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samedi, 16 mai 2020

“ORION”: NUOVE SINTESI O PROVOCATORI FILOCOMUNISTI?

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“ORION”: NUOVE SINTESI O PROVOCATORI FILOCOMUNISTI?

di Matteo Luca Andriola

Uno dei teorici italiani della “nuova sintesi” nazionalcomunista è Carlo Terracciano, già descritto come “padre” della geopolitica eurasiatista in Italia. Questi arriva a storicizzare fascismo e nazionalsocialismo – nonostante permangano certi legami visto il background della redazione storica –, consentendone una rilettura critica: in «Rote Fahne und Schwartze Front»: la lezione storica del nazionalbolscevismo, saggio introduttivo al volume di Erich Müller Nazionalbolscevismo (Barbarossa, 1988), Terracciano, analizzando l’esperienza della componente rivoluzionario-conservatrice nazionalbolscevica, le teorie di Pierre Drieu La Rochelle, Emmanuel Malynski, l’ala sociale del fascismo e del nazionalsocialismo (il cosiddetto “fascismo rivoluzionario”) ecc., traccia le linee dell’attualizzazione di tali esperienze, il “nazionalcomunismo”, oltre il nazionalismo e il comunismo otto-novecentesco: “Oggi il nazionalismo è inteso come radicamento etnico, storico, culturale della propria terra, modificata fino nel suo paesaggio da millenni di cultura, nella ‘piccola’ e nella ‘grande’ patria, fino a estendersi all’unità del continente eurasiatico. In quanto al ‘comunismo’ esso va ben oltre nei secoli al pensiero di Marx e di Lenin e dei suoi seguaci, lo precede di millenni nella sua teoria e nella prassi di comunità contadine,di ordini monastico-guerrieri, di popoli, di interi imperi”.[1]

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Per Terracciano esisteva un comunismo pre-marxista che andava riscoperto, un “nazional-comunitarismo” che, oltre la scientificità di Karl Marx e Friederich Engels dimostrava che l’uomo non è un monade individualista ma un’animale comunitario. Quella di “Orion” è una rilettura tönnesiana e comunitarista di esperienze comunistiche sia tradizionalmente legate al movimento operaio socialista e comunista sia eresie utopistiche e forme di ancestrali comunità del mondo antico e medievale, cosa che portò certuni a destra a definire “filocomunista” il sodalizio, facendo bandire letteralmente “Orion” dalle sezioni del Msi e del Fdg: su «Candido» n°12 del 15/30 luglio 1986, rivista di destra del senatore missino Giorgio Pisanò, compare l’articolo caustico Che cosa si aspetta a reagire?, con un sopratitolo che recita: Provocatori filocomunisti operano negli ambienti del MSI, dove il direttore, filoamericano, attaccherà il gruppo di “Orion” per l’influenza esercitata fra i giovani del FdG, egemonizzato sin dal decennio precedente dai rautiani (si pensi al peso determinante della Nuova Destra di Marco Tarchi, che verrà poi cacciato dal Msi nel 1981), scrivendo: «Con il bel risultato di influenzare e plagiare cervelli e coscienze di troppi giovani che, presentando culturalmente un encefalogramma piatto, diventano facile preda di provocatori filocomunisti come quelli sopra citati».


Il direttore, Maurizio Murelli risponderà non solo enumerando noti esempi di fascinazione filosovietica di esponenti di spicco del fascismo italiano come “Italo Balbo [che] nel suo libro (Ali d’Italia sul mondo ed. Mondadori, 1930) non lesina complimenti all’Urss, sostenendo che ogni popolo ha la sua via nazionale di realizzazione e costruzione”[2] ma, usando come fonte lo storico inglese Denis Mack Smith, citerà frasi “filocomuniste” del dittatore italiano («Mussolini tentò di convincersi che il comunismo russo stava dimostrandosi di gran lunga meno rivoluzionario del fascismo, e tra i suoi seguaci ci fu chi si domandò se i due movimenti non stessero a tal punto avvicinandosi da non esser più facilmente distinguibili. Il Duce stesso non escluse una tale eventualità»),[3] concludendo:

orion_1993_n9_br.jpg«Alcuni storici asseriscono […] che il Mussolini della RSI era influenzato da Bombacci, cioè uno dei fondatori del PCI che si arruolò volontario nella RSI per difendervi la propria idea e perdervi la propria vita. Può darsi […] che Mussolini fosse influenzato da Bombacci; ciò non toglie, egregio Senatore, che è in nome di quel Mussolini che Lei ha combattuto (se mai ha veramente combattuto) nella RSI. È inutile dire che di citazioni “filocomuniste” e “filorusse” di Mussolini-maestro-di-Pisanò ne potremmo produrre ancora ben più di una, inchiodando Pisanò al palo della sua ignoranza o a quello del suo tradimento (scelga lui, giacché il suo filoamericanismo “fascista” è sinonimo o di ignoranza sull’autentica essenza del fascismo, oppure è consapevole tradimento). Ma il punto è anche un altro, giacché essendo noi per l’Eurasia non siamo affatto per il “comunismo” e, in ogni caso, il regime al potere in Russia non ha niente a che vedere con il comunismo marxista, né con quello leninista né con quello stalinista. Anzi, l’attuale premier [Michail Sergeevič Gorbačëv, dal 1985 segretario generale del PCUS e presidente dell’Unione Sovietica, n.d.a.] si sta dimostrando un burattino del potere mondialista, potere del quale già abbiamo detto e molto ancora diremo.»[4]

Il nazionalcomunismo non si presenta come un confuso guazzabuglio come di primo acchito si potrebbe pensare, cioè la mera sommatoria fra comunismo e nazionalsocialismo o fascismo ma, in una fase storica come gli anni ‘80 dove, a seguito dei cambiamenti economici e strutturali concernenti il passaggio dall’accumulazione “fordista o, come viene detta, d[a]ll’accumulazione rigida [a] quella postfordista o dell’accumulazione flessibile, che ne hanno scandito la storia durante il secolo scorso per giungere fino ai nostri giorni”,[5] concretizzandosi in campo culturale nella messa in discussione delle ideologie otto-novecentesche, giudicate incapacitanti, con l’avvento della postmodernità e del “pensiero debole”. Il “nazionalcomunismo” – in quegli anni elaborato anche da altri sodalizi intellettuali, si pensi alle nuove sintesi elaborate in area franco-belga dalla Nouvelle Droite pescando anche dall’eredità di Jeune Europe di Jean Thiriart[6] – viene vista come la risposta, e si cavalca la crisi delle ideologie non archiviandole, ma elaborandone di nuove. Mentre il grosso della destra e della sinistra nei primi anni '90 sposerà il mercato, “Orion” arriva a proporre arditamente – non senza i condizionamenti della Nouvelle Droite – la sua ‘nuova sintesi’ nazionalcomunista: l’unione degli ideali del “fascismo-movimento” (secondo l’espressione coniata da Renzo De Felice) con quelli del bolscevismo pre-regime, accanto a un occhio di riguardo per il mondo islamico (soprattutto l’Iran di Khomeini) e la spiritualità russa, un progetto nazionalcomunista dove trovano spazio culturale «oltre alle SS, a Degrelle e al Rexismo, a Evola e Guénon, agli autori “proibiti” – da Brasillach a Drieu La Rochelle a Codreanu – e ai “fascisti eretici” alla Berto Ricci, ai teorici della Konservative Revolution tedesca, altre figure “irregolari” come Noam Chomsky piuttosto che il comunista-fondamentalista Zjuganov, e persino i miti della sinistra, da Mao Dzedong a Che Guevara»[7].

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[1] C. Terracciano, «Rote Fahne und Schwartze Front»: la lezione storica del nazionalbolscevismo, in E. Müller, C. Terracciano, Nazionalbolscevismo, Edizioni Barbarossa, Saluzzo 1988, p. 47, ora in C. Terracciano, 'Alle radici del "rossobrunismo". Orion, gli scritti di Carlo Terracciano, vol. 1, AGA Editrice, Cusano Milanino 2020.
[2] M. Murelli, Per l’Europa agli Europei, in “Orion” n° 22, luglio 1986.
[3] D. Mack Smith, Mussolini, Rizzoli, Milano 1981, p. 220.
[4] R. Finelli, Globalizzazione, postmoderno e “marxismo dell’astratto”, in “Consecutio temporum. Rivista critica della postmodernità”, a. I, n° 1, giugno 2011. Cfr. inoltre R. Bellofiore, Dopo il fordismo, cosa? Il capitalismo di fine secolo oltre i miti, in R. Bellofiore (a cura di), Il lavoro di domani. Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, Biblioteca Franco Segantini, Pisa 1998, pp. 23-50 e D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, tr. it. di M. Viezzi, Net, Milano 2002, pp. 151, 152.
[5] Cfr. C. Terracciano, Jean Thiriart: profeta e militante, in “Orion” n° 252, settembre 2005.
[6] M. Fraquelli, A destra di Porto Alegre. Perché la Destra è più no-global della Sinistra, Rubbettino, 2005, p. 64.

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Un livre de Carlo Terracciano publié en Allemagne (il y en eut plusieurs éditions)

mercredi, 13 mai 2020

Guillaume Fayes Chronik aus dem Zeitalter des Archäofuturismus

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Jetzt vorbestellen: Guillaume Fayes Chronik aus dem Zeitalter des Archäofuturismus

»Guillaume Faye hat eine von schwarzem Humor durchzogene Erzählung von erheblichem Reiz geschaffen, die noch lange in der Fantasie des Lesers fortleben wird, der sich selbst die Frage stellen kann, ob er in einer solchen Welt leben will oder ob er sie überhaupt für möglich oder wünschenswert hält.« (Martin Lichtmesz)

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Guillaume Faye prophezeite das apokalyptische Ende der modernen Welt in einer »Konvergenz der Katastrophen«, die nicht mehr aufzuhalten sei. Doch wie könnte eine Welt nach dem großen Zusammenbruch aussehen? Hat Europa eine Chance auf eine Wiedergeburt?

Faye entwirft in seiner Science-Fiction-Erzählung eine aus der Asche wiedergeborene Welt jenseits der egalitären Irrwege der Neuzeit.

15:21 Publié dans Livre, Livre, Nouvelle Droite | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : livre, guillaume faye, nouvelle droite | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

La Tradition primordiale est en nous

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La Tradition primordiale est en nous

par Patrice Lemaître

Ex: https://www.nice-provence.info

Un nouveau livre de Paul-Georges Sansonetti est toujours un événement… Alors quand il y en a deux, l’événement devient ravissement.

COUV-Arcanes-polaires-WEB.jpgPaul-Georges Sansonetti, faut-il le préciser, est un spécialiste des mythes et des symboles, titulaire d’un doctorat de lettres traitant de l’ésotérisme des romans arthuriens. Il a également écrit de nombreux articles et conférences, notamment dans l’excellente revue hélas disparue, « Hyperborée ».

Deux ouvrages donc, du maître des runes et du Pôle, sont arrivés ces derniers mois dans les rayons des bonnes librairies.

Les deux ouvrages, bien que différents, traitent à leur manière de la quête permanente de l’auteur : le Pôle. Non pas le pôle géographique à la manière d’un Paul-Émile Victor, mais, s’il n’en est pas très éloigné, du symbole polaire de la Tradition primordiale chère à René Guénon. Ces deux ouvrages s’adressent donc, comme il est écrit dans l’un deux, « à celles et ceux qui refusent de perdre le Nord ».

L’idée directrice est que cette Tradition primordiale motrice de l’Âge d’Or est toujours présente, alors que se rapproche chaque jour un peu plus la fin du quatrième âge, ou Âge de fer, encore appelé Kali Yuga dans la cosmogonie hindoue. Elle fait partie de ce que Carl Gustav Jung appelait l’inconscient collectif. Elle est ancrée en nous depuis l’origine, mais cet ancrage se fait le plus souvent d’une manière ésotérique, c’est-à-dire cachée, et seuls les initiés ou de fins observateurs peuvent en percevoir les traces ou les allusions dans les œuvres profanes.

Le premier ouvrage, intitulé « Arcanes Polaires » (aux éditions Arqa), reprend en quinze chapitres, un éventail d’analyses portant sur des formulations diversifiées de la Tradition primordiale. On y trouve une étude de la doctrine des quatre âges, qui nous renvoie ensuite à un christianisme original et ésotérique, le mythe du Graal, les Templiers ou le chevalier Yvain y trouvant toute leur place.

Un chapitre concernant un roman étrange paru en 1925, « La sphère d’or » d’un auteur australien Erle Cox, précurseur des grands romans de science fiction, apporte un éclairage puissant et nécessaire à la lecture de ce livre malheureusement difficilement trouvable de nos jours mais dont le message reste parfaitement immanent.

ob_029cb2_couv-pg-sansonetti.jpgLe second, « Présence de la Tradition primordiale » (aux éditions Oeil du Sphinx), est un recueil de nombreux articles parus dans la défunte revue « Hyperborée ». Paul-Georges Sansonetti vient ici poser le doigt sur des œuvres que l’on pensait connaître, pour nous montrer toutes les traces que leurs auteurs y ont cachées plus ou moins volontairement. Nous revisitons ainsi des grands classiques. Tolkien bien sûr avec son « Seigneur des anneaux », mais aussi Howard Phillips Lovecraft, ou plus curieusement Alain Fournier et son « Grand Meaulnes ». Un grand chapitre est consacré à l’immense film de Stanley Kubrick « 2001, Odyssée de l’espace ». 

Poe, Meyrink se croisent également dans cet escalier menant droit… au Pôle. Car ici, comme dans le précédent ouvrage, la direction est la même : cap au Nord, la Grande Ourse, l’Hyperborée, patrie d’Apollon, d’où est partie la base principielle de nos civilisations, et qu’il est bon de remettre en mémoire en ces temps de fin de cycle.

Comme dirait Pierre-Émile Blairon, il serait bien de s’armer de « bagages pour franchir le gué », afin que, dans cette prochaine ère qui ne tardera pas à venir, les racines soient déjà prêtes pour entamer un nouveau cycle, la Tradition primordiale rassemblant toutes les données permettant de comprendre la raison d’être du fondement des civilisations anciennes, mais aussi à venir.

Patrice LEMAÎTRE.

Comment se procurer ces deux livres ?

Arcanes Polaires (éditions Arqa)
Présence de la Tradition primordiale
(éditions Oeil du Sphinx)

 

mardi, 12 mai 2020

Mysticism After Modernism: From Meme Magick to Evolian Populism

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Mysticism After Modernism:
From Meme Magick to Evolian Populism

mysticismaftermodernism-198x300.pngJames J. O’Meara
Mysticism After Modernism: Crowley, Evola, Neville, Watts, Colin Wilson & Other Populist Gurus
Melbourne, Australia: Manticore Press, 2020

“For me real and imagined, by the way, is just the same. Because the world is our imagination.” — Aleksandr Dugin [1] [1]

“The whole vast world is nothing more than the confused imaginations of men and women.” — Neville [2] [2]

A new book from James O’Meara is always a treat, but until that long-awaited collection of film reviews arrives, this will serve to assuage the hungry public. Astute readers here at Counter-Currents will immediately perceive that this is a new, slightly but cunningly revised edition [3] of Magick for Housewives: Essays on Alt-Gurus (Manticore, 2018). Although the title was intended as an homage to Crowley titles like Yoga for Yahoos and Yoga for Yellowbellies, I am told that the publishers found that too many potential buyers were unable to look past the thumbnail online and took it to be a work of “kitchen magic,” which is a new one on me but apparently is a real thing.

I myself miss the perky housewife of the original cover, an icon of American postwar ascendancy who not only alluded to the “ladies who lunch” that filled Neville’s audiences, [3] [4] but also connected it to the author’s End of An Era: Mad Men and the Ordeal of Civility [5] (Counter-Currents, 2017). Arguably the new cover, a moody, misty collage of the subjects, is more appropriate to the contents as a whole.

The subtitle also frees the book from any links to the late, mostly unlamented “alt-right.” Strange as it may seem to our grandchildren — or children — there was a time when anything “hip” was linked to the “alt” phenomenon; sort of like those funny haircuts in old pictures. Potential readers were left asking, along with Steve Bannon:

“But why does a guy who is that sophisticated get hooked up with Richard Spencer? [He’s] a goofball, and you can’t get in business with goofballs like that.” [4] [6]

For the new edition, the contents have been carefully revised, occasional misprints silently corrected, and an index of gurus added for the reader’s convenience.

Since all but the title essay — a synoptic look at the Hermetic tradition from Plotinus to Evola to Neville, demonstrating the author’s easy mastery of the field, which first appeared in Aristokratia IV — appeared in some form here on Counter-Currents, the high level of scholarship and presentation can be taken for granted. But what is the principle of selection for this motley crew, ranging from the infamous Crowley and the underground magic of Evola, to the misunderstood “popularizer” Alan Watts, then to modern chaos magic and Colin Wilson’s Outsider, finally back to the barely remembered midcentury phenomenon who called himself Neville?  As O’Meara explains it,

You can buy James O’Meara’s book The Eldritch Evola here. [7]

51OCsL3ZCNL.jpgIn the wake of the populist revolt against globalist tyranny, and its controversial tribunes like Trump, it’s time for a look at what can now be discerned as an equally new development, on the fringes of Western civilization, among what came to be known as “popular culture,” during the so-called pre- and post-war eras: a new kind of spiritual teacher or “guru,” one more interested in methods, techniques and results than in dogmas, institutions, or — especially — followers.

In the wake of even more recent developments, what O’Meara previously styled “alt-gurus” he now calls “populist gurus.” An equally good term, if we extend our temporal limits back into the 19th century, and acknowledge how geographically American this phenomenon is, [5] [8] might be what Arthur Versluis has dubbed “American gurus,” who espouse what he calls “immediatism.”

[Immediatism is] the assertion of immediate spiritual illumination without much if any preparatory practice within a particular religious tradition. Some call this “instant enlightenment.” [Its] origins precede American Transcendentalism, [6] [9] and whose exemplars include a whole array of historical figures, right up to contemporary New Age exponents. In this line, a figure like Timothy Leary, and other erstwhile psychedelic evangelists, play a significant role because what could be more immediate than the result of taking a pill? [7] [10]

Immediatism is based, in turn, on “an underlying metaphysics” which Versluis calls “primordialism”: “We as human beings have access to blissful awareness that is not subject to temporal or spatial restriction [and] is always present to us.” [8] [11] Since it is always present, it pops up from time to time in history, only to be occulted again by mainstream dogmatism, until rediscovered once more; it endures in time not by institutions but by texts and gurus, [9] [12] and above all by techniques: from Crowley’s convoluted and obscurantist rituals and doctrines to Wilson’s “pencil trick” and, perhaps most archetypally, Neville’s “simple method to change the future”; as Neville says repeatedly, “Go home and try it tonight — prove me wrong!”

So it’s no surprise that immediatism should be so prevalent today, and especially in the United States: in the Kali Yuga, where institutions are in decay, or, as in America, they never really existed.

Immediatism is sort of the Dark Twin of Traditionalism; or rather, seeing it from our Yankee perspective, it’s the Bright Twin. To Traditionalism’s innate pessimism — “You must submit to an orthodox tradition to have even a glimmer of a change, after arduous labor, to achieve enlightenment or even a fully human life; oops, looks there aren’t any around these days, too bad, better luck in the next kalpa” — Emerson, the original American Guru, asks bluntly:

The foregoing generations beheld God and nature face to face; we, through their eyes. Why should not we also enjoy an original relation to the universe? Why should not we have a poetry and philosophy of insight and not of tradition, and a religion by revelation to us, and not the history of theirs? [10] [13] Embosomed for a season in nature, whose floods of life stream around and through us, and invite us by the powers they supply, to action proportioned to nature, why should we grope among the dry bones of the past, or put the living generation into masquerade out of its faded wardrobe? The sun shines to-day also. [11] [14]

This may all seem too airy-fairy, but if you want a practical application, consider, as O’Meara does here, the role played by “meme magick” in the Trump phenomenon; it can also provide the key to understanding Steve Bannon’s surprising and complex relationship with Traditionalism.

Benjamin Teitelbaum, in his War for Eternity: Inside Bannon’s Far-Right Circle of Global Power Brokers, devotes considerable attention to Bannon’s idiosyncratic reading of Guénon and Evola. He never discusses Bannon’s American intellectual heritage, which is a pity, since it would help explain what he calls Bannon’s “horizontal Traditionalism”: rather than bemoaning the confusion of the castes in the modern world, and futilely wishing for a “return of kings” (with oneself, of course, as a king, or at least on the general staff), Bannon tips the hierarchy on its side, and puts his faith in the ordinary working-class Joe Schmoe (Bannon calls them “serfs”) as a perennial source of traditional values to counterbalance the elite’s secular globalism. It’s basically Jeffersonian “natural aristocracy” and a political application of Emerson’s primordialism. [12] [15]

But how does Evola fit in here, with all these mystical Yankee peddlers, these Melvillian confidence men, and lightning-rod salesmen? Was Evola not the proponent of capital-T Tradition with its hierarchies and fatalism?

Indeed; but before he became the darling of alt-rightists seeking “our Marcuse, only better,” before reading a word of Guénon, he was a magician; that is, neither a dogmatic theologian or a materialistic scientist, but an esotericist. That Evola is quoted as the epigraph of the work under review:

One can expect that one day religion, as well as theology itself, will become an experimental science, certainly an upheaval, not lacking interest, that leads us back to a proper view of mystical and traditional esotericism. [13] [16]

This was the “good” Evola. The “bad” Evola arose from what Pierlo Fenili, in an eye-opening article in Politica Romana — “The Errors of Evola” — calls the “wrong choice of traditions;” as Jocelyn Godwin explicates: [14] [17]

Fenili points out that of the four protagonists who were left at the end of the Western Empire in 476, only the Roman Senate and the Eastern Empire had authentic Roman roots. The other two players were the Church, whose origin was in the Near East, and the Germanic peoples of the north, and it was with these enemies of Romanity that Evola chose to align himself.

You can buy James O’Meara’s End of an Era here [5].

51mlLDdbThL._SX322_BO1,204,203,200_.jpgFrom this followed another error, “alienation from the ancestral tradition.” [15] [18] The true Western Tradition was

[Carried] onward by such figures, ignored by Evola [and loathed by Guénon], as. . . Boethius. . . who worked under a Gothic emperor to preserve all he could of Greco-Latin learning; Michael Psellus. . . the Byzantine Platonist; the early Humanists from Petrarch onwards, whom Evola dismisses as merely safeguarding the “decadent forms” of Antiquity; Ficino, who continued Boethius’s project by translating the works of Hermes, Plato, and the Neoplatonists; Pico della Mirandola with his defense of the dignity of man [which Evola] censured for its “rhetorical exaltation of individuality.” 

The choice is not between secular science and “Tradition” in the form of dogmatic religion. [16] [19] The true “Roman” tradition is the one that gave birth to the Renaissance, the Reformation, and the Enlightenment, the bug-bears of both Traditionalists and Neo-Reactionaries. Needless to say, this is the Platonic tradition — pro-science but anti-scientism, pro-spirituality but anti-“churchianity” — to which Emerson and the “American Gurus” belong.

And this is why Evola belongs here; Fenili insists that “the most important part of Evola’s creative oeuvre consist[s] of the works of esoteric, orientalist and philosophic character,” which include The Doctrine of Awakening, The Hermetic Tradition, and The Yoga of Power, which, together with Magic: Rituals and Practical Techniques for the Magus, are the works constantly cited by O’Meara to explicate and justify what he calls “America’s homegrown Hermeticism, native Neoplatonism, and two-fisted Traditionalism” — a more authentic Tradition than anything dreamed up in Guénon’s cork-lined bedroom.

Bringing these figures together illuminates a uniquely American and Modernist phenomenon, excavates a third stream — esotericism — between science and religion, and de-occultates the hidden passage from Evola’s magic to post-Trump populism.

There is another thread of continuity in the studies presented here. Starting from reminiscences of teenage years listening to early Sunday morning radio broadcasts of Alan Watts, through the dense accumulation of names and references, surfacing in the clear, easy mastery of his presentation of Neville as the greatest voice of hermetic tradition in the 20th century, we have here, intended or not, an intellectual biography, a more modest version of Evola’s Path of Cinnabar.

And so we can say, as Teitelbaum says of the Brazilian Traditionalist and populist Olavo de Carvalho:

Thinking in these terms. . . made his ostensible journey seem like no journey at all: his activities since discovering Traditionalism in the 1970s would instead appear variations on a theme rather than a dilettantish succession of gimmicks and reinventions. [17] [20]

Whitman, one of the great voices of American immediatism, comes to mind. “This is no book, cammerade [sic]. Who touches this touches a man. . .”

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Notes

[1] [22] Quoted in Benjamin Teitelbaum, War for Eternity: Inside Bannon’s Far-Right Circle of Global Power Brokers (New York: HarperCollins, 2020), p. 153

[2] [23] “Neville’s Purpose Revealed,” in Let Us Go Into the Silence: The Lectures of Neville Goddard, compiled by David Allen (Kindle, 2016)

[3] [24] Described in the title essay, “Magick for Housewives: The (Not So) New (and Really Rather Traditional) Thought of Neville Goddard.”  Neville, by his own admission, was known as “The Mad Mystic of 48th Street.” The haute bourgeois ladies Tom Wolfe later called “Social X-Rays,” looking for a new thrill, would say to each other: “Oh, do come along and hear him, it’s free and he’s terribly funny!”

[4] [25] Teitelbaum, op. cit., p.267.

[5] [26] Watts were British, but Watts emigrated to the US and gained fame there, while Wilson always felt like an “outsider” in British culture and openly preferred Americans. Neville was from Barbados, emigrated to New York at seventeen, and was given citizenship after being drafted in World War Two. The outlier is Crowley, but he would be an outlier anywhere, and at least spent some time in the US.

[6] [27] Versluis traces it back to Plato, via Emerson: see American Gurus, Chapter 2, “Revivalism, Romanticism, and the Protestant Principle.” Camille Paglia also delineates a “North American Literary Tradition” that originates in the collision of American Puritanism with European Romanticism; see my review “The Native American Nietzsche: Camille Paglia, Frontier Philosopher [28].”

[7] [29] See his interview here [30].

[8] [31] American Gurus: From Transcendentalism to New Age Religion (Oxford, 2014), p 248.

[9] [32] Like Zen, a “special transmission outside the scriptures” – Heinrich Dumoulin, Zen Buddhism: A History. Volume 1: India and China, World (Wisdom Books, 2005), pp. 85-94.

[10] [33] Neville: “Religious progress is a gradual transition from a god of tradition to a God of experience.” (“Control Your Inner Conversations [34],” 4-26-1971.

[11] [35] “Nature” (1844).

[12] [36] “When I was drafted, called, and sent, it was with the command, ‘Down with the bluebloods.’ In other words, down with all church protocol, with anything that would interfere with the individual’s direct access to God. There is only one foundation upon which to build. That foundation is I AM, and there is no other.” Neville, “No Other Foundation [37],” 11-04-1968.

[13] [38] Julius Evola, “The New Spirit Movement”; originally published in Bilychnis, June, 1928.

[14] [39] See Jocelyn Godwin, “Politica Romana Pro and Contra Evola,” in Arthur Versluis, Lee Irwin, and Melinda Phillips (eds.), Esotericism, Religion, and Politics (Minneapolis, MI: New Cultures Press 2012). I don’t read Italian and haven’t read the article itself, so I am relying on Godwin’s presentation.

[15] [40] Guénon, for his part, never even pretended to be “Roman” and in fact despised the Classical world, no doubt a reaction to a typical French education; after years of trying to interest the Catholic Church in his ideas, he eventually converted to Islam. Why rightists think he has anything to contribute to their struggle is a mystery.

[16] [41] Commenting on 1 Corinthians, Robert Price notes that in the “Catholic anti-wisdom section” of Chapter 3 we find “once again, the opposite of [worldly] wisdom is not esotericism but simplicity. The pious attitude is that which regrets the sampling of the knowledge tree in Eden, the erection of the Babel tower. Such a one is happy to mortgage his faith to the Grand Inquisitor.” The Amazing Colossal Apostle: The Search for the Historical Paul (Salt Lake City: Signature Books, 2012); compare Evola’s The Hermetic Tradition: Symbols and Teachings of the Royal Art (Rochester, Vt.: Inner Traditions, 1995), especially the “Introduction to Part One: The Tree, the Serpent, and the Titans.”

[17] [42] Teitelbaum, op. cit., p.260.

Article printed from Counter-Currents Publishing: https://www.counter-currents.com

URL to article: https://www.counter-currents.com/2020/05/hes-our-bannon-only-better-from-meme-magick-to-evolian-populism/

vendredi, 08 mai 2020

De la “pandémie médiatique” : entretien avec François-Bernard Huyghe

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De la “pandémie médiatique” : entretien avec François-Bernard Huyghe

Ex: https://www.ojim.fr

Nous avons déjà présenté plusieurs ouvrages du médiologue François-Bernard Huyghe qui vient de publier en mai une nouvelle édition actualisée de son opus Fake news (“Manip, Infox et Infodémie”) aux éditions VA Press. Entretien.

Question : Vous venez de publier une nouvelle édition de Fake news, version entièrement remaniée de votre livre sur les « infox ». Il y a une telle actualité du faux qu’il faille compléter l’édition de l’année dernière ?

François-Bernard Huyghe : Il y a même urgence ! La preuve : après avoir fait adopter une « loi contre le manipulation de l’information » (en 2018), le gouvernement a envisagé de créer une plateforme « Désinfox coronavirus » pour contrer rumeurs et affabulations relatives à l’épidémie et suggérer de “bonnes” sources. Selon le mot de Debord, le système libéral “ne veut être jugé que sur ses ennemis” ; visiblement, le macronisme a choisi le registre “Fakes, complotisme, délire haineux et fantasmes extrémistes” pour disqualifier toute parole critique. Plutôt qu’à une censure du contenu (interdire de dire x ou y), on agit désormais sur le code (informations vérifiées — devinez par qui — versus manipulations ne relevant pas de l’opinion mais de la malfaisance). Le citoyen est invité à intérioriser les normes du politiquement correct et de l’authentiquement correct. Il y a un enjeu idéologique considérable. Même si le projet mal ficelé a été abandonné, la tentation de réguler le code demeure.

Bien entendu, dire cela ce n’est pas nier qu’il prolifère des explications délirantes, des photos truquées, des révélations imaginaires, des thèses douteuses ou des prédictions invraisemblables sur la pandémie. Il a même fallu inventer un néologisme pour désigner le phénomène : infodémie. La propagation du faux parallèle à celle du virus.

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Vous dites même que la crise prend une dimension géopolitique ?

Oui, il y a comme des strates dans la mésinformation relative au Covid-19 :

- Il y a d’abord le phénomène ancestral de la rumeur ou de la pensée magique en période de catastrophe : remèdes miracles, boucs-émissaires désignés, récits surprenants sur “la vérité qu’on nous cache”, explications bricolées etc. se répandent spontanément.

- Une composante “médiologique”, disons liée aux technologies de l’information. Les réseaux sociaux qui permettent à chacun de s’exprimer, de diffuser, mais aussi de se dissimuler, sont favorables par nature aux discours alternatifs, éventuellement aux trucages, et toujours aux emballements collectifs. Surtout ici dans un domaine où le discours “scientifique” ou l’établissement des “faits” donnent lieu à interprétations hasardeuses.

- Outre la dimension politique nationale (un gouvernement donnant des versions contradictoires mais toujours “appuyées sur les scientifiques” à quelques jours de distance), il y a un enjeu géopolitique. Pour faire simple : les Chinois, après avoir un peu cafouillé au début de l’épidémie, lancent une grande opération de charme (soft power) sur le thème nous avons bien maîtrisé et notre modèle est universel. Côté américain ou dans les milieux atlantistes on riposte : les Chinois ont menti, ils manipulent l’opinion mondiale, non à l’hégémonie de Pékin. Une guerre internationale de l’information est en cours.

Au fait, comment reconnaît-on une “fake news” ?

Il faut que ce soit une nouvelle (un récit, une citation une photo de quelque chose qui se serait produit) et qu’elle soit fausse. Ce qui en général se reconnaît à ce qu’elle contredit la logique, ou les autres témoignages, ou les sources originelles. Ou encore si l’on peut prouver la fabrication : il y a des logiciels, des ONG, des rubriques “fact-checking” des médias qui passent leur journée à vérifier et la probabilité qu’un faux avéré ne soit pas signalé en ligne en quelques minutes est très faible.

Mais après avoir examiné le message, il faut aussi faire son auto-examen. Ne pas qualifier de fake tout ce qui relève de l’interprétation des idées ou de l’anticipation du futur, ne pas qualifier de manipulation tout ce qui contredit nos croyances (ni ne tenir pour démontré tout ce qui les renforce)…

Vous qui êtes un défenseur de la langue française vous avez placé un glossaire anglais (ou globish) des mots employés à ce sujet ?

Oui, bien forcé : tout ce débat sur les fake news (qui auraient fait élire Trump ou provoqué le Brexit) s’est développé aux États-Unis après 2016 ; et les médias et centres de recherches étatsuniens ont produit énormément de néologismes à ce sujet. Demandez-vous pourquoi les Européens se sentent obligés de penser puis d’adopter ces idées et ce vocabulaire.

Fake news : Manip, Infox et Infodémie en 2021, Format Kindle, VA Press, mai 2021 (6,49 €)

lundi, 04 mai 2020

Une intrigue policière dans l’Angleterre occupée

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Une intrigue policière dans l’Angleterre occupée

par Georges FELTIN-TRACOL

On appelle « thriller » une catégorie de roman qui suscite un suspense permanent et un dénouement inattendu. En 1978, le Britannique Len Deighton écrit un roman qui joint le polar, le récit d’espionnage et l’uchronie. SS – GB est d’ailleurs devenu un classique de la science-fiction.

9780008201241.jpgHistorien de formation, l’auteur plonge le lecteur à la fin de l’année 1941 dans une Angleterre vaincue et occupée par l’Allemagne. Si le roi George VI est prisonnier dans la Tour de Londres, son épouse et leurs filles, la princesse héritière Elizabeth et sa sœur Margaret, vivent en exil en Nouvelle-Zélande. Winston Churchill est pendu haut et court. À l’instar de l’éphémère « France libre » de Charles de Gaulle qui « s’est promu général et [qui] a déclaré qu’il était la voix de la France. Ça n’a jamais abouti à rien (p. 174) », la « Grande-Bretagne libre » s’incarne depuis l’Amérique du Nord dans un certain contre-amiral Conolly. Cette résistance extérieure complète une résistance intérieure plus ou moins balbutiante.

En Angleterre uchronique

Quand Len Deighton sort son uchronie, il prend bien soin d’éviter toute digression politique. En effet, l’ancien roi Edouard VIII, devenu le duc de Windsor, et Sir Oswald Mosley vivent toujours. Contrairement au film de Kevin Brownlow diffusé par la BBC en 1964, It Happened Here (« En Angleterre occupée »), le roman ne fait donc aucune allusion sur une éventuelle restauration d’Edouard VIII ou sur l’instauration d’un régime fasciste dont Mosley serait le Leader. L’auteur fait en sorte que l’armée allemande gouverne la Grande-Bretagne depuis la capitulation britannique du 18 février 1941.

Responsable du maintien de l’ordre public et de la sûreté de la population, les Allemands bénéficient de l’expertise de Scotland Yard. Le commissaire Douglas Archer et son adjoint, l’inspecteur Harry Woods, constituent une efficace « brigade criminelle ». Fin limier au palmarès impressionnant d’enquêtes résolues, le commissaire Archer « avait non seulement la réputation d’être un des plus brillants policiers de la brigade criminelle, mais en outre il était jaune, il avait l’air sportif, avec ce genre de visage osseux et un peu pâle que les Allemands trouvaient aristocratique. Il avait le type “ germanique ”, un exemple parfait du “ Nouvel Européen ”. Et il parlait même un excellent allemand (p. 24) ». Son supérieur hiérarchique, le général ou Gruppenführer SS Fritz Kellerman, l’apprécie beaucoup et le chouchoute souvent.

Régulièrement affecté aux meurtres liés au marché noir ainsi qu’à divers trafics de contrebande, le commissaire Archer enquête cette fois-ci sur l’assassinat d’un certain Spode. Ses recherches attirent vite l’attention particulière de Berlin. Il passe bientôt sous l’autorité directe du Standartenführer (colonel) SS Huth de l’état-major personnel du Reichsführer SS Heinrich Himmler. Cette subordination dérange Douglas Archer qui se veut apolitique bien qu’il sait que son collègue et ami, Harry Woods, fricote avec la résistance intérieure.

Un récit riche et complexe

L’intrigue de SS – GB est brillante. Le lecteur découvre le quotidien des Anglais marqué par le rationnement, les pénuries, les rafles, les profiteurs de guerre, etc. Au risque de déflorer l’histoire, Douglas Archer, au cours de son enquête, entre en contact avec certains résistants influents. Par ailleurs, il apprend que le dénommé Spode était un ingénieur en physique nucléaire. Sa mort participe à une vaste machination où se mêlent manœuvres de résistants et contre-opérations de la part des occupants eux-mêmes. Len Deighton décrit les profondes, vives et tenaces rivalités entre la Wehrmacht, représentée à Londres par Fritz Kellerman, l’Abwehr et les SS.

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Son enquête prend vite une tournure politique puisque entrent en ligne de compte l’évasion du roi, la volonté de provoquer l’entrée en guerre des États-Unis d’Amérique et la possession prochaine d’une bombe atomique. Or, si les SS, et Huth en particulier, veulent être les premiers à la détenir, la Wehrmacht et Himmler lui-même, influencé par son mage – gourou, s’y refusent. Chef d’un groupe de résistants, le colonel Mayhew use de machiavélisme afin de libérer George VII et de retarder l’acquisition de la bombe par les Étatsuniens tout en les contraignant à entrer dans le conflit européen. Ayant obtenu l’accord de Franklin Delano Roosevelt, il monte une opération commando en concertation avec quelques unités d’US Marines.

SS – GB ne verse pas dans le manichéisme primaire. C’est un ouvrage de son époque, le milieu des années 1970, quand l’hypermnésie historique hémiplégique n’avait pas encore pris une boursouflure exubérante. Un agréable roman au dépaysement uchronique garanti!

Georges Feltin-Tracol.

• Len Deighton, SS – GB, Denoël, coll. « Folio – Science Fiction », n° 601, 2017, 519 p, 9,10 €.

mercredi, 29 avril 2020

«Pour la Troisième Voie solidariste» disponible en espagnol

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«Pour la Troisième Voie solidariste» disponible en espagnol

par Bastien VALORGUES

Quinze mois après la sortie dans la collection « Idées » aux Bouquins de Synthèse nationale de Pour la Troisième Voie solidariste de Georges Feltin-Tracol, les éditions Fides au riche catalogue viennent à leur tour de le faire paraître en Espagne. Leur directeur, Juan Antonio Llopart, milita naguère au sein de mouvements qui se réclamaient du tercérisme.

À l’occasion de cette traduction, Georges Feltin-Tracol a revu, enrichi et corrigé les textes. Il en aussi modifié l’agencement. Ceux-ci sont désormais regroupés autour d’un thème commun dans cinq parties différentes : « Après le Bastion social », « Un autre socialisme », « Pour le solidarisme », « Sur la troisième voie » et « En entreprise ». Inexistante dans l’original français, cette répartition donne au livre un ton plus incisif qui, ajouté à la somme historique qu’il représente, propose un vaste panorama d’idées politiques, sociales et économiques anti-conformistes majeures.

Le lecteur hispanophone découvre ainsi le gaullisme de gauche, la troisième voie défendue par Bruno Mégret alors délégué général du Front national, l’ergonisme de Jacob Sher révélé par Robert Steuckers dans les revues Orientations et Vouloir, l’histoire tourmentée des solidaristes russes du NTS, les essais de Serge Ayoub de relancer une troisième voie sociale et nationale, la vision du socialisme chez Jean Mabire ou le point de vue percutant de Philippe Schleiter sur le monde de l’entreprise. L’aventure du Bastion social, trop tôt interrompue par un assassinat légal (un gouvernement d’amateurs a prononcé sa dissolution), y tient une large part.

Juan Antonio Llopart a en effet tenu que le lecteur des éditions Fides connaisse cette expérience étonnante qui se rapproche des initiatives nationalistes-révolutionnaires du Hogar social espagnol. Inspirées par le précédent CasaPound – Italie, leurs actions non conformes subissent les mêmes discriminations ainsi que diverses vexations de la part des gouvernants en faillite de la droite financière et de la gauche cosmopolite (à moins que cela soit le contraire…).

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Cette édition dont l’intention évidente ne se restreint pas à la seule Espagne, mais s’adresse à l’Amérique hispanique, comporte deux textes inédits spécialement rédigés pour la circonstance. Avec « Après le Bastion social », Georges Feltin-Tracol dresse le bilan du Bastion social. Il insiste sur les nombreuses avanies que ce jeune et dynamique mouvement a subies de la part des antifas, des municipalités, des journalistes et des préfectures. Il attire par ailleurs l’attention sur de fâcheux travers dus trop souvent à la grande jeunesse des militants, à leur dépendance complète aux réseaux sociaux et à leur faible propension à accepter (et à appliquer) une réelle discipline, personnelle et collective. Ces manquements ont pu nuire à telle ou telle section locale du Bastion social.

Le second texte est la préface de l’auteur pour le lecteur espagnol. Georges Feltin-Tracol revient sur les racines ibériques de la troisième voie qui récuse autant le collectivisme marxiste que l’étatisme bureaucratique et l’individualisme libéral. Comme pour la France, l’Espagne est un terrain propice aux expériences tercéristes : le carlisme, le phalangisme, le national-syndicalisme, voire certaines tendances du nationalisme basque ou catalan. Cette exhaustivité se retrouve au-delà de l’Atlantique avec le péronisme argentin, le premier chavisme vénézuélien ou l’indigénisme andin.

En attendant d’éventuelles traductions allemandes, anglaises, italiennes, néerlandaises, portugaises ou russes, il faut se féliciter qu’après Elementos para un pensamiento extremo en 2018, un nouveau titre de notre ami rédacteur en chef d’Europe Maxima paraisse à l’étranger. Remercions le courage éditorial de Fides, saluons son formidable travail esthétique autour du livre et souhaitons que Por une Tercera Via Solidarista incite les Espagnols et les Américains romans à mieux comprendre l’urgence d’une troisième voie politique, sociale et économique plus que jamais… justicialiste !

Bastien Valorgues

• Georges Feltin-Tracol, Por une Tercera Via Solidarista, Ediciones Fides, 2020, 204 p., 20 €.

Review: Agitprop in America

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Review: Agitprop in America

“Agitprop has been the method for destroying America’s culture and rebuilding it as Cultural Marxism.”
      John Harmon McElroy, Agitprop in America

agitprop-456x705.jpgAgitprop in America
John Harmon McElroy

Arktos, 2020 

“You can live with the loss of certainty, but not of belief.” So begins John Harmon McElroy’s recently-published Agitprop in America, an almost 400-page book on America’s increasing distance from former beliefs, wholesale adoption of new ones, and the methods by which this transformation was brought about. A cultural historian, McElroy is a professor emeritus of the University of Arizona and was a Fulbright scholar at universities in Spain and Brazil. I suspect Agitprop in America is an exercise in catharsis for the author. During the course of the volume McElroy is clearly, to borrow Melville’s famous words, “driving off the spleen,” by which I mean that he is dispensing with many years of excess feelings of irritation, built up over a career in decaying academia. In Agitprop in America, McElroy takes aim at a succession of modern academia’s sacred cows, with chapters covering Marxist history and propaganda techniques, “social justice” activism, mandatory diversity, political correctness, free speech, snowflake culture, government spending, and the dominance of Cultural Marxism in the American education system. One of the book’s more unique features is a 107-page lexicon of 234 terms (from Ableism to Xenophobia) explaining the invention and employment of language as a method of cultural transformation via agitprop. The book is written in a terse, urgent style reminiscent of Hillaire Belloc, and McElroy comes across confident, bullish, and confrontational, all of which contributes character to what is one of the more original and interesting books I’ve read thus far in 2020.

My first impression of Agitprop in America was that it was a kind of throwback to older anti-Communist texts. I mean this in neither a strictly positive nor strictly negative sense, but an understanding and appreciation of the overall intellectual trajectory of the book will demand that this is acknowledged. In the absence of biographical details, I would estimate McElroy to be in his 80s. He comes across as a thoroughly committed Christian and capitalist, and the book itself is dedicated to “Cuba’s Escambray guerrillas who died fighting Fidel Castro’s Marxist tyranny in the 1960s.” As such, the psychology of the book is underpinned by tensions and memories that are either unknown or significantly faded among younger generations, such as McCarthyism, the Bay of Pigs incident, and the Cuban Missile Crisis. That being said, the book is still incredibly contemporary and relevant. This is in large part due to McElroy’s keen ear for contemporary society and politics, as well as the evolving lexicon of Cultural Marxism, which enables him to discuss “woke” culture with the same accuracy and vigor as “class struggle.” I also think that, in an age where it’s becoming commonplace among Rightist millennials to dismiss “Boomers” and throw themselves headlong into a “NazBol” Third Positionism that in some respects rehabilitates or repurposes aspects of Marxism and even the Frankfurt School, it’s beneficial to listen to those with decades of experience in the culture wars. Although I don’t agree with everything McElroy has to say, he is one such individual and he has produced a very useful text.

9781583228982.jpgThe book opens with the contention that “since the 1960s Marxists and their sympathizers in America have been using agitprop (an integration of intense agitation and propaganda invented by Lenin) to destroy America’s culture and build Cultural Marxism. To do this, agitprop has changed American speech and manipulated cultural values and beliefs.”  American history has been rewritten “to make it into a Marxian tale of unmitigated oppression.” American contemporary society has been reinterpreted as the story of “one biologically defined ruling class (straight White males) “victimizing” all other biologically defined classes.” These Marxist dogmas “are causing the destruction of America’s exceptional culture.”

Part I of the book consists of a brief sketch of the historical context of agitprop in America. McElroy does a very capable job of following political correctness from its Soviet and Maoist origins, through the campus agitations of the 1960s, to the “woke” culture warriors of today. Early in the chapter he indulges in some of the “antifa are the real fascists” fluff that one unfortunately expects from older anti-Communists, and he makes one positive reference to the tainted writings of the Jewish neoconservative academic Richard Pipes. But these are brief divergences from an otherwise steady and interesting invective against the corruption of language and the introduction of politically correct culture in the United States. McElroy is at his best when he focuses on the methodology of Culture Marxism, writing:

Instead of overturning the U.S government by force and taking comprehensive control of the United States all at once, the Counter Culture/Political Correctness Movement has been engaged for the last fifty years in gradually but relentlessly transforming the United States from within little by little, by co-opting its institutions and destroying existing cultural beliefs slowly and methodically, and replacing them with the dogmas of Marxism. (8)

In our current age of declining optimism and rising nihilism, I found McElroy’s persistent belief in American exceptionalism to be somewhat heartening. Although the America of today has thickened and bubbled into a globalist empire, it was indeed founded, as McElroy reminds us “on belief in man’s unalienable birthright to life, liberty, the pursuit of happiness, and government by consent of the governed.” The author is both saddened and angered to see the promise of the “American Dream” come under sustained attack from both internal and external enemies, and while we can make the argument for a more critical or nuanced interrogation of such concepts as the “American Dream” (Tom Sunic’s excellent Homo Americanus is probably unsurpassed in this area), it’s difficult to argue that something special and precious hasn’t been lost in America since the 1950s. Where Sunic and McElroy might agree, with radically different implications, is in their assessment of the nature of American culture through history. Both assert the European origins of American culture, and both assert that it later became essentially non-European. For McElroy, this transition (c. 1800–1950) represents a triumph, with America defining itself against “the aristocratic cultures of Europe based on belief in ruling classes constituted by “noble” and “royal” blood.” For Sunic, the drift away from European culture resulted in hostility to European traditions, and an obsession with “rights” and individualistic consumerism, that has dogged America for over a century and has contributed heavily to its current cultural malaise. Both scholars would find agreement again in the fact America post-1950 has been in the throes of a cultural catastrophe in which Marxism has been pivotal.

The latter section of the first chapter concerns Marxist dogma from Soviet times to the present. McElroy is quite right to point out that historically Marxists argued that deviation from their worldview could represent a “symptom of mental derangement requiring treatment in a psychiatric clinic,” and he places this alongside commentary on how today’s dissidents are presented as “enemies of humanity.” In each case, agitprop develops an environment in which dissent is viewed and portrayed as “a kind of irrational, anti-science behavior.” The key to the success of Cultural Marxist agitprop is its “intrinsic deceptiveness.” McElroy writes,

Political correctness represents itself as a champion of fundamental American values. That brazen pretense, that Marxism is identical to American liberalism and progressivism, is why the Counter Culture/Political Correctness movement has had so much success in the United States. (22)

Drawing on Saul Alinsky’s infamous Rules for Radicals, McElroy explains how Cultural Marxists provoke their opponents into reacting (e.g. threatening to take down historical monuments, ordering “gay cakes”) and then denounce them as irrational “reactionaries.” Another tactic is to create problems, or interpret problems, in such a manner that permits the proposal of Marxist “solutions.” I thought that an analysis of Alinsky’s works might provoke a deeper reading from McElroy, who writes that Alinsky was “an atheist.” In fact, Alinsky was an agnostic who, when asked specifically about religion, would always reply that he was Jewish. This error is indicative of a broader blind spot in the text — the ethnic component of anti-American activism. This blind spot manifests more subtly throughout the lexicon of Cultural Marxist terms that comprises the middle of the book. Quite frankly, when one actually looks at the individuals who have coined or popularized many of these genuinely novel agitprop terms (e.g. ‘homophobia’ by George Weinberg, ‘deconstructionism’ by Jacques Derrida, ‘racism’ by Magnus Hirschfeld and Leon Trotsky, ‘transgender’ by Magnus Hirschfeld and later Harry Benjamin, ‘sex work” and ‘sex worker’ by Carol Leigh, ‘cultural pluralism’ by Horace Kallen), they emerge almost exclusively as Jews. It’s a simple and unavoidable fact that Jews have been at the forefront of changing “ways of seeing” by first changing “ways of describing.” I agree with McElroy that we shouldn’t call anti-American agitators “liberals,” and that “Leftists” also leaves a lot unsaid. McElroy, however, proposes “PC Marxists,” which I feel doesn’t get any closer to the mark.

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The question presenting itself is: Does this blind spot hinder the usefulness of the text? I don’t think so. Agitprop in America can be read by the well-informed, such as readers of this website, who can fill in certain blanks (as I have above) from their own extensive reading and derive a great deal of knowledge and pleasure from the book. McElroy opines that the two greatest identifying attitudinal markers of “PC Marxism” are hypocrisy and paranoia. He writes that they vigorously enforce “separation of church and state,” and fully embrace “crony capitalism.” Rather than being genuine Americans, they merely “go about in the guise” of the everyday man, while looking down on those who dissent from their thinking in the belief they’re “stupid.” They “relentlessly insist on social justice.” Who does this sound like? And, so you see, specifics of nomenclature aside, the book lends itself to an open and usable reading.

The second chapter of the book contains some interesting autobiographical material on McElroy’s early academic career. In 1966, the same year our own Kevin MacDonald graduated from the University of Wisconsin-Madison, McElroy, a newly minted PhD, arrived at the college. McElroy writes, “Without knowing it, I was going to one of the two epicenters of the Counter Culture movement in the Midwest, the other being the University of Michigan.” McElroy became especially fascinated with the chants of student protestors, seeing in their uniformity certain indications of “planning for a nationwide campaign of agitation and propaganda against U.S. military involvement in Vietnam and against America’s cultural beliefs.” The chapter proceeds with a discussion of the mindset and tactics of this early agitprop campaign, with McElroy commenting:

Normal minds of course find it difficult to believe in a “culture war” that has gone on for half a century and that aims to transform the world’s oldest, most successful republic into a center for Cultural Marxism. Because the project is so audacious, it has taken many middle-class Americans a long time to believe such a movement exists; and many middle-class Americans apparently still refuse to believe a systematic assault is underway on American culture and has been going on in America for fifty years. But whether you believe it or not, a culture war is in progress in America, as evidenced by the fact that many Americans now prefer the dogmas of Marxism to the beliefs of American culture.

The second part of the book consists of the above-mentioned 107-page lexicon of 234 terms explaining the invention and employment of language as a method of cultural transformation via agitprop. The lexicon itself is preceded by two brief explanatory chapters on “Politically Correct Language as a Means of Revolution,” and “Terms Related to and Used by the Counter Culture/Political Correctness Movement.” The first of these chapters is very heavily focused on McElroy’s belief that we should once more refer to Blacks as “Negroes” or “Negro Americans.” For McElroy, the term “African-American” is an “agitprop substitute” designed to make Whites and Blacks constantly aware “that most Negro Americans have remote ancestors brought to America from Africa in chains as slaves.” The author spends several pages thrashing out this issue, which left me quite unsure that this particular issue would be the metaphorical hill I’d personally choose to die on. McElroy comes from a generation in which the term “Negro” probably retained a semblance of tradition and even charm about it, whereas it’s now fallen so completely out of use that a resurrection of the term could only be perceived by all sides as something negative. Again, I actually do sympathize with the central thrust of McElroy’s meaning here. I’m just not convinced I’d base my war on agitprop so strongly in this particular issue.

My misgivings on this point carried through somewhat to the lexicon itself, which is overwhelmingly good but contains some dubious entries. McElroy must first be commended for compiling such an extension list of terms, which is, as far as I’m aware, the only ‘Rightist” lexicon of Cultural Marxist agitprop in existence. Each term comes with commentary, with some only a few sentences in length and others a few pages. A few examples should suffice in order to give a flavor of the style:

Ableism
A faux bias cooked up by PC agitprop, ableism is an alleged prejudice against a person with a disability as, for instance, refusing to hire someone with a stutter or substandard comprehension of spoken English as an office receptionist. Not hiring a person with a patently disqualifying deficiency constitutes the prejudice of “ableism,” according to PC Marxists. See entry on “Sizeism.”

Person of Size
Someone who is extremely obese is a “person of size” in PC talk. The euphemism was invented as part of agitprop’s insistence on the need for sensitive, inoffensive diction.

Relationship
The expression “having a relationship” means in PC parlance having sex with the same partner for a significant length of time without getting married. To a PC Marxist, “having a relationship” is preferable to having a marriage because it forestalls family formation.

Right-Wing Extremism
“Right-wing extremism” is one of the labels PC Marxists use to criticize their opponents, whom they regard as “extreme” because they put the interests of their nation above the revolutionary dogmas of global Marxism.

Sexual Orientation
This is the PC euphemism for homosexuality. The euphemism was coined to avoid the use of the words “homosexual” and “homosexuality.” The phrase “sexual orientation” allows persons who are politically correct to praise and promote homosexual behavior without having to use the terms “homosexual” or “homosexuality,” which are loaded with a historical burden of moral disapproval. The term “sexual orientation,” however, has a scientific ring to it implying that homosexuality is merely one of various “orientations” toward sexual activity, so that no one should object to it. Homosexual practices ought to be considered as any other erotic activity. This is the argument agitprop in America is making in its revolutionary assault.

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With over 230 terms covered, many of them very current in contemporary internet culture, McElroy is to be applauded for his effort in both compiling the list and keeping his finger on the agitprop pulse. The few dubious entries emerge from McElroy’s apparently fundamentalist Christian beliefs, which lead him to a few scathing remarks on evolution, the Big Bang theory, etc. This is McElroy’s book, and it’s his right to wax lyrical on some matters that are clearly close to his heart. I’m certainly not disparaging his approach, but I do think that this might alienate readers who are of a more scientific and less spiritual mindset. That being said, he has produced a great piece of work in this lexicon.

The third section of the book is probably my favorite, and McElroy demonstrates the best of his reading and understanding here. The section consists of commentaries/chapters covering “seven related revolutionary concepts that PC agitprop has imposed on America.” These are “Biological Class Consciousness,” “Social Justice,” “Mandatory Diversity,” a politics of double standards, mass indoctrination on “sensitivity,” censorship and the policing of speech, and the promotion of a sterile and self-obsessed atheism. Of these, the first is one of the best, with McElroy remarking:

Now, after five decades of relentless Marxist agitation and propaganda promoting biological class consciousness in America, courses on U.S. history and Western civilization have dwindled and all but disappeared at American colleges and universities while courses on biological class consciousness have proliferated. Everywhere today in U.S. institutions of higher education, one finds courses and degree programs in Women’s Studies, African-American Studies, Mexican-American Studies, and LGBT studies. And as college and university faculties have become more uniform in their Political Correctness, the courses on U.S. history and Western civilization which remain in the curriculum are almost invariably taught from the point of view of Marxian class struggle, which is to say from the standpoint that straight “Euro-American” males (SEAMs) comprise a ruling class which has “victimized” women, negro Americans, Hispanics, Asian-Americans, homosexuals, and other biologically defined classes. College students today are being taught to hate SEAMs as a class for the “victimisation” they have allegedly inflicted on all other biological classes in America.(180)

McElroy is equally on point when it comes to “social justice,” suggesting that the term really refers to “the idea of preferential treatment for members of allegedly oppressed classes. It is justice dispensed according to class history … “Social justice” is political justice. It expresses political favoritism that will advance the revolution.” The author is also good on the subject of “Mandatory Diversity,” pointing out just how incentivized this has become in our culture and economy:

A reputation for being “diverse” is something institutions throughout America today are eager to acquire. Being “diverse” has become a political, economic, and academic requirement, a much-coveted accolade, a shibboleth attesting to one’s Political Correctness. (220)

On “sensitivity” agitprop, McElroy observes that “the real purpose of the sensitivity game is intimidation.” Enforced “soft language” for protected groups creates an atmosphere in which deviation into normal speech can be chastized as hateful, unfair, and bigoted. The wider the sensitivity net (e.g. embracing the fat, the ugly, etc.) then the more successful will be the broader cultural strategy. It is an offensive built on “not offending.” The same themes are evident in censorship and the policing of speech.

ppquiet.jpgThe final section of the book consists of five short chapters on differing subjects. The first is a commentary on “The Failure of Marxism in the USSR and Successes of PC Marxism in America” which combines an interesting historical overview with a quite strident attack on the Obama years. The next chapter is a brief but lucid essay on how agitprop and PC Marxism has influenced U.S. government spending. The third, and shortest chapter in this section is an attempted rebuttal of the idea that America has become an imperialist nation. I tend to disagree with McElroy somewhat here, not because I believe America has an empire in the conventional sense, but because I believe it’s self-evident that elements of the U.S. government, most notably the neocons, have increasingly steered the country into a foreign interventionist position built around the idea of sustaining global finance capitalism and the state of Israel. Since McElroy’s musings on this topic are limited to a few pages, I was, however, spared any lasting distaste.

—The book then nears its end with a very good chapter on “PC Marxist Dominance in U.S. Public Schools,” before closing with a very pro-Trump chapter on “The Significance of the 2016 Presidential Election.” I was ambivalent about this last chapter because it lacks the nuanced and qualified approach to Trump’s 2016 win that is surely now, in light of a succession of policy failures and absences, much-deserved. Part of me wishes I could share McElroy’s optimism, and I laud any man of his advanced age for avoiding the temptation of observing it all with jaded distance. But I cannot, having considered all available evidence and precedence, share his persistent belief in the MAGA phenomenon.

Final Reflection on Agitprop in America

John Harmon McElroy’s work of catharsis is a worthy addition to the Arktos library, and offers an original and multifaceted new approach to the subject of America’s undeniable and ongoing decay. At almost 400 pages of commentaries on numerous subjects, including a large lexicon of Cultural Marxist terms, the book certainly represents value for money and will consume many hours of study. Of course, it doesn’t have “all the answers,” something it has in common with the vast majority of political texts on the market, but it does approach a normally pessimistic subject with intellectual vigor, aggression, confidence, and even optimism. It’s a book worthy of being “balanced out” by the later reading of another text like Sunic’s Homo Americanus, and I think readers can gain much from such an exercise. Readers could also benefit by conducting some of their own research into the origins of certain agitprop terms. McElroy includes several blank pages at the end of his book for “notes,” which could be put to use in this manner. As hinted at earlier in this review, I guarantee that readers will find some predictable but useful information in the process.

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dimanche, 26 avril 2020

Walter Flex dans Le Pèlerin entre Deux mondes

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Walter Flex dans Le Pèlerin entre Deux mondes

"Pour être chef de section, il n’y a pas besoin d’être stratège, dit l’un de nous. Faire son service de lieutenant, c’est montrer à mourir à ses hommes. Quiconque est un vrai gars, n’a guère qu’à apprendre un peu de métier".

citation-walter-flex.jpgCelui qui émettait cette opinion, le faisait en toute honnêteté, et il n’a pas attendu bien longtemps pour démontrer, dans la zone russe de la Pologne, la véracité de ses dires, mais sa façon malhabile et emportée de proférer inopinément et souvent à contretemps de grandes phrases, lui valait souvent, en dépit de sa probité, de n’être que la cible d’innocentes plaisanteries.

En cette circonstance aussi, ses mots tombèrent comme un pavé au milieu des bavardages. Quelques-uns sourirent. Mais Ernst Wurche ramassa, d’un doigt léger, le pavé qui, dans sa main, devint cristal : "Faire son service de lieutenant, cela veut dire : montrer à ses hommes à vivre, dit-il. Il arrive un jour où montrer à mourir n’en est qu’un élément. Montrer à mourir, nombreux sont ceux qui savent le faire, et le non dolet par lequel la dame romaine montra à son couard de mari combien mourir est bon et facile , est affaire d’homme si, plus encore, d’officier, mais montrer à vivre, reste quand même plus beau et c’est plus difficile. Vivre ­ensemble dans la tranchée fut pour nous, peut-être, la meilleure école, et personne ne deviendra sans doute un chef, qui ne le fut déjà là. » 

Walter Flex dans Le Pèlerin entre Deux mondes

Pour commander l'ouvrage: https://editions-ace.com/produit/le-pelerin-entre-deux-mondes-walter-flex/

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jeudi, 23 avril 2020

LA “CRITICA POSITIVA” DI DOMINIQUE VENNER: UNA RIFONDAZIONE NAZIONAL-RIVOLUZIONARIA?

LA “CRITICA POSITIVA” DI DOMINIQUE VENNER: UNA RIFONDAZIONE NAZIONAL-RIVOLUZIONARIA?

Il libro che ho postato sotto, "Per una critica positiva. Scritti di lotta per i militanti" (Passaggio al Bosco Edizioni, 2018, ed. orig. "Pour une critique positive. Écrit par un militant pour des militants", Éditions Ars Magna, 1997 ed Editions IDées, 2013), scrivono il dott. Nicolas Leoburg e il dott. Stéphane François, sarà fondamentale negli anni '60 sia per l'evoluzione della destra nazional-rivoluzionaria francese che per la genesi della Nouvelle Droite. Il libro in questione è stato scritto da Dominique Venner ed è un vero e proprio manuale del rivoluzionario di estrema destra: ancora oggi rappresenta per la galassia nazional-identitaria francese ed europea – e non è affatto un caso se pensiamo che la Nouvelle Droite leggerà da destra la figura di Antonio Gramsci, descritto come teorico dell'egemonia culturale, rilettura de-marxistizzata del suo pensiero, teorizzando il “gramscismo di destra” – l'equivalente del “Che fare?” di Lenin – e non casualmente anche Jean Thiriart si ispirerà al “centralismo democratico” marxista-leninista per organizzare il suo gruppo, Jeune Europe –.


Dominique Venner lo scrisse in carcere col preciso intento di offrire una strategia operativa ai tanti militanti francesi che credevano nella svolta nazionalista europea, scrivendo un’opera essenziale e completa, redatta con il linguaggio asciutto e diretto di chi si è formato nell’attivismo di strada e nella guerra d’Algeria, che influenzeranno tutto il radicalismo di destra francese e non[1].

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Venner ha un passato di milizia nel neofascismo francese di tutto rispetto. Figlio di un architetto fascista membro del Parti populaire français di Jacques Doriot, si arruola nel 1956 come volontario nei parà e resta segnato dall’esperienza della guerra d’Algeria. Al ritorno in patria milita in Jeune Nation e aderisce alla rete clandestina dell’Oas. Detenuto per 18 mesi nel braccio dei prigionieri politici della Santé, all’uscita dal carcere, nel 1962, scrive il suddetto pamphlet, testo basilare per tutta l’ultradestra nazionalista rivoluzionaria impegnata a passare risolutivamente dall’attivismo alla lotta rivoluzionaria sul piano legale: «Il lavoro rivoluzionario – scrive Venner – è un affare di lungo respiro che esige ordine nelle menti e negli atti. Di qui il bisogno di una teoria positiva di lotta ideologica. Una rivoluzione spontanea non esiste. […] L’unità rivoluzionaria è impossibile senza unità di dottrina».


I riferimenti venneriani sono netti e qualificanti: il richiamo alla disciplina e alla tenuta interiore, la centralità della formazione e della dottrina ideologica, l’urgenza di costruire un’organizzazione militante strutturata ed efficiente, la volontà di edificare una Comunità organica di popolo.

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Secondo Venner «Bisogna uscire dalla logica che ci vuole una piccola organizzazione e orientarci verso una struttura che corrisponda alla nostra vocazione di movimento ideologico. Una struttura diversificata e articolata, il cui ruolo sarà quello di una centrale ideologica, una struttura senza delimitazioni territoriali, i cui membri diffondano i nostri insegnamenti a seconda degli ambienti, delle capacità, dei rapporti con l'esterno».
Insomma, senza rendersene conto, Dominique Venner getta le basi per quella rivoluzione metapolitica che vedremo nel 1968, ovvero la nascita del GRECE : Groupement de Recherche et d'Etudes pour la Civilisation Européenne. Ma prima avremo la nascita, attorno all'omonimo periodico, del gruppo Europe-Action, creato nel gennaio 1963, che aggregherà i reduci dell’Oas, i giovani della Fédération des étudiants nationalistes, gli intellettuali collaborazionisti come Rebatet e molti giovani neofascisti da tutta Francia, come lo stesso giovane Alain de Benoist. l gruppo di Venner coltiva rapporti col movimento nazional-comunitarista Jeune Europe, diretto dal belga Jean Thiriart, non esaltando il nazionalismo statocentrico, ma il nazional-europeismo ispirato dall’esperienza delle Waffen-SS. L’obiettivo del gruppo è ambizioso: rinnovare la cultura della destra francese, liberandola dal proverbiale antintellettualismo e dal fardello della sconfitta nel 1945 e, soprattutto, dal patriottismo vetusto che esalta il vecchio Stato-nazione nato dalla Rivoluzione francese. Allo Stato-nazione, Europe-Action contrappone un nuovo tipo di nazionalismo etnico in cui lo Stato deve corrispondere al gruppo etnico dominante da inserire in una cornice federale ed europeista. Il discorso, mutuato da Jeune Europe – a cui però manca quella visione “trascendente”, diventando in effetti una sorta di “giacobinismo europeo” –, viene ripreso dalla Nouvelle Droite e dai gruppi etnonazionalisti identitari. I neofascisti di Europe-Action, guidati da Venner, sono razzisti, favorevoli alla preservazione dei particolarismi etnoculturali dei popoli europei dinnanzi al pericolo dei “barbari” del Terzo Mondo, specie dopo l’inizio della decolonizzazione, fenomeno che sta dando inizio all’immigrazione di tali popoli nelle metropoli europee, un razzismo biologico che risente del clima colonialista presente nella destra dell’epoca. «L’Europa è nel cuore il cui sangue batte a Johannesburg e nel Quebec, a Sydney e a Budapest, a bordo delle bianche caravelle e dei vascelli spaziali, su tutti mari e in tutti i deserti del mondo»[2]. Il crollo demografico occidentale, da contrapporre alla proliferazione dei popoli delle colonie, veniva affrontato con toni catastrofici:

«Da qui al 1990, la popolazione mondiale raddoppierà. […] La Cina, da sola, “partorisce” una Francia ogni tre anni e un’Urss ogni sedici. Al pericolo di una tale pressione demografica, aggravato dallo scatenamento di un razzismo antibianco, si aggiunge quella lenta invasione dei territori europei da parte delle popolazioni allogene. La Francia vede arrivare, ogni giorno, un migliaio di nordafricani e mille neri ogni mese. L’Inghilterra conta quasi un milione di abitanti di colore. La criminalità e l’insicurezza aumentano, come pure le malattie più perniciose. […] non si può non ricordare che Roma crollò non a causa degli assalti esterni, ma perché i barbari dalla pelle scura si erano installati nelle sue mura. Accadrà lo stesso per l’Occidente?»[3]

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La rifondazione e il riordinamento della gioventù nazionalista francese parte dalle tesi della «critica positiva» di Venner, e vengono esposte nel maggio 1963 in un numero speciale di «Europe-Action» dal titolo 'Qu’est que le nationalisme?', che si pone come una novità per il gruppo, che vedrà in modo diverso dagli altri gruppi di estrema destra il nazionalismo, il quale, pure con delle similitudini con quello europeista e “nazional-comunitarista” di Jeune Europe di Thiriart, è l’«espressione politica del pensiero occidentale, che intende creare le condizioni dello sviluppo materiale e spirituale dei popoli occidentali in stretta osservanza delle leggi della vita», che si forgia sull’idea di Europa, «comunità dei popoli bianchi» corrispondente a una «comunità di cultura, di spirito e di destino» capace di esprimere un senso di appartenenza che non ha radici nell’idea volontarista della Rivoluzione francese, ma in un nazionalismo etnico e comunitario che vada oltre lo Stato-nazione giacobino ed illuminista [4]. Ovvero oltre un nazionalismo imperiale ma non imperialista, privo di velleità espansionistiche e giacobine, desiderose di esportare un proprio modello politico-culturale al di fuori dell’Europa, ma, invece, particolarista e autarchico. Tutti temi presenti nel GRECE e nei circoli europei della Nuova destra, compresi quelli “dissidenti” (Synergies européennes e Terre et Peuple in primis). Insomma, “Pour une critique positive” permetterà il passaggio da un “vecchio” ad un muovo modo di situarsi a destra – e, successivamente, al di là destra destra e della sinistra – sia in campo militante che metapolitico.


Nel 1968 infatti, Venner sarà uno dei promotori dei «Groupes de recherches et d'études pour la civilisation européenne»: «Né partito politico, né cenacolo letterario, né società segreta, né l’ennesima incarnazione di un’inesistente “internazionale fascista”», scrive il politologo francese Jean Yves Camus,[5] questa «società di pensiero a vocazione intellettuale» (o «comunità di lavoro e di pensiero»)[6] da oltre quarant’anni ha fra i suoi teorici di punta il filosofo normanno Alain de Benoist e ha avuto, oltre a Dominique Venner, personalità come Pierre Vial, Jean Varenne, Jean Haudry, Guillaume Faye, Jean Mabire, Jean-Claude Valla, senza contare personalità esterne come l’italiano Marco Tarchi, il franco-tedesco Pierre Krebs, il belga Robert Steuckers, il tedesco Henning Eichberg, l'inglese Michael Walker, il fiammingo Luc Pauwels, gli austriaci Jürgen Hatzenbichler e Andreas Mölzer, il croato Tomislav Sunić, il romeno Bogdan Radulescu o lo svizzero Armin Mohler, per citare i più importanti teorici europei di questa corrente di pensiero rivoluzionario-conservatrice; Venner, sempre nel 1968, creerà l'Istituto di studi occidentale (IEO). Dedicatosi alla storiografia, vinse nel 1981 un premio dell'Académie française con un saggio sulla guerra civile russa che fece seguito alla rivoluzione d'ottobre. Esponente della Nouvelle droite francese, dopo aver diretto la rivista «Enquête sur l'histoire», fondò nel 2002 la rivista bimestrale di storia «La Nouvelle Revue d'Histoire», di cui tenne la direzione fino alla morte, nel 2013. Venner, infatti, si tolse la vita nella Cattedrale di Notre-Dame il 21 maggio 2013 con un colpo di pistola in bocca in segno di protesta contro la percepita progressiva scomparsa dei valori tradizionali di matrice europea. L'episodio dell'immolazione, in un luogo sacro già precedentemente all'avvento del cristianesimo, non sarebbe perciò dovuto esclusivamente all'introduzione nell'ordinamento francese del matrimonio omosessuale, la Legge Taubira, come inizialmente ipotizzato, ma per una forte critica verso l'immigrazione e la cosiddetta “sostituzione etnica”, anche se, secondo fonti investigative, lo studioso identitario soffriva da tempo di una "malattia dolorosa" non meglio specificata. Nel biglietto d'addio Venner citerà le cause del suicidio:

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«Io mi do la morte al fine di risvegliare le coscienze assopite. Mi ribello contro la fatalità del destino. Insorgo contro i veleni dell’anima e contro gli invasivi desideri individuali che stanno distruggendo i nostri ancoraggi identitari, prima su tutti la famiglia, intimo fondamento della nostra civiltà millenaria. Mentre difendo l’identità di tutti i popoli a casa propria, mi ribello nel contempo contro il crimine che mira alla sostituzione dei nostri popoli.»

NOTE:

[1] Nel dicembre 1982, al congresso del Parti de force nouvelle, soggetto di estrema destra concorrente del Front national e del tutto simile all’ala rautiana del Msi, ispirato cioè alle tesi trasversaliste e “solidariste” della Nouvelle droite, Roland Hélié, membro dell’ufficio politico, inviterà i militanti alla rilettura del testo di Venner (Cfr. P.-A. Taguieff, La stratégie culturelle de la “Nouvelle Droite” en France (1968-1983), in R. Badinter (a cura di), Vous avez dit fascisme?, Paris, Arthaud-Montalba, 1984, pp. 13-52.
[2] J. Mabire, Notre nationalisme européen, «Europe-Action», luglio-agosto 1964, p. 13, cit. in A-M. Duranton-Crabol, Visages de la nouvelle droite. Le G.R.E.C.E. et son histoire, 1988, p. 27.
[3] P. D’Arribére, Sous-développés, sous-capables, in «Cahier d’Europe-Action» n°1, maggio 1964, quarta di copertina.
[4] D. Venner, Qu’est-ce que le nationalisme, in «Europe-Action» n°5, maggio 1963, p. 9.
[5]J.-Y. Camus, La Nouvelle droite: bilan provisoire d’une école de pensée, in «La Pensée» n° 345, gennaio-marzo 2006, p. 23.
[6] J.-C. Valla, Pour une renaissance culturelle, in Aa. Vv., Dix ans de combat culturel pour une renaissance, GRECE, Paris 1977, p. 61.

mardi, 21 avril 2020

Der größte Crash aller Zeiten: Deutschland am Scheideweg

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Torsten Groß:

Der größte Crash aller Zeiten: Deutschland am Scheideweg

Ex: https://kopp-report.de

Einer der klügsten Köpfe Deutschlands legt nach: Nach Der Draghi-Crash (2017), Wenn schwarze Schwäne Junge kriegen (2018) und Verzockte Freiheit (2019), allesamt Bestseller, hat der Ökonom und Risikomanager Markus Krall, ein neues, 300 Seiten starkes Buch mit dem Titel Die bürgerliche Revolution vorgelegt. Sein Untertitel ist Programm: »Wie wir unsere Freiheit und unsere Werte erhalten«.

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Im ersten Teil seines Buches zeigt Krall, der sich selbst als libertär einordnet, welche Entwicklungen die bürgerlich-freiheitliche Ordnung in Europa und Deutschland bedrohen. In komprimierter und auch für Laien verständlicher Form erläutert Krall die fatalen Folgen, die von der planwirtschaftlichen Geldpolitik der Notenbanken für Wachstum und Wohlstand unserer Gesellschaft ausgehen. Dieser vom Autor so bezeichnete »Geldsozialismus«, der zu Lasten der Leistungsträger geht und seinen sichtbarsten Ausdruck in den Nullzinsen der EZB finde, führe unweigerlich zum Kollaps des monetären Systems und der Marktwirtschaft. Die politische Klasse billige den Kurs der Zentralbanken, um mit immer neuen Schulden die kurzfristigen Konsumwünsche der Bürger zu befriedigen und Wählerstimmen zu maximieren. Die herrschenden Eliten seien nicht in der Lage, den Menschen durch Aufklärung und geistige Führung das langfristig Notwendige zu vermitteln. Den tieferen Grund für dieses Versagen sieht Krall in der adversen ökonomischen Selektion des politischen Personals, die den Aufstieg rückgratloser Opportunisten ohne intellektuelle Befähigung begünstige.

Der absehbare wirtschaftliche Zusammenbruch werde am Ende auch die Demokratie zerstören, ist sich Krall sicher, und führt als historisches Beispiel die Weimarer Republik an. Dieses Szenario werde begünstigt durch die Aushöhlung der Herrschaft des Rechts und die defizitär ausgestaltete Gewaltenteilung in Deutschland, was der Autor beispielhaft an der Institution des Bundesverfassungsgerichts und seiner Rechtsprechung festmacht. Letztlich versagten aber alle drei Gewalten – Exekutive, Legislative und Jurisdiktion – bei ihrer vom Grundgesetz vorgegebenen Aufgabe, die konstitutionelle Ordnung zu schützen und die Rechte der Bürger zu wahren.

Scharfe Kritik übt Krall an den Kirchen, die zu einem »Wurmfortsatz des Staates« verkommen seien und sich dem linken Zeitgeist angebiedert hätten. Ihre Funktionsträger schwiegen zum Konsumterror, zur Auflösung von Ehe und Familie, zu Pornographie und Abtreibung. Stattdessen beteilige man sich an der Abschaffung der freiheitlichen Ordnung, obwohl die ihr ideengeschichtliches Fundament gerade im christlichen Glauben finde. Die Folge, so Krall, sei »die tiefgreifendste Erosion des Glaubens in unserer Gesellschaft, die je stattgefunden hat«. Das Führungsversagen der Kirchenoberen schaffe ein geistiges Vakuum, das sowohl von scheinwissenschaftlicher Propaganda mit religiösem Wahrheitsanspruch wie der Klimahysterie als auch dem Islamismus gefüllt werde.

35446679._SY475_.jpgEbenfalls hart ins Gericht geht Krall mit den Medien, die ihrer Rolle als »vierte Gewalt« zur Kontrolle der Mächtigen nicht mehr gerecht würden. Stattdessen fungierten sie als ein Erziehungsinstrument im Interesse der herrschenden Eliten, was besonders im Haltungsjournalismus zum Ausdruck komme, der nicht mehr zwischen Nachricht und Meinung unterscheide. Ziel sei es, das Publikum im politisch korrekten Sinn umzuerziehen. Dazu gehöre es auch, die Sprache zu manipulieren, indem bestimmte Begriffe als »Unworte« aus dem Diskurs verbannt oder usurpiert und mit neuen Bedeutungen aufgeladen werden. Krall nennt dafür einige Beispiele im Buch. Darüber hinaus würden ganze Themenkomplexe und unliebsame Meinungen in der öffentlichen und medialen Diskussion verunglimpft. Eine besonders unrühmliche Rolle bei dem Versuch, die destruktive Politik der Regierenden zu rechtfertigen, spiele der öffentlich-rechtliche Rundfunk, den der Bürger als Opfer der Indoktrination auch noch mit Zwangsgebühren finanzieren müsse. Gleichzeitig werde das Internet als freier Informations- und Diskussionskanal für kritische Bürger durch immer schärfere Gesetze und Zensurmaßnahmen beschränkt. Als Beispiele führt Krall das Netzwerkdurchsetzungsgesetz und den auf EU-Ebene beschlossenen Upload-Filter an.

Als ideologische Grundlage für die gesellschaftlichen Verwerfungen, die den Fortbestand der bürgerlich-freiheitlichen Gesellschaftsordnung gefährden, identifiziert Markus Krall den Kulturmarxismus. In ihm manifestiere sich die Herausforderung des Sozialismus in der Gegenwart, der für die Unfreiheit des Menschen stehe. Seine Merkmale seien die Feindschaft gegen Ehe und Familie, die Ablehnung des Privateigentums, die Verneinung der Freiheitsrechte des Individuums, der Hass auf die Religion und insbesondere das Christentum sowie die Zerstörung von Kunst, Kultur und Musik. In allen seinen historischen Ausprägungen – einschließlich der des Nationalsozialismus – habe der Sozialismus stets zu Massenmord und Genozid geführt, weshalb diese Ideologie ein Todeskult sei, der die Vernichtung der Menschheit zum Ziel habe. Krall beschreibt die »weichen« Methoden, mit denen die Kulturmarxisten versuchen, die Macht schrittweise an sich zu reißen, um danach zu den viel brutaleren Mitteln des Staatssozialismus überzugehen.

Für den Autor ist klar: Die Gesellschaften des Westens stehen vor einem Kampf um die Freiheit, sowohl gegen die Kräfte des Kulturmarxismus als auch des salafistischen Islamismus, der eine Spielart der sozialistischen Menschenfeindlichkeit sei. Wie dieser Kampf ausgehen wird, hängt nach Meinung von Krall entscheidend davon ab, ob die Leistungsträger der Gesellschaft bereit und in der Lage sind, die freiheitliche Kraft der bürgerlichen Revolution zu revitalisieren. Es gehe um Freiheit oder Knechtschaft. Das sei der epochale und unausweichliche Konflikt, den es zu bestehen gelte.

Im zweiten Teil seines Buches zeigt Markus Krall auf, mit welchen Strategien und Methoden es dem Bürgertum gelingen kann, diesen Kampf zu gewinnen. Der nahende Zusammenbruch des Geldsystems biete dabei die Chance zu einer grundlegenden Erneuerung, sofern es gelinge, den Menschen zu verdeutlichen, dass der Crash nicht die Folge von Markt-, sondern von Staats- und Politikversagen sei. Ziel müsse eine »Republik der Freiheit« basierend auf Bildung und Leistung sein, die Marktwirtschaft, Eigentum, Ehe und Familie, Religion, Individualität und christlich-europäischer Kultur verpflichtet sei. Krall entwirft den 100-Tage-Plan einer neuen freiheitlichen Regierung, der die Reaktivierung der Selbstheilungskräfte des Marktes zum Ziel hat, um die Folgen der jahrzehntelangen Misswirtschaft rasch zu überwinden.

Dem schließt sich ein umfassendes Konzept für die Reform des Grundgesetzes an, das von allen freiheitsfeindlichen Elemente bereinigt werden müsse. Krall will für Deutschland eine Reform an Haupt und Gliedern, die nicht nur die Wirtschaft, sondern alle Politikfelder umfassen soll.

Der Autor beschränkt sich dabei nicht auf Allgemeinplätze, sondern legt seine Vorstellungen zur Neugestaltung unserer Verfassungsordnung sehr konkret dar. Einige der Programmpunkte dürften kontroverse Diskussionen auslösen, etwa die Forderungen nach einer Mindestqualifikation für Amtsträger der Exekutive, der Abschaffung des Länderfinanzausgleichs und einem Goldstandard. Oder der Gedanke, ein Wahlkönigtum anstelle des heutigen, von den Parteien ausgekungelten Bundespräsidenten zu konstituieren.

Mit Die bürgerliche Revolution hat Markus Krall einen provokanten Debattenbeitrag vorgelegt, der es bereits kurz nach seinem Erscheinen in die Spiegel-Bestsellerliste geschafft hat. Zu Recht. Ein empfehlenswertes Buch für alle freiheitlich denkenden Zeitgenossen, denen die Zukunft Deutschlands nicht gleichgültig ist!

Bestellinformationen:

» Markus Krall: Die bürgerliche Revolution, 300 Seiten, 22,00 Euro – hier bestellen!

Samstag, 18.04.2020

Tchernobyl, coronavirus: l'Etat face à la catastrophe

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Tchernobyl, coronavirus: l'Etat face à la catastrophe

Par Benoit Comte

La mini-série Chernobyl expose avec un réalisme certain les causes et les conséquences de l’explosion du réacteur n°4 de la Centrale nucléaire de Tchernobyl survenue le 26 avril 1986. Cependant, le visionnage récent de ces 5 épisodes nous a laissé perplexe.

En effet, cette production grand public, par les thèses qui y sont soutenues sur les responsabilités des uns et les actions des autres, nous révèle deux écueils majeurs de notre civilisation occidentale : l’un prend la forme d’un impensé quand l’autre n’est que l’expression d’un inconscient des plus naïfs.

Nous ne ferons donc aucune considération esthétique sur l’œuvre elle-même et ne révélerons pas les rebondissements de l’intrigue, mais développerons quelques remarques qui entrent en résonance particulière avec la crise sanitaire actuelle causée par la pandémie de maladie à coronavirus.

 1. L’origine du désastre

Financée par deux maisons de production américaine et anglaise, l’œuvre dont nous parlons offrait à l’anticommunisme primaire une belle occasion d’expression. Sans surprise, on assiste au procès du communisme en général et de la société soviétique en particulier, véritable « système du mensonge », incapable de se regarder en face pour ce qu’elle est vraiment ni de se remettre en cause, le népotisme prévalant sur toute autre logique. Ce jugement, bien qu’il recouvre une part de vérité, ne nous semble pas aller au cœur du problème, sachant qu’une constatation similaire pourrait être faite de nos brillantes institutions actuelles, françaises et européennes.

cherno.jpgNon, le fond du problème est ailleurs et nos sociétés libérales souffrent de la même faiblesse que le système soviétique, à savoir celle à laquelle toute société complexe, au sens que Joseph Tainter donne à ce terme dans L’Effondrement des sociétés complexes, doit faire face lorsqu’elle se retrouve confrontée à une crise de grande ampleur. De ce point de vue, les sociétés complexes sont vues comme des organisations de résolution de problèmes qui sont toutes invitées à trouver une solution à une équation insoluble : ces problèmes appellent des solutions de plus en plus coûteuses à mesure que la société se complexifie. Il s’agit là de la décroissance du rendement marginal, soit la diminution du rendement par unité supplémentaire d’investissement. C’est la loi d’airain du déclin civilisationnel…

Toutes les économies modernes hautement intégrées (et donc interdépendantes) sont ainsi confrontées aux mêmes défis et aux mêmes crises potentielles : c’est là le grand impensé de notre temps.

Et là où réside la différence, c’est que l’URSS, malgré tous ses travers, avait encore un état digne de ce nom qui n’obéissait pas uniquement à des motifs idéologiques ou à des logiques de marchés déterritorialisés. Pour gérer une crise de cette ampleur et, passés les premiers instants de déni, rappelons que l’URSS a quand même mobilisé plus de 600 000 personnes pendant plusieurs mois (plusieurs années pour certains d’entre eux), sacrifié des millions de tonnes de matériels militaires et civils et relocalisé les 115 000 personnes résidant dans un rayon de 30 km autour de la catastrophe nucléaire. Quel État occidental serait aujourd’hui capable de mener une telle politique de salut public ?

 2. La résistance s’organise

Revenons à la mini-série. Les « méchants » et les « tyrans » y sont incarnés par les membres de l’État-parti quand les « gentils » et les « résistants » se trouvent… chez les scientifiques ! Véritable force d’opposition au mensonge, ces êtres qui ont pour métier de rechercher la vérité dans un domaine précis auront évidemment la même attitude lorsqu’ils devront agir dans la sphère publique, au mépris des conséquences personnelles plus ou moins désagréables que leurs prises de position pourraient leur faire encourir.

Cette représentation naïve, bien évidemment fausse, nous révèle cette fois l’inconscient qui sous-tend notre civilisation occidentale : la société n’y est plus conçue que comme un système technologique dont la réponse aux questions qui se posent n’a plus à faire débat, mais nécessite la consultation d’un expert dont on exécutera les recommandations. C’est bien évidemment le scientifique, ce héros des temps modernes, qui représente dans notre inconscient l’archétype de l’homme soucieux de vérité à qui l’on devrait se référer, plutôt qu’aux passions des foules et aux décisions impétueuses d’une caste politicienne plus intéressée à sa propre quête de pouvoir qu’à l’intérêt général. La réalité historique était toute autre : l’URSS a produit un nombre important de scientifiques de très haut niveau dont la plupart étaient tout à fait alignés sur la politique du Parti.

Là encore, nous devons prendre du recul. Comme toute la philosophie politique nous l’a enseigné depuis l’Antiquité, le but le plus élevé qu’une collectivité politiquement instituée puisse atteindre est justement de s’assigner une fin commune, considérée comme un bien et poursuivie en tant que telle par une communauté de destin. Cette leçon, récemment rappelée par un Castoriadis en France ou les penseurs communautariens aux États-Unis, s’est depuis noyée dans les « eaux glacées » de la gouvernance, du management et de l’ingénierie sociale.

La question de la finalité politique n’existe plus, seule la roue incessante des problèmes immédiats à résoudre continue à tourner, indéfiniment…

 3. Et maintenant ?

Nous vivons dans une société complexe qui a été bâtie par l’action conjointe de l’État et du marché, chacune ayant leur logique propre. La première de ces deux entités n’étant plus que l’ombre d’elle-même, comment la prochaine crise de grande ampleur sera-t-elle traversée et quelles en seront les répercussions ?

Pierre Legendre, dans son Fantômes de l’État en France, fait la généalogie de cette institution de pouvoir central et nous aide à en comprendre le dépérissement. Dans notre pays, l’idée nationale est inséparable de la forme étatique et la vitalité du lien social en est grandement tributaire.

Acculé qu’il est par les assauts du management, ce « montage fiduciaire » multiséculaire est au plus mal et l’on peut réellement s’interroger, avec inquiétude, sur la façon dont la crise sanitaire actuelle sera traversée. En ressortirons-nous vainqueur ou plutôt fragilisé, voire vaincu ? Sommes-nous en train d’assister à l’instant de vérité d’un système à bout de souffle ?

Affronter un défi de la taille d’une pandémie mondiale nécessite des ressources matérielles considérables du fait de la nature du système économique dans lequel nous évoluons, et une foi dans les capacités d’action administratives de l’État, expressions concrètes du pouvoir. L’on aura compris que ces deux dimensions sont aujourd’hui particulièrement fragilisées.

Avec un peu de provocation et un brin de malice, on pourrait même se demander si l’amateurisme de nos gouvernants ne réussirait pas l’exploit de nous faire regretter un état fort et autoritaire, tel celui commandé par les soviétiques, au moins capable d’actions effectives en temps de crise…

samedi, 18 avril 2020

Littératures et nationalités de combat

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Littératures et nationalités de combat

Par Pieter Jan Verstraete

Jelle Krol, Frison de cœur et de tripes, collaborateur au « Tresoor », a passé récemment une thèse de doctorat, qui est remarquable, et sur laquelle je souhaite attirer l’attention de mes lecteurs. Le « Tresoor » à Leeuwarden, capitale de la Frise néerlandaise, est, dans une certaine mesure, l’équivalent de la Maison des Lettres AMVC en Flandre.

L’objectif premier de la thèse de Krol est de situer les littératures produites par les minorités ethno-linguistiques dans la période qui a immédiatement suivi la première guerre mondiale et qui ont été exprimées par des écrivains qui se posaient comme les dirigeants politiques de minorités linguistiques auxquels ils s’identifiaient. Il aborde des auteurs tels Douwe Kalma (1896-1953), Frison, Saunders Lewis (1893-1985), Gallois, Hugh MacDiarmid (1892-1978), Ecossais, et Roparz Hemon (1900-1978), Breton.

Avant-Garde

Pendant la première guerre mondiale, le Président américain Woodrow Wilson avait annoncé que des nations sans langue jusqu’alors officielle allaient recevoir l’autonomie. Après la guerre, la carte de l’Europe avait pris un tout autre aspect. Si on la compare à celle d’avant 1914, on constate que le nombre d’Etats souverains avait augmenté d’environ un tiers. Des langues qui, auparavant, n’avaient aucun statut, sont devenues en 1918, des langues d’Etat, comme notamment le Polonais et le Slovaque. L’Islande avait obtenu un plus grand degré d’indépendance et l’Irlande (moins l’Irlande du Nord) était devenue une république indépendante.

Conséquence du débat public sur l’auto-détermination des minorités ethno-nationales, les sentiments propres au nationalisme culturel se sont intensifiés pendant l’entre-deux-guerres. Ces sentiments se sont exprimés tant et si bien que de jeunes écrivains d’avant-garde, partout en Europe, surent capter l’attention des lecteurs et des auteurs de langues majoritaires pour les littératures des langues minoritaires et, par suite, de créer de la sorte un espace plus indépendant pour leur propre littérature. Ces écrivains d’avant-garde se percevaient comme les leaders d’une nouvelle vague, au seuil de temps nouveaux. En tant que disciple de la spécialiste française ès-littératures comparées, Pascale Casanova, Jelle Krol pose ces littératures des langues minoritaires comme des « littératures de combat ».

Avec acribie, Krol explore la vie et l’œuvre des quatre auteurs ethno-nationalistes mentionnés ci-dessus, sans perdre de vue le contexte politique, socio-économique et religieux de leurs régions respectives. Les auteurs sélectionnés par Krol sont des contemporains, tous nés dans la dernière décennie du 19ème siècle. Il les décrit comme des littérateurs de premier plan, qui ont vigoureusement stimulé l’usage de leurs langues (le frison, le gallois, le breton et l’écossais), en démontrant qu’elles pouvaient exprimer des valeurs intellectuelles et culturelles de haut niveau. On les comparera à nos flamingants d’avant la première guerre mondiale qui ont su prouver à leurs détracteurs que la langue néerlandaise était aussi une langue scientifique (notamment dans le cadre de la lutte pour faire ouvrir une université de langue néerlandaise).

L’idée de la Grande Frise

KALMA.jpgDouwe Kalma opposait l’idée d’une Grande Frise à celle d’une Grande Néerlande, en exprimant de la sorte les liens, qu’il ressentait comme réels et charnels, entre les Frisons des Pays-Bas et ceux de Frise septentrionale et de Frise orientale qui vivaient sous les administrations allemande et danoise. Simultanément, il plaidait pour une Grande Frise qui aurait eu pour fonction de faire pont entre la Scandinavie et l’Angleterre, afin de lier des peuples qui, selon lui, étaient très proches depuis longtemps et qui présentaient certaines affinités mentales. Pour pouvoir donner forme à cette fonction de pont, la Frise, selon Kalma, devait réclamer une plus grande autonomie ; il fallait, pour cela, que ses compatriotes soient culturellement structurés.

Inspirés par la lutte pour l’indépendance irlandaise, Saunders Lewis et Hugh MacDiarmid insistaient sur la nécessité de promouvoir des changements politiques et des réformes culturelles, notamment au niveau de l’enseignement. En 1925, Lewis participe à la fondation du « Plaid Genedlaethol Cymru » (le Parti National du Pays de Galles) ; en 1928, MacDiarmid devint l’un des fondateurs du « National Party of Scotland ».

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Saunders Lewis.

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Hugh MacDiarmid.

Roparz Hemon, au contraire, pensait qu’une Bretagne plus autonome ne pourrait être concrétisée que si les Bretons se donnaient la peine de parler la langue bretonne, au-delà des cercles familiaux et religieux. Il croyait surtout que si la Bretagne devenait davantage bretonne sur les plans de la langue et de la culture, elle finirait par acquérir tout naturellement une plus large indépendance.

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Roparz Hemon.

En langue anglaise

Chacun de ces quatre auteurs, dans sa propre sphère linguistique, s’est avéré comme critique radical, qui exigeait une plus ample reconnaissance de sa langue. En même temps, ils incitaient leurs collègues écrivains à créer une littérature de haut niveau dans leurs langues minoritaires. Leur attitude combattive pourrait s’expliquer par leurs sentiments meurtris qui les auraient conduits à une ferme détermination : celle de se consacrer entièrement à leur mission. Chez ces quatre hommes, la minimisation ou, parfois, le mépris à l’endroit de la langue de leurs parents et de leurs ancêtres, ont constitué, consciemment ou inconsciemment, l’élément moteur de leur engagement.

Ils se posaient comme des dirigeants appelés à parfaire une mission. Indépendamment les uns des autres, ces quatre écrivains ont formulé plus ou moins le même objectif : ils voulaient que l’on déplace le foyer nodal de la civilisation des centres du pouvoir vers les périphéries. Ils avaient tous quatre conscience que le chemin vers ce noble but serait parsemé d’embûches et de défis. Leurs langues étaient toutefois davantage associées à la tradition et à la simplicité plutôt qu’à l’innovation et à la modernité.

Finalement, ces quatre écrivains étaient tous convaincus que leur langue et leur culture pouvaient jouer un rôle significatif dans l’après-guerre de 1918, non seulement dans leurs environnement réduit mais aussi  à un niveau plus vaste, sur le plan international. Ils ont réussi à donner plus de respectabilité à leur littérature. Ces quatre militants linguistes plaidaient aussi pour une large autonomie culturelle, pour le maintien de leur identité et pour une autonomie de leurs régions.

J’ai esquissé ici les lignes de force de la thèse du Dr. Jelle Krol. Cette thèse recèle toutefois un grand désavantage : elle est écrite en anglais (avec seulement un résumé en néerlandais à la fin). C’est devenu la règle dans les universités aux Pays-Bas.

Hélas, cette tendance à l’anglicisation devient aussi de plus en plus fréquente dans les universités flamandes. Je ne sais pas si cette thèse paraîtra un jour en néerlandais, en frison, en gallois, en écossais ou en breton. Quoi qu’il en soit, elle constitue un solide dossier, fourmillant de points de vue originaux, qui devraient intéresser nos lecteurs.

Pieter Jan Verstraete.

(ex : ‘t Pallieterke, 20 septembre 2018).

Jelle Krol, « Combative Minority Literature Writers in the Aftermath of the Great War », Groningen, Rijksuniversiteit Groningen, 2018. 408 pages, ISBN-978-94-60016-51-6.

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mercredi, 01 avril 2020

Hirô Onoda: Patriotisme total

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Hirô Onoda: Patriotisme total

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www.europemaxima.com

Le 16 janvier 2014 s’éteignait à Tokyo à l’âge respectable de 91 ans Hirô Onoda. Il fut certainement l’ultime porteur des principes fondateurs de l’esprit samouraï, le dernier Japonais à avoir sacrifié sa vie pour la grande idée impériale.

Le Lys noir de feu Rodolphe Crevelle en date du 21 juin 2012 présentait cet incontestable héros contemporain. Le titre du texte claquait tel un défi lancé à la moraline ambiante : « Comment gagner une guerre mondiale quand on est seul… » Hirô Onoda appartient à ces conscrits nippons qui, faute de moyens de transmission appropriés, ignorèrent la défaite de leur pays en 1945 et continuèrent à combattre sur des îles, plus ou moins isolées, de l’aire Asie – Pacifique.

ddec8b10a614ec28fd1a4c696aa7df5d.jpgJeune lieutenant à la fin du conflit, Hirô Onoda rejoint l’île occidentale de Lubang aux Philippines. Instruit auparavant dans une école de guérilla à Futamata, il reçoit des ordres explicites : 1) ne jamais se donner la mort, 2) désorganiser au mieux l’arrière des lignes ennemies une fois que l’armée impériale se sera retirée, 3) tout observer dans l’attente d’un prochain débarquement japonais.

Ce pratiquant de kendô de 22 ans prend très à cœur sa mission. Il s’exaspère en revanche du piètre état physique et moral de ses compatriotes sur place. « Je me retrouvais là sans aucun pouvoir, avec des troupes désordonnées dont aucun soldat ne comprenait rien aux bases de la guérilla que nous aurions à mener sous peu (p. 90). » Son enthousiasme martial contraste avec le défaitisme latent des plus anciens.

Hirô Onoda et trois autres militaires commencent leurs raids dès que les Yankees investissent Lubang. Si l’un d’eux finit par faire défection et se rend, ses trois compagnons de guerre persistent à lutter. Ils restent fidèles au « serment de continuer le combat. C’était le début du mois d’avril 1946 et nous constituions la seule force japonaise de résistance présente à Lubang (p. 120) ». Pendant vingt-neuf ans, Hirô Onoda mène ainsi une vie de camouflage, une existence furtive, sur le qui-vive, une survie permanente. La prouesse est remarquable. À son arrivée, sa « première impression de Lubang fut que c’était un terrain difficile pour y mettre en œuvre la guérilla (p. 74) ».

Hirô Onoda voit successivement ses deux derniers frères d’armes tombés au combat face aux Étatsuniens, à la police locale ou à des habitants de plus en plus téméraires. Les autorités de Manille et de Tokyo emploient divers moyens pour leur faire comprendre la fin des hostilités. Sans succès. « Nous ne pouvions pas nous résoudre à croire que la guerre était finie. Nous pensions que l’ennemi forçait des prisonniers à participer à leur supercherie (p. 117). » Malgré les tracts parachutés dans la jungle, les journaux nippons laissés volontairement bien en évidence près des sentiers et même des émissions radio écoutées grâce à un transistor volé, aucun ne consent à déposer les armes. « Nous avions juré que nous résisterions aux démons américains et anglais jusqu’à la mort du dernier d’entre nous (p. 177). » Pourquoi ? Parce qu’« il était de notre devoir de tenir le coup jusqu’à ce que la Sphère de coprospérité de la Grande Asie orientale soit solidement établie (pp. 168 – 169) ».

ab0cf960a730e775cb2fd4c97eecfe99.jpgModèle d’abnégation patriotique totale, bel exemple d’impersonnalité active, Hirô Onoda est alors certain qu’en cas d’invasion du Japon, « les femmes et les enfants se battraient avec des bâtons en bambou, tuant un maximum de soldats avant de mourir. En temps de guerre, les journaux martelaient cette résolution avec les mots les plus forts possibles : “ Combattez jusqu’au dernier souffle ! ”, “ Il faut protéger l’Empire à tout prix ! ”, “ Cent millions de morts pour le Japon ! ” (pp. 177 – 178) ». Ce n’est que le 9 mars 1974 que le lieutenant Onoda arrête sa guerre dans des circonstances qu’il reviendra au lecteur de découvrir.

Devenu éleveur de bétail au Brésil où vit depuis le XIXe siècle une forte communauté japonaise, Hirô Onoda retourne ensuite au Japon pour enseigner aux jeunes déformés par le monde moderne les techniques morales et pratiques de survie. Il ne se renia jamais. Préfacier et traducteur d’Au nom du Japon (La manufacture de livres, 2020, 317 p., 20,90 €), le Tokyoïte Sébastien Raizer qualifie ce livre de « récit hors du commun [… qui] se lit comme la plus haletante des aventures humaines (p. 7) ».

Un « bo-bo » du XIVe arrondissement de Paris ou du Lubéron y verra sûrement le témoignage d’un fanatisme ardent. Il ne comprendra pas qu’Au nom du Japon est avant tout une formidable leçon de volonté, de courage, de fidélité et d’honneur. Un très grand ouvrage !

Georges Feltin-Tracol

• « Chronique hebdomadaire du Village planétaire », n° 166.

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The Expulsion of the Moriscos: Matthew Carr’s Blood & Faith

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The Expulsion of the Moriscos:
Matthew Carr’s Blood & Faith

610IWMl7uaL._SX323_BO1,204,203,200_.jpgMatthew Carr
Blood and Faith: The Purging of Muslim Spain
New York: New Press, 2009

There is something about the Spain of centuries past that is so dreadfully modern. One situation was the presence of large numbers of Muslim Moors after the conquest of Granada in 1492. The Moorish community arrived in Spain during the Islamic conquest of Iberia which started in 711 AD.

The Islamic conquest of Spain is unique in that a less advanced civilization conquered a more advanced one. It is also unique in that the conquerors came from the south of the conquered. The Romans were situated south of many of their conquests, but they were a very advanced civilization indeed and Rome itself is pretty far north — 41 degrees Latitude.

The Moorish conquest occurred prior to the revolution in military affairs caused by gunpowder. In that situation, “barbarians,” be it Mongols, Vikings, or Arabs armed with swords and spears could use what the US Army calls “the characteristics of the offense.” Simply put: surprise, concentration, audacity, and tempo to take over. In other words, you get a bunch of healthy and armed young men and attack some place just before dawn.

While there is much talk of an “Islamic Golden Age” as well as the appearance of “science” going on in Moorish Cordoba, it is clear from the historical record of the Reconquista that the Spanish recovered their balance and started to become economically and militarily dominant over the Moors rather quickly because they were a superior civilization in all respects. The “Islamic Golden Age” is probably a fiction invented by historians with no experience with Muslims or Islamic society while having an anti-Catholic or anti-Spanish bias. By the late Middle Ages, there is a sense that a final Spanish victory in Iberia was only a matter of time.

The last Moorish stronghold at Granada fell in 1492. The final battle was not a straight-up, blood-soaked military conquest; the last Moorish chieftain Boabdil turned over the keys to the city to Ferdinand and Isabella when it became clear that further Islamic resistance was futile. While Ferdinand and Isabella had advisors that wished to immediately extirpate Islam from Spain, Royal policy became one of toleration — at least in the short term.

Granada and its surrounding area was an extension of North Africa. The streets in the towns were narrow and mosques abounded. The villages in the hinterland of Granada were also populated by Moors. A large Moorish population also lived around Valencia, on the east coast of Spain. After the fall of Granada, the Moors remaining in Iberia became known as Moriscos, i.e. “little Moors.” Castilian settlers slowly moved into Granada and its surrounding region.

The Morisco Wars

Carr catalogs the sharp problems between the Moriscos and the native Iberian Spanish. Indeed, the Moriscos and Iberians lived in parallel societies. The Moriscos revolted in Granada in 1500. Although there were some setbacks, the Spanish military crushed the revolt and the Muslims in Granada were officially converted in 1501.

Meanwhile, in Valencia, there was a large population of Moriscos who worked on the estates of the landed Spanish gentry. Moriscos were protected by the Spanish wealthy, who felt that they couldn’t manage without cheap Morisco labor. The parallels of this situation to non-white, illegal immigration today with regards to the wealthy are obvious. The region was also plagued with crime. In 1521, native Iberian Spaniards revolted. Estates were burned and the Morisco population was converted or put to the sword. The Spanish establishment regained control by 1522, but the situation had changed. Valencia’s Moriscos were “Christians,” but suspicion and racial tensions remained.

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The ugliest war started in the village of Cadiar on Christmas Eve in 1568. Moriscos from the village murdered Spanish soldiers garrisoned in the town in their beds. The revolt spread to Granada and the rest of the Alpujarras Mountain Range. The Christians managed to hold Granada and the Spanish military eventually suppressed the rebellion. The fighting was vicious, not unlike the ugly, no-holds-barred fighting in Bosnia in the early 1990s.

The parallels of this situation were also like that of the non-white problems in the United States starting with the “civil rights” disorders from the 1960s. Like America, being at the height of its power and dealing with an existential threat from the Soviet Union in LBJ’s time, Spain was at the height of its power and dealing with an existential threat in the Mediterranean from the Ottoman Empire. In the same way many in the US viewed black rioting as part of a greater Communist conspiracy, so too did many Spaniards view Moriscos as a potentially subversive force. There is considerable evidence to show that “civil rights” was supported to a degree by Communists in the 1960s, and even more evidence between the lines in Blood and Faith that show Moriscos were helping out North African corsairs and other Muslims in various ways; although not all the time by all the Moriscos.

Civic Nationalism & Limpieza de Sangre

Spanish policy towards its non-native Iberian Moorish and Jewish populations was dual-natured. On the one hand, the Spanish government used the Roman Catholic Church as a vector for civic nationalism. As long as a Jew or Morisco converted, these populations could be considered loyal Spanish citizens. However, the magic of civic nationalism never really took. The Jewish situation is well known, but the Morisco situation needs further explanation. Pastoral care for Moriscos was something of a boondoggle. If a priest showed up at all, they often took the money and did little for the community. Moriscos also never fully converted. After the fall of Granada, Islamic scholars urged Moriscos to practice taqiyya, a form of deception allowed under Islamic law if a Muslim community was under threat. The Spanish were never able to really trust the converted Moriscos.

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Again, the parallels to non-whites in modern America and modern Europe abound. Like black football players kneeling during the national anthem, Moriscos with blank faces at mass represented a rejection of the rituals of civic nationalism. Identity issues also bubbled up regarding Morisco clothing. Morisco women wearing a veil and Morisco men wearing a turban were perceived to be carrying out a hostile act. (Much like the perception of hijab wearers in Yorkshire or Paris today by modern Europeans.) Even funeral practices caused controversy. If the dead were washed and buried in a Muslim way, community tensions and suspicions arose. Moriscos spoke Spanish with a different accent from the native Iberians, but not in all places or at all times.

Eventually, it became clear to the Spanish intellectual and political elite that a policy of Limpieza de Sangre (purity of blood) was the only way to deal with the Morisco problem. That is to say, citizenship became based on racial relatedness rather than belief in an ideology. Proposals for expelling the Moriscos first came up in 1492, but it took until 1609 for any action to be taken. There were all sorts of sticking points: the wealthy wanted pliable Third World workers, and many in the Catholic hierarchy genuinely cared about the immortal souls of the Moriscos. Some felt that the Moriscos would empower the Islamic World if they were sent to North Africa. Eventually, the problems with the Ottoman Turks, the Islamic corsairs, fear of demographic eclipse, and years of metapolitical activism by patriotic native Iberian Spanish monks, friars, and intellectuals combined to bring about expulsion.

The affair started in Valencia and then other regions of Spain carried out their own expulsions. Some Moriscos were able to sell their property and make new lives in their ancestral North Africa. Some Moriscos were impoverished by the expulsion. It is certain that a few Moriscos were robbed and murdered by unscrupulous sailors or soldiers charged with evacuating them. This was not Spanish policy, though; those caught doing such deeds were arrested and often hanged. A few Moriscos returned to a different region of Spain from where they were expelled and blended in as though they were native Iberians.

Several items stick out:

  1. Civic nationalism through Roman Catholicism failed to work in part because the Moriscos deliberately rejected the idea and antagonized the Spanish when they clearly failed to perform civic nationalist rituals.
  2. The Spanish paid an economic price when expelling the Moors. In particular, the economy of Valencia experienced a setback. One pays to sustain the burden of vibrant diversity and one pays even more to remove vibrant diversity.
  3. Regardless, the real economic shock to the Spanish Empire was the Spanish inability to engage in complex commercial activities. The Spanish wars with the Dutch and English contributed to Spanish Imperial decline, not the removal of the Moriscos. This book implies that the removal of the Moriscos was a major factor — I disagree.
  4. In light of Rotherham grooming gangs, Salafi Jihadist terrorism, ISIS, and street crime observed today, one can easily infer that Moriscos were less than stellar citizens. There really were Barbary corsairs colluding with Moriscos to capture Christian slaves. Had the Moriscos remained in Spain, there would have been another Morisco War sometime in the mid-1600s.

On a final note, albeit from an outsider’s perspective, it is unfortunate that the tension in Spain between the civic nationalism of the Roman Catholic Church and the Inquisition versus the concept of Limpieza de Sangre was never reconciled by separating the two concepts. For many Spaniards, their nationality became defined by their Roman Catholicism. Spain became a proposition nation based around an ideology when it didn’t need to be. As a result, Spanish society had a far more difficult time absorbing ideas that clashed with Catholicism than other European groups such as the English or French. This helped contribute to cultural stagnation and the rise of an anti-clerical faction in Spanish culture that was a toxic mixture of Jacobin leftism and solid logical reasoning. This problem contributed to Spain’s appalling and tragic civil war of the 1930s.

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Matthew Carr, Blood and Faith’s author, is hostile to Spain’s expulsion of the Moriscos as well as Europe’s increasing anti-Islam stances today. However, this book is very interesting. Indeed, Mr. Carr should have the final word:

If some contemporary “Islamic threat” narratives echo medieval anti-Islamic polemics in their depictions of Islam as an inherently aggressive “religion of the sword,” the construction of the contemporary Muslim enemy often fuses culture, religion, and politics in ways that would not be entirely unfamiliar to a visitor from Hapsburg Spain. Just as sixteenth-century Spanish officials regarded the Moriscos as “domestic enemies” with links to the Barbary corsairs and the Ottomans, so journalists and “terrorism experts” increasingly depict Europe’s Muslims as an “enemy within” with links to terrorism and enemies beyond Europe’s borders. Just as inquisitors regarded Morisco communities as inscrutable bastions of covert Mohammedanism and sedition, so some of these commenters depict a continent pockmarked with hostile Muslim enclaves, “Londonistans,” and no-go areas that lie entirely outside the vigilance and control of the state, in which the sight of a beard, a shalwar kameez (unisex pajamalike outfit), or a niqab (veil) is evidence of cultural incompatibility or refusal to integrate.”

Article printed from Counter-Currents Publishing: https://www.counter-currents.com

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jeudi, 26 mars 2020

L’esprit de droite

Il existe probablement autant de définitions du concept de droite qu’il existe de personnes s’en revendiquant. Tous ont leur propre opinion sur ce que signifie être de droite, ce qui ultimement, mène à une division de la droite que la gauche ne semble pas connaître. L’indépendance d’esprit est certes une qualité, et il faut rejeter le rigorisme propre au camp de la gauche, mais celle-ci ne devrait pas nuire à une certaine forme d’unité.

Pour parvenir à rallier la droite sous une même bannière, le jeune Louis Le Carpentier, auteur sérieux qui nous a déjà gratifiés de quelques ouvrages chez Reconquista Press, vient de produire L’esprit de droite.

D’abord, il définit la droite comme étant animée par trois grandes idées phares, soit les « valeurs familiales », l’« esprit d’entreprise » et l’« identité nationale ». Ce sont là pour lui les trois impondérables qui définissent la pensée de droite, « radicalement – c’est-à-dire dans sa racine -, conservatrice, entreprenaliste, et nationaliste ». Les divisions actuelles proviennent quant à lui du fait que certains courants mettent davantage l’emphase sur une de ces valeurs, au détriment des deux autres.

Dans son court ouvrage, facile à lire et à digérer, Le Carpentier nous offre un portrait de l’homme de droite. En fait, à bien le lire, ce n’est pas tant une description de ce qu’est l’homme de droite, mais de ce qu’il devrait être. Il nous propose ainsi un guide du « comment être un homme de droite conséquent » ou même simplement « comment être un homme d’honneur dans ce monde sans honneur ».

Il préconise, à l’instar de Dominique Venner, le stoïcisme comme façon d’être. Du côté des valeurs, il met en avant la vertu, le respect de la hiérarchie, la liberté, mais assujettie aux devoirs, car ceux-ci l’emportent sur les droits. On le comprend, ce que Louis Le Carpentier nous exhorte de faire, c’est de devenir des paladins modernes, des chevaliers, preux et sans reproches.

En fin d’ouvrage, il nous présente aussi brièvement un court traité philosophique – qui tranche avec la lourdeur habituelle des travaux de ce genre – qui permet de démonter en quelques pages les sophismes de la démocratie et du progressisme. On ressent bien l’influence thomiste de ce penseur pour qui le bien commun prime tout.

Seulement, peut-être parce que je ne me suis jamais qualifié de droite et que ce n’est pas là une position stratégique ou esthétique, quelques points me semblent pour le moins discutables. À mes yeux, son attachement à l’impérialisme, au colonialisme et à la libre entreprise me semble non seulement dépassé, mais aussi non-désirable en soi. Par exemple, le colonialisme a toujours mené à des catastrophes, car la démographie l’a toujours emporté sur les autres considérations comme le pouvoir politique. De même, la libre entreprise n’est pas le modèle le plus humain de concevoir l’économie, de nombreuses alternatives, comme la gestion de l’offre notamment ou les coopératives, existent, il faut simplement s’y intéresser.

Malgré ces critiques, il n’en demeure pas moins que cet ouvrage tombe à point nommé. Avec le confinement, nous sommes seuls avec nous-mêmes et justement, Louis Le Carpentier nous offre, tel un philosophe brandissant un miroir, une occasion unique d’introspection, car avant de changer le monde, il faut d’abord être en mesure de se changer soi-même.

Louis Le Carpentier, L’esprit de droite, Reconquista Press, 2020.

mardi, 24 mars 2020

Interview de Monsieur K à l'occasion de la réédition de "Révolte contre le monde moderne" de Julius Evola

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Interview de Monsieur K

à l'occasion de la réédition de "Révolte contre le monde moderne" de Julius Evola

 
L’équipe d’E&R Lille recevait Monsieur K le 21 décembre 2019 pour une présentation du livre de Julius EVOLA « RÉVOLTE CONTRE LE MONDE MODERNE », et a profité de sa présence pour lui poser quelques questions diverses et variées.
 

vendredi, 20 mars 2020

Fuir le monde, Lipovetsky et le néant

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Fuir le monde, Lipovetsky et le néant

par Olivier Pascault

Ex: https://latelierduserpentvert.blogspot.com

            Gilles Lipovetsky, sociologue français à la mode à la fin des années 1980, a associé son nom à l'exploration de la notion d'Individu comme « atome irréductible » de l'âge démocratique. Après avoir pointé l'individualisme de la société « postmoderne », Lipovetsky voit venir le temps de « l'hyperliberté » et de «  l'hyperanxiété » ; il demeure pour autant optimiste.

            9782070325139-475x500-1.jpgLa parution de L'Ere du vide, en 1983, fit grand bruit. Gilles Lipovetsky apparaissait comme un observateur de la société postmoderne, celle qui voyait simultanément l'écroulement des grandes idéologies et le développement de l'individualisme. Ce livre marquait l'entrée en scène tonitruante d'un « Narcisse cool et affranchi ».

            S’il y eut le « moderne » et le « postmoderne », les temps sont aujourd'hui hypermodernes. Tel est le diagnostic de Gilles Lipovetsky, capable d'analyser le luxe et le féminin et d'en tirer une radiographie sociologique de toute une époque. L'idéologie du progrès propre à la modernité n’est plus d'actualité ; or, la revendication hédoniste de la postmodernité, (années 60-80) est, elle aussi, caduque. Survient donc l'hypermodernité.

            Dans Les Temps hypermodernes, tout semble aspiré par l'urgence et la profusion : libéralisme économique, fluidité médiatique, hyperconsommation… mais aussi les paradoxes. Nous vivons l'instant, mais on s'inquiète du futur. Nous subissons les médias, mais on filtre leurs messages. Nous désertons la politique, mais on s'investit dans le bénévolat. Pour Lipovetsky, la vitalité démocratique est toujours à l’œuvre. Les grands systèmes agonisent, dès lors, quand l'individu est toujours empli de ressources. Malheureusement, le constat ne débouche sur aucune proposition concrète. Une sociologie hypermoderne ? Un pet de vent intellectuel ?

            9782253083818-001-T.jpegL’existence dans l’hypermodernité expose un versant refoulé dans excès et une dualité, où la frivolité masque une profonde anxiété existentielle collective. De là naît un rapport crispé sur le présent, lequel triomphe dans le règne de l'émotivité angoissée. L'effondrement des traditions est alors vécu sur le mode de l'inquiétude et non sur la conquête de libertés individuelles et collectives. L'hypermodernité, pour Lipovetsky, tient également lieu de chance à saisir, celle d'une responsabilisation renouvelée du sujet.

            Cet essai est composé de trois parties. Le texte de Gilles Lipovetsky est précédé par une introduction signée du philosophe Sébastien Charles, suivi par des entretiens sur son parcours intellectuel. Cet ensemble de textes reste bref mais dense et donne à la fois un résumé et une analyse de nos temps confus du marais intellectuel.

            Père de deux filles et toujours marié avec leur mère, il se réjouit des familles recomposées et des sexualités libérées. Il se vante de son goût favorable à la légalisation du cannabis mais se montre très hésitant sur une éventuelle loi sur le voile. « La conso (comprendre consommation ; Lipovetsky se veut moderne jusqu’au bout du clavier) des autres m'intéresse mais je vis facilement avec rien » … et il se dit philosophe et sociologue ! De la philosophie de comptoir ou plus sûrement de la sociologie de lounge !

            Lipovetsky se réjouissait de voir la nation, l'armée, l'Eglise jetées par-dessus bord pour faire sortir des flots capitalistes le démocrate radieux, droit-de-l'hommiste et consumériste. A regret, le « philosophe » doit bien admettre que l'affranchissement de l'individu génère autant d'angoisse que de créativité, même s'il peine toujours à reconnaître que l'homme libre est de plus en plus inégal et de moins en moins fraternel. En résumé, un auteur biberonné à la valve d'un oubli nécessaire pour qui veut progresser dans sa vie intellectuelle et personnelle…

Olivier Pascault

le 22 novembre 2010.

  • Gilles Lipovetsky [avec Sébastien Charles], Les Temps hypermodernes, Ed. Grasset, 2004, Paris, 186 pages (12 euros).

jeudi, 19 mars 2020

Origines du coronavirus: les États-Unis accusés, un roman fait fantasmer

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Origines du coronavirus: les États-Unis accusés, un roman fait fantasmer

Ex: http://www.france-irak-actualite.com

Revue de presse : Breizh-info (16/3/20)*

51VCA16J0BL._SX210_.jpgLa Chine accuse les États-Unis ! Nous avions déjà la crise sanitaire et la crise économique, voici peut-être une nouvelle crise diplomatique majeure puisqu’un porte-parole du ministère chinois des Affaires étrangères suggère que l’épidémie n’est pas nécessairement accidentelle…et qu’elle provient d’Amérique !

Le coronavirus est-il apparu aux Etats-Unis ?

Les Etats-Unis ont-ils sciemment développé et exporté le COVID-19 dans la province de Hebei et plus précisément dans la ville de Wuhan ? C’est en tous cas l’accusation exprimée dans un « tweet » par Zhao Lijian, un porte-parole du ministère chinois des Affaires étrangères.

Il soutient en fait la théorie disant que le virus n’est pas apparu initialement dans la province chinoise, comme les scientifiques –y compris chinois- le présumaient, mais au pays de l’Oncle Sam. En guise de preuve, il partage une vidéo prise au Congrès, à Washington DC, ou un spécialiste évoque des cas potentiels de coronavirus antérieurs à ceux de Wuhan.

Zhao Lijian surenchérit en se demandant entre autres si l’armée américaine avait importé le virus, exigeant également des explications de la part des autorités compétentes.

 Lijian Zhao 赵立坚

✔ @zlj517

2/2 CDC was caught on the spot. When did patient zero begin in US? How many people are infected? What are the names of the hospitals? It might be US army who brought the epidemic to Wuhan. Be transparent! Make public your data! US owe us an explanation!

Le Wuhan, nouveau centre du monde (et des théories les plus incroyables)

Wuhan, dont l’agglomération compte plus de onze millions d’habitants, fut officiellement le point de départ de la pandémie et fut placée en quarantaine dès le 23 janvier.

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C’est aussi là que se trouve le laboratoire de haute spécificité biologique livré par la France en 2003 lorsque la Chine connaissait une épidémie de SRAS mais entretenait de bonnes relations avec Jacques Chirac.

Depuis, divers virus tels qu’Ebola ou le H1N1 y furent étudiés mais des rumeurs persistantes évoquent aussi des recherches pour mettre au point des armes bactériologiques. Des observateurs imaginent donc que le Coronavirus pourrait être une expérience ayant mal tourné, même si la plupart s’accordent pour dire qu’il provient d’un animal, et plus précisément d’une chauve-souris.

Ce scénario digne d’un roman de science-fiction n’est pas sans rappeler…un roman de science-fiction !

En 1981, le roman d’anticipation  Les yeux des ténèbres évoquait une arme bactériologique aux caractéristiques proches du COVID-19 et se propageant dans le monde entier aux alentours de l’année 2020. Si, dans la première version, celui-ci apparaissait en Russie, une réédition sortie en 2008 le faisait cette fois apparaître dans le Wuhan !

Dean Koontz, l’auteur, rentre ainsi dans le cercle fermé des auteurs dont l’œuvre fictive a été rattrapée par la réalité, aux côtés de George Orwell ou d’Aldous Huxley!

*Source : Breizh-info

mercredi, 18 mars 2020

"Nouvelle histoire de la Révolution française" par Jean-Clément Martin

Jean-Clément Martin, avec le talent qu’on lui connaît, arrive à décortiquer les passionnants faits historiques qui marquent encore durablement la société française du XXIe siècle. En France, il demeure toujours difficile d’aborder sereinement les nombreuses questions soulevées par les événements liés à la Révolution.

Pourquoi, plus de deux cents ans après 1789 et la mort du roi Louis XVI survenue le 21 janvier 1793, en sommes-nous encore là ? Dès les premières lignes l’auteur livre une intéressante réflexion : « La Révolution fascine ou dérange. Qu’elle soit morale, sexuelle, économique ou politique, elle porte un imaginaire qui séduit ou révulse mais ne laisse jamais indifférent ».

En même temps, comment en serait-il autrement ? 1789 semble être l’horizon indépassable pour l’écrasante majorité des acteurs de la vie politique française, comme si de 496 – date du baptême de Clovis – au 5 mai 1789 – ouverture des États Généraux –, il n’y avait presque rien eu entre-temps. Pourtant, Martin rappelle que « même si la France continue de se dire Patrie des droits de l’homme, elle se réclame moins de son héritage révolutionnaire qu’elle ne le fit jusqu’au milieu du XXe siècle. »

9782262081515ORI.jpgLes raisons de ce relatif abandon intellectuel sont multiples : mondialisme, faiblesses intellectuelles et historiques chez la grande majorité du personnel politique et l’inventaire de la Révolution est de plus en plus connu… Cela étant, un homme situé à l’extrême gauche de l’échiquier politique républicain n’a pas hésité, tout récemment, à commettre une œuvre dans laquelle il assume se reconnaître dans l’héritage jacobin.(1)

Quoi qu’il en soit, la France républicaine reste imprégnée par la Révolution, et l’auteur écrit, avec selon nous une pointe d’ironie, que « son hymne national, qui revendique de faire couler le sang de ses ennemis dans les sillons, est toujours chanté dans les stades du monde entier ». Nous citerons également, entre autres : la Marianne, la devise Liberté-Égalité-Fraternité inscrite aux frontispices de nombreux bâtiments, officiels ou non, autant de symboles qui démontrent tous la mainmise idéologique de la Révolution sur la France contemporaine.

De fait, ce n’est donc pas un hasard si « la force de cet imaginaire est telle que l’année zéro des temps modernes français est toujours identifiée à 1789. Tous se rejoignent sur ce point, qu’ils regrettent la monarchie idéalisée, qu’ils voient 1789 ou 1793 comme la première marche vers le totalitarisme, ou bien au contraire qu’ils demeurent convaincus que 1789 jette les bases d’une ère nouvelle pour l’humanité, ou qu’ils puisent plus simplement dans les rebondissements des événements révolutionnaires des enseignements pour aujourd’hui. »(2)

Pour comprendre les bouleversements historiques, encore faut-il prendre le temps de les analyser loin des passions. Effectivement ces dernières obscurcissent souvent la vue et embrument les capacités de réflexion. Martin estime que « c’est le processus révolutionnaire lui-même qui est à examiner pour ce pour quoi il se donne : une inventivité politique, économique, sociale, religieuse, culturelle, qui commence sous l’effet des expériences européennes et américaines dans les années 1785-1787 et qui est accompagnée, en permanence, par les contre-courants provoqués en retour. »

Pour saisir l’essence de la Révolution, il faut constamment avoir à l’esprit comme le dit Martin que « la Révolution est dans cette optique une création et une affirmation ininterrompue d’expériences, créant une attente à jamais insatisfaite et une angoisse de l’échec. »

Très rapidement, les révolutionnaires en sont venus à se poser la question suivante : « Comment finir la révolution ? », car le vide institutionnel créé par la mort de Louis XVI fut en définitive difficile à combler, comme beaucoup s’en aperçurent, souvent à leurs dépens.

La période Révolutionnaire fut marquée par la guerre intérieure et aux frontières, par des exécutions officielles – approuvées par l’État de droit(3) – et non officielles – violences des populations non encadrées par les différents gouvernements révolutionnaires – ainsi que par des rivalités politiques très puissantes. Martin n’entend bien sûr pas fermer les yeux sur ces nombreux épisodes : « Il ne s’agit pas d’exonérer les acteurs de leurs responsabilités. Ce qui est en jeu est la compréhension des moments révolutionnaires, de ces périodes pendant lesquelles des façons de voir s’imposent, des groupes s’emparent du pouvoir, des personnalités sont reconnues et suivies. »

L’intention de Martin ne repose pas sur la volonté de défendre ou d’attaquer la Révolution : « Le but du livre a été d’inscrire ces moments dans la période révolutionnaire tout entière – ce que Maistre appelait l’époque – en respectant les engrenages minuscules qui ont régi les rapports entre les individus et les groupes. »

Après une lecture attentive et critique, nous pouvons dire que l’objectif est atteint, même si nous ne suivons pas l’auteur dans toutes ses intuitions et analyses.

Martin nous présente en effet une étude passionnante et réellement originale sur la Révolution française. Nous saluons son érudition et surtout son grand talent de pédagogue pour expliquer des situations complexes dont le profane ne mesure pas toujours les implications puissantes. La bibliographie se montre conséquente et exhaustive. Elle permet de repérer d’excellents ouvrages pour creuser les sujets qui nous intéressent. L’auteur ne se départit jamais de son rôle d’historien et, quand il analyse les faits historiques, il ne défend pas une cause politique. Il énonce même que la révolution – mais par le haut ! – fut initialement lancée par Louis XV, et maladroitement reprise par Louis XVI…

La suite est connue : révoltes, Révolution, espoirs de la mise en place d’une société nouvelle et d’un Homme nouveau, libéralisation de la violence, stabilisation des institutions qui restent malgré tout fragiles, pour finir par Bonaparte prenant le pouvoir. Onze ans après avoir tué leur roi, les Français voyaient à Paris un étrange paradoxe : un général de la Révolution – soupçonné un temps d’avoir été jacobin – devenir Empereur en présence du Pape Pie VII. Quel roman que l’histoire française, pour reprendre une phrase très connue de Napoléon…

Pour conclure, rappelons que dès le début des émotions populaires, l’attente exprimée par les Français vivant à l’heure de ces soubresauts politiques atteignait des sommets. Martin note qu’il n’y a «  pas lieu de s’étonner que nombreux soient ceux qui, au moment de l’ouverture des États Généraux en France et surtout après la prise de la Bastille, parlent de l’heureuse révolution qui se déroule sous leurs yeux ». Leurs espoirs seront douchés. Cela arrive généralement quand on accorde – trop légèrement ? – sa confiance aux politiques.

Nous laissons le mot de la fin à l’auteur : « Le scandale de la Révolution tient depuis la fin du XVIIIe siècle à ce qu’elle a été « une promesse dont l’échec est inscrit dans la nature même de la promesse » pour reprendre une formule saisissante de M.-C Blais. »

Rien à ajouter !

Notes

(1) Alexis Corbière, Jacobins !, Paris, Éditions Perrin, 2019

(2) Jean-Clément Martin, Robespierre : la fabrication d’un monstre, Paris, Éditions Perrin, 2016

(3) État de droit révolutionnaire, notion difficile à discerner, à défendre et à légitimer au vu des différents coups de force (parfois meurtriers) opérés par les révolutionnaires pour s’approprier le pouvoir et le garder…

 

samedi, 14 mars 2020

It’s Population, Stupid: Gunnar Heinsohn’s Söhne & Weltmacht

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It’s Population, Stupid:
Gunnar Heinsohn’s Söhne & Weltmacht

Gunnar Heinsohn
Söhne und Weltmacht: Terror im Aufstieg und Fall der Nationen
Zürich, Switzerland: Orell Füssli Verlag, 2020 (2003)

41v2Fuirz6L.jpgRobert Malthus’s essay on population growth is widely known and widely refuted, mostly by commentators who have not read it. In his Essay on the Principle of Population, Malthus argued that population growth undermined the achievements which technology had brought and was bringing to human society and ironically had first made that population growth possible. Populations, he wrote, increased faster than the rate of increase in food production necessary to keep pace with the demand for more food. According to Malthus, this discrepancy between supply and demand would lead inevitably to a decline in living standards and to famine. That Malthus’s prediction proved (broadly) not to be the case in the nineteenth and twentieth centuries is largely due to the fact that human societies have vastly improved agricultural efficiency and available agricultural land far in excess of the slow growth in food production which Malthus had projected. This improvement in food production to meet the demands of growing populations could only be achieved, and was only achieved, by improved logistics, improved science, and exploiting nature — not only more efficiently, but also more extensively. The fear of famine and outbreaks of famine have continued down to the present day, however, and although Malthus is officially repudiated, his ghost has not been lain to rest. The burden put upon nature incurred by meeting the challenge of the appetites of the human population increase continues to this day. Has Malthus been proved entirely wrong, and is his thesis applicable in relation to challenges other than that of famine?

Söhne und Weltmacht by Gunnar Heinsohn, professor at the University of Bremen, is written in the Malthusian tradition of seeking in demographics the key to understanding social and political challenges. It is the principal argument of Söhne und Weltmacht that it is neither a struggle for resources, nor of religion, nor a conspiracy, that is the principal driving force of terror and war, but rather a surplus of young men who, by virtue of a demographic spike, are too many competing for too few positions in their own communities.

More exactly, according to Heinsohn, it is a diminished opportunity to obtain “property benefit” (Eigentumsprämie), a key term in Heinsohn’s argument. This book is Walt Whitman’s cry of “Go West, young man!” with a vengeance. A society whose population increase, or more exactly, increase in young men, cannot be met by a commensurate increase in opportunities for those young men to thrive by obtaining property benefits and social standing, is the major trigger of terrorism, war, colonialism, and mass emigration. This is a startling thesis, but it is argued cogently and with abundant recourse to evidence. Indeed, Heinsohn’s work abounds with references, citations, and graphs and tables to support the main thesis.

Here is one historical case which Heinsohn examines: Nepal. How could it be, he asks, that Nepal changed almost overnight from a happy hippy Mecca, where the stardust children of the West sought enlightenment and inspiration in the 1960s and 1970s, into a land racked by civil war, strife and terrorism in the 1990s? What was the cause of the Maoist rebellion? Standards of living? The oppression and solidification of the proletariat, in accordance with Marxist theory? The desperation of famine, in accordance with Malthusian theory? None of that. The people were not starving and living standards were in fact rising. The population was not desperate or threatened from outside. Journalists speculated on Chinese influence undermining the small land by infiltrating it with Maoist revolutionary theory. Heinsohn comments on the theory of Maoist subversion laconically:

If Bakunin’s work had been widely read in Nepal instead of Mao’s, the media might be reporting about anarchists against the police instead of Maoists against the police. Young people will always find something. Irony to one side, the killers took great chunks out of their differentiated convictions. They not only attacked feudalists and fascists but the national Marxist-Leninist movement as well as the united Marxist-Leninists and finally, the Indian army. (p. 105)

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The real reason for the upsurge in conflict is clear to Heinsohn:

Rising from 8.5 to 26 million, the population tripled from 1950 to 2005. In 1995 and 2000 the children bulge was at 41%. With over 4000 deaths between November 2001 and January 2003 talks over a ceasefire between the authorities and the insurgents began. Were the talks to collapse, so the Minister of Culture Kuber Prasad Scharma at the end of May 2003, the country would be facing “Cambodian relations” viz. genocide. Peace was finally concluded on November 21st, 2006. The conflict had cost near to 18,000 lives.

Then Heinsohn throws in his final comment, the fact which for him is decisive and not brought into calculations of war and peace: namely, the falling birth rate. “From 6 children per woman between 1950 and 1985, the birth rate had fallen to under two by 2020.” (pp 105-106).

What is the “children bulge” referred to here? Heinsohn has much to say about what he calls demographic “bulges”: youth bulge, baby bulge, children bulge. A bulge refers simply to a disproportionate dominance by one age group in a nation’s or group’s demographic structure. A youth bulge is defined by this writer as follows:

The existence of a youth bulge results from the places which are becoming available to the number of places which sons who are becoming adults demand.” (p. 55) It is the existence of a baby bulge becoming a youth bulge (a baby bulge does not necessarily become a youth bulge if there is a high infant mortality rate) which is the prime course, Heinsohn argues, of “migration, crime, mass flight, prostitution, forced labor, murder, gang crime, terror, putsches, revolutions, civil war, expulsions of groups, genocide. . . As a rule of thumb: nations with 30 to 50% of their populations under 15 years of age will be experiencing one or more of these. (p. 115)

The Biblical tale of Cain and Able is, for Heinsohn, a fable that tells the story of a fundamental truth. Two brothers competing for one position, one recognition, one property benefit, must emigrate, colonize or kill one another.

Heinsohn also refers to what he calls the Kriegsindex (war index). This is the yardstick he has devised to measure the military potential of a group in terms of its manpower by comparing the number of 55 to 59 year-olds to the number of youths between 15 and 19 in the studied group. If the number of 15-19 year-olds is higher than the number of 55-59 year-olds, the war index is positive, and negative in the reverse case. So if there are 1000 old people to 2000 youths, the war index is 2+. The US-Vietnam conflict cost nearly a million lives, of which an astonishing 95% were North Vietnamese, but the Vietnamese war index was 4 to the American 2. The North Vietnamese could afford their losses better than the Americans.

An objection can certainly be made that Heinsohn ignores the factor of technical superiority — possession of the atomic bomb, for example — to counteract or even nullify the war index factor. However, in the great majority of conflicts that have taken place since the Second World War, the superiority of military hardware does not seem to have played the decisive role which might be expected of it. As for atomic confrontation, the wars since the Second World War have been wars of proxy insofar as the nuclear powers were involved. Arguably, Israel is the one country that keeps numerically superior forces at bay by its possession of the technology to destroy entire nations, but it also has a high war index.

The objection can be made that in terms of conflicts between major powers, the war index factor may play a less considerable role. My impression is that Heinsohn indeed tends to gloss over facts and factors such as firepower superiority which might weigh against his principle theory of youth bulges and war. However, it is questionable how far even a nuclear deterrent can stop a human tidal wave which has reached a vastly disproportionate superiority in numbers. Was it not Mao Tse Tung who once callously remarked that in the event of nuclear war, China would win simply by virtue of its huge population? One of Heinsohn’s many statistics, extrapolated from data provided by the World Bank for 2020, is that the proportion of children under 15 years old from nations with a children bulge (30-50% of the population) in relation to children in the United States is 1.3 billion to 61 million.

We should, of course, be aware of statistics. Heinsohn offers his readers an abundance of them, but are they conclusive? It may be that hikes in the population are not the direct cause of the factors he describes, but bring about developments which trigger them. Yet even to admit that populations hikes are the indirect rather than direct cause of war and famine is still to admit that they play a decisive role, and to argue that the effect is indirect would be to qualify Heinsohn’s thesis without in any way refuting it.

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A further controversial argument of this book is that dictatorship and children bulges tend to accompany one another. Heinsohn notes that the Algerian military overruled unwelcome election results in 1991 at a time when the population had more than doubled, rising between 1960 and 1990 from 10 to 25 million. More people were killed in the course of internal conflict in Algeria between 1992 and 2002 (180,000) than in Arab-Israeli wars over the same period. (p. 116) Algeria used to record a birth rate of 6 to 8 children per mother; the birth rate has fallen in recent years to 3 children per mother. Heinsohn feels it unnecessary to point out that conflict has subsided in Algeria since the beginning of this century. The reader gets the point.

The core argument of the book is, therefore, that problems of war and famine are demographic — not climatic or economic in the traditional sense of rich and poor. It is certainly the case that the role of population is rarely treated earnestly by political and economic writers, professors, and journalists. This reviewer shares Heinsohn’s belief that exponential population growth lies behind many major global challenges, if not all of them, and the current system of ignoring population and seeking solutions to problems such as pollution in tackling secondary causes (e.g. global warming) is to evade the real challenge.

Heinsohn’s message about war can be summed up thus: “It’s population, stupid.”

A table on pages 120-127 highlights a remarkably regular congruence between nations where armed conflict dominates and/or the murder rate is higher than the global average, and nations with an above-average youth/children bulge. In fact, Heinsohn can find very few conflicts, widespread acts of terrorism, high crime rates, or acts of genocide which do not find their origin one way or another in the struggle of a youth bulge cohort to obtain their Eigentumsprämie.

This leads to the deeply pessimistic conclusion that populations without youth bulges — those either with declining birth rates or which achieve an equilibrium of births to deaths, a picture of stability — will be considerably more pacifistic than societies with a youth bulge, but such societies are victims waiting to be discovered. History would seem to bear this out: Societies with stable populations do seem to be more pacifistic than those with growing populations, and therefore more likely to fall victim to them. The Indians of the Caribbean falling victim to the Europeans or the Bushmen falling victim to the Bantu are obvious cases that come to mind. It seems to be that all human societies are condemned to take part in a sort of cradle race to outbreed and thereby dominate one another. Irish nationalists have long been aware of the population factor in overcoming Protestant and British rule and uniting Ireland, although they remain willfully ignorant of the cradle challenge Ireland is itself now facing from Black immigrants.

Söhne und Weltmacht may be criticized for being less than systematic in the development of its argument. The argument is based not so much on theory or a model of society as evidence. Historical cases accompanied by tables are presented to the reader and thereafter evidence is cited to show the validity of the argument, but the theory is not examined in depth, nor are contrary interpretations of the cause of war and terrorism examined at all. Heinsohn is saying in effect that the “coincidence” of correlation between youth bulge and war is so overwhelming that it would be the onus of a skeptic to provide an alternative interpretation.

The evidence of what Heinsohn is claiming is plentiful and strong. The reader may be forgiven for wondering why the argument has not been put forward previously, or even debated previously, if it is all so obvious. Heinsohn says (and here we are with Malthus again) that in societies or countries with soaring birth rates, there will be too few prestigious positions (defined in terms of property right) to content aspiring male youth, too little opportunity to devote energy to worthwhile enterprises, there will be diminishing resources available to rising numbers of young men, and that will lead to internal conflict over the scarce resources or emigration or both. It is not that favorite explanation offered by NGO charities, a “poverty trap,” which triggers mass emigration.

Against the belief that low living standards are the prime force prompting conflict, Heinsohn notes that the standard of living of the Ivory Coast, for example, was rising before it entered into its main period of conflict — in fact, the standard of living actually declined as a result of civil war. Conflicts negatively affect standards of living, and it is not poverty alone which causes conflict, so Heinsohn. Conflict, he argues, is caused by rising expectations that cannot be met fast enough.

Heinsohn also looks at the expansion and global dominance of Europe from the fifteenth to the nineteenth century. When Europe’s expansion began at the very end of the fifteenth century, the population was, as a result of widespread pestilence, actually lower than it had been previously (60 million in 1500 compared to 90 million in 1340). What took place was not a simple increase in total population compared to the past, but a dramatic change in the median age of European populations. Large numbers of children were growing up without prospects. It was not only or even principally acres which were not available, but prestige and ownership (Eigentumsprämie). Heinsohn is at pains to argue that this is not simply a matter of “Lebensraum“. He also ignores those cases where expansion or migration will be more convincingly interpreted as just that: diminishing living space under the pressure of rising population. Ireland and Germany in the nineteenth century would be obvious cases, and after the Great Famine, the Irish emigrated out of economic compulsion. Even here, however, it is certainly the case that the plight of the Irish was more perilous because of their high fertility at the time of the Great Famine.

35987323z.jpgAnother highly interesting factor highlighted in this book is the notion of the sanctity of life. From the end of the Roman Empire to the sixteenth century, Europe did not experience a dramatic increase in population nor did it experience a birth rate anything like as high as that which began suddenly at the end of the fifteenth century and continued down to the twentieth century. What had happened? According to Heinsohn, the notion of the “sanctity of life” and hostility towards contraception, infanticide, and abortion of an intensity not seen since the days of Rome (but highly characteristic of Islamic society) began at the end of the fifteenth century — and it is at the end of the fifteenth century that Europe set out on a course of world conquest. The writer refers to well-documented evidence from several English counties. On the basis of this evidence, between 1441 and 1465, 100 fathers were leaving 110 surviving sons. Between 1491 and 1505 a dramatic change had taken place: 100 fathers were leaving behind them 202 surviving sons. By the nineteenth century, between 5 and 6.5 children per mother were being raised in Europe, a rate only reached in the last century by twenty-four states in Sub-Saharan Africa and Afghanistan.

At exactly the same time as the hike in the European birth rate, the great witch hunts and trials began, which were to cost the lives of up to 100,000 women. Experts are at a loss to explain the ferocity, extent, and above all, suddenness of the persecution of witches. Heinsohn offers a fascinating and persuasive interpretation. Many observers have pointed out the connection between fear and hatred of witches and rumors of infanticide and other “ungodly” practices by midwives. In Heinsohn’s interpretation, the target of the persecution of witches was in large part an assault on the medical knowledge which midwives possessed and utilized, including knowledge relating to contraception and birth control. The witch trials, in Heinsohn’s thought-provoking interpretation, were first and foremost an assault on nature-based science by a Church and state whose new piety sought to extirpate all activity which could prevent human reproduction. It may be that neither Church nor State were consciously promoting a population surge, but that is the effective result of their measures. Consciously induced or unconsciously, the fact remains, cited by Heinsohn, that between 1000 and 1500 two to three women were being born per woman and after 1500 that figure rose abruptly to 5-7 children (p. 14).

In 1484, Innocent VIII issued his famous Bull against contraception, and a condemnation of contraception has been characteristic of the Roman Catholic faith ever since. Contraception and abortion were subject to capital laws. “Witches” were closely associated with those who sought to provide women with the means to exercise birth control. The persecution of witches, by Protestant and Catholic alike, was the assertion of the will to “go forth and multiply.” All sexual pleasure which was not conducted under the bonds of holy matrimony and for the purposes of reproduction was condemned as sinful and often punishable by death.

Heinsohn does not state but strongly implies that were it not for the opportunities offered in the nineteenth century for expansion and relief of the youth bulge by means of colonial expansion and deportation, the nineteenth century would not have been the relatively peaceful century for Europe that it became. The colonies were a release valve. By 1914, there were no more lands to colonize. In the twentieth century, European countries including Russia had cannon fodder at home to spend. Heinsohn’s system and message are emphatic and coldly cynical:

It was the strictly enforced penalties for birth control which can explain the fact that regardless of all emigration, wars, epidemics and high infant mortality, the European population explosion in this time did not once let up, reaching (with Russia) nearly 500 million by 1915 and it could afford the cannon fodder of 8 million in the Great War. After the Second World War, the Western powers continued to build the most deadly weapons but could no longer raise enough sons. This, along with the threat of assured mutual destruction through nuclear war, and not any supposed process of increased sensitivity and scrupulousness, is the not very noble reason why the numbers of Europeans dead in battle has fallen so low. (p. 150)

Hans Grimm’s Volk ohne Raum, a novel written in 1926 which portrayed Germany as a country suffering from overpopulation and therefore a lack of living space (Lebensraum) accords entirely with Heinsohn’s thesis. Once it was Europe’s turn. Now it is the turn of non-European peoples with great youth bulges, warring against one another and seeking their fortunes in other lands, especially when in those lands, the indigenous population cannot challenge them with expendable sons of its own. The bitter truth, argues Heinsohn, is that societies with high youth bulges can — in terms of human material — literally afford to go to war. Islamic martyrs nearly always possess siblings to mourn their passing and to swear revenge. If there were a white resistance movement with the same resolution and determination to die for its cause in martyrdom, there would nevertheless be no brothers to mourn and swear revenge for the fallen. In numbers is strength. Heinsohn is serving up an old socialist truism here, but it is one that needs to be restated. Many people have lost sight of it in efforts to obfuscate the challenge of the ambitious millions of the world with humanist hand ringing about the calamity of war. The success of the white race in conquering the world was not, according to Heinsohn, due to racial superiority, as Gobineau among many other racial supremacy theorists have argued. European world domination was maintained and caused by its youth bulge. (p. 153)

Heinsohn does not pretend that a youth bulge alone explains the expansionist or imperialist development of any people, but he claims that a youth bulge is a precondition for such a development. If his argument is correct, then the white race can offer no effective policy for its own survival in the face of expansionist challenges without a reproductive riposte commensurate to that of Islamic or African migrants. This is not only for the obvious reason of numbers and proportional weight of influence, but also by virtue of the fact that according to Heinsohn, no group of people is sociologically and perhaps not biologically triggered to expand or even seek conflict without the assurance that there are sufficient sons to take the place of those who fall in war.

28055.jpgIt is worth noting the paradox that only does the white race have far fewer children per capita than other races, but those who are most conscious of the demographic decline and most readily deplore it themselves usually have few or no children at all.

Heinsohn’s book belongs to a long tradition of culturally pessimistic “realist” writings, which include Hobbes, Malthus, Spengler, and more recently Huntingdon and Rolf Peter Sieferle, whose Epochenwechsel I have reviewed for Counter-Currents. The core of Heinsohn’s argument is very simple and very persuasive. Towards the end of his book, which consists largely of cases of conflict which can be explained by his theory and tables to illustrate those cases, he notes: “If Germany had increased its population between 1950 and 2020 at the same rate as The Gaza strip, (0.2-2 million), it would not have a population of 83 million today, but 700 million, and 90 million of those would be between 15 and 29 years old.” (p. 231)

There is nothing original in stating that wars can be won through the cradle, but Heinsohn goes further. He argues that all wars are caused by the cradle. He posits no conspiracy (the book is without so much as a hint of a conspiracy). However, politicians do blatantly, as in the case of President Erdogan of Turkey, call for the mothers of the homeland to be fruitful and have many children as a duty to the nation. Ho Chi Minh (quoted by Heinsohn) famously boasted that he would defeat the French because Vietnam had more sons ready for sacrifice than France had. France’s war index at the end of the Second World War was 1.6, meaning that for 1000 men between 55 and 59 there were 1600 young men between 15 and 19, but on the Vietnamese side there were 3000, twice as many. With a war index of 3, Vietnam enjoyed the advantage of being able to draw on a far larger supply of human beings to sacrifice (p. 28).

Heinsohn does not make clear the extent to which youth bulges are created intentionally and I would have appreciated an examination of this point. Was, for example, the Church with its edicts against homosexuality,

infanticide, and contraception, consciously seeking to boost the population, or was this the incidental consequence of measures which had other motivations? Heinsohn would probably say that it is not important to know. He certainly implies with his description of the anti-contraceptive mores and laws of Europe (surprisingly and disappointingly, he spends comparatively little time in discussing similar edicts and laws in Islamic countries) that higher fertility is increased through the express design of religious and political leaders, but he also notes several times the role played by medical discovery and improved hygiene in lowering infant mortality.

Europeans have played the major, if not exclusive, role in boosting Africa’s population, first by medical and prophylactic intervention and care and second by the import of religious strictures and penalties against non-reproductive sexual activity — strictures which, in the meantime, have been widely rejected by more liberal and religiously skeptical European populations. There are measures which undoubtedly have nothing to do with the express wish for any increase in population, but which will nevertheless have exactly that effect; another example is the legalization of abortion in Japan in 1949. (Heinsohn refers to abortion in this book, somewhat misleadingly and presumably for reasons of his own belief, as “infanticide”.)

While Heinsohn writes about various triggers that cause youth bulges, he has little to say about what prevents them or reduces them. It seems that they slow down when the demands of youth are satisfied and where having children is an impediment to career advancement instead of an investment in the future. What, exactly, is it that the superfluous sons of a youth bulge desperately seek and go to war in order to obtain? Here our writer becomes — at least to this reviewer’s thinking — a trifle obscure and difficult to follow. What the superfluous sons of the youth bulge seek, already mentioned in this review, is what Heinsohn calls Eigentumsprämie. This word is not easy to translate into English, all the more as it is a word of Heinsohn’s own invention! It may be translated as “ownership (or title-holding) preference” or  “ownership benefit.” Keynes’ “Liquidity Preference” comes to mind, a term which is commonly rendered in German as Liquiditätsprämie. For Heinsohn, the difference between ownership of property (Eigentum) and possession (Besitz) is crucial to an understanding of the motivation of the young men who fight in wars. He relies on a thesis expounded in another of his works: Eigentum, Zins, und Geld (Ownership, Interest, and Money) which holds that a concept of ownership precedes trade and is a precondition of trade and of the need for a token to denote ownership, namely money. Whatever they may formally possess, young men in any society seek ownership in order to establish themselves.

6801886_9783928852340_xl.jpgIt is fourteen years since the renowned philosopher Peter Sloterdijk opined enthusiastically in the pages of the Kölner Stadt Anzeiger that Söhne und Weltmacht would become required reading for politicians and journalists. His prediction has not been fulfilled, and this new and updated edition has been published by a small Swiss imprint. The fact is that books like Söhne und Weltmacht cannot expect to receive much attention from journalists or politicians. They point to truths which the presently-dominating ideology is loathe to review or discuss.

Gunnar Heinsohn focuses on population increase as a key to understanding the world and believes that it is in population hikes that we will find an explanation for many of the woes of the modern world. The title of one chapter of this book, “Africa’s banner of victory: reproduction,” is worth a score of soul-searching mainstream talk shows. Millions without perspective are ready to die to obtain respect and standing in the world. If they cannot do so, they readily grasp violence, not out of need, religious piety, or political orthodoxy, but out of deep internal compulsion. The project of this book is to show the reader what that means and has always meant for human beings in real terms.

It is a pity that Peter Sloterdijk was wrong.

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mercredi, 11 mars 2020

Apocalypse Cochet

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Apocalypse Cochet

par Georges FELTIN-TRACOL

Ancien député Vert du Val-d’Oise, puis de Paris entre 1997 et 2011, Yves Cochet fut ministre de l’Aménagement du territoire et de l’Environnement dans le gouvernement de cohabitation du socialiste Lionel Jospin de 2001 à 2002. Il s’est maintenant retiré de la vie politicienne. Il continue néanmoins à participer au débat public.

51NruVuNQeL._SX327_BO1,204,203,200_.jpgSon nouvel ouvrage, Devant l’effondrement, ne peut que déplaire aux hiérarques d’Europe Écologie – Les Verts (EE-LV) et à leurs potentiels électeurs bo-bo prêt à tout pour sombrer une nouvelle fois dans l’hédonisme « éthique ». Avec cet « essai de collapsologie », Yves Cochet « avoue avoir rédigé cet ouvrage d’une main tremblante (p. 120) ». Son propos sciemment pessimiste contrarie les desseins merveilleux d’EE – LV au moment où leurs homologues autrichiens et bientôt allemands gouvernent et vont gouverner en partenariat avec les conservateurs chrétiens-démocrates. Il s’agace du réformisme radieux qui émane de son parti. « Collés à l’actualité, obsédés par la rivalité pour les places – comme dans les autres partis, en somme -, la quasi-totalité des animateurs Verts se bornent à décliner les clichés rassurants du développement durable, aujourd’hui renommé “ Green New Deal ” ou “ transition écologique ” (p. 221). »

Catastrophiste assumé

En effet, à la différence de la nouvelle pasionaria de la « Planète » et du « Climat », Greta Thunberg, l’auteur qui avait déjà publié en 2005 un Apocalypse Pétrole n’est pas alarmiste. Bien qu’il ne croit pas au scénario du film de Richard Fleischer, Soleil vert (1974), Yves Cochet présente son catastrophisme. « Au contraire de mes camarades de parti, j’aspire depuis une quinzaine d’années à une refondation idéologique catastrophiste de l’écologie politique dans le cadre de l’Anthropocène (p. 222). »

Il s’en prend à « une partie des activistes écologistes [qui] considèrent encore que le combat principal se nomme anticapitalisme et que, conséquemment, la disparition espérée de ce système-là suffirait à résoudre la plupart des problèmes sociaux et environnementaux (p. 9) ». Il trouve ce combat d’arrière-garde et même vaine. Il écrit, provocateur : « Quand bien même les 450 réacteurs nucléaires en service dans le monde seraient tous autogérés par des coopératives ouvrières à but non lucratif, cela n’enlèverait strictement rien à l’aberration politique et environnementale que constituent de tels outils de production massive d’électricité (pp. 9 – 10). » Rejetant la « croissance verte », le « développement durable » et l’embourgeoisement de l’écologie, Yves Cochet veut « décoloniser l’imaginaire contemporain sur toutes ses formes et construire une rationalité et une imagination nouvelles afin de penser l’impensable (p. 14) ». Ainsi prône-t-il implicitement le retour du Mythos aux dépens du Logos. Bien qu’il ne le cite pas, on devine l’influence prégnante du « pape » français de la décroissance, Serge Latouche.

L’auteur s’élève contre le modèle productiviste et « les mythologies populaires du progrès (p. 44) ». Ce tenant de l’alliance entre les Verts et le PS apporte une analyse sur le productivisme que ne renieraient pas ses frères ennemis, les écologistes indépendants. « Le productivisme n’est pas spécifiquement libéral. L’URSS d’hier était aussi productiviste que les États-Unis. La Chine communiste d’aujourd’hui l’est autant que le Japon. La soumission du politique à l’économique est inhérente aux doctrines libérale et marxiste (p. 49). » Il y inclut le transhumanisme et « la volonté de refabrication du monde (p. 51) ». Il assume volontiers contester les projets spatiaux vers Mars ainsi que l’ambition prométhéenne de terraformer la planète rouge. Par productivisme, il entend « toute structure sociale recherchant la production et la productivité maximales sans égard pour leur contenu ou leur environnement social, culturel ou environnemental (p. 50) ».

Il veut faire comprendre au lecteur l’urgente nécessité de s’extraire du système productiviste s’il veut avoir une (modeste) chance de survivre. Il condamne par conséquent toutes les démarches de repeindre en vert ce même productivisme. Yves Cochet ne croit pas possible que l’actuelle société moderne puisse se dégager de l’emprise socio-économique du pétrole et des énergies fossiles. « Le remplacement éventuel de la filière pétrolière par une autre de même puissance et de même volume exigerait plusieurs décennies d’investissements considérables dans les infrastructures, alors que le peak oil est imminent (pp. 82 – 83). » Il dénonce la construction de nouvelles infrastructures routières et voit dans l’hydrogène, le carburant de déplacement de demain, un leurre. « Les constructeurs prétendent pouvoir y parvenir grâce à l’arrivée des moteurs électriques, hybrides ou à hydrogène. Selon nous, cet objectif est irrationnel (p. 141). » Sans citer Guillaume Pitron et son excellent ouvrage sur La guerre des métaux rares paru en 2018 chez le même éditeur, Yves Cochet voit la « transition écologique » comme une belle escroquerie intellectuelle. « En 2050, zéro énergie fossile, et même zéro nucléaire pour les plus radicaux, mais nous roulerons électrique, renouvelable et “ smart ” – avec l’intelligence artificielle et le monde numérique qui croissent. En voiture électrique, en bus, en tramway, en train et en vélo. Autrement dit, il y aura de l’électricité en 2050 (pp. 200 – 201). »

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Le défi des naissances

L’auteur soutient une décroissance globale. Il revient sur l’épineuse question démographique. Il y a plus d’un an, dans un entretien accordé à L’Obs (du 3 janvier 2019), il proposait « de renverser notre politique d’incitation à la natalité, en inversant la logique des allocations familiales. Plus vous avez d’enfants, plus vos allocations diminuent jusqu’à disparaître à partir de la troisième naissance ». Relevons que si cette proposition avait été acceptée, l’ancienne dirigeante Verte et ministre de l’Égalité des territoires et du Logement entre 2012 et 2014, Cécile Duflot, aurait été pénalisée en tant que mère de quatre enfants. Yves Cochet estime que « faire des enfants n’est plus simplement une question personnelle. C’est devenu un choix politique ». Ainsi faut-il comprendre l’« inversion de l’échelle des allocations familiales (p. 61) ». Il va même plus loin en souhaitant la « grève du troisième ventre européen (p. 61) ». Il se justifie dans L’Obs : « Je ne vise pas les pays les plus pauvres, qui font plus d’enfants que les autres. Au contraire. Les pays riches sont les premiers à devoir décroître démographiquement. » Pour ce néo-malthusien assumé, « la question de la surpopulation ne se réduisait donc pas au nombre de personnes, mais à la multiplication de ce nombre par l’empreinte moyenne de la population sur le territoire considéré (p. 61) ». « Par ailleurs, poursuit-il dans cet entretien, limiter nos naissances nous permettrait de mieux accueillir les migrants qui frappent à nos portes. » De pareils arguments auraient horrifié le professeur Pierre Chaunu…

Son raisonnement ne s’exempte pas de quelques contradictions. L’ancien ministre envisage « la possibilité précaire de diminuer le flux de migrants vers l’Europe par une politique de décroissance matérielle ici, tout en encourageant l’évolution endogène là-bas (p. 64) ». Doit-on comprendre qu’il se montre hostile à la thèse développementaliste en faveur de l’ex-Tiers Monde et qu’il rejoint les conclusions de l’économiste hétérodoxe François Partant (1926 – 1987) ? Il pose mal les termes du débat. Ce n’est pas la quantité qui prime, mais la qualité. Si l’Afrique doit se plier à une politique anti-nataliste contraignante et draconienne, l’Europe, elle, doit appliquer une véritable politique d’eugénisme aussi bien positif que négatif. La PMA, voire l’usage de mères porteuses, peut être un moyen parmi d’autres comme les permis de procréation et/ou de parentalité délivrés ou non aux jeunes couples par un État qui adopterait les valeurs du Dr. Alexis Carrel, ce grand précurseur de l’écologie.

On sent ici l’enfant des Lumières, l’homme de gauche et le docteur en mathématiques tiraillé. « Si l’on respecte le principe d’égalité entre tous les humains, règle d’or de la morale politique, et si l’on estime que le mode de vie occidental est le plus désirable de tous – ce qui est contestable, mais qui le conteste ? -, on en déduit que nos sœurs et frères chinois, indiens, africains et sud-américains devraient eux aussi pouvoir vivre à l’occidentale en bénéficiant des joies du consumérisme de masse (p. 62). » Si l’on peut s’accorder sur la non-inéluctabilité de l’« occidentalisation » du monde, on doit cependant lui rétorquer que des militants écologistes, situationnistes, traditionalistes ou identitaires œuvrent depuis longtemps contre cette pesante inclination. Mentionnons aussi une certaine naïveté quand il évoque la « moralité politique ». L’essence du politique ne saurait se confondre avec celle de la morale. Quant à l’égalité entre tous les humains, elle est sujette à caution. L’« égalité » en soi n’existe pas. Elle correspond à des critères subjectifs, politiques par exemple. La sortie concomitante du productivisme et de l’occidentalisation passera par l’instauration impérative de la préférence régionale, nationale et continentale, soit des discriminations salutaires.

L’approche économique biophysique

41M-tZ4LOnL._SX306_BO1,204,203,200_.jpgSi Yves Cochet oppose trois modèles : le productiviste, l’augustinien et le modèle discontinuiste qui « pourrait être compatible avec l’un et l’autre, puisqu’il se focalise surtout sur la forme de l’évolution du monde, et non sur sa substance (p. 55) », on remarque qu’il se réfère à un sermon de Saint-Augustin de décembre 410 qui aurait inspiré Oswald Spengler et le vitalisme civilisationnel… Suite aux travaux précurseurs de Nicholas Georgescu-Roegen et à la prise en compte de la non-linéarité des systèmes complexes, il distingue l’économie biophysique de l’économie écologique qui « tente d’évaluer le prix des services des écosystèmes en intégrant la finitude des ressources et la pollution dans le cadre de l’économie néo-classique (p. 73) ». À l’économie néo-classique, il propose l’« économie biophysique [qui] se concentre explicitement sur les relations de puissance, à la fois dans le sens physique d’énergie par unité de temps et dans le sens social de contrôle sur les autres (p. 71) ». À la jonction des sciences exactes et des sciences humaines, l’économie biophysique se base « sur les stocks et les flux de matière et d’énergie plutôt que sur les comportements individuels (les “ préférences des consommateurs ”). L’accent est mis sur la qualité de l’énergie, ainsi que sur la quantité d’énergie disponible (p. 71) ». Il parie que « l’économie biophysique, qui envisage un monde au climat déréglé et à l’énergie rare, est une meilleure base d’orientation pour la construction d’une société soutenable que les formes individualiste et croissanciste de la théorie économique néo-classique (p. 91) » parce que « plutôt que de prendre la rareté relative comme point de départ, [elle] se concentre sur le surplus économique et la pénurie absolue (p. 86) ».

Soulignant que « notre démarche est holistique et systémique (p. 145) », Yves Cochet pense que la crise économique sera d’abord d’ordre énergétique à partir des années 2020 – 2030 ! Il assure en outre que « l’économie biophysique est une économie pour l’ère de la décroissance (p. 76) ». Il imagine d’une manière impressionniste et sans s’y attarder, un monde post-catastrophique qui rappelle l’avenir décrit dans La Route (2008) de Cormac McCarthy ou, moins pessimiste, dans Malevil (1972) de Robert Merle. Yves Cochet prévient toutefois ses contemporains qu’ils connaîtront dans les prochaines années un choc violent comparable aux désastres de la grande peste noire en Europe en 1348 – 1349 ! « Appelons “ effondrement ” de la société mondialisée contemporaine le processus à l’issue duquel les besoins de base (eau, alimentation, logement, habillement, énergie, mobilité, sécurité) ne seont plus satisfaits pour une majorité de la population par des services encadrés par la loi (pp. 29 – 30). » Il ajoute que « par effondrement, j’entends un phénomène qui, en matière démographique, verrait environ la moitié de la population mondiale disparaître en moins de dix ans (p. 12) ». L’auteur prévoit trois milliards de survivants sur Terre dont environ une trentaine de millions en France, un monde à mi-chemin entre Mad Max I (1979) et II (1982) et l’utopie libertaire chère aux anarchistes. Il tient des propos très proches de La convergence des catastrophes (2007) de Guillaume Corvus alias Guillaume Faye. En revanche, il ignore tout des écrits du philosophe suisse en stratégie Bernard Wicht ! C’est regrettable, car les ouvrages de ce Suisse pourraient lui apporter des solutions capables de supporter la période immédiate qui suivra l’effondrement.

L’ère des biorégions

En bon écologiste anti-étatiste et peut-être en lecteur de l’éco-communaliste Murray Bookchin, le président de l’Institut Momentum parie sur le dépérissement de l’État. Or, comme « les populations les moins “ développées ”, les plus habituées à une certaine rusticité dans leur vie courante, seront moins touchées par la chute de la civilisation thermo-industrielle, parce qu’elles dépendent moins, pour leur survie, de la mondialisation contemporaine et de toute sa quincaillerie technologique (p. 13) », il est probable que certains États actuellement soumis à des embargos internationaux s’en sortent mieux que les États occidentaux, car ils ont l’habitude de résister à la dureté du temps. Dans ces circonstances tragiques, il serait possible que ces États survivants – pensons à la Corée du Nord – deviennent les nouvelles puissances mondiales.

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La vision de l’État chez Yves Cochet reste trop formaliste. L’État porte en lui une acception polysémique. Polis grecque, civitas romaine, féodalités médiévales, tous ces termes politiques désignent dans l’histoire européenne des communautés politiques inscrites dans un territoire déterminé après coup par l’histoire. Une tribu, voire un clan, est un État en devenir ou l’embryon d’une future structure étatique complexe, c’est néanmoins un ensemble communautaire politique. Il le devine sans vouloir vraiment l’admettre, lui qui dénonce la « topologie isotropique » du territoire républicain français, soit la centralisation excessive propice à l’homogénéisation des populations et à l’éradication des cultures vernaculaires.

Une fois l’effondrement survenu et les États modernes (les États-nations ?) disparus, « on assistera à la naissance d’une mosaïque de petites biorégions politiques, à l’image, peut-être, de ce qu’étaient les cités-États germaniques ou italiennes au XVIIIe siècle (p. 127) ». Yves Cochet intègre dans sa réflexion le concept bien méconnu en France de « biorégions ». La fin violente des États actuels favorisera en réaction la constitution d’entités bio-régionales, capables d’organiser auprès des populations survivantes l’apport essentiel d’énergie et de nourriture. Il y voit même une chance pour une certaine concorde sociale, car ces entités bio-régionales seraient plus égalitaires, plus homogènes d’un point de vue social, moins touchées par la lutte des classes. Moins spécialisées dans leurs tâches quotidiennes et a fortiori moins difficiles à diriger, elles pratiqueront selon l’auteur une différenciation géographique et non pas ethno-culturelle, ce qui reste à prouver. En Seine – Saint-Denis « ensauvagée » apparaîtront ici des émirats islamistes, là des caïdats afro-européens et des Gaylands ailleurs.

Ces biorégions développeraient un sens plus grand du partage au sein de leurs communautés respectives, mot qu’évite Yves Cochet alors que le communautarisme est bien une solution d’avenir. Il cite Marcel Mauss, Georges Bataille, le potlach et la dépense festive.

Violence et « spécularité »

Malgré des allusions à La notion de politique et au Nomos de la Terre de Carl Schmitt, l’auteur valorise surtout la coopération et sous-estime le conflit inhérent à tout groupe humain. Il s’appuie sur les travaux de Jean-Louis Vullierme sur l’« interaction spéculaire ». Ce concept « émerge nécessairement lorsque des individus se rencontrent et qui constitue simultanément leur être-au-monde par une boucle incessante entre l’individu et son environnement. L’être humain est tout à la fois modelé par le monde qui lui préexiste et modélisateur du monde par les actions qu’il entreprend. […] La spécularité concerne les entrecroisements des représentations du monde que chacun élabore progressivement dans l’intersubjectivité avec autrui. L’enfant (et l’adulte !), doté de cette faculté de modéliser le monde, apprend aussi bien à imiter les autres qu’à s’en distinguer. Il possède ainsi un ensemble de représentations du monde, et notamment une représentation de lui-même aux yeux des autres (les autres sont nos miroirs, ce qu’indique le qualificatif “ spéculaire ”) (p. 25) ».

51DmeGJbqVL._SX344_BO1,204,203,200_.jpgYves Cochet évacue bien trop rapidement la violence humaine. La grève contre la réforme des retraites déclenchée le 5 décembre 2019 a déjà démontré la sauvagerie sous-jacente des Franciliens et des Parisiens qui essayaient de monter dans le seul train de banlieue ou dans l’unique rame de métro. Certains n’hésitèrent pas à se battre. Et ne parlons pas des rapports conflictuels en ville entre piétons, automobilistes, cyclistes, patineurs à roulettes et « trottinettistes ». Cette agressivité propre à la nature humaine, accentuée par la modernité tardive pourrait atteindre rapidement son paroxysme au moment de l’effondrement social. La vie en zone urbaine après la « Grande Déflagration » sera certainement plus difficile que dans la France périphérique déjà habituée aux privations. « Il faudra réapprendre à maîtriser une agro-écologie alimentaire, énergétique et productrice de fibres pour les vêtements, cordes et papiers, la production de matériaux de construction indigènes, voire la fabrication de quelques substances secondaires, mais utiles, telles que l’alcool, l’ammoniac, la soude, la chaux… Tous ces domaines étant équipés en outils low tech aptes à êtres fabriqués, entretenus et réparés par des ouvriers locaux (p. 118). » En pratique, on utilisera le bois de chauffage, le charbon de bois et les biogaz dont le méthane.

Terminés Facebook, Twitter et ces saloperies de réseaux sociaux. Faute d’électricité et/ou de câbles entretenus, plus d’Internet. La nouvelle de George R. R. Martin, «… Pour revivre un instant » (1972), dans Des astres et des ombres (1977) anticipe le monde d’après vu par Yves Cochet. Quant aux déplacements, « les moyens de mobilité du futur sont plutôt à envisager du côté de la marche à pied, de la bicyclette et de la traction animale, de la voile et des embarcations à rames (p. 143) ». En lisant cet essai, le lecteur devrait avoir la curiosité de s’intéresser à la vie quotidienne des Français sous l’Occupation ainsi qu’à la Corée du Nord. L’auteur espère que « les habitants de France expérimenteront bientôt sous la forme d’une alimentation plus végétale, plus locale, plus saisonnière, grâce à la multiplication des jardins en permaculture et des paysages comestibles (p. 138) ».

Dans un contexte chaotique, « au milieu du [XXIe] siècle, mille formes d’organisations politiques locales nouvelles et différentes émergeront de la barbarie, révolue dans la plupart des sous-continents. En France, chaque bio-région sera munie d’un micro-État simple. Nous entendons par là qu’une communauté humaine autonome, c’est-à-dire un niveau d’organisation territoriale qui ne sera subordonné à aucun autre qui lui soit supérieur, se sera formée autour des trois valeurs républicaines précitées – en fait, surtout la fraternité – et aura institué une “ assemblée ” et un “ gouvernement ”, lequel détiendra le monopole de la violence physique légitime (p. 127, souligné par l’auteur) ». Yves Cochet invite à la rotation civique de la police et de l’armée : chacun occuperait à tour de rôle pour un temps précis des fonctions policières et militaires, d’où l’importance de connaître l’œuvre de Bernard Wicht. Cette proposition rejoint en partie certaines thèses libertariennes.

Yves Cochet a vu ses prévisions contredites par les faits. Le peak oil n’arrive pas. On peut penser que son catastrophisme est exagéré. Devant l’effondrement insiste pourtant sur la réalisation de bases autonomes durables (BAD) tout en gardant à l’esprit que l’éclatement territorial envisagé des États modernes signifiera aussi un regain de puissance chez des voisins moins sévèrement frappés. Dans les ruines du monde moderne rejailliront alors les enjeux tragiques du politique et de l’histoire.

Georges Feltin-Tracol

• Yves Cochet, Devant l’effondrement. Essai de collapsologie, Les Liens qui Libèrent, 2019, 252 p., 18,50 €.

La vie des fourmis de Maurice Maeterlinck

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par Denis BILLAMBOZ
Ex: https://interligne.over-blog.com
 
Pour clore la trilogie qu’il a consacrée aux insectes vivant en société organisée, Maurice Maeterlinck, après avoir étudié la vie des abeilles et des termites, s’est intéressé à celle des fourmis qui est encore plus complexe car il existe une diversité énorme de fourmis, différentes d’une espèce à l’autre, vivant selon des principes, des règles et des mœurs complexes eux aussi. « On en a décrit à ce jour six mille espèces qui toutes ont leurs mœurs, leurs caractères particuliers ». Il n’a pas étudié lui-même les fourmis comme il n’avait pas auparavant étudié la vie des termites, il a compulsé les meilleurs auteurs parcourant la presque totalité de la production sur le sujet à la date de la publication de son ouvrage. Rappelons que s’il a publié « La vie des abeilles » en 1901, « La vie des termites » n’est paru qu’en 1926 et  « La vie des fourmis » en 1930.
 

Maurice_de_Maeterlinck,_crop.jpgLa fourmilière est peuplée par des reines, des femelles fécondées, vivant une douzaine d’années, d’innombrables cohortes d’ouvriers (ou ouvrières ) asexués vivant trois ou quatre ans et de quelques centaines de mâles qui disparaissent au bout de cinq à six semaines. Dans une fourmilière peuvent cohabiter plusieurs colonies avec plusieurs reines et même parfois différentes espèces en plus ou moins bonne harmonie. La fourmilière héberge aussi une quantité de parasites, l’auteur écrit qu’on en comptait, au moment de la rédaction de son ouvrage, « plus de deux milles espèces, et d’incessantes découvertes accroissent journellement ce nombre ». Je n’ai pas eu la curiosité de vérifier cette donnée auprès d’autres sources, la vie et l’histoire de ce monde en miniature sont pourtant fascinantes et permettent de formuler moult élucubrations plus ou moins fantaisistes mais, pour certaines, tout à fait plausibles. L’auteur s’est penché sur cette vie grouillante et pourtant très organisée qui peut évoquer l’humanité à une échelle réduite et peut-être même dotée d’une intelligence au moins comparable. C’est là un vaste champ d’investigation, de réflexion, d’imagination et  de recherche qui ne sera sans doute jamais exploré jusqu’à ses ultimes limites.

Pour suivre le préfacier, Michel Brix, nous retiendrons que l’auteur formule deux interrogations à travers cette trilogie : « les insectes sont-ils heureux ? Et quelle spiritualité serait susceptible d’éclairer et de conforter les humains dans leur marche vers une existence plus « sociale », marquée par le renoncement à l’intérêt individuel ?» Ainsi, la trilogie est-elle empreinte de cette double question et principalement ce troisième opus consacré aux fourmis qui sont plus dévouées au collectif que les abeilles et les termites, leur l’esprit de sacrifice étant absolu. Maeterlinck les considère comme les infimes parties d’un tout vivant, à l’exemple d’une cellule d’un corps humain.

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Certaines espèces de fourmis sont extrêmement évoluées, elles peuvent cultiver des champignons, élever des parasites, moissonner, elles sont encore plus ingénieuses et mieux organisées que les abeilles et les termites. Mais, comme si toute évolution impliquait un esprit hégémonique et conquérant, « seules, entre tous les insectes, les fourmis ont des armées organisées et entreprennent des guerres offensives ». Nombre d'entre elles peuvent aussi causer des dégâts cataclysmiques dans la végétation, dans les villages, partout où leur énorme flot se déverse en un  fleuve tranquille mais dévastateur. Elles ont aussi inventé l’esclavage en contraignant les espèces les moins solides, les moins débrouillardes, à les servir.

L’étude de la vie des fourmis bute néanmoins sur de nombreux mystères que la science n’a pu élucider avant la publication de cet ouvrage et pas davantage aujourd’hui, même si la connaissance a probablement évolué depuis la publication de l'opus. Un des problèmes fondamental réside dans l’expansion incessante du nombre des individus, la reine pond sans cesse à un rythme effréné sans qu’aucun système de régulation ne freine le processus de reproduction. Quel pourrait être le but d’une telle frénésie reproductrice ? L’auteur laisse cette question en suspens. Pour clore la trilogie, nous resterons sur une autre interrogation formulée également par Maeterlinck : « Les fourmis iront-elles plus loin ? » Rien ne permet de le dire mais rien n’est impossible, l’accroissement exponentiel du nombre des individus reste une hypothèse plausible et, dans ce cas, l’étendue des dégâts qu’elles causent peut croître elle aussi de façon extraordinaire. Et si cette question n’appartenait pas au seul domaine de la science ? A la lecture de la trilogie, on constate que Maeterlinck n'a pas craint de se la poser.


Denis BILLAMBOZ


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mardi, 10 mars 2020

Actualité d’Alexandre Douguine

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Actualité d’Alexandre Douguine

par Georges FELTIN-TRACOL

Ex: http://www.europemaxima.com

Cela fait bientôt quatre ans que le philosophe russe Alexandre Douguine est interdit de séjour dans l’ensemble de l’Union dite européenne en raison de ses prises de position interventionnistes contre l’Ukraine. Cette interdiction n’empêche heureusement pas les vaillantes éditions Ars Magna de Nantes de poursuivre et d’amplifier la parution en français des ouvrages du penseur de la « quatrième théorie politique ». Il y en aurait plus de soixante-dix disponibles en russe…

En octobre 2019 paraissait dans la collection « Heartland » Les racines de l’identité (écrits eurasistes 2012 – 2015) (300 p., 30 €) suivi un mois plus tard dans la même collection par Le retour des grands temps (écrits eurasistes 2016 – 2019) (449 p., 32 €). Le titre de ce dernier livre est une référence évidente à un ouvrage de Jean Parvulesco sorti en 1986 chez Guy Trédaniel. Alexandre Douguine n’a jamais caché son admiration pour ce romancier qui joua dans À bout de souffle de Jean-Luc Godard. Il est compréhensible que l’éditeur en reprenne le titre.

Dans ces deux nouveaux ouvrages, Alexandre Douguine prend acte de la domination tyrannique de l’Occident matérialiste ultra-moderne. Il offre en réponse une alternative résolument non libérale qui ne puise pas dans ces échecs historiques que furent le communisme et le fascisme. Dans cette « ère des titans » post-moderniste, l’auteur s’applique à définir de nouvelles orientations. Ainsi confirme-t-il que l’ennemi principal, l’ennemi majeur, l’ennemi prioritaire demeure « le libéralisme [qui] est le nom de la mort (Le retour…, p. 26) ». En effet, « le libéralisme détruit tout sens de l’identité collective, écrit-il avec raison, et, logiquement, le libéralisme détruit l’identité européenne (avec sa soi-disant tolérance et ses théories des droits humains) (Idem, p. 72) ». Il dénonce en outre la complicité étroite des différentes coteries politiciennes, du gauchisme sociétal à l’extrême droite suprémaciste en passant par les formations institutionnelles, qui se soumettent aux injonctions libérales.

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Il insiste sur la démarche macabre du monde occidental et ne s’étonne pas de l’actuelle mode des zombies qui déferlent au cinéma, dans la bande dessinée, dans les séries télé et dans les jeux vidéo. Il prend en contre-exemple l’action déterminante de Vladimir Poutine. « Il choisit la puissance, pas la démocratie, affirme Douguine. L’unité, pas le pluralisme territorial. L’ordre, et pas le chaos sanglant et la guerre civile. En bref, face à la mort, Poutine choisit la vie. La vie du pays, de l’État, de la nation (Id., p. 207). »

En ce moment crucial où « la post-modernité doit être globale (Id., p. 223) », Alexandre Douguine considère que « la redécouverte de la pré-modernité est la seule action logique. Ici nous rencontrons la philosophie traditionaliste et la critique essentielle du monde moderne en tant que concept (Id., p. 223) ». De tels propos pourraient dérouter plus d’un lecteur. Toutefois, si l’auteur commente l’actualité politique (il mise beaucoup sur les Gilets Jaunes français pour contrecarrer les manœuvres mondialistes), il s’appuie toujours sur la géopolitique qui « dans l’ère de la fin des idéologies est la seule manière d’interpréter correctement les relations internationales et certains processus intérieurs. Ainsi, poursuit-il, l’ignorance de la géopolitique est une action contre soi-même. Si vous n’êtes pas sujet de la géopolitique, vous êtes simplement son objet (Id., p. 305) ».

Alexandre Douguine fournit à tous les combattants anti-cosmopolites de bien belles munitions tant spirituelles que politiques, culturelles que sociales qu’on comprend mieux maintenant pourquoi il est devenu l’ennemi public n°1 de la République globalitaire des Lettres inverties.

Georges Feltin-Tracol

• « Chronique hebdomadaire du Village planétaire », n° 162, mise en ligne sur TV Libertés, le 2 mars 2020.

dimanche, 08 mars 2020

Guillaume FAYE, 1 an déjà... Son roman posthume arrive en avril !

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Guillaume FAYE, 1 an déjà...

Son roman posthume arrive en avril !

 
- Je publie la vidéo dans une version remontée : les 100 collectors sont partis dans la nuit.
 
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17:12 Publié dans Livre, Livre, Nouvelle Droite | Lien permanent | Commentaires (6) | Tags : guillaume faye, hommage, nouvelle droite | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook