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samedi, 20 octobre 2012

La Presse est devenue le premier pouvoir

La Presse est devenue le premier pouvoir - Soyons informés sur ceux qui nous informent !

La Presse est devenue le premier pouvoir


Soyons informés sur ceux qui nous informent !

Claude Chollet
 
En vous réveillant vous avez allumé la radio. Petit déjeunant, vous écoutez/regardez les informations. Vous avez poursuivi votre écoute en voiture ou dans les transports en commun grâce à votre téléphone. Vous avez parcouru un journal gratuit et acheté un quotidien. Dans la journée vous avez navigué sur plusieurs sites. Le soir vous avez regardé le journal télévisé. Si vous êtes addictif,  vous avez aussi écouté/vu les radios et les télévisions d’information en continu. 
 
 
Mais cette information qui la crée ? La sélectionne pour vous ? Qui la transforme ? Qui décide pour vous ce qui doit être mis en exergue ou ce qui doit être tu ? L’information n’est pas un objet neutre, elle est produite, gérée, orientée. Par qui ? Par les journalistes eux-mêmes bien sûr et par les médias qui les emploient. Les mêmes médias souvent contrôlés par des groupes industriels et financiers qui, s’ils prétendent à la neutralité, défendent leurs propres intérêts. 
Edmond Burke en 1787 a créé l’expression « quatrième pouvoir », reprise ensuite par Tocqueville en 1837. Les moyens de communication (tous les moyens) servent – ou devraient servir – de contre-feux aux trois pouvoirs incarnant l’Etat : exécutif, législatif et judiciaire.
 
Mais ce quatrième pouvoir est devenu le premier. 
 
Il influence les élections;  il commente et oriente les décisions du législatif comme de l’exécutif ; il juge aussi les juges. Il fait et défait les réputations, celle des groupes aussi bien que la vôtre.
Les journalistes sont ils indépendants ? Ils dépendent de leur hiérarchie dans les médias qui les font travailler. Ils dépendent encore plus de leur éducation, des cercles qu’ils fréquentent, de l’atmosphère culturelle et politique dans laquelle ils baignent, d’un certain esprit de caste, de ce que Bourdieu appelle l’habitus.
 
 
Tous les journalistes ne sont bien sûr pas logés à la même enseigne. A côté de quelques dizaines de vedettes et de quelques milliers de journalistes employés sur une longue durée, la réalité est de plus en plus celle des soutiers de l’information payés à  la pige, nouvelle classe intellectuelle précarisée.
 
Peut-on parler d’une crise du journalisme ? 

D’une certaine forme plutôt de fin de la liberté d’expression ? Les lois en vigueur défendent la liberté de la presse tout en l’encadrant. Serge Halimi dans son ouvrage « Les chiens de garde » est plus que critique vis à vis des médias et de leurs acteurs. Halimi reprend les thèses de Guy Debord sur la société moderne « Tout ce qui était directement vécu s’est éloigné dans la représentation ». Mais qui représente cette représentation ?
 
 
Si les journalistes doivent être protégés, le lecteur, l’auditeur, le spectateur ont aussi des droits. Le droit de savoir qui parle, qui écrit, par quel itinéraire. Michel Field a parfaitement le droit d’avoir été un militant trotskyste dans sa jeunesse. Mais ses auditeurs ont aussi le droit de connaître ses amitiés et ses arrières plans idéologiques. Sans oublier les commanditaires qui l’emploient. Exemple parallèle celui de Joseph Macé-Scarron passé du GRECE au statut d’icône du boboïsme  gay chez Marianne
 
C’est ce droit  de savoir de l’auditeur, du spectateur, du lecteur que l’Observatoire des Journalistes et de l’Information Médiatique(OJIM) veut promouvoir. Une meilleure connaissance du monde journalistique et des médias  favorise une véritable démocratie et une éthique civique. L’OJIM vise à devenir une véritable ONG de salubrité déontologique.
 
 
Sur le site de l’OJIM vous trouverez les portraits des vedettes du journalisme comme des analyses des médias et des réseaux. Tout ceci dans un esprit citoyen et participatif. Si le site n’a pas de forum, nous encourageons nos lecteurs à compléter nos rubriques. Ces ajouts seront pris en compte et intégrés dans la mesure où ils sont sourcés et exclus d’esprit polémique. L’OJIM vise à mieux informer les citoyens sur leur environnement médiatique quotidien. 
 
Pour aller plus loin :
Serge Halimi, Les nouveaux chiens de garde, nouvelle édition 2005, Editions Raisons d’Agir, voir aussi le remarquable film éponyme.
Guy Debord, la Société du Spectacle, Folio, thèse 1.

La democrazia dell'oppio

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La democrazia dell'oppio

di Giulietto Chiesa


Fonte: lavocedellevoci

   
   
Nei giorni scorsi ho ricevuto un'informazione molto interessante, direi perfino curiosa, se non fosse che e' anche tragica. Pare - ma e' sicuro - che Hamid Karzai, il presidente dell'Afghanistan, nelle ultime settimane abbia segretamente sottoposto i 34 governatori delle province afghane a una prova di scrittura e lettura, verificando che ben 14 tra essi sono analfabeti. Non mi e' stato detto chi fossero i 14 tapini, ma la curiosita' e' cresciuta. Perche' mai Karzai ha improvvisamente sentito il bisogno di conoscere il livello d'istruzione dei suoi governatori? Che gli e' successo (intendo dire, a Karzai)?

A me e' venuto il sospetto che lo abbia fatto per toglierne di mezzo alcuni. Segnatamente, magari, quelli che non desiderano che egli si ricandidi (non essendo Karzai ricandidabile, a termini di costituzione, per una terza volta). Non si sa mai. Metti caso che i governatori disposti ad appoggiare un cambio costituzionale siano in numero attualmente insufficiente: ecco che gli analfabeti, che forse non sono cosi' tanti, o cosi' pochi, potrebbero essere accompagnati alla porta e sostituiti.

Insomma la prova di alfabetismo potrebbe essere nient'altro che un trucchetto per cambiare la costituzione afghana - del resto molto giovane - e restare al potere ancora qualche annetto.

Niente stupore. Se fosse cosi' potremmo solo dire che Karzai sta imitando le gesta di George Bush, quello che lo ha portato al potere. Anche Bush il giovane trucco' le elezioni: sia quelle del 2000, sia quelle successive del 2004. Dunque, perche' non imitarlo?

Poi ho ricevuto un'altra informazione, anch'essa attendibile ma un tantino diversa. Ve la trasmetto. Karzai ha licenziato 10 governatori. Non so se fossero dieci analfabeti, ma pare che fossero "morosi". Il che e' peggio. Morosi nel senso che ciascuno di loro deve pagare, e ha pagato, circa 30.000 dollari al mese personalmente al presidente in carica. Fatti un po' di conti vorrebbe dire che Karzai incassava e incassa 12 milioni 240 mila dollari l'anno di tangenti. Pare che uno dei governatori cacciati via in malo modo, quello della provincia di Helmand, avesse lasciato ridurre la produzione di oppio nel suo territorio addirittura del 40%. E come paghi il boss se non vendi droga? Cosi' mi sono fermato a riflettere sul significato della presenza dei militari italiani in Afghanistan in questi anni. Eravamo la' per fare che cosa? Per rendere molto bene imbottito il conto americano di Karzai. Qui finisce un ragionamento e ne comincia un altro. Mi ricordo di Emma Bonino, che fu mandata dal Parlamento europeo a certificare la validita' delle elezioni afghane in un lontano momento tra il 2004 e il 2005 (non ricordo bene, ma non importa). Torno' tutta contenta e spiego' al colto e all'inclita che quelle elezioni erano un trionfo democratico. Tutto era andato benissimo, non c'erano stati brogli, le schede elettorali erano chiarissime e tutti erano andati disciplinatamente a votare pur essendo nella stragrande maggioranza analfabeti (ma questo la Emma nazionale non lo disse).

I parlamentari europei, per meta' distratti, per l'altra meta' del tutto incapaci di valutare e per l'altra meta' ancora assolutamente convinti della giustezza della linea americana che quelle elezioni aveva voluto, applaudirono.

Lo so che non ci possono essere tre meta' di una unita', ma in quel parlamento europeo dominato dalla destra e da un discreto livello di stupidita' maggioritaria vi garantisco che potevano esserci anche cinque meta' di una unita'.

Era l'epoca trionfale della guerra al terrore. Osama bin Laden era morto soltanto tre volte e, dunque, gliene restavano ancora sei, giusto fino al maggio del 2011, e dunque bisognava tenere duro sul tema dell'esportazione della democrazia. La signora Emma Bonino era stata mandata a celebrare l'esportazione democratica in Afghanistan e, dunque, la questione era chiusa prima ancora di venire aperta. E qui viene il terzo ragionamento. Ma che diavolo significa questa democrazia? Non ho ancora trovato nessuno che sia in grado di spiegarmi come si puo' considerare democrazia una situazione in cui la maggioranza della popolazione, che non ha mai messo una scheda in un'urna, viene spinta a fare gesti di cui non puo' nemmeno comprendere il significato. Per la semplice ragione che non sa leggere quella scheda.

KABUL, ITALIA

Poi mi sovviene che mi trovo in un paese molto civile e moderno, nel quale milioni di persone, che pure sanno leggere le schede, non vanno a votare dopo avere visto i nomi su quelle schede e averli sentiti parlare in televisione. E altri milioni vanno a votare senza conoscere i loro programmi, pur potendo leggerli, in quanto non e' in base a quei programmi che votano i candidati, ma per i favori che sperano di ottenere da quei candidati. E tutti quei pochi che vanno a votare non possono decidere niente comunque perche' quei nomi altri li hanno fatti stampare sulle schede senza nemmeno consultarli, e dunque debbono prendere per buono quello che passa il convento. Allora mi viene in mente quello che scriveva Michael Ledeen, uno dei neocon cruciali che organizzarono la guerra contro l'Afghanistan e contro l'Irak, in un suo libro intitolato "La guerra contro i mostri del terrore"

Scriveva che l'America ha come obiettivo quello di disfare (undo) le societa' tradizionali. E aggiungeva che loro hanno paura di noi perche' non vogliono essere cancellati. Per cui ci attaccano perche' vogliono sopravvivere, cosi' come noi dobbiamo distruggerli per andare avanti nella nostra missione storica.

Subito ho pensato che si riferisse agli afghani, o agli iracheni. Ma poi ho avuto un'illuminazione: si riferiva a noi. L'unica differenza sta nel fatto che loro reagiscono per non essere cancellati, mentre noi ci lasciamo docilmente cancellare.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

 

vendredi, 19 octobre 2012

Geheime Interessen: Die Wahrheit über den Stellvertreterkrieg in Syrien

Geheime Interessen: Die Wahrheit über den Stellvertreterkrieg in Syrien

Henning Lindhoff

Im Syrienkonflikt bahnt sich ein größerer Krieg an, in den auch das NATO-Mitglied Deutschland schnell hineingezogen werden könnte. Die großen Medien berichten viel über Syrien, enthalten uns allerdings systematisch einen Teil der Wahrheit vor.

Am Donnerstag, den 4. Oktober 2012 erreichte der Bürgerkrieg in Syrien eine neue Eskalationsstufe. Im türkischen Akçakale verloren eine Frau und vier Kinder ihr Leben durch Granatbeschuss aus dem nahen syrischen Aleppo. Wer die Granaten abgefeuert hatte, blieb bislang unbekannt. Es gibt allerdings Informationen von Insidern, nach denen die Granaten aus den Bestanden der NATO stammen sollen.

MEHR: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/deutschland/henning-lindhoff/geheime-interessen-die-wahrheit-ueber-den-stellvertreterkrieg-in-syrien.html

Semi proibiti: Bruxelles vieta la nostra sovranità alimentare

Semi proibiti: Bruxelles vieta la nostra sovranità alimentare

 
Matteo Marini
 
Ex: http://lospergiuro.blogspot.it/

Dall’assalto alla sovranità monetaria (basti guardare l’approvazione del Fiscal Compact e/o del Mes) all’attacco alla sovranità alimentare. L’Unione Europea sembra che voglia, di fatto, smantellare pian piano tutti gli assi che ogni Stato membro tenta di giocarsi per mantenere un minimo di autonomia. Tutto ruota attorno ad una direttiva comunitaria – in vigore dal 1998 – che stabilisce come la commercializzazione e lo scambio di sementi sia di solo appannaggio delle ditte sementiere (come la Monsanto). Agli agricoltori questo commercio è vietato.....
Molte le realtà associative di volontari che si sono costituite per opporsi a questa assurda regolamentazione, distribuendo sementi presenti fuori dal catalogo ufficiale delle multinazionali.
Come se non bastasse, la Corte di Giustizia europea, tarpando le ali anche a questi timidi tentativi di “ribellione”, ha ribadito – con una sentenza datata 12 luglio – l’assoluto divieto di commercializzare le sementi delle varietà tradizionali e diversificate che non sono iscritte nel catalogo ufficiale europeo. La sentenza, quindi, mette fuorilegge tutte le associazioni che si occupano di questo. Altro conflitto “istituzionale”, si sta verificando anche dentro i nostri confini. La Regione Calabria, dopo aver emanato una legge che favorisce la commercializzazione di prodotti regionali, si dovrà scontrare con il governo nazionale di Mario Monti. Il Consiglio dei Ministri ha per l’appunto fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro questi provvedimenti di agricoltura a “chilometro zero”.
Secondo il governo dei tecnici, la normativa regionale in questione prevede delle disposizioni che – favorendo i prodotti calabresi – ostacolerebbero la circolazione di tutte le merci in contrasto con i principi comunitari. Il messaggio che si vorrebbe far passare, quindi, è che la circolazione di merci regionali sia quella avvantaggiata, rispetto a quella meno libera dei prodotti extraregionali. Controllando le sementi, le multinazionali avranno vita facile per introdurre le colture Ogm, nocive per gli esseri umani (come abbiamo già documentato dalle pagine del nostro giornale). Perché continuare a parlare di questo? Perché ribellarsi? Perché, come scriveva il drammaturgo Václav Havel, «Chi si adatta alle circostanze, le crea».
Libre

Les conséquences de la Loi Taubira...

Les conséquences de la Loi Taubira...

Bernard Lugan

ctaubira-2.jpgL’on croyait avoir tout vu à propos de la repentance ! Or, au moment où, à Gorée, François Hollande se couvrait la tête de cendres (voir mon communiqué du 12 octobre), le cabinet du Premier ministre français reconnaissait qu’il avait été demandé à un « collectif » d’associations de « faire des propositions sur ce qui peut être fait en termes de réparations ». Rien de moins ! Français, à vos portefeuilles…

Peut-être pourrait-on suggérer à Monsieur le Premier ministre de mettre particulièrement à contribution les habitants de sa bonne ville de Nantes, elle qui fut une capitale de la Traite et dont les électeurs apportent régulièrement leurs suffrages au parti socialiste…
 
La question des réparations est régulièrement posée depuis que, sous un Président de « droite » et un Premier ministre de gauche, les députés votèrent à l’unanimité et en première lecture, la loi dite « Taubira », loi qui fut définitivement adoptée le 10 mai 2001.

Jacques Chirac décida ensuite que ce même 10 mai, serait désormais célébrée la « Journée des mémoires de la traite négrière, de l’esclavage et de leurs abolitions ». Cette décision plus qu’insolite rompait avec une sage pratique voulant, sauf exception, que des dates du passé soient toujours choisies pour célébrer les évènements historiques. Or, avec le 10 mai, ce fut une date du présent qui allait permettre de commémorer des évènements du passé.

Pourquoi ne pas avoir choisi le 27 avril, date anniversaire de l’abolition de l’esclavage en France (27 avril 1848) pour célébrer cette « Journée des mémoires de la traite négrière, de l’esclavage et de leurs abolitions » ? L’air du temps y fut naturellement pour quelque chose…

Il est d’ailleurs proprement stupéfiant de devoir constater que, littéralement couchés devant le politiquement correct, tous les députés de « droite », je dis bien TOUS, votèrent cette loi qui ne dénonce pourtant qu’une seule Traite esclavagiste, celle qui fut pratiquée par les seuls Européens, loi qui passe sous silence le rôle des royaumes esclavagistes africains et la traite arabo-musulmane (1). L’ethno-masochisme de nos « élites » semble sans limites !

Quelques années plus tard, Christiane Taubira a osé déclarer qu’il ne fallait pas évoquer la traite négrière arabo-musulmane afin que les « jeunes Arabes (…) ne portent pas sur leur dos tout le poids de l’héritage des méfaits des Arabes » (L’Express du 4 mai 2006) !!!
 
L’énormité de la demande concernant les réparations est telle que le gouvernement va nécessairement devoir clarifier sa position. Il est même condamné à le faire devant l’impopularité et l’incongruité d’une telle démarche. Mais, harcelé par les groupes de pression qui constituent son noyau électoral, il va devoir donner des compensations « morales » aux « associations » concernées. Nous pouvons donc nous attendre à une nouvelle rafale de mesures de repentance.

Voilà comment l’histoire est violée et comment le totalitarisme liberticide se met en place. Lentement, insidieusement, mais sûrement.

Note
(1) L’Afrique Réelle du mois de novembre 2012 que les abonnés recevront au début du mois consacre un important dossier à ce que fut la réalité des traites esclavagistes.

jeudi, 18 octobre 2012

Les plans impérialistes de l’Occident, pour l’avenir de l’Afghanistan

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Les plans impérialistes de l’Occident, pour l’avenir de l’Afghanistan

«Ce n’est pas difficile de résoudre ce problème», c’est, du moins, l’avis le l’ambassadeur britannique, à Kaboul, Richard Stagg, en ce qui concerne les vieux problèmes frontaliers entre l’Afghanistan et le Pakistan.Stagg demande, d’ailleurs, aux deux parties d’engager, à ce sujet, des négociations sérieuses, qui aboutiraient, selon lui, à l’instauration et au renforcement de la paix et de la sécurité, dans la région. Selon ce diplomate britannique haut gradé, il est devenu, de nos jours, plus facile, par rapport à il y’a 10 ans, de trouver une solution au litige frontalier pakistano-afghan.

Dans le même temps, l’expert politique russe, Alexandre Kniazev,  de l’Institut de l’Orient de l’Académie des sciences de Russie, a laissé entendre que l’Afghanistan avait préparé des documents, en vue de reconnaître la ligne Durand, comme frontière internationale. «Cela fait un an qu’on a préparé, au sein du gouvernement afghan, des documents, en vue de la reconnaissance de cette ligne, comme la frontière définitive entre l’Afghanistan et le Pakistan ; quoi qu’un règlement définitif de cette question ne soit  pas l’œuvre de Karzaï, car cette question va, sans doute, provoquer la réaction négative de la majorité Pachtoune de l’Afghanistan qui souhaite, avec insistance, que les régions tribales pachtounes, maintenues, actuellement, sous la souveraineté pakistanaise, soient annexées au territoire afghan», estime l’expert russe.

Le débat autour des problèmes frontaliers des deux pays s’est déclenché, suite à une réunion tripartite de haut niveau, il y a 10 jours, à New York, entre l’Afghanistan, le Pakistan et la Grande Bretagne, avec, pour thème phare, la signature de l’accord stratégique entre Kaboul et Islamabad. Depuis, cette question a ravivé le débat politico-médiatique, dans les deux pays voisins. Dans l’un comme l’autre des deux pays, ces milieux accordent une importance particulière à la coopération bilatérale, surtout, en matière de sécurité, qui pourrait se faire, de la meilleure manière, par la signature d’un accord de sécurité ; mais une coopération sûre et durable ne pourrait s’obtenir, selon eux, qu’une fois résolu le litige frontalier, et cela, d’ailleurs, dans un climat de confiance mutuelle. L’expert afghan, Javid Kouhestani, partage, aussi, cette vision, et pense que pour résoudre ces problèmes, les deux pays vont devoir essayer de créer un climat de confiance. «Durand est considérée comme une ligne hypothétique, sur fond des interactions politiques, en Afghanistan ; dans la littérature politique, elle est pourtant qualifiée de  »ligne imposée »», estime le spécialiste afghan des questions politiques, pour lequel, tout pays qui souhaite voir l’Afghanistan et le Pakistan établir des relations stratégiques bilatérales, devrait œuvrer, dans un premier temps, à un règlement de leurs différends.

Rappelons, en passant, que la Ligne Durand a été définie, en 1893, dans le cadre d’un traité signé, sous la gouvernance d’Abdurrahman Khan, avec Henry Mortimer Durand, diplomate et administrateur colonial, en Inde britannique. Avec l’indépendance de l’Inde vis-à-vis de son colonisateur britannique, et la création du Pakistan, le gouvernement afghan de l’époque ne reconnaît plus la ligne Durand et depuis, existe, toujours, entre l’Afghanistan et le Pakistan, un litige frontalier, qui devient parfois très sérieux. Disposant des antécédents coloniaux, dans le sous-continent indien, marqués par une ligne Durand toujours vivante, comme une source de tension, dans les relations Kaboul/Islamabad, les responsables londoniens font, de nouveau, leur entrée, sur la scène, pour imposer leur génie de structuration géopolitique, véhiculer leur influence et réaliser leurs plans susceptibles d’assurer les intérêts de l’Occident.

Pour ce faire, les Britanniques, mais aussi, et surtout, les Américains, ont leurs deux méthodes, qui consistent à nourrir l’insécurité et à diviser l’Afghanistan, en plusieurs secteurs. A ces méthodes, s’ajoutent, également, des analyses irréalistes des médias occidentaux, disant, à titre d’exemple, qu’une fois que les forces étrangères auront quitté l’Afghanistan, une guerre civile, en bonne et due forme, se déclenchera, dans ce pays. Et-il donc nécessaire de rappeler que tout cela vise à y justifier leur présence éternelle ? Les rapports publiés par les appareils de renseignement des pays occidentaux, dont l’Allemagne, ainsi que, par les sources otaniennes et les milieux sécuritaires et militaires états-uniens, donnent matière à réflexion, là où ils disent qu’un Afghanistan évacué des troupes étrangères sera, sans nul doute, gouverné par les Taliban. Dans le même cadre, le commandant adjoint des forces de l’OTAN, en Afghanistan, le Général britannique Adrian Bradshaw a lancé une mise en garde, quant à un retrait précipité des troupes étrangères du sol afghan. Parallèlement, le Département d’Etat américain a fait part de l’envoi, en deux groupes, de quelque 3.000 effectifs militaires, pour aider les forces de sécurité afghanes à assurer la transition, prévue vers la fin de l’année encours ou en début de l’année 2013.

Sur ce fond, le Président afghan, Hamid Karzaï, a demandé à son peuple de ne pas se laisser pas influencer par les médias étrangers. Il a qualifié d’inexactes, les analyses et les campagnes négatives élaborées par certains titres de la presse étrangère, au sujet de l’avenir de l’Afghanistan, et dire qu’à travers ces reportages à caractère, plutôt, sécuritaire, les médias occidentaux cherchent à réaliser leurs objectifs. Ces campagnes, Hamid Karzaï les considèrent comme faisant partie d’une guerre des nerfs et, en plus, pas très sérieuses. «On voit les médias occidentaux publier, chaque jour, des articles et analyses irréalistes, sur l’avenir de l’Afghanistan, une fois que les forces étrangères en seront sorties», dit également Hamid Karzaï, pour lequel la situation sécuritaire s’est, relativement, améliorée, et les événements fâcheux se sont réduits, dans le pays, depuis que les forces internationales ont commencé à confier les responsabilités sécuritaires aux forces afghanes.

La deuxième méthode prévue par le génie de géopolitique britannique destiné à l’Afghanistan consiste en la division de ce pays. Selon les médias, le ministère britannique des Affaires étrangères a rédigé un plan prévoyant la division de l’Afghanistan en 8 secteurs. Les Britanniques ont, également, élaboré, à l’intention des responsables américains et pakistanais, ce plan C, qui confie aux Taliban la gestion de certains de ces 8 futurs secteurs ou  »Velayats » du pays.

«La création d’une autorité locale placée sous gouvernance d’un Premier ministre puissant pourrait en finir avec la corruption d’Etat et les différends tribaux, en Afghanistan», selon ledit plan, qui confie la gestion de certains secteurs aux Taliban», précise Tobias Ellowd, député conservateur britannique, et de préciser ces 8 secteurs, à savoir : Kaboul, Kandahar, Herat, Balkh, Kunduz, Jalalabad, Khost et Bamian. Ce plan colonialiste, à cause de ses retombées imprévisibles, dont une division du pays, s’est heurté à de vives critiques, à l’intérieur de l’Afghanistan, du fait qu’il risque d’aggraver la crise interne. En fait, le plan de remplacement du régime souverainiste, en Afghanistan, par un Ordre fédéraliste, avait été élaboré, auparavant, par certains responsables américains, qui, en plus, ont organisé des réunions avec les groupes politiques opposés au gouvernement afghan. A son tour, le Président afghan, Hamid Karzaï, a, vivement, rejeté les plans et réunions de ce genre, qui constituent, selon lui, un cas flagrant d’ingérence, dans les affaires intérieures de son pays.

Pour leur part, les experts russes estiment que la stratégie américaine, en Afghanistan et en Asie centrale, s’inscrit dans le cadre du plan du Grand Moyen-Orient. Pour preuve : ils se réfèrent à certaines mesures américaines, en Afghanistan, et dans des pays centre-asiatiques, dont la construction d’une base, à Mazar-e -Sharif. Entre autres, Alexandre Kniazev estime que le premier objectif de la guerre américano-otanienne, en Afghanistan, consiste à insécuriser la région. «Nourrir l’insécurité, en Asie centrale et au Kazakhstan, est vital pour l’OTAN et les Etats-Unis. Les questions, dont on entend parler, depuis presque un an et demi, au sujet des changements géopolitiques à apporter, en Afghanistan, deviennent, donc, hyper-importantes, dans cette perspective», estime l’expert russe.

A en croire le Dr. Najibullah Lafraie, l’ancien ministre afghan des Affaires étrangères du gouvernement  Burhaneddin  Rabbani, et professeur à l’Université d’Otago, en Nouvelle Zélande, le plan C du ministère britannique des Affaires étrangères est conçu, en principe, pour assurer la bonne application des plans occidentaux, en Afghanistan. Pour rappel, une fois que le plan A stipulant un Afghanistan occupé ou influencé par les Etats-Unis aura commencé à montrer sa faiblesse, pour répondre aux attentes des Occidentaux, les consultations  commenceront, en vue d’élaborer un nouveau plan. Ainsi, un plan B a-t-il été élaboré, en 2010, par l’ancien ambassadeur américain, en Inde, Robert Blackwill, un plan qui prévoit le démembrement de l’Afghanistan, en deux secteurs : un secteur Nord, contrôlé par un gouvernement central stipendié, et un secteur Sud, confié aux Taliban. Ce plan reste, d’ailleurs, toujours, sur la table, pour la politique étrangère américaine. Sur ce fond, la vieille puissance colonialiste britannique continue de croire que pour assurer la réussite des plans de balkanisation de l’Afghanistan, il serait sage de réserver une bonne partie du gâteau à chacune des ethnies afghanes ; cette thèse reste, ainsi, à l’origine du plan C britannique, pour l’avenir de ce pays.

Les nouvelles, sur l’élaboration de ce plan, ont fait réagir le Porte-parole du ministère afghan des Affaires étrangères, Janan Mosazai, qui regrette de l’avoir entendu. «Le monde ne manque pas, dirait-on, de gens absurdes, et ceux qui avancent ces plans semblent dépourvus d’une bonne santé mentale», affirme le porte-parole du ministère afghan des Affaires étrangères, et d’ajouter que les Afghans ont défendu, durant des décennies, en sacrifiant leur vie et en versant leur sang, la souveraineté nationale de leur pays ; la solidarité nationale des Afghans est, ainsi, restée intacte, selon ses dires, même, aux moments les plus obscurs et les plus tristes de l’histoire de l’Afghanistan.

Die weiteren Auswirkungen des syrischen Krieges bedrohen einen fragilen Irak

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Die weiteren Auswirkungen des syrischen Krieges bedrohen einen fragilen Irak

von Tim Arango, Bagdad

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/

Nur neun Monate, nachdem die amerikanischen Streitkräfte ihre lange und kostspielige Besetzung hier [im Irak] beendeten, stellt der Bürgerkrieg in Syrien Iraks fragile Gesellschaft und seine noch junge Demokratie auf die Probe, verschlimmert die konfessionellen Spannungen, treibt den Irak näher an Iran und wirft ein Schlaglicht auf die Sicherheitsdefizite.
Aus Furcht, dass sich irakische Aufständische mit Extremisten in Syrien zusammenschliessen, um einen Zweifrontenkrieg für eine sunnitische Vorherrschaft zu führen, befahl Premierminister Nuri Kamal al-Maliki vor kurzem Wachen an die westliche Grenze, um erwachsene Männer, selbst Ehemänner und Väter mit Familien im Schlepptau, daran zu hindern, zusammen mit Tausenden von Flüchtlingen, die dem aufreibenden Krieg nebenan zu entkommen suchen, in den Irak zu kommen.
Weiter nördlich haben irakische Behördenvertreter eine andere Sorge, die auch mit den Kämpfen jenseits der Grenze in Zusammenhang steht. Türkische Kriegsflugzeuge haben ihre Angriffe auf die Verstecke kurdischer, durch den Krieg in Syrien aufgerüttelter Aufständischer in den Bergen, intensiviert, was die Unfähigkeit des Irak zur Kontrolle seines eigenen Luftraums unterstreicht.
Die Verhärtung der Positionen der Widersacher in Syrien – die im ganzen Irak widerhallen – wurde bei den Vereinten Nationen deutlich, als der neue Sondergesandte für Syrien, Lakhdar Brahimi, dem Sicherheitsrat eine trostlose Beurteilung des Konflikts abgab und sagte, er sehe keine Aussicht auf einen Durchbruch in absehbarer Zukunft.
Die übergreifenden Auswirkungen des syrischen Krieges haben die Aufmerksamkeit auf für amerikanische Beamte unangenehme Realitäten gelenkt: Trotz nahezu neun Jahren militärischen Engagements – ein Einsatz, der heute mit einem Waffenverkaufsprogramm von 19 Milliarden Dollar weitergeführt wird – ist die Sicherheitslage im Irak zweifelhaft und sein Bündnis mit der theokratischen Regierung in Teheran wird stärker. Die schiitisch dominierte Führung des Irak ist derart beunruhigt über einen Sieg der sunnitischen Radikalen in Syrien, dass sie sich Iran angenähert hat, der ein gleichartiges Interesse mit der Unterstützung des syrischen Präsidenten Bashar al-Assad verfolgt.
Es gibt bereits Anzeichen dafür, dass sunnitische Aufständische im Irak versucht haben, sich mit syrischen Kämpfern zu koordinieren, um einen regionalen konfessionellen Krieg in Gang zu setzen, wie irakische Stammesführer berichteten.
«Kämpfer von Anbar gingen dorthin, um ihre Konfession, die Sunniten, zu unterstützen», sagte Scheich Hamid al-Hayes, ein Stammesführer in der Provinz Anbar im westlichen Irak, der einst eine Gruppe ehemaliger Aufständischer führte, welche die Seiten wechselten und sich den Amerikanern bei der Bekämpfung von al-Kaida im Irak anschlossen.
In Reaktion darauf haben die Vereinigten Staaten versucht, ihre Interessen im Irak abzusichern. Sie haben auf den Irak erfolglos Druck ausgeübt, dass er Flüge aus Iran aufhält, die irakischen Luftraum durchqueren und mit denen Waffen und Kämpfer zum Assad-Regime befördert werden, obwohl laut einem Bericht von The Associated Press ein Regierungssprecher am Wochenende sagte, der Irak würde mit stichprobenartigen Durchsuchungen iranischer Flugzeuge beginnen.
Während einige Führer des Kongresses gedroht haben, die Hilfe an den Irak einzustellen, wenn die Flüge nicht aufhörten, versuchen die Vereinigten Staaten ihre Waffenverkäufe an den Irak zu beschleunigen, um ihn als Verbündeten zu halten, wie Generalleutnant Robert L. Caslen Jr., der für diesen Einsatz zuständige Kommandant, sagte. Im Zuge der Verschlechterung der Sicherheitslage fällt es den Vereinigten Staaten schwer, Waffen – vor allem Luftabwehrsysteme – schnell genug zu liefern, um die Iraker zufriedenzustellen, die sich in einigen Fällen anderswo umsehen, vor allem in Russland.
«Obwohl sie eine strategische Partnerschaft mit den Vereinigten Staaten wollen, erkennen sie die Schwachstelle und haben ein Interesse daran, mit dem Staat mitzugehen, der in der Lage ist zu liefern und ihren Bedarf, die Lücke in ihren Fähigkeiten, so schnell wie möglich zu schliessen», sagte General Caslen, der hier ein der amerikanischen Botschaft unterstelltes Büro des Pentagon leitet, das Waffenverkäufe an den Irak vermittelt.
Die Vereinigten Staaten versorgen den Irak mit überholten Flakgeschützen, gratis, aber sie werden nicht vor Juni [2013] eintreffen. In der Zwischenzeit haben die Iraker Raketen aus der Zeit des Kalten Krieges gesammelt, die auf einem Schrottplatz einer Luftwaffenbasis nördlich von Bagdad gefunden wurden, und versuchen nun, sie funktionsfähig zu machen. Irak verhandelt mit Russland über den Kauf von Luftabwehrsystemen, die viel schneller geliefert werden könnten als die von den Vereinigten Staaten abgekauften.
«Der Irak erkennt, dass er seinen Luftraum nicht kontrolliert, und sie sind sehr empfindlich darauf», so General Caslen. Jedes Mal, wenn ein türkischer Kampfflieger in den Luftraum des Irak eindringt, um kurdische Ziele zu bombardieren, sagte er, würden irakische Beamte «das sehen, sie wissen es, und sie nehmen das übel».
Iskander Witwit, ein ehemaliger Offizier der irakischen Luftwaffe und Mitglied des Sicherheitsausschusses des Parlamentes, sagte: «So Gott will, werden wir den Irak mit Waffen rüsten, die in der Lage sind, diese Flugzeuge abzuschiessen.»
Das amerikanische Militär zog Ende letzten Jahres ab, nachdem Verhandlungen über eine verlängerte Truppenpräsenz scheiterten, weil die Iraker einer Verlängerung der rechtlichen Immunität für irgendeine verbleibende Macht nicht zugestimmt hätten. Als die Amerikaner gegangen waren, feierte der Irak seine Souveränität, während sich Militärvertreter in beiden Ländern über die Mängel des irakischen Militärs ärgerten und nach Wegen der Zusammenarbeit suchten, die keine öffentliche Debatte über Immunitäten erforderten.
Der Irak und die Vereinigten Staaten sind dabei, ein Abkommen auszuhandeln, das zur Rückkehr von kleinen Einheiten amerikanischer Soldaten in den Irak für Ausbildungseinsätze führen könnte. Auf Ersuchen der irakischen Regierung, so General Caslen, wurde kürzlich eine Einheit von Soldaten für «Special Operations» der Armee in den Irak verlegt, um in Terrorbekämpfung zu beraten und mit Geheimdienstinformationen zu helfen.
Demnach sucht das Land – auch wenn es sich enger an Iran anlehnt und beabsichtigt, Waffen von Russland zu kaufen – immer noch die militärische Unterstützung der Vereinigten Staaten. Dies, weil der Irak noch immer mit einer starken Aufstandsbewegung konfrontiert ist, deren häufige Angriffe Fragen darüber aufgeworfen haben, ob die Terrorbekämpfungstruppen des Irak fähig sind, sich einer solchen Bedrohung zu stellen.
In Anbar, so der Stammesführer Hayes, haben Aufständische unter dem Namen Freie Irakische Armee Einheiten gebildet, die mit al-Kaida verbunden sind, womit sie das Banner nachahmen, unter dem die syrischen Sunniten kämpfen. «Sie treffen sich und betreiben Rekrutierung», sagte er. Die Gruppe hat auch einen Account bei Twitter und eine Facebook-Seite.
Ähnliche Einheiten sind in der Provinz Diyala entstanden, und sie haben laut lokalen Beamten einen Ruf zu den Waffen in Syrien als Rekrutierungsinstrument genutzt. Wenn Kämpfer in Syrien sterben, werden Beerdigungen von den örtlichen Familien im geheimen abgehalten, um die schiitisch dominierten Sicherheitskräfte nicht darauf aufmerksam zu machen, dass sie ihre Söhne nach Syrien geschickt haben. Laut einem lokalen Geheimdienstmitarbeiter wurde ein solches Begräbnis vor kurzem unter dem Vorwand durchgeführt, dass der gefallene Kämpfer bei einem Autounfall ums Leben gekommen sei und nicht, wie es tatsächlich war, in Kämpfen in Aleppo.
Während westliche Politiker eine Intervention in Syrien erwägen, beunruhigt sie auch, dass der Krieg des Landes zu einem ausgewachsenen konfessionellen Konflikt werden könnte wie derjenige, der den Irak von 2005 bis 2007 verschlang. Für die Iraker, die damals nach Syrien flohen und die nun zurückkehren – nicht freiwillig, sondern um ihr Leben zu retten – ist Syrien bereits der Irak.
«Es ist genauso, wie es im Irak war», schilderte Zina Ritha, 29, die nach mehreren Jahren in Damaskus nach Bagdad zurückkehrte. Zur Freien Syrischen Armee (F.S.A.) meinte Zina Ritha: «Die F.S.A. zerstört Häuser der Schiiten. Sie entführen Menschen, vor allem Iraker und Schiiten.»
Unlängst an einem Morgen besuchten Zina Ritha und ihre Schwiegermutter ein hiesiges Zentrum für Rückkehrer, wo Familien eine Zahlung von vier Millionen irakischen Dinars oder rund 3400 Dollar von der Regierung erhalten. Die Leute im Zentrum sagen, dass es für Iraker in Syrien keine Sicherheit gebe: Schiiten werden von Rebellen angegriffen, Sunniten von den Regierungskräften. Und jederzeit können sie ins Visier genommen werden, einfach weil sie Ausländer sind.
Abdul Jabbar Sattar, ein alleinstehender Mann in den 40ern, ist Sunnit. Nach einem Bombenanschlag im Juli in Damaskus, bei dem mehrere hochrangige Sicherheitsbeamte ums Leben kamen, litt sein Wohnviertel unter Beschuss rund um die Uhr. Er kehrte mit einem Satz Kleider und wenig Geld in den Irak zurück, da er auf der Flucht ausgeraubt wurde.
«Es ist die gleiche Lage, wie sie früher im Irak war», sagte er. «Jeder hat Angst vor dem anderen.»    •

Zum Bericht beigetragen haben Duraid Adnan, Yasir Ghazi und Omar al-Jawoshy von Bagdad, und ein Angestellter der The New York Times aus der Provinz Diyala.

Quelle: The New York Times vom 24.9.2012
(Übersetzung Zeit-Fragen)

LA YIHAD DE LOS BOSQUES

LA YIHAD DE LOS BOSQUES.
 
AL QAEDA INCENDIA NUESTRO PATRMONIO ECOLÓGICO
 
 
 
Enrique RAVELLO
Numerosas agencias de noticias rusas recogieron las declaraciones de Alexandr Bórtnikov, director del FSB –el servicio de inteligencia ruso– en las que acusaba a la organización islamista Al-Qaeda de estar detrás de los incendios que este verano han asolado gran parte del sur de Europa. Según el jefe de la inteligencia rusa, esta táctica de Al Qaeda se incluye dentro de su nueva estrategia llamada “mil picaduras”, en este contexto  los fuegos en bosques de la Unión Europea deben considerarse como una de las nuevas formas de actuar de Al Qaeda. Con esta estrategia, puede infligir un gran daño en la economía y en la moral de la población sin una preparación seria, equipo técnico o una gran financiación”.
Después de conocer estar declaraciones, el coordinador del Fondo Mundial para la Naturaleza (WWF), Nikolái Shmatkov,   aseguró que “no tiene ni la más mínima duda de que el motivo de los incendios en el Mediterráneo es el factor humano. El 90 por ciento de los incendios son culpa del hombre”, pero respecto a la posible implicación de Al Qaeda añadió “en qué medida está implicado en esto Al Qaeda... Por qué necesitan dirigir su fuerza contra los españoles y griegos, y no contra los americanos, no puedo decirlo. Soy escéptico al respecto”.   El problema de Shmatkov es que sigue creyendo la leyenda de que Al Qaeda es una organización ajena a los intereses americanos; precisamente lo que señala es una nueva prueba de la implicación de Al Qaeda en estos atentados ecológicos. Los incendios tienen una acción definitiva en el precio de la bolsa de los llamados “futures” de las “commodites” agrícolas (el gran mercado del grano), hasta tal punto que las malas cosechas rusas de 2010 tuvieron un efecto directo sobre la explosión de las llamadas “primaveras árabes”. La variación en esos mercados de “futures”  ha provocado ganancias millonarias a inversores norteamericanos y saudíes, que precisamente de los dos países que han creado y financiado a Al Qaeda, con lo que se cierra el círculo. Porque, contrariamente a lo que dice Shmatkov, Al Qaeda es una organización al servicio de  intereses americanos y saudíes y por lo tanto contraria a de los países del sur de Europa, víctimas de esos incendios.
Sin duda otro de los motivos detrás de estos incendios es el símbolo del “desierto contra el bosque”.  El wahabismo salafista se basa en el odio a la diversidad y la imposición de un modelo único en lo religioso, lo cultural, y también lo ecológico. No es de extrañar que Al Qaeda y su enfermizo islamismo quieren atentar contra los busques europeos –nuestro patrimonio ecológico y también cultural- para extender el desierto,  ese desierto de intolerancia y fanatismo islamista que  ellos mismo representan.
 
Sirva este artículo para seguir reclamando las más duras penas a todos aquellos culpables de atentar contra nuestros bosques o contra cualquier otro elemento de nuestro patrimonio ecológico.
 
Enric Ravello
Secretario de relaciones nacionales e internacionales de Plataforma per Catalunya (PxC)
 

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mercredi, 17 octobre 2012

Sunnites, alaouites, Kurdes, chrétiens, druzes…

Sunnites, alaouites, Kurdes, chrétiens, druzes…

Analyse du rapport entre le conflit syrien et la démographie

par Youssef Courbage

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

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La guerre en cours depuis dix-huit mois se joue aussi dans le poids et la vitesse de croissance des différents groupes qui se partagent le territoire ou s’entredéchirent.

Des enfants jouent dans des ruines, au nord de la Syrie, le 8 octobre 2012. REUTERS/Stringer.- Des enfants jouent dans des ruines, au nord de la Syrie, le 8 octobre 2012. REUTERS/Stringer. -

Avec 33.000 morts et 340.000 réfugiés hors des frontières, la démographie est évidemment présente dans le conflit qui ravage la Syrie depuis mars 2011, ce délicat bras de fer où l’on se contente souvent d’une vérité qui, pour n’être pas reconnue, est pourtant connue de tous: un groupe confessionnel minoritaire démographiquement, les alaouites (originaire du chiisme musulman), monopoliserait le pouvoir et ses multiples instruments. Ou, de manière plus nuancée: l’ensemble des minoritaires, peu ou prou unifiés, se seraient ralliés à ce pouvoir, s’opposant par là même à la majorité de la population.

 

La dimension démographique du conflit se joue aussi dans le poids et la vitesse de croissance des différents groupes qui se partagent le territoire ou s’entredéchirent, facteur décisif vis-à-vis du pouvoir central. En effet, la transition démographique —vecteur essentiel de la modernisation des sociétés— n’y avance pas au même rythme: si le conflit est inscrit dans l’état démographique des forces en présence, il se joue donc aussi dans le mouvement (natalité, mortalité, migrations…) qui différencie ou oppose ces populations, par leur natalité surtout [1].

D’abord, la question la plus simple: que pèsent démographiquement les différents groupes aujourd’hui? Malgré le mutisme officiel (recensement, état-civil, enquêtes…), les estimations abondent: plus de 40% de minoritaires selon certaines estimations très généreuses; beaucoup moins selon la nôtre, qui les amène à 27%.

Cette «bataille de chiffres» en serait restée à ce stade si elle n’avait dégénéré en conflit ouvert entre diverses factions de la population. Occultée par l’idéologie dominante de l’Etat-Nation syrien, la démographie communautaire [2] a repris des couleurs, comme sous le mandat français (1920-1944), qui avait divisé un temps la Syrie en Etats confessionnels, communautaires ou régionaux: alaouite, druze, sandjak d’Alexandrette, et même un Etat de Damas et un Etat d’Alep.

Les sunnites, dominants démographiquement, dominés politiquement

Démographie et pouvoir sont en porte-à-faux, les sunnites arabes (73% de la population) vivant depuis 1963 une situation d’éclipse politique. Mais s’agit-il vraiment d’un groupe? Plutôt d’un agrégat composite, urbain, rural, bédouin, très hétérogène, régionaliste, sans ossature réelle après la destruction du parti des Frères Musulmans en 1982, qui s’était fait fort —sans réussir— de rallier les sunnites de Syrie.

Les années 2011-2012 amorcent peut-être un semblant de regroupement, dans la mouvance d’une guerre qui pour la première fois n’épargne aucune des villes moyennes à dominante sunnite et rapproche symboliquement les deux capitales, Damas et Alep, longtemps rivales.

Pour autant, le pouvoir syrien ne manque pas d’y entretenir des groupes d’intérêt, des milieux d’affaires à la pègre, en passant par le souk de Damas, plus récemment celui d’Alep, qui lui sont obligés. Les allégeances ne sont jamais évidentes, il n’y a pas congruence parfaite entre le sunnisme syrien et l’opposition au régime.

Les Kurdes, minorité démographique politiquement dominée

Qu’en est-il des minorités? A défaut d’une unité nationale réelle, le pouvoir tente de les agréger au noyau dur alaouite. Il s’agit là d’un impératif démographique aux fortes connotations politiques et militaires.

Les Kurdes, qui représentent 8% de la population (certaines estimations vont jusqu’à 10%, ce qui en ferait la première minorité du pays devant les alaouites), principalement sunnites (95%), ne jouent pas la carte sunnite, mais ne penchent pas pour autant du côté d’un pouvoir qui les a privés de la majeure partie de ce qu’ils jugent être leurs droits nationaux, de la reconnaissance de leur langue, voire, pour de larges pans de la population, de la nationalité syrienne.

En 1962, un «recensement» de la région principalement kurdophone de la Jézira, a abouti à priver de la nationalité syrienne 120.000 Kurdes désormais considérés comme étrangers. Plus de 300.000 Kurdes apatrides vivaient en Syrie à la promulgation du décret d’avril 2011 de restitution de la nationalité syrienne aux Kurdes. Un geste destiné à les rallier à la cause du pouvoir après plusieurs décennies d’ostracisme, mais dont seulement 6.000 personnes auraient bénéficié.

Leur forte concentration géographique aux frontières de la Turquie et de l’Irak, jointe à leur croissance démographique —la plus élevée du pays—, favorise les penchants sécessionnistes, à l’écoute des Kurdes de Turquie ou d’Irak, un peu moins d’Iran. C’est pourquoi l’opposition syrienne, qui se méfiait des pulsions sécessionnistes kurdes, a tardé à enrôler des opposants de ce côté. Mais récemment, le Conseil national syrien a élu un Kurde, Abdelbasset Sida, à sa tête.

Pour ajouter à l’ambivalence de la situation de cette minorité à l’égard du pouvoir central, il faut souligner les liens entre une partie des Kurdes de Syrie et le Parti des travailleurs du Kurdistan (PKK), anti-turc, occasionnellement pro-syrien et se retrouvant donc loyaliste par la force des choses.

Les yazidis, cette archi-minorité kurdophone non-musulmane, se distinguent eux par leur religion des Kurdes musulmans. Démographiquement et politiquement, ils pèsent d’un poids négligeable.

Les chrétiens, minoritaires proches du pouvoir?

Les chrétiens sont très largement surestimés dans les estimations, jusqu’à 12% —la CIA leur accorde 10%, plus de deux fois plus que notre estimation (4,6%). Il y a là comme une extrapolation à la démographie de la surreprésentation des chrétiens syriens dans le monde prestigieux des affaires et de la culture. Pourtant, ils sont parmi les premières victimes de leur succès en termes de transition démographique avancée, le payant par un recul de leur nombre en valeur relative, sinon absolue.

Pour ces raisons démographiques, ils ne constituent qu’une force d’appoint qui pèse peu dans la balance: faible fécondité, tombée à quelque 1,8 enfant par femme, et forte émigration hors du pays. La ville d’Alep, la plus «chrétienne» de Syrie, illustre remarquablement ce déclin, des 30% (sans doute exagérés) de chrétiens dans les années 40 à 3,5% aujourd’hui.

Les chrétiens se sont souvent retrouvés comme minoritaires mais proches du pouvoir —parfois à leur corps défendant—, un pouvoir qui tente, surtout depuis le conflit en cours, de les agréger encore plus au noyau dur. Mais ils ne sont unis ni sur le plan confessionnel ni sur le plan politique.

Leur présence au sein du parti au pouvoir, le Baath, ne date pas d’aujourd’hui et, faut-il le rappeler, l’un de ses fondateurs, Michel Aflak, était un Syrien chrétien. Une certaine continuité puisque le ministre de la Défense Daoud Rajha, tué dans l’attentat de Damas en juillet dernier, était chrétien. Et l’armement de miliciens chrétiens en soutien du régime a été tenté, mais certains groupes chrétiens —des Assyriens— ont pris les armes contre le pouvoir, tout en restant en marge de l’opposition.

Les dignitaires ecclésiastiques chrétiens ont, pour la plupart, mais avec des exceptions notables, prêté allégeance au pouvoir. Mais leurs voix sont largement compensées par celles des opposants chrétiens, qui siègent aux plus hautes instances du Conseil national syrien ou des autres groupes de l’opposition.

Les moins politisés des chrétiens vivent eux mal les visées du pouvoir sur le Liban, qui remontent surtout à 1975, alors qu’ils ont tissé depuis des temps immémoriaux des relations poussées, familiales notamment, avec le pays —ce qui n’est d’ailleurs pas un phénomène chrétien seulement, mais celui de Syriens de toutes confessions, pour qui le Liban reste une option comme pays-refuge.

Parmi les chrétiens, les Arméniens, pour la plupart originaires de Cilicie, se découvrent eux des affinités avec la république d’Arménie, qui pourrait bien devenir une autre patrie-refuge.

Attitude contrastée des autres minorités

Comme ceux des chrétiens, les effectifs des druzes, concentrés dans le Djébel Druze (gouvernorat de Soueida), sont largement surévalués: 500.000, voire 700.000, contre moins de 400.000 effectivement. Cela tient en partie à l’imprécision du décompte des Druzes expulsés du Golan à la suite de la guerre israélo-arabe de 1967.

L’ambivalence rencontrée chez les Kurdes ou les chrétiens se retrouve chez eux. Le réflexe minoritaire les pousserait à faire front avec les autres minorités, mais un long contentieux avec les pouvoirs successifs qui se sont succédés depuis l’Indépendance jusqu’au coup d’état de 1963 et l’éviction des officiers druzes de l’armée les inciterait à la méfiance vis-à-vis des autorités.

Ces druzes de Syrie —originaires pour la plupart du Mont-Liban après leur migration forcée au XVIIIe siècle— manquent d’un leadership national, qu’ils trouvent en partie au Liban en la personne de Walid Joumblatt, le leader du PSP libanais, un druze qui se fait fort d’encourager ses coreligionnaires de l’autre côté de la frontière à refuser de servir dans l’armée et dans les services de sécurité.

Pour les archi-minorités, qui comptent peu du point de vue démographique, les préférences politiques sont également contrastées. Cela va des Turkmènes, les plus opposants, car sunnites, turcophones et en symbiose avec la Turquie, aux chiites duodécimains, plus en phase avec l’Iran et son allié syrien.

Les Ismaéliens, des chiites non-duodécimains, seraient –modérément— proches du pouvoir. Les Tcherkesses, des sunnites non-arabes originaires du Caucase, semblent plutôt neutres dans le conflit en cours. Mais leur malaise se traduit par le fait que certains envisageraient le «retour» en «Russie».

En définitive, ces minoritaires dominés, si on agrégeait leurs effectifs, se retrouveraient à mi-chemin du pouvoir et de l’opposition, mais en aucun cas une force décisive ni pour les uns ni pour les autres.

Les alaouites: une minorité démographique politiquement dominante

Que les alaouites, de leur côté, soient la minorité au pouvoir ou celle du pouvoir importe peu. Comme mentionné plus haut, les cercles confessionnels et politiques ne se recoupent jamais intégralement. Et de la même façon que le pouvoir a réussi à fidéliser nombre de sunnites, l’opposition compte également de prestigieuses personnalités alaouites.

Les alaouites font corps avec la Syrie, mais leur présence déborde le cadre syrien: plus de 400.000 alaouites arabes (à ne pas confondre avec les 15 millions d’Alévis des turcophones chiites) vivent en Turquie. Près de 100.000 au Liban, paradoxalement le seul pays qui leur accorde une reconnaissance officielle, un état-civil et une représentation parlementaire comme alaouites. En revanche, en Turquie et en Syrie, ils sont officiellement musulmans, mais ne peuvent se réclamer de leur confession précise.

L’actualité brûlante a ravivé l’intérêt accordé à leur religion. Issue de l’islam chiite duodécimain, elle s’en est éloignée par son caractère trinitaire, initiatique, syncrétique. Que les alaouites croient à la transmigration des âmes (métempsycose) —ce qui n’est pas sans effet sur leur faible fécondité comme chez les druzes—, se passent de mosquées, tolèrent l’alcool, ne voilent pas leurs femmes, etc., les a mis au ban de l’islam officiel.

Toutefois, depuis 1936 et surtout depuis 1973, les alaouites tentent de s’insérer dans le giron de l’islam officiel chiite, voire sunnite. Mais plus que par leur religion, c’est par leur asabiyya, ce concept forgé au XIVème siècle par Ibn Khaldoun, une valorisation du réseau social où les liens sont surdéterminés par l’appartenance familiale, clanique ou communautaire, qu’ils se distinguent des autres Syriens. Cette asabiyya a été aiguisée par leur histoire conflictuelle avec le pouvoir central, de Saladin jusqu’aux Ottomans en passant par les Mamelouks, les plus féroces de leurs adversaires.

Une histoire faite aussi d’oppression socioéconomique, qui allait vivifier leur solidarité. Seul le mandat français, et pour une brève période (1922-1936), a tenté de les rallier au pouvoir central —avec des succès très mitigés— en leur concédant l’«Etat des Alaouites». Piètre consolation, puisque cette entité, selon le géographe Etienne de Vaumas, était «coupée du reste du monde… conservatoire d’une société condamnée à un dépérissement qui pour être lent n’en était pas moins certain».

De cette préhistoire antérieure au coup d’Etat de 1963, il est resté beaucoup de rancœurs. Les alaouites ont conservé la mémoire de leurs pères, métayers chez les seigneurs féodaux de la plaine et surtout de la ville-symbole sunnite de Hama. Celle aussi des petites filles que l’on «vendait» comme bonnes à tout faire, aux bourgeois et petits-bourgeois des villes de Lattaquié, Damas, Alep et jusqu’à Beyrouth.

Seul vecteur de l’ascenseur social, le parti Baath et la profession militaire. Ce fut d’abord le fait du mandat français, qui recruta, hors de toute relation de proportionnalité avec leur population, des alaouites dans ses bataillons du Levant, présence qui se perpétua après l’indépendance. La démographie militaire montre qu’en 1955, 65% des sous-officiers étaient alaouites et le Comité militaire, chargé du recrutement dans les académies militaires, entre leurs mains. Mais la majorité des officiers restaient sunnites.

De 1963 à 1970, le pouvoir confortera leurs positions au sein de l’appareil et de l’armée, allant crescendo jusqu’au coup d’état de 1970, avant la vigoureuse correction survenue entre 1970 et 1997, année où 61% des principales personnalités militaires et des forces de sécurité étaient alaouites et 35% sunnites.

Un mouvement correctif socioéconomique

Du «mouvement correctif» engagé en 1970, idéologique (abandon de la référence au socialisme), politique et militaire, naîtra un autre mouvement correctif socioéconomique de longue haleine, dont les effets laissent une empreinte forte sur les statistiques, celles du recensement de 2004 notamment.

Rurales avant l’indépendance à plus de 97%, les populations alaouites dominaient, dès 1990, les villes du littoral: 55% à Lattaquié, 70% à Tartous, 65% à Banias, villes, qui sous le mandat français, étaient encore des bastions sunnites (78% environ). L’ascension des alaouites dans l’armée, les services de sécurité, la fonction publique, les entreprises d’Etat et, plus récemment, dans le secteur privé, leur a également assuré une présence marquée à Damas, à Homs, à Hama, mais non à Alep. L’accès à la ville, à l’administration, à l’enseignement, notamment universitaire (avec un système de discrimination positive pour les bourses à l’étranger), a donné un coup de fouet à leur mobilité dans l’échelle sociale.

La rente de situation ainsi générée au profit des alaouites ressort parfaitement des données de 2003-2004. Leur niveau de vie est franchement plus élevé qu’ailleurs (sauf dans la capitale): la dépense mensuelle par personne atteignait 3.310 livres syriennes (un peu moins de 40 euros d’aujourd’hui) dans la région côtière, pour 2.170 seulement dans le gouvernorat d’Alep.

Tous les indicateurs vont d’ailleurs dans le même sens: faible proportion d’actifs dans l’agriculture, un secteur à basse productivité; faible taux d’analphabétisme des adultes, notamment féminin; faible proportion de filles de 5-24 ans non-scolarisées; enfin, une plus forte féminisation de la main-d’œuvre non-agricole, un autre et important critère de la modernité.

L’Etat a également fourni avec plus de générosité aux gouvernorats côtiers l’électricité, l’eau potable, les réseaux d’égouts. Ces statistiques ne signifient pas que les alaouites sont tous devenus aisés ou se sont tous métamorphosés de paysans sans terre en petits ou grands bourgeois: il existe naturellement plus d’un village ou un quartier de ville alaouites pauvres. Mais en moyenne, leur région a connu une progression sans pareil.

Les risques des transitions à deux vitesses

Les alaouites ne sont pas les seuls à connaître au fil des années cette érosion de leurs taux de natalité, solidaires par cette transition démographique des druzes (bien représentés par les gouvernorats de Soueida et de Quneitra) et des chrétiens (disséminés dans tout le pays). En 2004, le nombre moyen d’enfants par femme de la région côtière était tombé à 2,1, soit le seuil de renouvellement des générations (1,8 chez les druzes et autant chez les chrétiens).

La même année, et pour ne retenir que les lieux qui ont fait la une des journaux par l’intensité des combats, la fécondité était de 3,8 enfants par femme à Alep (presque deux fois plus), 3,1 dans le pourtour rural de Damas, 3,5 à Hama, 3,1 à Homs, 5,1 à Idleb, 6,2 à Deir el Zor. A Dera’a, qui a inauguré la série sanglante, elle était de 4,6.

Cette transition à deux vitesses signifie que la population majoritaire, déjà très nombreuse, est alimentée en sus par un flux de naissances très abondantes et en augmentation, là où la minorité ou les minorités (à l’exception notoire des Kurdes) voient leurs naissances s’atrophier et diminuer.

Dans un contexte de conflit, la transposition des chiffres démographiques en chiffres militaires est automatique: tous les ans, à 18 ans ou un peu plus, des jeunes issus de la majorité vont se présenter de plus en plus nombreux sous les drapeaux, alors même qu’en face les jeunes issus des minorités sont de moins en nombreux. Le youth bulge syrien, l’explosion démographique des jeunes à l’âge d’entrée dans l’armée, est uniquement l’affaire de la majorité. Entre 1963 et 2012, leurs effectifs ont été multipliés par 5,3 dans la majorité sunnite, mais seulement par 2,4 dans la minorité chiite.

L’impossible partition

Devant ce conflit qui s’éternise, d’aucuns en viennent à penser que l’ultime recours serait la partition du pays et la création d’un mini-état alaouite, d’un réduit ou d’une zone de repli dans la zone côtière —une nouveauté dans la région, où le Liban a connu seize ans de guerre civile et a réussi à échapper à la partition, de même que l’Irak malgré la région autonome kurde.

Mais ce sont surtout des raisons démographiques qui rendent ces projets chimériques. En 2012, le «réduit» alaouite compte 1,8 million d’habitants. Sa population se décompose en 1,2 millions d’alaouites et 665.000 non alaouites, dont 340.000 sunnites, les plus exposés aux transferts de population en cas d’aggravation du conflit. Les autres communautés des deux gouvernorats de Lattaquié et Tartous, chrétiens et ismaéliens, seraient moins exposés.

Mais en dehors de ces deux gouvernorats, la Syrie compte un million d’alaouites, presque autant qu’à Lattaquié et Tartous. Pour la plupart, ils sont désormais très enracinés dans leurs lieux de vie et n’entretiennent plus que des liens ténus avec leurs villages ou leurs villes d’origine. Ces chiffres imposants montrent bien toute la démesure d’un découpage de la Syrie, inimaginable du fait du brassage de ses populations.

Youssef Courbage pour Slate.fr


A lire sur le sujet, de Youssef Courbage: Christian and Jews under Islam (avec Philippe Fargues, Tauris, 1998); «La population de la Syrie: des réticences à la transition (démographique)», in Baudoin Dupret, Youssef Courbage et al., La Syrie au présent, reflet d’une société (Paris, Actes-Sud, 2007).

D’autres auteurs: Jacques Weulersse, Le pays des Alaouites (Tours, 1940); Etienne de Vaumas, «Le Djebel Ansarieh. Eude de géographie humaine», Revue de géographie alpine (1960); Hana Batatu, Syria’s peasantry, the descendants of its lesser notables, and their politics, (Princeton U.P., 1999); Fabrice Balanche, La région alaouite et le pouvoir syrien(Karthala, 2006).

[1] Dans l’ensemble de ce pays de 21,6 millions d’habitants, la transition démographique piétine. Malgré la baisse rapide de la mortalité infantile (18/1000), la fécondité reste élevée et constante, avec 3,5 enfants lors de l’enquête sur la santé de la famille de 2009, ce qui situe la Syrie au rang des pays arabes les plus féconds (70% de plus que la Tunisie, 60% de plus que le Maroc, deux fois plus que le Liban). Avec des différences régionales phénoménales: les gouvernorats de minorités, Lattaquié et Tartous, ou celui de Soueida, où la fécondité est désormais très basse, ne croissent qu’au rythme de 1,6%, l’an contre 2,5% pour le reste du pays. Revenir à l’article

[2] A l’époque ottomane, la population de la Syrie était recensée selon la religion: musulmane (sans distinction des confessions détaillées), chrétienne (confessions détaillées) et juive. Sous le mandat français, les recensements mentionnaient la confession précise. Les recensements ultérieurs de 1947 et de 1960 donnaient la religion, mais non la confession précise, habitude qui fut abandonnée avec le recensement de 1970. L’état civil, en revanche, a longtemps continué à mentionner la religion pour les musulmans et les chrétiens, précisant pour ces derniers leur confession détaillée.

Les estimations actuelles sont fondées sur des projections démographiques réalisées à partir de données anciennes, des évaluations effectuées par des spécialistes du milieu syrien (Balanche, de Vaumas, Weulersse) et sur des imputations de certains paramètres démographiques à partir de données régionales (par exemple les gouvernorats de Lattaquié et Tartous pour les alaouites, celui de Soueida pour les druzes). On a donc en main des ordres de grandeurs raisonnables, mais en aucun cas des chiffres irréfutables à 100% comme auraient pu l’être ceux de recensements qui mentionneraient la confession détaillée ou la langue maternelle.

mardi, 16 octobre 2012

La Turquie à la croisée des chemins

La Turquie à la croisée des chemins : du « zéro-problème » au maximum d’ennuis

par Ramzy Baroud 

 
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Le consensus dans la presse a été général, ou du moins est-ce ce qui parait : la Turquie est imbriquée dans un désordre au Moyen-Orient qui n’est pas de son fait, alors que son « Zéro problème avec les voisins » – un moment la pièce maîtresse de la politique étrangère du Parti de la Justice et du Développement (AKP) – s’est avérée être une notion romantique de peu d’utilité en realpolitik.

Le but de la politique étrangère de la Turquie, « construire les liens forts économiques, politiques, et sociaux avec les voisins immédiats du pays tout en diminuant sa dépendance envers les États-Unis semblait être en vue, » écrivait Sinan Ulgen presque il y a presque un an. « Mais le Printemps arabe a exposé les vulnérabilités de la politique, et la Turquie doit maintenant chercher un nouveau principe directeur pour son engagement régional. »

Cette analyse n’était pas isolée et elle a été reprise de nombreuses fois. Elle suggère une certaine naïveté dans la politique étrangère turque et fait apparaître ses ambitions régionales comme désintéressées. Elle imagine également que la Turquie a été rattrapée par une série d’événements fâcheux, lui forçant la main pour agir de manière contradictoire avec ce qui devrait être sa véritable politique. Cette vision des choses n’est pas tout à fait exacte.

Les escarmouches récentes entre la Syrie et la Turquie qui ont commencé le 4 octobre, par des tirs d’obus de mortier depuis le côté syrien et qui ont coûté la vie à 5 personnes, dont 3 enfants, ont été « le dernier sang versé par la Turquie ». L’agence de presse turque Anadolu a rapporté les excuses syriennes officielles par le canal des Nations Unies peu après le bombardement, et le gouvernement syrien a promis une enquête, dont le sérieux demeure douteux. Mais les militaires turcs ont rapidement exercé des représailles, alors que le parlement venait de voter la prolongation d’une année le mandat qui leur permet d’exécuter des opérations trans-frontalières. Indépendamment de la violence à la frontière de la Syrie, ce mandat visait à l’origine les combattants kurdes du nord de l’Irak et il avait été déjà inscrit pour un vote mi-octobre.

L’évolution de la situation semble singulièrement irréelle. Il y a peu de temps encore, le Premier Ministre Turc Recep Tayyip Erdogan avait pris l’initiative d’un rapprochement avec la Syrie et l’Iran, au mécontentement d’Israël et des États-Unis. Il s’était référé au Président Syrien Bashar Al-Assad comme à « un frère », sachant bien toutes les implications politiques du terme employé. Quand la Turquie a voté contre des sanctions à l’égard de l’Iran aux Nations Unies en juin 2010, « elle a provoqué une crise, » selon un article du Wall Street Journal. Plus tard, la Turquie s’était disputée avec l’OTAN au sujet de l’initiative d’un nouveau système de missiles qui vise clairement l’Iran et la Syrie. « La Turquie est le opt-out [le participant qui se désengage - N.dT] de l’Alliance dans les pays Musulmans, » disait le même journal. Ces développements se produisaient dans la foulée de l’incursion militaire israélienne meurtrière contre le bateau turc Mavi Marmara, qui transportait de nombreux militants pacifistes turcs dans le cadre d’une initiative plus large – La Flotille de la Liberté de Gaza – destinée à briser le siège sur Gaza. Israël a assassiné 9 civils turcs et en a blessé beaucoup d’autres.

Erdogan comme d’autres officiels turcs, s’était élevé au rang de superstar parmi les peuples arabes, au moment ou justement l’un d’eux évinçait le Président égyptien Hosni Mubarak, lui-même complice dans le siège de Gaza. Tout naturellement, l’AKP devint un modèle politique, le sujet de débats universitaires sans fin ou à la télévision. Même culturellement et économiquement, la Turquie représentait alors une particularité dont il fallait débattre.

À l’intérieur, Erdogan et son parti étaient crédités d’une croissance économique massive et d’avoir su la gérer, et d’avoir pu – dans le cadre d’un système démocratique à présent contrôlé par des civils élus – mettre au pas un état-major militaire qui avait toujours été enclin aux coups d’État. À l’extérieur, Erdogan et son Ministre des Affaires Étrangères Ahmet Davutoglu, avaient réussi à partiellement briser l’isolement de la Turquie vis-à-vis de plusieurs dirigeants arabes, dont le libyen Mouammar Kaddafi. (Les dirigeants turcs s’étaient tout à fait rendus compte des récriminations des peuples arabes tandis qu’ils concluaient des contrats valant des milliards de dollars avec les dictateurs mêmes qu’ils ont aidé à évincer, ou encouragé à ce qu’ils soient renversés.) Bien que la sérieuse dispute d’Ankara avec Tel Aviv n’ait pas entraîné de changement côté israélien ou américain envers les Palestiniens, il y eut un sentiment de réelle satisfaction que, enfin, un pays assez fort comme la Turquie ait eu le courage de s’opposer à l’intransigeance et aux insultes israéliennes.

Puis la Tunisie renversa son président, et les cartes de la politique étrangère de la Turquie ont été mélangées comme jamais auparavant. Si les États-Unis, la France et d’autres pouvoirs occidentaux étaient en pleine contradiction dans leurs positions concernant les soulèvements, les révolutions et les guerres civiles qui ont traversé le Moyen-Orient et l’Afrique Du Nord ces 18 derniers mois, la politique étrangère de la Turquie fut particulièrement embrouillée.

Tout d’abord, la Turquie répondit d’une façon qui paru distante avec de brefs discours au sujet des droits, de la justice et de la démocratie des peuples. En Libye, les enjeux étaient plus élevés car l’OTAN était acharnée à contrôler les implications des révoltes arabes toutes les fois que cela lui était possible. La Turquie fut le dernier membre de l’OTAN à se joindre la guerre contre la Libye. Le délai s’est avéré coûteux car les médias arabes qui poussaient à la guerre s’en sont pris à la réputation et à la crédibilité de la Turquie.

Quand les Syriens se sont rebellés, la Turquie était cette fois prête. Elle s’appliqua à prendre très tôt l’initiative d’appliquer ses propres sanctions à Damas. Puis elle alla encore plus loin en refusant de voir que sa zone frontalière autrefois si bien gardée, se retrouvait inondée par la contrebande, le transport d’armes et les combattants étrangers. En plus d’accueillir le Conseil National de la Syrie, elle a également fourni un asile sûr à l’Armée Libre de la Syrie, qui a lancé sans aucun frein ses attaques depuis la frontières turque. Tandis que tout cela était justifiée au nom de la lutte contre l’injustice, c’était en fait une des principales raisons qui ont mis une solution politique hors de portée. La Turquie a transformé un conflit ensanglanté et brutal en une véritable lutte régionale. Le territoire syrien s’est retrouvé exploité pour un conflit indirect impliquant divers pays, camps politiques et idéologies. Et comme la Turquie est un membre de l’OTAN, cela signifiait que l’OTAN était aussi impliquée dans le conflit avec la Syrie, même si c’est d’une manière moindre que lors de sa guerre contre la Libye.

Naturellement, la dimension kurde dans le rôle de la Turquie en Syrie est énorme. Il est plus rarement mentionné dque la Turquie s’active en permanence à contrecarrer n’importe quel contrecoup venant des Kurdes dans la région du nord-est de la Syrie, qui risquent d’ouvrir un nouveau front, le premier étant grande partie confiné au nord de l’Irak. Écrivant dans le quotidien turc Zaman, Abdullah Bozkurt a parlé « d’une stratégie hautement risquée pour la Turquie, qui veut contrôler les rapides développements en Syrie du nord grâce aux services du Gouvernement Régional du Kurdistan dans l’Irak voisin, afin d’éviter d’être directement impliquée en Syrie. » De plus, Ankara a discrètement fait pression sur le SNC pour que celui-ci adopte une posture plus favorable vis-à-vis de la question kurde. Bozkurt a aussi rapporté que « Ankara a en toute discrétion poussé le SNC à élire en juin un indépendant kurde, Abdulbaset Sieda, en tant que dirigeant de compromis… afin que la Turquie puisse exercer son influence sur les environ 1,5 millions de Kurdes en Syrie. »

En effet, le ainsi-nommé Printemps arabe a rendu confuse la politique étrangère turque à l’égard des pays arabes, et même vis-à-vis de l’Iran, bien qu’il ait ensuite entraîné sa redéfinition. La Turquie était plutôt passive avant ou après les bouleversements. L’impression que la Turquie était restée en retrait et que les affrontements à sa frontière sud ont finalement poussé Ankara à s’impliquer, est cependant incorrecte et trompeuse. Indépendamment de la façon dont les politiciens turcs souhaitent justifier leur participation aux conflits, il n’y a aucune échappatoire possible au fait qu’ils ont participé à la guerre contre la Libye et qu’ils sont maintenant empêtrés, dans une certaine mesure volontairement, dans le brutal désordre qui règne en Syrie.

La triste ironie est que quelques heures après que la Turquie ait exercée des représailles aux tirs d’obus par la Syrie, le ministre israélien Dan Meridor se soit autorisé à déclarer aux journalistes à Paris qu’une attaque contre la Turquie était une attaque contre l’OTAN – manifestation sournoise d’une solidarité calculée. Il a ajouté que « si le régime d’Assad devait tomber, ce serait un coup déterminant contre l’Iran. » Avigdor Lieberman, le ministre israélien des Affaires Étrangères avait du mal à cacher son excitation, car ce que les néoconservateurs américains ont du mal à accomplir est maintenant mis en œuvre par procuration. Lieberman – pas vraiment ce que l’on peut appeler un visionnaire – a prédit l’irruption « d’un Printemps persan » qui selon lui, doit être soutenu. Pour Israël et les États-Unis, maintenant que la Turquie est embarquée pour de bon, les possibilités sont sans fin.

Ankara doit reconsidérer son rôle dans cette calamité qui ne cesse de s’aggraver et adopter une politique plus raisonnable. La guerre ne devrait pas être à l’ordre du jour. Trop de gens ont déjà été tués.

Ramzy Baroud (http://www.ramzybaroud.net), un journaliste international et directeur du site PalestineChronicle.com. Son dernier livre, Mon père était un combattant de la liberté : L’histoire vraie de Gaza (Pluto Press, London), peut être acheté sur Amazon.com. Son livre, La deuxième Intifada (version française) est disponible sur Fnac.com

Intervention d'Alain Cagnat

 

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Intervention d'Alain Cagnat lors de la XVII° Table Ronde de "Terre & Peuple" 

 

LE COMBAT CULTUREL

  

Comme Martin Luther King, « I have a dream ». Imaginons que le Front National remporte les prochaines élections présidentielles puis législatives. Qu’en ferait-il ? Faute de cadres aptes à investir les lieux du pouvoir, il ne pourrait le conserver longtemps. Mais, en fait, il ne peut conquérir le pouvoir, parce que, même s’il obtenait la majorité dans les urnes, il lui manquerait l’essentiel : le contrôle de la société civile.

  

L’INANITE D’UN COMBAT POLITIQUE SANS COMBAT CULTUREL

  

Pour Antonio Gramsci, la puissance de l’Etat, dans un pays moderne, est scindée en deux : le pouvoir politique, constitué des instances de gouvernement (exécutif, Parlement) et des piliers de l’Etat (armée, police, justice), et la société civile, composée des institutions culturelles (intellectuels, système éducatif, universités, médias, artistes, groupes d’influence). Pour simplifier les « faiseurs d’opinion ».

 

 

Pour que le pouvoir puisse fonctionner, il faut qu’il y ait concordance entre les deux sociétés, politique et civile. Si ce n’est plus le cas, sans contrôle de la société civile, la société politique n’est pas en état de diriger le pays. L’Etat semble solide sur ses bases, mais, en fait, il ses bases sont pourries. Comme une tour du World Trade Center, il s’effondre tout d’un bloc, alors qu’à la seconde précédente, il paraissait indestructible.

  

Il est donc essentiel, pour le pouvoir, de « tenir » la société civile. Cela passe par un contrôle sans faille du pouvoir culturel qui s’exerce dans tous les secteurs et à travers tous les vecteurs de la vie politique, économique, mais aussi médiatique et artistique : télévision, cinéma, théâtre, presse, maisons d’édition, mode, urbanisme, mœurs…

  

A contrario, pour l’opposition, il ne peut y avoir de combat politique efficace qui ne repose sur un combat culturel parallèle. A défaut, la quête du pouvoir est pure utopie. L’analyse de Gramsci était très pertinente. Il est seulement dommage que les marxistes l’aient lue avant nous. Et il faut se rendre à l’évidence : à l’heure actuelle, le pouvoir culturel nous échappe complètement. Comment en est-on arrivé là ?

  

LE CONSTAT DES ANNEES 1960

  

En 1962, la droite dite nationale n’existe plus. Elle a été décapitée, intellectuellement et physiquement, lors de l’Epuration de 1944-45 d’abord, puis à l’occasion de la défense de l’Algérie Française. Une fausse droite, la droite des moutons, la remplace : pétainistes en 40, gaullistes en 44, Algérie française en 58, Algérie algérienne en 62, gaullistes, giscardiens, puis chiraquiens et enfin sarkozystes. Ils sont ce « peuple de veaux » que méprisait leur idole. Ils n’ont aucune idéologie, sinon celle de leur petit confort ; couards à en vomir, ils sont prêts à tout accepter du moment qu’on les laisse jouir tranquillement de leur vie de néant.

  

Julius Evola écrivait dans Des Hommes au milieu des Ruines : « Le problème fondamental consiste à déterminer s’il existe encore des hommes capables de repousser toutes les idéologies, toutes les formations partisanes et tous les partis politiques qui dérivent, directement ou indirectement de ces idées, c’est-à-dire, en fait, tout ce qui va du libéralisme et de la démocratie au marxisme et au communisme ». Une poignée de militants va relever le défi du combat culturel : ils appartiennent à la Fédération des Etudiants nationalistes et au mouvement Europe-Action. Ils sont les Soldats de la Classe 60 qu’appelait de ses vœux Robert Brasillach du fond de sa prison. Ils ont compris que la décennie 1960 allait transformer le monde, par la décolonisation d’abord, et ses conséquences migratoires, puis par la révolution culturelle qui trouvera son point d’orgue en 1968. C’est grâce à eux que naît ce mouvement intellectuel qu’on a appelé la Nouvelle Droite, dont le fer de lance fut le GRECE. C’est ce combat culturel qu’a repris Terre et Peuple, non pas pour sombrer dans l’intellectualisme où se sont égarés certains, mais pour nous emparer, un jour, du pouvoir politique.

  

Entre 1977 et 2012, un événement majeur est intervenu : l’effondrement de l’URSS. D’aucuns ont cru, naïvement, que les idées marxistes allaient disparaître dans les gravats du Mur de Berlin. Ceux-là n’avaient pas compris que le marxisme n’était qu’une des branches de l’égalitarisme. Le libéralisme en est une autre, avec sa volonté de réduire l’individu en un consommateur décérébré qu’on assommera à coups de loisirs débilitants et à qui on inculquera que la seule valeur qui vaille, c’est l’argent.

  

En 1977, le GRECE publiait un petit ouvrage intitulé Dix ans de combat culturel pour une renaissance, qui faisait le point sur la première décennie de ce combat culturel. Il parlait de terrorisme intellectuel, d’antiracisme, d’identité, d’éducation, d’enracinement… Force est de constater, à sa relecture, 35 ans plus tard, que l’ennemi a progressé sur toute la ligne de front.

  

LA SUBVERSION INTELLECTUELLE

  

athena05.jpgLa décennie 1960, et particulièrement Mai 68, fut un désastre spirituel et culturel. La volonté de l’intelligentsia subversive qui prit les commandes du pouvoir culturel à ce moment-là et ne l’a plus quitté, est de déstructurer à la fois la société, en sapant l’autorité, en combattant toute hiérarchie, en inversant les valeurs, et l’individu, en effaçant sa mémoire, en le coupant de ses origines, en brisant sa culture.

 

Le postulat est que tout se vaut, les individus comme les cultures. La normalité n’existe pas, ou bien, tout est normal, à commencer par l’anormalité. L’hétérosexualité n’est pas plus normale que l’homosexualité. Les fous ne sont pas plus fous que les gens normaux. Les criminels sont encore plus des victimes (de la société) que les vraies victimes, et méritent donc plus de compassion. On ne parle plus de sanction, de dette envers la société ou de mise à l’écart pour empêcher le délinquant de nuire, mais on parle de réinsertion : la prison, , doit être l’exception. Les « sans papiers » ne sont plus des clandestins hors la loi, mais des citoyens en attente de régularisation. Les « roms » sont des victimes ; s’il y a tant de délinquance chez eux, c’est qu’on n’est pas assez gentil avec eux. Toute marginalité est bienvenue. Toute discrimination est strictement prohibée. L’ennemi, c’est l’altérité : raciale, ethnique, culturelle, sexuelle même.

 

DETRUIRE LA FAMILLE

  

Le plus important est de détruire la famille. Par trois chantiers : la légalisation de l’avortement, la banalisation du divorce, et l’apologie de l’homosexualité.

 

 

Avec l’avortement légalisé et remboursé, sans garde-fou, les femmes sont enfin libres de leur corps, vieille revendication des féministes et des soixante-huitardes. La fécondité, quelle horreur ! Depuis 1974, ce sont plus de six millions de petits êtres innocents qui ont fini dans les crématoires hospitaliers de France. Merci, Simone. Et ce qui est encore mieux, c’est qu’il s’agit surtout de petits Blancs. Parce que dans les « quartiers », on n’avorte qu’exceptionnellement.

  

On a rendu le divorce de plus en plus facile : un pet de travers de l’un ou de l’autre, et hop, un petit tour chez le juge, et vive la liberté. Et puis, les familles recomposées, c’est tendance. C’est chouette d’avoir, tout à coup, des tas de frères et sœurs avec lesquels ont vit un temps, puis dont on change, au gré des rencontres de Papa ou Maman. Occulté totalement, le traumatisme réel des enfants dont les parents se séparent. Et pour enfoncer le clou, on a instauré, en amont, le PACS en 1999 : même plus besoin de divorcer !

  

L’homosexualité était perçue comme une déviance, et même une maladie mentale par l’OMS jusqu’en 1981. Aujourd’hui, c’est aussi tendance. Mais si vous n’en pensez pas que du bien, c’est que vous êtes homophobe ! Homophobe ou raciste, c’est pareil : gare à l’arsenal répressif ! L’une des promesses de la gauche (qui ne coûte pas grand-chose, celle-ci) est d’autoriser le mariage entre deux personnes de même sexe : c’est moderne, d’ailleurs d’autres pays l’ont fait avant nous, l’Espagne, le Portugal… c’est que ça doit être bien. Certains pensent même à instaurer un « mariage pour tous » : on pourrait se marier à trois ou à quatre. En 2003, le magazine Elle avait même inventé un nouveau terme : le « trouple » pour couple + trio. Ce serait chouette et comme ça, on ferait plaisir aux partisans de la charia qui prônent la polygamie.

 

 

Mieux, les homosexuels pourront adopter. C’est le petit qui va être content (ou la petite) : il (elle) aura deux papas ou deux mamans. D’ailleurs, les futurs livrets de famille ne comporteront plus les mentions « père » et « mère », mais « parent 1 » et « parent 2 ». Plus grave, on sait qu’un certain nombre d’homosexuels hommes (même si ce nombre est faible) sont aussi pédophiles. Pour preuve, il n’y a pas si longtemps, le Larousse et le Robert définissaient la pédérastie (mot suspect aujourd’hui, mais prisé par André Gide) pour qualifier aussi bien un homme qui a des rapports sexuels avec un autre homme, qu’un homme qui a des rapports sexuels avec un enfant. Qu’est-ce qui garantira que l’enfant adopté ne sera pas la victime de quelques prédateurs ?

  

Pour parachever le tout, on a inventé le « genre ». On ne serait homme ou femme que parce que la société nous conditionnerait dans ce rôle dès le plus jeune âge. Le résultat d’un apprentissage culturel. Peu importe que cette aberration soit en contradiction totale avec la nature ! Dans certaines maternelles, on fait jouer les garçons à la poupée et on met les filles à l’établi. A quand des individus asexués ou hermaphrodites ? On voit bien la main des lobbies homosexuels derrière cette opération.

  

On a donc bien compris que cette intelligentsia voulait détruire les fondements du vieux monde. Mais pour le remplacer par quoi ? Par une nouvelle religion dont les piliers s’appellent égalitarisme, universalisme et antiracisme.

  

LA RELIGION DE L’EGALITARISME

 

 

Cette idéologie va à l’encontre des lois de la Nature qui montrent que le monde n’est que diversité et hétérogénéité. Elle est totalement étrangère à l’univers des peuples européens. Les sociétés indo-européennes sont fondées sur une organisation trifonctionnelle : la souveraineté et le sacré, tout en haut, la fonction guerrière ensuite, et enfin la fonction productive.

  

Il faut remonter au christianisme primitif pour trouver la source de l’égalitarisme. Mais celui-ci définit les hommes comme égaux seulement devant Dieu. C’est avec le mouvement des idées du XVIIIème siècle que l’égalitarisme se laïcise. L’avènement de la démocratie en Angleterre, la Révolution française puis les révolutions marxistes l’ont érigé en idéologie dominante.

  

Il faut détruire les peuples dans leur variété, car chacun porte ses traditions, sa culture, sa langue, etc. en un mot ses différences. La République jacobine ne s’y est pas trompée qui a tout fait pour éradiquer tout particularisme régional, depuis plus de 200 ans. Le but est de transformer les individus en êtres indifférenciés, donc parfaitement interchangeables. Le nivellement des masses commencer dès le plus jeune âge et suivre l’individu tout au long de sa vie. Toute méritocratie doit être abolie.

  

Selon le postulat « Tout se vaut », il faut rabaisser la civilisation européenne et rehausser les autres cultures. Le discours ambiant proclame donc que la civilisation européenne ne serait rien sans l’apport des civilisations orientales, en particulier la civilisation arabo-musulmane. Comme on a pu le voir récemment dans une série sur ARTE, L’Orient et l’Occident, les Européens devraient tout non seulement aux Arabes, mais aussi aux Ottomans, aux Sumériens, aux Egyptiens et même aux Mongols (sic). Par exemple, Copernic n’aurait fait que plagier un savant arabe du 13ème siècle, etc. Si l’on comprend bien, sans ces braves gens, nous serions encore couverts de peaux de bêtes et nous vivrions dans des cavernes.

  

Il va de soi qu’un livre comme celui de Sylvain Gouguenheim, Aristote au Mont Saint-Michel, dérange beaucoup. Il démontre de manière scientifique que le Haut Moyen Age n’est absolument pas la période sombre qu’on veut bien nous faire croire, et que le savoir des Grecs a été transmis par les monastères occidentaux et par l’Empire romain d’Orient qui fut un foyer de foisonnement intellectuel à Byzance jusqu’en 1453. « L’image biaisée d’une chrétienté à la traîne d’un Islam des Lumières » relève plus du parti pris idéologique que de l’analyse scientifique » ne pouvait lui valoir que l’anathème de la bien pensance.

  

LA RELIGION DE L’UNIVERSALISME

  

L’universalisme est le pendant de l’égalitarisme. L’individu indifférencié devient le citoyen du monde et nous sommes tous des habitants du « village monde ». Le rêve de ces fanatiques est d’établir un gouvernement mondial. Il ne faut pas croire que ce n’est qu’utopie. Le Nouvel Ordre Mondial, voulu aussi bien par les marxistes que par les libéraux, pour des raisons faussement antagonistes, est déjà en marche avec toutes ses courroies de transmission internationales : ONU, OMC, Union Européenne, etc. Ce qu’explique Jacques Sévilla, dans Historiquement incorrect : « La libre circulation des biens, des capitaux et des hommes et le matérialisme mercantile tendent à considérer l’être humain comme un consommateur, et la planète comme un marché sans frontières. Au regard des exigences du libre-échange, les nations sont des enracinements à combattre ».

 

 

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Michèle Tribalat, quant à elle, dans Les yeux grands fermés, parle de « totalitarisme doux » :«  Les défenseurs des droits de l’homme et ceux d’une conception libérale se rejoignent pour souhaiter une libre circulation des hommes alignée sur celle des marchandises et des capitaux… Ils invitent à considérer les flux migratoires comme des rivières naturelles contre lesquelles on ne peut pas grand-chose et auxquelles il faut plutôt songer à s’adapter avec entrain…»

  

L’ABRUTISSEMENT DES FOULES

 

 

Big Brother n’a pas oublié la maxime des Romains : « Du pain et des Jeux » pour le peuple. Son arsenal est infini : la téléréalité, les jeux télévisés débiles, les films bien pensants, les people, le bling-bling… Surtout ne pas donner à réfléchir à ce troupeau d’imbéciles qui bouffent du McDo, boivent du Coca et se gavent de séries américaines. Ce sont, comme l’écrit Richard Millet, dans De l’antiracisme comme terreur littéraire : « Des esclaves convaincus que leur néant est la forme suprême du bonheur ».

  

Je ne cesse jamais de m’étonner en consultant le classement des personnalités préférées des Français du Journal du Dimanche. Les lauréats sont : Yannick Noah, Omar Sy, Zinédine Zidane, Jamel Debbouze, Gad Elmaleh, et Mimie Mathy qui a détrôné l’icône Simone Weil. Je ne vous dirai surtout pas qu’il y a là deux personnes d’origine africaine, deux personnes d’origine maghrébine, deux personnes de religion juive et une personne qui a un handicap. La police de la pensée dirait que c’est discriminatoire et je serais d’accord avec elle. Non, je m’étonne plutôt que Yannick soit un délinquant fiscal, qu’Omar ait émigré fiscalement aux Etats-Unis dès qu’il est devenu riche, que Zinédine soit notamment célèbre pour donner des coups de boule dans les stades et que Jamel soit très discret sur son passé de délinquant. Finalement, il n’y a que Mimie pour laquelle j’ai de la considération. Mais c’est un avis tout personnel.

  

Je m’étonne qu’il n’y ait dans ce classement pas de sportifs comme Sébastien Loeb, Yannick Agnel ou Christophe Lemaître, ou de chanteurs comme Charles Aznavour, Serge Lama ou Patricia Kaas, par exemple. Ni de scientifiques, ni d’écrivains, ni de médecins… Pensez, il n’y a même pas Bernard-Henri Lévy ! Mais, enfin, quand on sait que 19 millions d’habitants de ce pays sont allés voir Intouchables, avec le même Omar Sy, un bel hymne à la diversité où le Blanc est un benêt, je ne m’étonne plus de rien.

  

LE TERRORISME INTELLECTUEL

 

L’idéologie totalitaire a besoin de moyens totalitaires pour faire taire les rebelles. Elle a donc développé tout un arsenal de lois liberticides qu’applique avec zèle la meute des chiens de garde d’une magistrature collabo tout acquise à la « cause ». Il ne faut pas hésiter à parler d’une nouvelle inquisition. Les grands prêtres en sont les intellectuels de magasin Lidl comme Bernard-Henri Lévy, Jean-François Kahn ou Laurent Joffrin. Leurs officines s’appellent Le Monde, Libération, Le Nouvel Observateur… Derrière Le Monde, il y a la Banque Lazard, et derrière Libération, il y a la Banque Rothschild ! Etonnant, non ? Mais rares sont les hommes courageux qui osent s’opposer à cette dictature de la pensée dans la droite des moutons. La plupart préfèrent hurler avec les loups.

  

Autrefois, aux yeux de l’intelligentsia, l’ennemi était le fasciste, terme utilisé à tout bout de champ et toujours hors de propos. De nos jours, quatre blasphèmes vous emmènent directement en Correctionnelle, autrement appelée TGI, non pas pour Tribunal de Grande Instance, mais Tribunal de la Grande Inquisition : antisémite, raciste, homophobe, islamophobe. La liste n’est pas exhaustive et s’enrichit régulièrement. Ainsi, dès qu’un auteur exprime des idées contraires au « politiquement correct », il est mis au ban de la société. C’est ainsi que des enseignants (Dimitri Casali), des historiens (Sylvain Gouguenheim, Jacques Heers, Daniel Lefeuvre, Olivier Piétré-Grenouilleau, Jacques Sévilla), des géopoliticiens (Aymeric Chauprade, Annie Laurent, Bernard Lugan), des démographes (Jean-Paul Gourevitch, Michèle Tribalat), des sociologues (Hugues Lagrange, Pierre-André Taguieff), des écrivains (Richard Millet, Jean Raspail) subissent, à des titres divers, les foudres du Système pour avoir osé se dresser contre lui.

  

Les gens des médias n’échappent pas à la règle, comme Eric Zemmour pour avoir dit que les prisons étaient remplies de Noirs et de Maghrébins. Et il faut s’appeler Gilles-William Goldnadel et être membre du comité directeur du CRIF pour écrire impunément Réflexions sur la question blanche en 2010.

  

LES ATTEINTES A LA LIBERTE D’EXPRESSION : LES LOIS MEMORIELLES

  

« Tout individu a droit à la liberté d'opinion et d'expression, ce qui implique le droit de ne pas être inquiété pour ses idées, et celui de rechercher, de recevoir et de répandre, sans considération de frontières, les informations par quelque moyen que ce soit » (Déclaration internationale des Droits de l'Homme, adoptée par l'ONU le 10 Décembre 1948).

  

Il y a longtemps que la liberté d’expression n’existe plus en France, si tant est qu’elle ait existé sous les différentes Républiques. « Pas de liberté pour les ennemis de la liberté ! », comme disait Saint-Just. Aujourd’hui, il n’y a plus de guillotine pour se débarrasser des ennemis de la république, mais on a inventé les lois liberticides, joliment appelées lois mémorielles. Et l’arsenal répressif est impressionnant. La prison, bien sûr, mais elle est rarement utilisée, car les établissements pénitentiaires manquent de place. Et puis, il y a une sanction qui est beaucoup plus efficace, celle qui fait mal au portefeuille : l’amende, généralement très élevée, dont on sait qu’elle mettra le récalcitrant à genoux, qu’il aura du mal à s’en relever et que, probablement, il en sortira dégoûté et hors d’état de nuire. Celle-ci peut aller jusqu’à 45 000 euros. Il vaut mieux brûler des voitures, vendre de la coke ou s’éclater dans une tournante.

  

LA LOI FABIUS-GAYSSOT : LA RELIGION DE LA SHOAH 

 

« Les juifs n’ont pas le monopole du martyre ! On comptait beaucoup d’Auvergnats, de Périgourdins, voire de Bretons à Auschwitz et à Dachau. Pourquoi nous rebat-on les oreilles avec le malheur juif ? Oublie-t-on le malheur berrichon ? Le pathétique poitevin ? Le désespoir picard ». C’est Patrick Modiano qui s’exprime ainsi dans La Place de l’Etoile, en 1968. Impensable aujourd’hui !

  

Car la première loi mémorielle est la loi Fabius-Gayssot (1990) qui définit le délit de « négation des crimes contre l’humanité ». Grâce à elle, la Shoah est devenue le Dogme absolu, intouchable, ainsi que l’explique Jacques Heers dans L’Histoire assassinée : « On ne peut nier que ces condamnations lancées par le pouvoir politique aient lourdement pesé sur la recherche historique. Cela s’affirme évident lorsque ce pouvoir, ayant fait connaître sa vérité jusque dans les détails, interdit formellement toute nouvelle enquête, révision, précision même qui risquerait de mettre en cause ses certitudes, ne serait-ce que sur un seul aspect du problème. Lorsque le seul fait de souhaiter confier aux historiens l’étude du passé, sur tel ou tel point contesté, est aussitôt pris pour un grave délit, il est bien clair que toute recherche se trouve figée, réduite à la clandestinité ou, plutôt, réduite à néant ».

 

 

Il faut s’appeler Jacques Sévilla pour oser écrire : « Or, à écouter le discours dominant, celui qui prévaut au cinéma, à la télévision, dans les livres ou les commémorations officielles, le sort tragique de ceux qui ont été déportés uniquement parce qu’ils étaient juifs paraît désormais le seul à bouleverser les consciences… La solution finale est une tragédie particulière qui s’est déroulée au sein d’une tragédie générale ».

  

C’est que le sujet est totalement sacralisé et verrouillé, comme l’explique le gourou de la Shoah, Claude Lanzmann : « Il y a sans doute eu des excès dans la « mobilisation mémorielle. » Mais ne vous y trompez pas : « ce » n’est pas fini et ça ne finira pas... Oui, les outrances, les rituels, les commémorations… peuvent énerver. Ceux que ça énerve n’ont qu’à soigner leurs nerfs ». Voila, c’est dit. Nous ne sommes plus dans le rationnel et l’objectif. Nous sommes dans l’irrationnel, le mystique, le sacré. Pierre Nora parle de « nouvelle religion séculière » et Goldnadel de « religion shoahtique ».

  

Une telle attitude n’est pourtant pas sans danger comme l’écrit Esther Benbassa : « La mémoire de la Shoah s’impose… jusqu’à légitimer une étonnante tendance à la victimisation, victimisation qui immunise le juif contre toute critique et immunise par là même Israël ». La Shoah serait donc un système qui permettrait à la communauté juive de noyauter tous les pouvoirs, politique, financier, médiatique, show-business…, de réclamer toujours plus de réparations, de culpabiliser encore et toujours les Allemands qui ont commis l’Holocauste, les Suisses qui ont détourné la fortune des déportés, les Français qui ne les ont pas assez aidés, et également de soutenir coûte que coûte l’Etat d’Israël. C’est la thèse de Norman Finkelstein dans L’industrie de l’Holocauste, Réflexions sur l’exploitation de la souffrance des juifs (2000). L’antisémitisme des banlieues se nourrit des outrances du discours sur la Shoah.

  

LA LOI TAUBIRA : LES TRAITES NEGRIERES

  

La seconde est la loi Taubira (2001), qui qualifie de crime contre l’Humanité la seule traite négrière pratiquée par les Européens, pourtant moins importante que celle pratiquée par les Arabes ou par les Noirs entre eux. Car « Il ne faut pas désespérer les banlieues » dira-t-elle pour se justifier. Jacques Heers lui répondra : « Personne ne devait s’y tromper, on ne voulait parler que des Français et des Anglais, seuls responsables du dépeuplement de l’Afrique. […] Quant aux Musulmans, mieux vaut se taire : ce serait du racisme ». Et la loi Taubira va très loin. Elle exige que, non seulement la mémoire des esclaves soit défendue, mais aussi que « l’honneur de leurs descendants soit également défendu ». Ce qui légitime et légalise pour la première fois le principe du malheur héréditaire.

 

 

Mais notre chère Garde des Sceaux ne s’est jamais indignée du fait que l’esclavage perdure dans 23 pays d’Afrique (Mauritanie, Somalie, Soudan, Congo,…) et du Proche-Orient (Yémen, sultanat d’Oman, Arabie saoudite,…), touchant au moins 27 millions d’individus ! Pourquoi ne pas faire de loi mémorielle sur le massacre des Albigeois, des Vaudois et autres protestants ? Ou sur le génocide que nos révolutionnaires ont pratiqué en Vendée ? Mais non, il y a de bons génocides (ceux qui exterminent les méchants) aux yeux de nos donneurs de leçons.

  

Jacques Heers a démonté le procédé : « L’Etat, maître depuis longtemps dans l’art de dicter l’Histoire par célébrations et pantomimes, sait aussi, depuis quelques années, montrer d’un doigt vengeur les affreux, les criminels et les pervers dans un passé de plus en plus lointain. […] Contre ces maudits, les forces du Bien mènent non une guerre de conquête mais une expédition punitive, une croisade des temps modernes. […] Ces escroqueries intellectuelles sont délibérément préparées puis imposées par une volonté politique qui décide de ses choix et prétend, au nom d’une idéologie, d’intérêts immédiats, d’une complaisance diplomatique, écrire et réécrire l’Histoire ».

  

LA RELIGION DE L’ANTIRACISME

 

 

L’UNESCO écrivait dans son Courrier en novembre 1974 : « L’utilisation du mot race pour désigner différents groupes ethniques n’est pas erronée. Différentes races existent bien et sociologues, anthropologues, etc. utilisent tous ce mot. Ce qui est erroné, c’est de penser à ces différentes races en termes d’infériorité ou de supériorité ». Cela tombe sous le sens. Mais c’était en 1974. Depuis, la grande machine à laver les cerveaux a fait des ravages.

  

C’est Gilles-William Goldnadel qui écrit dans Réflexions sur la question blanche : « Il fut pourtant un temps, pas si lointain, où le mot race et la chose n’avaient rien d’interdit. Mais depuis la Shoah, l’irrationnel le plus complet s’est emparé du concept racial ». Et encore : « L’obsession xénophile issue du choc médiatique de la Shoah est passée au milieu. Dans le mitan des années 1960. C’est elle qui proscrit désormais toute réflexion identitaire nationale autour de questions religieuses ou ethniques. Et même rend sulfureuse la seule évocation de l’idée de race ».

 

Ainsi, il y a bien des races de chiens, de chats, de bovins, d’ovins, de poules…, mais, contrairement à l’évidence, il n’y a plus de races humaines, il n’y a qu’une espèce humaine qui est LA race humaine. Les races humaines n’existant pas, il a bien fallu, pour continuer à différentier les peuples entre eux, parler d’ethnies, faisant ainsi dériver le sens de ce mot. Comme le dit Alain de Benoist : « En supprimant le mot, on croit supprimer la chose. Mais les mots ne sont pas les choses, et les réalités demeurent ».

  

Les officines porte-flingues de la police de la pensée veillent : SOS Racisme, le MRAP, la LICRA, le CRIF, les Indigènes de la République, le CRAN… Gare à l’imprudent ! Il se retrouvera vite traîné en Correctionnelle, ou à tout le moins lynché dans les médias qui pensent bien. Comme Richard Millet : « La gnose antiraciste tente de nous persuader que les races n’existent pas, à tout le moins la race blanche, coupable, exclusivement, de tous les maux, et promise, punition et rédemption, à disparaître dans la fade colorisation du métissage universel prôné par le parti dévot … Il est donc devenu, même avec la caution de Lévi-Strauss, impossible de s’interroger sur le seuil de tolérance ou sur la couleur des gens, leur origine, le caractère de ce qui est français, la nation, la faillite de l’enseignement, la culture comme universalisation du mensonge, bref tout ce qui dégrade un réel que la Propagande tente d’escamoter mais qui ne cesse de resurgir dans la violence de sa vérité ». Car les faits sont têtus.

  

LE RACISME ANTI-BLANC

  

L’antiracisme est à sens unique. Le racisme ne peut s’exercer que de la part des Blancs à l’encontre des Noirs, des Jaunes ou des Rouges. Jamais à l’inverse. C’est ce qu’explique Goldnadel : « L’antiracisme sait faire montre de discernement compréhensif. On tolère aisément que des mouvements revendicatifs communautaristes – comme les Indigènes de la République – se réclament ouvertement de la notion de race. On admet parfaitement qu’un Antillais puisse se sentir une solidarité chromatique naturelle, par exemple dans le domaine sportif, avec un Ivoirien ou un Sud-Africain. Mais un Blanc ! Suggérer la possible existence d’une race blanche, et vous allez entendre toute la gamme des bruits martyrocrates qui vont du toussotement gêné au hurlement vengeur en passant par le ricanement goguenard ».

  

Parmi le florilège des cris de vierges effarouchées, citons SOS Racisme : « Nous ne pouvons accepter la notion de racisme anti-Blancs parce qu’elle est une thèse défendue depuis longtemps par l’extrême-droite ». En résumé, parler de racisme anti-Blanc, c’est, aux yeux des antiracistes, encore du racisme. Les Indigènes de la République, eux, ont un raisonnement quelque peu spécieux : le Blanc ne peut être victime de racisme puisque c’est lui qui en a inventé le concept (sic). C’est qu’ils nous aiment bien, ces indigènes, comme le prouvent ces propos de leur présidente, Houria Bouteldja : « Aujourd’hui, il y a encore des gens comme nous qui vous parlent encore. Mais, demain, il n’est pas dit que la génération qui suit acceptera la présence des Blancs ». Si ce n’est pas du racisme anti-Blanc, qu’est-ce que c’est ?

  

Je ne résiste pas à l’envie de vous réciter quelques paroles extraites de chansons de rap, qu’on connaît par cœur dans les « quartiers » :

 

-          « Les keufs connaissent l’odeur de ma bite » ( groupe Brûle),

 

-          « Faut que Paris crame ! » (groupe Salif),

 

-          « J’ai envie de dégainer sur les faces de craie » (groupe Amer),

 

-          « C’est pour niquer la France… Flippe pour ta femme, tes enfants, pour ta race ! On est installés ici et c’est vous qu’on va mettre dehors » (groupe Smala),

 

-          « On va emmener les porcs à la morgue, brûler leur sperme en échantillon, souder leurs chattes. Quand j’vois la France les jambes écartées, j’l’encule sans huile » (groupe Lunatic),

 

-          « J’aime les CRS morts… J’prends mon temps à me dire que j’finirai bien par leur tirer dessus » (groupe Islam)

  

Du racisme anti-blanc ? Pas du tout, c’est de l’art. D’ailleurs, ces sublimes chansons sont en vente à la FNAC, chez Virgin ou chez Amazon ! 

Pierre Desproges disait  : « Je serai antiraciste quand on écrira « racismes » au pluriel ».

  

Mais il ne faut pas désespérer. Même l’UMP, ou tout au moins une partie du parti des moutons, deviendrait courageuse. Jean-François Copé ose parler de racisme anti-blanc dans son manifeste, « La droite décomplexée ». Même si c’est par calcul, c’est révélateur.

 

 

METISSEZ-VOUS !

 

 

L’heure est au métissage obligatoire. Mais pour les Blancs seulement. Comme l’écrit Goldnadel, « La France, c’est comme une Mobylette : elle marche au mélange », disaient finement les gentils potes de SOS-Racisme, la main jaune sur le cœur, telle l’étoile nostalgiquement regrettée. L’homme blanc, l’indigne, pour survivre, doit disparaître… ».

  

Cet avis est partagé par Taguieff : « En quoi le « pluriel » et le « métissé » sont-ils plus dignes d’admiration que ce à quoi on les oppose ? Pourquoi préférer la « diversité », source d’inégalité et de conflit, à l’homogénéité ou à l’unité ? Cette vision d’un avenir radieux est fondée sur deux axiomes : le changement est amélioration, le mélange est « enrichissement »... Mais ces deux propositions ne font qu’exprimer des croyances, et, ainsi formulées, elles sont l’une comme l’autre fausses : tout changement n’implique pas une amélioration, tout mélange ne constitue pas un « enrichissement »

  

Il l’était également par Alain de Benoist, dans les années 1970 : « Vaut-il mieux une planète où coexistent des types humains et des cultures variés, ou bien une planète dotée d’une seule culture et, à terme, d’un seul type humain ? On pourrait distinguer entre raciophobes et raciophiles. Les premiers souhaitent la disparition des races, donc l’uniformisation des modes de vie. Les seconds pensent que c’est la pluralité de l’humanité qui fait sa richesse, et qu’un monde où l’on retrouverait, sur les deux hémisphères, les mêmes villes, les mêmes immeubles, les mêmes magasins, les mêmes produits, les mêmes modes de vie, serait un monde incontestablement appauvri ».

 

Eh bien, oui ! Nous sommes des raciophiles, ou des ethno-différentialistes si l’on préfère. Nous voulons conserver la diversité et la spécificité des peuples de la Terre, celles des Bretons et des Alsaciens, bien sûr, mais aussi celles des Navajos des Etats-Unis, des Jivaros du Brésil, des Hottentots d’Afrique du Sud, des Karens de Birmanie et des Aborigènes d’Australie. Nous ne voyons pas quel avantage tirerait l’Humanité du métissage des Masaï avec des Ouïghour. Les racistes ne sont pas ceux que l’on pense.

  

RABAISSER L’HOMME BLANC PAR LA CULPABILITE ET LA REPENTANCE

 

 

La démolition de la société européenne passe par la culpabilisation de l’Homme blanc. Les Français ne furent que d’horribles esclavagistes au XVIIIème siècle, d’affreux colonialistes au XIXème et d’infâmes collabos au XXème. Nous sommes « coupables de crimes contre l’Humanité, contre la civilisation, contre les Droits de l’Homme », c’est l’infâme Gilles Manceron qui l’écrit dans Marianne et les colonies. Introduction à une histoire coloniale de la France. Repentons-nous, mes frères, pour tant d’ignominie. Trempons-nous dans le goudron et couvrons-nous de plumes. Nous ne méritons que cela.

 

Je prendrai un exemple, celui de l’apport de la société arabo-musulmane à la civilisation occidentale. Aux yeux des partisans de cette pseudo-thèse, il s’agit de ce qu’on peut appeler un « héritage oublié ». Avoir oublié un héritage, c’est-à-dire ce que l’Europe doit au monde arabo-musulman, c’est avoir une dette à son égard, c’est se montrer ignorant et ingrat, donc coupable.

  

Un autre exemple, celui du film Indigènes dont on veut nous faire croire qu’ils ont libéré à eux-seuls le territoire national et que la France ne fut qu’ingratitude à leur égard. Le répugnant Debbouze proclame : « C’est l’histoire de tirailleurs qui se sont battus pour la mère patrie mais qui, le jour de la victoire, n’ont pas eu le droit de défiler sur les Champs-Elysées ». Ce qui est tout à fait faux ; il suffit de regarder les images d’archives des défilés de la Libération. Et les indigènes n’ont pas eu plus de pertes que les autres contingents de l’Armée d’Afrique, bien au contraire. Mais peu importe le mensonge : « Mentez, mentez, il en restera toujours quelque chose ! » disait Lénine.

  

Tout ceci ne fait que conforter les minorités allogènes dans leur certitude que les Occidentaux, les Blancs, sont les oppresseurs des peuples et les pilleurs de la planète. Et qu’en conséquence, il faut se venger. Impunément ! Puisque ce sont ces ethnomasochistes de Blancs qui le disent eux-mêmes.

  

L’œuvre de castration intellectuelle de l’Européen, fonctionne à merveille : la honte l’empêche de revendiquer son identité. Le Blanc se vautre dans une autoflagellation permanente : « L’Occidental, qui ne s’aime plus, a perdu le droit de haïr la haine d’un ennemi qu’il n’a même plus le droit d’avoir, pas même de nommer » (Goldnadel).

  

« Comme s’il était bon, dans tous les cas, de se dénigrer jusqu’à se haïr soi-même, et totalement condamnable d’abaisser ou d’exclure, quoi qu’il fasse, un quelconque représentant de la catégorie « les autres » (Taguieff).

 

 

DETRUIRE L’IDENTITE

 

 

L’idéologie universaliste a coupé la société française en deux. D’un côté, la gauche renforcée par les bataillons de la droite des moutons, qui pense que la France est née en 1789, et que la France c’est la République. Ainsi, pour être français, il suffit d’adhérer aux valeurs de la République, les droits de l’homme, l’égalité, l’universalité : donc, tout habitant de cette petite planète peut être français. Les martiens aussi s’ils existent.

  

Comme dit Jacques Sévilla de ces gens-là : « La nation n’est plus un héritage, mais un contrat conclu entre des associés volontaires. La patrie n’est plus la France charnelle, la société telle qu’elle est, mais le lieu où se reconnaît l’humanité, présente partout où règne la raison : le patriotisme se confond avec l’attachement aux principes de 1789. Un patriote, c’est un adepte des idées révolutionnaires, quel que soit son pays ».

  

Leonidas_portrait_by_Kira_22.jpgDe l’autre, une minorité qui se situe ailleurs, – et que nos ennemis aiment stigmatiser par le terme d’extrême-droite, quand ce n’est pas de fascisme -, et qui rassemble les identitaires, les nationalistes, les monarchistes, les souverainistes, les catholiques traditionnalistes, les solidaristes… pour lesquels la nation est une patrie charnelle, c’est-à-dire qu’elle est à la fois une Terre et un Peuple. Car les racines de notre pays s’inscrivent dans un long processus historique qui plonge dans une très longue mémoire. Comme l’écrivent :

  

-          Fernand Braudel : « Comme si l’histoire n’allait pas jusqu’au fond des âges, comme si préhistoire et histoire ne constituaient pas un seul processus »,

  

-          Pierre Chaunu : « La clef de notre identité est enterrée là sous nos pieds. La France est faite avant la Gaule, mot tardif inventé par les Romains »,

 

-          Jacques Sévilla : « … la nation est une communauté de naissance, un fait de nature, et non une association volontaire… La patrie est un héritage partagé entre tous les Français morts, vivants et à naître ».

  

C’est pourquoi il était essentiel pour l’ennemi de remplacer le droit du sang par un droit du sol cosmopolite : c’est la loi Guigou votée en 1998. C’est la plus grave atteinte à notre identité depuis le regroupement familial mis en place en 1976 par les chantres de la droite des moutons, Giscard et Chirac. La preuve de l’extraordinaire contamination des esprits dans ce pays.

  

LE LAVAGE DE CERVEAU COMMENCE A L’ECOLE

  

Le système éducatif est le cœur du problème. Qui tient l’école tient les cerveaux. C’est par là et dès la plus tendre enfance que l’idéologie de l’égalitarisme et de l’universalisme instille son venin. Le but n’est plus de former des enfants à la tête bien faite et bien remplie, mais des individus uniformisés, de bons petits républicains, droitsdel’hommmistes, antiracistes, anticolonialistes, altermondialistes, et surtout sans culture, de manière à en faire des « citoyens du monde ». L’instruction a laissé la place à l’éducation, non pas au sens noble du terme, mais au conditionnement et au dressage. Du passé faisons table rase : déracinées, les jeunes pousses n’en sont que plus malléables.

 

 

Jacques Heers s’alarmait déjà : « Toute propagande d’Etat commence par l’école. Elle doit former des citoyens et, pour bien remplir sa mission, prendre complètement les enfants en charge, les « formater » dirions-nous aujourd’hui, en faire des hommes mal à l’aise, honteux dès qu’ils auraient l’idée de penser par eux-mêmes et de remettre en cause quoi que ce soit ? ».

  

Pour ceux qui douteraient de la réalité de cette entreprise de lavage de cerveau, relisons ces propos de Vincent Peillon dans le Journal du Dimanche du 2 septembre : « Le point de départ de la laïcité, c’est le respect absolu de la liberté de conscience. Pour donner la liberté de choix, il faut être capable d’arracher l’élève à tous les déterminismes, familial, ethnique, social, intellectuel… ». Mais Peillon ne doit pas parler de lui-même : arrière petit-fils de rabbin, né d’une famille Blum-Lederman et ayant épousé dame Bensahel, est-il sûr de vouloir arracher ses enfants Salomé, Elie et Isaac à leur déterminisme judéo-sémitique ?

  

Les héros des bandes dessinées d’autrefois n’ont plus droit de cité. Tintin est un horrible raciste (Tintin au Congo) tandis que les Schtroumpfs vivent dans une société fasciste dont le Führer est le Grand Schtroumpf. Il faut aux enfants d’aujourd’hui des héros de leur temps, ouverts aux droits de l’homme et à la société multiculturelle et multiraciale :

  

-                     65 millions de Français (Bayard) ! On ne savait pas que « tout le monde, il était français… »,

 

-                     Vivons ensemble (Albin Michel) par Mustapha Harzoune et Samia Messaoui,

 

-                     Le loup (noir) qui voulait changer de couleur (Auzon)

 

-                     Max et Koffi sont copains ; Max et Lili aident les enfants du monde ; Le tonton de Max et Lili est en prison (Serge Bloch)

 

-                     Mon premier livre de citoyen du monde (Rue du Monde) : encore Serge Bloch

 

-                     Je serai 3 milliards d’enfants (Rue du Monde).

 

-                     Stop au racisme ! (Milan Jeunesse)

 

-                     Et toi, comment tu t’appelles ? (Pastel/Ecole des Loisirs)

 

-                     Les enfants du monde ; Les enfants d’ailleurs (La Martinière Jeunesse).

  

Même Titeuf a laissé tomber Nadia, la petite Blanche aux taches de rousseur : dans son dernier album, il lui préfère une petite réfugiée africaine sans papiers (Titeuf à la folie).

 

 

LA REECRITURE DE L’HISTOIRE ET SON ENSEIGNEMENT

 

 

La littérature est l’une des grandes victimes de ces fous furieux. Exit les grands auteurs, Corneille, La Fontaine, Racine, Molière, Stendhal, Hugo, Musset, etc. trop difficiles à comprendre. Exit les grandes œuvres littéraires, comme Le Rouge et le Noir ou Les Misérables. Exit Voltaire. Il faut dire que le bougre a écrit une pièce qui s’intitule Le Fanatisme ou Mahomet le Prophète. Pire que Les Versets sataniques de Salman Rushdie, ou L’innocence des musulmans, ce petit navet israélo-américain qui rend les musulmans hystériques !

 

img_ares.jpgMais la matière la plus torturée par nos idéologues est l’Histoire de France. « C’est le Passé (l’Histoire) qui fonde l’avenir, or les maîtres du présent peuvent réinventer l’Histoire » (George Orwell, 1984).

  

Les trois fautes commises par les pseudo-historiens politiquement corrects sont :

 

-                     L’anachronisme : le passé est jugé selon les critères politiques, moraux et culturels d’aujourd’hui,

 

-                     Le manichéisme : l’Histoire est la lutte du bien et du mal, ce qui suppose que le bien l’emportera un jour sur le mal,

 

-                     Le réductionnisme : la complexité du passé est gommée au profit de schémas d’explication simplistes qui servent à éclairer le discours ambiant.

 

 

Au placard, Vercingétorix et « Nos ancêtres les Gaulois ». Comme écrit Jacques Sévilla : « … les années 1970 ont diabolisé la formule des manuels d’autrefois. Elle n’était pourtant qu’une image. Elle signifiait que tout membre de la communauté française se reconnaissait dans une histoire commune… Etre français, ce n’est pas naître en France, ce n’est pas posséder une carte d’identité, ce n’est pas bénéficier de la protection sociale, c’est partager un héritage à partir duquel se bâtit un projet d’avenir ».

 

  

Au placard, Clovis, le fondateur du royaume des Francs, et Charlemagne, le premier Empereur unificateur de l’Europe. Ils rappellent trop que la France n’a pas attendu 1789 pour se construire. Au placard, Charles Martel, le vainqueur de Poitiers et Saint-Louis, le roi croisé. Il ne faut pas froisser nos chères petites têtes voilées.

 

 

Au placard, tous ces « rois qui ont fait la France » comme aiment à chanter les monarchistes : François 1er, Henri IV, Louis XIV… Pensez, Louis XIV ? « Un benêt sans esprit » pour le grand historien Jean-François Kahn, qui n’hésite pas à écrire dans Marianne : « Le règne de Louis XIV est le premier des régimes totalitaires : répression, personnalisation du pouvoir, dogme religieux de l’Etat, domination arbitraire, droits de l’homme piétinés ». Comme si les « droits de l’homme » existaient au XVIIIème siècle !

  

Paradoxalement, Jeanne d’Arc est toujours au programme, sans doute pour éradiquer les vilains sentiments qu’elle inspire aux électeurs du Front National : Jeanne est décrite dans le manuel Hachette comme une folle qui entend des voix. Rien sur l’incarnation du sentiment national qu’elle représente (quelle horreur que le sentiment national !). Jeanne d’Arc a complètement disparu des programmes du lycée ; on lui préfère Hildegarde de Bingen, une religieuse allemande du XIIème siècle, que tout le monde connaît, bien sûr !

  

Au placard Napoléon, le Code Civil, l’épopée impériale. Pas tout à fait : Napoléon n’est plus étudié que comme un infâme négrier qui a rétabli l’esclavage aux Antilles en 1802. Claude Ribbe, dans Le Crime de Napoléon, qualifie ainsi l’Empereur de : « despote misogyne, homophobe, antisémite, raciste, fasciste, antirépublicain ». De quoi se faire bonapartiste. Ecoutons ces propos du grand historien Claude Sérillon, chez le grand philosophe Michel Drucker : « Napoléon est un beau salopard, quoi qu’on en dise ! ». Du coup, Chirac a refusé de célébrer le 200ème anniversaire de la bataille d’Austerlitz, mais il a envoyé le Charles de Gaulle aux cérémonies de commémoration de la bataille de Trafalgar. Toujours la repentance !

  

Le comble est atteint avec le téléfilm consacré à Toussaint Louverture, diffusé les 14 et 15 février. C’est un tissu d’erreurs historiques, mais aussi de mensonges délibérés, un « effarant détournement de l’Histoire », comme le dira Marcel Dorigny, un historien – un vrai, celui-ci -, de la Révolution. Pour se défendre, les réalisateurs de cette ordure déclareront qu’ « au nom de la vraisemblance historique, il ne faut pas hésiter à tordre le cou à la vérité historique ».

  

Au placard les maréchaux Foch et Joffre, et même Pétain, le vainqueur de Verdun. Comment les enfants peuvent-ils comprendre la remise des pleins pouvoirs au maréchal Pétain en juin 1940, s’ils ne possèdent pas la genèse historique de sa popularité ?

 

 

Mais la guerre qui est la plus maltraitée est la Seconde Guerre mondiale. La Shoah, la Shoah, la Shoah ! C’est tout ce qu’on apprend au collège. A la rigueur, un peu de Résistance, surtout pour glorifier l’action des Justes qui ont sauvé des juifs, mais rien sur le Vercors. Pour le reste, rien ou si peu sur la campagne de France en 1940, la guerre en Afrique du Nord, la bataille de l’Atlantique, l’opération Barbarossa (juste un petit mot sur Stalingrad, mais pas plus), sur la guerre du Pacifique, les débarquements alliés (y compris celui du 6 juin). Evidemment, rien sur l’Epuration.

  

La guerre d’Algérie n’est plus traitée que sous l’angle de la torture exercée par les soldats français. Mais bien sûr, on passe sous silence les horreurs perpétrées par les fellaghas.

  

Quant à la colonisation, dans son ensemble, elle est assimilée à une campagne d’extermination des peuples assujettis. Dire que des salauds de députés avaient fait inscrire dans une loi que les programmes scolaires devaient mettre en valeur « le rôle positif de la présence française outre-mer ». Heureusement que Chirac veillait et a fait abroger cette insanité du texte de loi !

 

 

Par contre, nos chères petites têtes blondes doivent se farcir en Sixième, l’histoire des Han de Chine, et en Cinquième, l’histoire du Mali, du Ghana, du Songhaï ou du Monomotapa, au choix, sans lesquels, évidemment, on ne peut comprendre l’Histoire avec un grand H. Et l’étude de l’islam doit occuper 10% au moins du programme d’histoire : les petits apprennent la date de l’Hégire, mais plus celle de la bataille de Poitiers… C’était la volonté de Laurent Wirth, le doyen des inspecteurs généraux, inspirateur de Darcos et Chatel : « Il est indispensable que la France s’ouvre aux autres cultures du monde et que l’enseignement de l’Histoire s’adapte aux nouvelles populations immigrées ».

 

 

Enfin, la chronologie est le grand ennemi. Pour être sûr que les enfants seront totalement déstructurés, on leur fait apprendre l’Histoire en dépit du bon sens. En Première, on étudie la crise de 1929 avant la Première Guerre mondiale et la Seconde Guerre mondiale avant la montée des totalitarismes ; en Seconde, on saute allègrement de l’Antiquité au 12ème siècle, de la Renaissance à la Révolution. Encore un effort, et ils croiront que de Gaulle a vécu au temps des dinosaures.

 

 

LE TRIOMPHE DE LA MEDIOCRATIE

  

Les dégâts de ce nivellement par le bas sont énormes. Les bons élèves s’ennuient en classe, mais les cancres sont de plus en plus cancres. La moitié des enfants ne savent pas lire couramment ni écrire convenablement à leur entrée en Sixième. Le calcul mental a disparu des programmes. Le « par cœur » est proscrit. Quant à la grammaire et à l’orthographe, elles n’ont pas résisté aux délirantes méthodes d’enseignement, méthode globale ou méthode Freinet. Il est vrai que ce sont là matières bourgeoises, rétrogrades et inutiles, pour ne pas dire fascistes.

  

L’école est devenue un foirail. Les enseignants ont en face d’eux des élèves totalement déstructurés, ou plutôt qui n’ont jamais été structurés : enfant-roi, absence d’autorité, manque de motivation, intérêt situé ailleurs (ordinateur, téléphone portable, jeux vidéo, téléréalité…).

  

Les élèves n’ont plus de respect pour les adultes qui les encadrent, allant jusqu’à les insulter et même les frapper. Mais il s’agit toujours d’établissements sans histoires, n’est-ce pas ? Le pire, c’est que ces profs « maso » en redemandent. Voyez celui qui s’est pris une tête à Bordeaux pour avoir abordé l’histoire politique et religieuse du Maroc. Tout ce qu’il trouve à dire, c’est qu’il faut cesser de provoquer les petites têtes enturbannées et que la République se doit d’être « équitable ». Elle doit donc supprimer les jours fériés chrétiens, proscrire le poisson à la cantine le vendredi, et interdire les sapins de Noël (cet abruti ne sait même pas que celui-ci est un symbole païen). S’il s’en prend une autre, on ne le plaindra pas.

  

Les parents eux-mêmes donnent maintenant toujours raison à leurs chers bambins. Quitte à en mettre une bonne à un prof qui aurait fait du chagrin au cher petit. L’absentéisme est en croissance exponentielle. Si bien que des proviseurs n’ont rien trouvé de mieux que de payer les élèves pour qu’ils assistent aux cours : c’est Martin Hirsch qui le leur a suggéré !

  

Et si 80% des candidats sont aujourd’hui reçus au baccalauréat, alors qu’ils n’étaient que 15% dans les années 1960, c’est parce que le niveau du bac a considérablement baissé. Ainsi, pour masquer l’échec global de toutes ces réformes, on abaisse constamment le niveau des diplômes afin de tenir les objectifs.

 

 

LA DISCRIMINATION POSITIVE

  

Nos idéologues voudraient changer la nature, car si l’égalitarisme se décrète, il n’en est pas de même pour l’égalité. Les résultats des élèves sont fonction du niveau social, mais aussi, et surtout, fonction de l’origine ethnique. On pourra toujours dépenser des milliards d’euros pour améliorer le cadre de vie des « chances pour la France », ils n’en demeureront pas moins inassimilables, de par leur volonté même (ils parlent de moins en moins français à la maison, où ils baignent dans leur culture d’origine) ! Ce que nos idéologues refusent obstinément d’admettre.

 

 

Ils ont donc inventé la « discrimination positive » qu’on pourrait aussi appeler « un p’tit coup pouce pour l’allogène ». C’est Richard Descoings, qui en a appliqué, le premier, le principe, à une grande école. Descoings était le directeur de Sciences Po Paris, autant adulé à droite qu’à gauche, on ne sait si c’était parce qu’il était « un grand génie » ou pour ses goûts un peu particuliers. Le cher homme, sodomite et fier de l’être, nous a quittés une nuit, d’une crise cardiaque, dit-on, après avoir « rencontré » deux hommes dans un palace de New York… Une grande perte pour l’Humanité !

 

 

Mais le malfaisant avait déjà sévi, ouvrant toutes grandes les portes de Sciences Po à des contingents d’allogènes issus des cités et exonérés de tout concours d’entrée, contrairement aux « petits Blancs » qui, eux, continuent à suer sang et eau pour avoir le droit de s’asseoir à côté des « élus de couleur ». Mais ici ne s’arrête pas la malfaisance de ce sinistre individu, nommé par Sarkozy chargé de mission pour la réforme du lycée en 2009. On lui doit, entre autres saloperies, la suppression de l’Histoire en Terminale S, la suppression du CAPES de Lettres Classiques (et par conséquent, à terme, la suppression de l’enseignement du latin et du grec) et la suppression de la dissertation de culture générale au concours d’entrée de Sciences Po, pour favoriser un peu plus l’accès des « chances pour la France ». Un grand homme, on vous dit.

 

LE RETOUR DE LA MORALE

 

Voici la nouvelle mode : « Nous avons besoin d’un réarmement moral ». C’est Peillon qui le dit. En écho, ce crétin de Luc Chatel veut faire un bon mot et s’effraie du retour du pétainisme ! 

 

Mais il n’est pas question du retour à une vraie morale, qui enseignerait le civisme, le respect des lois et de l’autorité, le respect des parents et des ancêtres, la solidarité, le goût de l’effort et la volonté, peut-être même le sens du devoir et de l’honneur… Non, il s’agit de la « morale universelle » : « Nous devons aimer notre patrie, mais notre patrie porte des valeurs universelles. Ce qui fait la France, c’est la Déclaration des droits de l’homme », ajoute Peillon. Et il s’agit de la « laïcité qui n’est pas suffisamment étudiée ». L’instruction civique doit être remplacée par une « morale laïque » : la République se doit de dire « quelle est sa vision de ce que sont les vertus et les vices, le bien et le mal, le juste et l’injuste ». A quand un ministère du Vice et de la Vertu, come à Téhéran ou à Kaboul, dirigé par des ayatollahs de la laïcité ? Le pire c’est que ces laïcards ne se rendent même pas compte des énormités qu’ils prononcent.

 

 

L’IMMIGRATION POUR TUER LES PEUPLES D’EUROPE

  

L’immigration allogène est une machine à tuer les peuples d’Europe. Selon la démographe Michèle Tribalat, la France compte 13 millions d’immigrés et de descendants d’immigrés extra-européens, soit 20% de la population. Je rappelle que le seuil de tolérance d’une société est de 7%. La proportion de jeunes issus de l’immigration (Maghreb, Afrique noire, Turquie) atteint 37% en Ile-de-France, 23% en Alsace et 20% en Rhône-Alpes. Car les bébés allogènes représentent plus de la moitié des naissances dans les maternités. C’est que si le taux de fécondité moyen des femmes en France est de 2,1, il n’est que de 1,4 pour les Gauloises et plus de 3 pour les femmes allogènes. Il s’agit d’une véritable opération de remplacement de la population européenne blanche, ce qu’on peut appeler un « génocide par substitution ».

  

Nous en connaissons les responsables : dès les années 1960, c’est la droite des moutons qui a initié cette invasion pour le plus grand profit d’un capitalisme débridé qui voyait là le moyen de tirer les salaires vers le bas et de disposer d’un fort levier de chômage. « L’immigration est une chance pour la France », clamait Bernard Stasi en 1984. Mais la gauche universaliste lui a emboîté le pas avec enthousiasme.

 

 

Ils n’avaient pas lu Aristote qui déclarait, il y a plus de 2 000 ans : « L’absence de communauté nationale est facteur de guerre civile, tant que les citoyens ne partagent pas les mêmes valeurs de civilisation ». Pourtant, de Gaulle l’avait prédit : « Nous sommes quand même avant tout un peuple européen de race blanche, de culture grecque et latine et de religion chrétienne… Vous croyez que le corps français peut absorber dix millions de musulmans, qui demain seront vingt millions et après-demain quarante ? ». Tous les moutons de la droite qui s’en revendiquent ont oublié ces propos pleins de lucidité. Georges Marchais avait dénoncé l’immigration afro-maghrébine, car il avait compris que le premier corps social à pâtir de cette invasion était le prolétariat sous-qualifié, donc le fonds de commerce du Parti Communiste. Même Chirac avait dénoncé « les bruits et les odeurs ». Depuis, de l’eau a coulé sous les ponts…

 

Devant les problèmes énormes que soulève cette immigration de masse, nos idéologues disposent d’arguments imparables. Le traître professionnel Eric Besson déclare : « La France n’est ni un peuple, ni une langue, ni un territoire, ni une religion, c’est un conglomérat de peuples qui veulent vivre ensemble. Il n’y a pas de Français de souche, il n’y a qu’une France de métissage ». C’est vrai qu’il est marié à la Tunisienne Yasmine Tordjman. Mais ses propos sont de la plus grande malhonnêteté qui soit. D’une part, on dit que 25% des Français sont d’origine étrangère, ce qui signifie que 75% des gens sont des Français de souche. D’autre part, jusque dans les années 1960, l’immigration était d’origine européenne : polonaise, italienne, portugaise, espagnole. Cette immigration a totalement changé de nature.

 

 

Autre postulat : l’immigration permet le mélange des cultures, donc leur enrichissement réciproque. « L’immigration massive et continue… constitue pour les indigènes, mais aussi pour les immigrés, un désastre humain que la Propagande tente de travestir en soutenant, par exemple, que plus il est éloigné de notre culture, sinon hostile à elle, meilleur est l’immigré, par ailleurs « bon » par nature, et aussi « tendance », « moderne » (Richard Millet).

 

 

 

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Nos idéologues ne veulent pas voir les choses en face, le refus de s’intégrer de populations qui, souvent, par ailleurs, n’ont que mépris pour notre société décadente, même s’ils rêvent de s’y vautrer : « Les étrangers qui venaient autrefois s’appliquaient à nous ressembler, ils semblent se poser aujourd’hui dans leur altérité. A notre grande surprise, les migrants ne nous voient pas comme la pointe avancée de la mode et de la morale, mais plutôt, au regard de leurs traditions, comme une enclave étrange et déviante. Ceux qui viennent d’au-delà des mers ne sont pas nés sous le signe de notre universalisme » (Hugues Lagrange, Le déni des cultures). Il faut dire que notre société ne fait pas envie. Ce que traduit Richard Millet : « Les immigrés extra-européens désireraient-ils s’assimiler à des vaincus qui aiment leur propre défaite ? ».

  

Dès qu’on aborde le problème de la délinquance, l’hystérie se déchaîne. Hugues Lagrange l’a appris à ses dépens pour avoir écrit : « Les adolescents éduqués dans des familles du Sahel sont 3 à 4 fois plus souvent impliqués comme auteurs de délits que les adolescents élevés dans des familles autochtones ; et ceux qui sont éduqués dans des familles maghrébines, deux fois plus ». C’est pourtant la vérité.

 

 

Mais le résultat, pour les gens qui subissent au quotidien « l’enrichissement des cultures » grâce aux exactions des « chances pour la France », est un sentiment de dépossession. Comme l’écrit Richard Millet : « Jamais je n’aurais pensé me retrouver un jour minoritaire, sur le plan racial, culturel, religieux… faire figure de perdant historique… et devenir quasi maudit : un exilé de l’intérieur ».

  

Malika Sorel, présidente du Haut-commissariat à l’Intégration, ose dire : « Arithmétiquement, du fait de la stagnation de notre démographie, de l’importance du flux migratoire, de la difficulté de la France à intégrer les nouveaux entrants, on assiste à une diminution du nombre de Français porteurs de l’identité française. Devenir minoritaire sur son propre territoire est un réel problème ».

  

C’est ce qui va se produire, inéluctablement : « La France laisse venir l’épreuve, en refusant de se confronter à ceux qui rejettent ses valeurs. […] Notre vieux pays aurait-il perdu le goût de se défendre ? » (Ivan Rioufol, Le Figaro du 26 juin 2009).

  

LE MULTICULTURALISME, PORTE OUVERTE AU COMMUNAUTARISME

  

Jacques Sévilla : « Sans que l’opinion ait été consultée, la France est vouée à se transformer en pays pluriethnique et pluriculturel. Tout un vocabulaire sacralisé (métissage, diversité, compromis) enrobe ce qu’il faut bien considérer comme une mutation fondamentale dans le cours millénaire de l’histoire de France ». Le rêve de l’ennemi, c’est une France où il n’y aurait plus de Bourguignons, de Gascons, de Catalans ou de Corses, mais des citoyens de toutes les couleurs. C’est une utopie criminelle. La France est devenue un melting-pot où le communautarisme enfle à toute vitesse. Le mythe stupide de la France Black-Blanc-Beur de 1998 a volé en éclats.

 

L’obsession du « vivre ensemble » occulte, en réalité, l’incommensurable lâcheté de nos dirigeants et leur volonté de supprimer tout ce qui pourrait mécontenter les envahisseurs. Car si les Blancs sont instamment priés de se fondre dans la société multiculturelle, les Algériens, les Comoriens, les Turcs, les Gitans, les Tchétchènes… ont, quant à eux, le droit de vivre leur différence. Quartiers maghrébins, quartiers noirs, quartiers chinois constituent maintenant autant de citadelles où l’autorité de l’Etat a disparu. « Doutant d’elle-même et se cherchant vainement un projet collectif, la nation n’ose même plus imposer son mode de vie et ses valeurs à ceux qui s’installent sur son sol » (Jacques Sévilla).

  

La France est devenue une poudrière. « Quand on n’a plus la même histoire, le même passé, on n’aime plus le même pays, on ne peut donc plus vivre ensemble » (Dimitri Casali). 37% des jeunes d’origine étrangère ne se sentent pas français.

  

Partout dans le monde, on respecte le drapeau : aux USA, en Angleterre, en Italie, en Espagne, au Brésil, en Turquie, en Chine. Sauf en France, où il est souvent brûlé. Impunément. Par des étrangers pourtant accueillis généreusement, ou des enfants d’immigrés devenus français par le droit du sol mais qui haïssent la France. Il y avait, depuis longtemps, des signes avant-coureurs : La Marseillaise sifflée lors des rencontres de football, France-Algérie en 2001, France-Maroc en 2007 ou France-Tunisie en 2008.

  

Les drapeaux de toutes les couleurs qui ornaient la place de la Bastille, le 6 mai de cette année, sont le révélateur sociologique du vivier électoral de la gauche : marocains, algériens, tunisiens, turcs, maliens, ivoiriens, syriens, égyptiens, palestiniens. Seulement un ou deux drapeaux français qui devaient se sentir bien seuls. Quelques jours auparavant, on en avait observé des centaines, si ce n’est des milliers, lors du rassemblement sarkozyste du Trocadéro. Le rassemblement des cocus qui croient que l’UMP et le PS, ce n’est pas la même chose. Mais ces deux spectacles sont la preuve évidente du déchirement de la France : d’un côté, les Gaulois ; de l’autre, les envahisseurs, caressés dans le sens du poil par une gauche qui a abandonné le peuple des ouvriers et des employés, mais qui a trouvé un électorat de substitution.

  

Tout cela donne la nausée : « Je ne me reconnais plus dans une France multiraciale et multiculturelle où l’immigré ne saurait se nourrir de Montaigne, Bossuet, Voltaire, Proust… et encore moins de l’extraordinaire geste des Croisades et des bâtisseurs de cathédrales » (Richard Millet).

  

L’ISLAM EST ENTRE EN GUERRE

  

En France, vous pouvez dire que vous haïssez les chrétiens ou les catholiques, vous pouvez insulter le Pape, vous passerez pour un esprit brillant. Mieux, pisser sur le Christ ou même déféquer sur des symboles chrétiens est assimilé à de l’art. D’ailleurs, les mots « christianophobie » ou « catholicophobie » n’existent pas. Vous pouvez aussi vous en prendre au bouddhisme, au chamanisme, au paganisme, à l’hindouisme…

 

 

Mais pour la religion de Mahomet, ce n’est pas du tout pareil. Vous risquez immédiatement de vous faire traiter d’islamophobie. Et à partir de là, gare à la police de la pensée ! Pourtant, comme le dit Jacques Sévilla : « Islamophobie. Ce terme est piégé ; il a pour but de faire de l’islam un objet intouchable, sous peine d’être accusé de racisme. Or une confession n’est pas une race ». 

 

L’islam n’est pas une religion comme les autres. D’abord parce que le Coran s’applique dans le domaine spirituel, mais aussi dans le domaine temporel : contrairement au Christ, il ne fait pas de différence entre Dieu et César. En conséquence, il prétend régir tous les actes de la vie civile, il est un code civil.

  

Par ailleurs, l’islam est une religion de conquête. Le Prophète l’a clairement exprimé et ce, à plusieurs reprises, appelant ses fidèles à exterminer les chrétiens et à propager l’islam sur la Terre entière : le Dar al-Harb, le territoire de la guerre, qui est appelé à devenir le Dar al-Islam, le territoire de la soumission à Dieu. Ce n’est pas parce que, pendant un siècle, les musulmans se sont trouvés sous la domination européenne que cette guerre s’est arrêtée. « La guerre entre l’islam et la chrétienté… n’a jamais pris fin » (Jean-Paul Roux, Un choc de religions)

  

Notre pauvre Europe, qui ne croit plus en rien, surtout pas au sacré, et qui ne croit même plus en elle-même, se voit prise en tenaille : « Comment l’islam n’établirait-il pas son triomphe sur les débris du christianisme et de nations qui meurent de ne plus oser être elles-mêmes, l’alliance entre l’islamisme et le capitalisme américain signalant la redistribution des compétences territoriales dans une Europe partagée entre les intérêts américains et ceux des monarchies arabes, en attendant les Chinois ? » (Richard Millet)

  

L’islamisation rampante de notre société est en cours d’accélération. Il y avait 10 000 musulmans en France en 1905, ils sont aujourd’hui plus de sept millions, ce qui représente 8 à 10% de la population. Au train où vont les choses, avec le vieillissement de la population gauloise et l’extraordinaire vitalité démographique des envahisseurs, les musulmans représenteront 20% de la population dès 2020. A Roubaix, les musulmans représentent 50% de la population, 25% à Marseille, 12% à Lyon. A Roubaix, il n’y a plus une seule boucherie non halal et la dernière boulangerie gauloise a fermé ses portes. « Nous sommes tenus de supposer que la présence de millions de musulmans parmi nous est sans conséquence politique ou spirituelle… Il s’agit pourtant de la plus énorme transformation de la substance européenne depuis des siècles » écrit le philosophe Pierre Manent dans Les métamorphoses de la cité.

  

Parallèlement, la pression islamique ne cesse de se renforcer. Il y avait 5 mosquées en France en 1965, on en dénombre aujourd’hui entre 2 100 et 2 500 (on ne sait même pas exactement). « Dans les banlieues, ceux qui faisaient le siège des municipalités en vue d’obtenir des terrains de sport réclament dorénavant des mosquées » (Jacques Sévilla).

  

« En Europe aujourd’hui, les musulmans reconstituent l’oumma à travers le communautarisme, et cela avec l’aide des pouvoirs publics aveugles sur les dangers qui peuvent en résulter » (Annie Laurent, L’islam et la personne humaine). Une armée de collabos, des dhimmis avant l’heure, lui facilitent la tâche. Par lâcheté ou par calcul électoral, les maires des grandes villes rivalisent : c’est à qui construira la plus belle mosquée. Tous les domaines de la vie séculière font l’objet d’attaques : viande halal, menus particuliers dans les cantines scolaires, horaires sexistes dans les piscines et les salles de sport, nombre grandissant de femmes voilées, voiles de plus en plus couvrants (niqab, tchador, burqa), violences sexistes dans les hôpitaux, contestation des programmes scolaires, exigence de jours fériés musulmans, horaires adaptés à l’occasion du ramadan, etc.

 

 

Oui, c’est bien d’une invasion qu’il s’agit, c’est bien d’une guerre qu’il s’agit. « L’islam s’est lancé à la conquête de l’Europe, et seuls les aveugles et les collaborateurs le nient » (Richard Millet). Les islamistes ne sont que les éclaireurs de cette opération de conversion forcée qui attend les Européens, s’ils ne réagissent pas. Les musulmans dits « modérés », dans leur immense majorité, soutiennent leurs frères engagés dans le djihad, la « guerre sainte ». Chaque vendredi, les imams des mosquées, dont beaucoup sont étrangers et ne parlent même pas notre langue, leur bourrent le mou. Et il suffit de regarder le recteur de la mosquée de Paris, Dalil Boubakeur, ou l’imam de Drancy, Hassen Chalghoumi, se tortiller dans tous les sens, pour condamner, sans condamner, mais tout en excusant, les saloperies de leurs frères intégristes, pour se rendre compte de l’énorme hypocrisie avec laquelle ils essaient de nous enfumer.

 

 

Saluons donc le courage de Charlie Hebdo. Nous n’avons rien à voir avec les rédacteurs de ce journal ordurier, mais il faut reconnaître que, dans ces affaires de caricatures, « ils en ont », comme aurait dit Hemingway. Certains objecteront qu’ils mettent de l’huile sur le feu. Ces derniers sont déjà des dhimmis : ils ont déjà baissé leur froc pour se faire sodomiser.

  

CONCLUSION

 

 

Voici donc un effroyable tableau de la France d’aujourd’hui. Qu’on peut étendre à l’Europe occidentale tout entière, bien qu’à un degré moindre, car la France est dans l’état de décomposition le plus avancé. Il y aurait de quoi désespérer. Et cesser de se battre. Ce n’est pas notre genre. Comme écrivait Charles Maurras : « Le désespoir en politique est une sottise absolue ». Une autre manière de dire : « Tant qu’il y a une volonté, il y a un chemin ».

  

Car, tout n’est peut-être pas perdu. Certains sondages montrent que le vieux fonds gaulois existe toujours. 82% des Français estiment qu’il y a une identité nationale française et 65% pensent qu’il y a un réel affaiblissement de l’identité nationale à cause de l’immigration, de la perte des valeurs et de la diversité culturelle et ethnique. Le pouvoir commence à reculer. Notamment sur le droit de vote des étrangers. Il paraît qu’avant les élections 60% des Français étaient pour. Aujourd’hui, la courbe s’est inversée : ils sont contre à plus de 60% (86% des sympathisants de l’UMP). Quant au mariage homosexuel, son avenir n’est pas aussi « gay » que certains l’imaginaient encore, il y a quelques semaines : 74% des sympathisants de l’UMP sont contre. On est loin des 55% d’opinions favorables issus d’un sondage douteux effectué par un institut dont on sait qu’il est aux mains d’un lobby homosexuel américain (Gallup, pour ne pas le nommer).

 

 

Si l’on raisonne en termes gramscistes, il semblerait que le pouvoir politique et la société civile soient en cours de rupture. Nous sommes sans doute en période prérévolutionnaire. Deux bouleversements majeurs sont en cours de gestation.

 

Le premier est l’effondrement du système économico-financier mondial. Le capitalisme sans frein, tel qu’on le subit depuis des décennies, n’en a sans doute plus pour longtemps. On nous dit que la crise que nous vivons est plus grave que celle de 1929. Quand on cessera de faire l’autruche, on se rendra compte que ses conséquences seront au moins aussi grandes. L’Amérique d’Obama ou de Romney ne pourra plus vivre encore longtemps à crédit sur le dos des autres peuples de la Terre. En Europe, la politique monétariste de l’UE est en train de tuer les économies européennes. Non seulement la croissance ne redémarrera pas, mais une forte récession va s’installer durablement, avec ses conséquences inévitables : étouffement par l’impôt, baisse des salaires, des retraites et des allocations, régression du niveau de vie, augmentation du chômage, installation de la misère. Nous n’avons encore rien vu : les foules en colère qui descendent dans les rues d’Athènes, Madrid et Lisbonne, ne sont que les éclaireurs des masses furieuses qui, bientôt, casseront tout par désespoir.

  

Le second est l’inexorable guerre ethnico-religieuse qui nous attend. Elle a d’ailleurs déjà commencé. En France notamment. « L’exacerbation des rancœurs et des haines anciennes ne peut déboucher que sur des affrontements frontaux et, peut-être même, dégénérer en véritable guerre civile » (Dimitri Casali).

 

 

Quelques exemples récents :

 

-          Dans le seul mois de septembre, une vingtaine de profs se sont fait casser la figure par de charmantes petites têtes plus ou moins métissées ;

 

-          Le dimanche de Pentecôte, des fidèles se sont fait caillasser à la sortie de la cathédrale de Carcassonne par de gentils petits musulmans qui voulaient sans doute jouer avec eux ;

 

-          Une horde de « chances pour la France » a attaqué à coups de barres de fer et de couteaux une soixantaine de parachutistes du 8ème RPIMa à Castres ;

 

-          Sur le marché de Nîmes, des marchands forains ont vu leurs étals de charcuterie et de vin détruits par une meute de musulmans, des « modérés » sans doute ;

 

-          A Marseille, des Maghrébins font la chasse aux Roms et brûlent leurs campements (heureusement que ce n’étaient pas des Gaulois : que n’aurait-on entendu ?) ;

 

-          A Toulouse, lors des « Soirées Nomades », la projection au sol de « calligraphies coraniques » de Mounir Fatmi dégénère; une roumie qui a osé marcher sur « le Coran », est violemment giflée ;

 

-          A Echirolles, deux « jeunes », l’un noir, l’autre maghrébin, sont massacrés à coups de couteaux par leurs frères de sang (même remarque que ci-dessus) ;

 

-          Dans des dizaines de « zones de non-droit » (terme qu’il ne faut plus utiliser : c’est du défaitisme), pompiers et policiers tombent dans des guets-apens où on leur balance des machines à laver sur la tête, quand on ne leur tire pas carrément dessus (pour le moment avec du petit calibre, mais bientôt à l’arme de guerre) ;

  

Voulez-vous que je vous dise ? Ce pays, mon pays, ressemble à la Yougoslavie du début des années 1980, un pays que j’ai bien connu pendant les années de guerre. Vous connaissez la suite. Ces deux catastrophes sont inexorables. Dans quel ordre, on ne sait pas. Ni à quelle échéance. Le propre de toute révolution est d’être imprévisible. Alors, il faut se préparer au pire. Car vous ne pouvez compter ni sur la gauche de Flanby, ni sur la droite des moutons pour affronter ces combats de titans. L’heure n’est donc plus à l’attentisme. La société de demain se construit aujourd’hui. N’oubliez pas vos enfants et vos petits-enfants. Demain, il sera trop tard. Ils vous diront simplement : « Qu’avez-vous fait pour empêcher cela ? ».

  

Comme tous les peuples de la Terre, sachons nous faire respecter sur notre terre. Gaulois, maîtres chez nous !

lundi, 15 octobre 2012

Une nouvelle doctrine américaine : contenir l’Eurasie par le chaos

Pierre DORTIGUIER:

Une nouvelle doctrine américaine : contenir l’Eurasie par le chaos

 
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Le magazine texan Stratfor que nous citons, et auquel nous renvoyons, The Emerging Doctrine of the United States | Stratfor est un thermomètre de la température américaine et vise surtout à préparer l’opinion à distinguer entre les intérêts apparents et réels des Etats-Unis, à court et à long terme, ; il n’est donc pas destiné à un très vaste public, ni non plus formellement confidentiel, mais répond aux questions des élites déconcertées par le tapage médiatique « à usage de l’Américain moyen »

« Au cours de la fin de semaine dernière, des rumeurs ont commencé à émerger que l’opposition syrienne permettrait  à des  éléments  du « régime d’Assad » (sic)  à rester en Syrie et de participer au nouveau gouvernement. …  Ce qui se passe en Syrie est importante pour une nouvelle doctrine étrangère émergente aux États-Unis – une doctrine selon laquelle  les États-Unis ne prennent pas la responsabilité principale des événements, mais qui permet  aux crises régionales de se déployer jusqu’à ce qu’un nouvel équilibre régional soit  atteint. »

Le magazine simplifie volontairement, par souci de pédagogie la formule géopolitique U.S, en insistant sur  ses « intérêts fondamentaux » », à savoir e que assure la base de la prospérité américaine : « cela se résume à l’atténuation des menaces contre les Etats-Unis par le contrôle des mers  en empêchant l’émergence d’une puissance eurasienne qui serait en mesure de mobiliser des ressources à cette fin. Cette nouvelle doctrine consiste « à empêcher le développement d’une substantielle puissance nucléaire intercontinentale qui pourrait menacer les Etats-Unis, au cas où un pays ne serait pas découragé par la puissance américaine pour un motif quelconque. »

Dans cette perspective de maintien de supériorité « l’intérêt américain pour ce qui se passe dans le Pacifique est compréhensible .Mais même là les Etats-Unis, du moins pour l’instant, laissent les forces régionales s’engager dans une lutte qui n’a pas encore affecté l’équilibre régional de la puissance des Alliés américains, et les mandataires de cette puissance, comprenant les Philippines, le Viêt-Nam et le Japon ont été joué aux échec des les mers de cette région »  –sous entendu contre la Chine, et l’on notera que le Viêt-Nam est dans la sphère politique antichinoise depuis sa dernière lutte frontalière, au mépris des sacrifices nationaux antérieurs !- »sans une imosition directe de la puissance navale américaine, même si une telle perspective », conclut Stratfor Global Intelligence, « semble possible » !

Viennent maintenant les leçons que les Américains auraient tiré des derniers engagements ! la campagne d’Irak et la résistance irakienne ont conduit au retrait des forces US et l’iran y aurait gagné une plus grande puissance et un sentiment de sécurité.

La campagne libyenne est présentée –avec une certaine hypocrisie- comme une initiative française et aurait été  plus difficile, voire un échec, sans le soutien de l’aviation US.

La guerre syrienne, naturellement justifiée par l’influence croissante de l’Iran, et visant moins un Etat que ses relations étrangères avec l’Iran, la Russie et la Chine amène à  préciser cette nouvelle politique ; le conflit est régional, les Alliés des Américains sont chargés de l’entretenir, même sans arriver à une solution radicale, et l’auteur Friedmann raconte qu’il a exposé ceci à ses interlocuteurs d’Asie centrale qui espéraient voir un engagement plus net des forces US !

Les conséquences en sont une poursuite indéfinie de la lutte intestine en Syrie et une pression continue sur l’Iran, dans laquelle l’arme économique prime sur tout affrontement utopique militaire.  Ce qu’il importe est de bien lire la conclusion de l’analyse, qui montre que les Etats-Unis sont  eux-mêmes dirigés par une force occulte qui veut l’affrontement général en négligeant les embrasements locaux.
Il s’agit de tester la force de la puissance émergente russo-chinoise !

«  Cela a forcé la fois le régime syrien et les rebelles de reconnaître l’improbabilité d’une victoire militaire pure et simple. Tant le soutien de l’Iran au régime et les diverses sources de soutien à l’opposition syrienne se sont révélés  indécis. Les rumeurs d’un compromis politique émergent en conséquence.

Dans le même temps, les États-Unis ne sont pas prêts à s’engager dans une guerre avec l’Iran, ni prêts  à souscrire à l’attaque israélienne en l’accompagnant de leur soutien avec le soutien militaire . Les USA utilisent  un moyen efficace de pression – des sanctions – qui semblent  avoir eu un certain effet par  la dépréciation rapide de la monnaie iranienne . Mais les Etats-Unis ne cherchent pas à résoudre la question iranienne, il n’est pas prêt à assumer la responsabilité principale, sauf si l’Iran devient une menace pour les intérêts fondamentaux des États-Unis. Il se contente de laisser les événements se dérouler et à n’agir que s’ il n’y a pas d’autre choix

Les Etats-Unis ne sont pas prêts à intervenir par la force militaire conventionnelle.

Cela ne signifie pas que les États-Unis se désengagent  de la scène mondiale. Ils contrôlent  les océans du monde et génèrent  près d’un quart du PNB mondial du produit intérieur. Alors que le désengagement est impossible, l’ engagement contrôlé, basé sur une compréhension réaliste de l’intérêt national, est possible.

Cela va bouleverser  le système international, en particulier celui des alliés américains. Il créera également des contraintes aux États-Unis à la fois de la gauche politique, qui se veut une politique étrangère humanitaire, et le droit politique, qui définit l’intérêt national au sens large. Mais les contraintes de la dernière décennie pèsent  lourdement sur les Etats-Unis et vont donc changer la façon dont le monde fonctionne.

Le point important est que personne ne décide cette nouvelle doctrine. Il émerge de la réalité à laquelle les  Etats-Unis sont confrontés. C’est la force des  de doctrines qui se font jour. Elles se manifestent d’abord et sont annoncés quand tout le monde se rend compte que c’est comme ça que les choses fonctionnent. »

Une fois cette leçon de la Stratfor bien lue, une question se pose : qui dirige la politique US, l’intérêt national capitaliste-come partout, avec ses limites et ses confrontations  ou une politique impériale qui prend les Etats-Unis pour écran et vise à non pas bâtir un ordre, mais régler un désordre général, la maintenir par sa théorie du chaos minimum, abattre un adversaire fort, plutôt qu’imposer la puissance qu’elle n’a pas ? A cet égard, une alliance avec les USA est un chèque en blanc donné à un inconnu !

Pierre Dortiguier

Generalsekretär Rasmussen: Nato bereit zum Schutz der Türkei

Generalsekretär Rasmussen: Nato bereit zum Schutz der Türkei

Mikhail Fomitchew

 
otan-turquie-copie-1.jpgLaut dem Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen ist die Nordatlantikallianz bereit, die Türkei zu schützen, falls dies notwendig sein sollte, und hat eine solche Maßnahme bereits geplant.

„Wir haben die notwendigen Pläne, um die Türkei nötigenfalls zu schützen“, so Rasmussen zu Journalisten vor der Eröffnung eines zweitägigen Treffens der Verteidigungsminister der 28 Nato-Mitgliedsländer.

Der Nato-Rat erörterte bei einem Treffen auf Botschafterebene am 4. Oktober den Beschuss eines Grenzterritoriums der Türkei durch die syrische Armee und verurteilte diesen Zwischenfall entschieden.

Gemäß dem Artikel 4 des Washingtoner Vertrages kann jedes Mitglied der Allianz um Konsultationen bitten, wenn seine territoriale Integrität, politische Unabhängigkeit oder Sicherheit gefährdet werden.

Zuvor hatte ein Gesprächspartner von RIA Novosti im Nato-Hauptquartier versichert, dass die Anwendung des Artikels 5 des Washingtoner Vertrages, der eine Antwort der Nato im Falle einer Aggression gegen eines der Mitgliedsländer dieses militärpolitischen Blocks vorsieht, bei dem Treffen nicht erwähnt worden sei. Der Artikel 5 wurde lediglich einmal - nach den Terroranschlägen auf die USA  am 11. September 2001 - angewendet.

Die Nato und die Uno forderten bei diesem Treffen von Syrien, jegliche Aggressionsakte gegen die Türkei  unverzüglich einzustellen. Die syrischen Behörden drückten ihrerseits den hinterbliebenen Familien der Toten ihr Beileid aus und erklärten, dass sie zu diesem Zwischenfall ermitteln.

Der Konflikt zwischen Syrien und der Türkei spitzte sich zu, nachdem vom syrischen Territorium abgefeuerte Artilleriegeschosse im Distrikt Aksakal im Südosten der Türkei explodiert waren. Im Ergebnis kamen fünf Menschen ums Leben und elf weitere wurden verletzt. Als Antwort auf den Beschuss führte die Türkei Schläge gegen das syrische Gebiet, von wo aus das Feuer geführt wurde.

Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen hatte zuvor mehr als einmal betont, die Allianz habe nicht die Absicht, sich in den syrischen Konflikt einzumischen.
 
 
 
 

L’Atlantisme est un totalitarisme

L’Atlantisme est un totalitarisme

par Guillaume de ROUVILLE

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

L’Atlantisme est l’idéologie dominante des sociétés européennes actuelles, celle qui aura sans doute le plus d’influence sur le devenir de nos destinées communes et pourtant elle est de ces idéologies presque cachées dont on ne parle ouvertement que dans le cercle restreint du monde alternatif. Sont Atlantistes tous les collaborateurs européens de la vision hégémonique des États-Unis et de son idéologie propre qui répond au doux nom d’impérialisme. Autrement dit, l’Atlantisme est l’idéologie des exécutants serviles de l’idéologie impériale américaine ; elle lui est subordonnée et ne tire de sa soumission que les miettes de l’empire tombées à terre après le festin des empereurs.

C’est une idéologie mineure dans l’idéologie majeure. Elle est à la fois  honteuse et conquérante : honteuse parce qu’elle ne joue jamais que les seconds rôles ; conquérante, parce qu’elle emprunte à son maître d’outre-atlantique ses visions hégémoniques délirantes et toutes ses caractéristiques totalitaires. C’est un totalitarisme dans le totalitarisme, une domination de dominés, un impérialisme de serfs et d’esclaves passés maîtres dans l’art de se soumettre. Parler de l’Atlantisme européen c’est parler du projet impérial américain et réciproquement. La seule chose qui les distingue est leur place dans la hiérarchie totalitaire : le premier n’est que l’émanation du second, ne se définit que par lui, se contente de l’imiter et lui obéit en tout ; il n’est, en revanche, son égal en rien.

Chaque continent a ses collaborateurs au service de l’impérialisme américain, chaque zone d’influence de ce dernier a son atlantisme à lui. Nous aurions pu ainsi nous contenter d’évoquer les caractéristiques totalitaires de l’impérialisme américain pour comprendre l’Atlantisme. Mais, la position de subordination que les Européens ont adopté par rapport à leur modèle nord américain est le résultat d’un choix de nos élites auquel nous devons nous confronter directement, plutôt que de rejeter toute forme de responsabilité sur l’oligarchie américaine. Prenons notre part de responsabilité, voyons-nous tels que nous sommes, accomplissons un travail d’introspection nécessaire avant de relever la tête et de retrouver notre dignité. Car, avant de pouvoir se rebeller contre ses maîtres, il faut se percevoir comme esclave et reconnaître la part de consentement et de lâcheté qu’il y a dans cette situation.

D’un totalitarisme l’autre

Les caractéristiques de cette idéologie sont nombreuses et ne revêtent pas toutes la même importance, mais elles dessinent très clairement une idéologie totalitaire ayant ses spécificités propres qui ne se retrouvent pas nécessairement telles quelles dans les totalitarisme érigés en momies d’observation comme le stalinisme ou le nazisme. Il ne nous semble pas utile, en effet, de comparer l’Atlantisme à d’autres totalitarismes passés de mode, car on peut être un totalitarisme à part entière sans partager toutes les caractéristiques de ses modèles les plus achevés, modèles qui appartiennent à une autre époque.

Il y a plusieurs degrés dans le totalitarisme atlantiste ; comme il y a plusieurs manières de le subir. Selon que l’on est un peuple d’Afrique ou du Moyen Orient ou un citoyen allemand ou français appartenant à la classe des favorisés, on ne vit pas de la même manière le totalitarisme atlantiste. S’il est globalement meurtrier, il peut être localement bénéfique pour une minorité. Autrement dit,le totalitarisme atlantiste est à géométrie variable (c’est son caractère ambigu) : tantôt impitoyable et brutal avec les uns, il peut être plus tranquille et pourvoyeur de certains bienfaits pour ceux qui le respectent et courbent l’échine devant sa puissance. Il n’en est pas moins présent partout et ne tolère guère la contestation quand cette dernière revêt un caractère menaçant pour son emprise.

Car, si vous pouvez contester ses caractéristiques mineures et jouir, pour se faire, de la plus totale liberté, vous ne serez pas autorisé à vous attaquer, dans la force des faits[1], à ses fondamentaux : (1) le libéralisme financier et la puissance des banques, (2) la domination du dollar dans les échanges internationaux, (3) les guerres de conquête du complexe militaro-industriel – pour, notamment, l’accaparement des ressources naturelles des pays périphérique à ses valeurs - ; (4) l’hégémonisme total des États-Unis (dans les domaines militaire, économique, culturel) de qui il reçoit ses directives et sa raison d’être ; (5) l’alliance indéfectible avec l’Arabie saoudite (principal État terroriste islamique au monde) ; (6) le soutien sans faille au sionisme.

L’Atlantisme, c’est, en effet, un totalitarisme qui définit une liberté encadrée, bornée aux éléments qui ne la remettent pas en cause ; une liberté sans conséquence ; une liberté sans portée contestataire ; une liberté consumériste et libidinale ; une liberté impuissante. C’est une liberté qui nous adresse ce message : « Esclave, fais ce que tu veux, pour autant que tu me baises les pieds et que tu travailles pour moi ».

Il convient, pour juger du caractère totalitaire ou non de l’Atlantisme, de le prendre en bloc et de voir s’il opprime, s’il tue en masse, à un endroit quelconque de cette planète. Il nous importe peu qu’il puisse être tolérable pour des populations entières (les élites occidentales et leurs protégés), s’il doit se rendre terrible et impitoyable pour le reste de l’humanité, sa mansuétude à l’égard de certains ne le rendant pas meilleur ou moins criminel. Ainsi, son ambiguïté est le résultat de la perception que nous pouvons en avoir lorsque nous nous plaçons dans la peau de l’homme blanc Occidental. Car, si nous essayons un instant de nous mettre à la place des Irakiens, des Libyens, des Syriens (parmi tant d’autres), son essence perd son ambiguïté et se révèle pour ce qu’elle est : une puissance criminelle qui pervertit l’humanité et les valeurs démocratiques.*

Portrait du totalitarisme par lui-même

Voyons, à présent, à grands traits et pour nous donner quelques repères, les principales caractéristiques qui nous permettent de dire que l’Atlantisme est bel et bien un totalitarisme.

1. L’Atlantisme est un impérialisme 

“What should that role be? Benevolent global hegemony. Having defeated the « evil empire, » the United States enjoys strategic and ideological predominance. The first objective of U.S. foreign policy should be to preserve and enhance that predominance by strengthening America’s security, supporting its friends, advancing its interests, and standing up for its principles around the world”. Toward a Neo-Reaganite Foreign Policy, de William Kristol et Robert Kagan, Foreign Affairs, juillet/aout 1996.

C’est une idéologie qui sert un État militarisé (les États-Unis[2]) qui a recours (a) à la terreur - guerres préventives, enlèvement, déportations dans des camps de torture, assassinats extrajudiciaires quotidiens, etc.- (b) à la peur – menace terroriste instrumentalisée auprès de ses populations et (c) aux menaces – de rétorsions économiques contre les États récalcitrants, de guerres tous azimuts, de coups d’États – pour imposer sur la surface du globe sa vision ultra-libérale et pour s’accaparer, par la force létale, les ressources naturelles dont elle pense avoir besoin pour sa domination.

C’est une idéologie au service d’une vision hégémonique de la puissance américaine. Cette dernière revendique son caractère hégémonique : (i) dans le domaine militaire, à travers les think tanks néoconservateurs comme le Project for a New American Century (et sa volonté affichée d’empêcher l’émergence d’une puissance capable de rivaliser avec celle des États-Unis) ou l’American Entreprise Institute et, enfin, à travers sa doctrine militaire officielle intitulée Full Spectrum Dominance ; (ii) dans le domaine économique et financier avec, entre autre, l’imposition du dollar comme monnaie d’échange international ; (iii) dans le domaine culturel, par la mise en place d’un programme de corruption des élites occidentales et internationales à travers, notamment, l’opération Mockingbird[3] dans les années 50 et le National Endowment for Democracy aujourd’hui.

L’Atlantisme, adhère, sans piper mot et comme un bon soldat, à cette projection planétaire d’un ego qui n’est pas le sien. Sans l’Atlantisme la vision hégémonique des États-Unis ne pourrait pas avoir le caractère global qu’elle a aujourd’hui. L’Atlantisme participe pleinement à l’ensemble des crimes commis au nom de cet ego démesuré, soit directement, soit en les justifiant ou en les transfigurant en ‘actions humanitaires’ auprès de ses peuples.

2. L’Atlantisme est un terrorisme 

“À la fin de la guerre froide, une série d’enquêtes judiciaires menées sur de mystérieux actes de terrorisme commis en France contraignit le Premier ministre italien Giulio Andreotti à confirmer l’existence d’une armée secrète en France ainsi que dans d’autres pays d’Europe occidentale membres de l’Organisation du Traité de l’Atlantique Nord (OTAN). Coordonnée par la section des opérations militaires clandestines de l’OTAN, cette armée secrète avait été mise sur pied par l’Agence centrale de renseignement américaine (CIA) et par les services secrets britanniques (MI6 ou SIS) au lendemain de la seconde guerre mondiale afin de lutter contre le communisme en Europe de l’Ouest.[…] Si l’on en croit les sources secondaires aujourd’hui disponibles, les armées secrètes se sont retrouvées impliquées dans toute une série d’actions terroristes et de violations des droits de l’Homme pour lesquelles elles ont accusé les partis de gauche afin de les discréditer aux yeux des électeurs. Ces opérations, qui visaient à répandre un climat de peur parmi les populations, incluaient des attentats à la bombe dans des trains ou sur des marchés (en France), l’usage systématique de la torture sur les opposants au régime (en Turquie), le soutien aux tentatives de coups d’État de l’extrême droite (en Grèce et en Turquie) et le passage à tabac de groupes d’opposants.” Les Armées secrètes de l’OTAN, Daniele Ganser, Éditions Demi- Lune, page 24.

Des attentats des années de plomb en Italie au conflit en Afghanistan, de la guerre du Kosovo à l’agression contre la Libye et de la déstabilisation de la Syrie à la préparation d’une attaque contre l’Iran[4], le terrorisme est l’un des moyens privilégiés par l’Atlantisme pour l’accomplissement de ses objectifs.

Pour s’imposer à l’Europe de l’après-guerre, l’Atlantisme n’a pas hésité à utiliser la méthode terroriste des attentats sous faux drapeaux : en Italie, par exemple, pour décrédibiliser les forces de gauche les Atlantistes ont posé des bombes, dans les années 60 (attentat de la piazza Fontana à Florence), 70 et 80 (attentat de la gare de Bologne) dans des lieux publics avec l’intention de tuer des innocents. Avec ses relais médiatiques adéquats l’Atlantisme a pu faire passer ces meurtres pour l’œuvre de groupuscules d’extrême gauche et justifier, ainsi, la mise à l’écart de la pensée progressive dans ces pays et assurer le triomphe de leur idéologie.

Aujourd’hui, pour déstabiliser les pays qui contestent l’un de ses six piliers, il instrumentalise à grande échelle, sous l’impulsion des États-Unis, le terrorisme islamique (principalement wahhabito-salafiste) avec l’aide de ses alliés que sont l’Arabie saoudite et le Qatar : en l’a vu à l’œuvre, notamment, en Serbie, en Tchétchénie, en Libye et en Syrie. Il utilise le même levier pour créer des poches de terrorisme qui lui permettent (i) de s’enrichir en vendant des armes et des conseils dans le cadre de la guerre contre le terrorisme, (ii) d’étendre le nombre de ses interventions et bases militaires (celles de l’Otan ou seulement des États-Unis, selon les situations) là où il y voit un intérêt géostratégique et (iii) de donner de la substance à la théorie du choc des civilisations, ce qui lui permet d’obtenir de ses populations l’approbation de ses politiques conquérantes.

Le terrorisme est, plus généralement, au cœur de la doctrine et des stratégies militaires des démocraties occidentales et tout particulièrement de celles des États-Unis (Shock and Awe doctrine) qui les mettent en œuvre, notamment, par l’entremise de l’OTAN (pour plus de détails sur ce sujet, nous renvoyons à un article précédent : Dommages Collatéraux : la face cachée d’un terrorisme d’État).

On le voit bien ici, l’Atlantisme n’est jamais que l’exécutant docile, mais consentant, de l’impérialisme américain à qui il emprunte tous les concepts (guerre contre le terrorisme, choc des civilisations) et les stratégies (instrumentalisation du terrorisme islamique). Quand il le faut (pour gérer son opinion publique interne), l’impérialisme américain laisse aux Atlantistes européens jouer les premiers rôle, mais en apparence seulement, comme en Libye où Nicolas Sarkozy et David Cameron ont rivalisé d’initiatives pour se mettre en avant, alors même que toutes les opérations militaires étaient dirigées, en réalité, par l’armée américaine.

3. L’Atlantisme est un racisme 

“Cette logique du ‘Musulman coupable par nature’, parce que Musulman, est à la base de l’institutionnalisation de la torture par les États-Unis qui peuvent ainsi soumettre à des traitements inhumains des milliers de personnes à travers le monde (Guantanamo n’étant que l’un de ces camps de torture dirigés par l’administration américaine) sur la base d’un simple soupçon de ‘terrorisme’, soupçon qui ne fait l’objet d’aucun contrôle judiciaire. La culpabilité d’un Musulman n’a pas besoin d’être prouvée, elle se déduit de son être même. Il s’agit là d’une forme d’essentialisme, qui est lui-même une forme radicale de racisme”. L’esprit du temps ou l’islamophobie radicale.

Pour justifier sa guerre contre le terrorisme et le choc des civilisations l’Atlantisme stigmatise l’Islam et essentialise le Musulman sous des traits peu flatteurs : le Musulman serait par nature un ennemi des Occidentaux, voire du genre humain, des valeurs démocratiques et de la paix. Une fois essentialisé, il est plus facile d’aller le tuer ; les populations occidentales ne voyant dans les souffrances des Musulmans que les justes châtiments dus à des peuples racailles.

L’islamophobie, le nationalisme pro-occidental et le sionisme – qui est une forme de racisme et d’ethnicisme – sont au cœur de la matrice idéologique atlantiste. Le plus étonnant, sans doute, et le plus inquiétant, est que ces éléments là sont partagés par les élites (et pour partie par les peuples occidentaux) par-delà les clivages politiques droite-gauche. On peut venir à l’islamophobie radicale par des voix opposées : le défenseur de la laïcité y viendra au nom de sa haine des religions, le social-démocrate bobo au nom du féminisme ou de la défense de l’homosexualité ; le conservateur au nom de la protection de ses racines menacées ; le sioniste au nom du droit d’un peuple élu à son espace vital, même si cela doit passer par le nettoyage ethnique d’un autre peuple, etc.

4. L’Atlantisme est un anti-humanisme 

“Depuis 2001, l’Europe a failli à défendre les droits de l’homme sur son propre sol, et s’est rendue complice de graves violations du Droit international au nom de la « guerre au terrorisme ». Des citoyens européens ou étrangers ont été enlevés par les services secrets américains sur le sol européen en dehors de toute disposition légale – ce sont les « extraordinary renditions » – et ont été emmenés dans des prisons secrètes de la CIA dont certaines sont situées dans un pays européen”. ReOpen911.info

Il s’appuie sur le dogme de l’infaillibilité démocratique qui veut que les Occidentaux ne puissent mal agir ni commettre de crimes de masse puisqu’ils représenteraient des sociétés démocratiques ouvertes. Ils sont donc libres de bombarder civils et cibles économiques, d’assassiner des citoyens à travers le monde, de déstabiliser des régimes qui ne leur plaisent pas et, en se faisant, ils ne feront jamais qu’exercer leur droit du meilleur, autre appellation, plus aristocratique, du droit du plus fort. L’autre n’est pas le semblable ou le frère humain ; l’autre c’est l’adversaire, l’ennemi, un être non civilisé, à peine un être. On peut allègrement nier son humanité et le traiter comme une variable géopolitique.

Vaincre ne lui suffit pas, il lui faut déshumaniser, torturer, humilier, violer, dégrader, détruire. Les Atlantistes ont collaboré militairement, économiquement, diplomatiquement, médiatiquement à tous les projets inhumains des États-Unis :  pour s’en tenir à des exemples récents, on pourra citer le camp de torture de Guantanamo (devenu depuis camp d’entraînement de djihadistes au service de l’empire), Abu Ghraib en Irak et l’humiliation des prisonniers, la mort filmée de Kadhafi, les exécutions sommaires (par drones notamment), les enlèvements réalisés par la CIA sur le sol européen (extraordinary rendition) et les dommages collatéraux en Afghanistan, etc.

Dans un autre ordre d’idée, on peut également dire que l’Atlantisme est une aliénation consumériste : l’homme n’est pas sacré ; on peut le tuer pour accomplir des objectifs économiques ou géostratégiques. Cette désacralisation de l’homme qui se fait au profit de la marchandise (dont les marques sont, elles, intouchables) est par essence mortifère. Le profit est plus puissant que l’humanité : en ce qui concerne la France, on pourra évoquer les exemples du scandale du sang contaminé et du Mediator du groupe Servier.

 

Hollande et Jules Ferry

Ce n’est pas un hasard si François Hollande a choisi Jules Ferry comme saint-patron laïque de sa présidence normale. Jules Ferry représente exactement l’idéal atlantiste : l’homme qui est capable d’utiliser la démocratie pour servir les banques et le colonialisme tout en donnant le change au peuple avec quelques concessions sociétales de gauche. Il ne portera jamais atteinte aux piliers de la puissance bancaire et aux capitalistes-colons. Il est conquérant pour les puissants, raciste et a une bonne conscience à toute épreuve malgré les crimes de ses amis partis coloniser les rivages lointains.

 

5. L’Atlantisme est un néo-colonialisme

Si le bras armé de l’Atlantisme est l’Otan, son bras économique est constitué du binome FMI-Banque Mondiale. Ces deux institutions (aux mains des États-Unis et des Européens) ont, pour maintenir les pays en voie de développement dans la dépendance des Occidentaux, utilisé les 3 leviers principaux suivants[5] : (i) l’endettement des États et des peuples[6], (ii) la privatisation de leurs économies et des fonctions régaliennes de l’État au profit des grandes entreprises occidentales (les fameux plans d’ajustement structurels) et (iii) l’ouverture forcée de leurs économies au libre échange et à la concurrence mondiale (alors même qu’ils n’y sont pas préparés et se trouvent vis-à-vis des Occidentaux dans une situation certaine de vulnérabilité).

L’Atlantisme commet des crimes économiques de masse en connaissance de cause pour le profit de quelques élus : en se faisant il démontre son allégeance aux principes de l’ultra-libéralisme prôné par la première puissance mondiale qui subordonne les valeurs humaines au fondamentalisme de marché.*

Pour parvenir à s’imposer l’Atlantisme a besoin (i) de subvertir les souverainetés des nations européennes et (ii) de maîtriser les opinions publiques de ces nations. Il lui faut contourner, affaiblir ou pervertir toutes les composantes démocratiques des sociétés de notre continent pour pouvoir triompher des insoumissions, des doutes, des contestations auxquels il pourrait faire face. Autrement dit, l’Atlantisme s’attaque directement et en profondeur aux fondements de la démocratie des peuples d’Europe à qui il est demandé de suivre aveuglément une idéologie cachée (parce qu’elle est honteuse), innommée (parce qu’elle est innommable) et qui les dépouille de leur souveraineté et de leur libre arbitre. 

L’Atlantisme subvertit les souverainetés nationales 

Sans parler du nombre incalculable de gouvernements démocratiquement élus renversés par les États-Unis avec l’aide directe ou l’approbation tacite de leurs alliés Atlantistes depuis 1945 à travers le monde, et pour se limiter à l’Europe, on peut signaler les cas de la Grèce et de la construction européenne.

En Grèce, aux lendemains de la seconde guerre mondiale, les Britanniques et les États-Unis appuient des mouvements d’extrême droite et d’anciens collaborateurs des Nazis afin d’empêcher la prise de pouvoir légale par les mouvements démocratiques progressistes. Les puissances occidentales atlantistes incitent à la guerre civile qui se solde par la victoire de leurs protégés et par près de 200 000 morts.  Après une évolution démocratique vers la fin des années 60, les Américains, avec l’aide des puissances européennes et grâce à leurs réseaux atlantistes, installent au pouvoir, en 1967, une junte militaire qui proclame le règne de l’ordre moral[7] et la fin de l’ouverture démocratique.

La construction européenne menée par Jean Monnet est avant tout un projet atlantiste. Il y avait bien d’autres manières de conduire la réalisation d’une Europe plus unie. L’Atlantisme a fait le choix de l’impuissance européenne pour ne pas contrarier les ambitions hégémoniques des États-Unis. L’Atlantisme a réduit la souveraineté européenne et mis au pas tous les mouvements indépendants, gaullistes, souverainistes, communistes, qu’ils fussent de gauche ou de droite. Il a imposé ses dirigeants à tous les niveaux de la bureaucratie européenne et à la tête des principaux États de l’Europe qui ont imposé des traités inégaux mêmes lorsque ceux-ci ont été rejetés par les peuples (comme en 2005 avec le Traité constitutionnel).

L’Atlantisme européen a réduit à néant, par étapes successives, l’ensemble des axes de souveraineté dont disposaient les États-nations d’Europe (et donc l’espace démocratique des peuples européens).

Il s’est ainsi attaqué à la souveraineté (i) électorale – le principal organe de décisions est non élu : la Commission ; les traités rejetés par les peuples sont néanmoins imposés ; par la mise à l’écart systématique de la démocratie directe au profit de la démocratie représentative – (ii) monétaire – une banque centrale indépendante des peuples ou de leurs élus qui ne prête pas directement aux États membres qui doivent se financer à des taux plus élevés sur les marchés financiers-, (iii) budgétaire – par l’imposition de la règle d’or et le contrôle des budgets nationaux par une commission composée de technocrates non élus – et (iv) militaire – intégration de l’ensemble des pays européens dans l’Otan.

Le dernier axe de souveraineté auquel l’Atlantisme se soit attaqué est celui de la souveraineté militaire française, la France ayant résisté plus longtemps que les autres nations européennes au rouleau compresseur de l’Atlantisme (ce fut la parenthèse gaulliste). Aujourd’hui les Atlantistes proposent la fusion entre le français EADS et l’anglais BAE afin de retirer à la France le contrôle complet de sa chaîne industrielle d’armement. Demain, ils mettront à mal la dissuasion nucléaire française en s’aidant du prétexte écologique anti-nucléaire.

En France, la mise au pas des non-atlantistes s’est achevée sous la présidence Sarkozy. La diplomatie (avec à sa tête Bernard Kouchner), l’armée, les médias (grâce aux efforts de Christine Ockrent) ont été presque entièrement débarrassés de leurs composantes non altantistes. Hollande, en bon chien de garde de l’Atlantisme, parachèvera l’entreprise.

 

La French-American Foundation et les Atlantico-Boys

La French American Foundation est une organisation à but non lucratif qui se consacre depuis 1976 a dénicher en France les hommes et femmes d’influence qui sont susceptibles de porter les couleurs de l’Atlantisme. 

Quelques anciens Young Leaders de la French American Foundation qui nous gouvernent en ce moment : François Hollande (1996), Arnaud Montebourg (2000), Pierre Moscovici (1996). Dans l’opposition, le plus en vue est Jean-Francois Copé.

Une liste non exhaustive des Atlantico-Boys en France (autres que ceux déjà mentionnés) et de leurs relais : Alain Finkielkraut, André Glucksmann, Bernard Kouchner, Bernard-Henri Lévy, Alexandre Adler, Caroline Fourest, Frédéric Encel, Philippe Val, Francois Heisbourg, Mohamed Sifaoui, Jean-Claude Casanova, Pierre Rosanvallon, Alain Minc, Jean Daniel, Pierre-André Taguieff ; la revue Commentaire, la Fondation Saint Simon (dissoute en 1999), le Cercle de l’Oratoire, l’Institut Turgot, l’Atlantis Institute, les revues Le Meilleur des MondesLa Règle du JeuLe Nouvel ObservateurLe MondeLibération, etc.

 

L’Atlantisme est un contrôle et une manipulation des foules

“The conscious and intelligent manipulation of the organized habits and opinions of the masses is an important element in democratic society. Those who manipulate this unseen mechanism of society constitute an invisible government which is the true ruling power of our country”. Propaganda, par Edward Bernays, 1928. 

“L’Atlantisme a pris naissance au départ de la guerre froide. Dans les années 50, un vaste programme nommé Opération Mockingbird, aujourd’hui bien documenté, a été mis en place par la CIA pour infiltrer les médias nationaux et étrangers, et influencer leurs contenus afin que ces derniers se montrent favorables aux intérêts américains. La méthodologie consistait à placer des rapports rédigés à partir de renseignements fournis par la CIA auprès de journalistes conscients ou inconscients de cette manœuvre. Ces informations étaient ensuite relayées par ces journalistes et par les agences de presse.” ; 11-Septembre : de la misère journalistique à la logique de collabos, de Lalo Vespera, ReOpen911.info

Sans la collaboration des médias, il ne serait possible à l’Atlantisme d’imposer ses fondamentaux dans l’esprit de l’opinion publique. Les médias font partie intégrante de la machine de guerre atlantiste. Pour créer le consentement et l’unanimisme dans une société ouverte il convient de maîtriser la production de l’information. Pour cela il est nécessaire de mettre à la tête des principaux médias des serviteurs zélés de l’Atlantisme. En France, dans le secteur privé des médias, seuls quelques grands groupes industriels appartenant à la nébuleuse oligarchique sont aux commandes (des vendeurs d’armes et des industriels qui vivent en partie grâce aux commandes de l’État) : il est naturel chez eux de servir les intérêts du plus fort (la période de la collaboration avec les Nazis est là pour nous le rappeler[8]). Dans le secteur public, le Président de la République ou ses fondés de pouvoirs choisissent leurs courroies de transmission humaines qui insuffleront l’esprit de soumission dans les rouages de la machine à désinformer.

Les pourvoyeurs de l’information commettent des crimes médiatiques lorsqu’ils se font les relais pur et simple de la propagande atlantiste, comme nous l’avons vu lors de la guerre contre la Serbie, de l’invasion de l’Afghanistan et du bombardement de la Libye par l’Otan, de la guerre en Irak, de la déstabilisation de la Syrie (toujours par l’Otan) ou comme nous le constatons à propos du nettoyage ethnique continu dont sont victimes les Palestiniens. Dans chacun de ces cas, les médias cautionnent les explications officielles, leur donnent force et crédibilité, mettent en avant des intentions humanitaires, alors même qu’elles recouvrent des crimes qui devraient soulever notre indignation et aboutir à la mise en cause judiciaire et politique de leurs principaux responsables.

Le tabou créé autour du 11-Septembre est symptomatique de la manière dont s’échafaude l’unanimisme dans une société où la liberté d’expression et la diversité des points de vue sont sensées régner. On démonise les questionneurs, on pourchasse les têtes brûlées, on les rend responsables des pires crimes du siècle dernier, on les ridiculise. On plante dans l’opinion publique des barrières psychologiques infranchissables (à travers, notamment, les accusations d’antisémitisme, de négationnisme et de révisionnisme) pour que la conscience citoyenne n’aille pas voir ce qu’il y a derrière ; on érige des murs dans les esprits pour enfermer leur consentement dans le champ des possibles atlantistes.

Il y a une forme d’intolérance radicale face à la pensée alternative maintenue enfermée dans le Web. Cette intolérance est radicale en ce sens qu’elle stigmatise les déviants et tente d’en faire des parias à mettre au ban de la société et qu’elle parvient à fermer presque totalement l’accès aux grands médias qui comptent à la pensée dissidente lorsqu’il s’agit d’évoquer et de discuter les fondamentaux de l’Atlantisme.

 

La psyché des Européens au service de l’Atlantisme

« Les Européens ne se sont toujours pas libérés psychologiquement de l’état de dépendance dans lequel ils se sont laissé prendre au sortir de la seconde guerre mondiale. Sous le prétexte que les États-Unis sont venus libérer les Européens il y a plus de 60 ans, il faudrait aujourd’hui que ces derniers abandonnent toute volonté d’indépendance, toute aspiration à choisir un modèle de développement alternatif. Il n’y a aucune logique dans une telle attitude. Faudrait-il que les États-Unis soient éternellement soumis à la France au prétexte que c’est grâce aux armes, aux finances et, en définitive, à la flotte de Louis XVI[9] que les Américains ont pu obtenir leur indépendance de l’Angleterre ? Que les Européens soient reconnaissants pour l’implication des États-Unis dans les deux Guerres Mondiales, cela est normal et bienheureux. Comme il est normal, également, que les Américains soient reconnaissant à l’égard de la France pour le soutien que ce pays leur a apporté à un moment décisif de leur histoire[10]. Mais la reconnaissance ne doit pas déboucher sur la dépendance et la vassalité. Est-il sain que les élites européennes se laissent maintenir dans cette dépendance ou ne cherchent tout simplement pas à la contrer ? Le simple respect de soi-même devrait suffire pour que chacun refuse de se considérer comme le sujet d’une autre personne. Accepter de se soumettre est une attitude morale et psychologique pernicieuse et humiliante. Il y a, en effet, une certaine humiliation à se laisser ainsi dicter son mode de vie et à aller chercher en permanence ses références culturelles, politiques, économiques outre-atlantique sans véritablement questionner leurs valeurs et leurs bienfaits. », La Démocratie ambiguë.*

Conclure pour en finir

Il ne s’agit là que d’un florilège de caractéristiques atlantistes fort incomplet, mais dont les principaux traits nous semblent dresser, à eux seuls, le portrait d’un totalitarisme contemporain non moins dangereux et effrayant que ses prédécesseurs. Qu’il s’invente un ennemi réel ou imaginaire, ou un ennemi qui devient réel à force d’être imaginé (et souhaité), on ne peut excuser les crimes de l’Atlantisme sous le prétexte fallacieux que son alter ego dans le mal (l’islamisme radical) en commettrait également ou que son modèle (le totalitarisme impérial de son maître) lui intimerait l’ordre de les perpétrer. L’Atlantisme a besoin du crime de l’autre pour commettre le sien en toute impunité et avec bonne conscience.

Au bout de sa logique, il y a la mort des autres, la guerre généralisée, la misère du plus grand nombre. L’Atlantisme est bel et bien une idéologie génocidaire, au même titre que l’impérialisme américain. Caractérisation exagérée qui décrédibilise celui qui l’utilise diront certains ? Galvaudage d’un crime qu’on ne peut évoquer à la légère diront d’autres ? Posons-nous alors cette simple question :combien de morts et de souffrances à son crédit (comme auteur ou complice) ? La réponse de l’historien est sans détour : des millions de victimes depuis la fin de la seconde guerre mondiale ; des millions depuis la chute du mur de Berlin[11] et un long fleuve d’ombres, de sang et de souffrances qui ne cessent de couler sur tous les continents.

La lutte contre l’Atlantisme est la grande aventure humaine de ce début de siècle pour nous autres Européens. À chacun d’y prendre part selon ses moyens et ses autres croyances. Que l’on croit au ciel ou que l’on n’y croit pas, que l’on soit misérable ou fortuné, d’ici ou d’ailleurs, chacun peut jouer sa partition dans le combat contre la fatalité de l’Atlantisme qui traînera avec elle, si cela est nécessaire à son triomphe, les cadavres de la démocratie et de la paix jusqu’aux charniers du capitalisme. Le combat contre l’Atlantisme est un humanisme.

Guillaume de Rouville


[1] Les paroles des minorités alternatives sont rarement des faits au sens ou ceux-ci pourraient changer le cours des choses.

[2] Les États-Unis ont un budget militaire annuel équivalent à celui des autres pays combinés.

[3] Voir infra.

[4] En septembre 2012, les États-Unis ont retiré de leur liste des entités considérées comme terroristes l’organisation dissidente iranienne Moudjahidin-e Khalk (MEK) qui perpétue régulièrement des attentats sur le sol iranien.

[5] L’Europe tente, notamment, d’imposer cela à travers ces Accords de Partenariat Économique.

[6] Pour les peuples, par le développement incontrôlé de la microfinance.

[7] À ce sujet voir le film de Costa Gavras : Z.

[8]  Voir : “Le Choix de la Défaite”, d’Annie Lacroix-Riz, Éditions Armand Colin, 2010.

[9] C’est grâce à l’appui décisif de la flotte française, dirigée par le Comte de Rochambeau, que les États-Unis remporteront la bataille de Yorktown en 1781, tournant majeur de la Guerre d’Indépendance.

[10] Lors de la Guerre d’Indépendance des États-Unis contre la Grande-Bretagne, entre 1775 et 1783.

[11] À titre d’exemples : le génocide des indigènes au Guatemala après le coup d’État de 1954 ; l’embargo sur l’Irak qui tua des centaines de milliers d’enfants sur une période de 10 ans ; le dépeçage du Congo depuis plus de 15 ans avec l’aide des grands groupes occidentaux qui a, jusqu’à présent, coûté la vie à près de 4 millions de civils).

dimanche, 14 octobre 2012

Chipre: Cuando Turquia expulsa y expolia a los Griegos de la isla.

  
 

Enrique Ravello:
Chipre: Cuando Turquia expulsa y expolia a los Griegos de la isla.
Chipre debe su nombre a la palabra latina aes Cyprium (metal de Chipre) en referencia al cobre, metal de gran importancia en la Antigüedad y del que la isla contaba con numerosos yacimientos. Esto, unido a su posición estratégica entre Europa Asia y África, ha hecho que desde los primeros tiempos de la Historia, Chipre haya sido un lugar de conflicto y conquistas entre las potencias de la zona. Siendo ocupada sucesivamente por civilizaciones africanas (egipcios) asiáticas (asirios) y europeas (minoico-micénicos y helenos) hasta pasar a formar parte del Imperio romano en el año 57 a. C. Allí predicaron San Pablo y San Barnabé y Chipre fue el primer lugar del mundo gobernado por un cristiano, aún formando parte del Imperio romano. La romanización de Chipre, supuso le llegada de administradores romanos, pero la mayoría de población siguió siendo de origen helénico establecida allí desde tiempos de Micenas y reforzada tras la invasión de la isla por Alejandro Magno en 331 a. C.
Tras la caída de Roma, la isla fue motivo de constantes disputas entre Bizancio (Imperio romano de Oriente) y los árabes. Siendo conquistada por los cruzados al mando de Ricardo Corazón de León en 1192, quien se llegó a coronar como Rey de Chipre. En las disputas mediterráneas, pasó a formar parte de la Serenísima República de Venecia en 1489 hasta que cayó definitivamente en manos tucas en 1570. Señalar que durante todos estos siglos la composición étnica de la isla se mantuvo estable, hablándose el griego en la totalidad del territorio. La llegada de los otomanos impuso una administración turca, grupos de greco-chipriotas empezaron a formar parte de la misma, varios de ellos se convirtieron al islam para no pagar los impuestos que se encargaban de recaudar al resto de la población, y se familiarizaron con el uso de la lengua turca: éste es el origen de los primeros turco-chipriotas, es decir helenos convertidos al islam, formando parte de la administración otomano y usando el turco también como lengua familiar.
La ocupación otomana terminó en 1878 cuando tras el Congreso de Viena, Chipre pasó a ser un dominio británico, con la categoría de colonia desde 1914. La población chipriota, anhelaba no la independencia de la isla sino la llamada enosis (unión a Grecia), aspiración mayoritaria aún hoy entre la mayoría greco-chipriota En Chipre es imposible ver la bandera de la isla si no es acompaña de la griega –incluso en edificios oficiales- y muy frecuentemente de una amarilla con águila negra, que es la del antiguo Imperio bizantino.  En los años posteriores de la Segunda Guerra Mundial, la enosis es liderada por el famoso arzobispo Makarios, que sería deportado a  las islas Seychelles por los británicos.
Es en 1960 cuando Reino Unido, Grecia y Turquía llegan a un acuerdo que declara independiente la isla, pero mantiene la posesión británica de varias bases militares. Una de las condiciones que puso Londres para esta independencia fue prohibir constitucionalmente la unión de Chipre con Grecia. La constante británica de evitar la creación e grandes Estados en Europa que puedan convertirse en potencias locales. De haberse unido Chipre y Grecia en ese momento, seguramente se hubiera evitado la posterior invasión turca del norte de la isla.
 
Turquía ocupa el norte de Chipre. Limpieza étnica y expolio del patrimonio greco-chipriota
En 1974 hay un golpe pro-griego en Chipre apoyado por la “Dictadura de los coroneles” desde Grecia cuya finalidad era incorporar Chipre al Estado heleno. Este hecho provocó la reacción turca, que invadió militar m ente el norte de la isla, proclamando unilateralmente la República Turca del Norte de Chipre (RTNC), estado no reconocido por ningún otro país, excepto la propia Turquía y la Conferencia Islámica. Casi 40 años después, del aquel golpe y de la dictadura de los coroneles sólo queda el recuerdo, sin embargo el norte de Chipre sigue ocupado militarmente por Ankara y esa autoproclamada RTNC se mantiene detrás de una frontera militar que el ejército turco ha trazado para defenderla.
 
El pasado 29 de septiembre tuve la oportunidad de visitar la zona junto a una delegación del Parlamento europeo compuesta por miembros del FPÖ, el VB y el Front National. Visita que sirvió para comprobar in situ la realidad de la isla, y de la limpieza étnica y expolio del patrimonio que se lleva desde la zona turca. La vista empezó en la Fundación Makarios III –el nombre del arzobispo al que hemos hecho referencia anteriormente- allí se exhibe una magnífica colección de iconos que se han logrado recuperar recientemente. Todos ellos provienen de iglesias greco-ortodoxas que en 1974 quedaron en zona turca, las iglesias fueron abandonas y sus murales e iconos bizantinos despedazados por los turcos para ser vendidos por mercaderes de arte en circuitos ilegales; el gobierno greco-chipriota pudo descubrir este expolio y recuperar gran parte de estos tesoros iconográfico que ahora son exhibidos en un museo a cargo de la mencionada fundación. La vista continúo con la recepción oficial por parte del obispo de Kernia (Karinia), cuya diócesis esta de pleno en zona turca donde tiene prohibida la entrada; él –como la mayoría de fieles de su diócesis- vive en la zona griega tras haber sido expulsados por los turcos de sus hogares y de sus iglesias, ejemplo de fe y voluntad, no dan por perdida su tierra y sueñan con volver allí cuando Chipre esté reunificado y pacificado.

Fresco bizantino roto por los turcos
Finalmente en varios coches particulares atravesamos la frontera militar que separa la zona de ocupación turca del resto de la isla. Allí pudimos comprobar cómo las iglesias y cementerios ortodoxos habían sido abandonados y profanados por los turcos. Vimos también como entre la población local los antiguos turco-chipriotas son una minoría, el grueso de la misma la constituyen turcos venidos del interior de Anatolia. Históricamente los turcófonos eran poco más del 10% de la población distribuida por toda la isla, hoy son el 18% todos concentrados en el norte, mientras que los griegos que históricamente también poblaban esa parte norte fueron expulsados en 1974.  Hoy la zona turca vive exclusivamente de las subvenciones mensuales que reciben todos sus habitantes directamente del gobierno turco, sin que tengan la más mínima producción ni actividad económica. El Gobierno de Ankara ha decidido colonizar la zona con la gente más pobre y atrasada de su país y para ello necesita subvencionarlos constantemente; ni que decir tiene que una de las primeras víctimas de este proceso de limpieza étnica y colonización han sido los propios turco-chipriotas anteriores a 1974 hoy concentrados en el norte y convertidos en una minoría respecto a los turco-anatolios con un nivel cultural y económico tremendamente más bajo que el suyo.

Icono ortodoxo recuperado por las autoridades chipriotas del expolio turco
Es necesario recordar que Chipre entró en la Unión Europea en 2004. Ese mismo año se produjo un referéndum para la posible reunificación de la isla en las condiciones actuales por parte de la ONU, la respuesta greco-chipriota fue clara el 76% votó en contra al considerar que el plan de la ONU perpetuaba el status quo de la ocupación turca y deba ventajas increíbles a esa minoría en el futuro y supuesto gobierno “unificado” de la isla. Durante el referéndum y posteriormente, los greco-chipriotas han insistido en que la opción que ellos siguen apoyando es la enosis (unión con Grecia). Por este motivo la parte de Chipre que está integrada en la UE es la greco-chipriota, aunque como oficialmente la UE no reconoce la RTNC, la parta norte es territorio comunitario que no está bajo jurisdicción europea al permanecer ocupado militarmente por Turquía. Es decir que una la UE tiene parte de su territorio bajo ocupación militar turca, lo que debería ser condición suficiente para detener cualquier diálogo mutuo hasta que dicha ocupación finalice. Esto suponiendo que la UE tenga la voluntad política y diplomática real de defender a los pueblos europeos, algo que los hechos nos demuestran permanentemente que no es así.

Pope de Karinia en el exilio
Chipre y Grecia han sido desde siempre la vanguardia de la civilización europea ante el avance oriental y musulmán. Hoy lo siguen siendo, vimos con la valentía y la determinación que los greco-chipriotas luchan día a día por recuperar un patrimonio y un territorio que es suyo. Dedicamos este artículo a todos ellos y en espacial a las autoridades civiles y religiosas que tan amablemente nos acompañaron durante nuestra visita. Ellos nos pidieron que diéramos a conocer la situación, este artículo es parte de la promesa que les hicimos.
 
Enric Ravello
Secretario de relaciones nacionales e internacionales de Plataforma per Catalunya


Russland und Deutschland feilen an Plan für militärische Kooperation

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Russland und Deutschland feilen an Plan für militärische Kooperation

Der russische Verteidigungsminister Anatoli Serdjukow und sein deutscher Amtskollege Thomas de Maiziére haben sich bei einem Treffen am Montag in Berlin darauf geeinigt, gemeinsam einen Plan für die militärische Zusammenarbeit im kommenden Jahr zu konzipieren. Der Plan soll bis Dezember vorliegen, wie die Sprecherin des russischen Ministers, Irina Kowaltschuk, mitteilte.

Serdjukow, der zu einem offiziellen Besuch in der Bundesrepublik weilt, würdigte die Zusammenarbeit zwischen den Landstreitkräften beider Staaten und sprach sich für eine engere Kooperation im Bereich der Kriegsmarine aus. Die beiden Minister erörterten die militärtechnische Zusammenarbeit und sprachen über internationale Probleme wie den europäischen Raketenschild, die Lage in Afghanistan, im Nahen Osten und in Afrika.

Zudem informierte Serdjukow über die Entstehung des Ausbildungszentrums Mulino an der Wolga. Die Ausbildungsstätte für die russische Armee wird vom deutschen Technologie- und Rüstungskonzern Rheinmetall AG gebaut.

La Syrie, au cœur de la Guerre tiède

 

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La Syrie, au cœur de la Guerre tiède ? D’une désinformation médiatique à une intervention programmée

par Jean Géronimo

Sans-titre-3-150x150.jpgSpécialiste des questions économiques et stratégiques russes - Docteur des Universités, vice-major de promotion de licence et maîtrise de sciences économiques, UPMF Grenoble. Lauréat de la Fondation Robert Schuman. Ancien allocataire de recherche de la Région Rhône-Alpes

Jean.Geronimo@upmf-grenoble.fr

« Il faut empêcher de réitérer le scénario libyen en Syrie »

  Vladimir Poutine, 27/02/2012 (1)

 

La crise syrienne est, aujourd’hui, arrivée à un point critique. Une guerre fratricide massacrant, pour partie, des innocents, est en cours.

Dans ses grandes lignes, cette guerre est médiatisée par les intérêts politico-économiques des grandes puissances. Mais, très tôt, elle a été polluée par les nouvelles idéologies religieuses et nationalistes, surfant sur les maladresses occidentales et la soif de libertés de peuples en perdition – au prix de dérives politiques incontrôlables et, sans doute, irréversibles.

 

A l’origine, cette quête identitaire a été précipitée par la « fin des idéologies » (D. Bell)  issue de la disparition de l’URSS, en décembre 1991, qui a favorisé le retour du religieux comme idéologie alternative et, au moins, réactivé son rôle politique et identitaire. Dans le même temps, la disparition du verrou idéologique de la Guerre froide a suscité l’émergence de micro-conflits périphériques désormais porteurs, sur l’Echiquier arabe, d’aspirations révolutionnaires. En ce sens, la délégitimation de l’idéologie communiste aurait agi comme facteur catalyseur d’une instabilité systémique à l’échelle du monde et dont la crise syrienne ne serait, au final, qu’un sous-produit – une forme d’effet émergent.

La (prévisible) réaction d’auto-défense du régime syrien face à la terrible violence « révolutionnaire » attisée de l’extérieur a débouché, aujourd’hui, sur une inquiétante guerre civile – imputée par les médias occidentaux, de manière (trop) systématique et erronée, au seul président Bachar El-Assad. Pourtant, l’opposition armée anti-Assad est responsable de davantage de tueries étrangement passées sous silence et qui, en d’autres lieux, auraient pu être qualifiées de « crimes contre l’humanité », pour reprendre une expression trop souvent manipulée par la gouvernance néo-libérale sous leadership américain, dans l’optique de justifier ses actions répressives.

Avec une certaine légitimité, on peut donc s’interroger sur l’existence d’une pensée unique, structurellement favorable aux « rebelles », et verrouillant l’information sur le déroulement de la « révolution » syrienne – sous l’impulsion de l’Organisation syrienne des droits de l’homme (OSDH), étrange ONG politiquement (très) orientée et semblant avoir un monopole « légitime » sur l’information. Régulièrement émise par l’OSDH, l’information sur la nature et l’ampleur des massacres censés perpétrés par le régime Assad est, en effet, admise comme vérité scientifique par le consensus médiatique – formatant, par ce biais, une opinion publique internationale hostile au régime syrien. Toutefois, ce dernier reste – heureusement – soutenu par l’axe sino-russe.

L’issue, tant désirée par les promoteurs du Printemps arabe, ne semble désormais plus faire de doutes. Mais pour Moscou, c’est plutôt un Hiver islamiste, réchauffé par le doux soleil de la Charia, qui se prépare – avec, naturellement, la complicité américaine.

Comment et pourquoi en est-on arrivé là ? Et qui, surtout, y avait intérêt ?

Vers un point de non retour, pour réitérer le « scénario libyen »

De manière indéniable, ce point de non retour a été favorisé de l’étranger dans le cadre d’une stratégie de communication politiquement orientée et unilatéralement focalisée contre la « dictature » Assad, désigné par le consensus médiatique comme l’ennemi à abattre.

Très clairement, dès l’origine, la rébellion anti-Assad a été financée et armée par des membres clés (riches en pétrodollars) de la Ligue arabe, principalement l’Arabie saoudite et le Qatar. Très vite, elle a été encouragée par l’administration américaine et ses alliés traditionnels, avides de s’insérer dans la vague révolutionnaire portée par l’histoire et, surtout, de profiter des opportunités politiques – dont celles de contenir les ambitions russes, voire chinoises, dans une région stratégique sur les plans politique et énergétique. Ainsi, dans un premier temps, la Turquie a discrètement servi d’appui logistique pour les « rebelles » et, dans un second temps, elle s’est ouvertement montrée désireuse de passer à l’offensive, c'est-à-dire à l’action armée sur le territoire syrien. Au nom de la liberté des peuples et, naturellement, de leur droit à disposer d’eux-mêmes – la couleuvre est, tout de même, dure à avaler. D’autant plus, si on est russe.

Les infiltrations aux frontières ont été nombreuses au début de la « révolution ». Comme par hasard, tous les points de conflits sont anormalement et systématiquement proches de la frontière syrienne – curieux, tout de même, que nos médias ne se soient pas interrogés sur cette troublante coïncidence. Cette situation est illustrée, depuis fin juillet, par la volonté des « rebelles » de contrôler certains postes-frontières dans le but de faciliter les « passages », autrement dit, les actions militaires et les attentats contre les positions syriennes.

Une telle configuration confirme l’hypothèse d’une aide extérieure, très tôt invoquée par le président syrien Bachar El-Assad et qui, sans surprise, n’a jamais été prise au sérieux par les médias occidentaux, perdus dans le ciel bleu du monde de l’ignorance apprise, alimentée par la seule information diffusée par l’OSDH. Loin d’être spontanée, cette « révolution » est donc orientée et, en ce sens, elle apparaît davantage comme une « évolution », impulsée de l’extérieur et sur laquelle surfent les stratégies manipulatrices de puissances ambitieuses. Mais, dans la mesure où il s’agit d’un retour en arrière sur le plan politico-social – surtout en ce qui concerne le statut de la femme et des libertés individuelles (dont politiques) –, je parlerai plutôt « d’involution ».

Tout a été fait, dans le cadre d’un scénario programmé, pour provoquer l’armée régulière et les structures de sécurité de l’Etat syrien de manière à les contraindre à une réaction violente et créer, par ce biais, une instabilité croissante auto-cumulative, à terme, potentiellement explosive. En outre, ce chaos a été aggravé par l’émergence de milices privées, parfois de nature religieuse, et échappant à tout contrôle gouvernemental. Au final, il s’agit d’atteindre un seuil critique (déclencheur de « l’explosion »), synonyme de guerre civile – quitte à sacrifier quelques civils, quotidiennement imputés par l’OSDH au « sanguinaire » président Assad ou, alternativement, à d’inévitables « dégâts collatéraux ». Et quitte, aussi, à générer une situation anarchique caractérisée par la délégitimation des lois et structures étatiques. Une catastrophe programmée.

Aujourd’hui, l’Etat syrien, dont l’autorité est considérablement érodée, n’a même plus – au sens de Max Weber – le monopole de la « violence légitime » sur son territoire, traditionnellement considéré comme le socle de la stabilité d’un Etat-souverain. Désormais, le terreau est donc propice à la répétition du « scénario libyen », selon l’expression usitée de V. Poutine.

Sous prétexte de défendre les intérêts légitimes du peuple syrien, l’insidieuse politique arabo-occidentale a, objectivement et, sans doute, consciemment, contribué à ce chaos.

Complicité arabo-occidentale, au nom d’un troublant messianisme moral

Les « Amis de la Syrie » ont, très tôt, instrumentalisé la crise syrienne pour défendre leurs propres intérêts qui font du départ d’El-Assad, la pierre angulaire de leur stratégie.

Les intérêts de cette coalition hétéroclite se rejoignent, sur certains points précis – dont celui de placer un pouvoir « ami », apte à gérer l’après-Assad –, et, à la base, ils sont structurellement opposés à ceux de l’axe sino-russe. Redoutant une déstabilisation régionale, l’axe sino-russe prône en effet une solution politique négociée qui n’implique pas, nécessairement, l’élimination du président syrien. Nuance politique essentielle, expliquant la division, donc l’impuissance du Conseil de sécurité de l’ONU à travers le blocage systématique de ses résolutions par les responsables russes et chinois – mais c’est aussi, cela, la démocratie. Sur ce point, on peut d’ailleurs s’interroger sur la viabilité d’une résolution prônant une « transition démocratique » en Syrie et soutenue par l’étrange tryptique Arabie Saoudite-Qatar-Turquie. Avec le blanc-seing occidental…

Des intérêts économiques (contrôle de l’énergie), politiques (lutte d’influence) et stratégiques (inflexion des rapports de force) sont les enjeux sous-jacents au conflit syrien exacerbé, en définitive, par la montée brutale d’Al Qaïda (reconnue par Washington) et par l’opposition religieuse sunnites/chiites. Dans son essence, cette opposition forme une ligne de fracture confessionnelle auto-destructrice et à jamais ré-ouverte, parce que politiquement non neutre – et facilement manipulable, donc utile aux régimes hostiles au maintien du président Assad.

Le leitmotiv humanitaire, a été à la fois le fil conducteur et l’habillage légitime de l’ingérence croissante de la coalition arabo-occidentale dans le processus politique interne de la Syrie. Ce devoir d’ingérence progressivement institué devrait, à terme, justifier une intervention (sous une forme à définir) dans l’optique de renverser le régime Assad et, s’il le faut, sans la légitimité onusienne – pour contourner le barrage sino-russe. Désormais, avec le soutien actif des services secrets allemands, américains, britanniques et français, tous les efforts de la coalition arabo-occidentale sont concentrés vers cet ultime objectif. Pour l’heure, l’idée d’imposer une zone d’exclusion aérienne (définie comme zone de sécurité) pour créer un « couloir humanitaire » fait, peu à peu, son chemin. Le problème est qu’un tel « couloir » a, déjà, fait l’objet d’une instrumentalisation politico-militaire en d’autres lieux et d’autres temps. Pour Moscou, une telle leçon ne s’oublie pas et, surtout, ne doit plus se répéter.

L’essentiel est d’arriver, après la réélection d’Obama, au point de basculement de la crise (« seuil critique ») provoquant l’intervention finale et, en cette fin d’été, nous y sommes proches. Cette intervention militaire est rejetée par russes et chinois, psychologiquement marqués par  les tragédies serbe (1999), irakienne (2003) et libyenne (2012), où la manipulation des règles internationales et des mécanismes onusiens a été flagrante, mettant en cause, selon eux, la légitimité de la gouvernance mondiale. De façon troublante, cette transgression des règles est réalisée au nom de valeurs morales supérieures, selon la tradition post-guerre froide inaugurée par la vertueuse Amérique, investie de sa « destinée manifeste » et de son libéralisme triomphant – un discours, certes, bien rôdé.

Un sous-produit de cette inconscience politique occidentale a été la propagation du syndrome révolutionnaire, via un Islam radical moralisateur, au-delà de l’Echiquier arabe : dans le monde post-soviétique et sur le continent africain, au Mali pour commencer, avec l’extension de la Charia. Avec, à la clé, d’irréversibles dégâts collatéraux.

Pour l’axe sino-russe, il y a une ligne rouge à ne pas franchir dans cette partie stratégique dominée par les grandes puissances – notamment, en Syrie. Mais les dés sont, déjà, pipés.

Poursuite du reflux russe sur l’Echiquier arabe, sous bienveillance américaine

Dans l’hypothèse d’un renversement du président Assad, la Russie (avec la Chine et l’Iran)  serait la principale perdante.

Pour rappel, la Syrie est un des principaux alliés de l’Iran dans la région et la disparition d’Assad isolerait davantage Téhéran – ce que souhaitent, pour diverses raisons, de nombreux Etats arabes et occidentaux. D’autre part, le renversement d’Assad risquerait de déstabiliser le Liban et au moins, d’y redéfinir le jeu politique interne avec, notamment, l’affaiblissement du Hezbollah libanais. L’évolution syrienne est donc politiquement non neutre pour l’Etat israélien et sa stratégie au Moyen-Orient et, en ce sens, pour le destin géopolitique de la région.

A cela, il convient de préciser que l’Azerbaïdjan, ex-république de l’URSS très sensible désormais – comme d’autres Etats de la périphérie post-soviétique – aux sirènes américaines (et à leurs dollars), rêve de créer un « Grand Azerbaïdjan » étendu à une partie de l’actuelle Iran. Dans cette optique, l’affaiblissement de l’axe Iran-Syrie serait une bonne chose pour ses prétentions territoriales. Moscou redoute un tel scénario, d’autant plus qu’il nuirait dangereusement aux intérêts de son fidèle allié et partenaire stratégique, l’Arménie – dont l’existence (et celle de ses bases militaires) serait, dés lors, menacée.

En outre, par l’intermédiaire de son ministre des affaires extérieures, Ahmet Davutoğlu, la Turquie – véritable base arrière et levier de l’influence américaine en Eurasie – revendique, de manière troublante, le rôle de « pionnier du changement démocratique » au Moyen-Orient. En fait, la défense de ses intérêts nationaux – qui intègrent le « problème » kurde – a incité la Turquie à s’ingérer dans la crise syrienne. Et, surtout,  elle l’oblige à maintenir une veille stratégique dans le Nord de la Syrie convoité, selon Ankara, par les « extrémistes kurdes ». Enfin, il faut rappeler que la Turquie rêve toujours d’un Empire ottoman étendu à l’Asie centrale ex-soviétique. Tout est donc en place, pour la partie finale.

Tendanciellement, on assisterait donc à la poursuite du roll back (reflux) de la puissance russe, conduite par l’administration américaine depuis la fin de la Guerre froide et qui vise, aujourd’hui, à affaiblir ses alliances traditionnelles – donc, son pouvoir potentiel sur longue période – en zones arabe et post-soviétique. Car, qu’on le veuille ou non, l’administration Obama est objectivement tentée de manipuler les « révolutions » pour, à terme, étendre sa zone d’influence et sécuriser, par ce biais, les principales sources d’approvisionnement et routes énergétiques – d’où l’intérêt de « stabiliser », c'est-à-dire de contrôler politiquement la Syrie, le Liban et l’Iran, véritables nœuds stratégiques de la région. Une telle extension se réaliserait au détriment des dernières positions russes, héroïquement tenues sur l’Echiquier  moyen-oriental et, en particulier, en Syrie, face à la pression médiatique et politico-militaire de la coalition arabo-occidentale – mais, pour combien de temps encore ?

Dans cette optique et de manière officielle, l’administration américaine vient de reconnaître la nécessité de renforcer significativement son soutien au « processus révolutionnaire et démocratique » en œuvre en Syrie. Dans ses grandes lignes, cette action s’inscrit dans le prolongement de sa récente ingérence – via de douteuses ONG – dans le processus électoral russe et, de façon plus générale, dans le cheminement politique incertain de la périphérie post-soviétique en vue d’y imposer la « démocratie ». Naturellement, selon les normes occidentales.

Ce faisant, Washington officialiserait une stratégie qui, en réalité, a commencé bien plus tôt. Tendanciellement, cette stratégie s’appuie sur la démocratie comme nouvelle idéologie implicite et globalisante, vecteur de sa domination politique dans le monde. Au regard d’une lecture plus structurelle de la crise syrienne, médiatisée par les intérêts des puissances majeures, cette attitude américaine n’est pas une surprise et, au contraire, semble cohérente avec une ligne de long terme axée sur la défense de son leadership régional – contre les intérêts russes.

L’hyper-puissance américaine avance ses pions, inéluctablement.

L’Arabie saoudite, nouveau « pivot géopolitique » de l’hyper-puissance ?

La poursuite du « Printemps islamiste », à dominante sunnite, renforce les positions de l’Arabie saoudite dans la région et donc, de manière indirecte, les prérogatives de l’axe USA-OTAN.

Sur ce point, on remarquera que les monarchies du Golfe, qui sont (très) loin d’être plus démocratiques que la Libye et la Syrie ont été, jusque là, étrangement épargnées par la vague révolutionnaire. Avec une certaine légitimité, on peut donc se demander pourquoi ? Et pourquoi passe-t-on sous silence le sort des 80 000 chrétiens expulsés de leurs foyers par les « révolutionnaires » syriens dans la province d’Homs, en mars 2012 ? Enfin, pourquoi ne parle-t-on pas des persécutions quotidiennes de la population chiite (majoritaire à 70%) au Bahreïn, associée à un verrouillage total de l’opposition (et de l’expression) politique ? Cette répression est « supervisée » par l’armée saoudienne encline, à la moindre occasion, à faire intervenir ses chars – sorte d’application arabe de la doctrine Brejnev de « souveraineté limitée » – et cela, quels qu’en soient les coûts humains. Terrible et révélateur silence médiatique.

La réaction occidentale a été tout autre lorsque la Russie est – justement – intervenue avec ses chars en Géorgie en 2008, pour protéger ses ressortissants et ses soldats d’un massacre annoncé, après l’inquiétante initiative du président Saakachvili. Comment expliquer cette lecture des Droits de l’homme (et des peuples) à géométrie variable ? Et pourquoi les chars russes seraient-ils plus « coupables » que les chars arabes – ou américains, en d’autres circonstances, lors des « croisades » morales punitives ? Pour Moscou, une telle situation confirme le maintien d’un esprit de Guerre froide visant à la marginaliser, de manière définitive, sur la scène internationale. Un « deux poids, deux mesures » politiquement insupportable, et presque blessant.

  La principale conséquence de l’extension de la domination sunnite au Moyen-Orient gagné par la contagion « révolutionnaire » est que, par l’intermédiaire de l’Arabie saoudite, comme levier d’ingérence privilégié, l’administration américaine renforce son  contrôle de la région. Parce que, par définition, il sera dorénavant plus facile pour Washington d’actionner un seul levier pour dicter sa politique régionale et défendre, ainsi, ses intérêts de grande puissance. Dans ce schéma, l’Arabie saoudite devient une pièce maitresse  (« pivot », au sens de Brzezinski) des Etats-Unis sur l’Echiquier arabe permettant, désormais, à l’hyper-puissance d’agir sur les événements et d’orienter le jeu, sans véritable opposition. Une contrepartie possible serait alors, pour Washington, de tenir compte des intérêts politiques de l’Arabie saoudite dans les régions musulmanes de l’ex-espace soviétique, âprement convoitées dans le cadre de son face-à-face avec la Russie. En ce sens, la crise syrienne cache un enjeu politique plus global, fondamentalement géostratégique – et, de manière indiscutable, lié au déroulement de la Guerre tiède.

Cette tendance au renforcement de la gouvernance unipolaire, légitimée par l’éclatante victoire américaine de la Guerre froide, est officiellement et régulièrement dénoncée par Vladimir Poutine, depuis son fameux discours de Munich de 2007 sur la sécurité dans le monde. Les faits, comme les hommes, sont – parfois – têtus.

Paradoxalement, les involutions arabes, sous bienveillance américaine, ne feront qu’accélérer cette tendance (2).

Et, maintenant, que faire ?

 

Jean Géronimo

Grenoble, le 30 août 2012

 

(1) http://fr.rian.ru/discussion/20120227/193517992.html : « La Russie et l’évolution du monde », article de V. Poutine sur la politique étrangère russe, 27/02/2012 – RIA Novosti.

(2) Les crises arabes et leurs implications géopolitiques pour la Russie, sont traitées dans le post-scriptum (50 pages) inséré dans la nouvelle édition de mon livre : « La Pensée stratégique russe Guerre tiède sur l’Échiquier eurasien : les révolutions arabes, et après ? ». Préface de Jacques SAPIR, mars 2012, éd. SIGEST, code ISBN  2917329378 en vente : Amazon, Fnac, Decitre (15 euros).

Note de l'Editeur  : Diffusion autorisée avec texte complet et renvois , mention de l'auteur .

 

The Waning of American Power in the Middle East

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Who Will Tell the President?

The Waning of American Power in the Middle East

by PATRICK COCKBURN
 
 
Are the days of American predominance in the Middle East coming to an end or is US influence simply taking a new shape? How far is Washington, after refusing to try to keep Hosni Mubarak in power in Egypt, facing the same situation as the Soviet Union in 1989, when the police states it had sustained in Eastern Europe were allowed to collapse?

The US is obviously weaker than it was between 1979, when the then Egyptian president, Anwar Sadat, signed the Camp David agreement and allied Egypt with the US, and 2004/05, when it became obvious to the outside world that the Iraq war was a disaster for America. At the time, General William Odom, a former head of the National Security Agency, the biggest US intelligence agency, rightly called it “the greatest strategic disaster in American history”.

Since then, the verdict of the Iraq war has been confirmed in Afghanistan, where another vastly expensive US expeditionary force has failed to crush an insurgency. In the last few weeks alone, Taliban fighters have succeeded in storming Camp Bastion in Helmand province and destroying $200m worth of aircraft. So many American and allied soldiers have now been shot by Afghan soldiers and police that US advisers are under orders to wear full body armour when having tea with their local allies.

The Arab Spring uprisings posed a new threat to the US, but also opened up new options. Support for Mubarak was decisively withdrawn at an early stage, to the dismay of Saudi Arabia and Israel. But the Muslim Brotherhood had long been considering how it could reach an accommodation with the US that would safeguard it against military coups, and enable it to chop back the power of the Egyptian security forces. This was very much the successful strategy of the Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdogan and his Justice and Development (AKP) party, explaining why it was prepared to join the US in invading Iraq in 2003 and why it has become the chief instrument of American policy towards Syria in the past year.

This alliance with Islamic but democratic and pro-capitalist parties in Egypt and Turkey is obviously in the interests of the US and the Atlantic powers. But their support for democratic change in North Africa and West Asia is determined by self-interest. It does not, for instance, extend to Bahrain where the Sunni al-Khalifa monarchy has been busily locking up its Shia opponents and retreating from promises of meaningful reform. But new allies must at some point mean fresh policies. In sharp contrast to the Mubarak regime, a new government in Egypt is unlikely to support covertly Israeli military action such as the bombardment of Lebanon in 2006 and of Gaza in 2008.

A problem for the White House is that American voters have not taken on board the extent to which US influence has been reduced. For all the rhetoric about the Iraq war being a strategic disaster, the American political and military elite has also failed to appreciate the extent and consequences of failure. It is extraordinary to discover, according to recent revelations, that as late as 2010 Vice-President Joe Biden was under the impression that he could blithely decide who would be president of Iraq. Biden’s grip on Iraqi geography appears to be as shaky as his understanding of its politics. On one occasion in Baghdad, he lauded all the good things the US had done for Baku, the capital of Azerbaijan, having apparently mistaken it for Basra in southern Iraq.

The killing of the US ambassador to Libya, Christopher Stevens, and the burning of the US Consulate in Benghazi could have been a worse political disaster for President Barack Obama than it turned out to be. It highlighted that the rebels who overthrew Muammar Gaddafi were not quite as they had been presented by the US government and media during the war past year. The US State Department appears to have had an unhealthy belief in its own propaganda, not seeing that its consulate in Benghazi was in one of the most dangerous places in the world. The assault did not come out of a blue sky. Fighters had shot at the convoy of the British ambassador, Sir Dominic Asquith, in Benghazi a few weeks earlier. In July last year, the rebels’ own commander, Abdel Fatah Younis, was abducted and murdered by men nominally under his command in revenge for repressive actions he had carried out before he defected from Gaddafi’s forces.

Diplomats and soldiers are often curiously blind to dangers facing them. It may be that both live in very inward-looking communities and somehow cannot internalise how somebody outside may think and act. I remember in 1983 in Lebanon talking to the highly intelligent US marine commander whose soldiers were based near Beirut airport. In theoretical terms, he could see very clearly that American forces had some very dangerous enemies and were vulnerable to attack, but he unaccountably failed to take effective measures that might have stopped a truck packed with explosives killing 241 marines when their base was destroyed. Likewise, the Green Zone in Baghdad from 2003 on had elaborate fortifications, but its outer defences were manned at one moment by former Peruvian policemen from Lima and, at another, by ex-soldiers from Uganda hired on the cheap by a security company.

A more effective political opponent than Mitt Romney could surely have inflicted damage on Obama over the Benghazi debacle. A measure of Romney’s ineptitude is that he failed to do so and, instead of scoring points, he came across as opportunistic and ignorant. After all, Obama has been conducting a policy of retreat in Iraq, Afghanistan and Egypt without quite coming clean about it. Romney’s denunciation of Obama for “apologising” for America was shallow demagoguery, though rhetoric on the American right should not be dismissed too casually. George W Bush’s supporters used to spout similar nonsense, but only after 9/11 did it become appallingly clear that they believed a lot of what they were saying.

Supposing Obama is re-elected in November, will the US stance change at all? The endlessly repeated Israeli threats to launch air strikes on Iran have always struck me as being most likely highly successful bluff, since threats alone have served Israeli purposes so well, isolating Iran economically and diverting attention from the Palestinians.

More immediately, will the US move after the election, possibly acting through Turkey, to take military action to displace Bashar al-Assad in Syria? There is something deceptive about David Cameron implying that Russia and China are responsible for the slaughter of Syrian children.

A central problem in getting rid of President Assad and the Baathist regime is that the war against him is not just for and against autocracy. If this were the only issue, how come that the Sunni absolute monarchies of the Arabian peninsula are Assad’s fiercest enemies? The struggle is also between Shia and Sunni and between Iran and its enemies, guaranteeing that Assad has support in Tehran, Baghdad and Beirut. The quickest way to end the war is to reassure Assad’s allies at home and abroad that they are not next in line for elimination.

PATRICK COCKBURN is the author of “Muqtada: Muqtada Al-Sadr, the Shia Revival, and the Struggle for Iraq

samedi, 13 octobre 2012

Iran, Syria and the Balance of Power in the Middle East

The "Resistance Bloc" is Fighting for Its Life

Iran, Syria and the Balance of Power in the Middle East

by PATRICK COCKBURN
 
 
Turkish artillery is firing across the border into Syria. Explosions have torn apart buildings in Aleppo, Syria’s largest city, making their floors collapse on top of each other so they look like giant concrete sandwiches. The country resembles Lebanon during its civil war, the victim of unbearable and ever-escalating violence but with no clear victor likely to emerge.

In Iran, Syria’s most important ally in the region, sanctions on oil exports and central bank transactions are paralysing the economy. The bazaar in Tehran closed after violent protests at a 40 per cent fall in the value of the currency, the rial, over the past week. Demonstrators gathered outside the central bank after finding they could no longer get dollars from their accounts. Popular anger is at its highest level since the alleged fixing of Iran’s presidential election of 2009.

Will these events lead to a change in the balance of power at the heart of the region? Iran and Syria were the leaders for the past 10 years of the so-called “resistance bloc”, the grouping that supported the Palestinians and opposed the US-led combination that brought together Arab dictatorships and Israel in a tacit alliance. This anti-American bulwark was at the height of its influence between 2006 and 2010 after the failed US invasion of Iraq and Israel’s bombardment of Lebanon and Gaza.

At first, the Arab Spring seemed to favour the “resistance bloc”. Without Syria and Iran having to lift a finger, President Hosni Mubarak and President Zine el-Abidine Ben Ali were driven from power in Egypt and Tunisia. And Bashar al-Assad seemed confident, in the first months of 2011, that his opposition to the US, Arab autocracies and Israel would protect him against the revolutionary wave.

Eighteen months later, it is the “resistance bloc” that is fighting for its life. Turkey is becoming ever more menacing to Syria and impatient of American restraint. After the US presidential election, Washington could well decide that it is in its interests to go along with Turkish urgings and give more military support to the Syrian opposition. The US might calculate that a prolonged and indecisive civil war in Syria, during which central government authority collapses, gives too many chances to al-Qa’ida or even Iran. It has had a recent example of how a political vacuum can produce nasty surprises when the US ambassador to Libya, Christopher Stevens, was killed in Benghazi last month.

An ideal outcome from the American point of view is to seek to organise a military coup against the Syrian government in Damascus. Zilmay Khalilzad, a former US ambassador to Iraq and Afghanistan, wrote recently in Foreign Policy magazine that the US should take steps “empowering the moderates in the opposition, shifting the balance of power through arms and other lethal assistance, encouraging a coup leading to a power-sharing arrangement, and accommodating Russia in exchange for its co-operation”.

By becoming the opposition’s main weapons’ suppliers, the US could gain influence over the rebel leadership, encourage moderation and a willingness to share power. Mr Khalilzad envisages that these moves will prepare the ground for a peace conference similar to that held at Taif in Saudi Arabia in 1989 that ended Lebanon’s 15-year civil war. It is also what the US would have liked to have happened in Iraq after 1991.

More direct military involvement in Syria could be dangerous for the US in that it could be sucked into the conflict, but outsourcing support for the rebels to Saudi Arabia and the Sunni monarchies of the Gulf may be even riskier. Arms and money dispensed by them are most likely to flow to extreme Sunni groups in Syria, as happened when Pakistani military intelligence was the conduit for US military aid to the Afghan Mujahideen in the 1980s.

Instead of a fight to the finish – and that finish would probably be a long way off – a peace conference with all the players may be the only way to bring an end to the Syrian war. But it is also probably a long way off, because hatred and fear is too deep and neither side is convinced it cannot win. The Kofi Annan plan got nowhere earlier this year because the government and rebels would only implement those parts of it that favoured their own side.

How does Iran view its endangered regional position in the Middle East? Iran’s policy is usually a mixture of practical caution and verbal crudity – the latter often represented to the outside world by President Mahmoud Ahmadinejad. But in its struggles with the Americans in Iraq after 2003, Iran was realistic and seldom overplayed its hand. It may be under pressure from sanctions now, but its situation is nothing like as serious as it was during the Iran-Iraq war of 1980 to 1988. More recently, Iranians joked that only divine intervention could explain why the US had disposed of its two main enemies, the Taliban and Saddam, in wars that did more good to Iran than the US.

But the success of sanctions on oil exports and Iranian central bank operations seems to have caught Tehran by surprise. Oil revenues have fallen and the cost of food, rent and transport is up. In recent years, Iranians have become big foreign travellers, but last week were stopped withdrawing rials from their dollar accounts. No wonder they’re angry.

But enemies of the Iranian regime should not get up their hopes too early. An Iranian journalist in Tehran sympathetic to the opposition said to me last year that “the problem is that the picture of what is happening in Iran these days comes largely from exiled Iranians and is often a product of wishful thinking”. The Iranian regime is far more strongly rooted than the Arab regimes overthrown or battling for survival. The Iranian-led bloc in the region may be weaker, but it has not disintegrated.

PATRICK COCKBURN is the author of “Muqtada: Muqtada Al-Sadr, the Shia Revival, and the Struggle for Iraq

Avec Hollande, la France sera foutue un peu plus vite

“Avec Hollande, la France sera foutue un peu plus vite”

Oskar Freysinger

Le Rouge , le Vert et le Noir : Serguei Oudaltsov chez les séparatistes islamistes Tatars !

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Le Rouge , le Vert et le Noir : Serguei Oudaltsov chez les séparatistes islamistes Tatars !

http://zebrastationpolaire.over-blog.com/

On connaissait déja  les liens troubles de l'extrême-gauche française avec le fondamentalisme islamique [ lien ] .

Il en est de même en Russie .

La nouvelle date du 12 aout 2012 et elle vient de m'être communiquée  par un correspondant Russe s'intéressant aux problèmatiques ethno-séparatistes .

Le 12 aout 2012 , soit quelques jours après l'attentat contre les chefs religieux musulmans du Tatarstan [ lien vers article ] , le chef du " Front de Gauche " Russe Serguei Oudaltsov s'est rendu à Kazan [ capitale du Tatarstan ] pour y rencontrer les " jeunes " séparatistes islamistes tatars du mouvement " Azatlyk " - indépendance - dont leur chef Naïl  Nabiullin  .[ lien ]

A cette occasion le frondegôchiste  russe a appellé les séparatistes islamistes tatars a faire " front commun " et à mener des actions communes dans les rues et dans les usines : " Il est temps de réunir toutes les forces qui peuvent contribuer à l'affaiblissement du régime de Poutine " .

Selon certaines sources , le leader frondegôchard aurait aussi rencontré des membres de l'organisation terroriste Hizb ut-Tahrir contre laquelle il " n' a pas de préjugés " !

Notons que Naïl Nabulin considére lui qu'il n' a " rien à dire aux fondamentalistes d' Hizb ut-Tahrir "! ...

Le leader du frondegôche  Russe , le rouge Oudaltsov , s'est même proposé de jouer les " casques bleus " entre les islamistes  " verts " tatars et les nationalistes " noirs " Russes pour qu'ils puissent défiler côte à côte lors des " marche des millions "  Car ce n'est pas gagné ! Alors qu'il estimait pouvoir réunir 10 000 à 15 000 manifestants à Kazan pour la " marche des millions " , celle-ci n'a réunie que 50 à 100 personnes le 15 septembre dernier  : Islamistes , séparatistes , frondegôchistes , libéraux , Pussyriotistes ....confondus   ! [ lien ]   et [ lien ]  

On savait déja que Serguei Oudaltsov ne dédaignait pas la compagnie d'un Alexandre Belov-Potkine du DPNI -  ex Mouvement contre l'Immigration Illégale - et des nationalistes Oukraïniens [ lien ] .

On s'étonne de pouvoir encore s'étonner d'apprendre qu'il fréquente des terroristes islamistes et des terroristes séparatistes ! 

La presse et la blogosphère Russe se sont  amusés  de cette union de la carpe et du lapin en parlant de " califat rouge " ou " wahhabisme gauchiste  "!

Russland zwischen Souveränität und Abhängigkeit

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Russland zwischen Souveränität und Abhängigkeit

Fjodor Lukjanow für RIA Novosti

Ex:

 

http://de.rian.ru/opinion/20121005/264601140.html/

 
In dieser Zeit haben Russland und der Rest der Welt einen tiefgreifenden Wandel durchlebt.

Diese Wandlungen lassen sich schwer zusammenfassen, aber eines ist offensichtlich: Seit dem Ende des 20. Jahrhunderts verschwimmen die Grenzen zwischen den Staaten.

Den Regierungen fällt es zunehmend schwerer, die Prozesse um den Zustand ihres Landes unmittelbar zu kontrollieren. Russland ist da keine Ausnahme. In Russland ist dieser Trend sogar besonders deutlich zu sehen.

Russland und der Rest der Welt

Die stetig zunehmende Abhängigkeit von äußeren Faktoren kam nicht überraschend. Das Auseinanderfallen der Sowjetunion begann bereits in den 1960er-Jahren. Damals machte sich das Land wegen der Erschließung neuer Gas- und Ölvorkommen in Sibirien und deren Exports nach Westeuropa von der Konjunktur des internationalen Rohstoffmarktes abhängig. Der Öl- und Gasexport sowie die Einnahmen wuchsen kontinuierlich, aber auch die Situation auf dem Weltmarkt wirkte sich auf die Sowjetunion aus.

Bis in die 1980er-Jahre profitierte das Land vom permanenten Anstieg der Rohstoffpreise. Dann aber begann die Rezession, die für die UdSSR fast zum Verhängnis wurde.

Andererseits ging der Kreml, der seinen Einfluss in Europa stärken wollte, ein politisches Spiel im Rahmen des Helsinki-Prozesses ein. Am Ende erreichte Moskau sein Ziel: Die bestehenden Grenzen wurden anerkannt. Es musste sich jedoch dem kostspieligen Entwicklungsprogramm für die Dritte Welt anschließen, was später eine wichtige Rolle für die Wandlungen spielen sollte, die zum Zerfall der Sowjetunion geführt haben.

Im Grunde hatte die sowjetische Führung selbst die Voraussetzungen für diese Reformen geschaffen: „Frische Luft“ kam endlich durch den Eisernen Vorhang.

Mit den Folgen der Abhängigkeit vom Rohstoffexport und des „Imports“ der Sehnsucht nach Freiheit musste sich Michail Gorbatschow auseinandersetzen. Das Ergebnis ist allen bekannt. Der Einfluss des Westens hat die Erosion der Sowjetunion beschleunigt, aber nicht verursacht. Die Sowjetunion wurde das Opfer der eigenen Unfähigkeit, die Situation in den Griff zu bekommen.

Boris Jelzin kam an die Macht, als Russland sich bereits geöffnet und als Teil der Welt etabliert hatte. Dies geschah jedoch, weil Chaos nach dem Zerfall der Sowjetunion herrschte, und der äußere Einfluss sich in dieser Situation als gegenläufig und widerspruchsvoll erwies. 

Aber selbst damals, als der russische Staat den Anschein erweckte, nahezu handlungsunfähig zu sein, behielt er die Kontrolle über seine wichtigsten Funktionen und Prozesse innerhalb des Landes.

Vernetzte Welt

Um die Jahrhundertwende wurden die Staatsgrenzen noch durchlässiger. In seiner ersten Amtszeit als Präsident ging es Putin vor allem darum, Russland aus der Misere zu holen, während die Situation in der Welt stabil zu sein schien. Jahre später sollte sich jedoch alles ändern. 

Russland erstarkte, wenngleich die Methoden nicht unumstritten waren. In der Welt begannen dagegen destruktive Prozesse, die sich aber auch auf die Lage in Russland auswirkten.

Die Globalisierung, die ursprünglich in der Wirtschaft begann, weitete sich allmählich auf andere Gebiete aus. Einzelne Staaten verloren die Möglichkeit, sich gegen äußere Einflüsse abzusichern.

Innere Faktoren der Instabilität verschmelzen sofort mit den äußeren, mit der Reaktion der Großmächte bzw. mit deren Interessen, mit der Einflusskraft der ideologischen Dogmen usw.

Verantwortungsvolle Staatsoberhäupter müssen angesichts der weltweiten Turbulenzen einen Mittelweg zwischen dem eigenen Konservatismus und der gesellschaftspolitischen Entwicklung im eigenen Land finden. Übertreibungen könnten dazu führen, dass sie die Kontrolle verlieren.

Die Politiker blicken in eine ungewisse Zukunft und müssen deshalb in der Lage sein, wenigstens kurzfristige Entwicklungen zu erkennen.

Der hippokratische Grundsatz „Primum non nocere“ scheint der einzig vernünftige Weg zu sein. Jegliche Aktivitäten, harte Maßnahmen könnten die Welt ins Wanken bringen. Die Politiker müssen heute vor allem in der Lage sein, schnell auf  Ereignisse zu reagieren.

Selbstzerstörerende Welt

Putin ist in seiner dritten Präsidentenamtszeit ein erfahrener Politiker, der die Perspektiven der Welt eher skeptisch sieht.

Früher hatte Putin die Unfähigkeit bzw. Weigerung des Westens kritisiert, Russland als gleichberechtigten Partner zu akzeptieren. Zudem warf er dem Westen vor, Russlands Interessen verletzen zu wollen.

Mittlerweile rätselt er darüber, warum der Westen sich selbst zerstört und die ohnehin ernsthaften Probleme noch mehr zuspitzt. 

Die Ereignisse in der Welt, der Mangel an Vernunft lassen ihn offenbar an der Zweckmäßigkeit und Möglichkeit der eigenen Schritte gegenüber dem Westen zweifeln. Sein Credo ist: Auf innere oder äußere Impulse reagieren!

Wenn man genau weiß, wie eine Herausforderung aussieht und woher sie kommt, sind Antworten leichter zu finden. Wichtig sind nicht konkrete Verhaltensstrategien, sondern das eigene Potenzial und die Anzahl der Instrumente, die zum richtigen Zeitpunkt angewendet werden müssen.

Souveränität über alles

Ein wichtiges Thema für Putin ist die Unantastbarkeit der Souveränität Russlands. Dieses Denken kennzeichnet seine Vorgehensweise. Er ist überzeugt, dass Souveränität die letzte Stütze eines mehr oder weniger soliden Systems ist. Ohne Souveränität geht der letzte Faktor verloren, der das wachsende Chaos strukturieren kann.

Das seit dem 18. Jahrhundert existierende Westfälische Staatensystem bestimmte die Kooperationsprinzipien, die manches Mal hart, dafür aber klar und verständlich waren. Dieses Modell stütze sich auf souveräne Staaten, die als Struktureinheiten dienten. Wenn diese Elemente plötzlich verschwinden, stellt sich die Frage, worauf sich diese Konstruktion überhaupt stützen könnte. Denn eine konzeptuelle Alternative für Souveränität gibt es nicht.

In letzter Zeit redet Putin gerne von der „Soft Power“ – der russischen und anti-russischen.

Die jüngsten umstrittenen russischen Gesetzesänderungen sind  nachvollziehbar: Russland muss sich gegen den äußeren Einfluss zur Wehr setzen. Putin sieht sich offenbar von den traurigen Erfahrungen der Sowjetunion gewarnt: Damals konnte der Staat den attraktiven Ideen und Argumenten von außerhalb nicht widerstehen und fiel letztendlich auseinander.

Russlands Abhängigkeit von der internationalen Marktkonjunktur ist nach wie vor ein Problem. Ideologische und intellektuelle Einflüsse von außerhalb abzuwehren ist die eine Sache. Eine andere Sache ist aber, dass Putin jetzt eine eigene Idee vorschlagen muss.

Dazu ist Russland jedoch noch nicht bereit. Es entsteht aber der Eindruck, dass ein solcher Versuch in absehbarer Zeit unternommen wird. Wie dies in der unberechenbaren Welt funktionieren wird, steht aber in den Sternen.


Zum Verfasser: Fjodor Lukjanow ist der Chefredakteur der Zeitschrift "Russia in Global Affairs"

Die Meinung des Verfassers muss nicht mit der von RIA Novosti übereinstimmen.

 
 
 

vendredi, 12 octobre 2012

Ukraine : champ de bataille du Soft Power

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Ukraine : champ de bataille du Soft Power

par Jérôme COUFFY
 

L’Ukraine, ne nous est connue que pour ses bagarres au Parlement. En réalité, elles ne sont que l’expression d’une fragilité historique méconnue, pourtant toujours très actuelle. Comme le rapporte François de JABRUN dans son article « Les incertitudes de l’identité ukrainienne », l’Ukraine n’est devenue une réalité politique que très tardivement, lors de son indépendance en 1992, si l’on excepte une longue période de vassalisation sous le régime soviétique du XXème siècle.

Le contexte

L’Ukraine est donc un Etat Nation en devenir où vivent près de 50 millions d’ukrainiens. Mais à y regarder de près, c’est une mosaïque de plus de 20  groupes ethniques dominée par les Ukrainophones à l’ouest et les russophones à l’est. Sur ce florilège d’identités potentielles, la langue, berceau de la culture et source d’échanges, y est érigée en appartenance et en barrières. Au centre de ces difficultés, l’identité ukrainienne peine à s’affirmer. Or, on le sait, une faiblesse dans une bataille est une cible. Certains l’ont bien compris car, si l’Ukraine est isolée dans ses réformes politiques, son économie est prometteuse pour beaucoup. En effet, avec près de 5% de croissance en 2011, l’Ukraine vise une indépendance économique et est, de fait, en recherche de coopérations et de financements tout azimut. Tel est le terreau du champ où des Etats en concurrence se livrent bataille avec pour arme de prédilection l’influence.

Le 23 avril 2010, le ministre ukrainien de l’éducation et des sciences,  Dmytro Tabachnyk, signa un décret qui autorisa toutes les universités, d’une part, à accepter des étudiants étrangers et, d’autre part, à dispenser des enseignements en langue étrangère. Cette ouverture, décidée en contrepied du précédent gouvernement, sonna comme un coup de canon en race campagne pour les Etats présents.

Intervention sur la langue et la culture

En matière de soft power, les centres culturels restent classiquement le mode d’intervention privilégié d’un Etat. Mais en Ukraine, pour cette course, tout le monde n’est pas sur la même ligne de départ. En effet, pour bon nombre d’Etats mitoyens de l’Ukraine, cette mosaïque d’identités motive la présence de centres culturels. Ces centres répondent avant tout à une stratégie plus ou moins instinctive qui vise à maintenir un fil d’Ariane historique avec les représentants d’un même peuple au sein de l’Ukraine. Lorsqu’elle est réfléchie, comme bien souvent, cette stratégie permet de développer naturellement un corpus d’ambassadeurs légitimes aux yeux des ukrainiens.

Ainsi, la Pologne, qui reste un cas particulier car l’Ukraine a longtemps fait partie de son territoire, assure ce lien pour près de 150 000 polonais et a ouvert un nouveau centre culturel à Kirovograd le 5 mai 2010. Courant 2011, le consulat polonais entamera également des discussions avec la ville de Lviv pour y créer un nouveau centre. Fin 2010, l’Azerbaïdjan programme l’ouverture d’un centre littéraire à Donetsk, région où résident 20 000 natifs d’Azerbaïdjan, à côté du centre européen d’intégration. Pour la minorité slovaque qui ne représente que 8 500 personnes, une école en langue ukrainienne et slovaque ouvre le 1er septembre 2011 à Uzhgorod où il existe déjà un centre culturel slovaque.

Concernant la Russie, bien que les relations avec l’Ukraine soient parfois houleuses, on ne peut parler de cet Etat sans prendre conscience d’un avantage russe historique. La Russie préserve cet avantage à moyen et surtout long terme dans les actions qu’elle mène sur le champ de bataille. A titre d’exemple, le maillage du territoire en centres culturels n’y fait pas exception. Début 2011, pas moins de 3 nouveaux centres russes pour la science et la culture sont programmés sur les villes d’Odessa, Dniepropetrovsk et Lviv. L’étape la plus importante reste toutefois la ratification d’une convention bipartite le 28 mars 2012. Outre l’ouverture d’autres « succursales »dans les deux pays, celle-ci prévoit, l’intensification des coopérations régionales et internationales dans les domaines humanitaire, scientifique et technique ou culturel, le développement de jumelages et l’organisation de réseaux. Enfin, la convention emporte exemption des droits de douane sur tous biens nécessaires au fonctionnement des centres.

Mélange des genres entre culture et enseignement supérieur, certains pays pensent démultiplier leur influence en installant leur centre au sein même d’universités et susciter ainsi des échanges professoraux et estudiantins. Sur cet axe, la Turquie ouvre en 2011deux centres de la langue et de la culture turque, l’un dans le bâtiment de l’université Borys Grinchenko à Kiev, l’autre dans l’université Ouchinsky à Odessa. Pourtant dotée d’une diaspora certes réduite mais ancienne, le centre culturel israélien suit cette voie et ouvre également un département à l’université de Kherson.

Pour les autres Etats sans minorité historique, l’installation d’un centre culturel est le premier pas vers une coopération moins institutionnelle fondée sur des échanges entre les peuples eux-mêmes. Si la France se range dans ce deuxième groupe, son rayonnement semble apprécié puisqu’elle élargit son réseau en ouvrant le 11 avril 2011 une 10ème alliance française à Donetsk, Oblast qui a vu naitre l’actuel Président Viktor Fedorovytch Ianoukovytch. L’Arabie-Saoudite, quant à elle, cible les 436 000 musulmans d’Ukraine et utilise le centre islamique de Kiev comme porte-voix de son influence. Enfin, le Tadjikistan projette d’ouvrir un centre culturel pour 2012.

Le champ des initiatives en matière culturelle ne se limite pourtant pas aux activités de ces centres. Il peut être occupé de diverses manières pour qu’un pays soit visible. La Russie a, par exemple, choisi d’investir la 6ème édition du festival international du livre à Kiev le 29 juillet 2010 en occupant, sous la qualité d’invité d’honneur, la moitié du salon, pas moins. Autre initiative russe en 2011, c’est sur le sol de Moscou que fut organisé en avril le 1er forum ukrainien de la jeunesse. Parallèlement, le centre culturel français, l’institut Goethe et la chaine européenne Arte ont quant à eux choisi de coopérer avec la télévision nationale pour programmer un « weekend avec Arte » portant notamment sur un concours de courts métrages.

Intervention dans l’enseignement

Indirectement certes, mais plus visiblement porté sur un retour de dividendes, l’enseignement est le second grand domaine d’influence des Etats … le plus âprement disputé. Ceux-ci interviennent par ordre d’intérêt décroissant, dans l’enseignement supérieur par le bais de coopérations universitaires souvent opérées suivant des pratiques de lobbying, puis, plus rarement, dans l’enseignement secondaire.

Pour les Etats employant ce mode d’intervention, on notera que les universités de Kharkiv, Donetsk et Dniepropetrovsk ont par exemple été sélectionnées en 2010 pour recevoir une délégation de 17 universités polonaises. Celles-ci ont présenté leurs programmes, dispensés en polonais et en anglais, leurs conditions d’accès et les opportunités de logement, de bourses et d’emploi. 3000 ukrainiens étudient d’ailleurs déjà en Pologne, représentant ainsi le groupe d’étudiants étrangers le plus important. Très active en ce domaine, la Pologne a discuté le 14 juillet 2010 un accord bilatéral ayant pour objet la création de l’Université d’Europe de l’Est, institut international d’enseignement supérieur commun avec l’Ukraine. Le même mois, la Pologne a également soutenu, avec l’Allemagne et le Canada, l’ouverture de l'École internationale d'été de langue ukrainienne à l'université nationale de Lviv. Enfin, le 15 avril 2011, trois des universités de Kharkiv, dont l’Université Polytechnique et l’Université Karazine créée il y a 206 ans, ont signé un accord de coopération avec l'Université Technique de Lodz (Pologne). Sur le front de l’est, l’Allemagne a, quant à elle, ouvert le 1er septembre 2010 une école dans le centre-ville de Kiev dont l’enseignement est assuré par des pédagogues ukrainiens et allemands.

Même des pays éloignés posent leurs pions sur l’échiquier. Ainsi, le royaume de Jordanie a signé un protocole d’accord sur l’élaboration de programmes et de projets éducatifs avec l’Ukraine le 21 octobre 2010.Le 26 octobre 2011, le Vietnam a signé un accord portant sur l’accueil de ses étudiants et le 22 novembre de la même année, le Président Viktor Yanukovych rapporta la signature imminente d’un accord bilatéral de reconnaissance des diplômes entre la Turquie et l’Ukraine.

Concernant les Etats-Unis, leurs axes d’intervention sont très ciblés. Ils portent à la fois sur les méthodes d’apprentissage en anglais et sur l’utilisation des nouvelles technologies. Ainsi, le 20 avril 2010, à la veille du décret de Dmytro Tabachnyk, des méthodes d’apprentissage en anglais ont été présentées par le TESOL – Ukraine à l’occasion d’une conférence rassemblant des enseignants ukrainiens et des scientifiques représentant 76 institutions d’enseignement supérieur dont notamment des spécialistes issus des Etats-Unis. Puis, le 22 juin, le projet Bibliomist fut déployé en partenariat avec l’IREX (International Research and Exchange Council), l’USAID et le ministère ukrainien de la culture et du tourisme. Financé par un don de la fondation Bill Gates à hauteur de 25 M. $ et recevant la mise à disposition gratuite par Microsoft de logiciels pour 4,4 M. $, le projet vise à équiper les bibliothèques universitaires et leur donner accès aux nouvelles technologies de l’information. Le 20 janvier 2011, le centre d’innovation Microsoft a créé un site web permettant de consulter les archives numériques de livres anciens imprimés entre le XVIème et le XVIIIème siècle tirés de la bibliothèque de l’université nationale Taras Shevchenko à Kiev. Enfin, le 14 février : un centre de ressource à l’université de Rivne, ayant pour objectif d’enseigner les technologies modernes de traduction de l’anglais, fut ouvert avec l’appui du département de presse, éducation et culture de l’ambassade des USA. Il sera utile de rappeler que le gouvernement a lancé le 6 mai 2011 un plan de réforme sur 4 ans de 10,5 milliards de Hryvna (UAH) portant notamment sur l’enseignement des langues et l’apprentissage de l’informatique. Mais le même mois, le Président Yanukovych, se ravisant peut-être, a également approuvé un amendement du parlement interdisant la privatisation de petites entreprises d’Etat et notamment les librairies, bibliothèques et maisons d’édition.

Concernant l’Union, sous la présidence de l’Ukraine au Conseil de l’Europe, les ministres européens de l'éducation ont signé le « Protocole de Kiev » fixant les priorités et les objectifs clés de la réforme de l'enseignement scolaire en Europe pour les 10-15 prochaines années.
Pour la Russie, Etat le plus avancé sur ces questions, 6 établissements d’enseignement supérieur russe ont déjà leurs « succursales » en Ukraine et un groupe de travail chargé de contrôler la qualité des enseignements doit être mis en place à l’initiative d’une commission intergouvernementale russe et ukrainienne sur l’éducation. Une branche de l’université de l’Eglise russe orthodoxe doit d’ailleurs ouvrir en Ukraine. En 2010, la signature d’un accord de reconnaissance mutuelle des diplômes délivrés par une liste d’universités russes et ukrainiennes était également à l’ordre du jour. Cette coopération débouche bien évidemment sur les plus hauts niveaux d’enseignement puisque le 20 octobre 2011 fut ouvert un centre de recherche nano technologique et nanoélectronique russo ukrainien.

Sur le plan de l’enseignement secondaire, la Russie est également présente. A titre d’exemple, un concept de réforme de l'éducation, signé le 7 février 2011 par Dmytro Tabachnyk, assez fraichement accueilli par les professionnels de l’enseignement, a prévu de séparer l’enseignement de la littérature russe de la littérature étrangère, qui représente déjà ¾ des cours ; l’objectif affirmé étant de le dispenser à nouveau en langue originelle dans un 2ème temps. Dans la même veine plus en amont, tous les districts de Kiev doivent prévoir des écoles et des crèches où la langue russe sera parlée. Enfin, Moscou envisage de mettre à disposition des écoles des manuels scolaires en langue russe dans le cadre du programme fédéral de langue russe qui prévoit également des financements à la clef.


L’arrivée d’un outsider


On pourrait penser que l’avantage russe se traduise en victoire. Pourtant, le Président Yanukovych déclara le 31 août 2010 que les relations Chine Ukraine étaient une priorité nationale et que les coopérations à venir pourraient toucher notamment les échanges culturels et l’éducation. Nous tromperions-nous en pensant que l’arrivée de cet outsider, compétiteur de 1er plan, annoncé en présence du Président Hu Jintao à Washington, fut vécue comme une forfaiture par Moscou ? Certes, les yeux du crocodile étaient déjà visibles, la Chine  ayant ouvert trois instituts Confucius : le 1er à Louhansken 2007 puis Kiev et Kharkiv en 2008, mais rien ne laissait présager l’ampleur de l’attaque. Si un dernier institut complétant le dispositif fut ouvert à Nikolaïev  le 15 juin 2011, c’est sur le domaine de l’enseignement que l’activité fut la plus intense. En 2011, un accord de coopération devait être signé entre l'Institut de Pédagogie de Mianyang dans la province du Sichuan et l'Université nationale Taras Shevchenko de Kiev portant sur l’accueil d’étudiants à l'Académie Nationale de Musique de l'Ukraine, l’Université Nationale de la Culture et des Arts et l’Université Nationale Karazine de Kharkiv. En cette année 2011, paru également la 1ère édition d’un almanach d’études et recherches scientifiques ukrainien portant sur les domaines de coopération bilatérale avec la Chine. Enfin, le premier Vice-ministre de l'éducation, Yevhen Sulima, rapporta aux médias, d’une part, que le quota d’échanges interuniversitaires serait augmenté dès 2013 avec pour priorités les domaines des sciences des matériaux, de la mécanique, de la construction navale, de l'aéronautique, de la biotechnologie et l'étude de la langue elle-même et, d’autre part, que l’exécution de thèses de 3ème cycle serait effectuée sous la double direction de professeurs chinois et ukrainiens. Précisions d’importance, en 2012, 60 accords de coopération étaient déjà signés directement entre universités et, sur près de 50 000 étudiants étrangers, le 1er groupe, constitué de 8 500 chinois, étudiait à Kiev, Kharkiv et Odessa. Comparé aux 1000 étudiants ukrainiens qui étudient en Chine, ce groupe représente l’équivalent de la minorité slovaque en Ukraine. L’Ukraine a en outre bien calculé la manne financière que représentent ces étudiants étrangers issus de 134 nationalités : 100 M$ par an en recettes directes à quoi il faut ajouter le logement, la nourriture … soit 75% de plus. Aussi prévoit-il de doubler le nombre de chinois accueillis dans les deux années à venir. Conforté, l’ambassadeur de Chine en Ukraine, Zhang Xiyun, a déclaré le 6 janvier 2012 que son pays était très intéressé par la formation de ses citoyens dans les universités ukrainiennes dont le niveau est reconnu comme étant élevé. Parole traduites en actes puisque l’autorité aérienne chinoise a décidé d’augmenter à 28 vols par semaine les liaisons entre les deux pays.

Beaucoup plus étonnantes sont les interventions de la Chine dans l’enseignement secondaire. En 2012, un nouvel accord de coopération dans le domaine de l’éducation prévoit un développement de celle-ci par des programmes et des manuels sur des sujets d’intérêt commun, des échanges d’élèves visant à approfondir la compréhension mutuelle entre les peuples et l’organisation d’un concours de langue chinoise. Il reste cependant un point de blocage car les écoles sont gérées par les collectivités locales et celles-ci gardent un droit d’autonomie. Les collectivités locales sont d’ailleurs appelées à bénéficier très prochainement d’un grand chantier de réforme et de modernisation de l’Etat que sera la décentralisation comme l’a souligné le Président Yanukovych. Loin s’en faut, 16 000 ordinateurs ont été offerts cet été par la chine aux écoles du secondaire dont 1 300 destinées à celles de Kharkiv. Sans aller jusqu’à les scanner, ne serait-ce que par curiosité, ne faut-il voir dans cette initiative que de la philanthropie ?

Conclusion

A l’aube de son affirmation, l’identité ukrainienne semble trouver une indépendance économique dans une zone géographique dont le barycentre se trouverait entre la Russie et la Chine. Mais cette identité ne s’affirmera pas sans indépendance politique dont le barycentre, lui, se trouve entre l’Europe et la Russie. C’est très précisément ce que pensent 56% des députés de la Rada, tous bords confondus, comme le révèle un sondage de 2011 effectuépar le Centre d'études sociologiques et politiques « Sotsiovymir» et l’institut international pour la démocratie.

Pour l’heure, l’Ukraine joue sur les deux tableaux. En 2011 d’abord, elle a prévu l’ouverture d’un centre culturel à Bakou en Azerbaïdjan où vivent plus de 30 000 ukrainiens. Mais début 2012, elle a également ouvert le « Centre européen pour une Ukraine moderne » à Bruxelles, organisation non-gouvernementale, ayant pour mission d’informer et de prendre des contacts au sein de l’Union pour des futures coopérations notamment sur le plan culturel. Rappelons que l’Ukraine est dans un contexte de profonde réforme de l’éducation et de l’enseignement supérieur. Pour ce dernier secteur, Dmytro Tabachnyk prévoit de diviser par 10 le nombre d’universités et de réduire (économie ou droit) ou d’augmenter (informatique et technologies de l’information) le numerus clausus des domaines d’enseignement qu’ils soient porteurs ou non. Cette initiative lui coutera probablement cher car le Président Yanukovych, fort mécontent, a, entre autre, missionné son fidèle procureur pour enquêter sur lui.

Si l’on considère que le cœur de la Russie est en Europe, alors la construction russo-européenne n’appelle qu’à s’exprimer, à s’organiser et joindre ses forces pour soutenir l’Ukraine à acquérir sa place future sur l’échiquier mondial. Ainsi, sauf à n’intégrer que la moitié de l’Ukraine dans l’Union européenne, la langue sera probablement la première porte des concessions réciproques avec la Russie. Or, l’Union européenne ne pourra exercer une politique communautaire de soft power sur le terrain de l’enseignement et de la culture en Ukraine sans la penser et la coordonner en amont avec ses Etats membres. Rappelons néanmoins que la Chine surveille le développement des relations Union Ukraine, elle qui a multiplié par 35 ses exportations vers ce pays en 10 ans.

Parce qu’il n’est d’Etat Nation sans justice ni droit, il appartient au préalable à l’Ukraine de faire le premier pas en s’engageant de bonne foi dans les réformes institutionnelles que l’Europe ne cesse d’appeler de ses vœux.

Ce champ de bataille de l’influence aura l’avantage de nous rappeler que la langue et la culture ne sont pas des barrières mais des ponts. Mémorisons seulement qu’Odessa, principale ville d’Ukraine et carrefour commercial historique, est devenue le port connu qu’elle est aujourd’hui par l’œuvre d’un Maire passé Gouverneur-général de la Nouvelle-Russie, ayant reçu ses charges du Tsar Alexandre 1er lui-même, Armand-Emmanuel du Plessis, duc de Richelieu et petit-neveu du Cardinal ; et qu’en cette ville, rapporte Alexandre Pouchkine, on y parlait la langue d’une minorité … le français.

Jérôme COUFFY

Fehlschuss - Granate stammt aus NATO-Beständen

Fehlschuss - Granate stammt aus NATO-Beständen und wurde laut Zeitungsbericht von der Türkei an die Rebellen geliefert

 

Redaktion

Bei der Granate, die beim Angriff auf die türkische Stadt Akçakale abgefeuert wurde, handelt es sich um ein Modell, das nur bei der NATO verwendet wird und das über die Türkei in die Hände der syrischen Rebellen gelangte, berichtet die türkische Zeitung Yurt. Die Granate tötete am vergangenen Mittwoch eine erwachsene Frau und vier Kinder der gleichen Familie.

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jeudi, 11 octobre 2012

Aux USA on a déjà prévu un Moyen Orient sans Israël

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Aux USA on a déjà prévu un Moyen Orient sans Israël !!!

par Mireille DELAMARE

Ex: http://www.polemia.com/    

Un article étonnant qui mérite, bien sûr, investigations et vérifications. Prélevé sur le site iranien francophone IRIB, publié en pleine campagne électorale américaine, il prévoit des changements stratégiques et géopolitiques insoupçonnables. « Alors que Paris, Londres, Berlin prennent stupidement leurs désirs pour des réalités et planifient l’après-Assad en Syrie, à Washington on a déjà envisagé l’après-Israël dans un rapport intitulé : " Preparing For A Post Israel Middle East " (se préparer pour un Moyen-Orient post-Israël). » De quoi s’agit-il ?
Géopolitique fiction, canular, argument purement électoral, intox ? Le rapport, sinon sérieux, semble authentique si l’on tient compte des fonctions très officielles de ses auteurs. A les en croire, « la disparition du régime judéo-sioniste est sérieusement envisagée à Washington et pas seulement à Téhéran. »
Polémia

IRIB – Alors que Paris, Londres, Berlin prennent stupidement leurs désirs pour des réalités et planifient l’après-Assad en Syrie, à Washington on a déjà envisagé l’après-Israël dans un rapport intitulé : « Preparing For A Post Israel Middle East » (se préparer pour un Moyen-Orient post-Israël). Cette analyse de 82 pages a été réalisée à la demande de la communauté du renseignement américain regroupant pas moins de 16 agences dont le budget annuel dépasse les 70 milliards de dollars. Preuve donc que la disparition du régime sioniste est sérieusement envisagée à Washington et pas seulement à Téhéran.

Ce document « Preparing For A Post Israel Middle East » conclut que les intérêts nationaux américains et israéliens divergent fondamentalement. Les auteurs de ce rapport affirment qu’Israël est actuellement la plus grande menace pour les intérêts nationaux américains car sa nature et ses actions empêchent des relations normales entre les Etats-Unis et les pays arabes et musulmans et dans une mesure croissante avec la communauté internationale.

Cette étude a [donc] été réalisée à la demande de la communauté du renseignement américain comprenant 16 agences avec un budget annuel de 70 milliards de dollars. Cette communauté du renseignement comprend les départements de la marine, de l’armée de terre, de l’armée de l’air, des corps de Marines, des garde-côtes, le ministère de la défense et agence de renseignement, les départements de l’Energie, de la sécurité intérieure, l’Etat, le Trésor, l’agence de lutte anti-drogue, le FBI, l’agence de sécurité nationale, l’agence de renseignement géo spécial, l’agence de reconnaissance nationale et la CIA.

Parmi les conclusions de ce rapport on trouve :

 

  • Israël, compte tenu de son occupation brutale [et] sa bellicosité, ne peut pas être sauvé, tout comme le régime d’Apartheid de l’Afrique du Sud n’a pu l’être alors même qu’Israël a été le seul pays « occidental » à entretenir des relations diplomatiques jusqu’en 1987 avec l’Afrique du Sud et a été le dernier pays à se joindre à la campagne de boycott avant que le régime ne s’effondre ;
  • la direction israélienne est de plus en plus éloignée des réalités politiques, militaires [et] économiques du Moyen-Orient en accroissant son soutien aux 700.000 colons illégaux vivant en Cisjordanie occupée ;
  • le gouvernement de coalition post-travailliste Likoud est profondément complice et influencé par le pouvoir politique et financier des colons et devra faire face à de plus en plus de soulèvements civils domestiques avec lesquels le gouvernement américain ne doit pas s’associer ou s’impliquer ;
  • le Printemps arabe et le réveil islamique a, dans une large mesure, libéré une grande partie des 1,2 milliard d’Arabes et Musulmans pour lutter contre ce qu’une très grande majorité considère comme une occupation européenne illégale, immorale et insoutenable de la Palestine et de la population indigène  ;
  • le pouvoir arabe et musulman qui s’étend rapidement dans la région comme en témoignent le Printemps arabe, le réveil islamique et la montée en puissance de l’Iran, se fait simultanément – bien que préexistant – avec le déclin de la puissance et de l’influence américaines, et le soutien des Etats-Unis à un Israël belliqueux et oppressif devient impossible à défendre ou  à concrétiser compte tenu des intérêts nationaux américains comprenant la normalisation des relations avec les 57 pays islamiques ;
  • l’énorme ingérence d’Israël dans les affaires intérieures des Etats-Unis par l’espionnage et des transferts illégaux d’armes : cela comprend le soutien à plus de 60 « organisations majeures » et approximativement 7.500 fonctionnaires américains qui obéissent aux diktats d’Israël et cherchent à intimider les médias et les organisations gouvernementales ; cela ne devrait plus être toléré ;
  • le gouvernement américain n’a plus les ressources financières ni le soutien populaire pour continuer à financer Israël. Ce n’est plus envisageable d’ajouter aux plus de 3 mille milliards de dollars d’aide directe ou indirecte d’argent des contribuables versés à Israël depuis 1967, ces derniers s’opposant à ce que l’armée américaine continue de s’impliquer au Moyen-Orient. L’opinion publique américaine ne soutient plus le financement et les guerres étatsuniennes largement perçues comme illégales pour le compte d’Israël. Cette opinion est de plus en plus partagée en Europe, en Asie et au sein de l’opinion publique internationale ;
  • les infrastructures d’occupation ségrégationniste d’Israël sont la preuve d’une discrimination légalisée et de systèmes de justice de plus en plus séparés et inégaux qui ne doivent plus être directement ou indirectement financés par les contribuables américains ou ignorés par les gouvernements des Etat-Unis ;
  • Israël a échoué comme Etat démocratique autoproclamé et le soutien financier et politique américain ne changera pas sa dérive comme Etat paria international ;
  • les colons juifs manifestent de plus en plus un violent racisme rampant en Cisjordanie soutenu par le gouvernement israélien devenu leur protecteur et leur partenaire ;
  • de plus en plus de juifs américains sont contre le sionisme et les pratiques israéliennes, inclus les assassinats et les brutalités à l’encontre des Palestiniens vivant sous occupation, les considérant comme des violations flagrantes du droit américain et international et cela soulève des questions au sein de la communauté juive américaine, eu égard à la responsabilité de protéger (R2P) (1) des civils innocents vivant sous occupation ;
  • l’opposition internationale à un régime de plus en plus d’Apartheid se fait l’écho de la défense des valeurs humanitaires américaines ou des attentes américaines dans le cadre de des relations bilatérales avec les 193 pays membres de l’ONU.

Le rapport se termine en préconisant d’éviter des alliances rapprochées auxquelles s’oppose la majeure partie du monde entier et qui condamnent les citoyens américains à en supporter les conséquences.

A l’évidence Israël va se précipiter sur ce rapport bientôt publié pour faire pression sur les deux candidats à la présidentielle américaine, Obama et Romney, pour voir qui des deux en minimisera le plus les conclusions, s’engageant même à le ranger au placard en promettant d’accroître l’aide financière et militaire à l’entité coloniale judéo-sioniste fossoyeuse de l’Empire américain.

Mireille Delmarre
IRIB (iran French Radio)
3/09/2012

Note de la rédaction : voir http://en.wikipedia.org/wiki/Responsibility_to_protect

Correspondance Polémia – 25/09/2012