélérate qui, jusqu’ici, a plutôt bien marché et a fait sortir notre pays de l’histoire jusqu’à lui supprimer toute conscience de soi. On comprend pourquoi, comme l’écrit Philippe Randa, la nouvelle disposition juridique sur le référendum dit d’initiative populaire est tellement encadrée, est tellement mise « sous haute surveillance politique » – c’est le titre de son livre – que ce référendum ne risque guère d’être le moyen d’un réveil du peu­ple, si celui-ci était frappé d’un éclair de lucidité et sortait de la dépolitisation soigneusement orchestrée pour que les « élites » continuent de jouir du pouvoir sans être dérangées. Il est vrai qu’il y a aussi l’anesthésie que Philippe Randa appelle fort bien « l’information du vide » : 20 mn consacrée à la météo, « attention il fait froid, couvrez vous » ou bien « attention, il va faire chaud, buvez. »
Et pourtant, ce pays, je l’aime et Philippe Randa l’aime aussi. C’est pourquoi il en parle tant, avec ironie, sans illusions excessives, mais avec quelque tendresse aussi. Car notre pays fut grand et se porta haut et loin.
Un pays est une porte vers l’universel. Si on refuse de passer la porte, on reste tout le temps chez soi. Si la porte est tout le temps ouverte, ce n’est plus une porte et la maison se délabre et à terme s’effondre. C’est pourquoi l’éloge des frontières que fait Régis Debray dans son récent livre n’est pas l’éloge de l’enfermement, c’est l’éloge des différences, ce qui est tout autre chose.
C’est pourquoi l’accueil de quelque 200 000 étrangers supplémentaires (au bas mot et hors les clandestins) tous les ans en France est une folie.
« Derrière la disparition apparente des identités, écrit de son coté Hervé Juvin, derrière la disparition apparente de tous ce qui sépare les hommes, nous sommes en fait en train d’assister à un régime de séparation infiniment plus rigoureux que les autres, sauf qu’il est fondé sur une chose et une seule chose, votre utilité économique, et, pour le dire ainsi, votre patrimoine et votre pouvoir d’achat. »
Oui, ces chroniques de l’année 2010, qui portent sur des événements que nous avons tous en mémoire, nous restituent un climat, une ambiance, celle d’une France qui s’oublie, qui oublie les rapports de force dans le monde, qui oublie la différence des civilisations, qui n’est pas forcément leur choc, mais qui est leur altérité, et qui est l’altérité même des hommes et des communautés, même les plus petites ou les plus spécifiques, telles que Michel Maffesoli en fait l’analyse depuis des années.
Hervé Juvin le dit encore : « La demande identitaire, comme le retour au politique et à la frontière, sont les éléments centraux de la sortie de la crise mondiale. » Le localisme comme échelon du sociétal et de l’économique, le national comme échelon du politique, la civilisation européenne comme échelon du projet, du mode d’être-ensemble et voie vers un universel différencié, telles sont les moyens, à notre portée, d’un ordre nouveau et impérial. Tout le contraire de l’impérialisme du nouvel ordre mondial.

Pierre Le Vigan est un collaborateur d’Éléments et de de Flash Infos magazine depuis sa création. Il est également l’auteur de plusieurs livres.

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D'un Céline l'autre

 
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D'un Céline l'autre
 
de David Alliot
 
Présentation de l'éditeur
Les 200 témoignages que regroupe D’un Céline l’autre jalonnent l’itinéraire d’une vie entière : celle de l’écrivain Louis-Ferdinand Céline (1894-1961), depuis sa jeunesse passage Choiseul jusqu’à sa mort à Meudon. Un portrait inédit de Céline émerge ainsi à travers le regard de ceux qui l’ont connu : famille de l’écrivain, amis intimes, admirateurs ou adversaires. La nature des témoignages est d’une grande variété : correspondances, journaux intimes, mémoires, etc. S’ils proviennent généralement de la sphère française, quelques voix étrangères résonnent : les danoises, qui dévoilent le Céline de l’exil entre 1945 à 1951, les allemandes, qui dévisagent le Céline de l’Occupation. Certains textes tiennent en une ligne, d’autres s’étendent sur plusieurs dizaines de pages. Chaque témoignage est minutieusement introduit à la compréhension du lecteur à travers un appareil critique très exhaustif : notice biographique du témoin, origine du texte, contexte dans lequel il a été écrit. Enfin, l’ensemble du livre contient des annotations de nature à éclairer certains aspects de la vie de Céline. Un tiers des témoignages est connu du grand public. Un deuxième tiers ne lui était pas accessible jusqu’ici. Le dernier tiers est totalement inédit. En effet, tantôt les témoignages ont été recueillis par l’auteur auprès des derniers témoins encore en vie, tantôt ils ont été découverts dans des archives encore inexplorées. D’un Céline l’autre est préfacé par Me François Gibault, biographe de Céline, avocat et homme de confiance de Mme Lucette Destouches, veuve de l’écrivain, qui a apporté son soutien au projet. Le livre s’accompagne également d’une biographie synthétique de la vie de Céline, écrite par David Alliot, afin de livrer quelques repères au lecteur profane. Enfin, différentes annexes (chronologie, bibliographie et deux cartes) viennent compléter le contenu du livre.

David Alliot, D'un Céline l'autre, R.Laffont, 2011.
Commande possible sur Amazon.fr.

La tragedia armena: il primo "olocausto" dell'epoca contemporanea

***

Verso la fine del XIX secolo, la crisi politica, economica e sociale dell’impero ottomano si fece sempre più grave, sfociando in sedizioni e sommosse. A Salonicco un gruppo di ufficiali dell’esercito, affiancato da alcuni esiliati politici turchi confluiti nella Ittihad ve Terakki (il partito Unione e Progresso), iniziò a tramare contro l’incapace e retrogrado governo centrale di Costantinopoli, con l’obiettivo di intraprendere, anche con la forza, un necessario quanto urgente processo di modernizzazione dell’impero ormai sull’orlo del collasso.

Il 24 luglio del 1908, il Comitato Centrale di Unione e Progresso detronizzò il sultano Abdul Hamid II sostituendolo con il più malleabile fratello Muhammad. Seguì un breve periodo di euforia da parte delle minoranze etniche e religiose della Sublime Porta, tra cui quella armena, che confidavano nell’inizio di una nuova era caratterizzata da maggiori libertà. Si trattò però di una semplice speranza destinata a svanire di fronte ai reali e non dichiarati intenti che in segreto animavano i cuori degli appartenenti ad un nuovo partito ‘progressista’, il Movimento dei Giovani Turchi, intenzionati sì a modernizzare economicamente e socialmente il loro agonizzante impero, ma anche ad unificarlo etnicamente e religiosamente, espandendone nuovamente i confini non ad occidente, come avevano quasi sempre fatto i sultani del passato, bensì ad oriente, in direzione della Persia, del Caucaso e delle immense regioni asiatiche centrali, abitate da popoli (tartari, azerbaigiani, ceceni, kazachi, uzbechi, kirghisi e tagiki) linguisticamente ed etnicamente affini al popolo anatolico. La teoria geopolitica intorno alla quale ruotava questo piano si basava sull’ideologia panturanica. Secondo il padre di quest’ultima – l’orientalista, linguista ed esploratore ungherese Arminius Vambery (1832-1913) – l’impero ottomano avrebbe infatti potuto e dovuto allargare i suoi confini all’intera area caucasica e asiatico-centrale in virtù della già citata uniformità etnico-religiosa che caratterizzava l’intero “popolo” turco. Fu per questa ragione che, il 26 gennaio 1913, un triumvirato di Giovani Turchi firmato da Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal – nonostante i precedenti proclami inneggianti l’eguaglianza di tutti i sudditi della Sublime Porta – iniziarono ad organizzare un piano di persecuzione nei confronti di tutte le minoranze, prima fra tutte quella armena, mettendo in piedi un’efficiente struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), coordinata da due medici, Nazim e Shaker, e dipendente dal Ministero della Guerra e da quello degli Interni e della Giustizia. Nel 1914, con l’entrata in guerra della Turchia a fianco degli Imperi Centrali, i Giovani Turchi poterono finalmente rendere più che palesi le loro intime convinzioni e dare il via ad una sistematica e scientifica persecuzione destinata a protrarsi per quasi tutta la durata del Primo Conflitto Mondiale. Tra l’aprile e il maggio 1915, i turchi concentrarono i loro sforzi nell’eliminazione dell’élite economico-culturale e dei militari armeni. Il 24 aprile 1915 (che verrà in seguito ricordata come la data commemorativa del ‘genocidio’), a Costantinopoli, circa 500 armeni furono incarcerati e poi eliminati. Tra le vittime vi era anche il deputato Krikor Zohrab che pensava di godere dell’amicizia personale di Talaat Pascià, molti intellettuali, come il poeta Daniel Varujan, giornalisti e sacerdoti. Tra gli uomini di chiesa, Soghomon Gevorki Soghomonyan (più noto come il monaco Komitas), padre della etnomusicologia armena. Komitas fu deportato assieme ad altri 180 intellettuali armeni a Çankırı in Anatolia centro settentrionale. Egli sopravvisse alla prigionia e alla guerra grazie all’intervento del poeta nazionalista turco Emin Yurdakul, della scrittrice turca Halide Edip Adıvar e dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau. Trasferitosi nel 1919 a Parigi, Komitas, sulla scorta degli orrori patiti, impazzì finendo i suoi giorni in un manicomio, nel 1935.

Tra il maggio e il luglio del 1915, gli ottomani, spalleggiati da bande curde (2) e da reparti formati da ex detenuti, setacciarono le comunità delle province di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput, dove soprattutto i reparti curdi depredarono e massacrarono migliaia tra donne, vecchi e bambini e decine di sacerdoti a molti dei quali, prima dell’esecuzione, furono strappati gli occhi, le unghie e i denti. Gevdet Bey, vali (governatore) della città di Van e cognato del ministro della Difesa Enver Pascià, era solito fare inchiodare ai piedi dei prelati ferri di cavallo arroventati. Stando ad un rapporto del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915, diverse migliaia di soldati armeni inquadrati nell’esercito ottomano e reduci dalla disastrosa campagna del Caucaso (scatenata nel dicembre del 1914 da Enver Pascià contro le forze zariste al comando del generale Nikolai Yudenich ) furono improvvisamente disarmati dai turchi e spediti nelle zone di Kharput e  Diyarbakir con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Ma una volta giunti sul posto essi vennero tutti fucilati. Solitamente, i turchi organizzavano le deportazioni di massa trasferendo i loro prigionieri in località piuttosto remote. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata regione siriana di Deir al-Zor, dove centinaia di intere famiglie armene furono ammassate e lasciate morire di stenti in primordiali lager privi di baracche e servizi igienici.. In terra siriana vennero anche spediti migliaia di giovani ragazze e ragazzi armeni che riuscirono però a scampare alla morte in parte perché venduti a gestori arabi di bordelli per etero e omosessuali, e in parte perché rinchiusi negli speciali orfanotrofi per cristiani gestiti da Halidé Edib Adivart, una sadica virago incaricata da Costantinopoli di ‘rieducare’ I piccoli armeni.

Le deportazioni – annotò in questo periodo il diplomatico tedesco Max Erwin von Scheubner-Richter -furono giustificate dal governo turco con la scusa di un necessario spostamento delle comunità armene dalle zone interessate dalle operazioni militari (Anatolia orientale e nord orientale, n.d.a) (…) Non escludo che gran parte dei deportati furono massacrati durante la loro marcia. (…) Una volta abbandonati i loro villaggi, le bande curde e i gendarmi turchi si impadronivano di tutte le abitazioni e i beni degli armeni, grazie anche ad una legge del 10.6.1915 ed altre a seguire che stabiliva che tutte le proprietà appartenenti agli armeni deportati fossero dichiarate “beni abbandonati” (emvali metruke) e quindi soggetti alla confisca da parte dello Stato turco”. E a testimonianza dei risvolti economici della strage, basti pensare che “i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacchè dai beni rapinati agli armeni arrivarono a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi”. Nell’inverno del ‘15, il conte Wolff-Metternich decise di riferire al ministero degli Esteri tedesco il protrarsi “di questi inutili e crudeli eccidi”, chiedendo un intervento ufficiale presso la Sacra Porta Venuti al corrente della protesta, Enver Pascià e Taalat Pascià chiesero a Berlino la sostituzione di Wolff-Metternich che nel 1916 dovette infatti rientrare in Germania.

genocide_armenien.jpgVa comunque detto che non tutti i governatori turchi accettarono di eseguire per filo e per segno gli ordini di Costantinopoli. Nel luglio 1915, ad esempio, il vali di Ankara si oppose allo sterminio indiscriminato di giovani e vecchi, venendo rimosso e sostituito da un funzionario più zelante, tale Gevdet, che nell’estate del ‘15 a Siirt fece massacrare oltre 10.000 tra armeni ortodossi, cristiani nestoriani, giacobini e greci del Ponto. Resoconti sui molteplici eccidi sono registrati anche nelle memorie di altri addetti diplomatici francesi, bulgari, svedesi e italiani (come il console di Trebisonda, Giovanni Gorrini) presenti all’epoca in Turchia. Nonostante tutto, il governo turco non si reputava ancora soddisfatto di come stava procedendo la risoluzione del “problema armeno”. “In base alle relazioni da noi raccolte – annotò il 10 e il 20 gennaio del 1916, il notabile Abdullahad Nouri Bey – mi risulta che soltanto il 10 per cento degli armeni soggetti a deportazione generale abbia raggiunto i luoghi ad essi destinati; il resto è morto di cause naturali, come fame e malattie. Vi informiamo che stiamo lavorando per avere lo stesso risultato riguardo quelli ancora vivi, indicando e utilizzando misure ancora più severe (…) Il numero settimanale dei morti non è ancora da considerarsi soddisfacente”. Nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal diedero quindi un ulteriore giro di vite, intimando ai loro governatori e ai capi di polizia di “eliminare con le armi, ma se possibile con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici”. In questa fase del massacro ebbe modo di distinguersi per efficienza il governatore del già citato distretto di Deir al-Azor, Zeki Bey, che – secondo quanto riportano James Bryce e Arnold Toynbee in The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire, 1915–1916 – “rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete”. Durante l’estate del 1916, gli uomini di Zeki eliminarono complessivamente oltre 20.000 armeni. A dimostrazione della criminale sfacciataggine dei leader turchi, basti pensare che Taalat Pascià arrivò a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche il coraggio di chiedere “l’elenco delle polizze assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al governo di incassare gli utili delle polizze”. Altrettanto crudele ed anche beffardo risultò il destino delle comunità armene dell’Anatolia orientale che, grazie anche all’intervento dell’armata zarista, erano riuscite a trovare momentaneo rifugio nelle valli del Caucaso. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo si era infatti ritirato dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane iniziarono una vera e propria caccia all’uomo, eliminando circa 19.000 cristiani. Identica sorte toccò a quei profughi armeni che, rifugiatisi in Azerbaigian, furono massacrati dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene che, nel 1918, nella sola area di Baku, ne eliminarono 30.000.

Ma la guerra stava ormai volgendo al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili delle stragi iniziarono a dileguarsi. Quando, nell’ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali dirigenti del partito dei Giovani Turchi vennero arrestati dai britannici ed internati a Malta per un breve periodo. A carico dei fautori e degli esecutori dei massacri fu intentato un processo svoltosi nel 1919 a Costantinopoli sotto la supervisione del nuovo primo ministro Damad Ferid Pascià che alla Conferenza di pace di Parigi, il 17 luglio 1919 aveva ammesso i crimini perpetrati ai danni degli armeni. Lo scopo del processo di Costantinopoli non era in realtà quello di rendere giustizia al popolo armeno e di chiarire le colpe pregresse dell’amministrazione ottomana (cioè quelle di prima della Grande Guerra), bensì quello di scaricare tutte le colpe sui leader dei Giovani Turchi, sicuramente responsabili, ma che avevano potuto portare a compimento il loro piano di sterminio, grazie alla connivenza di larghi strati della  burocrazia civile e militare. Il processo si risolse quindi in una farsa, senza considerare che nei confronti dei molti imputati condannati in contumacia (nell’autunno del 1918 quasi tutti erano riusciti ad abbandonare al Turchia), non furono mai presentate richieste di estradizione. Non solo. In una fase successiva anche i verdetti della corte vennero in gran parte annullati ed archiviati. Nell’ottobre del 1919, a Yerevan, i vertici del partito armeno Dashnak, più che mai decisi a farsi giustizia, misero a punto un piano (l’Operazione Nemesis) per eliminare di circa 200 tra uomini politici, funzionari turchi e ‘collaborazionisti’ armeni ritenuti direttamente o indirettamente responsabili del genocidio. Il 15 marzo del 1921, a Berlino, l’ex ministro degli Interni Talaat Pascià, il principale artefice dell’olocausto armeno, venne ucciso da Solomon Tehlirian che, tuttavia, dopo essere stato arrestato e processato, nel mese di giugno dello stesso anno sarà graziato da un tribunale tedesco. Il 18 luglio 1921, fu la volta di Pipit Jivanshir Khan, coordinatore del massacro di Baku, assassinato a Constantinopoli, da Misak Torlakian. Il killer fu arrestato, ma rilasciato dalla polizia inglese. Il 5 dicembre, a Berlino, l’agente Arshavir Shiragian eliminò l’ex primo ministro turco Said Halim Pascià. Shiragian scampò all’arresto, rientrando poi a Constantinopoli. Il 17 aprile 1922, sempre a Berlino, Aram Yerganian, spalleggiato probabilmente da un altro sicario (il misterioso “agente T”) da lui ingaggiato, freddò Behaeddin Shakir Bey, coordinatore dello speciale Comitato ittihadista e Jemal Azmi, il ‘mostro’ di Trebisonda, responsabile della morte di 15.000 armeni, e già condannato, nel 1919, alla pena capitale da un tribunale militare turco che tuttavia non aveva ritenuto opportuno rendere esecutiva la sentenza. Il 25 luglio 1922, fu la volta dell’ex ministro della Difesa Jemal Pascià che a Tbilisi cadde sotto i colpi di Stepan Dzaghigian e Bedros D. Boghosian. Curiosa, ma decisamente consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, probabilmente il più ambizioso e idealista dei triumviri turchi, il “piccolo Napoleone” dell’impero e il più tenace propugnatore del movimento “internazionalista” turco. Rifugiatosi tra le tribù dell’Asia Centrale, dove pensava di realizzare il suo antico sogno panturanico, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver scatenò una rivolta mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 agosto 1922, nei pressi di Baldzhuan, località del Turkestan meridionale (oggi inclusa del territorio del Tagikistan) egli venne sconfitto e ucciso con pochi suoi seguaci da preponderanti forze bolsceviche.

Alberto Rosselli 

NOTE:

1) Il termine “genocidio” fu coniato negli anni Quaranta dal giurista americano di origine ebraico-polacca Raphael Lemkin proprio in riferimento alla repressione armena.
2) A proposito della collaborazione fornita dai curdi al governo centrale, va ricordata l’istituzione da parte del sultano dei reggimenti Hamidye, reparti paramilitari dipendenti dall’esercito e dalla gendarmeria turchi, che vennero largamente utilizzate per depredare o incendiare le comunità armene “ribelli”).

BIBLIOGRAFIA:

B. H. Liddell Hart, La Prima Guerra Mondiale 1914-18, Rizzoli Editore, Milano 1972.
D. Fromkin, Una pace senza pace, Rizzoli Libri, Milano 1992.
M. Gilbert, La grande storia della Prima Guerra Mondiale, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1998.
A.Emin (Yalman), Turkey in the World War, Newhaven, 1930.
H.Kaiser, Imperialism, Racism and Development Theories: The Construction of a Dominant Paradigm on Ottoman Armenians, Gomidas Institute Books, Princeton, 1998.
H.Kaiser, The Baghdad Railway and the Armenian Genocide, 1915-1916: A Case Study in German Resistance and Complicity, in Remembrance and Denial: the Case of the Armenian Genocide, Wayne State University Press, 1999.
R. Kevorkian, L’extermination des deportés arméniens ottomans dans les camps de concentration de Syrie-Mésopotamie (1915-1916), Revue d’Histoire Arménienne Contemporaine, Tome II, Paris, 1998.
Y. Ternon, Gli armeni. 1915-1916: il genocidio dimenticato, Rizzoli, Milano, 2003.
D. M. Thomas, Ararat, Frassinelli, Milano, 1984.
D.Varujan, Il canto del pane, Guerini, Milano, 1992.
D.Varujan, Mari di grano e altre poesie armene, Paoline, Milano, 1995, a cura di Antonia Arslan.
C. Mutafian, Metz Yeghérn Breve storia del genocidio degli armeni, Angelo Guerrini & Associati, Milano 1998.
A. Rosselli, Sulla Turchia e l’Europa, Solfanelli Editore, Chieti, 2006.
A. Rosselli, L’olocausto armeno, Sito web Nuovi Orizzonti, http://www.storico.org.
H. M. Sukru, “The Political Ideas of the Young Turks”, in idem, The Young Turks in Opposition, Oxford University Press, 1995

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vendredi, 08 avril 2011

Sezession 41 / April 2011

heft41 gross Aktuelle Druckausgabe: Sezession 41, April 2011 [1]

Sezession 41, April 2011

Abonnement der Sezession [2] 

 

Freies Heft

Editorial

Grundlagen

Philosophie schlägt Politik -
Über den mißachteten Spengler
Frank Lisson

Intellektueller Verrat
Karlheinz Weißmann

Betrachtungen über die Revolution
in Nordafrika
Manfred Kleine-Hartlage

Liberale Offenbarungseide
Peter Kuntze

Rechts ist noch Platz -
eine Literaturlücke
Thorsten Hinz

Kleiner Traktat über die Vielfalt
Martin Lichtmesz

Ist Kultur schädlich?
Thomas Bargatzky

Kurzbeiträge

Sarrazins Impuls und die
„Tabus bis zur Verlogenheit“
Gespräch mit Hans Mathias Kepplinger

Guttenberg, „Gorch Fock“ und
die Frau als Soldat
Erik Lehnert

Hansjoachim von Rohr -
ein konservativer Kämpfer
Karlheinz Weißmann

Dienste

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Verfassungsrechtliche Probleme im Zusammenhang mit dem Krieg gegen Libyen

Verfassungsrechtliche Probleme im Zusammenhang mit dem Krieg gegen Libyen

Ron Paul

In der vergangenen Woche zog die Regierung Obama die Vereinigten Staaten in einen Krieg gegen Libyen hinein, ohne sich damit aufzuhalten, den Kongress zuvor zu informieren und, was noch schwerer wiegt, ohne eine von der Verfassung gebotene Kriegserklärung [des Kongresses] abzuwarten. Inmitten unserer tiefen Wirtschaftskrise hat uns dieses Unglück bereits Hunderte Millionen Dollar gekostet, und wir können sicher sein, dass der endgültige Preis noch um ein Vielfaches höher ausfallen wird.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/geostrategie/ron-paul/verfassungsrechtliche-probleme-im-zusammenhang-mit-dem-krieg-gegen-libyen.html

 

 

Les deux visages de l'islamisme modéré

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Les deux visages de l'islamisme modéré

par Jean-Gilles Malliarakis

Ex: http://www.insolent.fr/

Un certain secteur de l'opinion française souhaite ouvertement débattre de ce qu'il appelle la laïcité. D'autres voudraient évacuer un problème qui les dérange, faisant semblant de croire intangible la loi votée en 1905 par l'union des gauches. Chacun pense essentiellement à la place de l'islam dans notre société, alors que la religion de Mahomet n'était pas implantée sur le sol de l'actuel hexagone lorsque fut décidée la séparation de l'Église et de l'État. Or, l'obscurité des concepts et le flou des exemples cités en référence maquillent complètement la perspective de solutions durables et raisonnables.

En particulier le seul cas invoqué d'une compatibilité entre une société musulmane et une législation séculière se situerait en Turquie.

Coïncidence chronologique, on veut considérer que les troubles actuels du monde arabe devraient aboutir à la victoire du même modèle : le régime turc.

Or, paradoxalement, les Français se préoccupent assez peu de la réalité de la situation en Turquie et reçoivent à son sujet de très chiches informations. À la fois le pouvoir actuel a basé sa propagande en 2007 sur la promesse que ce pays n'accéderait pas à l'Union européenne, et par ricochet les relations bilatérales franco-turques, autrefois considérables en ont été lourdement affectées. On remarquera cependant l'existence à Istanbul d'un "Observatoire [français] de la vie politique turque". Par ailleurs, divers groupes d'intérêts militent pour l'entrée de la Turquie en Europe tel "l'Institut du Bosphore". Eux seuls semblent autorisés à s'exprimer. Et on y retrouve les noms de tous les commentateurs agréés et de tous les informateurs professionnels, tel Alexandre Adler parmi tant d'autres. Les sources de l'information ne manquent donc pas, son laïcisme est authentifié par l'autorité "philosophique". Or on les entend très peu, concrètement à propos de ce qui est cité en exemple d'un islam modéré, démocratique, allié de l'occident, générateur de partenariats économiques, etc.

Or, de toute évidence, il est beaucoup trop tôt pour anticiper les conséquences auxquelles conduiront les révolutions arabes, dont rien ne démontre d'ailleurs qu'elles convergeront, ni qu'elles répondront aux espérances de ceux qui les soutiennent, notamment sur les terrains de la laïcité ou du droit des femmes.

En revanche on peut mesurer l'évolution et la profondeur du système prévalant en Asie mineure, dans l'ancienne république kémaliste, puisque les lois de sécularisation y remontent bien souvent à 1925.

Par exemple les funérailles d'Erbakan, à Istanbul, auraient dû permettre aux dirigeants occidentaux de comprendre de quelle nature se révéleront, à moyen terme, les habiles ministres de l'AKP, actuellement au pouvoir.

Ce 1er mars 2011, en effet, on a pu voir à Istanbul les deux principaux dirigeants turcs au centre d'une foule considérable. Le président de la République et le Premier ministre de ce pays, toujours réputé laïque et républicain aux dires de ses amis du grand orient de France, portaient le cercueil du vieux dirigeant islamiste Necmettin Erbakan. (1)

Disparu le 27 février ce personnage haut en couleur avait été le mentor de MM. Erbakan et Gül. Ceux-ci, cependant, passent vis-à-vis du monde extérieur pour s'en être détachés.

Sur quel point le vieux chef était-il considéré comme compromettant ? Erbakan affirmait que "le cerveau du monstre exploiteur qui opprime le monde est le sionisme. Son cœur est dans l'Europe des croisés, son bras droit est l'Amérique, son bras gauche est la Russie". (2)

Officiellement ce discours semblait, pourtant, mis au rancart de la politique turque et même on le présente pour entièrement périmé, et bien entendu, unanimement proscrit.

On doit remarquer pourtant, qu'un hommage vibrant lui a été rendu par l'ensemble des partis représentés à la Grande Assemblée Nationale d'Ankara, avant son transfert dans l'ancienne capitale des sultans. Même le parti autonomiste BDP avait tenu à souligner que "les vues du défunt sur la question kurde faisaient novation par rapport au poids du kémalisme". Une sorte de Prophète de la Réconciliation, en quelque sorte.

Le 28 février 1997, malgré tout, avait vu l'éviction de son gouvernement, sous le pression de l'armée. On appelle localement cet épisode le "coup d'État post-moderne".

À la suite de quoi son parti "Fazilet" (la Vertu), dissout en 2001, allait éclater en deux branches : les traditionalistes lui restèrent fidèles au sein d'un parti intitulé "Saadet", réduit à 2,5 % des voix aux élections de 2002. Les scissionnistes "modernistes" autour de Gül et Erdogan ont donc constitué en août 2001 l'actuel parti majoritaire l'AKP. Certes, les références à la religion sont absentes d'un programme se réclamant officiellement de la "Justice" et du "Développement". Mais discrètement le nouveau pouvoir travaille en profondeur à la réislamisation de la société, on soutient le renouveau des confréries, on réhabilite le passé ottoman, on cherche à éliminer l'influence des bastions laïcs et kémalistes etc.

Exemple caractéristique. Le 17 janvier on apprenait que la question de la consommation d'alcool était devenue un sujet de préoccupation de la Grande Assemblée nationale d'Ankara. Commentaire de lecteur publié par le journal de centre droit Hurriyet : "le gouvernement de l'AKP et le 'sultan' Erdogan vont protéger les Turcs contre eux-mêmes en instituant des lois contre l'alcool. Puis viendra le tabac. La Charia n'a pas de limites, elle ira jusqu'au bout, la burqa et le fez." (3) Heureusement le rapport parlementaire établi par les médecins turcs constate que leur pays souffre très peu d'alcoolisme, que la bière "Efez" coûte 35 % moins cher à Londres qu'en Anatolie, etc.

On soutiendra de la sorte que les élections qui vont se tenir le 12 juin expliquent la tentative de récupération de l'appoint de voix que représente l'héritage d'Erbakan. Ainsi doit-on comprendre l'hommage de MM. Abdullah Gül et Erdogan qui, comme réconciliés avec leur propre passé extrémiste, portaient de façon très politique le deuil de leur ancien chef. À leurs côtés, outre les filles du de cujus et des religieux le journal pro gouvernemental Zaman ne remarquait pourtant que le dirigeant des Loups Gris et ceux du régime fantoche mis en place par l'armée dans la zone occupée de Chypre.

Les démagogues d'Ankara veulent sans doute agréger les 2 ou 3 % d'islamistes les plus durs. Depuis l'incident de Davos de janvier 2009 ils savent fort bien que les États-Unis les considèrent avec méfiance. Les relations avec l'Iran d'Ahmadinedjan restent, ou plutôt sont devenues, excellentes. En décembre 2010 Erdogan acceptait de recevoir après Fidel Castro et Chavez le prix Kadhafi des doits de l'homme. Quant à l'Union européenne, le responsable officiel des négociations avec Bruxelles, le ministre d'État turc Egemen Bagis l'a dit clairement : "inutile de prendre au sérieux ses rapports" (4) et ses demandes droitsdelhommistes.

Pourquoi donc hésiter par conséquent : il n'existe plus de coupure entre extrémistes et modernistes. Le camp islamique turc a refait son unité.

Hier on considérait comme "modérés" les musulmans influencés ou financés par l'Arabie saoudite ou le Pakistan. De tels interlocuteurs ne passent plus guère, désormais, pour valables. On se demande combien de temps la référence de l'islamisme turc restera à la mode. Espérons simplement que cela ne durera pas le temps de l'admettre chat en poche au sein de l'Europe.

JG Malliarakis


Apostilles

  1. cf. "Today’s Zaman" 2 mars 2011 article "Thousands pay final respects to main victim of Feb. 28 coup"
  2. cité par Hurriyet daté du 27 février 2011.
  3. cf. Hûrriyet" le 17 janvier 2011 article "Low alcohol consumption reported by Parliament".
  4. cf. Anatolia News Agency le 3 février 2010.


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"La Question turque et l'Europe" par JG Malliarakis
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La "révolution libyenne" et les gigantesques réserves d'eau de la Libye

Hermann BREIT :

La « révolution libyenne » et les gigantesques réserves d’eau de la Libye

 

Ex : http://www.politaia.org/

 

great_manmade_river_libya.gifLa diabolisation de Kadhafi dans la presse putassière occidentale repose sur une sorte de mot d’ordre : « Il faut mélanger un peu de vérité avec un bon paquet de mensonges ». Les Russes ont à nouveau eu beau jeu d’accuser la presse occidentale de mensonge après que celle-ci ait annoncé que l’aviation du Colonel Kadhafi bombardait la population civile du pays. Il n’est toutefois pas bien difficile de conclure que la soi-disant « révolution libyenne », dans son ensemble, a été organisée et orchestrée par les bellicistes globaux, siégeant à Londres.

 

Le gel des milliards libyens à l’étranger, qui était soi-disant la « propriété personnelle » de Kadhafi, est en réalité un gel des avoirs de l’Etat libyen, dont les globalistes veulent s’emparer. Où aboutiront donc les 70 milliards réels ou imaginaires de Moubarak ? Et, dans un futur plus ou moins proches, les fortunes investies à l’étranger de l’Arabie Saoudite, du Bahreïn et du Koweït ? Ils n’aboutiront certainement pas dans l’escarcelle collective de la population. Plus lucratives encore s’avèreront les réserves pétrolières de ces pays qui finiront très bientôt par tomber sous le contrôle de la City de Londres.

 

Kadhafi est (ou était) certainement la figure politique la plus importante d’Afrique du Nord, car, qu’on l’admette ou non, il a conduit la Libye à la tête du continent africain. Il n’a pas gaspillé les dividendes pétroliers libyens dans la construction de palais rutilants (et souvent de très mauvais goût…), dans des yachts mouillant dans les ports de plaisance et de décadence d’Andalousie ou dans des parcs automobiles mais dans les infrastructures de son pays. Nous avons déjà eu l’occasion d’en parler en détail. Mais ce n’est pas tout !

 

« Kadhafi le fou » avait prévu en 1980 un gigantesque projet d’approvisionnement en eau de la Libye, de l’Egypte, du Soudan et du Tchad. Ce projet était sur le point de devenir réalité. On sait qu’il est dangereux de mener des projets d’infrastructure à bien sans quémander un seul cent à la Banque Mondiale ou au FMI, surtout s’il pourrait potentiellement transformer toute l’Afrique du Nord en un jardin luxuriant. Un tel projet contrecarre l’objectif de déstabilisation durable de la région que vise depuis toujours la City de Londres, afin de pouvoir bétonner la dictature mondiale des trusts. Le 1 septembre 2010, les premiers éléments de cet immense projet pouvaient enfin entrer en service, après trente ans de planification et de travaux. C’était exactement cinq mois avant le début des troubles, juste avant que le projet ne puisse générer ses premiers fruits, aux sens réel et figuré du terme.

 

Dans le sud de la Libye se trouvent quatre grands réservoirs d’eau : le Bassin de Khoufra, le Bassin de Sirt, le Bassin de Mourzouk et le Bassin d’Hamada). Dans ces quatre bassins dorment quelque 35.000 km3 d’eau. Pour se faire une image de l’ampleur de cet ensemble de réservoirs : prenez la surface totale de l’Allemagne et imaginez qu’elle forme un lac de 100 km de profondeur ! Ces réserves d’eau quasi inépuisables sont un atout bien plus considérable que le pétrole libyen, aux yeux des globalistes qui entendent monopoliser l’eau dans le monde entier. Dans le contexte libyen on aurait pu extraire du sol un mètre cube d’une eau extrêmement pure, non polluée, pour un coût sans concurrence de 35 cents.

 

En postulant que chacun de ces mètres cubes puisse être revendu au prix de 2,00 euro —et les globalistes trouveront certainement des modèles plus lucratifs de vente—  on peut chiffrer la valeur de ce réservoir d’eau potable à 58 billions d’euro (58.000.000.000.000,00 !).

 

Avec ce projet, la Libye aurait pu véritablement mettre en branle une « révolution verte », au sens premier du terme, et prendre en charge l’alimentation de toute l’Afrique. La Libye et l’Afrique du Nord auraient été soustraites aux griffes du FMI et auraient trouvé une véritable indépendance. Vous avez dit « autosuffisance » ? C’est là un mot qui irrite cruellement les oreilles des banksters et des cartels qui, rappelons-le, bloquent la réalisation du Canal Jonglei, partant du Nil Blanc au Sud-Soudan. C’est d’ailleurs l’une des raisons pour lesquelles la CIA a provoqué la guerre de sécession des provinces méridionales du pays. Les globalistes parient  de préférence sur les installations très onéreuses de désalinisation, lesquelles doivent évidemment toujours être financées par la Banque Mondiale et réalisés par les consortiums à sa solde.

 

En date du 20 mars 2009, on pouvait lire dans les colonnes des « Nouvelles du Maghreb » : « Lors du cinquième forum mondial de l’eau, tenu à Istanbul, des officiers libyens ont présenté pour la première fois un projet d’extraction d’eau, qui était évalué à 33 milliards de dollars. Le projet était décrit comme la huitième merveille du monde et prévoit la construction d’un fleuve artificiel, de façon à ce que la population du Nord de la Libye puisse être alimentée en eau potable. Les travaux de réalisation de ce projet ont été prévus depuis 1980 à l’initiative du chef libyen, Mouamar Kadhafi. Deux tiers du projet ont déjà été réalisés. Il s’agit d’un aqueduc de 4000 km de long qui acheminerait l’eau du désert, pompée hors du sol, à travers le Sahara libyen vers le Nord du pays. ‘Les études montrent que ce projet est plus économique que toutes les autres suggestions’, annonçait Fawzi al Sharief Saied, responsable de la gestion des nappes phréatiques. Les réserves d’eau permettrait de tenir jusqu’à 4860 ans si, comme prévu, seuls les pays riverains en profitaient, tels la Libye, l’Egypte, le Soudan et le Tchad ».

 

Personne en Europe n’a jamais entendu parlé de ce projet et personne, bien évidemment, ne lit ou ne cite les « Nouvelles du Maghreb ». Pourquoi ne nous a-t-on jamais éclairé en ce domaine en Occident ? Lors des festivités tenus pour l’inauguration, Kadhafi avait déclaré que ce projet constituait « la plus formidable réponse à l’Amérique, qui nous accuse de soutenir le terrorisme ». Moubarak aussi était un chaleureux partisan du projet…

 

Hermann BREIT.

 

Source :

http://poorrichards-blog.blogspot.com/2011/03/virtually-unknown-in-west-libyas-water.html/  

Tout s'accélère: la maladie de l'urgence

Tout s’accélère : la maladie de l’urgence

par Pierre LE VIGAN

2866996630_1.jpgTout s’accélère. Nous mangeons de plus en vite. Nous changeons de modes vestimentaires de plus en plus vite. L’obsolescence de nos objets quotidiens (téléphone mobile, I-Pad, ordinateur, etc.) est de plus en plus rapide. Nous envoyons de plus en plus de courriels, ou de S.M.S. Nous lisons de plus en plus d’informations en même temps (ce qui ne veut pas dire que nous les comprenons). Nous parlons de plus en plus vite : + 8 % de mots à la minute entre l’an 2000 et 2010. Nous travaillons peut-être un peu moins mais de plus en plus vite – conséquence logique de la R.T.T. Les détenteurs d’actions en changent de plus en plus souvent : la durée moyenne de possession d’une action sur le marché de New York est passée de huit ans en 1960 à moins d’un an en 2010. Nous imaginons et produisons des voitures de plus en plus vite. Nous zappons d’un film à l’autre de plus en plus vite : les films ne durent même pas une saison, parfois moins d’un mois. Ils passent sur support D.V.D. de plus en plus rapidement après leur sortie en salle, parfois presque en même temps. Les films anciens (qui n’ont parfois que trois ans) que l’on peut encore voir en salles diminuent à grande vitesse : l’oubli définitif va de plus en plus vite. C’est ce que Gilles Finchelstein a bien analysé sous le nom de La dictature de l’urgence (Fayard, 2011). L’urgence va avec la profusion, la juxtaposition des divers plans du vécu et la dissipation. Dans le même temps que la durée de vie des films est de plus en brève, pour laisser la place à d’autres, le nombre de plans par films s’accélère – et est quasiment proportionnel à la médiocrité des films. Conséquence : les plans longs sont de moins en moins nombreux. Et… de plus en plus court ! Trois secondes cela commence à être beaucoup trop long. Il se passe de plus en plus de choses à la fois dans les feuilletons : comparons Plus Belle La Vie (P.B.L.V. pour faire vite) à Le 16 à Kerbriant (1972). Paul Valéry écrivait : « L’homme s’enivre de dissipation : abus de vitesse, abus de lumière, abus de toxiques, de stupéfiants, d’excitants, abus de fréquences dans les impressions, abus de diversités, abus de résonances, abus de facilités, abus de merveilles. Toute vie actuelle est inséparable de ces abus (Variété, 1924). »

Il y a plus de cinquante ans, André Siegfried de son côté analysait « l’âge de la vitesse » dans Aspects du XXe siècle (Hachette, 1955). Il soulignait que la vitesse des bateaux avait été multipliée par cinq avec la vapeur remplaçant la voile. Que ne dirait-il quand aux progrès de la capacité de stockage et de calcul de nos ordinateurs ! Mais la vitesse peut être un vice : le « seul vice nouveau du XXe siècle » avait dit Paul Morand. « L’homme résistera-t-il en à l’accroissement formidable de puissance dont la science moderne l’a doté ou se détruira-t-il en le maniant ? Ou bien l’homme sera-t-il assez spirituel pour savoir se servir de sa force nouvelle ? », s’interrogeait encore Paul Morand (Apprendre à se reposer, 1937).

9782081228740.jpgElle nous fait bouger de plus en plus vite, ou surtout, elle nous fait croire que ce qui est bien c’est de bouger de plus et plus, et de plus en plus vite. En cherchant à aller de plus en plus vite, et à faire les choses de plus en rapidement, l’homme prend le risque de se perdre de vue lui-même. Goethe écrivait : « L’homme tel que nous le connaissons et dans la mesure où il utilise normalement le pouvoir de ses sens est l’instrument physique le plus précis qu’il y ait au monde. Le plus grand péril de la physique moderne est précisément d’avoir séparé l’homme de ses expériences en poursuivant la nature dans un domaine où celle-ci n’est plus perceptible que par nos instruments artificiels. »

Notre société malade de l’urgence

Nos enfants sont les enfants de l’urgence. Et tout simplement parce que nous-mêmes sommes fils et filles de l’urgence. Et ce sentiment d’urgence va avec la vitesse. Si c’est grave, et il n’y a pas d’urgence sans gravité, alors, il faut réagir tout de suite. De nos jours, explique la sociologue et psychologue Nicole Aubert, l’homme doit réagir aux événements « en temps réel ». Au moment même. Plus encore, même quand il « ne se passe rien », il est sommé d’être « branché », connecté avec le monde, au cas où il se passerait quelque chose. Une urgence par exemple. L’homme est mis en demeure de provoquer des micro-événements sans quoi il ne se sent pas vivre. Il s’ennuie. De ce fait, ce ne sont pas seulement les machines, c’est l’homme lui-même qui vit « à flux tendu ». La durée, qui suppose l’endurance, a été remplacée par la vitesse, qui répond à une supposée urgence. Mais cette vitesse n’a pas une valeur optimum, c’est l’accélération qui est requise. La bonne vitesse c’est la vitesse supérieure à celle d’hier. De même qu’un ordinateur performant ce n’est pas un ordinateur qui suffit à mes besoins c’est un ordinateur plus performant que les autres et en tout cas plus performant que ceux du trimestre dernier. Il y a dans ce culte de l’urgence et de la vitesse – ce n’est pas la même chose mais cela va ensemble – une certaine ivresse.

« L’expérience majeure de la modernité est celle de l’accélération » écrit Hartmut Rosa (Accélération. Une critique sociale du temps, La Découverte, 2010). Nous le savons et l’éprouvons chaque jour : dans la société moderne, « tout devient toujours plus rapide ». Or le temps a longtemps été négligé dans les analyses des sciences sociales sur la modernité au profit des processus de rationalisation ou d’individualisation. C’est pourtant le temps et son accélération qui, aux yeux de Hartmut Rosa, permet de comprendre la dynamique de la modernité. Pour ce faire, nous avons besoin d’une théorie de l’accélération sociale, susceptible de penser ensemble l’accélération technique (celle des transports, de la communication, etc.), tout comme l’accélération du changement social (des styles de vie, des structures familiales, des affiliations politiques et religieuses) et l’accélération du rythme de vie, qui se manifeste par une expérience de stress et de manque de temps. La modernité tardive, à partir des années 1970, connaît une formidable poussée d’accélération dans ces trois dimensions. Au point qu’elle en vient à menacer le projet même de la modernité : dissolution des attentes et des identités, sentiment d’impuissance, « détemporalisation » de l’histoire et de la vie, etc. L’instantanéisme tue la notion même de projet, fut-il moderne. « En utilisant l’instantanéité induite par les nouvelles technologies, la logique du Marché, avec ses exigences, a donc imposé sa temporalité propre, conduisant à l’avènement d’une urgence généralisée. » note Nicole Aubert (Le culte de l’urgence, Flammarion, 2004; L’individu hypermoderne, Eres, 2004).

paulmorand-lhommepresse.jpgHartmut Rosa montre que la désynchronisation des évolutions socio-économiques et la dissolution de l’action politique font peser une grave menace sur la possibilité même du progrès social. Déjà Marx et Engels affirmaient ainsi que le capitalisme contient intrinsèquement une tendance à « dissiper tout ce qui est stable et stagne ». Dans Accélération, Hartmut Rosa prend toute la mesure de cette analyse pour construire une véritable « critique sociale du temps susceptible de penser ensemble les transformations du temps, les changements sociaux et le devenir de l’individu et de son rapport au monde ».

L’ivresse de la vitesse fait même que la figure tutélaire de notre société est la personnalité border line, une personnalité qui recherche toujours l’extrême intensité dans chaque instant. Mais la contrepartie de cette recherche est la fragilité : la désillusion, le dégrisement douloureux, l’atonie, la désinscription dans une durée qui ne fait plus sens parce qu’elle n’a jamais été la durée d’un projet et que l’intensité ne peut suppléer à tout. C’est pourquoi on peut analyser certaines maladies de l’âme comme des réponses plus ou moins conscientes à une pression du temps social vécue comme excessive (Nicole Aubert, Le culte de l’urgence. La société malade du temps, Flammarion, 2003).

La dépression, une stratégie de ralentissement du temps ?

Ainsi la dépression est-elle en un sens une stratégie de ralentissement du temps. L’homme dépressif succède à l’homme pressé – celui-ci dans tous les sens du terme, pressé de faire les choses et pressé comme un citron. Le dépressif se donne du temps – et c’est sans doute cela aussi que Pierre Fédida désignait, paradoxalement, comme « les bienfaits de la dépression ». Bien évidemment cette solution n’est pas satisfaisante si elle perdure, car le dépressif mélancolique souffre d’un temps sans histoire personnelle possible, par sentiment de perte irrémédiable et de destruction de son estime de soi. La cassure de l’« élan personnel » du mélancolique lui interdit de produire sa temporalité propre. La dépression ou la griserie passagère, toujours à réactiver, du psychopathe border line, tels sont ainsi les deux effets du culte de l’urgence.

L’ensemble de notre société et de ses dirigeants est pris dans cette obsession d’une temporalité « en temps réel », c’est-à-dire d’un temps de l’action sans délai de transmission. Action sans médiation. C’est une fausse temporalité. C’est un instantanéisme ou encore un présentisme. Les plans d’urgence fleurissent, élaborées eux-mêmes dans l’urgence. Les lois d’urgence aussi : sur les Roms, sur les étrangers délinquants, sur le logement, sur des sujets aussi techniques que la suppression du tiers payant quand on refuse un médicament générique (Rousseau, reviens, ils ont oublié la grandeur de la Loi), etc. De là un « mouvementisme » (Pierre-André Taguieff), puisqu’il s’agit de toujours « coller » à un présent par définition changeant. Aussi, au culte de l’urgence doit succéder un réinvestissement du temps dans son épaisseur. Il est temps de réencastrer l’instant dans le temps du projet et de la maturation. « Il est temps qu’il soit temps » dit Paul Celan (Corona). Par principe, le temps est « ce qui nous manque ». C’est la condition humaine. « L’art a besoin de ce temps que je n’ai pas » dit Paul Valéry.

Résister à l’urgence

L’urgence ? Réagir dans l’urgence, c’est souvent la catastrophe. Au nom de l’urgence, c’est le titre d’un film d’Alain Dufau (1993) sur la construction, très vite et trop vite, des grands ensembles H.L.M. dans les années 50 à 70 (cf. les sites Voir et agir et Politis, Au nom de l’urgence). Au nom de l’urgence, ce pourrait aussi être le nom d’un reportage sur la folie de l’immigration décidée par le grand patronat et les gouvernements qui lui étaient et lui sont inféodés à partir de 1975. (cf. Hervé Juvin, « Immigration de peuplement » sur le site Realpolitik.tv). Immigration décidée pour fournir, très vite, de la main d’œuvre pas cher au patronat des trusts et pour tirer tous les salaires, y compris bien sûr ceux des Français, vers le bas.  Au nom de l’urgence, c’est la réaction de Sarkozy et de presque toute la classe politico-médiatique face à la répression rugbyllistique des agitations et rebellions (armées) en Libye par Mouammar Kadhafi. Réaction inconsidérée et épidermique. En urgence et à grande vitesse, c’est même ainsi que l’on décide de la construction ou non de lignes de train à grande vitesse, dites T.G.V.

Un nouveau dictionnaire des idées reçues de Flaubert dirait donc peut-être : « Urgence. Répondre à ». Répondre en urgence à la question du mal-logement par exemple. Avec… des logements d’urgence. Erreur. La bonne réponse est : « Résister à ». Il faut (il faudrait !) résister à l’urgence. Mais ce n’est pas si simple. La preuve : en tapant sur un célèbre moteur de recherche « résister » et « urgence », vous n’obtenez guère de réponses sur le thème « Il faut résister à l’urgence, au Diktat de l’urgence, et voici comment » mais beaucoup de réponses du type « Il est urgent de résister » ! Ce qui n’est pas du tout la même chose et est même le contraire. 0r s’il est parfois nécessaire de résister (à bien des choses d’ailleurs), il est plus nécessaire encore de comprendre à quoi l’on devrait résister, pourquoi on en est arrivé là, et comment résister de manière efficace – ce qui nécessite en général de prendre un peu de temps. Le contraire de réagir dans l’urgence.

Les techniques proliférantes nous imposent l’immédiateté. Difficile de répondre à Nicolas Gauthier que son courrier nous demandant pour jeudi au plus tard un papier sur l’urgence est arrivé trop tard, pour cause d’un accident de cheval au relais de poste. Dans le même temps, nous vivons de plus en plus vieux mais sommes de plus en plus angoissés par l’avenir, par le temps, et surtout par… la peur du manque de temps. Jacques André, professeur à l’Université Paris-Diderot, a appelé cela Les désordres du temps (P.U.F., 2010). L’immédiateté en est un des aspects, la frénésie de « ne pas perdre son temps » en est un autre aspect : elle amène à aller vite, à faire plein de choses en peu de temps, voire… en même temps, à rencontrer plein de nanas parce que le temps est compté, à être tout le temps « surbooké » sans guère produire de choses définitives ni même durables. Nicole Aubert écrit : « Pour les drogués de l’urgence, atteindre le but fixé, s’arrêter, c’est l’équivalent de la mort. On le voit très bien dans les séries télévisées qui ont actuellement le plus de succès : Urgences, 24 heures chrono… Elles mettent en évidence que si l’on cesse de foncer ne serait-ce qu’une seconde, quelqu’un va mourir. » Exemple : que restera-t-il de Sarkozy ? Le symbole d’un homme pressé, inefficace, et un peu dérisoire. Trois fois moins que Spinoza ou Alain de Benoist, qui n’ont pas fait de politique mais qui ont pris le temps d’une œuvre et d’une pensée.

Chercher la performance donc la vitesse est gage d’efficacité dans notre monde. Ce n’est pas strictement moderne. Napoléon, le dernier des Anciens, était comme cela. Mais le monde moderne tend à ériger cela – qui était l’exception – en modèle. Le rapport faussé au temps est une des formes du malaise de l’homme moderne. « Aujourd’hui, nous n’avons plus le temps d’incuber les événements et de les élever au statut d’événements psychiques  » note le psychanalyste Richard Gori. Nous nous laissons ballottés par le présent sans nous donner le temps de le digérer. Nous ne maîtrisons plus rien car toute notre énergie est dans la réaction à ce qui nous arrive. Le psychanalyste Winnicott note : « Pour pouvoir être et avoir le sentiment que l’on est, il faut que le faire-par-impulsion l’emporte sur le faire-par-réaction. » Il faudrait pour cela échapper à la pression, c’est-à-dire à l’urgence. Laurent Schmitt, professeur de psychiatrie, s’interroge, dans Du temps pour soi (Odile Jacob, 2010) sur notre faculté à suroccuper notre temps, fusse par des futilités. « Cette facilité à combler le moindre temps mort conduit tout droit à l’ennui et au mal-être. Voici un nouvel enjeu essentiel à notre qualité de vie. Le combat ne se limite plus à gagner du temps libre mais à reconnaître “ notre ”  temps, derrière les multiples occupations, celui en accord avec notre intimité et nos vraies aspirations. » En fait, ce que l’économiste américain Joseph Stiglitz appelle Le triomphe de la cupidité concerne aussi notre rapport au temps. Peter Sloterdijk remarque : « Notre nouveau rapport au temps peut s’appréhender comme “ existentialisme de la synchronisation ” et implique « l’égalité de tous devant le présent homogène de la terre. »

Ne pas vouloir « perdre son temps », ne pas discuter avec un inconnu, ne pas consacrer du temps à un gamin revêche, etc., à un certain degré, cela relève de l’égoïsme. De la volonté forcenée de ne pas « gaspiller son temps ». Se libérer de l’urgence, c’est aussi se libérer de cela.

Le culte de l’urgence est lié à celui de la transparence. Il s‘agit de réagir vite à une situation que l’on suppose claire, transparente, sans équivoque. Les deux maux se tiennent. Ils concourent tous deux à ce que Pierre Rosanvallon appelle « la myopie démocratique ». La logique du monde moderne, c’est de saturer à la fois l’espace et le temps. « Le progrès et la catastrophe sont l‘avers et le revers d’une même médaille. C’est un phénomène qui est masqué par la propagande du progrès », note Paul Virilio. La propagande du progrès est en d’autres termes le court-termisme, l’absence d’horizon. Face à cela, la fonction présidentielle, à laquelle nous pouvons penser hors de l’urgence – il reste plus de douze mois – devrait répondre aux besoins de long terme, de permanence des choix et des identités, à la sécurité de notre être personnel et collectif, on appelle cela la nation, ou plus simplement encore : le peuple, notre peuple. L’exercice de cette fonction devrait répondre aux besoins de durabilité de la France, notre pays, et de l’Europe, notre destin. Le moment viendra où il faudra s’en souvenir.

Pierre Le Vigan

• D’abord paru dans Flash, n° 62, 24 mars 2011, (quelques modifications et ajouts ont été introduits pour le présent texte).


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Bulletin célinien n°329 - avril 2011

Vient de paraître : Le Bulletin célinien, n° 329. Au sommaire:

Marc Laudelout : Bloc-notes
M. L. : Céline sur papier glacé
M. L. : Jean-Pierre Dauphin, pionnier de la recherche célinienne
M. L. : Les pamphlets toujours interdits ?
Jean-Paul Angelelli : Hommage à Jean José Marchand
M. L. : Céline sur tous les fronts (III)
*** : 200 témoignages sur Céline
Éric Mazet : Le témoignage de Tinou Le Vigan
A. C. : Le passé rouge de Montandon
M. L. : Céline dans « Actualité juive »
Agnès Hafez-Ergaut : Hommes, chevaux et guerre dans Casse-pipe (I)
Henri Godard nous écrit.



Un numéro de 24 pages, 6 € franco par chèque à l’ordre de M. Laudelout.

Le Bulletin célinien
B. P. 70
Gare centrale
B 1000 Bruxelles
Belgique

Le Bloc-notes de Marc Laudelout
 

Les céliniens néophytes confondent parfois bibliographie de et sur Céline. C’est-à-dire bibliographies primaire et secondaire. Le pavé que Jean-Pierre Dauphin et Pascal Fouché publièrent en 1985 ressortit de la première catégorie : il référençait tous les écrits (publiés ou attestés) de Céline (1). Ce travail était le fruit d’une thèse, « Chronologie bibliographique et critique de Louis-Ferdinand Céline » (1973), qui réunissait pour la première fois de manière systématique textes épars, petits écrits et marginalia de l’écrivain. Le livre fut rapidement épuisé. Depuis 2007, il est consultable sur le site internet www.biblioceline.fr. Huit ans auparavant, J.-P. Dauphin avait publié le premier tome (1914-1944) d’une bibliographie des articles en langue française consacrées à Céline (2). Le second (1945-1961) n’est jamais paru. Aujourd’hui paraît un fort volume regroupant ces deux volets dans une édition revue et augmentée. Ce nouvel ouvrage de référence procuré par les éditions du Lérot marque aussi le retour de Jean-Pierre Dauphin sur la scène célinienne (3).
Cette bibliographie constitue l’aboutissement d’années de dépouillement de la presse périodique entamé dès 1964 par ce pionnier de la recherche célinienne. Les livres consacrés en tout ou partie à Céline étant très peu nombreux de son vivant (4), cet ouvrage recense essentiellement les articles de presse, consistants ou superficiels, parus dans la presse francophone. Travail titanesque, on s’en doute. D’autant que ne se bornant pas à donner les références des articles, l’auteur en résume la teneur en une ou deux phrases, parfois davantage. Cette bibliographie, présentée de manière chronologique, permet de mesurer l’évolution de la réception critique de l’œuvre, avec ces hauts (Voyage au bout de la nuit) et ces bas (Féerie pour une autre fois). Évoquant ailleurs cette matière, l’auteur relevait que ces années de critique célinienne « offrent un tableau très sûr des limites, des aberrations et de la misère d’une époque (5) ». D’autant que rares furent les aristarques à la hauteur de cette œuvre en constante évolution. L’accueil critique des trois chefs-d’œuvre que sont Mort à crédit, Guignol’s band et Féerie en atteste à l’envi. Surnagent malgré tout, dans la période considérée, quelques noms qui, à des titres divers, ont su rendre compte de l’esthétique célinienne : Léon Daudet, Claude Jamet, Morvan Lebesque, Roger Nimier, Jean-Louis Bory, Pol Vandromme, pour ne citer que ceux-là. Il faudra attendre la fin du XXe siècle pour que l’œuvre soit enfin perçue dans sa globalité et sa radicalité. Quant aux pamphlets, ils ont souvent donné une image réductrice de l’écrivain : le fait que durant sept ans Céline n’ait pas signé de roman n’a pas peu contribué à brouiller son image. Encore faut-il observer qu’il ne cesse d’être pamphlétaire dans ses œuvres de fiction d’après-guerre.

Marc LAUDELOUT


1. Ouvrage salué avec éclat dans le BC : M. L., « Un monument célinien ! », n° 38, octobre 1985. Voir aussi l’article de Christine Ferrand, « Voyage au bout des écrits de Céline », paru le 30 septembre 1985 dans Livres Hebdo et repris dans le BC, n° 39, novembre 1985.
2. Jean-Pierre Dauphin, L.-F. Céline 1. Essai de bibliographie des études en langue française consacrées à Louis-Ferdinand Céline, vol. 1 : 1914-1944, Lettres modernes-Minard, Paris 1977.
3. Jean-Pierre Dauphin, Bibliographie des articles de presse & des études en langue française consacrés à L.-F. Céline, 1914-1961, Du Lérot, 2011, 470 p.
4. Dont les livres de Robert Denoël, Apologie de Mort à crédit (1936), H.-E. Kaminski, Céline en chemise brune ou le mal du présent (1938), Maurice Vanino, L’affaire Céline. L’école d’un cadavre (1950), Milton Hindus, L.-F. Céline tel que je l’ai vu (1951) et Robert Poulet, Entretiens familiers avec Louis-Ferdinand Céline (1958).
5. Jean-Pierre Dauphin, « De méprises en confusions », introduction de Les critiques de notre temps et Céline, Garnier, 1976.

Per il popolo, con il popolo - Il messagio di Evita e l'Argentina peronista

“Da che io lo ricordi, ogni ingiustizia mi fa dolere l’anima come se mi conficcassero dentro qualcosa. Di ogni età conservo il ricordo di qualche ingiustizia che mi fece indignare, dilaniando il mio intimo”.

Sua sorella Erminda sottolineò queste emozioni del cuore di Eva e disse: “Tu, Eva, vedevi il cielo proprio perché non smettevi di guardare negli occhi dei poveri … Il fatto è che gli avvenimenti dell’infanzia sono come radici, che non si vedono ma che continuano ad alimentarci …”. Eva stessa scriverà, ancora, nella Razòn de mi vida: “la ricchezza della nostra terra non è che una vecchia menzogna per i suoi figli. Durante un secolo nelle campagne e nelle città argentine sono state seminate la miseria e la povertà. Il grano argentino non serviva che ad appagare i desideri di pochi privilegiati … ma i peones che seminavano e raccoglievano questo grano non avevano pane per i loro figli”. Eva, a scuola, era la prima in recitazione e, nel 1933, a quattordici anni, ebbe l’ispirazione definitiva, recitando per la prima volta in pubblico, in un lavoro, preparato dalla scuola, intitolato Viva gli studenti. Un giorno offrirono a Eva la possibilità di fare un saggio a Radio Belgrano, a Buenos Aires, e, sebbene non precisato nelle date, il racconto dell’impressione che le produsse la metropoli, la Reina del Plata, si trova riflesso nel suo libro La Razòn de mi vida: “Un giorno visitai la città per la prima volta. Arrivando scoprii che non era come io l’avevo immaginata. Improvvisamente vidi i suoi quartieri miseri e capii dalle strade e dalle case che anche in città vi erano poveri e ricchi. Quella constatazione doveva colpirmi nel profondo, perché ogni volta che rientro in città da uno dei miei viaggi all’interno del Paese, mi ritorna quel primo impatto con la sua grandezza e la sua miseria: e provo la stessa sensazione di profonda tristezza che provai allora”. All’età di 15 anni (ritornata, nel frattempo, a Junin, la città in cui Juana Ibarguren e i suoi figli erano andati ad abitare fin dal 1931),  il 2 gennaio 1935, dopo essere rimasta in attesa della chiamata da Radio Belgrano che non arrivò, Eva, che non era persona da aspettare a lungo, lasciò la madre, le sorelle e prende il treno per Buenos Aires, dicendo alla sua maestra, Palmira Repetti: “Vado lo stesso a Buenos Aires. In un modo o nell’altro mi sistemerò”. Dopo quattro mesi dal suo arrivo, Eva ottenne la parte di una delle sorelle di Napoleone, in Madame Sans-Gene, di Moreau e Sardou. Nel 1937, Eva ottenne una parte in un film, Seguendos afuera, una sua foto fu pubblicata sulla rivista “Sintonia” e ebbe un ruolo  in No hay su egra como la mìa. (Mia suocera è unica), trasmessa anche da Radio Splendid. Si trattava, tuttavia, ancora di briciole di teatro, di frammenti di personaggi che non consentirono a Eva di uscire dall’anonimato, di affrancarsi dallo stato di bisogno, né dalla sensazione di insicurezza e di incertezza del futuro. Il 4 giugno 1943, un colpo di stato, fomentato dal generale Arturo Rawson, destituì il presidente Ramòn J. Castillo e lo sostituì con il generale Pedro Pablo Ramirez. Questa rivoluzione si opponeva alla candidatura, patrocinata dal presidente Castillo, di Robustiano Patron Costas, che significava la continuità del potere oligarchico e del feudalesimo dei proprietari terrieri. Il colonnello Juan Domingo Peròn ( che era uno dei giovani ufficiali del Gou, ovvero Grupo Obra de Unificacìon, una di quelle conventicole militari, la cui politica era fondata principalmente sull’obiettivo di liberare l’Argentina dalla dipendenza economica inglese) assunse la direzione, con l’incarico di trasformarla in una Segreteria, del Lavoro e della Previdenza sociale. Le idee politiche di Peròn non volevano limitarsi a conseguire l’indipendenza economica dall’Inghilterra. Peròn voleva trasformare l’Argentina in una nazione “economicamente libera, socialmente giusta e politicamente sovrana”. Riunì al suo fianco, alla Segreteria, uomini come Cipriano Reyes, un sindacalista, capo della C.G.T. (Confederacion General de Trabajo); José Figuerola, che gli avrebbe redatto tutto quanto si riferiva alla riforma sociale e ai piani quinquennali; Miguel Miranda, abile economista, che Jaruteche definì “grande argentino” per il magnifico programma di riforme economiche; Atilio Bramuglia, ministro degli Affari Esteri durante la prima presidenza Peròn, il colonnello Mercante, uno dei suoi collaboratori più fedeli che nei primi anni di governo poté essere considerato il delfino di Peròn, Cereijo, presidente della Banca Centrale, che diventò ministro delle Finanze, Borlenghi, ministro degli Interni; e infine il dottor Carrillo, ministro della Sanità, gabinetto che prima non esisteva e dal quale vennero promosse importanti campagne che sfociarono in un sensibile miglioramento dell’igiene e della salute degli argentini. Durante questi primi mesi d’attività alla Segreteria, Peròn adotta così una serie di misure che faranno fare all’Argentina spettacolari balzi in avanti nel settore della sicurezza sociale. Venne stabilito il principio del salario minimo, venne data la pensione dello stato a circa due milioni di lavoratori, si crearono i tribunali del Lavoro che garantivano parità di diritti tra datori di lavoro e lavoratori nei conflitti sociali, vennero istituite le commissioni paritetiche, con lo Stato cioè in qualità di mediatore. Inoltre fu emanata un’apposita legislazione per gli incidenti sul lavoro,  le malattie professionali,  la tredicesima mensilità, le ferie retribuite (già da allora di quattro settimane) e la durata della settimana lavorativa. A completamento del “pacchetto” venne poi formalmente riconosciuto lo stato giuridico dei sindacati, la cui costituzione era fortemente incoraggiata, i cui mezzi e le cui strutture furono notevolmente ampliati, consolidando definitivamente la natura riformista del sindacalismo argentino, dopo le precedenti tendenze anarchiche e nichiliste. Il 15 gennaio del 1944, la città di San Juan venne quasi totalmente distrutta da un terremoto. Città già povera, subì danni per un valore di 300 milioni di pesos e fu necessario evacuare i 50.000 abitanti sopravvissuti. Peròn, attraverso la sua Segreteria, organizzò tutti i soccorsi, l’evacuazione della popolazione e la riparazione dei danni. Peròn convocò una riunione di artisti del cinema, del teatro e della radio nella sede del Consejio Deliberante, allo scopo di organizzare uno spettacolo, la celebre festa del Luna Park, per raccogliere fondi destinati ai terremotati. Eva partecipò al grande avvenimento del Luna Park, nel quale vennero raccolti 21 mila pesos e Peròn dirà che “Il mondo si evolve verso i valori spirituali che trovano un baluardo negli artisti ai quali il popolo argentino deve il suo costante progresso”. Eva incontrò Peròn a questa festa, dove i biografi dicono che abbia avuto inizio la loro storia d’amore. Peròn la ricordò così: “Aveva la pelle bianca ma, quando parlava, il volto le si infiammava. Le mani diventavano rosse a forza d’intrecciarsi le dita. Quella donna aveva del nerbo”. Peròn schierandosi dalla parte dei lavoratori, fece avanzare quell’incendio, intraprese quel “cammino nuovo”, quel “percorso difficile”, quella “rivoluzione” di cui parlava Evita. Quella Rivoluzione Nazionale, i cui punti fondamentali erano: nazionalizzazione dei servizi pubblici, previdenza sociale, sovranità popolare, riforma agraria e organizzazione del lavoro. Sfidando così gli “uomini comuni” dell’oligarchia, gli “eterni nemici di tutto ciò che è nuovo, di ogni progresso, di ogni idea straordinaria”. Già il 16 giugno 1945 gli industriali avevano inviato un esposto al governo con il quale esigevano la rettifica della sua politica sociale. Naturalmente i sindacati reagirono in difesa della Segreteria. Nello scontro, le due forze si misurarono sullo steso terreno: la piazza. Cominciarono gli industriali con la Marcia della Costituzione e della Libertà che ebbe luogo il 17 settembre 1945. il governo dichiarò lo stato d’assedio e, per reazione, gli studenti occuparono numerose facoltà. Peròn affermò che era “naturale” che contro  le riforme si fossero “sollevate “le forze vive” che altri chiamano “i pesi morti”. Ma chi erano queste “forze vive”? “La Borsa: cinquecento persone che vivono trafficando su quanto producono gli altri; o l’Unione degli Industriali: dodici signori che, come ben si sa, vivono imponendo la loro dittatura al Paese”.  L’8 ottobre, un gruppo di allievi della Scuola Superiore di Guerra chiese al generale di brigata Eduardo Jorge Avalos, comandante della guarnigione di Campo de Mayo, di togliere a Peròn qualsiasi incarico. La richiesta arrivò al presidente Farrell, il quale si rese conto che, non accogliendola, avrebbe provocato inevitabilmente un sollevamento militare. Gli Stati Uniti, tramite l’ambasciatore Spruille Braden, diedero il loro appoggio a questa coalizione di industriali, studenti e militari. Ai loro occhi Però rappresentava un militare troppo rivoluzionario che esasperava l’atteggiamento dell’oligarchia. Peròn presentò, dunque, le proprie dimissioni scrivendo poche parole al presidente Farrell per comunicargli che si dimetteva “dalle cariche conferitegli di Vice – Presidente, di Ministro della Guerra e di Segretario di Stato al Lavoro e alla Previdenza sociale”. Il 10 ottobre Peròn rivolse un saluto d’addio ai 50.000 operai che lo acclamavano dinanzi alla sede della Segreteria: “Se la rivoluzione si fosse limitata a permettere comizi liberi avrebbe favorito esclusivamente un partito politico. Questo non poté, non può e non potrà essere mai il fine esclusivo della rivoluzione. E’ quanto avrebbero voluto alcuni politici per poter tornare; ma la rivoluzione incarna le riforme fondamentali che si è proposta di realizzare a livello economico, politico e sociale. Questa trilogia rappresenta la conquista della rivoluzione, che è ancora in marcia, e quali che siano gli avvenimenti, essa non potrà mai essere svilita nel suo significato più profondo. L’opera compiuta sinora è di una consistenza tale  che non cederà di fronte a nulla, e viene riconosciuta non da quanti la denigrano, ma dagli operai che la sentono. Quest’opera sociale che soltanto i lavoratori apprezzano nel suo vero valore, dev’essere difesa da essi in tutti i campi. Ho approvato anche in decreto di straordinaria  importanza per i lavoratori, riguardante gli aumenti salariali, l’instaurazione del salario mobile, cosa vitale e basilare, e la partecipazione ai profitti. Chiedo a tutti voli che portate nel cuore la bandiera delle rivendicazioni, di pensare ogni giorno della vostra vita che dobbiamo continuare a lottare ininterrottamente per quelle conquiste che sono gli obiettivi che porteranno la nostra repubblica alla testa delle nazioni del mondo. Ricordate e tenete ben impresso questo motto: “da casa al lavoro e dal lavoro a casa”, perché con esso vinceremo. Concludendo, non vi dico addio. Vi dico invece hasta siempre perché da oggi in poi starò con voi, adesso più che mai. E, infine, accettate questa raccomandazione che vi fa la Segreteria del “Lavoro e Previdenza”: unitevi e difendetela perché è la vostra e la nostra opera”. Quando un gruppo di ufficiali della Marina arrestò il colonnello e lo condusse a bordo della cannoniera Independencia, Eva si rivolse alla piazza e questa fu la sua prima importante azione politica. Il momento era storico ed Eva si lanciò nella lotta (“Bussai di porta in porta. In quel doloroso e interminabile peregrinare, sentivo ardere nel mio cuore la fiamma di un incendio, che annullava la mia assoluta piccolezza”), percorse in macchina i quartieri popolari chiamando gli operai allo sciopero (“A mano a mano che scendevo dai quartieri orgogliosi e ricchi verso quelli poveri e umili le porte si aprivano generosamente, con più cordialità”),  partecipando ai  preparativi del movimento – guidato da capi sindacali come Cipriano Reyes, Luis Gay e Luis Monzalvo – e al presidente Farrell non rimase che far rientrare Peròn dal confino nell’isola di Martin Garcia.  Peròn apparve al balcone della Casa Rosada alle 11,10 di sera del 17 ottobre 1945 e nella moltitudine di operai, che aveva atteso per l’intera giornata scoppiò un’oceanica e interminabile ovazione, un solo grido si innalzò all’unisono dalle trecentomila bocche dei descamisados: “Peròn Presidente!”, “Peròn Presidente!”. Solo due mesi dopo Peròn ed Eva si sposarono con il matrimonio sia civile (il 22 ottobre 1945 a Junin) che religioso (il 10 dicembre a La Plata). Per Evita (così amava essere chiamata dal popolo) “descamisados” sarà la definizione – cito La Razòn de mi vida – che più si addice al peronista militante: “Sono descamisados tutti coloro che si trovavano nella Plaza de Mayo il 17 ottobre 1945; quelli che hanno attraversato a nuoto il Riachuelo provenienti da Avellaneda, dalla Boca e dalla provincia di Buenos Aires, quelli che in colonne allegre, ma disposti a tutto, anche alla morte, quel giorno indimenticabile sono sfilati per l’Avenida de Mayo”. “Ciò che spinse le masse verso Peròn – scrisse Jaruteche – non fu il risentimento, fu la speranza”. La situazione, nell’ottobre 1945, era perciò allarmante per l’oligarchia che costituiva un gruppo di enorme influenza economica, che dirigeva la vita politica del paese, erigendo barriere insuperabili a livello di comunicazione sociale. Venne costituito un fronte unico chiamato Uniòn Democratica (fronte vasto ed eterogeneo che comprendeva radicali, socialisti, comunisti, demo – progressisti e contava sull’appoggio dell’unione industriali), sotto la protezione dell’allora ambasciatore americano Spruille Braden, il quale era all’origine del Libro blu, pubblicato dal Dipartimento di Stato, che denunciava il nazismo di Peròn. Manovra particolarmente infelice per un diplomatico, la cui prima regola di condotta dovrebbe essere quella di non ingerirsi negli affari interni del paese di accreditamento. Peròn seppe, infatti, sfruttare questa gaffe e riuscì a porre il nazionalismo dei suoi compatrioti di fronte all’alternativa efficacemente espressa dalla formula “Braden o Peròn”.

Peròn, d’accordo con Cipriano Reyes, capo della C.G.T., creò il Partito Laburista Argentino, che consisteva in un “raggruppamento di lavoratori urbani e rurali il scopo è di battersi per l’emancipazione politica e sociale delle classi lavoratrici, migliorandone le condizioni di lavoro, elevandone il tenore di vita e per l’instaurazione nel paese della democrazia integrale”, cioè una “democrazia sociale”, derivante dal superamento di quella “democrazia liberale” che, in realtà, era espressione di élite e di potentati economici. Non a caso uno dei presidenti che successero a Peròn, Arturo Frondizi, sottolineò che l’unica forza reale e concreta che abbia cambiato il volto dell’Argentina è stato il peronismo e che “appartiene ad una distorsione europea l’idea che il peronismo non sia stata una forma democratica”.  Nel programma vennero riprese le tematiche sui cui Peròn aveva già basato la sua azione di Segretario del Lavoro e della Previdenza sociale, e,  in particolare, partecipazione degli operai agli utili dell’impresa, lotta alla speculazione, salario minimo garantito e indicizzato, indennità di disoccupazione, riduzione dell’orario di lavoro, lotta contro il caro – vita, nazionalizzazione dei mezzi di produzione, ridimensionamento del grande latifondo, con distribuzione della terra a piccole cooperative, controllo della grandi holding inglesi e americane presenti nel paese. Venne aggiunto, infine, su intelligente ispirazione di Evita, un ulteriore obiettivo, d realizzare in tempi brevi: l’estensione dei diritti politici alle donne, una misura che del rivoluzionario in un paese dove tradizionalmente l’elemento femminile viene tenuto ben lontano dalla politica e dalle grandi questioni economiche e sociali. Se gli uomini delusero Peròn, sua moglie e il suo Paese, l’Argentina, gli furono fedeli in modo difficilmente superabile. E per l’Argentina, per arricchirla, propose la creazione di grandi capitali che fossero frutto del lavoro e non della speculazione. E gli argentini scelsero naturalmente Peròn, il quale, il 24 febbraio 1946, con il fedele e scaltro Hortensio Quijano (un membro del partito radicale, che era stato ministro degli Interni e aveva avuto un ruolo decisivo negli avvenimenti del settembre e ottobre 1945) in qualità di candidato alla vicepresidenza, ottenne 1.479.511 voti contro 1.201.822 di Tamborini e di Mosca, notabili appartenenti all’ Uniòn Democratica, dando come risultato la vittoria peronista. Il trionfo ottenuto nelle elezioni aprì le porte della Presidenza a Peròn che assunse il potere il 4 giugno 1946. Evita, da allora, assunse un ruolo fondamentale. Non volle seguire “l’antico modello della moglie del presidente”. E’ chiaro, insomma, che Evita non si lasciò rinserrare dall’oligarchia nel ruolo di consorte del presidente della repubblica. Disse chiaramente nel suo libro La Razòn de mi vida: “Alcuni giorni dell’anno ero Eva Peròn [la moglie cioè del Presidente] e lo facevo molto bene. Tutto il resto del tempo ero Evita, l’ambasciatrice del popolo presso Peròn. Compito difficilissimo e richiedente sforzi continui … Se mi domandaste che cosa preferisco, la mia risposta sarebbe immediata e spontanea: mi piace di più il nome che mi dà il popolo. Quando un bambino mi dice Evita, mi sento madre di tutti i bambini, di tutti deboli e i diseredati della terra. Quando un operaio mi dice Evita mi sento compagna di tutti gli uomini che lavorano nel mio paese e nel mondo intero. Quando una donna della mia patria mi dice Evita mi sembra di essere sorella di quella e di tutte le donne dell’umanità …”. Evita, pur erssendo una donna di temperamento, che non si fermava né davanti alle parole, né davanti ai fatti, conosceva, tuttavia, i limiti della sua sfera d’azione che sapeva di non dover superare, e l’armonia fra i due fu, grazie al tatto di lei, costante fino alla fine. Peròn mantenne per sé il comando delle Forze Armate, la direzione della diplomazia, la direzione dell’economia e lasciò ad Evita la Segreteria del Lavoro, dove sbrigava le questioni coi dirigenti sindacali e incontrava i descamisados; faceva numerose visite e presenziava a inaugurazioni. Dell’equipe di Evita facevano parte Oscar Nicolini, nominato nel 1945 ministro delle Comunicazioni, e José Espejo, diventato, nel 1948, segretario della C.G.T., dopo l’uscita di scena di Luis Gay e di Aurelio Hernàndez. Nel 1947 venne intrapresa l’impresa più spettacolare: il viaggio in Europa di Evita. Il 6 giugno 1947 un quadrimotore Douglas DC4 dell’Iberia, messo a disposizione dalle autorità spagnole,  decollò dall’aeroporto di Buenos Aires per portare in Spagna Evita Peròn. Il viaggio in Europa fu l’opportunità di presentare Evita a livello internazionale: con il fascino, la sua giovinezza, la vitalità, sarebbe stata certamente in grado di conquistare le simpatie e i cuori della vecchia classe dirigente europea, facendo uscire il suo paese dallo stato d’emarginazione nel quale l’Argentina si trovava a causa della volontà di liberarsi dalla dipendenza, sia economica che politica, dalla Gran Bretagna e degli Stati Uniti, nazionalizzando la rete ferroviaria (posseduta, fin dal 1907, da società britanniche) e quella telefonica (detenuta fin dagli anni ’20 dalla multinazionale americana ITT). Peròn volle mantenere fede alle promesse elettorali, realizzando queste prime riforme, approfittando di una congiuntura internazionale favorevole all’Argentina. Gli indicatori macro – economici prospettavano, infatti, un futuro di benessere e di sviluppo: la ricomposizione degli equilibri internazionali nel dopoguerra favoriva la collocazione delle esportazioni argentine nel mercato mondiale; la bilancia commerciale era in forte attivo ed il paese disponeva di ingenti risorse d’oro e di valuta estera; la situazione occupazione era buona; inoltre la scelta di una crescita basata sui comparti leggeri dell’industria, puntando cioè su un settore che produceva beni per il mercato anziché capitali, s’intendeva non penalizzare i consumi e, soprattutto, utilizzare il settore industriale come strumento di assorbimento della disoccupazione (se nel 1943 le persone occupate nell’industria erano 488.700, nel 1949 raggiungevano la cifra di 955.900, cioè i posti di lavoro erano aumentati di circa il 96%) e di redistribuzione del reddito in favore delle classi lavoratrici urbane. Infatti, il soli tre anni dal 1946 al 1949, il reddito reale aumentò di più del 40%, trainando i consumi interni. Evita arrivò in Spagna domenica 8 giugno, alle sette del pomeriggio, accolta dal generalissimo Franco, affiancato da sua moglie, dona Carmen Polo de Franco e da sua figlia, Carmen Franco Polo.  All’aeroporto c’erano trecentomila madrileni in delirio che gridavano il suo nome. Un po’ più in là, un gruppo di ragazze della Falange agitava i fazzoletti. Dappertutto fiori e bandiere spagnole, rosso – giallo – rosso, e argentina azzurro – bianco – azzurro. Ricevuta dalla mani del generalissimo Franco la Grande Croce d’Isabella la Cattolica, che metterà in occasione del colloquio con Pio XII.,  Evita pronunziò, lunedì 9 giugno,  nella piazza d’Oriente,  un discorso breve ma efficace, in cui parlò solo di questioni sociali e di lavoratori, dicendo ciò che sentivano nella nuova Argentina, cercando di trasmettere la profonda aspirazione a una società nuova, nella quale “non vi siano né troppi ricchi né troppi poveri”, e la preoccupazione di rendere ogni giorno più concreta e reale, per ogni uomo e per ogni famiglia , la sicurezza della vita e la speranza di un costante miglioramento. Evita disse di essere venuta in Spagna non per formare “assi”, ma per tendere “arcobaleni di pace”, a portare un messaggio di speranza al Vecchio Mondo e anche un messaggio d’amore a tutti gli spagnoli da parte dei descamisados argentini. Più tardi la stessa Evita definirà questo ruolo con un’immagine altrettanto forte: “Sono il ponte che collega Peròn con il popolo. Attraversatemi!”. Il suo amore per i bisognosi la portò a voler visitare misere catapecchie dove vivevano donne malate e uomini senza lavoro. Evita, recandosi nelle principali località del paese, tenne una serie impressionante di interventi (a Madrid, in una scuola di orientamento professionale, a Granata, in una fabbrica, a Vigo, nella Casa del Pescatore) per esaltare l’instaurazione di “un ordine basato sulla giustizia sociale secondo i principi proclamati dal presidente Peròn, dove tutti possano godere di una giusta retribuzione; dove l’operaio possa vivere in condizioni di lavoro dignitose e possa conservare la sua salute, godere di benessere fisico e spirituale, proteggere la propria famiglia, innalzare il suo livello economico” affinché “nessuno soffra e nessuno si veda assediato da una terribile miseria”. Il 26 giugno 1947 lasciò la Spagna esclamando “Addio Spagna mia”. Purtroppo non altrettanto bene andarono le cose in Italia, Francia, Svizzera e Inghilterra: a Roma, l’ambasciata argentina era situata in piazza dell’Esquilino, di fronte alla sede di un sindacato italiano di ispirazione comunista e l’arrivo di Evita venne accolto da urla, parolacce e insulti terribili; a Parigi, la visita, pur essendo caratterizzata dalla migliore accoglienza ufficiale (sia da parte del presidente della Repubblica Vincent Auriol, che dal ministro degli Affari Esteri Georges Bidault), venne ridimensionata da numerosi ricevimenti privati, che mostrarono, come le autorità francesi si sforzassero di togliere ogni significato politico di “avvicinamento” tra i due paesi; a Berna un giovane svizzero aggredì Evita, lanciando dei sassi contro la sua macchina, rompendo il parabrezza e ferendo l’autista; la visita a Londra, fu annullata, perché la corte britannica si rifiutò di riceverla, proponendo, invece, che la visita avesse carattere privato. Proprio durante il viaggio di sua moglie in Europa, Peròn lanciò un messaggio di pace al mondo, affermando la sua teoria politica della “terza posizione”, elemento di stabilità, all’interno, tra lo sfruttamento capitalista e la disumanizzazione marxista e fattore di equilibrio, all’esterno, tra i due blocchi emersi dalla logica di Yalta: “… in questo momento è in corso una lotta tra il comunismo e il capitalismo … noi non vogliamo essere né contro l’uno né contro l’altro. Noi realizziamo nel nostro paese la dottrina dell’equilibrio e dell’armonia tra l’individuo e la collettività attraverso la giustizia sociale che rende dignità al lavoro, che armonizza il capitale, che eleva la cultura sociale … di modo che il noi sociale si realizza e si perfeziona attraverso l’io dell’individuo considerato come un essere umano …”. Infatti, un paese come la nuova Argentina era in grado di sfamare, con carne e grano, l’intero continente europeo lacerato e disorientato dalla recente guerra: “L’unico rischio che correrà il mondo in futuro è la fame ma noi abbiamo il cibo dei nostri campi”, ripeteva spesso Peròn. La fornitura di prodotti alimentari ai paesi belligeranti aveva consentito di accumulare già durante la guerra ingenti riserve in moneta estera. Inoltre le difficoltà di pagamento e di trasferimento delle valute intervenute nel periodo bellico, fecero sì che l’Argentina vantasse crediti non incassati nei confronti di diverse nazioni. Tra le quali c’era proprio la Gran Bretagna, che ancora nel 1946 non aveva saldato un debito di 150 milioni di sterline.

Deciso a portare avanti il proprio programma sociale e politico, Peròn adottò misure tipicamente keynesiane: : sussidio al credito, politica dei redditi, espansione della spesa pubblica e, di conseguenza, del deficit statale. Peròn giustificò, nell’ottobre del 1951, tale strategia con queste parole: “L’Argentina giustizialista dirige tutti i suoi sforzi verso al’affermazione della sovranità nazionale, cercando le basi per il sostenimento in una volontà popolare nitida ed internamente inattaccabile”. Infatti, la politica economica peronista aveva tra i propri obiettivi prioritari un rapido recupero di risorse che consentisse di realizzare una decisa redistribuzione del reddito in favore dei ceti urbani. Le cifre si riferivano al totale delle ore lavorative di un operaio nel 1949 che, messe a confronto con quelle del 1943, rivelavano un aumento del 16,6% mentre la retribuzione era superiore, rispetto a quella del 1943, del 388,5%. Peròn rafforzò la politica d’intervento diretto dello stato in economia con la costruzione di centrali idroelettriche e gasdotti, con l’ammodernamento delle reti di trasporto urbano ed extra – urbano, con l’istituzione della compagnia aerea di bandiera (le “Aerolìneas Argentinas”) e della flotta mercantile nazionale. Inoltre lo stato diventò anche produttore, gestendo con funzionari propri (spesso ufficiali e tecnici delle forze armate) l’industria bellica e le imprese del gruppo DINIE, costituito da società confiscate ai proprietari tedeschi all’indomani dell’entrata in guerra argentina, dichiarata il 27 marzo 1945, al fianco degli Alleati.  Ma l’intervento che più d’ogni altro sancì la volontà innovatrice del nuovo governo fu la nazionalizzazione del Banco Central, che diventò la chiave di volta della politica economica di Peròn, tramite il controllo del Banco Industrial e dell’Instituto Argentino de Promocìon del Intercambio (IAPI). Quest’ultimo, cui venne assegnato il monpolio del commercio con l’estero, acquistava direttamente dai produttori a prezzo amministrato i beni destinati all’esportazione – tipicamente cereali e prodotti di macellazione – , rivendendoli a prezzo di mercato sulle piazze internazionali e trasferendo i profitti ottenuti al Banco Industrial, che li avrebbe trasformati in capitali da assegnare in prestito a tassi iper – vantaggiosi al settore industriale per approvvigionarsi di materie prime, quali combustibile, macchinari e pezzi di ricambio. Tra il 1945 e il 1948 il Pil aumentò del 29%, trainato dalla crescita dell’industria leggera (tessile e alimentare in primis, impoverendo però il settore agricolo, cioè quello che fu il motore stesso dello sviluppo), che fece registrare un picco del 12,1% nel 1947.

Una delle riforme più importanti e popolari intraprese da Peròn fu la concessione alle donne del diritto di voto. La legge 13010 venne approvata il 9 settembre da una storica seduta del Parlamento, davanti al quale Peròn spiegò che “il riconoscimento dei diritti politici della donna costituisce un atto di giustizia in quanto la donna coopera con i suoi sforzi e con la stessa energia dell’uomo alla difesa degli interessi e dei diritti collettivi sacrificando spesso anche la vita, la famiglia e la serenità; sarebbe quindi inconcepibile che rimanesse esclusa dalla difesa dei suoi stessi diritti e interessi”. Da parte sua Evita , il 23 settembre 1947, giorno della promulgazione della legge, completò così il pensiero del marito: “Mi tremano le mani al contatto dell’alloro che sancisce la vittoria, perché qui, sorelle mie, in pochi articoli concentrati è riassunta una lunga storia di lotte, di scontri e di speranze …”.

“Noi donne siamo le missionarie della pace. I sacrifici e le lotte sono riusciti finora solo a raddoppiare la nostra fede. Innalziamo, tutte assieme, questa fede e con essa illuminiamo il sentiero del nostro destino. E’un destino grande, appassionato e felice. Per farlo nostro e meritarlo, disponiamo di tre elementi incorruttibili e inalterabili: una fiducia illimitata  in dio e nella sua infinita giustizia; una Patria incomparabile da amare con passione e un leader che il destino ha forgiato per affrontare vittoriosamente i problemi: il generale Peròn. Col voto e con lui contribuiremo  alla perfezione della democrazia argentina”.

L’8 luglio 1949 fu creata ufficialmente la Fondazione di Aiuto Sociale Maria Eva Duarte de Peròn, istituzione la cui responsabilità “compete unicamente e esclusivamente alla sua fondatrice”, che rappresentò un concetto di giustizia sociale molto lontano dal modo d’intendere la carità a parte delle dame dell’oligarchia: era regolata da uno statuto in accordo con le norme stabilite dal Ministero della Giustizia. Erano membri fissi del suo Consiglio Direttivo il Ministro delle Finanze e il segretario generale della C.G.T. i consiglieri erano nominati per metà dalla fondazione, e i restanti da rappresentanti operai del sindacato. Mille scuole e diciotto pensionati furono costruiti in provincia. Gli alunni, circa tremila, venivano da famiglie che vivevano nei ranchos de adobe e dormivano per terra. Evita fece costruire anche dei quartieri per studenti a Còrdoba e a Mendoza. Ma le sue grandi passioni erano il Quartiere degli studenti di Buenos Aires, che occupava cinque blocchi di case, e la Città dei bambini Amanda Allen (un’infermiera della fondazione, morta in un incidente aereo mentre rientrava in Argentina dopo essere andata in soccorso delle vittime di un terremoto che aveva scosso l’Ecuador), inaugurata il 14 luglio 1949. Oltre alle colonie di vacanza create a Ezeiza, vicino a Buenos Aires, Evita fece costruire delle “unità turistiche” a Chapadmalal (non lontano da Mar del Plata), a Uspallata (Mendoza) e a Embalse Rìo Tersero (Còrdoba). Ognuna di queste comprendeva un centro alberghiero che poteva ospitare da tremila a quattromila persone, operai, pensionati, studenti. Soltanto a Buenos Aires la fondazione aveva costruito quattro policlinici. Altri centri simili furono inaugurati in nove province. A Termas de Reyes (Jujuy, nel Nord – ovest del paese) e a Ramos Mejia (nella periferia di Buenos Aires) furono costruite delle cliniche pediatriche. Purtroppo l’ospedale dei bambini di Buenos Aires e un altro a Corrientes, sul litorale argentino, furono abbandonati dopo la caduta del peronismo. Nell’agosto 1948 il ministero del Lavoro proclamò solennemente la Dichiarazione dei diritti degli anziani. Nel luglio 1950, al teatro Colòn, Evita pianse per la gioia di poter assicurare una vecchiaia serena agli anziani argenti argentini quando diede le prime mille pensioni ad altrettanti anziani. La casa di riposo di Burzaco, vicino a Buenos Aires si sviluppava su due ettari e poteva accogliere duecento persone in un ambiente caloroso, tanto che Evita in La Razòn de mi vida: (che pure scrisse quando la sua malattia era ormai una realtà) sognava del giorno in cui, forse, lei stessa avrebbe potuto abitarvi. E, ancora, furono creati altri centri che accoglievano donne senza lavoro e senza domicilio, finché non si fossero trovati loro l’uno e l’altro. Ma il fiore  all’occhiello di Evita era il Pensionato dell’impiegata, sull’Avenida de Mayo, che accolse cinquecento donne venute a lavorare nella capitale. Tutte opere necessarie per accrescere il legame comunitario e solidaristico della gente. Questo fu un merito fondamentale della politica di Evita. La sua opera non era soltanto un impegno a favore dei più deboli, dei suoi descamisados , ma la volontà precisa di radicare nel profondo del suo popolo un legame molto forte, un senso di appartenenza che travalicasse ogni rivendicazione sociale, uno spirito di unione talmente forte da trasformare la popolazione argentina in un popolo unito: “Siamo un popolo che ha in mano il timone del proprio destino”, disse Evita “che è grande perché è popolare, che è degno perché è giustizialista , he è nobile perché è argentino e che è sublime perché c’è Peròn. E’ stato un miracolo che ha avuto conseguenze enormi a livello economico, politico e sociale. In primo luogo ha creato una giustizia sociale che ha riordinato i criteri distributivi, mobilitando le masse a favore delle grandi battaglie per l’indipendenza economica nazionale … Questa rinascita del nostro spirito che l’oligarchia non ha potuto vendere come ha venduto le nostre fonti di ricchezza, ha portato con sé la suprema dignità del lavoro e la definitiva liberazione dell’uomo. Abbiamo abbattuto con gioia i cupi orfanotrofi per innalzare le pareti chiare ed allegre della “Città dell’Infanzia”, dei convitti, dei policlinici, delle case – parcheggio, della casa dell’impiegata e dell’anziano, della “Città dello Studente”, delle città universitarie, delle colonie per le vacanze, delle case per la madre, delle scuole e delle mense popolari. On l scopa giustizialista abbiamo fatto piazza pulita delle capanne e delle baracche e abbiamo costruito quartieri operai, necessari per la dignità sociale delle nostre masse lavoratrici. Abbiamo esiliato l’elemosina per esaltare la solidarietà come criterio di giustizia. E continuiamo gioiosamente nella lotta perché il repmio è troppo grande e troppo bello per rinunciarvi. Questo premio è la felicità, il benessere e l’avvenire del nostro amato popolo descamisado”.

Il 26 luglio del 1949,  mille donne si radunarono al Teatro Nazionale Cervantes di Buenos Aires dove si tenne il Primo Congresso del Movimento Peronista Femminile. Con la fondazione di questo movimento riemerse con forza la volontà di occuparsi delle donne, dei loro problemi, di seguirle da vicino. Questo rapporto, però, si è evoluta, è diventato politico. Evita volle rivoluzionare anche il ruolo delle donne nella vita politica argentina. Disse Evita a quel pubblico femminile: “le donne sono state doppiamente vittime di tutte le ingiustizie. In famiglia soffrivano più d’ogni altro membro perché si assumevano tutta la miseria, la desolazione e sacrifici per evitarli ai propri cari. Portate in fabbrica, subivano tutta la prepotenza padronale. Tormentate dalla sofferenza, stroncate dai bisogni, stordite dalle giornate estenuanti e dalle pochissime ore destinate al riposo, distrutte dai lavori domestici, le nostre compagne di allora – che in molti paesi del mondo sono le nostre compagne di oggi, anche se è vergognoso ricordarlo – non trovarono altra soluzione se non rassegnarsi di fronte all’accumulazione sempre maggiore degli insensibili e bastardi capitalisti. Come se non bastasse, il destino riservava loro un’altra sofferenza. Scoperte dall’industriale come forza – lavoro meno cara, le donne che lavorano diventano le concorrenti dei fratelli lavoratori, compiendo – costrette dalle circostanze e dal bisogno di mandare avanti la famiglia – i loro stessi lavori pur ricevendo un salario inferiore”. Nel 1949,  quando le ingenti risorse valutarie accumulate durante la guerra andarono esaurendosi, la favorevole congiuntura esterna in cui mosse i suoi primi passi lo stato peronista cominciò ad invertirsi. La bilancia commerciale, dopo quattro anni consecutivi di surplus, fece registrare un deficit di 160 milioni di dollari, dovuto principalmente al ritorno alla normalità dei prezzi agricoli e della carne; lo sviluppo dell’industria leggera, inoltre, rese il paese sempre più dipendente da materie prime e semi – lavorati esteri, cosa che comportò l’ascesa dei costi di produzione e dei prezzi al consumo dei prodotti. La conseguenze ultime di questo processo fu il riaccendersi dell’inflazione, dal 13% del 1947 al 29% nel 1949. Per spiegare che il governo aveva la possibilità d’inaugurare una politica di austerità, davanti ad un comitato di 300 persone, in maggioranza donne, che, il 29 settembre 1950, fece visita a Peròn protestando contro il carovita e chiedendo misure contro gli speculatori, Peròn, ricorrendo a un’immagine forte,  disse: “Se il governo volesse deflazionare lo otterrebbe in una settimana. Con le ferrovie abbiamo comprato 23.000 proprietà. Basterebbe venderle, raccogliere il denaro, portarlo alla Caja de la Conversiòn e bruciarlo, in tal modo la circolazione diminuirebbe di circa il 39, 40 e 50%. Ma dopo, chi vedrebbe più un peso? Chi troverebbe più un peso dopo aver rarefatto in questo modo i mezzi di pagamento?”.

Il 2 agosto 1951, una folla di duecento sindacalisti della C.G.T. chiesero a Peròn di accettare la candidatura alla rielezione presidenziale ed espressero il “vivo desiderio” che Evita fosse candidata alla vicepresidenza. Il 22 agosto fu la data fissata per annunciare la candidatura di Evita. Ma ciò non avvenne,  l’esercito si oppose perché se Evita fosse stata eletta vicepresidente e se Peròn fosse morto prima di lei, Evita avrebbe preso il suo posto alla presidenza dell’Argentina e, dunque, al comando delle forze armate, come fece vent’anni dopo Isabelita Peròn. Il 31 agosto, Evita rinunciò alla candidatura alla vicepresidenza: “Ho solo un’ambizione personale, che il giorno in cui si scriverà il capitolo meraviglioso della storia di Peròn, di me si dica questo: c’era, al fianco di Peròn, una donna che si era dedicata a trasmettergli le speranze del popolo. Di questa donna si sa soltanto che il popolo la chiamava  con amore Evita”.  E un mese dopo questo messaggio radiofonico, Evita si mise a letto e comiciò a morire. E il paese stava morendo assieme a lei. il 1952 fu l’anno in cui la crisi raggiunse il suo culmine, anche per effetto delle avverse condizioni climatiche: la produzione agricola risultò del 15% inferiore all’anno precedente, il Pil calò del 6%, il tasso di inflazione sfiorò il 50%, mentre il salario reale diminuì tra il 1948 ed il ’52 di circa il 20%. Il 28 settembre 1951, proprio mentre stavano facendo a Evita una trasfusione di sangue data la sua estrema debolezza, il generale Benjamìn Menéndez si mise alla testa di un’insurrezione, che sarà facilmente domata. tesa a far crollare il governo peronista, ma le cui conseguenze matureranno nel 1955, il 16 settembre, con la  Revoluciòn libertadora, diretta dal generale Lonardi, che pose fine al governo di Peròn. Le elezioni dell’11 novembre 1951 segnarono per il Partito Peronista (frutto della fusione tra il Partido Laburista, la Unión Cívica Radical Junta Renovadora e il Partido Independiente di Alberto Tessaire, che raggruppava i conservatori che appoggiavano Peròn) un vero trionfo. Peròn venne eletto per la seconda volta con 4.652.000 voti contro i 2.358.000 del suo avversario, Ricardo Balbin della Unión Cívica Radical. Un margine notevolmente superiore a quello della prima elezione che consentì ai peronisti  di conquistare tutti i seggi del Senato e centrotrentacinque dei centoquarantanove seggi della Camera. Non bisogna poi dimenticare che, per la prima volta, votarono anche 3.816.654 donne, i cui suffragi andarono all’unico partito, cioè a quello peronista, che inserì delle donne nelle sue liste. Alla fine risultarono elette ventitre deputate e sei senatrici.
Il 3 novembre 1951 Evita fu ricoverata al policlinico Presidente Peròn, dove il ginecologo Humberto Dionisi le diagnosticò un carcinoma. All’inizio di novembre, il chirurgo George Pack, specialista del Memorial Cancer Hospital di New York, procedette a un’isterectomia totale. La vita di Evita si stava spegnendo, le restavano solo alcune gocce di vita e le offrì il 1° maggio, in un discorso carico di accenti di incredibile bellezza, l’ultima volta che Evita parlò in pubblico, sorretta dal marito sul balcone della Casa Rosada. “Miei cari descamisados. Ancora una volta siamo qui riuniti, lavoratori e donne del popolo; ancora una volta ci ritroviamo, noi descamisados, in questa storica piazza del 17 ottobre 1945 per dare la risposta al leader del popolo che questa mattina, a conclusione del suo messaggio, ha detto: “Chi vuole ascoltare,  ascolti; chi vuole seguire, segua”. Ed è questa la risposta, o mio generale. E’ il popolo lavoratore, è il popolo umile della Patria che qui e in tutto il Paese si è levato in piedi ed è pronto a seguire Peròn, il leader del popolo, il leader dell’umanità, che ha innalzato la bandiera della redenzione e della giustizia delle masse lavoratrici; esso lo seguirà contro l’oppressione dei traditori interni ed esterni, che, nell’oscurità della notte, vogliono iniettare il loro veleno di vipere nell’anima  nel corpo di Peròn, che è l’anima e il corpo stesso della Patria. Ma non ci riusciranno, così come l’invidia dei rospi non è riuscita a far tacere il canto del usignoli e le vipere non hanno impedito il volo dei condor”.

“Io chiedo a Dio di non permettere che degli insensati alzino la mano contro Peròn, perché guai a quel giorno! Quel giorno, mio generale, io marcerò alla testa dei descamisados per non lasciare interno nemmeno un sasso che non sia peronista. Noi non ci lasceremo schiacciare dallo stivale oligarca e traditore dei “vendipatria” che hanno sfruttato la classe lavoratrice. Noi non ci lasceremo più sfruttare da quelli che, vendutisi per quattro soldi, servono i padroni stranieri e consegnano il popolo della loro Patria con la stessa tranquillità con cui hanno venduto il loro Paese e le loro coscienze”.

“Ma noi siamo il popolo, e io so che il popolo sta all’erta, siamo invincibili, perché noi siamo la Patria”.

E’ una dichiarazione di guerra, ma Evita, la grande lottatrice era colpita a morte. 

Evita si spense  dolcemente, respirando appena. Poi emise un sospiro  e il suo cuore si fermò. La sua morte fu annunciata ufficialmente il 26 luglio 1952 alle 8,30 di sera. Una terribile solitudine avvolse l’Argentina. Una solitudine che non si dissipò nemmeno al ritorno di Peròn in patria, dopo vent’anni di esilio. Evita presagì bene l’avvenire del suo Paese quando gridava e piangeva nell’agonia: “Chi, ma chi si prenderà cura dei mie poveri?”.

GINO SALVI

BIBLIOGRAFIA

Evita, un mito del nostro secolo, di Alicia Dujovne Ortiz, 1995, Mondatori.
Chiamatemi Evita, di Carmen Llorca, 1984, Mursia.
Evita Peròn, la madonna dei descamisados, di Domenico Vecchioni, 1995, Eura Press.
La ragione della mia vita, introdotto da Vanni Blengino, 1996, Editori Riuniti.
Evita, il mio messaggio,  introdotto da Joseph A. Page, 1996, Fazi.
L’Argentina da Peròn a Cavallo (1945-2002), di Francesco Silvestri, 2003, Clueb

jeudi, 07 avril 2011

Al Qaida en Libye? L'OTAN donne raison au colonel Kadhafi!

Al Qaida en Libye ? L’Otan donne raison au colonel Kadhafi !

 

PARIS (NOVOPress) : Des membres du réseau terroriste international Al Qaida et du mouvement chiite libanais Hezbollah pourraient figurer parmi les insurgés qui luttent contre le colonel Mouammar Kadhafi, a annoncé mardi l’amiral américain James Stavridis, commandant suprême des forces de l’Otan en Europe. « Nous examinons à la loupe la composition des groupes rebelles et leurs leaders », a annoncé l’amiral, cité par la presse occidentale. Il existe des « signaux d’une présence potentielle d’Al Qaida et du Hezbollah », a-t-il poursuivi, confirmant ainsi… ce que le colonel Kadhafi avait déclaré à la télévision libyenne il y a plus d’un mois !

Cette présence possible d’islamistes radicaux brouille quelque peu l’image idyllique, présentée par les Occidentaux, des insurgés libyens supposés représenter l’avenir « démocratique » de la Libye. Elle n’empêche pourtant pas les Occidentaux, et notamment  les Etats-Unis et la France, d’envisager d’armer les factions insurgées. Alors, Paris et Washington bientôt fournisseurs d’armes d’Al Qaida ?

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Terre & Peuple n°47 - Editorial de Pierre Vial

Terre et Peuple n°47

La guerre civile en France?

Multiculturalisme ou multiracialisme?

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Editorial

Par Pierre Vial

L’hebdomadaire Marianne a publié un « Hors-série » (février-mars 2011) intitulé « La guerre civile en France ». Où il s’agit de passer en revue les conflits qui ont opposé les Français entre eux, depuis la guerre de Cent Ans jusqu’en mai 68 (il est affirmé, au passage, qu’ « il n’y a pas eu de génocide en Vendée »…on sait que le concept de génocide doit être réservé à certains) . Mais avec un prolongement jusqu’à nos jours, qui éclaire l’objectif réel de la publication. Dans un « Avant-propos » intitulé « Le spectre », il s’agit de mettre en garde les « citoyens »  contre les tentations qui pourraient les guetter : « Aujourd’hui, c’est d’une forte minorité musulmane qu’une partie de l’opinion, aiguillonnée par les démagogues, s’effraie. Les émeutes urbaines, des faits divers sordides, les ratés d’une insertion sociale malade du chômage créent un climat d’appréhension dangereux ». Moralité : « La France est défiée de reconstruire avec tous ses citoyens les principes d’un vouloir vivre ensemble sans esprit d’exclusion ». Car, bien sûr, on évite de poser la seule bonne question : ces « émeutes urbaines », ces « faits divers sordides », la faute à qui ? A quels « citoyens » ?

De l’extrême gauche à une ex-Nouvelle Droite qui, si j’ai bien compris, veut être aujourd’hui classée à gauche,  en passant par toutes les nuances de la gauche et de la droite parlementaires, c’est à dire alimentaires, on nous sert la tarte à la crème du « vivre ensemble ». Mais, pour « vivre ensemble », encore faut-il en avoir envie.

On connaît la chanson. Il y a « des problèmes » ? La raison en est « sociale ». Il faut donc accélérer la mixité. Mixité sociale, dit-on officiellement. En fait mixité raciale, comme tout le monde le sait mais n’ose le dire de peur d’être « pris en charge » par les nouveaux Inquisiteurs. Pas un mot, bien sûr, quant à la seule et vraie raison des « dysfonctionnements », comme on dit pudiquement, de la société « française » : une société multiraciale est, inévitablement, une société multiraciste. Parler de « guerre civile » évite de parler de la seule guerre, inévitable, qui vient : la guerre raciale. Et les apprentis-sorciers qui rêvent que « la République » va, grâce à ses « valeurs » (la « laïcité », cheval de bataille de Sarkozy…et de Marine Le Pen) , pouvoir mettre tout le monde d’accord, vont se réveiller dans un cauchemar sanglant. Ils auront tout fait pour.

Cependant des politiciens, qui ont les yeux vissés en permanence sur les chiffres des instituts de sondage, commencent à s’inquiéter. Au sujet de la seule question qui compte vraiment pour eux : leur réélection. Qui semble menacée par une évolution de l’état d’esprit des populations dans divers pays d’Europe, où l’immigration est enfin perçue pour ce qu’elle est, c’est à dire une invasion. Aussi faut-il jeter du lest. Le multiculturalisme, adopté comme recette miracle du « vivre ensemble » dans les pays confrontés à une forte immigration, est aujourd’hui répudié par nombre de politiciens de premier plan. La première, la chancelière allemande Angela Merkel a brisé le tabou, en déclarant le 16 octobre 2010 que « le multikulti a complètement échoué ». En Grande-Bretagne, le premier ministre David Cameron a embrayé le 5 février en dénonçant  un multiculturalisme d’Etat » qui amené la Grande-Bretagne à tolérer des comportements « en contradiction complète avec nos valeurs ». Bon dernier, Sarkozy déclare à son tour, le 10 février, sur TF1 : « La vérité, c’est que dans toutes nos démocraties, on s’est trop préoccupé de l’identité de celui qui arrivait et pas assez de l’identité du pays qui accueillait ». Bel exemple de retournement de veste de la part de celui qui, il n’y a pas si longtemps, n’avait que la « discrimination positive » à la bouche, tout le monde sachant bien qu’il s’agissait, avec cette belle formule, de favoriser systématiquement et sur tous les plans les envahisseurs au détriment des Européens.

A l’heure où les vagues d’invasion en provenance du sud de la Méditerranée prennent des proportions cataclysmiques, les débats oiseux sur l’intérêt du multiculturalisme sont proprement criminels et ceux qui, d’une façon ou d’une autre, s’y prêtent, sont coupables de haute trahison à l’égard de nos peuples européens. Qu’ils y réfléchissent : l’accélération de l’Histoire que nous sommes en train de vivre peut provoquer l’apparition d’une légitime justice populaire qui n’aura nul besoin d’un quelconque Tribunal Pénal International.

Vous pourrez vous procurer ce numéro au stand de Terre et peuple samedi prochain 9 avril lors du colloque de Synthèse nationale sur les 35 ans du regroupement familial à Paris (cliquez ici).

 

Les droits de l'homme contre la démocratie directe

Les droits de l’homme contre la démocratie directe

par Yvan Blot

 

Texte paru sur le site de la Fondation Polémia [1] sous le titre Droits de l’Homme et Démocratie directe : le problème du contrôle de constitutionnalité. Yvan Blot, auteur de La Démocratie confisquée (éd. Picollec, 1988), est président de Agir pour la Démocratie directe [2].

1/ Initialement, les droits de l’homme sont des libertés fondamentales

Les droits du citoyen à voter la loi et l’impôt, donc la démocratie directe, sont d’ailleurs cités explicitement dans les articles 6 et 14 de la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen de 1789 qui fait partie de nos textes constitutionnels. La protection de ces droits est plus une affaire de culture que de droit. Ainsi, le Royaume-Uni comme la Suisse ne connaissent aucun mécanisme de contrôle de la constitutionnalité des lois, et ces deux pays n’en sont pas devenus des dictatures pour autant. Si la culture de la liberté est développée, on n’a pas de besoin de juge de la constitutionnalité. Si par contre la culture de la liberté est sous-développée, battue en brèche par des éléments de culture totalitaire, le juge constitutionnel peut devenir le pire ennemi des libertés, et donc de la démocratie directe.

2/ Actuellement, les droits de l’homme font souvent l’objet d’une dérive totalitaire et se retournent alors contre les libertés des citoyens.

Si les droits de l’homme sont interprétés de façon égalitariste (au sujet de l’immigration par exemple), ou comme droits de créance sur la société (droit à l’emploi ou au logement par exemple), ils servent à tuer les libertés. Ainsi, la Cour européenne des droits de l’homme (CEDH) dans l’affaire Lautsi a demandé en 2009 à l’Italie de retirer les crucifix présents dans les écoles publiques. Suite aux protestations de 20 Etats européens, en général de l’Est, elle a inversé sa jurisprudence le 18 mars dernier. La Cour européenne de Justice de son côté interdit aux assureurs de fixer des primes d’assurance plus faibles pour les femmes qui ont statistiquement moins d’accidents que les hommes, au nom de l’égalité des sexes ! Dans son récent arrêt Hirst, la CEDH a demandé au Royaume-Uni, au nom de l’égalité, de redonner le droit de vote aux condamnés à la prison ce qui a suscité un tollé au Parlement britannique et dans le peuple.

S’agissant de la Suisse, la Cour européenne des droits de l’homme a été saisie par un recours de M. Hafid Ouardiri [3] contre le résultat de la votation populaire interdisant la construction de minarets. Mais des problèmes de procédures pourraient empêcher ce recours d’aboutir. De même, des intellectuels de gauche ont évoqué un recours contre les résultats de la votation populaire exigeant l’expulsion des étrangers condamnés à des crimes graves. Certains pensent qu’il faut restreindre la démocratie directe pour donner la priorité aux droits de l’homme interprétés par des cours européennes. Le juge se substitue alors au peuple et intervient dans la législation : il ne reste plus grand-chose de la séparation des pouvoirs ! C’est le poison de l’égalitarisme qui fait tourner la sauce des droits de l’homme et en fait une arme contre les libertés !

3/ Gouvernements des juges et « recall » aux Etats-Unis

En Amérique où, dans certains Etats, les juges des cours suprêmes sont élus, il existe la procédure de révocation ou « recall » qui est une procédure de démocratie directe. Une pétition de citoyen peut déclencher un référendum pour demander la révocation d’un juge ou d’un gouverneur. L’idée est que le peuple a le droit de révoquer ceux qu’il élit. En effet, le juge n’est qu’un homme et il peut aussi se retourner par idéologie contre la protection des libertés. Il faut alors que le citoyen ait un recours.

4/ Démocratie directe et contrôle de la constitutionnalité

Les systèmes varient selon les pays. En Suisse, un tel contrôle n’existe pas et le peuple peut modifier la constitution par initiative populaire. Aux Etats-Unis, des référendums peuvent avoir lieu sur toutes sortes de sujets dans les 27 Etats fédérés qui le permettent mais le citoyen peut toujours se plaindre du résultat d’un référendum s’il estime que celui-ci viole ses droits. L’ennui est que la Cour annule parfois le résultat : 9 juges ont-ils raison contre la majorité du peuple ? Cela créé un malaise. En Allemagne, c’est le tribunal constitutionnel de chaque Etat fédéré (Land) qui interdit a priori les référendums sur des sujets qu’il déclare inconstitutionnel. Mais alors tout dépend de la jurisprudence : dans certains Etats, les juges ont étouffé la démocratie directe, dans d’autres non !

Conclusion :

Aucun système n’est parfait. En pratique, le contrôle de constitutionnalité a parfois tendance à restreindre abusivement les droits politiques des citoyens. L’oligarchie judiciaire vient alors au secours des autres oligarchies et le peuple est lésé. En fait, la protection des libertés est plus affaire de culture que de droit comme on l’a dit au début. Avec une culture de liberté, contrôle de constitutionnalité ou pas, les libertés fondamentales sont protégées. Avec l’égalitarisme, les droits de l’homme deviennent une arme dévoyée pour réduire la liberté des citoyens et la souveraineté des Etats !

Yvan Blot

Yvan Blot donnera une conférence le lundi 4 avril à l’Hôtel Néva (rez-de-chaussée) 14, rue Brey, 75017 Paris (près de l’Etoile).
Contact : atheneion@free.fr


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[1] Fondation Polémia: http://www.polemia.com/

[2] Agir pour la Démocratie directe: http://www.democratiedirecte.fr/

[3] M. Hafid Ouardiri: http://www.tdg.ch/actu/suisse/recours-depose-strasbourg-contre-initiative-anti-minarets-2009-12-15

Carmina Burana - Dulce Solum - Carl Orff

Carmina Burana - Dulce Solum - Carl Orff

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La visione "corporativa" di Ugo Spirito

Nel 1935, il filosofo Ugo Spirito  (Arezzo, 1896 – Roma, 1979) presentava al Convegno di studi corporativi di Roma la sua relazione – intitolata Corporativismo e libertà – con la quale esprimeva la convinzione che la sfida al capitalismo dovesse essere vinta tanto sul piano tecnico quanto su quello spirituale, marcando una superiorità di tipo gerarchico-totalitario “in cui i valori umani si differenzino al massimo”. La concezione corporativistica di Spirito è infatti una visione, poiché non si derubrica a semplice metodologia, a insieme di processi di funzionalità tecnica, ma si eleva a momento spirituale nel quale la vita sociale si unifica moralmente “nella gioia del dare e del sacrificarsi”; in buona sostanza nel rifiuto di ogni fine privato dell’esistenza. In uno scritto del 1934, significativamente intitolato Il corporativismo come negazione dell’economia, Spirito afferma chiaramente che il corporativismo “non è economia, ma politica, morale, religione, essenza unica della rivoluzione fascista”. E proprio per questa ragione egli parlò di “comunismo gerarchico”, dove il primo termine va inteso in un senso assai distante da qualsiasi dogmatismo marxista-bolscevico; mentre il secondo rimanda alla libertà caratterizzata dal diritto al lavoro che seleziona un’èlite umana in grado di accedere ai vertici della comunità. Il comunismo inteso da Spirito è stile di vita più che sistema politico. Come scriverà nel 1947 in Filosofia del comunismo: “…Il comunismo può dare luogo ad istituzioni sociali e giuridiche…Può tendere ad una vita collettiva in cui il criterio di distribuzione dei beni sia fissato in funzione della produttività di ognuno; può eliminare le sperequazioni più gravi della vita attuale e le forme più chiare di sfruttamento. Ma detto questo risulta altresì è evidente che il comunismo può realizzarsi prima e senza la trasfigurazione della società, [può realizzarsi] in quella più profonda società che è in ognuno di noi – la societas in interiore homine – e che da noi soltanto acquista valore”. Il comunismo di Spirito è quindi più platonico che marxista, nell’affermazione che questo può realizzarsi prima e senza la rivoluzione delle strutture socio-economiche, in quanto rivoluzione interiore delle coscienze. Ma a questo proposito, Ugo Spirito chiarisce ulteriormente il suo punto di vista “Quando spontaneamente e gioiosamente rinuncio al di più, so di avere realizzato, anche nel mezzo del più anticomunistico regime politico, l’ideale del comunismo. Ideale che può sussistere non soltanto in un solo Paese…ma anche e soprattutto in un solo uomo, vale a dire nella coscienza del singolo; là dove può rivelarsi nella pura spiritualità”. Di qui l’apparentemente paradossale affermazione che non è il proletariato a costituire la forza realizzante l’avvento della società comunista – dato che esso aspira in fondo solo al comfort borghese. Soltanto il borghese che ha preso coscienza della metafisica comunista –cioè di una coscienza anticonsumistica – può rappresentare la forza trainante della Rivoluzione. 

Spirito contro la ‘Carta del Lavoro’ del 1927 

Per questo Ugo Spirito percepì come insufficiente la ‘Carta del Lavoro’ del 1927 che conservava gli aspetti di quel mondo borghese-capitalistico contro cui il fascismo, ispirandosi ad un’altra Carta, quella del Carnaro, era sorto. Il fascismo nasceva infatti per contrapporsi all’’individuocrazia’ liberale, affermando l’immanenza dello Stato nelle singole parti che lo compongono. Tuttavia, tentando di conciliare la proprietà privata con il dovere di metterla al servizio della collettività – al di là della reale capacità e volontà politica di trovare la giusta sintesi a tutto ciò – di fatto cedeva alla superiorità della prima, il cui diritto rimaneva intangibile. Nel Convegno di Ferrara del 1932, Spirito propose di tagliare il nodo di Gordio con la spada della “corporazione proprietaria”: tesi con la quale si affermava che la proprietà privata dei mezzi di produzione doveva passare alla corporazione intesa come corpo sociale intermedio tra individuo e Stato. In questo modo la Rivoluzione fascista avrebbe superato quella francese e la sua egoistica rivendicazione della proprietà privata, con un concetto di proprietà non più volto a fare di essa un inalienabile e assoluto diritto dell’individuo, ma una funzione utile all’interesse della Nazione. Concezione che in parte il fascismo faceva propria se pensiamo che la legge sulla Bonifica integrale autorizzava la revoca della proprietà qualora questa fosse stata lasciata inattiva. In ogni caso, se la ‘Carta del Lavoro’ aveva giustapposto l’interesse pubblico e quello privato, la tesi di Spirito tendeva a fonderli nell’identità di capitale e lavoro, di sindacalismo e proprietà. Con la corporazione “proprietaria”, il capitale sarebbe infatti passato dagli azionisti ai lavoratori, i quali avrebbero acquisito la proprietà in base a meriti gerarchici determinati da competenza e impegno. 

L’’eresia’ di Ugo Spirito venne immediatamente tacciata di bolscevismo. Reazione abbastanza scontata, anche perché lo stesso filosofo chiuse la sua relazione ferrarese dichiarò che la proposta da lui fatta andava verso un certo tipo di ‘socialismo nazionale’. Se l’oggi vedeva contrapposti Fascismo e Bolscevismo, il domani sarebbe stato di quel sistema che avrebbe saputo non negare l’altro, ma incorporarlo e superarlo in una forma più elevata. Ragione per cui “il Fascismo ha il dovere di fare sentire che esso rappresenta una forza costruttrice storicamente all’avanguardia, capace di lasciarsi alle spalle, dopo averli riassorbiti, Socialismo e Bolscevismo”. Chiuse il convegno il ministro Giuseppe Bottai (1895 –1959) che difese l’autonomia di corporazione, sindacato, impresa e Stato che Spirito voleva fondere nella già citata ‘corporazione proprietaria’; ma che nel contempo prese le distanze da quelli che, indossata la “maschera di cartone” del liberalismo, consideravano conclusa la sperimentazione corporativa. 

Il periodo della ‘rielaborazione’ 

Negli anni successivi, Ugo Spirito abbandonò la tesi ‘eretica’ sostenuta a Ferrara, pur riaffermando costantemente il carattere pubblicistico della proprietà e dichiarando un controsenso il concepirla privatisticamente. Tanto più che la fondazione dell’IRI sembrò a tutti gli effetti un passo avanti verso il riconoscimento della proprietà come res pubblica, attraverso un deciso intervento dello Stato in economia. Ancora nel 1941, Spirito scriveva in Guerra rivoluzionaria (rimasto inedito fino al 1989) che la Rivoluzione fascista non avrebbe mai condotto ad un comunismo ‘livellatore’, figlio diretto delle democrazie liberali: “Non aristocrazia ereditaria e neppure il suo astratto opposto segnato dalla democrazia maggioritaria, bensì la gerarchia di tutti continuamente formantesi e rinnovantesi nell’assolvimento delle funzioni sociali, dalle più elevate e complesse alle più umili e semplici. Non comunismo, dunque, fondato sul peso della massa come numero, ma ‘comunismo gerarchico’, ossia collaborazione di tutti all’opera comune, determinata in ogni suo aspetto con il solo criterio della competenza”. Proprio in quell’anno, tuttavia, il nuovo Codice civile stabiliva sì la funzione sociale della proprietà, ma ne tutelava comunque il carattere privatistico. La necessità di conseguire scopi sociali veniva affidata dunque all’impulso individuale e all’iniziativa del proprietario secondo la nota favola liberale, stando alla quale dall’interesse privato di alcuni nascerebbe l’utile per tutti. Nulla di strano però, se consideriamo i mille compromessi con le forze borghesi e clericali, con i grandi gruppi finanziari che certamente trovavano sponda e sostegno nella monarchia “borghese” dei Savoia, ai quali era ormai costretto il fascismo. Quando però la trahison des clercs – cioè il vero o presunto abbandono del fascismo da parte della borghesia – e il tradimento del re fecero venire meno la ragione stessa dei compromessi, fu però possibile un’accelerazione dell’evoluzione del sistema corporativo in direzione delle tesi di Spirito. Ma ciò avvenne troppo tardi, soprattutto in quanto il regime aveva ormai di fronte un ostacolo nuovo, oltre che poco disposto a compromessi: la Germania. La necessità da parte di quest’ultima di trasferire in patria lavoratori italiani e di utilizzare pure le industrie ubicate in Nord Italia per le proprie necessità, comportò l’opposizione del generale Hans Leyers, capo della Commissione Guerra e Armamenti del Nord d’Italia, al processo di socializzazione.  

Fu comunque significativo che il ‘Manifesto’ di Verona venne redatto dal segretario del partito Alessandro Pavolini insieme con Nicola Bombacci, e rivisto infine dal duce. Nel documento si parlò di socializzazione, ovvero della cooperazione delle forze del lavoro nella gestione delle imprese, eliminando così il dualismo tra lavoratori e datori di lavoro. Nella sostanza, l’obiettivo era certo quello di un miglioramento delle condizioni di vita degli operai delle industrie – il cui appoggio risultava fondamentale anche per la Repubblica Sociale Italiana – anche se attraverso la ‘socializzazione’  si riproponeva di realizzare una nuova concezione del lavoro, capace di sviluppare un senso di appartenenza, di solidarietà, di responsabilità. Un ethos capace di rivoluzionare il rapporto tra cittadini e quello tra popolo e Stato. Il lavoro si sarebbe ‘spiritualizzato’ poiché il peso fondamentale non sarebbe stato più attribuito alla semplice materialità del possesso dei mezzi di produzione. Ed era poi il senso di quanto il filosofo Giovanni Gentile, maestro di Spirito ebbe a dire in Genesi e struttura della società a proposito dell’Umanesimo del lavoro. Detto ciò, occorre riconoscere che la “corporazione proprietaria” di Spirito si spinse oltre la stessa socializzazione che, in ogni caso, avrebbe conservato il principio della proprietà privata intesa come beneficio esclusivo del capitalista.

 Il ruolo sociale ed etico della Corporazione 

Spirito attribuiva infatti la proprietà dei mezzi di produzione alla corporazione, affermando che la stessa produzione, avendo un ruolo sociale, non avrebbe potuto di conseguenza essere abbandonata all’arbitrio individuale del proprietario. La tesi di Spirito eliminava dunque ogni rischio; ma la socializzazione lasciò però uno spiraglio di cui i capitalisti del Nord seppero approfittare. Essa ebbe comunque il merito di introdurre principi di quel ‘socialismo nazionale’ auspicato da Spirito, riconsegnando dignità spirituale al lavoro e al lavoratore, nel rifiuto di ogni materialismo marxistico, di ogni determinismo storico e della lotta di classe. A guerra conclusa, il CNLAI dominato dai comunisti decretò l’abrogazione della legge sulla socializzazione delle imprese. E mentre il bolscevismo non abolì il capitalismo, la ‘socializzazione’ ebbe il merito di sapere ipotizzare un ‘socialismo nazionale’ assai prossimo alla Volksgemeinschaft, la Comunità di popolo tedesca. Un organismo in grado di eliminare ogni antagonismo di classe e capace di realizzare nelle aziende un modello di Stato nazionalsocialista. Ma la fine del Secondo Conflitto fece naufragare anche questo tentativo rivoluzionario, consentendo al mondo borghese-capitalistico si riappropriarsi dei suoi privilegi. Tuttavia, pochi anni dopo in Filosofia del comunismo, Spirito scriveva ancora: “…la civiltà liberale e borghese ha potuto fare della libertà il monopolio di una classe solo a patto che i molti non liberi ne pagassero il prezzo; ma se oggi la stessa libertà vuole essere rivendicata da tutti, sì che nessuno resti a condizionarne il privilegio, la lotta di classe si muta in lotta di gruppi e di individui, tutti al privilegio anelanti e tutti impegnati nella corsa degli egoismi più sfrenati. La presunta libertà diventa il principio della disgregazione, dell’atomismo e del conseguente caos, del quale già si avvertono i segni premonitori. Perché a questa logica sia dato sottrarsi, occorre vivere di un’altra fede, credere in un nuovo mondo sociale, che vada al di là del liberalismo e realizzi nella comunità degli uomini un ideale che non sia quello del tornaconto del singolo e del calcolo economico di chi guarda alla propria persona come centro del mondo”. Negli anni successivi, questa fede prese per Spirito sempre più il nome di comunismo; ma nonostante una sua certa ammirazione per il mondo sovietico (che ebbe modo di visitare in un viaggio di appena un mese), il comunismo di Spirito si identificava pur sempre in una forma di  ‘corporativismo antindividualistico’ e antimaterialistico che con il realismo sovietico non aveva proprio nulla da spartire. 

Rielaborazioni. La ‘nuova religione’  

Nello scritto del 1958, Cristianesimo e comunismo, Spirito vide nel socialismo e nel comunismo addirittura i veri continuatori della ‘rivoluzione cristiana’ in virtù della rivendicazione della dignità del lavoro nelle sue forme più umili e per la definitiva negazione della proprietà privata, caposaldo della rivoluzione borghese. Il comunismo avrebbe realizzato ciò non con la lotta di partito e con le sue rivendicazioni – che Spirito giudicava  mere continuazioni del mondo borghese – ma trasformandosi in ‘nuova metafisica’ e ‘nuova religione’ fondata sul rifiuto dello stesso principio individualistico. Un ideale compiuto che avrebbe consegnato alle coscienze un programma che “nasce dalla collaborazione di tutti, come ragione d’essere di una vita comune” in cui la volontà di ognuno si risolve nella volontà sociale. “Nessuno appartiene più a se stesso perché ognuno diventa soltanto parte di un organismo e dell’organismo acquista il carattere superiore, la forza, la coscienza e la finalità”. Ora, agli inizi del XXI secolo, dove il principio individualistico e il privilegio borghese sembrano avere trionfato ovunque, al di là del nome che ognuno di noi attribuisce alla ‘nuova fede’ di cui parla Spirito, non si può tralasciare di realizzarla dentro di noi, affinché la civiltà europea possa ancora guardare al futuro con un briciolo di speranza.

Rodolfo Sideri

mercredi, 06 avril 2011

Lo scenario libico di Obama per la Libia

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Lo scenario libico di Obama per la Libia

di Nil Nikandrov

Fonte: Come Don Chisciotte [scheda fonte]

   
    
La visita di Barack Obama in America Latina (Brasile, Cile e El Salvador) dal 19 al 23 Marzo prosegue tra gli attuali eventi profondamente drammatici in Libia e nei suoi dintorni.
L’azione militare della coalizione Occidentale nei confronti del “Regime sanguinario di Gheddafi” sta diventando sempre più violenta. L’avvio di un intervento di terra è solo questione di tempo.

L’ostentato ordine di Obama di attaccare la Libia, impartito al 42esimo minuto della conversazione riservata con la sua controparte brasiliana Dilma Rousseff ha dimostrato un episodio ancor più scioccante del soggiorno del leader statunitense in America Latina. Un consigliere Statunitense del Presidente si è avvicinato ad Obama a dispetto di tutti gli standards di protocollo diplomatici e gli ha consegnato un foglio. Il Presidente degli Stati Uniti gli ha dato uno sguardo, ha preso un telefono cellulare dal suo consigliere e ha detto con voce ferma “Procedete!”. Il Presidente Afro – Americano ovviamente ha cercato di impressionare Dilma con la sua risoluzione, e di dimostrarle che ci sono momenti in cui la diplomazia e le buone maniere vengono messe da parte.



L ’Ambasciatore brasiliano alle Nazioni Unite si è astenuto durante il Consiglio di Sicurezza dal votare la risoluzione sulla Libia. Dilma Rousseff sembra essere più flessibile riguardo le relazioni bilaterali rispetto al suo predecessore Luiz Inacio Lula da Silva. Lula disse che era interessato a sviluppare relazioni con gli Stati Uniti, ma spesso sosterrebbe Chavez. Questa volta, anche Lula – l’unico dei quattro precedenti Presidenti brasiliani ad esser stati invitati a partecipare alla cena ufficiale con Obama, ha declinato l’invito. Ma Dilma agisce diversamente. Lei  ha parlato chiaro, vorrebbe la rimozione delle barriere doganali per i beni Brasiliani, come ad esempio l’etanolo, carne di maiale, succo d’arancia, cotone e acciaio. Il Brasile necessita anche dell’appoggio degli Stati Uniti per ottenere lo status di membro permanente nel Consiglio di Sicurezza ONU. Questi sono chiaramente interessi di vasta portata, ma il Brasile è disponibile ad un negoziato, annoverando anche un cambiamento di posizione riguardo l’accordo del così detto “Problema Chavez”.

I report televisivi sugli sviluppi in Libia sono trasmessi in America Latina seguendo programmi specifici negli studi televisivi statunitensi. Le incursioni aeree della NATO contro le strutture militari, gli attacchi con missili da crociera sul governo di Jamahirya e sulle sedi del partito, la caccia a Gheddafi attraverso l’uso di droni – tutto ciò si alterna con reports sulla visita di Obama in Sud America. I Presidenti ospiti e padroni di casa a Brasilia, Santiago del Cile e San Salvador, hanno stretto mani, pronunciato discorsi cordiali, si sono profusi in inchini, per dimostrare che l’America Latina è presumibilmente disinteressata (non poi del tutto) a ciò che sta accadendo sull’altro lato del globo, - in Libia.

I Presidenti della cricca di Washington in America Latina approvano puntualmente l’uso della forza da parte degli Stati Uniti contro coloro i quali “non sono con noi”. I Presidenti di Messico, Honduras, Costa Rica, Panama, Colombia, Perù e Paraguay, hanno espresso il loro sostegno all’attuale azione militare contro la Libia. I Presidenti di El Salvador e Cile, Mauricio Funes e Sebastian Pinera sono partners affidabili di Washington, sempre pronti ad allinearsi con Barack Obama.

Tuttavia i paesi dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe, - Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Ecuador e, chiaramente Cuba, si rendono conto fin troppo bene della ragione di fondo degli eventi in Libia. E la ragione è il petrolio. Fidel Castro predisse che la guerra era inevitabile molto tempo prima che venisse lanciata l’operazione “Alba dell’Odissea”. Le risoluzioni 1970 e 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU  sono una dimostrazione di disprezzo nei confronti di qualsiasi misura di legge internazionale. Coloro i quali non erano d’accordo venivano “polverizzati”, come presunto da Hugo Chavez. Stiamo assistendo alla progressiva attuazione del piano della globalizzazione per creare un “caos controllato” con il pretesto di interferire nelle questioni interne di quei paesi che hanno una “nota negativa”. L’obiettivo finale del progetto è l’annichilimento di coloro che si oppongono allo stile di globalizzazione americano. Ora è la Libia ad essere sotto attacco, ma il prossimo della lista è l’Iran. Questa sembra essere un’operazione sistematica di ripulitura contro quei paesi che collaborarono con la Russia, per garantire un accerchiamento strategico di quest’ultima.

Recentemente Hugo Chavez ha fatto diverse dichiarazioni circa gli eventi in Libia. Dice di esser sicuro che la coalizione Occidentale abbia attaccato il paese Arabo per impossessarsi delle sue più ricche riserve petrolifere e per distruggere fisicamente Gheddafi. “Sfortunatamente, ha detto Chavez, le Nazioni Unite sostengono la guerra nonostante ciò sia in conflitto con i principi fondamentali dell’Organizzazione”. Rivolgendosi ai latino – americani durante la sua trasmissione “Ciao, Presidente!” ha risposto a questa domanda “Chi ha dato a questi paesi , - Stati Uniti, Francia ecc. Il diritto di bombardare la Libia? Sono stati già segnalati civili uccisi durante le incursioni aeree. Questo è ovvio essendo la Libia bombardata dal mare, con 300 o 400 bombe e proiettili che colpiscono case e ospedali. Questa è un’operazione militare crudele che non riuscirà a distinguere tra innocenti e colpevoli. Chiediamo che l’attacco venga interrotto!”.

Le dichiarazioni di Hugo Chavez sono state condivise dalle sue controparti Boliviana, Ecuadoriana e Nicaraguense. Daniel Ortega ha esortato i paesi della coalizione Occidentale “a tornare in loro e dimostrare comprensione verso la proposta di Gheddafi di avviare un dialogo”. Per Ortega è ovvio, come anche per Chavez, che l’obiettivo principale degli aggressori è quello di impossessarsi delle ricchezze petrolio e gas della Libia: “Gli aggressori sono in gara tra loro per chi dovrà essere il primo ad occupare la Libia”. Il Presidente della Bolivia, Evo Morales, ha denunciato l’azione militare occidentale e ha garantito che tutti i colpevoli stranieri della morte di cittadini Libici  “verrebbero identificati e processati”. Rivolgendosi ai giornalisti, Morales ha detto “Ancora non sappiamo la completa verità riguardo ciò che sta realmente accadendo in Libia, perciò i mass media dovrebbero continuamente battersi per ottenere informazioni imparziali”.

Il sentimento anti-americano sta crescendo rapidamente alla luce degli eventi in Libia. Solo due o tre settimane fa, l’Ambasciatore Statunitente in Brasile, Thomas Shannon ha chiesto di usare Piazza Cinelandia, nella centrale Rio De Janeiro, per il discorso pubblico di Barack Obama a 30 000 Brasiliani. Il Presidente degli Stati Uniti cerca di imitare, anche se in sua assenza, Hugo Chavez, per verificare se potesse risultare altrettanto popolare in America Latina. Ma le aspettative statunitensi hanno dimostrato avere vita breve, e l’Ambasciata ha dovuto cancellare il discorso previsto. E’ diventato difficile garantire la sicurezza personale di Obama. I Brasiliani si sono indignati così tanto per il bombardamento della Libia che i responsabili della sicurezza del leader Americano avevano tutte le ragioni di aspettarsi problemi. Il breve slogan “Obama, vai a casa!” è diventato piuttosto popolare in Brasile. Nonostante ciò Barack Obama ha parlato al Teatro Municipale di Rio ad un pubblico decisamente più ristretto di 2000 ospiti selezionati, di cui ufficiali di sicurezza degli Stati Uniti, diplomatici  e ufficiali di polizia costituivano più della metà.

Le proteste contro gli attacchi anti –libici sono state riportate da tutte le nazioni Latino- Americane. 42 partiti del centrosinistra si sono riuniti in un seminario internazionale in Messico per adottare una dichiarazione sulla Libia. Alcuni di coloro che hanno firmato sono membri di partiti al potere, come ad esempio il Movimento per il Socialismo della Bolivia, il Fronte Ampio dell’Uruguay, il Partito dei Lavoratori del Brasile, il fronte Farabundo Martì per la Liberazione Nazionale di El Salvador ecc. Una manifestazione è stata organizzata a Santiago del Cile sotto lo slogan “Per la Pace, contro la Guerra”. Ulteriori proteste si preparano in Cile per denunciare la visita “dell’aggressore Obama”. La sicurezza è stata rafforzata nelle ambasciate degli Stati Uniti nelle nazioni del Centro e Sud America. Gli ufficiali statunitensi temono rappresaglie dai sostenitori radicali di Gheddafi. Varie generazioni di rivoluzionari Latino – Americani sono state educate sulla base del principale lavoro teoretico di Gheddafi- il suo Libro Verde.

Tra questi rivoluzionari c’è William Izarra del Venezuela un cospiratore ufficiale in pensione che ha viaggiato in Libia molto tempo prima che il tenente colonnello Hugo Chavez emerse sulla scena politica del Venezuela. Veterano dell’esercito, Izarra è ora responsabile del Centro per la formazione ideologica del Partito Socialista del Venezuela. Un “Communiquè” è stato divulgato a nome del Centro, affermando questo, in particolare: “Stiamo dando l’allarme a causa dell’attuazione dei piani di invasione militare della Libia  da parte degli Stati Uniti e della NATO. Devastante al punto da poter avere delle conseguenze sulla gente della Libia e creare un traumatizzante stereotipo della percezione di una guerra di “quarta generazione” in Africa, Asia e America Latina.

Il “Communiquè” incita affinché vengano aumentati gli sforzi della propaganda a supporto della Libia, e per condannare “l’asse” degli alleati Stati Uniti – Canada – Unione Europea- Lega Araba. Izarra non ha alcun dubbio che l’attacco nei confronti della Libia accrescerà i processi di destabilizzazione in Venezuela e provocherà movimenti attivi degli oppositori di Chavez nel 2011 e 2012, nella corsa alle elezioni presidenziali. Il piano sicuramente conterà su azioni concordate da parte di forze esterne (Stati Uniti) e interne (l’opposizione, “La Quinta Colonna”, “Chavismo senza Chavez”) che cercano di impedire che il leader venezuelano possa concorrere alle future elezioni presidenziali.


Fonte:  www.strategic-culture.org
Link: http://www.strategic-culture.org/news/2011/03/22/obama-libyan-scenario-for-venezuela.html


Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MADDALENA IESUE’


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

SOS Terre Briarde

S O S TERRE BRIARDE  

ALERTE ECOLOGIQUE MAJEURE     
                                      
Chaque jour on mesure davantage l'étendue de la catastrophe qui s'abat sur
notre pays : La volonté de nous détruire va au-delà de la substitution de population, de la perte de nos
valeurs, de notre identité, de nos racines.
Il faut désormais qu'ils détruisent notre environnement, notre faune et notre flore, notre sol et notre  sous-sol en prétextant la croissance des besoins d'énergie et l'indépendance énergétique 
de notre pays!"
 

image002.jpgEn France, on a des idées et, en plus, on a du schiste bitumineux  
Voici le nouveau slogan qui remplace maintenant celui des années soixante-dix : "En France, on n’a pas de pétrole mais on a des idées !".
Comme aux Etats-Unis et au Canada où la société HALLIBURTON exploite le gaz et l’huile de schiste    par le procédé de fracturation de la roche  à grande profondeur (2000 ・ 3000 mètres). Cette technique a des conséquences effroyables sur l’environnement, la faune et la flore ainsi que sur la santé humaine. Les habitants des régions concernées aux USA et au Canada sont sinistrés et leur vie quotidienne est devenue un enfer. Voir à ce sujet les vidéos sur internet du reportage  "GASLAND" 

Pour ce qui est de la France, plusieurs projets d’exploitation du sous-sol en vue d’en extraire l’huile de schiste en explosant la roche par injection d’eau en quantité énorme additionnée de produits chimiques extrêmement nocifs sont en cours et ont reçu, dans le plus grand secret, les autorisations nécessaires de la part du gouvernement et notamment de l’ex-ministre de l’Ecologie, Jean-Louis Borloo en 2009… 
Les bénéficiaires sont les sociétés américaines TOREADOR (dont le principal dirigeant, Julien Balkany,  est très proche du pouvoir) et HESS et la société canadienne VERMILION. 
Le 16 avril devraient normalement commencer les premiers forages "exploratoires" à proximité de la commune de Doue en Seine & Marne mais ausi en différentes place de la Seine-et-Marne
L'est de l’Aisne, le sud de l'Oise ,l’ouest de la Marne et toute la Seine & Marne sont concernés. La Terre Briarde est menacée d’un désastre écologique et environnemental sans précédent en France:  ,  destruction de la faune et de la flore, dessication des terres agricoles, maladies puis mort des animaux domestiques, de ferme et d’élevage, terrains transformés en paysage lunaire  eau polluèe, impropre à la consommation , pollution extrême des nappes phrèatiques et épuisement de la principale réserve d’eau potable de la région parisienne. « La nappe de Champigny » qui alimente la rivière souterraine 
"la Dhuys"
 Habitants de Seine & Marne et du reste de la Brie, tout ceux et celles qui restent attachés à la terre de leurs ancêtres , mobilisez-vous, renseignez-vous, rassemblez-vous, car il y va de votre santé,  et de  notre patrimoine  
 
Ecoutez celles et ceux qui la dénoncent car vous ne pourrez pas dire que vous ne saviez pas !

n'oubliez pas de signer la pétition

 

 



INFORMATIONS            Association " Terre Briarde"   e-mail : demeter77@hotmail.fr                                        
Merci de faire circuler ce communiqué et de le reproduire si possible pour distribution.

Slavi Binev: Renforçons le dialogue avec l'Amérique latine!

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Renforçons le dialogue avec l’Amérique latine !

 

Entretien avec le député européen Slavi Binev (« Ataka »/Bulgarie) sur les relations entre l’Europe et l’Amérique latine

 

Croissance potentielle – Risques et opportunités pour l’Europe

 

Q. : Monsieur Binev, comme souhaiteriez-vous nous décrire les relations entre l’UE et l’Amérique latine ?

 

SB : La présidence espagnole de l’UE a promu les relations entre l’Europe et l’Amérique latine pendant la première moitié de l’année 2010. De cette volonté de resserrer les liens entre les deux continents ont résulté 1) un accord de partenariat entre l’UE et l’Amérique centrale et 2) une volonté d’entreprendre des négociations entre l’UE et le Mercosur. On a, à l’époque, esquissé également l’objectif final : atteindre un partenariat stratégique bi-régional dans les domaines politique, économique, social et culturel, afin qu’un développement de longue haleine puisse s’amorcer entre les deux régions du globe. Pourtant, malgré ces déclarations de principe, seuls deux pays, semble-t-il, accordent la priorité à ce projet : l’Espagne et le Portugal parce qu’ils ont des liens historiques avec les pays d’Amérique latine et qu’entre protagonistes européens et protagonistes latino-américains, il n’y a aucune barrière linguistique. Espagnols et Portugais ont donc une longueur d’avance.

 

Q. : On a annoncé un partenariat stratégique à l’occasion de plusieurs sommets. Mais qu’en est-il dans la pratique ? Intensifie-t-on réellement les rapports entre les deux continents ?

 

SB : Je pense que ce sont les latino-Américains les principaux coupables dans l’ensemble des négligences constatées. Au cours de ces dernières années, on a développé des instruments spéciaux pour asseoir une coopération optimale, on a tenu sommet sur sommet et on a donné vie à  « EuroLat », une assemblée parlementaire euro-sudaméricaine. L’UE demeure, comme auparavant, le principal investisseur dans la région, le second partenaire commercial et le plus important donateur en matière d’aide au développement. Donc, en dépit de tous les documents signés, l’Europe apparaît davantage comme un « sponsor » que comme un véritable partenaire en Amérique latine.

 

Lors de chaque sommet auquel j’ai participé en tant que membre parlementaire d’EuroLat, j’ai entendu des discours, exhortant l’Europe à aider et à investir. Mais pendant tout ce temps, on n’a rien fait pour combattre la criminalité dans des pays comme le Venezuela, le Salvador, le Mexique ou le Brésil. Dans certaines grandes villes, des quartiers entiers dans lesquels ont ne peut entrer sans être accompagné de sa petite armée personnelle ! C’est là que le bât blesse : on fait appel à des investisseurs et à des investissements mais on ne garantit pas la sécurité des investisseurs.

 

Q. : Dans quels domaines l’Europe pourrait-elle profiter d’un renforcement des relations entre l’UE et l’Amérique latine ?

 

SB : Les flux migratoires entre l’Amérique latine et l’Europe sont en pleine croissance et cette situation appelle un dialogue, qui devra braquer les projecteurs sur ce problème particulier (ainsi que sur d’autres problèmes). Le dialogue doit aboutir à un consensus, de façon à ce que l’on donne la priorité à une politique migratoire préventive, garantissant des canaux légaux pour une immigration légale, afin que l’on puisse mettre sur pied une politique équilibrée et appropriée, réglementant les flux migratoires.

 

Q. : Il y a deux ou trois décennies, on considérait partout dans le monde que l’Amérique latine était un « continent perdu ». Pour quelles raisons ce continent a-t-il, au contraire, amorcé un processus de développement positif, en est-il arrivé à une belle croissance ?

 

SB : Rien que sur le plan géographique, ce continent offre des potentialités uniques : où, dans le monde, pouvez-vous donc aller skier en été ? Et qu’en est-il de l’héritage culturel, avec des sites comme Cuzco, Machu Pichu, Inga Pirka, etc. ? Tous ces sites éveillent l’idée de « marchés » attrayants pour de nouvelles marchandises. C’est parce qu’il se trouve éloigné des grands centres d’effervescence du globe que le continent latino-américain a été défini comme « continent perdu » ; cependant, la globalisation et le besoin de nouveaux débouchés ont attiré l’attention de pays montants comme la Chine.

 

Q. : Des pays comme le Venezuela, et surtout le Brésil, ont développé, depuis un certain nombre d’années, une conscience autonome en matière de politique étrangère. Ces pays auront-ils la possibilité, dans un futur proche, d’influencer l’ordre du monde, de le marquer de leur sceau ?

 

SB : Pour le Venezuela, je ne peux rien dire pour le moment mais pour le Brésil, je puis constater d’ores et déjà qu’il fait partie désormais des grandes puissances du monde. Au cours de ces dernières années, les experts en matière de relations internationales ont prévu que les pays du groupe « BRIC » (Brésil, Russie, Inde et Chine) allaient graduellement faire émerger un monde multipolaire. L’économie brésilienne poursuivra indubitablement sa croissance et, malgré une petite récession due à la crise économique mondiale de 2008-2009, a atteint à nouveau une croissance de 7,5%. En observant cette croissance économique, les instances gouvernementales brésiliennes ont pris de plus en plus nettement conscience qu’elles devaient moderniser à grande échelle les forces armées du pays, si celui-ci entendait rendre bien crédibles ses revendications dans le domaine délicat des approvisionnements en pétrole et en gaz naturel, dont les gisements se trouvent tous en dehors des eaux territoriales. Le Brésil milite également pour obtenir un siège permanent au Conseil de Sécurité des Nations Unies.

 

Q. : L’influence des Etats-Unis est-elle encore forte dans la région ?

 

SB : L’influence nord-américaine est en déclin en Amérique latine. Mais les Etats-Unis y suscitent encore crainte et respect. Le problème des politiques intérieures des pays latino-américains, les vieux contentieux historiques toujours vivaces entre l’Amérique du Sud et les Etats-Unis, sont autant de questions épineuses et de véritables barrières, dont la présence empêche désormais Washington de retrouver ses chances dans la région. Tandis que les Etats-Unis, dans des questions importantes comme l’énergie, le commerce et l’immigration, se sont enfoncés dans une impasse, des pays comme la Chine et la Russie peuvent faire valoir leurs intérêts sans être empêtrés par un ballast historique incapacitant, n’ayant jamais cherché à influencer par la coercition la politique intérieure des Etats sud-américains. Quoi qu’il en soit, il me paraît légitime de soulever une question : toute l’attention que nous pourrions porter à l’Amérique latine portera-t-elle des fruits tant que les Etats-Unis resteront tapis à l’arrière-plan ?

 

(Entretien paru dans « zur Zeit », Vienne, n°13/2011 ; propos recueillis par Bernard Tomaschitz ; http://www.zurzeit.at/ ).

Carmina Burana - Ave Nobilis - Carl Orff

Carmina Burana - Ave Nobilis

Carl Orff

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Little Caesar - Gabriele D'Annunzio the Abruzzese

Little Caesar

Gabriele D’Annunzio the Abruzzese
 
 

Self-proclaimed “Superman” Gabriele D’Annunzio (Photo by New York Scugnizzo)


“In men of the highest character and noblest genius there is to be found an insatiable desire for honor, command, power and glory.”

– Cicero: De Oficiis, I, 78 B.C.


The end of World War I witnessed the breakup of three of the great royal dynasties of Europe. The Hohenzollern Empire of Germany, the Hapsburg Empire of Austria-Hungary and the Romanov Empire of Russia all went the way of the Imperium Romanum before them…into the misty and romanticized pages of history. In their places were created various new geopolitical entities ranging from ethno-states like Poland to multi-national states like Czechoslovakia. With some notable exceptions (like Yugoslavia) the new governments were republics.


Centuries of authoritarian, monarchial rule plus the exorbitant costs of the war left the new crop of leaders ill-equipped to deal with the problems afflicting their respective societies. Soon a wave of demagogues, strongmen and tinpot dictators would enter the picture, attempting to carve out a legacy for themselves in the ruins of postwar Europe.


In Hungary the Bolshevik revolutionary Béla Kun (née Cohn Béla) established a brutal, short-lived Communist regime (1919) before being overthrown in a disastrous war with Romania. He fled to the nascent Soviet Union where he lived, and continued to brutalize, until he was executed under Stalin’s orders in 1938 “…because he knew too much.” Kun’s brief reign was ironically instrumental in subsequently moving Hungarian politics far to the Right.


In one of the more laughable episodes of this period, on March 13th, 1920 a group of 5,000 Freikorps (German paramilitary volunteers) led by a man named Hermann Ehrhardt seized control of the city of Berlin, drove out the Weimar government, and installed a nondescript fellow by the name of Wolfgang Kapp as figurehead ‘Chancellor’. A group of rightists led by one General Walther von Luëttwitz was the real power behind the throne.


Kapp, a bespectacled bureaucrat and journalist, lacked the charisma to make a convincing frontman. Most of the other Freikorps and military commanders as well as conservative politicians refused to have anything to do with him or his “government”. Four days later the whole scheme fell apart when the Weimar Cabinet called for a general strike and Kapp fled to Sweden. The schlemiel died of cancer two years later while in German custody in Leipzig.


The only happening during the so-called “Kapp Putsch” worth noting was the effect a singular, harsh incident associated with it (the shooting of a rambunctious, small boy by several Freikorps troops) would have on an eyewitness: a young Austrian veteran of the German Army by the name of Adolf Hitler. Several years later in his book Mein Kampf he would remark it was his first lesson in the use of force to rule the masses.


While its monarchy survived the war, Italy was not immune to the intrigues of demagogues. One, in fact, would eventually seize power in 1922. Four years later he would proclaim himself dictator while keeping the King around as a figurehead. His name was Benito Mussolini. As Il Duce he would march Italy nearly to its ruin in World War II. Before all this happened, however, he would have to contend with another forceful personality who very nearly ‘stole his thunder’. Though Mussolini won the contest, he was nonetheless profoundly influenced by this most remarkable individual whose biography is studied to this day by those fascinated with the lives of “those who dare”.


Place of birth in Pescara

(Courtesy of Wikimedia Commons)

Gabriele D’Annunzio was born on March 12th, 1863 in the town of Pescara, Abruzzi. Just a couple of years earlier the region had been part of the Kingdom of the Two Sicilies before its conquest by Giuseppe Garibaldi. Some controversy apparently exists among historians as to D’Annunzio’s birth name. His father, Francesco Paolo Rapagnetta, had been adopted at the age of 13 by a childless uncle named Antonio D’Annunzio. He was raised with the surname Rapagnetta-D’Annunzio. In 1858 he married Luisa De Benedictis, by whom he had five children – three girls and two boys. According to Professor John Woodhouse (Fiat-Serena Prof. of Italian Studies, Univ. of Oxford), at the time of Gabriele’s baptism Rapagnetta had been dropped and the elder boy was officially registered as Gabriele D’Annunzio. Later in his life he would take to writing his surname as “d’Annunzio” to give it a more noble air.


Francesco Paolo had inherited half of his uncle’s fortune and as a result Gabriele and his siblings grew up fairly well off. His father, however, was a notorious drinker and womanizer who kept a string of mistresses. This caused no small amount of ill feeling between father and son. The level of dysfunctional feelings in the D’Annunzio family household was revealed when Gabriele refused to travel a short distance to be with his father before he died. After his father’s death, Gabriele realized the family had been saddled with heavy debts, forcing him to sell the D’Annunzio country home.


Gabriele D’Annunzio’s talents as a writer, as well as his disregard for personal danger, were recognized early in his life. An oft-repeated tale goes that a local fisherman had once given the boisterous lad a mussel to eat. In trying to pry it open he accidentally stabbed himself in the left thumb, bleeding profusely. Instead of running home to his mother for aid, he first ate the mollusk before binding the wound himself.


Originally tutored at home, at the age of 11 his father sent him to a prestigious boarding school, the Collegio Cicognini, in Prato, Tuscany. It must have made quite an impression on young Gabriele as years later he would describe this place as “…a plantation made in the images of the second Circle [of Dante’s Inferno], reducing the most vivacious of human saplings to ‘dried twigs with poison’. Oddly, he would later send both of his sons there when they were old enough.


D’Annunzio’s first brush with fame came in 1879 when he wrote and later published a small collection of 30 poems he entitled Primo vere. The poetry was written in the neo-Latin style of the great Tuscan poet (and future Nobel laureate) Giosuè Carducci. Against the rules of the Collegio Cicognini, he sent a complimentary copy of the book to Giuseppe Chiarini, one of Italy’s leading critics, who gave the book a mostly favorable review in the influential newspaper Il fanfulla della domenica.


Veiled bust of Eleonora Druse

(Photo by New York Scugnizzo)

It was also during his adolescent phase D’Annunzio discovered his fascination with, and his power over, women. He was known to have had at least several passionate affairs with females while still a teenager. Given his physique, this was certainly strange, for Gabriele D’Annunzio stood less than 5’6” tall, was slightly built, and had teeth that would make an Englishman envious! Yet despite this and the fact he would bald early in life, he was never lacking for female company.


In 1881 he entered l’Universita di Roma La Sapienza where he aggressively pursued a literary career by joining various literary groups and writing articles for a number of local newspapers. A year later he published his second volume of poetry, Canto novo, which illustrated his break with the austerity of Carducci’s style by its sensuality and exultation of nature. Some of the 63 poems in the book dealt with the poet’s love for the landscape of his native Abruzzi.


Shortly after this he published Terra Vergine (It: Virgin Land), a collection of short stories dealing with the hardships of peasant life in his native Abruzzi. It was inspired by the pen of noted Sicilian writer Giovanni Verga, who achieved fame by his tales of the grinding poverty in his own native Sicily. For this some accused D’Annunzio of copying Verga’s ideas and plots. Most, though, recognized the originality of D’Annunzio’s work, especially his penchant for the shocking and grotesque. This contrasted with Verga’s use of pathos to arouse sympathy in the reader. Their writings were similar only in the subject matter.


When circumstances forced him to temporarily ‘retire’ from his journalistic activities, he devoted himself to writing novels. His first, Il piacere (1889), was later translated into English as The Child of Pleasure. His next novel was Giovanni Episcopo (1891). It was his third novel, L’innocente (It: The Intruder), published in 1892 and later translated into French, that first brought him attention and acclaim from foreign critics. His pen worked feverishly after this, creating novels and books of poetry. Of the former, his novel Il fuoco (1900) is considered by many literary critics to be the most lavish glorification of any city (in this case, Venice) ever written. Of the latter, his book Il Poema Paradisiaco (1893) is considered among the finest examples of D’Annunzio’s poetry.


His entrance into upper-class Roman society came in the form of a young, attractive woman named Maria Hardouin di Gallese. He seduced and impregnated her in April of1893, marrying her four months later under a cloud of scandal. Maria was the daughter of a noble house, and her father, a duke, strongly disapproved of D’Annunzio as a son-in-law. He was even conspicuously absent from their wedding. Though initially smitten with his young bride, Gabriele would later develop the disinterest that characterized his relationships with women throughout his life. After bringing three sons into the world, D’Annunzio and his wife divorced in 1891.


It would seem only natural a man with his surpassing ambitions would develop an interest in politics, and in that regard Gabriele D’Annunzio would hardly defy convention. Taking advantage of a vacancy in the Italian Parliament, D’Annunzio campaigned for a seat representing Ortona a Mare in his native Abruzzi. It was at this time D’Annunzio the dramatist first made use of giving speeches from balconies to the masses, one of many innovations of his that his fascist protégé Benito Mussolini would later emulate.


By 1897 he was elected to the Chamber of Deputies where he sat for three years as an independent. His devil-may-care attitude, however, caused him to amass a sizable debt. He was eventually forced to flee Italy for France to escape his creditors. During his self-imposed exile he did not grow lax. Among his works he wrote the Italian libretto for Pietro Mascagni’s powerful but inordinately long opera Parasina. In 1908 he took a flight with aviation pioneer Wilbur Wright, which piqued D’Annunzio’s interest in flying. He proved to be an able aviator.


D'Annunzio's airplane navigator scroll (Photo by New York Scugnizzo)


World War I saw his return to Italy in the spring of 1915 where he campaigned extensively for that country’s entry into the war on the side of the Triple Entente (UK, France and Russia). Unbeknownst to him was the fact Italy had by April 26th, 1915 signed a treaty (known later as the Treaty of London) pledging to enter the war on the side of the entente powers. After Italy entered the war on May 23rd, 1915, he volunteered his services as a fighter pilot, taking part in many battles. The publicity he received fueled his already tremendous ego. On January 16th, 1916 while trying to fly over the city of Trieste, his flying boat was attacked by Austrian fighter aircraft. Forced to make an emergency landing, he sustained an injury to the right side of his head which left him permanently blind in his right eye.


In spite of this serious injury, he continued to fly missions into Austrian territory. In August of 1917 he led no less than three daring bombing raids on the Austrian port city of Pola (now Pula, Croatia). These raids became famous in part because of D’Annunzio’s insistence his Italian airmen celebrate the success of each raid by yelling out the ancient Greco-Roman battle cry of “Eia, eia, eia, alala!” instead of the more traditional Germanic “Ip, ip, urrah!” which he considered uncouth and barbaric.


D'Annunzio's model SVA (Photo by New York Scugnizzo)


On October 24th, 1917 Italy suffered its greatest defeat of the war in the disaster at Caporetto. On February 10-11th, 1918 he took part in a daring, if militarily unimportant raid, into Austrian territory now known as the Bakar Mockery. Though it achieved no physical military objective, it uplifted Italian morale which had suffered as a result of Caporetto while delivering a psychological blow to the Austrians.


D’Annunzio’s greatest feat during the war came on August 9th, 1918 when leading the 87th fighter squadron “La Serenissima” he dropped a total of 400,000 propaganda leaflets (50,000 of them painted in the colors of the Italian flag) over the city of Vienna, capital of the Austro-Hungarian Empire. This daring mission is immortalized in Italy as “Il Volo su Vienna” (It: The Flight over Vienna).


At war’s end the internationally acclaimed “fighter-poet” returned to Italy, his ultra-nationalist and irredentist feelings having been hardened by years of battle. With the collapse of the Hapsburg Empire of Austria-Hungary, he dreamed of Italy expanding into the Balkans by annexing lands historically inhabited by Italian-speaking peoples. It was a dream shared by many both in Italy and on the other side of the Adriatic Sea. What would follow would catapult Gabriele D’Annunzio to the pinnacle of the fame and controversy that characterized his life.


After the war Italian armies occupied considerable territory in the Trentino, South Tyrol, Venezia Giulia, the Istrian Peninsula, Dalmatia and most of what is now Albania. In fact, these were most of the lands promised them four years earlier by the entente powers.


What threw a monkey wrench in the works was a man named Woodrow Wilson, President of the United States. The U.S. had been a late entry into the war, and in the minds of American diplomats they didn’t have to abide by the terms of the Treaty of London. Since the administration of President Teddy Roosevelt, America’s WASP elites had turned their previous continent-specific belief in “Manifest Destiny” to a global arena. At the negotiations pursuant to the infamous Treaty of Versailles, Wilson let it be known he believed every recognizable ethnos had the right to self-determination (translation: America had vested business and political interests in the creation of the pseudo-nation known as Yugoslavia).


As documented by Prof. Woodhouse, Wilson also inherited that wonderful Anglo-American tradition known as anti-Italian bigotry. This tradition had revealed itself previously on numerous occasions, most notably on March 14th, 1891 when a total of 17 Sicilian-Americans were murdered by a lynch mob comprised of a good chunk of the adult male population of the city of New Orleans, Louisiana!


During the negotiations in Paris on April 23rd, 1919 the head of the American delegation went so far as to publish a column in the French newspaper Le Temps condemning what he called “Italian imperialism”. He arrogantly claimed Italian negotiators were acting “contrary to Italian public opinion” (without stating exactly how he knew this to be true).


The crux of all this was the city of Fiume (now Rijeka, Croatia). A number of powers (including America’s ‘good friend’ the UK) desired control of this strategically important area. Wilson was adamant Fiume be turned over to the nascent state of Yugoslavia to fulfill its right to ‘self-determination’. That the bulk of the citizenry was Italian-speaking and had already voted by a wide margin to become part of Italy was irrelevant.


D'Annunzio's Uniform

(Photo by New York Scugnizzo)

D’Annunzio the pan-Italian ultra-nationalist was furious with what he saw as American interference in what was basically an Italian affair. In a series of speeches he whipped up the Italian masses in preparation for his “grand adventure” in Fiume. His speeches denouncing the treachery of the Allies and the arrogance of Wilson were given wide coverage in the American press, which gratuitously heaped anti-Italian invectives on him in turn.


It also didn’t help the Italian government’s case that numerous private individuals besides D’Annunzio were taking matters into their own hands. Benito Mussolini by this time had organized his first bands of squadristi (the future Blackshirts) to battle his political opponents and pave the way for his eventual takeover of Italy. Giovanni Host-Venturi, a captain of the Arditi (elite Italian storm troopers during World War I) and a Major Giovanni Giuriati formed the Legione Fiumana (Fiume Legion) to take the port city by force, if necessary. American, British and French critics pointed to this as “proof” the Italians could not be depended upon to correctly administer the territories promised them.


On September 12th, 1919 at the head of a motley force of 2,500 irregulars, Gabriele D’Annunzio the “fighter-poet” invaded the city of Fiume. The inter-Allied force of British, American and French soldiers garrisoned there chose not to force a confrontation in order to avoid an international incident with their Italian allies. Instead they withdrew. From the governor’s balcony D’Annunzio addressed a throng of the citizenry and informed them of his plan to annex Fiume to Italy. Their wildly enthusiastic response affirmed in his mind the justness of his actions.


The Italian government, however, was not so enthusiastic. General Pietro Badoglio telegraphed the Italian soldiers who had followed D’Annunzio into Fiume that they were guilty of desertion. D’Annunzio reacted by publicly condemning the government for its weakness and indecision.


Similarly, he lashed out (though privately) at Mussolini, who up until this time was a partner in D’Annunzio’s endeavor. D’Annunzio had expected material support from Il Duce. Mussolini, however, was not yet strong enough to make such a move and chose to bide his time, instead. He even went so far as to edit and then publish the highly vituperative letter D’Annunzio had written, denouncing him, to make it seem the poet-hero was in fact supportive of him. Only in 1954 was the text of the original letter published. By then, though, D’Annunzio’s name had become so thoroughly linked with Fascism few were willing to stick their necks out to expose the true contempt he had early on developed for Mussolini and his movement.


Italian Prime Minister Francesco Saverio Nitti, realizing the weight of popular opinion was with D’Annunzio, offered him generous terms, among which was a general amnesty for him and his men. Fiume and surrounding territories would also be ultimately joined with Italy. All should have proceeded smoothly after this, but for the fact that it was now D’Annunzio himself who began to stonewall. A referendum by the people of Fiume seemed supportive of Nitti’s offer; D’Annunzio declared the vote null and void.


Apparently Gabriele D’Annunzio, like Gaius Julius Caesar 2,000 years before him, had become addicted to the powers he now wielded. The notoriety, and the legion of female admirers now at his disposal, didn’t hurt either. He rejected Nitti’s offer.


The government in Rome then demanded the plotters surrender and sent a naval task force to blockade Fiume. Things became embarrassing, however, when a number of Italian sailors, including basically the entire crew of the destroyer Espero, joined up with D’Annunzio’s forces. It has also been long alleged that a number of sympathetic rightists in Northern Italy’s industrial community clandestinely shipped supplies to D’Annunzio’s forces (in violation of the blockade) while claiming losses due to ‘piracy’.


Renato Brozzi Fiume medal

(Photo by New York Scugnizzo)

In retaliation for the blockade D’Annunzio declared Fiume an independent state, the Reggenza Italiana del Carnaro (It: Italian Regency of Carnaro) with himself as Duce. This was the closest he came to becoming the Renaissance despot he dreamed of being. As Duce he indulged his megalomania, giving balcony speeches, surrounding himself with military trappings, black-shirted followers and fostering a cult of personality.


With the help of Italian syndicalist Alceste De Ambris he wrote a constitution for Fiume, the Carta del Carnaro (It: Charter of Carnaro), which combined elements of syndicalist, corporatist and liberal republican ideals. The Charter stipulated that Fiume was a corporatist state, with nine corporations controlling various sectors of the economy and a tenth, created by D’Annunzio, representing the people he judged to be ‘superior’ (poets, prophets, heroes and “supermen”).


It must be mentioned D’Annunzio’s idea of the ‘superman’ was more in line with the philosophical vision of Nietzsche rather than the racial one of Hitler. It is also worth noting the Charter declared music to be the fundamental principle of the state. This document plus D’Annunzio’s antics in Fiume greatly interested Benito Mussolini and in no small way influenced the future course of Fascism in Italy. In fact, D’Annunzio has been described by his detractors as the “John the Baptist of Fascism”.


On November 12, 1920 Italy signed the Treaty of Rapallo with the newly-formed Kingdom of Serbs, Croats and Slovenes (renamed Yugoslavia in 1929) which, among other things, established Fiume as the independent “Free State of Fiume”, effectively ending D’Annunzio’s dictatorship. D’Annunzio responded by declaring war on Italy. By this time it was obvious his hold on the city was crumbling. On Christmas Eve Italian troops invaded Fiume in the face of stiff resistance from diehard loyalists. A naval artillery shell from the Andrea Doria through the window of his headquarters impressed upon him the wisdom of surrender.


In a way, though, he won. Fiume would be a de facto Italian possession by 1924. It would remain so until the end of World War II when the victorious Allies would pry it from Italian hands and give it to Yugoslavia (after the ‘ethnic cleansing’ of its Italian population).


Far from returning with his tail between his legs, D’Annunzio’s popularity with the Italian populace was actually enhanced by his Fiume adventure. In spite of claims by many of his Fascist sympathies, he consistently refused to have anything to do with the movement. He even ignored fascist entreaties to run in the elections on May 21, 1921.


Piazza G. D'Annunzio, Ravenna (Photo by New York Scugnizzo)


In spite of this, Mussolini regarded the erstwhile dictator as a rival for his future control of Italy. His fears were probably well-placed as by this time a number of high-ranking members of the Fascist Party of Italy, including Blackshirt leader Italo Balbo, seriously considered the idea of turning to D’Annunzio for leadership. Thus, on August 13th, 1922, when Gabriele D’Annunzio fell out of a window two days before a scheduled meeting with Mussolini and Italian PM Nitti, many believed (and still believe) he had ‘help’ from some of Il Duce’s thugs.


D’Annunzio’s injuries as a result of his fall incapacitated him, leaving him unable to witness Mussolini’s triumphal “March on Rome” (October 22-29, 1922). After this he withdrew from politics, though he still from time to time “stuck his two cents in” many of Mussolini’s decisions. In 1924, after Italy formally annexed Fiume, D’Annunzio was ennobled the Prince of Monte Nevoso by the King upon the ‘recommendation’ of Mussolini. He approved of the Italian invasion of Ethiopia in 1935. However, he was adamantly opposed (along with Italo Balbo) to Mussolini having anything to do with Adolf Hitler, whom he contemptuously referred to in a letter to Mussolini as a marrano (Sp: swine).


Mussolini, for his part, was content to leave D’Annunzio alone after his ascension to power, preferring instead to regularly dole out large sums of money to him to finance his various egocentric projects. The most notable of these was a museum to himself D’Annunzio began during his lifetime, dubbed Il Vittoriale degli Italiani (It: The Shrine of Italian Victories) and located at his estate in Gardone Riviera, Lombardia. It contains his mausoleum.


Gabriele D’Annunzio died on March 1st, 1938, presumably of a stroke. His death caused a period of national mourning throughout Italy and beyond. Even in countries now hostile to Italy his passing was noted with sorrow. No less than The Times of London published this eulogy of him under the heading “The Spirit of the Cinquecento”:


Poet, novelist and politician, dramatist and demagogue, aesthete and soldier, Gabriele D’Annunzio, Prince of Monte Nevoso, is dead. No poet of our time has led a fuller life than this Byron of the modern world […] showed himself a fighter of dauntless courage and a politician who swayed the fortunes of Europe […] bore his wounds with stoic fortitude.


After his death his memory would be all but buried with him for the next 50 years. Scholars in recent decades, however, have shown a renewed interest in his life and works.


It would be simple to dismiss him as a mere hedonist and fascist (as many have done), ignoring his many contributions to the fields of journalism, poetry and drama. In truth, he was no fascist at all, for Gabriele D’Annunzio served neither Mussolini nor Fascism. He served no one and nothing other than his own ego and surpassing ambitions. His inability to form a lasting relationship with women, plus his penchant for decadent living, were perhaps his greatest personal flaws, but history has a habit of forgiving earth-shakers their frailties. His love of nature and aesthetics, as well as his utter rejection of Hitler, put him on a much higher plane than the plebe who became ruler of Italy. Had he lived in an earlier time, today he might be numbered with other tragic heroes who tried and failed like Cola di Rienzo or even Pompey the Great. His legacy is most certainly clouded by the politics of our times. His biography remains a case study of one of the most fascinating and striking personalities of the early part of the 20th century.


Niccolò Graffio


Further reading:

• John Woodhouse: Gabriele D’Annunzio: Defiant Archangel, Clarendon Press, 1998

http://www.gabrieledannunzio.net/english/index.htm