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jeudi, 07 avril 2011

La visione "corporativa" di Ugo Spirito

Nel 1935, il filosofo Ugo Spirito  (Arezzo, 1896 – Roma, 1979) presentava al Convegno di studi corporativi di Roma la sua relazione – intitolata Corporativismo e libertà – con la quale esprimeva la convinzione che la sfida al capitalismo dovesse essere vinta tanto sul piano tecnico quanto su quello spirituale, marcando una superiorità di tipo gerarchico-totalitario “in cui i valori umani si differenzino al massimo”. La concezione corporativistica di Spirito è infatti una visione, poiché non si derubrica a semplice metodologia, a insieme di processi di funzionalità tecnica, ma si eleva a momento spirituale nel quale la vita sociale si unifica moralmente “nella gioia del dare e del sacrificarsi”; in buona sostanza nel rifiuto di ogni fine privato dell’esistenza. In uno scritto del 1934, significativamente intitolato Il corporativismo come negazione dell’economia, Spirito afferma chiaramente che il corporativismo “non è economia, ma politica, morale, religione, essenza unica della rivoluzione fascista”. E proprio per questa ragione egli parlò di “comunismo gerarchico”, dove il primo termine va inteso in un senso assai distante da qualsiasi dogmatismo marxista-bolscevico; mentre il secondo rimanda alla libertà caratterizzata dal diritto al lavoro che seleziona un’èlite umana in grado di accedere ai vertici della comunità. Il comunismo inteso da Spirito è stile di vita più che sistema politico. Come scriverà nel 1947 in Filosofia del comunismo: “…Il comunismo può dare luogo ad istituzioni sociali e giuridiche…Può tendere ad una vita collettiva in cui il criterio di distribuzione dei beni sia fissato in funzione della produttività di ognuno; può eliminare le sperequazioni più gravi della vita attuale e le forme più chiare di sfruttamento. Ma detto questo risulta altresì è evidente che il comunismo può realizzarsi prima e senza la trasfigurazione della società, [può realizzarsi] in quella più profonda società che è in ognuno di noi – la societas in interiore homine – e che da noi soltanto acquista valore”. Il comunismo di Spirito è quindi più platonico che marxista, nell’affermazione che questo può realizzarsi prima e senza la rivoluzione delle strutture socio-economiche, in quanto rivoluzione interiore delle coscienze. Ma a questo proposito, Ugo Spirito chiarisce ulteriormente il suo punto di vista “Quando spontaneamente e gioiosamente rinuncio al di più, so di avere realizzato, anche nel mezzo del più anticomunistico regime politico, l’ideale del comunismo. Ideale che può sussistere non soltanto in un solo Paese…ma anche e soprattutto in un solo uomo, vale a dire nella coscienza del singolo; là dove può rivelarsi nella pura spiritualità”. Di qui l’apparentemente paradossale affermazione che non è il proletariato a costituire la forza realizzante l’avvento della società comunista – dato che esso aspira in fondo solo al comfort borghese. Soltanto il borghese che ha preso coscienza della metafisica comunista –cioè di una coscienza anticonsumistica – può rappresentare la forza trainante della Rivoluzione. 

Spirito contro la ‘Carta del Lavoro’ del 1927 

Per questo Ugo Spirito percepì come insufficiente la ‘Carta del Lavoro’ del 1927 che conservava gli aspetti di quel mondo borghese-capitalistico contro cui il fascismo, ispirandosi ad un’altra Carta, quella del Carnaro, era sorto. Il fascismo nasceva infatti per contrapporsi all’’individuocrazia’ liberale, affermando l’immanenza dello Stato nelle singole parti che lo compongono. Tuttavia, tentando di conciliare la proprietà privata con il dovere di metterla al servizio della collettività – al di là della reale capacità e volontà politica di trovare la giusta sintesi a tutto ciò – di fatto cedeva alla superiorità della prima, il cui diritto rimaneva intangibile. Nel Convegno di Ferrara del 1932, Spirito propose di tagliare il nodo di Gordio con la spada della “corporazione proprietaria”: tesi con la quale si affermava che la proprietà privata dei mezzi di produzione doveva passare alla corporazione intesa come corpo sociale intermedio tra individuo e Stato. In questo modo la Rivoluzione fascista avrebbe superato quella francese e la sua egoistica rivendicazione della proprietà privata, con un concetto di proprietà non più volto a fare di essa un inalienabile e assoluto diritto dell’individuo, ma una funzione utile all’interesse della Nazione. Concezione che in parte il fascismo faceva propria se pensiamo che la legge sulla Bonifica integrale autorizzava la revoca della proprietà qualora questa fosse stata lasciata inattiva. In ogni caso, se la ‘Carta del Lavoro’ aveva giustapposto l’interesse pubblico e quello privato, la tesi di Spirito tendeva a fonderli nell’identità di capitale e lavoro, di sindacalismo e proprietà. Con la corporazione “proprietaria”, il capitale sarebbe infatti passato dagli azionisti ai lavoratori, i quali avrebbero acquisito la proprietà in base a meriti gerarchici determinati da competenza e impegno. 

L’’eresia’ di Ugo Spirito venne immediatamente tacciata di bolscevismo. Reazione abbastanza scontata, anche perché lo stesso filosofo chiuse la sua relazione ferrarese dichiarò che la proposta da lui fatta andava verso un certo tipo di ‘socialismo nazionale’. Se l’oggi vedeva contrapposti Fascismo e Bolscevismo, il domani sarebbe stato di quel sistema che avrebbe saputo non negare l’altro, ma incorporarlo e superarlo in una forma più elevata. Ragione per cui “il Fascismo ha il dovere di fare sentire che esso rappresenta una forza costruttrice storicamente all’avanguardia, capace di lasciarsi alle spalle, dopo averli riassorbiti, Socialismo e Bolscevismo”. Chiuse il convegno il ministro Giuseppe Bottai (1895 –1959) che difese l’autonomia di corporazione, sindacato, impresa e Stato che Spirito voleva fondere nella già citata ‘corporazione proprietaria’; ma che nel contempo prese le distanze da quelli che, indossata la “maschera di cartone” del liberalismo, consideravano conclusa la sperimentazione corporativa. 

Il periodo della ‘rielaborazione’ 

Negli anni successivi, Ugo Spirito abbandonò la tesi ‘eretica’ sostenuta a Ferrara, pur riaffermando costantemente il carattere pubblicistico della proprietà e dichiarando un controsenso il concepirla privatisticamente. Tanto più che la fondazione dell’IRI sembrò a tutti gli effetti un passo avanti verso il riconoscimento della proprietà come res pubblica, attraverso un deciso intervento dello Stato in economia. Ancora nel 1941, Spirito scriveva in Guerra rivoluzionaria (rimasto inedito fino al 1989) che la Rivoluzione fascista non avrebbe mai condotto ad un comunismo ‘livellatore’, figlio diretto delle democrazie liberali: “Non aristocrazia ereditaria e neppure il suo astratto opposto segnato dalla democrazia maggioritaria, bensì la gerarchia di tutti continuamente formantesi e rinnovantesi nell’assolvimento delle funzioni sociali, dalle più elevate e complesse alle più umili e semplici. Non comunismo, dunque, fondato sul peso della massa come numero, ma ‘comunismo gerarchico’, ossia collaborazione di tutti all’opera comune, determinata in ogni suo aspetto con il solo criterio della competenza”. Proprio in quell’anno, tuttavia, il nuovo Codice civile stabiliva sì la funzione sociale della proprietà, ma ne tutelava comunque il carattere privatistico. La necessità di conseguire scopi sociali veniva affidata dunque all’impulso individuale e all’iniziativa del proprietario secondo la nota favola liberale, stando alla quale dall’interesse privato di alcuni nascerebbe l’utile per tutti. Nulla di strano però, se consideriamo i mille compromessi con le forze borghesi e clericali, con i grandi gruppi finanziari che certamente trovavano sponda e sostegno nella monarchia “borghese” dei Savoia, ai quali era ormai costretto il fascismo. Quando però la trahison des clercs – cioè il vero o presunto abbandono del fascismo da parte della borghesia – e il tradimento del re fecero venire meno la ragione stessa dei compromessi, fu però possibile un’accelerazione dell’evoluzione del sistema corporativo in direzione delle tesi di Spirito. Ma ciò avvenne troppo tardi, soprattutto in quanto il regime aveva ormai di fronte un ostacolo nuovo, oltre che poco disposto a compromessi: la Germania. La necessità da parte di quest’ultima di trasferire in patria lavoratori italiani e di utilizzare pure le industrie ubicate in Nord Italia per le proprie necessità, comportò l’opposizione del generale Hans Leyers, capo della Commissione Guerra e Armamenti del Nord d’Italia, al processo di socializzazione.  

Fu comunque significativo che il ‘Manifesto’ di Verona venne redatto dal segretario del partito Alessandro Pavolini insieme con Nicola Bombacci, e rivisto infine dal duce. Nel documento si parlò di socializzazione, ovvero della cooperazione delle forze del lavoro nella gestione delle imprese, eliminando così il dualismo tra lavoratori e datori di lavoro. Nella sostanza, l’obiettivo era certo quello di un miglioramento delle condizioni di vita degli operai delle industrie – il cui appoggio risultava fondamentale anche per la Repubblica Sociale Italiana – anche se attraverso la ‘socializzazione’  si riproponeva di realizzare una nuova concezione del lavoro, capace di sviluppare un senso di appartenenza, di solidarietà, di responsabilità. Un ethos capace di rivoluzionare il rapporto tra cittadini e quello tra popolo e Stato. Il lavoro si sarebbe ‘spiritualizzato’ poiché il peso fondamentale non sarebbe stato più attribuito alla semplice materialità del possesso dei mezzi di produzione. Ed era poi il senso di quanto il filosofo Giovanni Gentile, maestro di Spirito ebbe a dire in Genesi e struttura della società a proposito dell’Umanesimo del lavoro. Detto ciò, occorre riconoscere che la “corporazione proprietaria” di Spirito si spinse oltre la stessa socializzazione che, in ogni caso, avrebbe conservato il principio della proprietà privata intesa come beneficio esclusivo del capitalista.

 Il ruolo sociale ed etico della Corporazione 

Spirito attribuiva infatti la proprietà dei mezzi di produzione alla corporazione, affermando che la stessa produzione, avendo un ruolo sociale, non avrebbe potuto di conseguenza essere abbandonata all’arbitrio individuale del proprietario. La tesi di Spirito eliminava dunque ogni rischio; ma la socializzazione lasciò però uno spiraglio di cui i capitalisti del Nord seppero approfittare. Essa ebbe comunque il merito di introdurre principi di quel ‘socialismo nazionale’ auspicato da Spirito, riconsegnando dignità spirituale al lavoro e al lavoratore, nel rifiuto di ogni materialismo marxistico, di ogni determinismo storico e della lotta di classe. A guerra conclusa, il CNLAI dominato dai comunisti decretò l’abrogazione della legge sulla socializzazione delle imprese. E mentre il bolscevismo non abolì il capitalismo, la ‘socializzazione’ ebbe il merito di sapere ipotizzare un ‘socialismo nazionale’ assai prossimo alla Volksgemeinschaft, la Comunità di popolo tedesca. Un organismo in grado di eliminare ogni antagonismo di classe e capace di realizzare nelle aziende un modello di Stato nazionalsocialista. Ma la fine del Secondo Conflitto fece naufragare anche questo tentativo rivoluzionario, consentendo al mondo borghese-capitalistico si riappropriarsi dei suoi privilegi. Tuttavia, pochi anni dopo in Filosofia del comunismo, Spirito scriveva ancora: “…la civiltà liberale e borghese ha potuto fare della libertà il monopolio di una classe solo a patto che i molti non liberi ne pagassero il prezzo; ma se oggi la stessa libertà vuole essere rivendicata da tutti, sì che nessuno resti a condizionarne il privilegio, la lotta di classe si muta in lotta di gruppi e di individui, tutti al privilegio anelanti e tutti impegnati nella corsa degli egoismi più sfrenati. La presunta libertà diventa il principio della disgregazione, dell’atomismo e del conseguente caos, del quale già si avvertono i segni premonitori. Perché a questa logica sia dato sottrarsi, occorre vivere di un’altra fede, credere in un nuovo mondo sociale, che vada al di là del liberalismo e realizzi nella comunità degli uomini un ideale che non sia quello del tornaconto del singolo e del calcolo economico di chi guarda alla propria persona come centro del mondo”. Negli anni successivi, questa fede prese per Spirito sempre più il nome di comunismo; ma nonostante una sua certa ammirazione per il mondo sovietico (che ebbe modo di visitare in un viaggio di appena un mese), il comunismo di Spirito si identificava pur sempre in una forma di  ‘corporativismo antindividualistico’ e antimaterialistico che con il realismo sovietico non aveva proprio nulla da spartire. 

Rielaborazioni. La ‘nuova religione’  

Nello scritto del 1958, Cristianesimo e comunismo, Spirito vide nel socialismo e nel comunismo addirittura i veri continuatori della ‘rivoluzione cristiana’ in virtù della rivendicazione della dignità del lavoro nelle sue forme più umili e per la definitiva negazione della proprietà privata, caposaldo della rivoluzione borghese. Il comunismo avrebbe realizzato ciò non con la lotta di partito e con le sue rivendicazioni – che Spirito giudicava  mere continuazioni del mondo borghese – ma trasformandosi in ‘nuova metafisica’ e ‘nuova religione’ fondata sul rifiuto dello stesso principio individualistico. Un ideale compiuto che avrebbe consegnato alle coscienze un programma che “nasce dalla collaborazione di tutti, come ragione d’essere di una vita comune” in cui la volontà di ognuno si risolve nella volontà sociale. “Nessuno appartiene più a se stesso perché ognuno diventa soltanto parte di un organismo e dell’organismo acquista il carattere superiore, la forza, la coscienza e la finalità”. Ora, agli inizi del XXI secolo, dove il principio individualistico e il privilegio borghese sembrano avere trionfato ovunque, al di là del nome che ognuno di noi attribuisce alla ‘nuova fede’ di cui parla Spirito, non si può tralasciare di realizzarla dentro di noi, affinché la civiltà europea possa ancora guardare al futuro con un briciolo di speranza.

Rodolfo Sideri

jeudi, 24 mars 2011

Feminism & the Destruction of the West

Feminism & the Destruction of the West:
Steve Moxon’s The Woman Racket

Richard HOSTE

Ex: http://counter-currents.com/

Steve Moxon
The Woman Racket: The New Science Explaining How the Sexes Relate at Work, at Play and in Society
Charlottesville, Va.: Imprint Academic, 2008

womanracket.jpgMost of my readers would agree that the West’s modern political correctness regarding race and gender is an insult to the intelligence of anyone who has given any thought to human nature and its evolutionary source. So the triumph of the PC ideology needs an explanation. With regards to feminism, Steve Moxon thinks he has an answer. In The Woman Racket, he looks to evolutionary psychology to shed light on our prejudices and documents how they lead to misperceptions about the sexes and how that in turn leads to failed policy.

The Hatred of the Beta Male

First, there was asexual reproduction. One day, mother nature brought two proto-gametes together, and they (how?) ended up mixing. This process gave an advantage to the offspring by diluting replication errors (the majority of mutations are harmful). The two gametes were not exactly the same size and by natural selection eventually became polarized. The larger ones, being less numerous and harder to produce, became the “limiting factor” in reproduction. The proto-sperms, on the other hand, became numerous, competitive with one another for proto-eggs and “cheaper.”

This far-fetched story of the origins of sex explains gender differences. Little boys, like little sperm in abiogenesis, wrestle and compete in sports. As adults, mating with a female that has unfit genes costs less (or did, before the government or at least culture stepped in) than the equivalent mistake would for a female so they are less picky sexually. Eggs are expensive, sperm is cheap. That’s why we’re most horrified when women and children, the most genetically valuable, are killed in war.

The story gets even more interesting than that. For the species to survive, nature still wants those with the best genes to reproduce. Since the male world is where competition is, males have a wider distribution of talents. In numerous traits, the male bell curve has wider tails while females are clustered near the middle. People want the males who are at the bottom, or even the vast majority that aren’t alpha, out of the gene pool, and we have a subconscious contempt for them. Cultural norms enforce this hierarchy. There’s a Saturday Night Live skit where the difference between a man who gets a date and one who gets charged with sexual harassment is looks and charm. The male hierarchy is rigorously enforced by both sexes. This “good of the species (or at least race)” explanation goes further than Dawkins’s more simplistic selfish gene model in explaining why for example humans are so ready to submit to hierarchies even against their interests. The result is that while just about any woman can be sure to find male attention somewhere, there is no such consolation for low-ranking males.

Moxon challenges conventional wisdom that says it is women that are and have been historically disadvantaged. He wonders why men being the only ones allowed to engage in work, which for most of history was much more hellacious than the worst jobs today, is seen as an advantage. And even if being able to work is an advantage, up until the present era it was necessary for one person to stay home to manage the household. This is nature’s division of labor and the basis of primate life. In pre-historic times things were even worse for men. In some groups of hunter-gatherers 50% or more would be killed in violent combat while all women who were healthy enough could expect to survive to adulthood.

To ask whether men or women are “advantaged” is as meaningless as wondering if infants are advantaged relative to their grandparents. The sexes live in different worlds, and each is happier living a life more congruent with its respective nature. Trying to bridge them has been a disaster. In Britain the percentage of women engaged in full-time permanent work is no greater than it was 150 years ago. Moxon provides evidence that this is due to women’s choices rather than discrimination. In fact, in 1996 Riach and Rich sent out similar résumés to employers with only the sex of the applicant being different. ‘Emma’ got four times as many job offers as ‘Phillip.’ Women being less inclined to work is predicted from an evolutionary perspective. Since a woman’s mate value is based on her youth and beauty rather than status, working for any reason beyond getting the bare essentials for life is pointless.

Perception and Reality: Rape and Domestic Violence

There are two chapters in this book at the start of which the author makes extraordinary claims. The reader is eventually shocked to find that the evidence is there. First, false claims of rape are at least as common as the real thing. The Home Office in England investigated rape claims in 1999 and found that 45% were false charges; the woman retracted completely. This is only a low end number of rape charges that are false, since one would have to think that not every woman who lied eventually admitted it. Investigations in the UK, New Zealand, and the US show that police officers with experiences in rape cases believe that 50-80% of claims are false. Compare the media attention given to women who are raped compared to men who are wrongly convicted.

Studies show that the number of rapes in US male prisons dwarfs all cases on the outside. Yet, it’s a joke in our society, and some even see it as criminals getting their just desserts. It’s really a grotesque thing to laugh at, considering the AIDS epidemic in US prisons making a stint of any duration in jail a possible death sentence. Evolutionary psychology tells us why male rape is funny while a person making a joke about female rape is banished from respectable society. A man who rapes a woman is violating the rules of the male hierarchy by gaining a mate that his genes don’t merit, and our nature makes this objectionable to us.

The second shocking claim is that the majority of instances of domestic violence, even the serious stuff, is female on male. Men who aren’t psychopaths have a natural aversion to hitting women, while women have no aversion to hitting men. They can do so knowing that the man won’t hit back and that when the cops come they’ll be the ones believed no matter what. The cultural Marxists and feminists use our natural favoritism towards women to make men into an oppressor class. Reality says that so-called violence towards women isn’t part of some “patriarchy,” but largely a myth.

The War on the Family

Feminists demand “equality” only when it’s convenient for women. They complain about the lack of women CEOs and political leaders but never about the lack of female mechanics or plumbers. Women demand equal pay but after divorce should get 50% of what the man earns. All that aside, the government’s intrusion into family life in the name of feminism has been the greatest disaster of all. Moxon focuses on his native England but the same story could be told of any Western country.

In 2007, former Labor minister for welfare reform Frank Field calculated that a woman with two children working 16 hours a week for minimum wage receives after tax credit as much as she would if she was living with a man and they worked 116 hours a week between them. With these kinds of incentives for reckless and irresponsible behavior it’s not a wonder why the number of out-of-wedlock births in Western societies has multiplied in the last few decades but why most white children still end up in two parent households. Moxon says that human nature can’t be changed, but he’s too optimistic. Harpending and Cochran’s The 10,000 Year Explosion: How Civilization Accelerated Human Evolution shows us that evolution in civilized societies can happen very quickly. Each generation of Westerners is going to be less intelligent, less responsible, and less moral the longer the welfare state and feminism survive.

Family courts show the same bias against men that the rest of modern political life does. Women initiate 80-90% of divorces (with the financial incentives no doubt playing a part in the decision), but men are assumed to be the guilty party. The latter are responsible for paying child support but have no guarantee of seeing their own children. All of a sudden, equality goes out the window, and men are required to be providers for women who no longer want them. Judges have even ruled that men may be forced to pay for children that aren’t even theirs. In the US a man can at least get a prenuptial agreement, but in England they aren’t even enforceable in court. It bears repeating: after reading The Woman Racket and investigating feminism’s influence on the law and culture the reader won’t wonder why the modern family has been breaking apart but how it even survives at all.

Another White Man’s Disease

Moxon’s theory of women being favored, like many things, makes sense in the Western world but not universally. He says about Middle Eastern culture

The very different experience of Muslim and Hebraic cultures–where social practices are derived primarily from canonical text rather than the codification of biological imperatives–is the exception that proves the rule. Indeed a plausible argument could be made that the ‘patriarchal’ moral and legal codes deriving from the ‘religions of the book’ are an attempt to redress the imbalance revealed by the practice of ‘natural’ societies.

But doesn’t that seem backwards? Wouldn’t we expect that culture and religion would work with a group’s nature instead of “fixing imbalances?” Kevin MacDonald makes the case in his paper “What Makes Western Culture Unique?” that inherent racial differences are reflected in and reinforced by religious and cultural practices. Like with the question of race and IQ, it is more reasonable to assume differences than similarity in the kinds of societies we expect different groups to create. I wonder if Moxon really believes that Afghans or Saudis are inherently just as likely to fall for “The Woman Racket” and adopt society destroying feminism as Swedes are.

Racial differences can also help explain why no group of whites has reacted to incentives for irresponsibility the way black Americans have. In 2007 the black out-of-wedlock birth rate hit an all-time high of 72%. Africans are not only looser sexually but have different ideas about the obligations of men and women. Steve Sailer writes that in the West “feminists complain that men lock women out of the world of work. But in Africa, men have always ceded most of the world of work to women.” We see the same thing with regards to out-of-wedlock birth rate to a lesser extent with America’s growing Latino population. East Asians may have birth rates as low as the West, but you still don’t see Western style feminism or rampant anti-men discrimination. We all share certain qualities going back to the primordial ooze, but different environments have had plenty of time to tweak our differences since then. While there are pluses and minuses to each system, feminism seems to be like racial masochism: a curse that only affects whites.

Moxon may have been smart to avoid the racial issue here. For a mainstream book you have to pick your battles. It’s easier to get people to accept gender differences than it is to accept ones having to do with race. After all, many of us don’t have much contact with other races but we all have at least some experience with the opposite sex. We don’t know what the future holds but what’s certain is that the current system can’t last. With the IQ and productivity of nations falling due to immigration and differential birthrates and the rapid spread of inferior genes due to relaxation of selection and government subsidies the question isn’t if the collapse is coming but how soon.

Originally published at HBD Books, June 3, 2009.

00:10 Publié dans Livre, Sociologie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : livre, sociologie, féminisme, etats-unis, steve moxon | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

lundi, 21 mars 2011

Manning Up

Manning Up

Amanda Bradley

ex: http://www.counter-currents.com/

Kay S. Hymowitz
Manning Up: How the Rise of Women Has Turned Men into Boys
New York: Basic Books, 2011

I expected this book to be a diatribe against the often-discussed “loser” men—those who, not having any marketable skill, are still living off their parents into mid-life. Manning Up actually is about a new demographic, the SYM (single young male), its female counterpart, and what factors led to the decline in marriage and number of children in the Western world. Simply having a job is not enough to be a man in the author’s view; true adulthood means being married and having children. Most young men and women are what she calls “preadults.”

 Kay S. Hymowitz, a senior fellow at the Manhattan Institute, has written extensively on issues of marriage, the sexes, class, and race, and she appears to be genuinely concerned about the declining rates in marriage childbirth. Her stance is slanted in favor of women, but she is sympathetic to the plight of men today. She mentions that boys are often discriminated against and ignored in favor of women. While funds pour in to increase girls’ math and science scores, boys are not given special treatment to improve their reading scores. She cites a BusinessWeek story that explains today’s young men as a “payback generation” intended to “compensate for the advantages given to males in the past.”

The Shift to the Feminine, Knowledge Economy

Scholars attribute women’s entry into the workforce largely to innovations in science and technology in the twentieth century. With no need to can food, make bread, weave, or sew, women were not “needed” at home the way they were in every generation past. They were having fewer children, too, due to birth control: In the early 1800s, white women had an average of seven children. By 1900, it was 3.56. When the birth control pill was introduced in the 1960s, state laws “kept the drug away from unmarried women.” Economist Martha Baily showed that when a state changed its law, there was a decline in the percentage of young women who gave birth by age 22, and an increase in the number of young women in the labor force and the hours they worked.

The number of working women (ages 33 to 45) went from 25 percent in 1950, to 46 percent in 1970, to about 60 percent since 1995. But in the 1950s to ’70s, women tended to work to help pay the bills, often as secretaries, waitresses, nurses, teachers, and librarians. Today’s young women set out in the world to find their “passion” not in a husband, but in a career.

The shift from secretary to major player in corporate America, Hymowitz explains, was largely due to a shift from an industrial economy to a knowledge economy. By the 1980s, the economy was booming as manufacturing jobs decreased and millions of positions opened in fields like public relations, health, and law. Women, too weak physically to participate much in the industrial economy, could do almost any job in the knowledge economy.

One example given is design. As technology advanced, designers transitioned from working with their hands (and making lasting work as is found in Bauhaus and Art Nouveau) to being hands-off fashion designers, who no longer needed to learn drafting, typesetting, drawing, or how to use heavy equipment. Using cheap labor overseas meant many more products, and thus a greater need for marketing and advertising. Women now make up 60 percent of design students, once a male-dominated field.

New industries sprouted up, too, as increased wealth and leisure time demanded workers at yoga centers, spas, travel companies, and more marketing and ad agencies for these specialty industries—all areas in which women participate as easily as men. Working women had new needs and money to spend, so more industries sprouted up to create feminine business suits, trendy lunch spots, meal “helpers,” stylish computer bags, $400 work pumps, $5 lattes, spa treatments and scented candles to help women unwind, houses with bathrooms the size of our grandparents’ bedrooms, a variety of products in the color pink, and right-hand rings for women who want to buy themselves a diamond. Other women entered the design arena through boutique companies: making jewelry, crafts, or custom stationary.

Nation-building and culture-building thus fell out of the workforce, replaced by sales, marketing, and fashion.

Today, men outnumber women in fields like construction (88 percent), while women make up 51 percent of management and professionals, particularly in fields like Human Resources, Public Relations, and finance. Women make up 77 percent of workers in education and health services. Women are more likely to work at the numerous new nonprofits, and make up 78 percent of psychology majors, 61 percent of humanities majors, and 60 percent of social and behavioral science doctorates. Publishing has long had high numbers of women workers, but now women have moved from what Hymowitz calls the “ladies’ magazines ghettos” to political commentary.

While women moved into the knowledge economy, men remained in behind-the-scenes fields that required more technical skill: jobs like writing code and IT. Some men flocked to jobs at ESPN, Cartoon Network, microbreweries, and video game design firms. Other men knew that even in the midst of feminism, their wives would still want the option to stay home and raise children (so long as men didn’t tell them they had to), and concentrated on high-paying jobs rather than following their bliss.

In the early nineteenth century, most men worked for themselves, as farmers, small merchants, or tradesmen. But by the end of the nineteenth century, two-thirds were working for “the man.” Some experts believe that it’s women who will soon be “running the place,” since the knowledge economy workplace “requires a more feminine style of leadership.” Employers will increasingly placate women, who are not solely concerned with the bottom line as a measure of their career success, but also want a job where they “help others,” enjoy relationships with colleagues, get recognition, have flexibility, and are in an environment of “collaboration and teamwork.” More women in the workplace means that it is more genteel and less of a man’s club: Swearing and spitting are forbidden, and men are now in a domesticated atmosphere both at home and at work. The popularity of psychoanalysis means that men and women alike are trained to listen sympathetically, be sensitive to emotions, and control their anger.

To explain the dynamics of the knowledge economy, Hymowitz references a 2002 paper by Harvard economist Brian Jacob called “Where the Boys Aren’t.” He found that girls are better at noncognitive tasks, such as keeping track of homework, working well with others, and organization, and suggests that such skills may explain the gender gap in high school grades and college admissions (women have higher GPAs and are 58 percent of college graduates, but they lag behind men in math SAT scores). These cognitive skills also are important for success in today’s feminized workplace.

Though not mentioned in Manning Up, these skills are also ones for which men have traditionally relied on women: organizing the home, keeping track of appointments, and being the family PR rep and social coordinator. Today’s women benefit in the career-world, as more jobs require good communication skills and “EQ” (emotional intelligence), while men are left with lower paying jobs and the added disadvantage of no wife at home.

SYMs: The New Demographic

In 1970, 80 percent of men aged 25–29 were married, compared to 40 percent in 2007. In 1970, 85 percent of men aged 30–34 were married, compared to 60 percent in 2007.

This new single-young-male demographic used to be called “elusive,” since it was a difficult advertising target. Then Maxim arrived in America in 1997, and seemed to have the answers to what SYMs wanted. Its readership reached 2.5 million in 2009, more than the combined circulation of GQ, Men’s Journal, and Esquire. Hymowitz says other magazines, like Playboy and Esquire, tried to project the “image of an intelligent, cultured, and au courant sort of man.” Even though Playboy promoted the image of the eternal bachelor, he was at least an intelligent and sophisticated bachelor. (Hugh Hefner wrote that his readers enjoyed “inviting a female acquaintance in for a quiet discussion of Picasso, Nietzsche, jazz, sex.”) Maxim, however, catered to the man who didn’t want to grow up.

Hymowitz doesn’t buy into the idea that the masses of men are moved by the media (or an inner party seeking to destroy them, let alone any subversive forces dominant in the Kali Yuga). She instead posits that products like Maxim were developed for an existing market.

Regardless of the reason, a number of TV shows were created with the SYM in mind, starting with The Simpsons. Comedy Central brought out South Park and The Man Show, while the Cartoon Network promoted cartoons for grown men. More films featured SYM stars like Will Ferrell, Ben Stiller, Jim Carrey, and Jack Black, and movies like 2003’s Old School (30-somethings who start a fraternity) were popular. American men ages 18–34 are now the biggest users of video games, with 48.2 percent owning a console and playing an average of 2 hours and 43 minutes per day. That doesn’t include online games like World of Warcraft.

Hymowitz recounts the numerous silly Adam Sandler movies, in which he plays a stereotypical young adult, male loser. Meanwhile, the media’s counter-image for women is the well-heeled, single young female:

If she is ambitious, he is a slacker. If she is hyper-organized and self-directed, he tends toward passivity and vagueness. If she is preternaturally mature, he is happily not. Their opposition is stylistic as well: she drinks sophisticated cocktails in mirrored bars, he burps up beer on ratty sofas. She spends her hard-earned money on mani-pedi outings, his goes toward World of Warcraft and gadgets.

It’s in this chapter that Hymowitz’s double-standard for men and women is most apparent, and annoying. She seems to think that when single women spend money for clothes and pedicures, it’s women’s empowerment, but single men who spend money on guy-flicks and video games are childish. Both cases seem to me examples of adults who, instead of having children, make themselves into the child: men by continuing all the games and comic books of their youth, and women by playing Barbie doll with themselves.

So if simply cutting the financial apron strings doesn’t make one a man, what does? Hymowitz answers by looking to masculine virtues throughout all cultures: “strength, courage, resolve, and sexual potency,” but that one line is about the extent of the analysis. She is careful to distinguish between having sex (which single men do a lot these days) and “manning up” by being married and becoming the head of a family.

But even when men do settle down, the roles they play as fathers have changed. Rather than being a strong father figure, today’s father often relates to his children by “accentuating his own immaturity,” according to Gary Cross, author of Men to Boys: The Making of Modern Immaturity. Whether they want to or not, middle-class men are often “expected to bring home a spirit of playfulness that would have scandalized their own patriarchal fathers.” The middle-class home has became more child-centric, even with fewer children in it, and both sexes are expected to project “warmth, nurturing, and gentleness.”

With high divorce rates, many young men today were raised in matriarchal family environments, which may be one contributing factor to the “unmanliness” of some of today’s men. Instead of having their own families, some men instead play the role of the “fun uncle,” like men in matriarchal, non-white societies.

A Different Dating World

After college, all of these single young people embark on a journey more confusing than if they started a family: modern dating, now with websites that describe the etiquette for one-night stands (it’s “leave quickly”).

Men and women are both confused by the new rituals, and the lack thereof. A man who inadvertently insults a girl by not opening her car door may have been chastised by his last girlfriend for doing just that. Women sometimes “pick up” guys (whether at bars, or actually driving to pick them up for dates), and there is ambiguity about who pays for dates when SYFs outearn SYMs in the majority of large cities. Men experience the nice-guy conundrum when they see girls dating jerks. Meanwhile, women practice a Zen-like nonattachment when dating, since bringing up marriage before a year of sex seems to turn men off.

Hymowitz recounts a number of events from the childhood of young women that play into their behavior as adults: Today’s SYFs were often told by their mothers that they shouldn’t need a man to be happy. They were likely raised in the 1990s, in the midst of a tween-based advertising frenzy that marketed make-up, thong underwear, and high-heeled clogs to preteens, while at the same time trying to “save the self-esteem” of young girls. Popular TV shows for girls were based on the female warrior type: The Powerpuff Girls, Xena: Warrior Princess, and Buffy the Vampire Slayer. These women try to convince themselves for years that they shouldn’t “need” a child or husband, then end up debating whether to become a “choice mother” (the new term for a woman who uses sperm bank).

 

* * *

 

Manning Up might be a good “beach book” for women readers of Counter-Currents, but I have trouble imagining men enjoying it, though they would find some insights into the mind of the typical woman. I found it interesting for its wealth of statistics about marriage rates and ages, men and women in the workplace and universities, and summaries of various causes that contributed to the (mostly white) single and childless young men and women today.

There have been numerous debates on Counter-Currents and other websites about what exactly has caused the decline in marriage and childbirth. Manning Up does a good job of touching on some of the contributing forces, but never addresses any of the larger forces.

The good news from Manning Up is that the majority of young men and women still want to get married and have children. In addition, while women in their early 20s are “hot commodities,” by the time they reach 30, they are beginning to get desperate and may “settle for Mr. Good Enough” as the subtitle of the book Marry Him advises. More good news lies in the fact that young people today are scrambling for any advice whatsoever about how to successfully date and marry, revealing a large market for New Righters and Traditionalists to step into to help young people successfully navigate through the increasingly unsatisfying modern world.

vendredi, 18 mars 2011

Bonald's Theory of the Nobility

Bonald’s Theory of the Nobility

F. Roger Devlin

Ex: http://www.counter-currents.com/

bonald.jpgUnlike Edmund Burke and Joseph de Maistre, Louis de Bonald devoted little space to analyzing the French Revolution itself. His focus instead was on understanding the traditional society which had been swept away. His review of Mme. de Staël’s Considerations on the Principal Events of the French Revolution, e.g., ends up turning into a theory of the nobility and its function. Bonald scholar Christopher Olaf Blum calls this “his most original contribution to the theory of the counter-revolution.”

Any advanced society requires men who devote themselves to the public good in preference to the private good of their families. This is particularly so in the professions of law and war: Bonald calls judges and warriors “merely the internal and external means of society’s conservation,” and hence the two fundamentally political or public professions.

To entice men into public service, two things are required. First, such men must be economically independent. They cannot rely on the changeable will of an employer who pays them a salary, however generous. Nor would their public duties allow them leisure to busy themselves with commerce. Therefore they must be landholders.

Second, men must be socialized to see public service as an honor and a distinction:

The [pre-revolutionary] constitution said to every private family: “when you have fulfilled your destination in domestic society, which is to acquire an independent property through work, order and thrift—when, that is, you have acquired enough that you have no need of others and are able to serve the state at your own expense, from your own income and, if necessary, with your capital—the greatest honor to which you can aspire will be to pass into the order particularly devoted to the service of the state.

In reality, this is a kind of noble fiction: the service nobility’s “distinction, by a strange reversal of conceptions, has seemed, even to them, to be a prerogative, while it is in fact nothing but servitude.” Their own interest would dictate their continued devotion to their families and the concerns of private life.

Pre-revolutionary France had a remarkable way of filling public offices: they were sold. Known as the “venality of offices,” the system is most often cited as an example of the irrationality of the ancien régime’s finances. Liberal historians especially have criticized the system for delaying the onset of large-scale capitalism in France: instead of expanding their commercial operations indefinitely, successful merchants would convert their fortunes into land in order to purchase more ‘honorable’ offices for themselves or their sons. Bonald warmly defends the custom:

There could be no more moral institution than one which, by the most honorable motive, gave an example of disinterestedness to men devoured by a thirst for money in a society in which the passion was a fertile source of injustice and crime. There could be no better policy than to stop, by a powerful yet voluntary means, and by the motive of honor, the immoderate accumulation of wealth in the same hands.

A large payment for occupying offices of public trust, he says, functioned as proof of a candidate’s independence and disinterestedness. The ‘opening of careers  to talents’ (which the Revolution made such a fuss over) merely encouraged bribery and endless strife over who was talented. Open venality was, strange to say, the more objective procedure.

Bonald contrasts the service nobility of France favorably with what he calls the political nobility of England: the English peers were “no body of nobles destined to serve political power but a senate destined to exercise it.” Nor were they wholly devoted to public duties: “The peer who makes laws for three months of the year sells linens for the other nine.”

The liberal might respond that “private” linen merchants are serving the public just as much as judges or military men: they provide merchandise to the “general public.” Contemporary libertarians have effectively satirized the notion of “public servants” who consume half our incomes, while “selfish businessmen” labor so that we may feed, clothe, and house ourselves more cheaply than any people in history.

Bonald mentions someone’s suggestion that actors be considered “public servants” since they perform for the public: this notion was universally and deservedly ridiculed, even by many who could not explain why actors were not “public men.”

The case with merchants is similar: “the merchant who arranges for a whole fleet of sugar and coffee serves individuals no less than the shopkeeper who sells them to me.” But the soldier who sacrifices his life for his country does not act merely for the benefit of the particular persons who make up the country at a particular moment. Justice has a similar irreducibly impersonal or universal intention: it is ideally “blind” or without regard for persons. Economic thinking cannot account for these types of human action.

(The philosophically inclined may wish to consult my discussion of the essential difference between universalist vs. particularist action in Alexandre Kojeve and the Outcome of Modern Thought, p. 92ff. Bonald’s views on this matter are quite similar to Hegel’s.)

It should be acknowledged that Bonald’s theory of the nobility is an idealizing interpretation. Since the time of Louis XIV, the grande noblesse at Versailles had not performed much of any function, and well before the Revolution, many noblemen bore a closer resemblance to the dissolute characters in Les liaisons dangereuses than to the ideal type described by Bonald. As Blum says, “in making [his] argument, [Bonald] was a reformer, for the French nobility had shown itself willing to jettison its duties in favor of the kind of freedom that would enable them, the wealthy, to dominate more effectively and without the hindrance of traditional strictures.”

Recommended reading:

Louis de Bonald
The True & Only Wealth of Nations: Essays on Family, Economy, & Society
Translated by Christopher Olaf Blum
Naples, Fla.: Sapientia Press of Ave Maria University, 2006

Critics of the Enlightenment: Readings in the French Counter-Revolutionary Tradition
Edited and translated by Christopher Olaf Blum
Wilmington, Del.: ISI Books, 2004

Louis de Bonald
On Divorce
Translated and edited by Nicholas Davidson
New Brunswick, N.J.: Transaction Publishers, 1992

TOQ Online, Dec. 4, 2009

mardi, 22 février 2011

Multiculturalism is Dead - Where Do We Bury the Body?

Multiculturalism is Dead – Where Do We Bury the Body?

By Jim GOAD

Ex: http://takimag.com/

Suicide.jpgI’ll never forget a painting I saw at a West Berlin youth hostel in 1985. The background depicted bombed-out ruins, presumably Dresden after the Allied firestorm. In the foreground were two women, their backs to us as they faced the charred, blown-out buildings. One woman was starting to lift her arm in a Sieg Heil salute, while the other rushed to grab her arm and stop her.

What a weird image it was, mixing national pride with national defeat and national self-loathing.

After World War II ended, no nation on Earth has been force-fed as many Guilt Sandwiches as the Germans, despite the fact that they’d lost seven to nine million of their own Volk in that conflict. One never hears about “the nine million.” It’s nearly verboten to even mention them.

When I saw that painting in 1985, Germany had already endured four decades of post-WWII shaming. Despite all that, I knew that sooner or later, that one lady would tire of holding down the other lady’s arm.

Sixty-five years after World War II’s end, Germany is finally becoming OK with being German again. On October 16 while addressing her Christian Democratic Union party, German Chancellor Angela Merkel said:

In Frankfurt am Main, two out of three children under the age of five have an immigrant background.…This multicultural approach, saying that we simply live side by side and are happy about each other, this approach has failed, utterly failed.

Loud applause greeted that last sentence.

For five years running, the stout, doughy Merkel has been Nummer Eins on Forbes magazine’s list of “The World’s Most Powerful Women,” so her statement is no small potatoes. But only a month earlier, Merkel was telling Germans that they should get used to seeing more mosques in their country. She was also condemning Thilo Sarrazin’s “absurd, insane opinions” as expressed in his shockingly popular book Germany Abolishes Itself.

It’s unclear why Merkel has suddenly shifted her ample hips rightward. She could be responding to recent polls showing that six in ten Germans would like to see Islam restricted, three in ten say they feel their country is “overrun by foreigners,” seventeen percent say that Jews have an undue influence over German affairs [oops!], and thirteen percent say they’d welcome a new Führer [now hold it right there!].

There go those pesky Germans again, refusing to hate themselves. How dare a German say anything besides “I’m sorry” for the next thousand years?

I don’t see the upside to our newer, more multicultural America. The only thing we share is the currency, and maybe that was the point all along.

Everyone expected the Germans to get an attitude sooner or later—after all, they’re the Germans. What seems more troubling, at least to the sworn enemies of All Things European, is that all of Europe seems to be getting the same attitude simultaneously.

What one might refer to as indigenous Europeans—you know, the palefaces, the Ice People, the Ghost Men, the Evil Aryans, the Abominable Snowmen—are beginning to chafe at the iron rainbow to which they’ve been yoked since World War II. Geert Wilders has blossomed into a political force solely by promising to protect Dutch culture from Islamofascism. An anti-immigration party just placed twenty anti-immigration asses into the Swedish Parliament’s seats. France is goin’ wild banning burqas and sending the Roma packing. The Swiss have flipped the bird at minarets. Putin’s brand of post-Soviet Russian nationalism is insanely popular, at least among insane Russians.

Even in the self-loathing, culturally obsequious, crushed-and-bleeding former empire that is the UK, comments in response to Merkel’s proclamation were lopsidedly in favor of what she said. Most of the anonymous online whisperers, presumably British nationals, agreed that multiculturalism was a colossal failure in their country as well.

Reading the comments, I saw parallels between Europe’s brand of “multiculturalism” and the American product. Both hither and yon, there’s anger about racial job quotas, oppressive speech codes, and double standards regarding who’s allowed to show ethnic pride.

What’s important is the way multikulti has unfolded and where. You don’t see such sensitivity training being forced upon anyone in Africa, Asia, the Middle East, or South America. You don’t hear China, Japan, or Israel being lectured to swing open their doors to foreigners. Almost exclusively, multiculturalism is a psychological marketing program designed for majority-white countries. Often, it is sold with the idea that whites are paying a historic debt, are reaping what they’ve sown, that what goes around comes around, that the wheel has turned full-circle, the chickens are coming home to roost, and that it’s time to pay the swarthy piper his due.

Country by country, continent by continent, there’s a sense that the newer, darker arrivals are receiving preferential treatment over those who’ve been there for generations. In the UK, it’s called “Positive Discrimination.” In America, it’s called “affirmative action” and “amnesty.” And across every border where whites are a majority, there’s a creeping sense that politicians don’t give a fuck about how they feel. They never asked for these new waves of immigrants, and they had no choice in this odd social-engineering experiment that’s demolishing whatever they used to share as a common culture.

Suddenly, this doesn’t seem so much like a celebration of all cultures as it does punishment of a specific culture. And that doesn’t sound like such a swell recipe for having everyone get along.

We’ll be continually reminded that European satellite nations such as Canada, the USA, and Australia were settled atop indigenous skulls, so the land-grabbing descendants of those race-murderers have no right to whine about being gradually wiped out themselves by newcomers.

Once again, for Christ’s sake, whether he’s dead or alive: Two wrongs don’t make a right. If colonialism was wrong then, it’s wrong now. Multiculturalism is merely colonialism with a prettier name. I realize and concede the fact that it awards us with a dazzling array of ethnic restaurants unparalleled in their tastiness.

Under multiculturalism, we have a wider selection of food…and no one talks to anyone anymore. Many of us now speak different languages and wouldn’t even know how to talk to one another. Rather than erasing borders, multiculturalism has merely created new borders within borders. Rather than destroying nationalism, it creates mini-nations within nations.

If we’re going to push multiculturalism’s glories, shouldn’t we point out where has it worked in the past? If diversity is a strength, why did stretched-too-thin empires such as ancient Rome and the Soviet Union eventually fall from the weight of their own diversity?

Stop calling me a racist and shoot some believable answers at me. I really want to hear them.

As always, the “chattering classes” are working out their postcolonial guilt complexes at the lower classes’ expense. Either they’ve known what they were doing all along or they haven’t, and I’m not sure which is worse.

It’s dangerous to ignore the fact that all the technology in the world, the ceaseless multicultural brainwashing that’s been laser-beamed into our eyeballs over the past 65 years, has not eradicated the basic human tendency to be tribal. If they didn’t fully murder such instincts in the Germans—and God fucking knows they tried hard with the Germans—maybe such instincts can’t be killed.

Yes, I realize we’re all human. If that’s your point, you’ve already made it—and, I might add, at a tremendous expense. What you fail to realize is that humans tend to be tribal. And if you get too many tribes, you don’t have a nation anymore.

I guess we should celebrate the fact that even though no one speaks to one another anymore, at least the people who aren’t speaking to one another are more “multicultural” than they used to be back when people actually spoke to one another.

What kind of newly enriched and suddenly empowered American culture do I see when I drive on the highway near my house? I see Wal-Mart, Chili’s, Motel 6, Wendy’s, and Home Depot. It could be Indianapolis. It could be Omaha. It could be Seattle. It could be anywhere in America. It happens to be Stone Mountain, GA, but you’d have no idea you were even in the South. In 2010, the only cultural landscape we share consists of familiar corporate logos. There’s no local flavor, no sense of indigenous culture. Things don’t seem richer, livelier, and more colorful; they’re empty, listless, and dead.

At least that’s how it feels to me. I don’t feel as if there’s any glue, cohesion, or sense of belonging in this society anymore. I’m feeling the anomie something awful. I don’t see the upside to our newer, more multicultural America. The only thing we share is the currency, and maybe that was the point all along.

Multiculturalism has failed, but it has only begun to fail. Now what? After constant states of flux, our society now seems fluxed-up beyond repair. How do we sort out the mess while avoiding more Trails of Tears?

Multiculturalism is dead, sure, but what do we do with the body? I’ve yet to hear a good burial plan, and I fear we may need one.

And what makes me most nervous is that I’m not even sure who “we” are.

dimanche, 20 février 2011

Kein Kulturrelativismus!

 

relativismeculturel.jpg

Kein Kulturrelativismus!

Götz KUBITSCHEK - http://www.sezession.de/

In der FAZ von heute warnt die Soziologin Necla Kelek zwei Zeitungsspalten lang vor dem Kulturrelativismus der Justizministerin Leutheusser-Schnarrenberger. Sie biedere sich den Muslimverbänden auf doppelte Weise an:

Zum einen wiederhole sie den alten Zopf, daß alle Religionen dieselben universellen Prinzipien verträten, und zwar ungeachtet ihrer institutionellen und somit geschichtlichen Entwicklung. Leutheusser-Schnarrenberger ignoriere dadurch etwa die Tatsache, daß der Islam bisher nirgendwo bereit sei, Religion und Politik zu trennen: Die Politik sei selbst nach gemäßigter islamischer Auffassung weiterhin den Glaubenssätzen untergeordnet. Das Christentum hingegen habe im Vergleich dazu seine Säkularisierung längst hinter sich.

Der Kulturrelativismus werde, so Kelek, noch deutlicher, wo die Justizministerin den Eindruck vermittle, „Grundgesetz und Scharia seinen nur unterschiedliche Möglichkeiten, Recht zu sprechen“ (wobei Leutheusser-Schnarrenberger das „vorurteilsbeladene“ Wort Scharia konsequent vermeide). Es gibt da also keine Wertung, keine Ablehnung einer den Deutschen wesensfremden und ihrem geschichtlichen Weg nicht angemessenen Religion und religiösen Praxis und Rechtssprechung: Stattdessen Relativierung als Ausdruck einer  — Kapitulation vor der Macht des Faktischen? Oder als Ausfluß einer tiefen inneren Ablehnung des Eigenen, des So-Seins? Einer Hoffnung auf Befreiung vom Wir?

Joschka Fischer hat solches in seinem Buch Risiko Deutschland ja schon vor zehn Jahren programmatisch auf den Punkt gebracht: Deutschland müsse von außen eingehegt und von innen durch Zustrom heterogenisiert, quasi „verdünnt“ werden. Leutheusser-Schnarrenbergers Kulturrelativismus ist – nach der bereits erfolgten Bevölkerungsheterogenisierung – ein Meilenstein auf dem Weg einer Rechts- und Institutionenheterogenisierung.

Das ist ein Angriff auf so ziemlich das letzte, was noch „Mark in den Knochen“ hat: Wo wir nämlich der Willens- und Schicksalsgemeinschaft schon seit langem entbehren, haben wir doch noch eine Rechtsgemeinschaft. Das ist eine Schwundstufe zwar im Vergleich zu dem, was einmal war, aber es ist viel, wenn man sich die Alternbativen ausmalte: uns nicht gemäßes Recht.

Im Zusammenhang mit Keleks Artikel in der heutigen FAZ sei auf das Themenheft „Islam“ der Sezession verwiesen, es sollte heute und morgen bei den Abonnenten eintreffen. Von Kulturrelativismus findet sich darin nicht viel, einiges aber vom Selbstbewußtsein, mit dem man der ebenso religiös wie institutionell dämmernden Überfremdung entgegentreten kann.

Den Inhalt des Heftes kann man hier einsehen.

jeudi, 17 février 2011

L'effet sablier (J-M. Vittori)

L'effet sablier (J-M. Vittori)

Ex: http://www.scriptoblog.com/ 

« L’effet sablier » est paru en octobre 2009. On pourrait le décrire comme une tentative d’optimisme sociologique tempéré en période de régression sociale majeure. C’est sans doute le caractère méritoire de l’exercice optimiste qui a valu à ce livre un certain succès : par les temps qui courent, tout le monde a envie de se convaincre qu’après tout, les choses ne vont pas aussi mal qu’il peut sembler de prime abord.

La thèse générale de « L’effet sablier » est que nous n’assistons pas à un simple écrasement des classes moyennes, mais plutôt à leur coupure en deux : une partie des classes moyennes descend, et va rejoindre les classes inférieures, mais une autre partie monte, et va rejoindre les classes supérieures.

Les anciennes sociétés d’ordre, nous rappelle Jean-Marc Vittori (JMV), présentaient une structure de revenus en « chapeau chinois » : un immense plateau en bas, une toute petite pointe en haut. Les sociétés issues des Trente Glorieuses, elles, proposaient une forme pyramidale aplatie, avec un « milieu » important. Les sociétés de demain, nous dit l’auteur de « L’effet sablier », auront la forme d’un sablier : deux classes et deux seulement ; un tiers de riches en haut, deux tiers de pauvres en bas.

 

*

 

Pour JMV, ce qui caractérise notre époque, c’est la disparition du milieu, dans tous les domaines. C’est cette disparition qui explique la montée de la peur dans nos sociétés : quand il n’y a plus de milieu, il n’y a plus de Purgatoire symbolique dans l’ordre social, ne reste que l’Enfer et le Paradis, et tous, même ceux qui sont au Paradis, tous ont peur de déchoir, d’aller en Enfer – car rien n’est acquis, jamais. Mais c’est aussi cette disparition du milieu qui explique la multiplication des grosses cylindrées dans nos rues : en pinçant la classe moyenne, la dynamique contemporaine en éjecte une partie vers le bas, mais elle en propulse une autre partie vers le haut.

La destruction de l’imaginaire des classes moyennes est au cœur de ce mécanisme, explique JMV. Les classes moyennes n’étaient en effet pas seulement « ce qui se trouve au milieu de la structure sociale ». C’était aussi, en tant que concept, l’affirmation implicite d’un imaginaire commun de progrès partagé par toute l’humanité, ou presque.

Aujourd’hui, cet imaginaire s’évanouit, en même temps que les catégories sociales dont il était la production idéologique spontanée.

Dans les entreprises, les échelons intermédiaires s’évanouissent : les progrès en matière de système d’information rendent possible un management « en râteau », avec une forte augmentation du nombre de N-1 par manager, et en corolaire, une forte réduction du nombre de niveaux hiérarchiques. Le passage au management par projet vient encore accentuer ce mécanisme. Les anciennes organisations hiérarchiques permettaient plus ou moins aux traînards de s’intégrer dans les processus de production dans les fonctions subalternes, où leur sous-performance était compensée par la surperformance de leurs collègues les plus efficaces. Les organisations par projet suppriment cette possibilité : désormais, les « maillons faibles » sont systématiquement éliminés. A l’ancienne pression hiérarchique, très relative, s’est substituée la pression du groupe, autrement plus redoutable, parce qu’un principe de concurrence permanente vient la relancer indéfiniment. La pression qui en  résulte « pince » la structure des entreprises : elle propulse un tiers de gagnants vers le haut, et deux tiers de perdants vers le bas. Et le bas de ce bas tombe, lui, dans l’exclusion pure et simple.

Dans les vitrines, le milieu de gamme se réduit à la portion congrue. Jadis, il y avait le bas de gamme, franchement mauvais (fromage plein de listéria, etc.) et réservé aux derniers quantiles de la structure sociale, le haut de gamme, franchement prestigieux (haute couture, etc.) et réservé à une toute petite minorité de nantis, et puis il y avait le « demi-luxe », le milieu de gamme, correct et accessible aux deux tiers de la population, deux tiers regroupés dans les classes moyennes. Aujourd’hui, nous dit JMV, il y a un bas de gamme très amélioré (correspondant peu ou prou au niveau de qualité de l’ancien « demi-luxe »), accessible à la « classe de masse » qui regroupe les deux tiers de la population, et un « nouveau haut de gamme », qui a fusionné le meilleur de l’ancien demi-luxe et l’ancien haut de gamme, et qui vise la clientèle du tiers supérieur en termes de revenus, ou à peu près.

Les deux évolutions s’adossent l’une à l’autre. La « partie haute » du sablier veut un haut de gamme accessible, en réalité un demi-luxe transformé en haut de gamme, tandis que la « partie basse » veut un bas de gamme élevé vers  le demi-luxe. Réciproquement, le gain en qualité attendu par cette nouvelle structure sociale impose des organisations de production plus souples, donc privilégiant l’organisation par projet, la réduction des niveaux hiérarchiques, la sous-traitance à des sociétés spécialisées qui n’embauchent que les meilleurs de chaque domaine. Partout, l’effet sablier entraîne une accentuation des concurrences, une dislocation des consciences de classe, une hyper individualisation anxiogène, et par contrecoup, une dépolitisation malsaine.

 

*

 

Telle est la thèse de JMV. Il est évident qu’elle recoupe en partie la réalité. Mais, à notre avis, en partie seulement…

Le point faible de « L’effet sablier » est l’absence de séries statistiques.

Si l’on s’intéresse à l’évolution des revenus par quantiles dans les sociétés occidentales, sur les dernières décennies, la thèse de JMV est fort mise à mal, et de deux façons.

D’une part, on observe que 80 % des accroissements de richesse tombe dans l’escarcelle des quelques pourcents du haut, voire, dans certains pays, dans celle du 1 % du haut. Cette donnée statistique ne correspond pas à un « effet sablier », mais plutôt à un « effet chapeau chinois », un retour aux structures des anciennes sociétés préindustrielles.

D’autre part, au sein des 95 % qui ne bénéficient pas des gains de richesse récents, on assiste plutôt à une concentration progressive autour du salaire médian, lequel a tendance à descendre en termes de pouvoir d’achat réel – tandis qu’une minorité, exclue, s’effondre littéralement. Soit exactement le contraire d’un « effet sablier » : on pourrait parler ici d’effet toupie, au niveau des classes moyennes stricto sensu.

JMV se défend en arguant que les changements majeurs échappent souvent aux chiffres, dans un premier temps du moins, et que l’observation qualitative, à tout prendre, vaut  largement l’appareillage statistique, quand il s’agit d’anticiper, et non simplement de décrire le présent. Il n’a probablement pas tout à fait tort, mais pour notre part, nous formulerons une autre hypothèse.

« L’effet sablier » ne rend pas compte de la réalité des structures de revenus de nos sociétés, mais de la réalité de leur perception. A côté des impacts chiffrés des évolutions récentes, celles-ci ont produit un fait non quantifiable par les statisticiens : un biais perceptif partagé par une très grande partie du corps social, et qui donne l’impression d’un « effet sablier ».

Il nous semble que trois faits concourent à renforcer ce biais perceptif : d’une part, l’exacerbation par la publicité des concurrences ostentatoires au sein de la classe moyenne (il y a ceux qui ont le dernier modèle de tel ou tel gadget, et les autres…) ; d’autre part, la crainte du déclassement débouche sur une focalisation perverse, et la politique suivie par les DRH, dans toutes les entreprises, renforce ce mécanisme psychologique (il y a ceux qui sont surmenés parce qu’on les « veut » sur tous les projets, et les autres, qui ne dorment plus parce qu’ils ont peur de se faire virer…) ; enfin, à un moment de l’Histoire où tout le monde pressent plus ou moins qu’on s’approche d’une rupture majeure, l’idée fait son chemin que cette rupture historique va fonctionner comme un test, comme une épreuve que certains passeront, et d’autres pas.

Du coup, les anciennes classes moyennes, pour ne pas voir qu’elles sont tout simplement en train de se transformer en gigantesques « nouvelles classes inférieures », s’exagèrent les différences qui les traversent, afin de reconstituer un espace de compétition à leur portée. C’est le syndrome du bobo en Audi d’occasion achetée à crédit, crédit exagéré au regard de son salaire de sous-chef de projet en position instable, et qui s’imagine dans la partie haute du « sablier » parce qu’il double sur l’autoroute un autre sous-chef de projet, plus prudent celui-là, qui roule dans une Citroën C2 neuve. A aucun moment, notre bobo sous-chef de projet en Audi d’occasion ne réalise qu’il vit au-dessus de ses moyens en profitant d’une politique monétaire laxiste, ainsi que du dumping salarial des sous-traitants d’Audi, en Europe de l’est ou ailleurs. Quoique : il est fort possible que notre sous-chef de projet en Audi ait voté « oui » au traité de Maastricht, tandis que son alter ego plus raisonnable, en Citroën C2, a voté non. Rien n’arrive par hasard.

Sous cet angle, il nous semble que le petit livre de JMV n’est pas révélateur de la réalité économique de nos sociétés, mais plutôt de leur réalité mentale collective – en particulier dans l’esprit de ces « analystes symboliques » qui font sans doute le gros du lectorat de JMV, et que l’implosion de l’économie virtualisée risque fort de rejeter du mauvais côté du sablier.

En quoi, d’ailleurs, « L’effet sablier » n’est pas un livre inintéressant : il nous renseigne un peu sur les illusions qui vont s’éteindre, à l’heure des vérités amères, et, en particulier, sur ces classes moyennes qui ne veulent pas voir qu’elles sont désormais, collectivement et sans exception aucune, programmées pour perdre.

 

mercredi, 16 février 2011

The Multicultural Mystique

The Multicultural Mystique, by Harriet E. Baber

The Multicultural Mystique: The Liberal Case Against Diversity
by Harriet E. Baber
Prometheus Books, 246 pages, $27.

This book caught my eye because it contains some of the most insightful and honest critique of multiculturalism I have ever read. On the other hand, its “solution” is to remove culture from the picture entirely, which is so brain-dead I have trouble respecting the book.

Onward to the good, however: this book gives us a working definition of each type of multiculturalism, albeit with hokey postmodern-style metaphors. The kind the author rails against is “salad bowl” multiculturalism, where members of different ethnic groups move to a new land and then stay segregated by ethnicity. The kind the author endorses is assimilation, or everyone giving up on their source culture and joining the new culture. Difficulty: the author admits that such a culture doesn’t exist, and just about goes far enough to admit that diversity kills it, but then launches on a praiseful tirade in favor of individualism and having no higher cultural goals.

The justification used for this course of action comes right out of the early 1990s. Baber distinguishes between “salient,” or components of our social identity, and non-salient attributes to individuals, like ethnicity. No attempt is made to address populations as organic wholes; in fact, that heresy against deconstruction is considered outside the realm of intelligent discourse. Her point is that majority cultures like indigenous whites in Europe and America do not have to notice their race (you can find this sentiment in any publication on “white privilege”) but that anyone else must.

For white Americans, ethnic identification is largely a matter of choice, since whiteness in the United States and Europe is nonsalient and, as it were, transparent. This is, indeed, the fundamental characteristic of “white privilege”: to be white is, in an important sense, to lack racial identity, to be “just regular” as regards race. (10)

At this point, her liberal thinking takes a turn toward the semi-Randian. Having expectations of culture imposed upon you, she says, limits your ability to be individualistic and to make individualistic choices because your ethnic group will enforce them upon you and if they don’t, society at large will project them on you. She uses delightful examples like overachieving black kids getting dinged for “acting white,” or clueless white people politely asking random black people to explain Kwanzaa.

However, ultimately her solution is a dumbed-down modern form of colonialism: import the people to your country, integrate them into your culture, and in a few generations they will have lost whatever origins they had. It is colonial because as she frequency points out, non-majority-ish populations get imported as cheap labor, with the hope and guess that they will depart when the wages go:

The worry that mass immigration will make receiving countries “too diverse” or that it will “thin out” their cultures is a sham. The fear is that immigrants will not remain sufficiently “diverse” to accept second-class jobs, do harsh jobs for low pay, and conveniently disappear when their labor is not needed. (233)

This passage shows the book in microcosm: insightful analysis that reveals the attitudes of Americans toward their imported diverse labor pool, coupled with editorializing that considers a few out of the many factors and plays fast and loose with the concept of ethnicity in contrast to culture.

Profundity and the same old boilerplate wrapped together in an easy package? It’s kind of like honor students who own that one Iron Maiden album so they can, you know, let loose and walk on the wild side every tenth Saturday night. If you write for the liberal establishment, you have to smother any dose of shock with a heaping helping of familiar territory.

Another example:

The relevant moral questions are: to what extent does the cultural self-affirmation of some members of a group have consequences for other members of the group and are those consequences so significant as to override rights to free speech, religious freedom, and self-expression? These rights are not absolute. (165)

Baber hones in on the central issue of modern time, which is whether our individualism is absolute, and comes down in favor of the absolute — without presenting an argument for it. Assumptions exist, and personal histories, but we’re not seeing a cause-effect reason for these assumptions. However, the question needed to be asked, and it’s better in print from a liberal source than from a conservative one which would immediately be dismissed by anyone left of center.

In this chapter, I also address the important question, rarely discussed, of when, if ever, ethnic diversity ends. Do multiculturalists imagine that the salad bowl is forever and that ethnic minorities will maintain distinct cultural identities in perpetuity without coalescing? It is hard to see how such an arrangement could be maintained without the establishment of a virtual millet system of semiautonomous communities maintaining their own schools, institutions, and, perhaps, systems of personal law with the approval and support of the state. (11)

These are very important questions. Baber does not ask what happens when the “majority” population the United States and Europe is in fact worldwide a minority population, and a wealthy one, which means that many more of them want to move here than there are members of the “majority” group. Do they get bred out? Do they have a right to exist as well? You won’t find that in this book.

The Multicultural Mystique may be fun because it is such a mixed bag. Baber brings up the important issues; she then explains them away with stock-in-trade liberal platitudes. Because the liberal modus operandi is to take an individualist position, and passive aggressively react to any assertion of a different viewpoint as if it were straight out of a hostile nation’s propaganda broadcast, she does what most political writers tend to do, which is cherry-pick sources. Why consider multiple factors, when there’s one you need? Why mention the breadth of an issue, when you can take data out of context and imply its relevance? A good deal of the arguments in this book conclude with her asserting an example that might support them, and as if that proof were evident, ending the paragraph.

In style, the book resembles much of the other popular literature from our philosophy departments. Its strength is that it makes its points clearly; its weakness is that it deconstructs so much that the entire document is not a strawman attack, but a strawman discussion, with theoretical beings existing in vacuums without time, place or context batting each other around using absolute concepts like individual rights. Much of it reeks of a lonely white woman alone in a Starbuck’s, writing from a stack of The Atlantic magazines and what she can find with Google, and not bothering to edit for circularity. Around we go again and again; fifty to a hundred pages could have dropped from this book with no loss in meaning.

For all of its faults and biases, however, The Multicultural Mystique won me over because it kicks open the door on several important issues: Assimilate or respect culture? We know this path will destroy culture and replace it with individual desire, right? No one is thinking past the immediate; most people who support diversity do so for low-cost lawn care and social identity points. And last but not least, what is the goal here? Do we want culture, or not, and if not, why? Many of these questions arise from the reading of the book and are not embedded in it, which makes it doubly impressive as a conversation starter.

Your average person will not find this book compelling because it is, without exception, and indulgently so, written in the “philosophical” style of lots of flavor-words for concepts, plenty of comma-separated phrases, with allusions to terms trending in academia. However, for those who are interested in this issue which since 1865 has dominated American and European politics, The Multicultural Mystique provides a good place to start your open-minded research by seeing what the best of the liberal side have to say.

You can find this book on Amazon for $27.

mardi, 15 février 2011

R.I.P. Multiculturalism

R.I.P. Multiculturalism

Long Live Multiculturalism

 
 
R.I.P. Multiculturalism
 

French president Nicholas Sarkozy has joined British Prime Minister David Cameron and German Chancellor Angela Merkel in announcing the failure of multiculturalism.

Sarkozy went a bit further than his colleagues:

"We have been too concerned about the identity of the person who was arriving and not enough about the identity of the country that was receiving him."

Very true.

If the French, British, and Germans had been concerned about preserving their historic national identities, they never would have embarked on the suicidal policies of multiculturalism and mass immigration in the first place.

Muslims have settled in Western Europe because they want to reap the benefits of Western security and economic prosperity. They have not come to Europe to become decadent libertines. Unchecked immigration from the Muslim world will only recreate Turkey in Germany, Pakistan in Britain, and North Africa in France.

What does President Sarkozy propose to do about the growing unassimilated Muslim minority in France? He said the French people don't want to see Muslims praying in "an ostentatious way" in the street.

The plan seems to be to create an attractive national identity that Muslims will want to assimilate to - what David Cameron calls "muscular liberalism" - ban a few symbolic things like burkas and then hope the Muslim minority will integrate into mainstream society. That way everyone in France can go back to sleep and Europe can snooze into its utopian liberal future.

Geert Wilders is the only European politician who seems to have seriously thought about the long term consequences of this type of willful neglect.

If the Muslims keep coming and the Dutch keep aborting their children and emigrating abroad, then eventually a tipping point will be reached wherein the Netherlands (and later Western Europe) will be transformed into Eurabia.

I don't see much to crow about in the conversion of these mainstream politicians. Merkel, Cameron, and Sarkozy might denounce multiculturalism, but they don't seem inclined to address the problem in a serious way.

Similarly, Barack Obama is against "illegal immigration" if you take his rhetoric at face value, but his policies show otherwise.

Still, this is at least a hopeful sign that grassroots pressure is on the rise in Europe and a positive indication that at some point down the road the peoples of Europe will rid themselves of the spineless politicians, take matters into their own hands, and do what needs to be done to secure their own destinies.

William L. Houston

William L. Houston

 

William L. Houston is a graduate of the University of Alabama. He works in the Washington, DC area.

lundi, 14 février 2011

Paradigmawisseling in Belgische context

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Paradigmawisseling in Belgische context

Julien BORREMANS

Ex: http://vlaamserepubliek.wordpress.com/

De federatie is in ontbinding. Andermaal wordt een poging ondernomen om de
trein weer op de rails te krijgen, maar niemand die er nog in gelooft. Zowel
bij de PS als bij de N-VA besef men heel goed dat de Belgische constructie
is uitgeleefd. Een alternatief ligt niet onmiddellijk in het verschiet.
Daarvoor liggen de meningen mijlenver uit elkaar.
We zijn getuige van een paradigmawisseling. Het Belgicisme sterft af en de
Vlaamse natievorming komt tot wasdom. Het is een niet te stuiten
ontwikkeling, die het best begrepen wordt door het werk van Thomas Kuhn, The
Structure of Scientific Revolutions (1962).

De wetenschapsfilosoof beschreef de kennisopbouw binnen de wetenschap in de
vorm van paradigma’s. De wetenschap zorgt ervoor dat steeds nieuwe
waarnemingen een bestaand wetenschappelijk model onder spanning zet.
Gedurende enige tijd is het mogelijk om mits kleine aanpassingen het model
te laten overleven. Maar weldra ontstaat een nieuwe theorie waarrond
wetenschappers zich verzamelen. Wetenschappers van de oude theorie
ontwikkelen weerstand tegen deze veranderingen. Wanneer de nieuwe theorie
succesvol blijkt, en steeds meer aanhang krijgt, spreekt men van een
paradigmaverschuiving. Dit kan leiden tot een dramatisch ander beeld van de
werkelijkheid.
Tijdens een paradigmawissel of wetenschappelijke revolutie is er geen
redelijke discussie tussen de oude en de nieuwe paradigma’s mogelijk. Zo
moest de klassieke Newtoniaanse benadering veld ruimen voor de algemene
relativiteitstheorie van Einstein.

Een paradigmawissel verloopt via een pad vol rupturen en conflicten. Tot
slot zal het nieuwe paradigma het halen omdat het nieuwe situaties en
voorvallen beter kan verklaren en op oude problemen een meer bevredigend
antwoord kan geven. Het oude paradigma sterft een gewisse dood en het nieuwe
triomfeert.
Uiteraard verloopt deze wissel niet altijd volgens dit scenario. Oude
paradigma’s blijven soms bestaan, omdat ze een brede machtsbasis hebben en
verworden zijn tot een starre geloofsleer. Deze ontwikkeling omschrijf ik
als een paradogma. De geloofsovertuiging is onbuigzaam en rationele
argumenten zijn ver zoek.

Khuns gedachtegang laat zich uitstekend lenen om de politieke ontwikkelingen
van de laatste jaren te interpreteren. België gold lang als model waar
conflicten tussen de verschillende volksgemeenschappen op een rationele en
vredevolle wijze werden beslecht. Maar het overlegmodel werkt niet meer. De
Belgische federatie zal weldra niet meer in staat zijn om haar eigen
kerntaken naar behoren uit te voeren. Enkele voorbeelden uit De Standaard
kunnen deze ontwikkeling illustreren: Het paradigma van het Belgicisme en
het multiculturalisme wordt ongeldig verklaard (DS 29 december). Onder de
kop ‘Vlaanderen splijt langzaam’ berichtte De Standaard eind oktober dat de
kloof tussen de midden- en de onderklasse alsmaar breder wordt. Jongeren met
ten hoogste een diploma lager secundair onderwijs stijgt weer. Op 5 januari
lazen we in dezelfde krant: “Inwijking vreemdelingen in Rand gaat gestaag
voort.” ‘Inburgering verloopt niet vlot.’
De jongste twintig jaar stijgen de huizenprijzen in ons land sneller dan
waar ook in het Westen. De lonen gingen niet eens half zo snel omhoog.
Gezinnen waarvoor wonen onbetaalbaar wordt: Vlaanderen (6,5%), Wallonië
(10%) en Brussel bijna 25%.

Het oude paradigma – met de nadruk op het Belgisch centralisme – werkt niet
meer, maar heeft nog steeds een sterke machtsbasis. De staatsdragende
partijen zoals PS, SP, MR, Open VLD, CD&V, CDH, Groen! en Ecolo beschikken
samen over een tweederde meerderheid maar slagen er niet in om het tij te
doen keren. Hun paradigma verliest veld. Aanhangers van het nieuwe paradigma
worden denigrerend als ‘separatisten’ omschreven, een geuzennaam.
Haaks daarop staat de wording van een nieuw paradigma dat vooral nadruk legt
op een vergaande bestuurlijke en sociaaleconomische ontvoogding. De motor
daarvan is ongetwijfeld de N-VA, maar kent enkel in Vlaanderen een
machtsbasis. Kritiek wordt moeilijk aanvaard en wordt ervaren als
volksverraad. De belangen en de denkkaders liggen heel ver uit elkaar en een
compromis ligt absoluut niet voor de hand. Integendeel!

De paradigmawissel verloopt stroef en stram. Het oude paradigma verstart en
verwordt tot een paradogma met zijn ‘gezwollen symbolen, historisch
verroeste denkkaders en verstikkende vetomechanismen’ (Carl Devos 11 januari
De Standaard). Rationele argumenten zijn ver zoek.
Door deze verstarring zal het nieuwe paradigma verder radicaliseren. De
vraag naar nog meer autonomie klinkt harder. Het geloof om de Belgische
structuren via de klassieke staatshervormingen te veranderen, neemt af. Het
pessimisme neemt toe. ‘Wat echt nodig is, is een fundamenteel andere aanpak
en nieuwe kijk op België… Maar misschien mogen we zelfs niet verwachten dat
het er ooit van komt.’ (Carl Devos 11 januari De Standaard). Als het
paradogma niet wijkt, wordt een Vlaamse staats onvermijdelijk.

Alsof het nog niet moeilijk genoeg is, ontwikkelt er zich een derde
paradigma: een groeiend kosmopolitisme (transnationale cummunities, elkaar
overlappende en wisselende identiteiten, hybride culturen) met het Engels
als lingua franca. Dit paradigma wordt gedragen door de instroom van
duizenden EU-burgers en allochtonen, die aan de klassieke communautaire
discussie weinig boodschap hebben. Dat dit een weerslag heeft op het sociale
weefsel, is in de grootsteden en Vlaams-Brabant duidelijk te zien. Uiteraard
versterkt dit in Vlaanderen de nood aan identitaire geborgenheid en
gemeenschapsgevoel.
België wordt een fragiele staat. De strijd tussen diverse paradigma’s
verlamt de federatie. Het oude Belgische paradogma zal sterven en moet
plaats maken voor nieuwe paradigma’s, zoals de Vlaamse staatsvorming en een
groeiend internationalisme. ‘Sire, il n’y a pas de Belges.’ Er is geen
‘België-gevoel’ meer. Vlaamse partijen, het wordt tijd voor wat politieke
moed.

Julien Borremans


mercredi, 09 février 2011

Dis-moi ce que tu manges, je te dirai ce que tu es!

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Dis-moi ce que tu manges, je te dirai ce que tu es!

Mauvaise nouvelle, un rapport de l’Organisation Mondiale de la Santé, intitulé "Stratégie mondiale pour l’alimentation, l’exercice physique" nous apprend que les dérives de l’alimentation sont l’une des toutes premières causes de mortalité planétaire.
 
L’OMS estime ainsi que 60 % des 56 millions de décès annuels viennent de maladies chroniques (cardio-vasculaires, diabètes, cancers) dues à l’hypertension, l’hypercholestérolémie, une trop faible consommation de fruits et légumes, l’obésité, la sédentarité et le tabagisme, tous facteurs de risque qui sont liés à l’alimentation et au manque d'exercice physique.
 
Conclusion : la malbouffe tue. En Europe, on estime, chiffre totalement effroyable, à 100 000 le nombre de décès d’enfants dus à des causes « environnementales » au nombre desquelles l’alimentation tient une place centrale. Et la malbouffe ne tue pas qu’en Occident, contrairement à une idée assez largement répandue…
 
Cet assassinat global mérite une prise de conscience locale. Après notre entretient "culturel" avec Lionel Franc c'est à notre spécialiste sur la question de se présenter.
 
TP: Xavier Delaunay qui êtes vous ?
 

XD: J'ai 34 ans, moitié alsacien/moitié auvergnat, parisien d’adoption, mais surtout français, journaliste au Choc du Mois et animateur sur Radio Courtoisie.
 
TP: Quel sera la teneur de votre intervention lors de notre table ronde ?
 

XD: L’exposé tentera, en s’appuyant sur des exemples concrets, de montrer que la mondialisation marchande est l’ennemi principal, la cause centrale dont découlent tous les maux qui assassinent les peuples européens. Comment lutter contre les ennemis extérieurs quand nos défenses sont minées de l’intérieur ?
 
Alimentation toxique qui empoisonne les corps, consumérisme compulsif qui aliènent les hommes à l’argent, télévision et fuite virtuelle qui lobotomisent les esprits… Pas de victoire ni de reconquête envisageable sans rupture drastique avec le mode de non-vie occidental !
 
Les voies de sortie du « supermarché global », les possibilités de rompre, au quotidien, avec cette « marchandisation » de l’humain seront présentées et illustrées. Contre la stérilité de l’attente « du grand soir» et la boursouflure des grands discours désincarnés, le combat modeste de tous les jours et de chaque instant !
 
TP: Programme alléchant, une dernière réaction pour nos lecteurs ?
 

XD: Déchirez vos bons de réduction de chez Macdo, lâchez votre profil Facebook et rejoignez nous pour voir et entendre nos expériences de résistance locale.
 
Xavier et la bannière Wallonie de l'association Terre & Peuple vous donnent donc rendez-vous le 12 février prochain au château du Coloma.
 
Pour consulter le programme et en savoir plus, cliquez ICI 


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Terre & Peuple - Bannière Wallonie
http://www.terreetpeuple.com
Mail: tpwallonie@gmail.com
Tel: 0032/ 472 28 10 28
Compte: 310-0302828-80
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Nazi Fashion Wars: The Evolian Revolt Against Aphroditism in the THird Reich

Nazi Fashion Wars:

The Evolian Revolt Against Aphroditism in the Third Reich

Part 1

Amanda Bradley

Ex: http://www.counter-currents.com/

“We would like women to remain women in their nature, in the whole of their lives, in the aim and fulfilment of these lives, just as we likewise wish men to remain men in their nature and in the aim and fulfilment of their nature and their aims.”—Adolf Hitler

girl1.jpgNational Socialism promoted two images of woman: the hardworking peasant mother in traditional dress, and the uniformed woman in service to her people. Both images were an attempt to combat two types of woman that are foreign to Traditional European societies: the Aphrodisian and Amazonian woman.

To understand the implications of these types, we must first outline J. J. Bachofen’s theory of the phases of human development and their relation to the Traditionalism of Julius Evola, who translated Bachofen’s Das Mutterrecht (Mother Right) into Italian and wrote the introduction. Bachofen posited a progressive view of history. The earliest and most primitive civilizations were earth-based, what Bachofen called “hetaerist-aphroditic,” since they were characterized by promiscuity.

As a revolt against the mistreatment of women in these early societies, Bachofen determined, agricultural-based Demetrian societies were developed. This phase of development was matriarchal, and exalted woman in her role of wife and mother, since it viewed woman and the earth as sources of generation.

Next, patriarchy developed, in which the sun and man were seen as the source of life. States of consciousness, correspondingly, went beyond the earth and the moon in solar-oriented societies.

Bachofen also outlined several regressions within his system. The cult of Dionysus was a regression from a Demetrian back into an earth-based cult, as exemplified by its emphasis on the vine (i.e., earth), a drunken dissolution into nature, and the promiscuous maenads who were its followers. Another regression was found in the various examples of Amazonian women in Western history, who did away with the need for a male principle.

Evola said that he integrated Bachofen’s ideas in “a wider and more up-to-date order of ideas.” [1]. He posits the Arctic cycle of the Golden Age as the primordial tradition. Demetrian societies came later, and eventually declined into Amazonian and Aphrodisian cycles. Meanwhile, there were descents into Titanic and Dionysian cycles, with a brief revival of the Northern spirit in the heroic age. Although Evola and Bachofen disagreed about the primacy of the Northern tradition, their interpretations of Aphroditism and other degenerations are similar.

As an earth-based society, the Aphrodisian is entirely focused on the material world. These societies are ruled by “the natural law (ius naturale) of sex motivated by lust, and with no understanding of the relationship of intercourse to conception.” [2] Even the afterlife is viewed not as an ascent to a heaven, but a return to nature. Bachofen describes woman’s status in these cultures as the lowest—she is only a sex object, the property of the tribal chief or any man who wants her. Evola’s interpretation is that in Aphrodisian societies, it is man’s status that is the lowest, since woman is the “sovereign of the man who is merely slave of his senses and sexuality, merely the ‘telluric’ being that finds its rest and its ecstasy only in the woman.” [3] Whether interpreting Aphrodisian societies as degrading to men, women, or both, one aspect is clear: Such a worldview emphasizes the lower aspects of sex, and presents woman as an object of base lust. Contrasted to this are Demetrian societies, in which monogamy and the love of the wife and mother replace mere lust.

Such Aphrodisian cultures are found only in pre-Aryan and anti-Aryan societies. In the history of the West, Evola theorizes that solar-based societies originally were found throughout Europe. In the more southern areas of Europe, in the timeline of recorded history at least, the solar forces did not withstand opposing forces for long. According to Joseph Campbell, these earth and lunar forces migrated to the Mediterranean from the East, as the Oriental principle was found in the “Aphroditic, Demetrian, and Dionysian legacies of the Sabines and Etruscans, Hellenistic Carthage and, finally, Cleopatra’s Hellenistic Egypt.”[4] Thus, much of what we associate with classical Greece cannot be assumed to be European, but must be interpreted in light of the degenerations that developed from its contact with the East. Rome, according to Evola, was able to ward off the influence of the telluric-maternal cult due to its establishment of a firm political organization that was centered on the virile principles of a solar worldview.

In addition to the spheres of love and family, Aphrodisian societies have far-reaching political implications as well. Earth and lunar cults were not necessarily (in fact, rarely) governed by women, yet like gynaecocracy, they foster “the egalitarism of the natural law, universalism and communism.” The idea is that Aphrodisian, earth-based societies viewed all men as children of one earth. Thus, “any inequality is an ‘injustice’, an outrage to the law of nature.” The ancient orgies, Evola writes, “were meant to celebrate the return of men to the state of nature through the momentary obliteration of any social difference and of any hierarchy.”[5] This also explains why in some cultures, the lower castes practiced tellurian or lunar rites, while solar rites were reserved for the aristocracy.

roekk-gross.jpgThese were the Aphrodisian elements that had made their way into the Weimar Republic and Third Reich, and which the National Socialists tried to restrain, along with modern Amazonian woman (the unmarried, childless, career woman in mannish dress). The Aphrodite type was represented by the “movie ‘star’ or some similar fascinating Aphrodisian apparition.”[6] In his introduction to the writings of Bachofen, National Socialist scholar Alfred Baeumler wrote that the modern world has all of the characteristics of a gynaecocratic age. In writing about the European city-woman, he says, “The fascinating female is the idol of our times, and, with painted lips, she walks through the European cities as she once did through Babylon.”[7]

(PICTURE: Hungarian-born singer Marikka Rökk)

The Nazis’ attempts to combat the Aphrodisian type of woman were manifest in various campaigns and in the writings of Nazi leaders. Most prominent was the promotion of the Gretchen type (the Demetrian woman, in her role as mother and wife), and the discouragement of anything that encouraged the fall of woman into a sex toy rather than a partner for men. Primary emphasis was placed on the discouragement of provocative dress, makeup, and unnatural hair, all which have associations with earth-based cults from the East. According to Evola, the Jewish spirit emphasizes the materialist and sensualist sides of life, with the body viewed as a material instrument of pleasure rather than an instrument of the spirit. Thus, ideologies such as cosmopolitanism, egalitarianism, materialism, and feminism are prevalent in a society that has a worldview infused with a Semitic spirit.[8]

Evola categorized the Aryan spirit as solar and virile, and the Jewish spirit as lunar and feminine. Using Bachofen’s classification system, the latter classifies most easily with Aphrodisian and earth-based cultures — where woman-as-sex-object prevails over woman-as-mother. In fact, there were various versions of “royal Asian women with Aphrodisian features, above all in ancient civilizations of Semitic stock.”[9] A review of archaeological evidence of Aryan and Semitic peoples reveals that, indeed, the only records of Aphrodisian culture in the West (as determined by a culture’s molding of woman into a sex object through fashion, makeup, and the idea of unnatural beauty) are the result of Eastern influence.

Aphrodisian Fashion and Cosmetics Are Absent from the History of Northern Europeans, and Found in Mediterranean Cultures as a Result of Eastern Influence

European civilizations unanimously associated unnatural beauty, achieved by cosmetics and dyed hair, with the lowest castes. This is because in Traditional societies, “health” was a symbol of “virtue” — to feign health or beauty was an attempt to mask the Truth.[10] Although cosmetics and jewelry were used ritually in ancient civilizations, their use eventually degenerated into a purely materialistic function.

 

girl4.jpgThe earliest Europeans tended toward simplicity in dress and appearance. Adornments were used solely to signify caste or heroic deeds, or were amulets or talismans. In ancient Greece, jewels were never worn for everyday use, but reserved for special occasions and public appearances. In Rome, also, jewelry was thought to have a spiritual power.[11] Western fashion often was used to display rank, as in Roman patricians’ purple sash and red shoes. The Mediterranean cultures, influenced by the East, were the first to become extravagant in dress and makeup. By the time this influence spread to northern Europe, it had been Christianized, and makeup did not appear again in northern Europe until the fourteenth century, after which followed a long period of its association with immorality.[12]

There is no firm evidence, archeological or narrative, for the use of makeup among the Anglo-Saxons. Only one story exists about its use among the Vikings, that of tenth century A.D. traveler  Ibrahim Al-Tartushi, who suggested that Vikings in Hedeby (in modern northern Germany) used kohl to protect against the evil eye (obviously an import from the East). Instead of makeup (outside of their often-described war paint), early northern Europeans focused on cleanliness and simplicity, as well as plant-based oils and aromatherapy. Archeological evidence reveals grooming tools for keeping hair tidy and teeth clean, and long hair was an essential beauty element for women.[13] Much of the jewelry worn by Vikings was religious, received as a reward for bravery in battle, or used to fasten clothing (such as brooches).[14]

Ancient Greece and Rome started out similar to northern Europe in the realms of fashion and beauty, but were quickly influenced by the East. Cosmetics were introduced to Rome from Egypt, and become associated with prostitutes and slaves. Prostitutes tended to use more makeup and perfume as they got older, practices that were looked down on as attempts to mask the unpleasant sights and odors of the lower classes. In fact, the Latin lenocinium means both “prostitution” and “makeup.” For a long time, cosmetics also were associated with non-white races, particular those from the Orient. As Rome degenerated, however, the use of makeup spread to many classes, with specialized slaves devoting much time to applying face paint to their masters, especially to lighten the skin color.

Although cosmetics became more accepted in Rome, their use was contrary to Roman beliefs and discouraged in their writings. Romans did not believe in “unnatural embellishment,” but only the preservation of natural beauty, for which there were many concoctions. Such unadulterated beauty was associated with chastity and morality. As an example, the Vestal Virgins did not use makeup. One who did, Postumia, was accused of incestum, a broad category that signifies immoral and irreligious acts.

In addition, Roman men found it suspicious when women tried to appear beautiful: the implications of cosmetic use included a lack of natural beauty, lack of chastity, potential for adultery, seductiveness, unnatural aversion to the traditional roles for women, manipulation, and deceitfulness. The poet Juvenal wrote, “a woman buys scents and lotions with adultery in mind.” Seneca believed the use of cosmetics was contributing to the decline in morality in the Rome Empire, and advised virtuous women to avoid them.[15] The only surviving text from Rome that approves of cosmetics, Ovid’s Medicamina Faciei Femineae (Cosmetics for the Female Face), gives natural remedies for whiter skin and blemishes but extols the virtues of good manners and a good disposition as highest of all beauty treatments.

Originally, the simplest hairstyles were prized in Rome, with women wearing their hair long, often with a headband. Younger girls favored a bun at the nape of the neck, or a knot on top of their head. Elaborate hairstyles only came into fashion during the Roman Empire as it degenerated.[16]

In ancient Greece, as well, makeup was the domain of lower-class women, who attempted to emulate the fair skin of the upper classes who stayed indoors. Rouge was sometimes used to give the skin a healthy and energetic glow. This tradition was continued by women in the Middle Ages, who also valued fair skin.

Cosmetics, dyed hair, and over-accessorizing continued to be associated with loose women as Western society was Christianized. Saint Irenaeus included cosmetics in a list of evils brought to the women who married fallen angels. The early Christian writers Clement of Alexandria, Tatian the Assyrian, and Tertullian also trace the origin of cosmetics to fallen angels.[17]

Dress presents a more difficult area to examine. Although the Nazis associated skimpy dress with foreign elements, this has not always been the case in West. Aryan societies generally did not moralize sex, nor see the body as shameful; women could show a bare breast or wear a short tunic without being viewed as a sex object. In fact, Bachofen reports that more restrictive dress represented a move toward Eastern cultures, which, seeing woman as temptress, insist on extensive covering. According to Plutarch, speaking on the old Dorian spirit:

There was nothing shameful about the nakedness of the virgins, for they were always accompanied by modesty and lechery was banned. Rather, it gave them a taste for simplicity and a care for outward dignity.[18]

Much of these distinctions in beauty treatments can be traced to deeper sources, to the differences in spirit of different peoples. Evola asserts the Roman spirit as the positive side of the Italian people, and the Mediterranean (more influenced by the East) as the negative that needs to be rectified. The first Mediterranean trait is “love for outward appearances and grand gestures”—it is the type that “needs a stage.” In such people, he says, there is a split in the personality: there is “an ‘I’ that plays the role and an ‘I’ that regards his part from the point of view of a possible observer or spectator, more or less as actors do.”

A different kind of split, one that instead supervises one’s conduct to avoid “primitive spontaneity,” is more befitting of the Roman character. The ancient Romans had a model of “sober, austere, active style, free form exhibitionism, measured, endowed with a calm awareness of one’s dignity.” Another negative trait of the Mediterranean type, Evola notes, is individualism, brought about by “the propensity toward outward appearances.” Evola also cites “concern for appearances but with little or no substance” as typical of the Mediterranean type.[19] Such differences in spirit will manifest in the material choices that are inherent to different peoples.

Notes

 

1. Julius Evola, Revolt Against the Modern World, trans. Guido Stucco (Rochester, Vt.: Inner Traditions, 1995), 211, footnote.

2. Joseph Campbell, Introduction, Myth, Religion, and Mother Right, by J. J. Bachofen, trans. Ralph Manheim (Princeton: Princeton University Press, 1967), xxx–xxxi.

3. Evola, “Do We Live in a Gynaecocratic Society?”

4. Campbell, “Introduction” to Bachofen, xlviii.

5. Evola, “Gynaecocratic.”

6. Evola, “Matriarchy in J.J. Bachofen’s Work.”

7. Alfred Baeumler, quoted in Evola, “Matriarchy.”

8. Michael O’Meara, “Evola’s Anti-Semitism.”

9. Evola, “Gynaecocratic.”

10. Evola, Revolt, 102.

11. “Creationism & the Early Church.”

12. “Cosmetics use resurfaces in Middle Ages.”

13. “In Pursuit of Beauty.”

14. Fiona McDonald,Jewelry And Makeup Through History (Milwaukee, Wis.: Gareth Stevens, 2007), 13.

15. Wikipedia. “Cosmetics in Ancient Rome.”

16. “Roman Hairstyles.”

17. “Creationism & the Early Church.”

18. Plutarch, quoted in Bachofen, 171.

19. Evola, Men Among the Ruins: Post-War Reflections of a Radical Traditionalist, trans. Guido Stucco (Rochester, Vt.: Inner Traditions, 2002), 260–62.

Nazi Fashion Wars:
The Evolian Revolt Against Aphroditism in the Third Reich, Part 2

girl2.jpgThere is much archeological evidence for cosmetics and other beauty treatments in the East, particularly in Egypt and Asia. In Arab cultures, cosmetic use is traced back to ancient times, and there are no prohibitions in Islamic law against cosmetics. Though a simple use of makeup or hair dye could not be evidence of an Aphrodisian belief system, if such use is intended to limit woman’s role to the sexual realm, then we can assume there are elements of the culture that are earth-based and opposed to the Aryan solar cults.

Judaism is not historically opposed to cosmetics and jewelry, although two stories can be interpreted as negative indictments on cosmetics and too much finery: Esther rejected beauty treatments before her presentation to the Persian king, indicating that the highest beauty is pure and natural; and Jezebel, who dressed in finery and eye makeup before her death, may the root of some associations between makeup and prostitutes.

In most cases, however, Jewish views on cosmetics and jewelry tend to be positive and indicate woman’s role as sexual: “In the rabbinic culture, ornamentation, attractive dress and cosmetics are considered entirely appropriate to the woman in her ordained role of sexual partner.” In addition to daily use, cosmetics also are allowed on holidays on which work (including painting, drawing, and other arts) are forbidden; the idea is that since it is pleasurable for women to fix themselves up, it does not fall into the prohibited category of work.[1]

In addition to the historical distinctions between cultures on cosmetics, jewelry, and fashion, the modern era has demonstrated that certain races enter industries associated with the Aphrodisian worldview more than others. Overwhelmingly, Jews are overrepresented in all of these arenas. Following World War I, the beauty and fashion industries became dominated by huge corporations, many of the Jewish-owned. Of the four cosmetics pioneers — Helena Rubenstein, Elizabeth Arden, Estée Lauder (née Mentzer), and Charles Revson (founder of Revlon) — only Elizabeth Arden was not Jewish. In addition, more than 50 percent of department stores in America today were started or run by Jews. (Click here for information about Jewish department stores and jewelers, and here for Jewish fashion designers).

Hitler was not the only one who noticed Jewish influence in fashion and thought it harmful. Already in Germany, a belief existed that Jewish women were “prone to excess and extravagance in their clothing.” In addition, Jews were accused of purposefully denigrating women by designing immoral, trashy clothing for German women.[2] There was an economic aspect to the opposition of Jews in fashion, as many Germans thought them responsible for driving smaller, German-owned clothiers out of business. In 1933, an organization was founded to remove Jews from the Germany fashion industry. Adefa “came about not because of any orders emanating from high within the state hierarchy. Rather, it was founded and membered by persons working in the fashion industry.”[3] According to Adefa’s figures, Jewish participation was 35 percent in men’s outerwear, hats, and accessories; 40 percent in underclothing; 55 percent in the fur industry; and 70 percent in women’s outerwear.[4]

Although many Germans disliked the Jewish influence in beauty and fashion, it was recognized that the problem was not so much what particular foreign race was impacting German women, but that any foreign influence was shaping their lives and altering their spirit. The Nazis obviously were aware of the power of dress and beauty regimes to impact the core of woman’s self-image and being. According to Agnes Gerlach, chairwoman for the Association for German Women’s Culture:

Not only is the beauty ideal of another race physically different, but the position of a woman in another country will be different in its inclination. It depends on the race if a woman is respected as a free person or as a kept female. These basic attitudes also influence the clothes of a woman. The southern ‘showtype’ will subordinate her clothes to presentation, the Nordic ‘achievement type’ to activity. The southern ideal is the young lover; the Nordic ideal is the motherly woman. Exhibitionism leads to the deformation of the body, while being active obligates caring for the body. These hints already show what falsifying and degenerating influences emanate from a fashion born of foreign law and a foreign race.[5]

Gerlach’s statements echo descriptions of Aphrodisian cultures entirely: Some cultures view women as a sex object, and elements of promiscuity run through all areas of women’s dress and toilette; Aryan cultures have a broader understanding of the possibilities of the female being and celebrate woman’s natural beauty.

The Introduction of Aphrodisian Elements into Germany and the Beginning of the Fashion Battles

Long before the Third Reich, Germans battled the French on the field of fashion; it was a battle between the Aphrodisian culture that had made its way to France, and the Demetrian placement of woman as a wife and mother. As early as the 1600s, German satirical picture sheets were distributed that showed the “Latin morals, manners, customs, and vanity” of the French as threatening Nordic culture in Germany. In the twentieth century, Paris was the height of high fashion, and as tensions between the two countries increased, the French increased their derogatory characterizations of German women for not being stereotypically Aphrodisian. In 1914, a Parisian comic book presented Germans as “a nation of fat, unrefined, badly dressed clowns.”[6] And in 1917, a French depiction of “Virtuous Germania” shows her as “a fat, large-breasted, mean-looking woman, with a severe scowl on her chubby face.”[7]

Hitler saw the French fashion conglomerate as a manifestation of the Jewish spirit, and it was common to hear that Paris was controlled by Jews. Women were discouraged from wearing foreign modes of dress such as those in the Jewish and Parisian shops: “Sex appeal was considered to be ‘Jewish cosmopolitanism’, whilst slimming cures were frowned upon as counter to the birth drive.”[8] Thus, the Nazis staunch stance against anything French was in part a reaction to the Latin qualities of French culture, which had migrated to the Mediterranean thousands of years earlier, and that set the highest image of woman as something German men did not want: “a frivolous play toy that superficially only thinks about pleasure, adorns herself with trinkets and spangles, and resembles a glittering vessel, the interior of which is hollow and desolate.”[9] Such values had no place in National Socialism, which promoted autarky, frugalness, respect for the earth’s resources, natural beauty, a true religiosity (Christian at first, with the eventual goal to return to paganism), devotion to higher causes (such as to God and the state), service to one’s community, and the role of women as a wife and mother.

Opposition to the Aphrodisian Culture in the Third Reich

Most students of Third Reich history are familiar with the more popular efforts to shape women’s lives: the Lebensborn program for unwed mothers, interest-free loans for marriage and children, and propaganda posters that emphasized health and motherhood. But some of the largest battles in the fight for women occurred almost entirely within the sphere of fashion—in magazines, beauty salons, and women’s organizations.

The Nazis did not discount fashion, only its Aphrodisian manifestations. On the contrary, they understood fashion as a powerful political tool in shaping the mores of generations of women. Fashion and beauty also were recognized as important elements in the cultural revolution that is necessary for lasting political change. German author Stafan Zweig commented on fashion in the 1920s:

Today its dictatorship becomes universal in a heartbeat. No emperor, no khan in the history of the world ever experienced a similar power, no spiritual commandment a similar speed. Christianity and socialism required centuries and decades to win their followings, to enforce their commandments on as many people as a modern Parisian tailor enslaves in eight days.[10]

Thus, Nazi Germany established a fashion bureau and numerous women’s organizations as active forces of cultural hegemony. Gertrud Scholtz-Klink, the national leader of the NS-Frauenschaft (NSF, or National Socialist Women’s League), said the organization’s aim was to show women how their small actions could impact the entire nation.[11] Many of these “small actions” involved daily choices about dress, shopping, health, and hygiene.

The biggest enemies of women, according to the Nazi regime, were those un-German forces that worked to denigrate the German woman. These included Parisian high fashion and cosmetics, Jewish fashion, and the Hollywood image of the heavily made up, cigarette-smoking vamp—the archetype of the Aphrodisian. These forces not only impacted women’s clothing, personal care choices, and activities, but were dangerous since they touched the German woman’s very spirit.

girl5.jpgAlthough the image of the dirndl-wearing woman working the fields was heavily promoted, Hitler was not anti-fashion and realized the value in beautiful dress and that in order to retain women’s support, he could not do away with their luxury items completely. Part of the reason he opposed Joseph Goebbels’ 1944 plans to close fashion houses and beauty parlors was not because he disagreed, but because he was “fearful that this would antagonize German women,” particular those of the middle classes who he relied on for support.[12] Hitler showed his concern for tasteful clothing when he rejected the first design of girls’ uniforms for the Bund Deutscher Mädel (BDM, League of German Girls) as “old sacks” and said the look should not be “too primitive.”[13] And in a conference with party leaders he said:

Clothing should not now suddenly return to the Stone Age; one should remain where we are now. I am of the opinion that when one wants a coat made, one can allow it to be made handsomely. It doesn’t become more expensive because of that. . . . Is it really something so horrible when [a woman] looks pretty? Let’s be honest, we all like to see it.[14]

Though understanding the need for tasteful and beautiful dress, the Nazis were adamantly against elements foreign to the Nordic spirit. The list included foreign fashion, trousers, provocative clothing, cosmetics, perfumes, hair alterations (such as coloring and permanents), extensive eyebrow plucking, dieting, alcohol, and smoking. In February 1916, the government issued a list of “forbidden luxury items” that included foreign (i.e., French) cosmetics and perfumes.[15] Permanents and hair coloring were strongly discouraged. Although the Nazis were against provocative clothing in everyday dress, they encouraged sportiness and were certainly not prudish about young girls wearing shorts to exercise. A parallel can be seen in the scanty dress worn by Spartan girls during their exercises, a civilization characterized by its Nordic spirit and solar-orientation.

Some have said that Hitler was opposed to cosmetics because of his vegetarian leanings, since cosmetics were made from animal byproducts. More likely, he retained the same views that kept women from wearing makeup for centuries in Western countries—the innate understanding that the Aphrodisian woman is opposed to Aryan culture. Nazi proponents said “red lips and painted cheeks suited the ‘Oriental’ or ‘Southern’ woman, but such artificial means only falsified the true beauty and femininity of the German woman.”[16] Others said that any amount of makeup or jewelry was considered “sluttish.”[17] Magazines in the Third Reich still carried advertisements for perfumes and cosmetics, but articles started advocating minimal, natural-looking makeup, for the truth was that most women were unable to pull off a fresh and healthy image without a little help from cosmetics.

Although jewelry and cosmetics were not banned, many areas of the Third Reich were impossible to enter unless conforming to Nazi ideals. In 1933, “painted” women were banned from Kreisleitung party meetings in Breslau. Women in the Lebensborn program were not allowed to use lipstick, pluck their eyebrows, or paint their nails.[18] When in uniform, women were forbidden to wear conspicuous jewelry, brightly colored gloves, bright purses, and obvious makeup.[19] The BDM also was influential in shaping fashion in the regime, with young girls taking up the use of clever pejoratives to reinforce the regime’s message that unnatural beauty was not Aryan. The Reich Youth Leader said:

The BDM does not subscribe to the untruthful ideal of a painted and external beauty, but rather strives for an honest beauty, which is situated in the harmonious training of the body and in the noble triad of body, soul, and mind. Staunch BDM members whole-heartedly embraced the message, and called those women who cosmetically tried to attain the Aryan female ideal ‘n2 (nordic ninnies)’ or ‘b3 (blue-eyed, blonde blithering idiots).’[20]

The Nazis offered many alternatives to Aphrodisian values: beauty would be derived from good character, exercise outdoors, a good diet, healthy skin free of the harsh chemicals in makeup, comfortable (yet still stylish and flattering) clothing, and from the love for her husband, children, home, and country. The most encouraged hairstyles were in buns or plaits—styles that saved money on trips to the beauty salon and were seen as more wholesome and befitting of the German character. In fact, Tracht (traditional German dress) was viewed as not merely clothing, but also as “the expression of a spiritual demeanor and a feeling of worth . . . Outwardly, it conveys the expression of the steadfastness and solid unity of the rural community.”[21] Foreign clothing designs, according to Gerlach, led to physical and “psychological distortion and damage, and thereby to national and racial deterioration.”[22]

*   *   *

Some people may be inclined to interpret Aphrodisian culture as positive for the sexes—it puts the emphasis for women not on careers but on their existence as sexual beings. Men often encourage such behavior by their dating choices and by complimenting an Aphrodisian “look” in women. But Aphrodisian culture is not only damaging to women, as Bachofen relates, by reducing them to the status of sex slave of multiple men. It also is degrading for men, at the level of personality and at the deepest levels of being. As Evola writes about the degeneration into Aphroditism:

The chthonic and infernal nature penetrates the virile principle and lowers it to a phallic level. The woman now dominates man as he becomes enslaved to the senses and a mere instrument of procreation. Vis-à-vis the Aphrodistic goddess, the divine male is subjected to the magic of the feminine principle and is reduced to the likes of an earthly demon or a god of the fecundating waters—in other words, to an insufficient and dark power.[23]

(PICTURE: Swedish singer Zarah Leander)

Zarah_Leander_DW_Ku_389109g.jpgAphroditism also contributes to the loss of wonder that is essential to a transcendent-based worldview, since many now find it hard to be moved by the ordinary. Josef Pieper discusses the importance of being able to see the divine in the natural:

If someone needs the ‘unusual’ to be moved to astonishment, that person has lost the ability to respond rightly to the wondrous, the mirandum, of being. The hunger for the sensational . . . is an unmistakable sign of the loss of the true power of wonder, for a bourgeois-ized humanity.[24]

A society that promotes so much unnatural beauty will no doubt lose the ability to experience the wondrous in the natural. It is essential that people retain the ability to love and be moved by the pure and natural, in order to once again return to a civilization centered in a Traditional Aryan worldview.

Notes

1. Daniel Boyarin, “Sex,” Jewish Women’s Archive.

2. Irene Guenther, Nazi ‘Chic’?: Fashioning Women in the Third Reich (Oxford: Berg, 2004), 50–51.

3. Guenther, 16.

4. Guenther, 159.

5. Agnes Gerlach,  quoted in Guenther, 146.

6. Guenther, 21–22.

7. Guenther, 26.

8. Matthew Stibbe, “Women and the Nazi state,” History Today, vol. 43, November 1993.

9. Guenther, 93.

10. Stefan  Zweig, quoted in Guenther, 9.

11. Jill Stephenson, Women in Nazi Germany (Essex, UK: Pearson, 2001), 88.

12. Stephenson, 133.

13. Guenther, 120.

14. Adolf Hitler, quoted in Guenther, 141.

15. Guenther, 32.

16. Guenther, 100.

17. Guido Knopp,  Hitler’s Women (New York: Routledge, 2003), 231.

18. Guenther, 99.

19. Guenther, 129.

20. Guenther, 121.

21. Guenther, 111.

22. Gerlach, quoted in Guenther, 145.

23. Evola, Revolt, 223.

24. Josef Pieper,  Leisure: The Basis of Culture, trans. Gerald Malsbary (South Bend, Ind.: St. Augustine’s Press, 1998), 102.  

 

 

 

 

 

 

 

 



mardi, 08 février 2011

La société civile: de l'état libéral à la gouvernance réactionnaire

La société civile : de l’état libéral à la gouvernance réactionnaire

Ex: http://www.mecanopolis.org/

Une société libérale réfute théoriquement l’idée d’une surcharge juridique, l’Etat se place donc en retrait de tout interventionnisme dans les champs de l’individualité. Il s’agit d’un modèle de société qui, en théorie, n’est pas gouvernée par une autorité morale, et dont les principes traditionnels sont pour la plupart devenus de simples pièces de la mosaïque des subjectivités. Mais à la tradition, s’est en réalité substitué un ordre moral, dont l’exercice provient désormais d’une autorité anti-traditionnelle : la classe dirigeante. Cette dernière détient son pouvoir grâce à l’appui d’une entreprise globale de manipulation: pas de médias indépendants, des processus électoraux manipulés ou absents, et une frontière poreuse entre le privé et la classe dirigeante.

[1]

La morale quant à elle est réservée à ce qui est en dehors de l’état, au non-gouvernemental, soit à la société civile. Bien que les instances religieuses y soient représentées conformément à la loi de 1905, leurs influences restent mineures. Car la société civile est avant tout le foyer des associations, des lobbys, et des think-tanks, qui selon l’organisme auquel ils s’adressent, peuvent avoir un degré d’influence différent. Mais pour y parvenir, il leur faut être reconnu en tant qu’organisme de la société civile (OSC), et obtenir un statut de la part de la classe dirigeante. La morale provient donc d’un appareil qui est à l’initiative du pouvoir et ce dernier organise l’écoute des revendications de l’ “appareil moral ».

Comme le disait Foucault : « la société civile, ce n’est pas une réalité première et immédiate […], c’est quelque chose qui fait partie de la technologie gouvernementale moderne« . En effet, il s’agit avant tout d’un outil de régulation de l’opinion qui sert des intérêts précis et temporels. En utilisant la morale et donc en s’octroyant le droit de déterminer ce qui est juste, la société civile permet à la classe dirigeante d’élargir son champ de possibilités. Par conséquent la promotion de causes présentées comme justes par la sphère extra-étatique, permet d’acquérir par avance l’aval du peuple.

La société civile est par ailleurs moins hétérogène que ce qu’on peut en penser au premier abord. En effet, il existe des causes pour lesquelles l’extrême majorité des associations, think-tanks, etc. s’accordent sans le moindre problème. Ces accords peuvent parfois surprendre comme dans le cas du Centre d’Étude et de Prospection Stratégique (CEPS). Le CEPS est une ONG dotée du statut participatif au Conseil de l’Europe. Elle fonctionne essentiellement à travers ses clubs de réflexions, sur le modèle suivant:  « Nous adoptons les « Chatham house rules », c’est-à-dire que nous avons tous le droit de reprendre des idées exprimées pendant ces rencontres, mais ne devons jamais communiquer d’informations sur l’auteur des propos, ni sur le lieu où ils ont été tenus. Ces rencontres sont exclusivement destinées aux membres du club, lesquels font tous l’objet d’une cooptation. » Parmi les partenaires et animateurs du CEPS, on trouve : SOS-Racisme; l’OTAN; Areva; JP Morgan; Endemol, EADS, La Croix Rouge, L’OCDE, L’Institut Robert Schuman pour l’Europe, etc. On pourrait se demander quel intérêt commun officiel ces organismes partagent-ils. Mais il est évident que la réponse réside dans l’existence même de la société civile et de son homogénéité effective.

Dans cette mesure, il est tout à fait logique que la société civile et la classe dirigeante ne fassent qu’un. Un des buts recherchés étant de parvenir à une morale qui soutient la doctrine de la globalisation libéral: en instaurant un tas d’organismes réactionnaires, en soutenant l’émergence de structures supra-étatiques et en organisant la tenue d’un monde organisé autour du Conseil de Sécurité des Nations Unies. Tout ce qui n’entre pas dans ce cadre est immédiatement considéré comme irrecevable car en-dehors du consentement global. Il s’agit donc, pour la société civile, d’installer une instance réactionnaire d’une part, et de soutenir l’action de la classe dirigeante d’autre part. Pour conclure, le décryptage du rôle de la société civile incite à se référer à la théorie de Tittytainment de Zbigniew Brzezinski : la volonté de construire une lente dépolitisation de l’humanité, en procédant en premier lieu par la construction d’une morale qui va manifestement à l’encontre de l’humanité.

Julien Teil, pour Mecanopolis [2]

Notes :

[1] FOUCAULT Michel, Naissance de la Biopolitique, Cours au Collège de France, 1978-1979,
Paris : Gallimard/Seuil, 2004, p.300

[1] http://www.ceps.asso.fr/Nos-actions/Les-Clubs [3]

[1] http://www.ceps.asso.fr/Le-CEPS/Nos-partenaires [4]

 


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[4] http://www.ceps.asso.fr/Le-CEPS/Nos-partenaires: http://www.ceps.asso.fr/Le-CEPS/Nos-partenaires

Michel Drac: entretien avec E&R-Bretagne

Michel Drac, entretien avec E&R Bretagne

 Ex: http://www.scriptoblog.com/

Les ouvrages du Retour Aux Sources font la part belle aux méthodes d’organisation et d'action  pensées par la gauche radicale (TAZ d’Hakim Bey, théorie des multitudes de Négri, éco-villages, …).

drac3.gifCroyez-vous la droite anti-libérale incapable de produire des idées pertinentes et des outils opérationnels adaptés à notre époque en crise ?

La droite anti-libérale a de toute évidence un problème pour se penser en rupture avec le Système. Ceci peut paraître curieux, dans la mesure où elle est objectivement plus étrangère au Système que n’importe quelle autre tendance politique. Mais au fond, c’est logique : pour se penser en rupture avec le Système, il faudrait que la droite anti-libérale conceptualise une rupture au sein du concept général de « droite », car une partie de la « droite » est dans le Système. Or, la droite anti-libérale, prisonnière de l’illusion d’un continuum de la « droite », ne parvient pas à penser cette rupture.

Ici, il faut bien dire que les logiques de classe ont tendance à prendre le pas sur les logiques purement politiques : il y a toujours un moment où le bon bourgeois anti-libéral est renvoyé à ses contradictions : comment être un bourgeois anti-libéral, aujourd’hui ?

Bref, je ne crois pas que la droite anti-libérale soit incapable de produire des idées pertinentes. Je constate en revanche qu’elle a du mal à les concrétiser, et même à les amener au stade du programme, du plan d’action. La droite anti-libérale est une sensibilité qui ne peut pas s’organiser.

 

Penser restaurer le système, l'aider à s'auto-corriger ou lutter pour le réformer (comme le font les réactionnaires, par exemple) n'aura pour résultat que de retarder la fin du Cycle et le début du suivant, selon vous. Quel peut donc être le rôle à jouer et la voie à suivre par des hommes différenciés en cette fin de Kali-Yuga? Cultiver une conscience politique propre à la formation d'une élite capable d'encadrer une (hypothétique et future) révolte des masses? Montrer l'exemple en se plaçant en dehors du jeu (retraite physique, élévation individuelle)? Ou combiner les deux?

L’économie occidentale contemporaine n’est pas réformable. C’est une énorme machine hypersophistiquée, une bonne partie des pièces s’est mise à fonctionner sans souci de l’ensemble, on a perdu le cahier de maintenance, et pour tout arranger, le pilote de machine est sourd, fou et ivre mort. La seule chose à faire, c’est d’attendre que le moteur explose, en se protégeant autant que possible contre les projections ! La priorité pour des hommes différenciés, comme vous dites, c’est de se préparer à se sauver eux-mêmes, alors que nous allons vers une période très, très dure.

Au demeurant, je pense que ce travail, s’il est conduit à termes, portera des fruits au-delà de son objectif immédiat. Au fond, si nous nous organisons pour nous en tirer le mieux possible, nous produisons simultanément et spontanément un modèle que d’autres voudront imiter. Paradoxalement, penser un égoïsme collectif, dans le contexte actuel, c’est aussi une manière d’aider tous ceux qui ne peuvent plus penser que l’égoïsme individuel. Plus que la noblesse des intentions, il faut juger l’efficacité concrète, et sous cet angle, la démarche consistant à structurer une contre-société me paraît aujourd’hui la plus porteuse.

Le narrateur de Vendetta explique ses actes (des assassinats, ndlr) à mots (ironiquement) choisis : ceux du champs-lexical managérial (« expérience passionnante et vie pleine de sens », etc.).

Penser les médiations nécessaires à une révolution, avec les concepts du système, résonne comme un aveu d'incapacité à produire du sens à l’extérieur de la matrice. Sens que le dernier opus du Retour au Sources (G5G – La Guerre de Cinquième génération) se propose, lui, de recréer. Pouvez-vous nous en dire plus?

Vous avez très bien saisi l’esprit des deux livres. Vendetta est une description de ce que l’on peut redouter, si la démarche proposé dans G5G est empêchée.

Il ne faut pas perdre de vue que les révoltés structurent toujours leur révolte avec, à la base, les concepts, les catégories du système qu’ils combattent. C’est pourquoi le parti communiste soviétique avait repris une partie des « techniques de gouvernement » propres à l’Eglise orthodoxe. C’est pourquoi le cérémonial napoléonien avait récupéré une partie des us et coutumes de la société de cour à la française. Etc.

Vendetta a été écrit pour expliquer, en gros : le Hitler, le Staline, le Mao de demain sont dans les tuyaux, et c’est la « démocratie libérale » contemporaine qui est en train de les incuber. Elle les incube d’une part parce que son dérèglement finit par rendre la vie impossible aux gens, ce qui va les pousser à la révolte ; et d’autre part parce qu’elle leur apporte sur un plateau les ingrédients de la violence révolutionnaire future : primat de la jouissance, de l’instantanéité, réduction de l’expérience humaine à l’individualité, compensée par un fonctionnement en réseau fluide.

On commence d’ailleurs à voir poindre cette nouvelle violence politique. Cette semaine (NB : début janvier 2011), nous avons eu une tuerie aux USA, avec un type qui a ouvert le feu en aveugle, lors d’un rassemblement politique. C’est là une pulsion de destruction (et d’autodestruction) qui ne s’organise pas, ou alors seulement de manière informelle, en réseau, et qui ne poursuit aucun autre objectif que la satisfaction de ceux qui s’y livrent. C’est ce vers quoi nous allons : la dictature par l’anarchie, l’extrême violence incontrôlable servant de prétexte à l’encadrement paranoïaque, partout, tout le temps.

G5G, à l’inverse, consiste à dire : dépêchons-nous d’offrir une issue, une voie vers le dehors de ce Système devenu fou, et qui nous rend fous. G5G, c’est le seul antidote à Vendetta, si vous voulez.

Dans De la souveraineté, vous expliquez que le mondialisme néolibéral se caractérise par l'absence d'idéologie originelle, combinée à une pathologie narcissique et au profit comme finalité - ce tout menant, selon vous, à la dictature du matérialisme bourgeois (fortification de l'élite du capital et asservissement de la masse).

Vous y opposez une posture européenne et traditionnelle : celle de la soumission du corps à la force, et de la force à l'esprit. Cette posture est-elle consubstantielle, comme mentionné par ailleurs, d’un certain élitisme et d’une purification éthique (mais pas ethnique) inévitable?

Dans De la souveraineté, j’ai essayé de faire comprendre rapidement quelque chose à mes lecteurs, tout en sachant que c’est quelque chose qu’on ne peut faire comprendre rapidement qu’au prix d’un certain simplisme. Ce quelque chose, c’est : le Système dans lequel nous vivons est une idéologie, à l’intérieur de laquelle nous habitons, et si nous avons l’impression qu’il n’y a pas d’idéologie, c’est parce que nous sommes dedans. L’absence d’idéologie originelle perçue par nous à la racine du Système provient uniquement du fait que nous confondons notre habitation au monde avec le rapport spontané, naturel, immédiat, de l’homme au monde. C’est la différence entre notre totalitarisme et les défunts modèles soviétiques et nazis : chez Goebbels, chez Souslov, tout le monde savait qu’il existait une idéologie ; c’était visible, revendiqué, même. Chez nous, cela reste caché. A aucun moment, le capitalisme et le consumérisme contemporain ne se donnent explicitement pour des constructions idéologiques. Le néolibéralisme lui-même se vit comme une simple description du réel. Quand un économiste néolibéral confond profit comptable et richesse, il ne sait pas qu’il opère un choix idéologique ; dans son esprit, c’est pareil, forcément pareil.

Ce qui permet, à mon avis, de prendre conscience du caractère idéologique du mondialisme néolibéral, c’est le rappel tranché, brutal, des alternatives possibles. On ne se sait enfermé dans l’idéologie que quand on en voit le dehors. C’est pourquoi j’ai rappelé qu’il avait existé, et qu’il existait encore, des mondes où l’impératif consumériste en contrepoint de l’impératif productiviste aurait été à peu près complètement dénué de sens – des mondes où le corps était là pour construire la force, et la force nécessaire pour préserver l’esprit. Des mondes, en somme, où l’être se réalise en réalisant sa nature, et non en violant la nature autour de lui. Ce rappel permet de faire comprendre en quoi le mondialisme néolibéral est idéologique : quand on voit le dehors, on comprend qu’on est à l’intérieur de quelque chose, d’une construction, qui n’est pas tout le monde, seulement un certain rapport au monde.

Quant à la question de l’élitisme, à la nécessité d’une forme de purification, il ne faut pas en faire un impératif figé, une sorte d’affirmation par hypothèse, que je donnerais là, au nom de je ne sais quelle autorité imaginaire. Il s’agit surtout dans mon esprit de rendre pensable une alternative, donc de rendre possible l’énonciation du négatif. Que ce négatif soit énoncé à partir d’une alternative élitiste ou non-élitiste, en fait, peu m’importe : à mes yeux, l’essentiel, c’est qu’il soit à nouveau énoncé. C’est la dynamique collective qui doit définir l’alternative au nom de laquelle le négatif est énoncé.

Sous diverses formes (action violente, retraite armée), l’engagement physique tient une place de choix dans les ouvrages du Retour Aux Sources.

Si le Grand Jihad (lutte intérieure contre ses mauvais penchants) doit précéder le Petit Jihad (lutte physique), pourquoi choisir de mettre plus en lumière l’action de révolte – au détriment du cheminement intérieur et individuel qui y mène ?

Vous trouvez que l’engagement physique tient une place de choix ? Pour l’instant, ce n’est que du papier… Plus tard, on verra de quoi il retourne, quand on passera à la pratique.

On sait, grâce à Norbert Elias notamment, que l’interdiction de la violence conduit à un auto-contrôle qui s’étend inexorablement à tous les domaines de la moralité (autocensure,…).

Rejoignez-vous cette idée que, pour redevenir humain, il faut d’abord redevenir barbare ?

Je pourrais vous répondre que les barbares sont généralement contraints à un très fort autocontrôle, puisque leur barbarie peut à tout moment se manifester entre eux. En ce sens, on pourrait tout aussi bien retourner le propos, et dire que pour nous libérer de l’obligation de l’auto-contrôle, il faut au contraire nous re-civiliser.

C’est la Loi qui libère. L’auto-contrôle, l’auto-censure contemporains trouvent leur source dans la disparition de la Loi. On ne sait plus ce qu’on a le droit de dire, de prôner. On ne sait plus où est l’orthodoxie. La Loi existe peut-être, mais elle est fixée si haute, si loin, qu’on ne peut plus la lire, tout au plus la deviner.

Ce que nous devons faire, c’est nous organiser entre nous pour définir une Cité à nous, distincte de la fausse cité définie par le Système. Et dans notre Cité à nous, nous fixerons notre Loi à nous. Et tout le monde pourra la lire, et tout le monde saura ce qu’on peut dire ou ne pas dire, et pourquoi. Alors nous serons libres. Il ne s’agit donc pas d’être barbares : il s’agit d’avoir une ville à nous, pour être civilisés entre nous.

Dans vos livres, l’individualité des personnages et leur temporalité (vie et mort) ne sont que des moyens au service d'une tâche (combat) sans cesse à recommencer. L'assurance de ne pas voir "le jour de la victoire" peut décourager certains de passer à l'action ("A quoi bon?") – mais  constitue aussi pour d'autres l'essence de leur engagement (dépassement de la peur de la mort). Comment peut-on (ou pourquoi doit-on) lutter, en ces temps de chaos, dans la joie et l'espérance?

Je n’ai écrit aucun roman, je suppose donc que le « vos » de « vos livres » fait référence ici aux romans publiés par le Retour aux Sources. Ou alors, il s’agit d’Eurocalypse, auquel j’ai participé ?

Bref. En tout cas, à titre personnel, je crois qu’un homme ne peut échapper à l’Absurde qu’en préparant sa mort. C’est sans doute en quoi je suis radicalement étranger à mon époque, d’ailleurs. Je n’arrive pas à comprendre à quoi rime l’existence qu’on nous propose, et qui pourrait se résumer ainsi : vous allez consommer le plus possible pour penser le moins possible à la mort, et quand vous mourrez, ce sera discrètement, dans une chambre d’hôpital, avec des soins palliatifs pour que vous ne fassiez pas de bruit et une euthanasie pour économiser les frais médicaux. Où est l’intérêt ?

drac4.gifJe trouve qu’une vie intéressante est une vie où l’on se bat, où l’on souffre, où l’on affronte l’adversité, et surtout, où l’on s’affronte soi-même. Je trouve qu’une vie intéressante est une vie difficile. C’est ce qui me donne de la joie, en tout cas, et peut-être de l’espérance ; je me dis que quand je partirai, couché sur un lit à regarder le plafond en sentant le froid qui remonte de mes pieds vers mon cœur, je pourrai dire au patron, dont je suppose qu’il m’attend de l’autre côté : j’ai joué ma partition, maintenant, tu décides pour la suite. Je trouve que ce qui rend la vie intéressante, c’est de se battre pour en arriver là : savoir qu’on a lutté.

Donc, en somme, pour répondre à votre question : c’est la lutte qui donne joie et espérance. Il ne s’agit donc pas de trouver joie et espérance pour lutter, mais de lutter pour trouver joie et espérance. Enfin, c’est comme ça que je vois les choses.

On trouve dans Vendetta cette sentence très juste : « On peut tout vouloir (…) à condition de vouloir les conséquences de ce qu’on veut ».

Dans un contexte de tensions réelles, et de surenchère générale – consciente ou ignorée - peut-on réellement vouloir précipiter le chaos?

Le narrateur de Vendetta est un homme absolument désespéré. Et c’est terrifiant : imaginez un monde où on aurait fabriqué des millions de fils uniques narcissiques, shootés à la consommation, plongés dans une absurdité radicale, et du jour au lendemain, réduits à la pauvreté, à l’impossibilité de se délivrer de l’Absurde par la consommation, de l’absence de transcendance par la mondanité. C’est le monde de demain, si la machine économique occidentale tombe complètement en panne, d’un coup, alors que le conditionnement consumériste des populations s’est poursuivi jusqu’au dernier moment.

Alors là, oui, en effet, on va avoir des gens qui pourront tout vouloir…

Vous explorez, à travers l'écriture, deux scenarii envisageables dans un futur proche : version décliniste, l’élite continue de piloter sans rencontrer d’écueil majeur et nous mourrons spirituellement. Version catastrophiste (Eurocalypse), l'accident se produit et laisse place au désastre. Comme les survivalistes, croyez-vous à la possibilité d'un collapse rapidement généralisable? Dans ce cas, pourquoi l'élite prendrait-elle le risque d'un clash intégral, alors que le chaos modéré lui permet de régner?

Je suppose que « l’élite », qui a manifestement créé le chaos, est persuadée qu’elle pourra le contrôler de bout en bout, dans un scénario décliniste. Mais la question, c’est : est-ce qu’elle pourra le contrôler de bout en bout ?

Vous savez, le Système n’est pas aussi fort qu’on le croit. Oh, certes, ce n’est pas nous qui allons le renverser frontalement. Mais le risque est réel qu’il se renverse lui-même. Tenez, imaginez, dans quelques années : révolte au Congrès des USA, audit de la FED, fin du financement de la dette par la dette, faillite des Etats US, réduction drastique du budget militaire étatsunien, évacuation des bases US un peu partout dans le monde. Peu après, l’Iran, délivré de la pression US, annonce disposer de l’arme nucléaire. Une « super-Intifada » traverse les « territoires occupés », le Hezbollah multiplie les attaques contre Israël. La Chine, furieuse que les Occidentaux aient organisé la déstabilisation du Soudan pour en récupérer le pétrole, laisse faire la révolte musulmane, et même la soutient discrètement. Paniquée, Tel-Aviv ordonne au MOSSAD de déclencher une série d’attentats sous faux drapeau, en Europe occidentale, pour obliger les Européens à s’engager massivement au Proche-Orient. La France, dont le président est un certain Dominique Strauss-Kahn, envoie des troupes en Palestine. Les banlieues françaises, du coup, s’enflamment…

C’est un scénario possible, parmi des dizaines qui peuvent nous plonger, très vite et presque sans crier gare, dans un contexte si instable que plus personne ne pourra vraiment le maîtriser. Alors la question, ce n’est pas est-ce que « l’élite » veut le chaos (elle le veut), ni elle est-ce qu’elle pense le maîtriser (elle le pense). La question, c’est : est-ce qu’elle pourra le maîtriser ?

Entre violence de bande synonyme de « refus de l’atomisation imposée par le monde moderne » (M. Maffesoli), et dépouille de blancs nantis interprétée comme de la « lutte des classes qui s’ignore » (A. Soral), la banlieue française est-elle en train de « rappeler au peuple qu’il s’est éloigné de la vertu » (in Vendetta)? Peut-elle, entre islam modéré et frustration exaspérée, constituer un relais de force révolutionnaire?

La banlieue française, peut-on en parler au singulier ? « On » voudrait nous faire croire qu’elle est peuplée majoritairement d’islamo-gangsters violeurs, ce qui est ridicule. Il serait tout aussi ridicule de prétendre qu’elle n’est peuplée que de gens vertueux…

La banlieue française me semble surtout, aujourd’hui, faire l’objet de beaucoup de fantasmes. En pratique, j’ai plutôt l’impression qu’on a affaire à un patchwork très hétérogène, où les forces les plus positives coexistent avec des forces extrêmement négatives. Le jeu, de mon point de vue de « de souche », consiste à nouer des alliances avec les forces positives pour neutraliser et si possible éradiquer progressivement les forces négatives.

D’où, soit dit en passant, l’intérêt d’une démarche comme E&R : il est essentiel que les hommes de bonne volonté réfléchissent ensemble à la manière dont on peut sortir de la situation inextricable où notre classe dirigeante nous a mis. Il s’agit de définir un processus de ré-enracinement des populations déportées chez nous par le capitalisme mondialisé – un ré-enracinement soit ici, soit dans leur pays d’origine, selon les cas, mais toujours dans le respect du droit des gens, sans naïveté mais sans préjugés. Il va falloir que tout le monde y mette du sien.

Votre idée de BAD (Base Autonome Durable), ilot fractionnaire, est pensée comme un système superposable au Système. Une alternative en lisière, reposant sur l'autonomie sécuritaire et médiatique, la construction d'une économie alternative et "une esthétique de la rareté, de la conscience et de la possession de soi". L'autonomie de la communauté y serait assurée par le trinôme Gardes (sécurité), Référents (éducation) et Intendants (production visant l'autarcie). Vous soulignez par ailleurs l'importance du légalisme ("c'est de loin la meilleure subversion").

Pourtant, entre bouc-émissairisation (cf. Tarnac) et accomplissement limité (cf. la Desouchière), la BAD n'est-elle pas une idée "grillée"? Par ailleurs, accepter de ne pas dépasser les bornes du système,  n'est ce pas réduire sa marge de manœuvre?

Tout d’abord, je vous ferai remarquer une chose : si j’avais décidé de « dépasser les bornes du système », je ne préviendrais pas…

Ensuite, je reste ouvert à toute autre proposition. Quel concept alternatif à la BAD peut-on me proposer ? Pour l’instant, j’observe qu’on ne m’a rien avancé de bien concluant. Alors la BAD n’est pas la panacée, certes, mais en attendant, c’est une expérimentation à conduire.

Les modes de vie alternatifs existent d'ores et déjà : dans le domaine de l'éducation (écoles Montessori, Steiner, homeschooling,…), de l'autonomie alimentaire (AMAP, magasins de producteurs, …), de l'habitat (auto construction, énergies renouvelables,…),…

Quelle urgence ou nécessité implique de penser l'autonomie sous forme communautaire, comme dans le cas de la BAD ?

Je ne sais pas si la BAD sera nécessairement communautaire. Ce qui est certain, c’est que si vous voulez résister à la pression du Système, il faut que ce soit collectif. Mais communautaire, ce n’est pas obligatoire. On peut très bien imaginer d’ailleurs plusieurs niveaux d’intégration, avec des noyaux communautaires et des entreprises non communautaires gravitant autour, et intégrant progressivement des individus « à cheval », un pied « dans le Système », un pied dehors.

Bref, sur le plan organisationnel, tout est à construire, tout est ouvert. Je crois qu’il faut tester, et c’est l’expérimentation qui nous dira progressivement comment faire.

Nombre de nos camarades s’interrogent sur l’organisation concrète d’une BAD. Se rapproche-t-on des écos-villages développés par Diana Leafe Christian ?  Selon vous, qu’elle serait - entre petites structures totalement autarciques et communautés plus poreuses, donc dépendantes -, la taille optimale d’une BAD? Comment y gérer l’humain (« recrutement », sélection, …) en fonction des différentes sensibilités (du néo-baba au survivaliste) ?

Je n’ai pas d’opinion arrêtée sur la taille des BAD. Il est très possible qu’il existe plusieurs « formats » de BAD, et que ces formats présentent tous points faibles et points forts, à étudier selon les circonstances, les choix des individus constituant le groupe, etc. Nous allons d’ailleurs tester prochainement, avec quelques amis, un projet collectif : nous nous ferons un plaisir d’informer E&R Bretagne sur le déroulement de ce projet, ce sera l’occasion d’échanger des expériences.

Cela dit, ce n’est pas la question-clef.

La question-clef, pour moi, ce n’est pas la BAD, mais le réseau des BAD. Là où la démarche « fractionnaire » que je propose se distingue des solutions « survivalistes » ou « écolos » préexistantes, c’est que je ne suggère pas d’installer des BAD ici, là, et là, d’une certaine manière et pas d’une autre. Ce que je suggère, c’est de construire progressivement, par le réseau des BAD, une contre-société.

Pour moi, si un jour on met au point la « BAD idéale », ce sera très bien, mais ce n’est pas l’objectif. L’objectif, c’est par exemple qu’un jour, la population « ordinaire » apprenne qu’il existe désormais un tribunal d’appel pour traiter en deuxième instance tous les litiges que les tribunaux locaux des BAD auront jugés, en fonction d’un code juridique « fractionnaire » (appelez ça autrement si vous voulez, du moment que cela veut dire : séparé, distinct, de l’autre côté d’une ligne imaginaire séparant Système et contre-société). Ce jour-là, le jour où il existera une Loi de la contre-société, je peux vous dire que nous aurons porté au Système que nous combattons le coup le plus rude que nous pouvions lui porter, avec nos faibles ressources : nous aurons repris la parole.

C’est de cela qu’il s’agit. Et comme vous le voyez, ça n’a rien à voir avec les néo-babas.

Pour conclure cet entretien, et avant de laisser nos lecteurs retourner fourbir leurs armes contre l’hétéronomie, avez-vous quelque chose à ajouter ? Une remarque, un conseil de lecture, une recommandation ou une digression sur un sujet de votre choix, …

Peut-être un mot sur votre président, Alain Soral, qui a (encore) des démêlés avec le lobby qui n’existe pas.

Nous ne sommes pas tout à fait d’accord sur cette question : lui, il croit que c’est la question centrale, et moi, je crois qu’elle est très périphérique, même si elle est très perceptible. En outre, peut-être influencé par le protestantisme, je porte sur le monde juif un regard beaucoup plus nuancé que le sien – et même, dans certains cas, un regard de sympathie. J’aurais sans doute, un jour, pas mal de choses à lui dire sur le livre d’Ezéchiel, l’éthique de responsabilité et la question du « contrat » passé entre l’homme et Dieu dans la religion hébraïque… où notre ami pourrait voir que lire Ezéchiel comme un texte « sioniste », c’est faire un léger anachronisme !

Mais, en attendant, je trouve lamentable qu’on attaque quelqu’un en justice pour des propos où il ne fait que formuler une opinion sur l’état du pays et le rôle d’une communauté. Si ces propos sont fallacieux, qu’on en apporte la preuve dans une discussion ouverte et contradictoire. Depuis quand, en France, la justice doit-elle sanctionner les simples opinions ? Il est possible que celles de monsieur Soral soient erronées : eh bien, qu’on le prouve, qu’on déconstruise son propos, qu’on en montre les limites ou les erreurs. Mais la justice n’a pas à intervenir dans le débat d’idées, ou alors, et qu’on nous le dise franchement, nous vivons sous une dictature.

La judiciarisation du débat, en France, devient étouffante. Elle participe d’une entreprise générale d’intimidation des esprits libres. C’est pourquoi, indépendamment de notre opinion sur le fond, nous devons soutenir Alain Soral quand on prétend le faire taire par décision de justice, alors qu’il n’a formulé aucun appel explicite à commettre le moindre acte illégal.

Sinon, après, à qui le tour, et sous quel prétexte ?

Pour E&R en Bretagne,

Mathieu M. et Guytan

 

lundi, 07 février 2011

Irenäus Eibl-Eibesfeldt: Ist der abendländische Mensch vom Aussterben bedroht?

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Schon vor 15 Jahren wurde von Eibl-Eibesfeldt eigentlich bereits alles gesagt zur gegenwärtigen Misere. (Ich stimme ihm dabei zu 100 Prozent zu) Aber es hat nichts verändert. Das zeigt doch wohl, daß die bestehende gesellschaftliche Struktur wahrscheinlich nicht mehr aus sich heraus reformfähig ist....

Lesenswertes Interview mit Irenaeus Eibl-Eibesfeldt aus dem Jahr 1996

Sagen Sie mal, Irenäus Eibl-Eibesfeldt ...
IST DER ABENDLÄNDISCHE MENSCH VOM AUSSTERBEN BEDROHT?
Von Michael Klonovsky
http://www.focus.de/politik/deutschland/deutschland-sagen...
IST DER ABENDLÄNDISCHE MENSCH VOM AUSSTERBEN BEDROHT?
Eibl-Eibesfeldt: So gefährlich ist die Situation nicht. Der abendländische Mensch ist sehr dynamisch, findig, einfallsreich und neugierig, und er wird seine Probleme sicher meistern.

FOCUS: Sie warnen seit Jahren vor den Folgen der Immigration; zugleich schauen Sie so gelassen auf die Zukunft des Abendländers?

Eibl-Eibesfeldt: Es geht mir zunächst einmal um die Erhaltung des inneren Friedens. Entscheidend ist deshalb auch, wer einwandert. Die europäische Binnenwanderung hat es immer gegeben, mitunter auch massive Immigrationswellen und kriegerische Überschichtungen. Aber die Bevölkerung im breiten Gürtel von Paris bis Moskau hat etwa die gleiche Mischung, sie ist anthropologisch nah verwandt. Die europäischen Nationalstaaten haben das Glück, relativ homogen zu sein.

FOCUS: Der Begriff des Ausländers müßte also durch den des Kulturfremden ersetzt werden?

Eibl-Eibesfeldt: Ich würde sagen: Kultur-fernen. Die integrieren und identifizieren sich nicht so leicht. Bei den innereuropäischen Wanderungen wurden die Leute integriert.

FOCUS: Und das ist Bedingung?

Eibl-Eibesfeldt: Es gibt diese schöne Idee, daß Immigranten ihre Kultur behalten und sich als deutsche Türken oder deutsche Nigerianer fühlen sollen, weil das unsere Kultur bereichert. Das ist sehr naiv. In Krisenzeiten hat man dann Solidargemeinschaften, die ihre Eigeninteressen vertreten und um begrenzte Ressourcen wie Sozialleistungen, Wohnungen oder Arbeitsplätze konkurrieren. Das stört natürlich den inneren Frieden. Die Algerier in Frankreich etwa bekennen sich nicht, Franzosen zu sein, die sagen: Wir sind Moslems. Vielfalt kann in einem Staate nebeneinander existieren, wenn die Kulturen verwandt sind, jede ihr eigenes Territorium besitzt und keine die Dominanz der anderen zu fürchten braucht – wie etwa in der Schweiz.

FOCUS: Also müssen die Türken in Deutschland die Deutschen fürchten?

Eibl-Eibesfeldt: Gegenseitig. Wenn man über Immigration Minoritäten aufbaut, die sich abgrenzen und ein anderes Fortpflanzungsverhalten zeigen, wird das Gleichgewicht gestört. Immigrationsbefürworter sagen: Die werden sich angleichen. Nur: Warum sollten sie eigentlich? Deren Interesse kann doch nur sein, so stark zu werden, daß sie bei Wahlen eine Pressure-Gruppe darstellen, die ihre Eigen-interessen durchsetzen kann.

FOCUS: In Amerika werden die Weißen in hundert Jahren vermutlich Minderheit sein . . .

Eibl-Eibesfeldt: Das hat in erstaunlicher Offenheit das „Time-Magazine“ ausgesprochen. Die Amerikaner haben gerade kulturferne Immigranten gefördert in dem Glauben, man dürfe nicht diskriminieren. Aber Diskriminierung – auf freundliche Weise – betreibt ja jeder! Die eigenen Kinder stehen uns näher als die der anderen, die Erbgesetze nehmen darauf Rücksicht, und es ist ja auch schon diskriminierend, daß kein Fremder in meinen Garten darf. Auch ein Land darf seine Grenzen verteidigen. Wenn jemand den Grenzpfahl in Europa nur um zehn Meter verschieben würde, gäbe es furchtbaren Krach, aber die stille Landnahme über Immigration soll man dulden?

FOCUS: Das gebietet der Philanthropismus, sofern der nicht ein evolutionärer Irrläufer ist.

Eibl-Eibesfeldt: Es wird nicht in Rechnung gestellt, daß wir, wie alle Organismen, in einer langen Stammesgeschichte daraufhin selektiert wurden, in eigenen Nachkommen zu überleben. Europäer überleben nun mal nicht in einem Bantu, was gar keine Bewertung ist, denn für den Biologen gibt es zunächst einmal kein höheres Interesse, das sich im Deutschen oder im Europäer verwirklicht – nicht mal in der Menschheit.

FOCUS: Solche Ansichten haben ihnen den Vorwurf des Biologismus eingetragen, wobei Sie sich im Lasterkatalog der Wohlmeinenden noch zum Rassisten oder Faschisten hocharbeiten können.

Eibl-Eibesfeldt: Die Leute, die so de-monstrativ ihren Heiligenschein polieren, tun das ja nicht aus Nächstenliebe, sondern weil sie dadurch hohes Ansehen, hohe Rangpositionen, also auch Macht, gewinnen können – früher als Held, heute als Tugendheld. Der Mensch kann alles pervertieren, auch Freundlichkeit oder Gastlichkeit, und wenn die Folgen sich als katastrophal erweisen, schleichen sich die Wohlmeinenden meist davon und sagen: Das haben wir nicht gewollt.

FOCUS: Aber dieses Verhalten ist doch evolutionär schwachsinnig.

Eibl-Eibesfeldt: Sicher. Es sterben ja immer wieder Arten aus. Fehlverhalten im Politischen kann eine Gruppe immer wieder gefährden, wie man zuletzt am Marxismus gesehen hat.

FOCUS: Was sollten wir also tun?

Eibl-Eibesfeldt: Wir müssen von dem fatalen Kurzzeitdenken wegkommen. Wie alle Organismen sind wir auf den Wettlauf im Jetzt programmiert. Wir sind aber zugleich das erste Geschöpf, das sich Ziele setzen kann, das seinen Verstand und seine Fähigkeit, sozial zu empfinden, fürsorglich zu sein, auch mit einbringen kann.

FOCUS: Was bedeutet das praktisch?

Eibl-Eibesfeldt: Ein generationsübergreifendes Überlebensethos. Ich würde vorschlagen, daß sich Europa unter Einbeziehung Osteuropas großräumig abschottet und die Armutsländer der Dritten Welt durch Hilfen allmählich im Niveau hebt. Wenn wir im Jahr 1,5 Millionen Menschen aus der Dritten Welt aufnähmen, würde das dort überhaupt nichts ändern – das gleicht der Bevölkerungsüberschuß, wie Hubert Markl unlängst betonte, in einer Woche wieder aus, solange es keine Geburtenkontrolle gibt. Man kann gegen eine Bevölkerungsexplosion in diesem Ausmaß sonst nichts tun, bestenfalls das Problem importieren, wenn man dumm ist.

FOCUS: Das ist dann, wie Sie schreiben, „Überredung zum Ethnosuizid“?

Eibl-Eibesfeldt: Die heute für die Multikultur eintreten, sind eben Kurzzeitdenker. Sie sind sich gar nicht bewußt, was sie ihren eigenen Enkeln antun und welche möglichen Folgen ihr leichtfertiges Handeln haben kann.

FOCUS: Ist der moderne Westeuropäer überhaupt noch vitalistisch erklärbar? Leistet er sich aus evolutionärer Warte nicht zuviel Luxus wie Immigration, Feminismus, Randgruppendiskurse, den Wohlfahrtsstaat?

Eibl-Eibesfeldt: Das wird sich wieder moderieren, wie man in Wien sagt . . .

FOCUS: Über Katastrophen?

Eibl-Eibesfeldt: Nicht nur. Ich glaube, daß die Leute Vernunftgründen doch zugänglich sind. Konrad Lorenz hat gesagt, es sei doch sehr unwahrscheinlich, daß von einer Generation auf die andere alles kulturelle Wissen auf einmal hinfällig und überholt ist. Die Tradition mitsamt der Offenheit für Experimente in gewissen Bereichen und die Bereitschaft zur Fehlerkorrektur, das zusammen eröffnet uns große Chancen. Aber alles umzubrechen und Großversuche wie das Migrationsexperiment anzustellen, das ja nicht mehr rückgängig zu machen ist, halte ich für gewissenlos. Man experimentiert nicht auf diese Weise mit Menschen.

FOCUS: Sie sagen, daß Xenophobie – Fremdenscheu, nicht Fremdenhaß – stammes-geschichtlich veranlagt ist.

Eibl-Eibesfeldt: Das ist in der Evolution selektiert worden, um die Vermischung zu verhindern. Die Fremdenscheu des Kleinkindes sichert die Bindung an die Mutter. Später hat der Mensch das familiale Ethos zum Kleingruppenethos gemacht. Mit der Entwicklung von Großgruppen erfolgte eine weitere Abgrenzung. Die ist unter anderem an Symbole gebunden, die Gemeinsamkeit ausdrücken sollen. Beim Absingen von Hymnen überläuft viele ein Schauer der Ergriffenheit, was auf die Kontraktion der Haaraufrichter zurückzuführen ist. Es sprechen da kollektive Verteidigungsreaktionen an; wir sträuben einen Pelz, den wir nicht mehr haben.

FOCUS: Das ist alles etwas Gewordenes. Kann sich nicht eines Tages den türkischen Deutschen und den deutschen Deutschen beim Abspielen der gemeinsamen Nationalhymne gemeinsam der Pelz sträuben?

Eibl-Eibesfeldt: Wenn das über Integration erfolgte, ja. Eine langsame Durchmischung kann durchaus friedlich verlaufen, und es kann etwas Interessantes herauskommen. Wir sprechen aber davon, ob in einem dichtbevölkerten Land über Immigration das Gesundschrumpfen der Bevölkerungszahl aufgehalten werden soll. Das fördert sicherlich nicht den inneren Frieden, sondern könnte selbst zu Bürgerkriegen führen – wir haben ja bereits das Kurdenproblem. Das ist nicht böse gemeint, es zeigt eben, daß diese Gruppen ihre Eigeninteressen ohne Rücksicht vertreten. Ich verstehe da übrigens auch die Grünen nicht, die sich gegen jede Autobahn sträuben und klagen, daß das Land zersiedelt wird. Dann kann man nicht zugleich alle reinlassen wollen.

FOCUS: Würden Sie bitte zu den folgenden Personen einen Satz sagen: Edmund Stoiber.

Eibl-Eibesfeldt: Ein sehr klarer, engagierter Geist; ein Lokalpatriot, der aber auch gut nach Bonn passen würde.

FOCUS: Alice Schwarzer.

Eibl-Eibesfeldt: Das Anliegen der Gleichberechtigung ist berechtigt, man sollte aber nicht die Rolle der Frau als Mutter abwerten.

FOCUS: Jörg Haider.

Eibl-Eibesfeldt: Ein stürmischer, sicherlich national betonter Mann, ein Hitzkopf, aber natürlich kein Rechtsradikaler – es wählen nicht 23 Prozent der Österreicher rechtsradikal.

FOCUS: Madonna.

Eibl-Eibesfeldt: Was soll man dazu sagen? Lustig, daß es so etwas gibt.

FOCUS: Nietzsches „Zarathustra“ hat die Ära des „verächtlichsten Menschen“ beschworen, des „letzten Menschen“, der alles klein macht und meint, er habe das Glück erfunden . . .

Eibl-Eibesfeldt: Das ist sicherlich kein wünschenswerter Typus, denn der will ein passives Wohlleben ohne Dynamik.

FOCUS: Interessanterweise hat dieser letzte Mensch, wenn auch mit russischer Hilfe, den Zweiten Weltkrieg gegen die blonde Bestie gewonnen.

Eibl-Eibesfeldt: War das der letzte Mensch? Das waren doch ganz tüchtige, mutige Leute. Ich würde sagen, wir haben den Krieg verloren, weil wir den Satz Immanuel Kants vergessen haben, man müsse sich auch im Krieg so verhalten, daß ein späterer Friede möglich ist. Man kann daraus übrigens lernen, daß Inhumanität kein positiver Selektionsfaktor ist.

FOCUS: Wie auch immer, der letzte Mensch steuert scheinbar unaufhaltsam der Weltzivilisation entgegen. Halten Sie einen globalen Einheitsmenschen für vorstellbar?

Eibl-Eibesfeldt: Ich kann mir vorstellen, daß es große Blöcke geben wird, in denen der Bevölkerungsaustausch eine ziemlich einheit-liche Population hervorbringt. Aber der Verlust an Differenzierung wäre schade. Das würde eine Weltsprache bedeuten oder eine Sprache des eurasischen Blockes. Niemand würde mehr spanische oder italienische Autoren lesen . . .

FOCUS: Aber Sie als Ethologe müßten solche Verluste doch in den Skat drücken können. Die verschiedenen Sprachen sind doch bloß Neandertaler.

Eibl-Eibesfeldt: Dann bin ich eben ein Neandertaler. Ich liebe die kulturelle Buntheit. Die Neigung, sich abzugrenzen und eigene Wege zu gehen, ist schon im Tier- und Pflanzenreich ausgeprägt. Artenfülle ist die Speerspitze der Evolution, da wird dauernd Neues probiert. Der Mensch macht das kulturell, und wenn er seine kulturelle Differenzierung verliert, verliert er sehr viel von dem, was ihn zum heutigen Menschen gemacht hat. Wir wissen, daß es andere Möglichkeiten gibt; der Ameisenstaat ist perfekt. Die Frage ist nur, ob wir uns das als Individuen wünschen können.

FOCUS: Jetzt sind Sie so anthropozentrisch.

Eibl-Eibesfeldt: Ich gehöre der Gattung Homo sapiens an. Ob sich die Humanität bewährt, für die ich ja plädiere, wissen wir nicht, aber ich sehe durch die ganze Geschichte, daß sie sich bewähren könnte.

FOCUS: Das Glück des letzten Menschen scheint unverträglich mit der Idee zu sein, als Glied einer Generationenkette zu existieren.

Eibl-Eibesfeldt: Das ist ein schrecklicher Irrglaube. Wer keine Kinder in die Welt setzt, steigt aus dem Abenteuer der weiteren Entwicklung aus.

FOCUS: Das ist denen ja egal.

Eibl-Eibesfeldt: Ja, aber die Natur sorgt schon dafür, daß dann deren Gene nicht weiterleben. Ich glaube, daß diese Leute um einen Teil ihres Lebensglücks betrogen wurden. Zum Individuum gehört das Bewußtsein, daß man eben nicht nur Individuum ist, sondern eingebettet in eine größere Gemeinschaft und in einen Ablauf von Generationen und daß wir den Generationen vor uns unendlich viel verdanken.

FOCUS: Es handelt sich also um das freiwilliges Ansteuern einer evolutionären Sackgasse?

Eibl-Eibesfeldt: Ich kann im Hirn des Menschen über Indoktrination und dauernde Belehrung Strukturen aufbauen, die diese Menschen gegen ihre Eigeninteressen und gegen die Interessen ihrer Gemeinschaft handeln lassen. Ein Kollektiv kann ja von religiösem Wahn befallen werden und sich umbringen.

FOCUS: Da haben wir den Bogen zurück zur Eingangsfrage: Schafft sich der westliche hedonistische Individualmensch kraft nach-lassender Vitalität allmählich selbst ab?

Eibl-Eibesfeldt: Zu allen Zeiten haben Gruppen andere verdrängt, und es gibt sicherlich kein Interesse der Natur an uns. Aber es gibt ein Eigeninteresse. Man muß nicht notwendigerweise seine eigene Verdrängung begrüßen.

„Wenn man über Immigration Minoritäten aufbaut, die sich abgrenzen, wird das Gleichgewicht gestört“

„Das Kurdenproblem zeigt, daß fremde Gruppen ihre Eigeninteressen ohne Rücksicht vertreten“

„Inhumanität ist kein positiver Selektionsfaktor“

„Wer keine Kinder in die Welt setzt, steigt aus dem Abenteuer der weiteren Evolution aus“

SKEPTISCH-HUMANISTISCHER VERHALTENSFORSCHER

HERKUNFT: 1928 in Wien geboren

BILDUNGSWEG: Studium Naturgeschichte und Physik, 1949 Promotion (Zoologie) in Wien

KARRIERE: 1949-69 Schüler und Mitarbeiter von Konrad Lorenz. 1963 Habilitation (Uni München). Seit 1975 Leiter der Forschungsstelle f. Humanethologie der Max-Planck-Gesellschaft (in Andechs). Seit 1992 Direktor des Instituts f. Stadtethologie Wien

vendredi, 04 février 2011

Generation Null: Vom Normalbürger zum Wutbürger

Generation Null: Vom Normalbürger zum Wutbürger

Udo Ulfkotte

 

Überall in Europa freuen sich Medienvertreter in diesen Tagen über die Revolutionen in Nordafrika. Man begrüßt die Tage des Zorns und liefert in allen Gazetten gleich einleuchtende Erklärungen für die Umsturzversuche mit: soziale Probleme, hohe Arbeitslosigkeit und eine Jugend ohne Perspektive. Und die Analysen der Journalisten enden häufig mit den Worten: Genug Probleme für eine Revolution. Dummerweise verdrängen jene, die aus ihren europäischen Schreibstuben über die grassierende Unzufriedenheit der jungen Menschen in Nordafrika (und jetzt auch Indien) berichten, dass die Lage vor unseren europäischen Haustüren keinen Deut besser ist.

Mehr: http://info.kopp-verlag.de/hintergruende/europa/udo-ulfko...

 

 

mardi, 01 février 2011

2030: Moslims in Brussel en Antwerpen

mosqBXL.jpg

Ex:

http://www.npdata.be/BuG/139-aantal-moslims/

BuG 139 - Bericht uit het Gewisse 28-01-2011 Printversie (5 p)

In 2030 wonen 29,7% moslims in Brussel en 27,0% in Antwerpen
 

Aandeel Europese moslims constant op 2,7% de komende 20 jaar
  
Evolutie % moslims in de wereld: 19,9% in 1990, 23,4% in 2010, 26,4% in 2030.
Komende 20 jaar is er een afremming van hun beperkte groei op wereldvlak.
Forse daling geboorten per vrouw in moslimlanden en bij Belgische moslims.
Voor België voorspelt PEW groei moslims op 20 jaar tot 10.2% van bevolking.
De update van npdata voorziet in een groei van 5,8% in 2010 tot 9,3% in 2030.
Brussel zal nooit een moslimmeerderheid kennen: 22% in 2010, 29,7% in 2030.
Niet alleen daling geboorten, maar ook moslims sterven als ze oud worden.

Documentatie

Moslims in België per gemeente en nationaliteit: Moslims per gemeente 2010(excel)  Moslims per gemeente 2030 (excel) -  Langs de +-jes krijg je een groter detail per gemeente (rijen) en nationaliteiten (kolommen)

Beschrijving: http://www.npdata.be/BuG/139-aantal-moslims/moslims-2010-klein.jpg                 Beschrijving: http://www.npdata.be/BuG/139-aantal-moslims/moslims-2030-klein.jpg
Aantal moslims 2010                Aantal moslims 2030
%-ges op 2de blad                                               

Pewforum: Artikel aantal moslims 2030 met kaart en tabel  Rapport 2030 (11MB)  Gewogen wereldkaart moslims 2009  Artikel georganiseerdheid fundamentalisme  
Duits onderzoek 2008:  Site Bundesambt fur Migration und Fluchtlinge  Volledig Duits onderzoek (10MB) - Samenvatting in het Duits (6MB) - Samenvatting in het Engels (6MB)
Nederlands onderzoek 2006: Rapport Nederlands onderzoek (0,2MB)
Articles/Artikels Le Soir (pdf): 17-11-2010/1(onderzoek) 17-11-2010/2 (onderzoek) 18-11-2010 (forum krant) Ricardo Gutiérrez antwoordt op vragen 
 
  
Inleiding

De recente publicatie van het PEW-forum over het aantal moslims in de wereld en de berekening van hun aantal binnen 20 jaar, in 2030, rekening houdend met vruchtbaarheid, migratie en andere factoren , geeft stof tot nadenken en tot bijstellen van een aantal (voor)oordelen. Mediadoc titelt bv: "Islam nefast voor overbevolkingsspiraal; geloof in een buitenaards superwezen en lid zijn van een bepaalde godsdienst kan nefast zijn  voor planeet aarde". Vraag is maar of dit soort ideeën niet nefaster zijn voor de aarde en de mensen dan de Islam of het geloof in een god, zeker als men nalaat om het onderzoek zelf eens ter hand te nemen.

Beschrijving: http://www.npdata.be/BuG/139-aantal-moslims/MDII-graphics-webready-05.png

Het PEW forum on religion & public life maakt in ieder geval een oefening op een hoog niveau en daagt in feite alle demografen en wetenschappelijke godsdienstwatchers uit in universiteiten en studiediensten in dit land om eens met hun eigen materiaal te komen. Npdata speelt hierin maar als reserve, bij ontstentenis aan een alternatief, om toch een minimaal idee te geven van aantal moslims en evolutie van hun aantal in het kader van wat Mark Eyskens de 'allochtonisering van België' noemt, een voor hem onontkoombaar en waardevol gegeven in deze veranderende wereld. Best is toch evoluties in te schatten, de impact te voorzien en het potentieel te vatten. Zeker als de wetenschap er eerder op staat om anderen de mond te snoeren dan zelf kennis en visie te ontwikkelen, is deze BuG ook een uitnodiging tot debat. In deze BuG hernemen we de publicatie van het aantal moslims zoals door npdata in Le Soir van 17/11/2010 al is gepubliceerd samen met Ricardo Guiterez, (zie linken in de documentatie hierboven) en situeren we deze resultaten ook tegen de achtergrond van de PEW-studie.

Dubbel zo sterk groeien en toch maar beperkte groei van 3% op 20 jaar.

Moslimbevolking groeit dubbel zo sterk als niet-moslims” geeft de indruk dat zij dubbel zo veel kinderen krijgen of dat hun aandeel binnen de kortste keren verdubbelt, niets is minder waar. Als de niet-moslimvrouw gemiddeld 2,2 kinderen krijgt in haar levensloop en de moslimvrouw 2,4 dan is de aangroei van moslims als gevolg van geboorten dubbel zo hoog bij moslimvrouwen als bij niet-moslimvrouwen ook al is er hier maar een verschil van 0,2 geboorten op een levensloop, juist omdat de ‘aangroei’ van een bevolking maar gebeurt na het 2de kind. Zelfs met die dubbele groeisterkte zal het aandeel van moslims in de wereld op 20 jaar maar met 3% groeien, nl van 23,4% tot 26,4% in 2030. Zo blijft het aandeel van moslims in europa gedurende de komende twee decennia gelijk op 2,7% van alle moslims op wereldvlak. De moeite om de PEW-cfijers zelf eens te exploreren op hun site en er een demografisch bad te nemen met een gans assortiment begeleidende zeepjes en accessoires, zie PEW artikel aantal moslims 2030.
 
Welk is de referentie van de PEW-studie: 6,0% moslims in België in 2010

In de voorliggende PEW-studie wordt verwezen naar de update van de berekening van het aantal moslims in alle landen van de wereld met opgave van de bronnen per land. Voor België is dit de 'volkstelling van 2001, met projecties voor  2010, 2020 and 2030' uitgevoerd door het International Institute for Applied Systems Analysis. In de Pew-publicatie van 2009 werd nog het cijfer aangehaald van 281.000 moslims, of 2,6 %, hierbij voortgaande op de surveyonderzoeken van het Eyripean Social Survey, 2006, waarvan de opmakers (KUL) zelf aanhalen dat deze survey tekort schiet om het aantal moslims in te schatten. Bij de publicatie van het  PEW-rapport 2009 heeft npdata haar onderzoeksresultaten dan ook aan het PEW gesignaleerd: in BuG 100 worden 628.751 moslims of 6,0% van de Belgische bevolking geteld, en het is ditzelfde % waar het IASA ook op uitkomt en dat door het PEW-forum no voor 2010 wordt verrekend. Dat is een knap staaltje van het IASA, of moeten we zeggen van  npdata :-). Alleszins wordt hiermee een appèl gericht naar het centrum van demografie van de VUB en Pascal Deboosere die de gegevens van de volkstelling 2001 beheren, zij zullen allicht op de hoogte zijn van het werk van de IASA op basis van hun cijfers.

Update voor 2010 van de npdata-berekening aantal moslims in België

Zoals Nederland in 2006 en Duitsland in 2008, heeft npdata in 2010 een update gemaakt van haar berekening van aantal moslims in België. In Nederland werd in 2006 de vraag naar godsdienstbeleving eenmalig opgenomen in de huishoudenquête en dit bracht een bijstelling mee van aantal moslims naar onder. In de PEW studie wordt er naar verwezen met een aanpassing van  5,7% naar 5,5%. In Duitsland werd voor het eerst door het Bundesambt fur Migration und Fluchtlinge een enquête op grote schaal gehouden (6.000 eenheden) naar het aantal moslims in de diverse nationaliteitsgroepen/landen met moslimachtergrond. Tot dan toe gingen zij, zoals npdata, voort op de CIA-% percentages moslims in de landen van herkomst. Hierdoor werd in feite geen rekening gehouden met de 'laïcisering' van moslims, dwz het zich niet meer bekennen tot de islam wanneer daarnaar de vraag gesteld wordt. 
 
Laïciseringproces  van moslims in het westen

Voortgaande op het moslimpercentage in het gastland voor Marokko en Turkije komt de oude berekeningsmethode neer op 99% als men van Marokkaanse of turkse afkomst is. Als de vraag gesteld naar toebehoren tot een godsdienst zoals in Duitsland, geeft 88% van de Marokkaanse en Turkse vreemdelingen de islam op (een uitval van 12%) en 74% van de Duits geworden Marokkanen en Turken refereren naar de islam, of een vermindering met 14% tot 3/4 van de populatie. In feite is er, mede door het verblijf in een 'westers' land en doorheen de opvolging van generaties sprake van een 'laïcisering'. 82% van de Algerijnse en Tunesische vreemdelingen bekennen zich tot de islam, en 64% van de Duits geworden Algerijnen en Tunesiërs, Algerijnen en Tunesiërs behoren tot een oudere migratie dan turken en Marokkanen.

Vraag is of de resultaten van deze Duitse enquête kunnen toegepast worden op de Belgische situatie. Bij gebrek aan beter maar ook omdat de 'westerse' context in Duitsland, België of Nederland gelijklopend is, lijkt ons de overname van deze resultaten gerechtvaardigd. In het Forum van Le Soir wordt dat door Professor Jacobs betwist, evenwel zonder dat hij het Duitse onderzoek al geraadpleegd had. De resultaten uit de Nederlandse huishoudenquête Nederlandse huishoudenquete 2006 gaan trouwens in dezelfde zin. 

Gebruikte methode voor de berekening van aantal moslims in België
 
De berekening van aantal moslims in België naar gemeente en nationaliteit gaat voort op twee nieuwe beschikbare gegevens:
 
1. Berekening van het aantal inwoners van vreemde afkomst per gemeente en nationaliteit zoals uitgewerkt in BuG 125. . Hierin begrepen zijn de vreemdelingen, de Belg geworden vreemdeling en het natuurlijk- en migratiesaldo van deze Belg-geworden vreemdelingen na hun Belgwording. Om een zo accuraat mogelijk beeld te geven van de huidige situatie werden de bevolkingsgegevens van 2008 geëxtrapoleerd naar 2010, voortgaande op de gemiddelde evolutie tussen 2003 en 2008. Een opmerkelijke en merkwaardige opinie van Mark Eyskens, onze prof economie in 1969, zet deze 'allochtonisering van België', in het hart van z'n betoog.
2. Resultaten van de Duitse enquête met de vraag "tot welke goddienst behoor je", waarop een aantal godsdiensten genoemd werden. Door de identificatievariabelen kon het onderscheid gemaakt worden tussen  vreemdelingen en Duits-geworden vreemdelingen en nageslacht. Voor methodologie en uitwerking, zie link naar deze studie onder documentatie hierboven. De studie werd door de Duitse overheidsinstantie, bevoegd voor migratie en vluchtelingen, uitgevoerd, daar moet men in België nog niet aan denken. Voor enkele nationaliteiten (Nederland, Frankrijk, ...) geeft de Duitse enquête geen info. Hiervoor gebruiken we nog CIA-gegevens maar enkel voor de vreemdelingen. We gaan er van uit dat een Frans geworden Marokkaan bv die naar België verhuist niet meer de Belgische nationaliteit zal aanvragen. Ook voor de meeste Oost-Europese landen is het aantal moslims niet gekend en moeilijk in te schatten in een evolutie tot 2030. Het betreft hier echter kleine aantallen die slechts een geringe impact hebben op het totale beeld. 
 
Tabel met aantal moslims per gemeente en nationaliteit 01/01/2010
 
Door het % moslims toe te passen op het aantal inwoners van vreemde afkomst per nationaliteit in de verschillende gemeenten kan het beeld geschetst worden van aantal en % moslims in elke gemeente van België. Bijgaande tabel Aantal moslims 2010 naar gemeente en nationaliteit in België is ingeplooid zodat langs de +jes aan de zijkant (tot op het niveau gemeente, arrondissement, provincie, gewest) en vanboven (tot op het niveau van de nationaliteit) de informatie naar het gewenste detail kan open geplooid worden.

 Beschrijving: http://www.npdata.be/BuG/139-aantal-moslims/moslims-2010.jpg

  
Als het 2de plusje bovenaan links wordt aangeklikt komt het % van vreemde afkomst in beeld en het % moslims op het aantal van vreemde afkomst, dwz hoeveel van de inwoners van vreemde afkomst in een gemeente er moslims zijn Dit geeft dan een goed beeld van het aantal moslims binnen het aantal inwoners van vreemde afkomst in een gemeente.

In België worden dus 623.486 moslims berekend of 5,8% van de bevolking, en dat is een lichte aanpassing naar onder gezien de methodologische verfijning. Iedereen kan deze gegevens exploreren, er zijn gedachten of (voor)oordelen op bijstellen of er zijn verbeelding door laten aanspreken.

Wat zegt PEW-forum over 2030

Een toch wel indrukwekkende oefening legt het PEW-forum aan de lezers en geïnteresseerden voor. Voor België gaan zij bv uit van gemiddeld 2,7 kinderen bij de moslimvrouwen in de ganse levensloop, berekend in 2010. Dat aantal zou dalen tot 2,2 in 2030 tegenover 1,7 kinderen bij de niet-moslims zowel in 2010 als in 2030. In 2030 zou er dus (maar) een verschil zijn van 0,5 kind zijn tussen een moslim en niet-moslim vrouw in België. Dat betekent dus een langzame doch een alsmaar verminderende stijging van het aantal moslims langs het aantal geboorten. Het 'natuurlijk saldo' (geboorten - overlijdens) zal bij moslims evenwel hoger liggen omdat er in verhouding met oude Belgen en de oudere migratie de komende decennia minder overlijdens zijn. Maar tegen 2030 zullen naast het verminderend aantal geboorten, het aantal overlijdens stijgen en zal ook de laïcisering zich verder doorzetten. Het PEW-forum houdt ook rekening met de migratie die zij voor België inschatten op gemiddeld 14.000 moslims per jaar, hetgeen overeen zou komen met 30,8% van de immigratie.

Samen met nog enkele andere factoren die kunnen nageslagen worden in de excellente weergave op de PEW-site met het rapport, de grafische voorstelling en de tabel met alle 223 landen, komt het PEW-forum voor België uit op 1.194.000 moslims in België in 2030, of 10,2% van de bevolking, tegenover 638.000 of 6,0% van de bevolking in 2010 in hun berekening.

Wat zegt npdata over 2030.

De berekende cijfers van 2030 liggen al enkele maanden in de schuif van npdata. Een 'simpele' berekening, voortgaande op de cijfers van 2008 waarbij de gemiddelde bevolkingsevolutie tussen 2003 en 2008 all in (migratie, natuurlijk saldo, asiel, regularisatie) wordt doorgetrokken, zonder rekening te houden met een verdere 'laïcisering', geven de resultaten voor 2020 en 2030. Zo komt npdata, vertrekkende van 5,8% of  623.486 moslims in 2010, tot een vooruitzicht van 7,8% of 892.677 moslims in 2020 en 9,3% of 1.116.505 in 2030. In aantal liggen de npdata cijfers dus dicht bij de 1.194.000 van de PEW. De lagere 9,3% voor npdata tegenover 10,2% van de PEW in 2030 komt voort uit de hogere inschatting van de totale bevolkingsevolutie, waarin wij de algemene Belgische prognose volgen, hierdoor verhoogt de noemer en daalt het %.  In tegenstelling tot de PEW wordt de migratiedynamiek sterker maar ook meer gedifferentieerd verrekend door npdata, dus met een grotere instroom van niet-moslims. Dat komt allicht omdat de PEW voortgaat op de volkstelling van 2001 en npdata op de effectieve gemiddelde evolutie van 2003 tot 2008, de laatst gekende gegevens voor België.
 
Brussel zal nooit een 'moslimstad' worden (en dan nog).
 
De doorberekening naar 2030 is voor alle gemeenten en nationaliteiten in België beschikbaar. Daaruit blijkt dat in Brussel er in 2030 29,7% moslims zouden zijn, nog ver van een meerderheid waar nogal wat observatoren, Glenn Audenaert van de federale recherche in Brussel voorop, van uitgaan. Het was Glenn Audenaert die bij Phara op 4 juni 2010 uit de losse pols verklaarde dat "Binnen vijf tot acht jaren, afhankelijk van het onderzoek, er in Brussel een moslimmeerderheid zal zijn". Later gevraagd naar de onderzoeken waarop hij zich baseerde verwees Audenaert naar het onderzoek van npdata van enkele jaren geleden. We dragen deze BuG dan ook aan hem op.
 
Met de grootste wil van de wereld slagen wij er daarbij niet in een meerderheid van moslims in Brussel op langere termijn te berekenen, dus ook niet voor 2040, 2050 of later, we komen hoogstens uit op 35%. Ook moslims gaan dood als ze oud worden. Dat Brussel niet in meerderheid uit moslims zal bestaan is ook logisch te begrijpen. Momenteel is 71,6% van de bevolking in Brussel van vreemde afkomst en 22% van de bevolking is moslim. Om binnen de overblijvende 28,4% van niet-vreemde afkomst een demografische dynamiek te krijgen die volledig door moslims opgevuld wordt is uitgesloten zodat zij de 50% bereiken is uitgesloten. 
 
Antwerpen blijft met 32,1% 'Vlaams' verankerd in 2030, 27% van de bevolking is dan moslim

Ook voor Antwerpen is dat geen realistisch scenario: in 2010 was 42,8% in Antwerpen van vreemde afkomst en 16,8% moslim. In 2030 zou dit 67,9% inwoners van vreemde afkomst zijn in Antwerpen met 27% moslims. De eventuele toekomstig burgemeester van antwerpen, Bart de Wever hoeft dus niet te vrezen dat z'n stad, die toch nog voor 32,1% 'Vlaams' verankerd is in 2030, een moslimmeerderheid zal kennen.

Jan Hertogen, socioloog

lundi, 31 janvier 2011

Dr. Rolf Kosiek - Mai 68 und die Frankfurter Schule

Dr. Rolf Kosiek

Mai 68 und die Frankfurter Schule

 

vendredi, 21 janvier 2011

Ivan Illich, critique de la modernité industrielle

Ivan Illich, critique de la modernité industrielle

par Frédéric Dufoing

(Infréquentables, 11)

Ex: http://stalker.hautetfort.com/

Illich.jpgNé à Vienne en 1926, d’un père dalmate et d’une mère d’origine juive, et mort en toute discrétion en 2002 après avoir vécu entre les États-Unis, l’Allemagne et l’Amérique du sud; prêtre anticlérical, médiéviste joyeusement apatride, érudit étourdissant, sorte d’Épicure gyrovague, polyglotte, curieux, passionné, insaisissable, et touche-à-tout; critique radical, en pensée comme en acte, de la modernité industrielle, héritier de Bernard Charbonneau et de Jacques Ellul, inspirateur d’intellectuels comme Jean-Pierre Dupuy, Mike Singleton, Serge Latouche, Alain Caillé, André Gorz, Jean Robert ou encore des mouvements écologistes, décroissantistes et post-développementistes; hélas aussi figure de proue d’une certaine intelligentsia des années soixante qui ne feuilleta, en général, que Une Société sans école et ne retint de son travail que ce qui pouvait servir ses mauvaises humeurs adolescentes puis, plus tard, ses bonnes recettes libertariennes, Ivan Illich est sans conteste l’un des penseurs les plus originaux, les plus complets, les plus lucides ainsi que les plus mal lus du XXe siècle.
Il est surtout le plus dangereux. Car, de tous ceux qui critiquèrent la modernité – et en particulier la modernité industrielle – dans ses principes, et non pas dans ses seuls accidents, il est le seul qui, d’une part, se refusa d’étreindre les mythes décadentistes ou millénaristes pour éviter les mythes progressistes, et, d’autre part, attaqua la modernité sur deux fronts à la fois, l’un intérieur, décrivant, dénonçant, à la suite d’Ellul (mais dans une perspective plus laïque), les apories et absurdités de la modernité industrielle eu égard à ses propres fondements, l’autre extérieur, réintroduisant, par une réflexion sur la logique malsaine du développement, l’Autre dans la pensée occidentale. L’Autre. Non pas celui du module des ressources humaines de l’anthropologie coloniale ou post-coloniale; non pas cette machine à feed back obséquieux que lutinent les coopérants; non pas ce pion arithmétique, ce nu empantalonné dans ses besoins décrit dans les Droits de l’Homme; non pas ce miroir de marâtre dont la rationalité occidentale ne peut se passer depuis son avènement, mais cet inconnu familier, celui qui n’est pas nécessairement compréhensible mais qui est de toute façon, en soi, respectable – et a quelque chose à nous dire pourvu que l’on se taise et que l’on s’émerveille.

 
Mais il est une autre raison pour laquelle la pensée d’Illich est dangereuse : elle est humaniste. Non pas dans le sens où elle s’inscrirait dans le travail des auteurs de la Renaissance qui coupèrent l’Europe de ses racines méditerranéennes et la raison du raisonnable, plongèrent l’homme dans l’Homme, dans sa volonté de puissance et, derechef, dans le désir d’absence de limites, et qui enfin permirent tout ce que la modernité industrielle assume, accroît et assouvit au mépris de la personne comme de l’espèce humaine. C’est précisément contre cette logique que travaille la pensée du médiéviste, c’est à son fondement qu’elle s’attaque puisqu’il s’agit de rechercher et de défendre une humanité qui, au nom de la volonté de puissance, a perdu son identité avec sa liberté, se retrouve sans volonté, prisonnière de la puissance, d’une Raison ivre d’elle-même, d’organisations, de techniques qui la dépassent et dont elle n’est plus que l’outil, la marionnette – débile, idiote – de besoins, de désirs, se traînant de guichets en caisses enregistreuses en passant par l’habitacle de son automobile. Bien sûr, comme on l’a dit, on retrouve ici les intuitions et les analyses de Bernard Charbonneau (la critique de la totalisation sociale qu’amène la Grande Mue, c’est-à-dire le changement de paradigme sociétal qu’est l’industrialisation), de Jacques Ellul (l’analyse de la Technique et de la soumission des fins aux moyens, de toute considération à l’efficacité) et de nombreux auteurs du personnalisme des années trente, effrayés aussi bien par le totalitarisme que par le libéralisme; on retrouve de même des intuitions bernanosiennes (la modernité menace l’intimité spirituelle de l’individu), luddites (le refus de la religion technologique), peut-être aussi, quoique dans une moindre mesure, bergsoniennes. Mais, indéniablement, par son ouverture à un optique relativiste, sa finesse d’analyse et – ce qui peut sembler paradoxal – son souhait de rester pragmatique, de s’inscrire dans le concret, la pensée d’Illich est à la fois plus précise et plus fertile.
Nous nous proposons dans ce trop bref article de faire découvrir l’œuvre d’Illich. Autant préciser avec humilité qu’exposer une pensée si complexe, c’est bien évidemment la trahir et que, la plupart des grandes oeuvres étant victimes des vulgates, nous nous efforcerons de n’endommager celle d’Illich que par esprit de synthèse. Nous procéderons pour ainsi dire chronologiquement en exposant d’abord le travail le plus ancien – et le plus mal interprété – d’Illich, qui traite de la contre-productivité des institutions de la modernité industrielle, puis le travail de critique de la logique de développement de la société moderne.
Les plus pamphlétaires des essais d’Illich sont bien connus, mais fort mal lus; il s’agit de Une société sans école, Énergie et équité, La Convivialité et Némésis médicale. L’expropriation de la santé; il y élabore sa vision des seuils – aporétiques – de contre-productivité de quelques-unes des institutions de la modernité industrialisée. Il postule en effet que ces institutions, une fois arrivées à un certain niveau de développement, fonctionnent contre les objectifs qu’elles sont censées servir : l’école rend stupide, la vitesse ralentit, l’hôpital rend malade.


Illich2.jpgDans le premier, Une société sans école, Illich montre que l’école, comme institution, et «l’éducation» professionnalisée, comme logique de sociabilisation, non seulement nuisent à l’apprentissage et à la curiosité intellectuelle, mais surtout ont pour fonction véritable d’inscrire dans l’imaginaire collectif des valeurs qui justifient et légitiment les stratifications sociales en même temps qu’elles les font. Il ne s’agit pas seulement, à l’instar du travail de gauche «classique» de Bourdieu et Passeron, de montrer que l’école reproduit les inégalités sociales, donc qu’elle met en porte-à-faux, stigmatise et exclut les classes sociales défavorisées dont elle est censée favoriser l’ascension sociale, mais de démontrer que l’idée même de cette possibilité ou de cette nécessité d’ascension sociale par la scolarité permet, crée ces inégalités en opérant comme un indicateur d’infériorité sociale. Par ailleurs, l’école et les organismes d’éducation professionnels agissent en se substituant à toute une série d’organes d’éducation propres à la société civile ou aux familles, délégitimant les apprentissages qu’ils procurent. Elle est donc un moyen de contrôle social et non pas de libération des déterminations sociales. Les normes de l’éducation et du savoir, la légitimité de ce que l’on sait faire et de ce que l’on comprend se mettent donc à dépendre d’un programme et d’un jugement mécanique qui forment aussi un écran entre l’individu et sa propre survie ou sa propre valeur. Ce programme est celui de l’axe production/consommation sur lequel se fonde la modernité industrielle. «L’école est un rite initiatique qui fait entrer le néophyte dans la course sacrée à la consommation, c’est aussi un rite propitiatoire où les prêtres de l’alma mater sont les médiateurs entre les fidèles et les divinités de la puissance et du privilège. C’est enfin un rituel d’expiation qui ordonne de sacrifier les laissés-pour-compte, de les marquer au fer, de faire d’eux les boucs émissaires du sous-développement» (1).


Dans Énergie et équité, Illich procède à l’une de ses analyses les plus fécondes de la contre-productivité des institutions industrielles, en l’occurrence, celle des transports, autrement dit de la vitesse. En un mot comme en cent, une fois passé un certain seuil de puissance (évalué à 25 km/h), les outils usités pour se déplacer allongent les déplacements et font perdre du temps. En effet, à partir du moment où existent des instruments de déplacement puissants et généralisés (la voiture, par exemple), l’organisation des déplacements et des lieux de vie (ou de travail) va être absorbée par les exigences de ces instruments : les routes vont développer les distances comme la nécessité de les parcourir; les autres formes de mobilité vont disparaître; les exigences liées au temps et aux déplacements vont se resserrer. D’autre part, l’utilisation de ces instruments, rendue obligatoire par les changements du milieu qu’elle exige, dévore en heures de travail le temps soi-disant gagné par le «gain» de vitesse, si bien que si l’on soustrait au temps moyen gagné par la vitesse de la voiture les heures passées au travail pour payer cette même voiture, on roule à une vitesse située entre six et douze km/h – la vitesse de la marche à pied ou du vélo. Autrement dit, plus d’un tiers du temps de travail salarié est consacré à payer l’automobile qui permet, pour l’essentiel… de se rendre au travail ! De fait, l’utilisation de ces outils, et la dépense énorme d’énergie qu’elle demande, engendrent une perte de liberté, non seulement dans la capacité de se déplacer – puisque le monopole de l’automobile amène les embouteillages ou l’impossibilité de se déplacer autrement, et orientent les déplacements (les lieux où l’on se rend sont des lieux joignables par la route, donc tout le monde se rend dans les mêmes lieux d’un espace rendu homogène) – mais aussi enchaîne l’individu au salariat, lui dévore son temps. L’automobile ne répond pas à des besoins, elle crée des contraintes. Pire, elle crée de la distance puisque, chacun étant supposé (et donc obligé de) disposer d’une automobile, les lieux et le mode de vie vont être organisés selon les possibilités offertes par l’automobile : les lieux vont à la fois s’éloigner et s’homogénéiser puisqu’il faudra désormais ne se rendre que là où l’automobile le permet. On a là un excellent exemple de la logique technicienne, sur laquelle nous reviendrons avec Ellul et Anders, mais aussi de la mécanique moderne toute entière.
De plus, quoique Illich n’en traite que très peu, on pourrait aussi continuer son raisonnement en montrant les problèmes globaux induits par la généralisation de l’automobile : pollution et désordre climatique, problèmes de santé dus à cette pollution et au manque d’effort physique, stress, guerres énergétiques, etc.
Fondamentalement, l’automobile manifeste un déséquilibre, une démesure, une disproportion sur laquelle Illich revient dans toute son œuvre, et en particulier dans La Convivialité : la disproportion entre les sens, le corps (ici, l’énergie métabolique) et la technique (ici, l’énergie mécanique), laquelle engendre une forme de déréalisation quant à la relation au monde et à ses propres besoins. En effet, le point de vue d’Illich (comme d’ailleurs celui d’Ellul) est celui d’un chrétien fondant son appréhension de l’action humaine sur l’incarnation christique. Comme l’indique Daniel Cérézuelle, pour Illich, «la modernité progresse en procédant à une désincarnation croissante de l’existence et c’est pour cela qu’il en résulte une dépersonnalisation croissante de la vie et une perte croissante de maîtrise sur notre vie quotidienne, donc de liberté» (2). Les techniques et institutions modernes instaurent un rapport biaisé aux sens et au corps; elles brisent le lien intime entre le vécu physique, sensitif, charnel et les constructions de l’esprit; elles forment, comme aurait dit Bergson, une croûte entre l’homme et son milieu.

On le voit, au-delà de ce questionnement purement rationnel, voire économiste, pointent déjà des questionnements d’ordre moral, culturel et symbolique beaucoup plus vastes : ce sont bien quelques-unes des croyances fondamentales de la modernité industrielle (une certaine relation au temps (3), le salariat opposé à l’autonomie, etc.) qu’Illich remet en cause. Son exigence de proportionnalité est une exigence de limites. Il s’agit de montrer que, lorsque la volonté humaine perd cette considération des limites, ou ces limites elles-mêmes, elle s’annihile : la volonté n’est possible que dans le cadre de ces limites; si elles les combat ou en sort, elle se désagrège.

La Convivialité est sans conteste l’un des ouvrages les plus précieux du XXe siècle. Illich y intègre et y synthétise la critique du mode de production et de vie industriel, ses constats sur les seuils de contre-productivité des institutions modernes et ses valeurs relatives à l’autonomie individuelle comme « communautaire ». Il démontre que, collectivement, à l’échelle d’une société, non seulement les outils et institutions modernes se retournent contre leurs objectifs, les moyens contre les fins, les hommes perdant alors la maîtrise de leur destin, mais que de surcroît, une fois ces seuils passés, les hommes sacrifient leur autonomie à une mécanique qui les subsume, fonctionne presque sans eux, contre eux et qu’ils passent alors à côté de l’essentiel, ce qui a fait la vie de l’homme depuis l’aube de l’humanité. Concrètement, la modernité industrielle transforme la pauvreté en misère, l’esclave des hommes en esclave des machines, c’est-à-dire détruit en un même mouvement les capacités de survie en toute autonomie et rend dépendant (dans le sens d’une véritable «toxicomanie axiologique») d’un système incontrôlé, agissant au-delà des valeurs qui sont censées le fonder et sur lequel l’individu n’a aucun poids. Dans La Convivialité, Illich écrit : «Lorsqu’une activité outillée dépasse un seuil défini par l’échelle ad hoc, elle se retourne d’abord contre sa fin, puis menace de destruction le corps social tout entier» (4). Et il ajoute : «Il nous faut reconnaître l’existence d’échelles et de limites naturelles. L’équilibre de la vie se déploie dans plusieurs dimensions; fragile et complexe, il ne transgresse pas certaines bornes. Il y a des seuils à ne pas franchir. Il nous faut reconnaître que l’esclavage humain n’a pas été aboli par la machine, mais il en a reçu une figure nouvelle. Car, passé un certain seuil, l’outil, de serviteur, devient despote» (5).

Dans une perspective cette fois plus historique et plus exégétique qu’économique, Illich se penche, dans la deuxième partie de son œuvre, sur une logique qui transcende celle de l’État comme celle du marché, et qui place derechef sa pensée en amont des logiques et mythes libéraux ou socialistes : la construction moderne de la notion de besoin – au travers du processus de professionnalisation – et l’annihilation du vernaculaire, c’est-à-dire d’un ensemble de valeurs et de pratiques qui, malgré les problèmes qu’elles pouvaient poser, avaient au moins le mérite, d’une part, de préserver un relatif contrôle des individus sur leur propre destin – en les ancrant dans certaines limites – et, d’autre part, d’empêcher la sociabilité et les sociétés humaines de glisser hors de ce à quoi elles sont vouées. Analysant tour à tour le rapport à la langue et au texte (Du Lisible au visible : la naissance du texte), le rôle de la femme (Le Genre vernaculaire), le travail domestique opposé au travail salarié (Le Travail fantôme), la professionnalisation des tâches (Le Chômage créateur), le développement (Dans le miroir du passé), les sens (H2O ou les eaux de l’oubli), Illich déconstruit l’imaginaire moderne du développement et du progrès. Il décrit par quels processus historiques les modernes se sont peu à peu trouvés dépossédés de leur travail, de leur genre, de leur langue et, au fond, de leurs identité et désirs propres; comment la langue maternelle s’est trouvée normalisée, donc les gens expulsés de leurs mots, du sens; comment les genres ont disparu au profit des sexes; corrélativement, comment les femmes se sont trouvées enfermées dans une logique où, suite au processus de professionnalisation moderne, elles ont été privées des domaines qui leur étaient spécifiques et ont été pour ainsi dire rabattues sur un travail domestique devenu impraticable et dévalorisé puis sur un travail salarié où leur sont refusés à la fois le respect et une identité propre; comment l’étranger, l’Autre, est devenu un être défini par ses manques relatifs aux canons occidentaux, un sous-développé; comment le travail, les activités vernaculaires ont été absorbées par la division professionnelle du travail et le salariat; comment, enfin, les modernes ont vu leurs sens, leur aperception du réel appauvris autant qu’homogénéisés...
Mais revenons un instant sur les notions de besoin et de vernaculaire. En 1988, Illich publiait un texte court et dense intitulé L’Histoire des besoins (6). Pour lui, cette notion de besoin – qui correspond à une véritable addiction (7) – est intrinsèquement liée à l’idéologie du progrès, suivie, après la Seconde Guerre mondiale, par celle du développement. Naturalisée, devenue une évidence que personne ne songe à remettre en cause tant elle est liée à un imaginaire d’épanouissement, de bien-être ritualisé au travers des mécanismes de la consommation; opposée à des mythes (ceux mettant en scène des sociétés ou des périodes historiques de pénurie systématique et endémique, comme, pour les Lumières, le Moyen Âge ou, pour l’évolutionnisme colonial, les sociétés dites «primitives»), la notion de besoin nous habite au point d’être sans cesse invoquée et de faire l’objet de toutes les attentions politiques des États-nations comme des organismes internationaux, en particulier ceux créés durant l’après-Seconde Guerre mondiale. Illich montre que cette notion est implicitement liée à un processus de professionnalisation et que, surtout : «les nécessités appellent la soumission, les besoins la satisfaction. Les besoins tentent de nier la nécessité d’accepter l’inévitable distance entre le désir et la réalité et ne renvoient pas davantage à l’espoir que les désirs se réalisent» (8). Autrement dit, alors que la notion de nécessité renvoie non seulement à ce qui est essentiel à la survie mais aussi à ce qui est possible dans les limites des situations, des moyens dont on dispose ou du milieu où l’on se trouve, donc du réel, et implique une certaine humilité dans les désirs, la notion de besoin contient intrinsèquement un refus de la réalité, c’est-à-dire un refus de la finitude, des limites, de l’homme comme de la planète sur laquelle il vit. Pour les progressistes de la société industrielle, l’individu abstrait des Droits de l’Homme, unité nue, indéterminée, permettant l’arithmétique contractualiste des droits et des intérêts, est devenu, après la Seconde Guerre mondiale et le lancement du programme développementiste par le président Truman, un être de besoins, entièrement illimité par ses besoins et, de fait, ses manques. «Le phénomène humain ne se définit donc plus par ce que nous sommes, ce que nous faisons, ce que nous prenons ou rêvons, ni par les mythes que nous pouvons nous produire en nous extrayant de la rareté, mais par la mesure de ce dont nous manquons et, donc, dont nous avons besoin» (9). La vieille théorie évolutionniste peut ainsi être recyclée en une typologie, en une nouvelle hiérarchie, qui ne sera plus celle des races ou des cultures selon des traits moraux et esthétiques directs, mais du pouvoir – facilement quantifiable par les indicateurs économiques et statistiques – de satisfaction et, surtout, de détermination de ces besoins. Car qui détermine les besoins élabore les critères de jugement et de classement, donc de légitimation morale. Ici entre en scène le processus de professionnalisation, c’est-à-dire de perte d’autonomie (la capacité de faire les choses par soi-même sans passer par des institutions, des corps intermédiaires ou des normes artificielles et homogénéisantes) et d’autarcie (perte des communaux et de l’environnement permettant la survie) : déterminés, prescrits par des experts, des technocrates, c’est-à-dire, par une aristocratie prométhéenne, légitimée par ses démonstrations de puissance, son efficience dans le grand spectacle et les rites techniciens, les besoins sont sans fin et répondent de manière exponentielle à la logique induite par leur propre création.
Le processus moderne est, dans sa phase industrialiste, et par le fait d’un monopole (qui n’est pas seulement celui de la force) d’institutions comme l’État, l’école, etc., une opération de destruction idéologique – en termes de légitimité mais aussi de possibilité légale d’action concrète – de ce que les gens apprennent, savent et savent faire par eux-mêmes et pour eux-mêmes. Concrètement, si quiconque veut modifier sa maison, il doit demander l’autorisation administrative à un organe bureaucratique, un plan à un architecte et acheter du matériel autorisé et normalisé chez un revendeur agréé. Il n’a plus ni le temps (son emploi salarié le lui vole), ni les capacités (il ne l’a plus appris de ses parents ou de sa communauté), ni la permission légale (l’État seul permet) de faire quoi que ce soit par lui-même. Il est obligé d’utiliser, de consommer les services obligatoires qu’offre la société moderne, par exemple, le marché (et sa logique) ou l’école pour devenir architecte ou ingénieur et apprendre comment on fait une maison, selon quels critères et quels besoins on la fait, comment on bricole, etc. Or ces services répondent ou sont censés répondre à des besoins pour la plupart artificiels et qui n’ont pour objectifs que de susciter d’autres besoins. On entre alors dans la logique du développement : «Fondamentalement, le développement implique le remplacement de compétences généralisées et d’activités de subsistance par l’emploi et la consommation de marchandises; il implique le monopole du travail rémunéré par rapport à toutes les autres formes de travail; enfin, il implique une réorganisation de l’environnement telle que l’espace, le temps, les ressources et les projets sont orientés vers la production et la consommation, tandis que les activités créatrices de valeurs d’usage, qui satisfont directement les besoins, stagnent et disparaissent» (10). Autrement dit, ce qui a constitué l’essentiel de la vie des hommes depuis leur apparition disparaît ou ne subsiste que sous une forme fantôme – terme qui montre une véritable inversion, voire une perversion culturelle puisque ce qui est le vivant même prend le visage de la mort.

On le voit, le développement est une mécanique de destruction doublée d’une mécanique de soumission; on y perd ce que l’on est en faveur d’une illusion de ce que l’on pourrait avoir. Les populations soumises à la logique du développement perdent ce que François Partant appelle les conditions de leur propre reproduction sociale (11). Elle est un énorme processus d’acculturation, non seulement de ceux qui la subissent, mais aussi de ceux qui la promeuvent. Elle détruit les cultures autant que les environnements à partir desquels elles s’étaient fondées, amenant une sorte de «nature artificielle», technicisée. «Le développement économique signifie également qu’au bout d’un moment il faut que les gens achètent la marchandise, parce que les conditions qui leur permettaient de vivre sans elle ont disparu de leur environnement social, physique ou culturel» (12). Le développement crée donc une dépendance aux institutions d’État, au marché, au salariat et aux technocrates; il rend impossibles mais aussi – ce qui est pire – inconcevables les activités de subsistance et d’échange (matériels et spirituels) autonomes liées à l’existence de communaux (13) et de traditions, de cultures locales transmises sans «intermédiaires artificiels», répondant aux nécessités directes d’individus intégrés dans un milieu donné. Ces activités, Illich les appelle vernaculaires. Dans la mesure où le développement «est un programme guidé par une conception écologiquement irréalisable du contrôle de l’homme sur la nature, et par une tentative anthropologiquement perverse de remplacer le terrain culturel, avec ses accidents heureux ou malheureux, par un milieu stérile où officient des professionnels» (14), il nuit à l’ensemble de l’humanité et, d’abord, aux plus faibles. En effet, ils sont les premiers à payer une telle logique, dans la mesure où ils se voient enlever les capacités de survie en faveur d’une intégration dans un système économique aux délices duquel ils n’auront jamais accès; ainsi la pauvreté devient-elle misère et la perte d’autonomie perte d’autarcie. En plus d’être globalement et par nature néfaste, le développement est donc aussi inéquitable, tant socialement que vis-à-vis des femmes.
Sous sa forme industrielle, la modernité est à la fois aporétique et déréalisante. Aporétique car, sous prétexte de libérer l’individu et l’humanité toute entière des contraintes de la nature, de la tradition, de la mort, de Dieu ou du hasard, voire du principe même de l’existence de limites, elle les vend, les voue et les soumet à la volonté de puissance, à la domination des moyens sur les fins, les amenant de ce fait à organiser confortablement leur propre destruction. Déréalisante car ce quelle permet, ce n’est pas un contrôle de l’homme sur son milieu, ou de l’individu sur la société dans laquelle il vit, en somme l’émancipation sous la forme de la fin (d’ailleurs fantasmée) des limites et des contraintes, mais bien la création d’un milieu artificiel, d’un laboratoire, d’un réel artefact clinique, isolé du monde et de l’Autre; un réel artefact qui emprisonne l’individu, détruit sa sociabilité comme son intériorité, le transforme en un objet, un automate seulement disponible, mobilisable. La puissance, dit Illich à la suite d’Épicure, tue la liberté; c’est pourquoi il faut y renoncer.

Notes
(1) Ivan Illich, Œuvres complètes, volume1 (Fayard, 2004), p. 263.
(2) D. Cerezuelle, De l’exigence d’incarnation à la critique de la technique chez Jacques Ellul, Bernard Charbonneau et Ivan Illich, in P. Troude-Chastenet (sous la direction de), Jacques Ellul. Penseur sans frontière (L’Esprit du Temps, 2005), p. 239.
(3) On se référera aussi au fameux Traité du sablier d’Ernst Jünger.
(4) I. Illich, Œuvres complètes, volume1, op. cit., pp. 454-455.
(5) Ibid., p. 456.
(6) I. Illich, L’Histoire des besoins, in La Perte des sens (Favard, 2003), pp. 71-105.
(7) Ibid., p.75.
(8) Ibid., id.
(9) Ibid., p.78.
(10) I. Illich, Le Travail fantôme, in Œuvres complètes, volume 2, op. cit., p. 107.
(11) F. Partant, La Fin du développement. Naissance d’une alternative ? (Saint-Amant-Montrond, Babel, 1997).
(12) I. Illich, Le Travail fantôme, op. cit., p. 96.
(13) Le terme provient des analyses de Karl Polanyi; il désigne, en résumé, les ressources, les lieux et les activités de survie qui ne relèvent ni de l’État ni du marché. Pour plus de précision à ce propos, voir K. Polanyi, La Grande Transformation. Aux origines politiques et économiques de notre temps (Gallimard, coll. NRF, 1998).
(14) I. Illich, Le Travail fantôme, op. cit., p. 113. Dans les sociétés où le vernaculaire dominerait, «l’individu qui a choisi son indépendance et son horizon tire de ce qu’il a fait et fabrique pour son usage immédiat plus de satisfaction que ne lui en procureraient les produits fournis par des esclaves ou des machines. C’est là un type de programme culturel nécessairement modeste. Les gens vont aussi loin qu’ils le peuvent dans la voie de l’autosubsistance, produisant au mieux de leur capacité, échangeant leur excédent avec leurs voisins, se passant, dans toute la mesure du possible, des produits du travail salarié», p. 103.

L’auteur
Frédéric Dufoing est né en 1973 à Liège, en Belgique. Philosophe et politologue de formation, il dirige, avec Frédéric Saenen, la revue Jibrile et a publié de nombreux articles, entretiens (avec Philippe Muray, Serge Latouche, Jacques Vergès, etc.), pamphlets, critiques et chroniques concernant – notamment – l'éthique des techniques, la pensée d'Ivan Illich et celle de Jacques Ellul. Il prépare actuellement un ouvrage consacré à l'écologisme radical.

mardi, 18 janvier 2011

Evolving into Consumerism -and Beyond it: Geoffrey Miller's "Spent"

Evolving into Consumerism—and Beyond It:
Geoffrey Miller’s Spent

Alex KURTAGIC

Ex: http://www.counter-currents.com/

Geoffrey Miller
Spent: Sex, Evolution, and Consumer Behavior
New York: Viking, 2009

31--B9alQzL.jpgWhen I was asked to review this book, I half groaned because I was sure of what to expect and I also knew it was not going to broaden my knowledge in a significant way. From my earlier reading up on other, but tangentially related subject areas (e.g., advertising), I already knew, and it seemed more than obvious to me, that consumer behavior had an evolutionary basis. Therefore, I expected this book would not make me look at the world in an entirely different way, but, rather, would reaffirm, maybe clarify, and hopefully deepen by a micron or two, my existing knowledge on the topic. The book is written for a popular audience, so my expectations were met. Fortunately, however, reading it proved not to be a chore: the style is very readable, the information is well-organized, and there are a number of unexpected surprises along the way to keep the reader engaged.

Coming from a humanities educational background, I was familiar with Jean Baudrillard’s treatment of consumerism through his early works: The System of Objects (1968), The Consumer Society: Myths and Structures (1970), and For a Critique of the Political Economy of the Sign (1972). Baudrillard believed that there were four ways an object acquired value: through its functional value (similar to the Marxian use-value); through its exchange, or economic value; through its symbolic value (the object’s relationship to a subject, or individual, such as an engagement ring to a young lady or a medal to an Olympic athlete); and, finally, through its sign value (the object’s value within a system of objects, whereby a Montblanc fountain-pen may signify higher socioeconomic status than a Bic ball-pen, or a Fair Trade organic chicken may signify certain social values in relation to a chicken that has been intensively farmed). Baudrillard focused most of his energy on the latter forms of value. Writing at the juncture between evolutionary psychology and marketing, Geoffrey Miller (an evolutionary psychologist) does the same here, except from a purely biological perspective.

The are three core ideas in Spent: firstly, conspicuous consumption is essentially a narcissistic process being used by humans to signal their biological fitness to others while also pleasuring themselves; secondly, this processes is unreliable, as humans cheat by broadcasting fraudulent signals in an effort to flatter themselves and achieve higher social status; and thirdly, this process is also inefficient, as the need for continuous economic growth has led capitalists since the 1950s to manufacture products with built-in obsolescence, thus fueling a wasteful process of continuous substandard production and continuous consumption and rubbish generation. In other words, we live in a world where insatiable and amoral capitalists constantly make flimsy products with ever-changing designs and ever-higher specifications so that they break quickly and/or cause embarrassment after a year, and humans, motivated by primordial mating and hedonistic urges that have evolved biological bases, are thus compelled to frequently replace their consumer goods with newer and better models — usually the most expensive ones they can afford — so that they can delude themselves and others into thinking that they are higher-quality humans than they really are.

Miller tells us that levels of fitness are advertised by humans along six independent dimensions, comprised of general intelligence, and the five dimensions that define the human personality: openness to experience, conscientiousness, agreeableness, stability, and extraversion. Extending or drawing from theories expounded by Thorstein Veblen and Amotz Zahavi (the latter’s are not mainstream), Miller also tells us that, because fraudulent fitness signaling is part and parcel of animal behavior, humans, like other animals, will attempt to prove the authenticity of their signals by making their signaling a costly endeavor that is beyond the means of a faker. Signaling can be rendered costly through its being conspicuously wasteful (getting an MA at Oxford), conspicuously precise (getting an MIT PhD), or a conspicuous badge of reputation (getting a Harvard MBA) that requires effort to achieve, is difficult to maintain, and entails severe punishment if forged. Miller attempts to highlight the degree to which these strategies are wasteful when he points out that, in as much as university credentials are a proxy for general intelligence, both job seekers and prospective employers could much more efficiently determine a job seeker’s general intelligence with a simple, quick, and cheap IQ test.

As expected, we are told here that signaling behavior becomes, according to experimental data, exaggerated when humans are what Miller calls “mating-primed” (on the pull). Also as expected, men and women exhibit different proclivities: males emphasizing aggression and openness to experience by performing impressive and unexpected feats in front of desirable females, and females emphasizing agreeableness through participation in, for example, charitable events. And again as expected, Miller tells us that while dumb, young humans engaging in fitness signaling will tend to emphasize body-enhancing consumption (e.g., breast implants, muscle-building powders, platform shoes), older, more intelligent humans, educated by experience on the futility of such strategies, instead emphasize their general intelligence, conscientiousness, and stability through effective maintenance of their appearance, via regular exercise, sensible diet, careful grooming, and tasteful fashion. Still, this strategy follows biologically-determined patters: as women’s physiognomic indicators of fertility (eye size; sclera whiteness; lip coloration, fullness, and eversion; breast size; etc.) peak in their mid twenties, older women will apply make-up and opt for sartorial strategies that compensate for the progressive fading of these traits, in a subconscious effort to indicate genetic quality and stability, as well as — as mentioned above — conscientiousness.

Less expected were some of the explanations for some human consumer choices: when a human purchases a top-of-the-line, fully featured piece of electronic equipment, be it a stereo or a sewing machine, the features are less important than the opportunity the equipment provides its owner to talk about them, and thus signal his/her intelligence through their detailed, jargon-laden enumeration and description. This makes perfect sense, of course, and reading it provided theoretical confirmation of the correctness of my decision in the 1990s, when, after noticing that I only ever used a fraction of all available features and functions in any piece of electronic equipment, I decided to build a recording studio with the simplest justifiable models by the best possible brands.

Even less expected for me where some of the facts outside the topic of this book. Miller, conscious of the disrepute into which the evolutionary sciences have fallen due to foaming-at-the-mouth Marxist activists — Stephen Jay Gould, Leon Kamin, Steven Rose, and Richard Lewontin — and ultra-orthodox nurture bigots in modern academia, makes sure to precede his discussion by describing himself as a liberal, and by enumerating a horripilating catalogue of liberal credentials (he classes himself as a “feminist,” for example). He also goes on to cite survey data that shows most evolutionary psychologists in contemporary academia are socially liberal, like him. It is a sad state of affairs when a scientist feels obligated to asseverate his political correctness in order to avoid ostracism.

Unusually, however, Miller seems an honest liberal (even if he contradicts himself, as in pp. 297-8), and is critical in the first chapters as well as in the later chapters of the Marxist death-grip on academic freedom of inquiry and expression and of the cult of diversity and multiculturalism. The latter occurs in the context of a discussion on the various possible alternatives to a society based on conspicuous consumption, which occupies the final four chapters of this book. Miller believes that the multiculturalist ideology is an obstacle to overcoming the consumer society because it prevents the expression of individuality and the formation of communities with alternative norms and forms of social display. This is because humans, when left to freely associate, tend to cluster in communities with shared traits, while multiculturalist legislation is designed to prevent freedom of association. Moreover, and citing Robert Putnam’s research (but also making sure to clarify he does not think diversity is bad), Miller argues that “[t]here is increasing evidence that communities with a chaotic diversity of social norms do not function very well” (p. 297). Since the only loophole in anti-discrimination laws is income, the result is that people are then motivated to escape multiculturalism is through economic stratification, by renting or buying at higher price points, thus causing the formation of

low-income ghettos, working-class tract houses, professional exurbs: a form of assortative living by income, which correlates only moderately with intelligence and conscientiousness.

. . .

[W]hen economic stratification is the only basis for choosing where to live, wealth becomes reified as the central form of status in every community — the lowest common denominator of human virtue, the only trait-display game in town. Since you end up living next to people who might well respect wildly different intellectual, political, social, and moral values, the only way to compete for status is through conspicuous consumption. Grow a greener lawn, buy a bigger car, add a media room . . . (p. 300)

This is a very interesting and valid argument, linking the evils of multiculturalism with the consumer society in a way that I had not come across before.

Miller’s exploration of the various possible ways we could explode the consumer society does get rather silly at times (at one point, Miller considers the idea of tattooing genetic trait levels on people’s faces; and elsewhere he weighs requiring consumers to qualify to purchase certain products, on the basis of how these products reflect their actual genetic endowments). However, when he eventually reaches a serious recommendation, it is one I can agree with: promoting product longevity. In other words, shifting production away from the contemporary profit-oriented paradigm of cheap, rapidly-obsolescing, throwaway products and towards the manufacture of high quality, long-lasting ones, that can be easily serviced and repaired. This suggests a return to the manufacturing standards we last saw during the Victorian era, which never fails to put a smile on my face. Miller believes that this can be achieved using the tax system, and he proposes abolishing the income tax and instituting a progressive consumption tax designed to make cheap, throwaway products more expensive than sturdy ones.

Frankly, I detest the idea of any kind of tax, since I see it today as a forced asset confiscation practiced by governments who are intent in destroying me and anyone like me; but if there has to be tax, if that is the only way to clear the world out of the perpetual inundation of tacky rubbish, and if that is the only way to obliterate the miserable businesses that pump it out day after day by the centillions, then let it mercilessly punish low quality — let it sadistically flog manufacturers of low-quality products with the scourging whip of fiscal law until they squeal with pain, rip their hair out, and rend their garments as they see their profits plummet at the speed of light and completely and forever disappear into the black hole of categorical bankruptcy.

If you are looking for a deadly serious, arid text of hard-core science, Spent is not for you: the same information can be presented in a more detailed, programmatic, and reliable manner than it is here; this book is written to entertain as much as it is to educate a popular audience. If you are looking for a readable overview, a refresher, or an update on how evolved biology interacts with marketing and consumption, and would appreciate a few key insights as a prelude to further study, Spent is an easy basic text. It should be noted, however, that his area of research is still in relative infancy, and there is here a certain amount of speculation laced with proper science. Therefore, if you are interested in this topic, and are an activist or businessman interested in developing more effective ways to market your message or products, you may want to adopt an interdisciplinary approach and read this alongside Jacques Ellul’s Propaganda: The Formation of Men’s Attitudes, Jean Baudrillard’s early works on consumerism, and some of the texts in Miller’s own bibliography, which include — surprise, surprise! — The Bell Curve: Intelligence and Class Structure in American Life, by Richard Herrnstein and Charles Murray, and The Global Bell Curve: Race, IQ, and Inequality Worldwide, by Richard Lynn, among others.

TOQ Online, August 14, 2009

vendredi, 07 janvier 2011

Petites réflexions éparses sur l'Ecole de Francfort

Robert STEUCKERS :

Petites réflexions éparses sur l’Ecole de Francfort

 

Exposé prononcé à Gand, salle universitaire « Blandijn », novembre 2008, à l’occasion d’une conférence du Dr. Tomislav Sunic sur les répercussions de l’Ecole de Francfort en Amérique et en Europe, conférence organisée par l’association étudiante KVHV

 

L’Ecole de Francfort est un vaste sujet, vu le nombre de théoriciens importants pour les gauches européennes et américaines qu’elle a fournis. Nous ne pourrons pas aborder tous les aspects de cette école de Francfort. Nous allons nous limiter, comme le Dr. Sunic, aux critiques qu’adressent généralement les mouvements conservateurs européens à cette école de pensée qui a modernisé considérablement les idéologies avancées par les gauches, entre les années 20 et 70 du 20ème siècle. On peut dire qu’aujourd’hui bon nombre de dirigeants européens et américains ont été directement ou indirectement influencés par l’Ecole de Francfort, dans la mesure où ils ont été impliqués dans le mouvement de mai 68 ou dans ses suites immédiates.

 

Les critiques conservatrices de l’Ecole de Francfort s’articulent autour de plusieurs éventails de thématiques :

 

L’Ecole de Francfort aurait forgé les instruments destinés à dissoudre littéralement les fondements des sociétés, de manière à permettre à de petites élites intellectuelles et politiques de prendre le pouvoir, afin d’agir non pas selon des traditions avérées (selon le « mos majorum » romain) mais de manière purement arbitraire et expérimentale, sans la sanction de l’expérience. Il s’agit donc clairement de contre-élites, qui n’entendent pas poursuivre des traditions politiques, demeurer dans un cadre bien établi, mais bouleverser de fond en comble les traditions pour installer une nouvelle forme de pouvoir, qui ne doit plus rien au passé. Pour y parvenir et pour éliminer toute résistance des forces traditionnelles, il faut dissoudre ce qui existe et ce qui fait l’armature des sociétés. On a insinué que les tenants de l’Ecole de Francfort ont coopéré avec l’OSS américaine pendant et immédiatement après la seconde guerre mondiale pour briser les ressorts des sociétés européennes, et surtout de la société allemande. L’idée n’est pas neuve : dans Sun Tzu, on trouve des consignes au Prince pour faire plonger la société de l’ennemi en pleine déliquescence, la neutraliser, l’empêcher de renaître de ses cendres et de passer à la contre-offensive. L’Ecole de Francfort aurait donc été l’instrument des Américains pour appliquer à l’Allemagne et à l’Europe un principe de l’Art de la guerre de Sun Tzu.

 

De l’homme unidimensionnel à la société festiviste

 

OneDimDtBig400pxh.jpgMalgré l’instrumentalisation des corpus doctrinaux de l’Ecole de Francfort et malgré les désastres que cette instrumentalisation a provoqué en Europe, les idées diffusées par l’Ecole de Francfort véhiculent des thèmes intéressants qui, eux, n’ont pas été inclus dans la vulgate, seule responsable des dégâts sociaux et anthropologiques que nous déplorons depuis quelques décennies en Europe. Quand un Herbert Marcuse (1898-1979) nous parle de l’homme unidimensionnel, pour déplorer sa banalisation dans les sociétés industrielles modernes, il ne fait qu’énoncer un état de choses déjà déploré par Nietzsche. L’homme unidimensionnel de Marcuse partage bien des traits en commun avec le « dernier homme » de Nietzsche. Dans « Eros et la civilisation », Marcuse évoque le refoulement du désir dans les sociétés modernes, exactement comme le déploraient certains mouvements de jeunesse alternatifs allemands entre 1896 et 1933 ; cette option philosophique de vouloir libérer les instincts refoulés, en imitant les groupes marginaux ou exclus des sociétés même au détriment des majorités politiques et parlementaires, a eu, avec l’appui de tout un attirail d’interprétations freudiennes, un impact important sur la révolte étudiante des années 67-68 en Allemagne, en France et ailleurs en Europe. Marcuse condamnera toutefois l’usage de la violence et se fera apostropher comme « mou » par certains échaudés, dénommés « Krawallos ». Entre la théorie écrite et la pratique mise en œuvre par les services à partir des années 60 du 20ème siècle, il y a une nette différence. Mais c’est la vulgate, la version instrumentalisée, sloganisée à l’usage des Krawallos, qui a triomphé au détriment de la théorie proprement dite : c’est au départ d’une hyper-simplification du contenu d’ « Eros et la civilisation » que l’on a fabriqué la société festiviste actuelle, une société festiviste incapable de forger un Etat digne de ce nom ou de générer un vivre-ensemble harmonieux et créatif. Tout comme dans le « Meilleur des mondes » d’Aldous Huxley, on vend des drogues et l’on favorise la promiscuité sexuelle pour endormir les volontés.

 

adorno.jpgOutre Marcuse, idole des festivistes de mai 68, l’Ecole de Francfort a surtout aligné, en Allemagne, deux figures notoires, Theodor W. Adorno (1903-1969) et Max Horkheimer (1895-1973). Ces deux philosophes ont été les principaux représentants de la philosophie allemande dans les années 50. Adorno a déployé une critique de l’autoritarisme qui, selon lui, aurait toujours structuré la pensée allemande et, partant, européenne et américaine, faisant courir le risque de voir émerger de nouveaux fascismes à intervalles réguliers dans l’histoire. Il va vouloir déconstruire cet autoritarisme pour enrayer à l’avance toute émergence de nouveaux fascismes. Pour y procéder, il élaborera un système de mesure, consigné dans son célèbre ouvrage, La personnalité autoritaire. On y apprend même comment mesurer sur « l’échelle F » le degré de « fascisme » que peut receler la personnalité d’un individu. Le livre contient aussi un classement des citoyens en « Vorurteilsvollen » et « Vorurteilsfreien », soit ceux qui sont « pleins de préjugés » et ceux « qui sont libres de tous préjugés ». Ceux qui sont pleins de préjugés comptent aussi les « rebelles » et les « psychopathes », les « fous » et les « manipulateurs » dans leurs rangs. Ceux qui sont libres de tout préjugé comptent tout de même des « rigides », des protestataires, des impulsifs et des « easy goings » (« ungezwungene Vorurteilsfreie ») dans leurs rangs, qui sont posés comme sympathiques, comme mobilisables dans un projet « anti-autoritaire » mais dont l’efficacité n’est pas parfaite. Le summum de la qualité citoyenne ne se trouve que chez une minorité  de « Vorurteilsfreien » : les « genuine Liberalen », les « hommes de gauche en soi » qui échappent aux tendances libidineuses et au narcissisme (bref, ceux qui devraient gouverner le monde après la mise au rencart de tous les autres). Ce livre sur la personnalité autoritaire a connu un succès retentissant aux Etats-Unis mais aussi dans la République Fédérale Allemande. Mais ce n’est pas un ouvrage philosophique : c’est un instrument purement manipulatoire au service d’une ingénierie sociale destinée à dompter la société, à contrôler pensées et langages. On peut donc parfaitement interpréter l’impact de cet ouvrage d’ingénierie sociale dans une perspective orwellienne : l’émancipation (par rapport à la personnalité autoritaire) est le terme enjoliveur qui couvre une nouvelle façon, subtile, d’asservir et d’opprimer les masses.

 

Des « genuinen Liberalen » à l’humanité nouvelle

 

Comment supputer la manipulation chez des « genuinen Liberalen », posés par Adorno comme des apolitiques qui ne réagissent que lorsque les injustices sont là, flagrantes, et se dressent alors contre elles sans tenir compte des déboires que cela pourrait leur procurer ? Le « genuiner Liberaler » est un bon naïf, écrit Adorno, comment pourrait-il dès lors manipuler ses concitoyens ? On se le demande, effectivement : non, ce n’est pas lui qui va manipuler, c’est lui qui servira de modèle aux manipulateurs car, eux, ont besoin de naïfs. En effet, le « fascisme » (sous quelque forme que ce soit) n’était plus présent aux Etats-Unis ou en Allemagne, quand Adorno sortait son livre de presse. Rien ne permettait d’envisager son retour offensif. Ce n’est donc pas un fascisme organisé en escouades de combat que cherchent à éliminer Adorno et tous ses disciples armés de « l’échelle F ». Il s’agit bien plutôt de détruire les réflexes structurants de toute société traditionnelle normale, surtout quand elles sont de nature « agnatiques » (centrées autour du patriarche ou du pater familias). Patriarches et pères de famille détiennent forcément une autorité (qui peut être bienveillante ou sévère selon les cas), que ce soit, comme l’a montré Emmanuel Todd, dans la famille centre-européenne (germanique et souvent catholique), dans la famille juive ou dans la famille musulmane nord-africaine (où elle a, selon Todd, des aspects plus claniques). C’est leur pouvoir patriarcal qu’il s’agit de démonter pour le remplacer par des figures alternatives, non clairement profilées : la virago célibataire, la mère fusionnelle, l’ado libre, l’adulescent bambocheur et irresponsable, la grand-mère gâteau, la divorcée agitée de frénésies de toutes sortes, le tonton homosexuel, le grand frère hippy (ou beatnik) ou deux ou trois figures de référence de cet acabit, qui vont déboussoler l’enfant plutôt que l’édifier. Bref nous aurons là la « nouvelle humanité » soi-disant « tolérante » (1), dont ont rêvé beaucoup de ces dissidents qui souhaitaient bouleverser les hiérarchies naturelles et immémoriales : les dissidents « levellers » ou les « Founding Fathers » puritains qui s’en iront au Nouveau Monde créer une « Jérusalem Nouvelle » avant de pendouiller les sorcières de Salem (2), les utopistes ou les phalanstériens en marge de la révolution française ou les communistes soviétiques des années 20, avant la réaction autoritaire du stalinisme. Les pères posés comme « autoritaires » a priori, par certains zélotes de « l’échelle F », sont évidemment un frein au développement échevelé de la société de consommation, telle que nous la connaissons depuis la fin des années 50 en Europe, depuis la fin des années 40 aux Etats-Unis. Les planificateurs de la consommation tous azimuts ont constaté que les pères (autoritaires ou simplement prévoyants) maintenaient généralement les cordons de la bourse plus serrés que les marginaux prodigues et flambeurs, individualités très appréciées des commerçants et des publicitaires. Qui dit structures patriarcales dit automatiquement volonté de maintenir et de préserver un patrimoine de biens meubles et immeubles, qui ne sont pas immédiatement voués à la consommation, destinée, elle, à procurer le bonheur tout de suite. L’élimination de l’autorité patriarcale et la libération sexuelle vont de paire pour assurer le triomphe de la société de consommation, festiviste et flambeuse, par ailleurs fustigée par certains soixante-huitards qui furent tout à la fois, et souvent à leur corps défendant, ses critiques et ses promoteurs.      

 

hork.jpgOutre la composition de cet instrument de contrôle que fut le livre d’Adorno intitulé La personnalité autoritaire (Studien zum autoritären Charakter), les deux philosophes de l’Ecole de Francfort, installés dans l’Allemagne d’après-guerre, en rédigent le principal manifeste philosophique, Die Dialektik der Aufklärung (= « La dialectique des Lumières »), où ils affirment s’inscrire dans la tradition des Lumières, née au 18ème siècle, tout en critiquant certains avatars ultérieurs de cette démarche philosophique. Pour Horkheimer et Adorno, la science et la technologie, qui ont pris leur élan à l’époque des Lumières et dans les premiers balbutiements de la révolution industrielle avec l’appui des Encyclopédistes autour de d’Alembert et Diderot, ont pris au fil du temps un statut marqué d’ambigüité. La technologie et la science ont débouché sur la technocratie, affirment Horkheimer et Adorno dans leur manifeste, et, dans ce processus involutif, la raison des Lumières, d’idéelle est devenue « instrumentale », avec le risque d’être instrumentalisée par des forces politiques ne partageant pas l’idéal philosophique des Lumières (sous-entendu : les diverses formes de fascisme ou les néoconservatismes technocratiques d’après 1945). Le programme promu par La personnalité autoritaire peut être interprété, sans sollicitation outrancière, comme un instrument purement technocratique destiné à formater les masses dans un sens précis, contraire à leurs dispositions naturelles et ontologiques ou contraire aux legs d’une histoire nationale particulière. Alors qu’ils inventent un instrument de nature nettement technocratique, Adorno et Horkheimer critiquent la technocratie occidentale sur des bases sociologiques que nous pouvons pleinement accepter : en effet, les deux philosophes s’inscrivent dans un filon sociologique inauguré, non pas par Marx et ses premiers fidèles, mais par Georg Simmel et Max Weber. Ce dernier voulait lancer, par ses travaux et ceux de ses étudiants, « une science du réel, nous permettant de comprendre dans sa spécificité même la réalité en laquelle nos vies sont plongées ». Pour Simmel et Weber, le développement des sciences et des technologies apporteront certainement une quantité de bienfaits aux sociétés humaines mais elles provoqueront simultanément une hypertrophie des appareils abstraits, ceux de la technocratie en marche, par exemple, ceux de l’administration qui multipliera les règles de coercition sociale dans tous les domaines, conduisant à l’émergence d’un gigantesque « talon d’acier » (iron heel) ou d’une cage d’acier, qui oblitèreront la créativité humaine.

 

Quelle créativité humaine ?

 

L’oblitération de la créativité humaine, telle qu’elle avait été pensée par Simmel et Weber, est le point de départ d’Adorno et Horkheimer. Mais où divergent donc conservateurs critiques de l’Ecole de Francfort et adeptes de cette école ? Dans la définition qu’ils donnent de la créativité humaine. La créativité selon Adorno et Horkheimer est celle d’une intelligentsia détachée de toutes contraintes matérielles, d’une freischwebende Intelligenz, planant haut au-dessus de la réalité, ou d’assistants sociaux, de travailleurs sociaux, qui œuvrent à déconstruire les structures sociales existantes pour créer de toutes pièces un vivre-ensemble artificiel, composé selon les rêves utopiques de sociologues irréalistes, qui glosent ad libitum sur le travail ou sur le prolétariat sans jamais travailler concrètement (Helmut Schelsky) ni trimer dans une véritable usine (les ouvriers d’Opel à Rüsselheim en Allemagne ont chassé les Krawallos qui voulaient les aider dans leur tâche prolétarienne, tout en préparant des comités de contestation, des happenings ou des bris de machine). Le reproche d’abonder dans le sens de cette frange « bohémienne » de la bourgeoisie ou de la Bildungsbürgertum avait déjà été adressé par les conservateurs et les pangermanistes à Nietzsche (« philosophe pour femmes hystériques et pour artistes peintres ») et aux romantiques, qualifiés d’ « occasionnalistes » par Carl Schmitt. On peut constater, dans l’histoire des idées, que la critique de la technocratie a souvent émergé dans les rangs conservateurs, inquiets de voir les traditions oblitérées par une nouvelle pensée pragmatique étrangère à toutes les valeurs traditionnelles et aux modes de concertation hérités, qui finissent alors noyés dans des dédales administratifs nouveaux, posés comme infaillibles. La critique d’Adorno et d’Horkheimer n’est pourtant pas conservatrice mais de gauche, « libérale » au sens anglo-saxon du terme. Adorno et Horkheimer veulent donner plus d’impact dans la société à la freischwebende Intelligenz, aux bohèmes littéraires et artistiques ou aux nouveaux sociologues et pédagogues (Cohn-Bendit) héritiers des plus fumeux et des plus farfelus des « Lebensreformer » (des « réformateurs de la vie ») qui pullulaient en Allemagne entre 1890 et 1933. Le but de cette manœuvre est de maintenir une sorte d’espace récréatif et festif (avant la lettre) en marge d’une société autrement gouvernée par les principes des Lumières, avec, dans le monde du travail, une domination plus ou moins jugulée de la « raison instrumentale ». Cet espace récréatif et festif serait un « espace de non-travail » (Guillaume Faye), survalorisé médiatiquement, où les individus pourraient donner libre cours à leurs fantaisies personnelles ou s’esbaudir dans une aire de garage au moment où l’automatisation des usines, la désindustrialisation ou les délocalisations postulent une réduction drastique de la main-d’œuvre. L’ « espace de non-travail » dore la pilule pour ceux qui sont condamnés au chômage ou à des emplois socio-culturels non productifs. Adorno et Horkheimer situent donc la créativité humaine, qu’ils valorisent, dans un espace artificiel, une sorte de jardin de luxe, en marge des tumultes du monde réel. Ils ne la situent pas dans les dispositions concrètes et ontologiques de la nature biologique de l’homme, en tant qu’être vivant, qui, au départ de son évolution phylogénétique, a été « jeté là » dans la nature et a dû s’en sortir. Critique allemand de l’Ecole de Francfort, le Dr. Rolf Kosiek, professeur de biologie, stigmatise le « pandémonium » de cette tradition sociologique de gauche parce qu’elle ne se réfère jamais à la biologie humaine, à la concrétude fondamentale de l’être humain en tant qu’être vivant. En utilisant le terme « pandémonium », Kosiek reprend quasiment mot pour mot le jugement de Henri De Man, présent à Francfort dès les débuts de l’Institut de sociologie ; dans ses mémoires, De Man écrit : « c’était une bande d’intellectuels rêveurs, incapables de saisir une réalité politique ou sociale ou de la décrire de manière succincte – c’était un pandémonium ».

 

Les écoles biologiques allemandes et autrichiennes, avec Konrad Lorenz, Irenäus Eibl-Eibesfeldt, Rupert Riedl et Wuketits ou les vulgarisateurs américains et anglais Robert Ardrey et Desmond Morris ont jeté les bases d’une sociologie plus réaliste, en abordant l’homme, non pas comme un bohème intellectuel mais comme un être vivant, peu différent dans sa physiologie des mammifères qu’il côtoie, tout en étant, en revanche, très différent d’eux dans ses capacités intellectuelles et adaptatives, dans ses capacités mémorielles. Arnold Gehlen, lui, est un sociologue qui tient compte des acquis des sciences biologiques. Pour Gehlen, l’homme est une créature misérable, nue, sans force réelle dans la nature, sans les griffes et les canines du tigre, sans la fourrure et les muscles puissants de l’ours. Pour survivre, il doit créer artificiellement les organes dont la nature ne l’a pas pourvu. Il invente dès lors la technique et, par sa mémoire capable de transmettre les acquis, se dote d’une béquille culturelle, capable de pallier ses indigences naturelles. D’où la culture (et la technique) sont, pour Gehlen, la vraie nature de l’homme. La créativité, celle qu’oblitère la technocratie (Simmel, Weber, Adorno, Horkheimer) qui provoque aussi la « mort tiède » (Lorenz) par la démultiplication des « expériences de seconde main » (Gehlen), est, pour la sociologie biologisante de Gehlen, la réponse de l’homme, en tant qu’être vivant, à un environnement systématiquement hostile. L’invention de la technique et la culture/mémoire donne à l’homme une plasticité comportementale le rendant apte à affronter une multiplicité de défis.

 

Cette créativité-là est aujourd’hui oblitérée par l’ingénierie sociale de la technocratie dominante, ce qui a pour risque majeur de détruire définitivement les forces qui existent en l’homme et qui l’ont toujours rendu capable d’affronter les dangers qui le guettent par la puissance « pro-active » de son imagination concrète, inscrite désormais dans ses dispositions ontologiques. L’homme à la créativité oblitérée ne peut plus faire face au tragique qui peut à tout instant survenir (la « logique du pire » de Clément Rosset).

 

Konrad Lorenz parlait de « tiédeur mortelle » et Gehlen d’une hypertrophie d’ « expériences de seconde main », où l’homme n’est plus jamais confronté directement aux dangers et aux défis auxquels il avait généralement fait face au cours de toute son histoire.

 

Pour l’Ecole de Francfort, la créativité humaine se limite à celle des bohèmes intellectuelles. Pour les autres, la créativité englobe tous les domaines possibles et imaginables de l’activité humaine, pourvu qu’elle ait un objet concret.

 

Habermas : du patriotisme constitutionnel à l’aporie complète

 

habermas1.jpgHabermas, ancien assistant d’Horkheimer puis son successeur à la tête de l’Institut de Francfort, devient, dès la fin des années 60, la figure de proue de la seconde génération de l’Ecole de Francfort. Son objectif ? Pour éviter la « cristallisation » des résidus de l’autoritarisme et des effets de l’application de la « raison instrumentale », une « cristallisation » qui aurait indubitablement ramené au pouvoir une nouvelle idéologie forte et autoritaire, Habermas s’ingéniera à théoriser une « praxis de la discussion permanente » (s’opposant en cela à Carl Schmitt qui, disciple de l’Espagnol Donoso Cortès, abominait la discussion et la « classe discutailleuse » au bénéfice des vrais décideurs, seuls aptes à maintenir le politique en place, les Etats et les empires en bon ordre de fonctionnement). La discussion et cette culture du débat permanent devaient justement empêcher les décisions trop tranchées amenant aux « cristallisations ». Les évolutions politiques devaient se dérouler lentement dans le temps, sans brusqueries ni hâtes même quand les décisions claires et nettes s’avéraient nécessaires, vu l’urgence, l’ Ernstfall. Cette posture habermasienne ne plaisait pas à tous les hommes de gauche, surtout aux communistes durs et purs, aux activistes directs : sa théorie a parfois été décrite comme l’incarnation du « défaitisme postfasciste », inaugurant, dans l’après-guerre, une « philosophie de la désorientation et des longs palabres ». Habermas est ainsi devenu le philosophe déréalisé le plus emblématique d’Europe. En 1990, il déplore la réunification allemande car celle-ci « met en danger la société multiculturelle et l’unité européenne qui étaient toutes deux depuis quelque temps déjà en voie de réalisation ». La seule alternative, pour Habermas, c’est de remplacer l’appartenance nationale des peuples par un « patriotisme constitutionnel », préférable, selon lui, « aux béquilles prépolitiques que sont la nationalité (charnelle) et l’idée de la communauté de destin » (Habermas s’attaque là aux deux conceptions que l’on trouve en Allemagne : l’idéal nationalitaire de romantique mémoire et l’idéal prussien a-national de participation à la vie et à la défense d’un type particulier d’Etat, à connotations spartiates). Le « patriotisme constitutionnel » est-il dès lors un antidote à la guerre, à ces guerres qu’ont déclenché les patriotismes appuyés sur les deux « béquilles » dénoncées par Habermas, soit l’idéal nationalitaire et l’idéal prussien ? En principe, oui ; en pratique, non, car en 1999 quand l’OTAN attaque la Serbie sous prétexte qu’elle oppresse la minorité albanaise du Kosovo, Habermas bénit l’opération en la qualifiant « de bond en avant sur la voie qui mène du droit des gens classique au droit cosmopolite d’une société mondiale de citoyens ». Et il ajoutait : « les voisins démocratiques (c’est-à-dire ceux qui avaient fait leur l’idée de « patriotisme constitutionnel ») ont le droit de passer à l’action pour apporter une aide de première nécessité, légitimée par le droit des gens ». Contradiction : le « constitutionalisme globaliste de l’OTAN » a sanctifié un réflexe identitaire ethno-national, celui des Albanais du Kosovo, contre le réflexe ethno-national des Serbes. L’OTAN, avec la bénédiction d’Habermas, a paradoxalement agi pour restaurer l’une des béquilles que ce dernier a toujours voulu éradiquer. Tout en pariant sur un élément musulman, étranger à l’Europe, importation turque dans les Balkans, au détriment de l’albanité catholique et orthodoxe, avant de l’être pour la « serbicité » slave et orthodoxe. Le tout pour permettre à l’US Army de se faire octroyer par le nouvel Etat kosovar la plus formidable base terrestre en Europe, Camp Bondsteele, destiné à remplacer les bases allemandes évacuées progressivement depuis la réunification. Camp Bondsteele sert à asseoir une présence militaire dans les Balkans, tremplin pour le contrôle de la Mer Noire, de la Méditerranée orientale et de l’Anatolie turque. Ces déclarations d’Habermas vieillissant ressemblent étrangement à l’agitation de ces chiens qui tentent de se manger la queue. 

 

L’itinéraire d’Habermas débouche donc sur une aporie. Voire sur d’inexplicables contradictions : le « patriotisme constitutionnel », destiné à ouvrir une ère de paix universelle (déjà rêvée par Kant), aboutit en fin de compte à une apologie des « guerres justes » qui, autre oxymoron, promeuvent parfois de bons vieux nationalismes ethniques.

 

Conclusion : L’Ecole de Francfort est une instance qu’il faut étudier avec le regard de l’historien, pour pouvoir comprendre les errements de notre époque, les déraillements de ces deux dernières décennies où, justement, les soixante-huitards marqués par le corpus philosophico-sociologique de cette école, ont tenu le pouvoir entre leurs mains dans la plupart des pays occidentaux. Pour les amener à un bel éventail d’impasses et, plus récemment avec les expéditions en Afghanistan et en Irak (guerres justes selon Habermas), à un certain hybris, tandis que plusieurs puissances chalengeuses, dont la Chine, non contaminée par le fatras francfortiste et guérie des élucubrations de la révolution culturelle maoïste, entamaient une marche en avant. L’Europe doit se débarrasser du « pandémonium » pour pouvoir redresser la barre et, plus prosaïquement, survivre sur le long terme. On ne se débarrasse pas des vieux corpus classiques : ils sont irremplaçables. Toute tentative de les balancer par-dessus bord pour les remplacer par des constructions inventées et bricolées par des sociologues irréalistes conduit aux impasses, aux apories et aux bouffonneries.

 

Robert STEUCKERS.

(novembre 2008)     

 

Notes :

 

(1)    On ne se rend jamais assez compte que le terme « tolérance » a subrepticement changé de sens au fil de ces dernières décennies. Au départ, la tolérance signifiait que l’on tolérait l’existence d’un fait que, sur le fond et sur le plan des principes, l’on condamnait (on condamnait le protestantisme mais on le tolérait par l’Edit de Nantes, édit de tolérance). On tolérait certains faits parce qu’on n’avait pas les moyens matériels de les combattre et de les éradiquer. Ainsi, la prostitution, condamnée sur le fond, était tolérée comme exutoire social. On parlait dans ce sens de « maisons de tolérance » pour désigner les bordels. Quand nous demandions, déjà dans le sens actuel du mot, à nos professeurs d’être « tolérants », ils nous répondaient invariablement : « La tolérance, mon petit monsieur ? Mais il y a des maisons pour cela ! ». Aujourd’hui, le terme « tolérant » signifie accepter le fait dans ses dimensions factuelles (et inévitables) comme sur le plan des principes.

 

(2)    Les « Founding Fathers », qui sont des « pères » comme leur nom l’indique, retrouveront rapidement les réflexes de l’autorité patriarcale, dictée par la Bible juive. La parcimonie, vertu puritaine par excellence et pratiquée jusqu’à la caricature, deviendra un modèle de l’américanisme, qu’Adorno cherchera à déconstruire au même titre que le fascisme allemand, pour faire advenir une humanité atomisée, disloquée par la libération sexuelle qui dissoudra son noyau familial de base, une humanité atomisée prônée par Marcuse, Fromm et Reich, pour faire advenir le règne des individualités plus ou moins originales et farfelues, déconnectées et ahuries par les médias, mais toutes clientes dans les chaines de supermarchés.

 

Bibliographie :

Theodor W. ADORNO, Studien zum autoritären Charakter, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1973.

Max HORKHEIMER /  Theodor W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung, Fischer, Frankfurt am Main, 1969.

Max HORKHEIMER, Traditionnelle und kritische Theorie – Vier Aufsätze, Fischer, Frankfurt am Main, 1968.

Max HORKHEIMER, Zur Kritik der instrumentellen Vernunft, Athenäuml/Fischer, Frankfurt am Main, 1974.

Rolf KOSIEK, Die Frankfurter Schule und ihre zersetzenden Auswirkungen, Hohenrain, Tübingen, 2001.

samedi, 18 décembre 2010

Actualidad de Werner Sombart

Archives- 1968

Actualidad de Werner Sombart

 

AEI/ Un gran financiero norteamerica­na, batió su propio “record” conclu­yendo en cinco minutos, por teléfo­no, cinco grandes contratos que le proporcionaron una ganancia supe­rior al millón de dolores.

(De los periódicos) 

Werner_Sombart_vor_1930.jpgLa noticia del apresurado y dichoso financiero yanqui, nos trae al re­cuerdo la figura del gran economis­ta alemán profesor Werner Sombart, que ejerció docencia, justamente sonada, como profesor de Economía Política, en la Uni­versidad de Berlín, y cuya obra es una ver­dadera pena que aun no haya sido tra­ducida —que sepamos— al castellano.

Para Werner Sombart, el alma del bur­gués capitalista moderno recuerda el alma del niño a través de un singularísimo pa­recido. El niño, dice, posee cuatro valores fundamentales, que inspiran y dominan su vida toda. 

a) El tamaño, que se manifiesta en su admiración hacia el hombre adulto y más aun hacia el gigante. El burgués moderno —nos referimos siempre a la gran burgue­sía capitalista, especie tal vez a extinguir en este mundo supersónico que ha heredado la tragedia de la economía liberal— estima asimismo el tamaño en cifras o en es­fuerzo. Tener “éxito” en su lenguaje sig­nifica sobrepasar siempre a los demás, aunque en su vida interior, si es que la tiene, no se diferencia en nada de ellos. ¿Ha visto usted en casa de mister X, el Rembrandt que vale 200.000 dólares? ¿Ha contemplado el yate del presidente, que se encuentra desde esta mañana en el puerto, y cuyo valor sobrepasa el millón?…

b) La rapidez de movimientos, tradu­cida en el niño en el juego, en el carrusel, en no saber estarse quieto. Rodar a 120 por hora, tomar el avión más rápido, con­cluir un negocio por teléfono, no reposar, batir “records” financieros de ganancia constituye para el burgués moderno ilu­sión idéntica.

c) La novedad. El niño deja un juguete por otro, comienza un trabajo y lo aban­dona también, por otro, a su vez aban­donado. El hombre de empresa moderno hace lo mismo llamando a esto “sensa­ción”. Si los bailes, en los negocios, en la moda, en los inventos, lo que hoy es “sensacional” mañana se transforma en antigualla, como sucede con los modelos de los coches. Se vive angustiosamente al día, hasta que el corazón falle…

d) El sentimiento de “su poderío”. El niño arranca las patas a las moscas, des­troza nidos, destruye todos sus juguetes… El empresario que “manda” sobre 10.000 trabajadores se encuentra orgulloso de su poder, como el niño que ve a su perro obedecerle a una señal. El especulador afortunado en bolsa o enriquecido por el estraperlo se siente orgulloso de su safio poderío mirando por encima del hombro al prójimo. No existe en él caridad, como generalmente no existe caridad en el niño. Si analizamos este sentimiento veremos que en el fondo es una confesión invo­luntaria e inconsciente de debilidad: “Om­ina crudelitas ex infrimitate”, supo decir nuestro Séneca. 

EL CAPITALISMO MODERNO

Para el genial autor de “El capitalismo moderno”, un hombre grande, natural e interiormente, no concedería nunca un particular valor al poderío externo. El poder no presenta ningún atractivo sin­gular para Sigfrido, pero resulta irresisti­ble para Mimo. Una generación verdade­ramente grande, a la que preocupan los problemas fundamentales del alma huma­na, no se sentirá “engrandecida” ante unos inventos técnicos y no les concederá más que una relativa importancia, la impor­tancia que merecen como elementos del poder externo. En nuestra época resulta tristemente sintomático el que algunos po­líticos, que sólo han sabido sumir al mun­do en el estupor y en la sangre, se deno­minen asimismo como “grandes”.

Para Sombart, el capitalismo burgués que tiene como objetivo la acumulación indefinida e ilimitada de la ganancia, se ha visto hasta nuestros días, pues hoy el concepto se halla en plena crisis aunque su derrumbamiento no sea tal vez inmediato, favorecido por las circunstancias siguien­tes:

1) Por el desenvolvimiento de la téc­nica.

2) Por la bolsa moderna, creación del espíritu sionista, por medio de la cual se rea­bra a través de sus formas exteriores la tendencia hacia el infinito, que caracteriza al capitalismo burgués en su incesante ca­rrera tras el beneficio. 

Estos procesos encuentran apoyo en los siguientes aspectos: 

a) La influencia que los sionistas comen­zaron a ejercer sobre la vida económica europea, con su tendencia hacia la ganan­cia ilimitada, animados por el resentimien­to que, como sabemos, juega tan gran pa­pel en la vida moderna, según Max Scheler nos ha magníficamente demostrado, y por las enseñanzas de su propia religión, que los hace actuar en el capitalismo mo­derno como catalizadores.

b) En el relajamiento de las restric­ciones que la moral y las costumbres im­ponían en sus comienzos al espíritu capi­talista de indudable tinte puritano en la aguda y profunda tesis de Weber. Relaja­miento consecutivo a la debilitación de los principios religiosos y a las normas de ho­nor entre tos pueblos cristianos.

c) La inmigración o expatriamiento de sujetos económicos activos y bien dotados, que en el suelo extraño no se consideran ya ligados con ninguna obligación y es­crúpulo. Nos hallamos así, de nuevo ante el interrogante que se plantea el maestro.

¿Qué nos reserva el porvenir? Los que ven que el gigante desencadenado que lla­mamos capitalismo es un destructor de la naturaleza de los hombres, esperan que llegará un día en que pueda ser de nuevo encadenado, rechazándole hasta los lími­tes franqueados. Para obtener este resul­tado se ha creído encontrar un medio en la persuasión moral. Para Sombart, las tendencias de este género se encuentran aproadas hacia un lamentable fracaso. Para el autor de “El burgués”, el capita­lismo que ha roto las cadenas de hierro de las más antiguas religiones hará saltar en un instante los hilos que le tiendan es­tos optimistas. Todo lo que se pueda hacer en tanto que las fuerzas del gigante que­den intactas, consiste en tomar medidas susceptibles de proteger a los hombres, a su vida y a sus bienes, a fin de extinguir como en un servicio de incendios las brasas que caigan sobre las chozas de nuestra civili­zación. El mismo Sombart señala como sintomático el declive del espíritu capita­lista en uno de sus feudos más intocables: Inglaterra, y esto lo decía en 1924…

El saber lo que sucederá el día en que el espíritu capitalista pierda la fuerza que todavía presenta no interesa particular­mente a Sombart. El gigante, transforma­do en ciego, será quizá condenado, y cual nuevo Sisifó arrastra el carro de la civi­lización democrática. Quizá, escribe, asis­tamos nosotros al crepúsculo de los dio­ses, y el oro sea arrojado a las aguas del Rhin, erigiéndose en trueque valores más altos.

¿Quién podrá decirlo? El mañana, esa cosa que llamamos Historia, quizá. Por ello, más que Juicios, “a priori”, preferimos aquí dar testimonios. Lo que pasa, y lo que pue­da pasar en la ex dulce Francia, funda­mentalmente burguesa y con sentido de la proporción hasta ahora, podrá ser un gran indicio histórico. 

José Mª. CASTROVIEJO

ABC, 19 de junio de 1968.

mercredi, 01 décembre 2010

La "tension psychologique insurrectionnelle"

La « tension psychologique insurrectionnelle »

Par Philippe Grasset

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

(…) Dans Notes sur l’impossible “révolution” du 24 septembre 2009, sur dedefensa.org, était exprimée la conviction que les mouve

Honoré Daumier, "L'insurrection" (1860)

ments d’insurrection et de révolte auxquels nous avons l’habitude de nous référer sont définitivement dépassés parce que totalement inefficaces, voire contreproductifs.

Pour diverses raisons exposées dans l’analyse, de tels mouvements sont condamnés par avance s’ils prétendent obtenir directement un résultat décisif correspondant au but d’insurrection de ceux qui l’initient. Pour moi, c’est un fait indiscutable, même si le mouvement parvient à un résultat tangible.

 

(Résultats tangibles de telles actions, si elles pouvaient avoir lieu ? Soit changer le régime des retraites, soit, plus hypothétiquement, prendre d’assaut le Palais de l’Elysée et habiller Sarko en sans-culotte ou en scout du Secours Catholique ; soit même, pour des Irlandais colériques et qu’on sait être coriaces et courageux, des émeutes insurrectionnelles ne menant qu’au même cul de sac de la prise d’un pouvoir politique dont ils ne sauraient que faire puisque leur pays, comme les autres, n’est qu’un maillon du système et rien d’autre. Le seul cas où une action politique réelle peut donner directement un résultat décisif, par son caractère intrinsèque de psychologie insurrectionnelle réalisant effectivement une attaque contre le cœur de la psychologie du système, c’est l’éclatement de l’Amérique avec la destruction de l’American Dream qui s’ensuit, – perspective qui, soit dit en passant, ne doit pas nous paraître rocambolesque lorsqu’on lit le dernier article de Paul Krugman.)

Cette affirmation de “l’impossibilité d’une révolution” selon le sens classique ne doit certainement pas être prise comme une affirmation désespérée, désenchantée et nihiliste si vous voulez, mais simplement comme la prise en compte du fait que nous sommes dans une époque différente, où les forces en action sont complètement différentes de celles qu’on observait dans l’époque précédente (Epoque psychopolitique et plus du tout géopolitique, où il n’y a plus aucun rapport de cause à effet entre une action politique de rupture violente, même réussie, et un changement décisif du système).

Voilà mon postulat de base, qui s’applique essentiellement dans les pays du bloc occidentaliste-américaniste, – c’est-à-dire dans les seules situation où vous pouvez toucher le système au cœur ; dans ces conditions nouvelles, “toucher au cœur le système” deviendrait alors, plutôt qu’effectivement parvenir à sa destruction d’une façon directe, accélérer puissamment, voire décisivement, son mouvement de destruction interne déjà en cours, du fait de ses propres tares fondamentales.

Je vais tenter d’expliquer les caractères de cette nouvelle situation d’abord, ce qui peut être fait ensuite, comment ce qui peut être fait peut être exploité efficacement, sinon décisivement, enfin.

La psychologie, l’arme de l’insurrection

Je mets en avant bien entendu, avant toute chose, le facteur de la psychologie, qui est complètement essentiel dans mon propos. C’est par lui que tout passe, à cause de la puissance du système de la communication, instauré par le système général mais qui, à cause de ses spécificités contradictoires, joue un “double jeu”, alors que l’autre composante du système général, le système du technologisme, est dans une crise si profonde qu’elle pourrait être qualifiée de terminale, – ce qui est ma conviction.

(Sur ce dernier point, quelques mots… Je me demande chaque jour, chaque heure, chaque minute, comment on peut encore substantiver en termes de capacités politiques et militaristes également efficaces jusqu’à lui prêter un caractère de quasi invincibilité, un système dotée de cette puissante effectivement colossale, qui étouffe littéralement sous l’accumulation de centaines et de centaines de milliards de dollars annuels, qui est incapable de fabriquer un avion de combat [JSF], incapable de prendre une décision contractuelle [KC-X], incapable au bout de neuf ans de comprendre les données fondamentales absolument primaires de la guerre où elle se débat comme dans un pot de mélasse [Afghanistan], etc. Et l’on croirait, par exemple, qu’un excrément bureaucratique de plus [le “concept stratégique de l’OTAN”] irait changer quelque chose, sinon accroître encore le désordre général et la paralysie ossifiée de cette bureaucratie ? Il y a parfois l’impression qu’une telle observation du système par ceux qui professent leur immense aversion pour lui, témoigne également de la part de ces mêmes critiques d’une singulière fascination pour lui, comme une croyance paradoxale dans la magie de ce même système. C’est lui faire bien de l’honneur, et s’en informer fort mal.)

Poursuivons… Donc le système de la communication est un Janus. Il sert le système général mais, également, il le trahit joyeusement dès que les arguments auxquels il est sensible (sensationnalisme, méthodologie de l’effet, etc.) se retrouvent dans des appréciations contestataires du système, non par goût de la trahison mais par goût de l’apparat et de l’effet de ces informations, qui ont alors sa faveur puisqu’elles font marcher la machine (Vous savez, cette remarque désolée que fait parfois tel ou tel président, tel ou tel ministre, aux journalistes, même des journalistes-Pravda ses fidèles alliés : “mais pourquoi mettez-vous toujours l’accent sur les mauvaises nouvelles ?” Pardi, parce que c’est ça qui est “sensationnel”, qui fait marcher le système de la communication, et parce qu’il n’y a rien de mieux que les “mauvaises nouvelles” pour faire marcher le système, et qu’en plus il n’y a plus aujourd’hui que des “mauvaises nouvelles”).

Par conséquent, Janus est de tous les coups, il marche avec son temps (“il n’y a plus aujourd’hui que des mauvaises nouvelles”) et il est ainsi devenu, sans intention délibérée, la plus formidable machine à influencer les psychologies dans le sens de la déstructuration du système.

En répercutant les commentaires alarmistes des serviteurs du système concernant les dangers d’insurrection des populations de notre système pourtant si cajolées de mots ronflants, le système de la communication contribue grandement à créer un climat psychologique insurrectionnel. Mais ce climat n’engendre rien de décisif dans ce qu’on juge être décisif, – l’action “révolutionnaire”, – parce que nul ne sait comment s’insurger efficacement de cette façon-là.

C’est cette idée de cette situation sans précédent, qui renverse complètement les situations connues : hier, tout le monde savait ce que serait une “révolte”, c’est-à-dire par le moyen de la “violence révolutionnaire”, l’inconnue résidant dans le fait qu’on ignorait quand existerait une volonté ou une occasion de la faire ; aujourd’hui, tout le monde admet qu’il existe partout une volonté d’insurrection, l’inconnue résidant dans le fait qu’on ignore quelle forme pourrait et devrait prendre cette insurrection.

Alors, il y a partout des protestations, des manifestations, des initiatives spontanées parfois étranges, qui ne débouchent sur rien de définitif, et l’on s’en désole ; mais l’on n’a pas raison parce qu’elles ont aussi l’effet d’accroître constamment cette tension psychologique insurrectionnelle.

L’essentiel est dans ce bouillonnement psychologique. Prenez le cas d’Eric Cantona (voir le texte du 22 novembre 2010) ; type pas sérieux, Cantona, provocateur, people et ainsi de suite. Ce qui est accessoire en l’espèce – mais d’ailleurs sans préjuger des effets éventuels de cette “initiative spontanée” (retrait massif d’argent des banques), car nous ne sommes pas au bout de nos surprises –, c’est de prendre trop au sérieux la proposition de Cantona, en disant et expliquant “ça marchera”, ou bien “ridicule, ça ne marchera pas”.

Pour l’instant (cette restriction bien comprise), l’analyse de la chose n’a strictement aucun intérêt. Ce qui importe et rien d’autre, c’est la contribution involontaire de Cantona, idole people des foules, à la montée de la tension psychologique insurrectionnelle. On pourrait définir ce que je nomme “psychologie insurrectionnelle”, un exemple très précis et extrême à cet égard, dans un texte de l’écrivain et poète US Linh Dinh, sur OnLineJournal, le 15 novembre 2010.

Première phrase du texte : « Revolt is in the air » [La révolte est dans l'air]. Puis un long catalogue des révoltes qui pourraient avoir lieu aux USA, jusqu’à la sécession, jusqu’aux révoltes armées, etc., mais chaque fois avec l’observation que cela ne se fera pas, parce que la population est trop apathique, les conditions ne s’y prêtent pas, etc. Donc, constat pessimiste, sinon désespérant ?

Et puis cette conclusion, qui contredit tout le reste, – sauf la première phrase : «I have a feeling, however, that we may be nearing the end of being jerked back and forth like this, that even the most insensate and silly among us is about to explode » [J'ai le sentiment, toutefois, que nous pourrions bientôt finir d'être trimballés en avant et en arrière comme cela, que même le plus insensé et stupides d'entre nous est sur le point d'exploser].

…Tout cela conduisait, dans le même texte référencé (sur Cantona), à cette conclusion qui me paraît digne d’intérêt pour cette réflexion : «Peut-être déterminera-t-on finalement, selon l’évolution de ce “climat” de la recherche d’une nouvelle forme de révolte et de la tension psychologique que cela ne cesse de renforcer, que c’est le développement même de ce climat qui est, en soi, la nouvelle forme de la révolte…» (Encore une fois, le mot “révolte” n’aurait pas dû être employé, mais bien celui d’“insurrection”.)

Pour conclure cet aspect de l’analyse par une tentative de chronologie datée, je proposerais l’hypothèse que cette phase d’“insurrection psychologique” où nous sommes entrés est la phase suivante de l’évolution des peuples face à la grande crise de notre système et contre ceux qui servent encore ce système, après ce que je nommerais la phase de “résistance psychologique” qui s’est développée entre les années 2003-2004 et 2008-2009…

Cela correspond par ailleurs, et ceci n’est pas sans rapport avec cela, avec ce que j’estime être, dans l’année que nous terminons, l’entrée dans la phase active de la crise eschatologique du monde, cette crise qui se développe comme un volcan entre en activité vers son éruption, au travers de la pression des crises de l’environnement, des ressources, de la crise climatique, etc.

TINA pour nous aussi

Comment analyser d’une façon générale cette situation dans la perspective de ce qui devrait être fait, sinon de ce qui pourrait être fait ?

Je dirais que le but de l’“insurrection” ne doit pas être, n’est pas de “prendre le pouvoir” (c’est-à-dire le système, bien sûr), mais de “détruire” le pouvoir (le système). Il n’est même pas intéressant de l’“affaiblir” avant de le frapper, ce pouvoir, mais, au contraire, de le frapper pour le détruire alors qu’il est au faîte de sa puissance…

Car il est au faîte de sa puissance et le restera, y compris et surtout en conduisant lui-même son processus d’autodestruction, – plus il est puissant, plus sera puissant son processus d’autodestruction, – cela, à l’ombre d’une autre contradiction qui caractérise sa crise terminale : plus il est puissant, plus il est impuissant.

Mises à part les considérations humanitaires dont on connaît l’illusoire vertu et la grandiose inutilité, je dirais que le cynique qui veut la peau du système ne comprendrait pas une seconde ceux qui, se disant eux-mêmes adversaires du système, réclament à grands cris et espèrent ardemment le retrait américaniste d’Afghanistan, même pour les meilleurs motifs du monde.

Que l’OTAN et l’U.S. Army y restent, en Afghanistan, qu’elles y déploient toute leur puissance, tant il est évident qu’elles sont en train de se dévorer elles-mêmes, en aggravant chaque jour leur crise structurelle et la crise psychologique de ceux qui ordonnent et conduisent cette guerre sans but, sans motifs, sans commencement ni fin, sans rien du tout sinon la destruction de soi-même.

Et tout cela doit bien être compris pour ce qui est, au risque de me répéter, pour bien embrasser le caractère complètement inédit de cette situation…

Il n’y a là-dedans ni affrontement classique, ni une sorte de “guerre civile” au sens où nous l’entendons, ni “révolte” justement, comme j’en indiquais la définition au sens classique. Il y a une “attaque” qui est un mélange de pression psychologique et d’action désordonnée suscitées par cette pression psychologique et l’accentuant en retour, – et là, effectivement, nous abordons le champ de l’action qui est possible aujourd’hui, à la place des mouvements “révolutionnaires” classiques et totalement discrédités.

Cette attaque par la “pression psychologique insurrectionnelle” touche le système (ses représentants mais lui-même en tant qu’entité, dirait-on) dans sa propre psychologie, affaiblit cette psychologie dans le sens du déséquilibre, avec toutes les fautes qui en découlent, ce qui accélère effectivement le retournement de sa propre immense puissance contre lui-même.

En attaquant “le pouvoir” (le système), vous attaquez le système, comme l’indiquent justement les parenthèses ; vous n’attaquez pas des hommes mais un système (anthropotechnique si vous voulez, mais aussi bien anthropotechnocratique, etc.), dont j’ai déjà dit ma conviction qu’il évolue de façon absolument autonome, hors de tout contrôle humain, mais au contraire en entretenant une servitude humaine à son avantage, dont celle des dirigeants politiques est une des formes les plus actives.

Ce dernier point indique qu’à la limite, mais une limite qui prend de plus en plus d’importance dans le contexte, l’insurrection réclamée, qui est d’abord une “insurrection psychologique” manifestée par une tension grandissante, doit aussi, et peut-être d’abord, avoir comme objectif naturel de son influence, dans ce cas définie presque comme bienveillante, la psychologie des directions et élites politiques, comme pour venir à leur secours.

Dans cette situation extraordinaire et, contrairement à tous les dogmes et théories sur l’influence, la manipulation, etc., les dernières psychologies “sous influence” de la manipulation du système sont celles des directions et élites politiques, nullement celles des populations. Ces directions et élites politiques sont beaucoup plus prisonnières par auto conditionnement (virtualisme), par aveuglement ou par dérangement psychologique, que complices conscientes et cyniques.

La pression de l’“insurrection psychologique” des peuples doit agir sur elles pour affaiblir leur “dépendance” psychologique du système, pour subvertir leur démarche de soumission et leur position d’asservissement, – en vérité, et j’ironise à peine, pour les libérer, rien de moins…

Pour cette sorte d’action, dont la composante psychologique est essentielle, il faut des mouvements confus, incompréhensibles, parce que justement ces mouvements constituent une force psychologique insurrectionnelle brute semeuse de troubles sans fin dans les psychologies prisonnières du système, qui croient encore à la bonne ordonnance du système, qui craignent le désordre par dessus tout, et ce désordre commençant par la confusion psychologique.

Le seul but, – inconscient, bien plus que conscient, sans aucun doute, – de cette sorte d’action de ces “mouvements confus” est effectivement de “détruire” le pouvoir (le système) ; ces actions ont un aspect nihiliste qui se reflète dans leur confusion, mais ce nihilisme agit comme un contre feu, contre le nihilisme institutionnalisée du système, et elles acquièrent par logique contradictoire un aspect structurant antisystème extrêmement positif… Tout cela, comme vous le constatez, se déroule toujours dans le champ de la psychologie.

Bien entendu, il y a l’exemple de Tea Party. Ne nous lamentons pas si nous ne comprenons pas vraiment le but de Tea Party, bien au contraire ; surtout, surtout, il faut éviter tout jugement idéologique, de celui qu’affectionnent les vieilles lunes de notre establishment progressiste qui se donnent encore la sensation d’exister comme dans les belles années du XXème siècle, autour de la Deuxième Guerre mondiale, en agitant l’épouvantail de l’extrême droite et du “populisme”.

Politiquement, Tea Party c’est tout et rien, et c’est n’importe quoi, – et c’est tant mieux ; c’est, par contre, l’archétype du mouvement né d’une “psychologie insurrectionnelle”, qui doit être considéré pour cette dynamique, cette pression de l’insurrection psychologique qu’il fabrique et nullement pour ses motifs confus… L’on conviendra que tout cela n’est pas sans résultats, et quels résultats quand on voit l’évolution vertigineuse de la panique du système washingtonien.

Depuis le 2 novembre, l’establishment washingtonien ne cesse de grossir Tea Party, son action, son influence, bien plus que ne le justifieraient ses résultats aux élections. On construit à partir de lui des monstres qu’on pensait impossibles à Washington, comme l’annonce d’une aile “neo-isolationniste” au sein du parti républicain, laquelle, à force d’annonces et d’avertissements répétés, finit par exister vraiment.

On envisage des réductions dans le budget de la défense et Paul Krugman nous annonce un affrontement politique de rupture à Washington pour le printemps prochain, où Tea Party ne laissera sa place à personne. C’est cela, “détruire” le pouvoir (le système), le forcer à fabriquer lui-même, dans sa toute puissance, les monstres qu’il abomine et qui vont le dévorer. Et le moteur de tout cela, c’est bien la perception d’une irrésistible tension psychologique insurrectionnelle.

Enfin, dira-t-on en pianotant nerveusement sur la table, devant son écran d’ordinateur, lisant ce texte, où tout cela va-t-il mener ? L’esprit et la raison ne peuvent se départir de leur passion pour l’organisation du monde qui soit à leur mesure, où ils tiennent une place essentielle, dont ils peuvent proclamer la gloire à leur avantage… Bien entendu, la question est hors de propos. Pour l’instant on frappe, on frappe et on frappe encore, et l’on frappe principalement par cette pression psychologique insurrectionnelle…

Et le système fait le reste devant cette pression qu’il ne comprend pas mais qui l’enserre, il transforme son immense et invincible puissance en une force contre lui-même par des réactions stupides, absurdes, des maladresses extraordinaires.

Vous dites que le système est très, peut-être trop puissant ? Qui a parlé de le vaincre sur son terrain ? Surtout pas, il faut retourner contre lui, comme un gant, sa puissance énorme, comme le recommande l’honorable Sun tzi. Il s’effondrera ; d’ailleurs, cela est en cours, l’effondrement…

Et après ? Quel monde organiser? Oh, quelle ambition est-ce là… Laissez donc la montagne de fromage pourri et les murs de Jericho s’écrouler avant d’envisager ce qu’on peut mettre à la place, – non, pardon, avant d’envisager ce qui se mettra en place, de soi-même et irrésistiblement, par la grâce de forces puissantes.

Par cette formule, je veux avancer ceci : si l’hypothèse se vérifie et si la “pression psychologique insurrectionnelle” parvient effectivement à participer, sinon décisivement du moins considérablement, à la déstabilisation et à la déstructuration du système jusqu’à son effondrement, c’est que des forces fondamentales, supérieures à nous, auront évidemment favorisé cette issue qui n’est pas de l’empire de la raison, mais plutôt suggérée par l’intuition ; ces forces resteront présentes pour l’étape d’après la Chute et joueront leur rôle, fondamental à mesure…

Pour ce qui nous concerne, pour l’immédiat, nous autres brillants sapiens de l’espèce vulgum pecus, nous n’avons, à l’image du système, que la perspective TINA (There Is No Alternative) ; mais cela, dans une position de contre force, contre le système, car il n’y a pour nous pas d’alternative à la concentration de toutes nos forces dans le but ardent de la destruction d’un tel système, cette “source de tous les maux” dont l’unique but est aujourd’hui la destruction du monde.

Les sapiens revenus sur terre, à leur place, dans le chaos qu’ils ont tant contribué à créer, sont des acteurs parmi d’autres, et pas les plus grandioses, – certainement nous sommes cela, avec une bonne cure d’humilité à suivre, considérant le monstre extraordinaire que notre “génie” pleinement exprimé dans la modernité a contribué à créer.

Qu’ils s’en tiennent, les sapiens, à ce rôle qui n’est pas sans beauté ni dignité, comme l’est l’humilité devant l’ébranlement du monde dont nous ne tenons plus les fils. Ainsi bien compris, ce rôle n’est pas inutile.

Dedefensa

dimanche, 28 novembre 2010

Comunità e Comunitarismo

Comunità e Comunitarismo

di Luca Lionello Rimbotti

Ex: http://www.centroitalicum.it/

index.jpgLa lotta che l’individualismo liberaldemocratico ha ingaggiato per demolire ogni realtà e rappresentazione comunitaria ha il significato di un finale regolamento di conti tra l’umano e il disumano. Al fondo, si apre una divaricazione tra visioni del mondo che è oltre la sociologia, oltre la storia, investendo l’antropologia e la vita di base di ognuno. Chi cura l’appartenere e percepisce il legame, avverte la precisa sensazione, e la avverte come verità di evidenze, che l’individuo è preceduto da qualcosa che lo connota e lo distingue, cioè la comunità che gli dona individuazione anche come singolo soggetto, e senza la quale l’essere non è appunto individuabile, non è descrivibile, non rivela nulla di sé, se non la solitudine astratta e il nonsenso concreto. Chi giudica che la società venga prima dell’individuo pensa socialmente, pensa comunitariamente, pensa plurale. Chi invece giudica che sia l’individuo a venire prima della società ragiona in termini di monade semplice e ottusa: l’essere umano assembrato casualmente, riunito in folla per necessità e bisogno. I “contrattualisti”, quei liberali che pensano la società come nata dall’incontro dei meri bisogni, costituiscono i grandi demolitori moderni dell’idea comunitaria. Coloro che da secoli tendono l’insidia ad ogni costituirsi di tessuti relazionali e di legami politici e metapolitici. Essi pensano unicamente entro categorie individuali: l’interesse, la sicurezza, il profitto.


Costoro sono ancora tra di noi a recare danno. Con le iniezioni di emigranti ad alto dosaggio il pensiero unico è vicino alla meta di creare un mondo di disgregazione, in cui abbia rilievo sociale unicamente l’individuo e invece alle comunità – storiche, geografiche, etniche – venga costantemente innalzata la forca, come a isole di conservatorismo, di oscurantismo, di razzismo da demonizzare e perseguitare. Dopotutto, ancora oggi è in pieno svolgimento la lotta ottocentesca tra la comunità e la società. E, come un paio di secoli fa, abbiamo i poteri centrali assolutisti che minano le realtà locali, le svellono e le annichiliscono a suon di immigrazione e di propaganda “multietnica”: il che vuol dire “anti-etnica”. La società è quel luogo in cui tutte le identità vengono negate e in cui la Modernità compie il suo prodigio cosmopolita. La comunità è al contrario quel luogo in cui l’identità viene protetta con le unghie e coi denti, in cui i patrimoni biostorici vengono rivendicati, le appartenenze si armano a difesa e si rinsaldano. Il dominio assoluto del pensiero neo-illuminista prevede la disintegrazione della realtà di popolo, alla quale si sostituisce quella di popolazione, la massa priva di volto e di carattere. «Storicamente, la filosofia illuminista – ha scritto recentemente de Benoist – se l’è presa prima di tutto con le comunità organiche, delle quali attaccava il modo di vita considerandolo impregnato di “superstizioni” irrazionali e di “pregiudizi”, proponendosi di sostituirle con una società di individui».
Questo lavoro secolare è prossimo alla realizzazione finale. Anche se, nel frattempo, qua e là per l’Europa si colgono sintomi di risveglio della “provincia” profonda, partiti “contadini” che nascono, movimenti di difesa etnica che sembrano muovere i primi passi, magari ottenendo anche buoni risultati elettorali a scorno dell’europeismo bancario e mondialista.


Il comunitarismo organico ha poco a che vedere con la linea di pensiero di eguale nome che ad esempio in America raccoglie qualche avversario del liberismo. Laggiù, si tratta ancora e di nuovo di un equivoco: far passare per anti-liberale ciò che è di fatto libertario e “democratico” nel senso deteriore, depotenziato, del termine. Il “comunitarismo” made in Usa è un balocco intellettuale nato in qualche campus, è il vezzo di qualche professor e l’esca di qualche outsider, non ha la sostanza di un retaggio concreto e non è per nulla radicato a realtà etniche e storiche connotate. Per comunitarismo, qui da noi in Europa, si intende da sempre un’altra cosa. L’appartenenza a una bio-storia con tanto di geografia, di lingua, di paesaggio e di tradizione. Non un metodo “democratico”, ma un fatto antropologico. In Europa, il comunitarismo non è un’opzione nata in aule universitarie di alternativa borghese, ma una realtà sgorgata dalla terra e dalla storia, un accumulo secolare che alla fine ha dato una somma totale: l’identità. In Europa la “regione” è un fatto. E l’autogoverno microcomunitario è storia. Gli assolutismi illuministi vecchi e nuovi negano questo fatto e questa storia, ma essi esistono ugualmente e vivono, più o meno sottotraccia. Gli imperi erano sistemi di “regioni”, di regionalismi comunitari, di città libere, di comunità di villaggio, di assemblee locali, di autogestione delle economie, di cooperazione sociale, di suddivisione del lavoro, di corporazoni di mestiere, di statuti autonomi, di competenze ereditate. L’Europa delle nazioni, nata dal feudalesimo comunitario, è il frutto della solidificazione politica delle diverse comunità viventi. I centralismi giacobini, adusi alla violenta negazione della “periferia”, oggi ripetono la loro aggressiva politica di spoliazione identitaria attraverso strumenti artificiali, semi-massonici, del tipo del baraccone mondialista di Bruxelles, epicentro della voluta dis-integrazione.
In Europa, persino le dittature totalitarie sono state fortemente comunitariste – in senso non solo nazionale, ma di territorialità locale. Ad onta di un potere centrale forte (ma che certi storici hanno invece definito “debole”), esse dettero fiato politico alla comunità di zona, alla regione, fino alla vallata o al territorio storico, al Gau, al Kreis, alla circoscrizione, al distretto. Per dire, persino il fascismo “centralista” e autoritario riconosceva le “piccole patrie”, incoraggiava il tradizionalismo locale, l’identificazione territoriale, addirittura i dialetti, i folcklori, gli immaginari contadini legati alla zolla, e al suo interno poterono avere il loro ruolo riconosciuto proto-leghismi ben strutturati, del tipo di “Strapaese”. Si santificavano i luoghi dell’identità, da Fiume alla Dalmazia, e si sacralizzavano i diversi ceppi etnici: le “forti genti del Cadore”, i “fanti della Peloritana”...E persino il Terzo Reich, anzi, proprio il Terzo Reich, con un imprinting di tipo propriamente neoimperiale, fece una politica di disgregazione dello Stato nazionale liberalmassonico e di riscoperta delle aggregazioni etniche: la Slovacchia, la Vallonia, le Fiandre, l’Austria tornata “marca orientale” come nel Medioevo, il Voralpenland – che, alla maniera di un Gianfranco Miglio quarant’anni dopo, concepiva solidarismi transnazionali, macroregionali, di aree geografiche omogenee – e si pensava niente di meno che a riesumare qualcosa come la Borgogna, l’Alvernia, il Gotenland, etc. Per dire, ai congressi del partito, si recitava una preghiera patriottica – lo Spatengruss – in cui ogni comunità di schiatta proclamava la sua provenienza (Pomerania, Slesia, Renania...) e recava una manciata della sua terra, da fondere simbolicamente a tutte le altre...e questo molto prima che Bossi raccogliesse nell’ampolla l’acqua del Po alle feste popolari della Lega Nord.... L’Europa nata dal crollo sovietico è andata spontaneamente in questa direzione, senza stare a sentire i diktat globalisti: gli Stati artificiali nati dai trattati di pace – come la Cecoslovacchia o la Jugoslavia – si sono disintegrati automaticamente e hanno dato vita a quello che già esisteva nel 1941: la Croazia, la Slovacchia, la Boemia- Cechia, la Serbia...persino l’Ucraina indipendente, quale l’aveva concepita lo Stato Maggiore guglielmino nel 1918, è risorta tale e quale. I nazionalismi oggi rilanciati, i regionalismi recentemente rianimati, dalla Corsica alle Fiandre, dalla Catalogna alla Padania alla Bretagna, sono il segnale di un comunitarismo di nuovo vivace e concreto, l’unico vero, l’unico storicamente rilevabile. Che bene o male è popolo, suolo comune e storia condivisa.


Tutto questo ci parla di due volontà, due direttrici in opposizione tra loro. Da un lato il termitaio di Cosmopoli, dall’altro la comunità. Dalla più grande, lo Stato nazionale o possibilmente un domani la federazione tra Stati polarizzati da un forte centro politico-simbolico, fino alla più piccola, la famiglia, il nucleo parentale, il ceppo ereditario. Cosa del tutto naturale è che i cosmopoliti abbiano in odio questo comunitarismo territoriale, che lo infamino quale rifugio di ogni male: gretto conservatorismo, causa di “frammentazione sociale”, di chiusura autistica al mondo...mentre la verità è all’opposto. Soltanto una matura consapevolezza identitaria, fortemente difesa e rinsaldata di fronte agli assalti della Modernità, è in grado di garantire continuità alle differenze. Dove regna l’indistinto, lì si ha davvero non il “multiculturalismo”, ma la soppressione di ogni cultura.


Contrariamente a quanto pensa de Benoist, non ritengo che l’ascesa recente delle comunità sia «concomitante all’esaurimento dello Stato nazionale ». Lo Stato nazionale, anche quello scompaginato dei nostri giorni, è tutt’altro che alla fine del suo ruolo storico. E i nuovi comunitarismi che sorgono al suo interno ne testimoniano, a mio parere, anziché il declino, il rafforzamento e l’immutato significato di essenziale contenitore. Come di cosa viva, che non sta in piedi per apparato burocratico, ma per convivenza conciliatrice tra realtà omogenee ma differenziate, simili ma non necessariamente uguali, che tendono all’affermazione, alla visibilità, al riconoscimento. Il regionalismo non nega, ma presuppone lo Stato nazionale. In assenza di qualche forma imperiale di Europa, o di un unico potere che gestisca l’autorità di tutto il continente – poiché l’autorità sovrana può essere solo una e indivisa - lo Stato nazionale è il perfetto veicolo delle differenziazioni comunitarie. In questo contesto, gli imbrogli lessicali, che tendono a separare concettualmente la comunità organica tradizionale da un supposto “comunitarismo” progressista, non fanno parte della scena storica, ma di quella di una tarda ideologia post-marxista, alla ricerca disperata di un rilancio qualsiasi. Sono asserzioni fuori contesto, che saltano a pie’ pari e per pregiudizio egualitarista ogni tratto qualificante, ogni centro di individuazione, in primis il dato etnico-biologico che dà forma fisica al contenuto culturale. Il “comunitarismo” che oggi ha qualche voce in capitolo negli Stati Uniti, è chiaramente un altro mondo, che nulla ha a che fare con il fenomeno europeo di cui ha usurpato il nome. Di là dall’Atlantico, chiunque può dirsi “comunitarista” a poco prezzo. Anche tra i più tenaci globalizzatori si può sempre trovare qualcuno che dica di avere una sfumatura un po’ diversa...come dire, meno appiattita sul liberismo, più “di base”, ma pur sempre alla maniera americana: “comunitaristi”, a quei livelli, si può essere senza alcun impegno, dai Clinton a certi confessionalismi bacchettoni, fino ai famosi neoconservatives...notoriamente portatori di un “comunitarismo” morale, chiesastico, alla quacchera, che nulla accomuna al senso della vera comunità solidale totale: questa prevede una stirpe ben connotata, un territorio, una tradizione, una Kultur. Il falso “comunitarismo” all’americana è un codice razionale, è la riproposta del vecchio “patto sociale” di sicurezza tra individui e gruppi, di matrice illuminista, è insomma la solita minestra sui “diritti”, è un tragico universalismo e non un sano e realistico relativismo. Riecheggia in queste formule il prepotere repubblicano dei giacobini e il patriottismo debole dei costituzionalisti puritani. Lo stesso MacIntyre, il campione di questa versione contraffatta di “comunitarismo”, che pure seziona l’universalismo liberale nelle tradizioni particolari e che parla di ritorno ad Aristotele, in fondo non fa che ripresentare la nostalgia americana – un po’ reazionaria e molto bigotta – per tutte quelle belle civic virtues celebrate dal Tocqueville...Aristotele, in tutto questo, davvero non c’entra. Lui aveva in mente un’altra cosa, la sua – se vogliamo dirla tutta - era la filosofia politica della comunità gerarchica e guerriera che non si vergogna di parlare chiaro, fino al punto di limitare il privilegio dell’appartenenza ai soli eredi di un retaggio antropologico preciso.


Poiché, tradizionalmente, per l’appunto, l’appartenenza alla comunità è un privilegio, e per nulla un diritto. Ciò che, in Europa, si è da qualche secolo incaricato di dare forma politica a questo privilegio è lo Stato nazionale. Può non piacere, ma è così. Qui il federalismo è altra cosa da quello americano. Il federalismo europeo è concettualmente e storicamente più un impero che una confederazione...lo stesso suono delle parole indica l’opposizione dei significati: da una parte, sacrale comunità giurata di eredi; dall’altra, profana aggregazione di individui per interesse, sulla base del contratto costituzionale. Due universi incomunicanti.


È chiaro che lo Stato nazionale a cui facciamo riferimento, come al migliore contenitore delle differenze di sotto-aggregazione regionalistica, non è quello liberaldemocratico. Questo si nega votandosi all’autodistruzione multietnica. Lo Stato nazionale, al contrario, se è “nazionale” di fatto e non di nome, non può non essere innestato sull’omogeneità di base delle sue componenti. Si ha in vista cioè una differenziazione tra simili, non una convivenza coatta tra dissimili. Oggi occorre diffidare di certi sposalizi morganatici tra post-marxisti e neo-liberali. Sono nozze d’interesse che producono una figliolanza ibrida e di sesso incerto: l’ideologia “comunitarista” così concepita rappresenta un ulteriore stadio di sfaldamento dei significati. La comunità vera e reale, e non quella disegnata sulle cattedre, vive nel segno di poche, ma certissime cose. Significa comunanza di nascita, di terra su cui si vive, di progetti e di destini condivisi, di lavoro inteso a tutti i livelli: dalla produzione materiale alla solidarietà sociale, dal volontariato reciproco alla protezione e alla sicurezza. E fino alla sovranità popolare vera, all’autogestione degli spazi, dei sistemi e dei programmi di vita. Il luogo è il recinto del legame. Un limes lo circonda, lo individua, lo rende percepibile. Questo luogo è lo spazio comunitario in cui un popolo vive e vuole vivere, creando la sua ineguagliabile, irripetibile identità.

samedi, 27 novembre 2010

Les limites de l'utopie multiculturelle

Les limites de l'utopie multiculturelle

par Philippe d'Iribarne (CNRS)

Ex: http://www.polemia.com/

 

dyn010_original_512_759_jpeg__94544ecf36145dad866e1ac2d8f7f135.jpgLe projet d'instauration d'une société multiculturelle où les cultures, les religions, entreraient en dialogue, s'enrichissant mutuellement de leur diversité, a paru de nature à remplacer avec bonheur l'ancienne recherche d'assimilation de ceux qui venaient d'ailleurs. Les Pays-Bas, la Grande-Bretagne et quelques autres ont été en pointe dans ce domaine. Et voilà que le vent tourne. Comment comprendre la montée d'un populisme xénophobe dans une bonne partie de l'Europe ? Réaction de populations déstabilisées par la crise économique mondiale et en quête d'un bouc émissaire ? Ou effet des limites d'une utopie ?

Les exemples vivants de sociétés multiculturelles dotées d'une certaine pérennité ne manquent pas : l'ancien empire turc, la grande époque d'El Andalus ; de nos jours, le Liban, l'Inde, les Etats-Unis. Qu'ont-elles de commun ? Une forte ségrégation entre les diverses communautés qui les composent et de grandes inégalités. De leur côté, les sociétés que l'on célèbre pour leur aspect égalitaire, tels les sociétés d'Europe du Nord ou le Japon, sont traditionnellement marquées par une grande homogénéité culturelle. Et, là où, comme en Europe du Nord, cette homogénéité disparaît, le populisme xénophobe est en pleine expansion.

Deux raisons au moins rendent plus que difficile d'incarner le rêve d'une société multiculturelle qui serait peu ségrégée et égalitaire.

Pas de lois neutres au regard de la diversité des cultures

Il n'existe pas d'institutions, de lois (le système politique, le fonctionnement de la justice, le droit du travail, etc.), qui soient neutres à l'égard de la diversité des cultures. Dans les sociétés pleinement multiculturelles, le cadre légal et institutionnel (en particulier la législation de la famille) est fonction de l'appartenance communautaire de chacun. Fidèles à cette logique, certains proposent que, dans les pays européens, la charia régisse l'existence des populations d'origine musulmane. On est vite conduit, dans cette voie, à la coexistence de communautés dont chacune fournit un cadre à l'existence de ses membres et exerce un strict contrôle sur cette existence. L'enfermement communautaire qui en résulte paraît bien peu compatible avec l'idéal d'une société de citoyens vivant dans un espace public commun et dont chacun est libre de ses choix culturels dans une vie privée qu'il mène à l'abri de toute pression.

Société multiculturelle et forte ségrégation

De plus, dans une société à la fois multiculturelle et peu ségrégée, où aucun territoire spécifique n'est assigné à chaque communauté, une rencontre des cultures s'opère au quotidien au sein d'une large sphère sociale : dans l'habitat, à l'école, dans le monde du travail. La manière dont chacun mène son existence, le monde d'images, de sons, d'odeurs qu'il contribue ainsi à produire, affecte l'environnement matériel et symbolique où baignent ses concitoyens. Comme l'a montré Pierre Bourdieu dans La Misère du monde, la coexistence, dans un même espace, de populations dont les manières de vivre se heurtent (par exemple parce qu'elles ont des conceptions très différentes de la frontière entre l'univers des sons qui font partie d'une existence normale et celui des bruits qui insupportent) est source de vives tensions. Quelles que soient les politiques de mixité sociale et ethnique dans l'habitat, la liberté que conserve chacun de choisir son lieu de résidence dans la mesure de ces moyens conduit de fait toute société multiculturelle à une forte ségrégation. En France, même si on est encore loin de la logique de ghetto américaine, on a déjà des zones où plus des trois quarts des jeunes sont issus de l'immigration. Pendant ce temps, dans un monde du travail où le « savoir être » est l'objet d'exigences croissantes, où il s'agit de plus en plus de s'engager dans des collectifs au sein desquels il importe de s'entendre à demi-mot, où des formes contraignantes de hiérarchie s'imposent, le fait que certains ne soient pas prêts à se conformer aux attentes de la culture malgré tout dominante rend leur intégration problématique.

Ne pas mentir aux nouveaux venus

En fin de compte, l'utopie d'une société multiculturelle dissuade de tenir un discours de vérité aux nouveaux venus et à ceux qui en sont issus, de leur dire, en toute franchise, à quelles conditions ils pourront être reconnus comme membres à part entière de leur nouvelle patrie, de les aider à découvrir ses codes. L'ouverture à l'Autre doit inciter à accompagner avec humanité ceux qui doivent emprunter le chemin difficile de l'adaptation à un autre monde, non à leur mentir.

Philippe d'Iribarne
directeur de recherche au CNRS
Les Echos.fr
17/11/2010

Voir aussi : « Le renversement du monde –politique de la crise »

Correspondance Polémia – 22/11/2010