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dimanche, 25 septembre 2011

Turchia e Qatar: i nuovi leader regionali?

Turchia e Qatar: i nuovi leader regionali?

Hamze JAMMOUL


Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Dopo la cosiddetta “Primavera Araba” che ha contagiando diversi paesi arabi, il Vicino Oriente sta vivendo la mancanza di un leader. Questa situazione permette alla Turchia e al Qatar di assumere un ruolo strategico, che alla fine potrebbe portare ad un conflitto politico tra i due ambiziosi stati.

La Turchia sogna i tempi degli Ottomani

È chiaro che quello che accade nel mondo arabo abbia influenzato la politica turca che da molto tempo cerca di riprendere il suo ruolo nel Vicino Oriente. Il grande sogno turco affrontava degli ostacoli rappresentati dal continuo ruolo strategico dell’Iran in Libano, in Siria e in Iraq, e dalla solida alleanza tra i due paesi Arabi più influenti: l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Ma l’attacco israeliano contro la nave turca Marvi Marmara nel maggio 2010 e l’inizio della rivoluzione tunisina nel 2011, hanno contribuito alla modifica della mappa geopolitica del Vicino Oriente aggiungendo nuovi attori desiderosi di ricoprire un ruolo di primo piano nella geopolitica vicino e mediorentale.

Il rifiuto di Israele di presentare le scuse al popolo turco, e l’inaspettato risultato della commissione Ballmer, che ha considerato legittimo l’embargo israeliano contro Gaza, affermando che quanto accaduto nel luglio 2010 contro la flotilla non è un atto terroristico e criminale come sostiene Ankara, ma un semplice uso eccessivo della forza, hanno portato il governo turco ad espellere l’ambasciatore Israeliano e a congelare i rapporti commerciali con Tel Aviv.

Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan ha inoltre annunciato l’inizio di una campagna legale presso il tribunale penale internazionale con l’obbiettivo di condannare i crimini israeliani.

L’azione turca nei confronti di Israele arriva dopo diversi tentativi da parte di Ankara di assicurarsi un ruolo strategico nella regione e di apparire come la salvatrice della democrazia, il frutto della “ Primavera Araba ” .

La domanda che ci si può porre è la seguente: riuscirà Ankara a riprendere il suo potere nel Vicino Oriente ?

Vi sono numerosi elementi che possono aiutare la diplomazia turca a riacquistare un ruolo importante nella regione:

a. L’attuale mancanza di un paese arabo leader. Tale mancanza è dovuta al fatto che l’Arabia Saudita sta affrontando un conflitto politico all’interno della famiglia reale; L’Egitto dopo la caduta del governo di Mubark è occupato a portare avanti le riforme interne; mentre la Siria sta affrontando una grave situazione interna.

b. La notevole ambizione dell’amministrazione turca che, dopo le fallite trattative con l’Unione Europea, ha preferito concentrarsi nel Vicino Oriente. Nel 2006 Ankara ha condannato il severo attacco israeliano contro il Libano, nel 2009 ha condannato l’attacco israeliano contro Gaza ed ha considerato l’embargo illegale e disumano.

c. La vittoria di Giustizia e Sviluppo, il partito “laico -Islamico” di Erdoğan, nelle ultime elezioni ha consolidato il suo potere e ha indebolito il potere dell’esercito considerato il primo alleato di Israele. Tutto ciò permette a quest’uomo di grande potere e alla sua squadra di realizzare il loro progetto sulla nuova Turchia ricca ed influente.

d. L’importanza strategica che gli Stati Uniti e l’Europa danno alla Turchia. Attraverso l’accoglimento della richiesta NATO di installare il “sistema radar di difesa”, il leader turco continua a giocare un ruolo fondamentale tra l’Occidente e il Vicino Oriente.

e. La crescita dell’economia turca che ha permesso al Paese di occupare il tredicesimo posto nell’economia mondiale.

Tutti questi sono elementi che possono aiutare la Turchia ad assumere un potere strategico specialmente dopo la rivoluzione sentimentale che sta portando avanti Erdoğan nel mondo arabo e islamico, una rivoluzione il cui obbiettivo è dire no a Tel Aviv.

Alla luce di quanto segue, sembra che la Turchia stia andando nella direzione giusta per conquistare il cuore del popolo arabo.

Non bisogna però sottovalutare ciò che stanno sottolineando gli analisti, ossia il fatto che gli Arabi non hanno dimenticato la sofferenza che hanno vissuto durante l’occupazione dell’impero Ottomano. La nomina della Turchia come leader nel mondo arabo e islamico, potrebbe affrontare delle difficoltà rappresentate dalla futura ripresa dell’Egitto e della Siria e dall’attuale ruolo che sta assumendo un nuovo stato ambizioso, il Qatar.

Il Qatar alla ricerca di un ruolo strategico

Il Qatar che ha conquistato una fama internazionale nel settore commerciale e del Gas, l’anno scorso ha voluto dimostrare la sua capacità di organizzare i mondiali del 2022. Con l’inizio delle “rivoluzioni” nel mondo arabo, il Qatar ha preso una posizione politica tramite la sua Al Jazeera, il più noto canale televisivo arabo.

Tale posizione ha creato nuovi amici e nuovi nemici all’Emiro che, come hanno riferito i quotidiani arabi, il mese scorso si è salvato da un attacco suicida nella capitale Ad Dawhah.

Cosa vuole il Qatar della “Primavera araba”? Questa è una domanda che ormai si pongono tutti sia nel mondo arabo che in Occidente. La risposta è chiara: il Qatar ambisce ad avere un ruolo strategico nella regione. Da anni il Qatar ha iniziato un programma politico per uscire dal gruppo dei paesi non influenti e attraverso tale piano vuole diventare un nuovo leader arabo.

L’emirato è stato il primo paese arabo ad ospitare il congresso mondiale per la ricostruzione della Libia, oltre ad essere stato l’unico componente della lega Araba ad avere preso parte alla guerra con i suoi aerei militari e ad aver finanziato i ribelli contro Gheddafi.

Il canale satellitare Al Jazeera, ha seguito gli eventi in Tunisia ed Egitto sin dal primo giorno, ed in Siria si considera il primo nemico mediatico del governo di Bashār al-Asad.

Al Jazeera che ha voluto proteggere le “rivoluzione arabe” e i diritti umani non ha reagito nello stesso modo quando è scoppiata la rivoluzione in Bahrein, alleato dell’Emiro e dell’Arabia Saudita. Tale comportamento ha messo a rischio la professionalità del canale e ha fatto sorgere dei dubbi sui reali obiettivi dell’emirato.

 

Gli elementi sopracitati, a cui si aggiunge il fatto che il paese non è stato ancora soggetto a manifestazioni, sono elementi che rafforzano la teoria secondo la quale il Qatar è alla ricerca di un nuovo ruolo strategico nella regione. Tale ruolo però si scontrerà alla fine con la volontà dell’Egitto di riprendere il suo ruolo e con il sempre più crescente ruolo politico di Ankara, fenomeno confermato dal fatto che nei giorni scorsi il primo ministro turco ha concluso la sua missione in Egitto, Tunisia e in Libia, aprendo un nuovo rapporto con i paesi della cosidetta “Primavera araba”.

*Hamze Jammoul, giurista Libanese, esperto nella gestione dei conflitti internazionali

L’Otan refuse de surmonter l’héritage de la guerre froide

«L’Otan refuse de surmonter l’héritage de la guerre froide»

INTERVIEW – L’ambassadeur de la Russie à l’Otan, Dmitri Rogozine, se montre très critique envers l’Alliance atlantique et ce «droit d’ingérence» dont elle s’est dotée.

L’ambassadeur de Russie à l’Otan, Dmitri Rogozine, était à Paris cette semaine pour évoquer le projet de bouclier antimissile de l’Otan. Il propose que l’Otan et la Russie aient chacune leur propre système de ­défense. Proche de Vladimir Poutine et représentant du courant nationaliste russe, il pourrait jouer un rôle dans la campagne des législatives de décembre.

LE FIGARO. – Où en sont les négociations sur le bouclier antimissile en Europe ?

Dmitri ROGOZINE. – Les États-Unis avaient offert à la Russie une coopération sur ce bouclier antimissile mais aucune coopération de fait ne nous a été proposée.

Une véritable coopération permettrait de rétablir la confiance en Europe et d’économiser beaucoup d’argent en période de crise. En fait, l’Otan a toujours peur de la Russie et refuse de surmonter l’héritage de la guerre froide.

Que proposez-vous ?

 

Puisqu’un seul bouclier antimissile intégré a été refusé, nous proposons que chacun ait son propre système. Le dispositif de l’Otan assurerait la sécurité des pays de l’Otan, à condition que son rayon d’action ne touche pas le territoire russe. Nous proposons aussi d’établir un lien entre nos systèmes d’alerte parce que le temps de réaction à un tir de missile n’est que de quelques secondes. Sans interconnexion, tout lancement d’un intercepteur pourra être considéré par la Russie comme une agression potentielle. Nous demandons enfin la garantie que notre potentiel nucléaire n’est pas menacé.

Cela va à l’encontre du système de l’Otan qui, dans sa troisième phase de déploiement, prévoit des intercepteurs en Pologne…

Le rayon d’action de ces intercepteurs, basés en Pologne ou dans la mer Baltique, ira jusqu’à l’Oural alors que la menace est censée venir de pays du Moyen-Orient ou d’Asie. Si l’Iran n’est qu’un prétexte pour déployer des intercepteurs au nord et menacer la Russie, nous voulons que cela soit dit clairement.

Quelle est la réaction de vos interlocuteurs européens ?

Leur passivité est étonnante. Ils trouvent nos arguments raisonnables, mais affirment que cela doit être discuté avec Washington. Pourtant, les Américains négocient avec la Pologne. Quand un accord sera signé personne ne demandera l’avis des autres Européens.

En Libye et en Syrie, la Russie soutient les régimes en place. La diplomatie russe n’est-elle pas en train de perdre son prestige au Moyen-Orient ?

Nous ne nous sommes pas fait d’illusions sur Kadhafi, mais nous ne partageons pas votre vision du monde arabe. Vous pensez que c’est le rendez-vous de l’islam et de la démocratie. Nous croyons que c’est un choix entre un tyran et al-Qaida. En Tchétchénie, c’est ce qui s’est passé. Et puis, nous n’avons pas aimé la façon dont l’Otan s’est servi de la résolution de l’ONU pour poursuivre des objectifs qui n’avaient rien de commun avec elle. Ce qui est préoccupant, c’est que l’Otan se dote d’un droit d’ingérence qui est du domaine exclusif de l’ONU.

Vous vous êtes inquiété des conséquences d’un retrait de l’Otan d’Afghanistan pour la stabilité en Asie centrale. Souhaitez-vous que l’Otan reste longtemps en Afghanistan ?

L’Otan s’est donné une tâche qu’elle doit mener jusqu’au bout. Après avoir agité la fourmilière, nous ne voulons pas que l’Otan nous laisse face à face avec les chiens de la guerre. Une fois que l’Otan sera partie, ils se répandront au Tadjikistan et en Ouzbékistan et cela deviendra notre problème.

La Russie est-elle un pays européen ?

Elle l’est davantage que d’autres pays européens. Nous avons propagé la culture européenne jusqu’à Vladivostok alors que l’espace culturel européen est en train d’être réduit par les cultures venues du sud. Berlin n’est-elle pas la troisième ville turque dans le monde ? Si on veut intégrer d’autres cultures, il ne faut pas perdre ses propres valeurs culturelles. C’est ce que nous faisons en Russie.

Le Figaro

samedi, 24 septembre 2011

Les faux calculs de l’ingérence

Les faux calculs de l’ingérence

 
Une nouvelle fois, l’incantation à la religion des droits de l’homme a fait pleuvoir les bombes de l’Otan. Comme toutes les guerres de l’“Empire” auxquelles la France apporte son tribut, l’intervention en Libye a été menée au nom du devoir humanitaire de protection des populations civiles. Tous les ingrédients classiques de la guerre d’ingérence rêvée par Kouchner et ses amis furent au rendez-vous ...

les don­neurs de leçons indignés (hier Glucks­mann, aujourd’hui BHL), le conte pour “enfants de la télé” qui fait fi de toute réalité géopolitique (“un peuple entier dressé contre son dictateur”, alors qu’il s’agit d’une guerre civile Cyrénaïque contre Tripo­litai­ne), l’absence d’esprit critique de la presse occidentale face à la propagande de l’Otan (diffusion de ­fausses scènes de liesse à Tripoli tournées au Qatar alors que les rebelles ne sont pas encore dans la capitale ; chronique de la cruauté du Guide), la contradiction permanente avec les principes affichés (quid de la chasse aux Noirs pratiquée par les rebelles et plus largement de l’épuration massive en cours contre les tribus restées fidèles à Kadhafi ?)

Et la realpolitik dans tout cela ? Si, en effet, le masque de l’hypocrisie servait un but géopolitique tangible, nous pourrions parler de realpolitik et accepter celle-ci au nom de l’intérieur supérieur du pays. Mais, pour au moins trois raisons géopolitiques fondamentales, l’ingérence en Libye (comme le furent celles en Yougoslavie, en Afghanistan et en Côte d’Ivoire) est l’ennemie des intérêts géopolitiques français.

La première raison est que l’opposition que nous soulevons n’est plus celle d’un tiers-monde impuissant. Le monde est devenu multipolaire ; les pays émergents n’ont qu’une envie, arracher à l’Occident ce masque humanitaire qui dissimule sa politique de terreur contre la souveraineté des peuples. Russes, Chinois, Indiens, Brésiliens, Sud-Africains : ces gens n’ont aucune illusion quant au but réel de guerres que leurs médias qualifient de néocoloniales et prédatrices (pétrole, gaz). En s’alignant sur les États-Unis, la France détruit son capital principal en politique étrangère : sa position d’équi­libre, qui était respectée et demandée. Le monde change aussi chez nous, en Europe. Avec un double “non” (Irak, Libye), l’Allemagne s’est écartée de la géopolitique états-unienne comme elle rompra demain avec le capitalisme financier anglo-saxon. C’est elle qui demain ajoutera à son prestige industriel international une position d’équilibre qu’elle nous aura ravie.

La deuxième raison est que la chute de Kadhafi aggrave le chaos dans le Sahel. Le pillage des dépôts de l’armée libyenne dès le début de la guerre civile (comme en Irak en 2003), augmenté de nos parachutages d’armes et de munitions, transforme de fait le territoire libyen en une poudrière. Les tribus sont surarmées, à l’image des Touaregs pro-Kadhafi repliés vers leurs bases arrière nigériennes et maliennes et qui préparent déjà la revanche. Le Tchad ne sera pas épargné. Les trafics en tout genre (drogue, cigarettes, immigration), jusque-là endigués par les régimes autoritaires de Kadhafi et Ben Ali, vont exploser. Quant à nos “amis” rebelles, ce sont presque tous des islamistes radicaux ; les plus aguerris (les chefs) ont gagné leurs “lettres de noblesse” dans le djihad irakien… contre l’armée américaine (ce qui ne veut pas dire contre la CIA). L’assassinat, en juillet dernier, du ministre de l’Intérieur de Kadhafi rallié aux rebelles de l’Est ne s’explique que par la vengeance des islamistes contre leur ancien tortionnaire.

En favorisant l’effondrement des régimes autori­taires qui formaient le dernier écran protecteur de l’Europe face à la misère africaine, nous avons libéré des énergies qui vont travailler au service de trois buts : davantage d’immigration vers l’Europe, davantage de trafics, davantage d’islamistes.

Enfin, il existe une troisième raison pour laquelle un éventuel calcul stratégique français était par avance voué à l’échec. L’État libyen était déjà faible sous Kadhafi (lorsque les esprits seront apaisés, il faudra un jour mieux comprendre la nature du rapport entre le Guide de la révolution et son peuple), mais désormais et pour plusieurs années, il faudra parier sur l’absence quasi totale d’État libyen. Malheureusement, les Français, à la différence des Britanniques, n’excellent guère dans la manœuvre politico-économique (obtention des mar­chés) lorsqu’ils ne disposent pas de partenaire étatique clairement identifié. Les clés des marchés libyens se trouveront sans doute davantage au cœur des tribus que dans l’exécutif officiel. Si le président et son entourage voient dans les chefs rebelles auxquels ils ont déroulé le tapis rouge à l’Élysée l’incarnation de l’État libyen de demain, la désillusion risque d’être forte. Car il se pourrait bien que, cette fois, les Américains ne fassent pas l’erreur qu’ils ont faite en Irak en détruisant l’État baasiste et qu’ils cherchent au contraire à s’appuyer sur les anciens de Kadhafi plutôt que sur cette étrange “variété modérée de djihadistes démocrates” (!) dont l’entourage de Sarkozy nous vante les mérites.

Aymeric Chauprade, géopolitologue

Le BRICS acteur géostratégique émergeant

Le BRICS acteur géostratégique émergeant

Ex: http://www.europesolidaire.eu/
Jusqu'à présent les relations plutôt informelles entre les membres du bloc dit BRICS (Brésil, Russie, Inde, Chine et Afrique du Sud) ne leur avaient pas permis de se comporter en acteur géostratégique cohérent au sein d'un monde multipolaire. Un discours différent à l'égard de l'intervention de l'Otan en Libye avait été mal ressenti.

 

Aujourd'hui, deux principaux membres, la Russie et l'Inde, semblent vouloir revenir sur ce désordre et positionner le BRICS d'une façon bien plus offensive, notamment à l'égard des Etats-Unis et de ses proches alliés européens. La Chine, prudente à l'habitude, reste sur la réserve mais on peut penser qu'elle suit l'évolution de la situation avec attention.

Ce sont les rapports avec la Syrie et les interventions ou menaces occidentales à l'encontre du gouvernement Bachar el Hassad, sommé de respecter ses minorités, qui fournissent l'occasion de ce durcissement. Mais tout laisse penser que d'autres sujets sensibles, notamment la question de la reconnaissance de l'Etat Palestinien, auront le même effet fédérateur. La Russie multiplie les mises en garde. Mais l'Inde semble décidée à aller plus loin encore.

Un expert indien, qui ne devrait pas  s'exprimer sans un minimum de caution gouvernementale, le Dr Sreeram Chaulia, professeur à l'Ecole Jindal des Affaires Internationales. estime que les pays du groupe BRICS, dont le sien, sont naturellement désignés pour s'opposer à ce qu'il nomme une dérive néocoloniale, dans le domaine des sanctions ou interventions que les Occidentaux voudraient imposer à Damas. (voir Russia Today, http://rt.com/news/brics-syria-west-hegemony/) Il va très loin dans cette direction puisqu'il envisage que le BRICS, pour mieux se faire entendre, puisse rechercher l'appui de l'Iran. Il s'agirait d'un appui diplomatique notamment à l'ONU mais quand on connait les prétentions militaires de Téhéran, cette perspective ressemble à une sorte de déclaration de guerre. Le ministre russe des affaires étrangères Lavrov paraît cautionner cette perspective.

On ne sait comment les Etats-Unis, très embarrassés dans leur soutien croisés tant à Israël qu'aux monarchies pétrolières et aux Etats issus du printemps arabe, prendront une telle montée en puissance du BRICS, si elle se confirmait. Il nous semble par contre que les Etats européens, notamment la France et l'Allemagne, pour qui les relations avec la Russie et l'Inde présentent un intérêt stratégique majeur, ne pourront pas continuer, comme ils l'ont fait jusqu'à présent, à suivre aveuglément la diplomatie américaine dans la région. Si le monde devenait véritablement multipolaire, avec un BRICS très offensif, il faudrait que l'Europe se constitue elle-aussi en pôle autonome et puissant dans ce concert. Elle ne devrait pas ce faisant oublier l'importance de coopérations étroites et multiformes avec la Russie, grande puissance pan-européenne.

 

 
 
 
08/09/2011

vendredi, 23 septembre 2011

Erdogan in Nordafrika: Türkei kehrt Europa den Rücken

Erdogan in Nordafrika: Türkei kehrt Europa den Rücken

http://de.rian.ru/

Der türkische Premier Recep Tayyip Erdogan scheint ein diplomatisches Genie zu sein.


Die Ergebnisse seiner Nordafrika-Reise in der vergangenen Woche haben die Erwartungen übertroffen. Bei seinen Reden in Kairo, Tunis und Tripolis traf er den richtigen Ton. Der türkische Regierungschef wird als Held der arabischen Revolutionsmassen gefeiert.

Obwohl Ankara sich nicht aktiv an der Anti-Gaddafi-Offensive beteiligt hatte (es stellte lediglich ein Schiff für die Evakuierung der Einwohner Misratas zur Verfügung), wurde der türkische Premier auch in Tripolis herzlich empfangen. Die Türkei ist mit Libyen vor allem durch Bau-Projekte im Wert von etwa 15 Milliarden Dollar verbunden und bemüht sich darum, sie zu erhalten.

Türkei gewinnt an Bedeutung in der islamischen Welt

Alle seine Aufgaben hat Erdogan glänzend erfüllt. Er hat die internationale Rolle seines Landes unter Beweis gestellt und es als eine der islamischen Führungskräfte in der Nahost-Region etabliert. Der Premier zeigte deutlich, dass es in der islamischen Welt eine Alternative statt den radikalen Vektor gibt: die islamische Demokratie auf türkische Art. Außerdem gewann er an Stellenwert in seinem Land und in der ganzen arabischen Welt.

Es wäre jedoch naiv zu glauben, dass nur die Begeisterung der arabischen Revolutionsanhänger die Türkei zu einem Führungsland zwischen Zentralasien und Maghreb machen. Erdogan wird nur von den Volksmassen gefeiert, die die Türkei für einen vorbildhaften islamischen säkularen Staat halten, der eine starke Wirtschaft hat und seinen Bürgern einen hohen Lebensstandard bietet.

Die Herrscher sind gegenüber Erdogan eher skeptisch eingestellt. Ägypten hat nach der Revolution noch immer keine starke Führung, die dortigen Militärs wollen offenbar nicht ihre Macht verlieren. Auch in Saudi-Arabien oder im Iran sind die Machthaber nicht gerade von den Aktivitäten Ankaras begeistert. Die Begeisterung der Volksmassen ist eine vorübergehende Erscheinung, besonders wenn es sich um arabische Länder handelt.

Man sollte auch bedenken, dass die Türken in der arabischen Welt traditionell nicht besonders beliebt sind. Deshalb kommt Ankara als regionale Supermacht vorerst nicht infrage.

Demokratie auf türkische Art als Vorbild

Arabische Politiker sollten sich aber überlegen, warum Erdogan als gemäßigter Islamist und konservativer Liberale bei den Volksmassen so beliebt ist. Zumal sie von ihm etwas lernen könnten.

Die islamisierte Demokratie auf türkische Art ist in Wirklichkeit etwas wirklich Einmaliges, genauso wie die „souveräne Demokratie“ in Russland.

Die einmalige Mischung aus Islamismus und Demokratie bei einer ständig wachsenden Wirtschaft ist das, was auch Ägypten, Libyen und Tunesien guttun würde. Aber in keinem dieser Länder gibt es derzeit solche Kräfte, die das entstandene Machtvakuum füllen könnten. Dafür ist viel Zeit erforderlich.

Erdogan will seinerseits von den Möglichkeiten profitieren, die ihm der „arabische Frühling“ bietet. Er könnte an Einflusskraft gewinnen, weil Ägypten, Syrien, Libyen und der Irak schwächeln. Dabei geht es vordergründig um die Wirtschaft - Erdogan verkündete in Kairo, dass die türkischen Investitionen in Ägypten von 1,5 auf fünf Milliarden Dollar wachsen werden. Politisch gesehen hat Ankara jedoch keine großen Chancen auf die Führungsrolle in der islamischen Welt.

Erdogans politische Karriere hat zudem einige Kratzer. Bevor er 2003 seine Partei für Gerechtigkeit und Aufschwung ins Leben gerufen hatte und zum Premier gewählt wurde, war er Mitglied der islamistischen Tugendpartei gewesen, die 1997 verboten wurde. Damals wandete er sogar für die nationalistische Propaganda vier Monate ins Gefängnis.

Darüber hinaus war der begeisterte Empfang des türkischen Premiers in Nordafrika der Beweis, dass die USA und Westeuropa ihre Einflusskraft in der Region endgültig verloren haben.

Nicht zu vergessen ist, mit welcher Begeisterung 2009 der frischgebackene US-Präsident Barack Obama in Kairo empfangen wurde. Damals versprach er, Washingtons politischen Kurs zu ändern und die Interessen der Araber mehr zu berücksichtigen, Israel zu mäßigen und zu einem Friedensabkommen mit den Palästinensern zu überreden sowie die Bildung eines unabhängigen Palästinenserstaates zu fördern. Nichts davon ist jedoch in Erfüllung gegangen. Angesichts dessen ist die Unbeliebtheit der Amerikaner in der arabischen Welt nicht verwunderlich.

Erdogan gewann an Popularität wegen seiner Schritte gegen Israel. Er hatte sich  de facto für die Unterbrechung der diplomatischen Beziehungen mit Tel Aviv entschieden, die Teilnahme israelischer Kampfjets an Manövern in der Türkei verboten und die bilateralen Militärkontakte eingestellt.

Während seines Besuchs in Tunis warnte Erdogan sogar, er würde türkische Kriegsschiffe an die israelische Küste schicken, wenn Tel Aviv weiterhin Schiffe mit Hilfsgütern für den Gaza-Streifen abfangen sollte.

Wenn man bedenkt, dass die Türkei Nato-Mitglied ist, sind Erdogangs Worte starker Tobak. In der arabischen Welt wurden sie aber mit Begeisterung aufgenommen.

Abwendung von Europa


Erdogans Nordafrika-Reise hat noch einen wichtigen Aspekt. Er zeigte den Europäern deutlich, was sie verlieren, wenn sie der Türkei den EU-Beitritt verweigern.

Ankara hatte 1987 die EU-Mitgliedschaft beantragt, wurde aber erst 1999 bei einem EU-Gipfel in Helsinki als Anwärter anerkannt. Seit dieser Zeit haben entsprechende Verhandlungen keine großen Fortschritte gebracht.

Niemand hat den Türken bisher deutlich gemacht, dass es für sie in Europa keinen Platz gibt. Aber Deutschland und Frankreich wollen nicht, dass in der Europäischen Union weitere 60 Millionen Muslime leben. Deshalb wurden Ankara Bedingungen gestellt, die es unmöglich erfüllen kann, um EU-Mitglied zu werden. So verlangte Frankreich, dass die Türken den Völkermord an Armeniern im Jahr 1915 anerkennen.

So etwas kann sich Erdogan nicht gefallen lassen. Jetzt kehrt er Europa allmählich den Rücken. Im Grunde tut er das, was er zuvor versprochen hatte.

Die Meinung des Verfassers muss nicht mit der von RIA Novosti übereinstimmen.

La diplomatie-missile d’Erdogan

Turquie vs Israël. Erdogan met le feu aux poudres de l'OTAN en refusant d'installer le Ballistic Defense Missile Europe à Kurecik (ABM).

La diplomatie-missile d’Erdogan

Ex: http://mbm.hautetfort.com/

Le rythme de la diplomatie du gouvernement turc et de son Premier ministre Erdogan devra-t-il être inscrit comme un des facteurs fondamentaux du “printemps arabe”, au même titre, par exemple, que la place Tahrir au Caire ? Poser la question, c’est y répondre. Les Turcs sont à l’offensive sur absolument tous les fronts, avec un objectif de facto, qu’on doit constater comme évident s’il n’est à aucun moment énoncé comme tel ; il s’agit de la destruction de l’“ordre” du bloc BAO, essentiellement tenu par Israël et son “tuteur” US, – l’un et l’autre désormais privés de soutiens de taille, comme celui de l’Egyptien Moubarak.

Les derniers développements sont particulièrement remarquables, en ce qu’ils haussent le niveau de l’offensive turque au plus haut, avec la question de l’attitude turque vis-à-vis de l’affaire palestinienne à l’ONU et l'affaire des forages en Méditerranée orientale, qu’on connaît bien ; mais surtout, affaire nouvelle venue dans sa dimension polémique, celle de l’engagement turc dans le réseau anti-missiles de l’OTAN (BMDE, pour Ballistic Defense Missile, Europe, – dénomination initiale US qu’on peut aussi bien garder, pour réumer les explications et les réalités de la chose). Il s’agit désormais, avec le réseau BMDE dans la forme que prend cette affaire, de questions stratégiques majeures impliquant la Turquie et l’OTAN, c’est-à-dire les USA, et les autres qui vont avec. Voyons les nouvelles…

• Le quotidien d’Ankara Hurriyet Daily News donne plusieurs informations exclusives, ce 19 septembre 2011. D’une part, le journal annonce que le cabinet turc ne prendra pas de décision définitive sur l’installation de la base de détection radar du réseau BMDE en Turquie, avant le retour du Premier ministre Erdogan, en visite aux USA, notamment pour la séance plénière annuelle de l’Assemblée des Nations-Unies. Erdogan rencontre Obama aujourd’hui. Puis l’ONU doit se prononcer sur la demande palestinienne de reconnaître l’Etat palestinien. La décision turque de retarder sa décision sur la base du réseau BMDE en Turquie intervient alors que Washington avait d’abord demandé à Ankara d’accélérer sa décision (selon DEBKAFiles, voir plus loin), et la chronologie désormais établie ressemble fort à une conditionnalité implicite ; tout se passant comme si Erdogan laissait entendre que cette décision turque dépendrait de l’attitude US dans la question palestienne à l’ONU. Cette position n’est pas à prendre comme telle, mais elle représente un acte de défiance des Turcs vis-à-vis des USA, au moins affirmé du point de vue de la communication.

Hurriyet Daily News va plus loin, au rythme de la diplomatie turque, en dévoilant que l’acceptation possible/probable de déploiement de la base du réseau BMDE sera accompagnée, très rapidement, d’une mission d’information auprès de l’Iran. Un comble, du point de vue du bloc BAO, puisque le réseau BMDE est déployé théoriquement contre une menace future possible de l’Iran (ainsi va le narrative du complexe militaro-industriel, donc il faut bien la rapporter) ; pire encore, si c’est possible, la rencontre entre Erdogan et Mahmoud Ahmadinejad, jeudi à l’ONU, à New York, avec la question du réseau BMDE au menu des conversations. … Pourquoi ne pas faire participer l’Iran au réseau, se demanderaient certains, pour protéger ce pays contre ses propres futurs missiles ? (Tout cela, après l’annonce par le ministre turc des affaires étrangères Davutoglu que la Turquie refusera le partage avec Israël des informations obtenues par la station radar sur son sol…)

«The agreement envisions the deployment of a U.S. AN/TPY-2 (X-band) early warning radar system at a military installation at Kürecik in the Central Anatolian province of Malatya as part of the NATO missile-defense project. Obama and Erdogan will likely discuss the fate of the agreement, which has been described by anonymous U.S. officials as the most strategic deal between the two allies in the last 15 to 20 years.

»A swift approval of the deal is needed to carry out the technical phases of the radar system’s deployment before the end of this year, as suggested by the U.S. Department of Defense. U.S. warships carrying anti-ballistic missiles are expected to take up position in the eastern Mediterranean Sea in the upcoming months, U.S. media outlets have reported. As part of the project, missile shield interceptors and their launching system will be deployed in Romanian and Polish territory, in 2015 and 2018, respectively.

»Senior Turkish officials who are planning to visit Tehran in the coming weeks will seek to diffuse growing Iranian concerns about the deployment of the radar system on Turkish soil. Hakan Fichan, chief of the National Intelligence Organization, or MIT, is expected to be the first visitor, followed by Erdogan.»

DEBKAFiles annonce effectivement, ce 19 septembre 2011, qu’un envoyé spécial du président Obama, le directeur du renseignement national (coordination et supervision de toutes les agences de renseignement US) James Clapper, se trouvait en visite surprise et d’urgence, samedi soir à Ankara. Clapper venait presser Erdogan de réduire son soutien au Palestinien Abbas, d’adopter un ton moins menaçant dans l’affaire des forages en Méditerranée orientale, impliquant Chypre et Israël, etc. Clapper venait aussi demander une accélération de la réponse turque concernant la base radar du réseau BMDE ; puis, devant les déclarations du ministre des affaires étrangères Davutoglu dimanche, il avertissait la Turquie que le partage des informations avec Israël était une condition sine qua non de l’installation de la base en Turquie…

«Following Davutoglu's statement on the X-band radar, Clapper was authorized to warn the Erdogan government that if it barred the sharing of information with Israel, the plan for its installation in Turkey would have to be abandoned. The entire missile shield system is based on a network of advanced radar stations scattered across the Middle East, including the Israeli Negev, and Israel's highly-developed ability to intercept Iranian ballistic missiles.»

• On signalera également l’article du New York Times du 18 septembre 2011, où le ministre Davutoglu annonce un “ordre nouveau” au Moyen-Orient avec l’axe entre la Turquie et l’Egypte. La dynamique de la diplomatie turque prend une forme de plus en plus structurée, et de plus en plus officiellement affirmée.

• On signalera également (suite) la forme extraordinairement agressive, anti-turque, que prennent certaines interventions de commentateurs proches d’Israël par divers liens, y compris ceux de l’idéologie de l’“idéal de puissance”. L’un d’entre eux est certainement David P. Goldman (dit “Spengler” pour ATimes.com), qui publie un virulent article anti-turc (anti-Erdogan) sur le site Pyjama Media, le 18 septembre 2011 ; et un autre article dans sa chronique “Spengler” de ATimes.com, le 20 septembre 2011, où il fait un procès véritablement “spenglérien” de l’état social et culturel de l’Egypte, particulièrement méprisant pour la valeur intellectuelle et économique de ce pays et de ses habitants. Il s’agit de discréditer autant les ambitions turques que l’alliance égyptienne, exprimant en cela une frustration peu ordinaire d’Israël et du bloc BAO, appuyés sur cet “idéal de puissance” cité plus haut. (Cet “idéal” forme le tronc idéologique et darwinien commun aux diverses entités du bloc, toutes autant les unes que les autres attachées aux conceptions de puissance, – en général des frustrations psychologiques anglo-saxonnes aux visions caricaturales diverses de “la volonté de puissance” nietzschéenne.) Nous ne sommes pas loin des neocons, des ambitions impériales américanistes et des arrières pensées eschatologiques du Likoud. Cette soupe, rescapée de la première décennie du XXIème siècle, se concentre pour l’instant en une appréciation absolument toxique de ce qui est considéré par le noyau dur du bloc BAO comme une trahison de la Turquie d’Ataturk “kidnappée” par les islamistes d’Erdogan. Dans ce cas, les durs israéliens sont évidemment particulièrement concernés, avec leurs alliés neocons qui furent des auxiliaires attentifs, au niveau du lobbying bien rétribué, de l’ancien régime turc. (Richard Perle était l’un des principaux lobbyistes des Turcs à Washington dans les années 1990, appuyé sur les ventes d’armement à la Turquie, notamment de Lockheed Martin, qui finance les même neocons. C’est un aspect important des réseaux américanistes et pro-israéliens, et pseudo “spanglériens” pour le cas qui nous occupe, qui est en train de s’effondrer avec l’énorme défection turque.)

…Tout cela commençant à signifier clairement qu’en quelques semaines, depuis la mi-août pratiquement, la Turquie a complètement basculé pour se retrouver au rang de premier adversaire du bloc BAO (Pentagone + Israël, principalement) au Moyen-Orient, – à la place de l’Iran, et dans une position infiniment plus puissante que celle de l’Iran. Le renversement est fantastique, tout comme l’est potentiellement cette affaire du réseau BMDE qui implique les intérêts stratégiques de tous les acteurs au plus haut niveau. Pour le Pentagone, l’accord turc sur la station radar à installer dans la base de Kurecik, en Anatolie centrale, est présenté d’abord comme “le plus important accord stratégique entre les deux pays depuis 15 à 20 ans” ; puis il s’avère, cet accord, tellement chargé de conditions turques, comme le refus de partager les informations avec Israël, que le Pentagone doit envisager d’annuler son offre (pardon, celle de l’OTAN) ; ce qui nous permet au passage de nous interroger pour savoir qui contrôle quoi dans le réseau OTAN si les Turcs estiment avoir un droit de veto sur la disposition des radars qui seraient installés à Kurecik… Cela, jusqu’à l’annonce des assurances et des informations données à l’Iran, ce qui ne doit pas entrer dans les plans généraux du Pentagone ni de l’OTAN, ni de nombre de membres de l’OTAN qui cultivent dans leur arrière-cour la narrative de la menace iranienne.

En plus des diverses querelles et crises en développement dans l’énorme chamboulement du Moyen-Orient, l’affaire du réseau BMDE de l’OTAN, et de la Turquie, nous est précieuse parce qu’elle permet l’intégration potentielle de plusieurs crises, bien dans la logique de la Grande Crise de la Contre-Civilisation (GCCC, ou GC3). A un moment ou l’autre, la Russie ne va-t-elle pas se manifester, elle qui déteste le réseau BMDE et qui prétend avoir des relations très moyennes avec l’OTAN, et plutôt bonnes avec la Turquie ? On aura alors un lien très ferme établi avec la question de la sécurité européenne, et de l’engagement européen dans des réseaux stratégiques contrôlés par la puissance en cours d’effondrement des USA… Et que va donner cette affaire du partage avec Israël d’informations stratégiques du réseau BMDE, alors que les Turcs le refusent, alors que les Turcs ont mis leur veto à l’installation d’une délégation de liaison d’Israël à l’OTAN…

D’une façon générale, avec cet élargissement de la crise et le passage à la dimension stratégique fondamentale, on comprend alors que la Turquie est de plus en plus orientée pour tenir le rôle que la France gaullienne tenait en d’autres temps. Face à cela, la France, qui n’a réussi qu’à placer son président-poster un jour avant la visite d’Erdogan en Libye, apparaît sous la lumière impitoyable d’une dissolution totale ; son ministre des affaires étrangères, qui fut en son époque “le plus intelligent de sa génération”, s'emploie actuellement à la tâche hautement louable et profitable de faire en sorte que les USA n'apparaissent pas trop isolés lors de leur vote à l'ONU contre la reconnaissance de l'Etat palestinien.... Il est temps que les Français aillent aux urnes, pour s’occuper, puisque la Turquie s'occupe de tout. (Ce qui est effectivement et concrètement le cas : d’une façon générale, les journalistes français de “politique étrangère” des organes-Système les plus réputés, lorsqu’ils sont sollicités par des organismes internationaux pour des visites, des conférences, des rencontre, etc. répondent depuis septembre qu’ils sont totalement mobilisés par l’élection présidentielle. C’est effectivement là que se passent les choses…)

10 ans après le 11 septembre

10 ans après le 11 septembre

Par Alain Soral

http://www.egaliteetreconciliation.fr/

« Le 11 septembre 2001 n’a pas eu lieu » est assurément un ouvrage indispensable pour tous ceux qui ne peuvent se contenter de la « version officielle » présentée en boucle par les médias. Nous plaçons ci-après la préface de ce livre écrite par Alain Soral.

Qui sème le vent récolte la tempête.

Comme beaucoup de français qui se taisent : intellectuels dégoûtés, immigrés humiliés, je l’avoue, en voyant le spectacle du Word Trade Center, j’ai mouillé mon calfouette. Puis j’y ai vu la preuve, rassurante, de la survie du sens, de la morale et de l’humanité, malgré l’énorme travail accompli ici pour les exterminer.

Il n’y a pas d’effet sans cause, sauf pour ceux qui expliquent la légitime colère, née d’une légitime souffrance et d’un légitime désespoir, par la montée du nihilisme – sorte de cause sans cause pour éviter de se remettre en cause.

Cinq cent mille enfants morts sans toucher à Saddam Hussein, il faut bien croire que le projet US était le génocide pour affaiblir durablement l’Irak par sa démographie, et ce, quel que soit le régime de Bagdad.

Cinquante ans de persécutions et d’humiliations du peuple palestinien justifiés – ô abjection – par la persécution et l’humiliation du peuple juif, ailleurs, et par d’autres.

Il faut beaucoup d’orgueil blessé, et une certaine grandeur d’âme, pour qu’un milliardaire saoudien renonce à une vie de pacha pour la justice, dans l’inconfort et le péril. Il faut beaucoup de désespoir pour que des intellectuels, en toute conscience, choisissent leur propre mort pour exprimer à la face du monde leur refus de l’oppression.

Règle anthropologique de base ignorée de tous nos bourgeois voyeurs : pour comprendre la souffrance des autres, il faut la subir soi-même dans sa chair, pas juste la lire dans les journaux ; tel est le prix de la conscience.

C’était l’espoir du World Trade Center, que les américains comprennent enfin ce que c’est qu’en prendre plein la gueule, à Belgrade, à Bagdad, à Tripoli, dans les territoires occupés et ailleurs, afin que leur inconscience, leur violence, leur mépris, leur pitié même, se muent en commisération. Qu’en subissant au moins une fois ce qu’ils assènent aux autres avec tant de distance et de légèreté, ils comprennent – au sens d’avoir en soi – ce que vivent et ressentent leurs victimes, les pauvres et les non-alignés du monde entier : Irakiens, Serbes, Argentins…

Raté. Au lieu de ça Bush parle de croisade, de guerre du bien indiscutable contre le mal indiscutable, en plus au nom du Christ.

La réconciliation par le partage – de la souffrance, avant celui du travail et des richesses – n’est donc pas pour cette fois.

Il reste à espérer que la prochaine viendra vite et, pour qu’augmente sa puissance pédagogique, qu’elle frappera plus juste et plus fort…

Voilà ce que j’écrivais, à chaud, à l’automne 2001.

Après que toutes les télévisions du monde nous eurent offert le spectacle magnifique, grandiose, des deux avions se crashant dans le symbole de l’orgueil américain et de la finance occidentale ; l’hallucinant spectacle du double effondrement des deux tours, à tel point subjuguant qu’on ne se posa pas la question, sur le coup, sous le choc, de l’impossibilité physique, mécanique d’un tel effondrement. Sans parler de la disparition totale d’un avion de ligne percutant en rase-mottes une aile en travaux du Pentagone…

Pour nous, les avides de justice, les dissidents, les résistants du tertiaire et du Net – on a les guerres que l’époque veut bien nous offrir – après la succession des victoires néolibérales des années 80 et 90, Oussama Ben Laden devint en un jour, d’un seul coup de maître, notre nouvelle idole, le nouveau Sankara, le nouveau Castro, le nouveau Nasser se levant du Sud et de l’Orient pour châtier l’arrogant Occident.

Mais très vite, après le court moment de la jubilation, vint le temps de la réflexion, et avec le recul, celui de la recherche et de l’analyse : qui était vraiment Oussama Ben Laden ? Guerrier de l’islam ? Agent de la CIA ? L’autre puis l’un ? Les deux ? Et surtout « cui bono ? », question qu’il faut toujours se poser en politique : à qui profite le crime ?

Car le 11 septembre, immédiatement attribué par l’oligarchie américano-sioniste, via les médias complices et sans enquête, au « terrorisme islamiste », c’était aussi l’agression rêvée qui justifiait la nouvelle croisade, planifiée de longue date par les théoriciens néo-conservateurs : diabolisation des non-alignés en membres de « l’axe du mal », guerres préventives contre l’Afghanistan, l’Irak, demain l’Iran ? PATRIOT Act et autres redécoupages du Moyen-Orient…

Alors pour ne pas brûler trop vite celui qu’on adulait encore hier, nous nous efforçâmes de penser aux 5 de Cambridge : de comparer Oussama, le fils de riche saoudien en rupture de ban, à ces anglais de la gentry qui eux aussi, dégoûtés par une classe qu’ils connaissaient bien, avaient choisi de la trahir pour la combattre en rejoignant le camp de la révolution…

On tenta bien encore un temps de se persuader que ce membre du clan Ben Laden, financièrement lié aux Bush, cet ancien combattant pro-talibans, armé par la CIA du temps de la lutte contre les soviétiques, s’était bel et bien retourné avec colère contre ses anciens partenaires et mentors ; et que si son action d’éclat avait finalement nui à sa cause, il n’avait été qu’instrumentalisé, manipulé à l’insu de son plein gré !

Mais une raisonnable analyse des enjeux et des faits nous obligeait quand même à admettre qu’au-delà de la fascination produite par son morceau de bravoure, son combat, finalement contre-productif, n’avait rien à voir avec l’anti-impérialisme d’Etat iranien, l’union cohérente du politique et du religieux d’un Hassan Nasrallah…

Le coup de grâce qui acheva d’inverser totalement la lecture héroïque des attentats fut le passage – tout aussi historique – de Thierry Meyssan chez Thierry Ardisson pour y présenter son livre « L’Effroyable imposture ».

Une prestation calme, posée, argumentée, où toutes les contradictions de la version officielle étaient pointées du doigt pour mener à cette conclusion, implacable : il ne pouvait s’agir que d’une opération sous faux drapeau impliquant des complicités du pouvoir au plus haut niveau.

Une conclusion amenée après une démonstration si rigoureuse que personne sur le plateau n’eut seulement l’idée de la contester en poussant ces petits cris d’indignation devenus depuis obligatoires pour tout soumis au Système, tout lèche-cul médiatique qui tient à se faire bien voir, ou à ne pas se faire marginaliser !

Le livre de Meyssan ?

Un magnifique exemple de ce que pourrait devenir, de façon plus générale, le révisionnisme historique sans l’inique loi Gayssot ! Les collabos à l’Empire ne s’y trompent pas d’ailleurs, eux qui vont jusqu’à clamer, devant la déferlante de doutes quant à la version officielle, qu’oser la constester c’est comme remettre en cause l’existence des chambres à gaz. Ce qui est parfaitement exact !

L’écart entre le traitement officiel des attentats du 11/09 et ce qu’on peut lire désormais sur la toile, notamment grâce au travail de l’association « ReOpen911 », est aussi ce qui entraîna le discrédit définitif de l’information officielle et des médias de masse, que ce soit le journal de TF1, le journal Libération ou Le Monde, mais aussi les faux blogs non-alignés, financés par les mêmes, type Rue89…

Le soutien à la version officielle du 11/09 ? Le marqueur permettant d’identifier aussitôt le collabo du Système, de démasquer le faux opposant institutionnel à la Noam Chomsky…

C’est en effet grâce au traitement Internet des évènement du 11 septembre que de plus en plus de gens ordinaires, à la suite des initiés, prennent aujourd’hui conscience de l’existence d’autres opérations sous faux drapeaux ourdies, ou instrumentalisées par le pouvoir pour continuer à berner, à manipuler les populations occidentales au nom de la démocratie : assassinat de Kennedy, attentats de Bologne, d’Oklahoma City, de Madrid, de Londres et très récemment d’Oslo…

Car qui aujourd’hui croit encore à la version officielle du 11/09 ?

Aux Etats-Unis, moins d’un américain sur deux, et face à eux, pas que des marginaux : des architectes, des militaires, des pilotes de ligne regroupés en associations…

En France, même Jean-Marie Bigard, le comique pour beaufs, Mathieu Kassovitz , le Luc Besson du cinéma indépendant la contestent publiquement ! Si bien qu’on peut dire, dix ans après, que le débat sur 11 septembre va bien au-delà du 11 septembre et de la stricte question des attentats perpétrés ce jour là.

Le 11/09 c’est, face à la grossièreté de l’histoire officielle et à la brutalité de ses promoteurs – politiques et médias – la remise en cause, l’ébranlement de tout un système de domination fondé sur la diabolisation par le mensonge, et qui mène le monde depuis 1945.

Comprendre le 11 septembre ?

C’est accéder à la compréhension du monde…

Alain Soral

Le livre est disponible sur Kontrekulture.com : http://www.kontrekulture.com/achats...

jeudi, 22 septembre 2011

Pro-Al Qaeda brigades control Qaddafi Tripoli strongholds seized by rebels

Pro-Al Qaeda brigades control Qaddafi Tripoli strongholds seized by rebels

DEBKAfile E

Ex: http://www.debka.com/


Abd Al-Hakim Belhadj, pro-Al Qaeda LIFG chief

Members of the Al Qaeda-linked Libyan Islamic Fighting Group – LIFG, are in control of the former strongholds of Muammar Qaddafi captured by Libyan rebels last Sunday, Aug. 21, debkafile reports from sources in Libya. They are fighting under the command of Abd Al-Hakim Belhadj, an al Qaeda veteran from Afghanistan whom the CIA captured in Malaysia in 2003 and extradited six years later to Libya where Qaddafi held him in prison.

Belhadj is on record as rejecting any political form of coexistence with the Crusaders excepting jihad.

His brigades were the principal rebel force in the operation for the capture of Qaddafi's Bab al-Aziziya ruling compound on Aug. 23. Saturday, Aug. 27, those brigades overran the Abu Salim district of southern Tripoli taking it from the last pro-Qaddafi holdouts in the city. Many of the prisoners released from the local jail belonged to al Qaeda.
The LIFG chief now styles himself "Commander of the Tripoli Military Council." Asked by our sources whether they plan to hand control of the Libyan capital to the National Transitional Council, which has been recognized in the West, the jihadi fighters made a gesture of dismissal without answering.

According to US and British media, at least half of the members of the NTC have moved from Benghazi to Tripoli, the key condition for the receipt of Qaddafi's frozen assets and international aid. But there is no confirmation from our sources that this has happened. Tripoli is rife with disorder, awash with weapons and prey to reciprocal allegations of atrocities. Our sources doubt that the council will be able to assert control of - or even a presence in - Tripoli any time soon. US intelligence sources in Tripoli see no sign that the NTC will be able to persuade the Islamist brigades to relinquish control of the city in the near future - or even lay down arms.


Those arms are advanced items which British and French special operations forces gave the rebels, said a senior American source. Had those NATO contingents not led the Tripoli operation, the rebels unaided would not have captured Qaddafi's centers of government.

A week after that dramatic episode, Tripoli's institutions of government have wound up in the hands of fighting Islamist brigades belonging to al Qaeda, who are now armed to the teeth with the hardware seized from Qaddafi's arsenals. No Western or Libyan military force can conceive of dislodging the Islamists from the Libyan capital in the foreseeable future.

Libya has thus created a new model which can only hearten the Islamist extremists eyeing further gains from the Arab Revolt. They may justly conclude that NATO will come to their aid for a rebellion to topple any autocratic Arab ruler. The coalition of British, French, Qatari and Jordanian special forces, with quiet US intelligence support, for capturing Tripoli and ousting Qaddafi, almost certainly met with US President Barack Obama's approval.

For the first time, therefore, the armies of Western members of NATO took part directly in a bid by extremist Islamic forces to capture an Arab capital and overthrow its ruler.
An attempt to vindicate the way this NATO operation has turned out is underway. Western media are being fed portrayals of the rebel leadership as a coherent and responsible political and military force holding sway from Benghazi in the east up to the Tunisian border in the west.

This depiction is false. Our military sources report that the bulk of rebel military strength in central and western Libya is not under NTC command, nor does it obey orders from rebel headquarters in Benghazi.
This chaotic situation in rebel ranks underscores the importance of the effort the NTC has mounted to capture Sirte, Qaddafi's home town, where most of his support is concentrated. Control of Sirte, which lies between Benghazi and Tripoli, will provide the NTC and its leader Abdul Jalil, with a counterweight for the pro-Al Qaeda brigades in control of the capital.

Krantenkoppen - September 2011 (3)

Krantenkoppen
September 2011 (3)
70-80% LIBIE IN HANDEN VAN KOLONEL KHADAFFI:
"In Bani Walid besloten stamleiders, zelfverzekerd van hun mogelijkheden, de stad niet op te geven maar haar te verdedigen tegen de NATO/rebellen tot het eind. (...) Woensdag vond een aanval door de NAVO/rebellen plaats waarbij honderden doden vielen aan de zijde van de agressors.
Een NAVO/rebellen-convooi werd aangevallen bij Tarragon waarbij 14 rebellen omkwamen":
http://nicodegeit.wordpress.com/2011/09/08/70-80-libie-in-handen-van-kolonel-kadaffi/
 
 
LIBIE: VERLIEZEN AAN NAVO-ZIJDE AANZIENLIJK:
"Volgens het Britse Ministerie van Defensie kwamen tot nu toe 35 Britten om tijdens gevechten in Libië. In werkelijkheid zou het om 1.500 tot 2.000 Britten gaan. (...) Doden aan Franse zijde: 200 tot 500. De VS: minder dan 200. Qatar: 700 tot 1.000. Deze getallen verschijnen niet in de mainstream media":
https://nicodegeit.wordpress.com/2011/09/09/libie-verliezen-aan-navo-zijde-aanzienlijk/
 
 
STRIJDERS LOYAAL AAN KHADAFFI ZEER GEMOTIVEERD:
"Libische strijdkrachten voeren aanvallen uit op NAVO-rebellen rond Sirte en op andere plaatsen. Honderden NAVO-rebellen kwamen daarbij in de afgelopen dagen om het leven":
https://nicodegeit.wordpress.com/2011/09/19/strijders-loyaal-aan-kadaffi-zeer-gemotiveerd/
 
 
LIBYE: LES PRO-KHADAFFI CAPURENT 17 'MERCENAIRES ETRANGERS':
"La plupart d'entre eux sont des Français, il y a 1 ressortissant d'un pays d'Asie qui n'a pas été déterminé, 2 Anglais et 1 Qatari":
http://fr.rian.ru/world/20110919/191117869.html
 
 
LES FORCES DU CNT SE RETIRENT EN DESORDRE DE BANI WALID:
The NATO rebels withdrew in disorder from Bani Walid, which stays under firm control of Khadaffi's army :
http://fr.news.yahoo.com/les-forces-du-cnt-se-retirent-en-d%C3%A9sordre-172709390.html
 
 
CIVILIANS JOIN GADAFFI FIGHTERS TO DEFEND HOMETOWN:
"There has been resistance from civilians, volunteers. They're above the buildings with Kalashnikovs, anti-aircraft guns, rockets and other weapons":
http://www.reuters.com/article/2011/09/17/us-libya-sirte-scene-idUSTRE78G1ZN20110917
 
 
OCCUPY WALL STREET PROTESTS:
American outrage: Thousands of New Yorkers demonstrate against Wall Street:
http://www.youtube.com/watch?v=cG_TKAJyV6k&feature=player_embedded
 
 
LE LIECHTENSTEIN DIT NON A L'AVORTEMENT:
"Le Liechtenstein a rejeté aujourd’hui la légalisation de l’avortement. (...) 52,3% des votants ont rejeté le projet ":
http://belgicatho.hautetfort.com/archive/2011/09/18/le-liechtenstein-dit-non-a-l-avortement.html
 
 
KYRGYZSTAN TO CLOSE US AIR BASE:
"An agreement on the air base with the Americans will expire in 2014 and Kyrgyzstan has no intention to extend it":
 
 
UMAN: 'Bienvenue en Belgique':
 
 
WHAT WE SHOULD HAVE BEEN TAUGHT ABOUT ECONOMICS IN HIGHSCHOOL:
 
 
BERNARD HENRI LEVY ET DES DJIHADISTES:
During his visit to Libya today, Sarkozy told a rebel leader that the regime of Algeria will be destroyed within 1 year and the regime of Iran in 3 years:
http://www.algerie360.com/algerie/bernard-henri-levy-et-des-djihadistes-%C2%ABoeuvrent%C2%BB-pour-la-disparition-de-la-nation-algerienne/
 
 
HONGARIJE VERNIETIGT ALLE GM-MAISVELDEN:
"Zo'n 400 hectare maïs, waarvan ontdekt is dat ze geteeld zijn met genetisch gemodificeerde zaden, zijn over heel Hongarije vernietigd":
http://zaplog.nl/zaplog/article/hongarije_vernietigt_alle_gm_maisvelden
 
 
BELGIAN INVESTIGATION JOURNALIST MICHEL COLLON DEBATING MINISTER OF DEFENSE PIETER DE CREM ON 9/11 AND CRIMES IN LIBYA:
 
 
PAUL JORION: SEMIOLOGIE DE LA CRISE:
Belgian professor Paul Jorion (Université de Paris VIII) at French television on September 13th 2011: "Le capitalisme c'est le système où l'argent manque toujours à l'endroit où on en a besoin":
http://www.youtube.com/watch?v=Efea8LaHdGQ&feature=player_embedded

Nouveau sondage IPSOS

 

 

L’insitut IPSOS a publié le 4 août un sondage qui dérange.

 

Donc vous n’entendrez pas trop parler de lui dans les médias, ou alors très brièvement, et les idéologues vont travailler dur pour censurer sa publication. Pourtant, il s’agit d’un raz de marée social à l’échelle européenne.

 

« Vision globale sur l’immigration », c’est son titre, a été mené entre le 15 et 28 juin auprès d’un échantillon représentatifs de citoyens de neufs pays européens : Belgique, Grande Bretagne, France, Allemagne, Hongrie, Italie, Pologne, Espagne et Suède.

 

Des sondages de ce type existent déjà, mais localement. C’est une des premières fois, à ma connaissance, que les pays européens sont sondés en même temps sur le même sujet, et que les réponses sont mises en perspective, pays par pays.

 

Je publie ci dessous le sondage complet afin que chacun puisse prendre connaissance en toute transparence des questions posées, et puisse juger de sa pertinence (1).

 

Autant dire que les résultats bouleversent tous les clichés et s’inscrivent à l’envers de la rengaine habituelle du mieux vivre ensemble et de la diversité multiculturelle. Ce n’est guère surprenant, car nous avons tous le sentiment que les médias manipulent et diabolisent ce sujet tabou.

 

Grande première, il est maintenant prouvé que les sentiments négatifs vis à vis de l’immigration ne sont pas du tout le fait des extrémistes de droite et des populistes, comme aiment à le répéter les tenants du politiquement correct et les censeurs.

 

Cela n’empêchera pas nos élites de service de continuer à le soutenir, ou de contester les résultats, mais au moins, vous êtes maintenant informé que vous n’êtes ni un pestiféré, ni un xénophobe honteux.

 

Si vous êtes d’extrême droite ou identitaire, sachez que la majorité de la population, qui n’a pas d’attirance pour le Front National, pense comme vous : « il y a trop d’immigrants en Europe ». Toute la question revient alors à ne pas franchir la ligne rouge du racisme. Trop d’immigrants ne veut pas dire qu’ils doivent être traités comme une sous-race, mais absolument pas comme des privilégiés sociaux.

 

Question : « pensez-vous qu’il y a trop d’immigrants dans votre pays ? »

 

( Bleu = beaucoup trop. Gris = ni trop ni trop peu. Vert = pas du tout. Noir = ne sait pas)

 

72% de la population belge affirment fortement que oui, ainsi que,

71% des anglais

67% des italiens

67% des espagnols

53% des allemands

52% des français

50% des hongrois

46% des suédois

Et, en confirmation de ce qui précède, seulement 29% des polonais, qui n’ont que 0.1% d’immigrés.

 

Premier constat : les immigrés sont majoritairement vécus comme une mauvaise nouvelle, la moyenne européenne étant 56%.

 

Second constat : ce n’est pas tant leur nombre que leur niveau d’intégration qui dérange. En France, il y a deux fois plus de musulmans que partout ailleurs en Europe. Pourtant c’est en Belgique et en Grande Bretagne, là où ils refusent le plus vigoureusement l’intégration, qu’ils sont le moins bien perçus.

 

Question : « pensez-vous que le nombre d’immigrants à augmenté ces cinq dernières années ? »

 

( Bleu = beaucoup trop. Gris = ni trop ni trop peu. Vert = pas du tout. Noir = ne sait pas)

 

Hélas, la réponse est un OUI écrasant. 94% en Belgique. Près de 80% des citoyens, en Italie, en Grande Bretagne, en Espagne, en Hongrie, et en France pensent que le nombre d’immigrés a énormément augmenté, tandis que 3% des européens pensent qu’il a baissé.

 

Question : « Pensez-vous que l’immigration a eu un impact positif ou négatif sur votre pays ? »

 

( Bleu = très positif. Gris = ni positif ni négatif. Vert = très négatif. Noir = ne sait pas)

 

C’est la question qui tue. Les politiques ne demandent jamais l’avis des citoyens, ou alors pour les traiter de populistes et les désigner à la vindicte    (populaire).

 

72% des belges pensent que l’impact est TRES négatif !

64% des anglais, 56% des italiens, 55% des espagnols, 54% des allemands, 54% des français en pensent autant, ce qui, sans surprise, ressemble au 57% de non du référendum suisse sur les minarets.

 

Question : « pensez-vous que l’immigration impose trop de pressions sur les services publics de votre pays (par exemple la santé, les transports, l’éducation)

 

( Bleu = beaucoup trop. Gris = ni trop ni trop peu. Vert = pas du tout. Noir = ne sait pas)

 

Ce sont les anglais, pour 76% d’entre eux, qui se sentent le plus sous pression, suivis de 70% des espagnols, 68% des belges, 58% des allemands, et 56% des français.

 

Question : « les immigrants font-ils de votre pays un lieu plus intéressant à vivre ? »

 

( Bleu = très certainement. Gris = ni plus ni moins. Vert = pas du tout. Noir = ne sait pas)

 

Ils ne sont pas nombreux, les européens qui pensent que l’immigration a un apport positif…

18% des espagnols et des italiens, 19% des belges, 28% des français, 33% des anglais et 35% des allemands. Un désastre pour ceux qui défendent, comme des lobotomisés, que l’immigration est une chance.

 

Question : « pensez-vous que l’immigration est bonne pour l’économie ? »

 

( Bleu = très. Gris = ni bonne ni mauvaise. Vert = pas bonne du tout. Noir = ne sait pas)

 

Là encore, les citoyens européens sont loin d’être convaincus ! Les journalistes auraient donc totalement échoué dans leur travail de lavage de cerveau ? Rohhhh…

18% des belges, 23% des allemands, 24% des français, et moins d’un anglais, d’un suédois, d’un espagnol et d’un italien sur trois pensent que oui.

 

Détail intéressant, il n’y a pas que les gauchistes et droit de l’hommistes qui ravaleront leur salive, en lisant ce sondage. Le Front National aussi. Son discours sur l’immigré qui prend le travail des français ne semble pas convaincre : 34% des français pensent que ce n’est pas vrai, 22% ne sont ni convaincus dans un sens ou dans l’autre, et une minorité de 41% pensent que c’est exact.

 

Coincés entre incompétence et panique, entre idéologie et police de la pensée, aucun homme politique, aucun parti politique, en France, ne tentera d’intégrer les immigrés et leurs enfants. Pas même le FN. Et comme il n’est pas question de les jeter dehors comme le font les pays musulmans avec les chrétiens et les juifs…. 

 

Reproduction autorisée avec la mention suivante et le lien ci dessous :

© Jean-Patrick Grumberg pour www.Drzz.fr

 

(1) http://www.ipsos-na.com/download/pr.aspx?id=10883

mercredi, 21 septembre 2011

Schockierende Wahrheit über London-Krawalle: Zwei Drittel der Randalierer waren Intensivstraftäter

Schockierende Wahrheit über London-Krawalle: Zwei Drittel der Randalierer waren Intensivstraftäter

Udo Ulfkotte

 

Erinnern Sie sich noch an die »sozialen Proteste« in London? So jedenfalls nannten unsere Systemmedien die Plünderungen und Brandstiftungen im August 2011. In den seither vergangenen Wochen haben britische Gerichte über viele der angeblich »sozial benachteiligten Protestierer« urteilen müssen. Und nun kommt die schockierende Erkenntnis: Zwei Drittel der »Demonstranten« waren kriminelle Intensivstraftäter, die eigentlich im Gefängnis hätten sitzen müssen.

 

Die Fakten: Drei Viertel jener Randalierer, gegen die nach den schweren August-Unruhen in britischen Städten ein Ermittlungsverfahren eingeleitet wurde oder die schon abgeurteilt wurden, haben eine kriminelle Vergangenheit. Geheimdienste und die britische Polizei hatten das ja schon vor einem Monat öffentlich behauptet – nur gab es bislang keine Beweise dafür. Und deshalb ignorierten es viele Medien und sprachen von »sozialen Protesten«. Doch nun liegen offizielle Statistiken nach tausenden von Verurteilungen vor: Die Täter haben demnach VOR ihrer Beteiligung an den Plünderungen und Brandstiftungen schon jeweils durchschnittlich 15 Straftaten begangen, für die sie auch verurteilt wurden. Doch zwei Drittel dieser Intensivstraftäter erhielten immer nur Bewährungsstrafen. Jeder vierte jugendliche Randalierer hatte mehr als zehn Straftaten vor den London-Unruhen verübt, jeder zwanzigste schon mehr als fünfzig!

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/europa/udo-ulfkotte/schockierende-wahrheit-ueber-london-krawalle-zwei-drittel-der-randalierer-waren-intensivstraftaeter.html

lundi, 19 septembre 2011

Débat entre Aymeric Chauprade et Pierre Conesa sur la nécessité de l’ennemi pour imposer sa puissance


Débat entre Aymeric Chauprade et Pierre Conesa sur la nécessité de l’ennemi pour imposer sa puissance

samedi, 17 septembre 2011

9/11 Ten Years Later

WTC-Reuters.jpg

Greg JOHNSON:

9/11 Ten Years Later

Ex: http://www.counter-currents.com/

I wish I had an arresting “what I was doing when the twin towers were hit” story. But the truth is that I had slept through the whole thing. The night before, I had stayed up into the wee hours reading Savitri Devi’s The Lightning and the Sun (I had just found a copy of the unabridged version). I first heard around 3 pm when an Aryan barbarian from Alabama (nobody you would have heard of) called me to ask me what I thought.

“About what?”

“Terrorists hijacked two jetliners and crashed them into the World Trade Center towers, then the towers collapsed.”

“Yeah, sure . . .” I said, as I flipped on the TV (I still had TV then) and saw the second tower collapsing in slow motion. My first thought, I am ashamed to say, was of the huge Miró tapestry I had once seen in one of the lobbies. Then, with horror, I realized I had been there. This could have happened to me! I thought of the terror of the people in the airplanes and the buildings. For the rest of the afternoon, I was glued to the TV.

That evening, I went to the regular Tuesday evening “hate dinner” in Atlanta. Instead of the usual eight or ten people, there were more than twenty. Quite frankly, there was a good deal of gallows humor and Schadenfreude around the table. One person quipped that at least this would get Chandra Levy off the news.

We had all pretty much concluded that the hijackers were Muslims who had targeted us because of the US government’s slavish subservience to Israel and our domestic Jewish community. There was also a consensus that 9/11 was a superb opportunity to awaken our people on the Jewish domination of American foreign policy and the Jewish question in general.

But the public was pretty much already there. Later in the week, Tom Brokaw reported that NBC and Reuters announced that two-thirds of Americans polled believed that we had been attacked because of America’s close ties with Israel. I wondered how (not if, just how) the establishment would spin this.

The answer was soon to come when the New York Times found a “face” to put on a position held by two-thirds of the American public. They went to West Virginia to the “compound” of “neo-Nazi” Dr. William Pierce, leader of the National Alliance, who was of the opinion that 9/11 took place because of Jewish domination of American foreign policy. The Times, in short, sought to marginalize a mainstream position by linking it to a marginal figure.

Don’t get me wrong. I am not blaming Dr. Pierce for anything, certainly not for representing the opinions of two-thirds of the American people. I blame the whole political mainstream for failing to represent us. Apparently every politician and political commentator knows that pandering to the Jewish minority is always more important than pandering to the American majority.

Still, 9/11 was the occasion for my first attempts at open white advocacy under my own name. And I know that I was not alone. I also know many people whose first racial awakening came from 9/11.

We all had high hopes. I was very encouraged when I learned of the arrest of Israeli spies who were filming the attack on the World Trade Center and celebrating. Clearly they had advance knowledge of the attacks and believed them to be “good for the Jews.” Then I heard that a large Israeli spy network had been arrested, including people who had been shadowing the 9/11 hijackers. There was also the story of a text message sent by Odigo, a text-messaging company in Israel, warning of the attack. Carl Cameron began piecing the Israel connection together for FOX.

But then Jewish power intervened. The spies were released and sent home. Cameron’s investigation was quashed and his stories pulled. And the United States went to war. First in Afghanistan, which was at least connected with Al Qaeda, then with Iraq, which was targeted because of Israeli interests, not American interests. It was child’s play, really, for the Jews to lie and manipulate Americans to spill their blood and treasure for the benefit of Israel. Organized Jewry had already brought the United States into World War I and World War II.

I think that the most reasonable account of 9/11 is the following.

Nineteen Muslims armed with box cutters hijacked four airplanes, crashing two of then into the World Trade Center and one into the Pentagon. The fourth crashed in Pennsylvania for reasons unknown.

The government of Israel had been shadowing the hijackers and clearly had advance knowledge of the attacks. Reliable Israeli agents in the US government may also have had advance knowledge. But no attempt was made to warn the American government to stop the attacks. 9/11 was allowed to happen because the Jews needed a new Lusitania, a new Pearl Harbor, as a pretext to bring America into a new war, or wars, in the Middle East on Israel’s behalf. Iraq, Syria, and Iran were at the top of Israel’s hit list. So far, they have had to settle for Iraq. The war in Afghanistan, from a Jewish perspective, was a mere distraction, although it certainly eases the road to war with Iran.

The conclusion and practical implications could not be clearer: Israel is not our friend. American Jews, who if forced to choose between serving US interests or Israeli interests, would overwhelmingly choose Israel, are not our friends either. America’s Jewish community is the reason why US foreign policy is conducted for Israeli not American interests. If America is to prevent another 9/11, we must break the power of American Jewry over our political system. But that will not be possible without addressing Jewish power in the media, the economy, academia, and all realms of culture. Jews need to be excluded from all channels of power and influence in our society. And the only practical way to accomplish that is to expel them as a community from the US. And naturally we should send back our Muslims while we are at it.

On 9/12, some two-thirds of the American public already agreed with part of that message, and they certainly would have been willing to hear more. But White Nationalists did not have the money, the talent, the infrastructure, or the organizational maturity necessary to make our message competitive with the Jewish angle. Our people had the ears to hear, but we could not get our message out.

Ten years later, we are in essentially the same position. Yes, there are new webzines, new publishers, and new podcasts. But there have also been considerable losses. William Pierce died and the National Alliance is a shadow of its former self. National Vanguard has collapsed; its excellent webzine is gone; and Kevin Strom has been essentially silenced. American Renaissance has been pretty much driven out of the conference business. And so forth.

It has been worse than two steps forward, one step back, because that presupposes marching in one direction. The course of our movement, however, more resembles a jitterbug contest or a mosh pit. With a trajectory like that, it is impossible to calculate progress. But overall I am optimistic, because in my experience, the average age of people in our movement is far lower and the average quality is far higher than ten years ago.

As for the 9/11 “conspiracy” theories, I have three thoughts.

First, from a purely pragmatic point of view, the 9/11 account I have outlined above is far superior to any of the more complex theories, because it supports every practical consequence that we want, and it has the added advantages of being based on easily verified facts and being easy to explain.

Second, from a rational point of view, most of the conspiracy theories violate basic principles like Occam’s Razor, namely that the simplest explanation of a given fact is to be preferred. Generally people lead with their strongest arguments, but nothing I have seen makes me want to inquire more deeply. It is laughable, for instance, that people who claim that no planes hit the Pentagon or crashed in Pennsylvania don’t feel a need to explain what really did happen to the airplanes. And as for the claims that the twin towers were brought down by explosives, well doesn’t that seem like overkill? Sure, it looks spectacular on TV. But crashing jetliners into the buildings would have been sufficient to achieve any of the posited motives, from starting a war to totaling the buildings for insurance purposes.

Third, because 9/11 right on its surface is so damaging to Jewish power, and because the official American story (they attacked us because they hate our freedoms) is so absurd, and two out of three Americans knew it, I believe that the enemy felt the need to create a disinformation campaign that would taint even the most cautious and rational critiques of the “official story” with the stench of lunacy. Because the net effect of all the excited talk about disappearing airplanes, controlled demolitions, and false flags manufactured at the highest levels of the US government is that even reasonable alternatives to the official story are dismissed as just more internet conspiracy crankery. Well, maybe that’s what we are supposed to think. Maybe this is the real “false flag.”


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2011/09/911-ten-years-later/

vendredi, 16 septembre 2011

11 septembre : nouvelles révélations sur les réseaux Anglo-saoudiens

11 septembre : nouvelles révélations sur les réseaux Anglo-saoudiens

 
12 septembre 2011 (Nouvelle Solidarité) – Deux semaines avant les attentats du 11 septembre 2001, une riche famille saoudienne ayant été en contact avec Mohamed Atta et d’autres terroristes du 11 septembre, a soudainement quitté sa luxueuse villa près de Sarasota en Floride pour fuir le pays, selon un récit d’Anthony Summers et du journaliste Dan Christensen, publié dans le Miami Herald du 7 septembre 2011. Rappelons que l’administration Obama conserve toujours sous scellé le rapport officiel démontrant l’implication directe du Prince saoudien Bandar bin Sultan, un agent britannique au cœur de l’opération BAE, dans le financement de deux autres kamikazes.

Cette villa était la propriété du financier saoudien Esam Ghazzawi et était occupée par sa fille Anoud et son mari Abdulazzi al-Hiijii. Les autorités américaines ont facilement établi la relation avec les terroristes puisque de nombreux appels téléphoniques ont été échangés entre la résidence et Mohamed Atta, et les vidéos de sécurité de la résidence montrent également les allés et venus de véhicules appartenant à Atta et à un autre pirate de l’air, Ziad Jarrah.

Atta, Jarrah et Marwan al-Shehhi habitaient tous dans un périmètre de 15 km autour de la villa des Ghazzawi et prenaient des cours de pilotage à proximité, dans la ville de Venice. Les analyses des enregistrements téléphoniques montrent des contacts avec onze autres terroristes présumés, y compris Walid al-Shehhi, qui était avec Atta sur le premier vol qui a percuté le World Trade Center.

L’ancien sénateur américain Bob Graham, qui a co-présidé l’enquête bi-partisane du Congrès sur le 11 septembre, a affirmé au Miami Herald qu’on aurait dû lui parler de ces découvertes, affirmant que « cela ouvre la porte à une nouvelle série d’enquête sur l’amplitude du rôle saoudien dans les attentats du 11 septembre. » Graham a immédiatement dressé le parallèle entre cette non-communication par le FBI et le fait que l’agence fédérale américaine n’avait rien communiqué non plus sur le financement saoudien de deux kamikazes en Californie (c’est en effet les enquêteurs du Congrès qui refirent cette découverte).

Bien que la commission du Congrès ait accumulé un très volumineux dossier sur les activités des kamikazes aux Etats-Unis et l’ait communiqué à la Commission sur le 11 septembre, « ils s’en sont très peu servis » a dit Graham, « et leur référence à l’Arabie Saoudite est presque énigmatique parfois… Je n’ai jamais su pourquoi ils n’avaient pas creusé cette piste. » Graham a également cité la suppression de la section finale de 28 pages du rapport de son enquête dans la version finale publiée par la Commission spéciale. Ces 28 pages ont été classifiées sur ordre de la Présidence Bush et le secret est perpétué par Obama, malgré ses promesses de campagne.

Un autre article récent, intitulé « Preuve de la complicité britannique et pakistanaise sur le 11 septembre » par Behrouz Saba, qui se réfère également à Mohamed Atta en Floride, est paru dans Nation of Change et d’autres sites. Malgré les aspects très obsessifs de l’article, Saba écrit qu’un des événements clés qui se déroula sous le nez des officiels de Washington D.C. a été ignoré. En octobre 2001, ABC News , Fox et CNN faisaient toutes état d’un transfert de fonds de 100.000 dollars au début du mois d’août 2001, en provenance de Dubaï et au bénéfice de deux comptes en banques de Floride, détenus par Atta. Le 6 octobre, CNN identifiait l’homme qui avait envoyé l’argent comme étant le Cheikh Ahmed Omar Saeed.

Questionnée à ce propos, la Maison-Blanche fit en sorte d’empêcher que cette partie de l’histoire n’attire trop l’attention, en jouant avec différentes orthographes du nom du Cheikh. Mais l’ancien président du Pakistan Pervez Musharraf a identifié le Cheikh comme agent du MI6. Dans ses mémoires, Musharraf écrit : « Le Cheikh Omar est un britannique né à Londres le 23 décembre 1973 de parents pakistanais (…) Il est allé à la London School of Economics mais a quitté l’école avant d’obtenir son diplôme. Il semble (…) qu’il ait été recruté par le service de renseignement britannique MI-6. »

Saba affirme que l’administration Bush savait que le Cheikh avait été envoyé par le MI-6 au Pakistan pour coopérer avec ses homologues de l’ISI, mais « protéger l’alliance entre britanniques et le Pakistan avait plus d’importance que de dévoiler la vérité. »

 

Türkei droht Israel mit Kriegsschiffen

Türkei droht Israel mit Kriegsschiffen

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

 

ANKARA. Der Streit zwischen der Türkei und Israel spitzt sich weiter zu. Der türkische Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan (AKP) hat am Donnerstag angekündigt, sein Land werde „Hilfslieferungen“ in den Gaza-Streifen künftig militärisch sichern, berichtet die Nachrichtenagentur dpa.

Damit solle verhindert werden, daß die türkische „humanitäre Hilfe“ angegriffen wird, wie es bei der „Mavi Marmara“ geschehen sei, sagte der Ministerpräsident. Das Schiff wurde im Mai vergangenen Jahres von israelischen Soldaten geentert. Dabei waren neun türkische Aktivisten getötet und sieben israelische Sicherheitskräfte verletzt worden.

Zugleich machte Erdogan deutlich, die Türkei werde die „einseitige“ Rohstofförderung durch Israel im östlichen Mittelmeer unterbinden. Der Streit zwischen den beiden Ländern war in der vergangenen Woche eskaliert, nachdem ein UN-Bericht zwar die Militäraktion gegen die sogenannte „Gaza-Hilfsflotte“ verurteilte, die Blockade des Gaza-Streifens aber als legitim bezeichnete. Zudem hatte sich Israel geweigert, die türkische Forderung nach einer Entschuldigung für den Zwischenfall zu erfüllen. Die Türkei wies deswegen in der vergangenen Woche den israelischen Botschafter aus

Israel kündigt Gegenmaßnahmen an 

Als Reaktion erwägt Israels Außenminister Avigdor Lieberman von der rechten Partei „Unser Haus Israel“ offenbar ein Treffen mit armenischen und kurdischen Politikern, berichtet die israelische Zeitung Jediot Achronot. Dabei soll es auch um israelische Militärhilfe für die kurdische Arbeiterpartei PKK geben. „Wir werden einen Preis von Erdogan einfordern, der es ihm klar machen wird, daß es sich nicht lohnt, Israel vorführen zu wollen“, betonte Lieberman nach einer Meldung der dpa. (ho)

jeudi, 15 septembre 2011

Colloque de "Terre & Peuple"

Krantenkoppen - September 2011 (2)

Krantenkoppen
 
September 2011 (2)
 
THE DECLINE AND FALL OF THE AMERICAN EMPIRE:
"The American Century, proclaimed so triumphantly at the start of World War II, will be tattered and fading by 2025, its eighth decade, and could be history by 2030":
http://www.thenation.com/article/156851/decline-and-fall-american-empire
 
 
JORDANIANS BURN US AND ISRAELI FLAGS:
"Chanting anti-US slogans, demonstrators on Wednesday condemned Washington's policy in the Middle East and called for the expulsion of Americans from their country":
http://www.presstv.ir/detail/199155.html
 
 
HELE STAD VERMIST NA REBELLENOFFENSIEF IN LIBIË:
"De inwoners van Tawarga waren loyaal aan de Libische leider Moammar Kadhafi en stonden daarmee lijnrecht ten opzichte van het nabijgelegen rebellenbastion Misrata. Maar er lijken ook racistische motieven mee te spelen. Zo worden al lange...r in heel Libië met de regelmaat van de klok zwarten als vermist opgegeven en de rebellen lijken mensen te arresteren op basis van hun huidkleur. Maar een hele stad die vermist wordt, roept wel erg veel vragen op. 
Het is in ieder geval erg verontrustend dat de rebellen in het verleden al openlijk praatten over het (etnisch) 'zuiveren' van de regio, en in juni nog zeiden dat de zwarte Libiërs beter hun boeltje zouden pakken."
 
 
11 SEPTEMBRE: EN FINIR (VRAIMENT) AVEC L'ÈRE PINOCHET!
Hundreds of thousands of Chileans are protesting already for months against the liberal heritage of CIA agent Pinochet:
http://www.michelcollon.info/En-finir-vraiment-avec-l-ere.html
 
 
DE JEUGD SCHUD CHILI WAKKER:
"Pinochet herstichtte niet alleen de politieke instellingen, maar op de eerste plaats de economie en dat nog veel ingrijpender. Chili werd het laboratorium van het superliberalisme en diende als model voor de neoliberale globalisatie":
http://www.dewereldmorgen.be/artikels/2011/09/02/de-jeugd-schudt-chili-wakker
 
 
LIBYA: THE REAL WAR STARTS NOW:
"Gaddafi’s decision to go underground has caught everyone by surprise. (...) Gaddafi could become the new «Lion of the Desert»":
http://www.voltairenet.org/Libya-The-real-war-starts-now
 
 
ORWELLIAN SEPTEMBER 11 COMMEMORATION HERALDS NEW WARS:
"In Paris, a replica of the Twin Towers was built on the Trocadero esplanade in honor of the 3000 victims of September 11. (...) No memorial has been planned for the one million victims of the wars in Afghanistan, Iraq and Libya":
http://www.voltairenet.org/Orwellian-September-11
 
 
HET BALTISCHE DRAMA:
"De economie begon, door de instroom van krediet, vanaf 2000 enorm te groeien, op jaarbasis met wel 10%. Het economisch succes van de ‘Baltische tijgers’ werd door economen en Europese beleidsmakers geprezen. Net als de ‘Keltische tijger’ kenden de ‘Baltische tijgers’ echter een groot probleem. Hoewel de economie explosief groeide door de instroom van buitenlands krediet, werd dit geleende geld vooral gebruikt om te speculeren en consumeren, niet om te investeren in productieve capaciteit. Alle 3 de Baltische landen ontwikkelden een vastgoedbubbel van Ierse proporties. (...)
Toen in 2008 de crisis toesloeg draaide de stroom van buitenlands krediet zich om. Het piramidespel, waarin schulden constant geherfinancierd moesten worden tegen de steeds maar oplopende woningwaarde, kon niet langer worden volgehouden. De Letse economie kromp met 24 procent van de piek tot het dieptepunt en de woningprijzen daalden met maar liefst 65%".
 
 
IJSLAND ZOCHT TOENADERING TOT CHINA OMDAT HET DOOR DE EU EN DE VS WERD VERLATEN:
"China en India staken ons een helpende hand toe, net op een moment dat Europa ons vijandig was en de VS totaal afwezig waren":
http://www.express.be/business/nl/economy/ijsland-zocht-toenadering-tot-china-omdat-het-door-de-eu-en-de-vs-werd-verlaten/151849.htm
 
 
WIE REGEERT DE WERELD? EEN SUPERENTITEIT VAN 147 BEDRIJVEN:
"Een harde kern van 787 bedrijven controleert zowat 80% van de globale handel. Binnen die kern is een superentiteit actief die bestaat uit 147 bedrijven en die 40% van het netwerk controleert":
http://www.express.be/business/nl/economy/wie-regeert-de-wereld-een-superentiteit-van-147-bedrijven/152309.htm
 
 
‎25 JAAR NA TOP GUN WORDT RELATIE HOLLYWOOD EN AMERIKAANS LEGER NOG INNIGER: 
"Onderuitgezakt in de zetel waren de kijkers er zich zelden van bewust dat ze naar 'door de regering gesubsidieerde propaganda' (de woorden zijn van The Washington Post) aan het kijken waren":
http://www.dewereldmorgen.be/artikels/2011/09/08/25-jaar-na-top-gun-wordt-relatie-hollywood-en-amerikaans-leger-nog-inniger
 
 
WALTER FAUNTROY, FEARED DEAD IN LIBYA, RETURNS HOME. GUESS WHO HE SAW DOING THE KILLING:
"Former U.S. Congressman Walter Fauntroy (...) watched French and Danish troops storm small villages late at night beheading, maiming and killing rebels and loyalists to show them who was in control":
http://www.afro.com/sections/news/national/story.htm?storyid=72369
 
 
58% DES FRANCAIS DOUTENT DE LA VERSION DES ATTENTATS DU 11 SEPTEMBRE:
"Le sondage fut réalisé en juin 2011 auprès d’un échantillon représentatif de la population française":
http://www.voltairenet.org/58-des-Francais-doutent-de-la
 
 
BIG BROTHER IN MECHELEN:
"Een inzameling van de verplaatsingsgegevens van iedereen zonder onderscheid schendt het recht op privacy. (...) Overigens, geen enkele studie toont aan dat dergelijke registratie een impact heeft op het voorkomen of opsporen van criminaliteit. (...) Dat van ‘de rondtrekkende dievenbendes' neigt dan ook naar volksverlakkerij. Deze bendes komen niet met hun eigen nummerplaat naar Mechelen om in te breken. Zij draaien hun hand niet om voor een nagemaakte nummerplaat":
http://www.standaard.be/artikel/detail.aspx?artikelid=6I3EUED7&word=mechelen+privacy
 
 
DESTABILIZATION AND THE LOOTING OF ASSETS. AFTER LIBYA: IS VENEZUELA NEXT?
"Venezuela’s embassy was the only one looted in the whole neighborhood, meaning that the attack which was guided by individuals of European appearance and military posture, specifically targeted the country’s mission":
http://venezuelanalysis.com/analysis/6468
 
 
NICARAGUA ONTSNAPT AAN CENTRAAL-AMERIKAANS GEWELD:
"De politieaanpak maakt in Nicaragua het verschil: 'In de noordelijke [landen] zag je de invloed van de VS, waarbij de politie het leger hielp en de staat beschermde via REPRESSIE, terwijl de Nicaraguanen zich op het Cubaanse model gebaseerd hebben dat op de GEMEENSCHAP is gericht":
http://www.demorgen.be/dm/nl/990/Buitenland/article/detail/1315221/2011/09/06/Nicaragua-ontsnapt-aan-Centraal-Amerikaans-geweld.dhtml
 
 
'FREE TRIPOLI' - JUST DON't MENTION THE CORPSES:
"The war on Libya has (...) been a war that has reasserted the western mainstream media's power to not just fabricate events but to create":
http://english.pravda.ru/opinion/columnists/05-09-2011/118962-Free_Tripoli_do_not_mention_corpses-0/
 
 
THE REAL DIRT ON FARMER JOHN:
Farmer John Peterson about his CSA: "This is how farming should be":
 
 
INTERVIEW WITH HISTORIAN HANS-JOACHIM VOTH: 'THE EURO CAN'T SURVIVE IN ITS CURRENT FORM':
"DER SPIEGEL: Why do you think the euro was a dumb idea?
VOTH: Because, at its core, it is a bad solution for a nonexistent problem -- a political object of prestige with massive economic disadvantages":
http://www.spiegel.de/international/europe/0,1518,783281,00.html
 
 
GOING ROGUE: NATO'S WAR CRIMES IN LIBYA:
"Armed soldiers force young Libyan women out of their beds at gun-point. Hustling the women and teenagers into trucks, the soldiers rush the women to gang bang parties for NATO rebels—or else rape them in front of their husbands or fathers":
http://www.veteranstoday.com/2011/06/07/going-rogue-natos-war-crimes-in-libya/
 
 
DIE JUDEN BEHANDELN DIE CHRISTEN WIE MENSCHEN ZWEITER KLASSE:
"Es gibt in Bethlehem geborene Priesterseminaristen, die ihr ganzes Leben noch nie in Jerusalem waren, das mit dem Auto in 10 Minuten zu erreichen wäre":
http://www.kreuz.net/article.13801.html
 
 
EGYPT WARMS TO IRAN AND HAMAS, ISRAEL'S FOES:
"Egyptian officials (...) are seeking to reclaim the influence over the region that waned as their country became a predictable ally of Washington and the Israelis in the years since the 1979 peace treaty with Israel. (...) Many Egyptian analysts, including some former officials and diplomats who served under then-President Hosni Mubarak, say they are thrilled with the shift. 'This is the new feeling in Egypt, that Egypt needs to be respected as a regional power'":
http://www.nytimes.com/2011/04/29/world/middleeast/29egypt.html?_r=2&scp=1&sq=David+kirkpatrick+egypt+looks&st=cse
 
 
GESCHEIDEN ONDERWIJS? JA!
"Als ouder zie ik heel duidelijk de voordelen van dit gedifferentieerd onderwijssysteem voor mijn kinderen. Allereerst goede academische prestaties voor zowel de jongens als de meisjes. Het onderwijzend personeel vindt onder meer baat bij een hoger niveau van orde en discipline bij de leerlingen":
http://www.katholieknieuwsblad.nl/opinie/item/972-gescheiden-onderwijs?-ja.html
 
 
BRITSE OUD-MINISTER NOEMT BANKIERS 'ARROGANT EN DOM':
"Mijn bezorgdheid was dat ze zodanig arrogant en stupide zijn, dat ze er toe in staat waren om ons allen neer te halen":
http://www.demorgen.be/dm/nl/990/Buitenland/article/detail/1313305/2011/09/02/Britse-oud-minister-noemt-bankiers-arrogant-en-dom.dhtml
 
 
MANIFESTO OF THE LIBYAN TRIBAL COUNCIL:
“What is called the Transitional Council in Benghazi was imposed by NATO on us and we completely reject it. Is it democracy to impose people with armed power on the people of Benghazi, many of whose leaders are not even Libyan or from Libyan tribes but come from Tunisia and other countries.”
 

Obama a adopté la "Doctrine Nixon"

 

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Ferdinando CALDA:

Obama a adopté la “Doctrine Nixon”

 

Bombardements aériens, opérations secrètes et vietnamisation du conflit: c’est ainsi que les Etats-Unis étaient sortis du conflit vietnamien!

 

La comparaison qui s’impose entre le conflit qui secoue aujourd’hui l’Afghanistan et la guerre du Vietnam a été faite à maintes reprises au cours de ces dernières années. Souvent, cette comparaison a été émise de manière inflationnaire et hors de propos, dans les descriptions que faisaient les observateurs du bourbier sanglant dans lequel les Etats-Unis semblent empétrés depuis peu. Quoi qu’il en soit, Barack Obama lui-même, dans son discours tenu à la fin de l’année 2009 à l’Académie militaire de West Point, a bien dû reconnaître qu’il y avait plus d’un parallèle à tracer entre les deux conflits.

 

Il est tout aussi vrai que les différences entre les deux guerres sont nombreuses; d’abord, parce que l’époque n’est plus la même et parce que les équilibres internationaux et les acteurs en jeu ont changé. On demeure dès lors stupéfait de constater que les stratégies adoptées par les locataires successifs de la Maison Blanche sont fort similaires. Cette similitude frappe d’autant plus que nous avons, d’une part, le démocrate Barack Obama, Prix Nobel de la Paix, et d’autre part, le républicain Richard Nixon, considéré comme le président belliciste par excellence.

 

Nixon avait hérité de son prédécesseur démocrate Lyndon B. Johnson (qui avait accédé à la Maison Blanche après l’assassinat de John F. Kennedy) une guerre toujours plus coûteuse et impopulaire. Nixon avait donc élaboré la fameuse “Doctrine Nixon” pour tenter d’obtenir en bout de course une “paix honorable”, permettant aux Etats-Unis de se “désengager” sans perdre la face. La nouvelle stratégie visait à réduire les pertes en hommes, toujours mal acceptées par l’opinion publique, en recourant massivement à l’utilisation des forces aériennes, y compris pour bombarder des pays voisins comme le Laos ou le Cambodge (ce qui n’a jamais été reconnu officiellement; le scandale a éclaté ultérieurement à la suite de la publication des “Pentagon Papers”). Parallèlement aux bombardements, la “Doctrine Nixon” prévoyait des opérations secrètes dirigées contre des objectifs stratégiques et doublées d’une vaste opération de renseignement pour identifier et frapper les combattants du Vietcong (c’est ce que l’on avait appelé le “Programme Phoenix”).

 

Dans le “Quadriennal Defence Review”, le rapport du Pentagone qui paraît tous les quatre ans, le ministre de la défense américain Robert Gates présentait, début février 2010, les principales lignes directrices de la nouvelle stratégie de guerre, annonçait l’augmentation du financement des opérations spéciales et secrètes et un recours croissant aux bombardements par drônes (avions sans pilote). Ces avions sans pilote ont mené à bien des centaines d’attaques “non officielles” en territoire pakistanais. Toutes ces manoeuvres ont été flanquées d’un reforcement général des appareils destinés à glaner du renseignement.

 

Mais les analogies entre la “Doctrine Nixon” et l’ “exit strategy” d’Obama ne s’arrêtent pas là. Il y a aussi la tentative d’acheter le soutien de la population par l’intermédiaire de “projets de développement”, comme l’était le “Civil Operations and Rural Development Support” (CORD; = “Opérations civiles et soutien au développement rural”) au Vietnam et comme l’est actuellement son équivalent afghan, le “Provincial Reconstruction Team” (PRT; =”Equipe de reconstruction des provinces”). On constate aussi que se déroulent des tractations secrètes avec le parti ennemi (ou, du moins, des tentatives de dialogue), qui se font en dehors de toutes les rencontres officielles. Il y a ensuite et surtout le programme mis en oeuvre pour un retrait graduel qui implique de transférer les missions proprement militaires à l’armée du “gouvernement local”.

 

Selon la stratégie vietnamienne élaborée en son temps par le Secrétaire d’Etat Henry Kissinger, le renforcement de l’armée sud-vietnamienne et la vietnamisation du conflit devaient assurer aux Etats-Unis un “espace-temps satisfaisant”, un “decent interval”, entre le retrait américain et l’inévitable victoire du Vietcong; ou, pour reprendre les paroles mêmes de Henry Kissinger: “avant que le destin du Sud-Vietnam ne s’accomplisse”. Tout cela était mis en scène pour que le retrait américain ne ressemble pas trop à une défaite. Comme prévu, l’armée nord-vietnamienne est entrée à Saigon, quatre années après le départ des troupes américaines.

 

Aujourd’hui cependant, Obama doit se contenter d’une armée afghane à peine capable de tenir pendant le “decent interval” envisagé, c’est-à-dire pendant l’espace-temps entre le retrait définitif des troupes américaines et la rechute terrible et prévisible de l’Afghanistan dans une guerre civile où s’entre-déchireront les diverses ethnies qui composent le pays.

 

Ferdinando CALDA (f.calda@rinascita.eu).

(Article tiré de “Rinascita”, Rome, 27 mai 2011 – http://www.rinascita.eu/ ).

mardi, 13 septembre 2011

Le parachèvement de l'oléoduc de la Baltique plus rapide que prévu!

Le parachèvement de l'oléoduc de la Baltique plus rapide que prévu!

 

Le dernier lien vient d’être installé!

 

L’oléoduc de la Baltique, baptisé “Nord Stream”, est en voie d’achèvement définitif: une étape décisive vient d’être franchie dans la mesure où, à Lubmin près de Greifswald, notre oléoduc vient d’être soudé à l’oléoduc continental “Opal”. La liaison pour l’acheminement de gaz naturel de Russie vers l’Europe occidentale par la Baltique est devenue réalité. Quelque 55 milliards de m3 de gaz naturel devraient arriver à Lubmin chaque année. L’année prochaine un nouveau tronçon devrait logiquement amener le gaz de Lubmin à Brème. Mais les premières fournitures de gaz sibérien doivent arriver en Europe cette année déjà.

 

Tout cela indique que les travaux ont été parachevés plus rapidement que prévu. Le gaz naturel, qui arrive à Lubmin, emprunte l’oléoduc continental “Opal” de Wingas jusqu’à la frontière tchèque. Grâce à cela, 26 millions de foyers recevront ce gaz. Gazprom a déjà conclu des accords avec Dong Energy (Danemark), Eon Ruhrgas et Wingas (Allemagne), GDF-Suez (France) et Gazprom Marketing & Trading (Grande-Bretagne).

 

Gazprom détient 51% des actions du consortium “Nord Stream”. Les entreprises allemandes BASF Wintershall et Eon Ruhrgas détiennent chacune 15,5%, les Néerlandais de “Gasunie” et les Français de GDF-Suez détiennent tous deux 9%.

 

Contrairement à ce projet “Nord Stream”, le projet Nabucco, soutenu avec énormément de zèle par l’UE, ne va pas dans le sens des intérêts économiques et énergétiques allemands et européens: la politique de l’UE suit davantage les ukases politiques (et irréalistes) émis par l’eurocratie bruxelloise et par Washington. A partir de 2015, l’oléoduc Nabucco devrait faire transiter le gaz naturel en provenance de la région caspienne, via la Turquie puis la Bulgarie, la Roumanie et la Hongrie, pour aboutir à Baumgarten en Autriche.

 

Pour la Turquie, le projet Nabucco n’est jamais qu’un instrument pour favoriser la politique de candidature et d’adhésion à l’UE; il n’est qu’un atout de plus dans le jeu turc. Mais, dans ce cas, il n’est pas difficile de constater qu’Ankara n’est jamais autre chose qu’une pièce du jeu d’échec que jouent contre l’Europe les stratégistes américains. Ceux-ci ont grand intérêt à voir se réaliser ce projet caspien/turc, au détriment de toute liaison directe entre la Russie, d’une part, l’Allemagne et l’Europe occidentale, d’autre part. En réalité, le projet Nabucco est un pion dans la stratégie générale et globale que pratiquent les Etats-Unis sur l’échiquier eurasien.

 

(article paru dans “DNZ”, Munich, n°36/2011, 2 sept. 2011).

 

Il rafforzamento dell’alleanza sino-pakistana

Il rafforzamento dell’alleanza sino-pakistana

Francesco Brunello Zanitti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Il legame strategico tra Pechino e Islamabad è sempre più forte. Il tradizionale rapporto diplomatico tra i due paesi si è consolidato recentemente con l’intensificarsi dei legami economici, commerciali, energetici e militari, unitamente all’allontamento pakistano nei confronti degli Stati Uniti. La stabilità dell’alleanza sino-pakistana è però messa alla prova dalle sfide poste dai gruppi armati degli estremisti islamici operanti nello Xinjiang cinese.

La crisi dei rapporti tra Stati Uniti e Pakistan degli ultimi mesi ha comportato il rafforzamento dello storico legame esistente tra Islamabad e Pechino. Le relazioni tra i due paesi sono in realtà ottime da circa un trentennio, a differenza di quelle pakistano-statunitensi; il proficuo rapporto diplomatico tra Stati Uniti e Pakistan ha, infatti, ricoperto un ruolo fondamentale nelle rispettive politiche estere durante l’intervento sovietico in Afghanistan tra anni ’70 e ’80, per poi subire un deciso deterioramento all’inizio degli anni ’90. Il rapporto tra Washington e Islamabad è tornato ad essere importante in seguito all’invasione afghana statunitense del 2001, nella quale il Pakistan è stato utilizzato come fondamentale punto d’appoggio per il controllo di Kabul. L’unilaterale bombardamento dei territori nord-occidentali del Pakistan, la crescente ingerenza statunitense nella politica interna pakistana, mediante mezzi militari e servizi d’intelligence, e i comportamenti ambigui pakistani in alcune questioni di primaria importanza hanno comportato un deciso peggioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan. Questo deterioramento ha raggiunto l’apice tra maggio e giugno, in seguito alla rivendicazione statunitense dell’uccisione di Osama Bin Laden in Pakistan.

I sempre più tesi rapporti tra i due paesi sono legati, inoltre, all’avvicinamento statunitense nei confronti dell’India, il quale ha raggiunto il proprio culmine nel 2007, mai così evidente rispetto al passato; l’amminsitrazione Bush e l’attuale governo di Manmohan Singh avevano delle ottime relazioni diplomatiche. Il Pakistan non gradisce, inoltre, il ruolo affidatogli dopo l’invasione statunitense dell’Afghanistan nel 2001, nel quale osserva un pericoloso calo del proprio ascendente strategico su Kabul. L’Afghanistan è tradizionalmente considerato da Islamabad una propria area d’influenza, strategicamente importante nel caso di un conflitto con l’India, poiché visto come territorio di supporto o di ritirata nell’ipotesi di una massiccia invasione del Pakistan dell’esercito di Nuova Delhi.

Il primo paese a difendere il rispetto dell’integrità territoriale di Islamabad in seguito alla notizia della morte di Bin Laden è stata la Cina; visitata poche settimane dopo dal primo ministro Gilani. Il Pakistan avrebbe, inoltre, permesso ai militari cinesi di visionare i resti del velivolo statunitense di tecnologia Stealth impiegato dagli Stati Uniti nel territorio pakistano.

Il legame sino-pakistano rappresenterà un importante elemento delle future relazioni internazionali, in particolar modo nel confronto tra Stati Uniti e Cina, tra quest’ultima e l’India, nonché negli interessi cinesi in Afghanistan e nel più generale contesto del cosiddetto “Nuovo Grande Gioco” in Asia Centrale. Mentre il Pakistan nel corso degli anni ’80 fu un importante alleato degli Stati Uniti durante la guerra sovietica in Afghanistan, fondamentale territorio di transito per i rifornimenti militari destinati ai combattenti anti-sovietici, oggi Islamabad non garantisce, nell’ottica nordamericana, il medesimo contributo per il tentativo statunitense di controllare l’Afghanistan. La relazione con Islamabad rappresenta per gli Stati Uniti un elemento di vitale importanza per i propri interessi a Kabul. Basta considerare l’importanza strategica del paese pakistano, dotato degli unici punti d’accesso via mare per le truppe statunitensi e della NATO e per i rifornimenti militari, nonché territorio di collegamento geostrategico nel cuore dell’Eurasia. Il porto di Karachi è fondamentale per l’arrivo e invio di truppe e materiale bellico, passante poi in territorio pakistano mediante trasporto su strada, giungendo successivamente a Kabul e Kandahar. Gli Stati Uniti stanno ricercando una possibile alternativa ai rifornimenti via Pakistan, data l’insicurezza di Karachi e del confine lungo la linea Durand. Gli altri collegamenti ai porti situati in paesi confinanti con l’Afghanistan, Iran e Cina, sono impraticabili per evidenti motivi politici. Una via d’accesso alternativa è potenzialmente quella passante attraverso le ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale: esiste un discorso aperto con l’Uzbekistan, dal quale passerebbero i rifornimenti provenienti dal porto di Riga, in Lettonia, passando per il territorio russo e kazako. Esiste un’altra opzione, probabilmente maggiormente fattibile rispetto a quella precedente, vista la lunghezza del percorso e la possibile inclusione della Russia nell’affare afghano, prospettiva non gradita a Washington. E’ quella attraverso la Georgia, l’Azerbaigian, il Mar Caspio e il Turkmenistan oppure via Kazakistan e Uzbekistan. L’attenzione statunitense nei confronti di Baku, Ashagabat, Astana e Tashkent è in ogni caso in costante aumento.

Negli ultimi mesi è comunque evidente come il Pakistan punti maggiormente ad adottare una politica estera più autonoma nei confronti di Washington, attivandosi, inoltre, nel potenziamento delle relazioni con i vicini, soprattutto con la Cina, ma anche con Iran e Russia.

L’importanza strategica del Pakistan, unito al suo attivismo in politica estera, ha reso il governo del paese molto più convito nel richiedere il termine dei bombardamenti dei droni statunitensi nelle province nord-occidentali. Nel caso in cui ciò non avvenga, il Pakistan è pronto ad adottare una politica ancor più marcatamente filo-cinese, avendo, inoltre, l’appoggio della Cina, critica nei confronti delle azioni statunitensi nel paese. Un ulteriore fattore è legato al termine dell’aiuto economico statunitense, unito al declinare dei rifornimenti militari: il Pakistan guarda anche in questo caso a incrementare i propri legami economici e militari con la Cina.

Un’altra arma spendibile a livello diplomatico dal Pakistan è legata alle risorse energetiche. Lo stretto rapporto con Pechino, oltre ad aumentare l’influenza cinese in Asia Meridionale e Centrale, comporterebbe un’importante vittoria per la Cina nella competizione riguardante l’approvigionamento di petrolio e gas naturale.

La Cina è interessata a investire massicciamente in Pakistan. I punti chiave della strategia energetica sino-pakistana sono rappresentati dal potenziamento del porto di Gwadar, dalla quale possono passare i gasdotti e oleodotti provenienti dall’Iran. I progetti d’investimento cinese nel paese sono legati alla realizzazione del gasdotto IP, al quale potrebbe partecipare in sostituzione dell’India, con evidenti vantaggi in termini economici per il Pakistan grazie ai diritti di transito. La Cina è interessata al potenziamento di infrastrutture, strade e ferrovie pakistane, unitamente alla costruzione dei collegamenti per il petrolio e il gas naturale lungo il territorio pakistano partendo dalla città beluca per arrivare al Gilgit-Baltistan. I progetti sino-pakistani sono legati al potenziamento degli assi viari che assieme alle pipeline collegherebbero il Pakistan allo Xinjiang. A questo proposito sono in progetto la costruzione di diversi collegamenti stradali e ferroviari tra Kashgar e Abbotabad, e tra la città dello Xinjiang e Havelian. Un ulteriore collegamento tra i due paesi lungo confine è quello delle fibre ottiche, mentre il più importante e ambizioso progetto caratterizzante la cooperazione sino-pakistana è il collegamento stradale, ferroviario ed energetico tra Gwadar e Urumqi.

La recente visita di Gilani a Pechino si è conclusa con la firma di importanti accordi commerciali, finanziari e tecnologici, seguito dei colloqui del dicembre 2010, nei quali erano previsti il potenziamento della cooperazione in diversi settori: energia, sistema bancario, tecnologia, costruzione, difesa e sicurezza. Il crescente legame economico tra Pechino e Islamabad è unito alla tradizionale e comune avversione verso l’India, la quale può essere ostacolata nella sua ascesa in Asia Meridionale dall’azione comune dei due paesi asiatici. La Cina aiutò militarmente il Pakistan in seguito alla guerra sino-indiana del 1962, così come fornì la tecnologia nucleare al paese dopo che l’India nel 1974 iniziò i suoi primi test nucleari. Tra gli anni ’80 e ’90 la Cina ha stabilito un’alleanza militare e nucleare con Islamabad, ancora oggi molto forte. Più del 40% delle esportazioni militari cinesi sono destinate al Pakistan. I due paesi hanno in progetto la produzione congiunta degli aerei da combattimento JF-17 Thunder (FC-1 Fierce in Cina). Durante il mese di marzo 2011 si è svolta un’importante esercitazione aereonautica tra la Pakistan Air Force (PAF) e la People’s Liberation Army Force (PLAFF) denominata Shaheen 1 (in urdu significa aquila). Si tratta della prima manovra militare tra PAF e PLAFF, alla quale si aggiungeranno nel corso del 2011 delle esercitazioni tra il PLA e l’esercito pakistano. Un simile legame militare tra i due paesi, oltre ad essere un importante fattore all’interno degli equilibri asiatici, dimostra come oggi la Cina possa agire molto più attivamente rispetto al passato in uno Stato considerato strategico per gli Stati Uniti per la propria politica in Afghanistan, ma anche in Asia Meridionale. Dato il lento declino economico statunitense, il Pakistan ha individuato nella Cina un’alternativa importante, la quale, a differenza di Washington, è in costante ascesa economica e militare. La cooperazione militare sino-pakistana è valutata da Islamabad e Pechino anche come una forma di bilanciamento nell’area nei confronti delle simili politiche militari adottate da Russia e India.

Inoltre, mentre gli Stati Uniti premono sul Pakistan per il proprio arsenale nucleare, la Cina rappresenta un’importante fonte di tecnologia in questo settore. A questo proposito Pechino sarebbe intenzionata a finanziare i progetti di costruzione per nuovi reattori nucleari in Pakistan.

Per quanto riguarda un fattore negativo legato alle relazioni tra Cina e Pakistan, è possibile fare riferimento all’attuale situazione dello Xinjiang. La regione cinese è un’area ricca di gas e petrolio, confinante con le repubbliche centro-asiatiche e con una considerevole presenza di abitanti di religione musulmana. Il territorio è attraversato da decenni dalla spinta indipendentista degli uiguri. La Cina ha sostenuto che i responsabili degli attentati avvenuti nello Xinjiang poche settimane fa sono estremisti islamici dello East Turkestan Islamic Movement (ETIM) o Turkistani Islamic Party (TIP) provenienti da campi d’addestramento situati nelle zone tribali del Pakistan. L’ETIM ha legami con la rete Haqqani e con il Tehrik – e – Taliban Pakistan (TTP). L’accusa cinese di simili resposabilità pakistane per le violenze degli uiguri rappresentano un campanello d’allarme per Islamabad. Secondo l’intelligence pakistana la Cina starebbe premendo il Pakistan affinché crei delle basi militari nelle aree tribali in modo da controllare la possibile azione degli estremisti e il loro successivo sconfinamento in territorio cinese. La Cina avrebbe anche intenzione di inviare delle proprie truppe nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa, senza comunque l’intenzione di creare delle basi militari permanenti. Sarà da valutare come gli Stati Uniti considereranno la possibile presenza militare cinese in Pakistan.

I media cinesi hanno criticano significativamente le autorità pakistane per l’incapacità dell’esercito di controllare le aree tribali del paese. Il quotidiano pakistano “Dawn” ha sostenuto come gli attentati possano portare a della conseguenze negative nelle relazioni bilaterali tra Islambad e Pechino, comportando delle serie ripercussioni soprattutto per il Pakistan. Allo stesso modo l’incapacità di Islamabad nel prevenire l’azione dei terroristi può risultare controproducente per la potenziale cooperazione sino-pakistana in Afghanistan. Una possibile azione congiunta delle autorità pakistane assieme a quelle cinesi potrebbe garantire, invece, nell’ottica di Pechino, un possibile miglioramento della condizione delle aree nord-occidentali del Pakistan, avendo come conseguenza dei possibili benifici per la situazione dello Xinjiang. Una condizione importante per la Cina è rappresentata dal contemporaneo termine dei bombardamenti statunitensi nell’area, i quali possono fomentare l’estremismo islamico. Senza dubbio la cooperazione tra Islamabad e Pechino nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa renderà ancora più evidente lo stretto legame sino-pakistano, foriero di interessanti conseguenze nel contesto dell’attuale competizione in corso nella regione.

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’IsAG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

I risvolti geopolitici delle violenze etniche a Karachi

I risvolti geopolitici delle violenze etniche a Karachi

Francesco Brunello Zanitti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org/

Il Pakistan è scosso da una considerevole spirale di violenza. Ai bombardamenti statunitensi lungo il confine con l’Afghanistan si sono aggiunti gli scontri etnici nelle province del Belucistan e del Sindh. Per quanto riguarda quest’ultima regione, il carattere d’indiscriminata conflittualità contraddistingue soprattutto la sua capitale, Karachi. L’estrema violenza caratterizzante la città potrebbe comportare delle conseguenze imprevedibili per l’intero Pakistan, mettendo in seria discussione l’unità e l’intregrità territoriale del paese. La conflittualità interna è strettamente connessa agli interessi dei paesi limitrofi e degli Stati Uniti, con potenziali ripercussioni anche per l’Afghanistan.

Karachi rappresenta il centro urbano e portuale economicamente più importante del Pakistan. La città è il traino dell’industria, del commercio e delle comunicazioni, in particolar modo per quanto riguarda i settori tessile e automobilistico, l’editoria, l’informatica e la ricerca medica. Il centro urbano è, inoltre, un fondamentale nodo geostrategico affacciato sul Mar Arabico. Data l’importanza economica di Karachi, già florido centro prima della nascita del Pakistan, la capitale del Sindh ha attirato nel corso degli ultimi due secoli un gran numero di migranti provenienti da diverse aree del Subcontinente, trasformandosi in una città multietnica e multilinguistica. Nella città, prima del 1947, convivevano diverse etnie, attirate dalle possibilità commerciali; erano presenti differenti comunità religiose, principalmente musulmani, hindu, parsi e cristiani. Karachi e il Sindh intero, in seguito alla partizione tra India e Pakistan, sono stati contraddistinti da una massiccia migrazione di musulmani provenienti dall’India, demominati mohajirs e di lingua urdu (mohajirs in urdu significa “migrante”). Rispetto ad altre aree del Pakistan, nel Sindh la migrazione urdu è stata più evidente ed ha generato una situazione di maggiore criticità. Mentre nelle restanti zone del paese la minoranza dei mohajirs è stata assimilata perché il suo numero era inferiore rispetto alla popolazione autoctona, nel Sindh, molto più vicino geograficamente all’India, i nuovi arrivati di lingua urdu superarono numericamente le etnie locali, modificando considerevolmente il carattere etnico della provincia.

Una delle cause scatenanti l’attuale stato di violenza della città è da ricercare nel composito carattere etnico del Sindh, complicato a partire dal 1947. La conflittualità tra etnie a Karachi e nella regione circostante non è, infatti, un problema che caratterizza il Pakistan da pochi anni, ma è invero una situazione perdurante da decenni. Tra gli anni ’50 e ’80 la regione era contraddistinta in particolare dagli scontri tra la popolazione di lingua urdu, rappresentanti solitamente la classe urbana, commerciale e maggiormente istruita della provincia, e i sindhi, gruppo etnico per la maggior parte dei casi rurale e meno istruito, trasformatosi minoranza nel proprio territorio storico. Gli scontri vennero, inoltre, utilizzati a seconda dei mutevoli interessi delle autorità centrali di Islamabad, tradizionalmente intenti a privilegiare l’etnia punjabi. La presenza a Karachi dei mohajirs è, inoltre, considerevolmente aumentata a partire dal 1971, in seguito alla migrazione di ulteriori gruppi musulmani di lingua urdu provenienti dall’ex Pakistan orientale dopo l’indipendenza del Bangladesh.

 

I motivi degli scontri etnici a Karachi e le possibili conseguenze per l’integrità territoriale del Pakistan

 

Le violenze quotidiane che hanno trasformato Karachi in un pericoloso centro, teatro di scontro tra bande, mafie locali e gruppi armati artefici di rapimenti, estorsioni ed esecuzioni sommarie, è dovuto principalmente alla conflittualità tra i mohajirs e i pashtun, questi ultimi di recente immigrazione. Il nesso tra criminalità e politica è molto forte, mentre le forze di sicurezza locali e le autorità centrali di Islamabad non sono in grado, per il momento, di riportare la città in una situazione di normalità. I partiti politici più importanti di Karachi, il Muttahida Quami Movement (MQM) rappresentante gli urdu, 45% della città, e l’Awami National Party (ANP), partito della minoranza pashtun, 25% degli abitanti di Karachi, si accusano a vicenda per la responsabilità delle violenze; i due gruppi politici, assieme al partito nazionale e governativo del Pakistan People’s Party (PPP), che a Karachi rappresenta gli interessi sindhi, sono i diretti responsabili delle violenze. Queste sono esplose soprattutto a partire dal 27 giugno, quando l’MQM decise di uscire dalla coalizione di governo del Sindh per l’avversione nei confronti dell’ANP e per incompresioni politiche con il governo nazionale di Islamabad guidato dal PPP. Il carattere etnico della città è complicato ulteriormente dalla presenza di altre minoranze, in particolare balochi, punjabi, kashmiri, saraiki e numerose altri gruppi etnici. A Karachi è presente anche una minoranza sciita, la quale si è sovente scontrata con la maggioranza sunnita. I sindhi, 60% della popolazione di Karachi nel 1947, oggi rappresentano il 7% della città.

La massiccia presenza pashtun a Karachi è recente ed è dovuta soprattutto alla considerevole migrazione verso sud delle popolazioni provenienti dalle regioni settentrionali del Pakistan, soprattutto dalla provincia di Khyber Pakhtunkhwa e dalle Federally Administered Tribal Areas (FATA), ma anche dall’Afghanistan; le migrazioni sono state causate dall’invasione sovietica del 1979, da quella USA nel 2011 e dai bombardamenti statunitensi lungo la linea Durand. Le recenti migrazioni di pashtun, ma anche di tagiki, hazara, turkmeni e uzbeki provenienti dall’Afghanistan, hanno modificato considerevolmente il carattere etnico di Karachi, la quale unitamente alle violenze tra urdu e sindhi, è diventata teatro di scontri tra urdu e pashtun, e tra questi ultimi e i sindhi. Senza dimenticare i punjabi, rappresentanti gli interessi dei militari e delle autorità centrali pakistane, attente a favorire una o l’altra etnia a seconda delle circostanze politiche. La recente storia del paese è caratterizzata da questa particolare linea di politica interna.

L’attuale importanza dell’MQM, terzo gruppo politico a livello nazionale, è derivata, infatti, dall’azione governativa del regime di Zia ul-Haq tra anni ’70 e ‘80. Avendo come fine l’indebolimento del PPP e del suo capo, Zulfiqar Ali Bhutto, di etnia sindhi e il cui governo venne rovesciato proprio da Zia, il generale favorì la nascita e il consolidamento politico del partito urdu. L’MQM si rafforzò nel corso degli anni ’80, trasformandosi in un’importante forza di equilibrio nel panorama politico pakistano, alleandosi, a seconda delle circostanze, con il PPP o con la conservatrice Pakistan Muslim League (PML). Dopo il crollo di Zia, l’ISI accusò l’MQM di essere una forza cospirativa filo-indiana, finanziata dai servizi segreti di Nuova Delhi e avente come obiettivo primario la creazione di uno Stato autonomo di lingua urdu, il Jinnahpur con Karachi capitale. Durante gli anni ’90, infatti, l’MQM ha subito una violenta repressione da parte del governo centrale di Islamabad, in particolar modo quando salirono al potere Nawaz Sharif (PML-N) e Benazir Bhutto (PPP). Il partito degli urdu contò invece sull’appoggio del generale Pervez Musharraf, anch’esso di etnia mohajirs. Nell’ultimo decennio, infatti, l’MQM ha registrato una considerevole espansione, aumentando la propria influenza nell’intero paese, ma soprattutto in Punjab, cuore politico e militare del Pakistan. Diversi analisti sostengono il fatto che l’MQM possa contare attualmente sul decisivo appoggio dell’apparato militare pakistano e dell’ISI, vicini all’etnia punjabi, in modo da poter controbilanciare l’influenza pashtun nel Sindh, ma soprattutto nell’intero Pakistan.

Le violenze a Karachi sono dunque legate alla complicata situazione della politica interna pakistana, ricalcante le differenze etnico-linguistiche del paese. La forza politica dell’MQM non è attualmente riscontrabile solo nella città portuale, ma è evidente nell’intero paese. In questa fase politica è necessario per gli altri partiti, soprattutto per il PPP, scendere a patti con l’MQM, il quale si è trasformato in un indispensabile partito, garante del mantenimento dell’equilibrio politico del Pakistan. A Karachi le violenze sono aumentate in seguito all’abbandono da parte dell’MQM del governo federale del Sindh: i mohajirs accusano Zardari e il PPP di essere troppo vicini all’ANP. Lo scontro tra MQM e governo centrale è legato anche ai recenti arresti di attivisti mohajirs di Karachi accusati di terrorismo.

Una spiegazione delle violenze che stanno attraversando Karachi è connessa certamente alle migrazioni di popolazione pashtun nella città. Non si tratta solamente di un problema sociale ed economico, per l’evidente accresciuta competizione tra etnie diverse nella ricerca di lavoro e nell’acquisto di terre. Una questione fondamentale riguarda una problematica di tipo politico, ovvero quale gruppo etnico assumerà il controllo di Karachi, la città economicamente più importante del Pakistan che garantisce il 68% delle entrate nazionali. Le preoccupazioni dei diversi gruppi etnici sono evidenti: gli abitanti di lingua urdu temono la “talebanizzazione” della città ad opera della minoranza pashtun; questi ultimi denunciano l’eccessiva violenza dei mohajirs; i sindhi osservano negativamente sia i pashtun sia i mohajirs. Tutti e tre i gruppi etnici maggioritari di Karachi accusano il governo centrale di Islamabad di privilegiare l’etnia punjabi, favorendo lo sviluppo del solo Punjab a discapito degli altri territori dello Stato.

Le violenze fra etnie, fomentate dall’MQM, dall’ANP e dal PPP, possono portare a della serie conseguenze non solo per la città, ma anche per il resto del paese, generando una potenziale situazione d’instabilità. Se si pensa all’attuale situazione del Belucistan, tale scenario non sembra lontano dalla realtà. Di fondamentale importanza sono i risvolti geopolitici connessi alla stabilizzazione del paese e l’azione che intraprenderanno i diversi attori internazionali attenti alle sorti del Pakistan e dell’Afghanistan.

 

I collegamenti internazionali delle violenze a Karachi e nel Pakistan

 

Secondo l’ottica pakistana, una delle cause della situazione di completa anarchia e settarismo di Karachi deriva dall’appoggio esterno alle diverse fazioni in lotta. Questo sarebbe garantito in primo luogo dall’India, ma anche da Stati Uniti e Israele. Una delle spiegazioni offerte dal governo nel passato per descrivere la conflittualità del Sindh, ripresa recentemente, è connessa all’azione svolta da attori esterni, i quali aizzano le diverse etnie del paese una contro l’altra, in modo da favorire la destabilizzazione e lo smembramento del Pakistan.

La situazione in Belucistan, zona ricca di gas naturale e minerali, ma molto povera, è particolarmente tesa. Secondo Islamabad, i servizi segreti dell’India appoggerebbero le spinte indipendentiste dei beluci e le violenze anti-punjabi. Il Belucistan è teatro, inoltre, del violento scontro tra governo centrale e movimenti sciiti della regione. Secondo la visuale pakistana, oltre ai servizi segreti indiani, agirebbero in Belucistan la CIA e l’MI6 britannico, i quali fomenterebbero le azioni anti-governative dei beluci. Il Pakistan guarda con sospetto all’attivismo indiano nella città iraniana di Chabahar, anch’essa beluca. L’azione statunitense potrebbe avere dei chiari risvolti negativi per gli interessi cinesi nell’area e per l’Iran, dato l’indipendentismo beluco presente nella provincia iraniana del Sistan-Belucistan.

Sempre secondo Islamabad, la RAW indiana, il Mossad e la CIA favorirebbero il traffico illegale di armi nell’emporio di Karachi, la cui zona portuale è controllata dall’MQM. All’indomani della visita di Karzai e Zardari a Tehran lo scorso giugno, il ministro degli interni pakistano Rehman Malik ha riferito pubblicamente alla stampa del ritrovamento di armi di fabbricazione israeliana a Karachi.

Il Pakistan, se da una parte ha visto deteriorarsi i propri legami con gli Stati Uniti, ha migliorato i propri rapporti con l’Iran, testimoniati concretamente dal possibile avvio dei lavori in territorio pakistano del gasdotto di collegamento tra Tehran e Islamabad. L’Arabia Saudita osserva con particolare preoccupazione l’avvicinamento tra i due paesi, foriero di una pericolosa messa in discussione del teorema dell’inevitabile scontro e competizione tra sunniti e sciiti nel mondo musulmano. Un problema comunque di primo piano da risolvere nel dialogo iraniano-pakistano sarà legato al finanziamento del gruppo terroristico Jandullah, il quale opera nel Sistan-Belucistan e, secondo l’Iran, ha legami diretti con l’ISI. L’Iran ha sospetti anche sull’Afghanistan, mentre la stessa Islamabad ritiene che ci siano dei collegamenti tra Tehran e l’indipendentismo beluco in Pakistan. Islamabad ha, inoltre, intensificato i propri rapporti con la Cina. In questo modo il governo pakistano, legandosi maggiormente a Tehran e Pechino, sta aumentando considerevolmente il proprio potere negoziale nei confronti degli Stati Uniti. Un altro fattore da considerare è, inoltre, il crescente interesse di Russia, Iran e Cina per la questione afghana. Gli Stati Uniti guardano naturalmente con estremo interesse l’evolversi della situazione interna del Pakistan, un paese del quale non possono fare a meno per la propria strategia in Afghanistan. Vista la recente intenzione di mantenere una base militare a Kabul fino al 2024 è necessario, nell’ottica statunitense, sostenere un dialogo con i talebani, i quali non appaiono comunque troppo favorevoli alla presenza di truppe nordamericane in Afghanistan; del medesimo parere sono Russia, Cina, Pakistan e Iran. Islamabad, possibile canale privilegiato per il dialogo con i talebani, diventa dunque fondamentale per l’azione statunitense in Afghanistan, data anche l’attuale debolezza politica di Karzai.

La destabilizzazione del Pakistan e il suo potenziale controllo si collegano alle recenti violenze di Karachi, connesse a una strategia volta al favorire lo smembramento del paese asiatico discussa in diversi think tank nordamericani (vedi l’articolo http://www.eurasia-rivista.org/gwadar-la-competizione-sino-statunitense-e-lo-smembramento-del-pakistan/9828/). Tutto ciò è collegabile alla notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero come obiettivo il controllo diretto dell’arsenale nucleare pakistano, alle richieste di Islamabad di poter disporre del diritto di veto per gli unilaterali bombardamenti statunitensi sul proprio territorio e alle schermaglie tra CIA e ISI, con l’insolito avvicendarsi nel giro di pochi mesi di tre diversi capi del servizio segreto statunitense a Islamabad. Se da una parte, inoltre, gli Stati Uniti vogliono ricercare un dialogo con i talebani, dall’altro lato non si curano dei bombardamenti nei confronti di quei gruppi che hanno già raggiunto una pacificazione con il Pakistan, ma che operano in Afghanistan, vedi la rete Haqqani, con possibili ripercussioni negative per la sicurezza interna di Islamabad. Un’altra fondamentale questione riguarda il temine degli aiuti finanziari di Washington nei confronti del Pakistan, uniti alla crisi finanziaria e all’impossibilità da parte degli Stati Uniti di mantenere un costoso apparato militare in Afghanistan, vista anche l’attenzione crescente per il Vicino Oriente e il Nord Africa. Resta da capire se le strategie sul Pakistan discusse nei think tank statunitensi verranno concretamente messe in azione. Sta di fatto che un’interpretazione dell’attuale fase critica del Pakistan è connessa al teatro afghano, poiché il carattere di estrema precarietà del paese può essere valutato come una diretta conseguenza dell’invasione e destabilizzazione dell’Afghanistan, propagatasi successivamente in territorio pakistano. Il collasso del sistema statale è concretamente in atto lungo il confine tra i due paesi e le migrazioni dei pashtun verso Karachi degli ultimi anni rendono la situazione della città e del paese in generale sempre più complicata.

E’ da valutare, inoltre, quanto le violenze a Karachi possano favorire gli interessi statunitensi, vista la sua posizione strategica come unico porto in grado di supportare le truppe NATO in Afghanistan. Kabul non ha collegamenti via mare e risulta essenziale l’attenzione nordamericana su Karachi, importante porto sul Mar Arabico e attualmente punto strategico per il riformimento di mezzi e truppe via mare da indirizzare in Afghanistan. Nell’emporio di Karachi si può individuare un ulteriore elemento che testimonia l’importanza del Pakistan per gli Stati Uniti. Collegato alla questione della città e alle sue minoranze, saranno da valutare anche gli impatti sull’etnia pashtun del potenziale dialogo che potrebbe stabilirsi tra i talebani e gli Stati Uniti, così come il ruolo che ricoprirà il Pakistan nei colloqui.

Dialogo valutato negativamente dall’India e dall’Iran. Per quanto riguarda Nuova Delhi è da valutare quanto convenga all’India fomentare l’indipendentismo delle minoranze etniche presenti in Pakistan. La destabilizzazione dell’Afghanistan, avvenuta a partire dal 2001, con la successiva caotica situazione pakistana, non è detto che non si espanda anche in India. Se da una parte, con l’annichilimento del Pakistan si conorerebbe il sogno della definitiva sconfitta del nemico, da una diversa prospettiva tutto ciò potrebbe comportare delle serie ripercussioni per l’autonomismo e l’indipendentismo di vaste aree interne del paese, soprattutto in Kashmir e nel nord-est indiano. Se da una parte gli Stati Uniti hanno come obiettivo il caos per poi controllare la situazione, sembra che recentemente Nuova Delhi stia addontando una politica più accorta nei confronti del Pakistan.

 

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

 

lundi, 12 septembre 2011

L’avenir de l’Eurasie se joue en Mer de Chine

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L’avenir de l’Eurasie se joue en Mer de Chine

par Jure VUJIC

Comme l’a si bien déclaré Z. Brzezinski, l’Eurasie est le pivot mondial du supercontinent. La puissance qui dans les prochaines décennies exercera sur cette masse continentale l’hegemon, exercera corrélativement une grande influence sur les peuples et les deux zones économiques les plus riches et les plus productives du monde : l’Europe occidentale et l’Asie du sud-est.

D’autre part, compte tenu de la proximité géographique de l’Eurasie, la puissance hégémonique en Eurasie exercera de même une grande influence sur l’Afrique et le Moyen Orient. La Chine et l’Inde en tant que puissance émergentes, la renaissance impériale de la Russie en tant qu’hegemon régional, l’émergence du Japon et de la Corée du sud dans le jeu des grandes puissances, laissent présager un éventuel nouveau partage des cartes géopolitiques dans la région. L’ Europe occidentale, avec sa stratégie de défense et sa PÉSC malgré sa dépendance vis-à-vis des mots d’ordre atlantistes de Washington, semble néanmoins consciente de l’enjeu géopolitique eurasiatique.

C’est dans cette optique que l’UE entend promouvoir, dans la région et les pays de Union, davantage de multilatéralisme effectif, afin d’éviter un cloisonnement de cette région et son isolement par la politique européenne du voisinage et la toute nouvelle Union méditerranéenne. Les intérêts géo-économiques et financiers de l’Union dans la région, les enjeux de la globalisation sont trop grands pour que l’Europe soit marginalisée par le jeu des grandes puissances en Eurasie. En suivant les thèses bien connues de Mackinder à propos du heartland, il est aujourd’hui davantage plus clair que les États-Unis et les autres puissances régionales atlantistes entendent parfaire la bien connue stratégie de défense du néo-containement par un contrôle accru des mers et de la zone littorale qui s’étend de Suez à Shangai, et notamment à cause de l’émergence de nouveaux acteurs régionaux d’envergure comme le Japon, la Chine, et l’Inde. C’est dans cette perspective que Bill Émmot l’éditoraliste de The Economist affirme que les nouveaux pouvoirs eurasiatiques renforcent leurs pouvoirs maritimes sous la forme d’installations militaires localisées, pour les mettre au service de la protection de leurs intérêts économiques, la défense de leurs routes stratégiques et afin élargir leurs zones d’influence.“

La stratégie américaine d’encerclement de la Chine

Depuis des décennies et surtout depuis la guerre froide, les États-Unis se posent en pouvoir dominant sur le littoral asiatique méridional.Afin d’améliorer son dispositif hégémonique dans la région et de décourager toute puissance montante continentale en Asie centrale, le système de sécurité maritime américain repose actuellement sur des régions sécuritaires dites pivots : d’une part le canal de Panama qui relie l’Atlantique et le Pacifique, deuxièmement les lily pads qui relient les installations militaires maritimes de San Diego à Hawaï jusqu’à Guam, et de Guam au Japon et la Corée du Sud, et enfin troisièmement, la grande barrière qui s’étend le long du littoral du sud-est asiatique. Grâce à cette barrière maritime qui s’étend du nord de Borneo en passant par Singapour, les États Unis sont assurés d’une présence géostratégique en Asie du sud-est.

Le système de sécurité maritime américain comprend deux têtes de ponts stratégiques : Taïwan et le Japon. Les États Unis ont conclu en octobre 2008 un contrat avec Taïwan pour la vente de de missiles intercepteurs et d’hélicoptères Apaches pour 4.4 milliards d’euro. En chien de garde de la grande barrière sécuritaire maritime, Taïwan a mis la Chine dans une position défensive. Le second pilier du dispositif défensif américain est le Japon qui abrite la plus importante base navale de l’American Seventh Fleeth et possède une armée efficace. La modernisation militaire de la Chine et la montée en puissance maritime de la Corée du Sud ont forcé les cercles militaires et stratégiques japonais à repenser leur doctrine militaire. C’est ainsi que le vice-amiral Hideaki Kaneda à la tête de la force japonaise maritime d’autodéfense explique, en affirmant que la Chine a changé de style de défense maritime vers un sea-power plus agressif, ce qui a poussé le Japon à reformuler sa stratégie maritime nationale. L’armée japonaise vient de se doter d’armements sophistiqués, d’hélicoptères Hyuga qui accroissent les capacités opérationnelles maritimes.

Tokyo utilise le JMSDF (Force japonaise maritime d’autodéfense) en support aux opérations en Afghanistan et en Irak. D’autre part le Japon a acquis une nouvelle force de frappe avec le développement de la garde côtière qui est engagée dans la diplomatie maritime avec leurs partenaires dans l’Asie du Sud-Est. La Corée du sud, allié stratégique des USA dans la grand barrière maritime, vient de construire des bases navales maritimes tout près de la Chine et du Japon. La Corée du Sud, qui a le plus grand budget militaire dans le monde en proportion de son PIB, vient de réorganiser et de moderniser son armée avec la mise sur pied de trois escadrons mobiles stratégiques qui seront opérationnels en 2020 et qui seront constitués de bâtiments équipés de missiles AEGIS combat system. Paul Kennedy dans The Rise and Fall of the Great Powers a déclaré que le Japon et la Corée du Sud se doteront d’un certain degré d’autonomie face à leur allié les États-Unis, mais continueront d’occuper une place prépondérante dans le dispositif de défense américain de la grande barrière maritime.

La stratégie chinoise du collier de perles

La Chine constitue une menace géopolitique certaine pour le Japon et la Corée du Sud. Sa croissance économique a doublé depuis 1990 ; afin de soutenir cette croissance vertigineuse Pékin devra augmenter sa consommation de pétrole de 150% d’ici 2020. Actuellement plus de 6000 navires chinois naviguent dans l’Océan Indien pour approvisionner leur pays en pétrole. Il va de soit que d’ici 2025, la Chine devra importer de considérables ressources énergétiques du Moyen-Orient et de l’Afrique. Les géostratégies maritimes américaine et japonaise buttent uniquement sur la voie maritime chinoise, laquelle passe par la mer de Chine avec ses ramifications le long du détroit de Malacca. 80% des transports maritimes pétroliers empruntent cette artère stratégique. Afin d’assurer la sécurité de ses routes maritimes d’approvisionnement énergétique, la Chine devra contourner les États-Unis et le Japon à l’est. La Russie concentre sa puissance maritime au nord, alors que l’Inde contrôle le flanc sud maritime de l’Océan Indien. En conséquence, la Chine devra renforcer son indépendance et la puissance de son pouvoir naval militaire, en particulier dans l’Océan Indien. La Stratégie maritime chinoise est double : d’une part, elle doit contenir la présence américaine dans le détroit de Taïwan, d’autre part, à l’avenir, elle devra assurer sa poussée maritime vers l’Océan Indien en encerclant l’Inde.

C’est dans le cadre de cette nouvelle stratégie maritime que la Chine vient de s’équiper de sous-marins russes Kilo-class. La deuxième composante du programme de modernisation navale chinois et d’encerclement stratégique de l’Inde est constituée de ce que l’on appelle le collier de perles maritime. Ce collier maritime relie l’installation navale chinosie de Sanya dans le sud avec lîle de Hainan, et d’autre part avec le Moyen-Orient. D’autres colliers maritimes secondaires s’étendent vers le Sri Lanka et dans les Maldives, reliant la baie de Bengale avec Gwadar dans la mer d’Arabie et complétant le triangle stratégique autour de l’Inde. La Chine redoute actuellement que les États-Unis et leurs alliés encerclent la Chine et l’espace maritime privilégié chinois, et c’est pourquoi les thèses d’Alfred Mahan à propos de la nécessité de la sécurisation des routes de transports sont actuellement très en vogue dans les milieux stratégiques militaires chinois. Les perles (étapes) du collier chinois, du Pakistan à Bornéo, vont devenir des couloirs stratégiques dans le littoral qui relie l’Afrique au Moyen-Orient. Afin de diversifier ses routes d’approvisionnement et d’éviter des goulots d’étranglements dans le dispositif du collier de perles, les ressources énergétiques pourront être acheminées par Sittwe et Gwadar, par route et voie ferrée le long de la frontière chinoise avec la Birmanie et le Pakistan en pénétrant dans les provinces chinoises de Yunnan ou le Xingjina. Lorsque la géostratégie chinoise sera consolidée dans l’océan indien, le futur collier de perles pourra s’ouvrir aux Seychelles en étendant la poussée stratégique chinoise vers l’Afrique. Ce n’est pas un hasard si Pékin a annoncé en décembre 2008 la volonté de construire une base aérienne, afin de de sécuriser son collier de perle et de consolider la présence stratégique maritime chinosie dans l’océan indien.

Le contre encerclement de l’Inde et le projet indo-atlantiste

Comme la Chine, l’Inde est extrêmement dépendante des routes maritimes commerciales. 77% des importations indiennes de pétrole proviennent du Moyen-Orient et de l’Afrique. Le Brigadier Arun Sahgal, directeur de l’Institut indien United Service Institution de New Delhi, qualifie la politique géopolitique chinoise de stratégie d’encerclement. En effet, le Nord de l’Inde est directement voisin de la Chine ; à l’Ouest le rival régional pakistanais, avec lequel la Chine développe ses relations, à l’est le Bangladesh pro-chinois et la junte birmane, alors qu’au sud se trouve le collier de perles chinois qui entoure l’Inde tel un serpent maritime géostratégique. Pour certains géopoliticiens et stratèges indiens et américains, une grande coalition des États côtiers et insulaires permettrait d’opérer un contre-encerclement de la Chine. Cette stratégie Indo-Américaine permettrait d’assurer un contre-encerclement par une ceinture géostratégique autour des rimlands asiatiques : l’Inde au sud-ouest de la Chine, la Corée du Sud au Nord-est, le Japon et Taïwan à l’Est, et les Philippines et Guam au sud-est, ce qui obligerait la Chine à adopter une posture géostratégique défensive. Cette stratégie indo-américaine pourrait menacer à long terme la construction d’une alliance eurasienne stratégique maritime et continentale.

L’Inde anticipe de même la menace d’un renforcement des relations entre le Pakistan et la Chine, et a entamé une pénétration géostratégique en Asie centrale : en 2006, New Delhi a étendu son influence dans cette région de l’Eurasie en ouvrant un premier aéroport militaire indien dans cette région, au Tadjikistan, un pays qui borde le Pakistan au Nord et la Chine à l’ouest, et qui offre à l’Inde un pont avancé dans la région. L’Inde renforce son potentiel militaire naval et a construit une nouvelle installation maritime militaire stratégique à Karwar au sud-ouest de la côte indienne, ainsi qu ‘une nouvelle base aéronavale à Uchipuli dans le sud-est, et un poste d’observation à Madagascar lui permettant de concentrer son commandement naval dans les îles d’Andaman. L’Inde a pris place dans la profondeur de la mer de Chine du sud, en pénétrant dans la baie vietnamienne de Cam Ranh, laquelle lui ouvre la voie à une combinaison géostratégique navale et aérienne permettant de projeter sa force de frappe dans la mer arabe, le golfe de Bengale, le long de l’Océan Indien et la partie ouest du Pacifique. Consciente de ces menaces d’encerclement et de contre-encerclement de la profondeur eurasiatique continentale sur les franges maritimes du continent européen et asiatique, la Russie se livre à un redéploiement de sa stratégie militaire eurasiste le long du littoral eurasien et africain, qu’illustre la décision d’ouvrir des bases militaires navales en Syrie, en Libye et au Yémen. Ces décisions sont accompagnées d’un vaste programme de modernisation navale, par des projets de construction d’avions de combats de nouvelle génération et un renforcement des capacités technologiques et logistiques.

Tribulations géopolitiques dans la zone côtière eurasiatique

Il est désormais évident que les stratégies d’encerclement et de contre-encerclement américaines, japonaises, sud-coréennes, chinoises, indiennes et russe se concentrent sur la zone côtière eurasienne, en tant que zone géopolitique pivot pour le contrôle de l’hinterland, la profondeur stratégique de la masse continentale eurasienne. Dans cet ensemble géopolitique émergeant, la ceinture littorale eurasienne passe par des axes géostratégiques composés par le canal de Suez et Shanghai, car ces axes séparent des pouvoirs émergents eurasistes : la Chine, le Japon et la Corée du sud à l’Est, l’Inde au Sud, la Russie au Nord, alors que l’UE se situe à l’extrême ouest, et les USA sont présents dans la région par la présence de bases navales. La revue stratégique de Défense française en 2008 annonçait déjà que le centre de gravité stratégique global glissait vers l’Asie. Dans le cadre d’une reconfiguration multipolaire du monde, au XXIème siècle, la zone Suez-Shanghai jouera le rôle géostratégique de gateway entre les divers pouvoirs continentaux et maritimes de l’Eurasie.

Le jeu sino-américain et la stratégie du linkage en mer de Chine

Point de passage entre la mer de Chine, l’Asie du Sud-Est et l’Asie Orientale, la mer des Philippines offre des possibilités incontournables à l’armée américaine pour s’assurer du contrôle de toute cette zone stratégique. Mais la Chine est la puissance régionale incontestée de la zone. Elle fait figure de menace en raison de son implication dans toutes les zones de conflits, de ses multiples revendications territoriales et de ses réticences à entrer dans un processus de règlement multipolaire. En effet, la Chine cherche à étendre sa zone économique exclusive, notamment sur les archipels de Paracels, Spratly, Pratas et Macclesfield. Au total, depuis les années 90, le renouveau de l’intérêt porté par la Chine à cette mer ne s’est pas démenti. Mais, cela n’est en rien comparable à l’intérêt que Pékin porte à Taïwan.

La Chine est hyper sensible à l’égard de Taïwan, qu’elle considère comme sa 22ème province. Elle ne concède aucun compromis sur la position d’une Chine unique. Bien que les États-Unis aient accepté cette position, la Chine est convaincue que l’aide fournie par les États-Unis à Taïwan lui donne la confiance de s’opposer aux revendications de Pékin ; ce qui entraîne la méfiance de la Chine à l’égard des États-Unis. Il est certain que, de son attitude dépendront la paix et la sécurité de cette partie de monde. Il est aussi certain qu’avec le développement économique, la Chine sera de plus en plus dépendante de son approvisionnement en pétrole et de son commerce maritime.

L’enjeu stratégique de la mer des Philippines

Le rôle éminent joué en Asie, sur le plan militaire, par les États-Unis, au cours des cinquante dernières années, leur a permis de mettre en place un dispositif aux articulations majeures dont la mer des Philippines offre des possibilités qui demeurent incontournables. En effet, les États-Unis sont actuellement, en Asie, la nation la plus puissante, à la fois politiquement, économiquement et militairement. Leur présence actuelle tient principalement à la menace qu’exerce la Corée du Nord dans la péninsule coréenne et au réveil de la Chine. En Asie du Sud-Est, les États-Unis ne sont plus présents de manière permanente, depuis qu’ils ont dû abandonner leurs deux bases des Philippines, en novembre 1992. Néanmoins, dans toute la région sauf, peut-être la Chine, il existe une reconnaissance générale des États-Unis comme seul et important acteur ayant la capacité d’assurer l’équilibre stratégique. Ainsi les États-Unis participent largement au maintien de la sécurité dans cette région du monde. Le commandement du Pacifique, dont l’État major est à Hawaï, est en charge de l’ensemble des forces américaines stationnées entre la côte ouest des États-Unis et la mer des Philippines.

Le contrôle de la mer des Philippines permet à l’armée américaine d’assurer le soutien logistique de ses forces largement disséminées dans la région asiatique et de donner la liberté d’action aux flottes déployées dans la région des Philippines. Disposer à nouveau de bases aux Philippines présente aux yeux des Américains un double intérêt. Le premier est le relais entre les océans Pacifique et Indien, lequel n’est assuré aujourd’hui que par Singapour, où un millier d’hommes s’occupent du ravitaillement et de l’entretien des bâtiments et avions américains. Mais Singapour est une petite île aux capacités limitées et qui se trouve à l’entrée du détroit de Malacca. Les Américains lorgnent le complexe aéroportuaire de Général-Santos qu’ils ont récemment aménagé loin des regards indiscrets dans une baie bien abritée de l’île philippine de Mindanao. Général-Santos est davantage à l’écart que la baie de Subic de la mer de Chine du Sud, des eaux qui sont l’objet d’une querelle ouverte notamment entre la Chine, le Vietnam et les Philippines et dont les États-Unis ne paraissent pas vouloir se mêler. Le deuxième intérêt est de disposer en Asie de l’Est, en cas de conflit en Extrême-Orient, d’un point d’appui solide à l’extérieur du Japon et de la Corée du Sud. Le complexe de Subic et Clark remplissait autrefois cette fonction. Les Philippines pourraient de nouveau le faire si les « manœuvres conjointes » en cours, qui peuvent s’étaler de six mois à un an, débouchent sur un engagement plus durable. Cette possibilité ne peut être exclue si l’on s’en tient aux pressions constantes des Américains sur les Philippins pour aboutir à une « normalisation » des relations militaires qui feraient du vote de 1991 un accident de l’histoire. La mer des Philippines occupe une place stratégique sur le plan militaire aussi bien pour les puissances régionales que pour les États-Unis d’Amérique.

La Chine, quant à elle, cherche à utiliser sa puissance maritime croissante pour contrôler, non seulement l’exploitation des eaux riches en hydrocarbures de cette zone, mais aussi les voies maritimes, parmi les plus fréquentées au monde. Afin de contrer l’influence chinoise en mer jaune et en Chine méridionale, les États-Unis entendent redéployer une ceinture maritime militaire autour de la Chine en s’associant à des exercices maritimes et aériens avec la Corée du Sud, au large de la côte est de la péninsule coréenne. Les liens militaires entre les États-Unis et l’unité d’élite des forces armées indonésiennes s’inscrivent dans le cadre de cette politique navale renouvelée. Ces jeux de stratégie militaire constituent surtout un avertissement lancé à la Corée du Nord sur la force de l’engagement de l’Amérique en Corée du Sud, suite au naufrage du bâtiment de guerre sud-coréen le Cheonan. Mais ils confirment surtout que les engagements de l’armée américaine en Irak et en Afghanistan n’empêchent pas les États-Unis de défendre leurs intérêts nationaux vitaux en Asie. Le deuxième théâtre de ces jeux stratégiques s’est sitUE en mer Jaune, dans les eaux internationales, très proches de la Chine, démontrant encore une fois l’engagement des États-Unis pour la liberté des mers en Asie. S’ensuivit la visite d’un porte-avions américain au Vietnam, le premier depuis la fin de la guerre, il y a 35 ans. La Corée du Nord, s’est violemment opposée à ces jeux stratégiques, menaçant même d’une réponse « physique ». La Chine a non seulement qualifié l’intervention de Mme Clinton au sujet des îles Spratly « d’attaque », mais a aussi organisé des manœuvres navales non prévues en mer Jaune avant les exercices conjoints américano-coréens.

Le théâtre géostratégique de la mer de Chine

La mer de Chine méridionale devient ainsi un théâtre géopolitique parmi les plus critiques de la planète. En effet, se superposent ici les projections d’influence de la Chine à caractère expansif et le rôle régional des États Unis à caractère défensif. Les premières remettent en cause la stabilité régionale, le deuxième préfigure un « soft-containement » d’un type nouveau. A partir du discours d’Obama à Tokyo en novembre 2009, la politique de la nouvelle Administration américaine vise à définir les États Unis comme « une nation du Pacifique ». Cette déclaration, énoncée dans le but de « renouveler le Leadership américain dans le monde », s’adresse non seulement aux alliées historiques de la région, mais également aux pays de l’ASEAN (The Association of Southeast Asian Nations). L’ASEAN constitue un Forum Stratégique de toute première importance pour la stabilité, la paix et le développement économique en Éxtrême Orient et les USA ont demandé d’y adhérer. Dans une perspective de mouvement de l’échiquier asiatique, l’activisme chinois en politique étrangère influence en profondeur les enjeux stratégiques des principaux acteurs régionaux dans la mer de Chine méridionale, dont les ressources naturelles sont disputées par Taïwan, les Philippines, la Malaisie, l’Indonésie, Brunei, Singapour et le Vietnam.

Cette zone est désormais inclue, d’après le New York Times, dans le périmètre des « intérêts vitaux » de la Chine au même titre que le Tibet et Taïwan, et ceci bien qu’aucune déclaration officielle n’ait fait étalage de cette position. La superposition de deux zones d’influence chino-américaine sur le même espace a été confirmée par la Secrétaire d’État, Mme Hillary Clinton à Washington, le 23 juillet 2010, lors d’une déclaration dans laquelle elle a fait référence à des « intérêts nationaux » des États-Unis concernant la liberté de navigation et les initiatives de « confidence building » des puissances de la région à l’encontre d’une prétendue « Doctrine Monroe » chinoise dans la mer de Chine méridionale. Une partie des pays du Sud-Est comptent, de manière explicite, sur la présence des États-Unis pour contre-balancer l’activisme chinois. Rien ne serait plus dangereux pour la politique étrangère de Kung-Chuô, qu’un pareil alignement sur les déclarations américaines, car la Chine n’a aucun intérêt à l’internationalisation de litiges concernant les eaux territoriales. Or le Linkage entre la mer de Chine méridionale et la façade maritime du Pacifique est inscrite dans l’extension des intérêts de sécurité chinois.A travers les mers du sud et les détroits, transite 50% des flux mondiaux d’échange, ce qui fait de cette aire maritime un théâtre de convoitises et de conflits potentiels, en raison des enjeux géopolitiques d’acteurs comme la Corée du Sud et le Japon qui constituent des géants manufacturiers et des pays dépendants des exportations.Une des clés de lecture de cette interdépendance entre zones géopolitique à fort impact stratégique est le développement des capacités navales, sous-marines et de surface, de la flotte chinoise.

L’importance des routes maritimes eurasiatiques

L’importance stratégique des routes maritimes eurasiatiques pour l’économie de l’Europe est grandissante, compte-tenu de l’accéleration de l’industrialisation et du développement commercial de la Chine, de l’Inde et de la Corée du Sud. Parmi les 15 plus grands partenaires de l’UE, 7 d’entre eux (Chine, Japon, Corée du Sud, Inde, Taïwan, Singapour et Arabie Saoudite) sont situés le long de la côte eurasiatique. Le volume d’importation de l’UE via ces pays est passé de 268.3 milliards d’euros en 2003 à 437.1 milliards d’euro en 2007. Par ailleurs, 90 % du commerce maritime de l’UE passe par les voies maritimes, alors que le commerce maritime avec l’Asie constitue 26.25% du total du commerce maritime transcontinental.

Les points de choc et les flash point stratégiques

En raison des risques d’interruption d’approvisionnement en énergie, et plus particulièrement en gaz (comme cela a été le cas plusieurs fois ces dernières années dans la crise du gaz entre la Russie et l’Ukraine), l’UE doit compter sur une diversification croissante des routes énergétiques d’approvisionnement. Il en est ainsi également du commerce maritime cargo dans le cadre des relations commerciales entre l’Europe et l’Asie, lequel doit emprunter des routes maritimes instables et des zones maritimes côtières de Suez à Shangai. Les navires de commerce doivent suivre des routes maritimes qui longent le continent africain, à travers l’océan Pacifique et l’océan atlantique, en passant par des zones géographiques précaires appelées points de frottements. Elles peuvent être définies comme des chaînes. Les navires pétroliers européens qui s’approvisionnent au Moyen-Orient passent par le détroit d’Hormuz, alors que les produits manufacturés d’Asie du Sud -est passent par le détroit de Malacca. Tous les pavillons européens doivent passer par le tunnel maritime stratégique du canal de Suez et de Bab-el Mandeb et le Golfe d’Aden. La localisation géographique de ces points stratégiques, tout près de la corne de l’Afrique, du Moyen-Orient et de l’Asie du sud-est, est d’autant plus sensible dans le contexte d’embrasement du monde arabe et d’intervention occidentale en Libye.

Vers un projet eurasiste pluri-océanique

L’Europe devra prendre conscience de l’importance stratégique des zones maritimes eurasiennes et asiatiques, moyen-orientales et indo-océaniques, et plus particulièrement celles qui se trouvent au carrefour du canal de Suez et de Shangaï, non seulement pour la croissance de son économie mais aussi pour la sécurité militaire et commerciale de sa profondeur continentale euro-sibérienne. Aujourd’hui, la majeure partie des zones eurasiennes côtières à risque est sécurisée par la flotte américaine, mais la dépendance de l’Europe à l’égard des États- Unis sur le plan stratégique et militaire ne fera qu’accroître à long-terme sa faiblesse stratégique commerciale et géopolitique. Le développement d’une stratégie eurasiatique maritime pluri-océanique (avec le développemnt des capacités de frappe et de défense navales appropriées) dans la zone située entre Suez et Shangai, le renforcement d’une géopolitique multipolaire et des partenariats privilégiés avec la Chine, la Russie, l’Inde, Le Brésil, l’Afrique puissances multipolaires émergentes, constituent les véritables défis géostratégiques de l’Europe-puissance de demain.

La dialectique atlantisme/eurasisme, dont les néo-eurasiens actuels font usage dans leurs polémiques anti-américaines, oublie que l’Amérique ne tient pas sa puissance aujourd’hui de sa maîtrise de l’Atlantique, océan pacifié où ne se joue pas l’histoire qui est en train de se faire, mais de son retour offensif dans l’Océan du Milieu, ce qui illustre bien la concentration de ces capacités opérationnelles maritimes en mer de Chine. L’atlantisme ne saurait se réduire à la seule maîtrise des Açores, petit archipel portugais au centre de l’Atlantique, car il ne faut pas oublier que ce qui a précipité la désagrégation de l’URSS, puissance eurasienne, c’est la maîtrise de Diego Garcia, île au centre de l’Océan Indien, d’où partiront plus tard les forteresses volantes pour bombarder l’Afghanistan et l’Irak. La présence de l’Amérique à Diego Garcia est en contradiction avec les intérêts de l’Europe puissance et de la Russie et leurs possibilités de s’ouvrir demain des fenêtres sur les espaces orientaux où se joue le destin du monde.

Article printed from geostrategie.com: http://www.geostrategie.com

Racial War & the Implosion of the System

 

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Racial War & the Implosion of the System

by Pierre Vial

Translated by Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

Burning buildings, stores and shopping malls robbed and vandalized, streets strewn with debris, blackened carcasses of buses, cars, police vehicles . . . These images of London, Birmingham, Bristol, and Liverpool have been beamed around the world on television. They evoked what Labour deputy Diane Abbott called “a war zone” (a theater, said Le Monde on August 10th, of “urban guerrilla warfare”).

The French media immediately wanted to set the tone for interpreting these events: it is the fault of social tensions due to cuts in public funds for the most vulnerable; it is the fault of unemployment and thus idleness; and it is the fault, of course, of the British police force (“the blunders of the police force” according to the conservative daily Daily Mail, just as false as the French newspapers). All is explained . . . and the hooded rioters are “youths” with restless hearts. Well-organized, all the same (one is thus far from the spontaneous and superficial reactions of hooligans), with a communications system well-enough developed to sustain the assault waves for several successive days.

But what about the government? Prime Minister Cameron, the Minister of the Interior, the Minister for Finance, the mayor of London were all . . . on vacation (Cameron in Italy). The rioters were definitely ill-bred to choose such a moment. They could have awaited their return.

It is undeniable that the social climate deteriorated by unfettered liberalism has caused much discontent. But that was merely grafted on a will to racial confrontation. The death of a West-Indian delinquent during a police operation against the West-Indian gangs was the pretext of the outbreak of the riots. The first nucleus of revolt was the district of Tottenham, euphemistically described as “multiethnic,” the majority of its population being of West-Indian origin. The rioters wished to show—and they succeeded—that they could rule the streets in defiance of white power and order. Even Le Monde, in spite of its ideological presuppositions, recognized in passing (August 9th) that it was “about the most serious racial confrontation in the United Kingdom since the Oldham disorders of 2001” and that there was thus indeed a “race riot.”

The shine has come off multiculturalism, which has long been presented as the British answer to racial tensions, and which Cameron recently admitted is a failure (as did Angela Merkel of Germany). It was based on the irenic conviction that various racial communities could cohabit harmoniously in the same territory. This illusion is due to the ideological presuppositions that one finds on the right as well as on the left among intellectuals who simply deny the burden of reality. Realities so disturbing to their mental comfort that they must be stubbornly denied. Until the day they catch up with you . . .

This day has come for many Britons. As Libération (August 16th) notes, they are following the advice being reproduced on large placards posted by the police or painted on the plywood covering broken shop windows: it is necessary to locate and denounce the “rats in hoods” (in England as in France the immigrant delinquents like to hide their faces). In particular, self-defense militias are setting themselves up to ensure order and safety in the threatened districts. To mitigate the inefficiency of a police force paralyzed by politically correct taboos (as admitted by a bobby quoted in Le Monde on August 12th: “The order was to intervene with caution to avoid the charges of brutality, of racism.”)

The present System, sapped by its internal contradictions, is in the process of imploding. Racial warfare is now bubbling beneath the surface in many European countries. Now is the time to denounce without respite the devastations of liberal capitalism and to preach a realistic, that is to say, a racialist, conception of a society in order to free the minds and will to resistance and reconquest or our European brothers.

Source: http://tpprovence.wordpress.com/ [2]

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2011/08/racial-war-and-the-implosion-of-the-system/

Racial War & the Implosion of the System

By Pierre Vial

Translated by Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

Burning buildings, stores and shopping malls robbed and vandalized, streets strewn with debris, blackened carcasses of buses, cars, police vehicles . . . These images of London, Birmingham, Bristol, and Liverpool have been beamed around the world on television. They evoked what Labour deputy Diane Abbott called “a war zone” (a theater, said Le Monde on August 10th, of “urban guerrilla warfare”).

The French media immediately wanted to set the tone for interpreting these events: it is the fault of social tensions due to cuts in public funds for the most vulnerable; it is the fault of unemployment and thus idleness; and it is the fault, of course, of the British police force (“the blunders of the police force” according to the conservative daily Daily Mail, just as false as the French newspapers). All is explained . . . and the hooded rioters are “youths” with restless hearts. Well-organized, all the same (one is thus far from the spontaneous and superficial reactions of hooligans), with a communications system well-enough developed to sustain the assault waves for several successive days.

But what about the government? Prime Minister Cameron, the Minister of the Interior, the Minister for Finance, the mayor of London were all . . . on vacation (Cameron in Italy). The rioters were definitely ill-bred to choose such a moment. They could have awaited their return.

It is undeniable that the social climate deteriorated by unfettered liberalism has caused much discontent. But that was merely grafted on a will to racial confrontation. The death of a West-Indian delinquent during a police operation against the West-Indian gangs was the pretext of the outbreak of the riots. The first nucleus of revolt was the district of Tottenham, euphemistically described as “multiethnic,” the majority of its population being of West-Indian origin. The rioters wished to show—and they succeeded—that they could rule the streets in defiance of white power and order. Even Le Monde, in spite of its ideological presuppositions, recognized in passing (August 9th) that it was “about the most serious racial confrontation in the United Kingdom since the Oldham disorders of 2001” and that there was thus indeed a “race riot.”

The shine has come off multiculturalism, which has long been presented as the British answer to racial tensions, and which Cameron recently admitted is a failure (as did Angela Merkel of Germany). It was based on the irenic conviction that various racial communities could cohabit harmoniously in the same territory. This illusion is due to the ideological presuppositions that one finds on the right as well as on the left among intellectuals who simply deny the burden of reality. Realities so disturbing to their mental comfort that they must be stubbornly denied. Until the day they catch up with you . . .

This day has come for many Britons. As Libération (August 16th) notes, they are following the advice being reproduced on large placards posted by the police or painted on the plywood covering broken shop windows: it is necessary to locate and denounce the “rats in hoods” (in England as in France the immigrant delinquents like to hide their faces). In particular, self-defense militias are setting themselves up to ensure order and safety in the threatened districts. To mitigate the inefficiency of a police force paralyzed by politically correct taboos (as admitted by a bobby quoted in Le Monde on August 12th: “The order was to intervene with caution to avoid the charges of brutality, of racism.”)

The present System, sapped by its internal contradictions, is in the process of imploding. Racial warfare is now bubbling beneath the surface in many European countries. Now is the time to denounce without respite the devastations of liberal capitalism and to preach a realistic, that is to say, a racialist, conception of a society in order to free the minds and will to resistance and reconquest or our European brothers.

Source: http://tpprovence.wordpress.com/ [2]

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2011/08/racial-war-and-the-implosion-of-the-system/

La distruzione della Libia, una crescente minaccia per la Russia

La distruzione della Libia, una crescente minaccia per la Russia

Guennadi Ziouganov

Ex: http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/

Pravda, 1 Settembre 2011

 

Secondo i media, le forze che cercano di rovesciare il governo della Libia hanno occupato la capitale, Tripoli, e diverse altre città. Ovunque siano commettono omicidi di massa e saccheggi. E’ stato anche saccheggiato l’eccezionale museo nazionale di Tripoli.

 

Tutto questo parla da se del tipo di persone coinvolte nella lotta contro il governo legittimo. E’ ben noto che l’”opposizione” che si sarebbe ribellata contro la “tirannia” di Gheddafi, sta ricevendo armi dall’estero. Ma ancora, non avrebbero potuto affrontare le truppe del governo libico, senza il sostegno massiccio dell’aviazione della NATO, che ha distrutto i centri di comando, depositi di munizioni e armi e le linee di comunicazione. I “ribelli” appaiono solo dopo che la tempesta di fuoco della NATO ha distrutto ogni cosa sul suo cammino.

 

Questo è certamente un intervento militare, accuratamente nascosto dietro lo schermo trasparente dei “ribelli”. In Libia, si sta perfezionando una nuova tattica per rovesciare i governi indesiderabili all’Occidente, con ampio uso di eserciti privati e di mercenari come ausiliari alla NATO. Tutto questa orgia si svolge sotto la copertura della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e con l’attuazione del “no-fly zone”, il cui presunto obiettivo era proteggere la popolazione civile della Libia dai bombardamenti. In pratica, gli aerei della NATO ha lanciato attacchi con missili e bombe, non solo contro le posizioni dell’esercito libico, anche contro le strutture civili nelle città. Di conseguenza, essi hanno ucciso migliaia di civili, tra cui anziani e bambini. Fatti come questi sono, secondo il diritto internazionale, un crimine contro l’umanità. Ma la lingua dei Gesuiti della NATO, le vite distrutte vengono chiamate “danni collaterali”.

 

La Libia è l’ultima vittima dell’intervento globale della NATO, che è diventato possibile dopo la distruzione dell’Unione Sovietica. Proprio in questo momento, con la scomparsa di una forza capace di affrontare l’avventurismo dell’oligarchia mondiale, apparve al nostro attuale “partner” la sensazione dell’impunità. Imposta dall’esterno, ebbe inizio la guerra civile in Jugoslavia, che si è conclusa dopo 78 giorni di bombardamenti di città e cittadine indifese.

 

Poi gli Stati Uniti ed i suoi alleati hanno invaso l’Iraq, impigliandosi nel filo spinato di quel paese. Poi seguì l’Afghanistan, convertito dalle truppe di occupazione in un ritrovo per la produzione di droga. Nel frattempo, le agenzie d’intelligence dell’Alleanza avviarono le rivolte “arancione” in Georgia, Ucraina e Moldavia. Passando anni a cercare di rovesciare il Presidente bielorusso Lukashenko.

 

La Siria è prossimo della lista, sottoposta ad attacchi di insorti armati dall’esterno. Assistiamo alla guerra di informazione contro il governo siriano. Prova eloquente dei preparativi per l’intervento della NATO.

 

Oggi il mondo affronta un nuovo colonialismo, nella sua variante più disgustosa e cinica, proprio come lo era due secoli fa. L’ex potenze coloniali, USA, Regno Unito e Francia ancora rivendicano il diritto di decidere del destino di qualsiasi stato sovrano. Durante questa operazione “umanitaria” hanno calpestato la Carta delle Nazioni Unite e le norme del diritto internazionale. Come risultato, la Libia è stata sommersa nel caos, e potrebbe eventualmente svilupparsi successivamente nello scenario somalo: la divisione in innumerevoli tribù e clan che si combattono tra loro. La Russia è anch’essa responsabile della tragedia in Libia, dal momento che il governo ha dato il via libera alla risoluzione anti-Libia delle Nazioni Unite, non usando il suo potere di veto e, quindi, unendosi alle sanzioni contro la Libia. Questo ha significato non solo che abbiamo perso 20 miliardi di dollari di potenziali benefici dal commercio e della cooperazione economica con questo ricco paese africano, ma abbiamo anche perso uno degli stati amici che avevamo nella regione strategicamente importante del Mediterraneo.

 

Se non finisce questa orgia del neo-colonialismo, la Russia con i suoi sconfinati territori e le sue enormi riserve di materie prime, diventerà uno degli obiettivi futuri dell’esportazione atlantista della “democrazia”. Indebolito da due decenni di cosciente deindustrializzazione e decadenza, con un esercito demoralizzato e distrutto, il nostro Paese inevitabilmente diventerà un bersaglio per l’intervento.

 

Il PCRF condanna la pirateria mondiale dell’oligarchia coloniale ed esorta il governo della Federazione Russa a prendere coscienza delle conseguenze più pericolose che comporta la collusione con gli aggressori.

 

Solo un governo forte e patriottico, in grado di rilanciare l’industria, l’agricoltura, l’istruzione, la scienza e la cultura, il nostro passato di potenza e il ritorno delle nostre Forze Armate, può salvare la Russia dal ripetersi dello scenario libico delle rivoluzioni “colorate”.

 

Link: [1] http://josafatscomin.blogspot.com/2011/09/destruccion-de-libia-crecela-amenaza.html [2] http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/ http://tortillaconsal.com/tortilla/print/9378

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru http://www.bollettinoaurora.da.ru http://aurorasito.wordpress.com

dimanche, 11 septembre 2011

The Meaning of European National Populism

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The Meaning of European National Populism

By Francis Alexander

Ex: http://www.counter-currents.com/

In the last decade, and especially the last few years, parties called “far-right” by the mainstream media and “national populist” by their members, have enjoyed considerable electoral successes.

This has occurred primarily in France, Scandinavia, Austria, Switzerland, Belgium, and the Netherlands. No such breakthroughs have been seen in Britain, Germany, or Spain. These parties have in several cases participated in coalition governments, but only as junior partners unable to truly dominate the political agenda.

Their growth has clearly been driven by popular anger at official attitudes towards mass immigration, national identity, and the EU (as well as certain economic issues such as bailouts, foreign aid, and globalization).

While paleoconservatives tend to embrace these parties, most racialists regard them with suspicion because of their admission of non-whites, their attitudes towards Jewry, their focus on Islam, and their appeal to liberal principles against it.

Ideologically, these parties have both liberal and New Right elements. The liberal rhetoric is quite well known, even infamous, on the right. Thus the Sweden Democrats claim their party’s principles are based upon the Universal Declaration of Human Rights (a UN document). Marine Le Pen claims to defend French state secularism against Islamification. Geert Wilders demands “no tolerance for the intolerant” and positions himself as the truest defender of liberalism, gays, women, etc.

The influence of the New Right is less well known but is present in some, if not all movements. Thus Fillip Dewinter of Vlaams Belang describes non-white immigration to Europe as colonization. Both he and Le Pen speak of European rather than Western Civilization, a distinction not often found outside the New Right. Dewinter goes so far as to speak of its superiority. This is all the sort of terminology used by Guillaume Faye. Similarly Le Pen denounces globalism and the EU as totalitarian. Denouncing liberalism, or in this case liberal institutions and practices, as totalitarian is straight out of the Alain de Benoist playbook. Similarly, the pro-Russian orientation of the Front National and other parties  can be regarded as evidence of New Right influences.

These liberal and anti-liberal themes exist in state of tension in these parties’ discourses. But the liberal element is in fact less objectionable than one might think.

Consider the fact that when whites begin to awaken in the United States, they will first do so by demanding a seat at the multicultural table. Something analogous to this has already happened in Europe, but with the appeal being to liberal nostrums other than multiculturalism, which is strongly attacked.

Europeans have already begun taking their own side.

As the demographic situation worsens and the number of Europeans enraged by it increases, the populists will grow in strength. Having established their credibility with the electorate, they will soon be able to use more explicitly ethnocentric and less liberal rhetoric without fear of marginalization.

We mentioned that they oppose multiculturalism. It is certainly a good thing that Europeans have not been reduced to demanding inclusion into multiculturalism. But what the populists propose instead, namely assimilation, is just as bad.

The only real alternative to “multiculturalism” (meaning multiracialism) is not assimilation, but mass deportation, also known as repatriation, expulsion, banishment, or even ethnic cleansing. This is a drastic measure that we know to be necessary, but it is perceived as unnecessary, not to mention cruel and unusual, by most people. In short, it is unpopular, and we are referring to populist parties, with all the drawbacks that entails.

If implemented, however, it would be popular. The economic, cultural, and even psychological benefits would be very great, not to mention addressing the existential threat our people currently faces.

Ultimately the only question that truly matters about these parties is whether or not, given the opportunity, they would expel all non-white communities from their respective nations. I think they will, regardless of what they say now. The popular demand for such measures will be orders of magnitude greater than it is now.

Furthermore, let us assume for a moment, as has been alleged, that the leaders of these parties have sold out their people to the elite and care only for gaining and retaining office. Even if this is true (and for the most part we can only guess about these politicians’ true attitudes), they would still have selfish reasons to pursue this policy.

One can take it for granted that national populists will never receive significant support from non-whites. They cannot out pander the panderers-in-chief, i.e., the center left parties, and for obvious reasons, anti-immigration nationalism is unappealing to immigrants and their descendants (although there are some bizarre exceptions). It therefore follows that eliminating this irreconcilable portion of the electorate from the voting rolls will increase nationalists’ prospects of re-election.

A similar consideration may well lead to either quiet support or only token opposition from center-right parties that face the same dilemma that US Republicans currently face. This dilemma is of course, the hostility of the large welfare-dependent colored populations towards their beloved free market economic nostrums, i.e., the only thing that truly matters to these bourgeois conservatives.

One should also bear in mind that if national populists are ever elected to real power, it is because the people are sufficiently angry to accept radical measures. They will have a mandate to eliminate the ethnic chaos. Anything other than deportation will not fulfill that mandate and will result in nothing but a slower but continuous growth in the non-white population, thus in ultimate political defeat.

Finally, we must turn to the manner in which these movements identify friends and enemies. This concerns Europe, Jewry, Islam, and other non-whites.

Their basic stance towards the EU is one of hostility, combined with a demand for withdrawal from it. While they are correct to oppose the present EU, they are incorrect to oppose the idea of Pan-European government. This, however, is a problem that can wait until they are in a position to shape foreign policy. Advocacy of a European Imperium or Euro-Siberia is something better done at diplomatic conferences than on the campaign trail, as it is simply too esoteric to be compatible with populism. If foreign policy can wait, then winning power is rightly their first priority.

As to their stance on that most controversial issue, the Jewish question, aside from the anomalous Geert Wilders, we can rule out sincere philo-Semitism as a motive for their abandoning anti-Semitic rhetoric and adopting a pro-Israel stance.

As Kevin MacDonald has pointed out, Jews have not offered any significant support to the national populist parties. The explanation for their Zionist rhetoric lies largely in providing an alibi to voters skittish of anything regarding the Third Reich.

One might add that that it also ensures that the full hysterical force of the Jewish community is not unleashed against them. Remember when Jörg Haider (known for his sympathetic references to the Third Reich), joined the Austrian government, causing a minor international crisis with Austria facing diplomatic sanctions? Nothing of this kind has happened since.

It is difficult to say for certain whether the leaders of these parties know the truth about the Jews, but I suspect that they do. After all they have personal experience of antifa attacks, demonization from the controlled media, exclusionary electoral pacts, etc. They are obviously capable of deducing who is behind these actions, not to mention who lobbies the hardest for open borders and the abolition of national identities.

One therefore has good reason to think that if non-whites were ever expelled from Europe, the Jews would be next on the list. This would only be a short step further, and has been the fate of their people since antiquity, although for it to happen on a pan-European scale would be historically unprecedented. It is therefore quite possible that the national populists will, to a certain extent, “sneak up on the Jews,” due to the latter’s generally passive and sullen reactions to attempts at “outreach,” the fact that their influence is more limited than in the US, as well as Islamic anti-Semitic sentiments. These confusions may prove paralyzing for the Jews.

More precisely, the national populists will only challenge organized Jewry when they are strong enough to do so and win. Deception is part of politics. Who would not forgive their present Zionist rhetoric, were they to actually end up expelling the Jews?

As to the Muslims, it is much more simple. They are Europe’s oldest enemy, the largest, and most cohesive and culturally alien immigrant group. Going after them is simply good politics, especially given their anti-liberal and religious rather than ethno-racial identity.

As to the other non-whites and the future problems they will pose, this is a good point to emphasize a crucial point I have been trying to make, namely the difference between electoral campaigns and policy. As things stand now, European racialists are in a bind, as Negroes and Orientals have not yet caused the same degree of popular outrage as the bellicose Muslims. When that changes as Europe becomes more like the US, i.e., with around 40 million Negroes rather than 4 to 8 and a more “market-dominant” Oriental population, then attitudes change will too. They are populists, thus their motto about the people could well be, “I am their leader, so I must follow them.”

This is fine for now, but when the time of crisis arrives, nationalist leaders must be willing to show real leadership and lead from the front. This means political courage, in addition to the obvious cunning and stoicism in the face of intimidation that they already show. If they have all this, then their chances of prevailing over the gutless pseudo-leaders of Europe are very good. One cannot look at the current European economic crisis and see anything other than desperation, cowardice, impotence, and blinkered incompetence among the so-called leaders of Europe.

Certainly, the electoral rhetoric of these parties is disagreeable to racialists in many ways. But they have not yet had the chance to truly control policy. If gaining that opportunity is possible, then a rather heretical electoral campaign does not matter. Words matter less than deeds, and the national populist parties’ willingness to act has not yet been truly tested. What the populists say about non-Muslim non-whites is less important than what they do about them.

So despite the generally negative value we can attribute to current national populist discourses, one can nonetheless take away several positives from the whole phenomenon. First of all, Europeans have begun to take their own side. Secondly, nationalists have for the first time in generations established themselves as a credible political force and a real part of European political life

This latter point is crucial, because when Europe’s demographic situation begins to worsen, there will be a plausible alternative to the system parties and an outlets for Europe’s rage. A skinhead groupsucule is simply not organizationally capable of harnessing that popular rage like these ever-so-professional and apparently bourgeois parties are.

When this happens, these parties’ stances will harden rather than soften. The anti-white ideology is already on the retreat, and system politicians such as Merkel, Cameron, and Sarkozy are only playing catch-up in denouncing multiculturalism.

Much has been gained and nothing really lost. As to the ideological heresies, they are not immutable, and campaign rhetoric costs nothing. One can only hope that because Europeans have begun taking their own side, nationalist leaders will be soon be strong enough to speak the truth more clearly, and be benefited rather than be harmed by it.


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com