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mercredi, 29 septembre 2010

Europäische Ohnmacht

Europäische Ohnmacht

Die EU fehlt in der Außenpolitik der Wille zur Macht

Von Andreas Mölzer / Ex: http://zuzeit.at/

1539495951.jpgBei einem Sondergipfel debattierten in der Vorwoche die Staats- und Regierungschef der Mitgliedstaaten darüber, wie das außenpolitische Gewicht der Europäischen Union erhöht werden kann. In der Tat besteht in diesem Punkt dringender Handlungsbedarf, zumal Europa in der Welt – sofern es überhaupt wahrgenommen wird – als Lachnummer gilt. Grundsätzlich sind die angestrebten strategischen Partnerschaften mit den aufstrebenden Weltmächten China, Indien und Brasilien ein taugliches Mittel zur Beendigung der außenpolitischen Ohnmacht. Denn die Europäische Union muß sich aus der außen- und sicherheitspolitischen Umklammerung der USA lösen und wird aus eigener Kraft heraus nicht in der Lage sein, einen Gegenpol zu Washington bilden zu können.

Eine andere Frage ist jedoch, ob die beim Brüsseler Sondergipfel getätigte Absichtserklärung auch mit Leben erfüllt wird. Schließlich plant die Europäische Union seit Jahren schon eine strategische Partnerschaft mit Rußland, deren Bedeutung von der EU-Polit-Nomenklatura regelmäßig beschworen wird. Umgesetzt wurde bisher nichts, und die Beziehungen zwischen Brüssel und Moskau haben sich zuletzt sogar etwas abgekühlt. Und großer Nutznießer der europäischen Ankündigungspolitik sind die USA, die naturgemäß ein großes Interesse daran haben, daß Europa unter ihrer außen- und sicherheitspolitischen Kuratel bleibt. Denn ohne die willigen Helfer jenseits des Atlantiks, die sich der Illusion hingeben, sie könnten im Rahmen der sogenannten transatlantischen Partnerschaft Einfluß auf die US-amerikanische Außenpolitik nehmen, wäre es für Washington wesentlich schwerer, als Weltpolizist aufzutreten.

Ein außenpolitisches Instrument, das bislang keine Rolle gespielt hat und das auch künftig nicht zur Anwendung kommen wird, sind die immensen Zahlungen an Entwicklungshilfe und sonstiger „humanitärer Hilfe“ nach Kriegen oder Naturkatastrophen. Hier werden wegen des schlechten Gewissens der früheren europäischen Kolonialmächte sowie aus anderen politisch korrekten Zwängen heraus bereitwillig die Spendierhosen angezogen, ohne daß der weltweit größte Geldgeber daraus einen politischen Nutzen zöge. Anstatt bereitwillig auf Kosten der Steuerzahler das Scheckbuch zu zücken, müßte der Grundsatz „wer zahlt, schafft an“ gelten. Aber dazu fehlt der Europäischen Union der politische Wille wie auch der Mut.

mardi, 28 septembre 2010

Steiermark: FPÖ verdoppelt Stimmenanteil

Steiermark: FPÖ verdoppelt Stimmenanteil

 Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Wahlplakat der FPÖ Foto: JF

GRAZ. Die FPÖ hat bei der Landtagswahl in der Steiermark ihren Stimmenanteil nahezu verdoppelt. Die Partei erhielt am Sonntag laut vorläufigem Endergebnis (ohne Briefwahl) 10,8 Prozent der Stimmen, was einem Zuwachs von 6,2 Prozent entspricht. Das Bündnis Zukunft Österreichs (BZÖ) des verstorbenen Kärntner Landeshauptmanns Jörg Haider auf 3 Prozent (plus 1,3 Prozent).

Wahlsieger war trotz Verlusten (minus 3,3 Prozent) die SPÖ, die 38,4 Prozent der Stimmen erhielt. Gefolgt von ÖVP (37,1 Prozent), Grünen (5,2 Prozent) und der Kommunistischen Partei Österreichs (KPÖ), die es auf 4,4 Prozent brachte.

SPÖ kündigt Gespräche mit FPÖ an

SPÖ-Spitzenkandidat Franz Voves kündigte an, sowohl mit der ÖVP als auch mit der FPÖ in Verhandlungen über eine mögliche Regierungskoalition treten zu wollen. „Beide Parteien sind für mich gleichermaßen Ansprechpartner und wir werden sehen, was die ersten Gespräche ergeben“, sagte Voves der Kleinen Zeitung.

Die FPÖ hatte im Wahlkampf unter anderem mit einem Anti-Moschee-Computerspiel für Schlagzeilen gesorgt. Das Spiel, bei dem man aus dem Boden schießende Minarette stoppen mußte, brachte den Freiheitlichen eine Strafanzeige der Grünen wegen Volksverhetzung ein.

Ebenfalls für Aufsehen sorgte die Mitgliedschaft des Spitzenkandidaten und Landesparteiobmanns der FPÖ, Gerhard Kurzmann, in einer Veteranenorganisation der Waffen-SS. Kurzmann hatte die Mitgliedschaft in einem Interview mit den Worten verteidigt, er wolle nicht, daß die Kriegsgeneration seines Vaters pauschal kriminalisiert werde. (krk)

samedi, 24 avril 2010

Il crollo degli imperi

Il crollo degli imperi

di Paolo Macry

Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]


Da tempo sono consapevole di quanto anomali siamo nel mondo moderno L' imperatore Francesco Giuseppe (1916)Ma a vincere fu soprattutto la realpolitik più che un' autentica spinta nazionalista

http://www.kaiserjaeger.com/Foto%20Austriache/Saluto_al_Kaiser_FJ.jpg

La sequenza cronologica che porta dal collasso dell' impero al trionfo dello stato nazionale sembrava scritta nelle tavole della storia. Nel 1918, quando dai domini asburgici erano nati quattro nuovi Paesi, a vincere non era stato soltanto il wilsonismo, ma anche una sorta di senso comune ben diffuso in Occidente. E perfino i massimi simboli della tradizione imperiale erano finiti rapidamente nell' oblìo. L' 11 novembre di quell' anno, il giorno dopo la rinuncia al trono, Carlo d' Asburgo aveva abbandonato la residenza di Schönbrunn in una serata piena di nebbia, stando ben attento a evitare l' uscita principale del castello, perché la polizia aveva avvertito del pericolo di dimostrazioni popolari. Ma si era trattato di un falso allarme. Ad assistere alla fine di sei secoli di storia non c' era nessuno, né operai con la coccarda rossa, né curiosi. L' euforia era esplosa altrove, tra le élite dei nuovi Stati nazionali o tra gli italiani che avevano conquistato le «terre irredente». Il giovane Carlo, di fatto, era uscito di scena in perfetta solitudine. Già negli anni che avevano preceduto il 1914, in un contesto internazionale sempre più competitivo, le classi dirigenti degli imperi continentali erano sembrate afflitte dai peggiori incubi. «Andiamo verso il collasso e lo smembramento», aveva scritto un influente diplomatico viennese, mentre i Romanov apparivano preoccupati dal pan-islamismo e guardavano con ansia a quegli Ottomani che stavano cedendo pezzi di sovranità alle minoranze interne e alle grandi potenze. Temevano - loro, e non di meno degli Asburgo - di fare la stessa fine. «Dopo la Turchia, tocca all' Austria: è questo lo slogan che circola in Europa», aveva scritto qualcuno. Innumerevoli volte, a carico dei domini di Pietrogrado, Vienna e Istanbul, l' opinione pubblica occidentale aveva emesso una sentenza di morte. Erano i «grandi malati», le «prigioni dei popoli», la negazione del principio di nazionalità. Accuse che corrispondevano del resto alla coscienza inquieta delle élite imperiali. «Da molto tempo sono consapevole di quanto anomali siamo nel mondo moderno», avrebbe confessato nel 1916 Francesco Giuseppe. La stessa decisione d' imbarcarsi nella guerra era nata da un simile pessimismo. «Non vogliamo finire ai margini della storia» - aveva dichiarato un funzionario viennese alla vigilia del conflitto - allora è meglio essere distrutti subito». Con una tipica miscela di vittimizzazione e aggressività, quei circoli politici scivolavano nella retorica del «fare o perire». E fare significava fare la guerra. Fin dal tardo Ottocento, gli imperi sembravano aver perso la loro partita con gli Stati nazionali. Rispetto a una forma istituzionale ben radicata nell' Europa più moderna, era fatale che apparissero come residui del passato. Agli occhi di quell' Europa, lo Stato nazionale era il destino dell' impero, una sorta di nemesi delle sue molte «colpe storiche»: le dimensioni territoriali eccessive, il carattere multietnico, il debole controllo sulle periferie, l' inefficacia del governo e della governance. L' impero appariva sconfitto dallo Stato nazionale perché non ne aveva il mastice identitario e culturale, né dunque la forza di mobilitazione comunitaria. Il che in parte è vero, in parte è la classica profezia che si autorealizza. Ci sono storici che hanno sostenuto con buoni argomenti come, allo scoppio della Grande Guerra, i domini dei Romanov fossero economicamente e culturalmente in pieno sviluppo. E quelli asburgici godessero di ottima salute. Delle centinaia di migliaia di militari fatti prigionieri sul Piave, nel novembre 1918, gli austriaci sarebbero stati appena un terzo, mentre il grosso era composto da cechi, slavi del sud, polacchi, italiani. Come dire che, sebbene multinazionale, l' esercito di Vienna aveva tenuto fino all' ultimo. Forse non è il caso di sopravvalutare la spinta delle nazionalità. Significativamente, gli Stati emersi dal crollo asburgico avrebbero avuto in comune gravi squilibri politici, derive autoritarie, conflitti etnici. E questo dimostra come, al loro interno, la coesione nazionale restasse debole e come i nuovi governanti fossero poco radicati tra le rispettive popolazioni e avessero conquistato il potere - più che per la forza dei movimenti nazionali - grazie alla realpolitik degli Alleati, i quali, com' è noto, avevano legittimato le nazionalità dei domini asburgici in chiave antitedesca. Ma Francia e Inghilterra erano state incerte fino all' ultimo sulla sistemazione geopolitica da dare a quei territori: per l' esattezza, fino ai clamorosi errori politici e diplomatici commessi da Carlo d' Asburgo nel 1918. Il che suggerisce che la storia gioca le proprie carte, come insegnano i libri, ma ha sempre altre carte di riserva da giocare. E questo vale anche per la grande partita tra imperi e nazionalità. Le catene cronologiche sono molto meno fatali di quanto non appaiano a cose fatte.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

jeudi, 18 mars 2010

Aussenpolitik

BELANGRIJK :
Beste vrienden, Hier een vormingspaper van de jeudgorganisatie van de Oostenrijkse FPÖ over buitenlandse politiek.  Benutten voor eigen vorming, ook om de Atlantisch-Trotskistische-Neokonservative subversie te bestrijden, die door sommige koddige figuren in eigen rangen wordt geörkestreerd ! Niet vergeten : zonder een enge samenwerking tussen Oostenrijkers en Vlamingen op het gebied van buitenlandse politiek, zullen wij op Europees niveau NIETS bereiken. De Atlantisten zijn dus degenen, die onze inspanningen kelderen ! Weg ermee ! Het model in buitenlandse politiek is ofwel Oostenrijks ofwel Padanisch.
 

RFJ-Grundsatzreihe - Band 6
Außenpolitik
Verfasser: Andreas Zacharasiewicz
Alle Rechte sind dem Verfasser vorbehalten
Kontakt für Fragen und Anregungen: E-Post: a.zacharasiewicz@gmx.at
<mailto:a9651269@unet.univie.ac.at>
www.rfj-wien.at

europavvvvvbbbbbnnnn.jpgZusammenfassung
In einer zunehmend globalisierten Welt stellen sich Fragen der internationalen Politik für einen Staat um so drängender. Sie machen es für jede politische Gruppierung erforderlich, über ein logisch zusammenhängendes außenpolitisches Konzept zu verfügen, das in diesem Beitrag skizziert wird.

Dazu werden in Kap. 2 die globale Lage analysiert und die wichtigsten weltweiten Entwicklungen beschrieben. Zu diesen gehören: Die Herrschaft durch die einzige Weltmacht USA, die Globalisierung in Verbindung mit Tendenzen der Regionalisierung, ein Zusammenprallen der Kulturkreise (S. Huntington) und ein sukzessiver Niedergang des Westens.

Ein Rückblick auf die Geschichte Europas bestätigt den Bedeutungsverlust unseres Kontinents im letzten Jahrhundert (Kap. 3).

In dieser Situation lassen sich fünf langfristige Ziele für eine österreichische Außenpolitik heraus arbeiten, die aufgrund der weltweiten (wirtschaftlichen, demografischen, historischen und machtpolitischen) Entwicklung nur mehr in einem europäischen Kontext gedacht werden kann (Kap. 4).

Dazu zählt an erster Stelle in Anbetracht von Masseneinwanderungen und Geburtenschwund die Erhaltung der ethnischen Identität Europas, um den sozialen Frieden, den staatlichen Zusammenhalt, aber auch den unverwechselbaren Charakter der europäischen Völker zu erhalten. Vor allem der Prozess der Globalisierung bedroht die globale kulturelle Vielfalt und führt zu Vereinheitlichungstendenzen.

Gleichzeitig geht es darum, dass die europäischen Staaten in einem wirtschaftlichen Standortwettbewerb mit anderen Weltregionen konkurrenzfähig bleiben. Dazu bedarf es Steuersenkungen, innerstaatlicher Reformen und Budgetkonsolidierungen.

In verteidigungspolitischer Hinsicht gilt es auf nationaler, aber auch auf europäischer Ebene mehr Finanzmittel zur Verfügung zu stellen, um die Sicherheit und Unabhängigkeit Europas bewahren zu können (Transportkapazitäten, Satelliten!).

Die zuletzt von den USA geführten Kriege sind ungerechtfertigt, völkerrechtswidrig, nicht im europäischen Interesse und gefährden den Weltfrieden. Sie belegen aber die Notwendigkeit einer europäischen Einigung. Eine engere Zusammenarbeit mit Russland könnte den politischen Handlungsspielraum Europas vergrößern.

1. Einleitung: Österreich und die Weltpolitik

Sich auch mit der Außenpolitik des eigenen Staates auseinander zu setzen hat aus mehreren Gründen einen Sinn: 1.) verlangen Ereignisse der internationalen Politik, wie z.B. Krisen, Kriege, multilaterale[1] <#_ftn1> Abkommen, Wirtschaftskonferenzen, ...etc. eine klare Positionierung der Regierung, aber auch jeder politischen Gruppierung.
2.) Muss jede politische Gruppierung für sich über eine kohärente[2] <#_ftn2> , logisch nachvollziehbare Konzeption einer Außenpolitik verfügen. Diese Politik soll nicht nur auf das Verhalten anderer internationaler Akteure passiv reagieren, sondern sich auch aktiv aus den Werten der politischen Gruppierung ableiten.
 
Gerade weil Österreich ein kleiner Staat ist, ist es um so wichtiger, sich die Faktoren und Entwicklungen der internationalen Politik vor Augen zu führen, da die Republik Österreich stärker als ein großer Staat von den weltweiten Entwicklungen betroffen ist. Daher wollen wir zuerst in Kap. 2 die globale Entwicklung der internationalen Beziehungen analysieren und in Kap. 3 uns dann auf den europäischen Kontinent konzentrieren und in Kap. 4 eine kohärente Politik für Österreich in Europa entwerfen.

2. Die globale Lage

Die Lage der Weltpolitik hat sich durch den Fall der Berliner Mauer im Jahr 1989, den Zerfall des Ostblocks und der Auflösung der Sowjetunion im Jahr 1991 grundlegend geändert.

Davor war die internationale Politik durch die ideologische Konfrontation der zwei Machtblöcke Sowjetunion plus Verbündete und USA plus Verbündete geprägt. Eine dieser Konfliktlinien verlief mitten durch Europa und mitten durch Deutschland und Berlin (Berliner Mauer).

Nach der Auflösung des Ostblocks ist die internationale Politik von neuen Entwicklungen und Trends geprägt:

1.)   Eine Weltmacht: Als Sieger aus der ideologischen Konfrontation beider Blöcke gingen die USA hervor, die heute die einzig verbliebene Weltmacht darstellen. In allen Bereichen, die für eine globale Vorherrschaft wichtig sind, das sind militärische, wirtschaftliche, technische und kulturelle Macht, stehen die Vereinigten Staaten an der Spitze. Vor allem im militärischen Bereich verfügen die USA bekanntlich über eine Militärmacht und einen technischen Vorsprung, der Europa weiter hinter sich lässt. Die USA haben auch den Willen diese Macht selektiv für ihre Interessen einzusetzen.

2.)   Kulturelle Differenz: Nach dem Zerfall des Ostblocks treten ideologische Differenzen in der internationalen Politik in den Hintergrund und kulturelle und ethnische Differenzen gewinnen an Bedeutung. Die Völker und Staaten orientieren sich in ihrer Außenpolitik verstärkt nach ihrer jeweiligen kulturellen Zugehörigkeit zu einem der ca. acht weltweit existierenden Kulturkreise. Der weltbekannte Politologe Prof. Samuel Huntington zählt zu diesen Kulturkreisen: den westlichen, den islamischen, den sinischen, den japanischen, den hinduistischen, den orthodoxen, den lateinamerikanischen und (mit Einschränkungen) den afrikanischen (für Details vgl. Huntington 1997, 57f.). Jeder dieser Kulturkreise verfügt über ein unterschiedliches Wertesystem, das mit dem „Westen“ zwar Gemeinsamkeiten hat, aber auch entscheidende Differenzen. Die Welt wird daher zunehmend zu einem „Pluriversum“, in dem sich kulturelle Blöcke gegenüber stehen, die sich nicht auf einen gemeinsamen Nenner bringen lassen.

3.)   Niedergang des Westens: Obwohl, wie unter Punkt 1 erläutert, die USA im Moment unangefochten die dominierende Weltmacht sind, werden sich in den nächsten Jahren und Jahrzehnten die weltweiten Kräfteverhältnisse massiv verschieben (vgl. auch hier im Detail die Analysen bei Huntington 1997). Der „Westen“, damit meint Samuel Huntington v.a. die USA und West- und Mitteleuropa zusammen, werden in den nächsten Jahrzehnten an Einfluss in der Welt verlieren und die Macht anderer Kulturkreise wird steigen. So wird der Anteil der westlichen Bevölkerung an der Weltbevölkerung stark abnehmen, ebenso wie der Anteil an der globalen Wirtschaftsleistung. Gleichzeitig werden andere Kulturkreise stärker. So sind etwa die Staaten Südostasiens im Bereich der Wirtschaftsleistung auf dem Weg zur Weltspitze. Die nicht-westlichen Völker werden zunehmend alphabetisierter, gesünder und sind jünger als die überalterten Bevölkerungen des Westens. Der „Westen“ wird sich daher mit einer Reduktion seines Einflusses in Zukunft abfinden müssen, wenn er nicht mit den Völkern anderer Kulturkreise unnötig auf Konfrontationskurs segeln will. Bezüglich Huntington ist darauf hinzuweisen, dass zwischen Europa und den USA nicht unbeträchtliche Unterschiede existieren, die die gemeinsame Zusammenlegung zum „Westen“ nicht immer sinnvoll erscheinen lassen.

4.)   Globalisierung und Regionalisierung: Durch den Wegfall des „Eisernen Vorhangs“ verstärkt, kam es in den 1990er Jahren zu einem Prozess, der als „Globalisierung“ bezeichnet wird. Mit „Globalisierung“ ist ein Vorgang gemeint, der darin besteht, dass sich Handels- Kommunikations- und Finanzströme zunehmend vernetzen und in ihrem Umfang steigen. Diese Globalisierung führt auch dazu, dass sich die Konsumgewohnheiten, Lebensweisen und Werthaltungen der US-amerikanischen Zivilisation weiter global ausbreiten, da die USA in gewisser Weise das Zentrum der Globalisierung sind. Die Globalisierung ist daher auch eine Amerikanisierung. Parallel dazu und zum Teil als Reaktion darauf, kommt es zu einem Prozess der Regionalisierung, der wiederum zwei Facetten hat. Einerseits bilden sich auf kontinentaler Ebene einzelne große Macht- und Wirtschaftsblöcke, die zunehmend integriert sind. Dazu zählen etwa in Nordamerika die NAFTA[3] <#_ftn3> , als Bündnis der USA, Kanadas und Mexikos, in Europa die EU und in Asien die ASEAN[4] <#_ftn4> . Andererseits gewinnen auch die Regionen im Kleinen an Bedeutung. Es bilden sich an der „Basis“ zum Teil Widerstände gegen eine globale kulturelle Vereinheitlichung. Diese können unterschiedliche Formen annehmen, vom Protest einzelner Indiostämme in Mexiko, über das Streben nach Autonomie in europäischen Regionen, wie in Flandern, Norditalien („Padanien“), im Baskenland oder in Tschetschenien bis zum Aufbrechen von künstlich gezogenen Staatsnationen in Afrika.

3. Die europäische Lage – Rückblick

Wie stellt sich nun im Zusammenhang mit den oben beschriebenen langfristigen Entwicklungen die Lage Europas dar?

Innerhalb Europas bildet sich mit der Europäischen Union der global am stärksten integrierte Block heraus, über den einmal zutreffend gesagt wurde, er sei „wirtschaftlich ein Riese, politisch ein Zwerg und militärisch ein Wurm“.

Das war nicht immer so. Ein Blick zurück an den Beginn des 20.Jhts, oder ins 19.Jht. oder noch länger, zeigt uns, dass Europa früher das Zentrum weltweiter Macht war. So haben etwa zahlreiche Hochkulturen ihre Wurzeln in Europa (antikes Griechenland, Rom, ...etc.).

Aber bereits davor gab es frühe Hochkulturen, die über einen bemerkenswerten Entwicklungsstand verfügten, von denen spätere Kulturen profitieren konnten. So gab es etwa in Westeuropa die „atlantische Westkultur“, deren Angehörige die Erfinder des Pyramidenbaus waren. Diese atlantische Westkultur, auch „Megalithtreich“ genannt (Megalith = „Riesenstein“) tauchte mindestens 5000 Jahre v.d.Ztw. in Westeuropa auf (Stichwörter: Stonehenge, „Atlantis“) und erfand den Pyramidenbau (etliche Pyramidengräber in z.B. Frankreich zeugen noch heute davon). Ein Pyramidenbau, der viele Jahrhunderte später in der ägytischen Hochkultur seine gewaltige Vollendung fand (z.B. Cheopspyramide).

Auch auf die spätere Entwicklung können wir Europäer mit Stolz blicken. So haben sich unsere Vorfahren oft gegen die widrigsten Umstände und in den größten Gefahren bewährt. Es gelang wiederholt außereuropäische Eroberer aus Europa fern zu halten. So konnten die Hunnen im 5.Jht. n.t.Ztw. siegreich geschlagen werden[5] <#_ftn5> , der Einfall der Mongolen im 13.Jht. konnte abgewehrt werden, die Mauren konnten aus Spanien vertrieben werden und den Türkenanstürmen konnte 1529 und 1683 vor Wien standgehalten werden. Über all die Jahrhunderte hat sich Europa als „Wiege der Weißen“ bewährt.

Bis vor 150 Jahren - um 1850 - wurde der Großteil der Welt von europäischen Mächten beherrscht und die heute tonangebenden Mächte gab es noch gar nicht. Die USA waren zum Gutteil noch gar nicht besiedelt, Russland war eine Macht wie jede andere, Japan ein mittelalterlicher Feudalstaat.

Im 1.Weltkrieg änderte sich das grundlegend: In einem sinnlosen, selbstmörderischen Bruderkrieg mit der Hereinnahme einer raumfremden Macht - der USA - verliert Europa seine bis dahin bestehende, absolute, weltweite Vorrangstellung. England tritt seinen ersten Platz in der Weltrangliste an die USA ab, Frankreich und Deutschland sind „ausgeblutet“ und auch Italien ist kein wirklicher Sieger. Also ein Krieg, der auf dem europäischen Kontinent nur Verlierer und viel Elend zurücklässt.

Der 2.Weltkrieg, der im Wesentlichen eine Wiederholung des 1.Weltkrieges darstellte, war in seinen Auswirkungen für Europa noch katastrophaler. Osteuropa wurde von der UdSSR militärisch und ideologisch besetzt, Deutschland, das geografische Zentrum Europas, wurde von den einzigen Siegermächten USA und UdSSR geteilt, Westeuropa kam unter amerikanischen Einfluss.

Mit der welthistorischen Wende von 1989 eröffneten sich für uns Europäer völlig neue Möglichkeiten.


4. Österreich, Europa und die Herausforderungen des 21.Jhts.

 

Im Zusammenhang mit den in Kap. 2 genannten langfristigen Trends muss die österreichische Außenpolitik im Zusammenhang mit einer europäischen Außenpolitik gedacht werden. Was sind nun die Ziele einer solchen Politik?

Wir leben – wie gesagt – in einer globalisierten, kulturell gespalten und differenzierten, von einer einzigen Supermacht dominierten Welt und gleichzeitig in einem Kulturkreis, dessen Macht sich laufend reduziert. In dieser Situation kann das vorrangige Ziel nur sein:

Die Identität Österreichs zu bewahren.

Dabei geht es natürlich auch darum, die Identität Europas zu bewahren, da Europa zunehmend eine Schicksalsgemeinschaft ist. Auf globaler Ebene sollte das Ziel sein, die Vielfalt der Völker und Kulturen zu erhalten, da in dieser Vielfalt der kulturelle Reichtum der Menschheit liegt. Dieser Reichtum wird gegenwärtig durch Tendenzen der Globalisierung und Uniformisierung der Lebensweisen massiv bedroht. Folgende Ziele und Probleme, die natürlich auch in die Innenpolitik hinein spielen, sind vor allem zu beachten:

1.)  Die ethnische Identität Europas bewahren: Während in den „Entwicklungsländern“ die Bevölkerungen nach wie vor stark wachsen, sinkt die einheimische Bevölkerung in Europa seit einigen Jahren/Jahrzehnten kontinuierlich ab (vgl. dazu im Detail die „Grundsatzschrift Band 2“). Hier entsteht ein starker Einwanderungsdruck auf die europäischen Staaten, die wiederum einen Sog bilden. Auch steigt das Durchschnittsalter der Europäer laufend - Europa veraltert daher. Es ist daher alleine schon aufgrund des staatlichen Zusammenhalts, der inneren Sicherheit und des sozialen Friedens nötig, in den europäischen Staaten ein gewisses Mindestmaß an ethnischer Homogenität zu bewahren. Dieses Ziel, nämlich Europa als Wiege der Weißen zu bewahren bzw. die ethnische Identität Europas zu erhalten, kann als das gemeinsame Grundziel für alle europäischen patriotischen Parteien dienen, quasi als „kleinster gemeinsamer Nenner“. Hier ist eine gemeinsam überwachte europäische Außengrenze genauso notwendig wie ein einheitliches Asylsystem und eine geburtenfördernde Politik in Hinblick auf die europäische Bevölkerung. Ähnliches fordert Samuel Huntington übrigens auch für die USA, wo er die staatliche Handlungsfähigkeit durch die Verkünder einer „multikulturellen Gesellschaft“ untergraben sieht. Der Begriff „Festung Europa“ wird gegenüber den stark anwachsenden, leider oftmals verarmten und im politischen Chaos lebenden Bevölkerungsmassen des Südens, ein positiv besetzter Begriff werden.  Er wird einen Kontinent bezeichnen, der sich demgegenüber Wohlstand und Sicherheit bewahren kann – vorausgesetzt natürlich er grenzt sich strikt ab!

2.)  Global konkurrenzfähig bleiben: Die wirtschaftliche Globalisierung und die Öffnung des Ostblocks und der Volkrepublik China für internationale Investoren führt dazu, dass mehr und mehr Staaten sich in einem ökonomischen Konkurrenzkampf befinden. In einem globalen „Standortwettbewerb“ geht es darum, Investoren im eigenen Land zu behalten, wozu niedrige Steuern, hohes Bildungsniveau, geringe Staatsverschuldung und eine klare Rechtslage für Investoren wichtig sind. Man kann diesen internationalen Konkurrenzkampf bedauern und Alternativen anstreben (vgl. Punkt 3), aber nicht daran vorbei regieren und so tun, als ob diese Dinge einen nicht betreffen. Dies erfordert eine Sanierung der europäischen Staatshaushalte, Reformen in den Pensionssystemen, eine Entbürokratisierung, eine Steuervereinfachung und Steuersenkung, ein leistungsfähiges Bildungssystem, verstärkte Investitionen in Forschung & Entwicklung und andere politisch unbequeme Reformen.

3.)  Die Globalisierung gestalten (Kultur, Steuern, Terrorbekämpfung, ...): Der Prozess der Globalisierung ist kein Naturereignis, sondern das Produkt von willentlich gesetzten Maßnahmen, wie etwa der Deregulierung des Kapitalverkehrs. Die Globalisierung hat Vor- und Nachteile. Ihre Vorteile zu nutzen und ihre Nachteile abzumildern wird eine zentrale Aufgabe sein. Zu den Nachteilen gehört etwa, dass die Superreichen laufend noch reicher werden, während das Einkommen von Kleinverdienern stagniert, oder sogar schrumpft. Hier ist es notwendig, dass Steuerschlupflöcher weltweit geschlossen werden und eine transparente Rechtslage herrscht, die von genügend Beamten kontrolliert wird. Dies gilt auch für multinationale Unternehmen, die ihre Gewinne in Steueroasen sehr gering versteuern lassen und damit dem Zugriff des eigenen Staates entziehen. Um einen „Wettlauf nach unten“ bezüglich Steuer- Sozial- und Umweltstandards zu vermeiden, ist es notwendig, für die wirtschaftliche Sphäre globale Mindeststandards zu definieren. Schließlich wollen wir ja nicht, dass unsere Arbeiter mit Kinderarbeit und fehlender Mindestversicherung in Afrika und Asien konkurrieren müssen. Des weiteren wird man der grenzüberschreitenden Kriminalität und dem internationalen Terrorismus nur dadurch die Basis entziehen können, indem man in Europa keine ausländischen oder islamischen Ghettos entstehen lässt, also keine Einwanderung aus kulturfernen Räumen zulässt. Wie schon erwähnt, führt die Globalisierung auch zu einer kulturellen Vereinheitlichung auf globaler Ebene. Um die eigene Kultur dabei zu bewahren ist es notwendig, diese aktiv zu pflegen (Schule!). Dabei muss auch die eigene Sprache gepflegt und vor einem Übermaß an Anglizismen geschützt werden. Auf internationaler Ebene ist es wichtig, der eigenen Sprache einen höheren Stellenwert einzuräumen, etwa in internationalen Organisationen.

4.)  Den Frieden erhalten: Die zurückgehenden Machtressourcen des Westens und die steigenden Ressourcen nicht-westlicher Kulturkreise (vgl. Kap. 1) bringen Samuel Huntington dazu, eine defensive Außenpolitik zu empfehlen. Ein globaler Wertpluralismus ist zu akzeptieren, ein „Menschenrechtsfundamentalismus“ zu vermeiden und der eigene Staat zu konsolidieren. Nichts gefährdet den Weltfrieden mehr, als die Überheblichkeit einer Supermacht, die ihre eigenen Werte für absolut hält. Es ist schlimm, wenn man einen Krieg führen muss, noch schlimmer aber ist es, wenn man glaubt, die Kriege anderer führen zu müssen. Wenn die USA der Meinung sind einen Krieg irgendwo auf der Welt anfangen zu müssen, dann können wir Europäer sie ohnehin nicht daran hindern, sind aber töricht, wenn wir uns an einem solchen Krieg beteiligen. Die europäische Sicherheit wird am Hindukusch genauso wenig verteidigt, wie seinerzeit in Stalingrad oder in Bagdad, sondern an der europäischen Außengrenze. Grundsätzlich gilt, dass der Frieden leichter gewahrt werden kann, wenn jedes Volk in seinem Land selbstbestimmt leben kann (vgl. „Grundsatzschrift 4“, „Ethnopluralismus“). Hingegen kommt es in Vielvölkerstaaten (z.B. Ex-Jugoslawien) und in Staaten mit (unterdrückten) Minderheiten (z.B. Indonesien, Sri Lanka, Ruanda,... etc.) regelmäßig zu bewaffneten Konflikten.

5.)  Außenpolitisch handlungsfähig werden: Unter den geschilderten Umständen außenpolitisch handlungsfähig zu bleiben/werden ist nicht leicht. Es erfordert zum Einen eine enge Abstimmung mit den anderen europäischen Staaten um mit einer Stimme sprechen zu können. Andererseits erfordert es natürlich, dass für die eigene Verteidigung und Sicherheit auch die notwendigen finanziellen Mittel zur Verfügung gestellt werden. Dies auch innerhalb einer europäischen Verteidigungsarchitektur. Hier muss jeder Staat seinen Beitrag leisten. Hauptprobleme für Europa sind gegenwärtig in dem Bereich: fehlende Transportmöglichkeiten für Truppen (da Großraumhubschrauber und –flugzeuge fehlen), ein noch zu wenig ausgebautes europäisches Satellitenprogramm, damit Europa unabhängig von den USA sich Informationen beschaffen kann und der Bereich der Präzisionswaffen.  Eine gemeinsame europäische Rüstungsindustrie ist für größere Projekte (wie den „Eurofighter“) unumgänglich. Wenn die europäischen Staaten aber weiterhin nicht gewillt sind, für ihre Sicherheit mehr Geld auszugeben, dürfen sie sich nicht darüber beklagen, wenn sie sich im Schlepptau der USA befinden und international (etwa im Nahostkonflikt von Israel) nicht ernst genommen werden. Um die militärische und politische Schwäche Europas ausgleichen zu können und mehr Handlungsspielraum zu gewinnen, bietet sich eine engere geopolitische Zusammenarbeit mit Russland an. Russland kann vom technischen know-how der Europäer und vom europ. Investitionskapital profitieren und Europa von den Energieressourcen und Rohstoffen Russlands. Für politische Parteien ist es darüber hinaus unbedingt notwendig, sich auf europäischer Ebene zu Fraktionen zusammenzuschließen, da mittlerweile in Brüssel der Großteil der politischen Entscheidungen getroffen werden. Dies gilt vor allem auch für die FPÖ. Neben dem nationalen Interesse, das primär für die Außenpolitik entscheidend ist und noch vor dem globalen Interesse der gesamten Menschheit (Erderwärmung, Regenwald, Artensterben, ...etc.) gibt es eine mittlere Ebene auf europäischem Niveau, wo ebenfalls Interessen wahrgenommen werden müssen, die ich hoffe, hier in aller Kürze näher gebracht zu haben.

5. Literatur

Brzezinski, Zbigniew 1999: Die einzige Weltmacht; Amerikas Strategie der Vorherrschaft, Fischer Taschenbuch Verlag, 2. Auflage

Huntington, Samuel P. 1997: Der Kampf der Kulturen; The Clash of Civilizations. Die Neugestaltung der Weltpolitik im 21. Jahrhundert, Europaverlag München – Wien, 5. Auflage

Verlag Ploetz 1991: Volks-Ploetz; Auszug aus der Geschichte; Schul- und Volksausgabe; 5. Aktualisierte Auflage, Verlag Ploetz, Freiburg - Würzburg

Fußnoten :

[1] <#_ftnref1>  „multilateral“ (= „mehrseitig“) heißt, dass sich an einem Abkommen mehr als zwei Staaten beteiligen, z.B. bei internationalen Abkommen zum Schutz der Umwelt; das Gegenteil ist „bilateral“, also ein Abkommen zwischen nur zwei Staaten.

[2] <#_ftnref2>  „kohärent“ heißt „zusammenhängend“.

[3] <#_ftnref3>  NAFTA steht für „North American FreeTrade Area“, dt.: Nordamerikanische Freihandelszone.

[4] <#_ftnref4>  ASEAN ist die Abkürzung für „Association of South East Asian Nations“, dt.: Verband Südostasiatischer Staaten.

[5] <#_ftnref5>  Im Jahre 451 besiegen der Römer Aetius und die Westgoten unter ihrem König Theoderich I. (gefallen) in einer gewaltigen Schlacht die Hunnen unter Attila (=Etzel) in der „Schlacht auf den Katalaunischen Feldern“ bei Troyes (vgl. Volk-Ploetz 1991, 167).

mercredi, 03 mars 2010

L'idée de Mitteleuropa

mitteleuropa0003_copia.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

L'idée de "Mitteleuropa": elle refait surface

 

 

par Karlheinz Weissmann

 

 

Lors du dernier Congrès de la SPD, le parti social-démocrate allemand, qui s'est tenu cette année à Nuremberg, Peter Glotz profita d'un forum sur le thème "Europe occidentale - Europe centrale - Europe totale" pour ranimer l'idée de "Mitteleuropa" (Europe centrale). Si cette initiative fut rejetée par la plupart des participants, un détail, cependant, mérite attention: parmi les quelques rares personnalités qui approuvèrent Peter Glotz, se trouvait Zdenek Mlynar, haut fonctionnaire du PC tchèque pendant l'ère Dubcek. Cela n'a rien d'étonnant: le débat "néogauchiste" sur la Mitteleuropa fut lancé et animé essentiellement par des intellectuels socialistes dissidents des pays d'Europe centrale et orientale. En septembre 1985 déjà, la revue Kursbuch,  organe toujours influent de la gauche libertaire, la fameuse "undogmatische Linke" de RFA, avait publié dans ses colonnes la proposition du Hongrois György Dalos qui souhaitait une "Confédération centreuropéenne" et plusieurs autres publications théoriques s'ouvrirent à des débats sur ce thème. Le rejet de la proposition de Glotz illustre de façon typique l'attitude de la classe politique allemande à l'égard de thèses tendant à surmonter le statu quo des blocs; mais il s'explique surtout par le fait que Glotz avait aussi mis en avant l'idée de Reich, d'Empire, comme puissance tutélaire traditionnelle en Europe centrale et avait même évoqué, dans la foulée, les conceptions de Friedrich Naumann.

 

l'héritage de Naumann

 

Ceux qui s'intéressent à l'histoire savent que le nom de Friedrich Naumann est intimement lié à l'idée de Mitteleuropa. En 1915, Naumann publia un livre intitutlé précisément  Mittteleuropa,  où l'on trouve la formulation sans doute la plus prégnante de cette notion politique. Ses réflexions se ressentaient essentiellement de la situation créée par la Première Guerre mondiale, en particulier par l'économie de guerre. Naumann présageait l'avènement d'une époque où seuls les grands espaces autarciques pourraient économiquement, et donc politiquement, survivre. Son but était la fusion de l'Allemagne et de la monarchie danubienne, futur "noyau cristallisateur" d'une Europe centrale qui serait plus tard étendue à la France (1) ainsi qu'aux territoires limitrophes du Reich, à l'Est comme à l'Ouest. En cette "période historique d'avènement des groupements d'Etats et des Etats-masse", le nouvel espace ainsi créé serait capable de soutenir la concurrence des empires britanniques, nord-américain et russe. Bien que d'origine libérale, Naumann avait la conviction que la structure interne de ces grandes puissances serait toujours marquée par l'Etat organisateur mais que, dans une Europe centrale sous direction allemande, cette structure porterait le sceau du "socialisme d'Etat" ou du "socialisme national".

 

Pour étayer son argumentaire, Naumann se réfère volontiers à la politique de Bismarck et à sa Duplice (Zweibund). D'abord, parce que la figure du fondateur du Reich garde une force émotionnelle, et donc légitimante, considérable; ensuite, parce que cette évocation répondait sans doute aux convictions intimes de Naumann. Pourtant, celui-ci est victime d'une erreur de jugement historique: certes, Bismarck accordait une grande importance à une alliance avec l'Autriche-Hongrie, mais il n'excluait pas, si l'urgence de la situation politique l'exigeait, une entente avec la Russie aux dépens des Habsbourg! Plutôt que chez Bismarck, c'est dans les projets "grossdeutsch" du Parlement de Francfort, dans la vision d'un "Empire de 70 millions d'âmes", chère à Schwarzenberg et à Bruck, qu'il faut rechercher les précurseurs de la "Mitteleuropa". Quant à ses prophètes, il vaut mieux les chercher du côté des critiques de l'Etat national "petit-allemand", chez un Constantin Frantz ou un Paul de Lagarde par exemple.

 

le contexte de la première guerre mondiale

 

Toujours est-il que l'idée acquit une certaine faveur à la veille de la Première Guerre mondiale. Mais il faudra le conflit armé pour qu'elle acquière des chances réelles de réalisation: très tôt, la perte des colonies montra aux responsables politiques allemands que l'Allemagne devait rechercher ailleurs l'assise d'une grande puissance. Après les premières victoires des Empires centraux, l'Allemagne, l'Autriche-Hongrie et la Bulgarie signèrent le 6 septembre 1915 une convention militaire à laquelle l'Empire Ottoman adhéra peu après. Sur la base de cette alliance, Falkenhayn, chef d'Etat-Major allemand, adresse au chancelier Bethmann-Hollweg (peu avant la parution de l'ouvrage de Naumann) un mémoire sur la "fondation d'une confédératon d'Etats du centre de l'Europe", un Mitteleuropäischer Staatenbund.  Ce projet, comme tant d'autres, échoua devant la résistance de l'Autriche-Hongrie. Si la notion de "Mitteleuropa" est restée, dans les esprits, synonyme d'"agressions" et de "conquêtes territoriales" par l'Allemagne, cela tient à ce que les thèses bellicistes de l'extrême-droite allemande ont été débattues sous ce nom-là et que cette extrême-droite, surtout après la paix de Brest-Litovsk, envisageait d'étendre démesurément la sphère d'influence allemande en Europe centrale et orientale.

 

L'effondrement du Reich et de la monarchie des Habsbourg réduisit tous ces projets à néant. Les petits Etats-nations nouvellement créés entre l'Allemagne et l'Union Soviétique étaient étroitement contrôlés par la France. Le concept de "Mitteleuropa" n'avait pas disparu pour autant, tout au moins au niveau du débat politique. L'idée fut relancée à des titres divers. Ainsi, Giselher Wirsing, issu de la mouvance de la revue Die Tat  lança l'idée de Zwischeneuropa,  Europe médiane ou Europe d'entre-deux, dans laquelle l'Allemagne, si elle se redressait, aurait un rôle à jouer. Le "front anti-impérialiste des peuples jeunes" y instaurerait un espace d'autarcie économique. On reconnait là une parenté avec les thèses de Naumann mais on note un glissement dans la désignation de l'adversaire: non plus Londres et Saint-Petersbourg, mais Paris et Moscou. L'analyse sociologique, souvent très aride, de Wirsing concernant les présupposés politico-économiques, contraste étrangement avec les idéaux, souvent très romantiques, de "reconstruction du Reich" auxquels adhéraient nombre de théoriciens jungkonservativ  de l'époque de Weimar. En toile de fond de leur analyse, il y avait la situation des populations d'ethnie allemande, dont il s'agissait de tirer les leçons. Le Reich  réaliserait en Europe centrale un ordre fédérateur reposant non sur une conception centraliste de la nation, legs de la Révolution française, mais sur le principe de l'égalité des droits entre tous les peuples. Jung écrit à ce sujet: "C'est l'idée d'un Reich structuré, accordant à chacune de ses composantes un degré de liberté capable d'extirper à jamais de l'âme européenne les idées poussiéreuses d'annexion, d'exploitation et de génocide". Cette conception associait volontiers à la signification proprement politique du terme "Mitteleuropa" l'idée d'une "position médiane de l'esprit", une geistige Mittellage  qui était au coeur de la pensée nationale traditionnelle et que, dès 1818, Arndt formulait ainsi: "Dieu nous a placés au centre de l'Europe; nous sommes le coeur de notre partie du monde". Quoi qu'il en soit, cette idée de Reich  fut l'un des ferments intellectuels les plus féconds de la période de Weimar. Or, si l'on songe que la République de Weimar avait une liberté d'action plutôt limitée en politique étrangère, il n'est guère étonnant qu'aucune idée politique plus ambitieuse n'ait eu une chance quelconque de se réaliser: la propositon Briand-Stresemann sur l'unification européenne resta lettre morte tout comme cette fameuse union douanière austro-allemande dans le cadre d'une politique "centre-européenne", plutôt traditionnelle celle-là, pour laquelle militait le chancelier Brüning et dont l'échec (en 1931) inspira largement à Wirsing le sujet de son livre.

 

du nazisme au deuxième après-guerre

 

Le débat sur la "Mitteleuropa" se poursuivit sous les nationaux-socialistes. Il semble même, au cours des années 30, que ce débat épousait les contours de la stratégie hitlérienne en politique extérieure. Jusqu'à la conclusion de l'accord commercial germano-roumain, en effet, on pouvait encore affirmer que le Troisième Reich reprenait à son compte l'héritage de la monarchie habsbourgeoise dans l'espace mitteleuropäisch.  Parmi ceux qui eurent tendance à confondre les intentions du régime national-socialiste avec leurs convictions personnelles, il faut citer l'interprétation de l'idéologie nazie par Heinrich von Srbik. Celui-ci persistait à croire que l'enjeu de la guerre mondiale était "un nouvel ordre plus viable en Europe centrale et sur notre continent". Or, les nationaux-socialistes ont toujours perçu l'idée de "Mitteleuropa" comme étrangère à leur mentalité, ne fut-ce qu'en raison de l'autonomie relative que cette idée accordait aux "petits peuples". Dans leur logique à eux, l'idée de "grand espace" était dictée par des impératifs tout à fait différents.

 

La deuxième guerre mondiale et ses prolongements firent litière des conditions fondamentales qui avaient sous-tendu les réflexions de naguère sur la Mitteleuropa. L'extermination des Juifs, l'expulsion des Allemands des territoires orientaux du Reich et de la plupart des pays d'Europe centrale et orientale, détruisirent une structure ethnique multiséculaire. L'Allemagne, puissance tutélaire potentielle de l'Europe centrale, disparut de la scène comme acteur politique, et ce pour une durée indéterminée. L'émiettement géographique en Etats se doubla d'une partition de l'Europe selon les lois du nouvel antagonisme mondial. Ce n'est qu'à la fin des années 40 que l'on vit apparaître, en République fédérale et dans les zones d'occupation occidentales, une amorce de réflexion allant à l'encontre d'une allégeance occidentale sans faille de la RFA et susceptible de trouver quelque résonance. La SBZ (Sowjetische Besatzungszone, future RDA), puis la RDA, n'avaient aucune liberté d'action et tous les projets fédéralistes développés en Europe centrale et orientale se heurtèrent invariablement au niet  de l'Union Soviétique, peu encline à tolérer le moindre mouvement dans son glacis. C'est pourquoi les projets d'un Gerhard Schröder, par exemple, qui voulait établir des contacts directs avec ce groupe d'Etats, sans en référer à l'URSS, étaient voués à l'échec.

 

l'idée de "Mitteleuropa" renaît dans les années 80

 

Le nouveau débat sur la Mitteleuropa prend sa source dans les années 80. Cette source est en fait plurielle. En République Fédérale, le regain des argumentaires "géopolitiques" avait préparé le terrain. Aux Etats-Unis, la distinction entre géopolitique "vraie" et "fausse" n'avait jamais été abandonnée et ce type de réflexion alla jusqu'à influencer la stratégie américaine en politique étrangère. Henry Kissinger lui-même, qui orienta longtemps cette stratégie, avait eu recours, dans ses travaux historiques, à des facteurs géopolitiques pour analyser et expliquer l'histoire allemande. Il n'est guère surprenant, dès lors, que ce soit un autre Américain, David P. Calleo, qui ait interprété toute l'évolution de l'Etat national allemand sous l'angle de sa "situation centrale". Calleo conclut son livre The German Problem Reconsidered,  paru en 1978, par ces lignes remarquables: "La géographie et l'histoire s'étaient jointes pour permettre à l'Allemagne une ascension tardive; mais rapide, contestable et contestée. Le reste du monde a réagi en écrasant le parvenu". Plus prudents, les historiens ouest-allemands sont néanmoins d'accord sur le fond: Michael Stürmer diagnostique un "traumatisme de puissance médiane menacée" et évoque les "contraintes d'une position centrale". Dans son Die gescheiterte Großmacht. Eine Skizze des deutschen Reiches 1871-1945   (paru en 1980), Andreas Hillgruber, dont les travaux antérieurs faisaient déjà appel à des considérations géopolitiques, fait de la "situation géostratégique centrale" un élément d'explication majeur. Et il ne faut pas oublier à quel point les déclarations de Richard von Weizsäcker sur les conséquences de "notre situation géopolitique" ont pu contribuer à légitimer et à vulgariser ces thèses. Tout cela annonce une "valse des paradigmes" dans l'historiographie officielle de la RFA, comme l'atteste l'émoi avec lequel certains représentants de l'opinion (jusqu'alors) dominante  -qui ne voient dans l'histoire allemande que la sanction d'erreurs intrinsèques à l'Allemagne (le fameux Sonderweg!)-   ont réagi devant ce qu'ils appellent "l'absurdité des constantes géostratégiques".

 

En marge de ces constructions historiques, la politique renoua spontanément, à la fin des années 70, avec la notion de Mitteleuropa. A Trieste, l'ancien port méditerranéen de la monarchie danubienne, germa la nostalgie d'une "Civiltà Mitteleuropa" (Viktor Meier). Il faut dire que les frustrations nées de la crise économique endémique qui secoue l'Italie n'étaient pas étrangères à cet état d'esprit. On ne peut pas dire, cependant, que cette étincelle se soit propagée à d'autres territoires anciennement austro-hongrois.

 

la "Mitteleuropa" correspond à la zone dénucléarisée envisagée par Olof Palme

 

Le concept de "Mitteleuropa" refit surface dans le sillage du débat sur la paix. Parmi les dissidents, notamment hongrois et tchécoslovaques, se développa l'idée d'une association des satellites ci-devant soviétiques en une confédération d'Etats indépendants, plus conforme aux traditions culturelles et politiques de ces peuples. Parallèlement, des contacts étaient noués entre la SED est-allemande et les sociaux-démocrates d'Allemagne occidentale en vue de la constitution d'une "zone soustraite aux armes chimiques", à rapprocher du projet, lancé par Olof Palme, d'une "zone dénucléarisée" en Europe.

 

La boucle est bouclée: le Congrès de Nuremberg de la SPD ouest-allemande a repris dans son programme la création d'un "corridor dénucléarisé". Certes, la sociale-démocratie ne conteste pas l'intégration de la RFA dans l'OTAN, mais il y a là un indice qui, à la suite d'autres, traduit la volonté de se démarquer toujours davantage de l'Alliance atlantique. Du coup, le conflit Est-Ouest, jusque là considéré comme une évidence naturelle, s'émousse au contact du débat sur la paix. Et cette érosion est devenue irrémédiable.

 

Il était inévitable, compte tenu de sa domination intellectuelle, que la gauche fût la première à produire un discours tendant à désamorcer les antagonismes en Europe. Et si les idées sur la neutralisation de la RFA, de l'Allemagne ou de l'Europe divergent encore quant à la stratégie, elles convergent en fin de compte vers un consensus quant aux objectifs fondamentaux.

 

Glotz, social-démocrate, reste dans le vague

 

Le projet proposé par Glotz pour la Mitteleuropa se singularise par un souci de transcender l'idée, plutôt prosaïque, d'une zone dénucléarisée sur 150 km de part et d'autre du Rideau de fer par une vision plus ambitieuse à laquelle Glotz prête apparemment quelque pouvoir mobilisateur. Malheureusement, on décèle chez lui un certain essoufflement des idées: Glotz semble être sans cesse demandeur d'idées nouvelles mais ses propres projets ne parviennent pas à le captiver très longtemps (par exemple, son dernier "Manifeste" pour des idées novatrices dans la politique européenne de la gauche). Cela peut, certes, s'expliquer par la grande mobilité intellectuelle du personnage mais on peut y voir aussi un signe de perplexité, et il n'est pas sûr que sa tentativce de renouer avec les idées de Mitteleuropa et de "Reich" soit d'un grand secours. Outre qu'il manque totalement de réalisme devant le fait de la puissance, il reste que les idées politiques ne sont pas des recettes de cuisine. Traditionnellement, la gauche allemande a toujours opposé le front du refus aux idées de "Mitteleuropa" et de "Reich" alors que les idées nationalistes ont pu, organiquement, faire bon ménage avec le socialisme ou la social-démocratie. Quoi qu'il en soit, le "Reich" est impensable sans référents résolument conservateurs; le contraire n'est pas concevable. Le fait que la gauche se cherche aujourd'hui des attaches de ce côté-là a valeur de symptôme mais de symptôme seulement: symptôme de son exaspération, ce qui semble donner raison à D.P. Calleo qui écrivait: "Après la deuxième Guerre mondiale, les Allemands ont en quelque sorte pris en congé de leurs problèmes traditionnels (...). Gageons que le conte allemand n'est pas encore fini...".

 

Aucun mouvement politique ne peut percer sans une dimenson visionnaire, un mouvement conservateur, ou national, moins que tout autre. Croire que le cynisme de la puissance géopolitique brute suffise à produire ses effets mobilisateurs, ou que l'idée "européenne" (en réalité ouest-européenne!) soit encore une idée d'avenir, est une erreur. En allemand, le mot "Reich" a gardé une résonnance particulière. Il pourrait donner une nouvelle impulsion à la question nationale et l'histoire de tous les peuples d'Europe centrale pourrait être unifiée, même si cette unité reste lourde (donc riche) de tensions Certes, la voie est ingrate et ne promet rien dans l'immédiat. Mais le jeu en vaut la chandelle et l'effort intellectuel, lui, ne décevra point.

 

Karlheinz WEISSMANN.

(texte tiré de Criticón n°97, septembre-octobre 1986; traduction française de Jean-Louis Pesteil)

 

N.B. Il est bien évident qu'entre cette idéologie et les solutions offertes par Naumann et Renner au problème de la Mitteleuropa , il n'y a aucun point commun. D'ailleurs les auteurs nationaux-socialistes n'avaient pas ménagé leurs critiques à l'encontre des idées naumaniennes, qualifiées de "pseudo-socialisme", marquées d'esprit judaïque. La plupart des collaborateurs et des amis de Naumann, l'ensemble des rédacteurs de la Hilfe   se sont exilés ou ont subi la persécution nazie; seul P. Rohrbach, qui se trouvait en 1939 à la tête de la Deutsche Akademie  de Munich avait accepté de subir la loi du régime, sans toutefois capituler devant toutes ses exigences. Le national-socialisme ne doit rien à Naumann et à son école.

mardi, 02 février 2010

1955: la neutralité autrichienne est proclamée!

480px-Football_Autriche_maillot_svg.pngArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1985

1955: la neutralité autrichienne est proclamée!

Le nouveau gouvernement autrichien issu des élections est dirigé par le conservateur (ÖVP) FIGL; RENNER devient Président de la République. Mais le gouvernement FIGL est soumis à une pesante tutelle de la part de la Commission de Contrôle inter-alliée (Gran-de-Bretagne, USA, France, URSS). Tout acte du gouvernement de Vienne devait être soumis à cette Commission de contrôle; on en veut pour mémoire cette déclaration gouvernementale que FIGL dut présenter trois fois avant d'obtenir le "nihil obstat". Cependant, FIGL, rusé et fin politique, va insister, lors de la lecture de sa déclaration gouvernementale devant le Parlement au-trichien sur l'unité du pays et sur la néces-sité de supprimer le statut d'occupation.

 

Le nouveau gouvernement autrichien va tout faire pour éviter d'être une marion-nette des Alliés et, pour ce faire, va souvent opposer les Alliés les uns aux autres, afin d'alléger la tutelle.

 

L'Autriche devait entretenir quatre armées d'occupation (en tout, 352.OOO hommes). En outre, l'économie autrichienne avait été im-briquée dans l'économie allemande depuis 1938, ce qui permettait aux Alliés occiden-taux et soviétiques de s'en emparer au nom des réparations de guerre. Les Soviétiques vont ériger dans cette optique un "Konzern" pour l'exploitation des industries dont ils ont pris possession en Autriche: l'USIA (Upravlenié savietskovo immouchest-va v Austrii ou "Administration des biens soviétiques en Autriche"). Ce vaste ensem-ble comprenait des industries les plus di-verses: lunettes, chaussures, papier, in-dustrie aéronautique, pétroles, etc. L'USIA bénéficiait de l'extra-territorialité et les profits partaient en bloc à Moscou. La gestion était assurée par des cadres du parti communiste soviétique.

 

En 1946, les compétences du gouvernement autrichien sont élargies par un accord avec les puissances occupantes. Dorénavant, seul un veto unanime des quatre puissances occupantes pouvait arrêter l'application des lois et actes promulgués par le gouver-nement de Vienne. Les négociations en vue d'arriver à un Traité d'Etat (Staatsvertrag) commenceront à l'initiative de Vienne.

 

En 1947/48, la guerre froide éclate et le refroidissement des relations entre les USA et l'URSS met le problème de ce Traité d'Etat au frigo. Par ailleurs, il faut savoir que les Yougoslaves, soutenus à l'époque par Mos-cou, font valoir des revendications sur cer-taines parties du territoire autrichien. La guerre froide, en engendrant la bipolari-sation autour de Washington et de Moscou, permet aux deux super-gros de renforcer la cohésion de leurs satellites derrière leurs bannières respectives. Dès que commence la guerre froide, ce seront surtout les USA qui s'opposeront à tout Traité d'Etat réglant la question autrichienne. Ainsi, le 10 mars 1948, le Ministre américain des Affaires Etrangères, MARSHALL, déclare que l'Autri-che fait partie de "l'Occident" et qu'en con-séquence une neutralisation de ce pays n'est pas souhaitable. A la même époque, l'URSS se déclare prête, elle, à signer un Traité d'Etat rendant à l'Autriche son indépen-dance à condition que ce pays soit et de-meure neutre (blockfrei). A la suite de la rupture entre STALINE et TITO, les reven-dications yougoslaves ne sont plus soute-nues par Moscou. La France et la Grande-Bretagne se montrent également favorables à la conclusion d'un Traité d'Etat. Mais les Etats-Unis vont s'y opposer catégoriquement car ils se rendent compte qu'une neutra-lisation de l'Autriche rendrait plus difficile une "intégration" des zones d'occupation oc-cidentales d'Allemagne à "l'Occident", c'est-à-dire au monde américain. Pendant ce temps, sur le territoire de la future RFA, cette intégration se poursuit: en 1948, le mark occidental est introduit dans la partie ouest de l'Allemagne, ce qui provoque le blocus de Berlin par les Soviétiques. En avril 1949, l'OTAN est mise sur pied. Les Soviétiques, de leur côté, mettent au pas la Tchécoslovaquie et c'est le coup de force communiste de Prague de février 1948.

 

En 1950, la guerre éclate en Corée. L'Ouest se range derrière les USA au nom des Nations Unies. L'Est se range derrière l'URSS. La tension entre les blocs atteint son paro-xysme. Plus que jamais, l'Autriche est me-nacée par le spectre de la division. De plus, à Vienne, des troubles sociaux éclatent suite à la brusque augmentation du coût de la vie. Américains et Soviétiques soutiennent leurs créatures respectives; ainsi, un chef de ban-de, Franz OLAH, reçoit le soutien de Wa-shington afin de constituer une troupe de choc prête à être l'embryon d'une future ar-mée autrichienne à intégrer dans l'OTAN. Au bout de quelques temps, les troubles ces-sent; l'Autriche reste occupée mais ne se di-vise pas.

 

En 1954, il est de plus en plus question de faire entrer la République Fédérale d'Alle-magne (créée en 1949) dans l'OTAN. Pour les Autrichiens, la conclusion du Traité d'E-tat semble remise aux calendes grecques... C'est alors que l'URSS débloque la situation. En février 1955, le Ministre soviétique des Affaires Etrangères, MOLOTOV, déclare de-vant le Soviet Suprême qu'il n'y a plus au-cune raison de différer la conclusion d'un Traité d'Etat avec l'Autriche. Ensuite, le gou-vernement soviétique propose au gouver-nement autrichien un accord mettant les puissances occidentales devant le "fait ac-compli".

 

Informés, les Américains repoussent toute idée de neutralisation de l'Autriche car cela signifierait une coupure territoriale de l'OTAN, avec l'Allemagne Fédérale au Nord et l'Italie au Sud, coupure qui rendrait la "position américaine intenable" (sic!). Les Atlantistes ajoutent même que si l'Autriche devient neutre, elle tombera inévitablement dans la sphère d'influence soviétique. Pour le Ministre américain des Affaires Etran-gères, John Foster DULLES, les politiciens conservateurs viennois, surtout le Chan-celier RAAB et le Ministre des Affaires Etrangères FIGL, devenaient presque des "crypto-communistes". La tension monte alors entre Vienne et Washington. Afin de dissuader le gouvernement autrichien d'ac-cepter les propositions soviétiques, le gou-vernement américain envoie à Vienne une de ses créatures, GRUBER, l'ancien Ministre des Affaires Etrangères, devenu ambassa-deur à Washington. Sa mission consiste à persuader le gouvernement du Chancelier RAAB que l'Autriche doit rester solidaire de l'Occident, c'est-à-dire des Etats-Unis. Les Américains vont même proposer au gouver-nement RAAB de s'installer à Salzbourg! Mais le gouvernement de Vienne, conscient de l'enjeu historique, voulait à tout prix éviter la division de l'Autriche et résista aux sirènes américaines.

 

KREISKY, Secrétaire d'Etat au Ministère autrichien des Affaires Etrangères, informe alors l'ambassadeur soviétique KOUDRA-CHEV que Vienne accepte un statut de neu-tralité semblable à celui de la Suisse.

 

Le 11 avril 1955, une délégation du gouver-nement autrichien composée du chancelier RAAB, du Vice-Chancelier SCHÄRF, du Mi-nistre des Affaires Etrangères FIGL et du Secrétaire d'Etat KREISKY est invitée à Mos-cou. Rapidement, on se met d'accord pour indemniser les Soviétiques: l'USIA sera rem-boursée en six ans pour un prix de 150 millions de dollars. Mais pour le Kremlin, l'Autriche devait se déclarer formellement neutre. Après quelques hésitations dues à la colère des Américains, les Autrichiens ac-ceptent et signent le 15 avril le mémo-randum de Moscou proclamant la neutralité de l'Autriche, selon le modèle suisse.

 

A Washington, c'est la consternation. En Al-lemagne Fédérale, le collabo ADENAUER voit sa position ébranlée... Les Soviétiques pro-posent ensuite une conférence des Ministres des Affaires Etrangères des quatre; ce que Washington repousse immédiatement. La Pravda parle alors à juste titre d'une "nou-velle manœuvre des ennemis de l'indé-pendance autrichienne"...

 

Mais les événements s'accélèrent: le 9 mai, dix ans après la capitulation du IIIème Reich, la République Fédérale d'Allemagne entre dans l'OTAN. Finalement, devant les pres-sions conjointes de Moscou et de Vienne, les ambassadeurs des quatre se mettent d'ac-cord sur le texte du Traité d'Etat et cela sur-tout parce que la RFA est désormais ancrée à l'Ouest. Le 15 mai 1955, les Ministres des Affaires Etrangères d'URSS (MOLOTOV), du Royaume-Uni (MACMILLAN), de France (PI-NAY) et des Etats-Unis (DULLES) signent le texte du Traité d'Etat avec le Ministre autri-chien des Affaires Etrangères FIGL. DULLES, on s'en doute, signait à contre-cœur. Selon ce Traité, l'Autriche se déclare neutre et les troupes d'occupation soviétiques, britanni-ques, françaises et américaines évacuent le territoire dans les mois qui suivent.

 

Après dix ans d'occupation, l'Autriche, inté-grée dans le Reich national-socialiste en 1938, a réussi à recouvrer son indépen-dance. Certes, économiquement, elle est liée à l'Ouest mais politiquement elle est "blockfrei". La volonté conjointe de Mos-cou et de Vienne ont donc empêché que l'Autriche soit divisée en deux, comme l'Al-lemagne, et qu'il y ait un mur de Vienne...

 

Roland VAN HERTENDAELE.

 

Ce texte constitue le résumé d'une confé-rence prononcée à Bruxelles le jeudi 5 décembre 1985, dans le cadre des cycles de conférences organisés chaque année par la revue Orientations.

dimanche, 24 janvier 2010

Erik M. Ritter von Kuehnelt-Leddihn: Garantiert unmodern

Garantiert unmodern

Ex: http://www.deutsche-stimme.de/

Immer noch lesenswert: Randnotizen zum 100. Geburtstag von Erik Maria Ritter von Kuehnelt-Leddihn

kuehnelt-leddihn
Rechts, aber nicht unbedingt
»konservativ«: Kuehnelt-
Leddihn (1909 – 1999)

Der am 31. Juli 1909 geborene Erik Maria Ritter von Kuehnelt-Leddihn zählt zu den  beinahe vergessenen Geistesgrößen des vergangenen Jahrhunderts – Grund genug, sich seiner zum 100. Geburtstag wieder zu erinnern.

Gebürtiger Steirer, studierte Kuehnelt-Leddihn, schon in jungen Jahren tiefkatholische Anhänger der Reichsidee altösterreichischer Prägung, in Wien und Budapest, unternahm 1930 im Alter von 21 Jahren seine erste Rußlandreise, über die er für eine konservative ungarische Zeitung berichtete, und lehrte von 1937 bis 1947 an verschiedenen Kollegs in den USA.

Zu dieser Zeit hatte er auch bereits seine ersten zeitkritischen Romane veröffentlicht, die stets den Glauben einbezogen. Kuehnelt-Leddihn betrachtete sich als Mann der äußersten Rechten und war ein Gegner der modernen, sich von der Französischen Revolution herleitenden kollektivistischen Ideologien; die Französische Revolution stellte für ihn überhaupt die Urkatastrophe der neueren Geschichte dar. In ihrem Gefolge griff sowohl die Demokratie mit ihren – für Kuehnelt weder theologisch, philosophisch noch anderweitig begründbaren – Prinzipien der Gleichheit aller Menschen und der Richtigkeit von Mehrheitsentsåcheidungen und ihrer Neigung zur Unterdrückung von völkischen und sozialen Minderheiten sowie Eliten Platz als auch der logisch an die Demokratie anknüpfende egalitäre Sozialismus und der ebenfalls auf der Demokratie gründende »identitäre«, d.h. gleichmacherische Nationalismus.

Den Nationalsozialismus betrachtete er als Synthese beider und verortete auch ihn auf der »linken« Seite des politischen Spektrums. Hier ist der bei Kuehnelt-Leddihn zuweilen besondere Gebrauch der Begriffe zu beachten: »Identitär« bedeutet ihm so viel wie »übereinstimmend«; einem solchen Prinzip stellte er das »diversitäre« gegenüber, d.h. ein die gewachsene Vielfalt achtendes. Den »Nationalismus« betrachtete er als »identitär«, der Gewachsenes in ein Prokustesbett zwängen möchte, wie es beispielsweise auch in der Französischen Revolution der Fall war.

Demokratische Sentimentalisierung

Die Ursache für die Katastrophen der Moderne sah der Ritter, der sich nach seiner Rückkehr Ende der vierziger Jahre in Tirol niederließ, im großen Abfall vom Christentum seit dem 18. Jahrhundert und im damit verbundenen Machbarkeitswahn eines sich selbst überschätzenden Menschentums. Er gab einem übervölkischen, traditionalen Reichsgedanken den Vorzug, einem nicht auf »Blut«, sondern »Boden« bezogenen Patriotismus sowie dem freiheitlichen Rechtsstaat und wandte sich gegen die demokratische Sentimentalisierung und Unsachlichkeit, die er in den Wahlkämpfen mit ihrem Stimmenfang und im parlamentarischen Betrieb ausmachte.

In seinem 1953 erschienenen Werk »Freiheit oder Gleichheit« vertrat Kuehnelt unter Bezug auf zahlreiche Denker des 19. Jahrhunderts die These, Freiheit und Gleichheit seien unvereinbar, und beschäftigte sich ausführlich mit den Grundideen von Monarchie und Demokratie und mit politischen Prinzipien. Er unterschied vier Phasen des Liberalismus, wobei er die dritte Phase – den relativistischen Altliberalismus – nicht als im wirklichen Sinne liberal betrachtete, während er für den entstehenden Neuliberalismus, für den u.a. Röpke und Müller-Armack standen, Sympathien hegte.

Als Alternative zur Liberaldemokratie, die an ihrem inneren Gegensatz scheitern und zu Chaos oder totalitärer Tyrannei führen müsse, wie mehrfach geschehen, plädierte Kuehnelt für ein unparteiisches, professionelles Beamtentum, einen unabhängigen Gerichtshof, dem auch Theologen angehören sollten, und eine monarchische Spitze samt Kronrat. Ständische und regionale Volksvertretungen sah sein grober Entwurf ebenfalls vor.

Aktuelle Warnung vor der Linken

Zeitlebens warb Kuehnelt, der 1957 mit alljährlichen ausgedehnten Weltreisen begann, für die Formulierung einer konservativen oder rechten Ideologie, die theistisch und transzendental ausgerichtet und »personalistisch« sein, Vernunft und Gefühl in Einklang bringen, Tradition und Erfahrung achten, die gewachsene Vielfalt des Menschengeschlechts wertschätzen und Staat und Kirche in ein geordnetes Verhältnis bringen solle.

Vorrangig war für ihn die Wahrung von Freiheit, Recht und Ordnung. Er war überzeugt, daß die Rechte ohne eine solche zusammenhängende Schau und nur mit reinem Pragmatismus der Linken – der östlichen wie der westlichen oder auch einer möglichen Neuauflage des Nationalsozialismus – und ihren profilierten Ideologien nicht entgegentreten könne, worin er sich beispielsweise mit Gerd-Klaus Kaltenbrunner einig sah.

Mit diesem Thema befaßte sich Kuehnelt u. a. in den Aufsätzen »Der Anti-Ideologismus« (Criticon 120, 1973), »Ideologie und Utopie« (in: »Rechts, wo das Herz schlägt«, Graz, 1980) und »Die Krise der Rechten« (in: »Die recht gestellten Weichen«, Wien, 1989). Seine Vorstellungen einer Rechtsideologie stellte er ausführlich im 1982 in den USA erschienenen »Portland-Manifest« dar.

Die Selbstverortung vieler Konservativer als in der Mitte stehend erschien Kuehnelt als mutlos, den Begriff »konservativ« lehnte er ab, da dieser nicht besage, was zu erhalten sei. 1985 erschien eine Generalabrechnung mit der Moderne, »Die falsch gestellten Weichen. Der rote Faden 1789-1984«, in welcher Kuehnelt-Leddihn die neue Geschichte seit der Französischen Revolution aus seiner Sicht kenntnisreich, zuweilen, wie es ihm oft beliebte, im guten Sinne polemisch, darstellte, »eine Anti-Festschrift, die es in sich hat«, wie sich Caspar von Schrenck-Notzing in seiner Besprechung in Criticon ausdrückte.

Trotz der Ereignisse der Jahre 1989-1991 besteht auch heute noch, wenngleich vielleicht in geschwächter Form, das von Kuehnelt festgestellte Ideologiemonopol der Linken. Die Vormachtstellung der Linken bedeutete für Kuehnelt die Herrschaft der Halbgebildeten über die Ungebildeten in Medien und Schulen, Die wahrhaft großen Geister hätten stets rechts gestanden, äußerte er in einem Criticon-Aufsatz 1991.
1995 warnte er unter dem Titel »Die Linke ist noch nicht am Ende« in »Theologisches« die Rechte vor der Unterschätzung der vermeintlich geschwächten Linken. Diese sei »ihre zwei größten Hypotheken losgeworden: den Köhlerglauben an den Staatskapitalismus (der richtige Name für den Sozialismus) und die friedensbedrohende UdSSR mit ihren Gulags und anderen Greueltaten.«

»Panoptikum für unmoderne Menschen«

Sie sei gegen Bindungen und wende sich nun neben der Kirche vor allem gegen die Familie, ihr Programm sei »nicht mehr die Götterdämmerung marxistisch-leninistischen Charakters [...] sondern die Verschweinung der Völker, die zum Schluß womöglich nur mehr aus Hurenböcken, Dirnen, Urningen, verwahrlosten Kindern, Drogensüchtigen und Aids-Kranken bestehen, eine wahrhaft ›marcusische‹ Vision!« An der Richtigkeit dieser Anmerkungen kann heute kaum noch ein Zweifel bestehen. Die nach 1990 aufkeimende Hoffnung, mit linker Utopie und daraus hervorgehenden, von Lüge begeleiteten Experimenten sei es vorbei, hat sich noch nicht erfüllt.

Seinen Lebensabend verbrachte Kuehnelt-Leddihn weiterhin studierend, schreibend und lehrend. Über Kindheit und Jugend sowie seine ausgedehnten Bildungs- und Vortragsreisen schrieb er sein letztes, erst posthum im Jahre 2000 erschienenes Buch »Weltweite Kirche«. Die Theologie hatte er immer als Kern seiner Beschäftigung betrachtet. Am 26. Mai 1999 starb Erik von Kuehnelt-Leddihn in Lans/Tirol.

Manfred Müller hatte schon 1981 in Nation & Europa in seiner Besprechung des bereits erwähnten Aufsatzbandes »Rechts, wo das Herz schlägt. Ein Panoptikum für garantiert unmoderne Menschen« geäußert, man treffe »heute selten auf einen so belesenen und weitgereisten Schriftsteller wie Kuehnelt-Leddihn«, und er biete »auch Nationalisten vielfältige Anregung zu fruchtbarer geistiger Auseinandersetzung.« Und der im Januar dieses Jahres verstorbene Freiherr von Schrenck-Notzing, welcher den Ritter gut gekannt hatte, bezeichnete ihn 2006 als »Fundgrube, die noch der Erschließung harrt.«

Über Erik von Kuhnelt-Leddihn erscheint voraussichtlich Ende des Jahres eine von Marco Reese, Marius Augustin und Martin Möller  herausgegebene Monographie.

Marco Reese

dimanche, 10 janvier 2010

Barbara Rosenkranz: "Zum Gegensteuern ist es nie zu spät"

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„Zum Gegensteuern ist es nie zu spät“

Landesrat Barbara Rosenkranz (FPÖ) über den Wert der Familie und eigener Kinder, die notwendige Familienförderung und den Ausweg aus der demographischen Falle

Frau Landesrat, um nur zwei Stichworte zu nennen: niedrige Geburtenraten und die sogenannte eingetragenen Partnerschaften für Homosexuelle – welchen Stellenwert hat heute eigentlich noch die Familie in unserem Land?

Barbara Rosenkranz: Rot und Schwarz zeigen deutlich, wo sie ihre Schwerpunkte setzen. Die eingetragene Partnerschaft, die sogenannte Homo-„Ehe“, zieht eine Reihe von Vergünstigungen nach sich, es kommt zur Gleichstellung dieser Beziehungen im Pensionsrecht, in der Krankenversicherung, im Erbschaftsrecht, und übrigens auch im Fremdenrecht, also in bezug auf den Familiennachzug. Hier erwachsen beträchtliche Kosten, während auf der anderen Seite, wenn es um die Förderung von Familien geht, einfach kein Geld vorhanden ist.

Was sind denn die Gründe, daß die Familie in unserem Land einen immer geringeren Stellenwert hat?

Rosenkranz: Das ist schlicht und einfach ein politisches Problem, weil die politische Klasse, die an den Schalthebeln der Macht sitzt, dieser Frage nicht die gebührende Bedeutung einräumt. In Sonntagsreden gibt es wohl das Bekenntnis zur Familie, vor allem von der sogenannten „bürgerlichen“ Partei, aber in der politischen Realität wird dem in keiner Weise entsprochen. Diese Geringschätzung der Familienfrage zeigt den Unterschied: Ich bin überzeugt, daß die demographische Situation die Basis aller anderen politischen Entscheidungen ist. Deshalb muß eine ausgeglichene Geburtenrate das Ziel jeder Politik sein, die auch auf Zukunft setzt.

Oftmals wird behauptet, Frauen würden sich gegen Familie und gegen Kinder entscheiden, weil sich Familie und Beruf nicht miteinander vereinbaren ließen. Was sagen Sie als erfolgreiche Politikerin und Mutter von zehn Kindern zu diesem Argument?

Rosenkranz: Im Zusammenhang mit der Frauenerwerbsquote wird immer wieder die Frage diskutiert, wie viele Betreuungseinrichtungen wir vor allem für Kleinkinder brauchen. Jede seriöse Untersuchung zeigt aber, dass der Einfluß des Betreuungsangebotes auf die Geburtenrate gleich null ist. Der bekannte Demograph Herwig Birg sagt es launig und pointiert: „Wahrscheinlich ist die statistische Korrelation zwischen der Geburtenrate und der Zahl der Störche höher als der behauptete Zusammenhang mit der Frauenerwerbsquote“. Das ist auch nicht erstaunlich, denn wer Kinder hat, möchte auch vor allem in der allerersten Zeit mit ihnen zusammen sein. Noch eine Tatsache zum Thema: In den städtischen Ballungszentren gibt es wesentlich mehr Kinderbetreuungseinrichtungen als auf dem flachen Land, aber dennoch verhält es sich bei der Geburtenrate, die in den Städten viel niedriger ist, genau umgekehrt.

Dennoch ist klar, daß junge Frauen nicht zu einer Entscheidung zwischen Familie und Kindern gezwungen werden dürfen. Auch wer sich für eine sehr frühe Rückkehr in den Beruf entscheidet, soll dabei Unterstützung finden. Es muß aber auch Alternativen geben: Wir haben eine Lebenserwartung von über 80 Jahren, und Mädchen, die heute geboren werden, können im Schnitt über 100 Jahre alt werden. Da muß es doch möglich sein, in der Lebensperiode, in der es sinnvoll ist, Kinder zu haben und die Familie als vorrangig zu sehen, das auch zu tun und später, wenn die Kinder aus dem Gröbsten draußen sind, wieder in den Beruf einzusteigen.

Was halten Sie von Maßnahmen wie Muttergehalt oder bessere pensionsrechtliche Absicherung von Müttern, um Frauen dazu zu bewegen, daß sie wieder vermehrt „Ja“ zu eigenen Kindern sagen?

Rosenkranz: Die pensionsrechtliche Absicherung von Müttern ist ein unbedingtes Muß. Es ist ein absoluter Skandal, daß genau jene, die mit ihrer Lebensarbeit ganz wesentlich für den Fortbestand unseres Pensionssystems sorgen, indem sie nämlich zukünftige Beitragszahler heranziehen, dann selber im Alter unversorgt sind. Der schon erwähnte Professor Birg hat es treffend formuliert: „In unserem Pensionssystem profitiert von Kindern, wer keine hat.“ Unser Pensionssystem ist ganz klar ein sich selbst zerstörendes System, wenn es nämlich nicht dafür sorgt, daß die eigenen Voraussetzungen erhalten bleiben. Das ist ein ganz wichtiger Punkt.

Zum zweiten muß dafür gesorgt sein, daß Frauen auch in der Zeit, in der sie sich vor allem für die Kindererziehung entscheiden, finanziell unabhängig fühlen können. Deshalb muß man vor allem am Kindergeld ansetzen und es zu einer Leistung ausbauen, von der man auch wirklich leben kann.

Dringender Handlungsbedarf müßte ja auch im Steuerrecht bestehen. Schließlich sind Familien mit zwei, drei oder mehreren Kindern gegenüber Paaren, die keine Kinder haben und wo es zwei Alleinverdiener gibt, doch erheblich benachteiligt.

Rosenkranz: Ohne jede Frage! Hier gibt es auch Vorbilder innerhalb des EU-Raumes, zum Beispiel Frankreich, das bei der Berechnung der Steuerlast die notwendigen Ausgaben für Kinder berücksichtigt. Daher erhebt die Freiheitliche Partei konsequent die Forderung nach einem Familiensplitting nach französischem Vorbild als politische Zielsetzung.

Auch wenn es von der Freiheitlichen Partei derartige Konzepte gibt: Wenn man die demographische Entwicklung anschaut, ist es dann nicht schon zu spät, um gegenzusteuern?

Rosenkranz: Dazu kann es nie zu spät sein! Wenn es darum geht, dem eigenen Land und dem eigenen Volk eine Zukunft zu sichern, kann es nie zu spät sein! Aber eines steht fest: Die demographische Verfassung eines Volkes ist wie ein schwerfälliger Dampfer. Jedes Manöver zeigt seine Auswirkungen erst mit einer bestimmten Zeitverzögerung. Wenn es uns heute gelingt, die Geburtenrate wieder auszugleichen, bleiben die Folgen der vergangenen Jahrzehnte noch bestehen. So konnte es auch – von vielen ignoriert – zu der krassen Fehlentwicklung kommen. Schon seit den 70er Jahren des vorigen Jahrhunderts haben wir mehr Sterbefälle als Geburten zu verzeichnen. Erst im Jahr 2000 ist es schön langsam darüber zu einer politischen Debatte gekommen. Mittlerweile muß die Binsenweisheit jedem klar sein, daß man zwar eine zeitlang die Kosten für das Aufziehen eigener Kinder gespart hat, aber jetzt zu wenig erwachsene Menschen hat, um die Pensionisten zu versorgen. Weil auch eine Reparatur der demographischen Grundlage erst nach einiger Zeit wirksam wird, ist es umso dringender, daß man sofort damit beginnt.

In der familienpolitischen Diskussion stehen zumeist die Anliegen der Frauen im Vordergrund, während jene der Männer, um ein Beispiel zu nennen, das der Väter, denen nach der Trennung das Besuchsrecht zu ihren Kindern verweigert, eine bestenfalls untergeordnete Rolle spielt. Woher kommt diese Ungleichgewichtung?

Rosenkranz: Das Ausspielen bzw. das Gegeneinandersetzen von Männern und Frauen, ist eine der Taktiken des Feminismus und ein Vorgehen, das den gesellschaftlichen Verhältnissen im gesamten absolut nichts Gutes tut. Ohne jeden Zweifel – und das sage ich auch als Mütter von sechs Töchtern – ist mir der gesellschaftliche Stellenwert von Frauen, von jungen Frauen, von Müttern, ein ganz besonders hohes Anliegen. Aber durch einen „Geschlechterkrieg“ gegen Männer und Väter kann das niemals erreicht werden.

 
Das Gespräch führte Bernhard Tomaschitz.

vendredi, 08 janvier 2010

8 janvier 1792: Traité de Jassy

catherine_the_great.jpg8 janvier 1792: Comme les souverains de Prusse et d’Autriche souhaitent mobiliser tous les efforts militaires de l’Europe pour vider le chancre de la révolution française, pure fabrication des services secrets de Pitt le Jeune et non soulèvement populaire et “démocratique” comme le veulent les légendes colportées depuis lors, les Autrichiens sont contraints d’abandonner toutes les conquêtes récentes qu’ils venaient de faire dans les Balkans. A cause des voyous parisiens stipendiés par l’Angleterre, la Russie se retrouve seule face aux Ottomans de Sélim III qui tentent de profiter de l’aubaine pour réaffirmer leur présence en Serbie. Le peuple serbe est l’une des premières victimes collectives du chancre sans-culottes, on l’oublie trop souvent, car les Autrichiens, pour faire face à une France dévoyée ont dû suspendre leur protection et ramener une bonne partie de leurs troupes à l’Ouest, où l’alliance implicite de la France et de l’Autriche, sous Louis XVI et Joseph II, les avait rendues inutiles. Néanmoins, l’armée de la Tsarine Catherine II parvient à écraser les troupes ottomanes à Mashin, le 4 avril 1791. Le Sultan ne peut plus formuler d’exigences. Il devra entériner le Traité de Jassy, signé le 8 janvier 1792.

 

Dans les clauses de ce Traité, les Ottomans acceptent l’annexion de la Crimée à la Russie et la suzerainté russe sur la Géorgie othodoxe, libérée du joug musulman. Le Dniestr devient la frontière entre les empires russe et ottoman. Cette extension russe permet aux Tsars de dominer la Mer Noire, ce qui leur vaudra l’inimitié tenace de l’Angleterre, une inimitié qui se concrétisera lors de la fameuse Guerre de Crimée (1853-1856), où la France sera entraînée. Ensuite, la présence russe sur le Dniestr pèse sur les “Principautés” danubiennes, la Moldavie et la Valachie, que Vienne entendait dominer afin de contrôler l’ensemble du cours du Danube, jusqu’à son delta et d’obtenir ainsi une fenêtre sur la Mer Noire. Le Traité de Jassy jette donc aussi les bases de l’inimitié entre la Russie et l’Autriche, qui compliquera considérablement la diplomatie du 19ème siècle et constituera l’un des motifs de la première guerre mondiale.

 

Si l’on jette un coup d’oeil sur la situation actuelle dans la région, nous constatons que les Etats-Unis ont repris en quelque sorte le rôle de la thalassocratie anglaise: ils sont les protecteurs de la Turquie, en dépit d’une mise en scène où celle-ci fait semblant de branler dans le manche et d’adopter, avec Davutolgu, une diplomatie autonome; en tant qu’héritiers de la politique pro-ottomane de l’Angleterre du 19ème siècle, ils veillent aussi à détacher la Crimée de la sphère d’influence moscovite, en pariant sur le contentieux russo-ukrainien et, aussi, à arracher la Géorgie orthodoxe à l’influence russe. Les Etats-Unis ont pour objectif de défaire les acquis du Traité de Jassy de 1792. Nous constatons également que la frontière sur le Dniestr constitue aujourd’hui aussi un enjeu, avec la proclamation de la  république pro-russe de Transnistrie, face à une Moldavie qui pourrait se joindre à la Roumanie et, ainsi, se voir inféodée à l’OTAN et à l’UE.

 

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samedi, 02 janvier 2010

Joseph II abolit la torture

joseph-ii-2-sized.jpg2 janvier 1776 : L’Empereur Joseph II d’Autriche, despote éclairé, décide d’abolir la torture dans tous ses Etats. Joseph II entend modeler son système de pouvoir sur les idées nouvelles du 18ème siècle et “se débarrasser des fardeaux inutiles du passé”. Cette volonté de se débarrasser de toutes les bonnes vieilles habitudes de la tradition lui jouera des tours, notamment aux Pays-Bas où ses réformes seront mal accueillies et considérées comme tatillonnes, si bien qu’il récoltera le sobriquet de « roi sacristain » car il avait demandé de légiférer sur la longueur et l’épaisseur des bougies et cierges destinés au culte. De même, il vexera profondément les Hongrois, en ramenant à Vienne la Couronne de Saint-Etienne, qu’il portait au titre de Roi de Hongrie. Quant au palais royal de Prague, il le transformera en caserne de cavalerie, fasciné qu’il était par tout ce qui était « utile ». Joseph II introduit dans ses Etats disparates et composites un centralisme qui ne sera guère apprécié. Cet Empereur d’ancien régime, adepte du despotisme éclairé, a néanmoins « humanisé » les pratiques judiciaires, bien avant le triomphe des idées de 1789, qui, elles, feront un usage zélé de la guillotine.

 

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samedi, 12 décembre 2009

Joseph Roth e il mito dell'impero

Roberto Alfatti Appetiti

http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

joseph-roth.jpgJoseph Roth e il mito dell’impero

Dal mensile Area, marzo 2003

Sono trascorsi cinquanta anni da quando Longanesi pubblicò in Italia La marcia di Radetzky, il libro capolavoro che Joseph Roth scrisse nel 1932. «Il più bel canto del cigno del vecchio impero austriaco», lo aveva definito Heinrich Böll. Eppure l’iniziativa editoriale si dimostrò un vero fallimento.

Il grande scrittore austriaco, lo strenuo difensore dei valori tradizionali in rivolta contro il suo tempo, era morto da poco più di dieci anni (il 27 maggio del 1939) ma era stato già dimenticato, per non dire rimosso, dalla storia letteraria europea. Ancora negli anni Sessanta il suo nome, ad eccezione degli ambienti accademici e di pochi pionieri (in Italia Claudio Magris), era quasi sconosciuto. Prima che Adelphi rendesse giustizia a Roth, pubblicando negli anni Settanta e Ottanta le sue opere, nel passato solo pochi editori fieramente controcorrente come Longanesi e Vallecchi avevano proposto qualche suo titolo, restituendogli una temporanea e circoscritta popolarità. La grande editoria preferiva investire quasi esclusivamente su autori “politicamente corretti” e certo la «gloria letteraria dei monarchici» (come lo ha definito Soma Morgenstern nel suo Fuga e fine di Joseph Roth, Adelphi 2001), l’antidemocratico Roth, non poteva considerarsi organico al verbo progressista. Per Roth la democrazia altro non era che «lo stratagemma» che le dittature, il proletariato e i nazionalismi volevano utilizzare per raggiungere le proprie mire, generando «solo brutalità in un mondo in trasformazione».

Galiziano di Brody, era nato il 2 settembre 1894 da genitori ebrei, aveva studiato germanistica a Vienna e partecipato alla prima guerra mondiale. Giornalista prolifico e apprezzato (oltre mille articoli scritti tra le due guerre), ha vissuto la sua travagliata vita di pendolare delle lettere tra Berlino, Vienna, Francoforte e Parigi, dove si stabilì in esilio dal 1933 e morì che non aveva neanche quarantacinque anni. Roth era cresciuto nel mito unificante e multiculturale dell’impero austroungarico, nel quale «non si distinguevano uomini di diverse nazionalità perché ognuno parlava tutte le lingue». La struttura antinazionalista della monarchia asburgica aveva lasciato un segno indelebile nella sua formazione. Il mescolarsi per le strade di tedesco, polacco, ucraino, yiddish, e le differenze etniche, rappresentavano una ricchezza, un patrimonio da custodire gelosamente e di cui il tutore era il vecchio imperatore Francesco Giuseppe, «onnipresente tra i suoi sudditi come Dio nell’universo». Il cuore pulsante dell’impero non era Vienna, che pure ospitava la residenza imperiale, ma le grandi periferie, come quella orientale da cui lui proveniva. Era proprio il «tragico amore» dei Paesi della Corona per l’Austria a nutrire la capitale. Bastava che suonasse la Marcia e in qualsiasi angolo dell’impero ci si trovasse l’identità comune si affacciava in tutti i cuori: «Tutti i concerti in piazza cominciavano con la marcia di Radetzky. Gli arcigni tamburi rullavano, i dolci flauti zufolavano e i benigni piatti squillavano. Sui visi di tutti gli ascoltatori spuntava un sorriso compiacente e trasognato, mentre nelle loro gambe il sangue frizzava. Erano fermi e credevano di marciare».

Come ha scritto Maria Sechi nel suo Invito alla lettura di Roth (Mursia 1994), Roth rimproverava alla borghesia occidentale di aver commesso «un vero crimine: aver distrutto la tradizione, la legge e l’ordine» di quella che riteneva una grande civiltà. Nell’industrializzazione, capace solo di produrre «imbrogli e illusioni» e nell’offensiva della tecnica vedeva un «un’ulcera» che finiva per ridurre l’uomo ad automa, a pedina, ad ingranaggio di un processo massificante. Il mondo era irreversibilmente malato, minato nelle sue fondamenta dalla spinta dei nascenti nazionalismi, come denuncia nella Radetzkymarsh: «L’epoca non ci vuole più! Questa epoca vuole creare degli Stati nazionali indipendenti! La gente non crede più in Dio. La nuova religione è il nazionalsocialismo. I popoli non vanno più nelle Chiese. Vanno nei circoli nazionalisti. La nostra monarchia è fondata sulla religiosità: sulla credenza che Dio abbia eletto gli Asburgo a regnare su tali e tanti popoli cristiani».

Da giovane aveva provato simpatia per il socialismo, non per convinzioni marxiste ma per un sentimento di naturale vicinanza ai poveri. “Joseph il rosso”, era stato soprannominato, ma un viaggio in Russia nel 1926-27, come inviato del Frankfurter Zeitung, gli aveva aperto gli occhi, tanto da fargli commentare: «E’ una grande fortuna che io abbia fatto questo viaggio in Russia: altrimenti non avrei mai conosciuto me stesso». «Sono partito bolscevico e sono tornato monarchico», ironizzava. Il suo era un «anticomunismo patologico», sentenziò sprezzantemente Ludwig Marcuse. Trovò l’URSS un deserto spirituale, «tutte le sue simpatie per quel paese erano di colpo svanite», ha scritto Soma Morgenstern. «Mai ho sentito così intensamente di essere un europeo, un mediterraneo se vuole, un romano e un cattolico, un umanista e un uomo del rinascimento», scrisse ad un amico al suo ritorno. «Detestava apertamente le convinzioni politiche ed il fanatismo» dei comunisti. Ai suoi occhi il socialismo si era macchiato di una imperdonabile colpa: aver contagiato di materialismo la Russia, creando le premesse per l’affermazione in quella regione della società e dei valori borghesi e trasformando un popolo religioso in una massa anonima di piccoli borghesi ambiziosi: «Ebbene questo è proprio il caso in cui la beffa della storia è palese. Questa storia che dovrebbe liberare il proletariato, che ha come scopo la creazione dello Stato e dell’umanità senza classi, questa teoria, la dove viene applicata per la prima volta, fa di tutti gli uomini dei piccoli borghesi. E, per colmo di sfortuna, fa le sue prime prove proprio in Russia, dove i piccoli borghesi non sono mai esistiti. In Russia, appunto, il marxismo si presenta soltanto come una componente della civiltà borghese europea. Anzi, sembra quasi che la civiltà borghese abbia affidato al marxismo il compito di farle da battistrada in Russia».

Il suo individualismo lo portava a respingere ogni forma di collettivismo. In una lettera all’amico e mentore Stephan Zweig accusò il socialismo di aver generato il fascismo e il nazionalsocialismo, anticipando così con grande lungimiranza le successive tesi di Ernst Nolte. Il suo era un profondo risentimento verso la modernità incalzante, nei confronti della quale si sentiva profondamente estraneo, se non dichiaratamente ostile. Lo scrive senza equivoci nelle prime pagine de La Cripta dei Cappuccini: «Io non sono un figlio del mio tempo, anzi, mi riesce difficile non definirmi addirittura suo nemico. Non che io non lo capisca, come tante volte sostengo. Questa è solo una scusa di comodo. Per indolenza, semplicemente, non voglio essere aggressivo o astioso, e perciò dico che una cosa non la capisco quando dovrei dire che la odio o la disprezzo. Ho l’orecchio fine, ma faccio il sordo. Mi pare più elegante fingere un difetto che ammettere di aver sentito rumori volgari».

E probabilmente, fosse stato ancora in vita, avrebbe ignorato anche lo sprezzante giudizio che di lui diede Italo Alighiero Chiusano nel 1979 su La Repubblica: «Ormai si può parlare da noi di un’ondata Roth, con entusiasmi che sarà bene lasciar sfogare per la simpatia che il personaggio merita e per il suo indubbio valore letterario, ma che più tardi bisognerà ridurre ai limiti reali. Chi mette Joseph Roth alla pari di Kafka, Mann, Brecht, Musil, lo costringe ad un confronto che egli non può sostenere». Niente di più falso, quel confronto Roth lo ha sostenuto e continua a sostenerlo con grande dignità, nonostante la diffidenza di buona parte del mondo editoriale e culturale “che conta”. La dimostrazione più lampante è offerta dal fatto che persino La Repubblica abbia recentemente inserito nella sua “Biblioteca” una delle opere di questo grande scrittore reazionario, e proprio La Cripta dei Cappuccini (1938), che con La Milleduesima notte e il Leviatano (queste ultime pubblicate solo postume) può essere considerata una delle opere maggiormente nichiliste e antimoderne per eccellenza.

La Cripta è un romanzo aspro, amaro, struggente. E’ il libro dell’addio ad un’epoca che sembrava eterna e che invece andava incontro ad un repentino tramonto: «La morte incrociava già le sue mani ossute sopra i calici dai quali noi bevevamo, lieti e puerili». Il protagonista è Francesco Ferdinando Trotta, un giovane rampollo di una famiglia di recente nobiltà, che attraversa l’esperienza bellica trovando al suo ritorno una Vienna irriconoscibile. E’ un personaggio in buona parte autobiografico. Anche Roth ha partecipato alla Grande Guerra come volontario e come ufficiale. Era andato in guerra per «uno strano motivo che solo Conrad potrebbe spiegare […] come i vecchi scapoli, che, non potendo sopportare la solitudine, contraggono matrimonio». Anche Roth aveva provato un forte senso di smarrimento appena tornato dal fronte, nell’accorgersi di come tutto attorno a lui fosse cambiato, e suoi sono senz’altro i sentimenti espressi dal giovane Trotta: «Tutti noi avevamo perso rango, posizione e nome, casa e denaro e valori: passato, presente, futuro. Ogni mattina quando aprivamo gli occhi imprecavamo alla morte che invano ci aveva attirato alla sua festa grandiosa. E ognuno di noi invidiava i caduti. Riposavano sottoterra e la primavera ventura dalle loro ossa sarebbero nate le violette. Noi invece eravamo tornati a casa disperatamente sterili, coi lombi fiaccati, una generazione votata alla morte, che la morte aveva sdegnato». I valori in cui aveva creduto non avevano più cittadinanza: «Allora, prima della Grande Guerra […] non era ancora indifferente se un uomo viveva o moriva. Se uno era cancellato dalla schiera dei terrestri non veniva subito un altro al suo posto per far dimenticare il morto ma, dove quello mancava, restava un vuoto, e i vicini come i lontani testimoni del declino di un mondo ammutolivano ogni qual volta vedevano questo vuoto». Si sentiva a disagio in quel nuovo sistema politico che andava affermandosi. Trotta si trova in un caffè quando apprende la notizia della costituzione di un nuovo governo popolare tedesco. «Da quando ero rimpatriato dalla guerra mondiale, rimpatriato in un paese pieno di rughe, mai avevo avuto fiducia in un governo: figuriamoci poi, in un governo popolare. Io appartengo ancora oggi – nell’imminenza della mia probabile ultima ora, io, un uomo, posso dire la verità – a un mondo palesemente tramontato, nel quale pareva naturale che un popolo venisse governato e che, dunque, se non voleva cessare di essere popolo, non poteva governarsi da solo. Ai miei orecchi – spesso avevo sentito che li chiamavano reazionari – suonò come se una donna amata mi avesse detto che non aveva affatto bisogno di me, che poteva fare l’amore con sé sola, e che anzi doveva farlo, e invero al solo scopo di avere un bambino». Non resta altro da fare al protagonista, e Roth sceglie per lui un finale simbolico. Trotta, come ultimo atto, si reca a portare l’ultimo omaggio al suo imperatore: «La Cripta dei Cappuccini, dove giacciono i miei imperatori, sepolti in sarcofaghi di pietra, era chiusa. Il frate cappuccino mi venne incontro e chiese: Che cosa desidera? Voglio visitare il sarcofago del mio imperatore Francesco Giuseppe, risposi. Dio la benedica, disse il frate e fece sopra di me il segno della croce. Dio conservi!, gridai. Zitto!, disse il frate. Dove devo andare, ora, io, un Trotta?».

Lo stato d’animo del giovane Trotta è lo stesso degli altri personaggi dei romanzi “politici” di Roth, Hotel Savoy, La ribellione, Fuga senza fine, Zipper e suo padre. Sono reduci incapaci di affrontare la nuova esistenza, animati da delusione, risentimento, rabbia, senso di impotenza. Il Conte Xaver Morstin, nella novella Il busto dell’imperatore (1934) esprime tutta la sua amarezza: «I capricci della storia hanno distrutto anche la gioia personale che veniva da ciò che io chiamavo patria. Ai loro occhi io sono considerato un cosiddetto Vaterlos, un senza patria. Lo sono sempre stato. Ahimè! C’era una volta una patria, una vera, una cioè per i senza patria, l’unica possibile. Era la vecchia monarchia; ora sono un senza patria che ha perduto la vera patria dell’eterno viandante». Anche dopo la caduta dell’impero il vecchio imperatore restava «una figura al di fuori di tutto ciò che è normale», e come tale da venerare. «Nessuna virtù ha stabilità in questo mondo eccettuato una sola: l’autentica devozione. La fede non ci può ingannare perché non ci promette nulla sulla terra. Applicato alla vita dei popoli ciò significa che invano essi ricercano le cosiddette virtù nazionali. Per questo io odio le Nazioni e gli stati nazionali. La mia vecchia patria, la monarchia sola era una grande casa con molte porte e molte stanze per molte specie di uomini. La casa è stata suddivisa, spaccata, frantumata. Là io non ho più nulla da cercare. Io sono abituato a vivere in una casa, non in una cabina».

Analogo destino di «senza patria» è quello di Franz Tunda, protagonista di Fuga senza fine (1928). Il giovane ufficiale asburgico, dopo essere stato prigioniero di guerra dei russi, lasciata con la divisa l’identità militare, si sente fuori posto ovunque. Fuggito rocambolescamente da un lager siberiano, capita casualmente tra i guerriglieri comunisti. Lì conosce una giovane militante, Natascha. Per amore ne sposa la causa, anche se la rivoluzione socialista «non gli era simpatica, gli aveva rovinato la carriera e la vita». Ma Natascha «non voleva saperne della sua bellezza, si ribellava contro se stessa, riteneva la sua femminilità una ricaduta nella concezione borghese della vita e l’intero sesso femminile un residuo ingiustificato di un mondo vinto, agonizzante». Tunda si accorge presto che la rivoluzione è diventata prassi burocratica, una «disciplina senza sentimento». Finisce per stabilirsi a Parigi, «senza nome, senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi e senza professione: non aveva né patria né diritti». Dice Tunda, e a parlare è naturalmente Roth: «Io so soltanto che non è stata, come si dice, la inquietudine a spingermi, ma al contrario un’assoluta quiete. Non ho nulla da perdere. Non sono né coraggioso né curioso di avventure. Un vento mi spinge, e non temo di andare a fondo». Significativo è anche qui il finale scelto da Roth per chiudere il romanzo: «A quell’ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madelaine, nel cuore della capitale del mondo, e non sapeva cosa doveva fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nessun egoismo. Superfluo come lui non era nessuno al mondo». L’unica possibilità è la “fuga”, una “fuga senza fine”. Non c’è alcun velleitarismo in Roth, non c’è speranza di improbabili rivalse, la partita è persa, ma la resa non significa accettazione e omologazione. La sua narrazione non è politica in senso stretto, è più che altro sentimentale: «tutti i cambiamenti della carta geografica d’Europa non avevano cambiato i sentimenti dei popoli», dice Morstin/Roth.

A partire dagli anni Trenta, deluso dall’attualità, Roth si è limitato a rievocare con nostalgia e grande capacità suggestiva il mondo di ieri, una civiltà europea «frantumata», per affermare la sua identità, per crearsi un rifugio individuale. Più tardi la simpatia per la monarchia si intrecciò con la sua discussa conversione al cattolicesimo. Aveva trovato nell’universalismo del cattolicesimo l’unico collante che potesse ergersi a baluardo dei suoi valori, assumendo quello che era stato il ruolo unificante dell’impero: «la Chiesa romana in questo marcio mondo è l’unica ormai in grado di dare, di conservare una forma».

Un importante contributo all’approfondimento della personalità di Roth è arrivato grazie alla biografia Fuga e fine di Joseph Roth, che raccoglie la preziosa e affettuosa testimonianza di uno dei suoi migliori amici, Soma Morgenstern (galiziano anche lui, romanziere apprezzato da Musil, dopo la morte di Roth venne internato in un campo di concentramento francese e morì dimenticato da tutti a New York nel 1976). Ci lascia un ritratto completo di luci e ombre sulla vita dello scrittore, ci presenta un Roth insolente e ingrato, geniale e un po’ impostore, infantile e lucidissimo nei suoi giudizi sull’epoca e sui suoi contemporanei, ora aggressivo ora vulnerabile, decisamente affascinante: «vestiva con particolare eleganza, quasi da bellimbusto. I suoi capelli biondi avevano la scriminatura nel mezzo, e il suo monocolo suscitò stupore nel nostro gruppetto». «Se fosse stato francese», scrive Morgenstern, «e avesse vissuto qualche altro anno, sarebbe diventato una leggenda». E ne spiega i motivi: sapeva creare atmosfera attorno a sé, viveva, si ubriacava, lavorava, tutto in pubblico e «disseminava opinioni iconoclaste» che creavano regolarmente scandalo. Come scrive ancora Morgenstern, Roth parlava di Otto d’Asburgo, pretendente al trono austriaco, con sincera devozione, come si trattasse dell’imperatore, solo «per acquietare i suoi dubbi sulle probabilità di una realizzazione storica di quel sogno». In realtà non aveva fiducia nella politica e finì per ritenere lo stesso pretendente al trono «troppo poco legittimista» per i suoi gusti. Frequentava gli ambienti monarchici, ma più che altro perché divideva con gli altri esuli lo status di orfano di un mondo scomparso.

Dopo lo sfacelo dell’impero si rifugiò nell’alcool, perché così «la vita diventa più facile» e «talvolta libera l’animo umano». A chi gli rimproverava il suo vizio, rispondeva ironicamente che era divenuto alcolizzato «per incarico divino». «La salute! Puah!», si scherniva, mentre faceva di tutto per accellerare il suo incontro con la morte. «Ecco quel che veramente sono; cattivo, sbronzo, ma in gamba», si definì con autoironia. Continuò a scrivere altri libri, sempre lavorando nei tavoli dei caffè. Opere che possiedono, come ha scritto Gian Antonio Stella nella prefazione a Giobbe, romanzo di un uomo semplice (il libro del 1930 che il Corriere della Sera ha inserito nella sua “Biblioteca”), una particolare «forza immaginifica, così gonfia e possente da dare talora le vertigini». Il suo ultimo racconto, scritto negli ultimi giorni di vita e pubblicato solo postumo, è tra i più noti, anche grazie ad una recente trasposizione cinematografica. La leggenda del Santo bevitore può essere considerato un po’ come il suo testamento spirituale. Il protagonista è Andreas Kartak, un uomo smarrito, perso al mondo, un clochard. Uno sconosciuto gli offre un prestito chiedendo in cambio solo l’impegno a restituire la somma alla piccola Santa Teresa nella Chiesa di Santa Maria di Batignolles. Andreas non userà quel prestito per redimersi, per cambiare vita. Al contrario, come Roth, va incontro al suo destino, quasi incoraggiando la sua stessa rovina. Quando la morte sta per sopraggiungere ha un unico pensiero, quel prestito da rendere alla giovane Santa, dimostrando uno spiccato senso dell’onore, lo stesso che ha animato l’intera vita di quel fedele servitore dell’Imperatore che fu Joseph. «Conceda, conceda Dio a tutti noi, noi bevitori, una morte così facile e così bella», questo è l’ultimo auspicio di Andreas. E Roth morirà, come il suo ultimo personaggio, dopo l’ultima e fatale crisi di delirium tremens in un ospedale per i poveri.

mercredi, 28 octobre 2009

Eine Vergangenheit, die nicht vergehen will

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Eine Vergangenheit, die nicht vergehen will

Von Wolfgang Dvorak-Stocker / http://www.neue-ordnung.at/ 

Der Zweite Weltkrieg liegt bald 65 Jahre zurück. Nur mehr wenige Menschen in unserem Land haben ihn bewußt miterlebt. Und doch ist er präsent wie keine andere Geschichtsepoche, nicht nur in Film und Funk, sondern auch in den Gerichtssälen und Parlamenten.

Erst im August wurde der Gebirgsjägeroffizier Josef Scheungraber wegen Mordes an 14 Zivilisten in der Toskana schuldig gesprochen, den er als Vergeltung für den Tod zweier deutscher Soldaten im Juni 1944 befohlen haben soll. Scheungraber selbst hatte immer bestritten, vor Ort gewesen zu sein, ja von dem Vorfall überhaupt etwas gewußt zu haben. Und selbst der Spiegel hat in seiner Prozeßberichterstattung eingeräumt, daß seine Verantwortlichkeit weder durch Dokumente, noch durch Zeugenaussagen belegt werden konnte. 65 Jahre nach der Tat wohl auch kein Wunder, gibt es doch kaum mehr lebende Tatzeugen auf deutscher oder italienischer Seite.

All das läßt das Verfahren als Schauprozeß erscheinen, der mit Wahrheitsfindung und Gerechtigkeit nicht mehr viel zu tun hat, sondern offenbar andere Zwecke erfüllt. Ob Scheungraber für die Tötung der italienischen Zivilisten nun verantwortlich war oder nicht: Sie mag völkerrechtswidrig, also Mord gewesen sein. Aber was war dann der Partisanenkrieg? Bei Lichte besehen doch auch völkerrechtswidrig. Tausende Wehrmachtsangehörige sind Opfer der Partisanen geworden. Insofern diese ohne Uniform und aus dem Hinterhalt operierten, also: von Kriegsverbrechern. Ginge es nur um Wahrheit und Gerechtigkeit, müßten dann wie Scheungraber wohl auch die letzten noch lebenden „antifaschistischen“ Partisanen vor Gericht geschleppt und abgeurteilt werden.

Der 90jährige Scheungraber ist kein Einzelfall: Ende Oktober beginnt der Prozeß gegen den 88 Jahre alten Heinrich Boere, dem vorgeworfen wird, 1944 als SS-Standartenführer drei Niederländer erschossen zu haben. Ebenso im Spätherbst wird der Prozeß gegen John Demanjuk beginnen, einen Ukrainer, der Wachmann im KZ Sobibor gewesen sein soll. Früher war der US-Staatsbürger für einen Wachmann in Treblinka gehalten worden, doch wurde er 1993 in Israel freigesprochen.

Schon seit elf Jahren sitzt der mittlerweile 96jährige Erich Priebke in Rom in Haft bzw. im Hausarrest, und zwar wegen einer von ihm verantworteten, dem damaligen Völkerrecht entsprechenden Erschießungsaktion von Geiseln in Italien. Priebke hatte Jahrzehnte lang unter seinem richtigen Namen in Argentinien gelebt, ohne belangt zu werden.

2001 wurde Anton Malloth wegen seiner Tätigkeit als Aufseher in einem Gestapo-Gefängnis im heutigen Tschechien verurteilt, er starb im Oktober 2002 in Haft. Im Dezember 2004 verstarb ebenfalls im Gefängnis Josef Schwammberger, der 1992 als Kommandeur von SS-Zwangsarbeiterlagern zu lebenslanger Haft verurteilt worden war. Nicht zum Prozeß kam es dagegen im Fall von Milivoj Asner, einem heute 96jährigen ehemaligen kroatischen Polizeichef, dem von den österreichischen Behörden mangelnde Verhandlungsfähigkeit attestiert worden war. Das dürfte auch bei einem anderen Mann der Fall sein, der gerade in Wien im Krankenhaus liegt: dem 84 Jahre alten ehemaligen KZ-Wächter Josias Kumpf. Ein Volksdeutscher, der mit gerade 17 Jahren ungefragt zur SS dienstverpflichtet wurde und seit den 50er Jahren in Amerika lebte, arbeitete, heiratete und Kinder zeugte. 2003 kamen die Amerikaner hinter seine Vergangenheit, im März 2009 schoben sie ihn nach Österreich ab, von wo aus er 1956 in die USA ausgereist war. Auch Österreich möchte Kumpf gerne loswerden, doch kein anderes Land will ihn aufnehmen. Kumpf braucht ständige Betreuung. Als klar war, daß der Staat nicht einmal die Grundversorgung übernehmen will, ließ auch die Caritas den Schwerkranken im Stich. Nach einem Bericht des „Profil“ vom 22. Juni 2009 liegt er wieder im AKH, und niemand weiß, wo er hin soll. „Ich habe wenig Sympathien für KZ-Wächter“, zitiert das Profil einen seiner Betreuer, „aber mit diesem Menschen geht man um, als ob er Atommüll wäre.“ In Madrid bereitet derweil ein Richter einen Prozeß gegen Kumpf vor, der von Überlebenden des Lagers, zu dessen Bewachung er abkommandiert worden war, angestrengt wurde.

Andere Kriegsverbrecher sterben derweil freilich friedlich im Altersheim. Salomon Morel zum Beispiel, der in Oberschlesien als KZ-Kommandant den Tod von mehr als 1.500 unschuldigen Deutschen verursacht haben soll und, als der amerikanische Jude John Sack seine gegen ihn gerichteten Recherchen publizierte (auf deutsch 1995 unter dem Titel „Auge um Auge. Die Geschichte von Juden, die Rache für den Holocaust suchten“ im Kabel Verlag erschienen), 1992 nach Israel floh. Die polnische Regierung forderte 1998 und 2005 seine Auslieferung wegen Kriegsverbrechen und Verbrechen gegen die Menschlichkeit, doch in diesem Fall war die Regierung Israels der Auffassung, daß die Verbrechen bereits verjährt und der Täter für eine Verhandlung schon zu alt und krank sei. Auch gegen den Literaturkritiker Reich-Ranicki sind aufgrund seiner Tätigkeit im Nachkriegs-Polen ähnliche Vorwürfe erhoben worden. Die Beweislage gegen ihn ist fast genauso „dicht“ wie gegen John Demanjuk – doch was im einen Fall für Auslieferung, Anklageerhebung und vermutlich auch Verurteilung reichen wird, das genügt im anderen Fall wohl nicht, den Genuß des Ruhestandes ernstlich zu gefährden.

Es ist also ganz offensichtlich, daß es bei diesen Prozessen nicht mehr um „Gerechtigkeit“, sondern schon um etwas ganz anderes geht. Doch um was? Behandeln wir vor Beantwortung dieser Frage noch eine andere, damit in Zusammenhang stehende Entwicklung.

Deserteure und Kriegsverräter

Rund 20.000 Personen standen wegen Desertion vor Militärgerichten, weitere 10.000 wegen Wehrkraftzersetzung und Kriegsverrat. Schon im Jahr 2002 wurden Deserteure, Kriegsdienstverweigerer und Wehrkraftzersetzer pauschal durch einen Beschluß des deutschen Bundestages rehabilitiert. Nun will auch die österreichische Bundesregierung Deserteure en bloc rehabilitieren. In Deutschland ist man bereits einen Schritt weiter. Dort sollen jetzt auch alle wegen „Kriegsverrates“ Verurteilte, ohne Berücksichtigung des Einzelfalles pauschal rehabilitiert werden.

In Österreich ist eine heftige Diskussion über die Rehabilitierungen entbrannt. Insbesondere die FPÖ unter Heinz Christian Strache wendet sich dagegen und argumentiert, daß ein nicht unbeträchtlicher Teil der Deserteure Gewalt angewendet habe. Dem entgegnet der Historiker Walter Manoschek, daß er 1.276 Fälle von Deserteuren untersucht habe, und von diesen weniger als 5 % Gewalt angewendet hätten. Doch auch eine solche Quote würde rund 60 Fälle von Gewaltverbrechern bedeuten, oder ca. 1.000 auf die Gesamtzahl umgelegt. In der „Neuen Ordnung“ haben wir bereits vor vielen Jahren den Fall Grimburg dokumentiert, der zwei seiner Vorgesetzten im Schlaf ermordete, um ungefährdet desertieren zu können, und für seine Untat nicht nur nicht zur Rechenschaft gezogen wurde, sondern es in der Republik Österreich sogar zum Sektionschef bringen konnte. Im von Erwin Peter herausgegebenen Buch „Stalins Kriegsgefangene“ sind sogar mehrere deutsche Soldaten auf einem Bild aus sowjetischen Archivbeständen fotografisch abgebildet, die ihre Offiziere ermordet hatten, um fliehen zu können.

Zudem sind es natürlich nicht nur die Fälle der offenen Gewaltanwendung, bei denen Deserteure das Leben ihrer Kameraden gefährdet oder vernichtet haben. Vielfach haben sie nach ihrer Desertion dem Feind gegenüber Angaben gemacht, die ihm Vorteile brachten, und somit als Verrat gegenüber den ehemaligen Kameraden zu werten sind. Diese Verhaltensweise wird sogar üblich gewesen sein, da Fahnenflüchtige, um beim Gegner gute Aufnahme zu finden, geradezu gezwungen waren, möglichst viel von ihrem Wissen über Stellungen, Truppenstärke usw. ihrer Ursprungsarmee zu verraten. Wenn Heinz Christian Strache davon spricht, daß 10–15 % der Deserteure Handlungen gesetzt haben, die direkt oder indirekt zum Tod ihrer ehemaligen Kameraden führten, so liegt er aus diesem Grund damit sicher nicht falsch.

Auch bei den „Kriegsverrätern“ weisen Historiker darauf hin, daß viele Menschen nur deshalb wegen Kriegsverrats verurteilt wurden, weil sie Juden geholfen oder Kriegsgefangene gut behandelt haben. Dagegen ist natürlich nichts zu sagen, doch macht diese Gruppe mit Sicherheit nur einen kleinen Teil der „Kriegsverräter“ aus. Eine pauschale Rehabilitation erfaßt gleichermaßen jene, die auch nach heutigen Maßstäben Verbrechen begangen haben.

Aber selbst wenn man all diese Detailfragen beiseite läßt. Welches Signal geht denn von einer Rechtfertigung der Deserteure aus? Keine Armee der Welt kann ohne Gehorsam, Tapferkeit und Pflichterfüllung bestehen. Im übrigen auch kein Staat. Oskar Lafontaine hat alle auf den Begriff der Pflichterfüllung bezogenen Eigenschaften einmal als typische „Sekundärtugenden“ bezeichnet, mit denen man auch ein KZ betreiben könne. Das stimmt natürlich. Es ist mit solchen „Sekundärtugenden“ bestellt wie mit Nägeln und Draht, Holz und Beton. Man kann mit ihnen Konzentrationslager und Schinderstätten bauen. Ohne sie wird es aber auch schwer fallen, Krankenhäuser und Kindergärten zu errichten. Baumaterialien können für das eine wie das andere verwendet werden. „Sekundärtugenden“ auch. Sie sind im Prinzip wertvoll, eben tugendhaft, notwendig, bleiben aber immer Mittel. Die Zwecke, für die sie eingesetzt werden, sind ihnen übergeordnet. Diese Zwecke fließen aus dem Ethos des Staates und seiner Ordnung. Auf sie kommt es an. Ab welchem Punkt es gerechtfertigt oder gar geboten ist, sich einer staatlichen Ordnung zu widersetzen und welche Mittel von passiver Verweigerung bis hin zum aktiven Widerstand dann erlaubt sind, gehört zu den heikelsten Fragen der Ethik.

Wenn unsere Parlamente Deserteure und Kriegsverräter pauschal rehabilitieren, ihr Verhalten also rechtfertigen, kann dies nur zwei mögliche Bedeutungen haben: Entweder unsere Parlamente sind der Auffassung, daß es zu den grundsätzlichen Rechten eines Soldaten gehört, selbst zu entscheiden, wann er den Kampf einstellt, welchen Befehlen er gehorcht oder ob er sich zur Abwechslung vielleicht einmal feindbegünstigend verhält. Dieser Grundsatz müßte dann aber auch für unsere heutigen Armeen gelten. Doch das kann, wie oben ausgeführt, nicht funktionieren. Die verbleibende Möglichkeit ist, daß unsere Parlamente der Auffassung sind, jede gegen das Dritte Reich gesetzte Handlung, selbst Fahnenflucht aus Feigheit, wäre gerechtfertigt gewesen. Damit wird die große Masse der Soldaten, die nicht davongelaufen ist, sondern gekämpft hat, in der Absicht ihre Heimat zu schützen, ins Unrecht gesetzt, und moralisch diskreditiert. Sie alle haben in den Augen unserer Parlamentarier offenbar falsch gehandelt. Doch selbst wenn unsere Parlamente sagen wollen, daß im Dritten Reich der Widerstand zur Pflicht geworden wäre, ist eine pauschale Rehabilitierung rechtlich nicht vertretbar: Der Zweck heiligt nämlich nicht die Mittel. Auch wenn ein Krieg gerecht ist, können einzelne Handlungen den Tatbestand eines Kriegsverbrechens erfüllen, auch wenn in einer bestimmten Situation Widerstand gefordert ist, müssen die konkreten Widerstandshandlungen doch dem Sittengesetz entsprechen. Mord bleibt immer Mord. Doch all dies wird von den Befürwortern der Rehabilitationsgesetze gar nicht mehr gesehen, zu sehr stehen sie unter dem Einfluß des nationalsozialistischen Mythos.

Der nationalsozialistische Mythos

Unter Mythos verstehen wir eine emotional aufgeladene geschichtliche Erzählung, die unserer Gegenwart Sinn gibt, und unsere Zukunft bestimmt. Insbesondere unter dem Begriff „Auschwitz“ ist dieser Mythos des Dritten Reiches bestimmend für unsere Zeit geworden. In ihm steht Hitler-Deutschland für das absolut Böse in der Geschichte, für die Mächte des Satans selbst, der nur durch ständige Bann-Rituale ferngehalten werden kann:

Ein Mythos fordert Bekenntnis. Dieser spricht: Wer nicht gegen mich ist, der ist für mich. Raum für differenzierte Urteile, für nüchterne Analyse läßt er keinen mehr. Das Böse muß exorziert, der Teufel muß ausgetrieben werden. Jeden Tag aufs neue, um ein Gefühl von Sicherheit zu geben. Auch die Prozesse gegen „Nazi-Kriegsverbrecher“, sind solche Rituale. Sie führen uns immer aufs Neue vor Augen, daß nach wie vor die guten Mächte walten, daß die Dunkelheit fern ist. Damit entsprechen sie den geweihten Kerzen, die die Bauern früher in Gewitternächten entzündeten, während die Dämonen ums Haus jagten.

Die 90jährigen Greise, die wir in Gefängniszellen sperren, und jene, die wegen „Leugnung historisch feststehender Tatsachen“ zu Haftstrafen verurteilt werden, erfüllen die Rolle von Menschenopfern, die wir darbringen, um die Dämonen der dunklen Seite zu bannen. Die Diener des Mythos werden ihre Bannrituale und Opferhandlungen auch in Zukunft fortsetzen, und zwar so lange, wie der Mythos seine Kraft behält. Unser politisches System hat seine Existenz an diesen Mythos geknüpft, in Deutschland noch viel mehr als in Österreich. Deshalb werden in der BRD unter dem Begriff „Kampf gegen Rechts“ täglich exorzistische Rituale abgehalten. Zunehmend bezieht die politische Klasse ihre Legitimation daraus. Daß sie zur Lösung der dringendsten Probleme unserer Zeit – von der explodierenden Staatsverschuldung über die steigende Arbeitslosigkeit bis hin zur Massenzuwanderung – nicht mehr in der Lage ist, hat auch etwas mit der Wirkmacht dieses Mythos zu tun. Je brüchiger der Boden wird, auf dem wir stehen, je näher die Träger des Systems seinen unvermeidlichen Zusammenbruch rücken sehen, desto schriller werden die Rituale, um den systemstabilisierenden Mythos am Leben zu erhalten.

Das Streben nach Gerechtigkeit für vergessene Opfer des Dritten Reiches stand also mit Sicherheit nicht im Vordergrund bei den jüngsten Rehabilitierungsgesetzen. Wäre es nur darum gegangen, kein Weg hätte am russischen Vorbild vorbeigeführt: Zehntausende Wehrmachts- und Waffen-SS-Angehörige sind von der stalinistischen Justiz als „Kriegsverbrecher“ abgeurteilt worden. Schon vor Jahren hat Rußland diesen Männern, bzw. ihren Familien die Möglichkeit gegeben, die Urteile im Einzelfall prüfen zu lassen. Tausende haben davon Gebrauch gemacht, und in rund 90 % der Fälle auch die Rehabilitierung bestätigt bekommen. Das sind Freisprüche, die Familien tatsächlich Frieden geben können. Die pauschale Aufhebung von Urteilen, die wiederum, wie schon in der NS-Zeit, jenen, der justifiziert wurde, weil er aus Mitmenschlichkeit z. B. Kriegsgefangenen helfen wollte, auf die gleiche Stufe mit dem echten Kameradenverräter und -mörder stellt, wird dies nicht leisten können.

lundi, 11 mai 2009

Karl Kraus

Ellen KOSITZA - http://www.sezession.de

Karl Kraus

Karl Kraus

Eins meiner Steckenpferde, die Physiognomik, wird heute gemeinhin zu den „Pseudowissenschaften“ gezählt. Das kann ruhig stimmen, auch wenn die Liste von Vertretern des phsysiognomischen Zugriffs lang und prominent ist – von der Antike ganz abgesehen, bedienten sich später Albertus Magnus, Dürer, Galen und ungezählte andere solcher Herangehensweise an den Menschen.

 Man mag sie als obskure Geheimwissenschaft apostrophieren oder als „Schädelkunde“ diskreditieren – ich nenne sie die Lehre vom Antlitz.

Wer sich der Physiognomik in abwertender Absicht bedient, der mag sich in halb-rassistische Gefilde begeben – anders, wenn man sie als Menschenkenntnis und erweiterte Seh-Schule begreift. Wer mir eine Bilder-Liste von, sagen wir, Mitgliedern des deutschen Bundestags vorlegt, dem sag ich, wer Sozialdemokrat, wer liberal und wer grün ist: Die Trefferquote dürfte bei 90% liegen.

 Wenn ich den Prototyp jener Klientel zeichnen (kann ich nicht: also als Phantombild am Polizeirechner basteln) müßte, die auf unserem Rittergut den Veranstaltungen des Instituts für Staatspolitik beiwohnt, käme ungefähr die Erscheinung heraus, die hier links oben Karl Kraus zeigt.

 Ob Karl Kraus dabei gewesen wäre? Eine Anmaßung, logisch. Heute dürfen wir den 135. Geburtstag feiern – der 110. Geburtstag seines publizistischen Kindes, „Die Fackel“ liegt übrigens nur ein paar Tage zurück. Wikipedia schreibt:

Unter dem Motto Was wir umbringen, das er dem reißerischen Motto Was wir bringen der Zeitungen entgegenhielt, sagte er der Welt, vor allem der der Schriftsteller und Journalisten, den Kampf gegen die Phrase an und entwickelte sich zum wohl bedeutendsten Vorkämpfer gegen die Verwahrlosung der deutschen Sprache.

Dieser Karl Kraus, wortgewaltiger Satiriker, Misanthrop, zum Katholizismus konvertierter Jude, wechselweise Anhänger von Sozialdemokratie, dann Franz Ferdinand, zuletzt von Engelbert Dollfuß, ist einer unserer ganz Großen. Viel Feind – viel Ehr, hier trifft’s den Nagel auf den Kopf. Geblieben ist von dem mit Prozessen überzogenen Publizisten und Dramaturgen (Die letzten Tage der Menschheit), wie so oft, ein gewaltiger Nachruhm.

Presse und Phrase galten ihm als ein Begriff, auf ihn dürfte das Schmähwort „Journaille“ zurückgehen. Ob’s heute einen Spruch-Kalender ohne Karl-Kraus-Aphorismen gibt?
Nehmen wir den:

Ein Historiker ist nicht immer ein rückwärts gekehrter Prophet, aber der Journalist immer einer, der nachher alles vorher gewußt hat.

Oder den:

Die deutsche Sprache ist die tiefste, die deutsche Rede die seichteste.

Und, wunderschön aus pazifistischen Munde:

Sollte man, bangend in der Schlachtordnung des bürgerlichen Lebens, nicht die Gelegenheit ergreifen und in den Krieg desertieren?

lundi, 13 avril 2009

Aux origines de la Croatie militaire

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Aux origines de la Croatie militaire

 

L'éditeur C. Terana, spécialisé dans les rééditions de livres d'histoire militaire, publie La Croatie militaire (1809-1813). Les régiments croates à la Grande Armée  du Commandant P. Boppe, ouvrage paru en 1900 et illustré de six planches en couleurs et d'une carte des “Provinces Illyriennes”. L'auteur nous rappelle les origines de la Croatie militaire: «Après que les Turcs, en 1685, eurent été contraints de le­ver le siège de Vienne et eurent été rejetés en Bosnie, l'empereur Léopold Ier, roi de Hongrie, organisa en 1687 un cordon de régiments frontières pour servir de barrière aux incursions qu'ils pourraient en­core tenter, autant qu'à la propagation de la peste. Ce cordon fut établi sur une longue bande de pays s'étendant du littoral hongrois de l'Adriatique à la Transylvanie et ne dépassant pas la largeur moyenne de huit lieues, c'est à dire une journée de marche. Tout ce territoire fut soustrait à la féodalité seigneu­riale, le souverain en devenant le maître absolu, et fut divisé en dix-sept provinces dites régiments; chaque régiment fut subdivisé en compagnies et celles-ci en familles (...). Cette organisation subsistait au commencement de ce siècle telle qu'elle avait été créée, tant elle s'adaptait aux besoins qui l'avaient fait concevoir, aussi bien qu'aux mœurs et au tempérament des habitants de contrées qui por­taient le nom, justifié dans la réalité, de Confins militaires. Les Croates ayant toujours à se défendre contre les brigands venant de Turquie, vivaient sur un perpétuel qui-vive et étaient constamment ar­més; un fusil, un khangiar, plusieurs pistolets à la ceinture faisaient partie de leur costume, on pourrait presque dire d'eux-mêmes; ils étaient soldats de naissance:l eur groupement en régiments s'imposait donc par la nature même des choses et c'est un peuple organisé militairement que Napoléon devait, en 1809, trouver sur la rive droite de la Save» (P. MONTHÉLIE).

 

P. BOPPE, La Croatie militaire, Editions C. Terana; 31 bd Kellermann, F-75.013 Paris, 268 p., 150 FF.

lundi, 12 janvier 2009

12 janvier 1909: l'Empire ottoman renonce à la Bosnie-Herzégovine

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Il y a cent ans…

 

L’Empire ottoman renonce à la Bosnie-Herzégovine

 

12 janvier 1909 : L’Empire ottoman accepte les propositions que lui avait fait l’Autriche le 9, c’est-à-dire renoncer à tous ses droits sur la Bosnie-Herzégovine, que Vienne avait annexée en octobre 1908, avec, rappelons-le, l’aval de la Russie, donné en septembre 1908. La défaite de la Russie face au Japon, qui avait reçu l’appui des puissances navales anglo-saxonnes, impliquait l’obligation pour Saint-Pétersbourg de renoncer à toute ouverture sur les mers chaudes dans le Pacifique. Il faut donc qu’elle cherche ailleurs un débouché vers les mers chaudes, notamment en Egée et en Méditerranée orientale. La défaite face au Japon oblige donc la Russie à revenir dans les Balkans, espace qu’elle avait négligé dans les décennies précédentes au profit de l’Asie centrale et de l’Extrême-Orient. Elle se heurte aux aspirations autrichiennes de porter vers l’Egée l’impérialité romaine-germanique, dont elle était encore la titulaire officieuse, en dépit de la dissolution officielle du Saint Empire sous la pression de Bonaparte en 1806. La Turquie accepte, résignée, de laisser les Balkans à l’empire danubien austro-hongrois, moyennant des compensations financières et une aide au développement, qui viendra plutôt du Reich allemand. Sous l’impulsion du programme « panserbe » du premier ministre serbe Stojan Novakovic, les populations slaves et orthodoxes des Balkans, à l’exception des Bulgares, se hérissent face à la perspective de tomber sous la coupe d’un empire catholique et cherchent l’appui d’une Russie qui ne peut plus le leur donner avec toute l’efficacité voulue, sauf si elle emprunte à la France, qui, elle, a toujours cherché à déstabiliser le cœur du continent, à le balkaniser et le rendre ingouvernable. La nouvelle donne crée les conditions des prochaines guerres balkaniques, de la guerre italo-turque et, à terme, de la première guerre mondiale (Robert Steuckers).

 

 

samedi, 20 décembre 2008

Erwin Guido Kolbenheyer

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Erwin Guido Kolbenheyer (1878-1962)

 

Robert Steuckers

Né le 30 décembre 1878 à Budapest, Erwin Guido Kolbenheyer, poète, dramaturge et philosophe, voit le jour dans le foyer d'un célèbre architecte austro-hongrois. Orphelin dès 1881, il s'installe avec sa mère à Karlsbad, dans le pays des Sudètes, où il fréquente le Gymnasium. En 1900, il part à Vienne pour y étudier la zoologie et la philosophie, notamment sous la tutelle des professeurs Hatschek et A. Stöhr. C'est avec l'appui de ce dernier qu'il acquiert son titre de docteur en philosophie en 1904. Mais il renonce à toute carrière universitaire pour se consacrer entièrement à sa poésie, ses drames et ses romans. En 1925, il fait paraître une première version de son ouvrage philosophique majeur, Die Bauhütte, qui sera définitivement achevé en 1940. Honoré de plusieurs prix, il continuera à ¦uvrer jusqu'à sa mort, survenue le 12 avril 1962. Dans toute sonoeuvre, tant philosophique que poétique ou romanesque, Kolbenheyer pose des héros qui incarnent l'être le plus profond de l'homme germanique, caractérisé par un élan vital sans repos; partant, ses héros recherchent, infatigables et tragiques, une connaissance, une puissance, un absolu, un idéal, un dieu, eux-mêmes. Son Paracelse, par exemple, est toujours en errance, toujours à la recherche de la connaissance suprême; dans ce cheminement interminable, Paracelse, précurseur de Faust, s'éloigne toujours davantage de l'Eglise et de ses lois. Il cherche, dans la foi, une liberté totale et, en Dieu, le repos éternel, sans jamais trouver ni l'une ni l'autre. Chacun des volumes de sa trilogie paracelsienne est précédé d'un dialogue entre le Christ et Wotan et contient plusieurs dialogues entre Paracelse et un représentant de la "vieille culture" classique, désormais incapable d'étancher la "soif métaphysique" des hommes. A un représentant de la Curie romaine, venu en Allemagne pour enquêter sur les progrès de la Réforme, Paracelse reproche de défendre des formes, figées et raidies, sans contenu, sans substance. Le Réforme est, aux yeux de Kolbenheyer, le retour de l'humanité germanique à la substance vitale, au-delà des formes figées, imposées par l'Eglise de Rome. Dans l'¦uvre de Kolbenheyer, resurgissent tous les débats de la réforme et de la renaissance, de l'humanisme et de la nouvelle vision du cosmos (celle d'un Giordano Bruno notamment), autant de Schwellenzeiten,   d'époques-seuil, où il est impératif d'adapter l'esprit au temps. Pour notre auteur, l'histoire de la pensée européenne est marquée par l'opposition entre, d'une part, un dynamisme adaptatif/mouvant/plastique, ancré dans un humus populaire précis, et un statisme absolu rigide, immobile et planant au-dessus de l'oikos  des hommes. Spinoza, Paracelse, Giordano Bruno, le personnage de Kolbenheyer Meister Joachim Pausewang, sont des représentants du dynamisme. Les églises et les dogmes, religieux ou laïques, sont des éléments de statisme, des cangues dont il faut sortir.

L'atelier. Eléments pour une métaphysique des temps présents (Die Bauhütte. Grundzüge einer Metaphysik der Gegenwart)  1925-1952

Idée centrale de cet ouvrage philosophique de Kolbenheyer: l'humanité, fascinée par les absolus postulés par les métaphysiques désincarnées, ne parvient plus à s'adapter aux impératifs des temps présents. Ceux-ci exigent une métaphysique souple, plastique, sans forme systématique définitive. L'homme a besoin de métaphysique pour s'orienter dans l'avalanche de données que lui communique le monde. La métaphysique lui sert de fil d'Ariane. Sans elle, il tâtonne. Les métaphysiques classiques ont toutes été des systèmes qui se voulaient définitifs et absolus, qui avaient pour but d'ordonner les idées, les connaissances et les valeurs humaines selon une idée centrale, généralement une conception de Dieu ou du monde, issue d'un état particulier d'adaptation de l'homme au monde dans un contexte spatio-temporel déterminé mais révolu. Mais quand le monde change sous la pression des événements, quand le changement provoque à l'échelle européenne une "crise de conscience", les métaphysiques classiques, de Pascal à Leibniz et à Rousseau, s'effondrent. On tente de les remplacer par l'idée du Moi, l'idée de la matière ou l'idée de l'esprit, l'idée de la collectivité ou l'idée du rien (nihilisme), sans se rendre compte que ces idées n'ont pas de contenu réel correspondant au nouvel état d'adaptation de l'humanité. Pire: ces idées sans contenu réel ont servi à construire des systèmes que l'on a posé comme définitifs, alors que la vitesse des changements, donc la nécessité vitale d'adaptations rapides successives, impliquait de se débarrasser de toute espèce de rigidité.
Question majeure que pose Kolbenheyer: qu'est-ce que la pensée? Elle est 1) l'intégration consciente de tout ce que nous vivons dans le monde de la conscience et 2) le fait de compléter, de classer et de construire sans cesse ces diverses sensations. Le siège de ce processus d'intégration, de complétement, de classification et de construction est le cerveau humain, conditionné par une biologie et une hérédité précises. Ce site, différent d'une multitude d'autres sites analogues, exclut la croyance naïve et dépassée en un esprit d'essence indépendante. Ces déterminations du siège de la pensée, c'est-à-dire du cerveau, lié à d'autres cerveaux par le jeu infini et kaléidoscopique du code génétique, se heurtent à des résistances continuelles qu'il faut vaincre, dépasser ou contourner. Les communautés de cerveaux unies par un même code génétique, lequel est variable à l'infini, produisent des idées directrices qui font montre d'une certaine durée dans l'histoire. Ces idées directrices sont métaphysiques, selon Kolbenheyer, car elles transcendent les individualités qui les incarnent plus ou moins bien. La métaphysique, de cette façon, est descendue de l'au-delà dans le monde réel. Les données du problème de la métaphysique sont les hommes, les hommes dans la vie et la vie dans les hommes et non pas un au-delà quelconque auquel il s'agit d'arriver, non pas un absolu fixé d'avance, indéterminé et indéterminable auquel l'homme doit adapter sa vie. La métaphysique est de ce fait "un point parfait d'adaptation intérieure et extérieure de l'homme" qui, nécessairement, diffère d'un individu à l'autre, d'un peuple à l'autre. De cette définition différenciée à l'infini de la métaphysique découle un dépassement de l'idéalisme et du rationalisme; ces systèmes faisaient de la pensée un "cadre" sans contenu. Pour Kolbenheyer, la pensée est et cadre et contenu en interaction ininterrompue. La pensée est ainsi à la foi force absorbante et force créatrice et n'a de valeur et d'importance que si elle remplit ce double rôle.
L'horizon de la pensée est, chez Kolbenheyer, celui de la "vie plasmatique", qui n'est pas un être en soi supérieur auquel les formes d'individuation sont subordonnées; il n'existe pas d'être plasmatique en dehors des formes d'individuation, ce qui n'empêche pas de penser à un rapport originel et générateur entre les formes d'individuation sur le plan de l'évolution générale. Ce qui existe en tant que vie, est de la vie différenciée, de la vie en train de s'adapter. Kolbenheyer dégage les lois de la "plasmogénèse" c'est-à-dire de l'individuation du plasma et de sa conservation dans les individus; le plasma adapté (c'est-à-dire l'individu) ne peut être ramené à un degré d'individuation par lequel il a passé précédemment; la part de plasma dont les capacités ne résistent pas par l'adaptation au changement des époques géologiques cosmiques disparaît. La substance vitale, le plasma, est répartie entre tous les peuples de la terre. Pour parfaire leur rôle historique, pour créer des formes culturelles viables et sublimes, pour exprimer les potentialités de ce plasma qui leur est échu, les peuples épuisent graduellement leur capital en plasma. Les peuples jeunes sont ceux qui disposent encore d'une grande quantité de plasma non transformé en formes. Plus la quantité de plasma résiduel est importante, plus la vitalité du peuple est intense. Les peuples trop encombrés de formes ont terminé leur cycle et se retirent petit à petit de la scène du monde.
De cette vision biologico-mystique, Kolbenheyer déduit une éthique individuelle répondant à une maxime paraphrasant Kant: "Agis toujours de façon telle, que tu puisses être convaincu d'avoir fait par tes actions le meilleur et le maximum pour que le type humain, dont tu es issu, puisse être maintenu et se développer". L'individualité est, dans cette optique, "exposant de fonction"; il est une modalité de l'adaptation au réel du donné plasmatique. Par conséquent, ne sont immortelles que les prestations de l'individualité qui ont accru les capacités adaptatives du plasma. De la maxime énoncée ci-dessus et de cette notion d'immortalité des prestations, découle une éthique du devoir. L'individualité doit maintenir et développer la vie, au-delà de sa propre existence individuelle, et mettre en ¦uvre, dans ce but, toutes ses énergies. L'individu en soi, dans la perspective kolbenheyerienne, n'existe pas car tous les hommes sont reliés au paracosmos, et ont ainsi en commun bon nombre de traits supra-individuels; de plus, l'individualité, au cours de son existence, change et est appelée à jouer des rôles différents: celui de l'enfant, puis celui de l'époux, du père, celui que postule sa fonction sociale, etc. Il y a différenciation constante, ruinant toute rigidité posée comme en soi. On a parlé de l'¦uvre philosophique de Kolbenheyer comme d'un "naturalisme métaphysique" (R. König) ou d'un "matérialisme biologique" (E. Keller).
(Robert Steuckers).

- Bibliographie non exhaustive; nous ne reprenons que les ouvrages littéraires de Kolbenheyer ayant un intérêt philosophique; une bibliographie complète, établie par Kay Nieschling, se trouve dans Peter Dimt (cf. infra); par ailleurs, le lecteur pourra s'adresser à la Kolbenheyer-Gesellschaft e. V., Schnieglinger Straße 244, D-8500 Nürnberg, pour tout renseignement sur l'auteur. Cette société édite également un périodique d'exégèse de l'¦uvre d'EGK, intitulé Der Bauhütten-Brief.
Giordano Bruno, 1903 (tragédie); Die sensorielle Theorie der optischen Raumempfindung, 1905 (thèse); Amor Dei, 1908 (roman sur Spinoza); Meister Joachim Pausewang, 1910 (roman où intervient la figure de Jakob Böhme); Montsalvach, 1912; Die Kindheit des Paracelsus, 1917 (premier tome de la trilogie paracelsienne); Wem bleibt der Sieg?, 1919; Das Gestirn des Paracelsus, 1922 (tome 2); Die Bauhütte. Grundzüge einer Metaphysik der Gegenwart, 1925 (première version); Das dritte Reich des Paracelsus, 1926 (tome 3); Heroische Leidenschaften, 1929 (nouvelle mouture de Giordano Bruno); Aufruf an die Universitäten, 1930 (discours); Das Gesetz in dir, 1931 (théâtre); Die volksbiologischen Grundlagen der Freiheitsbewegung, 1933 (essai); Gregor und Heinrich, 1934 (pièce de théâtre mettant en scène le Pape et l'Empereur et les valeurs qu'ils incarnent); Unser Befreiungskampf und die deutsche Dichtung, 1934 (discours); Der Lebensstand der geistig Schaffenden und das neue Deutschland, 1934 (discours); Arbeitsnot und Wirtschaftskrise biologisch gesehen, 1935 (article); Das gottgelobte Herz, 1938 (roman avec pour thème la mystique allemande); Der Einzelne und die Gemeinschaft, 1939 (discours); Goethes Denkprinzipien und der biologischen Naturalismus, 1939 (discours); Die Bauhütte, 1940 (nouvelle version); Das Geistesleben in seiner volksbiologischen Bedeutung, 1942 (discours); Menschen und Götter, 1944 (tétralogie dramatique); Die Bauhütten-Philosophie, 1952 (troisième édition, complétée de textes nouveaux); Sebastian Karst über sein Leben und seine Zeit, I, 1957 (autobiographie); Sebastian Karst über sein Leben und seine Zeit, II & III, 1958 (autobiographie, suite); Metaphysica viva, 1960; éditions posthumes: Wem bleibt der Sieg?, 1966 (anthologie comprenant le texte de 1919 portant le même titre); Vorträge, Aufsätze, Reden, 1966 (‘uvres complètes, 2/VII); Die Bauhütte, 1968 (4ième éd.); Mensch auf der Schwelle, 1969; Du sollst ein Wegstück mit mir gehn, 1973 (anthologie); Gesittung. Ihr Ursprung und Aufbau, 1973; Kämpfer und Mensch. Theoretischer Nachlaß, 1978; Rationalismus und Gemeinschaftsleben, 1982. Les ‘uvres complètes, publiées à l'initiative de la Kolbenheyer-Gesellschaft, sont parues entre 1956 et 1969.
- Sur Kolbenheyer:  Conrad Wandrey, Kolbenheyer. Der Dichter, der Philosoph, Langen/Müller, Munich, 1934; Franz Westhoff, E.G. Kolbenheyers Paracelsus-Trilogie - eine Metaphysik des deutschen Menschen,  Thèse, Münster, 1937; Ernst Heinrich Reclam, Die Gestalt des Paracelsus in der Dichtung. Studien zu Kolbenheyers Trilogie, Thèse, Leipzig, 1938; H. Vetterlein, "Kolbenheyer-Bibliographie", in Dichtung und Volkstum (Euphorion), 40, 1939, pp. 94-109; E. Fuchs, Das Individuum und die überindividuelle Individualität in Kolbenheyers historischen Romanen, 1940; Franz Koch, "E.G. Kolbenheyers Bauhütte und die Geisteswissenschaften", in Dichtung und Volkstum (Euphorion), 41, 1941, pp. 269-296; H. Seidler, "Kolbenheyer über die Dichtkunst", in Dichtung und Volkstum (Euphorion), 41, 1941, pp. 296-321;   Paul Lespagnard, "Erwin Guido Kolbenheyer", in Bulletin de l'Ouest, Bruxelles, 15 avril 1942, 2, pp. 18-20; Paul Lespagnard, "L'oeuvre de E.G. Kolbenheyer. La "Bauhuette"", in Bulletin de l'Ouest,  Bruxelles, 15 nov. 1943, 20, pp. 230-233 et 30 nov. 1943, 21, pp. 241-244; St. R; Townsend, Kolbenheyers Conception of the German Spirit and the Conflict with Christianity, 1947; H.D. Dohms, Die epische Technik in Kolbenheyers Roman "Das gottgelobte Herz", 1948; Franz Koch, Kolbenheyer,  Göttinger Verlagsanstalt, Göttingen, 1953; Robert König, Von Giordano Bruno zu E.G. Kolbenheyer, Kolbenheyer-Gesellschaft, Nuremberg, 1961; A.D. White, The Development of the Thought of E.G. Kolbenheyer from 1901 to 1934, 1967; Otto Schaumann, Die Triebrichtungen des Gewissens,  Orion-Heimreiter, Francfort s.M., 1967; Ernst Frank, Jahre des Glücks. Jahre des Leids. Eine Kolbenheyer-Biographie,  blick + bild, Velbert, 1969 (principale biographie de l'auteur; avec 95 ill.); Ernst Keller, "Der Weg zum deutschen Gott: E.G. Kolbenheyer", in Ernst Keller, Nationalismus und Literatur, Francke, Berne/Munich, 1970; Robert König, Der metaphysische Naturalismus E.G. Kolbenheyers, Kolbenheyer-Gesellschaft, Nuremberg, 1971; Robert König, Ein Gedenkblatt zu seinem 10. Todestag am 12. April 1972,  Kolbenheyer-Gesellschaft, Nuremberg, 1972; Alain de Benoist, "Paracelsus: roman d'Erwin Guido Kolbenheyer", in Nouvelle Ecole,   29, 1976, pp. 126-131; Robert Steuckers, "Le centenaire de Kolbenheyer", in Pour une renaissance européenne, Bruxelles, 27/28, 1979, pp. 270-276; Herbert Seidler, "Erwin Guido Kolbenheyer", in Neue Deutsche Biographie,   Band 12, Duncker u. Humblot, Berlin, 1980;  Peter Dimt, Schlederloher Teestunde. Vierzig Anekdoten um Erwin Guido Kolbenheyer,  Türmer, Berg, 1985 (avec bibliographie complète des ¦uvres de EGK); Hedwig Laube, Von Erwin Guido Kolbenheyers Ethos aus Naturerkenntnis,  Kolbenheyer-Gesellschaft, Nuremberg, 1985; Hedwig Laube, Religion in Kolbenheyers Werk,  tiré à part édité par la Kolbenheyer-Gesellschaft, Nuremberg, 1989; Karl Hein, "Er hieß Kolbenheyer und schuf den biologischen Sozialismus für das 21. Jahrhundert", in Elemente, Kassel, 4, 1990.

mercredi, 29 octobre 2008

H. von Hofmannsthal et "l'enténèbrement du monde"

Hugo von Hofmannsthal et « l’enténèbrement du monde »

jeudi, 09 octobre 2008

Note sur Otto Weininger

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Note sur Otto Weininger (1880-1903)

 

 

«Quel homme étrange, énigmatique, ce Weininger!», écrivait August Strindberg à son ami Artur Gerber, immédiatement après le suicide d'Otto Weininger, âgé de 23 ans. «Weininger mi ha chiarito molte cose» [= “Weininger m'a éclairé sur beaucoup de choses”], avouait Mussolini dans son long entretien avec Emil Ludwig. Pour Ernst Bloch, l'ouvrage principal de Weininger, Sexe et caractère,  était “une unique anti-utopie contre la femme”, Weininger était dès lors un “misogyne extrême”, un misogyne par excellence. Theodor Lessing posait le diagnostique suivant: il voyait en Weininger la typique “haine de soi” des Juifs. Rudolf Steiner voyait en lui un “génie décadant”. Il fut admiré par Karl Kraus, Wittgenstein et Schönberg; Mach, Bergson, Georg Simmel et Fritz Mauthner l'ont lu et l'ont critiqué. Son ouvrage principal a connu quelque trente éditions, a été traduit en vingt langues; en 1953, il a même été traduit en hébreu malgré son antisémitisme. Plus d'une douzaine de livres ont été consacrés jusqu'ici à Weininger seul.

 

Otto Weininger est né en 1880 à Vienne. Très tôt, il a été marqué par le souffle, d'abord fort léger, de la décadence imminente. C'était la Vienne fin de siècle, avec Hofmannstahl, Schnitzler et Nestroy, Wittgenstein et le Cercle de Vienne, l'empiro-criticisme et la psychanalyse freudienne, Mahler et Schönberg, Viktor Adler et Karl Lueger: une grande richesse intellectuelle, mais marquée déjà du sceau de la fin. L'effervescence intellectuelle de Vienne semble d'ailleurs se récapituler toute entière dans la personne de Weininger: il développe des efforts intellectuels intenses qui finissent par provoquer son auto-destruction. Et il a fini par se suicider le jour de sa promotion, ce Juif converti au protestantisme, ce philosophe qui était passé du positivisme à la métaphysique mystique et symbolique; en peu d'années, cet homme très jeune était devenu une sorte de Polyhistor qui naviguait à l'aise tant dans l'univers des sciences naturelles que dans celui des beaux arts, qui connaissait en détail toutes les philosophies d'Europe et d'Asie, qui savait toutes les langues classiques et les principales langues modernes d'Europe (y compris le norvégien, grâce à son admiration pour Ibsen).

 

Pourquoi ce jeune homme si brillant s'est-il tiré une balle dans la tête le 4 octobre 1903, quelques mois après la parution de son ouvrage principal, dans la maison où mourut jadis Beethoven?

 

«Seule la mort pourra m'apprendre le sens de la vie», avait-il un jour écrit. Et il avait dit à son ami Gerber: «Je vais me tuer, pour ne pas devoir en tuer d'autres». Bien qu'il ait toujours considéré que le suicide était un signe de lâcheté, il s'est senti contraint au suicide, tenaillé qu'il était pas un énorme sentiment de cul­pabilité. Ce qui nous ramène à son œuvre et à sa pensée, où la catégorie de la culpabilité occupe une place centrale. La culpabilité, pour Weininger, c'est, en dernière instance, le monde empirique.

 

Après avoir rapidement rompu avec le néo-positivisme de Mach et d'Avenarius, Weininger développe tout un système métaphysique, une philosophie dualiste au sens de Platon et des néo-platoniciens, du chris­tianisme et de Kant. D'une part, nous avons ce monde de la sensualité, de l'espace et du temps, c'est-à-dire le Néant. De l'autre, nous avons le monde intelligible, soit le monde de la liberté, de l'éthique et de la logique, de l'éternité et des valeurs: le Tout. Le monde empirique, selon Weininger, n'a de réalité que sym­bolique; c'est pourquoi, inlassablement, il approfondit la signification symbolique de chaque chose empi­rique, de chaque plante, de chaque animal, au fur et à mesure qu'elle se révèle à son regard mystique. Ainsi, la forêt est le symbole du secret; le cheval, le symbole de la folie (on songe tout de suite à cette ex­périence-clé de Nietzsche, se jetant au cou d'une cheval à Turin en 1889!); le chien, celui du crime; et ce sont justement des cauchemars, où des chiens entrent en jeu, qui ont tourmenté Weininger, tenaillé par ses sentiments de culpabilité, immédiatement avant son suicide.

 

Ce qui est caractéristique pour tous les efforts philosophiques de Weininger, est un élément qu'il partage avec toutes les autres philosophies dualistes, soit une nostalgie catégorique pour l'éternité, pour le monde de l'absolu et de l'immuable. En guise d'introduction à cette métaphysique, citons, à partir de son ouvrage principal, cette caractérologie philosophique des sexes, aussi bizarre que substantielle. Cette caractérologie reflète finalement son dualisme métaphysique fondamental. Le principe masculin est le re­présentant du Tout. Le principe féminin, le représentant du Néant. Cette antinomie, posée par Weininger est à la source de bien des quiproquos. En fait, il ne parle pas d'hommes et de femmes empiriques, mais d'idéaltypes. Tout être empirique contient une certaine combinaison de principe masculin et de principe féminin, de “M” et de “F” comme Weininger les désigne. Cette notion d'androgyne, il la doit à Platon (Sym­po­sion)  et il cherche à expliquer, par les différences dans les combinaisons entre ces deux élé­ments, quelles sont les lois régissant les affinités sexuelles, notamment l'homosexualité et le féminisme.

 

Sur base de son analyse des deux idéaltypes, Weininger voulait jeter les fondements d'une psychologie philosophique et remettre radicalement en question la psychologie de tradition anglo-saxonne, qu'il ju­geait être dépourvue de substance. Le principe “M” est donc l'idée platonicienne de l'homme et le véhicule du génie, qui, grâce à sa créativité, sa logique et son sens de l'éthique, participe au monde intelligible. Le principe “F”, en revanche, n'est que sexualité, au-delà de toute logique et de toute éthique; en fin de compte, il est le Néant et la culpabilité qui tourmente le principe masculin. Le principe “F” est incapable d'amour, car tout amour véritable naît d'une volonté de valeur, ce qui manque totalement au principe fé­minin. En conséquence, pense Weininger, la véritable émancipation de la femme serait justement de dé­passer et de transcender ce principe féminin; le raisonnement de Weininger est très analogue à celui de Marx dans La question juive,  quand l'auteur du Capital donne ses recettes pour résoudre celle-ci.

 

Weininger consacre tout un chapitre au judaïsme et, en lisant, on s'aperçoit immédiatement qu'il ne s'agit pas seulement d'une manifestation de “haine de soi”, typiquement juive, mais, bien plutôt d'une analyse profonde, introspective et psychologique de l'essence du judaïsme. Weininger pose la question de savoir si sont exactes les théories qui affirment que les Juifs constituent le plus féminin et le moins religieux de tous les peuples; certaines de ses analyses en ce domaine, comme du reste dans les chapitres sur le crime et la folie, la maternité et la prostitution, l'érotisme et l'esthétique, sont magistrales, véritablement géniales, mais aussi, en bien des aspects, déplacées, naïves ou exagérément exaltées.

 

Ce qui en impose dans l'œuvre de Weininger, c'est qu'il tente de penser à fond et d'étayer son anti-fémi­nisme et de l'inclure dans un système métaphysique de type néo-platonicien. Certes, il y a eu des doc­trines anti-féministes à toutes les époques, et qui n'exprimaient pas seulement une quelconque misogy­nie, mais qui apercevaient clairement que le féminisme était une de ces idéologies égalitaires qui entravait le chemin des femmes vers une réelle affirmation d'elles-mêmes. Mais, à l'exception des idées de Schopenhauer, jamais l'anti-féminisme n'a été esquissé avec autant de force et de fougue philosophiques que chez le jeune philosophe viennois.

 

Mladen SCHWARTZ.

(texte issu de Criticón, n°64, mars-avril 1981; trad. française: Robert Steuckers).

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vendredi, 03 octobre 2008

H.Chr. Strache: vainqueur à Vienne

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Hans B. von SOTHEN:

 

Heinz-Christian Strache: vainqueur à Vienne

 

Heinz-Christian Strache a réussi un véritable exploit que l’on aurait jugé tout-à-fait impossible en avril 2005, lorsque Jörg Haider venait de quitter la FPÖ et de fonder sa nouvelle liste électorale, “Bündnis Zukunft Österreich” (“Alliance pour l’Avenir de l’Autriche”), tout en laissant, à l’aile nationale, la FPÖ résiduaire, vouée en apparence à la disparition définitive. Né en 1969 à Vienne, Strache est technicien-dentiste, père de deux enfants et divorcé; il a non seulement préservé les “Freiheitlichen” du déclin mais a tiré ce parti, qui n’avait alors plus que 4%, de l’insignifiance et a refait de lui le troisième parti d’Autriche, cette fois en concurrence avec Jörg Haider. En peu de temps, il a su redonner une identité et de l’optimisme à la FPÖ.

 

Mais les blessures du temps de la rupture sont loin d’être cicatrisées. Strache et la FPÖ ne peuvent pas pardonner Haider d’avoir voulu détruire le parti et, avec lui, l’ensemble de ce que l’on appelle en Autriche le “Troisième Camp” (“Dritter Lager”), rien que pour former un “mouvement” tourné vers lui seul, vers sa seule personne. La déception face à l’infidélité du “père fondateur” était née, toutefois, un peu avant cette rupture, lorsque Haider avait déclaré, au début de l’année 2005, qu’il n’avait rien à redire quant à une éventuelle adhésion turque à l’UE.

 

C’est pourquoi Strache a toujours rejeté abruptement toutes les tentatives de rapprochement, émanant de Haider. Lors d’un débat à l’ORF, le nouveau chef de la FPÖ a refusé le tutoiement que lui proposait Haider. Lors d’autres rencontres fortuites, l’Obmann (= chef de parti en Autriche) de la FPÖ ignore ostensiblement la présence de Haider.

 

La recette de Strache est simple: retour aux origines, retour aux thèmes propres de la première FPÖ. La formule, qu’il a trouvée, pour désigner son parti, “Die soziale Heimatpartei”, “Le parti social de la patrie (charnelle)”, attire l’électeur. L’élément proprement national ne constitue plus un thème habituel mais demeure indubitablement le facteur de cohésion dans les groupes de base de la FPÖ. En Autriche, contrairement à ce qui se passe en République Fédérale allemande, il n’existe pas seulement un parti “freiheitlich”, mais aussi un vivier politique de tradition “freiheitlich”, le “Dritte Lager”, le “Troisième Camp”. Camp auquel appartiennent également les frères devenus ennemis du BZÖ. Ce camp, tous clivages confondus, est devenu, dimanche dernier, et pour la première fois depuis la fin de la seconde guerre mondiale, la principale force politique d’Autriche. Mais cette situation, grisante en apparence, recèle bien des dangers.

 

Strache, le soir après le scrutin, a dû constater que Haider était le second vainqueur des élections et pouvait, lui aussi, fêter un succès inattendu. Strache a adressé ses meilleurs voeux de succès au Carinthien mal aimé, ce que quelques médias ont interprété comme une première tentative de rapprochement. Ce que Strache et les grands de la FPÖ ont démenti avec véhémence. Ils savent qu’en politique un et un ne font pas toujours deux et fort souvent moins de deux. Les cabrioles erratiques prévisibles de Haider deviendraient rapidement, en cas de rabibochage, les germes d’une nouvelle crise du “Troisième Camp”. Toute négociation en vue d’une réunification causerait des lézardes internes au sein de la FPÖ. De ce fait, à court ou moyen terme, Strache n’acceptera pas de retour en arrière.

 

Hans B. von SOTHEN.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°41/2008; trad. franç.: Robert Steuckers). 

jeudi, 28 août 2008

Brève note sur Heimito von Doderer

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Brève note sur Heimito von Doderer

Né le 5 septembre 1896, sous le nom de Franz Carl Heimito, Chevalier von Doderer, à Hadersdorf-Weidlingau et mort à Vienne le 23 décembre 1966, Heimito von Doderer fut un é­crivain autrichien, fils d'un architecte et entrepreneur de tra­vaux de construction. Il a servi comme aspirant dans un régiment de dragons pendant la première guerre mondiale. Il a été prisonnier pendant quatre ans en Russie [ndt: plus exac­tement, en Sibérie]. En 1920, il revient en Autriche, où il étudie l'histoire à Vienne, notamment sous la férule du Che­valier Heinrich von Srbik [ndt: et obtient son diplôme en 1925]. Sous la forte influence d'Albert Paris Gütersloh, il tente de s'initier au difficile métier d'écrivain. Il a com­men­cé, ainsi, mais sans grand succès, par publier des poèmes, de brèves nouvelles et des romans. En 1933, il adhère à la NSDAP, qui est interdite en Autriche à l'époque, mais la quit­te en 1938. Cette année-là, il accède enfin à une plus vaste notoriété grâce au roman Ein Mord den jeder begeht. En 1940, après sa conversion, il est accepté au sein de l'E­glise catholique. Pendant la seconde guerre mondiale, il sert en tant qu'officier de la force aérienne. Finalement, il acquiert la gloire par la publication de deux grands romans à thématique sociale, Die Strudlhofstiege (1951) et Die Dä­monen (1956).

La prose de Doderer se caractérise par une langue imagée, totalement inédite. Une série de motifs revient sans cesse dans son écriture, dont une critique systématique du pro­grès technique et de la civilisation moderne des grandes mé­tropoles; Doderer rejette aussi tous les linéaments de l'è­re des masses, qui empêchent, dit-il, le déploiement op­ti­mal de l'individualité personnelle. Il écrit, à ce propos: «Ce­lui qui appartient aux "masses", a d'ores et déjà perdu la liberté et peut s'installer où il veut».

Une adhésion à la plénitude complète du réel

[ndt: Le style littéraire de Doderer est largement influencé par Marcel Proust et Robert Musil, dans la mesure où, tout entier, il part, lui aussi, à la "recherche du temps perdu"; chez lui, cette recherche vise à retrouver les innombrables fractions de bonheur de l'Autriche-Hongrie d'avant 1914, en replongeant dans l'histoire sociale des hommes et des familles. Pour Doderer, le chaos de la société moderne ex­prime la crise de l'universalité, raison pour laquelle la tâ­che de l'écrivain doit être d'esquisser une nouvelle univer­salité, qui n'est évidemment pas un universalisme idéolo­gique à côté d'autres universalismes idéologiques, mais une adhésion à la plénitude complète du réel, comme on l'é­prou­vait généralement sans détours dans l'ancien empire da­nubien austro-hongrois. L'homme universel n'est pas un mo­dèle abstrait, taillé sur mesure une fois pour toutes, mais un être qui se manifeste sous des "variations multi­ples". En revanche, plongé dans le carcan étroit d'une "réa­lité seconde", faite de restrictions mutilantes de nature idéo­logique, il perd et son universalité et ses variations pour n'être plus qu'un instrument au service des pires bar­baries politisées de l'histoire. Heimito von Doderer dénonce l'idiotie immanente de toutes les positions doctrinaires, quel­les qu'elles soient. En cela, Doderer est disciple de Hoff­mansthal, qui disait: «L'idiotie, comme l'indique l'éty­mologie de ce mot étranger, n'est rien d'autre que l'auto-li­mitation de l'homme par lui-même». Une telle posture im­pli­que de revaloriser les communautés humaines, avec leurs échelles variables de formes sociales et de classes, contre l'uniformité grise des sociétés totalitaires, plaide si­mul­tanément pour une restauration des qualités humaines contre les affres de la quantité (Musil, Guénon). Uni­ver­sa­lité, variété et qualité impliquent de ce fait de respecter et de conserver le jeu des interpénétrations créatrices entre les éléments contradictoires du réel prolixe pour unir l'esprit conservateur et l'esprit émancipateur dans une quê­te permanente de la "totalité" (Ganzheit) ou, comme on le dit plus justement aujourd'hui en philosophie, l'"holicité" - RS].

Dans les ouvrages de Doderer, nous trouvons donc trois con­cepts centraux, présentés sous des facettes diverses: celui d'"aperception" (Apperzeption), celui de "seconde réalité" (zweite Wirklichkeit) et celui du "devenir-homme" (Mensch­werdung). Celui qui refuse de percevoir la réalité (telle qu'elle est), c'est-à-dire la réalité première, dit Doderer, fait éclore en lui, justement par ce refus de l'aperception, une seconde réalité, sous la forme d'une représentation fi­xiste (fixe Vorstellung) ou d'une idée-corset ou idée-cangue (Zwangsidee), ce qui correspond à une image du donné vi­ciée par l'idéologie. Doderer considère que l'Etat totalitaire constitue une "seconde réalité" de ce type, de même que ces volontés révolutionnaires et fébriles de vouloir tout changer, que le primat accordé névrotiquement à la politi­que, que les complexes d'ordre sexuel, que les névroses et que l'attachement forcené à certains systèmes et ordres.

La vie telle qu'elle est

Une bonne partie des personnages de l'univers romanesque de Doderer sont en lutte contre les formes de "seconde réa­lité". Les dépasser n'est possible que par un processus de "de­venir-homme", soit par le fait que l'homme revient ainsi à sa véritable destination, en s'ouvrant, de manière incon­ditionnelle, à la première réalité, la seule vraie, qui, pour Do­derer, est la vie civile naturelle, sans fard et sans exci­tations artificielles. Dans ce contexte, Doderer se réclame "de la vie telle qu'elle est" et nous enjoint de l'accepter. Il faut dès lors se détourner des fixismes idéologiques —qu'il désigne comme les "hémorroïdes de l'esprit"— des convic­tions et des idéaux qui sont soi-disant sublimes, pour s'a­don­ner à l'aperception pleine et entière du réel. Cette a­per­ception est essentiellement conservante  —ici, Doderer ar­ticule clairement sa position—  car celui qui adopte cette po­sition ne souhaite pas voir modifier ce qu'il aime ré­cep­tionner par "aperception" et se trouve autour de lui. Raison pour laquelle Doderer dit: «L'attitude fondamentale de l'hom­me apercevant est conservatrice».

Dr. Ulrich E. ZELLENBERG.

(extrait de "Lexikon des Konservatismus" - Caspar v. Schrenck-Notzing /Hrsg. - Leopold Stocker Verlag, Graz, 1996 - ISBN 3-7020-0760-1; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

dimanche, 29 juin 2008

Les "Oies Sauvages": soldats irlandais au service du Saint-Empire

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Les “Oies Sauvages”: les soldats irlandais au service du Saint-Empire pendant la Guerre de Trente Ans

Il y a plus de 380 ans commençait l'une des plus grandes ca­tastrophes de l'histoire européenne, dont nous subissons en­core aujourd'hui les séquelles: la Guerre de Trente Ans.

Je vais raconter ici l'histoire d'une armée de sans-patrie, dont les soldats ont combattu sur tous les champs de ba­tail­le de la Guerre de Trente Ans en Europe centrale. On les appelait les “Oies Sauvages” (Wild Geese) et on les com­pa­rait à ces oiseaux migrateurs qui quittent à inter­val­les réguliers leur verte patrie insulaire. Mais à la différence des oies sauvages, les Catholiques irlandais, chassés de leur patrie au 17ième siècle, ne connaissaient qu'un départ sans retour vers le continent. Presque jamais ils ne revenaient en Irlande.

Des marins français les introduisaient clandestinement sur le continent via la Flandre ou la Normandie. Débarqués, ils étaient confrontés au néant. Mais ils étaient libres. Un flot ininterrompu de mercenaires irlandais sont ainsi arrivés en Europe continentale. Ils étaient des hommes jeunes ou des adolescents, à peine sorti de l'enfance: la plupart d'entre eux n'avaient que quinze ou seize ans, les plus âgés en a­vaient dix-neuf. Ils voulaient faire quelque chose de leur vie ou du moins voulaient être libres.

Après 1600, l'histoire irlandaise s'était interrompue. Le pays é­tait devenu une colonie anglaise, où les Tudors, pour la pre­mière fois, avaient appliqué la tactique de la terre brû­lée. Les autochtones irlandais ont été dépossédés de leurs ter­res. Leur sol leur a été arraché. On y a implanté des co­lons protestants anglais ou écossais.

Systématiquement, la colonisation de modèle normand dé­mon­trait son efficacité. Déjà, dans la foulée de leurs cam­pagnes contre les Anglo-Saxons à partir de 1066, les Nor­mands vainqueurs perpétraient des destructions sans nom pour confisquer définitivement leur histoire aux vaincus. On brûlait leurs villages, on rasait leurs églises et leurs bâ­ti­ments, de façon à ne plus laisser la moindre pierre qui soit un souvenir de leur culture. Ravage, pillage et violen­ce, oppression systématique, famine organisée contre la population: toutes les tactiques utilisées plus tard par les Anglais en Amérique, puis par les Américains ailleurs, ont été mises au point en Irlande.

Une force militaire inutilisée

Pourtant, sur cette île ruinée par la colonisation anglaise, il y avait une force militaire inutilisée. Les Irlandais étaient des soldats farouches qui ne craignaient pas la mort. Ils se feront rapidement une solide renommée dans les batailles. Ils étaient commandés par des officiers compétents, d'ex­cel­lente réputation, qui feront l'admiration de tous sur le con­tinent.

Dans le Saint-Empire Romain de la Nation Germanique, diri­gé par un Empereur catholique, beaucoup d'Irlandais deve­nus apatrides ont vu un allié puissant voire une puissance protectrice au passé glorieux. Par milliers, ils sont venus s'en­gager au service de cet Empereur de la lignée des Habs­bourgs. Beaucoup sont parvenus en Autriche à la suite de pé­riples fort aventureux.

La première vague d'immigrants irlandais est arrivée en 1619 en Autriche. Ces jeunes hommes combatifs ont débar­qué sur le continent de deux manières totalement diffé­ren­tes. Les uns sont arrivés par des voies clandestines, opéra­tion osée dans la mesure où les fugitifs de ce type ris­quaient la peine de mort. Les autres ont été recrutés de for­ces par les Anglais en Irlande et, contre leur volonté, ont dû servir dans l'armée anglaise protestante. Sur base de traité qui unissait l'Angleterre aux princes d'Allemagne du Nord, ils se sont retrouvés sur le continent dans des unités auxiliaires anglaises au début de la Guerre de Trente Ans. Par une ironie du destin, comme souvent dans les guerres an­ciennes, il n'y avait quasiment pas d'Anglais ethnique dans ces troupes, mis à part quelques officiers supérieurs. La plupart de ces soldats étaient donc “déportés” hors des Iles Britanniques et ces Irlandais encombrants s'en allaient ainsi mourir sur le Continent comme chaire à canons. Les Anglais s'en débarrassaient à bon compte.

Une infanterie montée

Ces Irlandais avaient été incorporés dans des Régiments de Dragons, où les pertes étaient généralement très élevées. Mais au début du 17ième siècle, ces Irlandais profitent de la première occasion pour se rendre sans combattre aux trou­pes impériales catholiques. Très vite, ils enfilent l'uniforme autrichien. L'Empire aligne ainsi ses premiers régiments ir­landais. La plupart de ces Irlandais choisissent de servir dans les dragons. A l'époque, cette cavalerie était très ap­préciée et on la surnommait “l'infanterie montée”. Les hom­mes se déplaçaient à cheval mais combattaient à pied. Ils étaient très rapides et très mobiles et ne dépendaient pas vraiment du cheval comme la cavalerie proprement di­te. Dans une certaine mesure, ces dragons constituaient une troupe d'élite, crainte et admirée, dont le cri de guerre est devenu vite célèbre: “Den Weg frei!” (La voie libre!). Ra­pières au clair, ils fonçaient dans les rangs ennemis.

Les Anglais eux-mêmes, comme tous les autres officiers pro­testants, respectaient ces mercenaires irlandais au ser­vice de l'Empereur et les traitaient mieux qu'ils ne les a­vaient jamais traité en Irlande, alors qu'ils étaient devenus leurs ennemis. Ainsi, les Roi de Suède Gustave Adolphe fit soigner les soldats catholiques irlandais après la bataille de Francfort-sur-l'Oder au printemps de 1631, lors de la prise de cette ville par les armées protestantes. Le Roi suédois admirait le courage des Irlandais au service de l'Autriche. L'officier irlandais Richard Walter Butler, au départ recruté de force par les Anglais, était passé aux Impériaux lors de la fameuse bataille de la Montagne Blanche en 1620. Il avait quitté le corps auxiliaire anglais. A Francfort-sur-l'O­der, il était parmi les blessés, sérieusement atteint. Un coup l'avait frappé au bras et sa hanche était percée d'un coup d'estoc. Le Roi de Suède fit soigner ce blessé. Après quelques mois de captivité, il fut libéré.

Les Britanniques respectaient cet ennemi qu'ils avaient as­servi et humilié jadis. Ces Irlandais jouaient souvent le rôle d'émissaires de l'Empereur, car ils maîtrisaient la langue an­glaise. Les nobles anglais les appréciaient et reconnais­saient pleinement leurs qualités d'émissaires ou d'inter­prè­tes. En 1635, quand la France catholique se joint à la coa­lition protestante et trahit le Saint Empire Romain de la Na­tion Germanique, la situation devient tragique pour les Ir­landais catholiques qui combattent désormais dans les deux camps. Soldats d'élite, on les excite les uns contre les au­­tres.

Certains volontaires servaient dans des armées protes­tan­tes. La France du Cardinal Richelieu avait besoin de bons soldats. Officiellement, elle était catholique et, par consé­quent, incitait bon nombre d'Irlandais à la servir. Les Irlan­dais qui traversaient le pays étaient sollicités à rejoindre ses armées. Leur confiance a été trahie par Richelieu qui, souvent, a envoyé ces hommes se battre contre leurs frè­res de sang, fidèles à la légitimité du Saint Empire.

Dévouement et respect pour l'Empereur

Ces soldats irlandais avaient un dévouement et un respect pour l'Empereur. Ils étaient les mercenaires les plus fidèles de la cause impériale et autrichienne. En Irlande même, l'a­mour du Saint Empire ne cessait de grandir, de même que le culte de la légitimité impériale. Les mercenaires af­fluaient sans cesse et s'engageaient dans l'armée autri­chien­ne. Souvent des familles entières débarquaient et par­fois tous les fils mouraient sur les champs de batailles, pour le salut du Saint-Empire.

Le Comte irlandais Richard Wallis, persécuté par les An­glais, arrive en 1622 avec ses deux fils pour se mettre au ser­vice de l'Empereur Ferdinand II. Nommé colonel, il se bat à la tête de son régiment irlandais à Lützen en novem­bre 1632, une bataille au sort indécis mais qui a exigé un lourd tribut de sang. Wallis y est grièvement blessé. Il meurt de ses blessures à Magdebourg. Son plus jeune fils, O­liver Wallis, reçoit de l'Empereur Ferdinand III un régi­ment d'infanterie. Il fera en Autriche une brillante carrière militaire. Dans les rangs de l'armée impériale, plusieurs ré­giments irlandais sont mis sur pied entre 1620 et 1643. Cha­que régiment comptait de 1000 à 1200 hommes. Le nombre des pertes a été très élevé. L'ennemi a parfois annihilé des ré­giments entiers d'Irlandais. Mais, rapidement, de nou­veaux volontaires permettent de les reconstituer. Avant d'ê­tre une nouvelle fois annihilés… Malgré ces pertes dra­ma­tiques, l'Autriche aligne plus de soldats irlandais à la fin de la Guerre de Trente Ans qu'au début.

L'intégration des immigrés de la Verte Eirinn

Les officiers (chaque régiment appartient à un colonel) é­taient allemands ou irlandais. Mais tous étaient acceptés. Parfois on mélangeait les recrues allemandes et irlandaises. Les survivants se sont presque tous installés en Autriche, de­venue leur nouvelle patrie. Jamais on ne les a considérés comme des étrangers. Ils étaient des Européens (chré­tiens), qui apprenaient très vite la langue du pays. Ils é­taient fidèles à l'Empereur, leurs mœurs et leur aspect phy­sique ne déconcertaient pas. Dans tous les pays apparte­nant à la monarchie des Habsbourgs, ces immigrés venus de la Verte Eirinn se sont immédiatement intégrés.

Pendant cette Guerre de Trente Ans, de vastes territoires de l'Empire ont été complètement dépeuplés à causes des opérations de guerre qui y ont fait rage. Il a fallu attendre la fin du 18ième siècle pour ramener le chiffre de la popu­la­tion centre-européenne à celui du 16ième siècle. Les pays du Nord du Danube, où les batailles ont été livrées, de même que les territoires catholiques de la Bavière, de la Souabe et de la Forêt Noire (ndt: et de la Franche-Comté impé­ria­le) ont dû être partiellement repeuplés.

Bon nombre d'Irlandais au service de l'Autriche sont ainsi de­venus colons, des fermiers qui ont reçu des chambres impériales le droit de mettre en valeur des biens fonciers abandonnés, dévastés ou négligés; il fallait recultiver des terres auparavant fertiles. Les Irlandais sont restés et ont participé à la reconstruction du Saint-Empire. Leurs des­cen­dants, élevés en Autriche, vivent encore parmi nous.

Alexander ERETH.

(article tiré de "Zur Zeit", n°21/1998; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

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