Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

samedi, 13 mars 2010

Postmortem Report: het laatste werk van Dr. Sunic

Postmortem Report: het laatste werk van Dr. Sunic

Tomislav Sunic is een van de vooraanstaande kenners van Nieuw Rechts.
In 2008 was hij nog te gast op het colloquium van Identiteit-Deltastichting. Tomislav Sunic publiceert in het Kroatisch, Engels, Frans en Duits onder andere over de ideeën van Oswald Spengler, Carl Schmitt, Vilfredo Pareto en Alain de Benoist.

Zijn culturele kritiek handelt voornamelijk over: religie, cultuurpessimisme, ras, het derde rijk, liberalisme en democratie,multiculturalisme en communisme. Dit boek bundelt Sunics beste teksten van de afgelopen tien jaar. Als Europees waarnemer die het liberalisme en het communisme aan beide zijden van het IJzeren Gordijn heeft meegemaakt, schetst hij enkele indringende culturele beelden van de westelijke en postcommunistische maatschappij. Altijd erudiet en soms humoristisch, biedt dit boek een zeer leesbaar postmortem verslag over de dood van het Westen.


Dit boek kan besteld worden bij Identiteit op het volgende E-postadres voor de prijs van 18 €.(verzending inbegrepen)

Ugo Spirito, il padre della "Corporazione Proprietaria"

Ugo Spirito il padre della "Corporazione Proprietaria"

di Luigi Carlo Schiavone - http://ginosalvi.blogspot.com/ 

Ugo Spirito nacque ad Arezzo il 9 settembre 1896 dall’ingegnere Prospero e da Rosa Leone. Iscrittosi a giurisprudenza, fu allievo del socialista Enrico Ferri, da cui trasse la sua formazione positivista. Nel 1918, anno della laurea, avrà il primo incontro, nel corso di una lezione all’università di Roma, con il suo futuro mentore, Giovanni Gentile. Nel 1920, dopo aver conseguito anche la laurea in filosofia, venne chiamato da Gentile a collaborare a “Il giornale critico della filosofia italiana” di cui divenne successivamente direttore. Nel 1922 conobbe Benedetto Croce, con cui entrò successivamente in polemica. Nel 1923 fondò con Carmelo Licitra e Arnoldo Volpicelli “Nuova politica liberale”, rivista che cambiò successivamente il nome in “Educazione politica” prima e “Educazione Fascista” poi. Nel 1924 fu chiamato da Giuseppe Bottai a collaborare per “Critica Fascista”. In questi anni pubblicò, inoltre, “Il pragmatismo della filosofia contemporanea”(1921), “Storia del diritto penale italiano” (1925), “Nuovo diritto penale” (1929), “Scienza e filosofia” (1933).

ugo public%5Cimg_prod%5C2471.jpgChiamato a vivere il periodo magico del neo-idealismo sorto all’indomani del primo dopoguerra, Spirito aderì giovanissimo all’attualismo gentiliano, corrente di pensiero dalla quale si distaccò nel corso degli anni Trenta, senza però rinnegare alcuni dei suoi principi di fondo. Dopo essere stato considerato un “divulgatore entusiasta ed un apologeta instancabile dell’attualismo” col suo “Scienza e filosofia”, infatti, delineò quella che è considerata, non a torto, una posizione originale ed autonoma rispetto al pensiero gentiliano, collocandosi, con Guido Calogero, sul fronte della cosiddetta “sinistra attualistica”. Spirito mantenne nella sua analisi il principio gentiliano del “fare” (dell’atto) col chiaro intento di “demetafisicizzarlo” legandolo all’agire fattuale degli uomini che si ha nell’ambito del concreto orizzonte mondano. Spirito, impegnandosi nell’ambito della problematica gnoseologica, giunse a risultati differenti da Gentile e Croce, distanziandosi anche dalla tesi sostenuta dal suo amico Calogero, che sviluppò questo programma in senso etico. Spirito, infatti, grazie ai suoi studi riuscì ad affermare una serie di precetti, tra cui la non inferiorità della conoscenza scientifica rispetto alla conoscenza filosofica; l’impossibilità di sopprimere la scienza nella filosofia e la necessità di stabilire tra loro un’organica collaborazione. Questa sua concezione, che egli stesso definì “attualismo costruttore”, insomma, aveva come scopo di fare “sul serio scienza che sia filosofia e filosofia che sia scienza” in un costante nesso dialettico.

Nel 1937, con la pubblicazione edita da Sansoni di “Vita come ricerca”, Spirito lanciò le tesi del “problematicismo” con le quali capovolse progressivamente le posizioni dell’attualismo, consumando la rottura definitiva con Gentile, il quale si scagliò duramente contro questa opera. Il disgelo avverrà solo nel 1941, in seguito alla pubblicazione del volume del filosofo aretino “Vita come arte” che Gentile commenterà all’interno di una conferenza promossa dal ministero dell’Educazione facendo riferimento ad uno “Spirito non più mio”.
Gli anni Trenta, però, sono anche gli anni di gestazione della teoria della “corporazione proprietaria”. Dopo aver riunito, nel 1930, nel libro “Il Corporativismo” i tre testi precedentemente redatti sull’argomento, “Dall’economia liberale al corporativismo”, “I fondamenti dell’economia corporativa” e “Capitalismo e Corporativismo”, partecipò nel maggio 1932 al secondo Convegno di Studi sindacali e corporativi, tenutosi a Ferrara. Qui, dopo aver criticato il dualismo di classe presente nel capitalismo, Ugo Spirito lanciò la sua innovativa teoria. Ne “La corporazione proprietaria”, anche detta “corporazione comunista” il filosofo paventò la possibilità che la proprietà dei i mezzi di produzione fosse affidata non più ai privati bensì alla corporazione stessa. Tale teoria si contrapponeva all’ “anarchia produttiva” e al “dirigismo statale” permettendo che la grande società anonima si trasformasse in corporazione; favorendo la fusione tra capitale e lavoro, Spirito, inoltre, propugnava il superamento dell’antagonismo fra datori di lavoro e lavoratori che da realizzarsi grazie al passaggio del capitale dagli azionisti ai lavoratori, che divenivano così proprietari della parte loro spettante. Questa teoria, che prevedeva la risoluzione del sindacalismo nel corporativismo integrale e che rendeva inutile la presenza delle associazioni di categoria, favorendo la piena identificazione fra individuo e Stato, affermando così il superiore valore etico della rivoluzione fascista, fu duramente avversata sia dalla “destra” fascista, rappresentante dell’industria e della borghesia conservatrice e nazionalista, che la tacciò di “bolscevismo” e la bollò come teoria “eretica”, sia dalla sinistra sindacale che, dopo aver accusato Spirito d’essere dotato di scarsa sensibilità sociale, passò al vaglio la sua tesi evidenziandone i tratti utopici. A queste critiche seguì una polemica di carattere accademico fra il filosofo e il quadriumviro De Vecchi. Con la redazione del codice civile del 1942, inoltre, s’affermò una concezione borghese ed individualistica della proprietà privata contro la quale lo stesso Mussolini espresse una certa insoddisfazione. Nonostante ciò, i rapporti tra il filosofo ed il regime continuarono ad essere solidi.

Ma nell’animo di Ugo Spirito la volontà di ravvivare gli studi corporativi non si spense; egli, infatti, nonostante tutto, proseguì nella sua opera. Nel 1941 redasse a tal proposito il volume “Guerra rivoluzionaria”, nel quale tracciò un quadro senza compiacenze dei rapporti di forze esistenti fra gli Alleati e l’Asse, e non nascose un certo rammarico per la mancata alleanza delle tre potenze totalitarie: Italia, Germania e Urss contro le demoplutocrazie internazionali. Un volume, quest’ultimo, la cui stampa sarà bloccata dallo stesso Mussolini perché considerato troppo filo-tedesco. In questo periodo, inoltre, si consumò anche il suo allontanamento da Bottai, a causa della conversione al cattolicesimo di quest’ultimo, portando Spirito a individuare in Camillo Pellizzi, presidente dell’Istituto Nazionale di Cultura fascista, il suo nuovo referente politico e culturale.
Nel giugno del 1944 il fervore giustizialista seguito al crollo del regime vide Ugo Spirito al centro di un processo d’epurazione che gli costerà la sospensione dall’insegnamento; prosciolto dall’accusa di apologia del fascismo, riuscirà a ritornare alle sue mansioni di docente.
Nel 1948, quindi, pubblicò “Il problematicismo” seguito, nel 1953, da “Vita come amore. Tramonto della civiltà cristiana”, opera con cui si evidenzia il distacco definitivo del problematicismo dal cristianesimo in generale e dal cattolicesimo in particolare, generando ampie discussioni e polemiche.

Nel 1956 compì un delicato viaggio in Unione Sovietica, dove avrà un colloquio molto interessante con Kruscev. I suoi viaggi nei paesi del socialismo reale però non si fermano qui. Nel 1961 si recò in Cina dove soggiornerà per un periodo abbastanza lungo nel quale riuscirà ad incontrare le più alte cariche del Paese, tra cui lo stesso Mao, che lo colpirà favorevolmente aldilà di ogni più rosea aspettativa.
Di questi due viaggi è, inoltre, interessante riportare quanto affermato dal filosofo in “Memorie di un incosciente”, edito nel 1977: “Negli occhi di Kruscev e in quelli di Mao ho visto la luce del vero comunismo. Era il comunismo trionfante, con la sicurezza del trionfo. Quel comunismo fu il solo comunismo che il mondo ha visto, e che non vedrà mai più. È lo spettacolo di una conquista assoluta che non potrà più ripetersi. Si tratta di un miliardo di uomini che hanno creduto alla nascita della verità. Aver visto quella realtà è uno dei tanto privilegi che la fortuna mi ha riservato”.
Il 1967 è l’anno della polemica con Papa Paolo VI. Il 2 dicembre di quell’anno, infatti, Spirito riceve dal segretariato pro non credentibus il messaggio del Papa per la celebrazione di una “Giornata della Pace”, seguito da una lettera di accompagnamento in cui il filosofo viene inserito tra “coloro che non riconoscono la dimensione religiosa dell’esistenza e della Storia”. Irritato, Spirito rispose affermando di non accettare la qualifica di “non credente”, figlia a suo dire di “regole procedurali arbitrarie e temerarie” ed aggiungendo, inoltre, che le sue opere non erano mai state poste all’indice. Nel 1972 partecipò, quindi, all’inaugurazione dell’Istituto degli Studi Corporativi a Roma; nel 1975, in qualità di presidente della Fondazione Giovanni Gentile promosse, giovandosi della collaborazione della Scuola Normale Superiore di Pisa e dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, un importante convegno internazionale sul pensiero di Giovanni Gentile. Pubblicò nello stesso anno il libro “Cattolicesimo e comunismo”.

Negli anni finali della sua esistenza, al pari dei grandi saggi del passato, la sua casa divenne meta e cenacolo di giovani intelligenze giunte lì per ascoltare dalla diretta voce del Maestro gli insegnamenti dettati da un’esperienza di vita, oltre che intellettuale, intensa. Una voce che cesserà d’essere udita il 28 aprile del 1979, quando la morte sopraggiunse improvvisa ad interrompere l’esistenza di una delle figure indubbiamente più interessanti ed ecclettiche del recente passato italiano.

Fonte: RINASCITA

vendredi, 12 mars 2010

Les "dégagements" de Régis Debray

regis_debray_1.jpgLes dégagements de Régis Debray

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

Dégagements est le titre du nouvel essai de Régis Debray qui doit sortir en librairie dans les prochains jours. Il a rassemblé dans ce volume, en particulier, ses carnets publiés dans la revue Médium.

L’essentiel, qui est un certain style, se niche dans les détails. C’est le ton de l’écrivain, celui qui vivifie les mots et stylise la vie.

Régis Debray joue aux quatre coins avec les accidents de la vie. Entre figures tutélaires (Julien Gracq ou Daniel Cordier), et artistes redécouverts (Andy Warhol ou Marcel Proust), entre cinéma et théâtre, expos et concerts, le médiologue se promène en roue libre, sans apprêt ni a priori. Rêveries et aphorismes cruels se mêlent aux exercices d’admiration. Les angles sont vifs, la lumière crue, mais souvent, à la fin, tamisée par l’humour.

Ainsi l’exige la démarche médiologique, tout en zigzags et transgressions, selon la définition un rien farceuse qu’en donne l’auteur : « Un mauvais esprit assez particulier qui consiste, quand un sage montre la lune, à regarder son doigt, tel l’idiot du conte. »

Essayiste, romancier, journaliste et mémorialiste, Régis Debray a notamment publié aux Éditions Gallimard de nombreux essais : Ce que nous voile le voile. La République et le sacré (Hors Série Connaissance, 2004), Le plan vermeil (Hors Série Connaissance, 2004), Supplique aux nouveaux progressistes du XXIe siècle (Hors Série Connaissance, 2006), une pièce de théâtre : Julien le fidèle (collection blanche, 2005), des mémoires : Aveuglantes lumières (collection blanche, 2006). Derniers ouvrages parus : Un candide en Terre Sainte (collection blanche, 2008, Folio n° 4968) et Le moment fraternité (collection blanche, 2009).

 

00:25 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : livre, philosophie, sociologie, politique, france, médiologie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 07 mars 2010

Fenomenologia del "politicamente scorretto"

Fenomenologia del “politicamente scorretto”

di Fabrizio Fiorini - Fonte: http://www.ariannaeditrice.it/

E’ un dato di fatto che a forza di ‘prenderle’, bastian contrari si diventa. Difficilmente vi si nasce: sono rari casi che riguardano l’analisi e l’anamnesi delle patologie, più che l’analisi politica. Al di là di ogni sorta di vittimismo, quindi, è ravvisabile in una larga casistica di soggetti l’attrazione estrema nei confronti di teorie, modi di vita, parametri estetici, ideologie o loro surrogati, atteggiamenti, che destano lo scandalo al sentire comune, che sono invisi ai normali atteggiamenti della parte maggioritaria dei propri contemporanei e aborriti da quella normalità e da quella medietà che da qualche tempo è uso definire borghesi. In sintesi: politicamente scorretti. Tale attrazione, sovente accompagnata da una marcata ostentazione, è da analizzarsi – per essere adeguatamente compresa – alla luce di diversi criteri di valutazione.

oneway.jpgA una valutazione soggettiva, questo modo di vita assume largamente connotazioni negative. E’ la rappresentazione di quel cancro dell’anima che prende comunemente il nome di vittimismo, che si manifesta quando una sconfitta genera nella persona che l’ha subita un indole da cronico perdente. Tanti tra coloro che hanno impresso negli occhi l’orrore della modernità e che quotidianamente ne denunciano la corruzione e la decadenza l’hanno provato; hanno sentito sulle proprie spalle quel senso di prevaricazione che li ha spinti a tuffarsi nel vortice perché il vortice è tutto quello che riuscivano a scorgere, tanto il loro capo era piegato. Essi sposano quindi e fanno proprio tutto ciò che rappresenta il male, tutto ciò attraverso cui riescono a salvare quantomeno le apparenze della loro contrarietà, spesso in maniera sconclusionata, spesso auto-mortificandosi. Quante volte li abbiamo sentiti: “abbiamo perso la guerra”; oppure: “verremo repressi”; o ancora: “siamo pochi”. A costoro dedicò il suo pensiero Jean Thiriart:  «Le persone prive di decisione si giustificano frequentemente della loro inerzia ragionando su un ‘risveglio’ sicuro dell’Esercito o su una vigilanza sicura della Chiesa. Essi dicono allora: ‘mai l’esercito permetterà questo’ o ancora ‘la Chiesa millenaria, nella sua saggezza e nella sua potenza, porrà un freno in tempo’. Si tratta ancora di pseudo giustificazioni di vigliaccheria e di pigrizia».

Altro soggettivo nesso eziologico col politicamente scorretto risiede nell’auto-confino nell’hic sunt leones, da qualcuno definito “cattiverio”,  che il sistema ha appositamente creato con funzioni di controllo e a mo’ di valvola di sfogo per i soggetti in questione. Costoro, infatti, per una serie di motivi che spaziano dalla coercizione al condizionamento, si limitano nella cattività cui la loro scorrettezza li ha condotti. Le analisi dei fenomeni giovanilistici pullulano di tali esempi: dagli ultras agli skin, dalle gang metropolitane alle ricadute “delinquenziali” del sottoproletariato. La crema dell’inteligencija internazionale si interpella, istituisce seminari e promuove dibattiti sull’argomento. Già, chissà perché un “disadattato” non si arruola nella protezione civile, o nei boy-scout? E pensate, li pagano pure.

A una valutazione oggettiva, invece, il politicamente scorretto assurge agli onori della più alta dignità. La veridicità di ciò risiede nella validità della prova a contrariis. Entrano in gioco altri fattori ed altri strumenti di lotta politica e contestuale repressione. Il relegare al rango della scorrettezza politica è infatti una delle armi più affilate detenute dall’oligarchia reggente la società contemporanea nelle sue luride giberne. L’epoca storica, d’altronde, è quella che è: non è più tempo di contrapposizione squisitamente politica, non è più tempo di opporre una visione del mondo a un’altra. E’ tempo di coscienze addormentate, e nel torpore delle coscienze non si può che colpire allo stomaco. Nessuno ci darà la soddisfazione di argomentare le proprie tesi opposte alle nostre e nessuno ci farà omaggio della possibilità di un dialogo: non lo faranno perché ne uscirebbero distrutti. Molto meglio per loro metterci alla gogna con al collo il vergognoso cartello che ci indica come folli, estremisti, irrispettosi, scandalosi: i più deboli soccomberanno subito; altri in gran numero, si tureranno occhi, bocca e orecchie, si auto-convinceranno di essere ciò di cui vengono accusati e invocheranno gli eserciti e le chiese di cui sopra; i migliori trarranno da ciò la consapevolezza di essere nella ragione. Il loro politicamente scorretti diventerà (dicevamo: a contrariis) dimostrazione di giustezza e bandiera di verità.

Il confine è quindi labile, difficilmente identificabile, e taglia a metà tanto questioni di rilevanza condominiale quanto altre di rilevanza strategica.

Dalla parte malsana del confine, grandi e piccole cose, e le grandi – a ben guardare – diventano davvero piccole. E’ politicamente scorretta una rissa in uno stadio: ma altro non avrete fatto che assecondare la sedazione cui vuole sottoporvi chi vuole farvi sfogare in una “curva” per fare in modo che una volta fuori vi comportiate da bravi bambini. E’ politicamente scorretto accompagnarsi con una prostituta o drogarsi, ma avrete ceduto a chi vuole farvi passare questo mondo per quello che non è: un paradiso da comprare con quattro soldi. E’ politicamente scorretto apprezzare pubblicamente Berlusconi, perché politicamente corretta è la sua apparente controparte, la falsa sinistra degli sciocchi; ma avrete scambiato un bicchier d’acqua per un oceano, e vi sorbirete questo bicchiere – amaro calice! – trovandovi sul fondo il solito asservimento alle grandi potenze di cui anche questo governo è portabandiera. E’ politicamente scorretto aderire a partiti e ideologie delle “estreme”, ammantandosi dei loro colori e vantandosi del proprio riuscito lifting ideologico, suscitando una smorfia di disappunto in quelli che ben pensano; ma cos’altro avrete fatto se non rinchiudervi in una gabbia le cui sbarre sono l’impotenza, l’auto-compiacimento, l’esclusione, il soffocamento di ogni anelito di reale cambiamento?

Dalla parte sana del confine, dalla nostra parte, grandi e piccole cose, e le piccole – a ben guardare – diventano davvero grandi. E’ politicamente scorretto épater le bourgeois, come ha fatto chi negli scorsi giorni ha ricordato, in un programma televisivo, di come gli italiani in tempo di fame mangiassero anche i gatti, suscitando un sussulto nella massaia che in quel momento sezionava il coniglio o il vitellino da latte per il pranzo e un brivido lungo la schiena del dirigente Rai che, stringendosi nella pelliccia, ne ordinava l’allontanamento seduta stante. Sono politicamente scorretti il nostro sorriso quando tutti si chiudono in ipocrita serietà, e la nostra serietà quando tutti trovano nella farsa e nella tragedia qualcosa di cui ridere. Sono politicamente scorretti (anzi: sacrileghi) lo studio non conforme della nostra storia e la sua incondizionata difesa, i quali rendono giustizia alla civiltà europea che da più parti si vorrebbe infangare o cancellare e che dimostrano come l’affermazione della verità sia più forte delle sbarre di un carcere. E’ politicamente scorretto denunciare gli stati che sottomettono i popoli con la violenza, gli Stati Uniti d’America e Israele, perché dimostra la nostra caparbietà a volerli vedere per quello che sono, roccaforti nel deserto dal cui mastio non gronda che sangue, anche se molti sono convinti che sia nettare.  E’ politicamente scorretto propugnare ancora idee forti quali quelle del socialismo e della nazione, perché si bestemmia il verbo che fonda la società marcia da cui i parassiti e gli usurai traggono vita: quello del denaro.

Non tutto ciò che è politicamente scorretto è quindi eticamente corretto. Il valore è dato dal risultato che si ottiene o che si tenta di ottenere: è una questione di qualità. Politicamente scorretto è oggi il nostro libero pensiero, che sta a testimoniare che non abbiamo paura

vendredi, 05 mars 2010

Starbucks: leuk voor de linkerkant

Starbucks: leuk voor de linkerkant

Ex: http://yvespernet.wordpress.com/

starbucks1.jpgEen interessant artikel over Starbucks, het trendy imago daarvan bij links Europa en de nieuwe vestiging in Antwerpen. Hier het volledige artikel en hieronder de meest interessante stukken:

Sta me toe om een voorspelling te doen: precies dezelfde linkse lui die je met geen stokken een cheeseburger van McDonald’s kan voeren, zullen en masse opdagen voor een latte van Starbucks [...]

Logisch dus dat er meteen een fanpagina op Facebook opdook die een week later al 3.500 leden had, en dat ze zaak geopend werd met radioster Peter Van de Veire, een stoet BV’s, de Amerikaanse ambassadeur Howard Gutman, burgemeester van Antwerpen Patrick Janssens en een optreden van Das Pop, de band van Bent “De slimste mens” Van Looy. Naar wat ik opmaak uit de internet- en krantenverslagen leek het daar wel de intrede van de sint, maar dan voor grote mensen.[...]

Clustering heet die praktijk. Wanneer Starbucks zaken begint te doen in een nieuwe buurt of gemeente, heeft het de nare gewoonte om daar niet één, maar meteen een heel aantal vestigingen neer te poten en bovendien te tolereren dat die een hele tijd met verlies draaien. Gevolg: onafhankelijke koffiehuizen en andere horecazaken in de buurt kunnen de concurrentie niet aan, moeten de deuren sluiten en Starbucks heeft het terrein voor zichzelf. [...]

 

00:25 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : finances, économie, fast food, sociologie, commerce | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mercredi, 03 mars 2010

G. Faye: Simulierte Heterogenität

Simulierte Heterogenität

Ex: http://rezistant.blogspot.com/
guillaume-faye.jpgNicht zuletzt den provokanten Büchern Guillaume Fayes verdanken wir, dass die Verwirrung um den uns so vertrauten Gegensatz von Konservatismus und Fortschritt zunimmt. Bereits in seinem furiosen Einstandswerk "Le Système a tuer les peuples" (Paris: Copernic, 1981) erwies sich Faye als dynamischer Denker der neuen Kultur, der gegen den totalitären Merkantilismus in humanitaristischem Gewande kämpft und für die Rechte der Völker - aller Völker! - eintritt. Er plädierte für Selbstbestimmung, kulturelle Identität und ein Recht auf Anderssein. Damals zeigte er den vollzogenen Übergang unserer Gesellschaften von der Zivilisation zum "System": Unser Dasein - so Faye - ist geprägt von der morbiden, systembedingten Amerikanosphäre, einem Zustand sozialer Entropie.

Auch in seinem Buch über die Neue Konsumgesellschaft - für Faye kurz "La NSC" - setzt sich der Autor mit Rationalismus und Egalitarismus auseinander. Zwar erfährt der Leser wenig über eine pragmatische Zielorientierung, mit der die Krise der Gegenwart überwunden werden soll. Jedoch wird der Widerspruch, den seine Ausführungen auslösen können, ein Indikator dafür sein, wann unsere Krise zu Ende gedacht und gelebt wird.

Faye beherrscht die a-moralische Sichtweise; daher die Präzision seiner Beobachtungen. Er erkennt Hedonismus und Konsummanie als kardinale Werte der Neuen Konsumgesellschaft und liefert anschauliche Beispiele dafür, dass der Beginn des Zeitalter des homo consummans (gefülltes Portefeuille kombiniert mit kleinbürgerlichem Geist) hinter uns liegt. Ihm gelingt es, den Begriff der Lebensqualität und das Dogma des ökonomischen Wohlstands einer luziden Kritik zu unterziehen. Lebensintensität wird von der Neuen Rechten zur Tugend zukünftigen Menschseins erkoren.

Fayes Kernausse, durchaus ein Ansatz zu einer kritischen Theorie, lautet: Wo früher vertikale (regionale, nationale) Differenzen vorherrschten, dominiert heute - Folge des Egalitarismus - eine horizontale, nur simulierte Heterogenität. Diese löste eine soziologisch heterogene und kulturell gemeinsame Gesellschaftsstruktur ab. Unsere Zivilisation, das System, ist hingegen soziologisch homogen und gerade kulturell atomisiert. Faye sieht die Neue Konsumgesellschaft als gigantisches Theater; Konflikten drohe die Unbegrenzbarkeit.

Was tun? Ohne Eskalaton werde es keine historische Erneuerung geben. Möglich, dass Faye sich als positiver Nihilist einer postmodernen Neuen Rechten verstanden wissen will. Seine symbolträchtige Anlehnung an den Gott Dionysos - dionysische Freuden sind Fayes Programm für die Posthistoire - will nachvollzogen sein: Denn der fernen Rückkehr des Apoll gilt es zu harren. Für Autor und Leser keine ungefährle Aporie; nicht alle Triebhaftigkeiten des Gehirns bewahren die Maske einer Errungenschaft des Geistes.

Aufmerksamkeit ruft Fayes Rezeption der unorthodoxen Soziologen Jean Budrillard und Michel Maffesoli hervor. Im westlichen Nachbarland verlieren Links-Rechts-Schemata ihre Argumentationswirkung. Die Mühe lohnt, über subtile Grenzüberschreitungen nachzudenken. Erste Reflexionen ergeben ein faszinierendes Relief.

Guillaume Faye, La NSC - La Nouvelle Société de Consommation. Le Labyrinthe, Paris 1984. Buchbesprechung in: DESG-inform, 3/85.

lundi, 01 mars 2010

Deutschlands Kinder schlagen Alarm! Fehlende Zeit mit den Eltern, immenser Gruppendruck!

Deutschlands Kinder schlagen Alarm! Fehlende Zeit mit den Eltern, immenser Gruppendruck!

Eva Herman : http://info.kopp-verlag.de/

Aktuelle Untersuchungen zeigen: Nie zuvor fühlten sich Kinder und Jugendliche derartig gestresst und besorgt wie heute. Die Ergebnisse legen den Rückschluss nahe: Kinder werden zu früh in Gruppen abgegeben, ihre Eltern verlieren zunehmend Einfluss und können ihren Kindern, bedingt durch berufliche Abwesenheit, in kleinen und großen Notsituationen häufig nicht helfen.

pourquoi-lire-des-histoires-aux-jeunes-enfants-3549492ezome_1350.jpgKinder und Jugendliche sind unsicher und ängstlich wie nie: Alle Umfragen und Studien der zurückliegenden Jahre signalisieren: Kinder und Jugendliche fürchten sich vor der Zukunft!

Alle aktuellen Untersuchungen zur Schulsituation in Deutschland bestätigen: Nie zuvor gab es größere Probleme zwischen Lehrern und Schülern!

Alle derzeitigen Aussagen von Berufsausbildern Jugendlicher laufen auf die eine Aussage hinaus: Zu keinem Zeitpunkt waren die jungen Leute unqualifizierter für das Berufsleben als heute!

Der Alltag der Jugendlichen ist zunehmend geprägt durch »Gefühle der Ohnmacht und des Alleinseins, der Sinnleere und Perspektivlosigkeit«, heißt es schon in der Studie Jugend 2007 – zwischen Versorgungsparadies und Zukunftsängsten, die das Rheingold-Institut für qualitative Markt- und Medienanalysen im Auftrag von Axel-Springer-Mediahouse durchgeführt hat. Mobbing, Gewalt und die immer mächtiger werdende Angst vor dem Abgleiten in ein Hartz-IV-Dasein steigerten das Gefühl der Verunsicherung und der Orientierungslosigkeit. »Selbst die Jugendlichen, die sich noch materiell abgesichert fühlen, erleben die Zukunft als ein schwarzes Loch. Sie wissen nicht, wofür sie gebraucht werden, wofür sie kämpfen und wogegen sie rebellieren können«, so die Rheingold-Untersuchung.

Die neueste und aktuellste Studie des Instituts für Psychologie und des Zentrums für angewandte Gesundheitswissenschaften (ZAG) der Leuphana-Universität Lüneburg für die Deutsche Angestellten Krankenkasse (DAK) schlägt erneut Alarm: 33 Prozent aller Schüler in Deutschland sind gestresst!

Folgende Stress-Symptome wurden festgestellt:

– Einschlafprobleme (22 Prozent)

– Gereiztheit (21 Prozent)

– Kopfschmerzen und Rückenschmerzen (16 Prozent)

– Niedergeschlagenheit (14 Prozent)

– Nervosität (11 Prozent)

– Schwindelgefühle (9 Prozent)

– Bauchschmerzen (8 Prozent)

Das Portal für Bildungsinformationen bildungsklick.de hat die DAK-Studie ausgewertet, aus der hervorgeht, dass mehr als 50 Prozent der Betroffenen ihre Gefühle in der Schule mit »verzweifelt, hoffnungslos, ausweglos« beschrieben. »Insgesamt geben mehr als zwei Drittel der Schüler mit häufigen Beschwerden an, dass sie in der Schule regelmäßig negative Gefühle erleben. … Schweigen und Verdrängen macht alles noch schwieriger.«

Kinder und Jugendliche von heute haben enorme Zukunftsängste.

Die letzte Shell-Jugendstudie hatte schon Vergleichbares als Ergebnis: Sie zeigt, dass Jugendliche deutlich stärker besorgt sind, ihren Arbeitsplatz verlieren beziehungsweise keine adäquate Beschäftigung finden zu können. Waren es im Jahr 2002 noch 55 Prozent, die hier beunruhigt waren, stieg die Zahl 2006 bereits auf 69 Prozent an. Auch die Angst vor der schlechten wirtschaftlichen Lage und vor steigender Armut nahm in den Jahren zwischen 2002 und 2006 von 62 Prozent auf 66 Prozent zu.

Die Bewältigungsstrategien, die Jugendliche entwickeln, um mit ihren Schwierigkeiten fertig zu werden, sind laut der Rheingold-Untersuchung sehr verschieden. Die einen betreiben Dauerkonsum, andere schotten sich ab und flüchten in die künstlichen Paradiese von Internet und Playstation-Welten. Von der einstigen Spaßgesellschaft, in der alles »ganz easy« lief, sind lediglich vereinzelte Bruchstücke übrig geblieben.  

Zahlreiche Kinder und Jugendliche in Deutschland stehen heute unter einem enormen Druck, der insbesondere von den Gleichaltrigen in den sogenannten Peer Groups ausgeübt wird. Die Orientierung an Gruppenstandards wird in diesem Zusammenhang jedoch oft ignoriert oder bewusst heruntergespielt. Nach Aussagen des kanadischen Psychologen Gordon Neufeld ist die zunehmende Gleichaltrigenorientierung in unserer Gesellschaft von einem alarmierenden und dramatischen Anstieg der Selbstmordrate unter 10- bis 14-Jährigen begleitet, seit 1950 hätte sie sich in dieser Altergruppe in Nordamerika vervierfacht. Ist man bisher davon ausgegangen, dass bei Selbsttötungen junger Menschen die Gründe meist in der Ablehnung der Eltern zu finden sind, ist das nach Ansicht Neufelds inzwischen lange nicht mehr so. Langjährige Beobachtungen und Untersuchungen des Psychologen lassen den Schluss zu, dass der wichtigste Auslöser für den jugendlichen Suizid in der Behandlung durch die Gleichaltrigen zu sehen ist. Je öfter und regelmäßiger Kinder und Jugendliche ihre Zeit mit Personen gleichen Alters teilen, und je wichtiger sie in dieser Gruppe füreinander werden, umso verheerender kann sich ihr unsensibles Verhalten auf jene Kinder auswirken, die es nicht schaffen, dazuzugehören und die sich abgelehnt oder ausgeschlossen fühlen.

Auch in anderen Ländern ist das Phänomen bekannt: Die amerikanische Zeitschrift für Kultur, Politik und Literatur, Harper’s Magazine, druckte vor einiger Zeit eine Sammlung von Abschiedsbriefen japanischer Kinder ab, die Selbstmord verübt hatten: Die meisten von ihnen litten unter der unerträglichen Tyrannisierung durch Gleichaltrige und gaben dies als Grund  an für ihren Entschluss, aus dem Leben zu gehen.

Gruppendruck kann große Ängste verursachen, aber auch Hass auslösen. Der Student Cho Seung-Hui fühlte sich in »die Ecke gedrängt« – das gab er wenigstens als Grund an, nachdem er im April 2007 auf dem Campus von Blacksburg im amerikanischen Bundesstaat Virginia 32 Menschen getötet hatte. Die Wut und das Bedürfnis nach Vergeltung können über Jahre wachsen, Jahre, in denen Rachepläne geschmiedet und Vorbereitungen getroffen werden können. Schließlich kommt der Punkt, an dem die Wut zu groß wird: Alle sollen endlich erfahren, was sie dem Betroffenen angetan haben. Ähnlich der Amoklauf von 2001 in Erfurt, bei dem der 19-jährige Robert Steinhäuser am Gutenberg-Gymnasium 16 Personen und dann sich selbst tötete. Er war von der Schule verwiesen worden.

Schon zu Beginn der 1960er-Jahre warnte der amerikanische Soziologe  James Coleman davor, dass die Eltern als wichtigste Quelle für Werte und als Hauptbezugsperson für ihre Kinder und deren Verhalten verdrängt würden – und zwar durch gleichaltrige Bezugspersonen. Doch damals war das noch kein Thema, beginnende Fehlentwicklungen bei Jugendlichen wurden – insbesondere in Deutschland – mit dem Dilemma der Eltern erklärt, die sich nicht mit den Folgen des zurückliegenden Krieges auseinandergesetzt hätten.  

enfants-2696052kjcby_1350.jpgDer kanadische Psychologe Gordon Neufeld geht davon aus, dass eine starke Gruppensozialisation bei Kindern und Jugendlichen auch Auswirkungen auf das spätere Verhalten im Erwachsenenalter hat: Wer sehr jung die Gruppe als Lebensrealität empfunden und kennen gelernt hat, und wem die Erfahrungen des Alleinseins, aber auch die einer Familie und dem damit verbundenen Zusammenhalt fehlen, der verlässt sich später auch nicht auf sich allein. Extreme Erscheinungsformen der Gleichaltrigenorientierung  sind nach seiner Meinung tyrannisierendes Verhalten mit Gewaltanwendung, Selbstmorde und Morde unter Kindern und Jugendlichen. Auch die inzwischen allseits  bekannten Massenpartys mit Höhepunkten wie Koma-Sauf-Wettbewerbe oder Gang-Bangs, also Massenvergewaltigungen, bei denen die Mädchen vorher zustimmen, können zu diesen Folgen zählen.

Heutige Jugendliche stehen oft als Krawallmacher, Schläger oder Kleinkriminelle in der Zeitung oder sie scheinen langweilig, angepasst und konturlos zu sein. Die Schere geht auseinander zwischen extrem gewaltbereiten Jugendlichen und kleinen Spießern. Wo sind die jungen Leute mit Idealismus, mit festen Zielen vor den Augen, mit Ecken und Kanten, mit »Flausen im Kopf«? Keine Frage: Jede Elterngeneration hat den Kopf geschüttelt über die Jugendlichen ihrer Zeit. Doch das Phänomen, dass die einen viel zu wenig rebellieren und die anderen erschreckend über das Ziel hinausschießen, ist neu. Die Jugendlichen von heute scheinen zum einen emotionslos, gelangweilt und unterkühlt zu sein, die anderen verroht und gewaltbereit.

Immer mehr Jugendliche haben Angst davor, ihren Platz im Leben nicht zu finden, nicht gebraucht zu werden. Sie isolieren sich, statt sich abzunabeln – aus Angst, dem Leben nicht die Stirn bieten zu können. Das haben sie nie gelernt. Die einen wurden sich selbst überlassen, den anderen wurde jedes Problem abgenommen, jeder Wunsch erfüllt.

Doch alle genannten Phänomene, die unsere Gesellschaft nachhaltig verändern, sind Hilfeschreie der Kinder. Sie brauchen von Anfang an entscheidend mehr Zeit mit ihren Eltern, mehr Zuwendung und mehr Liebe! Wenn sie erst einmal daran gewöhnt sind, dass ihre Eltern keine Zeit für sie haben, dann ist der Zug häufig schon abgefahren. Alle derzeitigen Regierungsprogramme jedoch glorifizieren nach wie vor die Erwerbstätigkeit der Mütter. Solange das nicht zugunsten der Kinder geändert wird, und solange keine nachhaltigen Bemühungen daran gesetzt werden, Kindern die Anwesenheit ihrer Eltern, speziell der Mutter, zu ermöglichen, wird diese Gesellschaft weiter auseinanderfallen und die genannten Zahlen und Probleme werden weiter steigen.

 

Freitag, 12.02.2010

Kategorie: Allgemeines, Wissenschaft, Politik

© Das Copyright dieser Seite liegt, wenn nicht anders vermerkt, beim Kopp Verlag, Rottenburg


Dieser Beitrag stellt ausschließlich die Meinung des Verfassers dar. Er muß nicht zwangsläufig die Meinung des Verlags oder die Meinung anderer Autoren dieser Seiten wiedergeben.


La participation: une idée neuve?

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

La participation : une idée neuve ?

par Ange Sampieru

 

Dans un ouvrage paru en 1977 et intitulé : Demain, la participation, au-delà du capitalisme et du marxisme, Michel Desvignes, à l'époque vice- président national de l'Union des Jeunes pour le Progrès, proposait un plaidoyer brillant en faveur d'un vaste projet de réconciliation des Français dans le cadre d'une nouvelle démocratie sociale. Cet ouvrage est d'abord une analyse rigoureuse qui servira d'instrument de réflexion pour tous ceux qui refusent les idéologies de la haine des classes et de l'exploitation capitaliste-libérale.

index.jpgLa participation n'est pas une simple technique sociale de réglementation des rapports salariés dans l'entreprise. Pour son inspirateur, le Géné­ral De Gaulle, c'est une vision de l'homme qui refuse la dépendance à l'égard de la machine. L'objectif qui est poursuivi est clair : « ...que chaque homme retrouve dans la société moderne sa place, sa part et sa dignité » (Charles de Gaulle, discours prononcé le 1er mai 1950). Il faut en effet aller au-delà des textes législatifs et réglementaires qui constituent la traduction juridique de l'idée. Il s'agit surtout des ordonnances du 7 janvier 1959, tendant à favoriser l'association ou l'intérêt des travailleurs à l'entreprise, de la loi du 27 décembre 1973, qui est relative à la souscription ou à l'acquisition d'actions de sociétés par leurs salariés. Le cœur du projet réside dans les ordonnances du 17 août 1967, relatives à la participation des salariés à l'expansion de l'entreprise (modifiant et complétant la loi de 1966 sur les sociétés commerciales) et relatives aux Plans d'Épargne d'entreprise.

 

I – L'idéologie de la participation : les sources...

 

Pour l'écrivain Philippe de Saint-Robert, le général de Gaulle a « inventé » la participation, comme il a « réinventé » la légitimité (les guillemets sont de nous). Soucieux de consolider l'unité nationale, et désireux de ne pas laisser aux syndicats marxistes le soin de contrôler l'idéologie prolétarienne, le gaullisme s'attache très vite à la question sociale. Et c'est en ce sens que Michel Jobert a pu écrire dans ses Mémoires d'avenir que la participation était un moyen d'assurer l'indépendance de la Nation. Pour construire cette France indépendante, et, plus largement, donner à l'Europe l'idée de son unité face à l'adversité extérieure symbolisée par la po­litique de Yalta et le système des blocs (cf. à ce sujet : Yalta et la naissance des blocs de Jean-­Gilles Malliarakis, éditions Albatros, Paris, 1982). Pour mieux cerner la genèse de cette idée, une méthode nous apparaît privilégiée : analyser les influences intellectuelles qui ont présidé à l'éducation et à la conception politique du chef de l'État français de 1958 à 1969. On peut alors comprendre les raisons profondes qui déterminèrent le fondateur du gaullisme à se préoccuper des questions sociales. Remarquons que, dans l'introduction à l'ouvrage, Philippe de Saint-Ro­bert rappelle dans cette genèse le rôle de René de la Tour du Pin (un représentant éminent du « catholicisme social » qui, dans les années 1890, en France, regroupait des courants différents, tous préoccupés des problèmes sociaux. Le courant de le Tour du Pin (dit du « légitimisme social »), traditionnaliste et contre-révolutionnaire,   avait développé une idéologie sociale qui s'inspirait des idées de l'Église. Il s'appuyait sur les travaux d'hommes comme Albert de Mun (1841-1914), Armand de Melun, Alban de Ville­neuve-Bargement, qui dénonçaient avec passion les conséquences désastreuses du libéralisme triomphant. À côté de ce légitimisme social co­existaient d'autres cercles exprimant des idées voisines : le socialisme chrétien de Buchez (1769/1865), fondateur, avec Bazard, de la Charbonnerie de France. Le catholicisme libéral, synthèse de la doctrine libérale et du catholicisme et, enfin, le catholicisme social proprement dit, pensé par Lamennais, dont les écrits soulignent les valeurs anti-libérales (sur le catholicisme social, lire : Les débuts du catholicisme social en France (1822/1870), de J.B. Duroselle, PUF, 1° éd., 1951).

L'influence de La Tour du Pin sur de Gaulle résultait de ce que ce penseur du social avait compris que le système de propriété privée des moyens de production, que la société capitaliste bourgeoise avait développé, risquait de dégénérer en une quasi-souveraineté qui déposséderait l'État de son rôle arbitral. En d'autres termes, le capitalisme tendait à confisquer le politique au profit de l'économico-financier. Le résultat de ce processus dégénératif fut cette IIIème République conservatrice, dont l'arriération sur le plan social fut effrayante. On pourra retirer de cette première analyse une constatation liminaire : la participation est une idée anti-libérale par excellence !

 

 

Capitalisme et « contrat »

 

 

La société moderne capitaliste (c'est-à-dire née de la révolution industrielle et scientifique du XIXème siècle) donne l'image d'un champs conflictuel permanent. Ce conflit social, où "capital" et "travail" s'affrontent, résulte d'un mode de relations juridiques de nature contractuelle et économique : le contrat de louage de services. Ce contrat, qui n'est pas un mode de justice mais de rentabilité, induit un procès inégalitaire entre les travailleurs et les "capitalistes-entrepreneurs". Devant l'impuissance des travailleurs-contractuels, trois solutions se sont jusqu'à présent présentées :

 

◊ Le maintien du statu quo instauré : le libéra­lisme propose cette solution accompagnée de palliatifs réformistes.

◊ Le transfert des moyens de production entre les mains de l'État, qui transpose par là même l'aliénation du travailleur sans pour autant la supprimer. C'est la solution préconisée par le socialisme étatique marxiste et social-démocrate.

◊ Enfin, la troisième voie de l'association capital­-travail aux trois niveaux de la propriété, des résultats et des décisions. Étudions les racines de l'idéologie fondatrice de cette troisième voie.

 

L'idée essentielle se trouve dans les préoccupations du fondateur de la Vème République : l'objectif final n'était pas seulement une « façon pratique de déterminer le changement, non pas (le) niveau de vie, mais bien la condition ouvrière » (cf. Lettre du 11 avril 1966 du Général De Gaulle à Marcel Loichot). L'ampleur de ce changement proposé dépasse de ce fait la pure et simple aliénation économique, mais recherche toutes les causes d'aliénation économique et po­litique des travailleurs. Pour reprendre les termes de l'économiste François Perroux : « ce n'est pas le seul capitalisme qui aliène, c'est l'industrie et les pouvoirs politiques de l'âge industriel » (Aliénation et Société industrielle,F. Perroux, Gallimard, Coll. "Idées", 1970, p.75). Une conception du monde totale soutient donc l'idée de la participation, qui s'oppose à l'idéologie so­cial-libérale et ses avatars. Quels sont alors les sources de cette conception ?

 

Proudhon et Lamennais

 

Une révolution a déterminé les idéologues à rénover la pensée sociale : c'est la révolution industrielle et ses conséquences sociales. On peut dire que deux penseurs français ont, au cours du XIXème siècle, renouvelé cette pensée. Il s'agit de Pierre Joseph Proudhon (1809-1865) et de Lamennais (1782-1854).

 

a) Pour Proudhon, auteur en 1840 d'un ouvrage intitulé Qu'est-ce que la propriété ?, la réponse est claire : « la propriété, c'est un vol ». Proposition volontairement provocante qui a pour objet d'amorcer le débat réel, celui des relations entre le « droit naturel de propriété » et l'« occupation », le travail et l'égalité. Quelques mots d'introduction sur cet auteur nous apparaissent nécessaires. D'origine paysanne, Proudhon est un des auteurs les plus féconds de la pensée sociale du XIXème siècle. Son œuvre est éminemment politique, puisqu'elle tend à une contestation radicale de l'idéologie de la propriété bourgeoise. La propriété n'est pas une valeur neutre. Elle peut à la fois constituer un système d'exploitation et un vol légal et devenir une force révolutionnaire formidable. Car la propriété est un « produit spontané de l'être collectif », ce qui implique qu'elle s'insère étroitement dans l'idéologie collective du peuple. De cela nous pouvons donc déduire un couple antagoniste : d'une part, idéologie bourgeoise, où la propriété tend à établir la domination d'une minorité possédante sur une majorité impuissante, ou, d'autre part, idéologie du peuple (le socialisme fédéraliste) qui investit la propriété d'une fonction communautaire et orga­nique. Par « idéologie du peuple », nous entendons, chez Proudhon, deux valeurs politiques essentielles : le fédéralisme qui innerve l'État, formé de groupes destinés « chacun pour l'exercice d'une fonction spéciale et la création d'un objet particulier, puis ralliés sous une loi commune et dans un intérêt identique » (De la Justice, 4ème étude). Ensuite, le mutuellisme, concrétisé par une « Banque du peuple », et qui, pour Proudhon, est « une formule, jusqu'alors négligée, de la justice ». De la synthèse des deux concepts, on peut alors déboucher sur une nou­velle organisation de la société, qui est avant tout le contraire de « toute solution moyenne », enten­dez de toute voie réformiste. Et Proudhon d'opposer le juste milieu matériel qui est le socia­lisme, au juste milieu théorique des pseudo-so­cialistes. Car le socialisme proudhonien n'est pas un socialisme libéral ou égalitaire. Dans Les confessions d'un révolutionnaire (1849), il peut écrire avec fougue : « Je suis noble, moi ! Mes ancêtres de père et de mère furent tous laboureurs francs, exempts de corvée et de main-morte de­puis un temps immémorial ». Et contre les partisans du nombre, contre les intellectuels rous­seauistes, ces « parasites révolutionnaires », Proudhon propose un nouvel ordre social qui conteste la loi de la majorité et que nous retrouvons exposé dans L'idée générale de la Révolution (1851). Ce principe aristocratique et populaire de l'idéologie proudhonienne est unique en son genre. Il ne veut rien avoir à faire avec le « fouriérisme » utopique, qu'il traitera de « plus grande mystification » de son époque. Charles Fourier (1772-1837) est le fondateur du Phalanstère, que l'on considère souvent à l'origine du mouvement coopératif.

 

 

Proudhon contre les Saint-Simoniens

 

Le socialisme de Proudhon ne veut rien retirer du saint-simonisme, qu'il accuse de relations étroites avec la haute finance internationale. Henri de Saint-Simon (1760-1825) qui, pendant la Terreur, s'enrichit par de coupables spéculations sur les biens nationaux, engendra une idéologie « industrialiste », qui contient une apologie sans réserve de l'entrepreneur capitaliste. Pour Saint­-Simon, les industriels sont les véritables chefs du peuple. Comme première classe de la société, la nouvelle organisation les mettra à la direction des affaires temporelles. Parmi les industriels, Saint­-Simon cherchait à souligner le rôle plus positif des banquiers ! On conçoit l'hostilité de Proudhon à cette apologie de l'affairisme cosmopolite et du capitalisme international. Face à ces déviations utopiques, anti-socialistes ou « terroristes » (la révolution française contient en germe et en action ces tendances terroristes, pense alors Proudhon), notre penseur propose une Révolution de l'anarchie. Il est bien entendu que cette "anarchie" n'a que peu de rapports avec les idées bourgeoises d'une anarchie de la licence et de l'absence de morale. C'est une anarchie organisée que propose Proudhon, antidémocratique et antilibérale, contestant l'idéologie rousseauiste et ses succédanés. Et la révolution ? Elle doit détruire le plus possible et le plus vite possible. Tout détruire ? Non, car, écrit Proudhon, « ne résistera dans les institutions que ce qui est fondamentalement bon ». Le socialisme proudhonien apparaît ainsi comme un vaste discours contestataire qui veut rétablir les libertés naturelles des hommes. Ces libertés qui soutiennent les valeurs populaires de liberté et de dignité. Une société féodale, a pu écrire Jean Rouvier (in Les grandes idées politiques, Bordas, 1973), que Proudhon exprime « génétiquement » (J. Rouvier, op.cit., T. II, p.187), qui veut restaurer cette « honnête li­berté française » invoquée par les vignerons d'Auxerre et de Sens entre 1383 et 1393. Il écrira, dans son Carnet du 5 Décembre :« Démocratie est un mot fictif qui signifie amour du peuple, mais non du gouvernement du peuple ». Ces idées en feront aussi un opposant farouche aux idées de Marx et du marxisme proclamé infaillible. Il est évident qu'entre le "franc laboureur" attaché aux libertés communautaires qu'est Proudhon et ce "sous-officier de la sub­version" que fut Marx, il y a peu de choses en commun. L'amour que portait Proudhon, de par ses racines, aux peuples de France, ne pouvait se satisfaire des attaques grossières de K. Marx contre les ouvriers parisiens (qu'il traita, le 20 juillet 1870, d'ordures ...). Si, pour Marx, Proudhon fut le « ténia du socialisme », le marxisme fut a contrario pour Proudhon une « absurdité anté-diluvienne ».

Face au libéralisme qui nie dans les faits la dignité des travailleurs, tout en voulant reconnaître fictivement leurs "droits fondamentaux", face aux discours pseudo-socialistes des Saint-Simon et Fourier qui veulent détourner les revendications sociales et politiques du peuple, face enfin au marxisme qui constitue un avatar préhistorique du terrorisme d'État, Proudhon pose en principe un idéal de justice qui se veut enraciné dans les libertés traditionnelles des peuples de France. Sa révolution est une révolte aristocratique, qui ennoblit et ne se traduit pas comme un mouvement « de brutes devenues folles sous la conduite de sots devenus fous » (H. Taine, La Révolution française, T. I,L. 3).

 

Lamennais : croyant et ruraliste

 

b) Tout comme Proudhon, Lamennais ne propose pas un corps de doctrine. Une analyse superficielle de son œuvre fait paraître sa pensée comme contradictoire. Dans un premier temps, Lamen­nais est un théocrate intransigeant (Essai sur l'indifférence en matière de religion, 1817/1824), puis un démocrate (L'avenir, 1830/1831 ; Les paroles d'un croyant, 1834 ; Livre du peuple, 1837). Entre la dénonciation extrême des valeurs issues du rationalisme révolutionnaire, et son attachement à défendre le "socialisme", qu'il oppose au communisme d'État et à l'égalitarisme terroriste, il est sans aucun doute difficile de trouver un référent universel explicatif. Certains historiens ont voulu comparer les œuvres de Pé­guy et de Bernanos à celles de Lamennais. La­mennais est un romantique en politique. Sa pas­sion politique est un dérivé de son amour de la nature. Quand il écrit avec nostalgie : « Je n'aime point les villes », il nous fait indirectement saisir les fondements de sa personnalité. Ceux d'un homme rempli de passion, « prêtre malgré lui », et qui défendra dans la seconde partie de son existence le peuple avec autant d'engagement qu'il avait mis à défendre la foi dans la première partie. Le projet démocratique de Lamennais n'est pas en rupture avec sa foi catholique. Pour lui, la démocratie est un régime étranger à l'idéologie libérale et au discours marxiste.

c) Chez l'un et l'autre de nos penseurs, un point commun : l'opposition absolue aux valeurs qui soutiennent la révolution industrielle. Un souci profond et sincère de protéger les libertés fondamentales des peuples et, par-delà ce souci tempo­rel, de préserver l'âme collective. Ces valeurs, qui constituent la matrice unique du libéralisme et du communisme, ont assuré le pouvoir des entrepreneurs sur les ouvriers. Ce pouvoir que ne détruit pas le communisme, puisqu'il engendre un système où la pluralité formelle des patrons capitalistes est remplacée par l'unité de direction du patron absolu qu'est l'État. Pour Lamennais, « le communisme substitue aux maîtres particuliers, l'État comme seul maître ». Ce maître com­muniste est plus abstrait, plus inflexible, plus insensible, sans relation directe avec l'esclave. En une phrase, l'État représente la coalition universelle et absolue des maîtres. Moralité : ici point d'affranchissement possible. Solution : « armer la propriété contre le communisme » (Proudhon, 1848).

 

 

Travailler pour soi

 

Proudhon, comme Lamennais, s'oppose à l'étatisme communiste. C'est une parenté d'esprit profonde qui les sépare de K. Marx. Leur dénonciation de l'ordre économique est aussi virulente que leur refus des constructions dogmatiques. Diffuser la propriété, qui n'est pas la conservation bourgeoise du statu quo. Tra­duisons : pour Lamennais, la propriété est le résultat d'une répartition équitable des produits du travail, et cela, par deux moyens : l'abolition des lois de privilège et de monopole ; la diffusion des capitaux et des instruments de travail. On trouve dans un programme un pré-capitalisme populaire. La combinaison de ces deux moyens, combinée avec un troisième facteur, qui est l’ASSOCIATION, aboutirait à une justice plus large. Dans son ouvrage intitulé : La Question du travail (Édition du Milieu du Monde, Genève), Lamennais écrit : « Ainsi le problème du travail, dans son expression la plus générale, consiste à fournir aux travailleurs, les moyens d'accumuler à leur profit une portion du produit de leur tra­vail » (p. 567). Travailler pour soi et non pour au­trui (le patron, le maître, l'entrepreneur, le capitaliste, l'État-maître) est une exigence de jus­tice et une revendication sociale prioritaire. Mais cette répartition n'est pas seulement une question matérielle, c'est aussi une question intellectuelle (acquérir l'instruction) et spirituelle. Mettre le crédit à portée de tous est un aspect de la révolution sociale, ce n'est pas le seul. Les associations de travailleurs que propose Lamennais, en supprimant le travail forcé au service d'une minorité de possédants, sont aussi des cercles où peuvent s'éveiller de nouvelles forces morales (On retrouve chez G. Sorel la même idée, sous la forme d'une culture prolétarienne). Proudhon dénonce lui aussi les multiples abus de la propriété bourgeoise. Ainsi, la propriété foncière, la propriété sur les capitaux mobiliers et, plus largement, celle qu'exerce « le propriétaire absentéiste ». Et Proudhon de combattre les idéologies de la propriété privée, qui sont précisément des idéologies libérales. Face aux abus de la propriété, Proud­hon construit le discours de la propriété sociale.

 

Les « structures libératrices »

 

Les valeurs libérales traditionnelles impliquent : le morcellement progressif du travail, la concurrence égoïste, la répartition arbitraire ; pour mieux répartir les produits, Proudhon prônera la solidarité des travailleurs. Car il ne s'agit pas, dans l'idée de Proudhon, d'une œuvre de bienfaisance que les maîtres accorderaient aux ouvriers, mais, écrit Proudhon, « c'est un droit naturel, inhérent au travail, nécessaire, inséparable de la qualité de producteur jusque dans le dernier des manœuvres » (Qu'est-ce que la propriété ?, p.151-152, éd. Garnier-Flammarion, Paris). En effet, pour le travailleur, le salaire n'épuise pas ses droits. Le travail est une création, et la valeur de cette création est une propriété des travailleurs eux-mêmes. Le contrat de travail n'implique pas pour le travailleur la vente de cette valeur. C'est un contrat partiel, qui permet au capitaliste d'exercer son droit sur les fournitures fournies et les subsistances procurées mais n'entraîne pas pour le partenaire qu'est l'ouvrier, une aliénation totale ; exemple : « Le fermier en améliorant le fonds, a créé une valeur nouvelle dans la pro­priété, donc il a droit à une portion de la pro­priété ». Mais ce problème de la plus-value n'est qu'une partie du problème du statut du tra­vailleur. Pour assurer définitivement son exis­tence, Proudhon est partisan du partage de la propriété. Sur un plan plus global, on a vu que Proudhon était favorable à une organisation mu­tualiste, qui engendrerait une économie contrac­tuelle : organisation coopérative des services (assurance, crédit), mutualisation de l'agriculture, constitution de propriétés d'exploitation, sociali­sation progressive de l'industrie par participation et co-gestion. Proudhon nomme ces institutions les "structures libératrices".

 

Il est difficile aujourd'hui de parler de socialisme sans évoquer et se rattacher aux idées sociale-démocrates. Pourtant cette confiscation est un leurre. Il n'y a pas de confusion entre le socialisme, qui est une conception politique issue du monde industriel du travail, et la social-démocratie qui est une branche bourgeoise du socialisme née du marxisme. (Sur le réformisme des sociaux-démocrates, lire : Carl E. Schorske, German Social Democracy, 1905/1917, Cam­bridge, Mass., 1955). Pour Lamennais, le socia­lisme se définit comme la reconnaissance du « principe d'association », fondement de l'ordre social. Définition large, qui a le mérite de refuser toute espèce de dogmatisme théorique. Proudhon quant à lui définit le socialisme comme le refus de transformer l'univers comme « une lice immense dans laquelle les prix sont disputés, non plus, il est vrai, à coups de lances et d'épée, par la force et la trahison, mais par la richesse acquise, par la science, le talent, la vertu même ». On aura reconnu une critique des discours fouriéristes et saint-simoniens. Car le socialisme de Proudhon est anti-technocratique. On se souvient que Saint-­Simon confiait le pouvoir aux chefs d'industrie, leur laissant le soin d'organiser la société. Proudhon conteste cette vision technocratique de la société future, sans pour autant rejoindre ceux que l'on a appelés les "socialistes de l'imaginaire".

d) Dans un ouvrage remarquable, le professeur François Georges Dreyfus, directeur honoraire de l'Institut d'Études Politiques de Strasbourg, et directeur de l'Institut des Hautes Études européennes de Strasbourg, tente de définir les sources intellectuelles du Gaullisme. (De Gaulle et le Gaullisme, par F.G. Dreyfus, PUF, collec­tion « politique d'aujourd'hui », Paris, 1982). Nous nous arrêterons pour quelques instants sur le chapitre II de cet ouvrage, intitulé : « Les sources de la pensée gaullienne » (p. 44/66), qui tente de nous résumer la genèse de l'idée poli­tique gaullienne.

 

II - L'IDÉOLOGIE GAULLIENNE :

la participation est un aspect d'une conception politique globale.

 

Avant d'aborder l'analyse de la participation proprement dite comme troisième voie spécifique, il nous paraît utile d'essayer de mieux repérer les sources du gaullisme comme idéologie originale. Pour F.G. Dreyfus, 1940 est l'année où se fixe définitivement la pensée du général De Gaulle. Les traits principaux de cette pensée sont au nombre de quatre : sens de la Nation (personnalisée dans l'esprit du général), volonté d'être techniquement de son temps (refus d'une attitude passéiste), profonde méfiance à l'égard des politiciens (la partitocratie), conscience de la nécessité d'une élite. Pour cela, l'analyse interdit tout rattachement exclusif à un courant idéolo­gique précis. Pour les uns, De Gaulle est un maurrassien, pour les autres, un jacobin, un chrétien nietzschéen, un nationaliste, etc. Devant l'impossibilité de rattacher cette pensée à un mouvement ou à un parti, F.G. Dreyfus retient trois éléments : l'élément religieux, le Nationa­lisme populaire, et la thématique des « non-conformistes desannées 30 ».

a) L'élément religieux : de famille catholique, élevé dans un milieu très pieux, ayant suivi enfin ses études dans un collège de jésuites, il est marqué par ses convictions religieuses. Et l'on re­trouve dans cet attachement, l'influence de ce ca­tholicisme social évoqué plus haut. L'Église est dans les années 1900, productrice de textes "engagés", portant sur les questions sociales : ce sont les Encycliques Rerum Novarum (1891), marquée par les idées de Lamennais et de Monta­lembert, Quadragesimo Anno de Pie XI (1931), et enfin Pacem in Terris de Jean XXIII et Popu­lorum Progressio de Paul VI. On trouve en germe dans les textes des groupes de catholiques sociaux du XIXème siècle, la notion de parti­cipation. Ainsi, les œuvres de la Tour du Pin, où l'on trouve une condamnation du salariat, marquera la pensée gaullienne. On se souviendra de la phrase prononcée par le général De Gaulle dans son discours du 7 juin 1968 : « Le capita­lisme empoigne et asservit les gens ». La source de cette hostilité au capital tout puissant se tient dans son éducation catholique : respect de la hié­rarchie traditionnelle (Église, Armée), dédain de l'argent (cf. les textes de Péguy), gallicanisme comme attitude d'esprit (Barrès, Bossuet).

b) Le nationalisme populaire : refusons d'abord l'affirmation un peu hasardeuse de F.G. Dreyfus selon laquelle le général De Gaulle était un homme de droite (p.45). S'il est évident que de Gaulle n'était pas un homme de gauche, et qu'il n'avait aucune sympathie pour les politiciens de la IIIème république, radicaux-socialistes ou ré­publicains de gauche. Il n'avait par ailleurs que peu de sympathie pour la droite d'affaires, cos­mopolite et réactionnaire (au sens social), et on peut se demander si le nationalisme populaire de De Gaulle n'est pas très proche sur bien des points de la « droite révolutionnaire » explorée par Sternhell (Zeev Sternhell, La droite révolution­naire 1885/1914, Seuil, Paris, 1978).


Cette « droite révolutionnaire » apparaît avant tout comme une contestation violente et radicale de l'ordre libéral. Le boulangisme constitue la première modalité idéologique et pratique de ce mouvement. C'est un mariage détonnant de na­tionalisme et de socialisme. C'est aussi et surtout un mouvement populaire qui, selon Sternhell, est « le point de suture » 1) du sens de la nation idéo­logisé et 2) d'une certaine forme de socialisme non marxiste, antimarxiste ou déjà postmarxiste (p. 35). La « droite révolutionnaire » est une syn­thèse ; on peut rappeler ces quelques réflexions du socialiste Lafargue : « Les socialistes (...) entre­voient toute l'importance du mouvement boulan­giste, qui est un véritable mouvement populaire pouvant revêtir une forme socialiste si on le laisse se développer librement » (F. Engels et L. La­fargue,
Correspondance, Éditions sociales, Pa­ris, 1956).

 

Le souvenir du boulangisme

Ce ralliement des masses ouvrières françaises au mouvement boulangiste s'accompagne aussi du ralliement des nombreux militants socialistes, et des victoires dans les quartiers populaires des candidats boulangistes (Paulin Mery dans le XIIIème arrondissement de Paris, Boudeau à Courbevoie, etc.). Le socialisme boulangiste est un socialisme national. Il n'y a pas en réalité une idéologie boulangiste, construite comme un dogme intangible et cohérent. Là encore, il y a absence totale de dogmatisme, et même refus de construire un système. C'est là un trait caractéristique des socialistes français que nous avons déjà signalé. Le boulangisme prend en considération la question sociale avec sa tradition de luttes et de revendications – la Commune est un mythe que les boulangistes introduisirent dans le débat politique au niveau d'un mythe natio­nal – tout en retenant les paramètres nationaux. Question sociale essentielle, dans une société où les difficultés économiques se développent, le chômage frappe les ouvriers, la croissance économique insatisfaisante crée un climat de malaise. Ce climat nourrit la révolte contre le libéralisme et le gouvernement centriste bourgeois au pouvoir. L'idéologie boulangiste, nationaliste, socialiste et populiste trouve un écho profond dans les milieux ouvriers. La contestation boulangiste se veut totale. Ce n'est pas seulement le monde bourgeois qui est refusé, mais la société indus­trielle ; ce que Maurice Barrès appelle « le machinisme ». L'homme moderne est un esclave « des rapports du capital et du travail », écrit Barrès (articles de La Cocarde, 8 et 14 septembre 1894 et 1890).

 

Appuyés sur une conception du monde qui est loin d'être optimiste, les socialistes boulangistes, et Barrès en tête, ont un sens aigu de la misère et de l'exploitation. Pour faire la révolution souhaitée, ils songent à regrouper tous ces exclus de la croissance industrielle : des bas-fonds des grandes villes aux « déchets » de la société. L'ennemi est alors défini et repéré au travers de cette bourgeoisie française que Barrès accuse avec virulence de n'avoir jamais, depuis 1789, considéré le peuple autrement que comme un simple moyen, un moyen commode, pour abattre l'Ancien Régime et établir sa suprématie (Sternhell, op. cit., p.66).

 

La mystique de Péguy

 

Pour le jeune De Gaulle, baignant dans une atmosphère de revanche consécutive à la défaite de la guerre de 1870, de la perte des provinces de l'est, l'Alsace-Lorraine, le nationalisme est une valeur naturelle qui, conjugué avec une certaine hostilité au régime républicain, produit chez Charles De Gaulle un attachement profond à la Nation. L'influence des grands auteurs nationalistes (Barrès, Maurras principalement) est aussi complétée par la grande figure de Péguy. Ancien élève de l'École Normale Supérieure, disciple du socialiste Lucien Herr, la pensée très riche de Pé­guy apparaît dans toute son originalité dans la revue qu'il fonde en 1910 : Les Cahiers de la Quin­zaine. Hostile à tout système universitaire, adversaire de la république parlementaire, laïque et anticléricale, Péguy est avant tout un mystique, pétri de contradictions bienfaisantes.

Si le nationalisme de De Gaulle est très proche des courants ouvertement nationaux et monarchistes de son époque, exaltant la patrie française et réclamant le retour des provinces perdues (le mythe de la revanche est une idée qui transcende toutes les oppositions traditionnelles politiciennes), la mystique d'un Péguy le sensibilise aux misères de la société industrielle bourgeoise. Le peuple est une réalité de chair et de sang et la nation doit se préoccuper de son sort. Ce souci n'est pas seulement un souci matériel, mais aussi spirituel. L'influence de Péguy joue ici à fond.

c) Les non-conformistes des années 30 (cf. Lou­bet del Bayle, Les non-conformistes des années 30, Seuil, Paris, 1969). Nos ne parlons ici ni d'un parti, ni non plus d'un mouvement.

Ces « non-conformistes » regroupent des intellec­tuels de tous milieux, de toutes tendances, qui ont été influencés par les écrits de Proudhon, Bergson, La Tour du Pin ; ce mouvement sera surtout connu par ses revues et est marqué par la pensée catholique (celle de Maurras, Maritain, Péguy). On peut citer quelques- unes de ces revues prestigieuses : Esprit, Ordre Nouveau fondé par Robert Aron et fortement constitué par des transfuges de l'Action Française. (Signalons au passage que le groupe Esprit de Strasbourg était dirigé par deux futurs collaborateurs de De Gaulle : Marcel Prelot et René Capitant. Dans tous ces milieux, on retrouve un certain nombre de thèmes communs : une volonté marquée de construire en France un système politique nouveau, hostile au parlement souverain ; ainsi Esprit réclame l'institution du référendum et proclame que « le pouvoir parlementaire doit être limité dans l'État, même du côté de l'exécutif » ; position qui, dans les années 30, constituait en soi une petite révo­lution intellectuelle. Un autre thème courant est l'exigence d'une décentralisation, et la mise en place d'un pouvoir régional (le référendum de 1969 proposait cette réforme historique).

De cette analyse des origines de la pensée gaul­lienne, nous pouvons enfin dégager quelques constantes : d'abord une volonté de restaurer la Nation comme valeur universelle. Le "nationalisme" de de Gaulle est une mystique (les premières lignes de ses mémoires sont explicites à cet égard) et une politique (renforcer la souve­raineté nationale face aux impérialismes modernes, et organiser le pays selon un système politique stable et fort). Ensuite, aborder la question sociale de front. La pensée gaullienne, marquée par les écrits des socialistes du début du siècle, rejette l'attitude lâche et peureuse de la bourgeoisie sur les problèmes essentiels que sont la condition ouvrière et la paix sociale. D'autre part, la présence en France d'un parti communiste puissant et organisé incite le pouvoir gaullien à ne pas laisser les syndicats inféodés au PC occuper seuls le terrain des entreprises. Pour ne pas laisser le prolétariat se détacher de la Nation, il faut lui donner les moyens d'apprécier et de réfléchir sur sa communauté. La Nation bourgeoise est une image fausse que l'ouvrier ne peut pas ne pas rejeter. À l'État, doit être dévolu le rôle de réintégrer la classe ouvrière dans la Nation. Cette volonté de modifier les rapports capital/travail débouche en dernier lieu sur une série de réformes que nous étudierons dans les paragraphes suivants.

 

III - LA PARTICIPATION :

 

À la base de la pensée gaullienne sur la question sociale, nous avons vu qu'il y avait deux phénomènes concomitants : le machinisme et la société mécanique moderne. Ces deux phénomènes constituent les fondements de la révolution industrielle du XIXème siècle. Dans un dis­cours prononcé le 25 novembre 1941 à l'université d'Oxford, le Général analyse avec intelligence les conséquences sociales de cette révolution : agrégation des masses, conformisme collectif gigantesque, destruction des libertés, uniformisation des habitudes de vie (les mêmes journaux, les mêmes films), qui induit une « mécanisation générale » qui détruit l'individu.

Cette société mécanique moderne exige un régime économique et social nouveau. Ce thème s'inscrit dans une réflexion plus vaste qui est celle de la crise de civilisation. Pour De Gaulle, la France moderne a été trahie par ses élites dirigeantes et privilégiées. D'où la pressante obligation d'un vaste renouvellement des cadres de la Nation. D'où aussi la lutte contre le capitalisme aliénant qui génère la lutte des classes et favorise les menées marxistes. Au vrai, c'est une révolution que le général De Gaulle propose, qui combat le capitalisme et résout la question sociale. La classe ouvrière est dépossédée de ses droits, au profit du capital qui confisque la propriété, la direction et les bénéfices des entreprises. La lutte des classes est la réaction spontanée de cette classe salariée. C'est, écrit De Gaulle, un fait, un « état de malaise ruineux et exaspérant » qui détruit l'unité du peuple, mais correspond en même temps à un sentiment croissant d'aliénation et de dépossession. Dès novembre 1943, De Gaulle prévoyait la fin d'un régime (le capitalisme) économique « dans lequel les grandes sources de la richesses nationale échappaient à la Nation » (Discours prononcé à Alger, 1943). En 1952, il établissait une liaison nécessaire entre le régime politique représentatif (la démocratie bourgeoise) et le régime social et économique (le capitalisme). Contre ce système, il faut associer le peuple à un mouvement révolutionnaire, puisque c'est par là même l'associer au destin national. Et il pouvait alors ajouter, touchant ainsi le nœud du problème : « Non, le capitalisme, du point de vue de l'homme, n'offre pas de solution satisfaisante ». (7 juin 1968). Et il poursuivait : « Non, du point de vue de l'homme, la solution communiste est mauvaise... ». Entre le capitalisme qui réduit le travailleur dans l'entreprise à être un simple ins­trument et le communisme, « odieuse machine totalitaire et bureaucratique », où est la solution ? Avant d'apporter une réponse à cette angoissante question, De Gaulle répond négativement : « ni le vieux libéralisme, ni le communisme écrasant » ne sont des solutions humaines. Pour résoudre le dilemme, il faut construire un régime nouveau. Ce régime sera bâti sur une question essentielle : la question sociale. Car c'est de cette question non résolue que sont issues les grands drames politiques du XXème siècle. En ce qui concerne la France, c'est la question sociale qui alimente les succès des mouvements "séparatistes" (en­tendez communistes). Ce régime nouveau doit s'appliquer à intégrer les travailleurs à la nation, en participant à son expansion économique, donc à son destin politique. Le régime économique et social doit être rénové pour que les travailleurs trouvent un intérêt direct, moral et matériel aux activités des entreprises.

 

La coopération des partenaires sociaux assure la santé de la Nation

 

Au-delà des réformes juridiques et politiques, de Gaulle veut s'attacher à définir des valeurs originales, qui seront des valeurs humaines. Comme Proudhon et Lamennais, De Gaulle est soucieux d'assurer aux travailleurs la sécurité et la dignité. À plusieurs occasions (le 15/11/1941, le 25/11/1941 à Oxford, le 18/O6/1942), il rappelle que la France veut « que soient assurées et garanties à chaque Français la liberté, la sécurité et la dignité sociale ». Il faut assurer aux Français, ouvriers, artisans, paysans, ..., la place qui leur revient dans la gestion des grands intérêts communs (20/04/1943). Cette place qui concerne tous les travailleurs français (les chefs d'entreprise, les ingénieurs compris) modifiera la "psychologie" de l'activité nationale (Discours du 31/12/1944). Il est certain que ce nouveau système ne sera pas parfait, mais l'idée de coopération des partenaires de la production est, selon de Gaulle, une idée nationale qui améliorera le régime économique et social. C'est en ce sens un principe fondamental de la révolution exigée par la France.

La réforme prioritaire est celle du salariat. De Gaulle refuse de considérer le salariat comme la base définitive de l'économie française. Pour les mêmes raisons que celles énoncées auparavant, il faut abolir le salariat. Pourquoi ? Parce que, dit De Gaulle, le salariat est une source de révolte, qui rend insupportable la condition ouvrière ac­tuelle. En modifiant le régime du salariat, il faut permettre à l'ouvrier, au travailleur, d'accéder à la propriété. Comment y parvenir? En créant une association réelle et contractuelle, qui n'aurait que peu de rapports avec les réformes accessoires des gérants du libéralisme (exemples : primes à la productivité, actionnariat ouvrier, etc.). Cette idée de l'association, précise De Gaulle, est une idée française, une de ces idées que les socialistes français ont avancée au XIXème siècle (ce socialisme qui, écrit De Gaulle, n'a rien à voir avec la SFIO... ). L'association réunit dans une relation complémentaire les possesseurs du capital et les possesseurs du travail.

Dans ce cadre, la participation met en commun ces deux forces dans l'entreprise ; les ouvriers sont des sociétaires, au même titre que la direction, le capital et la technique. Cette implication des divers partenaires entraîne un partage des bénéfices et des risques. Les diverses parties fixe-ont ensemble les modalités de rémunérations et de conditions de travail. Dans un second temps, on pourra imaginer une association plus étendue du personnel à la marche de l'entreprise. Enfin, dans une conférence de presse du 21 fé­vrier 1966, De Gaulle parle de « l'association des travailleurs aux plus-values en capital résultant de l'autofinancement ». L'entreprise apparaît de plus en plus comme une "société" (la nation étant la communauté par excellence), œuvre commune des capitaux, des dirigeants, des gestionnaires et des techniciens, enfin des travailleurs, catégorie qui englobe les ouvriers. Unis par un intérêt commun, qui est le rendement et le bon fonctionnement de cette société, les travailleurs ont un droit égal à l'information et à la représentation. Ce sont les « comités d'entreprise » en 1957, et l'« intéressement » en 1967. Quant au point de vue de l'État, la participation est une réforme « organisant les rapports humains ... dans les domaines économique, social et universitaire ». Les trois niveaux de la participation sont : la Na­tion, la région, l'entreprise.

 

Intéressement et planification

 

La participation dans l'entreprise revêt trois formes distinctes :

Pour les travailleurs, l'intéressement matériel direct aux résultats obtenus.

L'information ouverte et organisée sur la marche et les résultats de l'entreprise.

Le droit à la proposition sur les questions qui regardent la marche de l'entreprise.

En ce qui concerne le premier point, la législation se compose de l'ordonnance de 1959, de la loi de 1965 sur les droits des salariés, sur l'accroissement des valeurs de l'actif dû à l'autofinancement, et enfin l'ordonnance de 1967 instituant la participation aux bénéfices.

Pour le second, on doit se référer à l'ordonnance de 1945 (dont le rédacteur fut René Capitant, ancien membre du groupe Esprit) sur les comités d'entreprise. Quant au troisième, il concerne aussi une législation répartie dans les ordonnances de 1967. Pour appliquer ce nouveau régime, le général De Gaulle excluait tout recours à la force, que ce soit celle des pouvoirs publics ou celle de la rue. La révolution par la participation n'est pas une vulgaire "exhibition", elle ne se constitue pas de tumultes bruyants ni de scandales sanglants. L'État a néanmoins et sans aucun doute un rôle essentiel à jouer. Il faut, en toutes circonstances, qu'il tienne les leviers de commande. Tenir ces leviers, c'est prendre toutes les décisions qui favorisent la mise en place de ce nouveau régime. La nationalisation est un moyen. Ce n'est pas le seul ni le plus efficace. Ce que retient comme méthode privilégiée le Général De Gaulle, c'est la planification. Le Plan est le résultat de la coopération de plus en plus étendue des organismes qui concourent à l'activité nationale, la décision restant en dernier ressort aux pouvoirs publics. La question im­portante que pose à ce moment le Général De Gaulle est celle du régime apte à lancer ce vaste mouvement de réforme. En effet, si la question du régime politique est alors une question d'actualité, il n'est pas interdit de croire qu'elle est aussi et surtout une question permanente.

 

Le rôle des syndicats

 

Comme toute grande réforme, la participation demande beaucoup de temps et de volonté, et ces qualités sont celle, que l'État peut seul offrir. En accord avec les travailleurs eux-mêmes et certaines organisations "représentatives", l'État peut associer les partenaires sociaux aux responsabilités économiques françaises. À cette époque de l'immédiat après-guerre, De Gaulle croit encore aux vertus de ces syndicalistes qui furent aussi des cadres de la résistance. Si certains sont membres de féodalités inféodés à l'étranger (De Gaulle pense alors aux syndicalistes qui sont des militants du parti communiste), il fait en dernier lieu confiance aux vrais syndicats, attachés aux intérêts des travailleurs. Quant à ces syndicats, dont la fonction est de protéger la classe salariale, il faut que leur rôle soit transformé. Il ne faut pas que ceux-ci soient au service des partis politiques et de leurs intérêts partisans. Il ne faut pas que les communistes puissent contrôler leurs activités au sein de l'entreprise. Le syndicat doit subir une profonde rénovation spontanément et librement. Ils pourront ensuite assumer leur rôle, qui est d'éclairer leurs mandants et de participer aux contrats de société. Ils pourront aussi organiser le rendement dans l'entreprise, soutenir la formation technique, l'apprentissage et les qualifications.

De Gaulle est aussi conscient des limites de ces réformes. Elles ne doivent pas détruire les autres piliers de l'économie, que sont l'investissement des capitaux pour l'équipement des entreprises, ni l'autorité et l'initiative des dirigeants. L'objectif final sera atteint par des modalités et des procédures échelonnées dans le temps. L'étape préliminaire étant celle de l'intéressement. Le rôle des entreprises publiques est aussi essentiel ; c'est dans cette caté­gorie nouvelle des entreprises nationalisées, où sont exclues les questions de répartition des capitaux, l'État étant majoritaire, que l'on pourra appliquer cette première réforme. Cette stratégie progressive et prudente, se doublera d'autre part d'un système d'arbitrage « impartial et organisé qui assurera la justice des rapports ». Ce « régime organique d'association » connaît trois niveaux d'arbitrage : 1) Le Sénat économique et social, qui en est l'instance suprême ; le Sénat est la chambre des représentants des diverses catégo­ries d'intérêts du pays ; il peut conseiller le gouvernement dans l'ordre économique et social, à propos du Budget et du Plan. 2) Le Conseil Ré­gional, représentant les collectivités locales et les mandataires des diverses activités économiques, sociales et universitaires ; il a compétence pour ce qui touche l'équipement et le développement de la région, notamment le plan régional. Enfin dans l'entreprise, 3) l'institution des « délégués de la participation », chargés de négocier les contrats de participation. À côté de ces délégués seront institués des « comités de participation », à caractère consultatif. Les modalités de la participation sont : l'intéressement, l'actionnariat, les méthodes de gestion participatives, la cogestion et l'autogestion.

 

La nationalisation des monopoles

 

Pour permettre d'établir les meilleures conditions d'application de ces réformes, un moyen intéressant fut la méthode des nationalisations. L'objectif des nationalisations était purement politique. Il fallait interdire toute concentration excessive qui prenne la forme d'un monopole économique. L'intérêt général justifiait cette politique. On sait les méfaits des grandes puissances économiques et financières dans les nations d'Amérique centrale, où, sous la forme de multinationales aux budgets formidables, celles-ci peuvent s'opposer avec succès aux décisions des gouvernements légitimes et légaux (en fait, nous connaissons ce phénomène sur les cinq continents et les pays occidentaux soumis au système capitaliste n'y échappent pas plus que les jeunes nations du Tiers-Monde). Cette natio­nalisation des monopoles privés ne résout pas la question sociale. Elle est une condition favorable aux réformes nécessaires. C'est, écrit M. Des­vignes, « un moyen négatif ». La politique envisagée n'implique pas une volonté de détruire le secteur dit libre. Elle confirme le rôle prioritaire de l'État, qui doit assurer lui-même l'exploitation des activités nationales, à savoir dans l'immédiat après-guerre : l'énergie (charbon, électricité, pé­trole), le transport (chemins de fer, transports maritimes, aériens), les moyens de transmission (radio, plus tard télévision) ; le crédit (banques, établissement financiers). Il ne s'agit pas d'une étatisation, qui transformerait toutes ces sociétés en services publics, mais d'assurer le contrôle réel de l'État sur ces entreprises (par exemple sous la forme d'établissements publics à caractère industriel et commercial). Ainsi le Général De Gaulle précise-t-il plus tard (25/11/1951) que l'État ne doit pas être là pour financer la marche de ces entreprises. Il fixe pour cela des règles de fonctionnement et de gestion à ces entreprises nationales : respect des règles commerciales (transports par exemple), participation des usagers, fixation autonome des tarifs et des traitements, responsabilité entière du conseil d'administration et des directeurs. Il ajoute aussi que ces nationalisations sont souvent dévoyées en ce sens qu'elles se transforment en de puissantes féodalités à l'intérieur même de l'État. Il reste qu'il y a là un moyen privilégié d'assurer les réformes.

Revenons à l'analyse des modalités pratiques de la participation.

L'autogestion est un mot qui n'a jamais été prononcé par De Gaulle. Si l'autogestion est un moyen offert au personnel de participer à la direction de l'entreprise, par le biais de l'appropriation de l'autofinancement, et la constitution de minorité de blocage, de contrôle ou même d'une majorité au sein du conseil dirigeant, alors la participation est une méthode d'autogestion. Mais cette participation n'est pas l'autogestion puisqu'elle conserve au chef d'entreprise le pouvoir de décision. Car, l'écrit de Gaulle : « Délibérer, c'est le fait de plusieurs, agir c'est le fait d'un seul ». L'idée auto­gestionnaire précisée, analysons les trois systèmes de participation qui furent proposés.

Trois objectifs sont retenus : favoriser la participation du personnel aux résultats, aux responsabilités et au capital.

La participation aux responsabilités : elle fut envisagée la première. Il s'agit d'associer le personnel à ce qui est gestion, organisation et perfectionnement des entreprises (discours du 2/03/1945). Ce sont les « Comités d'entreprise  ».

 

« Casser le processus de la termitière »

 

Le 7 avril 1947, il préconise l'association aux bénéfices, qui prévoit l'intéressement des travailleurs au rendement, contrôlé par un système d'arbitrage impartial et organisé. Cet intéressement sera calculé selon une échelle hiérarchique déterminée par les textes législatifs. L'idée est la rémunération des travailleurs au delà du "minimum vital", selon une technique analogue à la rémunération des capitaux mobiliers et immobiliers, qui sont rémunérés au delà de leur conservation et de leur entretien. À l'association dans l'industrie, De Gaulle veut faire correspondre la coopération dans l'agriculture. Par la création de mutuelles (souvenons nous de ce qu'écrivait Proudhon), de coopératives, de syndicats, soit par régions et localités, soit par branches de production, on peut assurer aux agriculteurs liberté et indépendance. La méthode ayant pour finalité de casser le processus de la « termitière » typique de la société libérale industrielle.

Pour introduire dans les faits cette participation des travailleurs aux résultats dans les entreprises, il est proposé dès 1948 la création de « contrats d'association » destinés à :

Fixer la rétribution de base des ouvriers.

L'intérêt de base pour le capital qui procure les installations, les matières premières, l'outillage.

Le droit de base pour le chef d'entreprise qui a la charge de diriger.

L'idée qui soutient la création de ces contrats est la nécessaire égalité des divers partenaires de l'entreprise qui participent à ce qui est produit (travail, technique, capital, responsabilité) à la propriété et au partage de l'autofinancement. L'Association capital-travail crée un système de copropriété de l'entreprise. Les plus-values qui proviennent de l'autofinancement ne sont plus des modes exclusifs de rémunération du capital, mais doivent aussi être distribuées aux autres parties de la production.

 

L'association capital/travail

 

L'association est, dans l'idée gaullienne, une des idées-forces de l'avenir. En établissant cette association capital/travail, de Gaulle vise non pas seulement à motiver les travailleurs dans le destin économique de leur entreprise respective, mais il veut atteindre des objectifs plus ambitieux : consolider l'unité française, assurer le redressement national, donner un exemple à l'Europe.

Nous avons parlé jusqu'à présent de la participation en tant que traduction de l'idée gaullienne. Mais ainsi que celui-ci le rappelait lui-même dans une de ses allocutions, si la décision est le fait d'un seul, la délibération doit être le fait de plusieurs. Pour cela, il fut entouré d'hommes de valeur associés à sa recherche d'une résolution de la question sociale : sociologues, juristes, gestionnaires, économistes, ju­ristes, syndicalistes, philosophes, etc... Nous voudrions évoquer maintenant quelques figures marquantes qui ont soutenu cette œuvre. Trois hommes se dégagent, qui furent des figures marquantes : René Capitant, Louis Vallon et Marcel Loichot. Il faut évoquer la figure de René Capitant. Professeur de droit et homme politique, René Capitant a énoncé, dans son cours de doctorat de droit public, ce qui fut le fondement de la participation : ce principe est la liberté, qu'il définit comme une autonomie et qui « consiste non pas à n'être soumis à aucune obligation juri­dique, auxquelles on est habituellement soumis, mais qui garantit à chaque associé son autonomie personnelle ». Le contrat d'association est le garant d'une vraie participation puisqu'il est un contrat démocratique. Il écrit : « En régime capita­liste, la démocratie est... limitée aux relations qui s'établissent entre possédants et ne s'étend pas aux relations entre possédants et travail­leurs ». Le contrat démocratique sera le garant de la nouvelle démocratie sociale. Son adhésion au concept de la triple participation résulte de ce souci de « démocratie sociale ». En matière de participation, R. Capitant est partisan du « systè­me Sommer », qui lie l'augmentation des salaires non à l'accroissement de la production nationale, mais à la productivité concrète des entreprises. De la sorte, les salariés sont des copropriétaires de l'accroissement d'actifs résultant de l'autofinancement. Leurs parts sociales sont représentatives de leur part de propriété dans l'entreprise. (Il est favorable de ce fait à une révision de l'ordonnance de 1967 qui permet le remplacement des simples titres de créances au profit d'actions à part entière).

René Capitant est aussi favorable à une « responsabilité organisée de la direction devant les travailleurs ». En d'autres termes, il s'engage dans la voie d'une autogestion ouvrière. Il préconise deux types d'assemblées générales dans l'entreprise : l'Assemblée générale des actionnaires, et l'Assemblée générale des salariés. La direction serait responsable devant ces deux assemblées et on constituerait un organe permanent des salariés, le comité d'entreprise, parallèle au conseil de surveillance des actionnaires.

 

Les projets de Louis Vallon

 

On retrouve ces idées dans le célèbre amendement Capitant-Le Douarec de 1966, qui prévoyait :

Pour les sociétés anonymes, la création d'un « Directoire » assurant les pouvoirs de direction, et d'un « conseil de surveillance », chargé de contrôler le précédent. Ce conseil peut constituer, avec le comité d'entreprise, une commission paritaire mixte qui examinera toutes les questions relatives à la marche de l'entreprise. L'entreprise deviendrait une « coopérative ouvrière », mais ayant la possibilité de faire appel à des capitaux extérieurs, ce qui la rendrait compétitive face aux entreprises capitalistes. À côté de René Capitant, on trouve Louis Vallon, auteur du fameux « Amendement Vallon », modifiant la loi du 12/07/1965. L'amendement faisait obliga­tion au gouvernement de déposer un projet de loi sur la « participation des salariés à l'accroissement des valeurs d'actifs des entreprises à l'au­tofinancement ».

Pour L. Vallon, le mécanisme à mettre en place doit être un mécanisme juridique : l'octroi d'un droit aux salariés sur l'accroissement des valeurs d'actifs dû à l'autofinancement, droit qui est ga­ranti par une obligation légale faite aux entreprises. Cette participation a un autre avantage : elle favorise l'investissement et l'augmentation de la surface financière, parce qu'elle augmente les garanties fournies aux tiers par l'incorporation de réserves au capital. Enfin, il propose de compenser la moins-value des titres anciens par un système d'encouragement fiscal. En fait, ces projets se heurteront à l'hostilité des féodali­tés économiques, patronales et syndicales.

En résumé, Louis Vallon énonce quatre conditions essentielles : Les salariés doivent posséder de véritables titres de propriété, analogues à ceux des actionnaires antérieurs. La base du calcul de la participation comprend et le bénéfice fiscal et les plus-values implicites. Pour calculer avec réalisme l'accroissement des actifs, il faut une réévaluation régulière des bilans.

Il serait néfaste que soit créé un organisme cen­tral de gestion chargé de contrôler les titres de propriété des travailleurs. Il signifierait une perte d'identité des entreprises. D'où la critique ouverte de Louis Vallon contre l'ordonnance de 1967, qu'il juge trop modeste dans ses réalisations.

 

Marcel Loichot et le « pancapitalisme »

 

Enfin Marcel Loichot, polytechnicien, surnommé le « père du pancapitalisme ». Ce « pancapitalisme », il en résume ainsi les principes : L'homme, en tant que fabricant d'outils, est un capitaliste. Parce que l'outil est en soi un capital. La question est de savoir qui sera le possesseur du capital : les oligarchies économiques, l'État, les ouvriers ou les épargnants ?

Pour supprimer l'aliénation capitaliste, la dernière solution est retenue. C'est celle des « épargnants conjoints » (ouvriers, entrepreneurs, État, etc.).

Car, pour Loichot, le capitalisme néo-libéral reste un oligopartisme, tandis que le communisme est un monocapitalisme. Dans ce cadre, les biens de production sont abusivement confisqués par la classe possédante. S'il y a partage des biens de consommation, ce partage n'est qu'un trompe-l’œil, qui perpétue la « spoliation des salariés ». Pour faire cesser cette spoliation, il faut diffuser la propriété, dans le cadre d'une société dite « pancapitalisme ». Dans ce système, un projet de loi présenté devant le Parlement prévoyait, entre autres projets, que les droits d'attribution d'actions gratuites, par voie de réévaluation de l'actif, réservent au moins 50% aux travailleurs ayant au moins 10 ans de présence dans l'entreprise, proportionnellement aux salaires perçus.

 

IV - Les textes instituant la participation

 

Nous ne présenterons pas l'ensemble de ces textes, dont l'analyse serait longue et fastidieuse. Historiquement, nous avons souligné le retard de la France en matière sociale sous la IIIème Ré­publique, retard qui fut comblé partiellement par les réformes instituées par le gouvernement du Front Populaire. En ce qui regarde la question de la participation, on peut citer quelques textes, imparfaits et sans grands résultats (Loi du 18/12/1915 sur les sociétés coopératives de production, loi du 26/04/1917 sur les sociétés anonymes à participation ouvrière et actions de tra­vail, loi 25/02/1927 sur les sociétés coopératives ouvrières de production). Il faudra ensuite attendre les ordonnances de 1945 (22 et 25/02/1945) pour voir s'instituer les premiers comités d'entreprise, et le Décret-Loi du 20/05/1955 sur l'association des salariés à l'accroissement de la productivité.

La naissance de la Vème République allait engager ce vaste mouvement législatif qui prétendait aborder la question sociale. On compte, entre l'ordonnance de 1959 et la loi de 1973 relative à la souscription ou à l'acquisition d'actions de sociétés par les salariés, pas moins de 4 ordonnances, 3 décrets et 8 lois pour organiser la participation. On retiendra le cœur de ce projet, constitué par les 3 ordonnances du 17 août 1967, relative à la participation des salariés aux fruits de l'expansion de l'entreprise (ordonnance n°1), relative aux Plans d'Épargne d'entreprise (ordonnance n°2), et relative aux modifications et compléments de la loi du 24 juillet 1966.

Quelle est la portée de ces ordonnances ? On trouve une présentation de sa portée dans la présentation du rapport au Président de la République.

Elles ont pour objet de permettre une amélioration de la condition des travailleurs, et de modifier les rapports dans les entreprises entre les travailleurs et les patrons.

Pour réaliser ces objectifs, l'ordonnance n°67.­693 institue :

* Un partage des bénéfices, sur la base du bénéfice fiscal net (on remarquera qu'est rejeté ici le projet Loichot, qui incluait, dans la base du calcul, les plus-values implicites). La rémunération forfaitaire du capital est donc déduite du bénéfice net au taux de 5% après impôt. De plus est appliqué un coefficient (rapport des charges sociales à la valeur ajoutée) qui évite aux entreprises à forte capitalisation et faible main d'œuvre que les salariés ne perçoivent une rémunération disproportionnée sur base des bénéfices. Autrement dit, le partage entre les actionnaires et le personnel est effectué après rémunération à taux élevé (10% avant impôt), et l'application d'un coefficient aux effets cumu­latifs avec ceux de la rémunération forfaitaire des capitaux.

* Elle institue aussi le caractère légal et obligatoire de l'ordonnance. Toutes les entreprises de plus de 100 salariés sont concernées. Le système de la cogestion en République Fédérale allemande concerne les entreprises de plus de 500 salariés. Le système français s'inspire en fait des expériences de cosurveillance appliquées en Suède et en Hollande.

* Elle règle ensuite la forme juridique des contrats d'association. Trois possibilités sont accordées aux entreprises françaises : le cadre de la convention collective ; l'accord passé entre le chef d'entreprise et les syndicats dits "repré­sentatifs", obligatoirement membres du personnel de l'entreprise ; l'accord passé dans le cadre du comité d'entreprise.

 

Avant de présenter quels objets licites l'ordonnance prévoit, formulons quelques remarques quant aux positions des divers syndicats à l'endroit de la participation.

 

La position des syndicats patronaux et ouvriers

 

Le Général De Gaulle avait prévu, dès le départ, le problème majeur qui risquait de supprimer les effets positifs du projet. Ce problème était celui des syndicats, ouvriers et patronaux. L'opposition de ces féodalités, que l'on a pu constater depuis lors, était un obstacle essentiel que craignait le chef de l'État. Pour les syndicats, deux catégories de réactions étaient à prévoir. Celle des syndicats affiliés au parti communiste, pour qui faction syndicale est une œuvre de division nationale, et les revendications des travailleurs un moyen de développer l'agit-prop. À leur égard, il n'y avait aucune illusion à se faire ; pour la Confédération Générale du Travail (CGT), proche du parti communiste français, il y avait une opposition absolue aux ordonnances. Cette opposition était naturelle, si on veut bien se rappeler tout l'arrière-plan idéologique que les promoteurs de la participation défendaient. Les tentatives, réussies pendant un temps, de détacher le monde ouvrier de l'influence du PCF, étaient mal vues de sa courroie syndicale. Pour Henri Krasucki, le projet Capitant était « un des innombrables systèmes qui se sont essayés à enjoliver le capitalisme et à mélanger l'eau et le feu », pour ajouter : « la notion de participation correspond à un problème réel ». Pour la CGT, la participation est un slogan qui ne brise pas les féodalités économiques et financières. Pour la Confédération Française Démocratique du Tra­vail (CFDT), proche des courants autogestion­naires, la participation dans l'entreprise n'est pas a priori mauvaise en soi. Elle demande à être élargie. Au cours d'un débat tenu le 5 juin 1972, entre Marcel Loichot et le président de la CFDT, fut posée la question essentielle : celle de la propriété des moyens de production. Les questions posées furent celles-ci : l'usine à Roth­schild ? L'usine à l'État ? Ou l'usine à ceux qui y travaillent ?

Pour le syndicat Force Ouvrière, réformiste, elle prend une position moyenne, tout à fait dans sa ligne social-démocrate.

Les syndicats patronaux, quant à eux (en tête, le Conseil National du Patronat Français), sont hostiles au projet qui, selon leurs analyses, ne répond pas à la vraie question qui est la suivante : « Qui doit commander ? ». Enfin les syndicats de cadres, en principe non hostiles à la participation, restent proches des positions du patronat.

À l'exception notable du courant autogestionnaire, très timide face à cette réforme, il y a donc une conjonction spontanée des féodalités syndicales contre la participation. Du patronat libéral à la centrale communiste, l'idée apparaît comme dangereuse, pour la simple raison qu'elle envisage une société beaucoup plus attentive à la question sociale.

Le test est révélateur ...

Mais revenons aux ordonnances de 1967. L'objet de l'accord doit ensuite être licite. Il peut également prévoir : l'attribution d'actions de l’entreprise, l'affectation des sommes de la réserve spéciale de participation à un fonds d'investissements, etc.

* Enfin elle traite de l'attribution des droits du personnel : ces droits seront malheureusement limités, puisque seront exclus en dernière instance les droits de participation au capital, et aux décisions au sens de la directive du 31 juillet 1968.

On voit que le projet "idéologique" de la participation demeura bien au-delà des réalisations législatives. La France de la croissance des années 1960/1970 est une France prospère où l'expansion constitue un manteau épais qui relègue les grandes questions au second plan. Pour les organisations syndicales, le projet politique ne constitue plus un enjeu. Les discussions se greffent plus souvent sur des questions alimentaires ou, plus largement, sur la gestion d'une société de consommation euphorique. Les grands débats sont abandonnés, à quelques exceptions près. L'idéologie bourgeoise battue en brèche par les contestataires, telle Protée, resurgie sous la forme plus subtile d'une mentalité imprégnant toutes les couches sociales. L'ouvrier rêve de devenir bourgeois, et les syndicats sont des partenaires bien éduqués, siégeant à des tables de négociations. Le projet de la participation a été digéré par ces féodalités que dénonçait le Général De Gaulle dès l'immédiat après-guerre.

CONCLUSION

La participation a voulu proposer un lieu de dépassement du capitalisme et du marxisme. L'évolution du régime économique et social, qui devait résoudre la question sociale, a abouti à un semi-échec. La société occidentale, libérale et capitaliste, la société de la "liberté" bourgeoise, ont étouffé le projet. Il n'y a pas eu confrontation directe, et De Gaulle avait pressenti le rôle dangereux parce que discret des féodalités. L'idée ambitieuse et poétique de forger l'unité nationale par la résolution de la question du salariat n'était pas supportable pour tous ceux qui ont fait profession de la politique. La ligne de clivage entre partisans et adversaires de la participation passait en effet dans l'intérieur des partis traditionnels.

La participation pouvait en réalité constituer le point de départ d'une vaste subversion des cadres conservateurs de la société bourgeoise d'après 1945. La révolution industrielle était aussi une révolution culturelle. Elle avait créé une société brisée, scindée selon des critères socio-écono­miques. D'un côté, la bourgeoisie possédante, industrielle et financière, qui bénéficie des profits du changement. C'est une bourgeoisie triomphante, propriétaire exclusive des moyens de production, qui construit une société et un régime à son image. De l'autre côté, la création d'une classe de salariés, attirée par les grandes manufactures qui donnent des emplois. Face au capital qui investit, le travail n'est pas une valeur positive. Elle n'est pas productrice de bénéfices, mais seulement de rémunérations salariales. Pourtant, de tous les côtés, des hommes se lèvent, et osent dénoncer ce système politico-économique dominé par les valeurs de la révolution dite "française". Le socialisme français de Proudhon, et de Sorel est rejoint dans sa contestation de l'ordre bourgeois libéral et républicain par les penseurs du catholicisme social. Plus tard, des mouvements plus radicaux, élèves du socialisme national, exigent une réforme plus vaste. Ils exigent la Révolution. C'est l'époque de Barrès, du premier Maurras (celui de La Revue Grise), des socialistes révolutionnaires travaillant côte à côte avec de jeunes monarchistes soréliens (le Cercle Proudhon). Tous ces groupes constituent cette "droite révolutionnaire" qui allient le sens de la Nation et celui des libertés réelles. En réalité, ce creuset n'engendre pas un parti de droite, mais quelque chose de nouveau, qui va plus loin.

Contre la république opportuniste et radicale, qui n'hésite pas à tirer sur les ouvriers en grève, il y a une conjonction historique. Il est dommage que celle-ci n'ait point abouti. Il reste que, beaucoup mieux que le bourgeois Marx, elle a dégagé dans ses écrits la question essentielle. Le salariat est le système juridique et social qui symbolise le monde bourgeois. Avec son idée d'une triple participation (aux capitaux, aux résultats, aux décisions), le Général De Gaulle se situait dans le droit fil de cette tradition socialiste française. Il a fallu la réunion de toutes les oppositions féodales pour briser le projet. Il reste un exemple à méditer. Ce peut-être le sujet de nos réflexions futures. Car il faudra bien un jour, en dépassant les vieilles idéologies capitalistes et marxistes, résoudre la question sociale.

 

Ange SAMPIERU

 

BIBLIOGRAPHIE (par ordre de consultation)

 

• I) INTRODUCTION :

 

1) M. DESVIGNES, Demain, la participation, au-delà du capitalisme et du marxisme, Plon, Paris, 1978.

2) Charles DE GAULLE, Discours et Messages, Plon, Paris, 1970.

 

• II) L'IDÉOLOGIE DE LA PARTICIPATION : Les sources... :

 

1) Michel JOBERT, Mémoires d'avenir, Le Livre de Poche, Paris.

2) Jean-Gilles MALLIARAKIS, Yalta et la naissance des blocs, Albatros, Paris, 1982.

3) Jean TOUCHARD, Histoire des idées politiques, Tome II, Du XVIIIème siècle à nos jours, Presses Universitaires de France, Paris, 1975.

4) J. IMBERT, H. MOREL, R.J. DUPUY, La pensée politique des origines à nos jours, Presses Universitaires de France, Paris, 1969.

5) Jean ROUVIER, Les grandes idées politiques, de Jean-Jacques Rousseau à nos jours, Plon, Pa­ris, 1978.

6) J.B. DUROSELLE, Les débuts du catholicisme social en France, Presses Universitaires de France, Paris, 1951.

7) François PERROUX, Aliénation et société industrielle, Gallimard, coll. "Idées", Paris, 1970.

8) Œuvres de PROUDHON : les principaux ouvrages de PROUDHON sont édités aux éditions Marcel Rivière (Diffusion Sirey) : De la justice dans la Révolution et dans l'Église (4 volumes, 1858) ; Les confessions d'un révolutionnaire (1849) ; L'idée générale de la Révolution (1851) ; Qu'est-ce que la propriété ? (1840 et 1841) ; Carnets (6 volumes dont 2 publiés par P. HAUBTMANN aux éditions Rivière, 1960/ 1961).

9) Hippolyte TAINE, La Révolution française, Tome II, Des Origines de la France contempo­raine, R. Laffont, Paris, 1972.

10) Œuvres de LAMENNAIS : les principaux ouvrages sont édités aux éditions Le Milieu du Monde, Genève : Essai sur l'indifférence en matière de religion (1817/1824) ; L'avenir (1830/1831) ; Les paroles d'un croyant (1834) ; Le livre du peuple (1837) ; La question du travail, etc.

11) Carl E. SCHORSKE, German Social Demo­cracy, Cambridge, Mass., 1955.

12) F.G. DREYFUS, De Gaulle et le Gaullisme, PUF, coll. "politique d'aujourd'hui", Paris, 1982.

 

• III) L'IDÉOLOGIE GAULLIENNE :

 

1) Zeev STERNHELL, La droite révolutionnaire, Seuil, Paris, 1978.

2) F. LAFARGUE - Friedrich ENGELS, Correspondance, éditions sociales, Paris, 1956.

3) Maurice BARRÈS, articles de La Cocarde, cités par Z. STERNHELL, n° du 8/09/1894 et du 14/09/1890.

4) J.-L. LOUBET del BAYLE, Les non-confor­mistes des années 30, Seuil, Paris, 1969.

 

• IV) LA PARTICIPATION :

 

1) René CAPITANT, La réforme pancapitaliste, Flammarion, Paris, 1971.

2) René CAPITANT, Écrits politiques, Flamma­rion, Paris, 1971.

3) René CAPITANT, Démocratie et participation politique, Bordas, Paris, 1972.

4) Sur ce sujet, consulter aussi la revue ES­POIR, éditée par l'Institut Charles de Gaulle (5, rue de Solférino, 75007 PARIS), n° 10/11, 5, 17, 28, 35.

samedi, 27 février 2010

Die tiefe Krise der Männer

Die tiefe Krise der Männer

Eva Herman : Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Das männliche Geschlecht befindet sich auf rasanter Talfahrt: Während die Emanzipation die Frauen in den zurückliegenden Jahrzehnten allerorten in ungeahnte Machtpositionen hievte, und weltweite Gender-Mainstreaming-Maßnahmen ebenso ausschließlich die Förderung von Frauen vorsehen, kämpfen die Männer zunehmend um die Existenz ihres Geschlechtes. Schon die Feministinnen in den 1970er-Jahren predigten die Männer entweder als Weicheier oder Machos schlecht. Dazwischen gab es kaum etwas, was männlich und gleichzeitig etwa sympathisch oder normal sein konnte.

manliness-1.jpgDie verhängnisvolle Entwicklung der Männerverachtung findet für den Vertreter des männlichen Geschlechts ihren frühen Anfang heutzutage schon in Kindergarten und Schule: Ein Blick auf das derzeitige Schulsystem allein genügt, um festzustellen: Hier werden haufenweise Verlierer produziert, die Mehrheit ist männlich.

In Kinderkrippen, Kindergärten und in den Schulen fehlen überall männliche Vorbilder! Die Kinder werden vorwiegend von Frauen betreut und erzogen, diese bevorzugen in aller Regel, teils bewusst, teils unbewusst, die Mädchen.

Durch die Feminisierung in der Erziehung werden für die Kinder hier die künftig geltenden Verhaltensstandards festgelegt: Diese werden nahezu ausschließlich aus dem Verhalten der Mädchen entwickelt. Ohne Rücksicht darauf, dass Jungen naturgemäß ein völlig anderes Benehmen haben. Männliches Verhalten wie durchaus natürliche Rangeleien und hierarchiebedingte Kämpfe werden allermeist durch aus weiblichem Harmoniestreben resultierende Maßnahmen im Keime erstickt. Dadurch geraten die Jungs ins Hintertreffen, die Gefahr, dass sie ihre Geschlechteridentität nicht naturgemäß ausbilden können, schlägt sich auf die Leistungen nieder. 

Der Vorsitzende des Bayerischen Philologenverbands, Max Schmidt, betonte in einem Spiegel-Interview: »Sowohl in der Grundschule, aber auch während der Pubertät, ist es wichtig, dass Jungen und Mädchen in männlichen und weiblichen Lehrkräften positive Rollenvorbilder erleben.« Das zunehmende Verschwinden von Männern aus den Schulen erschwere gerade den Jungen die Auseinandersetzung mit der eigenen Rollenidentität.

Das sehen auch andere Experten so: Eine letztjährige Studie des Aktionsrates Bildung bestätigt, dass der Grund für die Zensurenlücke vornehmlich darin zu finden ist, dass Jungen in Kindergarten und Schule massiv benachteiligt würden. Nicht mehr die Mädchen, sondern die »Jungen sind die Verlierer im deutschen Bildungssystem«, sagt der Ratsvorsitzende und Präsident der Freien Universität Berlin, Dieter Lenzen. Statt auszugleichen, verstärke die Schule den Bildungs- und Leistungsrückstand der Jungen. Jungen haben laut Lenzen oftmals gar nicht die Chance, eine ausgereifte Geschlechtsidentität zu bilden, da sie im Kindergarten und in der Grundschule meist mit Erzieherinnen und Lehrerinnen konfrontiert seien. In keinem Bundesland liegt der Anteil männlicher Erzieher in den Kindertagesstätten bei mehr als zehn Prozent.

Auch das Bundesbildungsministerium bestätigt diese verhängnisvolle Entwicklung. Eine Untersuchung ergab: In der Grundschule sehen sich Jungen einer weiblichen Übermacht an Lehrkräften gegenüber – und werden von den Lehrerinnen häufig benachteiligt. Der Hallenser Bildungsforscher Jürgen Budde stellte in dem Bericht fest, dass Jungen in allen Fächern bei gleicher Kompetenz schlechtere Noten bekommen als ihre Mitschülerinnen. Selbst wenn sie die gleichen Noten haben wie Mädchen, empfehlen die Lehrer ihnen seltener das Gymnasium. Einfach ausgedrückt: Jungen werden bei gleicher Leistung schlechter behandelt.

Der Schulabschluss bestimmt den weiteren Lebensweg, die persönliche Arbeitsbiografie wird hier festgelegt. Dementsprechend sind junge Männer häufiger erwerbslos. Aus einem individuellen Problem erwächst inzwischen längst eine hoch gefährliche Gesellschaftskrise.

Jungs werden häufig von Anfang nicht richtig eingeschätzt und verstanden. Ihre männlichen Verhaltensweisen sollen denen der Mädchen angepasst werden, dementsprechend werden sie nicht selten unter falschen Voraussetzungen erzogen. Oft können sie ihr wahres männliches Inneres nicht leben, der Kern ihres Mannseins wird unterdrückt.

Vielen Jungen fehlt außerdem die männliche Vorbildfigur, an der sie sich orientieren könnten und dies auch dringend tun müssten. Jungen, die bei ihrer alleinerziehenden Mutter aufwachsen, sind in weitaus höherem Maße gefährdet. Schon der Psychologe Alexander Mitscherlich sprach einst von der »vaterlosen Gesellschaft« und meinte damit die Nachkriegsgeneration, deren Väter entweder im Krieg gefallen waren oder gebrochen zurückkehrten. Heute hat der Begriff wieder neue Aktualität bekommen. Väter verlassen die Familien, entziehen sich oder wollen schlicht keine starken Vorbilder mehr sein, aus Angst, sie könnten als hirnlose Machos gelten.

Auch unsere unheilvolle Geschichte hat tiefe Spuren hinterlassen. Ist ein starker Mann nicht schon ein Faschist? Ist einer, der sich zum Mannsein bekennt, nicht schon ein Soldat? Stärke wurde ein Synonym für das Böse, das unterworfen werden musste. Wer offensiv auftritt, ist einfach nicht politisch korrekt. Eroberer haben keine Chance.

Und so flüchten sich Jungen und Jugendliche häufig in Traumwelten, die sie im Fernsehen und bei den Abenteuer- und Ballerspielen auf dem Computer, der Playstation oder dem Gameboy finden. Hier, in der Fantasy-World, herrschen ausgesprochen männliche, körperlich starke, kämpfende Helden, die souverän alle Feinde besiegen und töten. Mit ihnen lässt es sich trefflich  identifizieren, wenigstens in der Fantasie. Immer mehr Jungen und junge Männer verbringen täglich viele Stunden vor interaktiven Medien, die sie zusehends von der Außenwelt, vom sozialen Miteinander abtrennen, die sie weiter in die gesellschaftliche Isolation treiben und zunehmend den Realitätsbezug verlieren lassen. Dieses Phänomen ist nicht auf die Kindheit und die Pubertät beschränkt, auch erwachsene Männer spielen lieber den omnipotenten Helden in der Fantasie, als im Leben ihren Mann zu stehen.

Was bleibt ihnen auch anders übrig?, könnte man fragen. Wenn Männer ihre Rechte einfordern wollen, stürzt sich alsbald ein Haufen wütender Frauen auf sie und verteidigt energisch das ständig größer werdende Stück Land, das sie in den letzten Jahrzehnten einnahmen. Rechte für die Männer? Die haben doch alles, was sie brauchen! So lautet das Vorurteil. Die Zeit der Alphatierchen sei vorbei, verkündete die ehemalige Bundesfamilienministerin Ursula von der Leyen, die sich stets auf die Seite erwerbstätiger Frauen schlägt, im März 2007 im Stern.

Männer sollen durch politische Maßnahmen wie ein zweimonatiges Elterngeld für Väter und eine neue öffentliche, mit aller Macht forcierte Geisteshaltung nach Hause gezwungen werden. Sie sollten mehr als »nur den Müll runterbringen«, schließlich arbeite die Frau schwerer als sie, weil sie zusätzlich noch die Kinder versorgen müsse.

Unbehagen macht sich breit. Auch wenn nur ein geringer Prozentsatz der Männer wirklich auf diese Forderungen eingeht, so plagt ihn doch das schlechte Gewissen, das man ihm einredet. Wer aber will sich auf Dauer nur noch verteidigen? Dann doch lieber die Flucht nach vorn, die Flucht in den Job, wo man auch mal jemanden anbrüllen darf, die Flucht auf den Fußballplatz, wo man sich aggressiv zu seiner Mannschaft bekennt. Oder die finale Flucht aus der Familie.

Während alle Jugendstudien die Mädchen zur »neuen Elite« küren, mehren sich die mahnenden Stimmen, die vor einer »entmännlichten Gesellschaft« warnen.

Experten fordern zu drastischen Maßnahmen auf: Der Jugendforscher Klaus Hurrelmann verlangt eine Männerquote für Lehrer und Erzieher. Der Deutsche Philologenverband will eine Leseoffensive für Jungen an Schulen einrichten.

Alle Studienergebnisse über die Leistungskrise der Jungs sprechen ihre eigene Sprache:

– Jungs bleiben doppelt so oft sitzen wie Mädchen, fliegen doppelt so häufig vom Gymnasium und landen doppelt so oft auf einer Sonderschule. An Haupt-, Sonder- und Förderschulen machen Jungen heute rund 70 Prozent der Schüler aus;

– Schätzungen zufolge leiden zwei- bis dreimal so viele Jungen unter Leseschwäche;

– 62 Prozent aller Schulabgänger ohne Abschluss sind Jungen;

– 47 Prozent aller Mädchen gehen auf ein Gymnasium, bei den Jungen sind es nur 41 Prozent;

– Ein Drittel der Mädchen macht Abitur oder Fachabitur, aber nur ein knappes Viertel der Jungen;

– Abiturnoten von Jungen sind im Schnitt eine Note schlechter, als die ihrer Mitschülerinnen;

– Junge Frauen stellen die Mehrheit der Hochschulabsolventen und brechen ihr Studium seltener ab;

– 95 (!) Prozent der verhaltensgestörten Kinder sind männlichen Geschlechts;

– Jungen stellen zwei Drittel der Klientel von Jugendpsychologen und Erziehungsberatern;

– Aggression ist ein Problem, das vor allem Jungs betrifft: Unter den Tatverdächtigen bei Körperverletzungen sind 83 Prozent Jungen;

– Unter »jugendlichen Patienten, die wegen der berüchtigten ›Aufmerksamkeitsdefizit-Hyperaktivitätsstörung‹ (ADHS) behandelt werden müssen«, sind laut Spiegel Online »überdurchschnittlich viele Jungen: Auf sechs bis neun Zappelphilippe komme, meldet das Universitätsklinikum Lübeck, lediglich eine Zappelphilippine«.  (Erziehungstrends.de)

Der Präsident der Vereinigung der Bayerischen Wirtschaft (vbw), Randolf Rodenstock, warnte im vergangenen Jahr angesichts der vielen männlichen Schulabgänger ohne Abschluss, dass man es sich nicht leisten könne, so viele junge Männer auf dem Bildungsweg zu verlieren. Deutschland steuere langfristig auf einen Arbeitskräftemangel zu, der durch die aktuelle wirtschaftliche Lage nur verzögert werde.

In Ostdeutschland sieht die Lage übrigens noch trostloser aus, hier laufen die Frauen den Männern gleich scharenweise davon. Nicht nur, weil sie im Westen bessere Berufs- und Ausbildungsmöglichkeiten bekommen, sondern weil sie dort auch Männer finden, die ihrem starken Selbstbewusstsein etwas entgegenzusetzen haben. So titelten denn auch unlängst gleich mehrere Tageszeitungen in etwa so: Frauen verlassen Osten! Männer erheblich benachteiligt! Oder: Ist der Mann im Osten bald allein?

Diesen alarmierenden Aussagen lag eine Studie des Berliner Instituts für Bevölkerung und Entwicklung zugrunde, der zufolge in den Neuen Bundesländern »eine neue, männlich dominierte Unterschicht« entstanden sei. Während vor allem gut ausgebildete Frauen zwischen 18 und 29 Jahren ihre Heimat verließen, würden viele junge Männer mit schlechter Ausbildung und ohne Job zurückbleiben. In manchen strukturschwachen Regionen fehlten bis zu 25 Prozent Frauen, diese Gebiete seien besonders anfällig für rechtsradikales Gedankengut, so die Studie. Das Frauendefizit in Ostdeutschland wurde übrigens als einmalig in Europa bezeichnet. »Selbst in Polarregionen, im Norden Schwedens und Finnlands reiche man an die ostdeutschen Werte nicht heran«, hieß es.

Abgesehen davon, dass Deutschland zunehmend der männliche Aspekt verloren geht, der jedoch unverzichtbar für eine Gesellschaft des natürlichen Ausgleichs ist, müssen Männer die Frauen immer häufiger als Konkurrentinnen sehen, weil diese, gestützt durch sämtliche, gesetzlich verankerte Gender-Mainstreaming-Maßnahmen, bevorzugt werden und somit selbstverständlich und offensiv auftreten, zudem sie auch immer besser qualifiziert sind.

Frauen erobern eine männlich geprägte berufliche Domäne nach der anderen. Schwere körperliche Arbeit, die Männer leichter bewältigen können als Frauen, wird durch die zunehmende Technisierung der Arbeitswelt nahezu überflüssig und existiert kaum noch. Frauen können in jeden beliebigen Beruf einsteigen: als Pilotin ebenso wie als Soldatin, Lkw-Fahrerin, Managerin, Ministerin, Kanzlerin.

Und während die holde Weiblichkeit alle Erfolgsgrenzen sprengt, ziehen sich die Männer zunehmend zurück. Zwar sollen sie durch Brüssels Gesetze nun vermehrt den Hausmann geben und sich der Kindererziehung widmen, damit sie den gestressten, erwerbstätigen Ehefrauen den Rücken freihalten. Doch sind diese Maßnahmen wohl kaum dazu geeignet, männliches Verhalten in seiner ursprünglichen Natur zu fördern.

Der Medienexperte Norbert Bolz macht vielmehr auf die Gefahr aufmerksam, dass Männer sich wieder an ihrer Muskelkraft orientieren würden, wenn sie sich ihrer sexuellen Rollenidentität als klassischer Vater und Versorger beraubt sehen. Das erklärt die rasante Zunahme aller möglichen sportlichen Aktivitäten, die bis ins Rauschhafte gesteigert werden können. Die Männer brauchen den Sport. »Sport als Asyl der Männlichkeit ist eine genaue Reaktionsbildung darauf, dass die Zivilisation als Zähmung der Männer durch die Frauen voranschreitet«, so Bolz. »Vormodern war die Aufgabe, ein ›richtiger‹ Mann zu sein, vor allem eine Frage der Performanz; man musste gut darin sein, ein Mann zu sein. Heute gilt das nur noch im Sport. Er bietet den Männern einen Ersatzschauplatz für die Kooperation der Jäger. Nur im Sport können Männer heute noch den Wachtraum erfolgreicher gemeinschaftlicher Aggression genießen, also die Gelegenheit, körperlich aufzutrumpfen.«

Bolz schätzt  dies als offensichtliches Kompensationsgeschäft ein, das unsere moderne Kultur den Männern anbietet: »Seid sensible, sanfte Ehemänner und fürsorgliche Väter – am Samstag dürft ihr dann auf den Fußballplatz und am Sonntag die Formel eins im Fernsehen verfolgen: heroische Männlichkeit aus zweiter Hand.«

Aber werden solche Männer tatsächlich von den Frauen begehrt? Hier sind erhebliche Zweifel wohl angebracht. Denn so erfolgreich die Frauen auch werden mögen, so wenig wollen sie als männliches Pendant den Windelwechsler und Küchenausfeger, sie wollen vielmehr einen echten Mann!

Die meisten Frauen verachten »schwache Typen« gar, spätestens, wenn es um ihre eigene Beziehung geht. So ist es ja umgekehrt auch kaum vorstellbar, dass eine Frau einen Partner vorzieht, der sich von anderen Männern dominieren lässt, der also nicht in der Lage ist, sich Respekt und Achtung zu verschaffen. Frauen wollen Männer, die erfolgreich sind. Weicheier jedoch sind weit von Erfolgs- und Überlebensstrategien entfernt. Die Evolutionsforschung ist da eindeutiger und klarer, so Norbert Bolz: »Frauen tauschen Sex gegen Ressourcen, während Männer Ressourcen gegen Sex tauschen. Das funktioniert aber nur unter Bedingungen strikter Geschlechterasymmetrie – in der modernen Gesellschaft also: nicht!«

Die Untersuchung der amerikanischen Hirnforscherin Louann Brizendine in ihrem Buch Das weibliche Gehirn weist überzeugend nach, dass männliche und weibliche Gehirne sich wesentlich unterscheiden, was eine Fülle von spezifischen Wahrnehmungs- und Verhaltensweisen nach sich zieht. So ist beispielsweise das Sprachzentrum der Frauen ungleich stärker herausgebildet, als das der Männer. Louann Brizendine formuliert dies äußerst humorvoll: Dort, wo die Sprache verarbeitet wird, existiere bei Frauen gewissermaßen ein mehrspuriger Highway, bei den Männern dagegen nur eine schmale Landstraße.

Was im naturwissenschaftlichen Zusammenhang als Tatsache hingenommen wird, gilt aber plötzlich als rückständig, wenn es um die sozialen Beziehungen geht. Eine ernsthafte Betrachtung der klassischen Geschlechterbestimmungen ist heute längst in den Hintergrund gerückt und so gut wie überhaupt nicht mehr möglich. Politisch und gesellschaftlich korrekt und gewollt ist vielmehr das Herbeiführen »modernerer Verhaltensweisen«, die Mann und Frau gleichmachen.

Es geht nicht mehr um Respekt für »das Andere« bzw. »den Anderen« oder um den Mann an sich, sondern um Gleichberechtigung für Frauen. Die Medien tragen kräftig zu dieser Sicht der Dinge bei: Sie fördern einseitig das Erfolgsmodell »berufstätige Mutter«, die Multitaskerin, die Kind, Küche und Karriere locker unter einen Hut bringt. Frauen, die Familien- und Hausarbeit leisten, werden als fantasielos, rückständig und dumm dargestellt. Die Medien verleugnen und missachten damit häufig zugleich den Erfolg berufstätiger Väter, die eine ganze Familie mit ihrer Erwerbsarbeit ernähren. Das »Allein-Ernährer-Modell« wird nur noch selten honoriert, selbst da, wo es funktioniert, stehen die Männer schnell unter dem Verdacht, typische Unterdrücker zu sein. 

Umgekehrt fordern jetzt auch immer mehr Männer, dass Frauen ihr eigenes Geld dazu verdienen sollen. So wird aus dem einstigen Emanzipationswunsch der Frauen, die ihre Berufstätigkeit als Beweis für Selbstbestimmtheit und Selbstverwirklichung betrachteten, ein Bumerang. Im Klartext: Frauen, die auch nur für wenige Jahre aus der Erwerbstätigkeit aussteigen möchten, um sich um die Familie zu kümmern, gelten nun als Drohnen.

Was diese Gesellschaft erlebt, ist eine erschreckende Mobilmachung der Ressource Frau für den Arbeitsmarkt. Um das zu rechtfertigen, müssen die Männer herhalten: »Väter sind mindestens ebenso gut für die Erziehungsarbeit der Kleinsten qualifiziert wie die Mütter und sollten diese auch unbedingt wahrnehmen«, befand die amtierende Bundesfamilienministerin. Eine Schutzbehauptung, die Frauen zur Erwerbstätigkeit motivieren soll.

Wenn die Männer als Kinderbetreuer eingesetzt werden, ist das allerdings nicht so simpel, wie die Rollentauschfantasie der Ministerin es glauben machen will.

Und die Männer? Sie schweigen. Sie wollen nicht mehr reden. Sie wollen sich vor allem nicht mehr verteidigen. Sie wollen nicht mehr die willigen Versuchskaninchen in einem gesellschaftlichen Experiment sein, dem sie ihre Wünsche und ihre Identität opfern sollen. Hinter ihnen liegt oft ein Hindernis-Parcours der Streitigkeiten und Auseinandersetzungen, die alle Liebe, alles Vertrauen, alle Selbstverständlichkeit aus den Beziehungen vertrieben haben. Achselzuckend gehen sie ihrer Wege, überzeugt, dass sie eine feste Beziehung nicht mehr ertragen können.

Die moderne Gesellschaft täte gut daran, sich endlich entschieden gegen die durch die künstliche Geschlechterwelt der durch Feminismus und Gender-Mainstreaming übergestülpten Programme zur Wehr zu setzen, um den für alle Gesellschaften natürlichen Ausgleich durch das männliche und das weibliche Prinzip zurückzuerobern und als für alle Zeiten notwendiges Überlebensprogramm festzuschreiben. Anderenfalls kann man getrost für die Spezies Mensch schwarz sehen!

 

Mittwoch, 17.02.2010

Kategorie: Allgemeines, Wissenschaft, Politik

© Das Copyright dieser Seite liegt, wenn nicht anders vermerkt, beim Kopp Verlag, Rottenburg


Dieser Beitrag stellt ausschließlich die Meinung des Verfassers dar. Er muß nicht zwangsläufig die Meinung des Verlags oder die Meinung anderer Autoren dieser Seiten wiedergeben.

mercredi, 24 février 2010

Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity

Dr. Sunic' Newest Book !

Paperback: 224 pages
Publisher: Iron Sky Publishing; 1ST edition (February 11, 2010)
ISBN-10: 0956183522
ISBN-13: 978-0956183521
 
 
 
Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity (collected Essays)
 
 
 
 

Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity

(collected Essays) (Paperback)

Tomislav Sunic (Author), MacDonald Kevin (Foreword)

Editorial Reviews

Product Description

Tomislav Sunic is one of the leading scholars and exponents of the European New Right. A prolific writer and accomplished linguist in Croatian, English, French, and German, his thought synthesizes the ideas of Oswald Spengler, Carl Schmitt, Vilfredo Pareto, and Alain de Benoist, among others, exhibiting an elitist, neo-pagan, traditionalist sensibility. A number of themes have emerged in his cultural criticism: religion, cultural pessimism, race and the Third Reich, liberalism and democracy, and multiculturalism and communism. This book collects Dr. Sunic’s best essays of the past decade, treating topics that relate to these themes. From the vantage point of a European observer who has experienced the pathology of liberalism and communism on both sides of the Iron Curtain, Dr. Sunic offers incisive insights into Western and post-communist societies and culture. Always erudite and at times humorous, this highly readable postmortem report on the death of the West offers a refreshing, alternative perspective to what is usually found in the cadaverous Freudo-Marxian scholasticism that rots in the dank catacombs of postmodern academia.

 

T. Sunic: Amérique réelle, Amérique hyperréelle

784881219860107.jpg

Synergies Européennes – Bruxelles / Zagreb – février 2009

 

Tomislav SUNIC :

Amérique réelle, Amérique hyperréelle

 

Un phénomène important est survenu dans les relations entre les élites américaines détentrices du pouvoir et les élites médiatiques. Au début du 21ème siècle, l’Amérique, contrairement aux autres pays européens, se vante ouvertement qu’elle garantit une liberté d’expression totale. Pourtant, les médias américains osent rarement soulever des thématiques considérées comme contraires à l’esprit postmoderne de l’américanisme. De fait, la « médiacratie » américaine postmoderne opère de plus en plus en liaison avec le pouvoir exécutif de la classe dominante. Cette cohabitation se déroule sur un mode mutuellement correcteur, où les uns posent des critères éthiques pour les autres et vice-versa. Les principales chaînes de télévision et les principaux journaux d’Amérique, comme CNN, The New York Times ou The Washington Post suggèrent aux hommes politiques la ligne à suivre et vice-versa ou, pour un autre sujet, les deux fixent de concert les critères du comportement politique général qu’il faudra adopter. Parmi les citoyens américains, l’idée est largement répandue que les médias représentent un contre-pouvoir face au système et que, de par leur vocation, ils doivent être par définition hostiles aux décisions prises par les élites au pouvoir. Mais en réalité, les médias américains ont toujours été les porte-paroles et les inspirateurs du pouvoir exécutif, bien que d’une manière anonyme, sans jamais citer les noms de ceux qui, au départ de la sphère gouvernementale, leur filaient des tuyaux. Depuis la première guerre mondiale, les médias américains ont eu une influence décisive, dans la mesure où ils ont créé l’ambiance psychologique qui a précédé et soutenu la politique étrangère américaine, en particulier en poussant les politiques américains à bombarder au phosphore les villes européennes pendant la seconde guerre mondiale. La même stratégie, mais avec une ampleur réduite, a été suivie, partiellement, par les médias américains lors de l’engagement US en Irak en 2003.

 

Médias et classe dominante : opérations conjointes

 

Dans le choix des mots, la classe dominante américaine et ses courroies de transmission dans les médias et l’industrie de l’opinion ne fonctionnent plus d’une manière disjointe et exclusive l’une de l’autre ; elles opèrent conjointement dans le même effort pédagogique de « répandre la démocratie et la tolérance » dans le monde entier. « Qu’il y ait ou non un soutien administratif au bénéfice des médias », écrit Régis Debray, « ce sont les médias qui sont les maîtres de l’Etat ; l’Etat doit négocier sa survie avec les faiseurs d’opinion » (1). Debray, figure de proue parmi les théoriciens de la postmodernité, ne révèle au fond rien de neuf, sauf que dans la « vidéo-politique » postmoderne, comme il l’appelle, et qui est distillée par les médias électroniques modernes, les mensonges des politiciens semblent plus digérables qu’auparavant. En d’autres mots, le palais présidentiel n’a plus d’importance politique décisive ; c’est la tour de la télévision qui est désormais en charge de la « haute politique ». L’ensemble des discours et récits politiques majeurs ne relève plus de la « graphosphère » ; il entre dans le domaine de la « vidéosphère » émergente. En pratique, cela signifie que toutes les absurdités que pense ou raconte le politicien n’ont plus aucune importance de fond : quel que soit leur degré de sottise, il faut qu’elles soient bien présentées, qu’elles suscitent l’adhésion, comme sa propre personne, sur les écrans de la télévision. Il peut certes exister des différences mineures entre la manière dont les médias, d’une part, et la classe dominante américaine, d’autre part, formulent leur message, ou entre la façon dont leur efforts correcteurs réciproques se soutiennent mutuellement, il n’en demeure pas moins vrai que la substance de leurs messages doit toujours avoir le même ton.

 

La télévision et les médias visuels ont-ils changé l’image que nous avons du monde objectif ? Ou la réalité du monde objectif peut-elle être saisie, si elle a été explicitée autrement qu’elle ne l’est par les médias ? Les remarques que les universitaires ou d’autres hommes politiques formulent et qui sont contraires aux canons et aux vérités forgées par les médias se heurtent immédiatement à un mur de silence. Les sources et informations rebelles, qui critiquent les dogmes de la démocratie et des droits de l’homme, sont généralement écartées des feux de la rampe. C’est vrai surtout pour les écrivains ou journalistes qui remettent en question l’essence de la démocratie américaine et qui défient la légitimité du libre marché.

 

Significations à facettes multiples

 

Les hommes politiques américains contemporains ont de plus en plus souvent recours à des références voilées derrière un méta-langage hermétique, censé donner à ses locuteurs une aura de respectabilité. Les hommes politiques postmodernes, y compris les professeurs d’université, ont recours, de plus en plus, à une terminologie pompeuse d’origine exotique, et leur jargon se profile souvent derrière une phraséologie qu’ils comprennent rarement eux-mêmes. Avec la propagation rapide du méta-discours postmoderne au début du 21ème siècle, la règle, non écrite, est devenue la suivante : le lecteur ou le spectateur, et non plus l’auteur, devraient devenir les seuls interprètes de la vérité politique. A partir de maintenant, le lexique politique est autorisé à avoir des significations à facettes multiples. Mais, bien sûr, cela ne s’applique pas au dogme du libre marché ou à l’historiographie moderne, qui doit rester à tout jamais en un état statique. Le discours postmoderne permet à un homme politique ou à un faiseur d’opinion de feindre l’innocence politique. De cette manière, il est libre de plaider l’ignorance si ses décisions politiques débouchent sur l’échec. Ce plaidoyer d’ignorance, toutefois, ne s’applique pas s’il osait tenter ou s’il désirait déconstruire le proverbial signifiant « fascisme » qui doit rester le référent inamovible du mal suprême.

 

Dans un essai de 1946, un an après la défaite totale du national-socialisme, Orwell notait combien le mot « fascisme » avait perdu sa signification originelle : « il n’a maintenant plus aucune signification sauf dans la mesure où il désigne quelque chose qui n’est pas désirable » (…). On peut dire la même chose d’un vaste éventail de référents postmodernes, y compris du terme devenu polymorphe de « totalitarisme », qui date du début des années 20 du siècle passé, quand il est apparu pour la première fois et n’avait pas encore de connotation négative. Et qui sait s’il aura toujours cette connotation négative si on part du principe que le système américain, monté en épingle, pourrait, en cas d’urgence, utiliser des instruments totalitaires pour garantir sa survie ? Si l’Amérique devait faire face à des affrontements interraciaux de grande ampleur (on songe aux clivages raciaux de grande envergure après les dévastations causées par l’ouragan Katrina à la Nouvelle Orléans en 2005, qui pourrait être le prélude de plus graves confrontations ultérieures), elle devra fort probablement adopter des mesures disciplinaires classiques, telles la répression policière et la loi martiale. On peut imaginer que la plupart des théoriciens postmodernes n’émettraient aucune objection à l’application de telles mesures, bien qu’ils esquiveront probablement le vocable « totalitaire ».

 

Incantations abstraites

 

Il y a longtemps, Carl Schmitt théorisa et explicita une vérité vieille comme le monde. Notamment, que les concepts politiques acquièrent leur véritable signification si et seulement si l’acteur politique principal, c’est-à-dire l’Etat et sa classe dominante, se retrouvent dans une situation d’urgence soudaine et imprévue. Dans ce cas, toutes les interprétations usuelles des vérités posées jusqu’alors comme « allant de soi » deviennent obsolètes. On a pu observer un tel glissement après l’attaque terroriste du 11 septembre 2001 à New York (un événement qui n’a pas encore été pleinement élucidé) ; la classe dirigeante américaine a profité de cette occasion pour redéfinir la signification légale d’expressions comme les « droits de l’homme » et la « liberté de parole ». Après tout, la meilleure façon de limiter les droits civiques concrets n’est-elle pas d’abuser d’incantations abstraites sur les « droits de l’homme » et sur la « démocratie » ? Avec la déclaration possible d’un état d’urgence à grande échelle dans l’avenir, il semble tout à fait probable que l’Amérique finira par donner de véritables significations à son vocabulaire politique actuel. Pour les temps présents, toutefois, la postmodernité américaine peut se décrire comme une sémantique transitoire et un engouement esthétique parfaitement idoine pour assumer une surveillance dans les sphères académiques et politiques, sous le masque d’un seul terme : celui de « démocratie ».

 

Contrairement au mot, le concept de postmodernité désigne un fait politique ou social qui, selon diverses circonstances, signifie tout et le contraire de tout, c’est-à-dire, finalement, rien du tout. La postmodernité est tout à la fois une rupture avec la modernité et sa continuation logique sous une forme hypertrophiée. Mais, comme nous avons déjà eu l’occasion de le noter, en termes de dogme égalitaire, de multiculturalisme et de religion du progrès, le discours postmoderne est resté le même que le discours de la modernité. Le théoricien français de la postmodernité, Gilles Lipovetsky, utilise le terme d’hypermodernité lorsqu’il parle de la postmodernité. La postmodernité est hypermodernité dans la mesure où les moyens de communication défigurent et distordent tous les signes politiques, leur font perdre toutes proportions. De ce fait, quelque chose que nous allons considérer comme hypermoderne doit simultanément être considéré comme ‘hyperréel’ ou ‘surréel’ ; c’est donc un fait gonflé par une prolifération indéfinie de mini-discours ; des mémoires historiques et tribales travesties en panégyriques aux commémorations de masses honorant les morts de la guerre. De nouveaux signes et logos émergent, représentant la nature diversifiée du système mondial américanisé. Lipovetsky note que « très bientôt, il n’y aura plus aucune activité particulière, plus aucun objet, plus aucun lieu qui n’aura pas l’honneur d’un musée institué. Depuis le musée de la crêpe jusqu’à celui des sardines, depuis le musée d’Elvis Presley jusqu’à celui des Beatles » (2). Dans la postmodernité multiculturelle, tout est objet de souvenir surréel et aucune tribu, aucun style de vie ne doit se voir exclu du circuit. Les Juifs se sont déjà taillé une position privilégiée dans le jeu global des cultes de la mémoire ; maintenant, c’est au tour d’une myriade d’autres tribus, de styles de vie ou de divers groupes marginaux cherchant à recevoir leur part du gâteau de la mémoire globale.

 

Obsession de la « race »

 

Officiellement, dans l’Amérique multiculturelle, il n’y a ni races ni différences raciales. Mais les quotas de discrimination positive (« affirmative action ») et l’épouvantail du racisme ramènent sans cesse le terme ‘race’ à l’avant-plan. Cette attitude qui se voit rejetée, de manière récurrente, par l’établissement postmoderne américain, est, de fait, une obsession ressassée à l’infini. Les minorités raciales réclament plus de droits égaux et se font les avocates de la diversité sociale ; mais dans les termes mêmes de leurs requêtes, elles n’hésitent jamais à mettre en exergue leur propre ‘altérité’ et le caractère unique de leur propre race. Si leurs requêtes ne sont suivies d’aucun effet, les autorités courent le risque de se faire accuser d’ ‘insensibilité’. De ce fait, pourquoi n’utiliserait-on pas, dès maintenant, les termes d’Hyper-Amérique hyperraciale ? Ce qui importe, ici, c’est que le lecteur saisisse ces termes dans leur sens aléatoire car la postmodernité, selon les circonstances, peut se donner des significations contradictoires.

 

L’Amérique est un pays aussi moderne qu’il a voulu l’être. La modernité et la religion du progrès font partie du processus historique qui l’a créé. En même temps, toutefois, les éléments méta-statiques de la postmodernité, en particulier l’ ‘overkill’, les tueries excessives, que l’on voit à satiété dans les médias, sont désormais visibles partout. La postmodernité a ses pièges. Afin de les éviter, ses porte-paroles font usage d’approches particulières du discours moderne en recourant à des qualifiants apolitiques et moins connotés. Dans le monde postmoderne, écrit Lipovetsky, « on note la prédominance de la sphère individuelle sur la sphère universelle, du psychologique sur l’idéologique, de la communication sur la politisation, de la diversité sur l’homogénéité, de la permissivité sur la coercition » (3). De même, certaines questions sociales et politiques apparaissent désormais sous les feux de rampe alors qu’elles étaient totalement ignorées et inédites au cours des dernières décennies du 20ème siècle.  L’éventuelle impuissance sexuelle d’un candidat à la présidence  est désormais considérée comme une événement politique de premier plan —souvent plus que sa manière de traiter un thème important de la criminalité publique. La mort d’un enfant en bas âge dans une Afrique ravagée par les guerres en vient à être considérée comme une affaire nationale urgente. Même le supporter le plus ardent du multiculturalisme aurait eu grand peine à imaginer, jadis, les changements phénoménaux qui se sont opérés dans le discours pan-racialiste des élites américaines. Même le progressiste américain le plus optimiste de jadis, avocat de la consommation à outrance, n’aurait jamais imaginé une telle exhibition colossale de permissivité langagière ni l’explosion de millions de signes de séduction sexuelle. Tout chose se mue en sa forme plus « soft » que suggère la nouvelle idéologie ; depuis l’idéologie du sexe jusqu’à la nouvelle religion du football en passant par la croisade idéologique contre le terrorisme réel ou imaginaire.

 

Transformations sémantiques

 

La culture de masse à l’âge de la néo-postmodernité, comme l’écrit Ruby, facilite le développement d’un individualisme extrême, au point où la plus petite parcelle d’une existence humaine doit dorénavant être perçue comme une commodité périssable ou hygiénique. « La personnalité de quelqu’un est jugée d’après la blancheur de ses incisives, d’après l’absence de la moindre gouttelette de sueur aux aisselles, de même d’après l’absence totale d’émotion » (4). La culture des mots en langue anglaise a, elle aussi, été sujette à des transformations sémantiques. Actuellement, ces mots transformés existent pour désigner des styles de vie différents et n’ont plus rien en commun avec leur signification d’origine. C’est pourquoi on pourrait tout aussi bien appeler l’Amérique postmoderne « Amérique hypermoderne », désignation qui suggère que, dans les années à venir, il y aura encore plus d’hyper-narrations tournant autour de l’hyper-Amérique et du monde « hyper-américanisé ».

 

Et qu’est-ce qui viendra après la postmodernité ? « Tout apparaît », écrit Lipovetsky, « comme si nous étions passés d’un âge ‘post’ à un âge ‘hyper’ ; une nouvelle société faite de modernité refait surface. On ne cherche plus à quitter le monde de la tradition pour accéder à la modernité rationnelle mais à moderniser la modernité, à rationaliser la rationalisation » (5). Nous avons donc affaire à la tentative d’ajouter toujours du progrès, toujours de la croissance économique, toujours des effets télévisés spéciaux pour, imagine-t-on, nourrir l’existence de l’Amérique hyperréelle. Le surplus de symbolisme américain doit continuer à attirer les désillusionnés de toutes races et de tous styles de vie, venus de tous les coins du monde. N’importe quelle image télévisée ou n’importe quelle historiette de théâtre sert désormais de valeur normative pour une émulation quelconque à l’échelle du globe  —ce n’est plus le contraire. D’abord, on voit émerger une icône virtuelle américaine, généralement par le truchement d’un film, d’un show télévisé ou d’un jeu électronique ; ensuite, les masses commencent à utiliser ces images pour conforter leur propre réalité locale. C’est la projection médiatique de l’Amérique hyperréelle qui sert dorénavant de meilleure arme propagandiste pour promouvoir le rêve américain. Nous voyons se manifester un exemple typique de l’hyperréalité américaine lorsque la classe politique américaine prétend que toute erreur générée par son univers multiculturel ou tout flop dans son système judiciaire tentaculaire pourrait se réparer en amenant dans le pays encore plus d’immigrants, en cumulant encore davantage de quotas raciaux ou en gauchisant encore plus ses lois déjà gauchistes. En d’autres termes, la hantise d’une balkanisation du pays, qu’elle ressent, elle croit pouvoir s’en guérir en introduisant encore plus de diversité raciale et en amenant encore plus d’immigrants de souche non européenne. De même, les flops du libre marché, de plus en plus visibles partout en Amérique, elle imagine qu’elle leur apportera une solution, non pas en jugulant la concurrence sur le marché, mais en acceptant encore davantage de concurrence grâce à plus de privatisations, en encourageant plus encore la dérégulation économique, etc. Cette caractéristique de l’ ‘overkill’, de la surenchère postmoderne est l’ingrédient constitutif principal de l’idéologie américaine, qui semble avoir trouvé son rythme accéléré au début de l’âge postmoderne. Jamais il ne vient à l’esprit de l’élite américaine que le consensus social dans une Amérique multiraciale ne pourra s’obtenir par décret. Pourtant, si l’on recourrait à des politiques contraires à tous ces efforts hyperréels en lice, cela pourrait  signifier la fin de l’Amérique postmoderne.

 

Tout doit pouvoir s’expliquer selon des formules toute faites

 

Déjà à la fin du 20ème siècle, l’Amérique a commencé à montrer des signes d’obésité sociale. C’est la nature irrationnelle de la croyance au progrès qui a crû démesurément à la manière des métastases et qui, de ce fait, annonce, le cas échéant, la fin de l’Amérique. Lash notait, il y a déjà pas mal d’années, que tout à la fin du 20ème siècle, les narcisses américains savoureraient les plaisirs sensuels et se vautreraient dans toutes les formes d’auto-gratification. ‘Prendre du plaisir’ est une option qui a toujours fait partie des prescrits de l’idéologie américaine. Cependant le narcisse américain postmoderne à la recherche du plaisir, comme le nomme Lipovetsky, a d’autres soucis actuellement. Son culte du corps et l’amour qu’il porte à lui-même ont conduit à des crises de panique et des anxiétés de masse : « L’obsession à l’égard de soi se manifeste moins dans la joie fébrile que dans la crainte, la maladie, la vieillesse, la ‘médicalisation’ de la vie » (6). Dans l’Amérique hyperrationnelle, tout doit absolument s’expliquer et s’évacuer à l’aide de formules rationnelles, peut importe qu’il s’agisse de l’impuissance sexuelle d’une personne particulière ou de l’impuissance politique du président des Etats-Unis. La nature imprévisible de la vie représente le plus gros danger pour l’homo americanus parce qu’elle ne lui offre pas sur plateau une formule rationnelle pour lui dire comment éviter la mort ; l’imprévisibilité de la vie défie par conséquent la nature intrinsèque de l’américanisme. Tout effraye l’homme américain aujourd’hui : du terrorisme au rabougrissement de son plan retraite ; de l’immigration de masse incontrôlée à la perte probable de son emploi. Ce serait gaspiller du temps de dénombrer et de chiffrer les maux sociaux américains en ce début de troisième millénaire : songeons à la pédophilie, à la toxicomanie, à la criminalité violente, etc. Le nombre de ces anomalies croîtra de manière exponentielle si la marche en avant du progressisme postmoderne américain se poursuit.

 

Tout est copie grotesque de la réalité

 

Chaque postmoderne utilise un méta-langage qui lui est propre et donne sa propre interprétation aux significations de l’histoire. Si nous acceptons la définition de la postmodernité que nous livre le théoricien français Jean Baudrillard, alors tout dans l’Amérique postmoderne est une copie grotesque de la réalité. L’Amérique aurait donc fonctionné depuis 1945 comme un gigantesque photocopieur xérographique, produisant une méta-réalité, qui correspond non pas à l’Amérique telle qu’elle est mais à l’Amérique telle qu’elle devrait être pour le bénéfice du globe tout entier. La seule différence est la suivante : à l’aube du 21ème siècle, le rythme doux et allègre de l’histoire de jadis s’est modifié continuellement, s’est mis à s’accélérer pour passer à la cinquième vitesse. Les événements se déroulent à la vitesse d’une bobine de film, comme détachés de toute séquence historique réelle, et s’accumulent inlassablement jusqu’à provoquer un véritable chaos. Selon Baudrillard, qui est à coup sûr l’un des meilleurs observateurs européens de l’américanisme, l’hyperréalité de l’Amérique a dévoré la réalité de l’Amérique. C’est pourquoi une question doit être posée : pour parachever le rêve américain, les Américains du présent et de l’avenir ne sont-ils pas sensés vivre dans un monde de rêve projeté ? L’Amérique ne se mue-t-elle pas dans ce cas en une sorte de « temps anticipatif » (« a pretense »), en une sorte de fiction, de métaréalité ? L’Amérique a-t-elle dès lors une substance, étant donné que l’américanisme, du moins aux yeux de ses imitateurs non américains, fonctionne seulement comme un système à faire croire, c’est-à-dire comme une « hypercopie » de son soi propre, toujours projeté et embelli ? Dans le monde virtuel et postmoderne d’internet et de l’informatique, toute mise en scène d’événements réels en Amérique procède toujours déjà d’un modèle de remise en scène antérieur et prêt à l’emploi, sensé servir d’instrument pédagogique pour différents projets contingents. Par exemple, les élites militaires américaines disposent de toutes sortes de formules possibles pour tous cas d’urgence qui surviendrait, en n’importe quel endroit du monde. On peut dès lors parier en toute quiétude qu’un scénario, selon l’une ou l’autre de ces nombreuses formules, pourra aisément correspondre à un événement réel sur le terrain. En bref, raisonne Baudrillard, dans un pays constitué de millions d’événements « fractaux », bien que surreprésentés et rejoués à satiété comme ils le sont, tout se mue en un non événement. La postmodernité rend triviales toutes les valeurs, même celles qu’elle devrait honorer pour sa propre survie politique !

 

De nouvelles demandes sociales émergent sans fin

 

L’Amérique et sa classe dirigeante pourraient peut-être un jour disparaître, ou, même, l’Amérique pourrait se fractionner en entités étatiques américaines de plus petites dimensions ; dans l’un ou l’autre de ces cas, l’hyperréalité américaine, cependant, continuera à séduire les masses partout dans le monde. L’Amérique postmoderne doit demeurer le pays de la séduction, même si cette séduction fonctionne davantage auprès des masses non européennes et moins auprès des Américains de souche européenne qui, en privé, rêvent de se porter vers d’autres Amériques, non encore découvertes. Dans un pays comme l’Amérique, écrit Baudrillard, « où l’énergie de la scène publique, c’est-à-dire l’énergie qui crée les mythes sociaux et les dogmes, est en train de disparaître graduellement, l’arène sociale devient obèse et monstrueuse ; elle se dilate comme un corps mammaire ou glandulaire. Jadis, cette scène publique s’illustrait par ses héros, aujourd’hui elle s’indexe sur ses handicapés, ses tarés, ses dégénérés, ses asociaux —tout cela dans un gigantesque effort de maternage thérapeutique » (7). Les marginalisés de la société et les marginaux tout court sont devenus des modèles, qui ont un rôle à jouer dans la postmodernité américaine. La « vérité politique » est d’ores et déjà devenue une thématique de la scène privée et émotionnelle, dans le sens où le membre d’une secte religieuse ou le porte-paroles d’un quelconque « lifestyle » (mode de vie) peut émettre sans frein ses jugements politiques nébuleux. Un toqué bénéficie d’autant de liberté de beugler publiquement ses opinions politiques que le professeur d’université. Il arrive qu’un serial killer devienne une superstar de la télévision, aussi bien avant qu’après ses bacchanales criminelles. En fait, comme la quête de diversité ne cesse de s’élargir, de nouveaux groupes sociaux, et, avec eux, de nouvelles demandes sociales émergent sans fin. Le stade thérapeutique de la post-Amérique, comme l’appelle Gottfried, est le système idéal pour étudier tous les comportements pathologiques.

 

En ces débuts du 21ème siècle, les postmodernistes aiment exhorter tout un chacun à remettre en question tous les paradigmes et tous les mythes politiques, mais, en même temps, ils adorent chérir leurs propres petites vérités étriquées ; notamment celles qui concerne l’une ou l’autre « vérité » de nature ethnique ou relevant des fameux « genders ». Ils continuent à se faire les avocats des programmes d’ « affirmative action » (= de « discrimination positive »), destinés à « visibiliser » les modes de vie non européens et à valoriser les narrations autres, généralement hostiles aux Blancs. Le terme « diversité » est devenu le mot magique des postmodernistes : c’est une diversité basée sur une légitimation négative, dans le sens où elle rejette toute diversité d’origine européenne en mettant l’accent sur la nature soi-disant mauvaise de l’interprétation que donne l’homme blanc de l’histoire.

 

Les narrations postmodernes ne peuvent être soumises à critique

 

Bien que la plupart des postmodernistes tentent de déconstruire la modernité en utilisant l’œuvre de Frédéric Nietzsche et en s’en servant de fil d’Ariane, ils persistent à soutenir leurs propres ordres du jour, micro-idéologiques et infra-politiques, basés sur la valorisation d’autres races et de modes de vie différents. Ce faisant, ils rejettent toute autre interprétation de la réalité, surtout les interprétations qui heurtent de front le mythe omniprésent de l’américanisme. L’approche intellectuelle sous-tendant leurs micro-vérités ou leurs micro-mythes ne peut être soumise à critique, en aucun circonstance. Leurs narrations demeurent les fondements sacro-saints de leur postmodernité. Pour l’essentiel, la narration de chaque tribu ou de chaque groupe apparaît comme un gros mensonge commis sur le mode horizontal, ce qui a pour effet que chacun de ces mensonges élimine la virulence d’un autre mensonge concurrent. Le protagoniste d’un mode de vie quelconque et bizarre, présent sur la scène américaine, sait pertinemment bien que sa narration relève de la fausse monnaie ; mais il doit faire semblant de raconter la vérité. Finalement, et dans le fond, le discours de la postmodernité est un grand discours de méta-mensonge, de méta-tromperie.

 

Si vous adoptez la logique de la postmodernité permissive et la micro-narration hyperréelle d’un zélote religieux ou d’un quelconque tribal de la planète postmoderne, indépendamment du fait qu’il souhaite ou non devenir l’hôte d’un talk show télévisé, ou devenir une star du porno, ou le porte-paroles imaginaire d’une guérilla, alors vous devez implicitement accepter également l’idée d’un « post-démocratie », d’un « post-libéralisme », d’une ère « post-holocaustique » et d’une « post-humanité » dans une post-Amérique. Comme toutes les grandes narrations de la modernité mourante peuvent être remises en question en toute liberté, on peut trouver plein de bonnes raisons pour remettre en question et pour envoyer aux orties la grande narration qui se trouve à la base de la démocratie américaine. En utilisant le même tour de passe-passe, on pourrait remettre au goût du jour en Amérique des penseurs, des auteurs et des hommes de science qui, depuis la fin de ce Sud antérieur à la guerre civile ou, plus nettement encore, depuis la fin de la seconde guerre mondiale en Europe, ont été houspillés dans l’oubli ou ont été dénoncés comme « racistes », bigots ou « fascistes » ou ont reçu l’un ou l’autre nom d’oiseau issu de la faune innombrable de tous ceux que l’on a campés comme exclus. Les auteurs postmodernes évitent toutefois avec prudence les thèmes qui ont été dûment tabouisés. Ils se rendent compte que dans la « société la plus libre qui soit », les mythes antifascistes et anti-antisémites doivent continuer à prospérer.

 

Tomislav SUNIC.

(extrait du livre « Homo Americanus – Child of the Postmodern Age », publié à compte d’auteur, 2007, ISBN 1-4196-5984-7, pp. 146 à 156 ; trad. franc. : Robert Steuckers). 

 

Notes :

(1)    Régis DEBRAY, Cours de médiologie générale, Gallimard, 1991, p. 303.

(2)    Gilles LIPOVETSKY/Sébastien CHARLES, Les temps hypermodernes, Grasset, 2004, p. 124.

(3)    Gilles LIPOVETSKY, L’ère du vide, Gallimard, 1983.

(4)    Christian RUBY, Le champ de bataille postmoderne, néo-moderne, L’Harmattan, 1990.

(5)    Gilles LIPOVETSKY/Sébastien CHARLES, Les temps hypermodernes, Grasset, 2004, p. 78.

(6)    Ibidem, p. 37.

(7)    Jean BAUDRILLARD, Les stratégies fatales, Grasset, 1983, p. 79. 

dimanche, 21 février 2010

La leçon du philosophe et sociologue Hans Freyer

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

La leçon du sociologue et philosophe Hans Freyer

Ex: http://vouloir.hautetfort.com/

 


freyer.jpgPour Hans Freyer (1887-1969), sociologue allemand néo-conservateur (« jeune-conservateur », jungkonservativ) qui sort du purgatoire où l'on avait fourré tous ceux qui ne singeaient pas les manies de l'École de Francfort ou ne paraphrasaient pas Saint Habermas, la virtù de Machiavel n'est pas une "vertu" ou une qualité statique mais une force qui n'attend qu'une chose : se déployer dans l'aire concrète de la Cité, dans l'épaisseur de l'histoire et du politique. Fondateur de l’École de Leipzig, d’où seront issus les meilleurs cadres de la sociologie historique de Weimar (il est parmi les fondateurs, avec Werner Conze, de la nouvelle histoire sociale allemande), puis de la sociologie nazie et une grande partie des sociologues conservateurs allemands d’après-Guerre (not. Helmuth Schelsky), ce sociologue a une solide formation de philosophe, dont l’ouvrage fondateur, Theorie des objektiven Geistes (1928) qui poursuit les pensées de Hegel et de Wilhelm Dilthey, va préparer le projet sociologique, not. dans son ouvrage Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft (1930), d’une « révolution de droite » qui prendrait acte de l’anomie de la société industrielle et de l’échec de la lutte des classes, en lui opposant un État autoritaire. Ayant pris ses distances avec le nazisme – il sera professeur à Budapest entre 1941 et 1945 – il est l’exemple même du penseur conservateur, du théoricien de cette Révolution conservatrice qui aura grand mal à se justifier au moment de la dénazification. Il n’en est pas moins l’un des premiers sociologues professionnels qui, après la mort de Max Weber et de Georg Simmel, dont il ne cesse de se nourrir de manière critique, va lancer des projets innovateurs en sociologie industrielle, des organisations et de l’administration publique.

 

Victor Leemans, qui avant-guerre avec Raymond Aron introduisit en Belgique et en France les grands noms de la sociologie allemande, écrivait, à propos de Hans Freyer, dans son Inleiding tot de sociologie (Introduction à la sociologie, 1938) :

« Pour Freyer, toute sociologie est nécessairement "sociologie politique". Ses concepts sont toujours compénétrés d'un contenu historique et désignent des structures particulières de la réalité. Dans la mesure où la sociologie se limite à définir les principaux concepts structurels de la vie sociale, elle doit ipso facto s'obliger à prendre le pouls du temps. Elle doit d'autant plus clairement nous révéler les successions séquentielles irréversibles où se situent ces concepts et y inclure les éléments de changement, Les catégories sont dès lors telles : communauté, ville, état (Stand), État (Staat), etc., tous maillons dans une chaîne processuelle concrète et réelle. Ces concepts ne sont pas des idéaltypes abstraits mais des réalités liées au temps. (...)

Selon Freyer, aucune sociologie n'est donc pensable qui ne débouche pas dans la connaissance de la réalité contemporaine. À ce concept de réalité ne s'attache pas seulement la connaissance des structures immédiatement perceptibles mais aussi et surtout la connaissance des volontés de maintien ou de transformation qui se manifestent en leur sein. La connaissance sociologique opte nécessairement pour une direction déterminée découlant d'une connaissance de la Realdialektik (dialectique réalitaire [ou dialectique réelle, c'est-à-dire non simplement discursive])... ».

 

Une sociologie de l'homme total

 

­Malgré cette définition courte de l'œuvre de Freyer, définition qui veut souligner le recours au concret postulé par le sociologue allemand, nous avons l'impression de nous trouver face à un édifice conceptuel horriblement abstrait, détaché de toute concrétude historique. Ce malaise, qui nous saisit lorsque nous sommes mis en présence de l'appareil conceptuel forgé par Freyer, doit pourtant disparaître si l'on fait l'effort de situer ce sociologue dans l'histoire des idées politiques. Avec les romantiques, les jeunes hégéliens (Junghegelianer), Feuerbach et Karl Marx, le XIXe siècle montre qu'il souhaite abandonner définitivement l'homme des humanistes, cet homme perçu comme figure universelle, comme espèce générale dépouillée de sa dimension historico-concrète. Désormais, sous l'influence et les coups de boutoir de ces philosophies concrètes, l'épaisseur historique sera rendue à l'homme : on le percevra comme seigneur féodal, comme serf, bourgeois ou prolétaire.

 

Une « objectivité » qui doit mobiliser l'homme d'action

 

Mais ces hégéliens et marxistes, qui dépassent résolument l'idéalisme fixiste de l'humanisme antérieur au XlXe, demeurent mécaniquement enfermés dans la vision de l'homo œconomicus et n'explorent que chichement les autres domaines où l'homme s'exprime. À cette négligence des matérialistes marxistes répond l'hyper-mépris des économismes d'un Wagner ou d'un Schopenhauer, d'un Nietzsche ou d'un Jakob Burckhardt. L'homme total n'est appréhendé ni chez les uns ni chez les autres. Pour Freyer, les essayistes et polémistes anglais Carlyle et John Ruskin nous ont davantage indi­qué une issue pour échapper à ce rabougrissement de l'homme. Leurs préoccupations ne les entraînaient pas vers des empyrées légendaires, néo-idéalistes ou spiritualistes mais les amenaient à réfléchir sur les moyens de dépasser l'homme capitaliste, de restituer une harmonie entre le travail et la Vie, entre le travail et la création intellectuelle ou artistique.

Dans deux postfaces aux travaux de Freyer sur Machiavel (ou sur l'Anti-Machiavel de Frédéric Il de Prusse), Elfriede Üner nous explique comment fonctionne concrètement la sociologie de Freyer, qui cherche, au-delà de l'abstractionnisme matérialiste marxiste et de l'abstractionnisme humaniste pré-mar­xiste, à restaurer l'homme total. Pour parvenir à cette tâche, la sociologie et le sociologue ne peuvent se contenter de décrire des faits sociaux passés ou présents, mais doivent forger des images mobilisatrices ti­rées du passé et adaptées au présent, images­ qui correspondent à une volition déter­minée, à une volition cherchant à construire un avenir solide pour la Cité.

La méthode de Freyer repose au départ, écrit Elfriede Üner, sur la théorie de "l'esprit objectif" (Theorie des objektiven Geistes). Cette théorie recense les faits mais, simultanément, les coagule en un programme revendicateur et prophétique, indiquant au peuple politique la voie pour sortir de sa misère actuelle. Le sociologue ne saurait donc être, à une époque où le peuple cherche de nouvelles for­mes politiques, un savant qui fuit la réalité concrète pour se réfugier dans le passé : « Qu'il se fasse alors historien ou qu'il se retire sur une île déserte ! », ironisera Freyer. Cette parole d'ironie et d'amertume est réellement un camouflet à la démarche "muséifiante" que bon nombre de sociologues "en chambre" ne cessent de poser.

Les écrits de sociologie politique doivent donc receler une dimension expressionniste, englobant des appels enflammés à l'action. Ces appels aident à forger le futur, comme les appels de Machiavel et de Fichte ont contribué à l'inauguration d'époques historiques nouvelles. Fichte parlait d'un « devoir d'action » (Pflicht zur Tat). Freyer ajoutera l'idée d'un « droit d'action » (Recht zur Tat). « Devoir d'action » et « droit d'action » forment l'épine dorsale d'une doctrine d'éthique poli­tique (Sittenlehre). L'activiste, dans cette optique, doit vouloir construire le futur de sa Cité. Anticipation constructive et audace activiste immergent le sociologue et l'acteur politique dans le flot du devenir historique. L'activiste, dans ce bain de faits bruts, doit savoir utiliser à 100 % les potentialités qui s'offrent à lui. Cette audacieuse mobilisation totale d'énergie, dans les dangers et les opportunités du devenir, face aux aléas, constitue un "acte éthique".

 

Une immersion complète dans le flot de l'histoire

 

L'éthique politique ne découle pas de normes morales abstraites mais d'un agir fécond dans la mouvance du réel, d'une immersion complète dans le flot de l'histoire. L'éthique freyerienne est donc "réalitaire et acceptante". Agir et décider (entscheiden) dans le sens de cette éthique réalitaire, c'est rendre concrètes des potentialités inscrites dans le flot de l'histoire. Freyer inaugure ici un "déterminisme intelligible". Il abandonne le ­concept de "personnalité esthétisante", individualité constituant un petit monde fermé ­sur lui-même, pour lancer l'idée d'une personnalité dotée d'un devoir précis, celui de fonctionner le plus efficacement possible dans un ensemble plus grandiose : la Cité. L'éthique doit incarner dans des images matérielles concrètes, générant des actes et des prestations individuels concrets, pour qu'advienne et se déploie l'histoire.

Selon cette vision freyerienne de l'éthique politique, que doit nécessairement faire sienne le sociologue, un ordre politique n'est jamais statique. Le caractère processuel du politique dérive de l'émergence et de l'assomption continuelles de potentialités historiques. Le développement, le changement, sont les fruits d'un déplacement perpétuel d'accent au sein d'un ordre politique donné, c'est-à-dire d'une politisation subite ou progressive de tel ou tel domaine dans une communauté politique. Le développement et le changement ne sont donc pas les résultats d'un "progrès" mais d'une diversification par fulgurations successives [fractales], jaillissant toutes d'une matrice politico-historique initiale. La  logique du sociologue et du politologue doit donc viser à saisir la dynamique des fulgurances successives qui remettent en question la statique éphémère et nécessairement provisoire de tout ordre politique.

 

Une sociologie qui tient compte des antagonismes

 

Cette spéculation sur les fulgurances à venir, sur le visage éventuel que prendra le futur, contient un risque majeur : celui de voir la sociologie dégénérer en prophétisme à bon marché. Le sociologue, qui devient ainsi "artiste qui cisèle le futur", poursuit, dans le cadre de l'État, l'œuvre de création que l'on avait tantôt attribué à Dieu tantôt à l'Esprit. L'homme, sous l'aspect du sociologue, devient créateur de son destin. Au Dieu des humanistes chrétiens, s'est substitué une figure moins absolue : l'homo politicus... Cette vision ne risque-t-elle pas de donner naissance aux pires des simplismes ?

Elfriede Üner répond à cette objection : la reine Rechtslehre (théorie pure du droit) du libéral Hans Kelsen, idole des juristes contemporains et ancien adversaire de Carl Schmitt, constitue, elle aussi, une "simplification" quelque peu outrancière. Elle n'est finalement que repli sur un formalisme juridique qui détache complètement le système logique, constitué par les normes du droit, des réalités sociales, des institutions objectives et des legs de l'histoire. Rudolf Smend, lui, parlera de la "domination" (Herrschaft) comme de la forme la plus générale d'intégration fonctionnelle et évoquera la participation démocratique des dominés comme une intégration continue des individus dans la forme globale que représente l'État.

Cette idée d'intégration continue, que caressent bon nombre de sociaux-démocrates, évacue tensions et antagonismes, ce que refuse Fre­yer. Si, pour Smend, la dialectique de l'es­prit et de l'État s'opère en circuit fermé, Freyer estime qu'il faut dépasser cette situation par trop idéale et concevoir et forger un modèle de système plus dynami­que, capable de saisir les fluctuations tragi­ques d'une ère faite de révolutions. L'idéal d'une intégration totale s'effectuant progressivement ne permet pas de projeter dans la praxis politique des "futurs imaginés" qui soient réalistes : un tel idéal s'abrite frileusement derrière la muraille protectrice d'un absolu théorique.

 

À droite : utopies passéistes, à gauche : utopies progressistes

 

La dialectique de l'esprit et du politique (de l'État), c'est-à-dire de l'imagination constructive et des impératifs de la Cité, de l'imagination qui répond aux défis de tous ordres et des forces incontournables du politique, n'a reçu, en ce siècle de turbulences incessantes, que des interprétations insatisfaisantes. Freyer estime que la sociologie organique d'Othmar Spann (1878-1950) constitue une impasse, dans le sens où elle opère un retour nostalgique vers la structuration de la société en états (Stände) avec hiérarchisation pyramidale de l'autorité. Cette autorité abolirait les antagonismes et évacuerait les conflits : ce qui indique son caractère finalement utopique. À "gauche", Franz Oppenheimer élabore une sociologie "progressiste" qui évoque une succession de modèles sociaux aboutissent à une société sans classes et sans plus aucun antagonisme : cet espoir banal des gauches s'avère évidemment utopique, comme l'ont indiqué quantité de critiques et de polémistes étrangers à ce messianisme. Freyer renvoie donc dos à dos les utopistes passéistes de droite et les utopistes progressistes de gauche.

Ces systèmes utopiques sont "fermés", signale Freyer longtemps avant Popper, et trahissent ipso facto leur insuffisance fondamentale. Les concepts scientifiques doivent demeurer "ouverts" car l'acteur politique injecte en eux, par son action concrète et par son expérience existentielle, la quintessence innovante de son époque. Freyer privilégie ici l'homo politicus agissant, le sujet de l'histoire. Les acteurs politiques, dans l'opti­que de Freyer, façonnent le temps.

L'idée essentielle de Freyer en matière de sociologie, c'est celle d'une construction pratique ininterrompue de la réalité [les époques sont en relation les unes aves avec les autres dans la dynamique de la continuité historique]. Aux époques politiquement instables, les normes scientifiques (surtout en sciences humaines) sont décrétées obsolètes ou doivent impérativement subir un aggiornamento, une re-formulation. L'histoire est, par suite, un chantier où œuvrent des acteurs-artistes qui, à la façon des expressionnistes, recréent des mondes à partir du chaos, de ruines. Freyer, écrit Elfriede Üner, glorifie, un peu mythiquement, l'homme d'action.

 

Le peuple (Volk) est le dépositaire de la virtù

 

Le personnage de Machiavel, analysé méthodiquement par Freyer, a projeté dans l'histoire des idées cette notion expressionniste/ créatrice de l'action politico-historique. Le concept machiavelien de virtù, estime Freyer, ne désigne nullement une "vertu morale statique" mais représente la force, la puissance de créer un ordre politique et le maintenir. Virtù recèle dès lors une qualité "processuelle", écrit Elfriede Üner. Par le biais de Machiavel, Freyer introduit, dans la science sociologique jusqu'alors "objective" et statique à la Comte, un ferment de nietzschéisme, dans le sens où Nietzsche voyait l'existence humaine comme un imperfectum qui ne pouvait jamais être "parfait" mais qu'il fallait sans cesse façonner et travailler.

Le "peuple", dans la vision freyerienne du social et du politique, est, grâce à sa mémoire historique, le dépositaire de la virtù, c'est-à-dire de la "force créatrice d'histoire". Le peuple suscite des antagonismes quand les normes juridiques et/ou institutionnelles ne correspondent plus aux défis du temps, aux impératifs de l'heure ou au ni veau atteint par la technologie. Un système "ouvert" implique de laisser au peuple historique toute latitude pour modifier ses institutions.

Le système freyerien est, en dernière instance, plus démocratique que le démocratisme normatif qui, à notre époque, prétend, sur l'ensemble de la planète, être la seule forme de démocratie possible. Quand Freyer parle de « droit à l'action » (cf. supra), corollaire d'un « devoir éthique d'action », il réserve au peuple un droit d'intervention sur la trame du devenir, un droit à façonner son destin. En ce sens, il précise la vision machiavelienne du peuple dépositaire de la  virtù, oblitérée, en cas de tyrannie, par l'arbitraire du tyran individuel ou oligarchique.

 

Relire Freyer

 

Relire Freyer, contemporain de Schmitt, nous permet de déployer une critique du normativisme juridique, au nom de l'imbrication des peuples dans l'histoire et du décisionnisme. L'État de droit, c'est finalement un État qui se laisse réguler par la virtù enfouie dans l'âme collective du peuple et non un État qui voue un culte figé à quel­ques normes abstraites qui finissent toujours par s'avérer désuètes.

­Et cette volonté freyerienne de s'imbriquer totalement dans le réel pour échapper aux mondes stérilisés des réductionnismes matérialistes, économistes et caricaturalement normatifs que nous lèguent les marxismes et libéralismes vulgaires, ne pourrait-on pas la lire parallèlement à Péguy ou aux génies de l'école espagnole : Unamuno avec sa dialectique du cœur, Eugenio d'Ors, Ortega y Gasset ?

 

► Robert STEUCKERS, Vouloir n°37/39, 1987.


1) Hans FREYER, Machiavelli (mit einem Nachwort von Elfriede Üner), Acta Humaniora, Weinheim, IX/133 p.

2) Hans FREYER, Preussentum und Aufklärung und andere Studien zu Ethik und Politik (herausgegeben und kommentiert von Elfriede Üner), Acta Humaniora, Welnheim, 222 p.

 

¤ Compléments bibliographiques :

 

  • Les Fondements du monde moderne - Théorie du temps présent, H. Freyer, Payot, coll. Bibliothèque scientifique, 1965.
  • « Romantisme et conservatisme. Revendication et rejet d'une tradition dans la pensée politique de Thomas Mann et Hans Freyer », C. Roques, in : Les romantismes politiques en Europe, dir. G. Raulet, MSH, avril 2009.
  • « Die umstrittene Romantik. Carl Schmitt, Karl Mannheim, Hans Freyer und die "politische Romantik" », C. Roques, in : M. Gangl/ G. Raulet (dir.), Intellektuellendiskurse in der Weimarer Republik. Zur politischen Kultur einer Gemengelage, 2. neubearbeitete und erweiterte Auflage, Frankfurt/M., Peter Lang Verlag 2007 [= Schriftenreihe zur Politischen Kultur der Weimarer Republik, Bd. 10]. [cf. sur ce thème : Les formes du romantisme politique]
  • Nationalité et Modernité, D. Jacques, Boréal, Montréal, 1998, 270 p.
  • The Other God that Failed : Hans Freyer and the Deradicalization of German Conservatism, J. Z. Muller, Princeton Univ. Press, 1987. Cf. [pt] Reinterpretar Hans Freyer.
  • « The Sociological Theories of Hans Freyer : Sociology as a Nationalistic Program of Social Action », Ernest Manheim in : An Introduction to the History of Sociology, H. E. Barnes (éd.), Chicago Univ. Press, 1948.

 

¤ Citation :

 

  • « Il faut une volonté politique pour avoir une perception sociologique ».

 

¤ Liens :

 

 

¤ Évocations diverses :

 

1) LE CARACTÈRE INHUMAIN DU CAPITALISME : Mais comment se présente plus précisément le capitalisme moderne comme système d’action? Un grand sociologue humaniste du XXe siècle, Hans Freyer, peut nous aider à répondre. Dans son livre Theorie des gegenwärtigen Zeitalters (Théorie de l’époque actuelle, 1956), il parle des "systèmes secondaires" comme de produits spécifiques du monde industrialisé moderne et en analyse la structure avec précision. Les systèmes secondaires sont caractérisés par le fait qu’ils développent des processus d’action qui ne se rattachent pas à des organisations préexistantes, mais se basent sur quelques principes fonctionnels, par lesquels ils sont construits et dont ils tirent leur rationalité. Ces processus d’action intègrent l’homme non comme personne dans son intégralité, mais seulement avec les forces motrices et les fonctions requises par les principes et par leur mise en œuvre. Ce que les personnes sont ou doivent être reste en dehors. Les processus d’action de ce genre se développent et se consolident en un système répandu, caractérisé par sa rationalité fonctionnelle spécifique, qui se superpose à la réalité sociale existante en l’influençant, la changeant et la modelant. Voilà la clé qui permet d’analyser le capitalisme comme système d’action. (S. Magister)

 

2) En ce qui concerne la tradition sociologique allemande, qui est marquée par l'influence de nombreuses conceptions philosophiques (notamment celles du système de Hegel), elle subit en particulier l'influence néfaste de la distinction opérée par Wilhelm Dilthey (1833-1911) entre les systèmes de culture (art, science, religion, morale, droit, économie) et les formes «externes» d'organisation de la culture (communauté, pouvoir, État, Église). Cette dichotomie fut encore aggravée par Hans Freyer (1887-1969) qui distinguait les « contenus objectifs » ou « signification devenue forme », qui sont les « formes objectivisées de l'esprit » dont l'étude relève des « sciences du logos », de leurs « être et devenir réels » qui sont l'objet des « sciences de la réalité ». Le caractère insupportablement artificiel de cette opposition ne saurait être mieux démontré qu'en rappelant que dans cette conception, le langage lui-même est défini comme un « assemblage de mots et de significations, de formes mélodiques et de formations syntaxiques », comme si on pouvait appréhender le langage indépendamment de l'organisation sociale des hommes qui l'emploient. Bien entendu, les langues (Langage) présentent aussi des structures intellectuelles qu'on ne peut expliquer par la sociologie sans tomber dans l'erreur du sociologisme; mais ces structures ne constituent que la moitié du problème. En outre, les entités intellectuelles objectives ne peuvent jamais être opposées au devenir social, mais seulement former avec lui une corrélation fonctionnelle dans des complexes d'action culturelle (A. Silbermann). Dilthey lui-même adoptait à cet égard une position radicalement plus ouverte, aussi bien dans ses explications réelles, opposées à son projet, que dans beaucoup d'autres occasions, comme le prouvent ses tentatives pour établir les fondements psychologiques des sciences humaines et ses tentatives périodiques pour mettre sur pied une éthologie empirique (que l'on pourrait également définir comme une science empirique de la culture). Le danger que recèle cette distinction consiste avant tout dans ce qu'elle ouvre la voie à une sorte de distinction hiérarchique à une culture « supérieure », en quelque sorte proche de l'« esprit », et une culture « inférieure » ; celle-ci se confond facilement avec le concept de « civilisation » (matérielle), ce qui introduit dans toute cette approche du problème une évaluation patente. Il semble préférable de passer de ces conceptions fortement teintées de philosophie à une approche plus réaliste. Après la destruction totale de l'ancienne théorie des aires culturelles par l'ethnologie moderne, la dernière possibilité apparente de séparer certains contenus culturels de leurs rapports fonctionnels avec la société a définitivement disparu. (R. König)

 

3) La conférence « Normes éthiques et politiques » que Freyer a tenue en mai 1929 devant la Kant-Gesellschaft, souligne encore la primauté de l'État [comme fondement de la vie politique] sur le peuple. « L'État est celui qui rassemble et éveille les forces du peuple au service d'un projet culturel caractéristique ; sa politique est le fer de lance dans lequel le peuple devient historique ». Deux ans plus tard [en pleine crise de la République de Weimar], Freyer voit la signification véritable de la « révolution de droite  » dans la résolution avec laquelle elle mobilise le peuple contre l'État. Et trois ans plus tard, il est avéré, pour Freyer, « qu'il existe aussi un véritable esprit du peuple en dehors des frontières politiques de l'État-Nation ». L'esprit du peuple, lit-on alors dans un sens tout à fait national-populiste, « doit être autre chose qu'un contexte fondé sur la politique. Le peuple doit être autre chose qu'un rassemblement d'hommes au sein d'un système étatique » (1934). Les singulières variations qui caractérisent la définition par Freyer du rapport de l'État et du peuple sont bien mises en valeur chez Üner (Soziologie als „geistige Bewegung“. Hans Freyers System der Soziologie und die „Leipziger Schule“, 1992). (S. Breuer)

jeudi, 18 février 2010

Réalité virtuelle et économie

Archives de Synergies Européennes - 1995

RÉALITÉ VIRTUELLE ET ÉCONOMIE

 

realitievirtuelle.jpgLa lecture d'Aristote nous enseigne que l'argent naquit pour faciliter le troc, et que dès lors il est une con­vention, un artifice, un signe. Ce signe alimenta l'imagination et développa l'illusion qui corrompit les âmes et les sociétés, car il magnifia la richesse créée par l'argent-papier en lieu et place de la richesse réelle is­sue de la production de biens et de services. L'éthique aristotélicienne se fondait sur le concept de la limi­tation des richesses; tant que l'économie de troc fonctionnait, il ne pouvait y avoir de richesse illimitée car, par exemple, la récolte de grains est limitée comme le sont les semailles. Mais l'argent introduisit le concept de richesse illimitée; et contrairement aux grains de céréales, les monnaies peuvent s'accumuler indéfiniment, et quand cela survient, la richesse se transforme en une fin en soi, et non plus en un moyen; l'homme ne vit plus de la richesse, il vit pour elle.

 

Le Moyen Age condamna le développement des taux d'intérêt, considérés comme anti-naturels sur base d'une éthique aristotélicienne; cependant, le judaïsme et le protestantisme les prirent à leur compte, dé­veloppant ainsi le commerce et l'économie en général. Actuellement, les chroniques économiques journa­lières qui nous retracent les turbulences économico-financières mondiales nous révèlents par la même occasion l'hégémonie décisive de la sphère financière sur le plan réel de la production, l'investissement, l'emploi et le salaire. Ceci est un phénomène à portée planétaire, mais dont le pouvoir de nuisance nous semble se manifester avec une véhémence toute particulière dans les économies périphériques (notamment en Amérique latine, ndt), excessivement dépendantes des financements externes. La globa­lisation financière est à l'origine de la concetration d'énormes actifs dans les mains de quelques méga-opérateurs qui obtiennent de forts taux d'intérêt, aux dépens des pays périphériques qui se trouvent ainsi sous leur pouvoir direct. Du reste, il est significatif que le commerce mondial ne dépasse pas 4000 mil­liards de dollars tandis que l'argent électronique qui circule dans le “marché ouvert” atteindra les 210.000 milliards à la fin de 1995.

 

En 1990, le Prix Nobel d'économie fut octroyé à un trio de fins connaisseurs dans l'art de maximiser les rentes speculatives: Harry Markowitz, Merton Miller et William Sharpe. Plus tard, en 1991 (Ronald Coase) et en 1994 (John Nash, Reinhard Selten et Janos Harsanyi), les Prix Nobel récompensèrent les travaux apportant les signes d'une science encore plus fine dans ce domaine. Nous y voyons une manifestation éblouissante de la dérive financière et des significations qu'elle est en mesure de proposer. Sous le doux euphémisme de “produits dérivés”, l'ingénierie financière sauvage invente tout un large éventail d'accords financiers d'où naît une immense timballe financière grâce à laquelle des sommes énormes peuvent être gagnées après avoir parié des sommes bien plus minimes. Spéculer avec des instruments aussi volatiles crée des risques élevés: dès que le moindre maillon de la chaîne s'interrompt, il en résulte des pertes as­tronomiques; par exemple, si un pays en voie de développement entre en cessation de paiements, ce sont des milliards de dollars “dérivés” qui volent instantanément en fumée.

 

Un système développé de satellites, ordinateurs et autres moyens technologiques à portée globale am­plifient la dimension des transactions financières de tous types qui débordent le monde de l'économie réelle, en rapidité comme en intensité. L'argent électronique dégage une chaleur moite: cette fiction est propice au pullulement de la faune “yuppy”, qui jongle tour à tour avec des profits mirobolants et avec des banqueroutes foudroyantes, au rythme éperdu des capitaux lancés dans leur course à travers les divers marchés de capitaux.

 

A l'ère de la réalité virtuelle, quand les signes se rebellent envers les réalités, il est nécessaire de récupé­rer l'essence des valeurs philosophiques. Les finances doivent être remises dans un état de subordina­tion à l'égard des productions réelles de biens et de services, car c'est de là que des possibilités naissent pour l'être humain de se réaliser en tant que tel. La dépendance des populations humaines envers le pou­voir diffus et essentiellement cruel du monde financier est extrêmement dangereuse, elle annule le pou­voir décisionnel des gouvernements et ne saurait avoir qu'un impact social traumatique. Les stratégies de développement qu'il nous faut créer, une fois pour toutes, seraient basées sur la production et les expor­tations: la production des choses au-dessus du règne des signes.

 

Manuel Agustin GAGO.

(article tiré de Disenso, n°4, hiver 1995).

mercredi, 17 février 2010

Culture médiatique

Archives de Synergies Européennes - 1995

Alberto Buela:

Culture médiatique

medien.jpgA en croire l'intuition du philosophe danois —sans doute le plus grand d'entre eux, Søren Kierkegaard (1813-1855), pasteur protestant contre sa religion, le protestantisme, père de la philosophie existentia­liste—, la culture médiatique trouverait sa source en Luther: «Oh, Luther, combien énorme est ta respon­sabilité! Car plus j'y songe, plus j'entrevois que si tu as entrepris d'abattre le Pape... c'est pour introniser le Public. Tu as enseigné aux hommes à vaincre par la force du nombre» (Journal intime, 1854).

 

Un des ingrédients de la culture médiatique est le public comme masse de consommateurs. Les peuples deviennent des marchés solvables. Et, à coup sûr, la valeur d'un programme télévisuel est proportion­nelle aux indices d'écoute. Nous entendons par “culture médiatique” l'ensemble des manifestations émises par les mass media qui tendent à fondre en un même amalgame uniforme le message émis et l'homme qui le reçoit.

 

La culture médiatique est une culture d'interposition entre l'homme et les choses. Mais à vrai dire, c'est en matière de culture au vide intersidéral qu'elle correspond. Car la culture est essentiellement l'activité de l'homme cultivant son propre être, son humanitas.  Et c'est ce devenir humain qui est, sans plus, la racine ultime de la culture. D'où cette contradictio in terminis  lorsqu'il est fait mention de cette sorte d'entité mi-chair mi-poisson qu'est la culture médiatique.

 

Par rapport à celle-ci, l'homme en est réduit purement et simplement à un consommateur: en tant que lec­teur, auditeur ou téléspectateur. Les messages médiatiques sont indifférents aux individualités aux­quelles ils s'adressent; maigre exutoire, celui proposé par certains journaux dans le “courrier des lec­teurs”. Tous ces messages sont uniquement conçus en fonction d'un accroissement escompté de la consommation des produits dont la publicité soutient économiquement les mass media. Publicité et con­sommation, telles sont les finalités auxquelles l'être humain est confronté, dans ce qui pourrait être quali­fié de “cercle herméneutique de production de sens”.

 

De pas son exaltation paroxystique du public, la culture médiatique est l'expression la plus achevée de la modernité; elle gave un public anesthésié d'images télévisées à travers cette immense vitrine que consti­tuent les innombrables écrans de télévision. L'existence en est réduite au niveau de celle des stocks de marchandises, si sagement alignés, par la publicité qui ne connaît d'autre vocation que de vendre: et en l'occurence, de tout vendre. Le sens ultime de l'existence est compris dans ce tout.

 

la société opulente, celle de l'ostentation, des shoppings, a réduit la domaine du privé au dégré zéro: de­puis la mise à nu de l'inconscient par Freud jusqu'aux dernières manipulations génétiques, depuis les bombardements défoliants sur la forêt amazonienne jusqu'aux cartes de crédit qui rendent impossible l'intimité des dépenses, depuis les édifices en verre jusqu'aux vêtements transparents.

 

Toute vie privée, comprise comme domaine d'expression de la singularité et de l'unique, ayant été ba­layée par le message homogénéisant de la culture médiatique, la voie est largement ouverte à l'anéantissement des identités des hommes et des peuples, pour en arriver au règne du blue jeans et du light, adoptés par un homme moderne qui n'est plus que pure apparence d'humanité.

 

Apparences dans le vêtement, dans le langage, par un baby talk monosyllabique qui permet de paraître plus rude, par la démarche, en se balançant pour paraître plus méchant, par l'allure, en affichant une barbe de quelques jours pour faire “bonne impression”. Mais, bien sûr, paraître ne suffit pas: l'essentiel est d'apparaître. Il faut se montrer en public. Le leitmotiv sera d'attirer l'attention par un aspect de “transgresseur light”. Avec des vêtements paraissant défaits et vieillis mais de bonnes marques. Avec des cheveux à l'indienne mais soigneusement couverts de gel. Avec un mouchoir qui pend un peu à la fa­çon tzigane mais en soie italienne. Est-il malaisé d'ironiser sur l'intensité des soucis que de tels trans­gresseurs peuvent causer aux tenants du pouvoir en place? La dissidence pourrait-elle être plus finement domestiquée?

 

Tel est l'empire des choses et, pour ainsi dire, des entités, qui, n'obéissant qu'à la loi de leur inertie, écran­sant l'être humain et donnent ainsi le ton de cette fin de millénaire. Ainsi donc, être signifie avoir. Et cela va jusqu'à acheter des choses dans le seul but de les posséder, indépendemment de l'usage qui peut en être fait. Le zapping, succession d'images tronquées, devient une attitude générale face à la vie. L'image, apparence de la réalité, s'est imposée en lieu et place des concepts véhiculés jadis. Ne voyons-nous pas la part des photos s'accroître dans la presse, les textes se faisant au contraire de moins en moins denses.

 

Les voyages de masse, le pélérinage des touristes qui voudraient être partout mais qui en définitive ne se dirigent nulle part, nous montrent l'homme moderne sous son jour le plus authentique: un voyeur qui veut tout regarder, même s'il a du mal à voir. Car pour voir il faut posséder une vision préalable de l'objet re­cherché. Connaissance préconceptuelle. Le regard qui voit est celui qui s'insère dans une totalité de sens. Platon affirmait: «La meilleure preuve qu'une nature soit douée ou non de sagesse, c'est la capa­cité que seul le sage possède, d'avoir une vision d'ensemble» (République,  537a, 10-15).

 

Or, c'est à une succession ininterrompue d'images tronquées et sans aucun sens que se livre l'homme médiatique. Lorsque celui-ci se spécialise en quelque chose, c'est dans l'art que nous pourrions qualifier de “minimalisme”. Le profil de l'homme médiatique est light,  sa pensée est faible, privée de convictions. Seul savoir en mesure de l'intéresser: celui de savoir ce qui se passe; il ne songe à poursuivre nulle in­vestigation personnelle ni a fortiori nul changement en quoi que ce soit. Moralement, il ne parvient même pas à être un hédoniste: il ne cherche pas le plaisir, il ne fait qu'être permissif. De cette permissivité il glisse vers un scepticisme et une indifférence généralisée envers toute vérité. L'interminable tolérance qui l'anime en toutes circonstances est le berceau douillet de son relativisme et de son atomisme social.

 

Ces jours-ci (15 décembre 1994), le projet de “télévision interactive” a connu une première phase d'accomplissement. Le firme nord-américaine Time Warner a installé dans cinq foyers de la ville d'Orlando un ordinateur, une télévision et une imprimante grâce auxquels les usagers visionneront des films choisis parmi une cinquantaine, commanderont leurs courses dans plusieurs magasins de la ville, dialogueront avec leurs voisins, utiliseront le service de coursiers et liront sur écran les nouvelles locales du journal Orlando Sentinel.

 

Tout indique que désormais la télévision, la vidéo, le téléphone, le courrier, l'informatique et beaucoup d'autres éléments s'intègreront dans une autoroute informatique dont le vecteur sera la fibre optique. L'interactivité intégrera l'homme en tant que simple apparence, son image parlant à sa place tandis que l'homme en chair et en os en sera réduit à taper sur le clavier de son terminal.

 

Autrefois, avant même que n'apparaisse la télévision, Leopoldo Marechal affirma: «Bien rares sont ceux aujourd'hui qui ne reconnaissent et ne vénèrent la radiotéléphonie, un des miracles de la science qui a le plus contribué à exlater la foi en un avenir plein d'artifices admirables, qui, en meublant leurs maisons et en démeublant leurs âmes, permettra aux humains d'atteindre le règne d'une béatitude débarrassée de tout casse-têtes».

 

Meubler leurs maisons de divers appareils électro-domestiques et démeubler leurs âmes: l'homme perd la capacité d'instaurer des valeurs, construire un monde lorsque seuls des désirs préfabriqués l'anime. Sa liberté n'est plus qu'une illusion. Son pouvoir est celui que les mass media lui offrent. Le développement des communications nous a fait passer de l'ère atomique à l'ère satellitaire ou informatique; le sens natu­rel du monde, comme lieu pour habiter, est annulé: le monde devient un écran où la virtualité supplante la réalité.

 

L'accès instantané à l'informatisation, la planétarisation des produits choisis par les mass media incitent l'homme dérivé de la culture médiatique à croire que ce qui apparaît est réel. L'éloignement de l'homme envers lui-même ne connaît dès lors plus de frontière. Dans les sociétés dépendantes comme sont les nôtres, en ce cône méridional du continent américain, l'aliénation médiatique atteint des niveaux invrai­semblables. La boîte à assomer, autrement dit la télévision, s'adresse à une population dont 40% survi­vent dans la pauvreté absolue pour proposer une vision totalement mercantile du monde. Notons que 85% de cette même population possède un téléviseur.

 

Serait-ce par hasard, à cause précisément de cette masse d'hommes et de femmes constamment mena­cés de noyade par les flots déchaînés de la misère, et qui parviennent de temps à autre à émerger pour assister au spectacle de la société de consommation, que nos technocrates de service appellent nos sociétés du doux euphémisme d'“émergentes”? Songeons aux 15.000 Mexicains qui tous les ans meurent de diarrhée dans la région de Chiapas. Qu'en est-il de ceux qui périssent, en dehors de toute statistique, en Bolivie, au Pérou, au Paraguay et au Brésil, emportés par le choléra?

 

Ce sont des millions de personnes qui vivent le nez collé à l'écran, voyant, désirant, rêvant un monde au­quel ils n'auront jamais accès, et qui pour eux existe réellement, alors que, pour notre part, nous savons qu'il n'est que virtualité et apparence.

 

A l'adage hégélien, selon lequel tout ce qui est rationnel est réel et tout ce qui est réel est rationnel, nous pouvons rétorquer désormais que tout ce qui est apparent est réel et que tout ce qui est réel est apparent. L'illusion rationaliste a véritablement été éventrée par la mystification, plus puissante et plus radicale, qu'est la culture médiatique. L'homme conditionné par celle-ci, après avoir pris l'image pour une réalité, en finira par jeter sur sa réalité environnante un regard lourd de scepticisme: car sa réalité finit par être moins réelle à ses yeux que les images télévisées. De ce fait, il marquera son renoncement face à l'entreprise médiatique de déculturation et de colonisation culturelle. L'homme abandonne sa capacité d'être soi-même en perdant son appartenance, son enracinement, ses valeurs, son langage.

 

L'homme médiatisé ne médiatisera rien qui lui soit propre; au contraire, il est l'objet de cette médiatisation qui accapare son être. Combien de fois n'entendons-nous pas affirmer innocemment: «Je ne peux vivre sans la télévision, la radio, le walkman, le journal, etc.». L'homme secrété par la culture médiatique réali­sara les travaux les plus abrutissants, les plus aliénants, comme si la réalité dans laquelle il baigne ne fût telle; la réalité s'efface et il n'a de cesse de s'identifier au message que les mass media lui envoient sans discontinuer. Deux exemples extrêmes illustrent cette dialectique. Nous trouvons le premier dans les transports en commun, à Buenos Aires, avec les colectiveros:  faune si commune et quotidienne, dont la réalité s'écarte notablement de celles des passagers et dont le souci n'est pas de prendre soin de cette clientèle mais bien d'accomplir leur mission au rythme des messages que les radios, tournées à plein vo­lume, leur divulguent: telle est la réalité illusoire dans laquelle ils se plongent. A l'autre extrême se trou­vent les yuppies de la Bourse, engloutis dans la masse des données que leur vomissent leurs ordina­teurs, contemplant les va-et-vient de leur fortune. La transaction financière est douée d'une vélocité bien supérieure à celle de l'opération commerciale, d'où une “mobilité électronique”, ainsi dénommée par l'économiste Marcelo Lascano, qui permet au spéculateur de réaliser plusieurs transactions financières, totalement fictives, sur une opération commerciale réelle. Couronnées de succès, de telles transactions transforment le yuppie en un millionnaire virtuel, fermé certes à toute considération quant à la virtualité de sa richesse. Son contact avec la réalité, à travers les revers de fortune occasionnels, le remplira de per­plexité.

 

Ce chemin est-il sans retour? Existe-i-il une sortie? Il se trouve des sociologues, des anthropologues, des intellectuels, qui se fondent sur un volontarisme optimiste pour parier que notre société et nos peuples d'Amérique latine ont suffisamment de forces inconscientes pour rejeter les valeurs de la contre-culture imposée par les mass media. Nous voyons, pour notre part, une possibilité de sortie non pas dans un appel romantique adressé au Volksgeist  mais en une prise de conscience qui nous permet, face aux mass media et à leurs techniques, leur toute-puissance, de dire: NON. Mais NON peut se dire de plusieurs façons. L'une de ces façons consiste à clôturer toute possibilité de contact. Il faut éteindre la télévision a conseillé Jean-Paul II l'année passée. L'autre de ces façons, tournée vers le discours heideggerien, est de dire “NON et OUI” aux objets techniques. Avoir la capacité de nous en emparer dans la seule mesure de leur utilité. L'utile étant ce que détermine l'être.

 

Il s'agit d'une désaffection, un détachement envers les choses, envers la technique comme déesse sal­vatrice, envers la consommation. Ce qui conduit nécessairement à une conduite austère. Heidegger ca­ractérise cette attitude par l'antique vocable germanique Gelassenheit, sérénité. Ainsi affirmait-il, “la sé­rénité envers les choses et l'ouverture aux mystères nous ouvrent la perspective d'un nouvel enracine­ment”. Les philosophes grecs dénommaient phroneseos  cette sorte d'hommes, ce qui, par la suite, a été mal traduits par “prudents”. Nous préférons traduire, comme le philosophe italien Giorgio Colli (1917-1978), par “savants”. Mais “savant” au sens véritablement, profondément, étymologique, dérivé de sapio, qui signifie “saveur” (et non au sens donné par le terme hellénique sophos). N'est pas sage celui ayant englobé de vastes quantités de données encyclopédiques, à la façon des érudits, mais celui capable de prendre son temps pour goûter la vie.

 

Nous voyons ainsi comment la dialectique médiatique, apparemment sans retour, peut être dépassée par la science de se donner le temps nécessaire à donner à chaque chose sa place.

 

Prof. Alberto BUELA.

(article tiré de Disenso, n°4, hiver 1995).

vendredi, 12 février 2010

Participation gaullienne et "ergonisme": deux corpus d'idées pour la société de demain

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Participation gaullienne et «ergonisme»:

deux corpus d'idées pour la société de demain

 

par Robert Steuckers

 

Beaucoup de livres, d'essais et d'articles ont été écrits sur l'idée de participation dans le gaullisme des an­nées 60. Mais de toute cette masse de textes, bien peu de choses sont passées dans l'esprit public, dans les mentalités. En France, une parcelle de l'intelligentsia fit preuve d'innovation dans le domaine des projets sociaux quand le monde industrialisé tout entier se contentait de reproduire les vieilles formules libérales ou keynésiennes. Mais l'opinion publique française n'a pas retenu leur message ou n'a pas voulu le faire fructifier.

 

affiche-participation.jpgOn ne parle plus, dans les salons parisiens, de la participation suggérée par De Gaulle, ni de l'idée sédui­sante d'«intéressement» des travailleurs aux bénéfices des entreprises, ni des projets «pancapitalistes» d'un Marcel Loichot ou d'un René Capitant. Lors des commémorations à l'occasion du centième anniversaire de la naissance de Charles De Gaulle, ces projets, pourtant très intéressants et, aujourd'hui encore, riches de possibles multiples, n'ont guère été évoqués. Couve de Murville, sur le petit écran, a simplement rap­pelé la diplomatie de «troisième voie» amorcée par De Gaulle en Amérique latine, au Québec et à Phnom Penh (1966). Si la «troisième voie» en politique extérieure suscite encore de l'intérêt, en revanche, la «troisième voie» envisagée pour la politique intérieure est bel et bien oubliée.

 

Outre les textes de René Capitant ou l'étude de M. Desvignes sur la participation (1), il nous semble op­portun de rappeler, notamment dans le cadre du «Club Nationalisme et République», un texte bref, dense et chaleureux de Marcel Loichot, écrit en collaboration avec le célèbre et étonnant Raymond Abellio en 1966, Le cathéchisme pancapitaliste. Loichot et Abellio constataient la faiblesse de la France en biens d'équipement par rapport à ses concurrents allemands et japonais (déjà!). Pour combler ce retard  —que l'on comparera utilement aujourd'hui aux retards de l'Europe en matières d'électronique, d'informatique, de création de logiciels, en avionique, etc…—  nos deux auteurs suggéraient une sorte de nouveau contrat social où capitalistes et salariés se partageraient la charge des auto-financements dans les entreprises. Ce partage, ils l'appelaient «pancapitaliste», car la possession des richesses nationales se répartissait entre toutes les strates sociales, entre les propriétaires, les patrons et les salariés. Cette diffusion de la richesse, expliquent Loichot et Abellio (2), brise les reins de l'oligo-capitalisme, système où les biens de produc­tion sont concentrés entre les mains d'une petite minorité (oligo  en grec) de détenteurs de capitaux à qui la masse des travailleurs «aliène», c'est-à-dire vend, sa capacité de travail. Par opposition, le pancapita­lisme, ne s'adressant plus à un petit nombre mais à tous, entend «désaliéner» les salariés en les rendant propriétaires de ces mêmes biens, grâce à une juste et précise répartition des dividendes, s'effectuant par des procédés techniques dûment élaborés (condensés dans l'article 33 de la loi du 12 juillet 1965 modifiant l'imposition des entreprises si celles-ci attribuent à leur personnel des actions ou parts sociales).

 

L'objectif de ce projet «pancapitaliste» est de responsabiliser le salarié au même titre que le patron. Si le petit catéchisme pancapitaliste de Loichot et Abellio, ou le conte de Futhé et Nigo, deux pêcheurs japo­nais, dont l'histoire retrace l'évolution des pratiques économiques (3), peuvent nous sembler refléter un engouement utopique, parler le langage du désir, les théoriciens de la participation à l'ère gaullienne ne se sont pas contentés de populariser outrancièrement leurs projets: ils ont su manier les méthodes mathéma­tiques et rationnelles de l'économétrie. Mais là n'est pas notre propos. Nous voudrions souligner ici que le projet gaullien global de participation s'est heurté à des volontés négatives, les mêmes volontés qui, au­jourd'hui encore, bloquent l'évolution de notre société et provoquent, en bon nombre de points, son im­plosion. Loichot pourfendait le conservatisme du patronat, responsable du recul de la France en certains secteurs de la production, responsable du mauvais climat social qui y règnait et qui décourageait les sala­riés.

 

Deuxième remarque: qui dit participation dit automatiquement responsabilité. Le fait de participer à la croissance de son entreprise implique, de la part du salarié, une attention constante à la bonne ou la mau­vaise marche des affaires. Donc un rapport plus immédiat aux choses de sa vie quotidienne, donc un an­crage de sa pensée pratique dans le monde qui l'entoure. Cette attention, toujours soutenue et nécessaire, immunise le salarié contre toutes les séductions clinquantes des idéologies vagues, grandiloquentes, qui prétendent abolir les pesanteurs qu'impliquent nécessairement les ancrages dans la vie. Jamais les modes universalistes, jamais les slogans de leurs relais associatifs (comme SOS-Racisme par exemple), n'auraient pu avoir autant d'influence, si les projets de Loichot, Capitant, Abellio, Vallon s'étaient ancrés dans la pratique sociale quotidienne des Français. Ceux-ci, déjà victimes des lois de la Révolution, qui ont réduit en poussière les structures professionnelles de type corporatif, victimes une nouvelle fois de l'inadaptation des lois sociales de la IIIième République, victimes de la mauvaise volonté du patronat qui saborde les projets gaulliens de participation, se trouvent systématiquement en porte-à-faux, davantage en­core que les autres Européens et les Japonais, avec la réalité concrète, dure et exigeante, et sont consolés par un opium idéologique généralement universaliste, comme le sans-culottisme de la Révolution, la gloire de l'Empire qui n'apporte aucune amélioration des systèmes sociaux, les discours creux de la IIIième bourgeoise ou, aujourd'hui, les navets pseudo-philosophiques, soft-idéologiques, de la médiacratie de l'ère mitterandienne. Pendant ce temps, ailleurs dans le monde, les Allemagnes restauraient leurs associations professionnelles ou les maintenaient en les adaptant, Bismarck faisait voter des lois de protection de la classe ouvrière, les fascismes italiens ou allemands peaufinaient son œuvre et imposaient une législation et une sécurité sociales très avancées, la RFA savait maintenir dans son système social ce qui avait été innovateur pendant l'entre-deux-guerres (Weimar et période NS confondues), le Japon conservait ses ré­flexes que les esprits chagrins décrètent «féodaux»... Toutes mesures en rupture avec l'esprit niveleur, hos­tile à tout réflexe associatif de nature communautaire, qui afflige la France depuis l'émergence, déjà sous l'ancien régime, de la modernité individualiste.

 

capitant.jpgL'idée de participation est un impératif de survie nationale, identitaire et économique, parce qu'elle im­plique un projet collectif et non une déliquescence individualiste, parce qu'elle force les camarades de tra­vail d'une entreprise à se concerter et à discuter de leurs vrais problèmes, sans être doublement «aliénés»: et par les mécanismes économiques du salariat et par les discours abrutissants des médias qui remplacent désormais largement l'opium religieux, comme l'entendaient Feuerbach, Marx et Engels, dont les idées sont trahies allègrement aujourd'hui par ceux qui s'en revendiquent tout en les figeant et les dénaturant. La réalité, qui n'est pas soft  mais hard, contrairement à ce qu'affirment les faux prophètes, a déjà dû s'adapter à cette nécessité de lier le travailleur immédiatement à sa production: l'éléphantiasis tant des appareils ad­ministratifs étatisés de type post-keynésiens que des énormes firmes transnationales ont généré, à partir de la première crise pétrolières de 1973, une inertie et une irresponsabilité croissantes de la part des salariés, donc une perte de substance humaine considérable. Il a fallu trancher stupidement, avec gâchis, au nom de chimères opposées, en l'occurrence celles du néo-libéralisme reaganien ou thatchérien. Renvoyer des sala­riés sans préparation au travail indépendant. Résultat, dans les années 80: accroissement exponentiel du chômage, avec des masses démobilisées n'osant pas franchir ce pas, vu que les législations de l'ère keyné­sienne (qui trahissaient Keynes) avaient pénalisé le travail indépendant. Autre résultat, au seuil des années 90: une inadaptation des structures d'enseignement aux besoins réels de la société, avec répétition sociale-démocrate des vieux poncifs usés, avec hystérie néo-libérale destructrice des secteurs universitaires jugés non rentables, alors qu'ils explorent, souvent en pionniers, des pans entiers mais refoulés du réel; et pro­duisent, du coup, des recherches qui peuvent s'avérer fructueuses sur le long terme.

 

Les vicissitudes et les dysfonctionnements que nous observons dans notre société contemporaine provien­nent de ce désancrage permanent qu'imposent les idéologies dominantes, privilégiant toutes sortes de chi­mères idéologiques, transformant la société en un cirque où des milliers de clowns ânonnent des paroles creuses, sans rien résoudre. La participation et l'intéressement sont les aspects lucratifs d'une vision du monde qui privilégie le concret, soit le travail, la créativité humaine et la chaîne des générations. Ce re­cours au concret est l'essence même de notre démarche. Au-delà de tous les discours et de toutes les abs­tractions monétaires, de l'étalon-or ou du dollar-roi, le moteur de l'économie, donc de notre survie la plus élémentaire, reste le travail. Définir en termes politiques notre option est assez malaisé: nous ne pouvons pas nous définir comme des «identitaires-travaillistes», puisque le mot «travailliste» désigne les sociaux-démocrates anglais ou israëliens, alliés aux socialistes de nos pays qui claudiquent de compromissions en compromissions, depuis le programme de Gotha jusqu'à celui de Bad Godesberg (4), depuis les mesures libérales du gouvernement Mitterand jusqu'à son alliance avec Bernard Tapie ou son alignement incondi­tionnel sur les positions américaines dans le Golfe.

 

Jacob Sher, économiste qui a enseigné à l'Institut polytechnique de Léningrad avant de passer à l'Ouest, participationniste sur base d'autres corpus que ceux explorés par les gaulliens Loichot, Vallon ou Capitant, a forgé les mots qu'il faut   —ergonisme, ergonat, ergonaire (du grec ergon, travail)—   pour désigner sa troisième voie basée sur le Travail. Issu de la communauté juive de Vilnius en Lithuanie, Jacob Sher partage le sort de ces Israëlites oubliés par nos bateleurs médiatiques, pourtant si soucieux d'affirmer et d'exhiber un philosémitisme tapageur. Oublié parce qu'il pense juste, Sher nous explique (5) très précisément la nature éminement démocratique et préservatrice d'identité de son projet, qu'il appelle l'ergonisme. Il est démocratique car la richesse, donc le pouvoir, est répartie dans l'ensemble du corps so­cial. Il préserve l'identité car il n'aliène ni les masses de salariés ni les minorités patronales et fixe les at­tentions des uns et des autres sur leur tâche concrète sans générer d'opium idéologique, dissolvant toutes les formes d'ancrage professionnel ou identitaire.

 

La participation gaullienne et l'ergonat sherien: deux corpus doctrinaux à réexplorer à fond pour surmonter les dysfonctionnements de plus en plus patents de nos sociétés gouvernées par l'idéologie libérale saupou­drée de quelques tirades socialistes, de plus en plus rares depuis l'effondrement définitif des modèles com­munistes est-européens. Pour ceux qui sont encore tentés de raisonner en termes reagano-thatchériens ou de resasser les formules anti-communistes nées de la guerre froide des années 50, citons la conclusion du livre de Jacob Sher: «Et ce n'est pas la droite qui triomphe et occupe le terrain abandonné par la gauche, malgré les apparences électorales. Certes, la droite profite de la croissance du nombre des voix anti-gauche, mais ces voix ne sont pas pro-droite, elle ne s'enrichit pas d'adhésions à ses idées. Car la droite aussi est en déroute, son principe de société a aussi échoué. Ce sont les nouvelles forces qui montent, les nouvelles idées qui progressent, une nouvelle société qui se dessine. Non pas une société s'inscrivant entre les deux anciennes sociétés, à gauche ou à droite de l'une ou de l'autre, mais CONTRE elles, EN FACE d'elles, DIFFERENTE d'elles. TROISIEME tout simplement. Comme un troisième angle d'un triangle».

 

Robert Steuckers.

 

Notes

 

(1) Cf. M. Desvignes, Demain, la participation. Au-delà du capitalisme et du marxisme, Plon, Paris, 1978; René Capitant, La réforme pancapitaliste, Flammarion, Paris, 1971; Ecrits politiques, Flammarion, 1971; Démocratie et participation politique, Bordas, 1972.

(2) «Le catéchisme pancapitaliste» a été reproduit dans une anthologie de textes de Marcel Loichot intitu­lée La mutation ou l'aurore du pancapitalisme, Tchou, Paris, 1970.

(3) Le conte de Futhé et Nigo se trouve également dans Marcel Loichot, La mutation..., op. cit., pp. 615-621.

(4) Au programme de Gotha en 1875, les socialistes allemands acceptent les compromissions avec le ré­gime impérial-libéral. A Bad Godesberg en 1959, ils renoncent au révolutionnarisme marxiste, donc à changer la société capitaliste. Le marxisme apparaît comme un compromis permanent face aux dysfonc­tionnements du système capitaliste.

(5) Jacob Sher, Changer les idées. Ergonisme contre socialisme et capitalisme, Nouvelles éditions Rupture, 1982.

 

  

mercredi, 10 février 2010

Sousl l'oeil de Big Brother: une société sous surveillance?

Le pouvoir de l’Etat est-il devenu « absolu, détaillé, régulier, prévoyant et doux », selon les termes de Tocqueville ? Si tel est le cas, quelle saveur ont encore concrètement les libertés ? Faut-il encourager passivement ce « pouvoir immense et tutélaire », dont le même auteur prévoyait l’avènement avec quelque inquiétude ? Grave question que les criminalités émergentes font ressurgir avec d’autant plus d’acuité qu’elles nécessitent une surveillance accrue des services publics. Souvent au détriment des honnêtes gens.

L’efficacité avec laquelle les nouvelles menaces doivent être combattues ne saurait tout justifier. La question est politique. On ne perdra pas de vue que la sécurité est l’impératif catégorique des Etats modernes. Le prétexte de leurs secrètes tentations. Aussi, prudentia oblige, cette efficacité n’implique pas que les citoyens, auxquels l’administration moderne épargne le souci de songer à leur défense personnelle, s’en remettent à l’Etat les yeux fermés. La lâcheté d’une société civile qui s’est historiquement laissé désarmer peut avoir un coût redoutable. A fortiori dans un contexte globalisé, où prolifèrent parallèlement menaces et techniques complexes de collecte de l’information. La distance cri?tique du citoyen isolé s’y réduit comme une peau de chagrin. Ignorant la réalité des menaces qui l’environnent, celui-ci tend à s’en remettre au discours officiel. Telle menace extérieure, à l’ampleur imprécise, qu’elle soit d’ordre terroriste, mafieuse ou relevant de la délinquance financière, lui en impose plus que le pouvoir immédiat, aussi prégnant que ce der?nier puisse s’affirmer dans la vie quotidienne. On le sait, l’épouvantail effraie plus les moineaux que le filet.

Ainsi, plus se développe le souci légitime de faire face aux agressions les plus diverses et les plus inédites, plus se pose le problème de la gestion des risques dans les sociétés contemporaines. Là est le lieu de toutes les illusions d’optique quant à la perception des nuisances réelles. A ce titre, les risques pesant sur la santé constituent un révélateur formidable. Le phénomène des vaccinés contre le virus de la grippe A illustre cette porosité des populations aux slogans alarmistes. Aussi, dans le cas de menaces portant sur la sécurité, autrement angoissantes, mais éventuellement surévaluées au nom de ces « sciences du danger », qui prétendent éclairer les administrations en matière de précautions, beaucoup de conditionnements sont possibles, de dérives envisageables. Un carcan de normes inédites, asphyxiant les libertés, peut alors être imposé. Un exemple extrême : le Patriot Act de 2001, arguant des nouvelles menaces terroristes pour étendre brutalement les prérogatives de l’Etat américain en matière d’investigation.

 

Souriez, vous êtes filmé !

 

Au-delà de ce cas de démesure flagrante, remis en cause de?puis, c’est le quadrillage discret de nombreux pans de la vie sociale, par les administrations du monde occidental, qui doit attirer notre attention. De la gestion des entreprises à la vie privée, en passant par le patrimoine et les déplacements des personnes et des biens. En effet, les services publics de sécurité doivent aujourd’hui s’adapter à un contexte sans précédent. Dans le monde joliment bigarré du XXIe siècle, toutes sortes d’opportunités s’offrent désormais aux cerveaux délinquants qui pensent la criminalité, l’imaginent, et plus encore la calculent mathématiquement, selon un type d’analyses parfois peu éloignées de celles des grands prédateurs légaux de l’ordre libéral. Cette criminalité déterritorialisée, dématérialisée quand elle exploite les circuits d’Internet, s’organise en réseaux structurés. Au maillage que réalisent alors certains groupes délinquants sur un espace mondialisé, et donc sur une population ciblée à l’assiette infiniment plus large, répond le maillage que mettent en place peu à peu les administrations.

On connaissait jusqu’ici le tropisme tentaculaire de ces dernières. S’y ajoute désormais, pour compléter la panoplie du monstre, la propension à se doter d’une multitude d’yeux, sans oublier les grandes oreilles. Les réseaux d’écoute et de surveillance visuelle par satellite, déployés à une échelle très vaste et d’autant moins transparente, l’illustrent avec force. Nés en 1948 du contexte de la Guerre froide, avec les cinq pays anglos-saxons du pacte UKUSA, ces réseaux se sont de?puis étendus à d’autres Etats. Mais d’une manière générale, au-delà de tels systèmes, ce que peut redouter une société un tant soit peu soucieuse de ses libertés, c’est la mémoire colossale que les administrations tentent obstinément de se greffer à coups de logiciels toujours plus puissants.

Petit coup de projecteur en France. Le 1er octobre dernier, le ministre de l’Intérieur Brice Hortefeux indiquait à tous les préfets, réunis à Paris pour la circonstance, ses quatre priorités concernant les moyens de la police. Outre « le développement de la police scientifique et technique de masse », était affirmée la priorité du « déploiement des outils vidéo » avec un effort particulier pour les caméras embarquées, beaucoup plus efficaces. Le même Hortefeux ouvrait ensuite en novembre la 25e édition de Milipol, le salon mondial consacré à la sécurité des Etats. 900 exposants aux techniques de pointe pour ce marché – du flicage ? – en pleine croissance (8,4 % en 2008). Véritable Eldorado pour la vidéosurveillance. Minicaméras dissimulées dans une plaque d’immatriculation, drones filmant les foules, caméras-projectiles dotées d’un angle de 360°. Les hors-la-loi n’ont qu’à bien se tenir ! Les citoyens aussi.

C’est bien le nœud du problème. L’escalade technologique, qui entraîne les délinquants et les services de sécurité dans le même vertige, a des conséquences nouvelles. La frontière entre prévention et contrôle s’amenuise. Ainsi le veut la raison technocratique sur laquelle se greffe cette logique technicienne. N’est en effet nullement en cause une improbable volonté autoritaire des gouvernements. L’air du temps n’est plus aux Etats policiers, en dépit des fantasmes de l’extrême-gauche, qui focalise grossièrement ses critiques sur de prétendues intentions répressives. Curieusement, ses membres ignorent le passage des sociétés disciplinaires aux sociétés de contrôle, qu’ont montré les analyses des philosophes Gilles Deleuze et Michel Foucault.

 

Le monde d’Orwell en version numérique

 

Fondamentalement, sont en cause les mécanismes de con?trôle induits par le système global, condamné à miser sur un optimisme technologique. Ceci afin de concilier la marchandisation du monde et la sécurité de cette universalité errante des individus qui la mettent en œuvre. D’où la dimension planétaire du phénomène et sa logique d’intégration toujours plus étroite. On observe d’abord cette logique à travers la collaboration croissante des services administratifs à l’intérieur d’un même Etat. A ce titre, les services fiscaux, par exemple, deviennent des partenaires de choix pour les services publics de sécurité. L’information est moins cloisonnée, mise en commun. Concertation et collaboration par le rapprochement des fichiers respectifs se généralisent. Aussi voit-on les lignes traditionnelles de l’investigation ordinaire se déplacer. Au-delà, s’impose, sur un mode semblable, la coopération plus étroite entre Etats et entre organisations internationales.

Cependant, le point le plus avancé de cette intégration réside dans le transfert de plus en plus fréquent d’informations du secteur privé vers le public. Et inversement. Les perspectives ouvertes par le numérique ont fait passer la surveillance au stade d’une industrie. Au détriment de toute légitimité. La « Commission nationale de l’informatique et des libertés » (CNIL) n’a pas fini d’être dépassée. C’est l’impératif d’une véritable chaîne de la sécurité, au-delà du champ traditionnel du bien commun, qui a fait naître cette logique marchande. Quand la sécurité devient un bien commercial, on assiste alors à des liens auparavant inconcevables. Ainsi des relations privilégiées entre la National Science Agency (NSA) américaine et Microsoft. Ou de la vente d’images par Spot Image, filiale du CNES français, à Google Earth. Par ail?leurs, d’autres acteurs deviennent décisifs, comme les compagnies d’assurances, qui contrôlent désormais nombre de sociétés privées de télésurveillance.

Est-ce la préfiguration d’une ère nouvelle ? C’est, en tout cas, la rançon d’une longue fuite en avant. Sans doute la con?séquence lointaine d’un consentement séculaire, celui de la prise en charge du vivre-ensemble par une providence séculière, un Léviathan. La surveillance comme nouveau mode de régulation sociale, voilà ce qu’avait bien saisi Orwell. Ses intuitions restent valables. Seulement, aujourd’hui, Big Brother n’est plus moustachu. Dépersonnalisé, il est également dématérialisé. C’est une puissance anonyme, tapie dans les circuits de notre quotidien numérique.

Vincent Villemont

 

A lire :

Patrick Le Guyader, Les systèmes électroniques et informatiques de surveillance : contrôle de la vie privée des personnes et des biens,
Hermès science publications-Lavoisier, 2 008.

Frédéric Ocqueteau, Les défis de la sécurité privée. Protection et surveillance dans la France d’aujourd’hui, L’Harmattan, 1 997.

 

dimanche, 07 février 2010

Piet Tommissen: een krasse tachtiger

Piet Tommissen : Een krasse tachtiger

Peter Logghe - http://www.peterlogghe.be/

Professor dr. Em. Piet Tommissen staat helemaal achter het principe dat men nooit te oud is om actief te blijven, ook intellectueel. Op zijn 82ste presteert deze oud-academicus het om een bundeling bijdragen te publiceren. Bedenkingen en interessante achtergrondinformatie onder andere bij het ontstaan en de evolutie van een tijdschrift als Golfslag, een kort essay over Wies Moens als heraut van de ‘konservatieve revolutie’ in Vlaanderen. Een bedrage over de zogenaamde Politieke Academie als tussenoorlogs conservatief vormingsinstituut, en over ‘De Gemeenschap’ van pater Bonifaas Luykx tot de wet van Brück.

tommissenboek.jpgVoor wie professor Tommissen niet zou kennen, hij gaat de wereld rond als dé Carl Schmitt-kenner bij uitstek, die gans Europa ons trouwens benijdt. Derhalve kunnen we niet om de vaststelling heen dat zowat elke grote natie zijn Schmitt-renaissance heeft gekend, met uitzondering van dit dwergenlandje België. Terwijl juist hier…inderdaad!

Maar niet alleen de jurist Carl Schmitt behoort tot de geprefereerde onderzoeksdomeinen van Piet Tommissen. Zo behoren ook de Italiaanse topintellectueel Vilfredo Pareto tot zijn lezerslijstje. Professor Tommisssen moet trouwens ook een van de eersten zijn geweest die het Mohleriaans begrip ‘konservatieve revolutie’ in de Lage Landen binnenbracht en enkele Vlaamse en Nederlandse jongeren een fascinatie voor het onderwerp zou meegeven dat een leven lang zou blijven duren.

Op 82-jarige leeftijd publiceren en dat dan de titel “Buitenissigheden” als titel meegeven: prachtig gewoon. Met bijzondere interesse heb ik kennis genomen van de wet van Brück – waarbij het aardmagnetisme als verklaringsgrond wordt gebruikt voor het cyclische geschiedenisverloop – en van de studie over Wies Moens, die ik in een Duitse versie ook al ergens kon lezen. Vooral boeide mij zijn studie over het ontstaan van het Vlaamse tijdschrift Golfslag. Dit kwam tot stand uit de vruchtbare samenkomsten van jongeren tijdens en na de jongste Wereldoorlog. Bijeenkomsten in Knokke-Heist en later in Antwerpen en waarbij steeds dezelfde namen terugkomen: Manu Ruys, Ivo Michiels, Adriaan De Roover, Hugo en Arnold Van der Hallen. Volgens historicus Etienne Verhoeyen een “extreem rechts tijdschrift”, maar het onderzoek van professor Piet Tommissen legt toch heel wat andere accenten bloot. De doelstelling van Golfslag bijvoorbeeld had weinig of geen extreem rechtse kleur: het wilde ‘jong, durvend en gelovend’ zijn. En een van de initiatiefnemer, Hugo Van der Hallen, verwoordde het bijvoorbeeld zo: “Golfslag wilde provoceren, uitdagen, progressief, niet conservatief, niet berustend maar durvend”. Of iets verder in het gesprek liet Van der Hallen zich ontvallen: “Golfslag was dus niet een project van jongeren die zich tijdens de Tweede Wereldoorlog van de officiële VNV-koers hadden gedistanciëerd. Ik was bij mijn weten de enige van het groepje die zich tijdens de oorlog enigszins politiek had geëngageerd. Het was in eerste instantie ene project van katholieke studenten die in het achterhoofd meer aan een soort heropbloei van het AKVS dachten”.

Een oplage van ongeveer 2.000 exemplaren: niet mis voor een blad dat in de moeilijke en zware naoorlogse repressietoestand verscheen; Professor Tommissen kon meticuleus een lijst van medewerkers, losse en vaste, bijeenbrengen en daar zitten veel interessante namen bij, dat moet gezegd. Golfslag zou uiteindelijk ten onder gaan onder invloed van verschillende factoren. Verschillende kernmedewerkers werden voor opslorpende professionele taken geplaatst, de tijdsgeest verplaatste zich gedeeltelijk naar andere interessedomeinen en een louter cultureel tijdschrift bleek minder aan een behoefte te beantwoorden. In 1949 stopte de redactie er mee, maar andere initiatieven waren ondertussen al opgestart en zagen op een andere plaats het levenslicht.

Deze “Buitenissigheden” geven de geïnteresseerde zeer aangename leesmomenten, vooral omdat de stijl van professor em. Piet Tommissen zeer soepel gebleven is, ondanks (of juist door) de hoge leeftijd van de auteur. Piet Tommissen publiceerde in 2007 al over Georges Sorel en zou dit jaar een werk over Hugo Ball op de markt brengen. Nouvelle Ecole, het Franse tijdschrift (of jaarboek) van Alain de Benoist, brengt in november een speciaal nummer uit over Georges Sorel, met daarin een tekst van de onvermoeibare Piet Tommissen. Wij kijken alvast met veel interesse uit naar volgende buitenissigheden en roepen de auteur toe: ad multos annos!

Tommissen, P., “Nieuwe Buitenissigheden”, 2007, Apsis S.A., La Hulpe, 188 pag.
ISBN 2 – 9600590 – 3 – 4.

(P.L.)

vendredi, 05 février 2010

Le bourgeois selon Sombart

Werner_Sombart_vor_1930.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1979

Le bourgeois selon Sombart

 

par Guillaume Faye

 

Dans Le Bourgeois,  paru en France pour la première fois en 1926, Werner Sombart, une des figures les plus marquantes de l'école économique "historique" allemande, analyse la bourgeoisie comme l'effet d'une rencontre entre un phénomène de "psychologie historique" et des faits proprement économiques. Cette analyse le sépare de la pensée libérale comme des idées marxistes.

 

Comme pour Groethuysen, le bourgeois représente d'après Sombart, "l'homme de notre temps". "Le bourgeois", écrit-il, représente la forme la plus typique de l'esprit de notre temps". Le bourgeois n'est pas seulement un type économique, mais "un type social et psychologique".

 

Sombart accorde au bourgeois l'"esprit d'entreprise"; et c'est, effectivement, de notre point de vue, une de ses caractéristiques jusqu'au milieu du XXème siècle. Mais Sombart prophétise qu'à la fin du XXème siècle, la bourgeoisie, largement "fonctionnarisée" et créatrice de l'Etat-Providence aura perdu cet esprit d'entreprise au profit de la "mentalité du rentier".

 

Cependant, elle a conservé ce que décelait Sombart à l'origine de sa puissance: "la passion de l'or et l'amour de l'argent ainsi que l'esprit de calcul", comme le note également d'ailleurs Gehlen.

 

"Il semblerait, écrit Sombart, que l'âpreté au gain (lucri rabies)  ait fait sa première apparition dans les rangs du clergé. Le bourgeois en héritera directement".

 

Sombart, décelant le "démarrage" de l'esprit bourgeois au Moyen Age, en relève une spécificité fondamentale: l'esprit d'épargne et de rationalité économique (1), caractère qui n'est pas critiquable en soi, à notre avis, mais qui le devient dès lors que, comme de nos jours, il est imposé comme norme à toutes les activités de la société (réductionnisme).

 

Il ne faut donc pas soutenir que l'esprit bourgeois ne fait pas partie de notre tradition culturelle; de même, Sombart remarque que le mythe de l'or était présent dans les Eddas et que les peuples européens ont toujours été attachés à la "possession des richesses" comme "symboles de puissance".

 

Dans notre analyse "antibourgeoise" de la civilisation contemporaine, ce n'est pas cet esprit économique que nous critiquons "en soi", c'est sa généralisation. De même l'appât des richesses ne peut être honni "dans l'absolu", mais seulement lorsqu'il ne sert qu'à l'esprit de consommation et de jouissance passive.

 

Au contraire, le goût de la richesse (cf. les mythes européens du "Trésor à conquérir ou à trouver"), lorsqu'il se conjugue avec une volonté de puissance et une entreprise de domination des éléments s'inscrit dans nos traditions ancestrales.

 

La figure mythique  -ou idéaltypique-  de l'Harpagon de Molière définit admirablement cette "réduction de tous les points de vues à la possession et au gain", caractéristiques de l'esprit bourgeois.

 

Pour Sombart, le "bourgeois vieux style" est caractérisé entre autres par l'amour du travail et la confiance dans la technique. Le bourgeois "moderne" est devenu décadent: le style de vie l'emporte sur le travail et l'esprit de bien-être et de consommation sur le sens de l'action. En utilisant les "catégories" de W. Sombart, nous pourrions dire, d'un point de vue  anti-réductionniste, que nous nous opposons au "bourgeois en tant que tel" et que nous admettons le "bourgeois entrepreneur" qui doit avoir sa place organique (3ème fonction)  dans les "communautés de mentalité et de tradition européennes", comme les nomme Sombart.

 

L'entrepreneur est "l'artiste" et le "guerrier" de la troisième fonction. Il doit posséder des qualités de volonté et de perspicacité; c'est malheureusement ce type de "bourgeois" que l'univers psychologique de notre société rejette. Par contre, le "bourgeois en tant que tel" de Sombart correspond bien à ce que nous nommons le bourgeoisisme  -c'est-à-dire la systématisation dans la société contemporaine de traits de comportements qualifiés par W. Sombart d'"économiques" par opposition aux attitudes "érotiques". Sombart veut dire par là que la "principale valeur de la vie" est, chez le bourgeois, d'en profiter matériellement, de manière "économique". La vie est assimilée à un bien consommable dont les "parties", les unités, sont les phases de temps successives. Le temps "bourgeois" est, on le voit, linéaire, et donc consommable. Il ne faut pas le "perdre"; il faut en retirer le maximum d'avantages matériels.

 

Par opposition, la conception érotique  de la vie  -au sens étymologique-  ne considère pas celle-ci comme un bien économique rare à ne pas gaspiller. L'esprit "aristocratique" reste, pour Sombart, "érotique" parce qu'il ne calcule pas le profit à tirer de son existence. Il donne, il se donne, selon une démarche amoureuse. "Vivre pour l'économie, c'est épargner; vivre pour l'amour, c'est dépenser", écrit Sombart. On pourrait dire, en reprenant les concepts de Sombart, que le "bourgeoisisme" serait la perte, dans la bourgeoisie, de la composante constituée par l'esprit d'entrepreneur; seul reste "l'esprit bourgeois proprement dit".

 

Au début du siècle par contre, Sombart décèle comme "esprit capitaliste" l'addition de ces deux composantes: esprit bourgeois et esprit d'entreprise.

 

L'esprit bourgeois, livré à lui-même, systématisé et massifié, autrement dit le bourgeoisisme contemporain, peut répondre à cette description de Sombart: "Type d'homme fermé (...) qui ne s'attache qu'aux valeurs objectives de ce qu'il peut posséder, de ce qui est utile, de ce qu'il thésaurise. Grégaire et accumulateur, le bourgeois s'oppose à la mentalité seigneuriale, qui dépense, jouit, combat. (...) Le Seigneur est esthète, le bourgeois moraliste".

 

wernerbourgeois.jpgSombart, opposant la mentalité aristocratique à l'esprit "bourgeois proprement dit" (c'est-à-dire dénué de la composante de l'esprit d'entreprise), note: "Les uns chantent et résonnent, les autres n'ont aucune résonnance; les uns sont resplendissants de couleurs, les autres totalement incolores. Et cette opposition s'applique non seulement aux deux tempéraments comme tels, mais aussi à chacune des manifestations de l'un et de l'autre. Les uns sont artistes (par leur prédispositions, mais non nécessairement par leur profession), les autres fonctionnaires, les uns sont faits de soie, les autres de laine". Ces traits de "bourgeoisime" ne caractérisent plus aujourd'hui une classe (car il n'y a plus de classe bourgeoise) mais la société toute entière. Nous vivons à l'ère du consensus bourgeois.

 

Avec un trait de génie, Werner Sombart prédit cette décadence de la bourgeoisie qui est aussi son apogée; décadence provoquée, entre autres causes, par la fin de l'esprit d'entreprise, mais également par cet esprit de "bien-être matériel" qui asservit et domestique les Cultures comme l'ont vu, après Sombart, K. Lorenz et A. Gehlen. Le génie de Sombart aura été de prévoir le phénomène en un temps où il était peu visible encore.

 

Le Bourgeois, livre remarquable, devenu grand classique de la sociologie contemporaine, se conclut par cet avertissement, dont les dernières lignes décrivent parfaitement une de nos principales ambitions: "Ce qui a toujours été fatal à l'esprit d'entreprise, sans lequel l'esprit capitaliste ne peut se maintenir, c'est l'enlisement dans la vie de rentier, ou l'adoption d'allures seigneuriales. Le bourgeois engraisse à mesure qu'il s'enrichit et il s'habitue à jouir de ses richesses sous la forme de rentes, en même temps qu'il s'adonne au luxe et croit de bon ton de mener une vie de gentilhomme campagnard (...).

 

Mais un autre danger menace encore l'esprit capitaliste de nos jours: c'est la bureaucratisation croissante de nos entreprises. Ce que le rentier garde encore de l'esprit capitaliste est supprimé par la bureaucratie. Car dans une industrie gigantesque, fondée sur l'organisation bureaucratique, sur la mécanisation non seulement du rationalisme économique, mais aussi de l'esprit d'entreprise, il ne reste que peu de place pour l'esprit capitaliste.

 

La question de savoir ce qui arrivera le jour où l'esprit capitaliste aura perdu le degré de tension qu'il présente aujourd'hui, ne nous intéresse pas ici. Le géant, devenu aveugle, sera peut-être condamné à traîner le char de la civilisation démocratique. Peut-être assisterons-nous aussi au crépuscule des dieux et l'or sera-t-il rejeté dans les eaux du Rhin.

 

"Qui saurait le dire?"

 

Guillaume FAYE.

(janvier-février 1979).

 

(1) La vie aristocratique et seigneuriale était plus orientée vers la "dépense".

 

jeudi, 04 février 2010

L'homme d'aujourd'hui est soumis...

hommeosumis.jpgL’homme d’aujourd’hui est soumis…

« Bien loin de l’insurgé qu’étaient Œdipe ou Antigone, l’homme d’aujourd’hui est soumis, docile, obéissant, il est surtout bien intégré à l’immanence de l’appareil. Ainsi les hommes ne travaillent plus au sens plein du terme, mais « doivent se soumettre à un emploi. Ils sont ainsi commandés, concernés par un poste qui en dispose, c’est-à-dire les requiert ». (Heidegger, Le Dispositif, GA 79, p. 26). Ils occupent une fonction précise dans l’appareil et obéissent aux commandement requis par cette position. L’homme est intégralement défini par ses fonctions, et en réalité, il est une fonction de l’appareil : il est le « fonctionnaire de la technique » (Heidegger, Pourquoi des poètes ?, GA 5, p. 294), en ce sens exact qu’il la fait fonctionner et en constitue lui-même une des ses fonctionnalités. Il n’est plus l’existant, il est l’assistant, au double sens du terme, comme spectateur et comme auxiliaire. Il est en permanence mobilisé par une machinerie dont le fonctionnement n’est autre que sa propre circularité : c’est précisément pourquoi il est constamment en mouvement.» 

Jean VIOULAC, L’époque de la technique. Marx, Heidegger et l’accomplissement de la métaphysique, Paris, PUF, 2009, p. 160.


Article printed from :: Novopress.info Flandre: http://flandre.novopress.info

dimanche, 31 janvier 2010

Citation de Gustave Le Bon

2552328733_small_1.jpg

On rencontre beaucoup d’hommes parlant de libertés, mais on en voit très peu dont la vie n’ait pas été principalement consacrée à se forger des chaînes.

 

Gustave Le Bon

00:10 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, citation, sociologie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

vendredi, 29 janvier 2010

La décense commune contre l'égoïsme libéral

La décence commune contre l'égoïsme libéral

http://unitepopulaire.org/

« Un noir pessimisme imprègne la conception libérale de la nature humaine. L’homme est un loup pour l’homme. L’égoïsme constitue le fond de son caractère. A la suite des sanglantes guerres de religion, les penseurs qui furent plus tard rangés sous la bannière libérale en sont sûrs : tout homme est une canaille irrécupérable. […] La vision pessimiste de la nature humaine est-elle absolument correcte ? Nous voudrions montrer que, comme le dit Chamfort, la vérité est au milieu, un peu au-dessus de ces deux erreurs symétriques que sont l’optimisme et le pessimisme.

liberalisme.jpgLe bien, c’est ce qui existe. Chaque jour, à chaque heure, en tout lieu, des personnes tiennent les promesses qu’elles ont faites ; des enfants naissent d’amours réelles ; des parents élèvent leurs enfants ; des couples demeurent fidèles, des familles restent unies ; des écoliers apprennent quelque chose à l’école ; nombreux sont ceux qui se lèvent le matin en vue de bien faire leur travail ; des artistes se perfectionnent et produisent de belles œuvres ; des vieillards quittent ce monde dans la sérénité. […]

Pour s’en tenir au domaine politique, on se fiera à George Orwell. Socialiste monarchiste, anarchiste conservateur, il a insisté sur la notion de common decency que les traducteurs nomment en français décence ou honnêteté communes. La décence commune résume un certain nombre de règles que presque tout le monde (à part les enfants-rois et les intellectuels post-modernes) connaît et pratique : on ne dénonce personne, on ne triche pas, on ne frappe pas un homme à terre, on ne s’attaque pas à un plus faible que soi, surtout pas en bande, on est galant avec les dames, on respecte les vieillards, on est spontanément bienveillant, on aide ses proches, etc.

Dans une société où règne la décence commune, le don est premier. Chaque enfant reçoit de ses parents la vie et le langage. L’anthropologie montre que la triple obligation de “donner, recevoir, rendre” fonde l’ordre interne de maintes communautés. Les milieux “avancés” semblent vouloir échapper au cycle du don et lui substituer la devise du Figaro de Beaumarchais, valet malin, désireux de grimper dans le monde et de devenir maître : “demander, recevoir, prendre”. C’est la mentalité d’aujourd’hui, minoritaire mais insidieuse, qui unit dans la même attitude le prédateur et la victime. Dans les sociétés bien réglées, “ça ne se fait pas de demander”. Dans un régime de prédateur-victime, je demande parce que j’ai droit à tout, je reçois ce qui m’est dû, je le prends en chassant de mon esprit toute idée de dette, puis je recommence jusqu’à plus soif.

Par aveuglement idéologique, certains veulent conformer la nature humaine à un modèle libéral, efficace seulement à courte échéance, l’encourager à l’égoïsme, à la compétition pour la compétition, à faire carrière plutôt qu’à exercer un métier, le soumettre à une concurrence illimitée et à une consommation obligatoire, jusqu’à créer ce que les psychologues appellent des addictions. C’est rendre le monde invivable. »

 

Jacques Perrin, “Le bien, banal et fragile”, La Nation, 15 janvier 2010

00:20 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, libéralisme, sociologie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 28 janvier 2010

Vers la fin du clivage gauche-droite

Vers la fin du clivage gauche-droite

C’est un sondage passionnant que le Cevipof a fait réaliser par la Sofres. Il mesure l’opinion des Français à l’égard des institutions politiques et économiques. Il recèle de nombreuses pépites qui montrent que les ingrédients pour un big bang politique semblent se rassembler.

Un rejet très fort des élites

En effet, si 69% des Français font confiance à leur conseil municipal et 65% à leur conseil général ou régional, 55% ne font pas confiance à l’Union Européenne, 64% à l’Assemblée Nationale, 65% à la présidence de la République et 68% à l’égard du gouvernement.

En clair, deux tiers des Français ne font plus confiance aux hommes politiques nationaux. Il faut dire que 78% de la population pense que les responsables politiques se préoccupent peu ou pas du tout de ce qu’ils pensent.

La défiance à l’égard des institutions se retrouve partout. Les Français ne font plus confiance aux banques, ni aux grandes entreprises, qui ne pensent qu’à leur profit.


Le constat est sévère et produit une crainte pour l’avenir. Paradoxalement, cette crainte est moins forte pour l’avenir immédiat, où seule une petite majorité relative pense que sa situation va se détériorer, que pour l’avenir plus lointain, puisque 73% des Français pensent que la situation sera moins bonne pour leurs enfants.

Le dépassement du clivage gauche-droite

Mais l’enseignement sans doute le plus intéressant de ce sondage est la démonstration éclatante de la démonétisation du clivage gauche-droite. 67% des Français ne font confiance ni à la gauche, ni à la droite pour gouverner le pays.

Seulement 16% font confiance à la droite et 14% à la gauche. Des chiffres dérisoires qui montrent l’étendue de la défiance à l’égard du PS et de l’UMP, qui ne semblent avoir pour mérite que de ne pas avoir encore d’alternative crédible.

Mieux, à peine 25% des Français se classent à gauche ou à l’extrême gauche, 19% à droite ou à l’extrême-droite, alors que 38% se déclarent ni à gauche ni à droite.

En poussant un peu plus, 31% se disent « plutôt de gauche », 26% « plutôt de droite » mais 40% « ni de gauche, ni de droite ».

Bref, les Français semblent avoir intégré que ce ne sont plus les clivages traditionnels qui ont du sens, même s’ils ne semblent pas encore en avoir trouvé un de substitution.

Mais surtout, comment ne pas voir dans ce sondage une profonde attente de gaullisme ? En effet, le Général de Gaulle refusait le clivage gauche-droite et sa politique serait difficilement classable sur l’échiquier actuel. Le gaullisme a encore de beaux jours devant lui.

Laurent Pinsolle

00:25 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique, france, gauche, droite, sondage, sociologie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

G. Faye: L'Essai sur la violence de M. Maffesoli

maffesoli.gifArchives « Guillaume Faye » - 1985

Guillaume FAYE:

L’ “Essai sur la violence” de Michel Maffesoli

 

Michel Maffesoli n’aime pas le “devoir-être”; la sociologie qu’il a fondée, orientée vers l’analyse de la “socialité” quotidienne et imprégnée de paganisme dionysiaque, échappe autant à l’énoncé de solutions historiques et politiques pour notre temps qu’à l’alignement sur les prêts-à-penser idéologiques. “Laissant à d’autres le soin d’être utiles, note-t-il dans la préface de la deuxième édition de ses “Essais sur la violence”, il me semble possible d’envisager les problèmes sociaux sous l’angle métaphorique (…). On est loin de ce qu’il est convenu d’appeler la demande sociale ou autres fariboles de la même eau. C’est de l’esthétisme. Peut-être faut-il en accepter le risque”. Cet esthétisme donne lieu en tous cas à un travail très complet et fort sérieux: la réédition des “essais sur la violence”, publiés en 1978 dans un ouvrage maintenant épuisé (« La violence fondatrice », Ed. du Champs Urbain, Paris, avec une préface de Julien Freund) offre à la réflexion l’une des meilleurs approches sur le statut et la fonction sociale de « cette mystérieuse violence » qui est, dit l’auteur, « peut-être préférable à l’ennui mortifère d’une vie sociale aseptisée ».

 

Prenant le contre-pied de l’humanisme chrétien qui, comme la plupart des idéologies contemporaines qu’il a innervées, considère la violence  —sociale ou politique—  comme une anomalie anthropologique. Maffesoli, dans la lignée de Max Weber et de Carl Schmitt, voit dans la violence, la lutte et l’hostilité, « les moteurs principaux du dynamisme des sociétés » (p. 13). A une société « monothéiste » qui prétendrait éliminer toute violence pour uniformiser les valeurs, Maffesoli voit dans la reconnaissance de la violence comme trame du social, la marque d’un esprit polythéiste et antitotalitaire.  Analysant la « dynamique » de la violence, son « invariance », son caractère « dionysiaque » et expliquant comment une violence ritualisée et intégrée par la société civile  —par le peuple—  peut constituer un moyen de défense de la communauté organique contre les impératifs et les normes (autrement violents) de l’Etat égalitaire. Maffesoli met en lumière l’ « ambivalence » de la violence : elle est à la fois structurante  —si elle s’avère ritualisée et organique—  et déstructurante  —si elle s’éprouve comme délinquance chaotique dans une société policée et sécurisée—, libératrice et totalitaire, créatrice et destructrice à l’image du Scorpion, le signe zodiacal de Maffesoli lui-même !

 

S’appuyant parfois sur les travaux des éthologistes, Maffesoli qui échappe  —chose rare aujourd’hui—  aux angélismes et aux utopies du siècle, souligne le caractère fondateur de la violence dans la dynamique des rapports sociaux, qu’ils soient institutionnels ou privés, exceptionnels (le « débridement passionnel orgiastique ») ou ressortissant de la banalité de la vie de tous les jours.

 

essai-sur-la-violence-banale.jpgMais, quoiqu’il prétende ne pas toucher à l’idéologie politique, Maffesoli donne tout de même en cette matière une importante leçon. En refusant de légitimer ou de ritualiser la violence, en s’en arrogeant aussi le monopole sous une forme « rationnelle » et « neutre », l’Etat égalitaire moderne fonde paradoxalement « la violence totalitaire, l’abstraction du pouvoir par rapport à la socialité », comme la définit Maffesoli, qui ajoute : « ce qui se dessine (…), c’est que la maîtrise de cette menace organisée, en étant déliée d’un enracinement social, devienne le lot d’un Big Brother anonyme, contrôleur et constructeur de la réalité » (p. 17). Dès lors que la violence est « décommunalisée », abstraitement et légalement détenue par une technocratie et qu’elle n’est plus légitime au sein de la société civile qui savait la ritualiser, dès lors donc que la société est sécurisée par l’Etat, on assiste paradoxalement à l’émergence de la violence irrationnelle, « terrifiante et angoissante », celle de l’insécurité d’aujourd’hui : « La mise en spectacle rituelle de la violence permettrait que celle-ci fût en quelque sorte extériorisée. Sa monopolisation, son devenir rationnel tend au contraire à l’intérioriser » (p. 18).

 

Guillaume FAYE.

(recension parue dans « Panorama des idées actuelles », mars 1985 ; cette revue des livres et des idées était dirigée par le grand indianiste français Jean Varenne, disparu prématurément en 1997 ; avec l’aimable autorisation de l’auteur).

 

Michel MAFFESOLI, Essai sur la violence banale et fondatrice, Librairie des Méridiens, paris, 1984, 174 pages.

Carlo Gambescia - Metapolitica e potere

Carlo Gambescia. Metapolitica e potere

Susanna Dolci

Intervista Carlo Gambescia - Ex: http://www.mirorenzaglia.org/

metapolitica_fondo-magazine

È di pochi giorni fa la pubblicazione del suo nuovo volume, Metapolitica. L’altro sguardo sul potere (Il Foglio Letterario Edizioni, 2009) e suo un sito web ben articolato”Carlogambesciametapolitica“ (incipit: “Senza ‘metapolitica’ si finisce sempre per fare cattiva ‘politica’ “). Lui viene definito «studioso di sociologia, propugnatore di un approccio basato sulla “metapolitica”, ovvero capace di andare al di là della dicotomie destra-sinistra e del giudizio politico, affrontando i fatti sociali attraverso una modalità esente da strumentalizzazioni ed etichettature. Il [suo] blog si propone di offrire qualche elemento di riflessione “metapolitica”, cercando di ricondurre il “particolare” (quel che accade) all’ “universale” (le costanti sociali)». Ed ancora: «La metapolitica non è una disciplina accademica. Senza ombra di dubbio il suo campo di studio rinvia alla filosofia politica. Tuttavia di rado se ne parla in enciclopedie e manuali di storia del pensiero politico. Probabilmente perché su di essa pesa tuttora l’accusa di pericoloso dilettantismo romantico dalle tentacolari propaggini totalitarie. Il che per certi versi è vero. Ma è soltanto una parte della storia. Ed è ciò che si propone di mostrare Carlo Gambescia. Per il quale la metapolitica, come altro sguardo sul potere, può rappresentare, oggigiorno, la classica boccata di aria fresca e pulita: un’analisi razionale di quel che viene “dopo” e “oltre” la politica, imperniata sulle scienze sociali e non sull’astratta ricerca dell’ “Ottimo Stato” o sulla sua abolizione rivoluzionaria». “Dove va la politica?” (Edizioni Settimo Sigillo, 2008) è il suo volume-risposta appassionante ed incalzante al disfacimento dell’appunto politica nel puzzle dell’essere degli stati che non sa più né ragionare né avere preciso potere decisionale. Una crisi di valori che rischia un irrimediabile punto di non ritorno. Contattato per un’intervista, il nostro si è subito reso disponibile a confrontarsi sulle pagine de Il Fondo con tematiche e realtà sociopolitiche spesso scomode ai più. Lo ringraziamo per questa sua squisita presenza pensando sempre alle parole di Ezra Pound «Non puoi fare una buona economia con una cattiva etica».

gambescia_fondo-magazine

Di Carlo Gambescia [nella foto] si dice (fonte: archivio900.it): ‘Italia, Sociologo, ha scritto diversi libri. Collabora a un discreto numero di riviste italiane e non. Critico di quella che definisce la «vulgata sviluppista e utilitarista, che ci presenta questo come “il migliore dei mondi possibili”», politicamente trasversale, è sostanzialmente un osservatore, un libero studioso e ricercatore’. Praticamente scomodo a “sinistra” (viene considerato un fascista) ed a “destra ed oltre” (viene considerato un antifascista), Lei non è fascista né tradizionalista. Insomma chi è?

Sono un libertario. Nel senso che se lei all’improvviso mi imponesse di scegliere tra il massimo della libertà senza alcun ordine e il massimo dell’ordine senza alcuna libertà, sceglierei, senza esitare, la libertà senza ordine. O se vuole sconfinante nel disordine. Ma non è tutto. E qui viene il bello, anzi il brutto.  Perché, come sociologo, ritengo sia irrealistico parlare di libertà assoluta: l’uomo vive “in società”;  agisce in un mondo che in buona parte non ha creato, fatto di istituzioni, se vuole, valori, idee, norme, “solidificati” in  comportamenti strutturati; istituzioni che l’uomo trova quando nasce, e che continueranno a esistere dopo la sua morte.  Certo, assumendo significati storici diversi.  Ma il punto è che, pur mutando il contenuto storico, come ogni buon sociologo sa, la forma-istituzione permane, limitando oggettivamente, nei fatti, la libertà dell’uomo. Pertanto, dentro di me si scontrano due figure: l’uomo che aspira al massimo di libertà e il sociologo che frena… E non è un bel vivere.

Per quale ragione?

Perché spesso chi ti legge e frettolosamente, come capita soprattutto in Rete, non percepisce il “dramma”. O meglio forse non vuole percepire la combattuta onestà di chi scrive… Per dirla tutta, se mi passa l’espressione, sotto questo profilo la Rete -  non mi faccia fare nomi -  è il peggio del peggio…  Presenta gli stessi vizi (invidia, perfidia, conformismo, cordate, guerra per bande, eccetera) della cosiddetta “società letteraria”,  che, pure scrivendo professionalmente, conosco molto bene.  Senza però godere della qualità e della professionalità, che tutto sommato, distingue, la “società letteraria”.  Con un’altra differenza, ovvero che “quelli” della Rete si ritengono “gli ultimi puri”. Roba da piangere o ridere. Faccia lei. Spesso penso veramente di essere un masochista perché mi ostino a tenere  ancora  “acceso” il mio blog.

Oltre all’economia anche la sociologia. Finalmente sorella tra le per me arti conoscitive o ancora brutto anatroccolo degli studi di questo mondo?

“Arte conoscitiva”… Bellissima espressione, complimenti.  Ricordo un prezioso libro di Robert Nisbet dove più o meno si sosteneva il valore dell’intuizione artistica anche nell’ambito dell’analisi sociologia. Da una parte i dati empirici e le costanti interpretative nel senso di quel che si ripete nel sociale: la “forma” sempre uguale a se stessa. Dall’altra l’intuizione bruciante, sempre diversa come capacità di vedere nell’effervescenza dei “contenuti”, ciò che sia sfuggito agli altri scienziati sociali quali politologi, economisti, eccetera.  Guardi, il più bel complimento, me lo fece qualche anno fa un amico filosofo, un appuntito “marxologo”, che a cena  mi disse: “Carlo, nei tuoi libri, si ritrova sempre quell’immaginazione sociologica, teorizzata, da Charles Wright Mills,  che va oltre i fatti sociali, pur partendo da essi”… E, purtroppo,  oggi la sociologia ha rinunciato all’immaginazione, per “certificare”  il presente, indossando abiti notarili. Come trent’anni fa,  invece, si baloccava in eskimo con l’idea di “rivoluzione”. Resta ancora tanta strada da fare.

Quanti libri al suo attivo?

Non mi piace fare della pubblica contabilità librario-culturale… Chi mi apprezza, già sa. O comunque sia, la faranno i posteri… Se ne avranno voglia… Ricordo un collega trombone, ancora in circolazione, che molti  anni fa,  in treno,  ammaestrava noi giovani leve sul fatto, che lui aveva scritto venti libri bla bla,  e che dunque era il più grande sociologo, eccetera, eccetera. Ecco, pensai: un comportamento, in futuro, da evitare…

Come non detto. Quali allora  gli argomenti trattati?

La mia ricerca, si muove lungo due filoni principali. Il primo riguarda la sociologia della cultura, con particolare riferimento all’economia come processo culturale. Il secondo concerne le relazioni, sempre sociologiche, tra economia, cultura e politica, ricerca che dovrebbe sfociare, più avanti, in una vera e propria teoria complessiva del politico.  Ne potrei aggiungere un terzo, carsico: quello dello studio storico-critico di alcune figure di sociologi e filosofi aperti al sociale che possono aiutarci ad affinare i concetti sociologici, come dire ” di pronto impiego”, per la ricerca. E qui penso, tra gli altri, a Sorokin,  Polanyi, Del Noce.

E a quale volume tiene di più?

Non ne ho uno in particolare. Diciamo che mi muovo  “metodicamente” -  e chi mi segue se ne sarà accorto – nell’alveo dei tre filoni indicati. Poi, guardi, io prima che “scrittore”, sono “lettore” accanito. Di qui una grande umiltà… Non pretendo di dire nulla di definitivo… E conosco i miei limiti.  A differenza di altri…

“Metapolitica. L’altro sguardo sul potere”, Il Foglio Letterario edizioni.  Questa la sua nuova fatica letteraria. Ce ne vuole parlare?

Diciamo subito che il libro è uno “spicchio” di quella teoria generale del politico, verso la quale in prospettiva dovrebbero confluire i diversi filoni della mia ricerca.  Ma il libro è nato anche da una constatazione: in certi ambienti non conformisti, soprattutto a destra, da decenni si parla di metapolitica, senza aver mai dato prima alcuna definizione… E soprattutto senza aver mai imparato a distinguere tra metapolitica, come ricerca filosofica o ideologica intorno allo stato ottimo, e metapolitica, come studio positivo della politica, basato sulle scienze sociali e sull’individuazione e l’uso di alcune fondamentali regolarità sociologiche. O peggio ancora: senza distinguere, tra metapolitica, come teoria (dal punto di vista chi osserva), e metapolitica come azione  (dal punto di vista di chi la pratica). Ecco il mio libro si muove intorno a queste intuizioni.

Politica e Metapolitica, per capire. Dove vanno da sole od insieme?

Dopo quanto ho detto, dovrebbe essere chiaro, per dirla telegraficamente – e come del resto lei stessa ha fatto notare nella sua introduzione – che senza metapolitica si rischia sempre  di fare cattiva politica.

Lancio dei sassi nello stagno dell’attualità italiana:

Nel 2008 ed a seguire in questo anno, il 20% delle famiglie si trovano sotto la soglia della povertà; stipendi bassi, salari da fame. L’Italia si attesta dopo la Grecia e la Spagna; da poco la decisione delle banche di bloccare i mutui per un anno alle categorie sociali in difficoltà; dubbio amletico nel lavoro: posto fisso o mobilità di assunzione; ancora la crisi economica è nera o si intravede un pur minimo spiraglio di fiduciosa ripresa?

Domande interessanti. Se però mi consente preferisco dare una risposta di metodo. Lasciando a lei e ai lettori la possibilità poi di “rispondersi da soli”. Anche questa è metapolitica… La forza del capitalismo è nel fatto che si fa al tempo stesso odiare e amare. È una via di mezzo tra il Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento: atterrisce e consola al tempo stesso… Pertanto quei dati che lei ricorda, sono sempre suscettibili di peggiorare (il Dio che atterrisce), ma anche di migliorare (il Dio che consola). A differenza di altri sistemi storici a economia centralizzata o autarchica, il capitalismo ha una capacità di autoriformarsi, finora sconosciuta. Ma anche una capacità economica e politico-militare considerevole. Pensi, per così dire, alle battute finali dei totalitarismi, dei diversi totalitarismi che pur con sfumature diverse atterrivano senza consolare… Quelli  nazionalsocialista e  fascista sconfitti dal capitalismo sul campo, con la forza delle armi. E quello comunista, come qualcuno all’epoca scrisse, schierando invece stereo e frigoriferi… Si tratta di una plasticità, dalla forza pressoché sconosciuta, che ripeto atterrisce e consola al tempo stesso, con la quale ogni serio studioso dei sistemi socio-economici in generale, e del capitalismo in particolare, deve fare i conti.

D’accordo, ma sull’immediato?

Credo che per ora la forza sistemica del capitalismo sia tale che, anche questa volta, ce la farà… Tuttavia nessun sistema è eterno. E i due punti deboli del capitalismo attuale sono nella possibile crescita delle distanze sociali e nel degrado ambientale del pianeta. Al primo problema, si può rispondere con il welfare. Al secondo, puntando su uno sviluppo più attento all’ambiente. Tuttavia il problema è che la sicurezza sociale costa e richiede una crescita economica progressiva, in grado di garantire un altrettanto costante prelievo fiscale per coprire le finalità sociali del sistema. Ma la crescita progressiva – ecco il punto – non può andare tanto per il sottile. Di qui la possibilità, per alcuni la certezza, di sempre più gravi problemi ambientali.

Alcuni sostengono che la decrescita risolverebbe tutto…

Può darsi. Il vero problema resta però quello di trovare come conciliare la decrescita con la democrazia, in un mondo che temporalmente non potrà mai trasformarsi, tutto insieme e nello stesso momento, da capitalista in “decrescista”. Detto in altri termini: come convincere razionalmente e pacificamente i possibili refrattari interni ed esterni alla nazione o al “blocco di nazioni” decresciste ?   La tragica esperienza dei socialismi reali dovrebbe aver insegnato, una volta per tutte, che una  “riconversione economica”  non può essere una passeggiata, soprattutto in un mondo ostile.  Pensi, ad esempio, alla necessità di difendersi, dagli eventuali “nemici esterni” della decrescita… E allora che fare? Applicare la decrescita anche all’industria bellica? Un punto questo, che i “decrescisti”, almeno, a parole, pacifisti convinti, sembrano purtroppo sottovalutare.

Capisco benissimo che l’attualità italiana le  interessa fino a un certo punto…  Ma  Bruno Tremonti e Mario Draghi. Maestri, allievi o discoli?

No. Direi mestieranti… Ben pagati, però.

Confindustria e sindacati del lavoro. Pensano ai lavoratori ed al bene socialmente inteso o discettano del nulla?

Come sopra… Scherzo…Mi offre invece l’opportunità di spiegare come “funziona” la logica sociale delle istituzioni. Dal punto di vista sociologico la storia del sindacato può essere riletta come un continuo alternarsi tra movimento e istituzione. Nel XIX il sindacato era un movimento. Nel XX si è trasformato in istituzione. Di qui quel comportamento da routinier che oggi distingue il sindacato.  Ma fino alla prossima “scossa” storica e sociale. Chissà il XXI secolo potrebbe essere quello del ritorno a un comportamento movimentista. Tenga infine presente che la costante o regolarità “movimento-istituzione” contraddistingue l’agire sociale dei gruppi più diversi: dalle chiese ai partiti, dai sindacati alla coppia.  Sotto questo aspetto Trotsky aveva torto marcio:  non esistono rivoluzioni permanenti. Anche il potere rivoluzionario, proprio per un umano e innato bisogno di sicurezza, tende a istituzionalizzarsi.  Il che non significa che gli uomini non si ribellino mai. E che l’istituzionalizzazione possa andare, anche qui, oltre quel limite rappresentato dall’umana sopportazione delle ingiustizie. Insomma, neppure Stalin, teorico del socialismo in un solo paese, aveva ragione… Ma  solo che, una volta raggiunta la vittoria,  gli uomini si siedono e chiedono “normalità”… E il gioco ricomincia.

Destra e Sinistra? Destra o Sinistra? Destra vs Sinistra? Altro ed ulteriore? “Dove vanno le ideologie”, citando Enzo Erra ed Enzo Cipriano?

Destra e sinistra parlamentari possono essere anche superate. È un secolo che se ne parla… Ma il vero problema è quello di trovare un forma di rappresentanza alternativa. Come rappresentare gli interessi e i valori? Come fare in modo che tutte le posizioni vengano rappresentate? E democraticamente? Mi permetto sommessamente di ricordare che, nonostante alcuni ritengano – ed a ragione – “politicamente” sorpassate le ideologie di destra e sinistra scaturite dalla Rivoluzione Francese, in realtà all’interno di tutti i gruppi sociali tendono sempre a riproporsi “psicologicamente” e “socialmente”, le divisioni tra coloro che difendono lo status quo e quelli che vogliono cambiarlo. E infine tra questi ultimi e quelli che vogliono il ritorno allo status quo ante… Nell’ ordine: conservatori, progressisti e reazionari. Quindi, sì, fine delle dicotomie “classiche” o quasi, ma con juicio

A conclusione, qualche formula magica da proporre? Riti sciamanici? Profezie maya o curandere?

No. Per quel che mi riguarda cercherò di “applicarmi di più”. Insomma: studiare, studiare, studiare. Tutto qui.

mercredi, 27 janvier 2010

Kapital als Aberglaube

Kapital als Aberglaube

Ex: http://rezistant.blogspot.com/
kapital-club-berlin-bernhard_schluga03.jpgDas Kapital ist ein Glaube, und das Schlimme an diesem Glauben ist, dass es ein unethischer Glaube ist, - dass es ein Glaube ist, der nur regiert wird von einem einzigen Instinkt des Menschen, von seinem unmittelbaren, atavistischen, vom Egoismus, und dass dieser Egoismus nur gehemmt wird durch die Furcht vor dem Egoismus der anderen. Wie ein wildes Tier arbeitet eine Firma gegen die andere, rücksichtslos bedrängt der Fiskus den Bürger, und verschlagen und rücksichtslos versucht der Bürger, der Steuer zu entgehen. Wunderschöne Namen sind dafür erfunden worden. Eine ganze Wissenschaft hat sich aufgebaut aus dem Wunsch des Bürgers, dem Staat nur so wenig Steuern bezahlen zu müssen, als es irgendwie geht, und grosse Büros mit vornehm klingenden Namen leben von diesem Wunsch. Ein Spiel um Worte, denn dass der Staat Geld braucht, das ist ja klar, und dass er eigentlich gerecht besteuern müsste, müssten wir nach allem, was wir in der Schule von Ethik gelernt haben, wohl voraussetzen. Die Praxis beweist das Gegenteil. Der Staat wird als Feind betrachtet, und der Staat betrachtet seinen Bürger, der ihm Steuern zahlt, zunächst als Betrüger.

Der Kapitalismus ist ein unmoralischer Glaube, besser gesagt, er ist ein amoralischer. Aber der erste Schritt ist bereits getan, wenn man weiss, dass der Kapitalismus eigentlich ein Aberglaube ist, ein Aberglaube, wie die Astrologie, die ja auch amoralisch ist und sich jetzt mit einem Mäntelchen der Moral umkleidet.
Der Kapitalismus ähnelt überhaupt sehr stark der Astrologie. Denn ebenso blind, wie diese Pseudowissenschaft, begünstigt und vernichtet er die Individualität des einzelnen.

Wolfgang Forell, Kapital als Aberglaube. Betrachtung über einige aktuelle Fragen in der heutigen Zeit. In: Gegner, Heft 3, 15. August 1931, S. 15-17.