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mercredi, 28 août 2013

L’EGITTO AL CENTRO DELLA GRANDE SCACCHIERA

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L’EGITTO AL CENTRO DELLA GRANDE SCACCHIERA

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

L’esito degli scontri che stanno dilaniando l’Egitto costituisce un’incognita destinata a influire in maniera decisiva sia sulle dinamiche prettamente areali sia sulla ridefinizione dei rapporti di forza tra grandi potenze, in una fase di evidente declino della perno unipolare statunitense.

La Fratellanza Musulmana

Nel corso degli ultimi anni si è ritagliata, specialmente in Egitto, un ruolo di primissimo piano la Fratellanza Musulmana, o Ikhwan, movimento islamico fondato nel 1928 da Hassan al-Banna. Colui che sarebbe poi divenuto la guida del nazionalismo arabo, Gamal Abd el-Nasser, strinse un’alleanza tattica con questo movimento allo scopo di rovesciare la monarchia di Re Faruk – ritenuta ormai obsoleta anche dai dominanti britannici. Una volta cacciato il Re e abolita la monarchia, Nasser si dissociò bruscamente dalla Fratellanza Musulmana, la quale si opponeva frontalmente al suo progetto politico, dichiarandola illegale e facendone imprigionare il nuovo ideologo, Sayyid Qutb, il quale scrisse in carcere Pietre Miliari, una summa del suo pensiero destinata a divenire ben presto il testo di riferimento di ogni Fratello Musulmano.

Con la dura repressione ordinata da Nasser, la Fratellanza Musulmana venne drasticamente ridimensionata, finché la sconfitta dell’Egitto nella “Guerra dei Sei Giorni” attrasse sul governo una certa sfiducia, della quale i principali esponenti del movimento approfittarono per attuare una moderata revisione ideologica, finalizzata, attraverso l’abbandono delle derive estremistiche legate alla figura di Qutb (che nel frattempo era stato impiccato), a rendere gli Ikhwan maggiormente compatibili con la struttura statale egiziana edificata da Nasser. Questa “revisione” si rivelò quanto mai necessaria, dal momento che il nuovo presidente Anwar al-Sadat, preso atto della svolta “moderata” e del seguito che tale movimento riscuoteva in seno alla popolazione, decise di aprire alla Fratellanza Musulmana, pur senza riconoscerle piena legittimità, allo scopo di arginare la preoccupante ascesa delle fazioni marxiste che stavano prendendo piede all’interno del Paese. Gli Ikhwan non si erano tuttavia dotati di una solida struttura verticistica, piramidale e monolitica, poiché le idee di Qutb continuavano a trovare sempre nuovi adepti. Non deve pertanto stupire che, nonostante la sua politica di apertura, Sadat sia caduto in un attentato compiuto da un Fratello Musulmano.

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Nonostante ciò, il nuovo presidente egiziano Hosni Mubarak scelse ugualmente di collocarsi nel solco tracciato da Sadat, portando avanti la sua politica di apertura nei confronti della Fratellanza Musulmana, che nel 1984 ottenne la legalizzazione e l’automatico diritto ad entrare in Parlamento. Da allora gli Ikhwan  si sono collocati in una posizione subalterna rispetto al regime militare, limitandosi a mantenere legami piuttosto stretti con i gruppi gihadisti più agguerriti e ad esercitare una certa influenza sia sui ceti abbienti assicurando notevoli privilegi a professionisti di ogni genere (medici, professori, avvocati, ecc.) sia sugli strati sociali più poveri, grazie anche al contributo del telepredicatore Yusuf al-Qaradawi, cittadino qatariota di origine egiziana, che dagli schermi di “al-Jazeera” emana fatawa di dubbia ortodossia.

Il “Grande Oriente”

Fino ai primi mesi del 2011, Mubarak era stato attivamente sostenuto sia da Israele che dagli Stati Uniti, i quali gli riconobbero il merito di essersi collocato nel solco tracciato dal suo predecessore Sadat, artefice della rottura dei rapporti con l’Unione Sovietica precedentemente allacciati da Nasser e della sottoscrizione degli accordi di Camp David, che rappresentarono il culmine della politica di appeasement nei confronti di Tel Aviv. Come riconoscimento del valore attribuito al regime di Mubarak, Washington cominciò ben presto a inviare ben 1,3 miliardi di dollari all’anno di finanziamenti verso l’Egitto, che contribuirono ad arricchire la giunta militare al potere. Tel Aviv si accordò invece con Mubarak affinché assicurasse rifornimenti di gas naturale allo Stato ebraico e assumesse saldamente il controllo della turbolenta regione del Sinai – restituita all’Egitto contestualmente agli accordi di Camp David dal governo israeliano del premier Menachem Begin e del ministro degli esteri Moshe Dayan –, impedendo ai miliziani palestinesi di ricevere armi e rifornimenti transitando liberamente attraverso il confine che separa Israele dall’Egitto.

La stabilità garantita da Mubarak cominciò tuttavia ad essere messa in discussione dalla tracimazione, dalla Tunisia all’Egitto, della cosiddetta “primavera araba”, scoppiata in seguito agli esorbitanti apprezzamenti dei generi alimentari, di cui gran parte dei Paesi del Nord Africa è importatore netto,  provocati dalla speculazione. I media si affrettarono a riferire che le agitazioni che inizialmente infiammarono piazza Tahrir, e che nell’arco di poche settimane si espansero in tutte le principali città egiziane, furono scatenate essenzialmente da giovani animati da delusione e collera nei confronti di un regime che governava autoritariamente il Paese da circa un trentennio durante il quale la corruzione dilagò progressivamente e il potere politico ed economico andò concentrandosi in maniera radicale nelle mani delle più alte gerarchie militari. Queste spiegazioni “minimali” sottolineano motivazioni che hanno certamente esercitato un ruolo non indifferente nell’accendere la miccia della rivolta, ma trascurano (spesso deliberatamente) i decisivi fattori esterni e le intenzioni delle potenze occidentali interessate a frenare la penetrazione economica della Cina in Nord Africa e in Medio Oriente. Come scrive Mahdi Darius Nazemroaya: «Incendiare l’Eurasia con la sovversione sembra essere la risposta di Washington per impedire il proprio declino. Gli Stati Uniti prevedono di accendere un grande incendio dal Marocco e dal Mediterraneo fino ai confini della Cina. Questo processo è stato sostanzialmente avviato dagli Stati Uniti attraverso la destabilizzazione di tre diverse regioni: Asia Centrale, Medio Oriente e Nord Africa» (1).

Così, sotto l’egida di Bush junior, gli Stati Uniti si mossero coerentemente con i principi espressi all’interno del Quadrennial Defense Review Report pubblicato nel settembre 2001, occupando l’Afghanistan allo scopo di assicurarsi il controllo delle rotte energetiche eurasiatiche, rinsaldando l’asse Washington-Tel Aviv in chiave antipalestinese e aggredendo con false prove l’Iraq, in modo di concorrere all’affermazione di Israele al rango di unica potenza egemone della regione e confinare gli arabi di Palestina in appositi bantustan controllati dalle forze israeliane. Successivamente, riversarono benzina sul focolaio libanese promuovendo ed incoraggiando la sommossa anti-siriana scaturita dall’enigmatico super-attentato, datato 14 febbraio 2005 ed istantaneamente attribuito a Damasco per via della vicinanza tra Bashar al-Assad e il presidente libanese Emile Lahoud (fresco beneficiario di un emendamento costituzionale atto a prolungarne il mandato di tre anni), che stroncò la vita del popolarissimo Rafik al-Hariri, dimessosi da poco dall’incarico di primo ministro in segno di protesta contro la radicale svolta filo-siriana imboccata dal proprio paese. La rivolta, prontamente ribattezzata come “Rivoluzione dei Cedri”, spianò la strada a Washington, i cui portavoce – che si guardarono bene dall’esercitare pressioni analoghe su Tel Aviv affinché procedesse al ritiro delle proprie forze militari dal Golan, sotto illegale occupazione israeliana dal 1967 – avvertirono che «Gli Stati Uniti ordinano ai siriani di andarsene dal Libano» (2), costringendo Bashar al-Assad a dichiarare la fine del protettorato siriano sul Libano e l’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese. Queste operazioni sono evidentemente rivolte, come osserva Nazemroaya, a ridisegnare, analogamente a quanto fece l’impero britannico nel 1922, l’intera cartina politica mediorientale nell’ambito del piano del “Grande Medio Oriente”, presentato da George W. Bush in occasione del G8 del giugno 2004. L’intenzione dichiarata di costituire una “area di libero scambio” dal Marocco al Pakistan consiste in realtà nello scardinare, attraverso strumenti politici, economici e militari, gli assetti geopolitici di quest’area per rimpiazzarli con strutture adeguate a tutelare gli interessi statunitensi.

Con l’appoggio alle “primavere arabe” e l’attacco alla Libia, Barack Obama e la sua amministrazione hanno evidentemente recuperato il progetto neocon del “Grande Medio Oriente”, pur ampliandone il raggio stringendo una serie di accordi principalmente militari con Singapore, Thailandia, Filippine ed Australia allo scopo di accerchiare la Cina e porre sotto il controllo statunitense le rotte petrolifere attraverso cui il “Paese di Mezzo” si rifornisce di energia.  «Dalla strategia del “Grande Medio Oriente” (comprendente Nord Africa e Asia centrale), lanciata dal repubblicano Bush – osserva Manlio Dinucci –, il democratico (nonché Premio Nobel per la pace) Obama è passato alla strategia del “Grande Oriente”, che mira all’intera regione Asia/Pacifico in aperta sfida a Cina e Russia» (3).

 

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In Medio Oriente e Nord Africa, Washington ha assegnato alle frange islamiste il compito di sovvertire i regimi sgraditi o di puntellare quelli ritenuti affidabili in cambio di sostanziosissimi finanziamenti. Ciò è accaduto in Libia, Siria, Giordania, Yemen, Palestina, Tunisia. Ed Egitto. Prendendo in esame il caso egiziano, va sottolineato che Mubarak stava intraprendendo iniziative distensive nei confronti dell’Iran ed era tentennante riguardo all’accettare o meno i finanziamenti e le regole del Fondo Monetario Internazionale, di cui si era cominciato a dibattere per via della disastrosa condizione economica in cui stava versando il Paese. Washington aveva allora cominciato a prendere alcune contromisure, individuando proprio nei Fratelli Musulmani guidati dal cittadino egiziano-statunitense Mohamed Morsi gli interlocutori giusti e nella Turchia di Recep Tayyp Erdogan e nel Qatar (che ospita la sede centrale del Central Command e il Combined Air Operations Center degli Stati Uniti) dell’Emiro Hamad bin Khalifa al-Thani i loro sponsor ideali. Venne così attivato un massiccio fiume sotterraneo di denaro che portò nelle casse dell’Ikwan ben 10 miliardi di dollari forniti da Ankara e Doha. Con questi lauti finanziamenti la Fratellanza Musulmana riuscì inizialmente ad acquisire un crescente peso politico all’interno del Paese, e successivamente a “mettere il cappello” sulla rivoluzione, dopo che i militari ebbero deciso di appoggiare i rivoltosi deponendo Hosni Mubarak.

La caduta di Mubarak e l’ascesa degli Ikhwan

Solitamente viene molto enfatizzato il sostegno finanziario, pari a 1,3 miliardi di dollari, che gli Stati Uniti forniscono all’Egitto allo scopo di “dimostrare” le stretta osservanza, da parte dei militari, dal “verbo statunitense”. Raramente viene tuttavia preso in considerazione il fatto che tali finanziamenti non vengono erogati a fondo perduto, ma sono rigidamente subordinati all’acquisto di armamenti prodotti dalle grandi compagnie belliche statunitensi (Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grummann, Raytheon, General Dynamics) e al rispetto degli accordi di Camp David del 1979 da parte delle autorità egiziane. L’importante, in parole povere, è che l’Egitto contribuisca al foraggiamento del complesso militar-industriale statunitense e a garantire la sicurezza di Israele, nonché a osteggiare i Paesi renitenti a sottostare ai dettami di Washington, come l’Iran.

La deposizione di Mubarak ad opera dei militari, datata 11 febbraio 2011, potrebbe quindi essere letta alla luce di questi presupposti, specialmente in virtù del fatto che tale cambio di regime comportò una repentina emersione dei più profondi sentimenti anti-israeliani in seno alla popolazione egiziana. La miccia venne innescata nell’agosto 2011, quando nel corso di un raid effettuato dall’aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza rimasero uccisi (oltre alla consueta componente palestinese) alcuni militari egiziani schierati lungo la frontiera. La giunta militare egiziana protestò sonoramente ma Israele non fornì spiegazioni convincenti per giustificare l’accaduto, cosa che suscitò una feroce contestazione popolare culminata con l’assedio, avvenuto tra l’8 e il 9 settembre successivo, dell’ambasciata israeliana. Alcuni agenti israeliani sfuggirono di poco al linciaggio mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu si affrettò a richiamare in patria il proprio ambasciatore al Cairo. Ciò contribuì a ravvivare la rovente polveriera del Sinai. Con la caduta di Mubarak e l’insediamento di Tantawi, il Sinai ridivenne il centro logistico da cui partono le incursioni da parte di miliziani palestinesi e di altri gruppi contro forze israeliane incaricate di sorvegliare la frontiera. Israele rispose inviando i bombardieri sul Sinai, provocando la morte di altri soldati egiziani. Per tutta risposta, il Feldmaresciallo Tantawi, rivolgendosi alle truppe dislocate nella penisola del Sinai, affermò che: «I nostri confini, soprattutto quelli a nord-est, sono infiammati. Noi non attaccheremo i paesi vicini, ma difenderemo il nostro territorio. Romperemo le gambe a chiunque tenterà di attaccarci o di avvicinarsi ai nostri confini» (4). Come se non bastasse, il regime del Cairo interruppe il flusso di gas diretto allo Stato ebraico, frantumando l’intesa energetica che vigeva tra i due paesi fin dal 2005, quando Mubarak aveva accordato ben 7 miliardi di metri cubi di gas ad Israele per i successivi 20 anni. Questa escalation di tensione portò l’ex capo del Consiglio per la Sicurezza di Israele Uzi Dayan ad affermare che «è giunta l’ora di porre il Sinai sotto il controllo israeliano» (5), mentre il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman, nel corso di una visita a Baku, gettò ulteriore benzina sul fuoco spingendosi a sottolineare il fatto che «L’Egitto rappresenta un pericoloso maggiore dell’Iran rispetto alla sicurezza nazionale israeliana» (6). Le autorità israeliane temono infatti che l’ascesa degli ambigui Fratelli Musulmani e dei salafiti del partito al-Nur (sostenuti dall’Arabia Saudita) possa culminare con la formazione di un governo nominato dal basso tutto incentrato sui movimenti fondamentalisti islamici animati da sentimenti radicalmente antisraeliani. Per “prevenire” questa eventualità, Tel Aviv elaborò e mise in atto un piano che prevede la costruzione di un muro di cemento armato di 240 km che, correndo lungo il confine orientale egiziano, dovrebbe estendersi dal Mar Rosso alla Striscia di Gaza. Tale barriera allungherebbe la “fascia di protezione” innalzata per ben 725 km in corrispondenza dei confini con la Cisgiordania.

La perdita di controllo del Sinai e la tensione con Israele testimoniano l’instabilità che scaturì dal rovesciato il vecchio regime, alimentata dal peculiare ed ambiguo dualismo venutosi rapidamente a creare tra la Fratellanza Musulmana di Mohammed Morsi da un lato e la giunta militare guidata dal Feldmaresciallo Mohammed Tantawi, che aveva agguantato le redini del potere, dall’altro. I Fratelli Musulmani del partito “Libertà e Giustizia” (molto simile al “Partito per la Giustizia e lo Sviluppo” del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan), guidati da Mohamed Morsi, iniziarono a pretendere a gran voce che venissero indette nuove elezioni, certi di poter contare su di un vasto consenso popolare. Le elezioni decretarono la vittoria della Fratellanza Musulmana, che ottenne il 51% dei voti con un magro 50% di affluenza elettorale, ma i temporeggiamenti nel cedere i poteri a Morsi e la freddezza ostentata dai militari dinnanzi al verdetto delle urne irritarono fortemente gli Ikwan, i quali cominciarono, di concerto con altre fazioni, a scendere in piazza per protestare contro l’atteggiamento tenuto dalla giunta militare. La brutale repressione da parte dei militari e della polizia si protrasse per alcune settimane, finché il Feldmaresciallo Tantawi non decise di cedere alle forti pressioni esercitate dagli Stati Uniti – profondamente preoccupati anche dal fatto che Tantawi aveva autorizzato alcune navi da guerra iraniane a raggiungere il Mar Mediterraneo transitando attraverso il Canale di Suez –, accettando di lasciare a Morsi l’ambito incarico di presidente. Morsi, dal canto suo, decretò immediatamente il “pre-pensionamento” del Feldmaresciallo Tantawi, esponendo il proprio esecutivo al rischio di un colpo di Stato militare, e accettò l’invito del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad a partecipare al vertice dei “Paesi Non Allineati” (NAM). Così, nell’estate del 2012, a ben 57 anni dalla Conferenza di Bandung, numerosissimi Stati raggiunsero Teheran per prendere parte all’iniziativa.  Raggruppando 120 membri effettivi e 21 osservatori, il NAM rappresenta una parte preponderante dei paesi e dei cittadini di tutto il mondo. All’incontro parteciparono, in qualità di osservatori, il Commonwealth delle Nazioni, il Fronte di Liberazione Nazionale Socialista Kanak, l’Unione Africana, la Lega Araba, l’Organizzazione di solidarietà dei popoli afro-asiatici, il Movimento di Indipendenza Nazionale Hostosiano, l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, il Centro Sud, il Consiglio Mondiale della Pace e diversi membri delle Nazioni Unite. Stati Uniti ed Israele deprecarono la partecipazione del segretario dell’ONU Ban Ki-Moon, il cui intervento, pur essendo improntato alla prudenza, conteneva comunque una chiara stigmatizzazione dell’oltranzismo guerrafondaio propugnato dai ben noti ambienti israeliani. Washington e Tel Aviv esercitarono forti pressioni su Mohamed Morsi, che in veste di leader della Fratellanza Musulmana e di presidente egiziano decise comunque di recarsi a Teheran dopo aver adottato una politica solo apparentemente conciliatoria con Mahmoud Ahmadinejad. L’ambiguità di Morsi è testimoniata dalla discordanza che vige tra l’appeasement nei confronti dell’Iran e il fatto che la sua ascesa al potere sia strettamente connessa ai miliardi di dollari di finanziamento erogati dall’Emiro del Qatar, nonché dalla feroce ostilità tanto di al-Thani quanto del suo “protetto” Morsi nei confronti della Siria di Bashar al-Assad, alleata di ferro della Repubblica Islamica dell’Iran. Va inoltre sottolineato che sotto la guida di Morsi, l’Egitto ha mantenuto i sigilli sulla frontiera con Gaza, sbarrando la strada ai palestinesi in perfetto accordo con Israele. Non era necessario il chiaro monito lanciato alle forze armate egiziane da parte da Washington, i cui rappresentanti avevano ribadito che il sostegno statunitense è subordinato al mantenimento del trattato di Camp David del 1979, dal momento che Morsi non avrebbe mai violato gli accordi siglati dai suoi predecessori con il beneplacito statunitense. L’avvicinamento di facciata all’Iran potrebbe quindi celare un piano ben più subdolo, volto a conquistare la fiducia dei dirigenti di Teheran in attesa del definitivo voltafaccia, in modo da trasformare l’Egitto in un autentico “cavallo di Troia” all’interno dell’alleanza sciita che collega Teheran, Beirut e Damasco. Si tratta di un modus operandi che la Fratellanza Musulmana ha già sperimentato attraverso la propria filiale palestinese di Hamas, che dopo aver militato per decenni assieme a Siria, Iran ed Hezbollah ha cambiato radicalmente paradigma cedendo alle lusinghe e ai petro-dollari del Qatar, schierandosi di fatto a favore dei “ribelli” intenzionati a rovesciare il regime di Assad. Non deve pertanto stupire che Khaled Meshaal, noto esponente di Hamas, si sia trasferito da Damasco a Doha, ponendosi sotto la “protezione” dell’Emiro al-Thani dopo aver ottenuto il “riconoscimento” implicito di Israele, che aveva accettato di barattare la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit con il rilascio di qualcosa come 1.027 prigionieri palestinesi (tra i quali non figurava il popolarissimo esponente filo-siriano del braccio armato di al-Fatah Marwan Barghouti). Dopo questi stravolgimenti, Hamas ha repentinamente avviato un processo di distensione con la Giordania (alleata degli Stati Uniti), che ha portato all’archiviazione dell’immane massacro di rifugiati palestinesi (il famoso “Settembre Nero”) ordinato da Re Hussein nel 1970, grazie alla visita di Meshaal presso la corte reale di Amman in seguito alla mediazione del Principe ereditario del Qatar. D’altra parte, anche il governo turco di Recep Tayyip Erdogan, capo di un partito che presenta numerose affinità con la Fratellanza Musulmana egiziana, ha effettuato una drastico voltafaccia nei confronti di Bashar al-Assad dopo aver intessuto rapporti economici e politici di grande rilievo con Damasco.

Ma ad avvalorare l’ipotesi secondo cui Morsi avrebbe sfoggiato deliberatamente questo atteggiamento estremamente ambiguo in funzione puramente tattica è intervenuto il Fondo Monetario Internazionale, che ha reagito alla notizia della convocazione del presidente egiziano da parte di Teheran accettando improvvisamente, dopo mesi e mesi di titubanze, di negoziare la concessione di un corposo prestito. La situazione economica egiziana era effettivamente catastrofica, aggravata peraltro dalle fallimentari ricette somministrate dalla Fratellanza Musulmana. Morsi e i suoi seguaci hanno preteso di trasformare un Paese come l’Egitto, cioè una nazione giovane, popolosa (85 milioni di persone), controllata da un esercito molto potente ed economicamente basata sul turismo, in uno Stato islamizzato dominato da estremisti religiosi succubi dei petro-dollari del Qatar. Non deve pertanto stupire che il settore terziario sia crollato per effetto del crollo del turismo, la disoccupazione sia aumentata del 30%, i prezzi sono cresciuti del 40%, la lira egiziana si sia svalutata della metà e le riserve di valuta pregiata siano quasi esaurite. L’Egitto necessitava quindi di finanziamenti dall’estero per rimanere a galla, e Morsi puntava proprio ad ottenere denaro dal Fondo Monetario Internazionale, nonostante i suoi “programmi di aggiustamento strutturale” abbiano prodotto disastri economici in tutte le aree del pianeta.

La cospirazione dei militari e l’impotenza statunitense

Una fazione piuttosto corposa dei militari, dal canto suo, non vedeva affatto di buon occhio l’entrata in campo del FMI e l’ambigua, rischiosa politica estera condotta da un governo che ogni giorno di più stava dimostrandosi completamente asservito ai qatarioti, mentre in seno alla popolazione stava montando un crescente malcontento, dovuto alla drammatica condizione dell’economia nazionale e all’impressionante avidità dei Fratelli Musulmani saliti al potere, i quali si stavano prodigando unicamente di accentrare il potere allo scopo di consolidare la propria posizione all’interno del Paese. I militari cominciarono allora ad attivare i propri autonomi canali diplomatici per elaborare soluzioni alternative alla deriva in cui Morsi stava trascinando l’Egitto, prendendo in considerazione anche l’opportunità di sganciarsi dal legame con Washington in virtù del fatto che in realtà l’Egitto, Paese che ha una discreta industria militare, avrebbe anche potuto fare a meno di finanziamenti vincolati all’acquisto di armamenti statunitensi. Il ministro della Difesa, nonché capo dell’esercito, Abdul Fatah al-Sisi (che ama definirsi “nasserista”) siglò allora un accordo segreto con l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo Persico intenzionate a ridimensionare le sconfinate manie di grandezza dell’Emiro al-Thani, in base al quale questi ricchi Paesi avrebbero assicurato all’Egitto sostegno finanziario nel caso in cui Barack Obama avesse sospeso il versamento degli 1,3 miliardi di dollari annuali come ritorsione per la cacciata del cavallo su cui avevano puntato, cioè Mohamed Morsi. Così, quando il malcontento popolare ha raggiunto il punto di rottura e orde sconfinate di manifestanti hanno occupato piazze e strade delle principali città egiziane, esercito e polizia hanno colto al volo l’occasione per cavalcare la protesta, lanciare un secco ultimatum al governo e infine procedere, il 3 luglio 2013, alla rimozione (e al conseguente arresto) di Morsi, all’inclusione della Fratellanza Musulmana nel novero delle organizzazioni terroristiche, all’oscurazione dell’emittente qatariota “al-Jazeera” (volta a impedire che gli Ikhwan udissero ed applicassero le fatawa del potente e seguitissimo telepredicatore al-Qaradawi), all’imposizione della legge marziale e alla nomina del magistrato Adli Mansour come presidente ad interim, del filo-statunitense Mohamed el-Baradei come vicepresidente e dell’economista Hazem el-Beblawi come primo ministro.

Questo colpo di Stato militare, pur attuato con il consenso di gran parte della popolazione e delle forze istituzionali egiziane, ha spinto i Fratelli Musulmani a chiamare a raccolta tutti i propri sostenitori esortandoli alla resistenza armata contro le forze golpiste, di fronte alla quale esercito e polizia hanno risposto usando il pugno di ferro, provocando le dimissioni di el-Baradei. L’odio settario nei confronti di tutte le altre fedi religiose che caratterizza gli Ikhwan è emerso in tutta la sua tragicità nel momento in cui, subito dopo la chiamata alle armi da parte dei maggiori esponenti del movimento, numerosi militanti si sono abbandonati all’assalto di chiese copte e alla truci dazione di cittadini cristiani e sciiti. L’entità della violenza sprigionata ha fatto in modo che nell’arco di pochi giorni cadessero centinaia di cittadini e poliziotti egiziani.

Dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato, Chuck Hagel e John Kerry hanno duramente condannato sia il colpo di Stato a danno del loro uomo che la repressione attuata da esercito e polizia, mentre Barack Obama ha annunciato l’abolizione dell’operazione militare Bright Star 2013, in programma per il mese di settembre con la partecipazione di migliaia di militari di Stati Uniti e altri Paesi, e minacciato la sospensione del finanziamento annuale da 1,3 miliardi di dollari. L’esercito egiziano si è tuttavia potuto permettere di ignorare le proteste e le intimazioni statunitensi potendo contare sul sostegno promesso da Arabia Saudita e dalle altre monarchie del Golfo Perisco, che entro la metà di luglio hanno inviato ben 6 miliardi di dollari in aiuti, prestiti e carburanti. Secondo quanto affermato dal ministro delle Finanze saudita Ibrahim al-Assaf, i finanziamenti forniti da Riad comprenderebbero 1,5 miliardi di dollari di deposito presso la Banca Centrale egiziana , 1,5 miliardi di dollari in prodotti energetici e 750 milioni di dollari in contanti, mentre gli Emirati Arabi Uniti avrebbero versato i restanti 2 miliardi. D’un colpo, Washington, che aveva attivamente sostenuto Morsi e tutti gli islamisti del Medio Oriente, si è resa conto di non disporre di validi strumenti di dissuasione per influenzare le mosse del nuovo leader al-Sisi. Il Pentagono, dal canto suo, non ha potuto far altro che inviare, a scopo puramente intimidatorio, la USS Kearsarge e l’USS San Antonio, piene di marines, verso le coste egiziane lambite dal Mar Rosso. Il che significa che per i centri decisionali statunitensi l’affaire egiziano deve aver indubbiamente rappresentato un potente ed inaspettato shock.

Lo sgretolamento della Fratellanza: la caduta di al-Thani e il ridimensionamento di Erdogan

 La complessa manovra volta a detronizzare i Fratelli Musulmani messa in piedi dall’Arabia Saudita rientra in un più ampio disegno strategico, elaborato allo scopo non solo di ridimensionare le brame espansionistiche del Qatar e riaffermare la leadership di Riad all’interno del Consiglio per la Cooperazione del Golfo, che riunisce tutte le monarchie che si affacciano sul Golfo Perisco (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain e Oman), ma forse anche di rivedere i termini  i termini dell’alleanza con gli Stati Uniti. Il 13 luglio 2013, Re Abdullah ha inviato il principe Bandar (direttore dei servizi segreti) a Mosca per incontrare il presidente russo Vladimir Putin. Fonti russe rivelano che Riad avrebbe proposto un accordo in base al quale l’Arabia Saudita, oltre ad aver garantito che nessun Paese membro del Consiglio per la Cooperazione del Golfo avrebbe mai intaccato l’egemonia russa sul mercato energetico europeo, si sarebbe impegnata ad acquistare ben 15 miliardi di dollari di armamenti russi, in cambio della rinuncia al sostegno del regime di Bashar al-Assad da parte di Mosca. A quanto si sa, Putin avrebbe declinato la proposta, ma appare piuttosto significativo il fatto che, subito dopo l’incontro, lo stesso principe Bandar sia stato invitato a Washington per un colloquio diretto con il presidente Barack Obama. Secondo quanto riporta il sito “Debka File”, assai vicino al Mossad, al 16 agosto «Il principe Bandar non ha ancora risposto all’invito» (7). Si tratterebbe di una mossa piuttosto inusuale per un regime solitamente assai fedele ai dettami di Washington.

Riflettendo sull’operato di Riad, il lucido analista William Engdahl scrive che: «La coraggiosa decisione saudita di agire per fermare ciò che percepisce come la disastrosa strategia islamica statunitense nel sostenere le rivoluzioni della Fratellanza Musulmana in tutto il mondo islamico, ha inferto un duro colpo alla folle strategia statunitense di credere di poter utilizzare la Fratellanza come forza politica per controllare più strettamente il mondo islamico e usarlo per destabilizzare la Cina, la Russia e le regioni islamiche dell’Asia centrale. La monarchia saudita cominciava a temere che la Fratellanza segreta sarebbe balzata un giorno anche contro il suo governo. Non ha mai perdonato a George W. Bush e Washington di aver rovesciato la dittatura laica del partito Baath di Saddam Hussein in Iraq, che ha portato la maggioranza sciita al potere, né la decisione degli USA di rovesciare lo stretto alleato dell’Arabia saudita, Mubarak in Egitto. Da esemplare “Stato vassallo” degli USA in Medio Oriente, l’Arabia Saudita si è ribellata il 3 luglio sostenendo e supportando il colpo di Stato militare in Egitto» (8).

Quanto al Qatar, va sottolineato che alcune stime quantificano in 6 miliardi di dollari i finanziamenti che l’Emiro al-Thani avrebbe inviato ai Fratelli Musulmani egiziani e in altri 7 miliardi gli “aiuti” che Doha avrebbe messo a disposizione degli Ikwan in Giordania e di altri gihadisti in Libia e Siria. Il “prestigio” che il Qatar si era ritagliato nei due anni precedenti era strettamente connesso ai finanziamenti e al sostegno militarmente fornito ai guerriglieri islamisti protagonisti della guerra contro la Giamahiriya di Muhammar Gheddafi, e all’esito di tale scontro. Successivamente, le brame di al-Thani hanno cominciato a vertere sulla riproposizione del “modello-Libia” in Siria e sull’acquisizione dell’influenza su di un Paese cruciale come l’Egitto, ma con il sostanziale fallimento della lunga ed estenuante aggressione che le bande islamiste supportate da Doha (e da Washington, Riad, Ankara, Parigi e Londra) hanno condotto contro il regime di Bashar al-Assad e, soprattutto, con la caduta del proprio “pupillo” Morsi, l’Emiro Hamad bin Khalifa al-Thani ha constatato il fallimento della propria politica estera – per sostenere la quale aveva profuso notevolissimi sforzi finanziari – e deciso di abdicare a beneficio di suo figlio Tamim, il quale ha immediatamente congedato il primo ministro Hamad bin Jassim al-Thani, ovvero l’artefice dell’ambiziosa strategia internazionale imperniata sull’appoggio alla Fratellanza Musulmana e , più in generale, sull’ostilità nei confronti dei regimi nazionalisti (Libia, Siria) e sciiti (Iran). La nuova dirigenza qatariota appare molto più attenta ai propri affari interni, ed è presumibile che abbandonerà le velleità imperialistiche che hanno caratterizzato i propri predecessori per dedicare tutti gli sforzi necessari alla preparazione del Paese ad ospitare i mondiali di calcio del 2022.

Anche la Turchia di Erdogan, altro pilastro del sostegno alla Fratellanza Musulmana, ha dovuto ridimensionare le proprie aspirazioni. Dopo un lungo periodo di consenso elettorale fondato essenzialmente sulla crescita economica maturata in un contesto regionale pacifico costruito in base alla necessità, segnalata dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, di «avere zero problemi coi vicini», i nodi della “questione turca” sono cominciati a venire progressivamente al pettine; all’infiammarsi dell’irrisolta “questione curda”, al rancore sotterraneo maturato tra le forze armate e parte consistente della magistratura e ai malumori delle componenti più “laiche” e conservatrici della società (come i “Lupi Grigi”), le quali rifiutano di accettare ogni sia pur cauto e moderato provvedimento di apparente islamizzazione, è andato a sommarsi il forte rallentamento dell’economia (con una crescita che è passata dal 9 al 2,2%), causato in buona parte dalla rottura delle relazioni con la Siria e dall’isolamento regionale imputabile alla politica aggressiva condotta da Erdogan. Tale crescita, per di più, è caratterizzata da poderose campagne di privatizzazione e da una febbre edilizia che ha coperto di cemento anche le aree boschive del Bosforo e delle regioni più interne. Seguendo il mito della globalizzazione, Erdogan ha fatto approvare una legge che elimina la protezione giuridica ai parchi nazionali turchi, in seguito alla quale ha progressivamente trasformato interi quartieri delle principali città costiere in giganteschi villaggi turistici nuovi di zecca, obbligando i vecchi residenti a trasferirsi verso le periferie. Interi rioni risalenti agli inizi del ’900 sono stati “ristrutturati” o demoliti per far posto a nuove strutture atte a “favorire il turismo”. Ordinando l’abbattimento di 600 alberi nell’ambito di un progetto volto a sostituire un parco con un enorme centro commerciale (sul quale aleggia un forte sospetto di tangenti, alla luce del fatto che il sindaco di Istanbul, esponente dell’AKP, è proprietario di una catena di negozi ed ha già ottenuto i diritti per installare in tale centro i propri punti vendita, senza contare che il genero di Erdogan si è aggiudicato il contratto per lo sviluppo immobiliare dell’intera area), ha manifestato con estrema chiarezza l’intenzione di trasformare una città millenaria come Istanbul in una delle tante megalopoli ultra-pacchiane stile Doha. Istanbul (come diverse altre città turche) è costellata di rovine greche, romane, bizantine, ottomane, ortodosse e islamiche che rischiano di essere sostituite da giganteschi centri commerciali ed edifici moderni commissionati alle più celebri stelle occidentali dell’architettura. Il che non può che suscitare un forte malcontento in seno alla popolazione turca, così come la politica imperialista – e non imperiale – impropriamente definita “neo-ottomana”. La “Sublime Porta” era riuscita a inglobare e far convivere decine di etnie e popoli diversi, mentre l’attuale Turchia, con la sua alleanza di fatto con Qatar e Arabia Saudita e il suo appoggio ai guerriglieri islamisti più feroci, sta facendo l’esatto contrario: sta promuovendo il settarismo e allargando la faglia che divide le molteplici “placche” religiose di cui è formato l’Islam. E a favorire questo processo è il primo ministro di un Paese costituito a sua volta da una notevole gamma di etnie e religioni diverse (50% circa sunniti, 20% alawiti, 20% curdi – principalmente sunniti –, il 10% appartiene ad altre minoranze). Non è quindi un caso che, secondo i sondaggi, ben 70 turchi su 100 disapprovino la politica aggressiva di Erdogan nei confronti della Siria. Il noto giornalista Thierry Meyssan ritiene a questo proposito che Erdogan abbia adottato il programma della Fratellanza Musulmana, il movimento finanziato e sostenuto dal Qatar che dall’Egitto alla Siria alla Giordania propugna una visione di Islam compatibile con gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. «Mostrando la sua vera natura – scrive Meyssan – (di Fratello Musulmano sotto vesti “neo ottomane”) il governo Erdogan ha tagliato i ponti con la sua popolazione. Solo una parte minoritaria di sunniti può riconoscersi nel programma ipocrita e retrogrado dei Fratelli Musulmani» (9).

Conclusioni

Il colpo di Stato militare a danno della Fratellanza Musulmana sembra essere supportato da gran parte della popolazione e dei partiti, sia dai salafiti di al-Nur che dagli esponenti delle fazioni marxiste. Il golpe del generale al-Sisi avviene quindi sulle ceneri del malridotto Ikhwan, che dopo un lungo periodo di ascesa, connessa facoltosi agganci internazionali di Morsi e della sua cricca, è caduto vittima delle proprie colossali inadeguatezze intrinseche nell’ambito di un feroce conflitto internazionale contrassegnato dal continuo ed apparentemente inarrestabile arretramento statunitense, aggravato dalla fallimentare strategia di politica estera condotta da Barack Obama, che con l’appoggio alle “primavere arabe”, la guerra alla Libia e il potenziamento dell’Africa Command (AFRICOM) ha palesemente cercato di sbarrare la strada all’avanzata cinese nel “continente nero”, per poi spingersi a cingere d’assedio la Cina sia stringendo una serie di accordi militari con numerosi Paesi dell’Estremo Oriente, sia integrando Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam in una “area di libero scambio” meglio nota come Trans Pacific Partnership (TPP) allo scopo di isolare economica il “Paese di mezzo”.

Il fallimento delle “primavere arabe”, la tenace resistenza siriana sostenuta dalla Russia, la crescita complessiva della Cina, l’emersione di una serie di scandali (fatti emergere da Bradley Manning, Julian Assange e Edward Snowden) hanno infatti decretato la debacle dell’amministrazione Obama, messa sotto accusa anche in patria da diversi esponenti del partito Repubblicano per aver attaccato la Libia senza l’autorizzazione del Senato, per la scandalosa gestione (l’intelligence russa ha dimostrato che i servizi segreti statunitensi avevano messo in allerta la Casa Bianca riguardo ai pericoli legati a questa faccenda, ma Obama tenne il Congresso all’oscuro di tutto) dell’oscura vicenda in cui l’ambasciatore statunitense Christopher Stevens a Bengasi rimase ucciso ad opera di islamisti debitamente armati e sostenuti da Washington e per il sostegno accordato ai “ribelli” siriani – resisi responsabili di atti indescrivibili (come mangiare gli organi dei soldati siriani caduti in combattimento) –, nonché per aver nascosto al Congresso le prove schiaccianti che dimostravano il coinvolgimento tra il Qatar di al-Thani e al-Qaeda. Costretto sulle difensive, Obama ha dovuto ammettere sia di aver spiato illegalmente nemici, alleati e compatrioti, sia di aver consapevolmente collaborato con un regime che sosteneva attivamente i terroristi (non è certo una novità) prima di abbandonarlo, decretando così il suo crollo e privando automaticamente la Fratellanza Musulmana egiziana del suo fondamentale sponsor e finanziatore. Erdogan, dal canto suo, si è trovato a dover rendere conto a una popolazione assai infastidita dall’affarismo che contraddistingue diversi esponenti del partito AKP, dalla sue velleità aggressive e dall’aver trasformato la regione meridionale del Paese in una gigantesca zona di addestramento e di transito per islamisti provenienti da mezzo mondo.

Il regime di Bashar al-Assad, al contrario, è riuscito, usufruendo dell’appoggio russo, a resistere alla conflitto interno aizzato da Stati Uniti, Turchia e Qatar in primis, anche grazie all’apporto fornito da Hezbollah, scesa in campo per evitare che un simile bagno di sangue potesse verificarsi anche in Libano. Supportando con tale ostinazione Damasco, la classe dirigente russa si è dimostrata ben consapevole che la caduta di Assad avrebbe spezzato, nel suo punto centrale, la corda tesa dell’arco sciita che collega Teheran a Beirut, innescando un incendio suscettibile di investire l’intero Medio Oriente (Libano, Iraq, Iran e Giordania) e di dilagare nel Caucaso, rinfocolando conflitti mai sopiti (Cecenia, Daghestan, Nagorno-Karabakh) capaci di intaccare la sovranità russa sulle sue regioni meridionali e alimentare il settarismo religioso, aggravando tragicamente la fitna che separa gli sciiti dai sunniti.

In tutto questo marasma, l’Egitto si trova al centro della contesa, sia per la sua notevole demografia, sia per via della sua vantaggiosissima posizione geostrategica, sia perché tocca da vicino gli interessi israeliani. La defenestrazione dei Fratelli Musulmani, su cui gli Stati Uniti hanno modellato tutta la propria strategia per il Medio Oriente, appare come un primo sussulto di indipendenza dopo decenni di ininterrotta subordinazione.

Lo stesso al-Sisi ha rivelato pubblicamente di aver ricevuto, mentre erano in corso i disordini con i Fratelli Musulmani, svariate telefonate da parte del presidente degli Stati Uniti Barack Obama e di non aver mai risposto. Qualora l’Egitto dovesse assecondare l’orientamento “nasserista” che il generale al-Sisi sostiene di professare, il Cairo potrebbe verosimilmente legare il proprio destino all’asse “non allineato” Iran-Siria-Hezbollah (ed Iraq), riconfigurando definitivamente i rapporti di forza regionali a scapito delle monarchie del Golfo Persico e fornendo in tal modo un contributo a ridisegnare i futuri assetti geopolitici planetari in un mondo che sembra essere irreversibilmente avviato verso il multipolarismo.

1. Mahdi Darius Nazemroaya, Israeli-US Script: Divide Syria, Divide the Rest, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=32351.

2. “Financial Times”, 2 marzo 2005.

3. “Il Manifesto”, 17 luglio 2012.

4. “Infopal”, 24 aprile 2012.

5. “The European Union Times”, 11 agosto 2011.

6. “The Times of Israel”, 22 aprile 2012.

7. “Debka File”, Saudi King Abdullah backs Egypt’s military ruler, warns against outside interference, http://www.debka.com/article/23197/US-Egyptian-relations-on-the-rocks-El-Sisi-wouldn%E2%80%99t-accept-Obama%E2%80%99s-phone-call [1].

8. William Engdahl, Saudi’s unprecedent  break with Washington over Egypt, http://www.globalresearch.ca/saudis-unprecedented-break-with-washington-over-egypt/5343092 [2].

9. Thierry Meyssan, Soulèvement contre le Frère Erdoganhttp://www.voltairenet.org/article178820.html [3]

Selective Jihad

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Selective Jihad

 
Ex: http://www.geopolitica.ru
 
The sudden intensification of the conflict between members of two Islamic sects – Sunni and Shi’ite – in several Middle Eastern countries at once suggests that it is not a question of a spontaneous outbreak of hostility, but rather the targeted fomentation of artificially-created antagonisms. 

Al-Qaeda is intentionally blowing up Shi’ite shrines in Iraq and buses full of pilgrims from Iran, provoking acts of aggression towards Sunnis (so far largely unsuccessfully). The latest large-scale acts of terrorism took place on 20 and 27 May in Baghdad and its suburbs, populated by Shi’ite Muslims, in which more than 200 people were killed and 624 injured. (1) In response, Shi’ites have started to take drastic action. This could lead to an escalation of the conflict (which is what the organisers of the provocation are hoping for) if the government of al-Maliki does not suppress the wave of violence. Nevertheless, the American Institute for the Study of War is already predicting that hostilities between the two branches of Islam may plunge the whole region into bloody chaos (2).

 In Lebanon, skirmishes are taking place between various armed groups who are carrying out attacks on government buildings. Here, Shi’ite Hezbollah has declared that Al-Qaeda is the main target of its attacks. In a recent interview, the head of the Christian Lebanese party «Levant», Rodrigue Khoury, reported that «at the call of Salafi cleric Ahmed al-Assir, who is in hiding, large numbers of Salafis are going out onto the streets of Lebanon and threatening Christians..., and according to Islamic beliefs, there is only one possible punishment for an «unbeliever» – his death». (3) According to Khoury, Salafis also want to take revenge for 2007, when Lebanese Armed Forces suppressed an uprising by Wahhabi terrorists at the Nahr El-Bared refugee camp. Lately, however, Salafi activity has been observed in Saida, where there are a large number of extremists in Palestinian refugee camps.

In Syria, the Alawite minority are being subjected to systematic attacks along with the government (the Alawites are regarded as an offshoot of Shi’ite Islam). 

It is perhaps only in Iran that an atmosphere of tolerance between Muslims belonging to different Islamic sects is being maintained; there, the Sunni are able to pray quietly in Shi’ite mosques and, generally speaking, good will towards members of other religions is also being maintained. 

86-year old Islamic theologian Yusuf al-Qaradawi from Qatar, who spent a long time living in the US and was a trustee of the Islamic Society of Boston, is playing a major role in fuelling the conflict between Sunni and Shi’ite. Al-Qaradawi is a spiritual leader of the Muslim Brotherhood. According to the German news magazine Der Spiegel, al-Qaradawi’s TV programme «Sharia and life», which is broadcast by the TV channel «Al-Jazeera», has an audience of 60 million people. (4) 

Al-Qaradawi instils the idea that Russia is an enemy of the Arabs and of all Muslims, while at the same time calling for a war against the current regime in Syria and Hezbollah in Lebanon. On 31 May 2013, speaking in Doha, al-Qaradawi declared: «Everyone who has the ability and has training to kill ... is required to go. I am calling for Muslims to go and support their brothers in Syria» (5).

Hamas, which has announced its support of Syrian rebels, regarded al-Qaradawi’s visit to the Gaza Strip in May 2013 as «a hugely important and significant event», and Hamas leader Ismail Haniyeh called al-Qaradawi «the grand imam of modern Islam and the grand imam of the Arab Spring». Fatah’s reaction to the imam’s visit to the Gaza Strip, on the other hand, was distinctly negative, observing that he is causing a schism in the Palestinian people. Sure enough, the completely opposing reaction of the two wings of the Palestinian movement to al-Qaradawi’s propaganda is one of the signs that there is such a schism.

Al-Qaradawi’s intolerance when it comes to Jews is well-known: he believes that the State of Israel does not have the right to exist and refused to take part in the Inter-Religious Conference in Doha in April 2013 because Jewish delegates were also in attendance.

A characteristic detail: in 2009, al-Qaradawi published a book entitled Fiqh of Jihad in which he refused to recognise the duty of Muslims to wage jihad in Palestine, which is being occupied by Israel, as well as in Iraq and Afghanistan, which are being subjected to American occupation. At the same time, however, he is calling for a «holy war» in Syria against Bashar al-Assad’s government! 

In recent days, the development of events in the Sunni-Shi’ite conflict has begun to resemble a chain reaction. Shortly after al-Qaradawi’s speech in the Gaza Strip, Saudi Arabia’s Chief Mufti, Sheikh Abdul-Aziz, publicly supported the Qatar Sheikh’s argument that «Hezbollah is the party of Satan». A week later, a group of Muslim clerics in Yemen issued a fatwa calling for «protection of the oppressed» in Syria, and then in the Grand Mosque in Mecca, Saud al-Shuraim declared that it was the duty of every believer to support Syrian rebels «by any means possible».

According to the American magazine Foreign Affairs, since the beginning of the conflict, 5,000 Sunni militants from more than 60 countries have taken part in military actions in Syria. If this figure is true, it means that Syria has become the second Muslim country after Afghanistan where such a large amount of foreign mercenaries have fought against the existing government alongside Muslims. 

Returning to the activities of the Qatar cleric during his time in the US when he was a trustee of the Islamic Society of Boston, it is worth remembering that back in 1995, while speaking before a group of Arab Muslim youths in the state of Ohio, this herald of jihad declared: «We will conquer Europe, we will conquer America!»... (6)

One inevitably starts to think about the words of the famous Muslim scholar Imran Nazar Hosein (7), who visited Moscow last week and considers the outburst of violence between Muslim Sunni and Muslim Shi’ite currently being witnessed as the implementation of some master plan being put into operation by what the scholar referred to as «evil forces».

 

Notes:

(1) http://www.alliraqnews.com/en/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=36&Itemid=37&limitstart=130
(2) Jessica Lewis, Ahmed Ali, and Kimberly Kagan. Iraq’s sectarian crisis reignites as Shi’a militias execute civilians and remobilize.//Institute for the Study of War, May 31, 2013
(3) Orthodox Christians in the Middle East - Russia’s allies.// Russkiy obozrevatel, 07.07.2013 http://www.rus-obr.ru/blog/25290
(4) Alexander Smoltczyk. Islam’s Spiritual ‘Dear Abby’: The Voice of Egypt’s Muslim Brotherhood. http://www.spiegel.de/international/world/islam-s-spiritual-dear-abby-the-voice-of-egypt-s-muslim-brotherhood-a-745526.html
(5) http://www.jihadwatch.org/2013/06/qaradawi-calls-on-sunnis-to-go-to-syria-to-fight-assad-everyone-who-has-the-ability-and-has-training.html
(6) http://www.jihadwatch.org/2004/03/islamic-radical-tied-to-new-boston-mosque.html
(7) http://www.imranhosein.org/

 

 

El fin de la Unión Europea

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El fin de la Unión Europea

El próximo miércoles Durao Barroso “recomendará” a Mariano Rajoy las “reformas” que debe implementar para luchar contra la crisis. Mientras tanto, un grupo de diputados de ERC “pagan” sus impuestos en una “Agencia Tributaria Catalana”, demostrando así lo poco que entienden de lo que pasa y lo mucho que les gustaría tener su propio cortijo. La actitud de estos sujetos, paradigma de la estupidez, la incompetencia y la ignorancia – ERC ha dado en su historia buena prueba de todo ello- es un caso bastante ilustrativo de la clase política europea en general, especialmente en los últimos 25 años.

No puede ser de otra manera: tras llenarse la boca con el asunto de la “construcción europea” hasta machacar los oídos del más insensible, el efecto y las consecuencias de las políticas apoyadas, por activa y por pasiva, por esa misma clase política está conduciendo a la Unión Europea a una desintegración ahora incipiente pero inexorable. Inexorable porque no se ven las palancas por las cuales esa misma Unión Europea puede resurgir y pesar en el conjunto de la escena multipolar del mundo del siglo XXI. En el extremo de esta incompetencia se halla gente como los diputados de ERC que, no solo es que apuesten por las delirantes tesis del nacionalismo catalán, sino que buscan la atomización de algo ya de por si pequeño y, en consecuencia, sujetarnos más aún a la pérdida de soberanía y de libertad que la Unión Europea ha supuesto desde que en 1985 el PSOE nos apuntara a tan singular club.

El hecho puede argumentarse mejor a raíz del último informe del Pew Research Global Attitudes Project (PRGAP). Los informes del PRGAP deben siempre tenerse en cuenta, en primer lugar, por la amplitud de problemáticas que se abordan; en segundo lugar por la variedad de colectivos en los que muestrean, llegando en algunos casos a realizar encuestas de proporciones planetarias. En el caso que nos ocupa, el pasado 13 de mayo, el Pew Research Center hizo público un estudio conducido en 7 países europeos, sobre una muestra de 7,646, encuestados entre el 2 y el 27 de marzo pasados. Los países considerados en el estudio fueron Alemania, Francia, Italia, España, Reino Unido, Polonia, Grecia y República Checa. A los participantes se les preguntó acerca de cómo percibían la situación actual de la UE. Los técnicos del célebre “fact tank”, subsidiario del Pew Charitable Trusts, han apuntado algunas conclusiones inquietantes para el futuro de uno de los principales puntales de la globalización: en primer lugar, la desafección general de los europeos respecto de la UE, siendo ésta máxima en Francia y en España. Se observa, además, un debilitamiento de la integración europea, tal y como es percibida por los europeos.

En segundo lugar, se aprecia una divergencia creciente entre alemanes y franceses y una desconfianza mutua. En tercer lugar, entre 2013 y 2013, ha crecido la desconfianza de los ciudadanos hacia sus líderes –personificados en el presidente del gobierno-, siendo máxima, y por éste orden, en Francia, Italia y España. En cuarto lugar, el pesimismo respecto la situación económica respecto de 2007, se ha incrementado en un 61%, un 54% y un 22% en España, Gran Bretaña e Italia, respectivamente. La situación es especialmente alarmante en lo que los autores del informe denominan “el desafío del sur” (“Southern Challenge”); es decir, España, Grecia e Italia. Pese a ello, el apoyo al euro ha crecido en España y en Italia, si bien aproximadamente un 30% de los encuestados en los siete países apuestan por volver a sus monedas originales.

Naturalmente, el informe es amplio y denso pero el resultado es bastante claro y los técnicos del Pew Research Center hablan de “tendencias centrífugas” en la UE. Curiosamente, preguntados acerca de la manera en que la UE saldría de la crisis, aproximadamente un 70% de los encuestados ha respondido que “recortando gastos”, mientras que solo un 30% apostó por políticas de estímulo. Sin duda, la “austeridad” goza de mucho predicamento entre la misma población que la sufre. Al margen de lo que opine la gente, las directrices económicas de la Comisión, y también de la “troika”, han sido un rotundo fracaso, como se desprende de los índices de paro y precariedad galopantes.

Próximamente, el miércoles esa misma comisión va a recomendar al presidente Rajoy que realice “reformas” en el mercado laboral, que suba los impuestos –especialmente el IVA- porque “hay margen”, que “reforme” las pensiones, en el sentido de desligarlas del IPC y otras medidas similares. Es obvio que supone un gran lastre, por ejemplo, operar con 42 tipos de contrato laboral o que se gasten millones de euros en administraciones duplicadas y a menudo inoperantes. Pero el problema que acarreamos no es un caso de mala gestión, aunque ello pueda contribuir, dado que los mismos problemas existen en la práctica totalidad de los estados europeos. Se trata más bien de una fracaso del modelo económico que apuesta por una financiación cara y escasa de la que se lucran los que controlan esas mismas fuentes de financiación; es decir, del capital privado. Se prima la economía especulativa frente a la productiva.

Gracias a la política del BCE y de la “troika” se está produciendo en las últimas décadas, y especialmente con motivo de esta crisis, un gigantesco trasvase de recursos de los bolsillos de los contribuyentes –asalariados y empresas- al sector privado financiero. Los costos de este trasvase se evidencian en forma de intereses elevados por una financiación que podría obtenerse mucho más barata directamente del instituto emisor en última instancia –el BCE-, evitando el encarecimiento que supone la presencia de intermediarios ávidos de beneficio. El sobrecoste se repercute en los bolsillos de las clases populares en forma de impuestos o en forma de “recortes” de los salarios, mayormente.

Pese a ello, la Comisión sigue pensando que la medicina no es mala sino que es escasa. El hecho de la crisis y el desánimo se intentan conjurar con la promesa de una recuperación que nunca llega. De hecho, de vez en cuando las tesis oficiales –aireadas gracias a una prensa servil para con el partido encargado de gestionar la política económica del momento- sufren el aldabonazo de algún estudio que se filtra pero que jamás tiene consecuencias. Recientemente, la OCDE pronostica un 28% de paro para España en 2014, solo por detrás, y ligeramente, de Grecia. El Ejecutivo calcula que solo se creará empleo en 2016 cuando crezcamos al 1,3%, algo que parece hoy inalcanzable, pero para los analistas de Aspain11, según informa la web finanzas.com, esta cifra debe situarse en realidad en el 2.8% para que nuestro país cree verdaderamente empleo.

¿Qué se deriva de todo esto? Pues que el futuro económico es negro y que la crisis va a seguir por donde ya está. En estas condiciones las turbulencias políticas van a aumentar y las opciones heterodoxas ganarán masa crítica. En el mundo real, los eurócratas tendrán menos apoyo cada vez y es muy posible que la salida de la UE, que hoy es una opinión cada vez menos marginal y más generalizada, acabe desintegrando la Unión por la fuerza de los hechos. Aunque pese a la Comisión, y como sucede en Grecia, no se puede pedir que un país se suicide para ajustar el déficit o salvar una moneda.

Lamentablemente, en un mundo en el que cada vez Occidente pesa menos, el fin de Europa como entidad económica supondrá una indiscutible pérdida de peso político, algo notablemente nocivo para Occidente en su conjunto. Las fuerzas centrífugas antes mencionadas son en los tiempos actuales una pésima noticia, concomitante a la desintegración social y a la crisis espiritual que padecemos. A esto es a lo que un grupo de majaderos en Barcelona está contribuyendo sin ni siquiera saberlo.

mardi, 27 août 2013

La Réserve Fédérale des Etats-Unis empêche l’Allemagne de rapatrier son or

La Réserve Fédérale des Etats-Unis empêche l’Allemagne de rapatrier son or

Ex: Telesur

Les Etats-Unis refusent de rendre l’or que l’Allemagne a mis à l’abri dans la Réserve Fédérale des USA et a, par ailleurs, empêché les représentants allemands de visiter le coffre de la Banque Centrale de ce pays pour vérifier l’état des tonnes d’or entreposées.

 

 

La méfiance par rapport au dollar pourrait s’intensifier après que la Bundesbank allemande ait demandé le rapatriement de son or entreposé dans la Réserve Fédérale des États-Unis, mais que Washington ait refusé de le faire avant 2020.

L’agence d’information russe, RT, a publié que les représentants allemands se sont vus refuser le permis de visiter le coffre de la Banque Centrale des États-Unis.

« L’Allemagne, qui y a entreposé près de la moitié de ses réserves en or, a de bonnes raisons de s’inquiéter. En général, les institutions financières des USA sont connues pour vendre ce qui n’existe pas réellement », écrit RT sur la publication de son portail Web.

Ils citent l’exemple de 2012, lorsque la banque Goldman Sachs vendait des certificats d’or en assurant qu’ils étaient garantis par l’or authentique de ses coffres. Cependant, comme cela s’est su par après, il n’y avait pas d’or dans ces coffres, et la banque travaillait sur base d’un système de réserve fractionnaire, en supposant que peu de dépositaires exigeraient de récupérer leur or.

Le fondateur et président de l’Association Allemande de Métaux Précieux, Peter Boehringer, considère que ce refus des États-Unis est un mauvais signe.

« Nous avons exercé beaucoup de pression sur la Bundesbank, nous lui avons envoyé énormément de questions, ainsi que d’autres entités. Nous voulons savoir pourquoi elle n’agit pas en tant qu’audit approprié, pourquoi ils ne font pas pression sur la banque centrale de son partenaire, tout particulièrement sur la Réserve Fédérale, pour qu’elle soit un audit adéquat. Pourquoi n’est-il pas possible de rapatrier cet or ? Il y a donc énormément de questions sans réponses », dit-il.

« Les USA et la Réserve Fédérale financent actuellement entre 60 et 80% de la dette fédérale récemment publiée, les bons du Trésor. Et son achat libre est une mauvaise nouvelle pour la dette des USA. Cela met en évidence que quelque chose va mal pour la qualité du dollar des États-Unis comme monnaie de réserve. La Chine et l’Inde vont probablement consommer 2.300 tonnes d’or conjointement cette année, ce qui équivaut presque à 100% de la production mondiale », explique-t’il.

La Réserve Fédérale des États-Unis est une des organisations les plus secrètes au monde. Depuis bien des années, elle entrepose de grandes quantités d’or de différents pays. Si auparavant elle était considérée comme l’endroit le plus sûr pour les réserves de beaucoup de pays, maintenant la situation a changé, puisque l’or qui y est entreposé s’épuise du fait de sa vente, son cautionnement ou son utilisation comme garantie financière.

En janvier de cette année, la Bundesbank allemande a informé de sa décision de rapatrier 674 tonnes des réserves officielles d’or déposées à l’étranger d’ici 2020.

Jusqu’au 31 décembre 2012, la banque allemande conservait 31% de son or sur le sol allemand. Avec cette mesure, ils estiment que cette quantité s’élève à 50% avant le 31 décembre 2020.

« Les réserves d’or d’une banque centrale créent de la confiance », indique l’entité financière dans un communiqué qui assure que cette mesure augmentera la confiance en sa propre économie.

L’Allemagne possède la seconde plus grande réserve d’or au monde ; 3.396 tonnes. Au cours des prochaines huit années, 674 tonnes vont être rapatriées depuis New-York et Paris, avec pour objectif que 50% de cet or soit entreposé sur le sol allemand. 13% des réserves d’or allemandes sont entreposée à Londres et y resteront entreposées. Les réserves d’or déposées à New-York devraient passer de 45% à 37%. Les 374 tonnes actuellement entreposées à la Banque de France à Paris retourneront sur le sol allemand.

Source : Telesur

Traduit par SanFelice pour Investig'Action

Banden broer Obama met Moslim Broederschap

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Hoge Egyptische official bevestigt banden broer Obama met Moslim Broederschap
 
Ex: http://xandernieuws.punt.nl

Adviseur Constitutionele Gerechtshof: 'Regering Obama werkt samen met terroristen'

'Turkije speelt centrale rol bij complot tegen Egypte'

De huidige adviseur en voormalige kanselier van het Egyptische Constitutionele Gerechtshof, Tahani Al-Jebali, heeft verklaard dat de belangrijkste reden dat de VS niets onderneemt tegen de Moslim Broederschap gelegen is in het feit dat Obama's halfbroer Malik achter grootschalige investeringen in en voor de internationale organisatie van de Broederschap zit. Malik Obama - 'bezitter' en mishandelaar van maar liefst 12 vrouwen (6)- is lid van de islamitische Da'wa organisatie (IDO), een tak van de Soedanese regering die wordt geleid door oorlogsmisdadiger en christenslachter president Omar al-Bashir, die zelf lid is van de Moslim Broederschap.

'Amerikaanse regering werkt samen met terroristen'

'Wij zullen de wet uitvoeren en de Amerikanen zullen ons niet stoppen,' onderstreepte Jebali. 'We moeten de dossiers openen en beginnen met rechtszittingen. De Obama regering kan ons niet stoppen; ze weten dat ze het terrorisme hebben ondersteund. Wij zullen de dossiers openen, zodat deze landen worden ontmaskerd en duidelijk wordt hoe ze met hen (de terroristen) hebben samengewerkt. Dit is de reden waarom de Amerikaanse regering tegen ons strijdt.' (1)

In een TV-interview legde Jebali uit dat dit nieuws ook van belang is voor de Amerikanen die zich zorgen maken over de acties van hun president. 'Dit is een geschenk voor het Amerikaanse volk,' aldus Jebali, waarmee ze impliceerde dat er nog meer onthullingen zullen volgen. Ze benadrukte dat Egypte een hoge prijs heeft betaald voor de Amerikaanse steun aan de Moslim Broederschap, maar dat haar land geen samenzweringen tegen het Egyptische volk zal toestaan. Ook noemde ze het onacceptabel dat Egypte hetzelfde lot als Irak en Libië ondergaat.

'Centrale rol Turkije in complot tegen Egypte'

Volgens betrouwbare Arabische bronnen (2) speelt Turkije een centrale rol in het complot tegen Egypte. Gisteren berichtten we dat de Turkse premier Erdogan Israël de schuld geeft van de staatsgreep tegen de Moslim Broederschap. Enkele jaren geleden ging Erdogan pal achter de Palestijnse terreurbeweging Hamas staan. De Moslim Broederschap is de moederorganisatie van Hamas. Erdogans islamistische AK Partij streeft net als de Broederschap naar een geheel door de islam beheerst Midden Oosten en de verdwijning van de Joodse staat Israël.

Malik Obama sluist geld weg naar Broederschap

Ook Al-Wafd, een andere prominente Arabische nieuwsbron, kopt 'Obama's broer is Moslim Broederschap'. Hier een groot aantal links naar achtergrondartikelen waaruit blijkt dat Malik Obama een belangrijke speler is bij het doorsluizen van grote sommen liefdadigheidsgeld naar de Broederschap en de bouw van moskeeën (7). Al in mei berichtten alle belangrijke Saudische media dat Malik de uitvoerende secretaris van de islamitische Da'wa organisatie (IDO) is. Volgens het Amerikaanse ministerie van Buitenlandse Zaken is de IDO, die werd opgericht door de Soedanese regering, een terreurorganisatie. (3)

Banden met oorlogsmisdadiger Omar al-Bashir en antisemiet Al-Qaradawi

De website van de Barack H. Obama Foundation (BHOF) plaatste een foto van een IDO-conferentie in 2010 in de Soedanese hoofdstad Khartoum. Malik was een belangrijke official op deze conferentie, die werd geleid door de wegens oorlogsmisdaden gezochte Soedanese dictator Omar al-Bashir.


Op foto's (zie hierboven) is Malik samen met zijn baas Suar al Dahab te zien, de voorzitter van de IDO. Al Dahab bezocht in mei de Gazastrook en is dikke vrienden met Hamaspremier Ismail Haniyeh en Yusuf Al-Qaradawi, de extreem antisemitische spirituele leider van de Moslim Broederschap die openlijk heeft gezegd het te betreuren dat het Hitler niet gelukt is de Joden uit te roeien.

Malik meerdere malen in Witte Huis

Als zijn halfbroer en diens dubieuze contacten en acties ter sprake komen, doet president Obama altijd of zijn neus bloedt. Er zijn echter meerdere foto's van Maliks bezoeken aan het Witte Huis. Bovendien staat Malik aan het hoofd van de Barack H. Obama Foundation. De president zorgde ervoor dat de BHOF in 2011 met terugwerkende kracht een forse belastingkorting kreeg (5). Ook Obama's neef Musa is betrokken bij het wegsluizen van geld naar radicaal islamitische organisaties (6).

 

Xander

(1) Yourn 7 (YouTube) (via Walid Shoebat)
(2) Elbashayer / Elbilad / Akhbar-Today
(3) Walid Shoebat
(4) Daily Caller
(5) Al Jazeera (YouTube 1 / 2 / 3)
(6) Daily Mail
(7) World Net Daily

 

Manœuvres d’été autour du chaudron égyptien

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Manœuvres d’été autour du chaudron égyptien

Ex: http://www.dedefensa.org

On peut d’abord se référer à deux textes publiés sur ce site, le 17 août 2013 et le 19 août 2013. En les rapprochant, voire en les rassemblant, on peut déjà disposer d’indices sérieux pour annoncer le développement que nous allons proposer ici. Il s’agit nécessairement d’une spéculation mais qui nous semble correspondre à de grandes tendances, donc présentant une cohérence qui justifie de la développer. Même si cette spéculation concerne essentiellement la communication, elle a toute son importance, à la mesure de l'importance du système de la communication dans l'évolution des situations.

• D’un côté, il y a le constat jusqu’ici en constant renforcement d’une considérable inconsistance de la politique égyptienne (et moyenne-orientale) des USA. On peut même parler, à ce stade, d’une dissolution passive de cette politique, et par conséquent d'une érosion accélérée de l’influence US avec la mise en question des liens de coopération entre les USA et l’Égypte. A ce stade, on ne peut rien avancer d’assuré mais on est tout de même conduit à constater que la tendance est déjà affirmée sur la durée, qu’elle correspond à une tendance générale de la politique US, à une situation politique à Washington, voire au caractère d’un homme (Obama), tout cela d’ailleurs s’additionnant. Comme l’on sait (le 17 août 2013), les militaires égyptiens s’en sont avisés, tandis que le sentiment général en Égypte est clairement antiaméricaniste (voir le 7 août 2013). Comme l’on sait également, le grand sujet au cœur de la “politique égyptienne” des USA, c’est l’aide militaire US à l’Égypte et son éventuelle suspension ou suppression, qui gagne de plus en plus de partisans. Daily Beast du 20 août 2013 affirme même que l’administration Obama a “discrètement” décidé de “suspendre” l’aide US à l’Égypte sans pourtant nommer “coup” la prise de pouvoir des militaires (ce qui obligerait légalement à une suppression officielle de cette aide) ; cette affirmation (suspension de l’aide) étant plus ou moins mollement démentie par la Maison-Blanche, qui continue pourtant son exploration sémantique du mot “coup”... (Le constat ici est qu’avec Obama la maxime “pourquoi faire simple quand on peut faire compliqué” est toujours respectée, le processus d’examen et de décision concernant le maintien ou pas de l’aide militaire ressemblant de plus en plus à une farce burlesque filmée au ralenti. L'absence de réalisation de cette perception catastrophique de sa politique par l'administration Obama est un phénomène psychologique remarquable, qui tient de l'autisme pour sa manifestation.)

• Devant cette incertitude de la position US, avec la perte d’influence considérable que cela entraîne, des rumeurs se sont développées à partir de la visite impromptue de Sultan Bandar, le chef du renseignement saoudien à la carrière mouvementée, à Moscou, le 31 juillet, avec 4 heures d’entretien avec Poutine à la clef. On a signalé, en nous attachant à la question des armements (voir le 19 août 2013), quelques-unes de ces rumeurs, affirmations semi-officielles et démentis qui le sont également ; et l'on a observé combien cette idée d’une certaine dynamique de consultation entre l’Arabie et la Russie, et encore plus à propos de l’Egypte que de la Syrie, avait la vie dure. La citation venue de Egyptian Independent ou/et (?) de DEBKAFiles sur le sujet d’une réunion convoquée par Poutine qui aurait eu lieu le 15 ou le 16 août à Moscou, est reprise dans nombre de textes («Putin had called an extraordinary session in the Kremlin to put “all Russian military facilities ‘at the Egyptian military's disposal.’” The report, which cited several sources without providing any further details about them, also said that “Putin will discuss Russian arrangements for joint-military exercises with the Egyptian army.”»)

• Justement, le site DEBKAFiles, qui alterne le pire et le meilleur, des narrative de circonstance à certaines indications intéressantes, a montré depuis des mois une constance réelle et bien documentée dans l’appréciation qualitative de la politique russe au Moyen-Orient, en Syrie certes mais aussi, depuis quelques temps, vis-à-vis de l’Égypte et là aussi en connexion avec l’Arabie. Dans une récente nouvelle, le 19 août 2013, DEBKAFiles explique la position d’Israël, favorable certainement aux militaires égyptiens mais dans une mesure très contrainte qui n’engage en rien l’avenir, avec une coopération strictement limitée à la lutte antiterroriste dans le Sinaï. («On Saturday, Aug. 17, El-Sisi remarked “This is no time to attack the US and Israel, because our first priority is to disband the Muslim Brotherhood.” Jerusalem found this remark alarming rather than comforting, noting that he made no promises about the future.») DEBKAFiles explique que la campagne en cours pour inciter le bloc BAO à soutenir les militaires selon le thème “les militaires ou l’anarchie” est essentiellement le fait, non d’Israël, mais de l’Arabie et des UAE, à l’instigation de Prince Bandar, et cela accordant une part importante de l’argument à la possibilité d’un tournant pro-russe de l’Égypte si ce soutien ne se manifeste pas... (Et tournant pro-russe de l'Arabie également...)

«Saudi Arabia and the United Arab Emirates – not Israel – are lobbying the West for support of the Egyptian military. Their campaign is orchestrated by Saudi Director of Intelligence Prince Bandar Bin Sultan - not an anonymous senior Israeli official as claimed by the New York Times, DEBKAfile’s Middle East sources report. The prince is wielding the Russian threat (Remember the Red Peril?) as his most potent weapon for pulling Washington and Brussels behind Egypt’s military chief Gen. Abdel-Fattah El-Sisi and away from recriminations for his deadly crackdown on the Muslim Brotherhood.

»The veteran Saudi diplomat’s message is blunt: Failing a radical Western about-turn in favor of the Egyptian military, Cairo will turn to Moscow. In no time, Russian arms and military experts will again be swarming over Egypt, 41 years after they were thrown out by the late president Anwar Sadat in 1972. Implied in Bandar’s message is the availability of Saudi financing for Egyptian arms purchases from Moscow. Therefore, if President Barack Obama yields to pressure and cuts off military aid to post-coup Cairo, America’s strategic partnership with this important Arab nation may go by the board.

»It is not clear to what extent Russian President Vladimir Putin is an active party in the Saudi drive on behalf of the Egyptian military ruler. On July 31, during his four-hour meeting with Prince Bandar, he listened to a Saudi proposition for the two countries to set up an economic-military-diplomatic partnership as payment for Russian backing for Cairo. [...]

»... From Israel’s perspective, the Bandar initiative if it takes off would lead to the undesirable consequence of a Russian military presence in Egypt as well as Syria. This would exacerbate an already fragile - if not perilous situation – closing in on Israel from the south as well as from the north.»

• Parmi d’autres commentaires qui vont dans le même sens, on notera celui de “Spengler”, le célèbre commentateur pseudo-incognito de ATimes.com, le 19 août 2013. “Spengler” ne déteste pas de se citer lui-même et il est attentif à suivre les grandes tendances de la politique générale d’une façon musclée. La situation américaniste ne lui a pas échappé, et sa description de l’extraordinaire “désordre paralysée“, de la formidable “impuissante puissance” du pouvoir américaniste à Washington n’est pas si mal vue. “Spengler” en déduit qu’il faut bien que d’autres prennent en charge ce que les USA ne sont plus capable d’assumer en aucun cas, – et, à son tour, il corrobore la connexion Russie-Arabie.

«Other regional and world powers will do their best to contain the mess. Russia and Saudi Arabia might be the unlikeliest of partners, but they have a profound common interest in containing jihadist radicalism in general and the Muslim Brotherhood in particular. Both countries backed Egypt's military unequivocally. Russia Today reported August 7 that “Saudi Arabia has reportedly offered to buy arms worth up to $15 billion from Russia, and provided a raft of economic and political concessions to the Kremlin - all in a bid to weaken Moscow's endorsement of Syrian President Bashar Assad.”

»No such thing will happen, to be sure. But the Russians and Saudis probably will collaborate to prune the Syrian opposition of fanatics who threaten the Saudi regime as well as Russian security interests in the Caucasus. Chechnyan fighters - along with jihadists from around the world - are active in Syria, which has become a petrie dish for Islamic radicalism on par with Afghanistan during the 1970s...»

Plus loin, “Spengler”, qui met également en scène la Chine pour nous proposer la vision surréaliste d’une alliance Moscou-Ryad-Pékin pour policer le Moyen-Orient, développe un raisonnement analytique pour montrer que, contrairement aux analyses ossifiées des experts du bloc BAO, la Russie est en bonne voie de renaissance et représente une puissance en pleine activité et pleine possession de ses moyens. Tout cela va dans le sens du courant général esquissé ici et là pour avancer l’hypothèse d’un changement de responsabilité dans le contrôle des affaires moyennes-orientales, qui pourrait effectivement se réaliser à l’occasion de la crise égyptienne où le bloc BAO se retrouve paralysé dans l’habituel dilemme qui, dans le brouhaha de sa rhétorique interne et de ses débats de communication, le conduit à considérer les deux options d’une politique comme aussi détestables l’une que l’autre. Ainsi les pays du bloc BAO, à l’image du Washington d’Obama, ne parviennent-il pas à se décider entre la condamnation décisive de la répression des Frères au nom de la sauvegarde d’une “démocratie” bien incertaine et le soutien affirmé aux militaires au nom de l’espoir du rétablissement d’un “ordre” bien suspect.

Mais cette paralysie renvoie moins à la difficulté du choix, quelle qu’en soit le justesse, qu’à la déliquescence interne du bloc BAO. Le cas extraordinaire des hypothèses qui sont soulevées dans ces rumeurs et ces diverses appréciations semi-officielles, se trouve dans ceci qu’on est conduit à se trouver obligés de constater que la monarchie archi-pourrie et déliquescente des Saoud s’avère finalement moins paralysée, moins ossifiée en un sens, que les pays du bloc BAO. Quant à la Russie, qu’on puisse envisager sans s’en étonner vraiment qu’elle-même puisse envisager de telles voies d’affirmation nouvelle au Moyen-Orient n’a justement rien pour étonner, puisque la situation égyptienne finit par ressembler pour elle à la situation syrienne : la proclamation des principes, dont ceux de la souveraineté et de la légitimité que les chars du général Sisi semblent avoir verrouillés à leur façon, et la lutte contre l’activisme islamiste en général et sous quelque forme que ce soit qui reste plus que jamais son obsession intérieure alimentée par les événements extérieurs. Simplement, on doit mesurer le chemin parcouru entre aujourd’hui et, disons, il y a trois ans d’ici, si l’on avait évoqué la possibilité d’un renouveau d’une influence majeure de la Russie en Égypte. (Ce chemin parcouru, cette situation nouvelle, justifient également les craintes israéliennes, appréhendant de voir un Sisi, à la tête d’un pays surchauffé, avec la “tutelle” US en déliquescence et dans les tendances nouvelles qui se manifestent, plus tenté de suivre dans sa politique régionale la voie nassérienne que celle de Moubarak pour verrouiller un rassemblement populaire qui rencontrerait un sentiment général.)

Finalement, la seule certitude que nous apporte cet ensemble de rumeurs et de suggestions semi-officielles sur une connexion de facto entre Russie et Arabie, c’est l’état absolument délabré de l’architecture du Moyen-Orient telle qu’elle fut élaborée depuis la fin de la Deuxième Guerre mondiale à l’avantage du bloc BAO. Le chaudron égyptien est moins le résultat de multiples manigances et manipulations que l’expression de cette décrépitude extraordinaire ; ainsi ne peut-on être surpris en aucune façon que cette situation égyptienne soit l’objet, dans tous les cas dans le champ de la communication, de manœuvres si nouvelles dans la composition de ceux qui les conduiraient éventuellement, pour tenter une recomposition de cette architecture. Quant au bloc BAO, finalement, tout s’explique dans le chef de sa paralysie, outre son état chronique qu'on observe : il se trouve plongé si profondément dans un débat sur l’état de lui-même, avec la crise Snowden/NSA, qu’il n’est pas loin d’être, d’une autre façon certes, dans une situation de confusion proche de la situation égyptienne. D’une certaine façon, il en est l’équivalent, encore une fois à sa manière, par rapport à la “décrépitude extraordinaire” de sa propre architecture.

lundi, 26 août 2013

Windows 8 kwetsbaar voor NSA-spionage

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Duitse overheid: Windows 8 kwetsbaar voor NSA-spionage

Cryptoloog en veiligheidsexpert vergelijkt Windows 8 met elektronische enkelband - 'Dit is het einde van de persoonlijke computer en smartphone'

De Duitse overheid waarschuwt dat het nieuwe besturingssysteem van Microsoft, Windows 8, kwetsbaar is voor spionage door de Amerikaanse NSA. Volgens IT-experts is Windows 8 uitgerust met de zogenaamde Trusted Computing technologie, waarmee Microsoft - en daardoor ook de NSA, die tenslotte nauw met de softwaregigant samenwerkt - de controle kan krijgen over zowel de hardware als de software van een PC of laptop. Ook kan gecontroleerd worden of de geïnstalleerde software wel legaal is.

Windows 8 is tot nu toe geen groot succes. Veel computergebruikers ervaren het 'tegeltjesscherm' als onhandig en lelijk, en vinden het ontbreken van de kenmerkende startknop met bijbehorend menu maar niets. Microsoft hoopt dat de aanstaande update naar Windows 8.1 de grootste bezwaren van gebruikers wegneemt.

'Gevaarlijke veiligheidslekken'

IT-experts van de Duitse overheid zeggen nu dat Windows 8 aanzienlijke veiligheidslekken heeft en kenmerken deze zelfs als 'gevaarlijk'. 'Door het verlies van de volle soevereiniteit over de informatietechniek zijn de veiligheidsdoelstellingen 'vertrouwelijkheid' en 'integriteit' niet meer gegarandeerd,' concluderen de experts. Om deze reden noemen ze het gebruik van de 'Trusted-Computing' technologie voor de overheid en gebruikers van kritieke infrastructuur 'onacceptabel'.

'Elektronische enkelband'

Op veel PC's en laptops wordt Windows 8 voorgeïnstalleerd. Volgens cryptoloog en veiligheidsonderzoeker Rüdiger Weis verliezen gebruikers door Windows 8 en een geïntegreerde 'bespieder'chip genaamd Trusted Computing Module (TPM)- met name in de veilige opstartmodus- 'de controle over hun eigen hardware en software.'

'Het doet op onaangename wijze denken aan een elektronische enkelband. Zo kan bijvoorbeeld via internet worden gecontroleerd of er op de PC enkel legale software draait. Dit is het einde van de persoonlijke computer en smartphone. Het klinkt als een droom voor oncontroleerbaar geworden geheime diensten en onderdrukkende staten...'

'Droomchip voor NSA'

Vooral het feit dat de geheime sleutel na afloop van het fabricageproces van de chip wordt ingebracht ligt gevoelig, aangezien het op deze wijze eenvoudig is een kopie van alle sleutels te maken. Hiermee is de TPM een ware 'droomchip' voor de NSA en andere veiligheidsdiensten. Volgens Weis is ook het andere scenario, namelijk dat de TPM niet door de NSA maar door de Chinese overheid misbruikt kan worden, niet bepaald geruststellend.

Ook binnenlands internetverkeer kwetsbaar

Uit nieuwe informatie en gesprekken blijkt dat de NSA zeker 75% van al het internetverkeer in de VS kan afluisteren en registreren. Dit kan ook voor Europa en Nederland van belang zijn, want sommige binnenlandse internetcommunicatie verloopt bijvoorbeeld om financiële redenen via het buitenland - een feit dat ook de Duitse overheid heeft toegegeven. Juist daar kunnen geheime diensten, onafhankelijk van de nationale wetten van het land waar de communicatie plaatsvindt, toeslaan. (1)


Xander

(1) Deutsche Wirtschafts Nachrichten

 

Isolationnisme par dissolution, au soleil de la NSA

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Isolationnisme par dissolution, au soleil de la NSA

Ex: http://www.dedefensa.org

Il n’y a rien que l’establishment américaniste ne craigne et ne dénonce plus que l’isolationnisme. Les administrations successives depuis la fin de la guerre froide ont diabolisé avec véhémence cette tendance alors qu’une politique hyper-interventionniste s’est développée, comme on le sait, et particulièrement depuis l’attaque du 11 septembre 2001. Le poaradoxe de cette évolution par rapport aux craintes d’isolationnisme est que cette politique hyper-interventionniste ajoutée aux diverses crises en cours aux USA ont conduit à la pire des crises, qui est la paralysie du pouvoir, et à une situation qui commence à ressembler à une sorte d’“isolationnisme” par défaut. La crise égyptienne a mis cette situation en évidence, aussi bien par la confusion de la politique US qui se complaît dans une absence complète de décision entraînant une perte à mesure d’influence, voire même de présence dans cette crise majeure du Moyen-Orient (voir le 21 août 2013).

Cette crise du pouvoir à Washington se ressent même dans les groupes de pression les plus actifs, et notamment chez les fameux neocons. On retrouve chez eux, mais d’une façon aggravée et dans l’occurrence beaucoup plus importante de la crise égyptienne, la division qu’on avait observée lors de la crise libyenne (voir notamment le 29 mars 2011). Cette fois, ce sont deux dirigeants ou inspirateurs majeurs du mouvement qui s’opposent sur la question égyptienne, avec la fracture que cela entraîne à la fois dans le mouvement et pour son influence : William Kristol et Robert Kagan. Jim Lobe a publié un nouvelle à ce propos le 20 août 2013.

«... Bill Kristol, in a Sunday appearance on ABC’s “This Week With George Stephanopolous”, crystallized (shall we say) the internal split among neoconservatives over how to react to the military coup and subsequent repression against the Muslim Brotherhood in Egypt. Breaking with his fellow-neoconservative princeling, Robert Kagan (with whom he co-founded the Project for the New American Century (PNAC) and its successor, the Foreign Policy Initiative (FPI), Kristol came out against cutting military aid to Egypt... [...]

»It’s a remarkable moment when the two arguably most influential neocons of their generation disagree so clearly about something as fundamental to US Middle East policy, Israel and democracy promotion. They not only co-founded PNAC and the FPI; in 1996, they also co-authored “Toward a Neo-Reaganite Foreign Policy” in Foreign Affairs, which among other things, advocated “benevolent global hegemony” as the role that Washington should play in the post-Cold War era. But they now appear to have a fundamental disagreement about how that benevolence should be exercised in a strategically significant nation which is also important to Israel’s security.

»Of course, this disagreement highlights once again the fact that democracy promotion is not a core principle of neoconservatism. It also suggests that the movement itself is becoming increasingly incoherent from an ideological point of view. Granted, Kagan considers himself a strategic thinker on the order of a Kissinger or Brzezinski, while Kristol is much more caught up in day-to-day Republican politics and consistently appears to align his views on the Middle East with those of the Republican Jewish Coalition and the Likud-led Israeli Government. But what is especially interesting at this moment is the fact that Sens. John McCain and Lindsay Graham — both leaders of what could be called the neoconservative faction of the Republican Party — are moving into Kagan’s camp.»

Cette division dans le groupe le plus actif et le plus extrémiste pour soutenir l’interventionnisme extérieur conforte la thèse d’un “isolationnisme par défaut” en réduisant d’autant les pressions sur l’administration Obama, justement parce que les neocons ne savent plus que recommander comme type d’action du fait de leur division, eux-mêmes victimes de la même paralysie que celle qui touche l’administration Obama. La situation n’est pas meilleure dans le parti républicain, force habituelle poussant à l’hyper-interventionnisme mais elle aussi divisée ou incertaine sur la politique à suivre. On a déjà souligné le paradoxe d’un McCain, qui, après avoir hésité, s’est prononcé pour la suppression de l’aide de à l’Égypte, se retrouvant ainsi sur la même ligne que son ennemi juré Rand Paul, qui s’affiche clairement de tendance neo-isolationniste et veut la fin de l’aide à l’Égypte selon cette logique. McCain est dans un état proche de la sénilité et il est plus que jamais l’inspirateur de la politique extérieure prônée par le parti républicain. Les quelques appréciations concernant l’état du pouvoir washingtonien de “Spengler”, de ATimes.com, déjà cité le même 21 août 2013, valent d’être reproduites ; elles sont très incisives et très justes à la fois... (Notamment cette très juste remarque que la catastrophique politique égyptienne des USA n’est pas le résultat de l’aveuglement mais de l’impuissance du pouvoir ; notamment cette très juste conclusion que le parti républicain est terrorisé par les néo-isolationnistes type-Rand Paul alors que, finalement, McCain se retrouve sur la même ligne que Rand Paul...)

«America's whimsical attitude towards Egypt is not a blunder but rather a catastrophic institutional failure. President Obama has surrounded himself with a camarilla, with Susan Rice as National Security Advisor, flanked by Valerie Jarrett, the Iranian-born public housing millionaire. Compared to Obama's team, Zbigniew Brzezinski was an intellectual colossus at Jimmy Carter's NSC. These are amateurs, and it is anyone's guess what they will do from one day to the next.

»By default, Republican policy is defined by Senator John McCain, whom the head of Egypt's ruling National Salvation Party dismissed as a “senile old man” after the senator's last visit to Cairo. [...] It doesn't matter what the Republican experts think. Few elected Republicans will challenge McCain, because the voters are sick of hearing about Egypt and don't trust Republicans after the debacles in Iraq and Afghanistan.

»Neither party has an institutional capacity for intelligent deliberation about American interests. Among the veterans of the Reagan and Bush administrations, there are many who understand clearly what is afoot in the world, but the Republican Party is incapable of acting on their advice. That is why the institutional failure is so profound. Republican legislators live in terror of a primary challenge from isolationists like Senator Rand Paul (R-KY), and will defer to the Quixotesque McCain.»

Cette situation est l’objet de critiques à l’intérieur même des bureaucraties de sécurité nationale, notamment du département d’État, notamment de fonctionnaires marquées par leur engagement interventionniste mais aussi par leur position pro-israélienne. C’est ce que détaille un article de Gayle Tzemach Lemmon, senior fellow au Council Foreign Relations, et donc marquant une position approuvée par le puissant CFR. (L’article, sur DefenseOne.com, le 21 août 2013.) Curieusement, l’article ne vaut guère que par l’idée qu’il exprime dans son titre, qui est celle de l’isolationnisme («Whispers in the Ranks that Iraq Has Turned Obama Isolationist to a Fault»). L'analyse, qui porte sur la Syrie, développe des arguments oiseux dans la mesure où les critiques, comme l’ultra-pro-israélien Dennis Ross, voire comme le CFR lui-même, ont eu la même attitude erratique sur la Syrie que celle qu'ils dénoncent dans la politique de l’administration Obama ; la politique de “prudence” US en Syrie est beaucoup plus défendable, du point de vue du système de l’américanisme, que la confusion extraordinaire de Washington dans la crise égyptienne, cette dernière crises avec des enjeux bien plus décisifs pour les USA. La référence à l’Irak (et l’Afghanistan) est également oiseuse («In a recent interview with National Public Radio, a Syrian rebel commander, formerly a Syrian Army colonel, said what many in Washington have whispered: It is “our bad luck” that Syria “has come after Afghanistan and after Iraq.”»). L’Irak (et l’Afghanistan) ne sont pas une cause de l’actuelle paralysie, mais une étape dans la dégradation du pouvoir menant à l’actuelle situation catastrophique du pouvoir washingtonien. Le résultat tel qu’il est présenté est aussi bien catastrophique : cet “isolationnisme par défaut”, qui est certainement une perspective proche de la réalité, n’a aucune des vertus de l’isolationnisme puisqu’il se fait alors que l’“Empire” est engagé partout, désormais sans effets bénéfiques, et qu’il perd son sang (son fric, ses budgets pentagonesques, etc.) dans cet étalage de puissance impuissante...

Cela (“l’actuelle situation catastrophique du pouvoir washingtonien”) étant fixé, nous passons à ce qui semblerait être un tout autre domaine ; pourtant, qui figure dans notre volonté de l'intégrer dans notre analyse comme un prolongement du précédent, et qui pourrait et même devrait être considéré en fait comme une cause fondamentale de l’accélération du précédent. Il s’agit de la grande autre crise de l’été, la crise Snowden/NSA. Un article de Dan Roberts, dans le Guardian de ce 22 août 2013, développe un sentiment profond d’amertume du fait de l’absence de débat, sinon même d’information à la lumière de l’“incident d’Heathrow” (le cas David Miranda, voir le 20 août 2013), de la part de la presse britannique, dans cette crise Snowden/NSA qui est aussi une “crise GCHQ” (“partner” à temps complet et britannique de la NSA) impliquant le Royaume-Uni. Dan Roberts a son explication, qui concerne la différence de mentalité et de goût du débat politique entre les USA, – dont la vertu démocratique reste ainsi sauvegardée, – et le Royaume-Uni. Voici quelques citations de l’article de Roberts, qui relève par ailleurs la stricte vérité quant à l’étonnante faiblesse, sinon quasi-absence, de réactions de la presse britannique essentiellement à l’incident qui est survenu au Guardian de devoir détruire des disques durs du fonds Snowden sous la pression des autorités, – cette violation de la liberté de la presse qui aurait dû conduire à une réaction de solidarité...

«From the moment the first story revealing sweeping surveillance of domestic phone records by the National Security Agency appeared in early June, the Guardian ignited a storm of public and political debate in the US that has been noticeably absent in the UK response to similar revelations about GCHQ spying. Within hours, former vice-president Al Gore declared this "secret blanket surveillance [was] obscenely outrageous", setting the tone for weeks of mounting criticism from both left and right and a series of follow-up investigations that have forced the administration to consider major reforms. [...]

»As saturation media coverage across US television networks, newspapers and websites dominated the news agenda through June and July, the White House was forced to modify its defence of the programmes and Congress prepared to act. On 24 July, more than 200 Congressmen voted in favour of legislation to ban the bulk collection of US telephone records, a narrowly-defeated bill that shocked defenders of the NSA and united libertarians on the right with liberals on the left. Michigan Republican Justin Amash, said he introduced his amendment to the annual Defence Department appropriations bill to "defend the fourth amendment, to defend the privacy of each and every American". A further 11 legislative attempts at reform and improved oversight are expected to dominate Capitol Hill when lawmakers return in September, with some sort of united response seen as inevitable. [...]

»[...I]n contrast to US politicians and officials, there has been very little official acknowledgement that there is a public interest in holding a debate, and much less any sign that something might need to change as a result. Instead home secretary Theresa May has sought to justify the use of draconian laws to detain David Miranda for assisting Guardian journalists in reporting the story by claiming he was carrying “stolen information that could help terrorists”. Former foreign secretary Malcolm Rifkind made similar claims that the Guardian had been “helping terrorists” when defending a decision to force the newspaper to destroy certain computers containing Snowden's leaks. The decision was backed by a former civil libertarian deputy prime minister Nick Clegg. [...]

»A so-called D notice was even issued by authorities in London to deter reporting of the original leaks on Fleet Street — something hard to imagine in a US media and political community that has been consumed by the story for three months. In Germany, there was initially more reporting of Miranda's detention at Heathrow and news of Guardian computers being destroyed than where they happened in London. On Tuesday morning it made the lead story on Spiegel, Zeit, Sueddeutsche, Frankfurter Allgemeine websites before anything had appeared on the Telegraph, Times, Mail or BBC websites. A columnist for Speigel suggested it caused less soul-searching at home than in the US or Germany because “Britons blindly and uncritically trust their secret service”»

En dépit de l’apparente différence de champ de réflexion et d’action entre ces deux événements, la politique US dans la crise égyptienne et la crise Snowden/NSA – l’“isolationnisme par défaut” de Washington et l’activisme échevelé autour de la question de la NSA respectivement, – nous allons au contraire établir un lien direct entre les deux événements. Certes, nous suggérions déjà cette idée dans notre texte du 21 août 2013 : «Quant au bloc BAO, finalement, tout s’explique dans le chef de sa paralysie, outre son état chronique qu'on observe : il se trouve plongé si profondément dans un débat sur l’état de lui-même, avec la crise Snowden/NSA, qu’il n’est pas loin d’être, d’une autre façon certes, dans une situation de confusion proche de la situation égyptienne. D’une certaine façon, il en est l’équivalent, encore une fois à sa manière, par rapport à la “décrépitude extraordinaire” de sa propre architecture.» (Et, certes, nous maintenons le cas du bloc BAO, et non pas seulement des USA comme l’article du Guardian le suggère : l’effet de la crise Snowden/USA sur la psychologie américaniste, et la crise qu’enfante cet effet, se répandent nécessairement à tout le bloc BAO ; quant à la “décrépitude extraordinaire”, on admet sans trop de difficultés que c’est celle du bloc dans son ensemble.)

Les spectres épuisent la psychologie

Bien entendu, en bon anglo-saxon qui n’oublie jamais ses dévotions à l’American Dream version-Fleet Street, Dan Roberts attribue in fine le débat extraordinaire que la crise Snowden/NSA a provoqué et ne cesse d’alimenter aux USA à la vertu propre à ce même American Dream : démocratie, transparence, Premier Amendement de la Constitution, We, The People et ainsi de suite. Cela, bien entendu, par contraste avec les aspects quasi-médiévaux dans l’obscurantisme de l’establishment britannique, qui ne peut être fustigé par les Anglo-Saxons que lorsqu’il permet de valoriser d’autant l’American Dream. L’air est connu, la chanson aussi.

Ce n’est pas du tout notre appréciation, même si nous acceptons l’idée que cette supposée “vertu” de l’American Dream a son utilité, mais comme moyen et comme outil de circonstance offerts par le conformisme américaniste, nullement comme fin. Le fond du débat extraordinaire qu’a ouvert la crise Snowden/NSA, c’est la réalisation extrêmement concrète, extrêmement réaliste, de ce qu’est exactement la NSA (et, plus, par extension, on le verra plus loin en retrouvant la crise égyptienne). Nous avons souvent épilogué là-dessus et ne manquons jamais d’y revenir, en faisant de la NSA (et du reste) cette entité qui n’est pas loin d’être une égrégore, qui est hors de tout contrôle humain, et dont on découvre qu’elle est sur une pente à la fois catastrophique et eschatologique qui met en cause le Système lui-même, ou bien qui fait douter inconsciemment du Système lui-même. Cette prise de conscience, c’est l’important, touche d’abord l’establishment lui-même, cet outil du Système, comme on le voit par la vigueur du débat qui est le fait de cet establishment et nullement du public, de la question des 99% contre les 1% à l’occurrence du vote de la Chambre. L’idée de cette dangerosité ultime de l’évolution de ce qui est le produit du Système (la NSA et le reste), de sa perversité qui le fait évoluer entre surpuissance et autodestruction hors de tout contrôle possible, se répand et est exprimée sans ambages. On peut le lire, par exemple, dans le chef de Simon Jenkins qui, s’il a une plume parfois alerte et audacieuse, n’en est pas moins un commentateur-Système au sein de la presse-Système. (Le 21 août 2013, dans le Guardian.)

«Last week in Washington, Congressional investigators discovered that the America's foreign intelligence surveillance court, a body set up specifically to oversee the NSA, had itself been defied by the agency “thousands of times”. It was victim to "a culture of misinformation" as orders to destroy intercepts, emails and files were simply disregarded; an intelligence community that seems neither intelligent nor a community commanding a global empire that could suborn the world's largest corporations, draw up targets for drone assassination, blackmail US Muslims into becoming spies and haul passengers off planes.

»Yet like all empires, this one has bred its own antibodies. The American (or Anglo-American?) surveillance industry has grown so big by exploiting laws to combat terrorism that it is as impossible to manage internally as it is to control externally. It cannot sustain its own security. Some two million people were reported to have had access to the WikiLeaks material disseminated by Bradley Manning from his Baghdad cell. Snowden himself was a mere employee of a subcontractor to the NSA, yet had full access to its data. The thousands, millions, billions of messages now being devoured daily by US data storage centres may be beyond the dreams of Space Odyssey's HAL 9000...»

Notre appréciation et notre hypothèse sont que la puissance du débat est telle aux USA, et le bouleversement qu’il implique par conséquent, que l'un et l'autre affectent profondément les psychologies et donnent ainsi aux jugements une aire nouvelle où se former. (Cette sorte de démarche privilégiant l'importance de la psychologie n’est certes pas conforme aux capacités planificatrices et rationnelles que certains prêtent au Système, mais elle permet d’éviter le piège de la naïveté de croire que cet artefact de surpuissance puisse accorder quelque attention que ce soit aux vertus subtiles de la raison et de l’organisation théorique des événements.) Dans cette circonstance, le cas de la NSA n’est plus exceptionnel, il devient exemplaire. Il devient le cas beaucoup plus général de la communauté de sécurité nationale ou de la communauté sécuritaire, du complexe militaro-industriel, du National Security State ou du Global Surveillance/Security System, c’est-à-dire de tout ce qui fait la substance même à la fois du Système, du système de l’américanisme, et de tout ce qui en découle. Le débat met en avant des spectres aussi terrifiants que celui de la destruction de la NSA, avec des effets irréparables sur le complexe-militaro-industriel, ou bien au contraire, et ceci et cela dans une même appréhension, dans un même jugement, le spectre de la destruction du système de l’américanisme par le Système, ou de la destruction des deux par les monstres qu’ils ont enfantés.

Tout cela, perçu par une psychologie déjà épuisée par une continuité crisique sans précédent, de thème en thème avec aucun qui ne soit résolu, au moins depuis 2008, et notamment avec la crise centrale du pouvoir washingtonien, tout cela qui fait craindre désormais une issue fatale épuise encore plus cette psychologie déjà épuisée. L’effet se fait alors sentir sur les politiques, et notamment, pour ce qui nous intéresse, sur la politique égyptienne des USA (du bloc BAO), qui représente si parfaitement la complexités, les contradictions, la production systématique d’effets antagonistes, de tout ce qui a été conduit depuis des années dans cette région, alors que l’enjeu égyptien est d’une si considérable importance d’un point de vue US (bien plus que l‘enjeu syrien, répétons-le). Le désordre engendré par la politique qui se prétendait maîtresse du désordre qu’elle provoquait et continue à provoquer, jusqu’à affirmer qu’il s’agissait d’une stratégie dissimulée pleine de génie (“le désordre créateur”), finit par toucher la substance de la politique elle-même et la psychologie de ceux qui osent à peine prétendre encore la conduire, – le désordre paralysant de la politique, et l’épuisement de la psychologie par le désordre paralysant de la politique. On comprend que la crise Snowden/NSA telle qu’on l’a décrite vienne là-dessus comme le coup de grâce.

Cette perception d’une psychologie épuisée face à des événements qu’on ne comprend plus, face aux outils de la surpuissance qu’on ne contrôle plus et qui semblent vivre de leur propre vie en menaçant de devenir autodestruction pure, cette perception conduit directement à la paralysie des volontés, à l’atonie des décisions. Le substitut se trouve dans le discours verbeux d’un vieillard en visite au Caire ou dans l’enquête sans fin menée autour du concept de “coup”, dans une réflexion du type “to be or not to be a coup”. L’attitude d’un Obama, celle d’un McCain, le désarroi des neocons, le désordre complet des classements selon les circonstances (McCain au côté d’un Rand Paul, en néo-isolationniste de circonstance !), conduisent à des extensions de non-politiques paralysées productrices de situations qui ne peuvent être décrites que comme des anathèmes pour le Système, – l’isolationnisme par défaut, dans ce cas... Désormais, tout est dans tout et inversement comme diraient les Dupond-Dupont (bonne orthographe), ce qui facilite l’évaluation de la situation ; aucune crise n’échappe aux effets de chaque autre crise, et ainsi s’avance majestueusement la structuration décisive de la crise d’effondrement du Système.

 

EUROPA Y ESTADOS UNIDOS UNA ENEMISTAD CRECIENTE

Enrique RAVELLO:
 
EUROPA Y ESTADOS UNIDOS UNA ENEMISTAD CRECIENTE
 
Ex: http://enricravello.blogspot.com/
 
 
El escándalo del espionaje de la inteligencia norteamericana a los países europeos considerados como “aliados”, ha sacado a la luz una realidad incómoda para el pensamiento oficial, pero que ya no puede ser ocultada por más tiempo: el conflicto creciente entre los Estados Unidos y Europa occidental.
El fin de la Segunda Guerra Mundial, la situación desoladora en la que quedó Europa y la acción del Plan Marshall, una ayuda económica norteamericana para activar la economía de Europa occidental, en gran parte destruida por sus brutales bombardeos durante el conflicto bélico, pusieron  a los países de nuestro continente bajo el paraguas de Estados Unidos.  Un paraguas que se presentaba como el “protector” de nuestra seguridad y nuestra economía, argumento tan absurdo como era pretender que el comunismo soviético era el “protector” y el garante económico de la otra media Europa que vivía bajo su yugo, rusos incluidos.
 
La caída del Muro, el fin del comunismo y la creación de un espacio económico europeo más amplio –que incluía ahora a toda la Europa central y del este- provoco un progresivo alejamiento entre Europa y los  Estados Unidos, cuyos intereses son cada vez más opuestos hasta llegar a lo antagónico.

Económicamente: la creación de un mercado interior europeo significó que la UE se convirtiera en la primera potencia económica mundial. El euro se convertía en la moneda de pago en las grandes transacciones internacionales de compra de petróleo, lo que fue otro de los motivos de la guerra  de Irak.  Estas circunstancias hicieron que Estados Unidos pasasen a considerar de sumiso aliado al rival económico y comercial más peligroso,  inquietándose por  la fuerza de del euro y su papel de moneda franca internacional. El euro tendrá sus defectos, pero entre sus virtudes está la de ser una moneda capaz de hacer frente a la hegemonía de la divisa americana por encima del yen y del chuan; de ahí que sea lógico pensar en el apoyo de EEUU a cualquier acción en contra de la moneda comunitaria.
 
Demográficamente: Decía Guillaume Faye “Desde hace tiempo la estrategia americana ha sido la de evacuar a los europeos de Asia y África para ocupar su lugar y la de animar la creación de un caledoscopio étnico afro-asiático en Europa (…). La Colonización demográfica de Europa por parte del Tercer Mundo sirve a los intereses económicos americanos”. Esta ha sido la realidad del último medio siglo mientras que los Estados Unidos favorecían la “descolonización” europea del Tercer Mundo para transformarla  en su “neocolonialismo multinacional y financiero”, Washington ha promovido con todos sus resortes la llegada masiva de poblaciones del tercer mundo a Europa con el fin de colapsar nuestras economías y nuestros estados sociales del bienestar.
 
Militarmente: La OTAN fue creada con el pretexto de defender a Europa occidental de un posible ataque del Pacto de Varsovia (la alianza militar del Bloque del Este). Llama la atención que una vez disuelto el Pacto de Varsovia, la OTAN sigua existiendo, lo que nos permite deducir que ése no era su real propósito. Pura lógica.  En realidad se trata pura y simplemente del ejército de ocupación de Estados Unidos, al que obedecen sumisamente los gobiernos europeos atlantistas. Es una cuestión primaria darse cuenta de que mientras Estados Unidos tenga desplegadas sus tripas en Europa, ésta será su colonia militar y por lo tanto política. Hay que recordar a dos político europeos, dignos de tal nombre y con visión continental de futuro, Helmut Kolh y François Mitterrand, ambos coincidieron al frente de sus respectivos estados, fue entonces cuando Francia y Alemania escenificaron su definitiva reconciliación –tan vital para todos los europeos-y cuando se creó el Eurocuerpo, embrión de un futuro ejército europeo, que nadie –después de ellos dos- se ha atrevido a impulsar.
 
Geopolíticamente: En su estrategia de alianzas con el islamismo wahabita de obediencia saudí y qatarí, Estados Unidos ha apoyado y financiado todas las operaciones bélicas del mundo islámico contra Europa y su estabilidad. Así Washington apoyó al integrismo checheno y potenció la creación de un cinturón islamista contra Moscú en la zona del Cáucaso central. Apoya a Marruecos, del que es aliado preferencia en la frontera sur de Europa con sus constantes amenazas hacia las ciudades españolas de Ceuta y Melilla. Y fueron ellos los posibilitaron la creación  de dos Estados musulmanes en los Balcanes: Bosnia y el narco-estado de Kovoso.
 
Del mismo modo es la inteligencia y la diplomacia americana la que  apoya la idea de la integración de Turquía - tradicional aliado de Washington- en la Unión Europea.
Los intereses de Estados Unidos en Oriente Medio y Norte de África en materia energética: gaseoducto Nabucco frente a South Stream, primacía del petróleo saudí  y qatarí sobre el de otros orígenes; y políticos: sumisa defensa a ultranza de los intereses del Estado de Israel, no coinciden con los europeos que deben buscar también en estas cuestiones una sinergia con Rusia y con países petrolíferos ajenos a las monarquías wahabitas del Golfo y abogar por una situación de equilibrio y pacificación que dé una salida estable y justa al conflicto palestino-israelí.
 
Culturalmente: la “americanización” de la cultura europea, es decir la asunción de una cultura mundialista de matriz americano-californiana, es a la vez un proceso de desculturización europea y una ausencia de resistencia por nuestra parte a la defensa de los valores propios. Los pueblos europeos deben apelar a la auto-afirmación cultural, a la recuperación de nuestros rasgos identitarios, y a hacer frente a los que nos vienen impuestos por los medios de comunicación americanoformos y culturalmente alienantes.
En definitiva, Europa está cada vez más lejos de Estados Unidos, mientras que se inician los esfuerzos para sincronizar la Europa occidental, fundamentada en el eje París-Berlín, con la Europa oriental que hoy tiene como capitales Belgrado, y por supuesto Moscú. Esta alianza, que no es sólo estratégica sino que también es de civilización, es el mayor temor de los Estados Unidos, que vería peligrar sus delirios de dominio universal conocido como Nuevo Orden Mundial.  Como dijo Mihail Gorbachov cuando habló de una alianza entre la Europa peninsular y Rusia, se trata de “construir nuestra Casa Común”, desde  Galway a Vladivostok.
 
Enric Ravello
Secretario de relaciones nacionales e internacionales de Plataforma per Catalunya (PxC)

 

dimanche, 25 août 2013

Inde : économie et société

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Gilbert ETIENNE:

Inde : économie et société

Ex: http://aucoeurdunationalisme.blogspot.com

Gilbert Etienne est Professeur honoraire d’économie du développement à l’IHEID Genève. Auteur de nombreux livres sur l’Afghanistan, l’Asie du Sud, la Chine et de diverses publications sur l’Afrique subsaharienne, ex. Repenser le Développement, Messages d’Asie (Afghanistan, Pakistan, Inde, Chine), Paris, A. Colin, 2009

L’année financière (avril de l’année « n » à mars de l’année« n+1 ») 2010-2011 s’est terminée en beauté : le PIB indien a crû de 8,6 %, après un creux suscité par la crise mondiale. Le commerce extérieur se porte bien, les firmes indiennes investissent de plus en plus à l’étranger et la société de consommation s’affirme. Les « Grands » de la planète se succèdent à New Delhi : les présidents Obama et Sarkozy, les premiers ministres David Cameron et Wen Jiabo. Que l’Inde soit bel et bien un pays émergent est évident, mais Amartya Sen et d’autres Indiens rappellent que subsistent de larges pans d’extrême pauvreté dans le pays. L’agriculture, qui occupe encore environ 50 % de la population active, progresse trop faiblement. Les infrastructures (transports, électricité) sont encore très défaillantes, suscitant de lourds surcoûts pour l’économie. Depuis l’automne 2010, plusieurs scandales de corruption ont ébranlé le gouvernement central, créant un climat de suspicion et le ralentissement des prises de décision.

L’économie indienne a le vent en poupe

INTRODUITES à partir de 1980, les réformes se sont très largement amplifiées en 1991 en Inde, grâce à Manmohan Singh, alors Ministre des Finances. Le PIB a enregistré des progressions annuelles de 5 % puis 7 %, voire 8 à 9 %, contre une hausse annuelle moyenne de 3,5 % entre 1950 et 1980. Ouverture, libéralisation, allégements de la bureaucratie, dévaluation de la roupie ont créé un mouvement irréversible. Les gouvernements opposés au Parti du Congrès, qui lui succèderont au pouvoir de 1996 à 2004, ont globalement suivi la même voie. Avec les élections de 2004, le parti du Congrès a repris le pouvoir, mais à la tête d’une coalition disparate de plusieurs partis, ce qui a freiné la poursuite des réformes. Manmohan Singh, devenu Premier ministre, a de nouveau gagné les élections de 2009, mais il doit toujours gouverner avec une coalition de partis alliés.

De nombreux succès sont apparus sur les dernières décennies : modernisation des usines existantes grâce à de nouveaux équipements, floraison de nouvelles entreprises, en particulier dans les technologies de l’information où l’on trouve autant de PME que de sociétés qui démarrent avec quelques milliers de dollars et deviennent des multinationales. Plusieurs unités du secteur public, entre autres SAIL, gros groupe sidérurgique, et BHEL (équipements électriques) se modernisent et s’agrandissent. Le secteur automobile accueille de nombreuses firmes étrangères en joint ventures. Les ventes de voitures explosent, suivant celles de scooters et de motocyclettes, avec pour corollaire un accroissement des embouteillages. Dans l’électroménager, la production, qui s’est affermie entre 1980 et 1991, poursuit sur sa lancée. L’industrie pharmaceutique enregistre des succès en Inde et à l’étranger. Le tourisme médical apparaît, avec d’excellents médecins opérant dans des hôpitaux très bien équipés. Modernisation et innovations débordent des métropoles vers les villes de province.

La construction urbaine bat son plein, après des décennies au cours desquelles le taux de construction de nouveaux immeubles était l’un des plus bas du monde (moins de la moitié de celui de la Thaïlande, trois fois moins qu’en Chine). Dans les districts avancés de Révolution verte (Cf. Infra), apparaissent les premières voitures privées après les motos. La cuisine au gaz remplace la bouse de vache séchée et les femmes font moudre le blé dans un moulin local, au lieu de passer des heures à moudre le grain dans la meule de pierre. Les taux d’épargne et d’investissement indiens se situent désormais autour de 35 % du PIB, contre 22 % pour le premier en 1991.


Les produits indiens deviennent plus compétitifs sur le marché mondial. La catégorie engineering (machines, acier) représente jusqu’à 22 % des exportations, dont 70 % sont assurées par des produits manufacturés. Les produits agricoles totalisent 8,5 % des exportations, les minerais 4,3 %, les produits pétroliers 17,3 % (une partie du pétrole brut importé est raffiné puis exporté). Au sein des importations, le pétrole vient en tête avec 33 %, en forte hausse car la production indienne stagne depuis 2000 autour de 33 millions de tonnes. Viennent ensuite les biens d’équipement, qui représentent 15 % des importations. Fidèle à ses traditions, l’Inde continue à importer de l’or, tandis que de grosses quantités de diamants sont également importées, taillées sur place et exportées. Légumineuses et huiles comestibles représentent 3,7 % des importations.


Les exportations de services sont stimulées par les technologies de l’information et les activités des firmes indiennes pour les entreprises étrangères. Avec les assurances et les transports, les exportations totales de services sont passées de 16 milliards de dollars en 2000/2001 à 96 milliards aujourd’hui, tandis que les importations passaient sur la même période de 15 à 60 milliards. Le commerce extérieur, qui représentait 15 % du PIB en 1990, atteint 35 % vingt ans plus tard. Les principaux pays clients de l’Inde sont l’Asie, avec 57 milliards de dollars, le Moyen-Orient (40 milliards), l’Union européenne (36 %), les États-Unis (19 %). Les exportations indiennes se sont élevées à 179 milliards de dollars sur l’année fiscale 2009/2010. Du côté des importations, le Moyen-Orient est le principal partenaire de l’Inde, avec 81 milliards de dollars (pétrole). Viennent ensuite l’Union européenne (38 milliards), les États- Unis (19 milliards) et l’Asie (90 milliards). Les importations totales s’élèvent ainsi à 288 milliards de dollars. À noter la faiblesse des échanges francoindiens : la France réalise 4 milliards de dollars d’importations et 4 milliards de dollars d’exportations avec l’Inde. À l’inverse, le commerce extérieur de l’Inde se caractérise par un accroissement des exportations chinoises vers l’Inde (31 milliards de dollars) ainsi que par une progression des échanges de l’Inde avec l’Afrique (dont des importations de pétrole) et avec l’Amérique latine.


Très limités dans les années 1970, les investissements privés étrangers (FDI) atteignent 281 milliards de dollars cumulés de 1980 à 2010. Un net ralentissement est apparu en 2010. Est-il simplement conjoncturel ou lié au climat politique actuel (Cf. Infra). Les investissements de portefeuille ont, quant à eux, chuté sous l’effet de la crise financière en 2008 et 2009, avant de remonter à 35 milliards de dollars en 2010-2011. En sens inverse, les entreprises publiques ou privées indiennes investissent à l’étranger, dans l’industrie et les services dans les pays occidentaux, dans les matières premières - notamment le pétrole - en Afrique. De 2000 à 2010, ces investissements ont atteint 133 milliards de dollars.


La société de consommation s’affirme


Comme la Chine, l’Inde subit les ombres de notre révolution industrielle avec toutes sortes d’abus, corruption, coulage, etc. et, dans le même temps, découvre les prémisses de la société de consommation que nous avons connue en Europe occidentale dans les Trente Glorieuses de l’après 1945 (J. Fourastié).


Il existe néanmoins des différences sensibles. Notre niveau de vie en 1945-1950 était très supérieur à celui de l’Inde aujourd’hui. La croissance démographique, même tombée à + 1,5 % l’an, dépasse de loin notre baby boom. Par ailleurs, le taux de croissance économique de l’Inde aujourd’hui est très supérieur au nôtre à l’époque. Mais il faut noter un manque croissant de cadres supérieurs et d’ouvriers qualifiés dans tous les domaines : aux côtés des Instituts de technologie de haut niveau, les universités n’assurent, dans l’ensemble, qu’un enseignement médiocre, ce qui oblige nombre d’entreprises à organiser leurs propres formations de jeunes cadres.


Le développement de la société de consommation se traduit par une amélioration de l’alimentation de la population (lait, fruits, légumes, éventuellement poulet, etc.), ainsi que par des modifications de l’habillement (accroissement du port de jeans pour les garçons et les filles) et une hausse des dépenses en cosmétiques des femmes. Les familles constituant les classes moyennes ou supérieures avec des revenus annuels de 7 000 à 37 000 dollars par an représenteraient environ 13 % de la population totale, soit 160 millions d’âmes. On ne saurait oublier les loisirs : 100 millions de touristes indiens visitent leur propre pays chaque année, sans parler de ceux, nombreux, qui vont à l’étranger. Les repas au restaurant deviennent également à la mode, tout comme la lune de miel pour les jeunes mariés…


27 à 30 % des Indiens ont beau connaître encore l’extrême pauvreté, les aspirations des classes montantes vont constituer un puissant moteur de croissance pour l’Inde pendant encore des décennies, jusqu’à ce que de plus larges couches de la population en profitent.


Le monde rural a besoin de plus d’attention


Le monde rural conserve un très grand rôle dans l’économie indienne, puisqu’il représente encore 69 % de la population totale. L’agriculture emploie environ 50 % du total des actifs et assure 14-15 % du PIB. Des progrès considérables ont été atteints depuis l’indépendance : routes en dur, électricité, croissance agricole d’abord lente, avant que ne soit mise en place la Révolution verte (RV) en 1965.


Le processus de la RV était basé sur des variétés de céréales qui réagissent beaucoup mieux à l’engrais chimique que les semences traditionnelles. Mais qui dit doses relativement élevées d’engrais chimiques dit une exigence en eau plus importante, voire en système d’irrigation. C’est dire que les vastes régions de l’Inde péninsulaire, aux pluies incertaines et aux faibles capacités d’irrigation, se trouvaient - et demeurent encore - en dehors de la Révolution verte. En revanche, dans les plaines irriguées, nombre de paysans, souvent illettrés, ont doublé leurs rendements de blé ou de riz décortiqué en une année pour atteindre 2t/ha dans un premier temps et 3 à 4 t/ha aujourd’hui. En quelques années, l’Inde a ainsi fortement réduit son déficit en céréales, tout en appliquant une politique de stockage d’une partie du grain par l’État en prévision des mauvaises moussons ainsi que pour une distribution de grains à prix modérés.


Autour de 1980, les efforts dans l’agriculture, l’électricité, les routes se sont relâchés, avec une baisse des investissements publics et des dépenses d’entretien. Si l’on observe une plus grande diversité de la production agricole (élevage et lait, fruits et légumes), stimulée par la hausse des revenus, force est de constater que la croissance agricole baisse : la recherche manque de fonds ; les services agricoles sont en plein déclin ; le manque d’électricité affecte les vastes régions dont l’irrigation dépend de puits à pompes électriques ; les canaux d’irrigation sont mal entretenus, tout comme les nouvelles routes ; quant aux investissements dans de nouvelles infrastructures, ils sont très insuffisants.


Au total, les districts concernés par la Révolution verte s’essoufflent et les rendements plafonnent. Qui plus est, les pertes après les récoltes atteignent 30 % pour les fruits et les légumes : lenteur des transports, manque de chambres froides, emballages défectueux, parasites sont autant de nuisances qui plombent la production. Il est non moins urgent de stimuler en particulier les plaines du bas Gange, d’Assam et d’Orissa, encore très peu irriguées malgré un énorme potentiel. Peu développées sous les Britanniques, elles n’ont enregistré que de faibles progressions de leur production depuis 1947, ce qui se traduit par une pauvreté qui reste très aigüe… De gros efforts s’imposent aussi dans les vastes zones de cultures pluviales.


Les infrastructures sont toujours à la peine


Les infrastructures ont joué un rôle décisif de 1950 à 1980, en ville comme à la campagne, pour le développement de l’Inde. Depuis lors, elles sont devenues des freins à la croissance : les plans quinquennaux 1992-2007 n’ont atteint que la moitié de leurs objectifs pour l’électricité ; le plan actuel (2007-2012) ne tient pas non plus l’horaire. Le manque d’investissements et de dépenses pour l’entretien des centrales et des réseaux de transmission et de distribution perdure. Viennent ensuite les vols de courant. Le manque d’électricité aux heures de pointe est passé de 7,5 % en 2001/2002 à 11 % à l’été 2010. Les coupures de courant de plusieurs heures par jour sont fréquentes dans les villes ; elles sont encore plus longues dans les campagnes. 40 à 45 % du courant seraient ainsi perdus sur l’ensemble du territoire. À Bangalore, grand centre du High Tech, les pertes dues au manque d’électricité représentent 12 à 15 % de la production des entreprises informatiques. Des chantiers de grandes centrales ont été ouverts mais les constructions annoncent de nouveaux retards.


Ces défauts sont aussi provoqués par un manque de coordination entre services concernés, des livraisons d’équipement défaillantes, un manque de cadres. Dans ces conditions, les riches installent un petit générateur chez eux, les entreprises en acquièrent de plus gros ou créent parfois leur propre centrale, ce qui grève leurs coûts. La question des matières premières devient délicate : manque de pétrole, de gaz, de charbon pour les centrales électriques et pour d’autres usines. De gros gisements de gaz ont heureusement été découverts au large des deltas de la Godavari et de la Krishna (sud-est de l’Inde) et l’on vient de découvrir des dépôts d’uranium en Andhra qui pourraient être les plus riches du monde : ils sont estimés à 44 000 tonnes.


Autre talon d’Achille de l’Inde, les transports avec, ici aussi, un manque d’investissements et de dépenses d’entretien patents : routes encombrées, souvent étroites, multiplicité des contrôles routiers, au point que les camions ne dépassent guère 25 km/h de moyenne. Le bilan des chemins de fer n’est guère plus brillant, les trains de marchandises roulant eux aussi à 25 km/h. Transports et logistique représentent 20 % des coûts finaux de production en Inde, contre 4 à 5 % en Europe. Les ports sont également sous pression et les coûts d’exportation par container sont de 1 053 dollars, contre 456 à Singapour. Ces insuffisances dans les transports correspondraient à près de 1 % du PIB par an, soit 14 milliards de dollars.


Enfin, mentionnons l’eau dans les villes, dont la fourniture est souvent interrompue et dont seuls 13 à 18 % des eaux usées sont traités. Du point de vue environnemental, les fonds consacrés à la lutte contre la pollution des eaux et de l’air, à l’érosion des sols ou encore aux risques liés au changement climatique sont très insuffisants. Les dommages annuels se situeraient entre 3,5 et 7 % du PIB.


Gouvernance et malaises déstabilisent la vie politique


Une avalanche de scandales se sont succédés depuis l’automne 2010 : pots de vin considérables et détournements touchent le gouvernement et l’administration, des hommes d’affaires, des militaires, etc. La société civile ainsi que de grands industriels donnent de la voix ; les media se déchainent ; même des religieux font la grève de la faim… Il n’est néanmoins pas certain que le coulage et la corruption aient beaucoup augmenté. Lorsqu’il était au pouvoir, en 2001, le Premier ministre Vajpayee du BJP, opposé au Congrès, parlait d’un véritable « cancer ».


La répression des abus a été faible jusqu’à maintenant. Un ministre du gouvernement central est sous les verrous, un autre a été mis à pied, ce qui ne calme pas les critiques, malgré l’intégrité du Premier ministre Manmohan Singh. Un climat de malaise s’est étendu sur New Delhi ; la Chambre du Peuple est secouée de désordres ce qui conduit à de fréquentes suspensions de séance…, le tout étant aggravé par une inflation à 9 % et un ralentissement de la croissance économique depuis le printemps 2011 : + 7,7 % (avril-juin). Les inégalités se creusent. De vastes régions rurales très pauvres, les bidonvilles, une mortalité infantile encore élevée suscitent de légitimes inquiétudes pour l’avenir du pays.


Les inégalités sont également marquées entre les États. Plusieurs d’entre eux, dont l’imposant Uttar Pradesh, sont mal gérés et se développent mal. Au Gujrat, la croissance prend, à l’inverse, des allures à la chinoise. Le Bihar est sorti d’une longue période de pourrissement grâce au gouvernement de Nitish Kumar, depuis les élections de 2005 et 2010. Le Tamil Nadu, malgré beaucoup de corruption, attire toujours plus les grandes firmes de l’automobile. La région de Gurgaon près de Delhi est en plein boom. Le gouvernement central peine plus que jamais à réduire les dépenses et les subventions, à imposer de nouvelles réformes sous le poids des affaires et des dissensions au sein de la coalition. Il faut aussi compter avec le poids de Sonia Gandhi, présidente du parti du Congrès. Depuis 2007, par exemple, est en discussion au Parlement le nouveau Land Acquisition Act pour remplacer celui de 1894 ! Entre temps, conflits, retards se succèdent pour créer des usines, exploiter de nouvelles mines de fer, de bauxite, de manganèse dans l’angle nord-est de la péninsule. Les gouvernements des États concernés perdent des rentrées de fonds, les habitants locaux peuvent être malmenés dans leur opposition, les investisseurs indiens comme Tata ou les firmes étrangères comme POSCO (Corée du Sud) perdent de l’argent alors qu’ils sont prêts à créer de nouvelles aciéries. Une vingtaine de milliards de dollars sont ainsi en attente d’investissement.


En conclusion, malgré le ralentissement actuel, l’économie indienne conserve de solides atouts et presque personne ne conteste le système démocratique du pays en dépit de sérieuses failles. Il serait néanmoins urgent, pour que l’Inde puisse poursuivre son développement, de sortir de la crise de gouvernance qui lèse aujourd’hui l’économie et de réduire l’inflation. Rahul Gandhi, fils de Sonia Gandhi, Présidente du parti du Congrès, actuellement aux États-Unis (pour des soins, semble-t-il), va-t-il quitter ses fonctions au sein du parti pour succéder à Manmohan Singh ? Et si oui, réussira t-il à sortir son pays de la difficile phase d’aujourd’hui ?

Gilbert Etienne (Diploweb)

Le rêve arabe de l’Occident est parti en fumée...

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“M.”/” ’t Pallieterke”:

Le rêve arabe de l’Occident est parti en fumée...

L’Occident a fait un rêve: le monde arabe en 2013 allait devenir bon et gentil. En Egypte, Morsi, petit à petit, deviendrait un dirigeant compétent. En Syrie, le méchant Assad tomberait, à la suite de quoi, la bonne opposition aurait formé un gouvernement plus ou moins acceptable. En Libye aussi, un pouvoir relativement stable se serait installé. C’était un beau rêve...

La réalité sur le terrain est nettement moins rose. L’Egypte a attiré la une des médias au cours de ces dernières semaines, alors que la Syrie est toujours aux prises avec une guerre civile qui semble interminable. En Libye, la situation est toujours instable. La question arabe était prioritaire dans l’ordre du jour du récent sommet du G8 en Irlande du Nord. L’Egypte est toutefois le pays qui cause le plus de soucis, d’abord parce que le pays est vaste, fort peuplé et exerce un influence prépondérante dans la région. Alors, question: qui fait quoi?

Réticence américaine

Lors de son installation au poste de ministre des affaires étrangères aux Etats-Unis, John Kerry voulait damer le pion aux Européens, dépasser leurs ambitions. Il voulait même donner un souffle nouveau au processus de paix israélo-palestinien. A peine quelques mois plus tard, cette question israélo-palestinienne est passée à l’arrière-plan. Aujourd’hui, les dirigeants américains, bien que soutenus par le travail de nombreux universitaires, doivent constater que leur vieil allié égyptien est devenu un sérieux facteur de risque. Mais il y a une autre donnée dans le jeu, qui devrait susciter l’attention des Européens. Lorsque John Kerry renonce à rendre visite à quelques pays asiatiques pour se diriger immédiatement vers le Moyen-Orient, c’est un signal clair pour les pays frustrés d’Extrême-Orient. Un des principaux conseillers du “State Department” a relevé le fait récemment. Au moment où certains pays d’Extrême-Orient perçoivent de plus en plus clairement une menace chinoise, l’attention que portent les Américains au Moyen-Orient apparait comme “déplacée”. Toutes les régions du monde n’ont pas la même priorité pour les Etats-Unis. De plus en plus de voix s’y élèvent pour dire qu’il est temps que les Européens s’occupent un peu plus du Moyen-Orient.

C’est un fait: les événements du Moyen-Orient ont un plus grand impact sur la sécurité européenne que sur la sécurité américaine. Ce que l’Europe (du moins quelques pays européens) a fait jusqu’à présent témoigne surtout d’une absence de vision. L’Europe n’a pratiqué qu’une politique à court terme, partiellement dictée par l’émotion du moment. La Libye en est le meilleur exemple. Les Britanniques et les Français y ont déployé leur force aérienne mais l’opération n’a été possible que grâce aux missiles américains. De surcroît, les munitions se sont vite épuisées, si bien que l’on a dû, l’angoisse à la gorge, téléphoner à Washington... Récemment, les Britanniques ont considéré qu’il fallait impérativement entraîner 5000 nouveaux soldats et policiers en Libye. Ces effectifs semblent indispensables pour mater les milices rebelles. En parallèle, on a dû prévoir d’autres initiatives encore pour faire face à cette calamité que constituent les réfugiés libyens ou en provenance de la Libye qui, jadis, étaient retenus sur les côtes de l’Afrique du Nord suite à un compromis conclu avec Khadafi.

Et que faut-il penser des services de sécurité européens quand on constate le nombre de jeunes gars qui partent vers la Syrie... et reviennent tranquillement. Ils ne viennent pas seulement de Bruxelles, Anvers ou Vilvorde. Chaque pays européen a des volontaires sur le théâtre syrien. D’après une enquête récente, il y en aurait plus de 600. Qui plus est, un expert des Nations Unies a déclaré qu’un paradoxe s’ajoutait à cette situation: plus on parlait de ces volontaires, plus cela suscitait des vocations chez bon nombre de jeunes issus de l’immigration arabo-musulmane.

Une alternative européenne?

Un diplomate européen, à l’abri des micros et des caméras, a mis le doigt sur la plaie: “Ce qui s’est passé ces toutes dernières années dans plusieurs pays d’Afrique du Nord et du Moyen-Orient a été interprété de manière beaucoup trop ‘idéologique’. On nous disait que c’était une révolution démocratique, une acceptation des libertés occidentales. On fermait ainsi les yeux face à certains faits”. Par exemple, on voulait “oublier” que s’il y avait des élections libres en Egypte, ce serait les fondamentalistes musulmans qui engrangeraient une bonne part des voix. L’Egypte compte bien davantage d’acteurs que les élites éclairées du Caire auxquelles se réfèrent sans cesse les journalistes occidentaux. Il suffit de prendre en considération la population moyenne, qui compte 40% d’analphabètes: elle ne partage évidemment pas les vues des Cairotes éclairés. Quant à ce que donneraient des élections en Syrie, on n’ose pas trop y penser...

L’Europe veut-elle et peut-elle arranger les bidons? D’aucuns estiment d’ores et déjà que l’attention portée au monde arabe est trop importante. La Lituanie, qui prendra bientôt la présidence de l’UE, a profité de l’occasion qui lui était donnée de s’exprimer pour souligner plutôt le danger que représente la Russie. Le message des Lituaniens était donc clair: il faut davantage s’occuper du danger russe. L’obsession des Français et des Britanniques à prendre parti pour les rebelles syriens est vue avec beaucoup de réserve par la plupart des autres pays européens. Ce bellicisme franco-britannique n’apporte aucune solution, au contraire, il crée de plus en plus d’instabilité. Dans les coulisses du monde des diplomates, on entend dire que, dans l’UE, se juxtaposent des “convictions parallèles”, et rarement une unité de vue, en ce qui concerne les pays d’Afrique du Nord et du Moyen-Orient. Entre ce qu’il faudrait faire et ce qu’il est possible de faire, il y a une césure considérable. Dans le passé, on a souvent pu constater la désunion des Européens en matière de politique extérieure. Cette désunion semble le plus grand obstacle à une présence européenne sérieuse dans ces régions du monde en ébullition.

“M.”/” ’t Pallieterke”, Anvers, 17 juillet 2013.

Una nuova sinergia con la Russia

Eu-Rus. Il protagonismo dei popoli europei e una nuova sinergia con la Russia

Autore:

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

Aymeric Chauprade è uno degli autori di geopolitica più importanti della nuova generazione. Animatore della Revue française de géopolitique è anche presidente della Accademia Internazionale di Geopolitica. Chauprade afferma le ragioni del multipolarismo: sostiene che per riequilibrare il sistema di rapporti internazionale sia necessario un nuovo protagonismo dei popoli europei, che solo può avvenire in virtù di una forte intesa con la Russia.

La Russia appunto. La vecchia rappresentazione secondo la quale Mosca esprimeva un potere “asiatico” ed ostile, separato dal nostro vivere occidentale da un limes invalicabile (la cortina di ferro) appare vecchia. Una rappresentazione ossidata e tossica. Archiviata per sempre l’ideologia marxista, la Russia torna ad essere nazione europea, per paesaggio, etnia, lingua, cultura e religione. Ed è naturale che gli spiriti più intuitivi del nostro tempo si prodighino per sostenere la vera, autentica “integrazione” per la quale valga la pena di battersi. L’integrazione tra Est e Ovest dell’Europa; il respiro simultaneo dei “due polmoni dell’Europa”, come li definiva con parola ispirata Giovanni Paolo II.

Il 13 giugno Chauprade ha rivolto un’allocuzione ai deputati della Duma russa. “Signore e signori della Federazione Russa – ha esordito l’autore – è un grande onore essere qui per un patriota francese che come me guarda al popolo russo come a un alleato storico”. Poi Chauprade ha proseguito con affermazioni forti di stampo sovranista: “Il nuovo bipolarismo mette di fronte, in un confronto che si amplificherà, da un lato questo totalitarismo globale, che ha distrutto la famiglia e la nazione, riducendo la persona ad un consumatore schiavo di pulsioni mercantili e sessuali e dall’altro i popoli traditi dalle loro elite, assopiti davanti alla perdita di sovranità e all’immigrazione di massa, ma che di fronte all’attacco contro la famiglia iniziano a risvegliarsi”.

Vladimir_Putin_12015Nel clou dell’intervento l’elogio di Vladimir Putin: “Signore e signori deputati, è con il presidente Putin e tutte le forze vive della Russia, che il vostro paese ha intrapreso una ripresa senza precedenti, militare, geopolitica, economica, energetica e spirituale che ispira ammirazione nei patrioti francesi! I patrioti del mondo intero, gelosi dell’indipendenza dei popoli e delle fondamenta della nostra civiltà, in questo momento hanno gli occhi puntati verso Mosca”.

L’idea che la Russia di Putin rappresenti oggi “il polo” per coloro che si riconoscono nel retaggio e nel futuro della civiltà europea è una impressione condivisa.

Chi scrive, nel suo piccolo, ha concepito l’idea di un progetto denominato Eu-Rus e ne ha cominciato a parlare, alla maniera dei ragazzini … su facebook[1].

La “Eu” di Eu-Rus contiene le stesse lettere della sigla UE (Unione Europea) sia pur in un ordine diverso ed evoca anche la radice greca “eu” che nella lingua di coloro che per primi pensarono l’Eu-r-opa[2] significa bene (come nelle parole composte “eudemonia”, “euritmia”, “euforia”, “eucaristia” e – si spera di no – “eutanasia”).

L’intenzione è quella di realizzare con gli amici che sono interessati un network di intellettuali motivati dall’ideale della integrazione Europa – Russia.

Gli spunti di riflessione e di impegno sono tanti:

1. Affermare l’esigenza di una comunità energetica comune, attraverso la realizzazione dei gasdotti North Stream e South Stream.

2. Battersi affinché in tutto il continente si affermi il programma portato avanti da Putin di socializzazione delle fonti energetiche. Socializzazione versus privatizzazione selvaggia.

3. Auspicare il sorgere di un area di libero scambio comune tra Europa e Russia, di integrazione delle risorse tecnologiche e imprenditoriali. I grandi corridoi orizzontali che in questi anni si stanno costruendo devono essere prolungati fino a Mosca e devono diventare strade a doppia corsia: sulla corsia che va verso Occidente scorrono le risorse energetiche e del sottosuolo, sulla corsia che va verso Oriente scorre il know how che l’Europa Occidentale oggi può mettere a disposizione.

4. Riaffermare i principi della rivoluzione nazional-democratica gaullista: capi di governo eletti direttamente dal popolo, come oggi avviene in Francia e in Russia; con un radicale ridimensionamento di tutti i poteri non-eletti (commissari UE, governi tecnici, ONG …)

5. Rilanciare la politica di coesistenza pacifica con i paesi arabo-islamici secondo la linea perseguita sia pur tra difficoltà e/o incertezza dall’Italia con Mattei, Moro, Craxi, Andreotti.

6. Sviluppare anche l’idea di una graduale integrazione militare delle nazioni europee, una integrazione che coinvolga tutte e due le potenze dotate di arsenale nucleare del continente: la Francia e la Russia.

7. Sostenere un ideale di multipolarismo basato sul principio del Balance of Power per evitare le derive belliciste che inevitabilmente derivano dal predominio mondiale di una “Unica Superpotenza”.

8. Affermare una politica sull’emigrazione corrispondente alle esigenze dei lavoratori e dei disoccupati europei, una politica che non segua gli interessi di coloro che mirano ad abbassare il costo del lavoro con l’immissione continua di nuovi soggetti nel sistema economico, ma che segua le indicazioni del formidabile discorso alla Duma di Vladimir Putin del 4 febbraio 2013.

9. Auspicare l’adozione di una politica per la famiglia corrispondente alle esigenze demografiche dell’Europa.

10. Approfondire il dialogo culturale meditando sulle esperienze spirituali dei grandi pensatori russi: Soloviev, Bulgakov, Dostoevskij, Florensky.

11. Per la stessa ragione contribuire al dialogo ecumenico tra chiesa cattolica romana e chiese ortodosse d’Oriente.

12. Rimeditare in chiave post-moderna il tema della III Roma.

Due sono gli errori da non commettere nello svolgimento di questa impostazione:

1. sviluppare i temi con un taglio “estremista”. La geopolitica autentica confina con la diplomazia e non con l’ideologia. La calma, la moderazione, l’equilibrio sono una sostanza migliore rispetto ai fumi dell’ideologia.

2. sviluppare il progetto con una foga polemica contro altri soggetti internazionali. Qui non si vuole essere anti islamici o antioccidentali o anticinesi. Si vuole semplicemente essere nietzschianamente “buoni europei” e dunque elaborare il tema della fratellanza naturale e storica tra i popoli che sono figli della Grande Madre Europa.

Siamo felici che questo progetto possa partire a bordo della nave pirata di Barbadillo. Ne parleremo nelle prossime settimane con gli amici che condividono, nella piena libertà delle loro equazioni personali, le idee di fondo del progetto.

Note

[1] Vedi la pagina https://www.facebook.com/pages/Eu-Rus/489924397713156

[2] Europa era la splendida fanciulla orientale amata da Zeus (nella radice etimologia, Eu-Op, il riferimento ai grandi occhi splendenti). Il grande dio del cielo per sedurla si trasformò in Toro e condusse la fanciulla dalla sponda orientale a quella occidentale del Mediterraneo, nella terra che avrebbe preso da lei il nome.

Questo articolo è stato tratto, con il gentile consenso dell’Autore, dal sito Barbadillo.

samedi, 24 août 2013

Turquie: coup dur contre l’armée

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Bernhard TOMASCHITZ:

Turquie: coup dur contre l’armée

Le procès du réseau Ergenekon en Turquie sert à renforcer le processus de ré-islamisation voulu par Erdogan et à éviter un scénario à l’égyptienne

Au bout de cinq années, enfin, le procès contre la très hypothétique “société secrète” Ergenekon vient de prendre fin en Turquie. Plusieurs verdicts de culpabilité ont été prononcés. Le Tribunal de Silivri, près d’Istanbul, n’a acquitté que 21 prévenus sur les 275 accusés: tous les autres ont écopé de nombreuses années de prison, certains ont reçu la perpétuité. Parmi eux, beaucoup de militaires, dont l’ancien chef de l’état-major, Ilker Basbug. On reproche aux condamnés d’avoir fomenté un putsch: parmi eux, il n’y a pas que des militaires, il y a aussi des hommes de science, des hommes politiques et des journalistes.

Des militaires et quelques civils auraient amorcé un complot en 2003, sous le nom de code “Marteau préventif”. Selon les plans prévus, les comploteurs auraient voulu faire sauter une grande mosquée un vendredi, jour de prière, et provoquer le voisin grec de façon à ce qu’un appareil turc aurait été abattu. Les conséquences de ces deux actions auraient été telles, prévoyait le plan, qu’une agitation générale aurait secoué le pays, si bien que l’armée aurait pu, en toute bonne conscience, intervenir et se poser en “force salvatrice du pays”.

Mais, en fait, on ne sait pas très bien si la société secrète Ergenekon, baptisée du nom du foyer territorial initial des peuples turcs en Asie centrale, existe vraiment... Le procès est dès lors contestable, lui aussi, et le tribunal d’appel d’Ankara statuera une dernière fois sur les jugements prononcés. Bon nombre d’observateurs critiquent les preuves avancées et les contradictions flagrantes énoncées au cours de la procédure. On reproche surtout au premier ministre islamiste Recep Tayyip Erdogan de manipuler la procédure pour en finir avec ses vieux ennemis politiques. “Cette procédure n’a d’autres motivations que politiques”, a déclaré l’un des accusés, Mustafa Balbay, dans la salle du tribunal. Quant au député de l’opposition Umut Oran, il a déclaré: “C’est un procès mis en scène par Erdogan, c’est là son théâtre”. Pour l’organisation “Reporters sans frontières”, ce procès a démontré une fois de plus qu’une réforme générale de la justice est indispensable en Turquie.

Quoi qu’il en soit, il est certain qu’Erdogan, par ce procès, vient de porter un coup très dur à son principal adversaire politique, l’armée, qui se veut la gardienne de l’héritage laïque kémaliste. Débarrassé de l’armée, Erdogan peut poursuivre sa politique de ré-islamisation de la Turquie. C’est dans cette optique que l’on peut interpréter les procédures lancées contre de prétendus “ennemis de l’islam” ou de “blasphémateurs”. Le procureur d’Istanbul exige ainsi des peines avec sursis de neuf à dix-huit mois de prison pour les animateurs d’une plateforme populaire sur internet et pour 39 utilisateurs connus de ce portail parce que ces accusés auraient proféré des propos blasphématoires outrepassant les limites accordées à la liberté d’expression.

Outre le but de ré-islamiser la société turque, les jugements portées contre les soi-disant activistes de la société secrète Ergenekon ont encore un autre objectif: Erdogan veut éviter à tout prix un “scénario à l’égyptienne” où, vu les protestations incessantes —depuis la fin mai 2013 les manifestations anti-gouvernementales ne cessent plus—, l’armée pourrait prendre le prétexte d’intervenir pour démettre les élus du peuple de leurs fonctions. Erdogan a sévèremement critiqué le coup des militaires égyptiens et déploré le renversement du Président Mohammed Mursi, un Frère Musulman. Lorsque le ministre américain des affaires étrangères John Kerry a commenté brièvement l’élimination de Mursi en ces termes: “finalement, ce putsch a restauré la démocratie”, la réponse turque ne s’est pas fait attendre: le vice-premier ministre turc Bekir Bozdag a répondu sur Twitter: “L’armée a-t-elle un jour aussi rétabli la démocratie dans les Etats de l’UE ou aux Etats-Unis? Les coups d’Etat n’apportent pas la démocratie: ils ruinent et détruisent la voie vers la démocratie. Comme en Egypte”.

Il y a toutefois de bonnes raisons de penser que les Etats-Unis pourraient tenter de semer le désordre en Turquie; en effet, les relations entre Ankara, d’une part, et Washington et Tel Aviv, d’autre part, se sont considérablement détériorées depuis quelques années. L’une des raisons majeures de cette détérioration vient d’un concept mis en oeuvre par le ministre turc des affaires étrangères Ahmet Davutoglu, celui de la “profondeur stratégique” nécessaire à la Turquie. Ce concept structure désormais la ligne de conduite de la diplomatie turque. Pour pouvoir devenir une puissance régionale, dont l’aire d’influence correspondrait à celle de l’ancien Empire ottoman, la Turquie doit entretenir de bonnes et étroites relations avec tous les acteurs importants de la région. Parmi ces acteurs, il y a évidemment des Etats que Washington considère comme des “Etats-voyous” qu’il faut ramener à la raison en provoquant en leur sein des changements de régime. Ankara ne se soucie guère des classifications américaines.

Des cercles et caucus importants aux Etats-Unis ont pris position. Ainsi, Freedom House, organisation propagandiste américaine, reproche au gouvernement d’Erdogan de commettre de graves entorses aux principes des droits de l’homme. Le but de ces reproches n’est évidemment pas de promouvoir véritablement les droits de l’homme et du citoyen en Turquie; le but réel est de ramener au plus vite cet Etat-clef d’Asie Mineure, qui est un “pays de transit”, dans le giron de l’américanosphère. Dans une publication de “Freedom House”, on peut lire ce passage dépourvu de toute ambigüité: “En tant que pays stratégiquement très important, la Turquie doit impérativement se démocratiser et viser une intégration plus étroite encore à l’Europe; ce serait non seulement important pour le pays lui-même mais aussi pour l’ensemble de ses voisins voire au-delà”.

Tout en critiquant la politique étrangère du Président Obama qu’ils jugent trop molle, les cercles néo-conservateurs sont encore plus explicites. Michael Rubin, animateur de la boîte-à-penser “American Enterprise Institute”, écrivait en mai sur “la rupture prochaine dans les relations américano-turques” et dressait l’inventaire des péchés commis par Erdogan: “Au cours de cette dernière décennie, les conflits potentiels entre Washington et Ankara ne se sont pas apaisés (...) Jadis, la Turquie, les Etats-Unis et Israël coopéraient très étroitement; aujourd’hui, la rupture entre Ankara et Jérusalem constitue un souci permanent pour les Etats-Unis (...) Tandis que les affaires étrangères américaines soutiennent les autorités autonomes palestiniennes, la Turquie favorise, elle, le Hamas”.

En fin d’article, Rubin nous livre sa conclusion: “La Turquie constitue de plus en plus un obstacle à l’unité de vues au sein de l’OTAN: dans l’avenir, elle constituera une question ouverte dans l’alliance”. Enfin, tout nouveau président américain sera amené “à prendre des décisions graves à propos de la Turquie”.

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°33-34/2013; http://www.zurzeit.at ).

La France n’est pas un État de droit !

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La France n’est pas un État de droit !

Ex: http://www.les4verites.com

xavbeb22.jpgJ’ai publié, voici quelques années, un livre que j’avais rédigé avec des amis juristes. J’avais décidé de l’appeler « Avancer vers l’État de droit ».

J’avais choisi ce titre parce qu’il me semblait important de rappeler un fait flagrant et grave : la France n’était pas, et n’avait jamais été, un État de droit au sens strict du terme, c’est-à-dire un pays où les principes fondamentaux du droit sont considérés comme ayant été mis au jour, posés depuis là comme une garantie intangible, et respectés.

J’y soulignais la confusion du droit avec la loi qui est de mise dans ce pays depuis plus de deux siècles, et qui explique l’extrême instabilité institutionnelle qui prévaut depuis la Révolution française.

J’avais choisi ce titre aussi parce que j’avais à l’époque encore un mince espoir : pouvoir contribuer à ce que le pays avance, malgré tout, vers un fonctionnement d’État de droit. Depuis, j’ai perdu ce mince espoir. Ce, pour une raison simple : la régression s’est poursuivie et atteint aujourd’hui des proportions cataclysmiques.

Non seulement des droits fondamentaux, tels que le respect de la présomption d’innocence sont sans cesse bafoués, sous la forme des contrôles d’identité et des contrôles routiers incessants, mais les coupables dont il est avéré qu’ils sont coupables ne sont pas condamnés, ou très peu. L’idée, essentielle pour la justice, que le châtiment doit être proportionné par rapport au crime commun se trouve perdue : les condamnations à la perpétuité réelle n’existent pour ainsi dire plus, même pour les assassins récidivistes, et qu’une, deux, trois, cinq personnes de plus soient tuées ne change quasiment rien à la peine qui peut se trouver infligée.

Il existe des cas où un assassin jugé pour un premier assassinat et condamné à une lourde peine n’a pas vu sa peine aggravée lors d’un jugement pour un deuxième assassinat – tout simplement parce que la peine infligée lors du premier jugement était déjà la peine maximale.

On doit noter aussi que des milliers de peines de prison prononcées chaque année ne sont pas exécutées, parfois faute de place dans les prisons, parfois aussi parce que des peines de substitution sont proposées qui, souvent, sont l’équivalent d’une absence de peine.

On doit noter enfin que des peines pourront être décidées en fonction de la situation sociale du prévenu, ou du risque de troubles susceptibles de survenir en cas de condamnation : un chrétien appartenant à la classe moyenne sera plus aisément et plus lourdement condamné que, disons, un musulman venant d’un quartier dit « sensible » dont l’incarcération pourrait déboucher sur des émeutes, des incendies, des mises en état de siège de commissariats ou de quartiers entiers.

On doit ajouter que des pans entiers du système judiciaire sont aux mains d’organisations de gauche ou d’extrême gauche pour qui le criminel est avant tout une victime d’une société injuste et, dès lors, non coupable, ou quasiment non coupable par définition.

Nous en sommes à un stade où on doit dire que la France est un État de non-droit, un État qui, à la faillite économique, ajoute une dislocation sociale graduelle et le spectre d’une faillite morale.

Des livres viennent parfois rappeler cette faillite morale. C’était le cas, voici quelques mois, de « France Orange mécanique ».

C’est le cas aujourd’hui de « Quand la justice crée l’insécurité ». Le titre peut sembler excessif : il ne l’est pas. Le système juridique et judiciaire français crée effectivement l’insécurité, alors que son rôle devrait être inverse. Ce faisant, il contribue à la destruction de la liberté, car il n’est pas de liberté possible sans sécurité des biens et des personnes. Nous sommes tous dans une situation de liberté précaire et provisoire. Cela ne semble pas près de s’arranger.

L’auteur du livre, Xavier Bébin, est secrétaire général de l’Institut pour la justice. C’est un homme qui se bat. Je crains que son combat soit désespéré. Je n’en tiens pas moins à lui dire ici mon profond respect.

Xavier Bébin
Quand la justice
crée l’insécurité
Fayard

306 pages – 19 €

vendredi, 23 août 2013

L'affaire Snowden, un révélateur des lignes de force en Europe et dans le monde

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L'affaire Snowden, un révélateur des lignes de force en Europe et dans le monde

par Laurent OZON

Ex: http://www.newsring.fr

Edward Snowden, un ancien technicien de la NSA, a dévoilé en juin dernier l'existence du programme Prism, permettant aux renseignements américains d'espionner les communications en ligne. L'Union Européenne aurait notamment été visée par ces écoutes. Une affaire qui révèle de véritables lignes de force en Europe et dans le monde, selon notre contributeur.

Un homme, après bien d'autres, a révélé que l'Etat profond américain espionne (je ne vois pas de raison de mettre cette affirmation au passé) le monde entier. Cet Etat qui dépense à lui-seul plus de 50% des dépenses militaires de la planète est donc bien placé pour continuer à donner des leçons de morale et de paix à la planète entière, avec le culot qui le caractérise. Cette nouvelle crise n'en est une que parce que l'Allemagne a forcé les autres pays européens et l'UE à réagir à ce nouvel abus de la «puissance du bien».  

L'Allemagne, certes privée des attributs militaires du «hard power», exerce néanmoins partiellement sa puissance grâce à ce qui domine les relations internationales depuis 30/40 ans : l'économie. Son modèle économique (capitalisme rhénan) est la seule alternative au libéralisme financiarisé sous contrôle de la FED. Son retournement lent et progressif vers l'Est est le signe évident qu'il existe encore des élites conscientes en Allemagne car de fait, la puissance (et qui niera que l'Allemagne demeure une puissance?) est à elle seule un motif de s'opposer à la puissance. 

L'affaire Snowden, révélateur du manque d'autonomie des Européens

L'UE est travaillée par des volontés contradictoires. Les trois principales sont : 1-L'Allemagne qui dissimule son retour à la politique mondiale derrière la construction fédérale de l'UE. 2-La France, perdue à elle-même, qui ne sait plus quoi faire de cet outil politique, hormis s'aligner sur une volonté politique plus décisive que la sienne. 3-La sphère anglo-saxonne, liée indéfectiblement aux intérêts de l'Etat américain. Cette dernière cherche à faire capoter la puissance potentielle qu'est l'UE (la crise de l'euro est due à la FED et à la City) au profit, soit d'une Europe faible et divisée, dotée un «euro-croupion» (une monnaie-outil non adossée à une volonté politique), soit au profit de souverainismes-irrédentismes nationaux, parfaitement instrumentalisables et qui ne pèseront rien dans le jeu des puissances à venir s'ils sont divisés. 

Cette affaire Snowden révèle donc les véritables lignes de force dans le monde mais surtout en Europe. La France n'a jamais été plus atlantiste qu'aujourd'hui et les intérêts anglo-saxons sont en passe de finaliser le sabotage du projet européen (comme le général De Gaulle l'avait anticipé). Cette crise «Snowden» est un révélateur efficace du niveau d'autonomie des (im)puissances européennes à l'égard de l'Etat américain. L'Allemagne, contrairement aux affirmations péremptoires de certains «Mickeys souverainistes», a ainsi fait la démonstration qu'elle disposait encore d'une autonomie plus grande que celles des élites françaises. Une Allemagne qui est pourtant fédérale, tout comme la Suisse et la Russie ... Mais c'est une autre histoire.

jeudi, 22 août 2013

U.S., Britain and New Big Game in Near East

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U.S., Britain and New Big Game in Near East

Interview with Jeffrey Steinberg

Ex: http://www.geopolitca.ru

1. Please give us a brief review of the contemporary situation in Egypt with respect to the recent government change and the recent riots, in Syria with respect to the ongoing civil war and insurgency, and in Turkey with respect to the recent socio-political crisis encountered by the Erdogan government.

The three situations must be treated as distinct but clearly all part of the same mosaic of change in the region.  Regarding Egypt, more and more evidence is coming out publicly, indicating that the Morsi government was more interested in consolidating absolute Muslim Brotherhood control over the state apparatus than in governing on behalf of the entire Egyptian people.  When somewhere between 10 and 22 million Egyptians turned out on the street on June 30 in a peaceful protest, demanding Morsi’s resignation, the Egyptian generals acted on that popular mandate.  This is an old story in Egypt.  The Army comes out of the Nasser tradition and sees itself as the guardians of the nation.  They had evidence that the Muslim Brotherhood was planning a purge of the top generals, arrests of opposition leaders and a move to consolidate the “Ikhwanization” of the country.  The interaction between the top leaders of the Muslim Brotherhood and the Army was intense prior to, during and after the ouster of Morsi.  This is an ongoing process.  Unless the Muslim Brotherhood decides to launch an all-out military campaign to take back power, they will be incorporated into the political process, including the upcoming elections.  Morsi and Khayrat al-Shatar, the power behind the scenes within the Muslim Brotherhood, made the mistake of presuming that the Obama Administration would assure that they remained in power by pressuring the Army to stay in the barracks, regardless of what happened on June 30.  Ultimately, the Muslim Brotherhood failed to live up to the mandate that they were given by the Egyptian people.  General Martin Dempsey, the wise Chairman of the U.S. Joint Chiefs of Staff recently observed that modern history has seen very few successful revolutions.  He noted that in almost every instance, except for the American Revolution, the first generation got it wrong, the next generation in power overcompensated and also got it wrong, and the third generation managed to get it mostly right.  We are at the very early stages of the Egyptian revolution.  Economic well-being for the vast majority of Egyptians is the ultimate test.  Egypt has water, which is the most precious commodity in the region, and has the capacity to grow vast amounts of food.  Development projects have been on the drawing board for a long time.  This will be the measure of success of the future governments.

The Syria crisis is a tragedy in almost every respect.  No one involved in the Syria events of the past two-and-a-half years is immune from some responsibility for the bloodshed and the near-total destruction of a nation.  A country that was once a model of communal integration (Sunni, Shiite, Alawite, Kurd, Druze, Christian) and was a birthplace of Christianity has been thoroughly Balkanized into warring factions.  Outside powers played the Syrian situation to their own interests and advantages.  President Obama, declared that President Bashar al-Assad had to go almost two years ago, before receiving any intelligence or military assessments of the situation there.  Saudi Arabia, Qatar and Turkey all jumped into the situation early on, promoting an armed Syrian opposition that was expected to oust President Assad in short order.  Now, Syria is the epicenter of a regional sectarian conflict between Sunni and Shiites/Alawites that has spread to Turkey, Iraq, Lebanon, Jordan.  The British have been promoting just such a sectarian “Hundred Years War” within the Muslim world as part of a classic Malthusian population reduction campaign.  Saudi hatred for the Syrian Alawites has been exploited by London, assuring that arms and cash have been flowing into the hands of a global Sunni jihadist apparatus.  Now, the Obama Administration is weighing in with covert support for a more “moderate” anti-Assad Free Syrian Army, centered in Jordan.  Weapons that were confiscated after the execution of Muammar Qaddafi in Libya in late 2011 have been smuggled into the hands of Syrian rebels, including the Al Qaeda-linked Al Nusra Front since April 2012.  The program has been coordinated out of the Obama White House and managed by the CIA.  President Obama has his own “Iran-Contra” scandal brewing and is attempting to cover up for crimes that have been ongoing for over a year and which could lead to his impeachment.  At one point, the danger of the Syrian crisis triggering a global war prompted US Secretary of State John Kerry and Russian Foreign Minister Sergei Lavrov to attempt to convene a Geneva II peace conference, as a way to avoid the situation slipping totally out of anyone’s control.  That Geneva II option remains the last best hope that further destruction of the entire region, and a possible trigger for general war can be prevented. 

There are some significant parallels between the Erdogan government in Turkey and the recently deposed Morsi Muslim Brotherhood government in Egypt.  Since coming into power, Prime Minister Erdogan had pursued a policy of economic and political cooperation with all of Turkey’s neighbors.  That policy served Turkey well for several years, building trade with Russia and Iran, settling Kurdish conflicts involving both Turkey and Syria, and building a strong economic bridge with the Kurdish Regional Government in Iraq, without damaging Ankara-Baghdad relations.  When the Syrian protests erupted in early 2011, President Obama urged Prime Minister Erdogan (one of the few foreign heads of state to have any kind of personal relationship with the US President) to “take the lead” in pressing for Assad’s rapid removal from power.  Erdogan presumed that Washington would make good on its demand for Assad’s removal from power.  Given the US role in the overthrow and execution of Qaddafi in Libya, and given the Obama Administration’s strong promotion of humanitarian interventionism and “R2P” (“Responsibility to Protect”), post-Westphalian dogmas permitting a full range of intervention into the internal affairs of formerly sovereign states, Erdogan was not totally foolish in his expectation that Washington would run a replay of Libya in the Eastern Mediterranean and Assad’s days were numbered.  That prospect never materialized, and as the result, the Turkish people are becoming disillusioned with the Erdogan AKP approach.  The Turkish Army, having been a target of Erdogan purges, is becoming restless.  The Turkey situation has become an important piece of the regional disintegration.  Economic and political agreements with Iran, Russia, Syria and even Iraq are now in doubt.  Turkey is facing a period of potential turmoil.  The European economic crisis, far from being solved, will add further fuel to the fire in Turkey.

2. What is nature of the Arab Spring, and how do you see the Arab Spring developing in the future?

There are two dimensions to the Arab Spring that are generally ignored.  First, a combination of economic depravations and political persecution created a “perfect storm” for popular dissatisfaction to spill over into mass action.  In Tunisia, as well as Egypt, a well-educated segment of youth revolted over the fact that they had no prospect for a future in their own country.  The initial impulse was that of a classic “mass strike” when a large percentage of the population concluded that they had nothing left to lose, and they seized upon a symbolic event and launched a public demand for change.  Second, once events on the ground reached a critical mass, external political forces intervened for self-serving reasons.  London wants a permanent war of “each against all” to reduce the population levels in the developing world.  Saudi Arabia and Qatar, two rival Wahhabi monarchies, began pouring money into contending factions of the Islamist opposition and the militaries.  The Obama Administration concluded that the Muslim Brotherhood were the safest representatives of “political Islam” and began backing them in both Egypt and Syria.  The fact that the United States has turned Qatar into a forward-based hub of Washington power projection in the region has, up until the recent change of power in Qatar, meant a combined Doha-Washington backing for the Muslim Brotherhood as the “pragmatic” Islamists.  There is a serious reassessment now underway in Washington.  The outside factors made it impossible for the internal dynamics of Egypt and Syria to come to an understanding about a way forward.  At no time was there adequate outside economic assistance to provide breathing room for a raw political process to evolve.  The standard IMF recipes for economic starvation and “shock therapy” privatization and de-subsidization made matters worse. 

3. What is the role of the Muslim Brotherhood in Syria and in Egypt?

Historically, the Muslim Brotherhood was a creation of the Sykes-Picot colonial process and of British intelligence.  The organization evolved, spread, spawned a far more virulent network of more radical jihadists including Al Qaeda.  A long exile in Saudi Arabia, following the Nasser crackdown against the Brotherhood beginning in the 1950s, spawned a new neo-Salafist phenomenon.  When Hafez Assad launched his own harsh crackdown against the Syrian Muslim Brothers in the early 1980s, that led to a second wave migration and exile in Saudi Arabia.  Under the influence of Dr. Bernard Lewis, a British intelligence “Arabist” who is also a leading Zionist, successive American administrations adopted the “Islamic Card” as a tool to bring down the Soviet Union.  The Afghan War of the 1980s saw British and American intelligence deepen the alliance with the Muslim Brothers.  This spawned Al Qaeda and a large number of groups that were foreign fighters brought to Afghanistan as “muhahideen” trained and armed to fight the “Godless” Soviet Red Army.  The Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), an arm of Al Qaeda created by Afghanzi fighters who returned to Libya after that Soviet withdrawal from Afghanistan, is exemplary of the spreading neo-Salafist problem that emerged out of the “Bernard Lewis Plan” to play Islam against Communism.  When Communism collapsed in the early 1990s, the West in general and the United States in particular became the “New Satan” to be targeted.  The Obama Administration’s belief that the Muslim Brotherhood was potential allies led to a string of policy blunders and mishaps that are still playing out.  In recent weeks, Washington’s love affair with the Muslim Brotherhood has fractured.  The ouster of the Emir and prime minister of Qatar has weakened the financial support for the Muslim Brotherhood.  It is too early to say what the next phase of the process will look like, but the naïve presumptions about the Muslim Brotherhood are being severely challenged right now.

4. Is there a difference between the policy supported by General Dempsey and Defence Secretary Hagel on the one hand and the State Department and White House forces on the other? If yes, please explain these differences.

There are significant differences.  General Dempsey is a leading figure in a war-avoidance faction inside the governing institutions of the United States.  He has taken a courageous stand, opposing direct US military engagement in Syria.  He wants to bring home the American troops who have been engaged for over a decade in Afghanistan, and he wants to assure that there is never again a long war that drains the armed forces and the nation’s resources of the US.  He has the backing of Defense Secretary Hagel in this quest.  General Dempsey believes that it is a priority to deepen cooperation with Russia and China, the other two leading world military powers.  He judges all military options from a global overview.  The contrasting views inside the Obama Administration are centered at the White House with people like Dr. Susan Rice and the former Special Assistant to the President Samantha Power, now the President’s nominee to replace Rice at the UN.  They are extreme proponents of humanitarian interventionism.  In that respect the “liberal” humanitarian interventionists are soul mates of the neoconservatives of the Bush-Cheney era.  It is ironic but also not surprising that the leading war-avoidance forces in the United States are active duty and retired flag officers of the armed forces, who have lived through the hell of the post-911 long wars and want no more of it.  They are painfully aware that a conflict that pits the United States against Russia and/or China could lead to thermonuclear war and extinction of mankind.  They understand war as Dr. Rice and Samantha Power (and President Obama) do not.

5. What is the role of Israel and of the U.S. Israeli lobby in the contemporary upheaval in the Middle East and the Eastern Mediterranean in general? 

The Revisionist Zionist Movement, founded by Jabotinsky and now ruling Israel under Netanyahu, is a British colonial creation—part of the divide and conquer strategy that the British and French imposed on the Middle East from the end of World War I.  Israel and the Israeli Lobby, as such, are expendable pawns in the larger British game.  To the extent that Israel has any pretence of being a sovereign state, they have been pursuing a series of tragic self-destructive policies ever since the assassination of Prime Minister Yitzhak Rabin in 1995 after his historic Oslo Agreement with Yasser Arafat and the PLO.  Without a drastic change in policy, Israel is likely doomed.  The Israeli Lobby is a powerful force in Washington politics but is not all-powerful.  Right now, their focus is on Iran.  Their primary objective is to keep up pressure on President Obama to where he will eventually take military action for regime change in Iran.  That could be a trigger for all-out war, which is exactly what General Dempsey and the rest of the JCS want to avoid at all costs.  Israel was, ironically, sidelined as a minor player in the unfolding events in Egypt and Syria.  There is no good outcome of the Syrian mess from Israel’s standpoint.  They had a truce with the Assad governments in Syria and came close on several occasions to formalizing it in a Camp David-style treaty with Damascus.  Israel may appreciate the benefits of the Syrian Army being gutted, but they do not welcome a Jihadist state on their northern border.  The British will sell out Israel in a heart-beat to pursue their new game of permanent brutal sectarian war within Islam.

6. Which is the strategy of Netanyahu and the Zionist political forces in general in the fields of geopolitics and geoeconomics?

The Netanyahu Zionists want to maintain the status quo of gradual absorbtion of the entirety of the West Bank into a Jewish state.  They will exploit so-called peace negotiations with the Palestinians to stall, as new settlement expansion accelerates by the day.  As pawns of larger forces, including the British, they do not really have a strategic vision.  They have integrated their high-tech aerospace and electronics sector into the United States economy to such an extent that they are defacto the 51st state.  Most Israeli high-tech companies have their stock traded on the NASDAQ exchange in New York. A majority of Israeli Jews are so fed up with the madness dominating Israeli politics that they would prefer to live in the United States.

Interviewed by  Dr Nicolas Laos (member of the faculty of International Relations at the University of Indianapolis, Athens Campus (Greece) and a columnist of the Greek political daily newspaper "Ellada").

 

mercredi, 21 août 2013

La CIA le confirme: la chute d’Assad nuirait aux intérêts américains!

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La CIA le confirme: la chute d’Assad nuirait aux intérêts américains!

On le sait, à force d’avoir eu les oreilles bassinées par le flot de tirades médiatiques: Washington travaille depuis des années à la chute du Président syrien Bechar El-Assad. Pourtant la disparition de celui-ci n’irait pas dans le sens des intérêts américains, vient de déclarer Michael Morell (photo), un des directeurs de la CIA, dans un entretien accordé au “Wall Street Journal”. Morell: “Dans ce cas, la Syrie deviendrait un refuge pour terroristes de toutes sortes... Le risque est le suivant: le gouvernement syrien possède des armes chimiques et d’autres équipements de pointe et, s’il tombe, le pays deviendrait automatiquement un bouillon de culture pour le terrorisme (ndt: avec les armes chimiques et autres)”. Morell craint surtout un renforcement du réseau Al-Qaeda.

(note parue dans “zur Zeit”, Vienne, n°33-34/2013; http://www.zurzeit.at ).

L'héritage de Dominique Venner

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L'héritage de Dominique Venner

Entretien avec Aliénor Marquet

« Son œuvre ? Des centaines de milliers,
sans doute même des millions d’exemplaires de ses livres,
de ses articles, une revue d’histoire qui va perdurer
au-delà de sa disparition…
Pour ses détracteurs,
il a peut-être “débarrassé le plancher”,
mais il a, à l’évidence,
laissé aux générations futures
de fructueuses munitions»

 

L’historien et essayiste, ancien combattant de l’Algérie française et fondateur de la Nouvelle Revue d’Histoire (NRH) s’est donné la mort le lendemain de Pentecôte devant l’autel de la cathédrale Notre-Dame de Paris, laissant un testament politique dans lequel il appelait à des actions spectaculaires et symboliques pour « ébranler les somnolences », expliquant que « nous entrons dans un temps où les paroles doivent être authentifiées par des actes »… De nombreux hommages lui ont été rendus.

Entretien d’Aliénor Marquet avec Philippe Randa qui lui a consacré un chapitre de son livre Ils ont fait la guerre.Les écrivains guerriers, préfacé par Jean Mabire (éditions Déterna, « Documents pour l’Histoire », 3e édition).

Quel souvenir vous a laissé votre première rencontre rencontre avec Dominique Venner ?

Il s’agissait de l’interviewer pour la revue Hommes de Guerre, dirigée par Jean Mabire. Le souvenir d’avoir affaire à quelqu’un qui savait très exactement, très minutieusement, comment devait se dérouler notre entretien. Il avait préparé questions et réponses ; les premières rejoignaient celles que j’avais préparées et donc « l’interview » pour article a été rapidement exécuté… Nous avons pu passer la suite de notre déjeuner dans une discution qui n’a fait que confirmer que Dominique Venner était quelqu’un dont la vision du monde, l’action et la pensée était parfaitement réfléchies, organisées…

Qu’il ait mis fin volontairement à ses jours ne m’étonne donc pas ; c’est dans la droite ligne de son personnage.

Certains qualifient Dominique Venner de « réformateur du nationalisme français » et même de « créateur de l’extrême-droite moderne » ; partagez-vous cet avis ?

Pour ma part, j’ai toujours été plus sensible au Dominique Venner historien que théoricien. Peut-être parce que je ne l’ai pas connu à l’époque où il était engagé politiquement… Je suis même assez surpris que beaucoup l’appréhende comme un théoricien, mais c’est un fait… Si par ailleurs, j’ai eu toujours de très bons contacts avec Dominique Venner, je n’en ai jamais été proche, comme je l’ai été de Jean Mabire, par exemple… Si cela avait été le cas, mon opinion serait sans doute différente.

Vous partagez avec lui une vision européiste pour l’avenir de notre pays… Ne pensez-vous pas que l’Union européenne actuelle a déconsidérée une telle vision ?

La ligne « souverainiste », défendue par un éventail assez large de la classe politique, ne me semble pas être d’un dynamisme remarquable, se contentant généralement de pointer les défaillances évidentes de l’Union européenne actuelle… Étant pour ma part un partisan de l’Europe des régions, je ne peux que reconnaître la justesse de la plupart des critiques émises par les souverainistes, sans adhérer le moins du monde à leur obsession d’un retour au pré carré des Nations… Pour faire une comparaison avec votre prochaine question, c’est comme les critiques que certains émettent sur les religions monotéïstes en prônant un retour à des religions polythéistes mortes, mais qu’ils envisagent pourtant avec le plus grand sérieux de ressusciter.

Êtes-vous choquée par l’endroit choisi par Dominique Venner pour mettre fin à ses jours ?

Dominique Venner a laissé une lettre expliquant qu’il admirait ce lieu de culte, « génie de ses aïeux » et ne voulait en rien choquer les chrétiens, mais « choquer » dans le sens de « réveiller » sa « patrie française et européenne » ; il a demandé à ses proches de comprendre le sens de son geste… Prenons acte de ses intentions. Quant à être fondateur de quoi que ce soit, je ne le crois pas… Nous sommes à une époque où un suicide, quelles qu’en soient les motivations, est perçu comme le simple acte d’un déséquilibré… Comme l’a dit Alain Soral à Nicolas Gauthier dans un entretien paru sur le site Boulevard Voltaire : « L’immense majorité des soumis, n’y verront que “le bon débarras d’un vieux con d’extrême droite” et sont déjà passés à autre chose… » On ne peut, hélas, être plus cyniquement réaliste.

Dominique Venner n’ouvrait pas les colonnes de la NRH à certains auteurs jugés sulfureux… Pensez-vous que l’intérêt de la revue de Venner – qui savait jusqu’où aller trop loin –, n’était pas justement, en ne franchissant pas la ligne rouge, de pouvoir durer et toucher un public « hors milieu » par le biais de sa distribution en kiosque ?

J’ignore absolument tout de la non-collaboration de certains auteurs à sa revue et des motifs pour cela… Qui sont les « On » et de quels droits reprochent-ils les choix de collaboration d’un directeur de publication ? Il est quand même, me semble-t-il « maître et charbonnier chez lui »… Pour ma part, quand j’émets des reproches, c’est sur un texte qui a été publié et non sur ceux qui ne l’ont pas été… Et pour ma part toujours, je juge ce qui a été écrit et non pas par qui cela a été écrit… Les collaborations à la NRH ont été suffisamment éminentes, riches et multiples pour qu’on s’en réjouisse sans chercher chicane sur celles qui n’y ont pas figurées.

Votre politique éditoriale est différente…

J’applique évidemment dans ma politique éditoriale ce que je viens d’expliquer… Libre à ceux que je n’ai pas publié pour des raisons que leur ai indiqué et qui ne regardent qu’eux et moi, d’en penser ce qu’ils veulent… Quant à ceux qui jugent les auteurs ou les œuvres que j’ai ou vais publier dans le futur comme des « provocations », c’est participer à la diabolisation de certains auteurs, de certaines pensées, c’est admettre implicitement qu’on ne peut pas lire certains livres ou certains auteurs pour comprendre le passé ou répondre aux défis du présent, mais simplement pour « faire du buz », selon une expression contemporaine… Si certains me considèrent comme un provocateur, qui puis-je ? Je n’ai pas de temps à perdre avec eux.

Dominique Venner avait ses choix de collaboration, j’ai les miens éditoriaux… Je doute que lui m’ait considéré comme un provocateur, pas plus que je ne l’ai considéré comme d’une trop grande prudence… « On » peut bien penser ça de lui ou de moi… Je doute qu’un tel jugement l’ait beaucoup chagriné de son vivant. Quant à moi, ai-je besoin d’être plus explicite ? Sinon, je peux citer Michel Audiard qui avait des saillies assez justes pour qualifier tous les « On » de France et de Navarre. Et d’ailleurs !

La dichotomie nationaux/nationalistes qu’il avait introduite s’appliquerait donc aussi à la presse et à l’édition ? Et lui, le révolutionnaire, aurait tenu le rôle du national pendant que vous tenez celui du nationaliste ?

Je suis fatigué de l’éternel débat entre « nationaux » et «  nationalistes », entre « révolutionnaires » et « réactionnaires », entre « républicains » et « fascistes »… C’est un vocabulaire obsolète qui empêche tout véritable débat et ne correspond plus en rien à notre siècle. Que l’on prenne position sur des débats actuels avec un vocabulaire adapté me semble plus fécond… Quant à savoir si Dominique Venner ou moi-même ou d’autres encore tiennent des « rôles » et quelles sont les différences entre nous, c’est vouloir absolument étiqueter les uns et les autres… L’ennui, avec les étiquettes, c’est qu’elles correspondent rarement à la réalité et n’ont d’autres finalités que réduire l’expression ou la crédibilité de ceux qui en sont victimes… Intéressons-nous à ce qu’écrivent les uns ou les autres, cherchons à en tirer le bon grain utile de l’ivraie stérile… Pour jouer un rôle, il faut être dans une pièce où un maître-d’œuvre distribue justement les rôles… Je ne pense pas que Dominique Venner ait obéi à qui que ce soit pour « jouer » une partition écrite par d’autres… Ce n’est pas mon cas non plus.

Quel regard le professionnel de la presse et de l’édition que vous êtes porte-t-il sur l’œuvre de Dominique Venner ?

Dominique Venner a vécu une époque où les idées qu’il défendait n’étaient pas en « odeur de sainteté politique »… Il n’a donc pas connu la notoriété des plateaux de télévisions et n’a guère été invité dans les grandes universités pour débattre comme tant d’autres auteurs de bien moindre talent… Ce n’est pas le seul dans ce cas ; ses amis et complices Jean Mabire ou Jean Bourdier hier, Alain de Benoist aujourd’hui encore, sont cloués au même pilori d’exclusion… Reste son œuvre. Des centaines de milliers, sans doute même des millions d’exemplaires de ses livres, de ses articles, une revue d’histoire qui va perdurer au-delà de sa disparition… Pour ses détracteurs, il a peut-être « débarrassé le plancher », mais il a, à l’évidence, laissé aux générations futures de fructueuses munitions qui pourraient être d’importance pour « refonder notre future renaissance en rupture avec la métaphysique de l’illimité, source néfaste de toutes les dérives modernes », selon ses derniers désirs exprimés dans sa lettre-testament.

Ils ont fait la guerre. Les Écrivains guerriers, Philippe Randa, collection « Documents pour l’Histoire », éditions Déterna, 304 pages, 31 euros

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CHAOS EN EGYPTE

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LE CHAOS EN EGYPTE
L'instrumentalisation du divin et l'Ordre impérial


Chems Eddine Chitour*
Ex: http://metamag.fr

 «La religion relève de Dieu et la Nation appartient à tous ses citoyens» 
Addine LIllah oua el Outane lildjami'e

Ça y est! Ce qui devait arriver arriva !  L'Egypte est à feu et à sang. Des centaines de victimes innocentes pour une cause qui est celle de l'accaparement du pouvoir soit par les «mécréants» représentés par l'armée et les libéraux soit par les Frères musulmans qui veulent gouverner au nom du divin. Les deux camps manipulés par un Occident qui a toujours deux fers au feu attend dans quel sens va pencher le balancier. C'est un fait et nous l'avons écrit, l'intervention de l'armée pour écarter le président Morsi le 3 juillet est un coup d'Etat qui ne veut pas dire son nom.

Une dispersion qui est devenue un «bain de sang» 

Deux des personnalités qui ont cautionné le coup de force, se récusent pour protéger leurs arrières. D’abord, l'imam d'Al-Azhar, plus haute autorité de l'islam sunnite, s'est désolidarisé après avoir pourtant apporté sa caution lors du coup de force des militaires contre Mohamed Morsi le 3 juillet. Ensuite, Mohamed ElBaradei, le nobélisé par l’Occident pour services rendus dans le fonctionnement de l’AIEA, a aussi  annoncé sa démission du gouvernement. Cependant le gouvernement et la presse, quasi unanimes, accusaient les Frères musulmans d'être des ´´terroristes´´ ayant stocké des armes automatiques sur les deux places et se servant des femmes et des enfants comme ´´boucliers humains´´. 

l'imam d'Al-Azhar et Mohamed ElBaradei

Cette violence  a une imprimatur . Ce n’est pas en effet l’Empire qui a adoubé l’opération.  On se rappelle cependant que le secrétaire d'Etat américain John Kerry avait déclaré jeudi 1er août que l'armée égyptienne était en train de «restaurer la démocratie» alors même qu'elle a renversé le président élu du pays, Mohamed Morsi, lors du coup d'Etat militaire du 3 juillet. «Des millions et des millions de gens demandaient à l'armée d'intervenir, ils avaient tous peur de sombrer dans le chaos, dans la violence.» Il a poursuivi, «Et l'armée n'a pas pris le pouvoir, d'après ce que nous comprenons jusque... jusqu'ici. Il y a un gouvernement civil. En fait, ils restauraient la démocratie.» 

Mohamed Morsi est –il indemne de reproches ?

Dans les pays évolués, quand un président est élu pour un mandat, il ne vient à l’idée de personne de remettre en cause sa légitimité en le « déposant » avant la fin de son mandat. Pourquoi avoir interrompu un processus que chacun s’accorde à dire qu’il est difficile à faire aboutir dans les temps d’un coup de baguette magique ou comme dit on en pays arabe ; « khatem sidna Soulimane », la bague de Sidna Soulimane censé  produire des miracles contre le chômage,  la chute du tourisme, le népotisme et les mauvaises habitudes de l’ancien système.   De plus il faut  signaler que tout le monde «occidental» l'avait adoubé et même les potentats réactionnaires du Golfe qui l'ont aidé financièrement. Que s'est-il passé pour qu'il tombe en disgrâce? Pourtant, il a fait ce qu'on lui a demandé à l'extérieur vis-à-vis de l'extérieur, allant jusqu'à inonder les tunnels de Rafa pour asphyxier les Palestiniens de Ghaza, il a dénoncé Damas, coupé les relations diplomatiques, chassé l'ambassadeur. Montré chaque fois que demandé, son allégeance.

 

A l'intérieur de l'Egypte il semble que cela soit tout à fait  une autre affaire ! Morsi a été élu, disent ses détracteurs, dans des conditions douteuses et aurait, toujours, d'après ses détracteurs amené l'Egypte au chaos. Tarek Ezzat, un militant anti-Morsi nous explique  dans un catalogue à la Prévert, comment Morsi n'a pas été élu démocratiquement: 
«1-Fraude en masse, chrétiens et femmes menacées pour les dissuader de voter, assassinat d'opposants. Son parti et la confrérie islamique ont falsifié les listes électorales, C'est pour permettre à ces fraudeurs de voter partout que les élections ont été étalées sur plusieurs jours. 2- Une autre affaire de fraude concerne l'imprimerie nationale qui a émis plusieurs centaines de milliers de bulletins de vote qui ont été remis aux partisans de Morsi pour bourrer les urnes. 
3-Les anti-Morsi et surtout les chrétiens ont été interdits de vote parfois sous la menace de brûler leurs maisons ou leurs commerces et de tuer leurs enfants. 
4-La magistrature a refusé de superviser les bureaux de vote, parce que les «Frères musulmans» s'attroupaient en masse dans les bureaux de vote pour intimider les votants et les obliger à voter pour Morsi. (...) 
5-Le jour où la Haute Cour constitutionnelle devait rendre sa décision sur la validité du vote sur la Constitution, des hordes payées par les islamistes ont assiégé le bâtiment de la cour et empêché les magistrats de se réunir.» 

A charge encore, sous le règne des Frères musulmans majoritaires, les «députés» de l'Assemblée nationale ont proposé les textes de lois suivants: une loi supprimant l'âge minimal du mariage, pour permettre le mariage des filles mineures et même enfant. Une loi supprimant la scolarité obligatoire des enfants et la gratuité de l'enseignement primaire. Depuis que Morsi a été «élu», les chrétiens étaient accusés d'être des «croisés» ennemis de l'Égypte et de l'Islam, En plus des chrétiens, il y a eu en mai 2013 un véritable pogrom où les islamistes ont assassiné d'autres musulmans chiites qui priaient. Morsi et sa mafia ont délibérément laissé des djihadistes de Aqmi et de Hamas investir le Sinaï, pour servir de force de soutien, Morsi a nommé comme gouverneur de la région touristique de Louxor un membre d'une association terroriste qui avait assassiné 75 touristes devant le temple de Hatshepsout ». 

Pour toute ces raisons, la coupe est pleine vue du côté de ses détracteurs. Tarek Ezzat, conclut : «  Le peuple, qui est la source de la légitimité démocratique n'a pas accepté de vivre 3 ans de plus sous ce régime criminel pour respecter une échéance électorale qui serait évidemment truquée et falsifiée comme la précédente.» .

Il y a  peut être  aussi, une autre cause : Il est indéniable, en effet  que  l’armée que l'on dit populaire est un segment important aussi de l'économie du pays (20 à 30 %du PIB), ce qui veut dire que le président Morsi voulait remettre en cause cela ?

Que peut encore faire l'armée ? 

Les jours et les mois qui viennent seront difficiles car chacun a bien conscience qu'une grande fracture a eu lieu entre les pros et les anti-morsi qui ont aidé l'armée dans le massacre des Frères musulmans. Les vengeances seront terribles et on s'oriente, à Dieu ne plaise vers un scénario à l'algérienne que nous avons connu et que nous ne souhaitons pas à notre pire ennemie, tant ce fut une guerre de tous contre tous, devant l’indifférence de la communauté internationale, nous qui nous égosillons dans le désert à tenter de convaincre de la nuisance de ce mal, jusqu’à ce que par miracle, on s’aperçoive 200.000 morts plus tard , que l’Algérie avait raison  dans son combat.

Que peut faire l'armée ?


Le chaos égyptien va favoriser les ´´jusqu'aux-boutistes´´ des deux bords et donc, violence et coup d'Etat. On peut légitimement penser que ce coup d'Etat a ouvert la boîte de pandore en Egypte. En décrétant l'état d'urgence on revient au régime de Hosni Moubarak, qui autorise les forces de sécurité: d'arrêter et fouiller sans restriction les personnes présentant une menace; pour garder en détention des suspects sans mandat et pendant des années; de surveiller les communications et les médias; d'interdire le port d'arme. Cette loi a permis à Moubarak de détenir environ 17.000 prisonniers politiques sans jugement, selon l'ONG Amnesty International. L’armée ne lâchera pas, elle s’est trop engagée ! Seule une communauté internationale mobilisée sérieusement pourra mettre fin à cette fitna


Que vont faire les Frères musulmans? 

De leur côté les Frères Musulmans savent que la cause est perdue, mais il semble que, pour le moment, les jusqu’aux-boutistes tiennent les rênes du mouvement, envoyant à l’abattoir des dizaines de jeunes chaque jour. Pourtant le mouvement des Frères Musulmans a dû sa longévité à sa souplesse, voire sa faculté de faire le dos rond dans des situations difficiles. Ce sont les compromis qui lui ont permit de durer. Il faut se souvenir, en effet, que le mouvement des Frères musulmans existe depuis plusieurs décennies et qu'ils ont toujours pu rebondir malgré des périodes difficiles. Il se présente comme l'allié objectif de l'Empire. De plus, leur faculté d'endoctrinement a fait que ce sont les faibles qui trinquent. Ces 500 morts, pour la plupart jeunes - comme la fille du leader Al Baltagui- sont-ils morts pour aller au paradis ou pour avoir une vie meilleure ici-bas? 

Pour Ali Hakimi, deux grandes lignes d'hypothèses se dégagent autour de l'attitude que les Frères égyptiens sont en train de camper pour récupérer le fauteuil de leur président élu Mohamed Morsi. La première reposerait sur leur pleine conscience du rapport de force qui prévaut et qu'ils ne devraient pas ignorer. Puisqu'il est évident qu'ils ont en face d'eux l'écrasante majorité du peuple égyptien et tous les moyens de la violence d'Etat, cette conscience de leur faiblesse et de leur isolement politique aurait pour preuve le recours aux femmes et aux enfants dans les rassemblements. De ce point de vue, la perspective d'un apaisement négocié du conflit n'est pas de mise. L'issue violente devient plus qu'inévitable. Céder se transformerait donc en reconnaissance, non seulement d'une défaite contre les ennemis de l'Islam, mais de l'impossibilité consommée de la réalisation d'un «Etat islamique», présenté comme alternative à «l'Etat laïque» en vigueur. 

Il faut croire qu'ils n'ont pas opté pour la sagesse, qui aurait fait qu'ils se retirent de la rue. Au contraire, par leur envahissement, ils ont braqué les autres Egyptiens contre eux. La preuve ce fut le carnage le lendemain Vendredi de la colère  avec plus de soixante dix morts. 

Les habitants du quartier de Rabaa Al-Adawiya, lit-on dans une contribution du Courrier international, ont déjà exprimé leur colère et leur frustration à se voir occupés par les partisans du président déchu: les dirigeants de la confrérie, en particulier son guide suprême Mohamed Badie et Mohamed Al-Beltagui pourraient choisir de mettre en danger leur organisation et l'Egypte, en les jetant dans une spirale de violence et d'instabilité. Les Frères musulmans n'ont visiblement pas tiré les leçons de leur confrontation avec Nasser dans les années 1950: (...) La seconde option passerait par une médiation entre l'armée et la direction des Frères musulmans. La colère gronde au sein même de la confrérie, où certains dénoncent la gestion de la crise par le guide suprême: chaque fois qu'ils ont été puissants, ou se sont crus puissants, les Frères ont systématiquement eu recours à la force et à la violence. (...) A cela s'ajoute leur tendance à se considérer perdants dès lors qu'ils n'ont pas tout raflé- ce dont témoignent, par exemple, leurs efforts pour prendre la main sur toutes les commissions parlementaires après leur victoire aux élections de 2012. (...) Enfin, il faut signaler que le projet islamique, dans le Monde arabe, est pour l'heure presque terminé (...) Mais s'ils persistent dans leur volonté d'escalade guerrière pour ramener Morsi au pouvoir, ils risquent de s'affaiblir. Et pour des décennies. 

La déchéance du Monde arabe musulman 

A des degrés divers les élites religieuses ou politiques arabes  sont responsables de l’anomie du Monde arabe qui est reparti pour un long Roukoud (affaissement moral) après la Nahda initiée par l’Emir Abdelkader puis par des penseurs comme Djamel Eddine El Afghani, Mohamed Abdou voire Mohamed Iqbal. Où sont-ils les héritiers de ces géants de la pensée ?

Pour expliquer le poids réel actuel  du Monde arabe musulman, il faut savoir que, dans toutes les statistiques scientifiques, il est invisible. L'Egypte que l'on dit «le poids lourd» du Monde arabe est un nain technologique. Les islamistes et l'armée s'entre-tuent avec des armes vendues par l'Occident aux belligérants. D'après le rapport du PNUD sur le développement humain 2005 «Le retard dans le domaine des connaissances et de leur transmission entraîne l'absence de démocratie». C'est le constat d'un groupe d'intellectuels de la région travaillant pour l'ONU. Le Monde arabe, avec quelque 280 millions d'habitants qui partagent une langue, une religion et une histoire communes, est un désert du savoir et de la création, selon un rapport d'un groupe d'intellectuels arabes. En raison d'un environnement culturel et politique rétif à la recherche, il publie de moins en moins de livres, lesquels sont de moins en moins lus et de plus en plus censurés. Il existe dans le monde, en moyenne 78,3 ordinateurs pour 1 000 personnes. Ce rapport n'est que de 18 pour 1 000 dans les 22 pays arabes. Et seuls 1,6% de leur population ont accès à Internet. Il y a plus d'internautes en Israël que dans le monde arabe.  (Le Monde arabe : Rapport du PNUD sur le Développement humain. 2005)  

De plus, le classement de Shanghai du jeudi 15 août 2013 des universités mondiales, confirme à nouveau  la nullité scientifique du Monde dit arabe, et la suprématie des universités américaines, qui se taillent la part du lion, avec le tiercé gagnant composé de Harvard, Stanford et Berkeley. Le Massachusetts Institute of Technology (MIT) est quatrième, l'université britannique de Cambridge, cinquième.»  Les universités arabes ne sont visibles qu'après la cinq millième place! C'est dire si le retard est important! 

Retard du à la croyance au XXIe siècle ?

Les Arabes sont–ils sous développés scientifiquement du fait qu’ils sont censés être des croyants et que c’est leur irrationalité qui les empêchent d’être rationnels ? Est-ce dû à l'islam voire à un gène qui fait que les musulmans sont croyants? Sommes-nous programmés pour croire? «Avons-nous un interrupteur «divin» dans la tête? Un bout de cervelle, une disposition particulière des neurones- Le gène de Dieu?-qui permettrait de nous identifier comme croyant ou non? Les neuroscientifiques, notamment aux États-Unis, depuis les années 1980, travaillent en tout cas sur cette hypothèse. D'où le développement d'un champ original de la recherche: la neurothéologie.» 

De plus, on dit que les athées seraient plus intelligents que les croyants? Des scientifiques de l'Université de Rochester, ont établi qu'ils sont en moyenne moins ´´intelligents´´ que les personnes athées; cette étude se fonde sur les capacités analytiques ou d'abstraction. C'est une étude à faire bondir les croyants de toutes obédiences.» 

Démocratie ou califat ?

En fait, ce n'est pas une question de croyance, les musulmans du fait de leurs dirigeants sans réelle légitimité ne sont pas libres. «En un mot comme en cent, rappelle Mohamed Bouhmidi, le Monde arabe ne s'appartient pas, et dans cet espace, l'Egypte encore moins. Dans ces conditions, il est difficile de parler de démocratie. Quand l'essentiel des décisions de souveraineté vous échappe, que vaut la souveraineté du peuple, postulat primordial de l'exercice de la démocratie qui traduirait en actes et en réalité cette souveraineté?(...)».

Pour René Naba, le califat est une utopie dans les conditions actuelles: «Un an de pouvoir a fracassé le rêve longtemps caressé d'un 4e Califat, qui aurait eu pour siège l'Egypte, le berceau des «Frères musulmans», devenue de par l'éviction brutale du premier président membre de la confrérie, la tombe de l'islamisme politique. Le Califat est une supercherie lorsque l'on songe à toutes les bases occidentales disséminées dans les monarchies arabes, faisant du Monde arabe la plus importante concentration militaire atlantiste hors des Etats-Unis. Dans un contexte de soumission à l'ordre hégémonique israélo-américain, le combat contre la présence militaire atlantiste paraît prioritaire à l'instauration d'un califat. Et le califat dans sa version moderne devrait prendre la forme d'une vaste confédération des pays de la Ligue arabe avec en additif l'Iran et la Turquie soit 500 millions de personnes, des réserves énergétiques bon marché, une main-d’œuvre abondante. En un mot, un seuil critique à l'effet de peser sur les relations internationales. Faute d'un tel projet, en présence des bases de l'Otan, le projet de restauration du califat relève d'une supercherie et d'un trafic de religions». 

«Le devenir de l'Islam, écrit Burhan Ghalioun, dépendra des efforts conscients de compréhension, d'assimilation et de maîtrise que les musulmans déploient pour dominer leur temps et leur environnement. Rien n'est certes gagné d'avance, mais rien non plus n'est perdu.

Il faut bien l'admettre, il n'est dans l'histoire aucune fatalité. Si le Texte reste actuel, c'est que les sociétés musulmanes n'en ont pas encore épuisé le sens, qu'il est encore capable de les inspirer et est ouvert à l'enrichissement.»(Burhan Ghalioun Islam et politique., Editions Casbah 1997) .

* enseignant à l'Ecole Polytechnique enp-edu.dz

NSA Surveillance Through the Prism of Political Repression

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NSA Surveillance Through the Prism of Political Repression

 
Ex: http://www.geopolitica.ru
 
July 28th marks the 35th anniversary of the political assassination of two Puerto Rican independence activists, Carlos Soto Arrivi and Arnaldo Dario Rosado, in the infamous Cerro Maravillai case. This case, which was widely followed among Puerto Ricans, involved an agent provocateur that led the activists to an ambush that resulted in their brutal murder by paramilitary agents within the colonial police force. The event led to two investigations, the second of which revealed a conspiracy to cover up both the assassination plot as well as the destruction and manipulation of evidence carried out by the colonial police and justice department, and well as the federal justice department and FBI. Cerro Maravilla symbolizes for many the most outstanding recent example of repressive measures, from surveillance to political assassination, unleashed by US imperialism against the anticolonial movement in Puerto Rico.

The recent revelations of NSA spying by Edward Snowden have provoked mass outrage across the globe. Much of the consternation comes from what is commonly understood as a violation of privacy. In the official media, Snowden’s actions have been framed as a debate between ‘national security’ and ‘privacy’. However, framing the question in these terms is pure subterfuge. The Puerto Rican experience shows that the true objectives of surveillance programs by intelligence agencies like the NSA, CIA, and FBI having nothing to do with ‘security’ or ‘protection’ but rather political repression. Systematic surveillance can only be understood as an essential part of state repression, the purpose of which is to intimidate those that question the status quo by promoting a culture of fear. One can never be separated from the other.

The systematic surveillance and repression of Puerto Rico’s anticolonial movement is obviously just one example of many. A brief historical sketch of US imperialism’s repressive efforts against anticolonial forces in Puerto Rico must begin with the political intrigues that preceded the 1898 military invasion as well as the martial law that characterized both military and civilian colonial governments in its immediate aftermath. This history goes on to include the surveillance and repressive attacks against the Puerto Rican Nationalist Party and its followers from the 30s through the 50s, which included massacres of unarmed civilians, political assassinations and imprisonments, the harassment and attacks against labor unions and newly emergent socialist organizations of the same period, as well as COINTELPRO operations against resurgent nationalist and socialist political formations during the 60s and 70s.ii Indeed, in 1987 it was revealed that over 130,000 files on individuals and organizations had been accumulated through systematic surveillance on the island. This history is an integral part of the parallel campaigns of systematic state repression unleashed within the United States against groups such as the Black Liberation Movement, the American Indian Movement, the Chicano Liberation Movement, radical labor organizations, progressive students and antiwar activists, as well as communists.iii As such, what constitutes a scandal for the broader public is in fact part of the daily reality for those that fight for freedom and an end to oppression.

Snowden’s revelation that the United States Security Group Command’s Sabana Seca installation, located in the northern coastal municipality of Toa Baja, is part of an international surveillance network, which includes the Fornstat program, comes to no surprise to Puerto Rican anticolonial activists. From Sabana Seca, US naval intelligence monitors and gathers Internet, phone, and other forms of communication. In 1999, Duncan Campbell and Mark Honigsbaum of The Guardian already highlighted the naval intelligence’s “Echelon” operations from Sabana Seca and other locations both in the US and internationally as part of joint US British surveillance programs.iv

What is critical to highlight about US imperialism in Puerto Rico is the continued military character of colonialism on the island. For the benefit of those that may be unaware or who take the position that US militarism characterized only the past history of colonialism in Puerto Rico, a few contemporary examples serve to illustrate the point. Over the past decade and a half, Puerto Ricans have mobilized en masse to oppose a proposed military radar system intended for the Lajas valley in the southwestern part of the island, to end the practice of using the eastern island of Vieques as a bombing range by the US military and its allies (It should be noted that there was also a successful campaign to end the militarization of Culebra island also off the eastern coast of the main island in the 70s), and in more recent times against a system of potentially toxic and environmentally destructive antennas used both by the military and cellular companies that have proliferated across the island. In an article in the current issue of Claridad, the spokesperson for the grassroots Coalition of Communities Against the Proliferation of Antennas, Wilson Torres, sheds light on the US military’s Full Spectrum Dominance program currently being implemented in Puerto Rico. v

Understood in the context of pervasive unemployment, which serves to ensure an ever present pool of recruits used as cannon fodder in US military campaigns throughout the world as well as the structural dependence of large parts of the colonial economy on the Pentagon, this picture constitutes the modified form of US militarism in Puerto Rico in the present context. One may add the militarization of the colonial police force in the ongoing attacks against residents of public housing and other marginalized communities to this reality.

It would not be difficult to draw parallels between much of what is described immediately above and the realities faced by many North Americans. Heavy-handed policing and economically depressed communities dependent upon military or prison industries are a familiar reality for many. Yet the notion that the United States of America is characterized by a repressive state is much more difficult for the average person to accept. The narrative of 9/11 provides the pretext that results in the conflation of national security and state repression in the minds of many.

Notwithstanding, the revelations about the NSA spying program have provoked the condemnation of all except the most recalcitrant sycophants of US imperialism. Yet, it is absolutely necessary to place these programs in the context of the long history of state repression and militarism. Those on the left must push to extend the public discourse beyond questions of personal privacy to a discussion of systematic political repression within increasingly militarized “liberal” democracies. The experiences of anticolonial activists and militant, class-conscious revolutionaries from Puerto Rico lend valuable insights that add to the discussion around the significance of what Snowden’s leaks reveal: systematic surveillance and state repression are two sides of the same coin.

An insightful comment by Marx, writing in the New York Daily Tribune about British imperialism in India during the mid 1800s and often repeated among Puerto Rican comrades, is a useful starting point for the US left:

“The profound hypocrisy and inherent barbarism of bourgeois civilization lies unveiled before our eyes, moving from its home, where it assumes respectable form, to the colonies, where it goes naked.”

mardi, 20 août 2013

La Syrie, nouveau champ de bataille de la lutte entre Talibans afghano-pakistanais et Chiites

La Syrie, nouveau champ de bataille de la lutte entre Talibans afghano-pakistanais et Chiites

par Gilles-Emmanuel Jacquet

Ex: http://www.realpolitik.tv

Le Printemps Arabe et les guerres en Libye puis Syrie ont banalisé au sein de l’opinion publique occidentale l’autre grand conflit de cette décennie, celui d’Afghanistan, or ce dernier est loin d’être pacifié. Bien que le conflit et le contexte afghans ne peuvent être directement comparés avec ce qui se passe dans le monde arabe et plus particulièrement en Syrie, on a pu assister récemment à une interaction croissante entre ces deux théâtres d’opérations et les groupes djihadistes qui y combattent.

Les Talibans afghans et pakistanais à l’assaut de la Syrie

L’Afghanistan a servi de terrain d’entraînement à de nombreux groupes radicaux combattant désormais en Syrie et de nombreux mouvements djihadistes continuent de combattre en Afghanistan (Tchétchènes, Tadjiks, Ouzbeks du Mouvement Islamique d’Ouzbékistan, Hizb ul-Tahrir, combattants arabes d’Al Qaïda, Talibans pakistanais du TTP) [1]. Les contacts qui ont été établis depuis le Djihad contre l’Armée Rouge et qui ont été renforcés sous l’Émirat Islamique des Talibans ou au sein de l’insurrection depuis 2001 ont pu faciliter l’acheminement de combattants afghans et de ressources financières en Syrie notamment – mais pas uniquement – par le biais du système de paiement informel connu sous le nom de « Hawala » [2] ou par le biais de la « Zakât », l’aumône. Les ressources tirées d’activités criminelles ont aussi joué un rôle et comme l’a expliqué Viktor Ivanov, le directeur du service fédéral russe de lutte contre les stupéfiants, de nombreux groupes rebelles opérant en Syrie ont été financés grâce à l’argent tiré du trafic de drogue en provenance d’Afghanistan [3].

Au printemps 2012 des affiches ont fleuri dans différents quartiers de Kaboul et certaines étaient visibles dans les environs de Bagh-e Bala et de l’hôtel Intercontinental. Ces affiches invitaient les Afghans à soutenir la lutte des rebelles syriens et ne provenaient pas d’une association démocrate ou d’une ONG défendant les Droits de l’Homme. Celles-ci comportaient une forte connotation religieuse et arboraient, à côté du drapeau afghan, ceux des insurgés syriens, de la Turquie, du Qatar et de l’Arabie Saoudite. La présence de djihadistes afghans en Syrie n’est pas surprenante dans la mesure où de nombreux salafistes étrangers y sont également actifs et ce phénomène exprime la logique de solidarité globale de l’Oumma combattante, basée sur des réseaux terroristes transnationaux ayant montré leur capacité à opérer dans de nombreux pays et à mobiliser des partisans de différentes nationalités. Cette présence de combattants afghans a été évoquée à maintes reprises par certains médias ou journalistes (tels que Anastasia Popova de la chaîne Russia 24) ainsi que des hommes politiques afghans ou même turcs mais elle reste difficile à chiffrer.

Le dirigeant du Parti Démocratique Turc Namik Kemal Zeybek a ainsi affirmé que 10 000 Talibans et membres d’Al Qaeda étaient soutenus par le gouvernement turc, tout en ajoutant que 3000 terroristes avaient reçu un entraînement dans des camps en Afghanistan et au Pakistan avant d’être envoyés en Syrie [4]. Selon Zeybek, cette politique menée par le gouvernement AKP comporte également le risque d’assister à la pénétration de ces groupes fondamentalistes au sein de la société turque et de subir à terme des attaques terroristes menés par ces derniers [5]. Le président du PDT a précisé que les Talibans afghans occupaient un camp de réfugiés localisé dans la province du Hatay à partir duquel ils mèneraient des attaques ponctuelles en territoire syrien (le militant anti-impérialiste Bahar Kimyongür a également témoigné de la présence de combattants étrangers dans le Hatay et à l’aéroport d’Antioche) [6].

Au cours du mois de juillet 2013 un commandant opérationnel taliban du nom de Mohammad Amine à confié à la BBC qu’il était responsable d’une base talibane en Syrie et que la cellule chargée de mener le Djihad dans le pays y avait été établie en janvier 2013 [7]. Lors de sa création cette structure talibane a reçu la bénédiction du TTP (Tehrik-e-Taliban Pakistan) et bénéficié de l’aide de vétérans du Djihad en Afghanistan, originaires de pays du Moyen Orient et installés en Syrie au cours des dernières années [8]. Les Talibans pakistanais auraient envoyé en Syrie au cours des deux derniers mois au moins 12 spécialistes du combat et des technologies de l’information afin de développer les opérations conjointes menées avec leurs camarades syriens et évaluer les besoins existants [9]. Cette cellule envoie également des informations sur la situation militaire à l’organisation mère basée au Pakistan et d’après Mohammad Amine, « Il y a des douzaines de Pakistanais enthousiastes à l’idée de rejoindre le combat contre l’Armée Syrienne mais le conseil que nous avons reçu pour le moment est qu’il y a suffisamment d’hommes en Syrie » [10].

Au cours du même mois deux autres commandants talibans basés au Pakistan ont confirmé anonymement ces déclarations en ajoutant que des centaines de leurs combattants avaient été envoyé en Syrie à la requête de leurs camarades arabes : « Étant donné que nos frères arabes sont venus ici [Pakistan / Afghanistan] pour nous soutenir, nous sommes obligés de les aider dans leurs pays respectifs et c’est ce que nous avons fait en Syrie » [11]. Les combattants talibans opérant en Syrie font partie d’un réseau international structuré ou du moins organisé et leur engagement se veut durable comme l’explique un de ces commandants talibans pakistanais : « Nous avons établi des camps en Syrie. Certains de nos hommes y partent et reviennent après y avoir passé un certain temps à combattre » [12]. Comme l’a expliqué l’expert pakistanais Ahmed Rashid, l’envoi de Talibans en Syrie est un moyen pour le mouvement de prouver sa loyauté ou montrer son allégeance aux groupes armés radicaux se réclamant d’Al Qaïda mais aussi d’affirmer sa capacité à combattre hors de ses théâtres d’opérations habituels que sont le Pakistan et l’Afghanistan : « Ils agissent comme des djihadistes globaux, précisément avec l’agenda d’Al Qaïda. C’est un moyen (…) de cimenter leurs relations avec les groupes armés syriens…et d’élargir leur sphère d’influence » [13]. Certains membres du gouvernement pakistanais comme le Ministre de l’Intérieur Omar Hamid Khan ont en revanche démenti toutes ces déclarations, affirmant que les Talibans ne pouvaient aider leurs camarades syriens dans la mesure où ils auraient subi de nombreuses pertes infligées par les forces de sécurité pakistanaises et auraient « abandonné leurs fiefs dans les zones tribales » [14].

 

La Syrie, nouveau champ de bataille de la lutte entre Talibans afghano-pakistanais et Chiites

La Syrie, nouveau champ de bataille de la lutte entre Talibans afghano-pakistanais et Chiites. Credit : The World Factbook (cc)

 

Bien que les insurgés islamistes du Pakistan soient sous forte pression de la part de l’armée pakistanaise ou de l’armée américaine, ceux-ci ont pu envoyer un certain nombre des leurs combattre en Syrie : comme l’ont rapporté trois responsables de l’ISI basés dans les zones tribales, les djihadistes partis combattre contre le gouvernement de Damas appartiennent principalement à Al-Qaïda, au Tehrik-e-Taliban Pakistan et au Lashkar-e-Jhangvi [15]. La présence croissante de ces mouvements et des autres organisations djihadistes parmi les rangs de la rébellion indique une radicalisation idéologique ou religieuse du conflit mais aussi une intensification des luttes internes entre l’ASL et ses frères ennemis djihadistes (dont la composante Talibane pakistanaise ou afghane pourrait jouer le rôle de bourreau selon Didier Chaudet) tout en compliquant également la tâche de Washington dans son soutien apporté aux insurgés syriens [16]. Didier Chaudet ajoute que cette présence talibane « a fait son apparition alors que les forces de Bachar el-Assad ont repris du terrain face à la rébellion grâce à l’aide de forces chiites pro-iraniennes, notamment le Hezbollah » et ce serait également « une réponse à un recrutement antérieur de 200 Pakistanais chiites par l’Iran » : « Ces derniers auraient combattu à Alep ou à Homs. (…) L’engagement des Taliban pakistanais serait donc une réponse à une poussée chiite qui s’appuie elle aussi sur des forces étrangères » [17].

Pour les Talibans pakistanais la lutte contre le régime de Bachar Al-Assad est tout autant idéologique que confessionnelle : le Parti Ba’as et son dirigeant alaouite sont perçus comme les oppresseurs chiites d’une majorité sunnite [18]. Avant de se rendre en Syrie durant la première semaine de juillet 2013, un militant taliban se faisant appeler Suleman a ainsi expliqué que « Notre but et objectif est de lutter contre les Chiites et de les éliminer (…) C’est bien plus gratifiant si vous luttez en premier contre le mal ici et que vous voyagez pour ce noble but. Plus vous voyagez, plus grande sera la récompense d’Allah » [19]. Avant d’aller combattre contre les Chiites et les Alaouites de Syrie Suleman a déjà acquis une longue expérience dans ce domaine en participant aux persécutions et attentats menés contre les Chiites du Pakistan [20].

La communauté chiite du Pakistan (15-20% de la population) a souvent été visée par les groupes radicaux sunnites tels que le Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), le Lashkar-e-Jhangvi (LeJ) ou le Sipah-e-Sahaba (SSP) et depuis 2012, année au cours de laquelle 320 chiites furent tués (dont 100 principalement Hazaras au Baloutchistan), ces attaques sont en forte recrudescence [21]. En décembre 2012 des pèlerins se rendant en Iran furent attaqués dans le sud-ouest du pays [22] et en 2013 ces attentats confessionnels ont continué à croître [23]: en février 2013 90 personnes furent tuées par une bombe dans un marché d’un quartier hazara de Quetta [24], en mars 2013 un attentat tua 48 Chiites à Karachi et fit au moins 150 blessés [25], enfin le 21 juin 2013 l’attentat contre la mosquée chiite de Peshawar fit au moins 15 morts et deux douzaines de blessés [26].

Des Chiites pachtounes vivent dans les zones tribales, dans la région de Kurram, et ils sont également victimes d’attentats menés par leurs compatriotes sunnites (les Soufis sont aussi visés) depuis de nombreuses années: les processions de l’Achoura ont été régulièrement la cible d’attaques, des écoliers chiites ont été attaqué en février 2009 à Hangu [27] ; 10 Chiites ont été assassiné à Hangu en 2011 par des insurgés du TTP [28] ; 2 autres ont été torturés à mort en juin 2012 par des militants du SSP et le 1er février 2013 une mosquée chiite de Hangu fut détruite par une moto piégée causant 27 morts ainsi que des douzaines de blessés [29]. Afin de se protéger les Chiites pakistanais se sont organisés en formant le mouvement Tehrik-e-Jafaria Pakistan en 1979 puis au début des années 1990 un groupe d’autodéfense appelé Sipah-e-Muhammad Pakistan mais qui fut interdit par Pervez Musharraf en août 2001 [30]. Les populations chiites pachtounes disposent d’armes et peuvent former des milices villageoises servant à protéger leur communauté mais aussi, comme me l’a rapporté une source locale, à traquer les Talibans : de grandes battues sont ainsi organisées et peuvent rassembler plus d’une centaine d’hommes [31]. Ces derniers sont parfois précédés de joueurs de « dhol », « dholak », « daira » ou « daf » (tambours locaux) et il est arrivé que des prisonniers Talibans soient dépecés ou mutilés puis renvoyés vers leurs camarades en guise d’avertissement [32].

La branche pakistanaise du Hizb-ut Tahrir (Parti de la Libération) a déclaré à la mi-juillet 2013, en invoquant un extrait du verset 72 de la sourate 8 « Al-Anfal » du Coran [33], que les Musulmans du Pakistan ne pouvaient pas se satisfaire d’envoyer seulement un soutien matériel ou financier aux Djihadistes combattant en Syrie mais qu’ils devaient aussi se montrer solidaires en les rejoignant sur le terrain [34]. Pour le HuT la lutte armée doit être menée tout autant contre le régime syrien que le « régime de Kayani et Shareef » au Pakistan : le gouvernement pakistanais a nié à de nombreuses reprises la présence de djihadistes pakistanais en Syrie et son alliance avec les États-Unis l’ont transformé en régime impie aux yeux des fondamentalistes locaux [35]. Dans son communiqué du 17 juillet 2013, le Hizb-ut Tahrir a ainsi expliqué que le gouvernement pakistanais était l’allié du régime de Damas, que tous deux étaient inféodés aux États-Unis et faisait figurer en guise de preuve accablante une photo d’Asif Ali Zardari serrant la main de Bashar Al-Assad [36]. La branche pakistanaise du HuT a également appelé les djihadistes en Syrie à résister à toute infiltration occidentale de leur mouvement puis invité les forces armées pakistanaises à prendre les armes contre les gouvernements de Damas et d’Islamabad [37].

Les zones tribales pachtounes abritent des camps d’entraînement où ont été formés de nombreux djihadistes afghans, pakistanais, arabes, caucasiens (tchétchènes, daghestanais), ouzbeks ou tadjiks combattant en Syrie. Deux groupes distincts de djihadistes opérant en Syrie proviennent de ces camps pakistanais et une bonne partie de leurs membres dispose d’une expérience du combat acquise en Afghanistan contre les troupes de l’ANA et de l’ISAF. Selon des responsables de l’ISI ayant souhaité garder l’anonymat, le premier groupe est composé d’Arabes du Moyen Orient, de Turkmènes ou d’Ouzbeks ayant combattu en Afghanistan et ayant décidé de partir en Syrie car le conflit qui s’y déroule leur est apparu comme prioritaire [38]. Des sources anonymes au sein des Talibans pakistanais ont confié que des membres d’Al Qaïda ayant participé à la formation de leurs hommes (entraînement au combat, fabrication d’explosifs et IED, etc.) appartenaient à ce premier groupe et étaient désormais en Syrie [39]. Ni les autorités pakistanaises ni les Talibans n’ont pu donner de chiffres précis quant à ces effectifs ou aux itinéraires suivis par ces djihadistes étrangers afin de se rendre en Syrie depuis le Pakistan [40].

Mohammed Kanaan, un activiste rebelle d’Idlib, a confirmé à des journalistes d’Associated Press la présence de combattants pakistanais dans sa région mais précisé que ceux-ci n’étaient pas nombreux: « La plupart des étrangers [le terme plus exact employé est « muhajireen »] sont des combattants arabes de Tunisie, Algérie, Irak et Arabie Saoudite (…) Mais nous avons également vu des Pakistanais et des Afghans récemment » [41]. Ces derniers appartiennent au second groupe en provenance du Pakistan ou d’Afghanistan et il s’agit principalement de militants locaux du TTP et du Lashkar-e-Jhangvi [42]. Tout en se montrant prudent sur les effectifs ou la composition de cette présence talibane en Syrie, Didier Chaudet confirme qu’ « il y a bien eu des combattants quittant l’Afghanistan et le Pakistan pour aller mener le “djihad” en Syrie, et cela depuis début juin, si l’on en croit certaines sources pakistanaises. Certes, il s’agirait en majorité d’auxiliaires étrangers du TTP, des combattants arabes et centrasiatiques. Mais des Taliban pakistanais feraient également le voyage pour participer à la guerre contre Assad. Et cela sans forcément avoir l’aval des djihadistes sunnites locaux » [43].

Le Printemps Arabe et les guerres en Libye puis Syrie ont banalisé au sein de l’opinion publique occidentale l’autre grand conflit de cette décennie, celui d’Afghanistan, or ce dernier est loin d’être pacifié. Bien que le conflit et le contexte afghans ne peuvent être directement comparés avec ce qui se passe dans le monde arabe et plus particulièrement en Syrie, on a pu assister récemment à une interaction croissante entre ces deux théâtres d’opérations et les groupes djihadistes qui y combattent. Suite.

Mohammed Kanaan, un activiste rebelle d’Idlib, a confirmé à des journalistes d’Associated Press la présence de combattants pakistanais dans sa région mais précisé que ceux-ci n’étaient pas nombreux: « La plupart des étrangers [le terme plus exact employé est « muhajireen »] sont des combattants arabes de Tunisie, Algérie, Irak et Arabie Saoudite (…) Mais nous avons également vu des Pakistanais et des Afghans récemment » [41]. Ces derniers appartiennent au second groupe en provenance du Pakistan ou d’Afghanistan et il s’agit principalement de militants locaux du TTP et du Lashkar-e-Jhangvi [42]. Tout en se montrant prudent sur les effectifs ou la composition de cette présence talibane en Syrie, Didier Chaudet confirme qu’ « il y a bien eu des combattants quittant l’Afghanistan et le Pakistan pour aller mener le “djihad” en Syrie, et cela depuis début juin, si l’on en croit certaines sources pakistanaises. Certes, il s’agirait en majorité d’auxiliaires étrangers du TTP, des combattants arabes et centrasiatiques. Mais des Taliban pakistanais feraient également le voyage pour participer à la guerre contre Assad. Et cela sans forcément avoir l’aval des djihadistes sunnites locaux » [43].

Miliciens Chiites afghans appartenant aux forces syriennes pro-gouvernementales. Environs de Joubar (Damas). Source: page Facebook du Hayaa el-Akila

Miliciens Chiites afghans appartenant aux forces syriennes pro-gouvernementales. Environs de Joubar (Damas). Source : page Facebook du Hayaa el-Akila

Les grands médias occidentaux n’ont presque pas relaté ce problème et rares sont les photos ou vidéos attestant de cette de cette présence talibane en Syrie. Une vidéo diffusée sur internet durant la seconde moitié d’avril 2013 a été présentée comme une preuve concluante : on y voit un combattant arabe n’étant apparemment pas d’origine syrienne, entouré de 11 hommes armés dont 3 cavaliers, faire un discours en Arabe classique dans une région rurale de Syrie [44]. La plupart de ces hommes sont équipés de différents modèles de Kalachnikov mais au moins trois d’entre eux disposent de M16 ou M4 à lunettes et tous portent le « shalwar-kamiz » (la tenue portée en Inde, au Pakistan et en Afghanistan) voire des cheveux longs en plus de longues barbes (ce qui est parfois un signe distinctif des Talibans) mais ce dernier élément ne fait pas pour autant de tous ces hommes des Talibans afghans ou pakistanais [45]. L’affiliation de ces hommes est en revanche très claire dans la mesure où l’un d’eux tient le drapeau de l’État Islamique d’Irak et du Levant (drapeau noir comportant la première moitié de la Shahada rédigée en blanc dans la partie supérieure et le sceau du Prophète Mahomet dans la partie inférieure) [46]. Une autre vidéo tournée à Idlib lors de la décapitation de 3 Syriens par des combattants appartenant vraisemblablement au Jabhat al-Nusra et diffusée aux environs du 26 juin 2013 sur internet apporte la preuve irréfutable de la présence de djihadistes étrangers dans la région mais il est difficile de savoir si des Afghans ou des Pakistanais se trouvaient parmi eux. La décapitation de ces trois Syriens – parmi lesquels peut-être le Père François Mourad selon certaines sources [47] – a été commise par un djihadiste barbu, aux cheveux longs et à la physionomie laissant penser qu’il pourrait être tchétchène ou du moins caucasien alors que celui qui a lu la sentence s’exprime, selon Steven Miller, dans un Arabe médiocre [48]. Parmi les autres djihadistes présents on entend de forts accents, parfois ce qui pourrait être du tchétchène ou une langue caucasienne et on aperçoit des visages de type asiatique ou européen mais aussi un individu barbu portant un « pakol » (le chapeau porté au Pakistan et en Afghanistan, popularisé par le Commandant Ahmad Shah Massoud) [49]. En dépit de ce dernier élément il reste difficile de savoir si ce combattant est d’origine pakistanaise ou afghane dans la mesure où il a pu ramener ce « pakol » suite à un « séjour » en Afghanistan ou au Pakistan, ou l’acquérir auprès d’un Afghan, d’un Pakistanais ou de toute autre personne et surtout qu’il le porte d’une manière montrant clairement qu’il n’est ni Afghan ni Pakistanais.

Bien que les preuves de cette présence soient rares les témoignages de djihadistes, experts, reporters de guerre, personnels humanitaires ou tout simplement de citoyens syriens existent à ce sujet. Dans la province d’Alep aucun combattant afghan ou pakistanais n’aurait été hospitalisé dans les hôpitaux de l’arrière ou ceux situés à proximité des camps de réfugiés comme celui de Bab al Salam mais il est possible que ces djihadistes aient été hospitalisés dans des hôpitaux de campagne plus proches de la ligne de front ou qu’ils soient engagés dans d’autres régions [50]. Durant les combats pour l’aéroport de Ming il semble qu’aucun Taliban afghan ou pakistanais n’ait été présent [51]. Dans les hôpitaux de l’arrière on a pu noter la présence croissante de combattants parmi les blessés et particulièrement celle de nombreux étrangers tels que des Daghestanais, Tchétchènes et Tadjiks ou même un Français et un Autrichien [52]. Certains membres du personnel hospitalier s’occupant de ces combattants ou des membres du personnel local de certaines ONG œuvrant dans la province d’Alep ont confirmé la présence de Talibans pakistanais ou afghans en Syrie mais aucun élément précis n’a pu être donné à ce sujet et dans la plupart des cas il s’agit de témoignages rapportés indirectement [53]. Les djihadistes étrangers opérant sur le front syrien tentent de rester discrets : ceux-ci s’efforcent de ne s’exprimer qu’en Arabe classique afin de ne pas être reconnus et leurs séjours dans les hôpitaux de l’arrière sont d’une durée très limitée, généralement suivie d’un transfert dans des maisons de convalescence ou de repos séparées et tenues par les groupes armés auxquels ils appartiennent [54].

Au cours de conversations tenues en mai 2013 à Kaboul avec des fonctionnaires du Ministère de la Justice afghane, un assistant du Procureur Général de la République Islamique d’Afghanistan ou des officiers de l’Armée Nationale Afghane il est apparu que très peu d’informations précises ou d’éléments concrets avaient pu être réunis au sujet de la présence de Talibans afghans en Syrie [55]. Une discussion que j’ai eu au cours de ce séjour avec un vénérable universitaire afghan ayant enseigné à l’Université de Pune en Inde ainsi qu’à Oxford et menant des recherches sur un tout autre sujet (la période troublée du court règne autocratique d’Habibullah Kalakâni dit « Batcha-e-Saqâo ») dévia sur la question du conflit syrien et put en revanche amener certaines pistes intéressantes [56]. Cet universitaire me confirma la présence de djihadistes afghans ou pakistanais en Syrie puis affirma qu’environ 700 Afghans y avaient perdu la vie au combat (aucune source précise n’a pu être fournie) et que leurs corps seraient ramenés en Afghanistan [57]. S’interrogeant sur ce phénomène et ses causes politiques ou historiques, il me fit part de ce qu’il voyait sincèrement comme un paradoxe: « Comment se fait-il que ceux qui sont des oppresseurs ici en Afghanistan (les Talibans) soient des combattants de la liberté [sic, le terme « freedom fighters » a bien été employé] en Syrie ? » [58]. Pour cet universitaire afghan qui n’est aucunement un fondamentaliste, la cause première du problème en Syrie ou en Afghanistan est liée aux systèmes politiques de ces deux pays ou plus clairement à leur régime formellement républicain : citant en exemple la Grande Bretagne ou l’âge d’or révolu du règne de Zaher Shah, il m’expliqua que la monarchie est un gage de stabilité ou de modération politique alors que la république ferait invariablement le lit des régimes autoritaires, dictatoriaux ou totalitaires [59]. Pour cet intellectuel afghan Bashar al-Assad et le Parti Ba’as ne seraient que des avatars syriens de Mohammed Najibullah et de l’ancien PDPA partageant de nombreux traits communs tels qu’un régime républicain autoritaire et se voulant plus ou moins laïc ou encore l’alliance stratégique et politique avec Moscou [60].

Membres de la communauté Chiite afghane de Sayeda Zaynab (Damas) devant le sanctuaire du même nom. Source: page Facebook du Hayaa el-Akila

Membres de la communauté Chiite afghane de Sayeda Zaynab (Damas) devant le sanctuaire du même nom. Source : page Facebook du Hayaa el-Akila

D’après un militant Taliban se faisant appeler Hamza la raison de la présence de ses camarades en Syrie n’est pas uniquement religieuse mais aussi la conséquence des opérations menées par les forces de sécurité pakistanaises dans les zones tribales pachtounes [61]. L’armée pakistanaise a accentué sa pression et sa surveillance sur les Talibans, en capturant un certain nombre comme Suleman en 2009 (suite à une attaque ayant tué 35 personnes à Lahore) et poussant ainsi les autres à s’exiler pour le front syrien [62]. Selon Hamza, Suleman a fait partie d’un groupe de 70 djihadistes envoyés en Syrie au cours des deux derniers mois et ce réseau est géré conjointement par le le TTP et le Lashkar-e-Jhangvi [63]. Ce second groupe de djihadistes provenant du Pakistan est composé de ressortissants de ce pays, originaires du Baloutchistan, du Penjab, de Karachi et bien évidemment de la Khyber Pakhtunkhwa (les fameuses zones tribales pachtounes) [64]. Hamza de son côté fait partie d’un autre peloton d’une quarantaine d’hommes qui devrait avoir rejoint le front syrien à l’heure actuelle [65]. Hamza a confié que son groupe n’incorporerait pas le Front Al-Nusra et qu’il ignorait dans quel milice seraient intégrés ses hommes mais il a pu en revanche livrer quelques informations intéressantes sur son réseau basé au Pakistan [66]. Ce réseau serait dirigé par un ancien cadre du Lashkar-e-Jhangvi répondant au nom d’Usman Ghani et l’ « autre membre clé est un combattant taliban pakistanais nommé Alimullah Umry, qui envoie des combattants à Ghani depuis Khyber Pakhtunkhwa » [67]. Les Talibans se rendraient en Syrie par divers itinéraires et certains seraient même partis avec leur famille [68]. Les Talibans les plus surveillés parviendraient à quitter secrètement le Pakistan en vedette rapide depuis les côtes du Baloutchistan puis à rejoindre le Sultanat d’Oman et sa capitale Mascate avant de se rendre en Syrie [69]. Les autres djihadistes pakistanais quittent leur pays par des vols commerciaux à destination du Sri Lanka, du Bangladesh, des Emirats Arabes Unis ou du Soudan puis empruntent différents itinéraires en direction de la Syrie [70].

Hamza a révélé que le financement de ces voyages proviendrait de sources basées aux Emirats Arabes Unis et à Bahreïn [71]. Son camarade Suleman se serait rendu au Soudan avec son épouse et leurs deux enfants en utilisant des faux passeports puis il aurait rejoint seul le front syrien [72]. Suleman a confirmé que des familles de djihadistes pakistanais partis en Syrie résident au Soudan où elles ne sont pas laissées à elles-mêmes dans la mesure où leur séjour est pris en charge par des sources qui n’ont pas été mentionnées [73]. Un membre du parti islamiste pakistanais Jamaat-e-Islami a de son côté confié anonymement à des journalistes d’Associated Press que des militants de cette organisation étaient également partis en Syrie mais sans passer par le biais d’un réseau organisé [74].

La journaliste ukrainienne Ahnar Kochneva a rapporté qu’au cours de sa capture par des rebelles syriens dans la localité de Zabadani elle a pu noter la présence de combattants tchétchènes, libyens, français et afghans [75]. Ahnar Kochneva a pu interroger ces Afghans quant à la raison de leur présence en Syrie et ceux-ci ont répondu : « On nous a dit que nous étions venus en Israël et la nuit nous tirons sur des bus israéliens. Nous luttons contre l’ennemi pour libérer la Palestine » [76]. Réalisant leur méprise ces derniers répondirent, surpris : « Nous sommes en Syrie ? Nous pensions que nous étions en Israël » [77]. Au début du mois d’août 2012 certaines sources gouvernementales syriennes rapportaient que 500 terroristes provenant d’Afghanistan avaient été éliminés au cours des combats à Alep : la plupart de ces djihadistes était composée de vétérans ayant combattu contre l’ISAF en Afghanistan [78]. Les forces armées syriennes ont rapporté que des dépouilles de combattants turcs avaient été également retrouvées à Alep [79]. Les opérations menées par les troupes gouvernementales durant la seconde moitié du mois de septembre à Alep auraient notamment permis l’élimination d’une centaine de djihadistes afghans déployés près de l’école Al-Fidaa al-Arabi dans le district de Bustan al-Qasr [80] mais les forces rebelles ont affirmé de leur côté que ce quartier n’avait fait l’objet d’aucune attaque [81].

Des Chiites afghans aux côtés des forces gouvernementales syriennes

Martyrs Chiites afghans tombés lors des combats à Joubar (Damas) contre les groupes armés radicaux sunnites. Source : page Facebook du Hayaa el-Akila

Martyrs Chiites afghans tombés lors des combats à Joubar (Damas) contre les groupes armés radicaux sunnites. Source : page Facebook du Hayaa el-Akila

L’implication de citoyens afghans dans le conflit syrien et le décès de 3 d’entre eux au printemps 2013 a poussé les autorités afghanes à diligenter une enquête mais le but de celle-ci n’est pas de faire la lumière sur les réseaux radicaux sunnites [82]. Cette enquête menée par le biais de l’ambassade d’Afghanistan en Jordanie vise plutôt à éclaircir un autre aspect du conflit portant sur l’implication de l’Iran et la présence supposée d’Afghans dans les rangs des combattants iraniens opérant en Syrie [83]. Radio Free Europe disposerait de preuves et plus particulièrement d’une vidéo montrant une carte d’identité afghane près d’un cadavre portant un uniforme de l’Armée Syrienne [84]. La victime répondrait au nom de Safar Mohammed, fils d’Ali Khan, et serait originaire de la province de Balkh [85]. Pour certains analystes, il ne fait aucun doute que l’Iran a envoyé des Afghans se battre aux côtés des forces syriennes pro-gouvernementales [84] mais très peu d’articles (surtout dans les langues occidentales) évoquent cet aspect encore plus méconnu du conflit. La page Facebook du « Hayaa el-Akila » (Comité de la Dame ou Noble Dame, en référence à Zaynab), un groupe de défense du sanctuaire chiite de Sayeda Zaynab, a pu apporter la preuve de la présence de Chiites afghans aux côtés des milices iraniennes, libanaises ou des forces gouvernementales [87]. Dans une photo postée sur la page Facebook de ce groupe on peut voir deux combattants aux traits afghans, sans barbes, armés d’une mitrailleuse PKM et d’un fusil de précision SVD Dragounov, équipés à la manière des forces gouvernementales syriennes et présentés comme étant des martyrs tués lors des combats à Joubar (quartier de Damas) contre les forces rebelles [88]. Dans une autre photo on voit ces deux martyrs en compagnie de deux de leurs camarades qui pourraient très probablement être des Afghans et qui sont également sans barbes, équipés comme les forces de sécurité syriennes, armés d’un RPG 7 et de ce qui semble être une AK 47 [89].

Le conflit frappant la Syrie et plus particulièrement sa dimension confessionnelle font craindre à juste titre un embrasement de certains pays où les relations entre Chiites et Sunnites sont déjà tendues, que ce soit au Moyen Orient, en Asie Centrale ou en Asie du Sud. L’attaque à la roquette du sanctuaire chiite renfermant le tombeau de Sayeda Zaynab (petite fille du Prophète Mahomet et fille de l’Imam Ali) à Damas le 19 juillet 2013 (le sanctuaire avait déjà été attaqué par un véhicule piégé le 14 juin 2012) par des radicaux sunnites a exacerbé ces tensions et suscité l’indignation des Chiites dans le monde musulman, notamment au Liban, en Irak, en Iran et au Pakistan [90]. La mosquée de Sayeda Zaynab (parfois appelé Bibi Zaynab) était protégée depuis 2012 par des combattants du Hezbollah libanais ainsi que des Chiites irakiens ou étrangers [91] appartenant au au Liwa’a Abu Fadl al-Abbas, une sorte de Brigade Internationale Chiite dirigée par Abou Ajib et Abou Hajar [92]. En avril 2013 le dirigeant du Parti d’Allah, Hassan Nasrallah, avait fermement menacé tout groupe qui tenterait de s’en prendre à ce mausolée : le 22 juillet 2013 le mausolée de Khalid bin Walid (un compagnon du Prophète), un sanctuaire sunnite, a été sérieusement endommagé lors de l’offensive de l’Armée Arabe Syrienne dans Homs et pour de nombreux sunnites ou membres de la rébellion, ceci a été perçu comme un acte de représailles en réponse à l’attaque du sanctuaire chiite de Damas [93].

A l’image de l’Irak ou du Liban (Sidon, Tripoli et Beyrouth Sud), certains pays d’Asie tels que l’Inde, le Pakistan ou l’Afghanistan connaissent de violentes tensions inter-communautaires entre Chiites et Sunnites et celles-ci pourraient encore plus se dégrader suite à ces attaques et à l’écart croissant de perception du conflit syrien au sein de ces deux communautés. Avant la guerre les Musulmans chiites d’Asie se rendaient souvent en pèlerinage au sanctuaire de Sayeda Zaynab et ceux-ci sont désormais convaincus que les radicaux sunnites ont délibérément attaqué le mausolée de la fille de l’Imam Ali et petite fille du Prophète [94]: le conflit syrien a servi de catalyseur à la rivalité entre Sunnites et Chiites mais loin de rester localisée ou cantonnée à certains pays musulmans, celle-ci revêt de plus en plus une dimension globale.

A Karachi, Islamabad et Quetta les Chiites pakistanais ont réagi par des manifestations et leurs coreligionnaires d’Inde et d’Afghanistan ont indiqué qu’ils feraient de même sous peu afin d’exprimer leur condamnation de cette attaque [95]. Les dirigeants de ces communautés chiites ont souhaité donner un caractère pacifique à leur mouvement de protestation mais le risque de dérapages ou de violences n’est pas à exclure si les forces de police locales tentent de disperser les manifestants par la force [96]. Les chiites pakistanais ne craignent pas seulement une possible et brutale répression policière de ces manifestations mais aussi des attentats visant leurs cortèges ou processions à Karachi, Lahore, Islamabad et Quetta [97]. La communauté chiite du Pakistan a été fréquemment la cible des fondamentalistes sunnites locaux dans le passé, notamment à l’occasion des grandes fêtes comme celle de l’Achoura et elle craint à nouveau d’être la victime d’engins explosifs improvisés (IED) ou d’attentats kamikazes organisés par le Lashkar-e-Jhangvi [98]. De tels actes ne manqueraient pas d’aggraver la situation et de déclencher de violentes émeutes à Lahore, Karachi ou Quetta [99]. En Inde, le mouvement de protestation découlant de l’attaque du sanctuaire de Sayeda Zaynab est enraciné dans les régions où vivent des communautés chiites, comme à Mumbai, Hyderabad, Bhopal, Lucknow et certaines parties de l’Uttar Pradesh [100]. Ce mouvement de protestation similaire à celui qui avait fait suite à l’attaque du mausolée de l’Imam Hussein à Kerbala (Irak) en 2005 devrait durer quelques semaines et s’étendre à l’Afghanistan où vivent les Hazaras : ces Chiites d’origine turco-mongole sont principalement localisés dans le Hazaradjat (Bamiyan et sa province), dans les districts de Taimani et Dashti Barchi à Kaboul [101] mais aussi au Pakistan et en Iran.

Le calvaire des réfugiés afghans en Syrie

Le conflit qui déchire la Syrie a coûté la vie à un très grand nombre de civils : 65 000 selon le Centre de Documentation des Violations en Syrie [102], 92 901 selon la Commission des Droits de l’Homme de l’ONU [103] ou encore 100 191 d’après l’Observatoire Syrien des Droits de l’Homme [104]. En plus de ces pertes humaines, 1 443 284 Syriens ont fui leur pays et de 2,5 à 4,25 millions de leurs compatriotes sont désormais des déplacés internes [105]. Le sort dramatique de la population civile syrienne ainsi que celui des minorités nationales est également partagé par un certain nombre d’étrangers, réfugiés ou requérants d’asile qui se sont retrouvés piégés dans le pays par le déclenchement des hostilités. On compterait dans le pays 2400 réfugiés et 180 requérants d’asile originaires de Somalie, 480 000 réfugiés irakiens ainsi que 1750 réfugiés et 190 requérants d’asile en provenance d’Afghanistan [106].

Ces derniers, qui sont pour la plupart Hazaras, se sont installés en Syrie pour raisons humanitaires et religieuses afin de fuir les persécutions dont ils faisaient l’objet en Afghanistan [105]. D’autres Hazaras ou Afghans de confession chiite se sont aussi établis en Syrie suite à des pèlerinages effectués dans les divers lieux saints du pays [108]. Les Afghans de Syrie et les réfugiés afghans qui résident essentiellement à Damas et dans ses environs ont vu leur situation se détériorer gravement à partir de juillet 2012 lorsque les combats touchèrent Sayeda Zaynab (quartier de Damas où est localisé le sanctuaire chiite du même nom) [109]: ils furent forcés de fuir et de s’installer dans des abris où ils vivent désormais de manière précaire [110]. Les Afghans chiites sont perçus par les rebelles syriens comme étant proches des Alaouites et sont donc vus comme des alliés du régime de Bashar Al-Assad mais dans les faits, leur neutralité affichée a au contraire suscité une certaine suspicion de la part des autorités ou de la communauté alaouite [111]. Les réfugiés afghans, facilement reconnaissables à leurs traits asiatiques ou à leur accent, ont été la cible de nombreuses violences, attaques ou actes de torture prenant la forme de persécutions à caractère religieux [112].

Dans une lettre adressée aux Nations Unies les réfugiés afghans ont expliqué qu’ « ils avaient été victimes de tortures et qu’ils avaient été menacés juste parce qu’ils sont différents et qu’ils croyaient dans une religion dite « Chiite » : une Afghane hospitalisée dans un état grave fut malmenée en raison de sa foi chiite et « plusieurs réfugiés afghans ont été capturés seulement parce qu’ils étaient « chiites » [113]. La nature sectaire de ces actes indique qu’ils sont bien souvent l’œuvre de groupes armés fondamentalistes sunnites (locaux ou étrangers) ou, comme ce fut le cas notamment en Irak, de groupes criminels ayant trouvé dans le Djihad un moyen de justifier et sanctifier leur business. Le 5 janvier 2013 une attaque au mortier tua deux jeunes Afghans de 17 et 18 ans, et en blessa grièvement 7 autres [114].

Après avoir été forcés de quitter Sayeda Zaynab, ces réfugiés se sont retrouvés dans une situation extrêmement précaire : les logements, hôtels ou abris pour réfugiés qu’ils occupaient ont été fréquemment pillés, détruits ou brûlés [115]. Les Afghans qui ont tenté de récupérer leurs biens laissés dans leurs anciens logements ont reçu des menaces et certains ont été enlevés [116]. Cette situation a poussé de nombreux Afghans à fuir la Syrie mais leur avenir semble être tout aussi incertain : pour la plupart ils n’ont plus de documents prouvant leur statut et beaucoup sont entrés à l’origine de manière illégale en Syrie [117]. Ne pouvant être pleinement assistés par le HCR, de nombreux Afghans en situation irrégulière ont été arrêtés par les forces de l’ordre syriennes avant d’être expulsés alors que d’autres ont pu rejoindre la Turquie pour y mener une existence précaire qui les jettera parfois dans les griffes des passeurs et des autres prédateurs du business de l’immigration clandestine. Les plus chanceux ont pu bénéficier de l’aide du Grand Ayatollah Sadiq al-Husaini al-Shirazi qui, en partenariat avec les autorités irakiennes, a permis l’installation de 500 familles afghanes à Kerbala [118]. D’après un réfugié afghan nommé Bakir Jafar, les bus transportant ses compatriotes ont été attaqué par des rebelles sunnites à la frontière avec l’Irak, forçant l’Armée Arabe Syrienne à intervenir : « Quand nous sommes arrivés à la frontière irakienne ils ont tenté de nous empêché de la franchir (…) Nous ne transportions pas d’armes et nous n’avons pas voulu prendre partie mais ils ont quand même fait feu avec leurs armes. L’Armée Syrienne les a empêché de faire feu davantage. S’ils ne l’avaient pas fait, nous aurions tous été tués » [119]. Les régions chiites de l’Irak méridional offrent aux réfugiés afghans un asile et une vie plus sûrs que ce qu’ils ont connu en Syrie mais la situation sécuritaire irakienne reste très préoccupante dans la mesure où le pays reste affecté par un conflit de basse voire moyenne intensité ainsi qu’une violence inter-communautaire forte entre Chiites et Sunnites (enlèvements, meurtres, attentats contre les mosquées du camp adverse, etc.). Kerbala étant une ville attirant de très nombreux pèlerins, les réfugiés afghans se sont plaints du coût de la vie qui y est beaucoup plus élevé qu’à Damas [120] mais ils ne peuvent pas pour autant s’installer dans d’autres régions d’Irak dans la mesure où leur sécurité n’y serait pas garantie et où leur vies y seraient autant menacées qu’en Syrie ou en Afghanistan.

Gilles-Emmanuel Jacquet

 

 

À propos de l'auteur

Titulaire d’un Master en Science Politique de l’Université de Genève et d’un Master en Études Européennes de l’Institut Européen de l’Université de Genève, Gilles-Emmanuel Jacquet s’intéresse à l’Histoire et aux Relations Internationales. Ses champs d’intérêt et de spécialisation sont liés aux conflits armés et aux processus de résolution de ces derniers, aux minorités religieuses ou ethnolinguistiques, aux questions de sécurité, de terrorisme et d’extrémisme religieux ou politique. Les zones géographiques concernées par ses recherches sont l’Europe Centrale et Orientale, l’espace post-soviétique ainsi que l’Asie Centrale et le Moyen Orient.

Notes

 

[1] Ghaith Abdul-Ahad, « Syria: the foreign fighters joining the war against Bashar al-Assad », The Guardian, 23/09/2012 et Hala Jaber, « Jihadists pour into Syrian slaughter », The Sunday Times, 17/06/2012
[2] Sur cette problématique voir Sebastian R. Müller, Hawala : An informal payment system and its use to finance terrorism, VDM Verlag Dr Müller, 2007 ; Committee on Banking, Housing, and Urban Affairs of the United States Senate, « Hawala and underground terrorist financing mechanisms », 14/11/2001 ; Charles B. Bowers, « Hawala, money laundering, and Terrorism finance: micro-lending as an end to illicit remittence », Denver Journal of International Law and Policy, 07/02/2009 ; David C. Faith, « The Hawala System », Global Security Studies, Winter 2011, Volume 2, Issue 1 et « Terror financing reliant on Hawala, NPOs », Money Jihad, 04/02/2013
[3] « Syrian rebels funded by Afghan drug sales », RIA Novosti, 11/04/2013
[4] « 3000 Turkish terrorists trained in Afghanistan for Syria war », Afghan Voice Agency, 18/12/2012
[5] Ibid.
[6] « Taliban militants use Turkey to infiltrate into Syria: Turkish lawmaker », Press TV, 19/12/2012
[7] Ahmed Wali Mujeeb, « Pakistan Taliban sets up a base in Syria », BBC News, 12/07/2013 et Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[8] [Ibid.].
[9] [Ibid.].
[10] [Ibid.].
[11] Maria Golovnina et Jibran Ahamd, « Pakistan Taliban set up camps in Syria, join anti-Assad war », Reuters, 14/07/2013
[12] Ibid.
[13] Ibid.
[14] Mushtaq Yusufzai, « Pakistani Taliban: « We sent hundreds of fighters to Syria », NBC News, 15/07/2013 et Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013
[15] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[16] Ibid. et Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[17] Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[18] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[19] Ibid.
[20] Ibid.
[21] « Pakistan: Shia killings escalate », Human Rights Watch, 05/09/2012
[22] « Pakistan bombing kills Shia pilgrims », CBC News, 30/12/2012
[23] « Anti-Shiite attacks up in Pakistan ; analysts say officials give militants room to operate », Fox News, 09/03/2013
[24] « Death toll in Pakistan’s anti-Shia attack rises to 90 », Press TV, 19/02/2013
[25] « Anti-Shiite attacks up in Pakistan ; analysts say officials give militants room to operate », Fox News, 09/03/2013
[26] « Bomb attack targeting Shia mosque in Pakistan kills 15 », Press TV, 21/06/2013
[27] « Taliban kill Shia school children in ambush in Hangu », LUBP, 27/02/2009
[28] « 10 Shia martyred in an attack near Hangu, by terrorist of Tehrik-e-Taliban », Jafria News, 13/03/2011
[29] « Death toll in Pakistan’s anti-Shia attack rises to 90 », Press TV, 19/02/2013 ; « Pakistan bomb: 21 die in Hangu Shia suicide attack », BBC News, 01/02/2013 ; « Hangu: blast outside Shiite Mosque leaves 22 dead », Shia Killing / PakShia, 01/02/2013 et « Suicide blast outisde Hangu mosque claims 27 lives », Dawn, 01/02/2013
[30] « Sipah-e-Mohammed, Terrorist group of Pakistan », South Asia Terrorism Portal
[31] Source locale confidentielle

[32] Source locale confidentielle
[33] « Mais s’ils implorent votre appui à cause de la foi, vous le leur accorderez, à moins que ce ne soit contre ceux qui sont vos alliés en vertu des pactes que vous avez noués avec eux. Allah le Très-Haut voit toutes vos actions », sourate 8 verset 72 « Al-Anfal », Coran.
[34] Hizb-ut-Tahrir, « Supporting Syria is a duty on the Pakistani military not just the Taliban », Khilafah, 15/07/2013
[35] Ibid.
[36] Ibid.
[37] Ibid.
[38] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[39] Ibid.
[40] Ibid.
[41] Ibid.
[42] Ibid.
[43] Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013

Notes

[41] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[42] Ibid.
[43] Didier Chaudet, « Des Talibans en Syrie ? », Huffington Post, 28/07/2013
[44] « From the mountains of Afghanistan to Syria: the Taliban are always there », Live Leak, 20/04/2013
[45] Ibid.
[46] Ibid.
[47] « Report: Syria militants behead two Christians », Syria Report, 26/06/2013 et « Youtube video shows graphic scenes of Franciscan monk’s beheading », Religious Freedom Coalition, 27/06/2013
[48] Bill Roggio et Lisa Lundquist, « Syrian jihadists behead Catholic priest, 2 others », The Long War Journal, 01/07/2013
[49] « Syrie / Idlib: décapitation publique de trois Syriens », Youtube, 26/06/2013 ; « Report: Syria militants behead two Christians », Syria Report, 26/06/2013 et Bill Roggio et Lisa Lundquist, « Syrian jihadists behead Catholic priest, 2 others », The Long War Journal, 01/07/2013
[50] Sources locales confidentielles
[51] Sources locales confidentielles
[52] Sources locales confidentielles
[53] Sources locales confidentielles
[54] Sources locales confidentielles
[55] Sources locales confidentielles
[56] Source locale confidentielle
[57] Source locale confidentielle
[58] Source locale confidentielle. De mon côté je ne partage pas cette analyse et me demande plutôt comment on peut penser ou expliquer qu’un bourreau dans un pays devienne un saint dans un autre alors que son idéologie ou ses méthodes ne changent pas et que les deux contextes dans lesquels il opère sont très différents.
[59] Source locale confidentielle
[60] Source locale confidentielle
[61] Zarar Khan et Sebastian Abbot, « Islamic militants leave Pakistan to fight in Syria », Associated Press, 14/07/2013 ou Indian Times et Bill Roggio, « Hundreds of Pakistani jihadists reported in Syria, Threat Matrix / Long War Journal, 14/07/2013
[62] Ibid.
[63] Ibid.
[64] Ibid.
[65] Ibid.
[66] Ibid.
[67] Ibid.
[68] Ibid.
[69] Ibid.
[70] Ibid.
[71] Ibid.
[72] Ibid.
[73] Ibid.
[74] Ibid.
[75] « Syrian rebels tried to kill UK journalists ; Afghans in Syria », AANGIRFAN, 08/06/2012
[76] Nora Lambert, « Eyewitness account: Media lies about Syria », GB Times, 05/06/2012 ; « Eyewitness and Journalist: Western Media lie about Syria », Syria – The Real Deal, 07/06/2012 et « Syrian rebels tried to kill UK journalists ; Afghans in Syria », AANGIRFAN, 08/06/2012
[77] Ibid.
[78] Aaron Klein, « Claim: Afghan mujaheeden now fighting for U.S.-supported Syrian opposition », Klein Online, 02/08/2012
[79] Hadeel al-Shalchi, « Assad’s forces pound rebel stronghold in Aleppo », Reuters, 05/08/2012
[80] Matthew Weaver et Brian Whitaker, « Syria receiving Iranian arms « almost daily » via Iraq », The Guardian, 20/09/2012 ; « Syrian forces kill 100 Afghani « terrorists », SANA, 21/09/2012 ; « Syrian troops kill 100 « Afghani fighters », Xinhua, 20/09/2012 ; « Syrian forces killed 100 Afghan insurgents », CounterPsyOps, 21/09/2012 ; « Syrian forces kill 100 Afghan insurgents in Aleppo », Press TV, 20/09/2012 ; « In Syria: Afghan militants killed, helicopter goes down », Al Manar, 20/09/2012 et R. Raslan, H. Saïd et Ghossoun, « One hundred Afghani terrorists killed in Aleppo, Dshk-equipped cars destroyed in Aleppo and Homs », Syrian Arab News Agency, 20/09/2012
[81] Erika Solomon et Oliver Holmes, « Syrian air strike kills at least 54: activists », Reuters, 20/09/2012
[82] Meena Haseeb, « Afghans involvement in Syria war to be investigated: Mosazai », Khaama Press, 08/04/2013
[83] Ibid. et « Three Afghans killed in Syria », Bakhtar News, 04/02/2013
[84] Meena Haseeb, « Afghans involvement in Syria war to be investigated: Mosazai », Khaama Press, 08/04/2013
[85] Ibid.
[86] Ibid.
[87] Page Facebook du Hayaa el-Akila 1 et 2
[88] Page Facebook du Hayaa el-Akila
[89] Page Facebook du Hayaa el-Akila
[90] « Syria shrine attack likely to trigger wider regional protests », IHS Jane’s Intelligence Weekly, 21/07/2013

[91] Ibid.
[92] Philip Smyth, « Hizballah Cavalcade: What is the Liwa’a Abu Fadl al-Abbas (LAFA)?: Assessing Syria’s Shia “International Brigade” through their social media presence », Jihadology, 15/05/2013 ; Mona Mahmood et Martin Chulov, « Syrian war widens Sunni-Shia schism as foreign jihadis join fight for shrines », The Guardian, 04/06/2013 ; Suadad al-Salhy, « Iraqi Shi’ites flock to Assad’s side as sectarian split widens », Reuters, 19/06/2013 et « Fierce clashes in Damascus district: NGO », AFP, 19/06/2013
[93] « Syria shrine attack likely to trigger wider regional protests », IHS Jane’s Intelligence Weekly, 21/07/2013
[94] Ibid.
[95] Ibid.
[96] Ibid.
[97] Ibid.
[98] Ibid.
[99] Ibid.
[100] Ibid.
[101] Ibid.
[102] Violation Documentation Center on Syria ; pour une description détaillée cliquez ici
[103] Chiffre d’avril 2013, Ian Black, « Syria deaths near 100,000, says UN, – and 6,000 are children », The Guardian, 13/06/2013

[104] Chiffre de juin 2013, page Facebook de l’Observatoire Syrien des Droits de l’Homme
[105] « Syria: A full-scale displacement and humanitarian crisis with no solutions in sight », Internal Displacement Monitoring Centre, 16/08/2012 et « 2013 UNHCR country operations profile – Syrian Arab Republic », UNHCR
[106] « 2013 UNHCR country operations profile – Syrian Arab Republic », UNHCR
[107] Ahmad Shuja, « Syria’s Afghan refugees trapped in a double crisis », UN Dispatch, 28/01/2013 et Mohammed Hamid al-Sawaf, « Religious mission: Damascus’ Afghan refugees end up in Iraq », Niqash, 25/10/2012

[108] Ibid.
[109] Voir la photo de certains membres de la communauté afghane de Sayeda Zaynab entourant un religieux chiite devant le sanctuaire et accompagnée de la mention « Qu’Allah protège toute la communauté afghane de Sayeda Zaynab ainsi que tous les habitants du quartier provenant de tous les pays et de toutes les communautés », page Facebook du Hayaa el-Akila
[110] Ahmad Shuja, « Syria’s Afghan refugees trapped in a double crisis », UN Dispatch, 28/01/2013

[111] Ibid.
[112] Ibid.
[113] Ibid.
[114] Ibid.
[115] Ibid.
[116] Ibid.
[117] Ibid.
[118] Mohammed Hamid al-Sawaf, « Religious mission: Damascus’ Afghan refugees end up in Iraq », Niqash, 25/10/2012
[119] Ibid.
[120] Ibid.

Egypte : un casse-tête pour l’idéologie démocratique

 

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Egypte : un casse-tête pour l’idéologie démocratique
 
Obama, caméléon sur couverture écossaise


Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr
On l’aura bien compris, Barak Obama tout comme notre illustre président, sont pour la paix et la démocratie partout dans le monde et en Egypte en particulier.
On aura également compris que ce n’est pas gentil de tirer à l’arme lourde sur de pacifiques manifestants. Mais une fois cet angélisme démocratique accepté comme théorème de départ, reste tout de même à déterminer qui est gentil et qui est méchant.

Le drame du démocrate, c’est de ne pas pouvoir faire du manichéisme comme Mr Jourdain faisait de la prose. Quand il est impossible de désigner un méchant absolu, que tout est dans la nuance de tons entre oppresseurs et fanatiques, le démocrate type mondialiste,  modèle Obama, se retrouve comme le pauvre caméléon sur la couverture écossaise. Il crève de ne pouvoir prendre toutes les couleurs à la fois.

A dire vrai les forces de l’ordre, police et armée sont à la reconquête d’un pouvoir qui leur avait échappé. L’armée qui ne fait plus la guerre depuis 71 et les fameux accords de paix qui ont gelé le plus important des pays arabes dans une stratégie américaine très favorable à Israël, se retrouve face à la rue.

Entre le putschiste et le président élu, le cynisme occidental

Mais ceux qui occupent la rue ne sont pas de pacifiques manifestants. Ce sont des fanatiques religieux qui veulent imposer un pouvoir théocratique intégriste par la force et le terrorisme au besoin. Ils ont certes remporté les élections mais, tout de suite, ils ont fait dériver le régime vers un totalitarisme correspondant à leur idéologie religieuse.

Une armée détournée de la guerre pour devenir l’instrument d’un régime autoritaire se retrouve face à des milices armées appuyées par une partie de la population. C’est pourquoi Assad soutient l’armée égyptienne et la Turquie les islamistes. Quant aux démocrates égyptiens, plutôt favorables à l’armée d’ailleurs, ils comptent pour peu de choses.

Les dirigeants occidentaux prisonniers de leurs beaux sentiments pratiquent une hypocrite langue de bois qui condamne la force sans pour autant envisager quoi que ce soit. Une chose est sûre, d’un côté les kakis, de l’autre les barbus et entre les deux pour le moment rien ou presque.

Vu d’occident, on aurait tout intérêt objectivement à une défaite même sanglante des islamistes, car ce sont eux qui nous menacent et certainement pas l’armée égyptienne. Les choses sont simples, sauf pour les idéologies compliquées qui essayent d’adapter des situations spécifiques à des normes communes.

La condamnation prétendument unanime de la communauté internationale, c’est à dire les Usa et leurs alliés est, bien sûr, aussi facile qu’inutile. Se donner bonne conscience est une chose, finalement la seule que nos dirigeants  tentent de faire à chaque fois, de l’Irak à l’Egypte en passant par la Syrie.

Mais  l’esprit critique en apporte la preuve. Face aux conflits de notre temps, la grille de lecture démocratique est obsolète.

Joschka Fischer: écolo payé par les lobbies de l’énergie nucléaire...

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Joschka Fischer: écolo payé par les lobbies de l’énergie nucléaire...

Joseph Fischer, dit “Joschka” Fischer, a été le ministre vert des affaires étrangères de la RFA sous le “règne” du Chancelier socialiste Gerhard Schröder. Aujourd’hui, le voilà qui travaille pour les consortiums de l’énergie nucléaire! Il est effectivement actif comme “lobbyiste” pour Siemens, BMW, l’OMV et RWE. Si on examine bien sa biographie, son itinéraire politique, force est de constater que sa vie est un long cortège de contradictions. Dans ses jeunes années, Fischer était l’un de ces extrémistes de gauche typiquement allemands, convaincu et fanatique. Il a été membre de l’APO (l’“Opposition Extra-Parlementaire”), du groupe radical et militant “Lutte Révolutionnaire” (“Revolutionärer Kampf”) puis des “Cellules Révolutionnaires” (“Revolutionäre Zellen”) et a entretenu des contacts avec des militants de gauche qui ont assassiné le ministre hessois de l’économie Heinz Herbert Karry.

Cet homme qui, jadis, combattait le capitalisme au sein de la gauche radicale la plus dure, cet homme qui bastonnait les policiers hessois, est le même qui, devenu membre du gouvernement fédéral rouge-vert, donna son approbation à l’engagement de troupes allemandes dans des conflits extérieurs, pour la première fois depuis la fin de la seconde guerre mondiale. Il a livré ainsi à l’OTAN des régiments allemands pour qu’ils soient engagés au Kosovo d’abord, en Afghanistan ensuite.

Fischer, l’homme qui, dans son jeune temps, avait ouvert une “Librairie Karl Marx”, prononce désormais des conférences à la tribune de Goldmann-Sachs et à celle de Barclay Capital et se remplit les poches avec l’argent de l’industrie nucléaire.

Les extrémistes de gauche professionnels ne sont donc plus ce qu’ils ont été...

(note parue dans “zur Zeit”, Vienne, n°33-34/2013; http://www.zurzeit.at ). 

lundi, 19 août 2013

Etonnantes révisions chez les grands stratégistes américains

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Robert STEUCKERS:

Etonnantes révisions chez les grands stratégistes américains

Quand Brzezinski et Luttwak révisent leurs propres doctrines!

Notes complémentaires à une conférence tenue à la tribune de l’ASIN (“Association pour une Suisse Indépendante et Neutre”), le 31 octobre 2012, à Genève, et à la tribune du “Cercle non-conforme”, le 14 novembre 2012, à Lille.

Le glissement le plus important dans la pensée stratégique et géopolitique s’est observé l’an dernier, en 2012, dans les travaux des plus grands stratégistes américains, Edward Luttwak et Zbignew Brzezinski. Nous pouvons parler d’un véritable “coup de théâtre” du printemps et de l’été 2012. “Zbig”, comme on le surnomme” à Washington, avait été un adversaire du statu quo, de la “coexistence pacifique” au temps de Nixon et de Kissinger (quand ce dernier avait adopté les règles de la diplomatie classique, selon Metternich, son modèle favori à l’époque). Brzezinski refusait toute forme de “coexistence pacifique”, qu’il dénonçait comme “coexistence passive”: à ses yeux, il fallait que Washington gagne activement la guerre (froide), tout en évitant la confrontation directe, ce que les armements nucléaires cumulés rendaient de toutes les façons impossible. La compilation de ses suggestions offensives a été consignée dans un volume, devenu bien vite un best-seller international et intitulé “The Grand Chessboard” (= “Le Grand échiquier”).

Toute la stratégie de Brzezinski a abouti à l’échec

Dans “The Grand Chessboard”, Brzezinski suggère de briser la puissance soviétique (russe) en soutenant systématiquement les dissidents musulmans et, surtout, dès l’entrée des troupes soviétiques à Kaboul, en armant les mudjahiddins afghans (pour “Zbig”, il s’agissait de “musulmans déboussolés”, bref d’“idiots utiles” pour les desseins de l’impérialisme américain), de manière à ce que ces combattants de la foi épuisent les ressources soviétiques par une guerre de partisans lente et coûteuse. L’objectif final, bien mis en évidence dans “The Grand Chessboard” était de contrôler la “Route de la Soie” (“Silk Road”), une route non plus caravanière mais jalonnée de “pipelines”, d’oléoducs et de gazoducs, entre l’Europe et la Chine. Pour y parvenir, il fallait également détacher l’Ukraine de la Russie et soutenir, dans un premier temps, à l’époque de Türgüt Özal en Turquie, le panturquisme, de façon à attirer dans un nouvel ensemble toutes les républiques ex-soviétiques à majorité musulmane, qui se seraient alors, spontanément croyait-on, tournées vers l’allié turc au sein de l’OTAN. Le soutien aux mudjahiddins (puis aux talibans) a créé l’imbroglio afghan, toujours irrésolu, puis de nouveaux problèmes avec le fidèle allié pakistanais, chargé d’armer et d’instruire les mudjahiddins et les talibans puis sommé de les laisser tomber en dépit de l’étroite imbrication entre le système militaire d’Islamabad et les réseaux islamo-terroristes en Afghanistan et au Cachemire. Quant à la “Route de la Soie”, elle est plutôt, au bout de trente ans d’efforts vains pour la contrôler, aux mains des puissances du “Groupe de Shanghaï”, car le Turkestan, pièce centrale du dispositif et vaste espace entre l’écoumène euro-russe et la Chine, n’a pas marché dans la combine. L’Ukraine, malgré la “révolution orange” de 2004-2005, n’a pas vraiment rompu avec la Russie, au contraire, les “orangistes” ukrainiens, favorables à une adhésion à l’OTAN n’ont plus du tout le vent en poupe et leur figure de proue, Ioulia Timochenko, est en prison pour corruption. Les tentatives d’Özal, pour réaliser une sorte d’union panturque ou pantouranienne, n’ont abouti à rien. Et, finalement, ce sont plutôt les ressources américaines qui s’épuisent dans une guerre longue, dont on n’entrevoit pas encore la fin. L’ennemi numéro un demeure la Russie, certes, mais les tentatives de l’éliminer définitivement ont constitué autant d’échecs.

Les déclarations de Luttwak à “La Stampa”

lutt2.jpgMême constat de révision déchirante chez Edward Luttwak, à qui l’on doit deux maîtres ouvrages, appelés à devenir des classiques de la littérature stratégique, l’un sur la “grande stratégie” de l’Empire romain, avec l’accent sur la maîtrise de la Pannonie (la plaine hongroise) et de la Dobroudja (l’embouchure du Danube), deux “trouées” permettant l’invasion de l’Europe par des peuples cavaliers venus de l’Est; l’autre sur la “grande stratégie” de l’Empire byzantin, dont la Turquie ottomane hérite de l’espace-noyau stratégique entre 1369 et 1453, en s’opposant tout à la fois à l’Europe (à l’héritage papal de l’Empire romain d’Occident) et à la Perse. Contrairement à l’Empire romain classique, avant la scission entre en Occident latinisé et un Orient hellénisé, l’Empire byzantin déploie une stratégie basée moins sur la force que sur la persuasion (diplomatique) et sur l’endiguement des adversaires (quitte à créer des querelles au sein de leurs états). Le 19 septembre 2012, Edward Luttwak déclare au journal italien “La Stampa” que le “printemps arabe” est un échec malgré l’appui des ONG occidentales, qu’il n’a pas abouti à l’établissement d’une démocratie réelle et solide, que les Frères musulmans donnent le ton en Tunisie et en Egypte (ce qui déplait tout à la fois aux Saoudiens et aux militaires égyptiens). Le seul succès de toute cette agitation, pour Luttwak, a été de neutraliser le Hamas. En Libye, la volonté occidentale de provoquer un changement brutal a débouché sur un chaos incontrôlable et le désir de s’emparer de la manne pétrolière libyenne est remis aux calendes grecques, tant pour les consortiums anglo-saxons que pour les Français de Total (qui avaient participé à la curée). La mort tragique de l’ambassadeur américain Stevens est la preuve la plus emblématique que les réseaux rebelles, hostiles à Khadafi, sont hétérogènes et non contrôlables, en tous cas, ne se montrent pas reconnaissants à l’égard des puissances occidentales qui les ont armés (à moins que ce soit le Qatar?). Autre exemple: un colonel rallié au nouveau régime, prétendument pro-occidental, a été abattu pour avoir servi Khadafi jadis, sans qu’on n’ait pu se saisir de ses assassins.

Pour Luttwak: une politique minimale

lutt1.jpgPour Luttwak, il aurait fallu préserver le statu quo politique dans le monde arabe. Si un régime arabe s’était montré hostile aux Etats-Unis, ajoute Luttwak, ou s’il avait accumulé des armes de destruction massive ou s’il avait représenté un danger quelconque, il aurait fallu le frapper durement puis se retirer immédiatement, comme cela avait été pratiqué en Libye en 1986. Les Etats-Unis n’auraient jamais dû s’incruster dans des “terrains minés” et auraient dû laisser “les peuples se débrouiller”. Pour Luttwak, Washington doit se retirer d’Afghanistan car, contrairement au projet initial de réaménagement de ce pays dans le sens des intérêts américains, les pétroliers texans ne peuvent y installer les oléoducs et gazoducs prévus et d’autres consortiums américains ne peuvent y exploiter les gisements de minerais! Seule la culture du pavot rapporte dans la région! Luttwak appelle le gouvernement Obama à ne pas intervenir en Syrie, ou, à la limite, de charger Turcs et Français de faire le travail. Dans la région, les puissances anglo-saxonnes doivent se limiter à tenir la Jordanie, vieil allié, pour protéger Israël de tout débordement. Les seuls objectifs valables de toute politique extérieure américaine sainement conçue devraient être 1) de se défendre et 2) d’assurer les approvisionnements énergétiques. 

Revenons aux révisions auxquelles procède Zbrignew Brzezinski: en février 2012, il présente à un public choisi de stratégistes et de décideurs son nouvel ouvrage, qui porte pour titre “Strategic Vision”. Dans la prestigieuse revue “Blätter für deutsche und internationale Politik” (juillet 2012 – à lire sur http://www.blaetter.de/archiv ), Hauke Ritz, dans son article intitulé “Warum der Westen Russland braucht”, résume clairement la position prise par Brzezinski dès la fin de l’hiver 2011-2012: “Si, dans son dernier et célèbre ouvrage “The Grand Chessboard”, il s’agissait encore, pour lui, d’obtenir le contrôle politique sur l’Asie Centrale, et s’il évoquait encore en 2008 l’idée d’une “seconde chance” pour bâtir un monde unipolaire (ndt: sous hégémonie américaine), aujourd’hui Brzezinski admet que les Etats-Unis ont partout perdu de la puissance et que le monde multipolaire est devenu une réalité. Fort de ce constat, il ébauche toute une série de nouvelles perspectives. La plus étonnante de celles-ci, c’est qu’il abandonne son hostilité radicale à l’endroit de la Russie, hostilité qui était présente de manière explicite ou implicite dans tous ses ouvrages antérieurs. Qui plus est, il affirme désormais que, pour la survie de l’Occident, il est impératif d’intégrer la Russie”.

Les éléments clefs de la nouvelle stratégie suggérée par Brzezinski

Brzezinski suggère une nouvelle stratégie puisque toutes celles qu’il a échafaudées jusqu’ici n’ont conduit qu’à des échecs. Les éléments clefs de cette nouvelle stratégie sont:

-          Elargir la notion d’Occident à la Russie: à la lecture de cette étonnante suggestion, on constatera que Brzezinski ne retient plus la distinction opérée par Samuel Huntington dans son fameux article de “Foreign Affairs” de 1993 (puis dans son célèbre livre “Le choc des civilisations”) entre une civilisation occidentale euro-américaine et catholico-protestante, d’une part, et une civilisation orthodoxe, d’autre part. Cette distinction est donc désormais caduque.

-          Il ne faudra pas, dans l’avenir, démoniser la Chine comme on a démonisé la Russie (ou le Japon ou l’Allemagne, ou l’Irak, l’Iran ou la Libye, etc.). Brzezinski reste logique avec lui-même. Il sait que la Chine était un allié tacite puis officiel des Etats-Unis depuis les affrontements sino-soviétiques de la fin des années 60 le long du fleuve Amour et depuis le coup diplomatique de Kissinger en 1972. La logique du “Grand Chessboard” était finalement de dominer l’espace de l’antique “Route de la Soie” pour relier l’Euramérique à la Chine par une chaîne de petits Etats faibles et contrôlables, incapables de reprendre le rôle de Gengis Khan, de Koubilaï Khan, de Tamerlan, du Tsar Alexandre II ou de Staline. Dans les nouvelles propositions de Brzezinski, toute démonisation de la Chine par l’ubiquitaire “soft power”, constitué par l’appareil médiatique global contrôlé in fine par les services américains, entraînera les Chinois à démoniser l’Amérique, créant une situation ingérable; en effet, la Chine est le plus gros détenteur de la dette amércaine (+ de 25%), tant et si bien qu’ont a pu parler d’une “Chinamérique” ou d’un “G2”.

-          Il faudra empêcher Israël d’agresser l’Iran (est-ce un indice que les Etats-Unis sont progressivement en train de lâcher Tel Aviv?). Toute attaque israélienne, conventionnelle ou nucléaire, limitée ou non aux installations atomiques iraniennes, déclenchera une guerre totale que personne ne gagnera. La région du Golfe Persique sera en flammes, à feu et à sang, et le prix du pétrole augmentera dans des proportions inouïes, ajoute “Zbig”. Pire: le chaos dans les zones pétrolifères du Golfe conduira fatalement à un rapprochement énergétique euro-russe, ce qui pourrait s’avérer bien contrariant (et là, “Zbig” reste parfaitement logique avec lui-même, avec ses stratégies d’avant 2012!).

Une dynamique d’auto-destruction

Brzezinski constate que la dynamique de superpuissance, poursuivie par les Etats-Unis, surtout par les cercles néo-conservateurs qui y ont longtemps fait la pluie et le beau temps, est une dynamique d’auto-destruction, comparable à celle qui a fait s’effondrer l’URSS à la fin des années 80. Etonnant d’entendre cela de la bouche même du plus grand “conseiller du Prince” que l’histoire ait jamais connu, un “conseiller du Prince” qui a eu l’oreille de chefs d’Etat ayant disposé de la plus formidable panoplie guerrière de tous les temps. Brzezinski vient de rompre définitivement avec l’idéologie néo-conservatrice. Les signes avant-coureurs de cette rupture datent pourtant déjà de 2007-2008. Avant cette rupture graduelle, Brzezinski et les néo-conservateurs n’avaient pas, à l’analyse, la même approche intellectuelle des faits et des événements, mais, en fin de compte, les effets de leurs suggestions revenaient au même: il fallait mener une guerre à outrance contre les challengeurs de l’Amérique sur la masse continentale eurasiatique.

En 2007, Brzezinski sort son ouvrage “Second Chance”, où il constate déjà un certain nombre d’échecs dans la politique extérieure américaine. Pour parachever la réalisation du plan néo-conservateur d’un “nouveau siècle américain”, dont il admet le principe général, il suggérait une “seconde chance”, tout en précisant bien qu’il n’y en aurait pas de troisième. Dans “Second Chance”, Brzezinski signalait que le discours de Bush sur la “guerre contre le terrorisme” était perçu dans les rimlands musulmans de l’Eurasie et du pourtour de l’Océan Indien comme une “guerre contre l’Islam”. Cette perception conduisait au déclin de l’influence américaine dans cette région, la plus cruciale, la plus impérative à dominer, sur l’échiquier géostratégique mondial. Brzezinski, en dépit de ses remarques cyniques sur les “musulmans déboussolés”, reste ici logique avec sa géopolitique antérieure, visant à forger une alliance entre le fondamentalisme islamiste et les Etats-Unis.

La “deuxième chance” a été loupée...

Ensuite, “Second Chance” rappelle que la politique extérieure de Bush n’a jamais critiqué l’Axe Pékin-Moscou ni été assez dure à l’endroit de la Russie, une dureté qui aurait pu, à l’époque, porter ses fruits. Normal: Bush avait besoin de l’aval de Poutine pour pouvoir se servir des bases russes ou autres, turkmènes, kirghizes, tadjiks ou ouzbeks, situées dans ce que Moscou appelle son “étranger proche”. C’est donc en heurtant la sensibilité des musulmans, en ne tentant pas de disloquer l’Axe Pékin-Moscou et en ménageant la Russie de Poutine que les néo-conservateurs, en misant trop sur le Proche- et le Moyen-Orient pétrolier, en négligeant bon nombre d’autres politiques possibles dans l’environnement immédiat de cette région, risquaient, en 2007-2008, de louper la “deuxième chance”. Or, si Washington rate cette “seconde chance”, ce sera, à terme, la fin de “l’ère atlantique”, qui a duré 500 ans (et l’avènement d’une multipolarité où l’espace pacifique entre Singapour et le Japon, l’Océan Indien voire l’Atlantique-Sud acquerront autant de poids que l’Atlantique-Nord, dont l’importance est née du déclin de la Méditerranée à l’époque de Philippe II d’Espagne, comme l’avait naguère démontré Fernand Braudel). Mais, ce déclin de l’Atlantique septentrional ne sera pas pour autant l’avènement de la Chine, pense Brzezinski. Pourquoi? Parce que le contentieux sino-indien ne sera pas effacé de sitôt.

“Strategic Vision”, en cette fin février 2012, constate le recul de la mainmise américaine sur la Géorgie (où les dernières élections n’ont pas porté au pouvoir le favori des Etats-Unis), sur Taïwan, sur la Corée du Sud, sur l’Ukraine (où les effets de la “révolution orange” des années 2004-2005 se sont évanouis), sur l’Afghanistan et le Pakistan, sur Israël (que Washington s’apprête à abandonner?) et sur quelques autres têtes de pont au Proche- et au Moyen-Orient. Ce recul ne signifie pas pour autant un affaiblissement fatal pour l’Occident, explique Brzezinski: si le tandem euro-américain s’allie à la Russie, alors un espace stratégique inaccessible et inexpugnable se formera sur tout l’hémisphère nord de la planète, de Vancouver à Vladisvostok. Cette grande alliance “boréale” potentielle devra absolument compter sur l’alliance turque, car la Turquie est le “hub”, le moyeu, qui unit géographiquement l’Europe, la Russie (l’espace pontique), l’Afrique (le canal de Suez + l’espace nilotique de l’Egypte au Soudan et à la Corne de l’Afrique), l’Asie (l’espace de la turcophonie + les bassins du Tigre et de l’Euphrate + la péninsule arabique). Sans ce moyeu, l’alliance “boréale” ne pourrait fonctionner de manière optimale.

“La démocratie ne s’impose pas de l’extérieur”

“Strategic Vision” entend aussi mettre un terme à la démonisation systématique de la Russie par les médias américains: pour Brzezinski, la Russie doit dorénavant être considérée comme un pays démocratique à part entière. Il ne ménage pas ses critiques à l’endroit des médias et des ONG qui ont travaillé à exciter les opposants russes les plus délirants et les plus farfelus (jusqu’aux “pussy riots” et aux “femens”), à cultiver et amplifier la “légende noire” dont on accable la Russie, au moins depuis la Guerre de Crimée au 19ème siècle. Le noyau dur de sa critique est de dire que ce travail de harcèlement par les ONG est inutile dans la mesure où une démocratie ne s’impose jamais de l’extérieur, par le jeu des propagandes étrangères, mais uniquement par l’exemple. Il faut donner l’exemple de la démocratie la plus parfaite, d’une bonne gouvernance à toute épreuve (hum!) et alors on sera tout logiquement le modèle que tous voudront imiter.

brz1.JPG“Strategic Vision” constate aussi que les aventures militaires n’ont pas atteint les résultats escomptés. Il y a eu “hétérotélie” pour reprendre l’expression de Jules Monnerot, soit un résultat très différent des visées initiales, hétérogène par rapport au but fixé. Le coût de ces aventures militaires risque, même à très court terme, de déstabiliser les budgets militaires voire d’entraîner la faillite du pays. Le modèle américain du bien-être matériel pour tous risque alors d’être définitivement ruiné alors qu’il avait été vanté comme le meilleur de la Terre, ce qui, quand il ne fonctionnera plus très bien, entraînera fatalement des désordres intérieurs comme ailleurs dans le monde. Déjà les soupes populaires attirent de plus en plus de citoyens ruinés dans les villes américaines. L’American Way of Life ne sera plus un modèle universellement admiré, craint “Zbig”.

Les Etats-Unis, ajoute Brzezinski, sont comme l’URSS dans les années 1980-1985. Six raisons le poussent à énoncer ce verdict:

1.     Le système est irréformable (mais il l’est partout dans l’Euramérique...);

2.     La faillite du système est due au coût des guerres;

3.     L’effondrement du bien-être dans la société américaine entraîne une déliquescence généralisée;

4.     La classe dirigeante n’est plus au diapason (comme en Europe);

5.     La classe dirigeante tente de compenser les échecs extérieurs (et intérieurs) par la désignation d’un ennemi extérieur, qui serait “coupable” à sa place;

6.     La politique extérieure, telle qu’elle est pratiquée, mène à l’isolement diplomatique, à l’auto-isolement.

Zbigniew Brzezinski doit cependant battre sa coulpe. En effet,

1.     La réconcialiation avec la Russie aurait dû se faire dès les années 90, quand les thèses exposées dans “The Grand Chessboard” constituaient la référence politique des décideurs américains en matière de politique étrangère.

2.     Brzezinski n’a pas contribué à l’apaisement nécessaire puisqu’il a jeté de l’huile sur le feu jusqu’en 2008! Mais, malgré son grand âge, il est capable de tirer les conclusions de l’échec patent des suggestions qu’il a formulées au cours de sa très longue carrière.

L’interventionnisme tous azimuts est une impossibilité pratique

Brzezinski déplore, comme nous, l’ignorance générale des faits d’histoire, dont sont responsables les médias et les réseaux d’enseignement (dans son entretien accordé à Nathalie Nougayrède, cf. infra, il dit: “...ce qui m’inquiète le plus à propos de l’Amérique, c’est cette espèce d’ignorance satisfaite dont elle fait preuve” et “...sur beaucoup de questions concernant les affaires étrangères, on se heurte à une ignorance si infiniment profonde qu’elle en est embarassante. C’est un gros problème”). En conclusion, l’auteur de “The Grand Chessboard” constate, dans son nouvel ouvrage, que l’intervention tous azimuts est une impossibilité pratique; elle est, ajouterions-nous, le fruit d’une idéologie universaliste qui se croit infaillible et refuse de prendre en compte les limites inhérentes à toute action humaine, fût-elle l’action d’un hegemon, doté de l’arsenal le plus formidable de l’histoire; or toute action a des bornes, nous enseignait déjà Aristote. Si on persiste à prendre les idéologèmes universalistes pour des vérités impassables, pour des dogmes intangibles, et si on tente obstinément de les traduire en pratique par un interventionnisme tous azimuts, on risque à coup sûr l’enlisement. Pour un autre observateur américain, Charles A. Kupchan (2), en effet, le système général de la globalisation, mis en place par les “bâtards de Voltaire” qui se piquent d’économie et de néo-libéralisme, n’est pas un système qu’il faut croire éternel, définitif, mais, au contraire, “un système momentané et transitoire qui fera forcément place à une alternative différente, qu’il ne nous est pas encore possible de définir avec précision” (p. 87). Par voie de conséquence, ceux qui pensent dans les termes mêmes du système actuellement en place sont des sots incapables d’imaginer une réalité différente, ou de travailler à en préparer une. Ceux qui, en revanche, refusent de croire béatement à la pérennité du système globaliste actuel, font davantage usage de leur raison, une raison vitale et vitaliste cette fois, héritée en droite ligne de la philosohie tonifiante de José Ortega y Gasset, et non pas d’une raison viciée et devenue caricaturale, comme celle des “bâtards de Voltaire”. Ce sont eux qui préparent la transition vers un autre monde, qui l’anticipent, toute raison vitale étant prospective.

Neutralité, non-immixtion, différencialisme

Avec les vérités toutes faites, avec les préconceptions figées de la vulgate des Lumières révisée par Bernard-Henri Lévy (hors de laquelle il n’y aurait aucun salut), du républicanisme obligatoire et incantatoire qui fait sombrer la France hollandouillée dans un marasme intellectuel navrant, du puritanisme américain de Bush derrière lequel se profile le trotskisme déguisé des bellicistes néo-conservateurs, avec les vérités médiatiques préfabriquées dans les arsenaux du soft power américain, avec un islam dévoyé et non plus traditionnel (au sens noble du terme) qui considère toutes les autres formes politiques nées de l’histoire des hommes comme relevant de la “djalliliyâh”, on n’aboutit à rien, sinon au chaos total, à la négation de tous les fleurons de l’intelligence, nés au sein de toutes les cultures: d’autres options sont donc nécessaires, même si certaines d’entre elles ont été, jusqu’il y a peu de temps, considérées comme néfastes, régressistes ou inacceptables. Parmi ces options, citons 1) la volonté de neutralité en Europe, d’alignement sur la sagesse helvétique, récurrente, sans doute sous d’autres oripeaux, depuis les années 50 en Allemagne et en France (sous la forme du gaullisme de la fin des années 60 et de la diplomatie d’un Couve de Murville ou d’un Michel Jobert, dans l’esprit du discours de Charles de Gaulle à Phnom Penh en 1966), ensuite théorisée, sous une forme “mitteleuropäisch” par les neutralistes allemands des années 80, lassés de l’OTAN, notamment par le Général Jochen Löser imméditatement avant la perestroïka de Gorbatchev; 2) le principe chinois de non immixtion dans les affaires intérieures de pays tiers, qui a rapporté à Pékin les succès que l’on sait dans les pays d’Afrique, fatigués des interventions occidentales si intrusives et si blessantes pour l’amour-propre des dirigeants africains; pour la Chine, chaque entité politique peut interpréter les droits de l’homme à sa façon (on se rappellera alors, en Europe, de Frédéric II de Prusse, l’ami de Voltaire; il aimait à répéter: “Ein jeder kann selig werden nach seiner Façon”); 3) l’acceptation des différences sans chercher à faire de prosélytisme, comme le veulent les principes qui sous-tendent la civilisation indienne (cf. l’oeuvre de Naipaul, prix Nobel de littérature en 2007). L’islamisme wahhabite et le messianisme américain, le laïcisme à relents messianistes d’un BHL et du républicanisme français, ce mixte délétère de messianismes camouflés et de “nuisances idéologiques” modernes (Raymond Ruyer), le faux “rationalisme” des “bâtards de Voltaire”, tel qu’il a été décrit par John R. Saul aux Etats-Unis dans un livre qui n’a pas été pris en considération à sa juste mesure par les vrais cercles contestataires du désordre établi dans nos pays (1), sont, dans cette triple optique neutraliste européenne, anti-immixtionniste chinoise et différentialiste indienne, des options dangereuses, belligènes et déstabilisantes. On a vu le résultat en Libye, où les discours préfabriqués d’un BHL, conseiller de Sarközy, et “bâtard de Voltaire” emblématique et “auto-yavhéïsé”, n’ont pas généré un ordre stable et démocratique mais un chaos abominable, risquant de s’exporter dans toute l’Afrique du Nord et dans la région sahélienne.

Wall Street et télé-évangélisme

Pour combattre l’influence néfaste de toutes ces formes de messianisme politique, il faut entamer un combat métapolitique dont l’objectif premier doit être de rendre caducs les effets de la “théologie américaine”. La nature de cette théologie et la teneur de son message ont été analysées par une quantité d’auteurs anglo-saxons dont Clifford Longley (3) et Kevin Phillips (4). Si Longley examine le processus d’émergence de cette notion d’élection divine en Angleterre et aux Etats-Unis et nous permet d’en connaître les étapes, tout en s’inquiétant, en tant que Catholique anglais, des dérives possibles d’un fondamentalisme trop puissant et devenu fou, Phillips montre clairement les nuisances de ce fondamentalisme protestant et bibliste dans la réalité concrète actuelle, celle de l’échiquier international et, forcément, du “Grand Chessboard” centre-asiatique, cher à Brzezinski. Mieux: Phillips démontre, documents à l’appui, quels effets nocifs a eu et aura la combinaison a) de ce fondamentalisme et de cet “évangélisme” ou ‘télé-évangélisme” et b) de la politique économique et financière de Wall Street —qui a renoncé à toute forme de finance saine et hypothéqué la santé économique des Etats-Unis, en donnant libre cours à la spéculation la plus éhontée et en précipitant le pays dans une dette publique et privée sans précédent. Ces délires religieux et financiers vont plonger à terme les Etats-Unis, hegemon du monde unipolaire (espéré par Brzezinski), dans un marasme ponctué de prêches évangélistes, marqué par un endettement inédit dans l’histoire mondiale.

Phillips espère un retour aux finances saines des anciennes administrations républicaines pré-bushistes et au pragmatisme diplomatique de Nixon, cette fois dans un contexte qui aura réellement dépassé les clivages de la “Guerre froide” (“Strategic Vision” de Brzezinski ne le contrariera pas) et se déploiera dans un monde plutôt multipolaire, même si “Zbig”prévoyait plutôt, tout juste avant que ne paraisse “Strategic Vision”, une sorte de duopole sino-américain en état de “coexistence pacifique”, dans un monde plus “asymétrique” que “multipolaire” (5).

Un refus de tout fondamentalisme simplificateur

La perspective métapolitique et géopolitique, que nous souhaiterions propager par nos diverses actions et interventions, repose donc sur un refus de tout pari sur un quelconque fondamentalisme simplificateur et forcément belliciste pathologique à cause même de ses hyper-simplifications. En matière de diplomatie et dans les commentaires diffusés dans les médias, nous souhaitons voir triompher l’attitude de la “tempérence requise”, prônée surtout par l’Inde, et non pas cet engouement, cher au belliciste néo-conservateur Robert Kagan, pour un Mars américain tout-puissant et roulant en permanence les mécaniques, s’opposant —à l’encontre de la dualité Mars/Vénus, Arès/Aphrodite, de la mythologie classique— à Vénus, c’est-à-dire à l’Europe, à la tempérence et à la diplomatie classique, inspirée du “jus publicum europaeum”. La perspective, que nous entendons faire nôtre, refuse les visions du monde basées sur une césure dans le temps, comme la “djalliliyâh” des wahhabites ou l’idée folle d’une “Nouvelle Jérusalem” du Massachussets (cf. Longley, op. cit., pp. 35-65). Pour restructurer l’Europe, après l’effondrement proche des “nuisances idéologiques” et des “messianismes”, il faut donner primauté aux héritages helléniques, romains et germaniques (slaves-byzantins dans l’aire qu’attribuait Huntington à ce complexe à fondements également grecs). Pour le protestantisme, il ne s’agit donc plus de valoriser les “iconoclastes” de 1566 (6) ou les “dissidences” religieuses de l’Angleterre du 17ème siècle ou les visions des “Pélerins du Mayflower”, noyaux de l’idéologie et de la théologie américaines actuelles, etc. mais plutôt de se référer à la renaissance élizabéthaine, celle de l’époque où Christopher Marlow et William Shakespeare créaient leurs oeuvres immortelles (7), à l’oeuvre culturelle de Gustav-Adolf de Suède, aux fleurons du “Siècle d’or” hollandais.

De même, si l’Occident doit se débarrasser de ses propres fondamentalismes protestants et “voltairo-bâtards”, une “dé-messianisation”, c’est-à-dire une “dé-wahhabitisation” et une “dé-salafisation”, doit avoir lieu dans le monde musulman, qui possède assez de ressources en lui-même pour dépasser ces folies qui ne lui apportent que des malheurs, comme dans les années 90 en Algérie, comme en Libye aujourd’hui, et demain en Tunisie et en Egypte. L’aire civilisationnelle islamique peut se référer au chiisme duodécimain quiétiste (éliminé en Iran par Khomeiny, au départ à l’instigation des services américains), l’ibaditisme d’Oman, le soufisme libyen (étrillé par les milices salafistes qui ont agi avec la bénédiction de BHL et de Sarközy), l’islam de Tombouctou (presque éradiqué par les milices salafistes au Mali pour le plus grand malheur de l’Afrique sahélienne), la définition de l’islam par Seyyed Hossein Nasr et surtout l’islam tel que l’a théorisé Henry Corbin et ses disciples. Forces auxquelles on peut ajouter les bonnes traditions militaires, d’ordre, de discipline et de sens du service que l’on a vues à l’oeuvre, notamment en Egypte, sous Nasser, et en Syrie depuis la fin des années 50. Si le wahhabisme et le salafisme génèrent incontestablement l’islamophobie en Europe, en Thaïlande et ailleurs, et souvent à juste titre, les formes d’islam que nous aimons, dont nous prenons sereinement et humblement connaissance, ne généreront certainement jamais d’islamophobie mais, sans renier aucune de nos traditions, un bon petit engouement orientaliste et goethéen.

Robert STEUCKERS.

(article préparé en novembre 2012 et parachevé à Villeneuve-d’Ascq, Forest-Flotzenberg, El Campello, Almuñecar et Fessevillers).

Notes:

(1)   John SAUL, Les bâtards de Voltaire – La dictature de la raison en Occident, Payot, Paris, 1993.

(2)   Charles A. KUPCHAN, The End of the American Era – U.S. Foreign Policy and the Geopolitics of the Twenty-First Century, Vintage Books, New York, 2002.

(3)   Clifford LONGLEY, Chosen People – The Big Idea that Shpaes England and America, Hodder & Stoughton, London, 2002-2003 (2nd ed.).

(4)   Kevin PHILLIPS, American Theocracy – The Peril and Politics of Radical Religion, Oil, and Borrowed Money in the 21st Century, Viking/Penguin Group, London, 2006.

(5)   Zbigniew BRZEZINSKI, “Nous sommes dans un monde très asymétrique”, entretien, propos recueillis par Nathalie Nougayrède, in Le Monde – Bilan géostratégique – 2011.

(6)   Solange DEYON & Alain LOTTIN, Les casseurs de l’été 1566, Hachette, Paris, 1981.

(7)   Lacey Baldwin SMITH, The Elizabethan Epic, Jonathan Cape, London, 1966.

Villes et communes allemandes à bout de souffle

“Anton BESENBACHER” (’t Pallieterke):

Villes et communes allemandes à bout de souffle

La ville de Detroit aux Etats-Unis est en faillite. Nous l’avons tous appris. Cette ville, pionnière de l’industrie automobile, ne peut plus payer ses factures. Par le biais de Dexia, cette affaire prend une petite tonalité belge... Passons... En Allemagne, les villes et les communes ne peuvent pas faire faillite. Si une ville ne peut plus payer ses créanciers, le Land intervient. Et si le Land ne peut plus payer les factures, alors le niveau fédéral saute sur la brèche. Et si l’Allemagne toute entière perd crédibilité en matière de crédit, alors les contribuables doivent tout simplement payer des impôts supplémentaires.

L’idée qu’un pouvoir public puisse faire banqueroute est incompatible avec la législation mais aussi avec la vision que l’on a toujours cultivée en Europe de ce que doivent être des pouvoirs publics. Les pensions du personnel communal ne seraient plus payées en cas de faillite d’une commune ou d’une ville. Les fonctionnaires seraient tous jetés à la rue, les hôpitaux et les écoles fermeraient leurs portes et on mettrait un terme à toute une série d’initiatives sociales. De tels scénarios, nous, Européens, ne pouvons pas nous les imaginer!

C’est sans doute une bonne nouvelle. Passons maintenant à la mauvaise nouvelle. Dans le jargon spécialisé, il existe une expression: “moral hazard”. Les sociologues universitaires entendent, par cette expression, le fait que les gens, les institutions, les établissements d’enseignement et les entreprises deviennent très vite imprudents voire totalement irresponsables quand ils pensent que les factures seront toujours payées en fin de compte, même par des tiers. Fortes de cette certitude, les communes et les institutions prennent des risques inconsidérés, engagent des dépenses déraisonnables qu’on ne prendrait pas si on savait que la facture finale serait pour sa propre escarcelle. A cela s’ajoute que les villes et les communes peuvent emprunter à des taux très avantageux, aux tarifs des pouvoirs publics allemands dont elles relèvent. Le niveau fédéral allemand accorde de toutes façons sa garantie. Les villes qui ont de fortes dettes peuvent continuer, sans aucun problème, à s’alimenter sur le marché des capitaux et ne sont pas sanctionnées par des taux d’intérêts plus élevés. Bref, c’est le scénario grec en Allemagne!

Si on examine les administrations locales, on doit bien constater que la Grèce se trouve aussi en Germanie. Des centaines de villes et de communes allemandes sont en fait en état de banqueroute et ne sont pas déclarées telles officiellement pour les riasons que nous venons d’évoquer et parce que les lois permettent  ce tour de passe-passe.

Oberhausen, au Nord-Ouest de la région de la Ruhr, compte plus ou moins 210.000 habitants. Cette ville s’était développée jadis grâce à ses mines de charbon. Offenbach, dans le Land de Hesse, près de Francfort sur le Main, est également baignée par cette rivière du centre du pays et compte, elle, quelque 120.000 habitants. Bremerhaven compte à peu près autant d’habitants et est, comme son nom l’indique, une ville portuaire. Elle se trouve sur la Weser et s’appelait jusqu’en 1947 Wesermünde. Ce sont les trois grandes villes allemandes qui sont financièrement au bout du rouleau aujourd’hui. On le remarque d’ailleurs tout de suite. Les infrastructures comme les piscines publiques sont fermées. Les rues ne sont plus entretenues. Les écoles sont dans des états déplorables. Si le désastre financier qui les frappe prend encore un peu d’ampleur, les pouvoirs publics de plus haut niveau n’interviendront plus. Le fête finit toujours par s’achever.

Ah! Si ces villes allemandes étaient Detroit...

Seuls les bons connaisseurs de l’Allemagne pourront situer Oberhausen, Offenbach et Bremerhaven sur la carte. Berlin, Hambourg et Brème sont toutefois des villes connues bien au-delà des frontières allemandes. Pour les amateurs de nouvelles déprimantes: Detroit, aux Etats-Unis, laisse une dette de 20.500 euro par habitant. Les habitants de Hambourg, eux, ont une dette de 20.800 euro par tête. Pour les Berlinois, c’est mille euro de plus. Brème tient le pompon avec une dette urbaine de 34.200 euro par habitant. Donc Brème respirerait si elle pouvait échanger ses dettes contre celles de Detroit.

Selon la Ligue des contribuables allemands, la situation est bien plus dramatique. Pour ce groupe de pression, qui s’est donné pour tâche de veiller à un bon usage de l’argent du contribuable par les pouvoirs publics, les villes et les communes ne pourraient en réalité reprendre que 44% de leurs dettes dans leurs budgets. Les villes les plus touchées luttent contre des déficits structurels patents. Elles se trouvent surtout dans la région de la Ruhr, où elles s’étaient développées avec brio jadis grâce aux mines et à la sidérurgie, ou dans le Nord où les chantiers navals avaient généré le bien-être général. Ces temps heureux sont passés. Le déclin est vite venu. Les revenus de ces villes ont chuté parce que bon nombre d’habitants sont devenus chômeurs et parce que, de ce fait, les dépenses sociales ont augmenté.

Comme les édilités locales n’aiment pas prendre des mesures impopulaires, elles ont tenté de maintenir à flots le paiement des revenus de substitution, tout en diminuant considérablement —jusqu’au minimum du minimum— les investissements sur le long terme. L’an passé, les villes et les communes ont dépensé 187 milliards d’euro; dans cette somme, seuls 20 milliards étaient consacrés à des investissements, soit 11% de moins encore qu’en 2011. La politique que ces édilités poursuivent est donc de combler les trous à court terme, de façon à accroître encore leurs dimensions sur le long terme.

Les administrations communales se plaignent parce que les citoyens font de plus en plus appel aux pouvoirs publics locaux pour toutes sortes de choses, anciennes et nouvelles. L’Etat doit toujours être prêt à financer ces exigences ou à apporter son soutien. Augmenter les impôts serait fatal pour les édilités communales lors des élections à venir. Emprunter est donc beaucoup plus facile...

Anton BESENBACHER.

(article paru dans “ ’t Pallieterke”, Anvers, 24 juillet 2013).