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jeudi, 06 septembre 2018

Il fondamentalismo protestante negli USA

Alcune note su religiosità evangelical e dissimulazione della postmodernità

Gli avvenimenti succedutisi dopo gli attentati dell’11/9/2001 hanno sensibilmente accresciuto l’interesse deimedia sulla questione delle relazioni tra USA ed Europa e tra il cosiddetto “Occidente” – che queste rappresenterebbero – e il mondo islamico. Tenuto conto che le vaghe nozioni di “Occidente” e di “Islam”, come è stato a lungo ripetuto, non possono sic et simpliciter rimandare a blocchi culturalmente monolitici, è lecito,da europei, chiedersi se il primo dei due concetti possa correttamente indicare la sostanziale unità di “visioni del mondo” ­­– e quindi di intenti geopolitici – tra gli Stati Uniti d’America e l’Europa (un’Europa che, peraltro, consiste attualmente solo in un moloch burocratico privo di una politica e di un esercito comuni, senza considerare gli enormi squilibri economici che la caratterizzano al suo interno).

Prendiamo le mosse dalla storia religiosa, a nostro parere punto di osservazione privilegiato per tentare di comprendere le dinamiche culturali sottese alla formazione dell’identità americana, che, senza menzionare altri influssi certamente determinanti ma posteriori, può essere a ragione ritenuta un’identità “religiosa”, nello specifico fondata sul protestantesimo di orientamento congregazionalista. Come è noto, la società statunitense si costituì a partire da una frattura con quella europea; per i Pilgrim Fathers, i poco più di 100 puritani inglesi che nel 1620, sbarcati dal Mayflower, fondarono la colonia di Plymouth (Massachussets), l’Europa costituiva una realtà oppressiva da cui separarsi per inaugurare una nuova civiltà (se si dà uno sguardo ai biglietti americani da un dollaro, vi si legge l’inequivocabile mottoNovus Ordo Seclorum)[1]: in questo senso, gli USA possono essere considerati da un lato come il prodotto storico-culturale del rifiuto europeo di una Weltanschauung calvinista radicale, dall’altro come il tentativo di formazione, per l’appunto, di un nuovo ordine, fondato su principi etico-religiosi incompatibili con quelli del vecchio continente. 

Attualmente, il camaleontico panorama religioso a stelle e strisce è caratterizzato dalla presenza di un crogiolo di fedi e credenze nel quale non è sempre facile districarsi: ad una robusta dose di cattolicesimo non del tutto romano si giustappongono ­– per citare due forme di espressione del “sacro” tipicamente statunitensi – le evasioni neo-gnostiche del New Age e la più inquietante deriva satanica, nelle sue declinazioni “acida” ovvero “occulta”; oltre, ovviamente, alla galassia delle denominazioni protestanti, che vanno dalle Chiese liberal che ammettono il sacerdozio femminile e sdoganano l’omosessualità alle apparentemente sedate milizie antigovernative: il pluralismo, si dirà, è l’anima della democrazia (in particolare statunitense).

Ora, i principi informatori del congregazionalismo seicentesco costituiscono il punto di partenza di un iter che, sulla base del minimo comune denominatore del ritorno ai fundamentals della fede e di una ermeneutica biblica rigidamente letterale – ciò che inevitabilmente produce una prospettiva di stampo apocalittico-millenaristico –, ha condotto alla nascita del cosiddetto “fondamentalismo”, venuto alla luce per l’appunto in contesto protestante statunitense nei primi decenni del XX secolo. Oggi una tale tendenza si concentra per lo più nell’ambito delle denominazioni pentecostali, battiste ed evangelical, riscuotendo particolare successo fra i ceti medio-borghesi e nelle aree rurali della Bible belt; ma non risulta essere assente neanche negli stati a forte maggioranza liberal, motori dell’economia e della cultura americana, quali New York e California.

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Il fondamentalismo, categoria tassonomicamente utilissima ma necessariamente generalizzante (in quanto costituita a partire da un processo di astrazione), costituisce negli USA un fenomeno articolato, anche in ragione della complessità della società in cui è inserito: in primis, esso non è in toto riducibile – come talune generalizzazioni giornalistiche sembrerebbero far credere – all’ambito della destra religiosa[2], sebbene questa ne abbia spesso egemonizzato la visibilità a livello mass-mediatico e l’influenza a livello politico. A tal riguardo, si pensi al caso dell’ex presidente degli Stati Uniti J. Carter, battista georgiano di orientamento politicamente e teologicamente progressista (a motivo del quale si è staccato dalla Chiesa battista del sud, che al contrario mantiene posizioni conservatrici in materia di omosessualità, sacerdozio femminile ed evangelizzazione degli ebrei)[3]; si noti in particolare che l’orizzonte dei valori etici dei protestanti “radicali” à la Carter, fondato sull’umanitarismo e sul solidarismo, risulta essere indubbiamente più prossimo ai fermenti controculturali di fine anni ’60 che agli orientamenti della medesima destra religiosa. Anche sulla questione centrale delle relazioni tra fede e politica, il fondamentalismo statunitense propone una serie di posizioni contrastanti, che spazia dall’assoluto disimpegno degli Amish – dipendente dal loro “escatologismo spiritualizzato” di fondo – alla prepotente pressione esercitata sull’amministrazione Bush, all’inizio del nuovo millennio, dalla religious right, che tende alla sacralizzazione della nation under God: sacralizzazione che, nelle discutibili elucubrazioni di P. Robertson, massimo rappresentante dei telepredicatori statunitensi ed intimo di G.W. Bush, si realizzerà secondo il modello di una teocrazia americano-cristiana che, a parte la difficoltà storica di applicare un tale sistema nell’ambito del Cristianesimo (per di più anglosassone!), appare certamente meno una opzione meditata che non una involontaria parodia di lontani e maldigeriti echi provenienti da certa teologia politica medioevale. L’adesione ad una chiesa fondamentalista, peraltro, garantisce generalmente una esperienza emotivamente forte e totalizzante, in cui non vi è posto per la separazione tra vita e fede – e dunque tra politica e religione –, semplicemente perché la prima è inglobata nella seconda: dal che promana un sostanziale disconoscimento del principio occidentale (statunitense) di separazione dell’autorità civica da quella religiosa.

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Agli occhi di un europeo, le modalità di estrinsecazione del culto delle sette protestanti determinano, in linea generale, due ordini di reazioni: da un lato, di fronte alle forme di espressione rituale della “Chiesa elettronica”, vi è l’impressione di un trattamento “grossolano” del sacro, neanch’esso esentato da quella tendenza alla spettacolarizzazione che costituisce uno dei tratti essenziali dell’American way of life; dall’altro, la liturgia e l’iconografia in uso in special modo presso le chiese calviniste suscitano la percezione di una assenza della dimensione simbolica: ciò si manifesta significativamente secondo le polarità, opposte ma in certo senso convergenti, dell’eccesso e della “semplificazione”. Nell’arcipelago fondamentalista si passa, infatti, da “chiese” che sono teatri, palazzetti dello sport o stadi, nei quali la musica gospel e rock (!) fa da contraltare ad un atteggiamento e ad un vestiario sommamente irrituali, a luoghi di culto freddi, spogli e banali, del tutto privi dei simbolismi propri dell’arte cristiana tradizionale.

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Il fondamentalismo statunitense, piuttosto che attuare il topos protestante del recupero del Cristianesimo originario, sembra quindi, da questo punto di vista, dar luogo ad una “fuga in avanti” che mescola un’attitudine postmoderna inevitabilmente influenzata dallo stile di vita statunitense, una teologia ridotta appunto ai fundamentals e la riduzione della religiosità ad ethos e/o ad esperienza emotiva: la religione è, in specie nel caso emblematico dei pentecostali, spiritual healing, culto di guarigione, ovvero counselling, cura pastorale talora esperibile via cavo. Le derive “miracolistiche” non sono peraltro del tutto sconosciute nel cattolicesimo, manifestandosi in particolare nell’ambito del movimento del “Rinnovamento nello Spirito” – che gode di solidi sostegni anche all’interno della Chiesa romana –, all’interno del quale, non a caso, si “scavalca” di fatto la gerarchia ecclesiastica (in altro abito, negli “scrutini” dei neocatecumenali, un laico può giudicare i progressi spirituali di un sacerdote, decidendone l’avanzamento ai livelli superiori del “cammino”): in questo senso, una relazione “pubblica” con il sacro assolutamente priva di mediazioni non può non avere come corollario la negazione dell’idea di gerarchia. Inoltre, lo spirito “settario”, elemento che accomuna i pentecostali ai carismatici nostrani, costituisce sia una indiscutibile forza di attrazione verso tali movimenti – garantendo al fedele la partecipazione ad un sistema chiuso ed autoreferenziale, che propone una visione del mondo accessibile a tutti e delle risposte chiare ai quesiti essenziali –, sia la sua intrinseca debolezza, impedendo in tal modo l’adesione ai movimenti in questione da parte di fette maggiori di credenti.

Ad ogni modo, il fondamentalismo costituisce, a ben guardare, l’altra faccia del laicismo, rispetto al quale si è storicamente posto come reazione: reazione in specie rivolta contro l’illanguidimento delle Chiese storiche protestanti, compromesse, mediante l’elaborazione di una teologia “liberale”, con i processi di laicizzazione/secolarizzazione operanti in Occidente; la posizione al riguardo della destra religiosa, al contrario improntata alla valorizzazione pubblica della fede cristiana, risulta significativamente in contrasto con la linea dello stesso protestantesimo “tradizionale”, se si pensa solamente al fatto, da tempo acclarato sulla base dei celeberrimi studi di M. Weber, che è stata proprio l’etica protestante (nello specifico calvinista) ­– e non genericamente “il Cristianesimo” – a plasmare il capitalismo e, di rimando, il mondo moderno con il suo corollario di riduzione della fede a fatto privato[4].

Tuttavia, il rimedio fondamentalista al decadimento del protestantesimo istituzionale, cui si faceva cenno sopra, rischia di rivelarsi più problematico del male che vorrebbe curare, essendo privo di autorevoli riferimenti ad un saldo “centro”. Inevitabili sono, in tal senso, ulteriori degenerazioni, di segno apparentemente opposto, ad esempio di ordine “sincretistico”: a dimostrazione di ciò, si pensi al caso della Chiesa cristiana avventista del settimo giorno, che mescola un messianismo a base di continue profezie sulla parousía – peraltro costantemente smentite dai fatti! –, usanze ebraiche (il sabato come giorno di riposo), un salutismo tipicamente moderno inaugurato dai corn flakes del dott. Kellog ed un orientamento politicamente e socialmente progressista, fondato su di una ideologia umanitaria ed espresso, tra l’altro, nella ferma condanna della pena di morte (ciò in netta controtendenza rispetto alle altre Chiese evangelical)[5]. A questo proposito, ci sembra che una tale problematicità derivi essenzialmente da quello che può essere considerato il “peccato originale” del protestantesimo, condotto alle estreme conseguenze nei suoi (inevitabili?) esiti fondamentalisti: l’incomprensione del fatto che, laddove la relazione “privata” del credente con Cristo è eminentemente personale e diretta, quella “pubblica” con il sacro – implicante in primo luogo l’interpretazione del testo biblico – deve di necessità assumere una mediazione ecclesiastica autorevole.

Alcuni temi etici concernenti in particolare il versante della difesa della vita, portati avanti per lo più dalla destra religiosa, inoltre, non contrastano con il magistero della Chiesa romana; anzi, in alcuni casi la critica dei telepredicatori alla ingiustizia di alcuni provvedimenti legislativi in materia di aborto e di eutanasia sembra essere più convinta di quella cattolica, grazie ai toni generalmente urlati che contraddistinguono gli infiammati sermoni dei pastori fondamentalisti (si pensi anche alla questione della preghiera nelle scuole pubbliche, sulla quale gli ambienti evangelical continuano a dare battaglia: questione, tra l’altro, inestricabilmente legata al principio di laicità dello stato, in merito al quale si sono più volte favorevolmente pronunciati gli esponenti del protestantesimo storico): in effetti, a parte gli irriducibili contrasti a livello antropologico, ecclesiologico e teologico con la Chiesa cattolica ed ortodossa, colpiscono le forme del discorso pubblico proprie della “Chiesa elettronica”. In questa declinazione postmoderna della fede cristiana è del tutto assente – anzi, è negata ­– la nozione di tradizione, perlomeno nell’intendimento cattolico e ortodosso del termine. In realtà, la prospettiva dei settori più aggressivi degli evangelical americani è basata sulla necessità di una “guerra culturale” – ciò che riduce il Cristianesimo a fatto politico e morale.

Preaching_at_Bele_Chere_2007.jpgIl protestantesimo, e a maggior ragione le sue derive fondamentaliste, costituiscono dunque la recisa opposizione al Cristianesimo “tradizionale”, annoverando tra i loro principi fondanti un’antropologia tendenzialmente disincarnata, il recupero di una dimensione morale che sfocia spesso nel moralismo, la tesi della predestinazione assoluta calvinista, che rischia di ridurre l’uomo a “burattino” della divinità, la critica del ritualismo cattolico; si aggiungano a ciò il totale misconoscimento della nozione di gerarchia, operato in virtù di un livellamento democratico ed egualitario tipicamente anglosassone, e la commistione tra un’ostentata morigeratezza pubblica (cui non sempre corrisponde un’analoga condotta privata…) ed un individualismo che trova la sua sublimazione nel liberismo economico: uno dei classici topoi, quest’ultimo, del discorso di certo protestantesimo, estremizzato dalla asserzione calvinista secondo cui il successo economico è segno della benedizione divina. A questo proposito, si dovrà prima o poi riconoscere che le presunte “conquiste” della società postmoderna (comunque quasi esclusivamente di ordine tecnologico e materiale) dipendono in larga misura dal notevole abbassamento degli standards morali in uso presso la civiltà occidentale[6], e sono state ottenute a costo di una gigantesca sperequazione nella distribuzione delle ricchezze: ciò che costituisce il portato di una concezione mercantilistica dell’esistenza (applicata persino alla divinità!), concezione di cui l’assunto calvinista sopra citato rappresenta un significativo esempio.

Per concludere queste brevi osservazioni, ci sia concessa una provocazione di ordine storico-culturale. La civiltà postmoderna, nata con la legittimazione morale del bombardamento atomico di Hiroshima, operazione che ha contribuito a liberare l’umanità dal tabù dell’indiscriminato massacro di civili[7] e dall’imperativo etico della pietà per i vinti, può essere considerata in questo senso l’esito apocalittico dell’utilitarismo liberale di scuola anglosassone. La giustificazione di quella immane strage – che ha costituito la eloquente dimostrazione della barbarie della guerra moderna (si badi bene: non tanto della guerra in sé, ma della guerra moderna) – ha determinato il definitivo collasso di un Occidente già in crisi secolare: in una parola, la morte dell’Europa. Pure, siamo certi che l’avanzamento politico della destra evangelica, in particolare negli anni dell’amministrazione Bush jr, abbia coinciso con il riemergere del sacro negli Usa? Oppure eravamo di fronte ad una colossale, ma al tempo stesso sottile dissimulazione di concreti interessi economici e geopolitici – peraltro contrastanti con quelli del resto del mondo –, che si occultavano dietro la maschera di quei “valori cristiano-americani” formalmente accettabili (e spesso in buona fede e sostanzialmente accettati) agli occhi di un’opinione pubblica spesso fuorviata dalla “civiltà delle immagini”?

Marco Toti.



[1]D. Fennell, La fragilità della civiltà postoccidentale, Trasgressioni, 28, maggio-agosto 1999, 68-69.

[2]P. Naso, God bless America. Le religioni degli americani, Roma 2002, 67-68.

[3]Ibidem, 68-69.

[4]A tal proposito, riteniamo in questa sede opportuno smascherare il gigantesco equivoco, alimentato in Italia da potenti lobbies di “atei devoti” e di più o meno “strani cristiani”, rappresentato dalla tesi della “discendenza diretta” del liberalismo classico  ­– e dunque di uno dei fondamentali nutrimenti ideologici del mondo moderno ­– dal Cristianesimo (ovvero dal cattolicesimo: ma il liberalismo fu condannato, ad es. da S. Pio X!): ciò che consente la quantomeno spericolata asserzione di una naturale convergenza-complementarità di valori tra l’amministrazione statunitense di Bush jr e la gerarchia vaticana. Equivoco, questo, motivato da un intento politicamente e scopertamente antiislamico ed “occidentalista”: dunque, a ben guardare, antioccidentale in quanto “filoamericano”. In realtà, il mondo moderno, sia nella sua declinazione “giacobina” che in quella liberale di origine anglosassone, nasce da una interpretazione specifica dei precetti cristiani, ossia dal loro trasferimento dall’ambito spirituale a quello mondano: tanto è vero che il medesimo liberalismo, molto spesso supporto politico del protestantesimo statunitense, costituisce, allo stesso modo del socialismo scientifico, un’ideologia in nuce economicistica; e proprio in quanto ideologia, come il materialismo marxiano, si sviluppa a partire da un “escatologismo”, a sua volta procedente da una lettura non “tradizionale” del Nuovo Testamento.

[5]Naso, op. cit., 69-71.

[6]Fennell, cit., 73.

[7]Ibidem, 66 (l’espressione “liberazione dal tabù del massacro dei civili” si trova ibidem, 72).

Cultuurmarxisme - Essaybundel van Paul Cliteur e.a.

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Cultuurmarxisme

Essaybundel van Paul Cliteur e.a.

door Johan Sanctorum

Ex: https://doorbraak.be

Het is duidelijk dat er een nieuwe intellectuele wind waait in de lage landen, met een reeks denkers/auteurs die het zinkende eiland van de politieke correctheid verlaten hebben. Een aantal van hen ontmoeten we in de nieuwe essaybundel ‘Cultuurmarxisme’, samengesteld door filosoof-jurist Paul Cliteur.

CM-PC.jpgHet probleem van zo’n essaybundel, waarin we naast Cliteur namen terugvinden als Sid Lukkassen, Maarten Boudry, Derk Jan Eppink, en Wim van Rooy, is uiteraard de consistentie en de overlappingen. Soms krijg je wel eens een déjà-lu, ofwel tegenspraken waarvan je denkt: hadden ze dat niet beter eens uitgeklaard. Toch is het een interessante caleidoscoop van meningen en invalshoeken geworden, die ingaat op het fenomeen van de politieke correctheid, met de term cultuurmarxisme als sleutel. Ons artikel van woensdag j.l., ‘Het grote gelijk van links’, was daar een goede aanloop toe: een lectuur van een Knack-column getekend Bert Bultinck, die alle ‘witte’ Vlamingen per definitie als racisten beschouwt, uitgezonderd zichzelf allicht. Wat hem meteen de status geeft van moreel rechter, therapeut, zelfs orakel.

Betutteling van minderheden

Waarover gaat cultuurmarxisme? Over de manier hoe links via de media en de culturele instellingen haar eigen gelijk steeds weer te voorschijn goochelt. Journalisten, schrijvers, artiesten, culturo’s… allen behoren ze tot een nomenklatura die zichzelf in stand houdt als elite die onderdrukt, censureert, terwijl ze beweert voor vrijheid, democratie en emancipatie te gaan.

Niet langer was de klassenstrijd het ordewoord, wel de fameuze Lange Mars door de Instellingen.

Historisch is de term onverbrekelijk verbonden met de theorieën van de Italiaanse communist Antonio Gramsci (1891-1937), die vaststelde hoe links de greep op de arbeiders – die massaal naar de partij van Mussolini overliepen- verloor, en zich genoodzaakt zag het geweer van schouder te veranderen. Sid Lukkassen beschrijft die ommekeer op pittige en goed gedocumenteerde wijze. De nagestreefde culturele hegemonie van het Marxisme 2.0 stelde zich tot doel het volk van zijn vals bewustzijn (sic) te bevrijden door de media en de cultuurwereld te monopoliseren en van daaruit de revolutionaire waarheid te propageren. Niet langer was de klassenstrijd het ordewoord, wel de fameuze Lange Mars door de Instellingen. Een verschuiving van economie naar cultuur dus, via een soort Trojaansepaarden-tactiek.

Daardoor verloor het originele socialisme zijn band met het volk, en tendeerde de linkse doctrine naar een universele slachtoffercultuur: alle mogelijke minderheidsgroepen of benadeelden (vrouwen, allochtonen, holebi’s…) worden het fetisj van een intellectuele minderheid die haar getalmatige minoriteit wil omzetten in morele superioriteit. Of zoals Maarten Boudry het uitdrukt: ‘… de doorgeschoten verheerlijking van ‘diversiteit’ en de betutteling van minderheden, die ontaardt in een soort ‘Olympisch Kampioenschap van Slachtofferschap’. Zo ontstond een ‘surrogaat-proletariaat’ terwijl de werkende klasse massaal naar (centrum-)rechts overliep en de pococratische dogma’s weghoonde, wat de linkse elite nog meer in de rol van eenzame wereldverbeteraar duwde. Het is een vicieuze cirkel, een zelfversterkend mechanisme.

Advertentie

Hoewel wij het cordon hebben, manifesteert politieke correctheid zich in Nederland als sociaal fenomeen misschien nog extremer dan in Vlaanderen. Denk maar aan de jaarlijks terugkerende Zwartepietendiscussie en de spandoeken van groenlinks die de Syriëgangers verwelkomen. Udo Kelderman gaat daarbij specifiek in op die Nederlandse Zwartepietenkwestie en het dwangmatig refereren aan de slavernij: alle kleurlingen die in Nederland rondlopen zijn zogenaamde ex-slaven, wat de autochtoon in de rol van ex-slavendrijver duwt en dus schuldig aan misdaden tegen de menselijkheid. Door die paranoïde stigmatisering, ook gesignaleerd door Sebastien Valkenberg en Puck van der Land, manoeuvreert links zich in de rol van geweten-van-de-natie, waarbij tal van samenlevingsproblemen rond bijvoorbeeld migratie gewoon worden weggeblazen. Wie er toch aandacht aan besteedt, hoort bij fout-rechts en verliest alle intellectuele credibiliteit. Zo heb je natuurlijk altijd gelijk.

Totalitaire tendensen

De uitbouw van een sterke bureaucratie met repressieve tentakels die de burger bij de les moeten houden.

Een consequentie van het cultuurmarxisme, dat zweert bij de bovenbouw en de instellingen, is tevens de uitbouw van een sterke bureaucratie met repressieve tentakels die de burger bij de les moeten houden. Denk maar aan parastatale vzw’s als UNIA. Het fenomeen profileert zich ook via de groene betuttelingsmanie en de stigmatisering van de burger als vervuiler, waar Jan Herman Brinks een bijdrage aan besteedt. Maar ook in het onvoorstelbare waterhoofd dat EU heet, de supranationale schoonmoeder die steeds meer bevoegdheden naar zich toetrekt: het uitverkoren domein van Derk Jan Eppink die stevig van leer trekt tegen de EU als neo-cultuurmarxistisch project. Het verklaart de rabiate eurofilie van oude ‘68ers als Paul Goossens en revolteleider Daniel Cohn-Bendit, deze laatste ook niet toevallig bekeerd tot het groene gedachtegoed. Wat Paul Cliteur doet besluiten dat het cultuurmarxisme fundamenteel een ondemocratische beweging is.

Dat vermoeden van een omfloerste dictatuur wordt gestaafd door de soms discrete, soms manifeste affiniteit van linkse westerse intellectuelen met totalitaire systemen en regimes, met Mao-China uiteraard als model waar de ’68ers zich op verkeken, en het bezoek van J.P. Sartre aan de Sovjet-Unie van de jaren vijftig als archetype. Een affiniteit die Eric C. Hendriks in de verf zet.

De bijdrage van Wim van Rooy mag in dat opzicht ook niet onvermeld blijven, daar waar hij postmoderne theoretici als Derrida en andere ‘68ers of nakomelingen analyseert als uitvoerders van een nihilistisch weg-met-ons-project, een identitaire deconstructie die finaal uitloopt op de masochistische omarming van een anti-democratische geweldcultuur als de islam. Hetzelfde geldt voor de bizarre alliantie tussen feminisme en islamofilie, een fenomeen dat Jesper Jansen belicht.

‘Complotdenken’

De gemeenschappelijke noemer van alle bijdragen is enig cultuurpessimisme waar ik me niet altijd kan in vinden. Met name lijkt me de banvloek over de postmoderne denkers niet helemaal terecht, want hun behoefte aan deconstructie, met Nietzsche als verre stamvader, treft elke vorm van totalitair denken en zeker ook religieuze ideologieën als de islam. Het westerse denken is fundamenteel kritisch en de ironie is nooit ver weg, iets wat we van de antieke Griekse filosofie hebben overgehouden en moeten blijven koesteren. Dat is nu net het kenmerk van het cultuurmarxisme: het mankeert elk gevoel voor humor, evenals de grote monotheïstische systemen trouwens.

Men zou het ook kunnen zien als iets viraals, een kwaadaardig proces dat zich geautomatiseerd heeft en uitwoekert

Het spreekt vanzelf dat links heel de gedachtegang van dit boek zal wegzetten als een ridicule complottheorie. Misschien geeft de ondertitel ‘Er waart een spook door het Westen’ daar ook wel enige aanleiding toe. Is het echt zo dat er ergens in een bunker door topintellectuelen wordt beraadslaagd over de controle van de culturele instellingen, de media en het mainstreamdiscours? Natuurlijk niet, zegt Paul Cliteur, het is veel erger dan dat, want dan konden we het ding makkelijk oprollen. Het gaat daarentegen om een duurzaam paradigma dat zich via netwerking, sociale druk en soms regelrechte chantage of dreiging met broodroof reproduceert. Een fenomeen waar Puck van der Land, Sebastien Valkenberg en Emerson Vermaat bij stilstaan. Men zou het ook kunnen zien als iets viraals, een kwaadaardig proces dat zich geautomatiseerd heeft en uitwoekert, voorbij de generatie van de ‘68ers die vandaag overigens hun pensioensleeftijd hebben bereikt zonder dat we hun erfenis zomaar kunnen dumpen. Perry Pierik heeft het over kneedbaarheid en besmettelijkheid: ‘Het woord cultuurmarxisme is zo beladen, omdat het een proces aangeeft van ideeën en krachten, dat als semtex plakt aan het gereedschap van de progressieve wereld, waarmee de Gutmensch zijn morele gelijk veilig probeert te stellen.’

De remedies?

De rechtstaat dient een breed gedragen wettelijk kader te creëren waarin hij zichzelf beschermt tegen aanvallen van buitenuit

Dat maakt het ook zo hachelijk om er tegenin te gaan, en het discours over cultuurmarxisme voorbij de klaagzang te tillen. Zijn er tegenstrategieën mogelijk, methodes, attitudes, werkmodellen die de cultuurhegemonie van links kunnen doorbreken? Slechts enkele auteurs durven het aan om een alternatief te formuleren. Samensteller Paul Cliteur pleit voor een weerbare democratie: dat is een democratie die zich niet passief-pluralistisch laat vullen met alle mogelijke politieke tendensen of religiën, maar die georiënteerd verloopt, met een duidelijk kompas, gericht op het voortbestaan en de bloei van die democratie. Niet elke levensbeschouwing komt in aanmerking om door de rechtstaat zomaar aanvaard te worden, ze mag zich niet suïcidaal gedragen. Deze toetssteen geldt in de eerste plaats voor de drie grote totalitaire ideologieën van vorige en deze eeuw, namelijk fascisme, communisme, islamisme. De rechtstaat dient een breed gedragen wettelijk kader te creëren waarin hij zichzelf beschermt tegen aanvallen van buitenuit, denk aan de islam die de godsdienstvrijheid inroept om uiteindelijk de sharia te kunnen instellen. Anderzijds zou dit weer kunnen leiden naar een weldenkende consensusdemocratie met cordons etc. – Het debat hierover is zeker nog niet ten einde.

Sid-portret-boekenbeurs-300x300.pngSid Lukkassen komt tot een andere conclusie: de culturele hegemonie van links moeten we laten voor wat ze is. We moeten compleet nieuwe, eigen media, netwerken en instellingen oprichten die niet ‘besmet’ zijn door het virus en voor echte vrijheid gaan: ‘De enige weg voorwaarts is dus het scheppen van een eigen thuishaven, een eigen Nieuwe Zuil met bijbehorende instituties en cultuurdragende organen. Die alternatieve media zijn volop aan het doorschieten, Doorbraak is er een van.

Eric C. Hendriks pleit in het afsluitende essay ten slotte voor een zekere mate van chaos (‘rommeligheid’) en échte diversiteit, niet de geënsceneerde diversiteit van links, maar gebaseerd op individuele mondigheid en autonomisme, bloemen die bloeien vanuit het ‘burgerlijke midden’. Dat is een mooi einde. Zo’n boek, zelfs over het cultuurmarxisme, mag niet eindigen als een klaagzang van een stel querulanten. Er is hoop, er schuilt kracht in de basis, het volk is moe maar niet uitgeteld, niet alle jonge intellectuelen doen in hun broek, er ontluikt een tegendemocratie.

‘Cultuurmarxisme’ is een plaats in uw boekenkast zeker waard, misschien naast ‘De Langste Mars’, want goed gezelschap versterkt elkaar. Op negen november e.k. gaan de auteurs van beide,- Paul Cliteur,  Sid Lukkassen en ondergetekende,- een panelgesprek aan op de Antwerpse boekenbeurs. Nu al noteren.

France diplomatie-Macron AN II : Un fiasco diplomatique total

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France diplomatie-Macron AN II : Un fiasco diplomatique total

 
 
Auteur : René Naba
Ex: http://www.zejournal.mobi

« Il y a plusieurs sortes d’intelligences dont la bêtise n’est pas la moindre». 

Thomas Mann.

Le président Emmanuel Macron a inauguré le 27 Août à Paris la XXVIe conférence des Ambassadeurs de France, deuxième exercice du genre depuis son élection à la magistrature suprême, en 2017. Retour sur le fiasco diplomatique français à l’arrière plan des objectifs inavoués de la diplomatie française sous la mandature Macron.

Sauvé par le gong

Sauvé par le gong. Pour paradoxal que cela puisse paraître, Emmanuel Macron est redevable de sa nouvelle visibilité internationale à Vladimir Poutine, si pourtant vilipendé par la presse française, en ce que la lune de miel entre Jupiter de France et le gougnafier de l’immobilier américain a tourné en lune de fiel.

Diner privé à la résidence de George Washington, le père de la nation américaine, discours devant le Congrès, pichenette pelliculaire sur l’épaule du président français, accolades, embrassades, poilade et fortes empoignades… Tout un tralala et patati et patata. Et puis patatras.

Certes, Vladimir Poutine, ainsi que se gaussaient les éditocrates français, éprouvait un besoin pressant de sortir de son isolement et d’alléger la Russie des sanctions économiques qui la frappaient du fait de son annexion de la Crimée et de son soutien victorieux à la Syrie. En un parfait synchronisme, la caste intellectuelle française, symptomatiquement, donnait d’ailleurs de la voix pour freiner une orientation dictée impérativement par le principe de réalité et le désastre français en Syrie, en mettant en garde contre une « alliance qui serait contraire aux intérêts de la France».

Cf à ce propos la tribune co-signée par les pontifiants Nicolas Tenzer, Olivier Schmitt et Nicolas Hénin.

C’était sans compter sur le rebond du prix du pétrole (80 dollars le baril) qui a donné une bouffée d’oxygène au trésor russe. C’était sans compter aussi sur l’unilatéralisme forcené du plus xénophobe président de l’histoire américaine qui a eu raison de la belle complicité entre deux présidents si antinomiques.

La pêche aux voix, à six mois des élections américaines du mid term (mi mandat), cruciales pour le locataire de la Maison Blanche, a terrassé la belle amitié entre la grande démocratie américaine et la « Patrie de Lafayette». En état de lévitation, Emmanuel Macron s’est retrouvé subitement en suspension devant un vide abyssal avec pour unique perspective la risée universelle.

Tuile supplémentaire, l’euphorie du Mundial 2018 dont il espérait un rebond de popularité a tourné court, phagocytée par la ténébreuse « affaire Alexandre Benhalla », dont les basses oeuvres élyséennes ont révélé la face hideuse du macronisme.

Dans l’allégresse de son élection, le président français fraichement élu avait pourtant brocardé son hôte russe, en juin 2017, dans le majestueux site du Château de Versailles, ironisant sur le travail de propagande des médias russes. Le lancement de la version française de Russia Today avait d’ailleurs donné lieu à un concert d’indignation invraisemblable de la part d’une caste journalistique qui émarge peu ou prou sur des budgets du grand capital ou des budgets publics de l’audiovisuel français, dont la quasi totalité des grands vecteurs relève d’ailleurs du service public, comme en témoigne cette liste non exhaustive (France télévision, Radio France, France 24, RFI, RFO, TV5 CFI), alors que la presse écrite est sous contrôle des conglomérats du grand capital adossés aux marchés publics de l’état (le Monde du trio BNP (Berger, Niel Pigasse), le Figaro (Dassault, aviation), Libération-l’Express (Patrick Drahi, téléphonie mobile), le Point (François Pinault), Les Echos (Bernard Arnault), le Groupe Canal + (Vincent Bolloré, le prospecteur d’une Afrique qui n’est « pas encore entrée dans l’histoire », selon l’expression de l’hôte de son yacht, Nicolas Sarkozy).

Ci joint un échantillon de la prose développée lors du lancement de RT

Sauf que la diplomatie russe s’inscrit dans la durée et le long terme et que Vladimir Poutine a survécu à quatre présidents français (Jacques Chirac, Nicolas Sarkozy, François Hollande et Emmanuel Macron). De surcroît, le pardon des offenses est la marque des grands hommes.

Un an plus tard, dans un retournement de situation rare dans l’histoire, l’hôte russe brocardé a entrepris de renflouer le novice, dans un geste d’une élégance qui constitue la marque de l’assurance.

La scène, raffinement suprême, s’est déroulée devant le plan d’eau du non moins majestueux site du palais des Tsars à Saint Petersbourg, l’équivalent russe de Versailles.

Un repêchage juste au dessus de la ligne de flottaison. Car entre la Russie et la France, il existe une différence d’échelle. Celle qui distingue une puissance planétaire souveraine, d‘un sous traitant des États-Unis dans ses anciennes zones d’influence en Afrique et au Moyen Orient quand bien même il se situe au 2e rang mondial de par son domaine maritime de l’ordre de 10 millions de Km2. Suprême humiliation, le plus ancien allié des États-Unis se retrouve à la merci de ses sanctions économiques.

Dans l‘ordre symbolique, la différence d’échelle trouve d’ailleurs son illustration la plus concrète dans celle qui distingue un des grands diplomates de l’époque contemporaine, d’un bureaucrate poussif et sans relief… Entre l’impassible et inamovible russe Serguei Lavrov, en poste depuis 2004, et son homologue français Jean Yves Le Drian, y’a pas en effet photo. Deux des prédécesseurs du français, Alain Juppé et Laurent Fabius, projetés sur le tatami par le russe, peuvent en témoigner.

Sur ce lien, le traitement énergisant réservé par Sergeuï Lavrov à Alain Juppé et Laurent Fabius :

L’erreur d’Emmanuel Macron, voire son malheur, aura été son absence d’empathie cognitive pour la quasi totalité des protagonistes des conflits du Moyen orient et son étonnant alignement sur un atlantisme exacerbé, alors que ce pur produit de l’intelligentzia française aurait dû pourtant se livrer à cet exercice qui consiste à se mettre intellectuellement à la place de l’autre pour comprendre les enjeux. Cela lui aurait épargné les avanies, alors qu’il se savait héritier d’une décennie diplomatique calamiteuse, du fait d’une double mandature présidentielle chaotique du post gaulliste Nicolas Sarkozy et du socialo motoriste François Hollande.

Un Moyen Orient sous la coupe atomique d’Israël

Dans son discours prononcé mercredi 24 avril 2018 devant le Congrès américain, M. Emmanuel Macron se proposait d’aménager un Moyen orient placé sous la coupe atomique d’Israël. « L’Iran n’aura jamais d’arme nucléaire. Ni maintenant, ni dans cinq ans, ni dans dix ans », a déclaré le président français, s’engageant en outre à réduire la capacité balistique de la République islamique iranienne de même que son influence régionale au Yémen, en Irak et au Liban, sans accompagner cet engagement d’une mesure de réciprocité concernant le désarmement nucléaire d’Israël.

Dindon de la farce, Emmanuel Macron a dû donner un violent coup de barre à sa politique moins d’un mois après sa profession de foi pour éviter le ridicule, en ce que l’idylle Macron-Trump tant célébrée par la presse française a finalement débouché sur une fracture transatlantique sur fond d’une guerre commerciale potentielle des États-Unis contre l’Union Européenne du fait du retrait américain de l’accord sur le nucléaire iranien.

Pis, le sommet du G7, le 10 juin 2018, a viré lui aussi au fiasco avec un tweet rageur de Donald Trump qui a complètement torpillé l’accord final. Avec dédain, la Russie a d’ailleurs refusé de réintégrer le barnum occidental préférant se tenir à distance du capharnaüm, qui s’est déroulé en toile de fond du sommet tripartite de Shanghai (Chine, Russie, Iran). Anormalement négligé par la presse occidentale, ce sommet, tenu le même jour que le G7, a mis au point la stratégie de riposte de l’axe de la contestation à l’hégémonie atlantiste, par un soutien multiforme à l’Iran.

Au delà du psychodrame occidental, la posture diplomatique de Jupiter de France a ainsi révélé les objectifs inavoués de la diplomatie française sous sa mandature: Un Moyen orient dénucléarisé, à faible capacité balistique iranienne, placé sous la coupe atomique d’Israël. Un pays qui dispose pourtant d’un arsenal de près de deux cents ogives à charge nucléaire, soustrait à tout contrôle international. Mais ce fait là, le petit génie de la vie politique française feint de l’ignorer.

Le strabisme divergent d’Emmanuel Macron

La sécurisation d’Israël ne saurait se traduire par une soumission permanente à la terreur atomique israélienne de l‘Asie occidentale, zone intermédiaire entre l’OTAN (Atlantique Nord) et l’OTASE (Asie du Sud Est), deux pactes militaires de l’Occident qui enserrent la Zone. Ni sa sanctuarisation par une dépossession de la Palestine.

Atteint de strabisme divergent, ce président d’un pays qui a coprésidé au découpage du Moyen orient en application des accords Sykes Picot, a invité l’Iran à ne pas déployer une position hégémonique au Moyen Orient, sans mentionner là aussi, ni le rôle de l’Otan, ni celui des États-Unis, pas plus celui d’Israël, voire même de la France et du Royaume Uni, encore moins le terrorisme islamique d’inspiration wahhabite. Un rare cas de stratégie surréaliste.

La posture macronienne relève de l’outrecuidance d’un pays, pourtant un des grands pollueurs atomiques de la planète, équipementier du centre atomique de Dimona (Israël), de l’Afrique du sud du temps de l’Apartheid et de l’Iran impériale via le consortium Eurodif, par ailleurs co-belligérant d’Israël contre l’Egypte (Suez 1956), de l’Irak contre l’Iran (1979-1989) et des Etats Unis et du Royaume Uni contre la Syrie (2018).

Pour aller plus loin sur la coopération nucléaire franco israélienne, ce lien :

Sur le potentiel nucléaire israélien :

Et sur la politique arabe de la France, ce lien :

L’outrecuidance macronienne s’était déjà illustrée dans ses fausses prévisions présidentielles sur l’annonce de la fin de la guerre anti Daech en Syrie, prévue, selon lui, pour fin février 2018, et la reprise de contact avec le pouvoir syrien. Contredite dans les faits, cette prédiction surprenante a révélé rétrospectivement l’amateurisme de ce président inexpérimenté dans les affaires internationales.

Il en a été de même sur le plan européen où la formation en Italie d’un gouvernement populiste, comportant plusieurs ministres ouvertement eurosceptiques, est venu porter un coup d’arrêt aux ambitions européennes du lauréat du Prix Charlemagne 2018.

L’exigence française de désarmer les formations para militaires chiites, -le Hezbollah libanais et le Hached Al Chaabi irakien (la Mobilisation Populaire)-, mais non les Peshmergas kurdes d’Irak, de même que les manigances françaises visant à démembrer la Syrie via la création d’une entité autonome kurde dans le nord du pays, relèvent de ce même dessein.

Toutefois, la décision de 70 tribus arabes de la riche plaine centrale de la Syrie de déclarer une guerre de guérilla contre la présence des « envahisseurs américains, français et turcs », le 1er juin 2018, pourrait refroidir quelque peu les ardeurs belliqueuses d’Emmanuel Macron, faisant resurgir le cauchemar de Beyrouth, avec l’assassinat de l’ambassadeur de France Louis Delamare, et le double attentat contre l’ambassade de France dans la capitale libanaise et le PC du contingent français de la force multinationale occidentale, en 1983 et 1984.

Fsné.jpgUn Maître espion « représentant personnel du président Macron pour la Syrie »

Luxe de sophistication qui masque mal un rétropédalage discret, Emmanuel Macron a nommé le 27 juin François Sénémaud, ancien directeur du renseignement à la DGSE, « représentant personnel du président de la République pour la Syrie». Cette astuce diplomatique devrait permettre au président français de contourner l’épineux problème de l’ambassade française à Damas, fermée sur ordre d’Alain Juppé, en mars 2012 et de lui éviter de désavouer ainsi publiquement ses deux prédécesseurs Nicolas Sarkozy et François Hollande

L’absence d’affectation territoriale du représentant français en Syrie pourrait constituer l’indice d’un timide dégagement de la France de l’opposition of shore syrienne pétromonarchique, en pleine débandade, en ce que « le représentant personnel du Président de la République pour la Syrie » pourrait l’habiliter à des contacts avec le pouvoir syrien en raison de son affectation fonctionnelle de sa mission « pour la Syrie».

Autrement dit, permettre au grand espion français de grappiller à Genève ou à Astana quelques miettes d’informations et oeuvrer ainsi en coulisses pour tenter une reprise progressive des relations diplomatiques entre les deux pays. Un exercice hautement aléatoire, tant la méfiance est grande du pouvoir syrien à l’égard de Paris.

Dans le même ordre d’idées, le double triomphe électoral des formations chiites, tant au Liban qu’en Irak, au printemps 2018, et le revers corrélatif de son protégé libanais Saad Hariri, ont retenti comme des camouflets majeurs de ce novice français et vraisemblablement douché ses ardeurs.

L’exigence du désarmement du Hezbollah libanais a coïncidé avec la décision du trésor américain de placer sur la « liste noire du terrorisme » Hassan Nasrallah et le conseil de gouvernance de sa formation en vue d’entraver la formation du nouveau gouvernement libanais post élections, à tout le moins de dissuader le rescapé Saad Hariri de toute coopération future avec la formation chiite, dont les états de service en Syrie ont largement contribué à renverser le cours de la guerre.

La liste a été établie le 16 mai 2018 au lendemain du transfert de l’ambassade américaine à Jérusalem et du carnage israélien impuni de Gaza, en concertation avec les pétromonarchies suivantes : l’Arabie Saoudite, Bahreïn, Les Emirats Arabes Unis, Qatar et le Sultanat d’Oman. Des états satellites de l’Amérique, réputés pour leur grande probité politique et leur pacifisme déclaré.

Au delà des apparences, le ciblage de l’Iran et du Hezbollah libanais figuraient en filigrane dans le projet diplomatique d’Emmanuel Macron comme en témoigne la structure diplomatique mise en place à son accession au pouvoir.

Cf sur ce lien le dispositif diplomatique présidentiel

L’instrumentalisation de l’histoire de France au prétexte des turpitudes de la collaboration vichyste

Que de surcroît le terme « Palestine » ait été complètement gommé de son discours américain, alors qu’Israël se refuse à la constitution d’une commission d’enquête internationale sur le carnage qu’il a commis à Gaza depuis le 30 Mars 2018, soit au total 97 tués et près de quatre mille blessés, confirme son extrême mansuétude à l’égard de l’état hébreu, de même que pour le Royaume saoudien, ordonnateur d’un massacre à huis clos du peuple yéménite.

La France macronienne mettra toutefois un bémol à son tropisme israélien lors du nouveau carnage israélien, le 14 Mai 2018, reconnaissant le droit à la liberté d’expression des Palestiniens et à leurs manifestations pacifiques. Elle annulera dans la foulée le déplacement du premier ministre Edouard Phillipe en Israël pour le lancement des festivités France Israël organisées pour la célébration du 70me anniversaire de la création de l’Etat hébreu. Un bémol, un laps de temps, avant de recevoir à Paris le 5 juin le premier ministre israélien, moins d’un mois après le 2e carnage israélien contre Gaza.

En juin 2018, un an après son entrée en fonction, Emmanuel Macron a dû se résoudre à l’évidence et acter un double constat d’une grande amertume. Le jeune premier de la politique internationale ne disposait pas du moindre levier d’influence sur les fauves du calibre de Donald Trump (États-Unis) et Benyamin Netanyahu (Israël). Le retrait de Total et de Peugeot du grand marché iranien en a apporté une preuve éclatante, révélant au grand jour l’absence de moyens de riposte aux décisions des dirigeants de ces deux grands alliés de la France.

Pis, en recevant à trois reprises le premier ministre israélien en moins d’un an, notamment à l’occasion de la commémoration de la « Rafle du Vel d’Hiv », la déportation par la police française des juifs français sous le régime de Vichy (1940-1944), Emmanuel Macron « contribue à instrumentaliser l’Histoire de France », selon l’expression de l’historienne Suzanne Citron.

Sur ce lien, la tribune de Suzanne Citron

Manoeuvres conjointes navales franco israéliennes pour la première fois depuis 1963

En dépit des protestations de façade, la France, sous le mandat d’Emmanuel Macron, a repris ses manoeuvres conjointes avec la marine israélienne interrompue depuis 55 ans. Pour la première fois depuis 1963, deux bâtiments de la marine israélienne ont participé à des exercices communs au large de Toulon en compagnie de la marine française, en juin 2018. La corvette INS Eilat et le navire lance-missile INS Kidon ont participé avec la frégate La Fayette à un large éventail de scénarios. Des chasseurs volant à basse altitude ont simulé le lancement de missiles anti-navires. Les exercices comprenaient aussi des entraînements au tir d’artillerie. Selon le Colonel Ronen Hajaj, commandant le département de l’entraînement et de la doctrine, « La France voit en Israël un partenaire maritime fort dans la région». En 2016 et 2017, le nombre de navires de guerre français ayant fait escale à Haifa et le nombre d’escales de bâtiments américains.

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Le déploiement stratégique occidental face à l’Iran

Doux rêveur ou redoutable ignorant ? Quoiqu’il en soit, Emmanuel Macron à Washington a dilapidé son capital de crédit, signant l’arrêt de mort d’un ré-équilibrage de la diplomatie française par son alignement aux thèses les plus extrêmes du néo conservatisme israélo-américain.

Sa profession de foi tranche en effet avec les capacités stratégiques d’un pays généralement considéré à capacité limitée, malgré ses claironnades périodiques. Elle témoigne de surcroît d’une tragique méconnaissance des réalités stratégiques régionales, alors que face à l’Iran, le Golfe apparaît comme une gigantesque base flottante américaine.

La zone est, en effet, couverte d’un réseau de bases aéronavales anglo-saxonnes et françaises, le plus dense du monde, dont le déploiement pourrait à lui seul dissuader tout éventuel assaillant. Elle abrite à Doha (Qatar), le poste de commandement opérationnel du Cent Com (le commandement central américain) dont la compétence s’étend sur l’axe de crise de l’Islam qui va de l’Afghanistan au Maroc ; À Manama (Bahreïn), le quartier général d’ancrage de la Ve flotte américaine dont la zone opérationnelle couvre le Golfe arabo-persique et l’Océan indien.

S’y ajoutent, Djibouti, plateforme opérationnelle conjointe franco américaine dans la Corne de l’Afrique, la base relais de Diego Garcia (Océan indien), la base aérienne britannique de Massirah (Sultanat d’Oman) ainsi que depuis janvier 2008 la plate forme navale française à Abou Dhabi ; sans compter une vingtaine de bases américaines déployées dans le nord de la Syrie et de l’Irak, pour le faux prétexte de combattre les alliés objectifs des pays occidentaux, les groupements islamistes Daech et Al Qaida.

Enfin, dernier et non le moindre des éléments du dispositif, Israël, le partenaire stratégique des États-Unis dans la zone. En superposition à ce dispositif, des barrages électroniques ont été édifiés aux frontières de l’Arabie Saoudite et des Émirats Arabes Unis pour décourager toute invasion ou infiltration.

L’Iran, en contrepoint, est soumise à embargo depuis 38 ans, entourée par quatre puissances nucléaires (Russie, Inde, Pakistan, Israël) et a dû riposter à une guerre d’agression menée par l’irakien Saddam Hussein pour le compte des pétromonarchies pendant dix ans (1979-1989).

La préconisation d’un accord de substitution à un précédent accord international, négocié pendant douze ans par sept parties dont l’Iran, la Russie et la Chine et entériné par l’ONU ; que, de surcroît cette proposition ait été lancée en partenariat avec un président américain totalement affranchi du Droit international par sa reconnaissance unilatérale de Jérusalem comme capitale d’Israël, relève de la désinvolture à tout le moins d’un amateurisme.

Ce faisant, Emmanuel Macron s’est hissé au rang de l’adversaire le plus farouche des aspirations du Monde arabe et musulman à la sécurisation de son espace national, à égalité avec Nicolas Sarkozy, Laurent Fabius et Manuel Valls, les petits télégraphistes des Israéliens dans les négociations sur le nucléaire iranien et sur la question palestinienne.

À égalité aussi avec son repoussoir, François Hollande, le ROMEO de la « chanson d’amour » en faveur d’Israël dans la cuisine de Benyamin Netanyahu, le premier ministre du gouvernement le plus xénophobe d’Israël.

La France au Yémen, un chacal

Le dos au mur, après la débandade de l’opposition off shore pétromonarchique syrienne et les avatars de Saad Hariri, son cheval de Troie libanais dans les projets de reconstruction de Syrie, la France a engagé ses forces spéciales auprès de ses alliés déconfis, –tant au nord de la Syrie auprès des Kurdes séparatistes, qu’au Nord du Yémen en soutien à Abou Dhabi pour la prise du port de Hodeida–, dans une tentative désespérée de demeurer dans le jeu de crainte d’une évacuation définitive de la scène régionale.

Au Yémen, la France a mis à la disposition de la coalition pétromonarchique une escadrille de 6 AirBus pour le ravitaillement en vol des chasseurs bombardiers de l’Arabie Saoudite et des Emirats Arabes Unis, ainsi que 4 « Rafale » opérant depuis la base de Djibouti pour des vols de reconnaissance du théâtre des opérations et de repérage satellite.

Trois mois après le début du conflit, en mars 2015, un avion ravitailleur Airbus 330-200 MRTT a été livré à l’Arabie Saoudite, le dernier d’une flotte de six. En avril 2017, deux de ces avions étaient déployés au Yémen. Indispensables à la guerre en cours, ils ravitaillent en vol les F-15 saoudiens.

Des canons Caesar 155 mm de l’entreprise française Nexter, des hélicoptères de transport Cougar du groupe EADS et des drones de renseignement militaire SDTI de l’entreprise française SAGEM sont livrés à la coalition saoudienne; En 2016, la France a livré 276 blindés légers. Ce lot est composé de blindés légers Renault Sherpa light et Vab Mark 3 du groupe Renault Trucks Defense, originellement destinés au Liban.

Au delà de la fourniture du matériel militaire, la vocation naturelle de ce pays grand marchand d’armes, la France a assuré le blocus maritime du Yémen, prenant la relève des Saoudiens lors de la phase de révision des vedettes saoudiennes, en sus de la mise à disposition de la coalition d’un détachement des forces spéciales en vue d’épauler les envahisseurs du Golfe.

La chaine TV libanaise Al Mayadeen, constituée par des dissidents d’Al Jazeera, a comparé le comportement de la France à un « chacal se repaissant des miettes » du vautour américain. « Emmanuel Macron s’imagine être plus futé que les dirigeants britanniques en enrobant son intervention militaire au Yémen par des considérations humanitaires, justifiant la présence des militaires français aux côtés des assaillants des Emirats Arabes Unis par la nécessité de déminer le port de Hodeida », a ajouté le commentateur de la chaîne.

Le zèle de la France au Yémen vise à compenser sa défaite militaire en Syrie dans l’espoir de pouvoir conserver un strapontin diplomatique dans la renconfiguration géo stratégique qui s’opère au Proche orient

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Le syndrome de Suez

Près de dix ans d’interventionnisme débridé tous azimuth au Moyen orient, le syndrome de Suez hante à nouveau la France. L’agression tripartite menée par les deux puissances coloniales de l’époque, le Royaume Uni et la France, et leur créature Israël, en 1956, contre l’Egypte nassérienne avait entrainé une rupture de dix ans entre la France et le Monde arabe et un reflux considérable de l’influence française dans la zone, dont elle ne s’est jamais complétement remise.

Le nombre des locuteurs francophones au Liban, de l’ordre de 77 % dans la décennie 1950-1960, a ainsi chuté drastiquement au profit des locuteurs anglophones, s’inversant au profit de l’anglais (60 % pour l’anglais, 40 % pour le français).

Ce fiasco diplomatique tranche avec la prospérité boursière du grand patronat sur fond de fronde sociale avec son cortège de grèves de cheminots et du personnel d’Air France, des protestations des agriculteurs et des étudiants.

La France, en 2018, est devenue la championne du monde en matière de distribution de dividendes aux actionnaires, alors qu’elle était reléguée à la 7e position parmi les puissances économiques mondiales, supplantée désormais par l’Inde.

Le produit intérieur brut (PIB) de l’Inde a dépassé, pour la première fois, celui de l’Hexagone, en 2017, reléguant la France au septième rang des économies mondiales, selon le site de la Banque mondiale. Le PIB de l’Inde en 2017, première année de la mandature Macron, a ainsi atteint 2 597 milliards de dollars contre 2 582 milliards pour la France. En contrechamps, selon un rapport de l’ONG Oxfam publié lundi 14 mai 2018 et intitulé « CAC 40 : des profits sans partage », les groupes du CAC 40 ont ainsi redistribué à leurs actionnaires les deux tiers de leurs bénéfices entre 2009 – année de la crise financière mondiale – et 2016, soit deux fois plus que dans les années 2000. Cela a conduit ces entreprises à ne laisser « que 27,3 % au réinvestissement et 5,3 % aux salariés », ajoute OXFAM qui dénonce des choix économiques qui nourrissent une « véritable spirale des inégalités».

Pour aller plus loin sur ce sujet :

Plus policé que le gaullo-atlantiste Nicolas Sarkozy, plus suave que le socialo atlantiste François Hollande, Emmanuel Macron n’en a pas moins conduit une diplomatie aussi désastreuse pour la France que ses prédécesseurs.

Que le disciple du philosophe Paul Ricoeur procède à un tel artifice aussi grossier tranche avec les qualités abusivement attribuées au plus jeune Président de la République française.

L’Occident ne dicte plus son agenda au Monde

L’ours russe est mal léché. Ce fait est connu et reconnu. Mais face au brachycéphale d’outre atlantique, il va falloir, Manu, réviser ses classiques car nul n’ignore depuis Jean de La Fontaine, même les cancres, que « tout flatteur vit aux dépens de celui qui l’écoute » (le Corbeau et le Renard).

Autre classique à réviser : L’Europe ce n’est pas l’OTAN. Pas que l’OTAN. « L’Europe, c’est de l’Atlantique à l’Oural, car c’est l’Europe, toute l’Europe qui décidera du destin du Monde».

Tel est le mot d’ordre légué par le Grand Charles, « Libérateur de la France » au micron de France, dans un discours prémonitoire prononcé à Strasbourg en novembre 1959, dix huit ans avant la naissance de son lointain successeur.

L’horloge du monde n’est plus plantée, -du moins plus exclusivement plantée- à Washington, d’autres capitales du Monde disposent désormais de leur propre fuseau horaire. « L’Occident ne dicte plus son agenda au Monde », constatera, amer, dans un rare éclair de lucidité, François Hollande, avant de jeter l’éponge, vaincu par ses déboires de Syrie. Sergueï Lavrov, ministre russe des affaires étrangères, plus laconique, édictera que le Monde est passé à « la phase post occidentale».

Pour un pays qui traîne un lourd passif militaire: Quatre capitulations militaires en deux siècles (Waterloo 1915, Sedan 1880, Montoire 1940, Dien Bien Phu 1954), soit le double de l’Allemagne (pour les deux Guerres Mondiales du XX me siècle 1918, 1945), et zéro capitulation au Royaume Uni, -record absolu parmi les pays occidentaux-, il est à craindre, à n’y prendre garde, que ne surgisse une nouvelle « déposition d’un vaincu » d’« une étrange défaite». (Marc Bloch).

Pour aller plus loin sur le thème de la diplomatie française sous Emmanuel Macron


- Source : Madaniya (Liban)

mardi, 04 septembre 2018

On the Shoulders of Giants: The Third Erkenbrand Conference

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On the Shoulders of Giants:
The Third Erkenbrand Conference

The Erkenbrand Conference rapidly emerged as the Netherlands’ equivalent of American Renaissance or the Scandza Forum. Erkenbrand is noted for its atmosphere of brotherhood and idealism, and its cutting-edge thought on ensuring the survival and flourishing of European peoples. 

The Third Conference, On the Shoulders of Giants, will be held on November 3 in the Netherlands.

The Speakers 

Greg Johnson, Counter Currents Editor-in-Chief and one of the foremost theorists of the ethnostate, will discuss topics related to his new book The White Nationalist Manifesto and sign copies. Having founded Counter Currents as a publishing house for nationalist metapolitics, Johnson can be expected to give us serious food for thought. His worst sin, according to the Southern Poverty Law Center, is to have uttered the words, “I am very proud of our people, and we have a great deal to be proud of.”

Millennial Woes, the bearded Caledonian now accustomed to dwelling on the Continent, will grace us again with his unforgettable presence. Come and attend to be among the first to learn what his next challenge is after “One Hour from Now,” his speech of last year which challenged so many to leave immaturity behind them.

Faith Goldy (byline: Truth. Tradition.), who sent the Internet into a tailspin last Christmas by endorsing the Fourteen Words in an interview with Woes, will speak with her customary infectious energy. This gorgeous gun-owning Catholic patriot (Trudeau’s nemesis?) will remind us all of what made Canadians great. If you don’t live in Toronto, you can’t vote Faith for Mayor, but you can attend the conference to give her your vote of confidence.

George Hutcheson, the President of Students for Western Civilisation, completes our line-up. Hutcheson shot to renown a year ago for his uncompromising and eloquent stand against the rank white-hatred encountered at Canadian universities. As he told Faith Goldy last year: “We are Europeans who are standing up for and asserting our perceived interests, and that’s healthy behaviour. That’s good for us. There’s nothing evil or immoral or wrong with that.”

Not for nothing is this conference entitled On the Shoulders of Giants: these four keynote speakers are giants of the movement and between them have inspired countless young Europeans to love their own people.

To register for the conference go to Erkenbrand.eu/tickets

We vet all who register for the conference to ensure that everyone who attends our event comes with honest intentions.

We look forward to welcome you at the Erkenbrand National Conference.

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Le néo-impérialisme américano-britannique et ses « missionnaires » des temps modernes

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Le néo-impérialisme américano-britannique et ses « missionnaires » des temps modernes

 
 
Auteur : Tony Cartalucci
Ex: http://www.zejournal.mobi

La pire des tromperies est celle perpétrée par ceux qui prétendent défendre les plus vulnérables alors qu’ils tirent profit de leur situation, exploitent leur souffrance et, dans de nombreux cas, jouent un rôle direct dans la perpétuation des deux.

Il s’agit d’une description pertinente du racket mondial des droits de l’homme par Washington, Londres et Bruxelles – utilisé à plusieurs reprises comme prétexte à l’ingérence politique et parfois même à la guerre.

Un exemple particulièrement cynique de ce phénomène se produit au Myanmar, un pays d’Asie du Sud-Est.

Alors que les liens entre le Myanmar et la Chine se resserrent, les États-Unis et leurs partenaires européens s’efforcent de faire pression, de coopter, voire de renverser l’ordre politique actuel du Myanmar, qui comprend non seulement une armée puissante et indépendante, mais aussi un gouvernement civil que les États-Unis et le Royaume-Uni ont directement aidé à mettre au pouvoir.

Les décennies de soutien américano-britanniques à Aung San Suu Kyi – l’actuelle conseillère d’État du Myanmar – s’accrochent à elle et aux membres de son parti politique de la Ligue Nationale pour la Démocratie (NLD) comme un boulet. Les réseaux parrainés par l’étranger qu’ils ont faits entrer au Myanmar pour les aider à prendre le pouvoir sont maintenant utilisés contre eux pour contraindre la politique intérieure et étrangère du Myanmar.

Un autre rapport douteux de l’ONU

Un récent rapport de l’ONU sur les atrocités présumées commises contre la minorité Rohingya au Myanmar s’est accompagné d’une campagne de relations publiques coordonnée menée par les médias occidentaux et les organisations non gouvernementales (ONG) financées par les Etats-Unis, le Royaume-Uni et l’Union européenne.

Dans le cadre de cette campagne de relations publiques, de nombreux chefs militaires du Myanmar ont été appelés à saisir la Cour Pénale Internationale (CPI) – une institution considérée dans le monde entier comme la continuation de la colonisation occidentale – en particulier en Afrique. Des pressions ont également été exercées sur le gouvernement civil du Myanmar, dirigé par Aung San Suu Kyi et son parti, la NLD.

Cela se traduit par la capacité de l’Occident à tirer parti de la violence ethnique pour faire pression sur le Myanmar, ce qui permet à l’Occident d’exiger des concessions et d’imposer des sanctions ou de retirer du pouvoir à volonté toute personnalité politique ou militaire de premier plan.

L’objectif principal de la politique étrangère de l’Occident est de rompre les liens du Myanmar avec la Chine, de transformer le Myanmar en un État client obéissant et d’utiliser le succès de ce pays pour étendre des actions similaires dans le reste de l’Asie du Sud-Est.

Le rapport de l’ONU intitulé officiellement « Rapport de la mission internationale indépendante d’établissement des faits sur le Myanmar » (PDF), révèle que sa méthodologie a été basée sur des entretiens. Il prétend :

« La Mission a rassemblé une grande quantité d’informations essentielles. Elle a réalisé 875 entretiens approfondis avec des victimes et des témoins oculaires, ciblés et choisis au hasard. Elle a obtenu des images satellites et authentifié une série de documents, de photographies et de vidéos. Elle a comparé ces informations à des informations secondaires jugées crédibles et fiables, y compris les données brutes ou les commentaires des organisations, les interviews d’experts, les contributions et le matériel open source ».

Le rapport admet également :

« La Mission a également tenu plus de 250 consultations avec d’autres parties prenantes, y compris des agences transgouvernementales et non gouvernementales, des chercheurs et des diplomates, en personne et à distance. Elle a reçu des soumissions écrites, et par appel public ».

C’est ce deuxième point qui est particulièrement préoccupant.

Il semble qu’une grande partie de ce que contient le rapport de l’ONU n’est qu’une simple répétition d’informations que des « ONG » supposées, financées par les États-Unis, le Royaume-Uni et l’UE – éléments centraux du racket des droits de l’homme en Occident – ont déjà rapportées dans leurs propres publications hautement suspectes.

Parmi celles-ci, il y a Fortify Rights – financé par les gouvernements des États-Unis, du Royaume-Uni, du Canada et des Pays-Bas, ainsi que l’Open Society Foundation de George Soros, un criminel financier reconnu coupable. Le rapport de l’ONU semble n’être qu’un bref résumé du rapport de Fortify Rights, « They gave them long swords » (PDF).

Les « Missionnaires » des temps modernes financés par les États-Unis et le Royaume-Uni 

Fortify Rights divulgue son financement dans au moins deux rapports annuels de 2015 et 2016.

En 2015 (PDF), les sponsors comprenaient les gouvernements néerlandais, canadien et américain par l’intermédiaire du National Endowment for Democracy (NED). Elle comprenait également Open Society Foundations et Avaaz. En 2016 (PDF), le gouvernement du Royaume-Uni a également été inclus dans sa liste de donateurs.

Face aux questions concernant l’acceptation par Fortify Rights de l’argent des gouvernements actuellement engagés dans des violations des droits de l’homme dans le monde entier – y compris la vente d’armes à Riyad et l’assistance dans la guerre de Riyad contre le Yémen – le fondateur de Fortify Rights, l’Américain Matthew Smith, a tenté de détourner et de minimiser le financement de son organisation.

Il a affirmé que l’argent de la NED ne constituait pas un financement du gouvernement américain parce que les fonds du Congrès américain ont transité par la NED avant de lui parvenir.

Il a également affirmé que l’argent que son organisation a accepté du Royaume-Uni n’a pas été utilisé pour le Myanmar, prétendant qu’il avait servi à la place à un programme que son organisation dirige en Thaïlande – apparemment convaincu que cette explication résoudrait les inquiétudes sur le conflit d’intérêts évident que représentent les activités de son organisation et son financement.

Pire encore, Smith a reconnu le rôle du Royaume-Uni dans la crise actuelle au Myanmar. C’est le colonialisme britannique qui a intentionnellement fomenté et exploité les tensions ethniques qui existent encore aujourd’hui au Myanmar. Cela inclut pratiquement tous les groupes ethniques pour lesquels Fortify Rights se pose en champion.

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Smith et d’autres membres de Fortify Rights ont été interrogés à plusieurs reprises et n’ont pas expliqué comment des étrangers financés par les gouvernements qui ont créé les tensions ethniques au Myanmar, peuvent servir de solution à ce conflit en s’insérant dans la violence actuelle.

Au lieu de cela, il est clair que ce que les Britanniques avaient intentionnellement accompli il y a des générations pour diviser et conquérir la Birmanie d’alors, se poursuit dans le Myanmar d’aujourd’hui.

Matthew Smith et son organisation, Fortify Rights, sont les équivalents modernes des missionnaires qui ont contribué à la conquête d’une grande partie de la planète par l’Empire britannique.

« L’avant-garde du colonialisme : Missionnaires et frontières en Afrique australe au XIXe siècle », écrit par le professeur Paul Gifford, donne un aperçu utile du rôle des missionnaires à l’apogée de la colonisation européenne :

« Le rôle des sociétés missionnaires en Afrique australe est controversé. À bien des égards, leurs objectifs déclarés étaient admirables : la création d’une société pacifique sans guerre intestine, l’éducation et l’élévation du peuple, et ainsi de suite. Mais dans la pratique, les missionnaires rempliraient des rôles très similaires et souvent interchangeables avec les explorateurs et diplomates européens laïcs, utilisant et manipulant les Africains qu’ils ont rencontrés comme il leur convient le mieux« .

Le professeur Gifford conclut :

« En fin de compte, la guerre n’était pas entre Dieu et Satan pour les âmes des Africains, mais entre l’Europe et l’Afrique pour les cœurs et les esprits des peuples, et le résultat final de cette bataille est encore indécis à ce jour ».

L’histoire du colonialisme européen en Asie du Sud-Est n’est pas différente.

Et ironiquement, Matthew Smith de Fortify Rights admettrait lui-même :

« …nous ne sommes pas du tout satisfaits de l’approche britannique au Myanmar en ce qui concerne l’avancée de la responsabilisation. Et nous sommes bien conscients de la terrible histoire coloniale et de ses conséquences, qui se poursuit encore aujourd’hui ».

C’est ironique parce que Smith soit ignore, soit refuse de reconnaître que la crise du Myanmar n’est pas seulement la « conséquence » de l’histoire coloniale britannique, c’est une continuation de celle-ci, et le Fortify Rights de Smith sert le rôle – textuellement – décrit par le professeur Gifford concernant les missionnaires dans la facilitation de la colonisation occidentale.

La NED finance Fortify Rights, et cette même Fortify Rights est supposée « enquêter »

Le rapport de l’ONU – 20 pages au total – ne mentionne Aung San Suu Kyi qu’une seule fois et uniquement dans le contexte de l’absence de condamnation de la violence en cours. Le rapport de l’ONU ne mentionne que les acteurs non militaires impliqués dans les violences ethniques en une seule phrase.

Pourtant, la vérité est que beaucoup de ceux qui ont directement facilité la prise de pouvoir politique par Aung San Suu Kyi en 2016 encouragent ouvertement la haine envers des groupes ethniques comme le Rohingya au Myanmar depuis des décennies. Ils ont aussi ouvertement incité et appelé à la violence contre les Rohingya. Personne n’a attiré autant l’attention que Fortify Rights ou l’ONU.

Une grande partie de la base de soutien de Aung San Suu Kyi est infectée. Les groupes qui ont reçu les éloges et le soutien des États-Unis ont ouvertement nié la reconnaissance ou la protection des groupes ethniques – en particulier des Rohingya. Beaucoup ont ouvertement incité à la haine et même à la violence contre les Rohingya.

Cela inclut non seulement les extrémistes se faisant passer pour des moines bouddhistes, mais aussi des groupes politiques comme le Groupe d’Étudiants de la Génération 88 dont le membre fondateur Min Ko Naing a reçu le prix « Democracy Award » 2012 de la NED.

L’Irrawaddy – un autre front financé par la NED américaine – dans son article « Analyse : Utiliser le terme « Rohingya », dévoile une liste de militants financés par les États-Unis et de membres de la NLD soutenus par les États-Unis et le Royaume-Uni qui dénoncent les Rohingya, contribuant ainsi à alimenter les lignes de fractures ethniques qui ont divisé le pays et apporté la violence des deux côtés.

Selon Irrawaddy, Min Ko Naing, lauréat du prix « Democracy Award » du NED, affirmerait que :

« Ils (ceux qui s’auto-identifient Rohingya) ne font pas partie des 135 groupes ethniques du Myanmar ».

U Win Tin, membre fondateur de la NLD de Suu Kyi, et récompensé par Reporters sans frontières pour le titre de « journaliste de l’année », a recommandé l’internement des Rohinya dans des camps, en revendiquant :

« Ma position est que nous ne devons pas violer les droits humains de ces personnes, les Rohingya, ou quoi qu’ils soient. Une fois qu’ils sont à l’intérieur de nos terres, nous devons peut-être les contenir en un seul endroit, comme un camp, mais nous devons respecter leurs droits humains ».

Ko Ko Gyi, un autre membre du Groupe d’Étudiants de la Génération 88, financé et soutenu par les Etats-Unis, irait jusqu’à jurer de prendre les armes contre les Rohingya qu’il appelle « envahisseurs étrangers ».

Dans un autre article sur l’Irrawaddy financé par le NED, publié en 2012 et intitulé « Le traumatisme va durer longtemps : Ko Ko Gyi », il serait révélé que :

« Début juin, Ko Ko Gyi a accusé les « pays voisins » d’alimenter les troubles dans l’État d’Arakan, et a déclaré catégoriquement que le groupe de la génération 88 ne reconnaîtra pas les Rohingyas comme une ethnie du Myanmar. Il a déclaré que son organisation et ses partisans sont prêts à prendre les armes aux côtés de l’armée pour lutter contre les « envahisseurs étrangers ».

Ko Ko Gyi – qui s’est juré en 2012 de commettre les violences qui se déroulent aujourd’hui au Myanmar – s’est retrouvé à Washington D.C. en 2013 après avoir fait ses remarques virulentes en faveur du génocide. Il a été invité spécifiquement par le NED américain à participer à une table ronde sur le thème « Examiner la transition vers la démocratie en Birmanie » (vidéo).

Même à première vue, Fortify Rights, chargée « d’enquêter » sur la violence contre les Rohingya et d’autres groupes minoritaires – y compris la violence et les appels à la violence lancés par d’autres bénéficiaires du soutien de la NED – représente un énorme conflit d’intérêts qui compromet entièrement la légitimité de l’enquête et renforce la légitimité de Fortify Rights en tant que groupe « de défense des droits de l’homme ».

Il n’est pas étonnant que dans le rapport de 162 pages de Fortify Right, « They gave them long swords » (PDF), seulement 4 pages soient consacrées aux « auteurs civils » qui sont directement reliés aux militaires et il n’y est jamais fait mention des organisations financées par les Etats-Unis auxquelles ils sont liés et par lesquelles ils sont incités.

Perpétuer la violence, ne pas protéger les personnes vulnérables

Fortify Rights rend compte de manière sélective de ce qui se passe au Myanmar. Pour l’instant, elle blâme l’armée de la retirer entièrement du paysage politique du Myanmar, expulsant ainsi une obstruction de longue date aux intérêts américains et britanniques. Elle prépare également le terrain pour contraindre le gouvernement civil si nécessaire.

Fortify Rights fournit à son gouvernement occidental, aux entreprises et aux fondations missionnaires qui la financent, un prétexte pour s’insérer dans les tensions ethniques afin de reprendre le contrôle du Myanmar, de son gouvernement, de son armée, de sa population, de ses ressources et de sa politique – comme l’ont fait les Britanniques lorsque le Myanmar était une colonie.

Il existe une véritable défense des droits de l’homme et des organisations non gouvernementales. Elle existe dans les communautés, soutenue par les personnes qu’elle prétend représenter. La défense internationale des « droits de l’homme » a toujours été, et continue d’être aujourd’hui, un écho vivant du passé colonial de l’Europe. Cela inclut les « missionnaires » qui ont aidé à la faciliter et qui se manifestent maintenant en tant « qu’ONG ».

Fortify Rights a catégoriquement échoué à répondre aux questions légitimes concernant son financement et ses méthodes, y compris pourquoi les « auteurs civils » financés – comme elle – par la NED américaine ne sont mentionnés nulle part dans leur long rapport de 162 pages.

Bien que Smith reconnaisse lui-même que la colonisation britannique a ouvert la voie à la violence ethnique au Myanmar, il couvre sciemment son propre rôle dans sa continuation aujourd’hui.

La crise du Myanmar se poursuivra tant qu’elle donnera à l’Occident l’occasion de s’impliquer dans les affaires intérieures du Myanmar par la coercition fondée sur des « préoccupations humanitaires« , alors que l’Occident lui-même alimente intentionnellement toutes les parties au conflit.

Pour le peuple du Myanmar, tenté par des querelles ethniques persistantes, le seul moyen d’expulser l’ingérence étrangère est la seule façon de parvenir à l’indépendance de la nation – une indépendance qui a toujours été incomplète en raison des vestiges du colonialisme britannique qui pèsent encore aujourd’hui sur la nation. C’est la division qui a permis aux Britanniques de s’installer, et c’est aujourd’hui la division qui continue de permettre au Royaume-Uni, aux États-Unis et à l’UE de rester sur le territoire.

Photo d'illustration: membres de la Fortify Rights

Traduit par Pascal, revu par Martha pour Réseau International


- Source : NEO (Russie)

vendredi, 31 août 2018

Idlib. Nouveau risque de conflit entre la Turquie et la Syrie

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Idlib. Nouveau risque de conflit entre la Turquie et la Syrie

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Une offensive de l'armée de Bashar al Assad (SAA, Syrian Arab Army) se prépare a reprendre le contrôle de la région de la Syrie NW, nommée Idlib qui est le dernier point du territoire tenu par l'opposition syrienne se présentant sous le nom de Syrian Free Army.

Il s'agit en fait du dernier point où Daesh, chassée de partout ailleurs, dispose encore de quelques forces. Tous les « terroristes » éliminés de Syrie par les offensives victorieuses de Bashar s'y sont réfugiés, se mêlant souvent à la population. Il est clair que la reprise d'Idlib signera la défaite complète de Daesh, en Syrie et sans doute même au Moyen Orient.

Comme l'on sait, la SAA a dès le début été appuyée par des moyens militaires aériens et terrestres russes. La Russie, qui dispose de deux petites bases en Syrie, cherche évidemment à travers son alliance de longue date avec Damas, à faire reculer l'influence américaine dans la région, au profit de la sienne. Washington le sait, mais n'a pu empêcher ces derniers mois de se faire repousser, militairement et économiquement, par l'alliance Damas-Moscou. Inutile de dire que la reprise d'idlib par Bashar sera considérée par le Pentagone comme une défaite majeure.

Aussi bien différents moyens sont utilisés par les Occidentaux alliés des Etats-Unis pour retarder voire pour empêcher l'offensive contre Idlib. Le plus visible consiste à la campagne actuellement menée par les organisations internationales humanitaires faisant valoir les morts civiles prévisibles. Mais celles-ci, à supposer qu'elles se produisent, ne seront pas plus nombreuses que lors de la reconquête par Bashar et par la coalition américano-arabe des positions de Daesh en Syrie. Comme nous venons de le rappeler l'organisation terroriste s'est toujours fondue parmi les populations pour se protéger.

Un nouvel élément est à prendre en considération, le risque de voir la Turquie, qui avait précédemment rejoint la coalition Syrie, Iran et Russie, s'y opposer à nouveau. La raison est qu'elle avait été récemment chargée par celle-ci de la prise en charge d'une zone dite de deconflictualisation comprenant essentiellement la région d'Idlib. Mais celle-ci est devenue depuis ces derniers mois le refuge de tous les combattants islamiques se rattachant à Daesh ou à l'ex. Al Qaida et ayant fui la Syrie.

Or Ankara n'a aucune envie de voir ces effectifs terroristes chassés d'Idlib se réfugier en Turquie. Bien plus, comme nul ne l'ignore, Ankara avait depuis des années financé et armé ces terroristes dans l'espoir, notamment, de les voir contribuer à renverser Bashar, considéré longtemps par Erdogan comme un rival insupportable. Les Etats-Unis le savaient et avaient encouragé ces implications d'Ankara dans le soutien aux terroristes. Ceux-ci ont été officiellement combattus par Washington, mais ils ont été discrètement pourvus en armes et en dollars par les Américains dans la mesure où ils pouvaient contribuer à la chute de Bashar et à un échec majeur pour la Russie.

La Turquie n'a pas encore choisi son camp entre Washington et Moscou. Elle a certes décidé de quitter l'Otan mais elle veut conserver des liens commerciaux et diplomatiques avec les Américains. Dans ce but, l'on peut craindre qu'elle ne se confronte, éventuellement militairement, avec la SAA lors de la bataille pour Idlib. Elle récupérerait ainsi une grande partie du soutien américain, ce qui lui sera précieux à l'avenir dans son désir de s'affirmer comme une super-puissance régionale.

Une confrontation majeure se produira-t-elle ces prochains jours dans la bataille d'Idlib?

Note 

On peut penser qu'aucune offensive ne sera déclenchée avant le 8 septembre, c'est-à-dire après la prochaine rencontre tripartite Iran-Russie-Turquie du 7, dans le cadre des accords d'Astana, qui se tiendra en Iran, où se rendra donc Erdogan. Ils vont problablement trouver un accord pour régler le cas d'Idlib sans qu'il y ait un affrontement direct entre la Syrie et la Turquie.

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Probable annexion de la région d'Idlib par la Turquie

par Jean-Paul Baquiast
 
Dans l'article récent, Idlib, l'embarras russe, nous indiquons que face à la volonté de Bashar el Assad de reconquérir la province d'Idlib, et à celle des Turcs d'y établir définitivement leur présence, les Russes, dans la mesure où il leur reste un pouvoir d'arbitre dans ce conflit, donneraient leur soutien à Damas.

Aujourd'hui, il semble bien au contraire que Recep Erdogan n'a aucune volonté de se retirer de la province d'Idlib. Au contraire, il désire l'annexer au sens propre du terme, c'est-à-dire en faire une véritable province turque.

Un article détaillé de Syria Direct en donne la raison, à la suite d'enquêtes précises de ses reporters en Syrie 1). Nous pouvons en retenir les éléments suivants :

Les Turcs semblent définitivement établis au nord de la province d'Alep, région où se trouve Idlb, à la suite de leur opération militaire lourde dite « Rameau d'olivier ». Celle-ci, entre autres visait à éliminer les Kurdes de Syrie dans cette région où ils sont traditionnellement établis. La volonté première d'Ankara est évidemment d'empêcher que la présence des Kurdes dans la région d'Alep n'encourage la dissidence de leurs propres Kurdes du PKK en Turquie.

Il est moins connu que les Turcs sont aidés dans toute cette région par des groupes militaires sunnites que Damas qualifie de terroristes et que la Turquie soutient de diverses façons, notamment par la fourniture d'armes et en y facilitant l'entrée de centaires de combattants de Daesh chassés de Syrie par les opérations victorieuses de Bashar.

Il est également peu connu que les Turcs et leurs alliés rebelles islamiques se sont établis dans la région en multipliant les violences contre la population, notamment à Afrin. Amnesty International s'en est ému 2). Il est vrai qu'Amnesty n'est pas neutre. Il s'agit d'une organisation soutenant en général la politique américaine. Néanmoins les faits semblent avérés.

La très prochaine bataille pour Idlib renouvellera les tensions entre Ankara et Damas. Les Turcs, à nouveau, bénéficieront de l'aide des musulmans sunnites de cette région, considérant que ce faisant ils se comportent quasiment en « soldats d'Allah ».

Pour les Turcs, une implantation définitive dans cette région, à commencer par une présence militaire, confortera leurs frontières avec la Syrie et pourra éviter que des centaines de milliers de réfugiés syriens fuyant la présence d'Assad ne viennent s'y établir définitivement, débordant inévitablement vers la Turquie, renforçant les quelques 3 millions de réfugiés y vivant déjà.

Un accord avec Bashar serait envisageable si ce dernier renonçait à reprendre la région d'Idlib en échange d'un soutien turc plus général au gouvernement de Damas, qui en aurait évidemment besoin. Mais il semble évident que la Turquie ne fait pas confiance à Bashar al Assad. Elle veut conserver un moyen de pression sur lui en s'établissant dans la région d'Idlib.

Contrairement à ce que concluait notre article précité, la Russie dans ce conflit mettra sans doute son pouvoir d'arbitrage au service de la Turquie, son alliée dans le processus d'Astana et aux dépends de son autre allié Bashar. Le soutien de celui-ci lui paraît définitivement acquis, car il n'a pas d'autres alternatives. Au contraire, maintenir la Turquie dans la coalition des Etats sur lesquels elle s'appuie pour éliminer l'influence américaine sera de plus en plus important.

Ajoutons que certains commentateurs, notamment libanais, considèrent que l'armée de Bashar al Assad est un relais utilisé par la Russie pour s'établir à la frontière syro-libanaise sans paraître intervenir directement dans cette région. 3)

Nous pourrions dire, avec prudence, que si ce n'est pas totalement exact, ce n'est pas totalement faux. Dans ces conditions, l'installation de la Turquie dans cette région ne pourra que provoquer des tensions entre Ankara et Moscou. Mais il nous parait probable que, comme indiqué par le présent article, la Russie, pour ne pas heurter de front l'allié turc, prendra son parti de l'arrivée des Turcs.

Références

1) https://syriadirect.org/news/as-syria%e2%80%99s-proxies-co.../

2) https://www.amnesty.org/en/latest/news/2018/08/syria-turkey...

3) https://www.lorientlejour.com/article/1123914/le-deploiem...

Note.

Concernant Syria Direct https://syriadirect.org/, il faut une nouvelle fois regretter que l'homologue, sauf erreur, n'existe pas dans la presse française. On peut lire :

Syria Direct is a non-profit journalism organization that produces timely, credible coverage of Syria while training a small group of highly talented, aspiring Syrian and American journalists in professional news-gathering and accurate, in-depth reporting. As a result of agenda-free funding, our focus is on providing credible, original, relevant and immediate news and analysis of the conflict.

Certes de telles initiatives  peuvent servir de couverture à l'intervention de différentes grandes puissances. Mais il ne faut pas prétexter de telles possibilités pour ne pas s'y intéresser.

jeudi, 30 août 2018

Faut-il craindre une guerre civile aux Etats-Unis ?

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Faut-il craindre une guerre civile aux Etats-Unis ?

par Jean-Paul Baquiast
Ex: http://www.europesolidaire.eu
 
Un de nos correspondants, Frédéric Beaugeard, nous adresse ces considérations très pertinentes, dont nous le remercions :

«  Donald Trump risque d'être démis de ses fonctions (impeachment) sinon poursuivi en justice concernant les montages financiers qu'il ne pouvait pas ignorer et qui ont facilité son élection. Il s'agit d'un crime fédéral. Deux de ses proches, directement associés à sa campagne électorale, Michaël Cohen et Paul Manafort, sont dorénavant menacés de dizaines d'années de prison pour fraude fiscale et bancaire par les tribunaux américains. Ils ont plaidé coupable.

Le risque est qu'en cas de l'éviction de Trump l'on passe aux USA d'un climat de fracture à une réelle fracture violente. On risque alors de voir apparaître un terrorisme d'extrême-droite aux USA. Il est en germe depuis les années I970, mais actuellement inexistant. Si celui-ci se conjugue  à une crise économique, on verra la résurgence d'émeutes raciales visant à affirmer la présence des Noirs et Latino-Américains se considérant non sans raison comme victimes des suprématistes blancs.

S'ajoutera à cela la progression organisée des gangs et des revendications musulmanes au sein de la communauté afro-américaine, pouvant conduire à une recrudescence d'attentats.  D'ici-là, la Californie devrait faire une quasi-sécession en expérimentant le début du néo-socialisme à la mode américaine qui devrait être durement réprimé, notamment par le FBI sous contrôle des intérêts de Wall Streets. D'autres Etats pourraient décider de faire de même ».


Nous ajouterons pour notre part que face à ce début de révolution, le complexe militaro industriel très puissant n'hésitera pas à conduire des politiques de répression militarisée qui susciteront inévitablement des réactions populaires violentes, utilisant les armes de tous calibres qui ne manquent pas en vente libre aux Etats-Unis.

La question qui se pose dès maintenant aux Européens, comme d'ailleurs aux Russes et aux Chinois, est de savoir s'il faudrait craindre une telle guerre civile américaine qui ruinerait définitivement tout espoir des Etats-Unis de rester une superpuissance dominant unilatéralement le monde. Sur le principe, cet effondrement (collapse) programmé de l'Empire américain, laisserait  place aux autres puissances. Il leur appartiendrait d'être suffisamment modérées pour en profiter, sans encourager un  effondrement qui pourrait s'étendre à l'ensemble du monde.

Il reste que la mise en sommeil forcé de domaines essentiels à l'avenir du monde où les Américains se sont donnés, face notamment au manque d'intérêt européen, un leadership incontestable, serait préjudiciable à tous. On pensera en premier lieu aux recherches scientifiques et aux politiques d'exploration spatiales.

Pourrait-on espérer que les Européens, malgré leurs attaches américaines profondes, sauraient en ce cas se rapprocher suffisamment des Russes et des Chinois pour mettre en place des politiques  alternatives, voire plus ambitieuses. Libérés de leur fascination mortifère pour l'Amérique, présente d'ailleurs aussi en Russie, les uns et les autres pourraient enfin faire appel à leurs ressources propres  pour mettre en place des stratégies qui ne seraient plus comme actuellement américano-centrées.

Il est certain en tous cas que, sans une crise profonde aux Etats-Unis, voire une guerre civile, ils n'y arriveront pas.

NB. Nous avions précédemment publié deux excellents articles de Frédéric Beaugeard, le dernier concernant l'invasion culturelle anglo-saxonne en Europe. Nous y présentions également l'auteur
http://www.europesolidaire.eu/article.php?article_id=1309américaine en France

17:44 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : actualité, états-unis, politique internationale | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mardi, 28 août 2018

Entre la Caspienne et la Mer Noire : bientôt le Canal Eurasien !

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Entre la Caspienne et la Mer Noire : bientôt le Canal Eurasien !

Supplantera-t-il le Canal de Suez ?

Par Thomas W. WYRWOLL

Après des tractations préliminaires couronnées de succès, le président du Kazakhstan, Noursoultan Nazarbaïev a une nouvelle fois suggéré la mise en œuvre d’un projet, formulé déjà du temps des Tsars, lors du sommet du Haut Conseil de la Communauté Economique Eurasienne, c’est-à-dire la construction d’un canal entre la Caspienne et la Mer Noire.

Pour être précis, il existe déjà un canal qui fait le lien entre ces deux mers, le Canal Don-Volga (CDV). Cependant, ce canal, qui date de l’ère stalinienne et s’étend sur une distance de 101 km, constitue aujourd’hui un goulot d’étranglement entre les deux fleuves et est régulièrement embouteillé. Ses dimensions sont désormais inappropriées, même pour les péniches fluviales de la Volga, dont le gabarit est pourtant assez petit. Après l’ébauche des premiers projets, formulés dans les années 1930, de réaliser un canal menant directement de la Caspienne à la Mer Noire, les autorités soviétiques ont mis ceux-ci au frigo, suite à la guerre. Après la fin des hostilités, le projet ne fut pas remis à l’ordre du jour car, finalement, les Soviétiques se sont rendu compte que le Canal Don-Volga suffisait amplement pour les tâches limitées de l’époque.

Mais vu l’ampleur de l’exploitation pétrolière dans la zone caspienne et le développement des projets de « routes de la soie », l’idée d’un tel canal est plus actuelle que jamais. En 2007 déjà, le président russe Vladimir Poutine envisageait soit de creuser un canal parallèle au CDV soit de tracer un nouveau canal qui serait une liaison directe entre les deux mers. La même année, son collègue kazakh a estimé que c’était là une excellente suggestion et il s’est fait l’avocat d’un canal direct, auquel il a donné le nom de « Canal Eurasien ». En allemand, on parle donc désormais de « Canal Eurasien » (Eurasien-Kanal). Le président kazakh proposait alors un tracé partant de la courbe du fleuve Manytch en direction de la Caspienne. Ce tracé serait de 700 km.

Deux ans plus tard, la Banque Eurasienne de Développement sort une étude pour la construction d’un tel canal et pour d’éventuelles alternatives. Cette étude reste alors secrète et n’a pas été publiée. Il est évident qu’un nouveau CDV serait plus long d’environ 300 km qu’un canal direct et, pendant l’hiver, ne serait que partiellement utilisable pendant trois à cinq mois, un handicap sérieux que n’aurait pas un tracé situé plus au sud, où l’hiver ne sévirait que deux mois. On a appris que le coût des deux projets ne serait pas très différent et, en tout cas, constituerait l’initiative la plus onéreuse de l’histoire russe récente, plus chère encore que la construction du pont de Crimée. Malgré le caractère secret du projet, le monde entier était au courant de celui-ci, suite aux multiples conférences russo-sino-kazakhs. A plusieurs reprises, le président Nazarbaïev, en particulier, a tenté de le promouvoir.

Pour le Kazakhstan, les avantages d’un tel canal sont évidents : le pétrole tiré des énormes gisements  de la Mer Caspienne (10% des réserves mondiale, selon les dernières estimations)  est transporté dans un premier temps par navires pétroliers depuis les côtes kazakhs et, de là, est acheminé plus loin grâce à un système d’oléoducs, pour lequel le Kazakhstan doit payer des sommes considérables. Un canal vers la Mer Noire constituerait un mode de transport direct et donc nettement plus avantageux par mer jusqu’au pays européens clients. La Communauté Economique Eurasienne ne parlait naguère que d’améliorer les infrastructures régionales, de créer des emplois nécessaires et de promouvoir la construction de bateaux.

Pour la Chine, le canal constituerait un bon compromis entre les avantages offerts par le rail et par la navigation fluviale, permettant de raccourcir encore la distance entre la Chine et l’Europe, surtout depuis que Beijing s’active à déplacer à grande échelle ses centres de production industrielle de l’Est vers l’Ouest. Les financements proviendraient de la Banque Asiatique d’Investissements et d’Infrastructures, créée par la Chine ; pour l’exécution des travaux, on prévoit l’intervention du géant Sinohydro, relevant de l’Etat chinois. Sinohydro est l’une des plus grandes entreprises de construction au monde qui a notamment réalisé la fameux barrage des Trois Gorges. Les Chinois, toujours très actifs, prévoient un temps de construction de trois ans, plus six mois de planification. Les experts russes, en revanche, estiment que le temps de construction sera deux ou trois fois plus long.

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Un aspect intéressant dans la construction de ce canal est qu’il passera par la République de Kalmoukie. A l’origine, le peuple kalmouk vient du Nord-Ouest de la Chine, de Dzoungarie. Il s’est installé sur le cours de la Volga au 17ème siècle. Sous Staline, il a subi un véritable génocide, poussant de nombreux Kalmouks à combattre dans les rangs allemands pendant la seconde guerre mondiale. Sous Khrouchtchev, les survivants ont pu revenir dans leur patrie et sont de nouveau, à l’embouchure de la Volga, le peuple le plus nombreux, après les Russes. Un deuxième grand groupe de Kalmouks vit encore dans l’Ouest de la Chine, où leurs ancêtres, après la dissolution du Khanat de Kalmoukie par Catherine la Grande en 1771, y étaient revenus à l’invitation des empereurs mandchous. Aujourd’hui, il y a presque autant de Kalmouks en Chine qu’en Russie.

Le gouvernement de la République kalmouk a signé récemment avec la Chine un accord, accepté par les Russes, invitant à un nouveau retour des Kalmouks de Chine dans la région russe de la Volga. Si ces Kalmouks de Chine revenaient effectivement, le peuple titulaire de la République kalmouk actuelle serait dominant sur son territoire « ethnique » et pourrait s’étendre aussi à des régions contigües que Staline avait annexées à la Russie. Les Kalmouks de Chine sont cependant très loyaux à l’égard de la Chine, fait intéressant à plus d’un titre sur le plan géostratégique. Jusqu’ici, la Chine s’est montré très réticente pour installer des fragments de ses propres populations sur le territoire russe, car les autorités chinoises savent que les Russes sont très méfiants et très sensibles à ce genre de transferts de populations ; cependant, l’installation de Kalmouks originaires de Chine dans le cadre de la construction du Canal Eurasien pourrait s’avérer plus aisé.

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Potentiellement, les problèmes écologiques que poserait la construction de ce canal sont importants. Non seulement, les biotopes aquatiques s’entremêleraient mais les routes de migrations d’une grande partie des populations d’antilopes saïga à l’Ouest de la grande steppe, ce qui aurait d’énormes répercussions sur celles-ci et sur la part de l'écosystème de cette steppe dépendant de ces animaux. On a songé à installer des ponts pour faire passer cette faune sauvage mais ces antilopes sont craintives et risqueraient de ne pas les emprunter. De plus, leur nombre serait insuffisant : ils devraient être complétés par des ouvrages plus larges sous formes de corrals devant être entretenus par l’homme. Pour la faune ornithologique, plusieurs zones humides seraient mises en danger, notamment par la salinisation des sols. On pourrait y remédier par un réglage compliqué des adductions d’eau pour le canal. La Mer d’Azov serait elle aussi menacée, alors que son état est déjà déplorable. Minimiser les dégâts écologiques potentiels est l’un des principaux défis à relever pour les constructeurs du Canal.

Ces défis pourront toutefois être surmontés. Réaliser ce projet, vieux de plus d’un siècle, apporterait de grands changements géostratégiques, comparables au creusement du Canal de Suez, dont le rôle serait alors considérablement minimisé.

Thomas W. Wyrwoll.

(article tiré de « zur Zeit », Vienne, n°34/2018, http://www.zurzeit.at ).

lundi, 27 août 2018

3d Erkenbrand National Conference - 2018

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Dear friends,

On the third of November 2018, the third edition of the Erkenbrand National Conference will take place in the Netherlands. The previous edition was a great success. With over 200 attendees and special guests from all over the world, Erkenbrand has established itself as one of the premier nationalist organizations in Europe.

This year we offer another excellent line-up and representatives from nationalist organizations from all across Europe will be there to greet you.

On the Shoulders of Giants

This year’s theme refers to the well-known quote by the physicist and mathematician Isaac Newton(1643-1727). He wrote: “If I have seen further it is by standing on the shoulders of Giants”. This great thinker mostly referred to his predecessors in the world of science to whom Newton was indebted for his monumental discoveries, but Erkenbrand considers it appropriate to borrow this phrase in order to remember and honor those giants to whom the European peoples are indebted to for her cultural heritage and historical milestones.

From the medieval architect who looked up towards the builders working to construct the spire of an imposing cathedral to the kings who made history and laid the foundation for anything to which we can only look back today with great admiration. But we are also in search for an answer to the greatest question we face in the modern era: How do we prevent losing this all as globalists mock our borders and waste our heritage in favor of a multicultural dystopia?

We can provide part of the answer: Join us at the largest nationalist conference in the Netherlands this year.

If you would like to join us, please register yourself via the link below:

For any questions you can contact us at:

Erkenbrandcontact@protonmail.com

Best regards,

The National Council of Erkenbrand

18:01 Publié dans Actualité, Evénement | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : erkenbrand, actualité, pays-bas, événement | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 16 août 2018

Moscou se veut désormais le protecteur des Kurdes

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Moscou se veut désormais le protecteur des Kurdes

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Depuis les événements au Moyen-Orient, ceux que l'on nomme par facilité les Kurdes ont joué un rôle permanent dans les conflits entre puissances.

Les Kurdes ne sont pas généralement évoqués sous la forme d'une communauté. Nous avons nous-mêmes relaté le rôle de ceux que l'on appelle les Kurdes de Syrie, ayant joué un rôle important dans les batailles contre Daesh, généralement soit de leurs propres chefs, soit comme alliés des coalitions arabo-américaine, ces mêmes Kurdes de Syrie étant considérés par Bashar al Assad ou parfois par les Russes comme des obstacles à une réunification de la Syrie sous l'autorité de Damas. On mentionne aussi les Kurdes d'Irak, souvent proches des Kurdes de Syrie.

Recip Erdogan, dotés en Turquie d'une importante communauté de Kurdes turcs, disposant de larges pouvoirs d'auto-gouvernement, a toujours manifesté le refus de négocier avec les Kurde de Syrie ou d'Irak, de peur qu'ils ne s'allient avec les Kurdes de Turquie pour reconstituer une entité autonome établie à cheval sur des 3 territoires, Turquie, Syrie et Irak et susceptible de ressusciter l'antique Royaume du Kurdistan https://fr.wikipedia.org/wiki/Kurdistan . Celui-ci l'amputerait d'un petit tiers de son territoire.

Il faut ajouter que les Kurdes de Syrie, traditionnellement établis sur les vastes réserves pétrolières et gazières de la province de Deir Es Zor, à la frontière syro-turque, en jouent pour se rendre indispensables à toute exploitation sérieuse de ces ressources.

Rappelons que les Kurdes sont en majorité musulmans, mais de ce que l'on pourrait appeler en France des musulmans laïcs, ayant depuis longtemps renoncé aux prescriptions rigoristes de l'Islam, concernant notamment la nécessité de maintenir les femmes dans un rôle subordonné. Les Kurdes de Syrie et d'Irak, excellents combattants par ailleurs, se sont fait remarquer par la présence de militaires femmes dans leurs rangs, en uniforme et certaines ayant d'importantes responsabilités d'encadrement.

Les Kurdes se rapprocheraient dorénavant de Damas et de Moscou

Vu le poids politique des Kurdes de Syrie, les Etats-Unis ont longtemps réussi à les faire combattre contre Bashar al Assad aux côtés des autres mercenaires, provenant d'organisations terroristes, qu'ils recrutaient à cette fin en leurs fournissant des armes et des dollars. Cependant, ces derniers jours, un accord semblait conclu entre les Kurdes de Syrie et Damas, sur le base d'un respect réciproque et la renonciation à toute action agressive. On lira à ce sujet un article de EJ Magnier datant du 30/07 1). Celui-ci estime que cet accord obligera les Américains à cesser de manipuler la communauté kurde à son profit, et plus généralement à se retirer complètement de Syrie, n'ayant plus guère de moyens d'action.

Mais la Russie, jusqu'ici très réservée à l'égard des Kurdes parait désormais décidée à les aider. Elle ne s'adresse pas uniquement aux problèmes des Kurdes de Syrie mais à l'ensemble du problème kurde. On apprend, comme l'indique le message référencé ci-dessous de M.K. Bhadrakumar 2), qu'elle a facilité la création à Moscou d'une Fédération Internationale des Communautés Kurdes.

Cette Fédération sera animée par un certain Mirzoyev Knyaz Ibragimovich, intellectuel Kazakh renommé originaire des Kurdes d'Arménie. Elle devrait, dans l'esprit des autorités russes, être une « plate-forme » où pourraient se retrouver l'ensemble des Kurdes. L'objectif prioritaire devrait être d'encourager tous les Kurdes à lutter contre Daesh et les autres groupes terroristes.

Reste à savoir comment cette initiative sera reçue par les Kurdes de Syrie et d'Irak. Comment par ailleurs Recep Erdogan, allié actuel de la Russie, soutiendra-t-il cette démarche ?

On rappellera que depuis le 19e siècle, sinon avant, les Russes et les Kurdes ont eu des échanges politiques et culturels nombreux, dont le cœur se trouvait à Saint-Pétersbourg. Les slaves russes et les musulmans kurdes se sont retrouvés dans de nombreux domaines.

Références

1) https://ejmagnier.com/2018/07/30/why-will-the-us-leave-sy...

2) http://blogs.rediff.com/mkbhadrakumar/2018/08/07/russia-p...

 

Moscou se veut désormais le protecteur des Kurdes

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Moscou se veut désormais le protecteur des Kurdes

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Depuis les événements au Moyen-Orient, ceux que l'on nomme par facilité les Kurdes ont joué un rôle permanent dans les conflits entre puissances.

Les Kurdes ne sont pas généralement évoqués sous la forme d'une communauté. Nous avons nous-mêmes relaté le rôle de ceux que l'on appelle les Kurdes de Syrie, ayant joué un rôle important dans les batailles contre Daesh, généralement soit de leurs propres chefs, soit comme alliés des coalitions arabo-américaine, ces mêmes Kurdes de Syrie étant considérés par Bashar al Assad ou parfois par les Russes comme des obstacles à une réunification de la Syrie sous l'autorité de Damas. On mentionne aussi les Kurdes d'Irak, souvent proches des Kurdes de Syrie.

Recip Erdogan, dotés en Turquie d'une importante communauté de Kurdes turcs, disposant de larges pouvoirs d'auto-gouvernement, a toujours manifesté le refus de négocier avec les Kurde de Syrie ou d'Irak, de peur qu'ils ne s'allient avec les Kurdes de Turquie pour reconstituer une entité autonome établie à cheval sur des 3 territoires, Turquie, Syrie et Irak et susceptible de ressusciter l'antique Royaume du Kurdistan https://fr.wikipedia.org/wiki/Kurdistan . Celui-ci l'amputerait d'un petit tiers de son territoire.

Il faut ajouter que les Kurdes de Syrie, traditionnellement établis sur les vastes réserves pétrolières et gazières de la province de Deir Es Zor, à la frontière syro-turque, en jouent pour se rendre indispensables à toute exploitation sérieuse de ces ressources.

Rappelons que les Kurdes sont en majorité musulmans, mais de ce que l'on pourrait appeler en France des musulmans laïcs, ayant depuis longtemps renoncé aux prescriptions rigoristes de l'Islam, concernant notamment la nécessité de maintenir les femmes dans un rôle subordonné. Les Kurdes de Syrie et d'Irak, excellents combattants par ailleurs, se sont fait remarquer par la présence de militaires femmes dans leurs rangs, en uniforme et certaines ayant d'importantes responsabilités d'encadrement.

Les Kurdes se rapprocheraient dorénavant de Damas et de Moscou

Vu le poids politique des Kurdes de Syrie, les Etats-Unis ont longtemps réussi à les faire combattre contre Bashar al Assad aux côtés des autres mercenaires, provenant d'organisations terroristes, qu'ils recrutaient à cette fin en leurs fournissant des armes et des dollars. Cependant, ces derniers jours, un accord semblait conclu entre les Kurdes de Syrie et Damas, sur le base d'un respect réciproque et la renonciation à toute action agressive. On lira à ce sujet un article de EJ Magnier datant du 30/07 1). Celui-ci estime que cet accord obligera les Américains à cesser de manipuler la communauté kurde à son profit, et plus généralement à se retirer complètement de Syrie, n'ayant plus guère de moyens d'action.

Mais la Russie, jusqu'ici très réservée à l'égard des Kurdes parait désormais décidée à les aider. Elle ne s'adresse pas uniquement aux problèmes des Kurdes de Syrie mais à l'ensemble du problème kurde. On apprend, comme l'indique le message référencé ci-dessous de M.K. Bhadrakumar 2), qu'elle a facilité la création à Moscou d'une Fédération Internationale des Communautés Kurdes.

Cette Fédération sera animée par un certain Mirzoyev Knyaz Ibragimovich, intellectuel Kazakh renommé originaire des Kurdes d'Arménie. Elle devrait, dans l'esprit des autorités russes, être une « plate-forme » où pourraient se retrouver l'ensemble des Kurdes. L'objectif prioritaire devrait être d'encourager tous les Kurdes à lutter contre Daesh et les autres groupes terroristes.

Reste à savoir comment cette initiative sera reçue par les Kurdes de Syrie et d'Irak. Comment par ailleurs Recep Erdogan, allié actuel de la Russie, soutiendra-t-il cette démarche ?

On rappellera que depuis le 19e siècle, sinon avant, les Russes et les Kurdes ont eu des échanges politiques et culturels nombreux, dont le cœur se trouvait à Saint-Pétersbourg. Les slaves russes et les musulmans kurdes se sont retrouvés dans de nombreux domaines.

Références

1) https://ejmagnier.com/2018/07/30/why-will-the-us-leave-sy...

2) http://blogs.rediff.com/mkbhadrakumar/2018/08/07/russia-p...

 

jeudi, 09 août 2018

Le mouvement AUFSTEHEN de Sahra Wagenknecht fait polémique

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Le mouvement AUFSTEHEN de Sahra Wagenknecht fait polémique: « l’ouverture des frontières désavantage les plus pauvres de nos concitoyens »

Sahra Wagenknecht, Présidente de la fraction LINKS (« La Gauche ») à la Diète fédérale allemande, vient de créer un nouveau mouvement rassembleur, AUFSTEHEN (Debout) ; elle entend proposer et imposer une nouvelle politique d’asile dans son parti et dans la société allemande. Dans un article rédigé spécialement pour la Nordwest-Zeitung d’Oldenbourg, elle a fustigé le « ressentiments » qui animerait les militants de l’AfD mais aussi et surtout, « cette morale générale qui entend promouvoir une culture de l’accueil sans frontières ». Elle écrit : « Une politique réaliste de gauche rejette ces deux exigences maximalistes ». Ce texte a été écrit en collaboration avec le dramaturge berlinois Bernd Stegemann, également membre du nouveau mouvement rassembleur.

Selon Wagenknecht et Stegemann, « les nombreux volontaires de la société civile qui s’occupent d’intégrer les réfugiés » devront recevoir toute l’aide nécessaire mais, par ailleurs, la gauche ne doit plus se laisser dicter sa conduite « par des bandes de passeurs criminels qui amènent des gens en Europe par des voies illégales ». Parce qu’elle a écrit cet article, et quelques autres de même teneur, Wagenknecht a essuyé de vives critiques dans les rangs de son propre parti.

On lui reproche notamment cette phrase : « Nous pensons que la fixation sur la thème des réfugiés est l’expression d’une colère qui s’est accumulée au fil du temps et provient de tous autres domaines de la vie quotidienne. Celui ou celle qui n’a plus que des contrats de travail à durée limitée, celui ou celle dont la retraite est trop chiche et dont les enfants ne peuvent plus recevoir une éducation scolaire décente parce que les écoles publiques vont à vau-l’eau et qu’il manque des professeurs, eh bien, tous ceux-là ont plein de raisons d’être furieux contre ‘ceux d’en haut’ ».

Dans un entretien accordé au Spiegel, elle s’est exprimée sans détour : « Les frontières ouvertes n’apportent que désavantages aux plus pauvres de nos concitoyens car ils n’auront jamais l’opportunité de s’en aller ailleurs. Nous combattons la pauvreté dans les pays en voie de développement mais cela n’est pas possible si nous importons en Europe leur classe moyenne ».

Ex: http://www.zuerst.de

Querelle sur les transferts iraniens de liquidités: Washington fait pression sur l'Allemagne

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Querelle sur les transferts iraniens de liquidités : Washington fait pression sur l’Allemagne

Washington : Le gouvernement américain accentue ses pressions sur l’Allemagne pour empêcher une somme de 300 millions d’euros en avoirs iraniens de quitter l’Allemagne. Il s’agit d’avoirs appartenant à la banque publique commerciale euro-iranienne qui sont entreposés actuellement dans les coffres de la banque fédérale allemande. Téhéran veut se préparer à faire face aux sanctions élargies que lui impose Washington ; or, comme le versement d’une telle somme n’est plus possible, à cause des conditions qui ont été modifiées, le gouvernement iranien s’efforce de faire rapatrier cet argent en liquidités. Washington veut empêcher cette opération.

Le gouvernement américain compte sur un refus allemand de procéder à ce transfert de liquidités et se réfère aux nouvelles conditions régissant les transactions commerciales internationales qu’a acceptées la banque fédérale allemande. « Nous serions reconnaissants à nos partenaires du gouvernement allemand, s’ils admettent la nécessité de contrer les activités destructrices de l’Iran », a déclaré l’ambassade des Etats-Unis.  La décision de la banque fédérale allemande de rendre ses règles plus sévères, « contrecarrera les efforts problématiques de l’Iran, de faire transférer par avion, au départ de l’Allemagne, des cargaisons entières de liquidités ».

Ces nouvelles conditions pour les transactions, qui entreront en vigueur le 25 août prochain, veulent que, pour des paiements en liquidités aussi importants, il faut donner des explications, notamment pour empêcher le financement du terrorisme. Si les explications ne s’avèrent pas suffisantes, la transaction pourra être refusée. Les Etats-Unis reprochent à l’Iran d’utiliser l’argent demandé pour financer des activités terroristes au Proche Orient.

L’Allemagne, une fois de plus, s’est placée entre plusieurs chaises, parce que Berlin, comme toutes les autres capitales des pays de l’UE, ne veulent pas davantage heurter l’Iran, au moment où les Etats-Unis lui infligent de nouvelles sanctions. Le refus du transfert demandé pourrait avoir des conséquences fâcheuses pour l’Allemagne et pour l’Europe dans son ensemble.

Ex : http://www.zuerst.de  

jeudi, 02 août 2018

Le XXIe siècle et la tentation cosmopolite

 

« Consommer est devenu le but suprême
de l’existence des individus,
ce qui comble d’aise
les maîtres du “village terrestre”
peuplé d’hédonistes
(les travailleurs)
et de psychopathes
(les parasites sociaux) »

 

Entretien avec Bernard Plouvier, auteur de Le XXIe siècle et la tentation cosmopolite, éditions de L’Æncre (propos recueillis par Fabrice Dutilleul)

 

Vous abordez dans votre livre des thèmes très divers, tel les origines de l’Homo sapiens, le domaine territorial de la race blanche, dite « caucasienne », les constantes de la société humaines et les variables culturelles, mais également l’ambiguïté du « libéralisme » et du « melting pot » des USA, l’expérience mondialiste et l’économie globale qui permet aux ploutocrates de confisquer les États… Le titre de cette collection « Nouveau siècle, nouveaux enjeux » semble parfaitement s’appliquer au thème de ce livre ?

Nous autres, Européens autochtones, vivons indéniablement une période de « fin de civilisation », qui ressemble à s’y méprendre à celle vécue par les contemporains de la fin de l’Empire romain d’Occident. Cette constatation, assez peu réjouissante, mérite à la fois que l’on établisse un bilan des réalisations anciennes et que l’on apporte quelques réflexions comparatives sur les valeurs qui s’estompent et celles qui émergent.

Au Ve siècle, l’enrichissement général des citoyens de l’Empire romain avait conduit au relâchement de l’effort collectif et deux nouvelles religions moyen-orientales – la chrétienne et celle des adorateurs de Mithra – avaient supplanté le culte des dieux de l’État. De nos jours, la fraction la plus inventive de l’humanité contemporaine s’est lancée dans la course effrénée aux petites joies individuelles, au lieu d’œuvrer comme auparavant pour la collectivité.

Au Ve siècle, le pouvoir spirituel avait asservi puis anéanti la puissance politique. De nos jours, les maîtres de l’économie écrasent les autres pouvoirs : exécutif, législatif, judiciaire, médiatique et même spirituel.

Consommer est devenu le but suprême de l’existence des individus, ce qui comble d’aise les maîtres du « village terrestre » peuplé d’hédonistes (les travailleurs) et de psychopathes (les parasites sociaux).

L’économie globale et la mondialisation de la vie économique et culturelle sont deux notions nées aux USA durant la IIe Guerre mondiale. Du fait de l’implosion des sociétés communistes, elles sont devenues la réalité quotidienne de presque tous les peuples de la planète : rêve pour les uns, cauchemar pour les autres… c’est affaire de sensibilité et d’idéal.

Il est évident que Franklin Delano Roosevelt, le grand concepteur, n’aurait nullement apprécié notre monde où les grands actionnaires des multinationales et des trusts nationaux d’Asie manipulent, du fait de la toute-puissance de l’argent, les pantins de la politique et des media.

Plouvier21.jpgQuelle est votre définition du « cosmopolitisme », un mot qui, au XVIIIe siècle, à l’époque des Lumières, représentait le nec plus ultra : cela revenait alors, pour l’élite, à s’informer des autres cultures que celle de son pays d’origine ?

Le cosmopolitisme à la sauce mondialiste équivaut au mixage des cultures et au brassage des populations, de façon à liquider l’option nationale, jugée pernicieuse. L’Europe est ainsi envahie d’extra-Européens, souvent incultes, toujours faméliques et avides, également nantis pour la plupart d’une religion médiévale, c’est-à-dire grosse de l’expression d’un fanatisme anachronique, mais également porteurs d’un racisme revanchard dont l’expression est évidente, sauf pour les pitres qui façonnent l’opinion publique et ceux qui font semblant de nous gouverner.

La propagande mondialiste reflète, c’est évident, les choix de nos maîtres, qui leur sont dictés par leur intérêt. Le grand village terrestre ne doit plus être composé que d’individus qui consomment beaucoup, au besoin à crédit, et pensent gentiment ce qu’imposent les fabricants d’opinion publique.

Dans leur désir d’uniformiser l’humanité, pour augmenter la rentabilité du négoce en facilitant le travail des producteurs, des distributeurs et des revendeurs de biens de consommation, nos maîtres font l’impasse sur de nombreuses données génétiquement programmées de l’espèce humaine, non susceptibles d’éducation ou de rééducation. En outre, il nient allègrement une évidence : la profonde inégalité des êtres humains et des civilisations passées.

Par intérêt également, ils autorisent le développement de conduites sociales aberrantes pour peu que cela leur fournisse un marché lucratif (pornographie, conduites addictives, coutumes alimentaires absurdes conformes à des préceptes religieux antiques ou médiévaux).

Que cela envahisse le continent phare du melting pot, celui des trois Amériques (pour reprendre une expression rooseveltienne), ne nous regarde pas en tant qu’Européens, mais il est grotesque de le tolérer dans notre continent, qui fut le continent civilisateur durant deux millénaires et demi.

Pourquoi ne pas aimer ce monde nouveau, apparu il y a une vingtaine d’années, lors de l’effondrement des sociétés communistes et du triomphe de l’american way of life ?

Dépourvus de culture historique et philosophique, nos nouveaux maîtres créent une société mono-culturelle, multi-raciale parfaitement artificielle, qui ne peut en aucun cas créer une civilisation stable, donc durable, ni innovante au plan intellectuel et spirituel.

L’étude des espèces animales démontre que l’égoïsme et l’individualisme sont nocifs à moyen terme pour l’espèce, mais aussi pour les individus. Sans discipline, sans hiérarchie fondée sur les qualités et les mérites individuels, sans cohésion du groupe fondée sur l’utilité sociale, il ne peut y avoir de sécurité donc de survie, encore moins d’expansion pour l’espèce considérée.

Ce qui effare le plus un observateur européen contemplant la société actuelle est de constater que les Européens de souche ont, par veulerie et par esprit de facilité, renoncé à leur histoire. De la position de civilisateurs de la planète, ils sont passés en un demi-siècle au statut de colonisés, achetant des produits de médiocre qualité et d’infime durée de vie, fabriqués le plus souvent en Asie, et se gavant d’une sous-culture élaborée aux USA et au Japon.

L’étude de quelques grandes civilisations européennes défuntes démontre que l’homogénéité ethnique est l’une des conditions fondamentales de l’implantation, puis du rayonnement d’une civilisation originale. La perte du sens de l’effort collectif, l’incorporation de populations ou de croyances issues d’autres continents sont les conditions idéales pour amener la dégénérescence, puis la mort d’une civilisation, c’est-à-dire l’instauration d’un nouvel « âge des ténèbres ».

On ne peut guère compter sur le milieu des universitaires, où règnent en maîtres le conformisme et le misonéisme, ni sur les media, par définition aux ordres du Pouvoir, pour provoquer une réflexion critique chez nos contemporains, alors même que l’avenir de l’Europe dépend essentiellement de la prise de conscience de l’originalité et de la richesse de leur passé par les Européens de souche, qui seuls doivent décider de l’avenir du continent et de sa race.

Le XXIe siècle et la tentation cosmopolite, édition L’Æncre, collection « », à nouveau siècle, nouveaux enjeux, dirigée par Philippe Randa, 452 pages, 35 euros.

Pour commander ce livre, cliquez ici.

lundi, 30 juillet 2018

Une “OTAN arabe” - L’instrument de Trump contre l’Iran

politique internationale, actualité, proche orient, moyen orient, monde arabe, monde arabo-musulman, états-unis, iran, géopolitique,

Une “OTAN arabe”

L’instrument de Trump contre l’Iran

A Washington, on sait qu’en cas de guerre avec l’Iran, les Etats-Unis auront le besoin urgent du soutien des pays arabes voisins. Une OTAN arabe serait dès lors bien utile !

Par Marco Maier

Au Proche Orient, on envisage la création d’une nouvelle alliance militaire et politique, que l’on désigne déjà comme une « OTAN arabe », car la comparaison semble licite. Six pays arabes du Golfe, l’Eypte et la Jordanie agiraient ensemble au sein de cette organisation, en tant qu’alliés des Etats-Unis et uniraient leurs efforts contre l’Iran.

Selon certaines informations, la Maison Blanche inciterait ces pays à coopérer plus étroitement dans la défense anti-missiles, dans les manœuvres militaires communes et dans les mesures anti-terroristes et à renforcer leurs relations économiques et diplomatiques dans la région. Il s’agirait surtout de ruiner les efforts de Téhéran qui cherche à étendre son influence dans la région, en tablant notamment sur les pays à dominante chiite, comme, par exemple, l’Irak ou le Yémen.

Officiellement, les Américains appliquent la doctrine du « No Regime Change » en ce qui concerne l’Iran ; cependant, il est de notoriété que la CIA, le Mossad et d’autres services utilisent tous les moyens à leur disposition pour susciter ou envenimer des troubles au sein de la théocratie chiite, afin, dans la mesure du possible, de précipiter le pays dans une guerre civile qui entraînerait, en bout de course, la chute des mollahs. Voilà ce qu’espèrent les services secrets. Et si, finalement, le régime des mollahs ne tombe pas ? Alors, la situation chaotique, qui règnerait suite à toutes ces amorces de conflit civils, ferait en sorte que Téhéran serait forcé à se replier sur son front intérieur et ne pourrait plus œuvrer à s’installer comme puissance régionale qui compte.

En cas d’extrême nécessité, on pourrait aussi fabriquer un prétexte pour autoriser cette OTAN arabe de rentrer en Iran pour obliger les chiites perses, traités d’« adorateurs du diable », à « rentrer dans la droit chemin » (les sunnites radicaux haïssent davantage les chiites que les « mécréants »). Selon la bonne habitude, ce seront alors les Arabes qui feraient le sale boulot, verseraient leur sang en abondance, pour qu’à la fin, les Américains arrivent comme des héros resplendissants, comme des libérateurs.

Ex: https://www.compact-magazin.com

mercredi, 25 juillet 2018

Un tsunami vient de l’Ouest, doux comme le miel, mais qui tue comme le poison

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Un tsunami vient de l’Ouest, doux comme le miel, mais qui tue comme le poison

Par Iurie Roşca
Ex: http://editionsbios.blogspot.com

Quand on voit comment le gouvernement aujourd’hui se prosterne devant les «partenaires stratégiques» – la Trinité du Mal (FMI, Banque Mondiale et l’Union européenne) – et se met à genoux devant les investisseurs étrangers, comment ne pas faire un parallèle plus que nécessaire avec l'époque soviétique ?
 
Tout comme ceux qui ont accueilli les occupants soviétiques en 1940 avec des fleurs et des applaudissements sont considérés comme des collaborationnistes et des traîtres, ceux qui posent des tapis rouges et adorent les investisseurs étrangers méritent
le même traitement.
La différence entre les deux types d’envahisseurs est minime. Elle tient seulement de moyens, pas de buts. Si les occupants soviétiques avaient utilisé la force des armes, ceux d’aujourd’hui utilisent les armes de logiciel, économiques et financières, les uns et les autres ayant le même objectif : l’asservissement de la population locale et le pillage de ses richesses nationales.
Il est vrai que les impérialistes économiques d’aujourd’hui mettent en œuvre et l’ingénierie sociale, visant à anesthésier le pouvoir de discernement des peuples conquis. C’est pourquoi, l’identification de l’agresseur était beaucoup plus facile lors de l’invasion soviétique : la présence des chars, des troupes militaires, des corps de répression, la nationalisation, les déportations, les massacres étaient si évidents que tout le monde comprenait que c’étaient des occupants.

Mais le nouveau type de colonialisme a cependant une propriété qu’il faut la retenir. Avant d’envahir un territoire, il entreprend un bombardement médiatique (remplaçant le bombardement de l’avion d’autrefois), une attaque d’artillerie (mais pas une classique, comme il était une fois), manifestée par la colonisation de la conscience collective à l’aide de la culture de masse, l’induction de l’état fascinant pour le « rêve américain » et l’attractivité de la société de consommation. Et quand les aborigènes sont suffisamment traités psychologiquement, jusqu’à la perte de la conscience de soi (une nouvelle sorte de mankurtisation) et à l’instinct de conservation, cela compte moins qui est au pouvoir. Parce que n’importe quel gouvernement applaudit à scène ouverte les « sauveurs » descendus « sur le terrain » comme des loups en peau de mouton.
Encore une fois, si nous éprouvons un véritable mépris pour les collaborateurs du régime soviétique, pourquoi nous apprécions les nouveaux collaborationnistes du régime d’occupation en « style occidental », portant la même étoile à cinq branches sur le drapeau, seulement celui communiste était rouge, et celui d’aujourd’hui est bleu ? Il n’y a qu’une réponse. Par ignorance ou, en parlant délicatement, par erreur de perspective. Car alors le torrent d’origine étrangère venait de l’Est et il était violent, et maintenant un autre tsunami vient de l’Ouest, qui est doux comme le miel, mais qui tue comme le poison.
Celui qui a des yeux pour voir, verra. Et qui non, il sera dans une situation comme dans le vieil adage roumain : on montre à l’imbécile la lune, et il regarde le doigt.

http://flux.md/stiri/iurie-rosca-un-tsunami-vient-de-l-ou...

mardi, 24 juillet 2018

The Movement – the gravedigger of globalism or The mission of American Steve Bannon in Europe

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The Movement – the gravedigger of globalism or The mission of American Steve Bannon in Europe

Ex: http://flux.md
 

Paraphrasing the famous quote of Marx, we can state without any exaggeration: ”A specter is haunting Europe – the specter of populism”.

After a series of promising signs for the European populists or nationalists such as Brexit, the election of Trump, the results of the latest parliamentary elections in Austria, Hungary, Italy, the political solidarity of the Visegrád Group countries, the constant disagreements between Poland and the bureaucracy of Brussels etc., the international press is giving hopeful news once again. Steve Bannon, ex Chief Strategist of the American president and the mind behind the Trump victory, has announced the creation of a new foundation in Europe, which will be called The Movement. This organization has the ambition of being an alternative to the ”Soros network”, known as The Open Society Foundation, the one that has had and still has a major impact on the politics of our continent – in the ex-communist countries, Western Europe and the United States.

And if the anti-system political events of recent years have shaken the dominant elite for the first time since World War Two, the phenomenon rightly called the ”European spring” or the ”populist revolution of Europe”  has a great chance of growing even more due to Steve Bannon’s initiative. The ambition of this American thought leader is to unite all European identitarian and pro-sovereignty parties in a common front against globalism, which is neoliberal and antinational and gravely affects not only the interests of smaller countries, but those of the US as well.

In his book „The populist Moment. Right-left: it’s over”, the French philosopher Alain de Benoist brilliantly synthesizes the new mindset of European peoples. The new coalition government in Italy that has united the populist groups, „Lega Nord”, the party of Matteo Salvini and Luigi di Maio’s „Five Star Movement”, confirms Benoist’s ideas. Another philosopher that subscribes to this line of thinking is Aleksandr Dugin, who wrote a series of important texts on the new wave spreading over European politics. Finally, with the election of Trump and with the intentions of Bannon, us Europeans can give up on the cliche idea that globalism is purely an American product. The French essayist and economist Hervé Juvin stresses on a very important thesis that helps understand the phenomenons that have taken place in the last decades: just how the Russian people were the first victims of Communism, so the American people are the first victims of globalism, also called extraterritorial, imperialistic and devastating capitalism. It is worth adding that the majority of the globalist oligarchy is based in the USA, but act against the state and the American people.

Therefore, the non-profit that is about to be launched declares that its first immediate task is the fortification of anti-system populist parties in time for the European Parliamentary elections in May 2019, as well as helping them in some local elections. The expertise and consultancy services offered by the foundation can have a crucial role in the upcoming electoral confrontations. And if Steve Bannon openly declares that he wants his organization to be a rival of the „Davos group”, meaning the global plutocratic establishment, my friend from France, Emmanuel Leroy, preceding the idea of the American strategist, proposed a formula that goes extremely well both with the initiative launched last year in the Moldovan capital, as well as with that of Bannon. On the occasion of the two international conferences in Chișinău held in 2017 that brought together intellectuals from the ex-communist countries and Western Europe, he said that the Chișinău Forum must become a true anti-Davos. Created by three organizations, the Popular University of Moldova, the Eurasianist Movement of Russia, lead by Aleksandr Dugin and the Jean Parvulesco Committee of France, The Chișinău Forum has become a true international think-tank that will meet at least once a year to elaborate alternative strategies of geopolitical, ideological and economic nature. After more than two years, our network has extended all the way to Iran and Africa, has managed to develop a strong media cooperation and participate in important international events. In this context, as the main organizer of the Chișinău Forum, I am almost certain that I will have the support of my colleagues from abroad when coming with the proposition of initiating a strong collaboration with Steve Bannon’s new organization.

Our media resources, www.flux.md and www.altermedia.md (Moldova), www.geopolitica.ru (Russia), www.tvlibertes.com, www.lesakerfrancophone.fr, www.egaliteetreconciliation.fr (France), www.zuerst.de (Germany), www.gandeste.org, www.estica.eu (Romania), www.geopolitika.rs (Serbia), as well as a series of other press structures that we collaborate with represent an excellent opportunity for promoting our ideas and for mutual support.

The capital of Moldova, Chișinău, is an excellent place for our international meetings due to its geographical position and to the fact that citizens from the EU, the US, Canada, Russia and the other ex-Soviet states do not need visas. Our team has acquired great experience in organizing succesful events and in maintaining strong contact with our partners. This experience must be used to bring substantial contributions to the demolition of the current dominant system of the global plutocracy, to the rebuilding of nation-states and the rebalancing of international affairs that favor the interest of every people.

We, the peoples from the ex-Communist region, have gained valuable experience from our participation in the dismantling of the former totalitarian regime. Three decades ago, none of us knew that the time will come when we will have to create a new „triumph of nations”, to achieve a new decolonization of captive peoples that became victims of the global corporatocracy, which de-sovereignized all countries, producing great economic and social unbalances. And the same way that the end of the USSR was possible, so is the end of the new totalitarian mini-empire of the EU urgently needed, which the Hungarian prime minister Viktor Orban rightly called the most corrupt in the world, massively penetrated by the tentacles of George Soros. After the election of Donald Trump, a sort of duality of power has been installed in the US: on one hand, a populist president that guides himself by the „America First!” principle, and on the other hand the „deep state”, which sacrifices national interests for the accumulation of huge profits. Steve Bannon is coming with a message that is embraced by any partiot. Every people, every authentic political elite should follow exactly this principle: „My country first before anything!”.

We have a common war for the preservation of our traditions, cultures and religions, for the protection of national economies in the face of the globalist capitalist aggression, for the refusal of our countries to be invaded by the waves of illegal migrants and to flood their countries with the sharks of speculative capitalism. The denouement of this major historical confruntation depends on our solidarity.

I invite all friends from our international network to give their opinion on the idea of the active participation of the Chișinău Forum members in supporting and extending Steve Bannon’s organization – The Movement. Your reactions will be published on our media resources in different languages.

I would like to end with another well-known paraphrase of marxist inspiration:

Populists of all countries, unite!

Iurie Roșca, ex anti-Soviet dissident, currently an anti-globalist dissident

July 23, 2018,

Chișinău,

Republic of Moldova

lundi, 23 juillet 2018

L'Etat profond américain s'expose en plein jour

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L'Etat profond américain s'expose en plein jour

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Ce terme d'Etat profond (Deep State), que nous utilisons souvent, est devenu courant dans les analyses politiques américaines. Il désigne en général, sans le dire clairement, la coalition des divers services secrets et des forces militaires qui exercent le pouvoir aux Etats-Unis. Ceci au mépris de la Constitution et des différentes institutions, dont la Maison Blanche et le Président américain, seules habilitées officiellement pour ce faire.

Jusqu'ici ce terme avait été réservé pour désigner dans des pays comme l'Egypte, le Pakistan et la Turquie, l'appareil des institutions militaires et de renseignement qui depuis des décennies a fait de ces pays des dictatures recourant en permanence à la force et à la violence pour s'imposer. Leurs victimes bien que mal identifiées, se comptent par millions.

Or c'est à l'Etat profond américain que font désormais appel tous ceux qui aux Etats-Unis s'opposent aux perspectives de détente avec la Russie apparues à la suite de la rencontre de Donald Trump et Vladimir Poutine à Helsinki le 16 juillet. A la suite de cette rencontre, Trump avait déclaré qu'il n'avait pas de raisons pour croire ses services secrets plutôt que le démenti de Poutine concernant une ingérence de celui-ci dans son élection.

Devant l'appel à sa destitution lancé contre lui par l'ensemble des institutions politiques américaines, y compris l'Etat profond, il s'était rapidement rétracté. Mais le mal avait été fait. Toutes les forces démocratiques qui s'opposent, plus ou moins timidement, à une militarisation ouverte de l'Etat, avaient retenu ce terme d'Etat profond pour désigner ceux qui avaient forcé Trump à se démentir. Il fallait donc que l'Etat profond sorte de l'ombre, reconnaisse son existence et fasse admettre à l'opinion qu'il s'agissait d'une force indispensable à la survie de l'Amérique.

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Deux articles

Ceci n'a pas tardé. Dans un article de très « officiel » Washington Post, l'éditorialiste réputé Eugène Robinson, prix Pulitzer, a osé, sous le titre de God Bless the Deep State, demander à Dieu de bénir l'Etat profond. Lui seul permettra de sauver l'Amérique de tous ceux qui veulent sa perte. Le Deep State, écrit-il, se tient entre nous et les abysses. Son devoir est de continuer à jouer ce rôle 1).

Quatre mois auparavant, le New York Times avait annoncé les pires catastrophes à ceux qui dénoncent un prétendu Deep State qui, selon le journal, n'existerait pas 2).

Aujourd'hui, le pas est franchi. Le Deep State reconnaît sa propre existence. Son devoir affirme-t-il est de combattre tous ceux qui au nom de la démocratie, voudraient s'affranchir de sa protection.

On dira qu'en Russie, en Chine et dans bien d'autres pays, y compris en Europe, cet état de chose est reconnu et que personne ne s'indigne. Disons seulement, à supposer que ceci soit exact, que l'Etat profond américain paraît annoncer son rôle au service de la mise en place d'une dictature qui ne sera pas différente des autres. Donald Trump a du s'en rendre compte. Il semble avoir compris que s'il résistait, sa fonction et probablement même sa vie en paieraient le prix.

Références

1) https://www.washingtonpost.com/opinions/god-bless-the-dee...

2) https://www.nytimes.com/2017/03/10/world/americas/what-ha...

L’Union Européenne est l’ennemie des Etats-Unis depuis la fin de l’ancienne guerre froide

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L’Union Européenne est l’ennemie des Etats-Unis depuis la fin de l’ancienne guerre froide

Par Tyler Durden

Trump a fait sensation cette semaine en décrivant l’Union Européenne comme une ennemie des Etats-Unis

Cette Remarque du Président américain, “politiquement incorrecte” et impensalbe jusqu’il y a peu a été prononcée après le sommet de l’OTAN, à l’occasion d’un entretien que Trump a donné à CBS News. Les journalistes ont demandé à Trump de décrire « le plus grand ennemi global d’aujourd’hui » : celui-ci a répondu, laissant tout un chacun complètement pantois : « Eh bien, je pense que nous avons un tas d’ennemis. Je pense que l’Union Européenne en est un pour ce qu’elle inflige à notre commerce. Certes, je comprends votre stupéfaction, car vous ne songiez pas à l’Union Européenne, mais, oui, elle est un ennemi ».

Très vite, le Président américain a édulcoré ses propres paroles en disant : « Je respecte les dirigeants de ces pays. Mais, du point de vue commercial, ils ont fini par prendre l’avantage sur nous et bon nombre de ces pays sont dans l’OTAN et ne paient pas leurs factures ». Mais le mal était fait.

Un sondage recent (recent poll ) nous apprend que deux tiers des Allemands pensent que Trump est « plus dangereux » que le Président russe Poutine. Quant au ministre allemand des affaires étrangères, il a déclaré lundi que son pays « ne pouvait plus entièrement faire confiance à la Maison Blanche » (voir : déclaration ).

Les médias « mainstream » décrivent cet incident majeur comme un désastre que l’Amérique s’inflige à elle-même « en rejetant ses liens traditionnels transatlantiques » et en répétant « que Trump a trahi les alliés les plus proches des Etats-Unis ». Cependant la situation est bien plus complexe que ne le veulent ces explications simplistes.

L’idéologie « America First » de Trump est complètement opposée  à l’approche globaliste de l’élite européenne de gauche. Trump, l’homme d’affaires milliardaire, n’accepte pas que les contribuables américains continuent à financer injustement les notes de l’OTAN tandis que les Européens gardent les mains libres grâce à leurs sacrifices. De plus, Trump n’accepte pas le déséquilibre tarifaire existant entre les Etats-Unis et l’Union Européenne ; toutefois, sa réponse est le résultat d’une manipulation des chiffres due à une tactique habile de gestion de la perception (cf. skillful perception management tactics ), tendant à faire croire à « une attaque non provoquée contre le commerce libre et honnête ». La réalité nous oblige à dire qu’il n’y a jamais eu de véritable commerce « libre et honnête » et que ce conflit larvé a toujours existé.

Les Etats-Unis avaient décidé, dès la fin des années 1940, de subsidier “l’utopie socialiste de l’Etat-Providence” dans l’Union Européenne, pour gagner des atouts lors de l’ancienne guerre froide. Cette raison, dorénavant caduque, a pourtant toujours été évoquée et traduite dans la pratique pour  faire triompher des objectifs globalistes favorisant l’unipolarité américaine (cf.  continued for unipolar globalist ends ).

Exactement comme les Russes soviétiques n’ont jamais cessé de redistribuer leurs ressources aux autres républiques de l’URSS puis aux pays européens du bloc de l’Est et aux pays alliés du « Sud soviétique » en Afrique et en Asie. Les Américains éprouvent des sentiments négatifs à l’égard de leurs gouvernements qui, pendant des décennies, ont favorisé les Européens et même les Chinois en leur octroyant des arrangements commerciaux asymétriques.

Aujourd’hui, les implications possibles en matière de sécurité, sur le long terme, qu’a ce transfert continu de richesses des Etats-Unis vers l’Europe, sont les motifs principaux pour lesquels Trump a considéré l’Union Européenne comme un « ennemi » car c’est là une façon simple et claire de définir la concurrence économique et stratégique entre ces deux pôles qui sont des « amis/ennemis » ; certes, cela a surpris considérablement les Européens d’être apostrophés de la sorte par le Président américain lui-même.

Ex: https://www.zero-hedge.com

dimanche, 22 juillet 2018

Steve Bannon veut créer une fondation en Europe : est-ce une aubaine ou un danger ?

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Steve Bannon veut créer une fondation en Europe : est-ce une aubaine ou un danger ?

Avec des fonds provenant des conservateurs de droite américains, les mouvements et partis de droite au sein de l’Union Européenne seraient dans un premier temps consolidés afin de former une fraction plus importante au Parlement européen. Désormais, l’ancien conseiller de Trump se concentre sur l’Europe.

Par Michael Steiner

Steve Bannon, on le sait, est un publiciste de la droite conservatrice américaine, un producteur de films, un conseiller politique qui a dirigé la page web « Breitbart News Network » et a été naguère le principal conseiller du Président américain Donald Trump. Bannon a décidé de concentrer tous ses efforts sur l’Europe et souhaite, avec l’appui d’une fondation, soutenir les partis conservateurs et populistes de droite pour qu’une solide faction conservatrice et droitière s’installe sur les strapontins du Parlement Européen qui sera élu l’année prochaine.

Aujourd’hui âgé de 64 ans, Bannon, après les élections dites du « mid-term », début novembre aux Etats-Unis, veut passer la moitié de son temps en Europe, apprend-on en lisant le portail américaine « The Daily Beast ». Bannon veut faire contrepoids à la Fondation gérée par le milliardaire globalitaire George Soros qui appuie les mouvements et groupes de gauche et d’extrême-gauche. Bannon a déjà trouvé un nom pour la Fondation qu’il envisage de créer : elle s’appellera « The Movement ».

D’après l’article de « The Daily Beast », Bannon veut installer son quartier général à Bruxelles et tout coordonner au départ de ce siège. Lors de la visite de Trump à Londres, il y a une semaine, il a rencontré quelques représentants de mouvements de droite dans la capitale britannique, contacts qui, selon lui, se sont avérés très prometteurs. Si bien qu’il peut se mettre à recruter du personnel. Cependant, nous pouvons nous poser quelques questions avec tout le scepticisme requis : Bannon pourra-t-il, en l’espace de quelques petits mois, consolider suffisamment les partis et mouvements de droite disséminés dans toute l’Europe ?

Question supplémentaire : sera-t-il capable d’aligner tous ces partis et mouvements, qui sont souvent très critiques à l’endroit de la politique américaine, sur un « courant unique » puis de les brancher sur le réseau des « néocons » de Washington ? Telles sont les questions que tout bon Européen doit poser. Si Bannon finit par disposer de suffisamment de moyens financiers dans les temps voulus, ne cherchera-t-il pas à faire émerger un changement de cap en politique internationale au sein des partis de droite en Europe qui, du moins partiellement, sont plutôt russophiles et hostiles à l’hégémonisme américain ?

Ex : https://www.contra-magazin.com

samedi, 21 juillet 2018

Le chef de la fraction des “Verts” en Allemagne veut de nouvelles alliances asiatiques pour l’Europe !

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Adieu à l’alliance américaine ?

Le chef de la fraction des “Verts” en Allemagne veut de nouvelles alliances asiatiques pour l’Europe !

Robert Habeck, chef de la fraction des Verts estime que l’Europe a besoin de nouveaux partenaires et alliés, surtout en Asie, quitte à ne plus être orientée exclusivement sur le partenariat transatlantique.

Par Marco Maier

Enfin, un gars parmi les Verts qui devient intelligent ! Après avoir quasiment exclu le mouvement pacifiste de ses rangs et surtout depuis le gouvernement Schröder/Fischer, les Verts de la tendance « Realo » et leurs amis ralliés à l’établissement ont donné le ton dans le parti qui, depuis, n’a cessé de vouloir pratiquer une politique férocement antirusse, surtout sous la pression du lobby homosexuel, ce qui a permis aux atlantistes de contrôler la marche des affaires en politique étrangère, induisant une suite ininterrompue de stratégies filandreuses et boiteuses. Aujourd’hui, les choses semblent changer : le chef du parti, Robert Habeck veut que l’Union Européenne se choisisse de nouveaux partenaires et alliés.

“Certes, nous ne pouvons pas abandonner l’espoir que nous plaçons dans une Amérique après Trump, où les relations transatlantiques reprendraient vigueur”, a déclaré Habeck, “mais une chose doit être claire désormais : l’Europe doit forger de nouvelles alliances, surtout en Asie ». L’Europe doit abandonner l’idée qu’il n’y aurait « qu’un seul véritable allié », a insisté Habeck. « En lieu et place du vieux camp (atlantiste), nous devons faire émerger un tissu d’alliance, suffisamment puissant, pour éviter toutes nouvelles guerres ». Ce qui est important, c’est que « l’Europe doit agir à l’unisson », a demandé le chef des Verts, « sinon nous ne jouerons plus aucun rôle (sur la scène internationale), y compris l’Allemagne ».

Le Président des Etats-Unis, a-t-il ajouté, « a un plan : la destruction de l’ordre ancien ». Dans le conflit qui oppose désormais l’Europe aux Etats-Unis, la Chine pourrait devenir l’un de nos partenaires, a dit Habeck, même si la République Populaire n’est nullement un modèle sur le plan des droits de l’homme (ce qui semble important pour les Verts…). Notre commentaire : s’il faut s’unir contre Trump, les droits de l’homme semblent tout d’un coup revêtir une importance bien moindre pour les Verts.

Toutefois, le politicien vert s’oppose contre toute augmentation aveugle du budget militaire allemand, comme l’a réclamé le Président des Etats-Unis et quelques politiciens allemands de la CDU, de la CSU et de la FDP. « Avant de poser la question ‘combien ?’, il faut poser la question du pourquoi et l’expliquer”, selon Habeck.  « Au départ, il faut procéder à une analyse stratégique pour déterminer quelles sont les tâches de la Bundeswehr et celles de ses partenaires européens aujourd’hui ». Et c’est sur la base de cette analyse stratégique qu’il faudra fixer les dépenses et non autrement.

Ex : https://www.contra-magazin.com

mercredi, 18 juillet 2018

Démocrature: Nazi Concept Welcomed into French Language

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Démocrature:
Nazi Concept Welcomed into French Language

It’s that time of year. The French dictionaries Le Petit Larousse and Le Petit Robert (don’t ask me why they are called “petit,” they are huge) are adding various neologisms and foreign loanwords to our beloved langue de Céline.

My interest was particularly piqued by the following new entry: 

DÉMOCRATURE 

noun, feminine (from democracy and dictatorship).

1. A political regime which, while having certain attributes of democracy, such as party pluralism, is nonetheless run in an authoritarian or even dictatorial fashion. (One also says dictocratie.)

2. The shift from democracy to dictatorship by undermining the rule of law.

How interesting! The word clearly refers to the various elected “populist” regimes which have emerged in Hungary, Poland, and the United States, which for various reasons, do not live up to liberals’ ever-changing definition of “democracy” and “the rule of law,” according to their latest ideological fashions.

What Le Petit Larousse fail to mention, however, is that the word actually goes much farther back, at least as far back as the 1930s: indeed, various fascist movements and thinkers deemed the Western parliamentary democracies to be in fact démocratures, as actually being run not by the people, but by warmongering and corrupt liberal and oligarchic elites. Given the pervasiveness of antiwar sentiment, if the people ran America or France, as these republics boldly claimed, it seems quite unlikely that either country would have gone to war against Germany, effectively on the side of the Soviet Union.

The historian Mark Mazower writes on postwar German National Socialists:

[S]uch men regarded parliamentary democracy as a sham “democratatorship” [sic] (Demokratur), believed the multi-party system had to be abolished and wanted somehow to reunify the country with the assistance of like-minded fascists abroad.[1] [2]

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What, in fact, is a liberal democracy? You will never find agreement as the two terms are in hopeless contradiction with one another. One man’s legitimate, majoritarian expression of the popular will is another man’s demagogic tyranny of the majority. To one man, the executive’s, media’s, and judges’ ignoring of public opinion will be an example of far-sighted, responsible, and enlightened leadership, while appearing to another man to be an abhorrent betrayal of democracy by oligarchic elites.

Recall: two World Wars were fought by the Western powers, tearing Europe apart in murderous conflicts from which the continent has never recovered, in the name of preserving liberal democracy. The religion of democracy excommunicates from respectable humanity all governments which are not liberal democracies. And yet, the very definition of the term is quite unclear, shifting, and ambiguous according to liberal elites’ changing moods and interests. All this is quite problematic.

In fact, all human societies are authoritarian and (civil-)religious. All societies, and their media-political elites, shun, demonize, and destroy those considered to have wrong values, lest they infect the rest of society. All societies have punishable taboos. Purging a university professor or screenwriter for his fascist or racialist views is not less “authoritarian” than purging one for his communist views. Therefore the distinction drawn by liberals and the Left in general, made popular in the 1960s by the Frankfurt School and others, is quite spurious and hypocritical. All societies have Platonic Guardians, whether they own up their role, or not.

This was not so apparent in the postwar years however. For the Boomers, bless them, one could live in a society which was, in fact, carefully policed by the audiovisual and print media, but which could claim to be “open,” “tolerant,” “pluralist,” characterized by “freedom of thought,” etc., all the while never being allowed to give a fair hearing any taboo Right-wing idea. One could have the pleasure of both thinking oneself open-minded and have the benefits of actually being authoritarian.

With the rise of national-populism, which signifies, for the first time in decades, a certain loss of control of the political process by mainstream media elites, the mainstreamers are waking up to démocrature. More and more are openly questioning democracy and elections, as leading to “instability,” “populism,” and above all, “wrong values.” Careful now, you might become Right-wingers!

Notes

[1] [3]Mark Mazower, Hitler’s Empire: Nazi Rule in Occupied Europe (New York: Penguin, 2008).

 

Article printed from Counter-Currents Publishing: https://www.counter-currents.com

URL to article: https://www.counter-currents.com/2018/07/democrature-nazi-concept-welcomed-into-french-language/

URLs in this post:

[1] Image: https://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2018/07/Apotheosis2.jpg

[2] [1]: #_ftn1

[3] [1]: #_ftnref1

lundi, 16 juillet 2018

Manœuvre dilatoire ukrainienne : Porochenko exige l’arrêt de la construction du gazoduc Nord Stream 2

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Manœuvre dilatoire ukrainienne : Porochenko exige l’arrêt de la construction du gazoduc Nord Stream 2

 

Kiev/Bruxelles – On le sait : les Etats-Unis déploient tous leurs efforts pour mettre un terme au projet germano-russe du gazoduc Nord Stream 2. Cette fois, sans que cela n’étonne personne, le gouvernement ukrainien participe à la manœuvre. Il est vrai que l’Ukraine est directement concernée par la construction de ce nouveau gazoduc car, comme d’autres pays de transit qui posent problème, elle sera contournée à l’avenir et perdra une masse d’argent en ne pouvant plus prélever de taxes de transit.

Le Président ukrainien Porochenko a exié l’arrêt pur et simple des travaux de construction du gazoduc de la Baltique. Ses arguments sont les suivants ; il les a énoncés lors du sommet de l’OTAN à Bruxelles : « Nord Stream 2 n’est pas un projet économique et n’est mis en œuvre que pour des motivations politiques ». Ce serait une immixtion de la Russie et, de ce fait, totalement inacceptable. L’Europe occidentale pourrait utiliser les gazoducs passant par l’Ukraine car leurs capacités sont plus élevées que celles de Nord Stream 2. Et Porochenko a ajouté, sans la moindre circonlocution verbale : « Je formule l’espoir, a-t-il déclaré, qu’ensemble nous pourrons tous arrêter la construction de Nord Stream 2 ».

Quelques temps auparavant, le gouvernement américain avait menacé de sanctions toutes les entreprises qui participeraient à la construction de Nord Stream 2. Le président américain Trump n’avait pas hésité à critiquer l’Allemagne lors du sommet de l’OTAN et l’avait traitée de « prisonnière de la Russie » parce que la République Fédérale tirait majoritairement ses besoins énergétiques de sources russes.

Toutefois, ce n’est un secret pour personne que Wahington, en s’attaquant au projet Nord Stream 2, défend bec et ongles ses propres intérêts économiques et poursuit une géostratégie bien établie. Les Etats-Unis veulent vendre en Europe leur propre gaz de schiste et torpiller, pour y parvenir, toute consolidation des relations commerciales germano-russes.

Ex: http://www.zuerst.de

dimanche, 15 juillet 2018

Investissements le long des nouvelles routes de la Soie : l’Allemagne et la Chine signent 22 traités !

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Investissements le long des nouvelles routes de la Soie : l’Allemagne et la Chine signent 22 traités commerciaux !

Berlin – Malgré l’indécrottable obsession occidentaliste et atlantiste des dirigeants politiques de la République fédérale d’Allemagne, les relations économiques inter-eurasiatiques s’intensifient, en marge des querelles sous-jacentes qui troublent les relations transatlantiques. Suite à sa visite lors de la rencontre dite « 16 + 1 », à Sofia, capitale de la Bulgarie, le Président chinois Li Kequiang s’est rendu à Berlin, où il a plaidé pour une imbrication économique plus étroite entre Européens et Chinois. A cette occasion, plusieurs traités économiques germano-chinois ont été signé pour un valeur totale de 20 milliards d’euros.

Le but de ces pourparlers communs était de discuter des mauvaises conditions dans lesquelles évoluait le commerce internationale suite aux dernières sanctions douanières américaines. Tant la Chancelière Merkel que son hôte venu de Chine ont plaidé en faveur d’un commerce libre, libéré de toute entrave. Li a déclaré : « Nous sommes en faveur du commerce libre, du multilatéralisme ».

Beijing, ces derniers jours, a réagi face aux sanctions douanières américaines en imposant des taxes spéciales sur les produits américains importés en Chine.

En marge de ces consultations germano-chinoises, vingt-deux traités gouvernementaux et économiques ont été signés. Le principal de ces traités porte sur la construction d’une usine pour piles cellulaires destinées aux automobiles électriques et qui s’établira à Erfurt en Thuringe. Le producteur chinois CATL veut y investir, dans un premier temps, plusieurs centaines de millions. Le premier gros client pour ces piles est BMW. Le constructeur automobile bavarois veut faire construire des piles à Erfurt et en acheté pour 1,5 milliards d’euros. Merkel a aussitôt déclaré : « C’est un grand jour pour la Thuringe » mais elle a déploré, dans la foulée, que la Chine avait acquis une avance indubitable en ce domaine. "Si nous avions pu les produire par nous-mêmes, je n’aurais pas été triste ".

En Chine, désormais, plus de 5000 entreprises allemandes se sont installées. Le Chine est, depuis deux ans, le principal partenaire commercial de l’Allemagne.

Ex : http://www.zuerst.de

 

samedi, 14 juillet 2018

Projet de loi au Congrès américain : le gazoduc Nord Stream 2 est visé !

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Projet de loi au Congrès américain : le gazoduc Nord Stream 2 est visé !

Washington – Les Etats-Unis ne lâchent pas le morceau : ils ne veulent pas du projet de gazoduc germano-russe Nord Stream 2. Un projet de loi a été introduit au Congrès américain : il concerne les conséquences politiques et économiques qu’aura le projet de gazoduc. Le texte du document en question est paru sur le site officiel du Congrès. On y trouve les exigences du ministre américain des affaires étrangères, du chef des services de renseignement et du ministre des finances : tous veulent des rapports détaillés sur les effets que pourrait avoir l’installation de ce gazoduc dans la Baltique.

Littéralement, on peut lire la phrase suivante dans le texte du projet de loi : « La Fédération de Russie propose de construire un gazoduc partant de Russie pour aboutir en Allemagne ; ce gazoduc portera le nom de Nord Stream 2. Sa construction permettrait de couvrir l’augmentation éventuelle de la consommation d’énergie en Europe mais accroîtrait simultanément la dépendance de l’Europe à l’endroit de l’énergie russe et aurait des effets déstabilisants pour le gouvernement ukrainien si l’Ukraine, suite à la construction de ce gazoduc Nord Stream 2, perdait des dividendes dus au transit de l’énergie ».

Le projet de loi avance d’autres arguments : les Etats-Unis continueront à s’opposer à la réalisation de ce projet en Europe du Nord et prendront des « mesures diplomatiques » pour empêcher la construction du gazoduc.

Si la loi est adoptée, le chef des services de renseignement américain serait alors dans l’obligation de rédiger un rapport sur les effets du gazoduc Nord Stream 2 sur la sécurité énergétique de l’Union Européenne, sur les intérêts des Etats-Unis et de l’Ukraine dans cette affaire.

Le projet de loi a été introduit par le député démocrate Dennis Heck et son collègue républicain Ted Poe. Préalablement, le ministre américain des affaires étrangères Mike Pompeo avait déclaré que les Etats-Unis tenteraient de convaincre l’Union Européenne d’abandonner le projet Nord Stream 2.

Ex : http://www.zuerst.de