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dimanche, 14 décembre 2008

L'itinerario di Knut Hamsun

 

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L’itinerario di Knut Hamsun

di Robert Steuckers

Knut Hamsun: una vita che attraversa circa un secolo intero, che si estende dal 1859 al 1952, una vita che ha camminato tra le prime manifestazioni dei ritmi industriali in Norvegia e l’apertura macabra dell’era atomica, la nostra, che comincia a Hiroshima nel 1945. Hamsun è dunque il testimone di straordinari cambiamenti e, soprattutto un uomo che insorge contro l’inesorabile scomparsa del fondo europeo, del Grund in cui si sono poggiati tutti i geni dei nostri popoli: il mondo contadino, l’umanità che è cullata dalle pulsazioni intatte della Vita naturale.

una fibra nervosa che mi unisce all’universo

Questo secolo di attività letteraria, di ribellione costante, ha permesso allo scrittore norvegese di brillare in ogni maniera: di volta in volta, egli è stato poeta idilliaco, creatore di epopee potenti o di un lirismo di situazione, critico audace delle disfunzioni sociali dello “stupido XIX secolo”. Nella sua opera multi-sfaccettata, si percepiscono pertanto al primo sguardo alcune costanti principali: un’adesione alla Natura, una nostalgia dell’uomo originario, dell’uomo di fronte all’elementare, una volontà di liberarsi dalla civilizzazione moderna essenzialmente meccanicista. In una lettera che egli scrive all’età di ventinove anni, scopriamo questa frase così significativa: “Il mio sangue intuisce che ho in me una fibra nervosa che mi unisce all’universo, agli elementi”.

Hamsun nasce a Lom-Gudbrandsdalen, nel sud della Norvegia, ma trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza a Hammarøy nella provincia del Nordland, al largo delle Isole Lofoten e al di là del Circolo Polare Artico, una patria da lui mai rinnegata e che sarà lo sfondo di tutta la sua immaginazione romanzesca. È una vita rurale, in un paesaggio formidabile, impressionante, unico, con gigantesche falesie, fiordi grandiosi e luci boreali; sarà anche l’influenza negativa di uno zio pietista che condurrà assai presto il giovane Knut a condurre una vita di simpatico vagabondo,di itinerante che esperimenta la vita in tutte le sue forme.

Il destino di un “vagabondo”

Knut Pedersen (vero nome di Knut Hamsun) è figlio di un contadino, Per Pedersen che, a quarant’anni, decide di abbandonare la fattoria che appartiene alla sua famiglia da più generazioni, per andare a stabilirsi a Hammarøy e diventare sarto. Questo cambiamento, questa uscita fuori dalla tradizione familiare, fuori da un contesto pluricentenario, provoca l’indigenza e la precarietà in questa famiglia scossa e il giovane Knut, a nove anni, si vede affidato a questo zio severo, di cui abbiamo appena parlato, uno zio duro, puritano, che detesta i giochi, anche quelli dei figli e picchia duro per farsi obbedire. È dunque a Vestfjord, presso questo zio puritano, predicatore, cultore della teologia moralizzante, che Knut Hamsun incontrerà il suo destino di vagabondo.

Per sfuggire alla rudezza ed alla brutalità di questo predicatore evangelico che picchia per il bene di Dio, che interrompe le risate che, senza dubbio, sono ai suoi occhi l’anticamera del peccato, il giovane Knut si chiude in se stesso e si rivolge alla foresta del Grande Nord, così spoglia, ma circondata da paesaggi talmente fiabeschi… La dialettica hamsuniana dell’io e della natura prende corpo nei rari momenti in cui lo zio non fa sgobbare il ragazzo per recuperare la spesa di qualche uovo e di un pezzo di pane nero.

La prima opera: Misteri

Questa vita, tra la Bibbia e i ceffoni, Knut la vivrà cinque anni; a quattordici anni in effetti egli fa le valige e ritorna a Lom, nel natale sud, dove diviene impiegato di commercio. Comincia la vita itinerante: Hamsun acquisisce la sua “caratteristica”, quella di essere un “vagabondo”. Dai quindici ai diciassette anni, egli errerà nel Nord e venderà agli autoctoni ogni tipo di mercanzie, come Edevart, personaggio del suo celebre romanzo I Vagabondi. A diciassette anni, egli impara il mestiere di calzolaio e scrive la sua prima opera: Misteri. Diventa una celebrità locale e passa al grado di impiegato, poi di istitutore. Un ricco commerciante lo prende sotto la sua protezione e gli procura una somma di denaro perché possa continuare a scrivere. Così nasce nel 1879, una seconda opera, Frida, che gli editori rifiutano. La speranza di diventare scrittore svanisce, malgrando un tentativo di entrare in contatto con Björnson…

Comincia allora un nuovo periodo di vagabondaggio: Hamsun è sterratore, cantastorie, capomastro in una cava, etc…, e le sue sole gioie sono i balli del sabato sera. Nel 1882, a 23 anni, parte per l’America dove la vita sarà assai più difficile che in Norvegia e dove Hamsun sarà di volta in volta guardiano di porci, impiegato di commercio, aiuto muratore e commerciante di legname. A Minneapolis, egli vivrà giorni migliori in una comunità di predicatori “unitariani”, di Norvegesi, immigrati come lui in America. Questa posizione gli permette di tenere regolarmente conferenze su diversi temi letterari: là il suo stile si afferma e questo giovane, di bell’aspetto, energico e forte, trasforma le sue delusioni e i suoi rancori in sarcasmo ed in uno humour feroce, colorito, in cui emerge quel genio che non sarà riconosciuto che alcuni anni dopo.

La fame in una mansarda di Copenaghen

Dopo un breve ritorno in Norvegia, egli ritorna in America e vive a Chicago dove fa il bigliettaio di tram. Questo secondo soggiorno americano non dura che qualche anno e, definitivamente deluso, rientra in Scandinavia. Si installa a Copenaghen, in una squallida mansarda, con la fame che gli attanaglia le viscere. Questa fame, questa miseria che gli attacca alla pelle, lo renderà celebre in un batter d’occhio. Dimagrito, mezzo barbone, egli presenta una bozza di romanzo, scritto nella sua mansarda danese, a Edvard Brandes, fratello di Georg Brandes, amico danese ed ebreo di Nietzsche, grande critico del cristianesimo pauliniano, presentato come antenato del comunismo livellatore. Georg Brandes fa uscire questo abbozzo anonimamente nella rivista Ny Jord (”Terra Nuova”) ed il pubblico si entusiasma, i giornali reclamano testi di questo autore sconosciuto e così affascinante. L’era delle vacche magre è definitivamente terminata per Hamsun, a 29 anni. Fame descrive le esperienze dell’autore confrontate con la fame, i fantasmi che essa fa nascere, i nervosismi che essa suscita… Questo scritto d’introspezione colpisce le tecniche letterarie in voga. Esso coniuga romanticismo e realismo. E Hamsun scrive: “Quello che mi interessa è l’infinita varietà di movimenti della mia piccola anima, l’estraneità originale della mia vita mentale, il mistero dei nervi in un corpo affamato!…”. Quando Fame esce in forma di libro nel 1890, il pubblico scopre una nuova giovinezza dello scrivere, uno stile completamente nuovo, impulsivo, capriccioso, di un’infinita finezza psicologica, trasmesso da una scrittura viva, abbellita dalle forme sorprendenti in cui si esprime lo humour sarcastico, vitale, costruito di audaci paradossi, che Hamsun aveva già palesato nelle sue prime conferenze americane. Fame rivela anche un individualismo nuovo, giovanile e fresco. Hamsun scrive che i libri ci devono insegnare “i mondi segreti che si fanno, fuori dalla vista, nelle pieghe nascoste dell’anima, … quei meandri del pensiero e del sentimento; quegli andirivieni estranei e fugaci del cervello e del cuore, gli effetti singolari dei nervi, i morsi del sangue, le preghiere delle nostre midolla, tutta la vita inconscia dell’anima”. La fine del secolo deve lasciare posto all’individualità e alle sue originalità, alle complessità che non corrispondono ai sentimenti e all’anima dell’uomo moderno. Complessità che non sono stereotipate in abitudini gravose, nelle routine borghesi ma vagabondano e vedono, grazie al loro completo distacco, le cose nella loro nudità. Questo rapporto diretto con le cose, questo aggiramento delle convenzioni e delle istituzioni, permette l’audacia e la libertà di aggrapparsi all’essenziale, alle grandi forze telluriche e vieta il ricorso ai piccoli piaceri stereotipati, al turismo convenzionale. L’individuo che vagabonda tra se stesso e la Terra onnipresente non è l’individuo-numero, perduto in una massa amorfa, privo di ogni legame carnale con gli elementi.

In Fame, l’affamato si distacca dunque totalmente dalla comunità degli uomini; la sua interiorità ripiega su se stessa come quella del bambino Hamsun che vagabondava nella foresta, errava nel cimitero o si piazzava in cima ad una collina per assorbire le bellezze del paesaggio. L’affamato non sviluppa alcun rancore né rivendicazione contro la comunità degli uomini; egli non l’accusa. Si limita a constatare che il dialogo tra sé e questa comunità è divenuto impossibile e che solo l’introspezione è arricchimento.

Da queste impressioni di affamati, dall’impossibilità del dialogo individuo/comunità, decolla tutta l’antropologia che ci suggerisce Hamsun. Perché è senza dubbio inutile passare in rassegna la sua biografia, enumerare tutti i libri da lui scritti, se si passa a lato di questa implicita antropologia, onnipresente in tutta la sua opera. Se si trascura di darne una traccia, sia pure fugace, non si comprende nulla del suo messaggio metapolitico né del suo successivo impegno militante accanto a Quisling.

La società urbana, industriale, meccanizzata, pensa e afferma Hamsun, ha distrutto l’uomo totale, l’uomo intero, l’odalsbonde della tradizione scandinava. Essa ha distrutto i legami che uniscono ogni uomo totale agli elementi. Risultato: il contadino, strappato alla sua gleba e scagliato nelle città perde la sua dimensione cosmica, acquisisce sterili manie, i suoi nervi non sono più in comunione con l’immanenza cosmica e si agitano sterilmente. Se si parla in linguaggio heideggeriano, si può dire che il senso di abbandono urbano, modernista, precipita l’uomo nell’”inautenticità”. Sul piano sociale, la rottura dei legami diretti e immediati, che l’uomo rimasto integro mantiene con la natura, conduce ad ogni sorta di comportamento aberrante o all’errare, al vagabondaggio febbrile dell’affamato.

Gli eroi hamsuniani, Nagel di Misteri, soprannominato lo “straniero dell’esistenza”, e Glahn di Pan, sono delle comete, delle stelle strappate alle loro orbite. Glahn vive in comunione con la natura, ma dei capricci urbani, incarnati dall’immagine di Edvarda, donna fatale, gli fanno perdere questa armonia e lo portano al suicidio, dopo un viaggio nelle Indie, cerca assai febbrile quanto inutile. Entrambi vivono il destino di questi vagabondi che non hanno la forza di ritornare definitivamente alla terra o che, per stupidità, lasciano la foresta che li aveva accolti, come aveva fatto Hamsun all’epoca del suo breve sogno americano.

Il vero modello antropologico di Hamsun è Isak, l’eroe centrale de Il Risveglio della Gleba: Isak vive nei suoi campi, spinge il suo aratro, sviluppa la sua attività, persegue il suo compito, nonostante le elucubrazioni della sua sposa, le sciocchezze di suo figlio Eleseus che vegeta in città, si rovina e sparisce in America, nonostante l’impianto temporaneo di una miniera vicino al suo podere. Il mondo delle illusioni moderne turbina attorno ad Isak che resiste imperturbabile e vince. La sua impermeabilità naturale, tellurica, nei confronti delle manie moderne, gli permette di lasciare a suo figlio Sivert, il solo figlio che gli rassomigli, una fattoria ben organizzata e con un avvenire sicuro. Né Isak né Sivert sono “morali” nel senso puritano e religioso del termine. La natura che dà loro forza e consistenza non è una natura ideale, costruita, alla moda di Rousseau, ma una compagna dura; essa non è un modello etico, ma la sorgente primaria verso la quale ritorna il vagabondo che il modernismo ha distaccato dalla sua comunità e condannato alla fame nei deserti urbani.

E’ dunque nel vagabondaggio, nelle innumerevoli esperienze esistenziali che il vagabondo Hamsun ha vissuto tra i 14 e i 29 anni, nella coscienza che questo vagabondaggio è stato causato da queste illusioni moderniste che perseguitano i cervelli umani dell’età moderna e li spingono scioccamente a costruire dei sistemi sociali che escludono totalmente gli uomini originali; è in tutto questo che si è forgiata l’antropologia di Hamsun.

Prima di far uscire Fame, Hamsun aveva pubblicato una requisitoria contro l’America, paese dell’errare infruttuoso, paese che non racchiude alcuna terra in cui ritornare quando pesa l’erranza. Questo antiamericanismo, esteso ad un’ostilità generale verso il mondo anglosassone, rimarrà una costante nei sentimenti para-politici di Hamsun. La sua successiva critica del turismo di massa, principalmente anglo-americano, è un’eco di questo sentimento, abbinato all’umiliazione del fiero norvegese che vede il suo popolo trasformato in una popolazione di cameriere e di baristi.

Se questo pamphlet antiamericano, Fame, Pan, Victoria, Sotto la stella d’autunno, Benoni, ecc., sono le opere del primo Hamsun, del vagabondo ribelle e impetuoso, dello sradicato anche se conosce la propria intima ferita, il romanzo Un vagabondo suona in sordina (1909), che esce quando Hamsun raggiunge i cinquant’anni, segna una transizione. Il vagabondo di mezzo secolo guarda al suo passato con tenerezza e rassegnazione; egli ormai sa che è passata l’epoca dei sentimenti ardenti e adotta uno stile meno folgorante e meno lirico, più posato, più contemplativo. In compenso, il soffio epico e la dimensione sociale acquisiscono un’importanza maggiore. L’ambiente sofferto di Fame, il lirismo di Pan cedono il posto ad una critica sociale acuta, priva di ogni concessione.

E pure a 50 anni, nel 1909, che Hamsun si sposa per la seconda volta (un primo matrimonio era fallito) con Marie Andersen, di 24 anni più giovane, che gli darà numerosi figli e rimarrà al suo fianco fino alla fine. Il vagabondo diviene sedentario, ritorna contadino (Hamsun acquista diverse fattorie, prima di stabilirsi definitivamente a Nörholm), ritrova il suo angolo di terra e vi si attacca. L’avvenimento biografico si ripercuote nell’opera e l’innocente anarchico si spoglia dei suoi eccessi e si colloca nel suo “ideale”, quello incarnato da Isak. La trama de Il Risveglio della Gleba, è la coniugazione del passato vagabondo e del reintrecciarsi in un territorio, la dialettica tra l’individualità errante e l’individualità che fonda una comunità, tra l’individualità che si lascia sedurre dalle chimere urbane e moderne, dagli artifici ideologici e disincarnati, e l’individualità che porta a compimento il suo impegno, imperturbabilmente, senza lasciare la Terra degli occhi. La potenza di questi paradossi, di queste opposizioni, vale ad Hamsun il Premio Nobel della Letteratura. Il Risveglio della Gleba, con il suo personaggio centrale, il contadino Isak, costituisce l’apoteosi della prosa hamsuniana.

Vi si ritrova quella volontà di ritorno all’elementare che sostenevano specialmente Friedrich-Georg Jünger e Jean Giono.

Il modello antropologico hamsuniano corrisponde anche all’ideale contadino del “movimento nordico” che muove la Germania e i paesi scandinavi dalla fine del XIX secolo e che, in seguito, i nazionalsocialisti Darré e von Leers incarnano nella sfera politica. Negli anni 20 si affermano dunque in Hamsun tre opinioni politicizzabili:

1) il suo antiamericanismo e la sua anglofobia,

2) il suo astio nei confronti dei giornalisti, propagatori delle illusioni moderniste (Cf. Il redattore Lynge) e

3) la sua implicita antropologia, rappresentata da Isak.

A questa si aggiunge una frase, tratta dai Vagabondi: “Nessun uomo su questa terra vive di banche e industria. Nessuno. Gli uomini vivono di tre cose e di nient’altro: del grano che spunta nei campi, del pesce che vive nel mare e degli animali ed uccelli che crescono nella foresta. Di queste tre cose”. Qui è facile tracciare il parallelo con Ezra Pound ed il suo maestro, l’economista anarchizzante Silvio Gesell, per quel che concerne l’ostilità nei confronti delle banche. L’odio verso il meccanicismo industriale lo ritroviamo in Friedrich-Georg Jünger. E Hamsun non anticipa Baudrillard nello stigmatizzare i “simulacri”, che costituiscono la caratteristica delle nostre società dei consumi?

Davanti a questa offensiva del modernismo, bisogna, scrive Hamsun a 77 anni, in Il cerchio si chiude (1936), stare ai margini, essere un enigma costante per coloro che aderiscono alle seduzioni del mondo mercantile.

I quattro temi ricorrenti del discorso hamsuniano e la presenza ben ancorata nel pensiero norvegese dei miti romantici e nazionalisti del contadino e del vikingo, conducono Hamsun ad aderire al Nasjonal Sammlung di Vidkun Quisling, il leader populista norvegese. Questi opta nel 1940 per un’alleanza con il Reich che occupa fulmineamente il paese con la campagna d’aprile, in quanto la Francia e l’Inghilterra sono sul punto di sbarcare a Narvik e di violare simultaneamente la neutralità norvegese al fine di tagliare la strada del ferro svedese. Durante tutta la guerra, Quisling vuole formare un governo norvegese indipendente, incluso in una confederazione grande-germanica, alleata con una Russia sbarazzata dal sovietismo, in seno ad un’Europa in cui l’Inghilterra e gli Stati Uniti non avranno più alcun diritto d’intervento.

La “collaborazione” di Hamsun consiste nel difendere con la penna quella politica, quella versione del nazionalismo norvegese, e nello spiegare il suo impegno durante un congresso di scrittori nel 1943 a Vienna. Hamsun viene arrestato nel 1945, internato in un istituto per alienati, poi in un ospizio per anziani e infine portato davanti alla giustizia. Nel corso di questo penoso periodo, il nonagenario Hamsun redige la sua ultima opera, Sui sentieri dove ricresce l’erba (1946). Una lettera di Hamsun al Procuratore Generale del Regno merita ancora la nostra attenzione perché il tono che egli vi adotta è altero, beffardo, condiscendente: prova che lo spirito, le letteratura, il genio letterario, trascendono, anche nella peggiore avversità, il lavoro spregevole e mediocre dell’inquisitore. Hamsun il Ribelle, vecchio e prigioniero, rifiuta ancora di inchinarsi davanti a un Borghese, sia pure il supremo magistrato del regno. Un esempio…

Robert Steuckers

Fonte:http://www.centrostudilaruna.it/knuthamsunitinerario.html

 

Dressage capitaliste

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Dressage capitaliste

 

Contrairement à une vision encore très répandue dans les milieux d’extrême gauche, il y a déjà bien longtemps que le dressage capitaliste des classes populaires ne repose plus prioritairement sur l’action de la police ou de l’armée (…). De nos jours, il devrait, au contraire, être devenu évident pour n’importe qui que le développement massif de l’aliénation trouve sa source véritable et ses points d’appui principaux dans la guerre totale que les industries combinées du divertissement, de la publicité et du mensonge médiatique livrent quotidiennement à l’intelligence humaine. Et les capacités de ces industries modernes à contrôler “le temps du cerveau humain disponible” sont, à l’évidence, autrement plus redoutables que celles du policier, du prêtre ou de l’adjudant – figures qui impressionnent tellement les militants des “nouvelles radicalités”.

 

Jean-Claude MICHEA, “La double pensée – Retour sur la question libérale”, coll. Champs/Essais, Flammarion, 2008.

 

 

samedi, 13 décembre 2008

Déchiffrer les intentions d'Obama dans le sous-continent indien

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Déchiffrer les intentions d’Obama dans le sous-continent indien

Réflexions après l’entretien accordé au « Spiegel » par Bruce Riedel

Bruce Riedel, 55 ans, est un ancien de la CIA, expert ès-questions islamistes. Il vient d’être nommé conseiller de Barack Obama. Dans un ouvrage récent, intitulé « The Search for Al Qaeda », paru chez un éditeur prestigieux, Brookings Institution Press à Washington, il avait prévu un attentat islamiste de grande ampleur en Inde, suivi d’un risque très élevé de confrontation entre les deux puissances atomiques du sous-continent indien, avec, bien entendu, le risque d’un usage militaire du nucléaire pour la première fois depuis Hiroshima et Nagasaki.

Après les attentats de Bombay/Mumbai, qui ressemblent curieusement au scénario évoqué par Riedel dans son ouvrage, les soupçons de la police indienne se portent sur un mouvement islamiste indo-pakistanais, le Lashkar-i-Toiba (LiT), dont l’objectif a toujours été de susciter la crise entre l’Inde et le Pakistan, afin de récupérer pour l’Oumma musulmane le Cachemire et, à terme, la vallée du Gange où vivent la plupart des 120 millions de musulmans d’Inde. Aujourd’hui, le LiT rejette la politique d’apaisement du nouveau président pakistanais Asif Ali Zardari, veuf de Benazir Bhutto. Cette politique de Zardari, couplée à celle du Parti du Congrès au pouvoir en Inde, semblait marquer des points et aider à conjurer l’éventualité d’un conflit. C’est, explique Bruce Riedel dans l’entretien qu’il vient d’accorder au « Spiegel », sans compter sur ceux qui, au Pakistan, vivent de la confrontation entre les deux pays. Les attentats de Bombay/Mumbai ont tenté de torpiller le rapprochement et de viser le cœur de la vie économique indienne. Pour Bruce Riedel, l’offensive anti-indienne du LiT repose, en coulisses, sur une alliance ancienne, datant de la dernière décennie de la Guerre Froide, entre Ben Laden et l’ISI, le service secret pakistanais. Cette alliance avait reçu l’aval des Américains afin de bloquer toute avancée soviétique en direction du sous-continent, selon les recettes héritées de la politique britannique dans la région au cours du 19ème siècle. Les Américains avaient délibérément tablé sur l’islamisme, à l’époque, pour clouer les Soviétiques en Afghanistan, leur infliger une guerre d’usure selon les tactiques dites « lawrenciennes » de harcèlement par partisans tribaux. Une fois le danger soviétique éliminé, le tandem Ben Laden/ISI n’a pas décidé de déposer les armes mais de se retourner contre l’Inde, fort de ses expériences afghanes. L’offensive talibano-pakistanaise visait essentiellement la reconquête totale du Cachemire au bénéfice de l’Oumma. Les islamistes considèrent, en effet, que le Cachemire est une deuxième Palestine occupée non pas par les tenants de l’idéologie sioniste mais par l’ennemi hindou.

Dans ce contexte explosif, qui brouille les repères établis en Afghanistan au temps de la Guerre Froide, les Américains ne parviennent pas à savoir clairement si l’ISI pakistanais coopère encore avec des éléments du LiT ou d’Al Qaeda. Officiellement, Musharraf, le prédécesseur de Zardari, avait rompu les liens entre ses services secrets et les talibans.  Riedel avoue que les Etats-Unis ont fabriqué un « monstre », dont ils ne sont plus les maîtres. Un monstre qui se réfugie aujourd’hui dans la « zone tribale », en lisière d’une frontière afghane finalement fort mal définie et tout à fait poreuse. Personne n’a jamais vraiment pu contrôler cette « zone tribale » ou « Waziristan » : ni les Britanniques jadis (on se souviendra du film « L’Homme qui voulait être Roi » avec Sean Connery et d’après une nouvelle de Kipling) ni les Pakistanais depuis 1947. Cette zone échappe à toutes les autorités.

Pire, constate Riedel, et son aveu est de taille, les 800.000 citoyens britanniques d’origine pakistanaise constituent un vivier très intéressant pour le LiT et Al Qaeda, car le passeport britannique ouvre toutes les portes. Et quid des centaines de milliers d’autres ressortissants de pays susceptibles de tomber dans les séductions de l’islamisme radical ? On se souviendra que l’un des assassins du Commandant Ahmed Shah Massoud avait, lui, un passeport belge.

Bruce Riedel est donc l’un des hommes qui va faire la politique que l’histoire attribuera à Obama.  Celui-ci a annoncé qu’il préférera mettre le « paquet » sur l’Afghanistan plutôt que sur l’Irak. Il doit donc créer une situation d’urgence et de terreur en marge du territoire afghan et tenter d’éliminer le facteur trouble et ambigu qu’est l’ISI, un acteur sur la scène de l’Hindu Kush qui a toujours joué sur deux tableaux, rendant ainsi la situation ingérable pour les Etats-Unis et plongeant l’Afghanistan dans un cortège de misères que ce pays splendide n’a certes pas mérité.

Dans son entretien accordé au « Spiegel », Riedel noircit le tableau à l’extrême et sans nul doute à dessein : il annonce le risque d’un nouveau 11 septembre, des attentats à l’arme biologique ou nucléaire, etc. Les Américains craignent qu’une partie du savoir technologique nucléaire du Pakistan ne tombe aux mains d’organisations terroristes. Riedel marque dès lors son accord avec la politique de Bush, prouvant par cette affirmation que la politique d’Obama ne sera pas une rupture mais une continuité dans le déploiement du bellicisme américain, les démocrates ayant été plus souvent, au cours de l’histoire, fauteurs de guerres et de carnages que les Républicains. La politique suggérée par Bush, dans la région et plus particulièrement dans la « zone tribale », était d’attaquer avec l’appui des drones « Predator » de l’US Air Force et des « troupes spéciales ». La seule différence, c’est que l’Administration Obama se montrera plus  diplomatique puisque le monde entier, et surtout les Européens de l’Axe Paris/Berlin/Moscou, avait reproché à l’équipe sortante de fouler aux pieds les principes traditionnels de la diplomatie. En l’occurrence, les Démocrates feront mine de respecter davantage la souveraineté pakistanaise dans la zone car, en fin de compte, seul l’Etat pakistanais sera en mesure d’y restaurer l’ordre.

Quand la journaliste du « Spiegel » Cordula Meyer lui demande si la paix au Cachemire comme en Palestine ne serait pas la meilleure garantie d’une disparition à terme d’Al Qaeda, Bruce Riedel répond qu’effectivement, dans ce cas, les masses musulmanes ne montreraient plus guère d’intérêt pour l’islamisme radical qui bascule parfois dans le terrorisme. Le vivier de celui-ci serait définitivement asséché. Mais nous n’en sommes pas encore là… Riedel annonce, dans cette perspective, que le Proche Orient bénéficiera d’une priorité dans la diplomatie américaine. Reste à attendre ce que cette nouvelle diplomatie donnera comme résultats… Riedel annonce également le projet d’un « Plan Marshall » pour l’Afghanistan et le Pakistan car la misère qui règne dans ces deux pays entraine les masses dans le radicalisme comme elle aurait pu entrainer en Europe la renaissance d’un européisme national-socialiste ou fasciste voire une alliance de ce socialisme et de cet anti-impérialisme des « havenots » avec le communisme stalinien qu’il avait pourtant combattu (voir les derniers articles de Drieu la Rochelle et de son jeune disciple wallon, speaker à la radio des émigrés du Hanovre, Valère Doppagne).

Et à quoi devrait servir ce « Plan Marshall » en priorité ? A construire des routes, affirme Riedel. Car sans un réseau routier, il n’y a pas d’agriculture possible à grande échelle, autre que la seule richesse de l’Afghanistan actuel, l’héroïne. La boucle routière afghane n’est même plus accessible partout et l’Administration Obama retient les griefs des commandants de l’OTAN en Afghanistan : les aires contrôlées par les talibans commencent justement là où il n’y a plus de routes.

L’entretien accordé par Riedel au « Spiegel » montre bien quelle est la différence d’intention entre Bush et Obama : le plan visant à créer des infrastructures routières en Afghanistan ne date pas d’hier ; l’administration néo-conservatrice ne l’avait pas retenu, préférant mettre toute la gomme sur l’Irak et ses pétroles. L’analyse des militaires et de la nouvelle administration est juste : les routes afghanes n’ont été refaites ni après le départ de l’Armée Rouge ni après l’entrée des troupes de l’OTAN à Kaboul, négligence qui précipite le pays dans un chaos structurel et dans le désordre total. La volonté de doter le pays d’une infrastructure routière participe d’une logique plus impériale que celle, volontairement génératrice de chaos, des néo-conservateurs, qui entendaient naguère se poser uniquement comme policiers du monde, en ne se préoccupant pas de structurer les régions conquises, contrôlées et neutralisées. Mais on ne contrôle pas sur le long terme sans structurer : la leçon de Rome, empire des routes, est là pour nous le rappeler. Pourtant, Brzezinski, cet ancien conseiller de Carter et de Clinton qui revient en coulisses, avait préconisé la stratégie « mongole » : détruire et ne pas reconstruire de crainte qu’un empire concurrent et surtout durable ne s’installe en Asie centrale, en cas de retrait ou de ressac américain. En effet, que se passerait-il si une puissance tierce, perse, indienne ou russe arrivait ou revenait dans un Afghanistan structuré avec l’argent du contribuable américain ?

Enfin, pour pacifier définitivement l’Afghanistan et gagner la guerre entamée là-bas il y a sept ans, il faut disloquer l’alliance implicite et tacite entre l’Etat pakistanais et les djihadistes du Pakistan. Quelle solution préconise Riedel ? Parier sur la « démocratie pakistanaise »,  soit sur Zardari et épauler ce pari par le nouveau « Plan Marshall » (mais y aura-t-il encore assez d’argent ?). Le pays a déjà reçu 11 milliards de dollars d’aide américaine. Les Démocrates, dont le futur vice-président Joe Biden, suggèrent au moins de tripler le budget et de l’amener, dans un premier temps, à 1,5 milliard chaque année, pour que le Pakistan ne devienne pas un « Etat failli » (voir la définition qu’en donne Noam Chomsky) comme la Somalie ou le Liban. Notre question : est-ce possible ? Riedel ajoute que la préoccupation de la nouvelle administration démocrate est le Pakistan parce que celui-ci dispose d’au moins soixante têtes nucléaires et que celles-ci ne peuvent pas tomber entre n’importe quelles mains.

Enfin, à la question de la journaliste qui lui demandait pourquoi les Américains n’avaient pas encore attrapé Ben Laden, Riedel répond cette fable à laquelle seuls les naïfs croiront : les Américains n’ont pas encore trouvé Ben Laden parce que les ressources pour la chasse à l’homme ne sont plus disponibles depuis 2002 et qu’il s’avère dès lors difficile de reprendre l’enquête… Avec « Google Earth » vous pouvez déjà inspecter votre propre maison et la plupart des polices urbaines disposent de micros ultra-sensibles pour épier n’importe quelle conversation à travers les murs d’un immeuble, mais les services secrets de la plus grande puissance de tous les temps seraient incapables de trouver un fugitif, fût-ce au fin fond des montagnes et des vallées du Waziristan… A moins qu’on ne veuille pas l’entendre témoigner sur la collusion entre son réseau, la pétro-monarchie saoudienne, les pétroliers texans, l’ISI et les services américains…

Pour les européistes lucides :

-        considérer que l’Afghanistan appartient en fait aux zones d’influence russe et persane et non pas à des « raumfremde Mächte »;

-        que l’Inde doit être liée à la Russie et à l’Europe par une bande territoriale sécurisée, incluant l’ensemble du Cachemire/Jammu, de façon à souder un ensemble eurasien non lié à l’islam et/ou à un quelconque impérialisme thalassocratique ;

-        que l’Afghanistan mérite certes une bonne infrastructure routière mais que celle-ci ne doit pas seulement venir de fonds américains ;

-        que les démocrates ne sont pas des pacifistes et que cette volonté de structurer l’Afghanistan participe du grand plan impérialiste du « Greater Middle East », correspondant peu ou prou au territoire de l’USCENTCOM ; structurer l’Afghanistan sert surtout à dominer un territoire surplombant les régions voisines que sont l’Iran, l’Asie centrale, le Pakistan et, de là, la vallée du Gange, selon la direction géopolitique qu’avaient jadis empruntée les conquérants afghans et islamisés de l’Inde ; le fait de vouloir doter l’Afghanistan de bonnes routes ne dérive donc pas d’un humanisme qui prendrait les Afghans sous sa douce aile protectrice ni du désir ardent de leur apporter une belle démocratie eudémoniste, elle vient d’une volonté de dominer la région pour longtemps, d’y ancrer les bases nécessaires à une installation de très longue durée ;

-        que l’alliance entre l’islam sunnite et les Etats-Unis existe toujours, mais qu’il a pris d’autres formes depuis le 11 septembre 2001 ;

-        que les services américains, sous la nouvelle égide des démocrates, ne trouveront pas davantage Ben Laden que leurs homologues républicains et néo-conservateurs (et pour cause…), car l’alliance islamistes/USA date précisément du temps de l’administration démocrate de Carter, dont l’un des conseillers était Brzezinski, pour qui tous les moyens étaient bons pour chasser la Russie de l’Asie centrale ;

-        que les attentats de Bombay/Mumbai devront être interprétés plus tard comme des machinations ourdies probablement par des forces tierces, dans un but de déstabilisation de la région et/ou de manipulation médiatique en vue d’avancer des pions sur l’échiquier afghan, dans l’Océan Indien ou dans la périphérie birmane ou thaï du sous-continent indien, voire dans l’Himalaya ;

-        que l’Inde a intérêt, comme le souhaitent le BJP et le RSS, à ne pas demeurer une « société composite », c’est-à-dire une société à diverses composantes généralement antagonistes, car toutes les sociétés de ce type sont vouées au « dissensus » civil permanent, au déclin, à l’inefficacité et à la misère ;

-        que les attentats de Bombay/Mumbai visaient peut-être à écarter le BJP du pouvoir et à préconiser une politique d’apaisement reposant sur Zardari au Pakistan et sur le parti du Congrès en Inde et que l’éventualité d’un retour aux affaires du BJP contrarierait l’éclosion lente et graduelle du « Greater Middle East » dont l’Inde n’est pas appelée à faire partie ; que tout retour du BJP aux affaires entrainerait le déplacement vers la frontière indienne de 120.000 soldats pakistanais actuellement en poste face à la « zone tribale », où les Américains ou l’OTAN devraient aller les remplacer, sans connaître le terrain ; que le projet de créer un « Greater Middle East » se verrait retardé en cas de nouveau conflit indo-pakistanais ;

-        que les Etats-Unis d’Obama éprouveront bien des difficultés à calmer le vieux et lourd contentieux indo-pakistanais et que ces difficultés doivent nous inciter à proposer une solution euro-russe pour le sous-continent indien.

 

(Source : « Das Auge des Sturms », Entretien avec Bruce Riedel, propos recueillis par Cordula Meyer, « Der Spiegel », n°50/2008 ; résumé et commentaires de Robert Steuckers).  

 

 

L'Europe et Obama

 

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L’Europe et Obama

Le nouveau président américain, Barack Obama, possède incontestablement un grand charisme, une constitution d’acier (« Je ne l’ai jamais vu fatigué », écrit H. J. A. Hofland, qui a suivi la campagne électorale aux Etats-Unis, dans le quotidien néerlandais « NRC-Handelsblad », en date du 5 novembre 2008) ; en outre, Obama a pu rassembler des sommes d’argent considérables lors de ces présidentielles ; d’après les estimations, quelque deux milliards de dollars ont été injectés dans sa campagne (« Rita Verdonk pourrait-elle devenir, elle aussi, présidente avec un tel pactole ? », se demandait-on aux Pays-Bas, dans les colonnes du « NRC-Handelsblad » du 5 novembre 2008). L’historien américain Simon Schama, spécialiste de l’histoire néerlandaise qui enseigne à Amsterdam, qualifie Obama de « politicien populiste », qui « revient aux grassroots, grâce auxquelles le pays pourra retrouver son élan » ; Schama pense qu’Obama doit son succès à ce populisme (émission NOS sur la chaine NL2, 4 novembre 2008). Incontestablement, Obama force le respect, commente « Newsweek » (3 nov. 2008), qui constate, avec étonnement, qu’il est probablement le premier candidat à la présidence qu’aucun clown de cabaret en Amérique n’a ridiculisé.

Mais cela n’ôte rien au fait que l’euphorie et l’Obamania européennes sont exagérées. L’avalanche de superlatifs, que nous avons subie, par ses outrances, générait un sentiment de malaise, même si on peut la comprendre. Les années Bush ont laissé un goût d’amertume dans toute l’Europe. Dans une enquête publiée en septembre et commentée dans le « NRC-Handelsblad » du 1 nov. 2008, on nous rappelle qu’en 2002 64% des Européens estimaient souhaitable que les Américains exercent un leadership en politique internationale ; en 2008, il n’y en avait plus que 36% pour émettre une telle opinion.

Mais l’euphorie actuelle risque d’apporter de solides désillusions (comme le constate l’article principal du « Monde », le 7 nov. 2008 : « cette euphorie porte en elle-même le risque de déception »). Ces déceptions sont effectivement inévitables. L’Amérique est de moins en moins dominée par des immigrants dont les ancêtres étaient Européens. Parfois les Européens imaginent que les Américains sont amoureux de l’Europe, mais ce n’est pas le cas. L’équivalent de l’Obamania, qui sévit de ce côté-ci de l’Atlantique, est difficilement imaginable aux Etats-Unis. La plupart des Américains ne savent même pas qui est le Président de la France car cela ne les intéresse pas. Lors de la campagne électorale, qui vient de se dérouler aux Etats-Unis, l’Europe n’a joué aucun rôle, si ce n’est négatif : lorsqu’Obama a débarqué le 25 juillet à Paris, il a refusé de rencontrer une personnalité de l’opposition socialiste car ses conseillers de campagne lui avaient bien fait comprendre qu’il ne fallait surtout pas apparaître en photo avec un socialiste européen. A Londres, il a posé sans hésiter avec le chef de l’opposition conservatrice. A Berlin, il n’a pas pu échapper à une poignée de main furtive avec le ministre social-démocrate des affaires étrangères du cabinet Merkel, mais, ostensiblement, il regardait dans la direction opposée ; la photo, de surcroît, n’a pas pu paraître en Amérique.

On peut partir du principe qu’Obama a tout en lui pour devenir un grand homme d’Etat et l’expérience de l’histoire nous apprend que les hommes d’Etat sont des politiques qui ne connaissent pas de plus haut intérêt que l’intérêt national. Cela vaudra aussi pour Obama. Seuls des intérêts américains guideront sa politique (« Le Monde », op. cit., 7 nov. 2008 : « Ce sont les intérêts strictement américains qui dicteront la conduite du président Obama »). Ses admirateurs de la gauche européenne trouveront sans nul doute sa gestion problématique, peu conforme à leur desiderata : « nous, les Américains, restons un pays de droite », déclare le rédacteur en chef Jon Meacham, dans le numéro de « Newsweek » du 20 oct. 2008, un hebdomadaire que l’on qualifie de « progressiste » aux Etats-Unis.

Pendant la campagne, Obama est resté assez vague. Son slogan principal, « Change », « Changement », il l’a annoncé à cors et à cris mais quand on lui demandait d’expliciter davantage ce concept, il s’enlisait dans une rhétorique creuse, certes servie par le talent d’un grand orateur. Après ses explications, on n’en savait pas davantage qu’auparavant. Comment Obama affrontera-t-il la récession dans un pays où les finances s’avèrent quasi ingérables ? Les Démocrates américains ont tendance, habituellement, à recourir au protectionnisme commercial mais s’ils mènent une telle politique qualifiable de « notre-peuple-d’abord », alors les entreprises automobiles de Gand, Anvers et Genk peuvent d’ores et déjà songer à fermer très bientôt leurs portes. Je ne sais pas si la gauche flamande conservera alors son enthousiasme pour Obama…

Et la politique étrangère ? Le premier acte d’Obama a été de nommer chef de l’état-major de la Maison Blanche (l’équivalent du chef de cabinet du Roi chez nous) un citoyen israélien qui a milité naguère dans les mouvements sionistes les plus extrémistes de son pays. Lors de sa première conférence de presse, Obama n’a abordé qu’une seule thématique de la politique internationale, l’Iran, en lançant une attaque en règle contre ce pays, utilisant une terminologie courante à Tel Aviv. Voilà qui n’est pas pour nous tranquilliser.

Dans l’allocution qu’il a prononcée immédiatement après sa victoire, le Président a annoncé qu’ « une aurore nouvelle se levait pour le leadership américain ». C’est finalement la même rhétorique que Bush, à la différence qu’Obama est plus convaincant. Mais est-ce vraiment ce que nous souhaitons, ici en Europe ? Avons-nous vraiment besoin d’un leadership, américain ou autre ? Surtout si l’on sait que ce terme de « leadership » n’est qu’un euphémisme pour désigner l’hégémonisme ? La Russie, le monde arabe et la Chine ont réagi tout de suite et négativement en entendant cette déclaration d’intention. L’Europe, elle, a gardé le silence et tournait ses regards, pleine d’espoir et avec une naïveté enfantine, vers Obama. Accordons toutefois à Obama le bénéfice du doute, en attendant janvier 2009, quand il prendra véritablement le gouvernail de l’Amérique entre les mains, quand il dira clairement ce qu’il nous faudra entendre sur tous les aspects de la politique étrangère et économique des Etats-Unis.

(article paru dans « Journaal - De Nieuwsbrief van Mark Grammens », n°537, 20 nov. 2008, Liedekerke/Brabant/Flandre).

 

 

Europe: le temps joue pour le populisme

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Europe : le temps joue pour le populisme

Condensé de la communication de Jean-Yves Le Gallou à la XXIVe université
annuelle du Club de l'Horloge sur :
Le populisme : une solution pour l'Europe en crise

1. Le populisme : une dissidence politique populaire

Le populisme est une attitude politique qui conduit les électeurs à se recentrer sur les notions sous-jacentes à l’identité et aux libertés nationales et à se détacher des « partis de gouvernement » qui se partagent le pouvoir en Europe, pouvoir que ces partis exercent dans le sens des intérêts de l’hyperclasse mondiale et de son idéologie dominante, l’idéologie mondialiste et antiraciste qui la conforte.

Prenant racine dans des pays européens différents, les populismes expriment des particularismes nationaux et locaux mais tous se retrouvent dans une expression populaire et électorale qui tourne autour des cinq « I » :

         - moins d’Immigration,
         - moins d’Islamisation,
         - moins d’Impôts,
         - plus d’Identité,
         - plus d’Indépendance.

2. Le populisme : une cause difficile et souvent décevante pour ses partisans

Le populisme a trouvé une expression électorale significative depuis plus de vingt ans dans de très nombreux pays d’Europe de l’Ouest. Néanmoins ses résultats n’ont nulle part permis d’avancées décisives, ce qui peut conduire les pessimistes à croire que la cause du populisme est désespérée :
- le succès électoral ne garantit pas l’accès au pouvoir ;
- lorsqu’il est au rendez-vous, l’accès au pouvoir est précaire ;
- la participation des populistes à des gouvernements nationaux ou locaux ne garantit pas la mise en œuvre des mesures souhaitées par leurs électeurs.

3. Les difficultés des populistes proviennent de leur opposition frontale aux intérêts et à l’idéologie dominante

La difficulté majeure des populistes ne vient pas des faiblesses de leurs dirigeants mais de ce qu’ils sont et de ce qu’ils défendent. En s’opposant à l’ordre établi par les puissances dominantes (grandes institutions internationales, grandes entreprises mondiales, grandes administrations, grands lobbies, grands médias), les populistes livrent une bataille asymétrique du faible au fort.

En fait, deux armes de destruction massive sont utilisées contre les mouvements populistes : la diabolisation et la répression politique et judiciaire.

4. L’arme de la diabolisation

La diabolisation est l’instrument utilisé pour imposer la tyrannie du politiquement correct, grâce notamment à une « novlangue » de type orwellien. La tyrannie du politiquement correct s’impose par l’usage de mots sidérants et d’images incapacitantes à l’encontre des dissidents de la pensée unique.

Il convient ici d’observer que le succès électoral et populaire n’est pas un bouclier contre la diabolisation mais que, bien au contraire, il contribue à l’amplifier, comme l’ont montré l’exemple suisse en 2007 ou l’exemple français de 2002.

La diabolisation vise à produire – et produit – plusieurs effets :

- elle freine l’ascension électorale ;
- elle nourrit les divisions internes des mouvements visés ;
- elle rend les relations internationales difficiles ;
- elle rend les alliances impossibles ou politiquement peu intéressantes.

5. La répression judiciaire et politique et les atteintes aux libertés fondamentales

Au-delà de ses inconvénients médiatiques et politiques, la diabolisation sert à légitimer une répression judiciaire et politique qui frappe à des degrés divers les formations populistes des différents pays européens, y compris la Suisse :

- poursuites judiciaires pour des motifs politiques ;
- fermeture de sites Internet et refus d’hébergement ;
- limitation, voire interdiction pure et simple d’accès aux grands médias ;
- dissolution ou tentative de dissolution de formations politiques ;
- interdiction de manifestations et de réunions ;
- organisation de contre-manifestations violentes ;
- levée des immunités parlementaires pour de simples délits d’opinion ;
- arrestations arbitraires et gardes à vue illégales de députés européens ;
- violations de la vie privée ;
- piratage et vol de fichiers d’adhérents ;
- interdits professionnels ;
- pressions sur des personnes (et sur leur famille) visant à leur faire retirer leur candidature à des élections locales ;
- modification des règles du jeu électoral et des modes de scrutin ;
- mise en cause des financements politiques et/ou électoraux ;
- usage des cours constitutionnelles pour combattre les populismes ;
- manipulations policières.

Cette liste d’atteintes aux libertés politiques des partis populistes européens est très partielle et très incomplète. Elle montre toutefois l’ampleur et la variété des moyens répressifs utilisés contre des formations concourant à l’expression du suffrage. Les dirigeants européens donnent souvent des leçons de droits de l’homme à la Russie et à la Chine mais ils utilisent contre leurs propres dissidents les méthodes qu’ils condamnent chez les autres.

6. En vingt-cinq ans, le populisme s’est néanmoins enraciné dans l’espace et la durée

Le populisme s’affirme depuis plus de vingt ans dans de très nombreux pays d’Europe de l’Ouest : ainsi en France, en Belgique (Flandre), en Italie, aux Pays-Bas, en Suisse, au Danemark, en Suède, en Norvège, en Autriche, les mouvements de dissidence populiste ont couramment rassemblé entre 10 et 30% des suffrages. Des mouvements populistes se développent aussi en Grande-Bretagne et en Allemagne et même en Grèce. La tendance générale est à une progression notable des résultats.

Et lorsque les peuples ont été consultés par référendum, ils ont souvent désavoué les élites politiques, médiatiques, économiques et syndicales :

- les Suisses et les Norvégiens ont refusé d’intégrer l’Union européenne ;
- les Suédois et les Danois ont refusé d’entrer dans l’euro ;
- les Irlandais ont obtenu des dérogations aux traités auxquels ils ont fini par adhérer ;
- les Français et les Hollandais ont rejeté le traité constitutionnel européen ;
- les Irlandais se sont prononcés contre la ratification du Traité de Lisbonne.

7. Temps politique, temps historique

A travers la diversité de leurs orientations et de leurs méthodes, les mouvements populistes s’inscrivent tous en rupture avec les forces et les idées dominantes. Ils s’opposent aux puissants et aux sachants qui servent les puissants.

Et c’est bien la profondeur des changements proposés par les populistes qui explique le tempo de leur progression : vingt-cinq ans, pour la politique, c’est du temps long mais, pour l’histoire, c’est du temps court.

Dans le passé les grands courants idéologiques et politiques ont mis beaucoup de temps pour s’imposer :
– la philosophie manchestérienne du libre-échange a mis un demi-siècle à triompher en Grande-Bretagne avec la suppression des Corn Laws en 1846 et de l’Acte de navigation en 1849 ;
– les courants nationaux et libéraux, étouffés par le retour du principe de légitimité au Congrès de Vienne en 1815, ne ressurgissent au grand jour que trente ans plus tard lors des révolutions de 1848 ;
– les mouvements nationaux mettent encore de longues années avant de déboucher sur l’unité italienne (en 1860) et l’unité allemande (en 1871) ; l’Irlande ne devient un Etat souverain qu’en 1921 ;
– le socialisme est construit intellectuellement dans la première moitié du XIXe siècle ; il n’accède au pouvoir sous sa forme révolutionnaire qu’en 1917 en Russie ; en France, sous une forme réformiste, ce n’est qu’en 1936 qu’il prend la tête du gouvernement ;
– le « Wilsonisme », ancêtre du mondialisme contemporain, a mis près d’un siècle à s’imposer à la planète ;
– le mouvement des droits civiques, matrice de l’antiracisme contemporain et de la discrimination positive, attendra quarante-quatre ans entre la proclamation, devant la Maison Blanche, du « rêve » de Martin Luther King et l’élection de Barak Obama comme président des Etats-Unis.

8. La crise économique : un accélérateur pour le populisme ?

La crise financière et économique que le monde traverse depuis le 15 septembre 2008 peut bouleverser la donne en soulignant les failles des actes des puissants et des discours des « sachants ».

Citée dans la revue « Krisis » de février 2008, la politologue britannique Margaret Canovan distingue plusieurs formes d’expression du peuple à travers le populisme : united people (« le peuple souverain »), common people (« le peuple classe »), ordinary people (« le peuple de base »), ethnic people (« le peuple nation »). Chacune de ces expressions du populisme peut trouver les moyens de se renforcer à travers la crise.

L’ordinary people, « le peuple de base », a toutes les raisons d’accroître sa défiance vis-à-vis des élites politiques, médiatiques et financières : élites qui n’ont pas vu venir la crise et qui la gèrent dans l’agitation et l’affolement.

Le common people, « le peuple classe », a, lui, des raisons de se révolter contre l’hyperclasse mondiale dont il découvre la malfaisance et les fantastiques avantages auto-octroyés.

L’united people, « le peuple souverain », n’a, lui, pas de raison d’accepter que les Etats-Unis d’Amérique, à l’origine de la crise, continuent de dicter leur loi au reste du monde et il peut légitimement réclamer un retour à un protectionnisme raisonnable.

L’ethnic people, « le peuple nation », peut trouver dans la crise économique un argument supplémentaire – et décisif – contre une immigration qui peut se révéler nuisible en termes d’équilibre des comptes sociaux comme d’emplois.

Les élites ne le savent pas encore ou, si elles le savent, elles feignent de l’ignorer : la crise économique et financière met à mal le modèle mondialiste du libre-échange généralisé. La sortie de crise ne pourra se faire que par un changement du référentiel idéologique.

Et ce sont bien les populistes qui, malgré leurs faiblesses et leurs imperfections mais à travers leur diversité, portent en germe le modèle de rechange !

Jean-Yves Le Gallou
Ancien député européen
XXIVe université annuelle du Club de l’Horloge
6 et 7 décembre 2008

 

Jean-Yves Le Gallou

Envers du rêve américain

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Envers du rêve américain

Article paru dans le numéro 30 ( épuisé) de Rébellion (http://rebellion.hautetfort.com/

 

Rébellion n’a jamais fait la confusion, dans son opposition à l’hégémonie mondiale de l’impérialisme américain, entre le peuple américain et son gouvernement. Beaucoup d’américains savent que lorsque leurs politiciens et leurs médias évoquent l’intérêt « national » des Etats-Unis,  il s’agit de l’intérêt de ceux qui dominent, contrôlent, possèdent et  influencent l’économie américaine et que la plupart des conflits provoqués, depuis deux siècles,  par les dirigeants des Etats-Unis le furent pour asseoir et sauvegarder la position  dominante du système capitaliste, le discours officiel légitimant cette politique d’agression au nom de la défense de la liberté et de la démocratie n’étant que du vent.

 

Société du capitalisme triomphant, l’histoire des Etats-Unis offre l’exemple le plus parfait de la réalité de la lutte de classes : un combat entre les puissances de l’argent et les classes populaires. L’accaparement par une minorité oligarchique des richesses d’une nation pour son seul profit. On connaît l’histoire du génocide indien et de l’esclavage, mais on parle peu de la longue lutte des petits paysans expropriés par les riches compagnies et des ouvriers exploités. Rares sont ceux, qui en Europe, connaissent la longue lutte des syndicalistes révolutionnaires américains ou des populistes agrariens pour arracher aux financiers des conditions de vie et de travail décentes. Et comment ses mouvements furent réprimés – souvent dans le sang- par le gouvernement américain. L’American Way of life que l’on a vendu à la terre entière n’est qu’un mirage qui ne résiste pas à l’éclairage de l’histoire.

 

 

 

Il est vain d’entreprendre la caractérisation précise d’une société en quelques lignes, et a  fortiori celle de la société américaine. A la démesure des échelles du continent nord-américain vient s’ajouter la diversité d’un peuplement issu de vagues d’immigration successives. Quelques traits essentiels sont communs à l’ensemble de l’Amérique en raison de l’uniformisation culturelle, intellectuelle et émotionnelle dont sont responsables les médias.

 Le plus frappant en arrivant aux Etats-Unis, et en particulier à Los Angeles, est l’impression de déjà vu qui vient à l’esprit : sensation à la fois irréelle de se déplacer dans un décor de cinéma mais aussi tellement banale car le moindre signe fait déjà partie intégrante de l’univers dans lequel nous baignons. La ville américaine, à l’exception de quelques grandes métropoles comme New York, Washington ou San Francisco, imbrication de pavillons individuels semblables, de centres commerciaux et autres stations-service, est la parfaite illustration de cette monotonie et de cette banalité. La société américaine est à son image : terriblement ennuyeuse. Si l’Américain moyen est en général souriant et sympathique, il est en revanche privé de toute originalité et spontanéité. Chez lui, tout est planifié jusqu’au plus infime détail. Ce conformisme, inscrit dans la mentalité puritaine américaine, auquel s’ajoute le contrôle permanent des faits et gestes des individus – watching neighborhoods, dénonciation des infractions aux autorités, contrôle strict des ventes de tabac et d’alcool avec vérification d’identité obligatoire (Selling alcohol (tobacco) to any person under 21 (18) is a federal crime), interdiction de fumer dans les lieux publics s’accompagnant d’une ostracisation des fumeurs… - donnent l’impression de vivre dans une société oppressive. Les aéroports, avec leur litanie de messages coercitifs Smoking is prohibited, Unattended vehicles will be towed away at owner’s expense,…, et la multiplication des procédures de contrôle des passagers, procédures qui se sont considérablement renforcées ces dernières années suite au 11 septembre 2001,  en sont l’expression paroxystique. Il y a finalement peu de liberté au pays de la liberté, hormis celle d’entreprendre (et de posséder des armes). Aussi paradoxal que cela puisse paraître, les Américains, dans leur grande majorité, sont favorables à cette surveillance. Pour eux, ces dispositifs de contrôle sont synonymes de sécurité et sont le prix à payer pour une grande liberté au sein d’espaces sécurisés.

 

  La société américaine est en effet dans l’ensemble craintive car l’Amérique ne fait plus figure de sanctuaire suite aux attentats du 11 septembre, que nombre d’Américains considèrent comme la plus grande catastrophe de l’histoire de l’humanité (sic), qu’elle est le pays du déchaînement de la violence, dont les carnages dans les universités et plus généralement le nombre de morts par arme à feu sont les aspects les plus visibles, et de l’insécurité sociale - licenciements sans préavis, absence de couverture sociale et médicale, coût des soins prohibitif… « Si les Américains ont gardé un sens aigu de l’intérêt individuel, ils ne semblent pas avoir préservé le sens qui pourrait être donné collectivement à leurs entreprises (1)». D’où l’individualisme exacerbé qui se manifeste à tous les échelons de la société, renforcé par la distinction entre élus et non élus issue de la doctrine puritaine de la prédestination, sentiments conduisant à considérer que les plus démunis (36 millions d’américains, soit 10,5 % de la population, vivaient sous le seuil de pauvreté en 2006 (2)) sont responsables de la situation dans laquelle ils se trouvent.

 

L’autre conséquence est la solitude dans laquelle vivent de nombreux Américains. Comme le décrit très bien Jean Baudrillard, « c’est la scène au monde la plus triste, plus triste que la misère, plus triste que l’homme qui mendie est l’homme qui mange seul en public (3)». Il est ici monnaie courante de voir la majorité des tables des fast-foods occupées par des personnes seules. Envers du rêve américain.

Autre valeur capitale pour comprendre la société américaine est la notion de destinée manifeste des Etats-Unis, c’est-à-dire que la nation américaine ait pour mission divine de répandre la démocratie et la civilisation, initialement vers l’Ouest et désormais à la Terre entière. Elle se traduit, au niveau de la société américaine, par une absence de recul face à l’histoire et une certitude d’être toujours dans son bon droit. Ce qui exclut tout remords et même le moindre questionnement historique. Symptomatique est cette réflexion d’Ann Coulter, célèbre polémiste outre-Atlantique, au sujet des islamistes: « Autrefois, les Japonais nous détestaient, eux aussi. Quelques bombes nucléaires bien ajustées, et maintenant ils sont doux comme des agneaux (4) ». Cet exemple, bien qu’extrême, ne doit pas apparaître comme un cas isolé. En effet, dans un sondage réalisé en juillet 2005 par l’institut Gallup, 57% des Américains interrogés approuvaient l’usage de la bombe atomique contre le Japon (5). Pour un Américain, l’histoire des Etats-Unis est irréprochable. D’où l’amnésie au sujet du génocide indien, même au Smithsonian National Museum of the American Indian (6). Alors que les ennemis de l’Amérique sont considérés « comme des incarnations du mal (7)». C’est pour cela que les critiques concernant la politique du président Bush sont le plus souvent mal interprétées par les Européens : elles ne visent pas à remettre en cause « la guerre juste menée par les Américains contre le terrorisme, God bless America » mais à sanctionner l’échec militaire de cette administration et le ternissement de l’image de l’Amérique dans le monde. Les opposants au terrorisme d’Etat américain (improprement qualifié de guerre) s’insurgent contre la mort des GI’s américains (Bring our boys home), mais se désintéressent complètement du sort de la population irakienne (y a-t-il eu des protestations contre l’odieux chantage pétrole contre nourriture imposé à l’Irak durant 10 ans et ayant causé la mort d’un million d’Irakiens dont la moitié d’enfants, ou beaucoup de manifestations pour dénoncer les victimes civiles des bombardements US ?), voire critiquent « l’incapacité » des forces de police irakienne à maintenir l’ordre et à assurer la sécurité des troupes américaines présentes en Irak (sic). Leur seconde principale critique est liée à la perception de l’Amérique à l’étranger, « une Amérique narcissique, agitée et agressive [qui] a remplacé, en quelques mois, celle de la nation blessée, sympathique et indispensable à notre équilibre (8) ». Pas de remise en cause d’une guerre perçue comme légitime, mais critique d’un loser qui, au contraire de son père lors de la première guerre d’Irak, n’a pu fédérer une large coalition internationale fournissant aide militaire et financière pour le plus grand profit des Etats-Unis.

 

  Il est certain, comme le rappelle très justement Alain de Benoist, que « dans le domaine des idées, [aux] Etats-Unis, malgré le « politiquement correct », règne une liberté d’expression que nous ne connaissons pas (ou plus), [et qu’] on y est également frappé de la qualité des débats d’idées (9)». Malheureusement ces idées ne sont que peu connues hors des cercles universitaires « car la multiplication des chaînes de télévision […] contribue paradoxalement à homogénéiser l’offre (10)» et non à diffuser des idées non conformes à l’idéologie dominante.

 

Frédéric

 

Notes :

(1) Jean Baudrillard, Amérique, p. 215, Ed. Grasset.

(2) http://www.census.gov/hhes/www/poverty/histpov/hstpov2.ht...

(3) Jean Baudrillard, Amérique, p.35, Ed. Grasset.

(4) Citation d'Ann Coulter rapportée par Silvia Grilli pour le magazine Panorama, traduite et publiée dans le numéro 628 de Courrier International du 14 novembre 2002.

(5) http://www.pollingreport.com/news.htm#Hiroshima

(6) http://www.truthdig.com/arts_culture/item/20071005_the_gr...

(7) Romolo Gobbi, Un grand peuple élu : Messianisme et anti-européanisme aux États-Unis des origines à nos jours, p.18, Ed. Parangon/Vs.

(8) Emmanuel Todd, Après l’Empire : Essai sur la décomposition du système américain, p.17, Folio Actuel.

(9) Robert de Herte, L’Amérique qu’on aime, Editorial du numéro 116 d’Eléments, avril 2005.

(10) Pascal Riutort, Le résistible quatrième pouvoir, in l’Exception américaine, Collectif sous la direction de Pascal Gauchon, p. 125, Ed. PUF.

vendredi, 12 décembre 2008

El "factor femenino" en la politica exterior de EEUU

El “factor femenino” en la política exterior de EEUU

La ex primera dama de EEUU y hoy senadora por el estado de Nueva York Hillary Clinton, puede ser la tercera secretaria e Estado en la historia del país. Esto tendrá lugar si el Congreso aprueba los nombramientos del presidente electo Barack Obama. Cometa Víctor Enikeev.

No solo en el deporte sino asimismo en la política es prestigioso entrar en el primer trío. Pero la elevada atención hacia Hillary Clinton obedece no solo a esto. Durante la presidencia de Bill Clinton ella aprendió las sutilezas diplomáticas, conoció a muchos estadistas y políticos del mundo. Por añadidura, la senadora por el estado de Nueva York se distingue por su despierta inteligencia y una lengua mordaz.


Los cálculos de algunos observadores de que con la señora Clinton la política exterior de EEUU posiblemente se suavice, o bien tome una imagen más afable son poco reales. Es cierto que Barack Obama expresó la esperanza de que con su ayuda de ella se logre mejorar la fisonomía de EEUU. Pero, como es sabido, la política exterior de EEUU es definida por el presidente de la nación y por la cúpula estadounidense. Y ésta, como muestra la práctica de los últimos decenios, está propensa al conservadurismo y unida en su pretensión de imponer el liderazgo norteamericano, en esencia, del dominio norteamericano en el mundo. Amén de esto, la señora Clinton puede, lisa y llanamente, ofenderse de que alguno que otro ose asociar las posibles modificaciones en la política exterior de EEUU al hecho de ser mujer. Aquí pueden presentarse acusaciones contra el chovinismo masculino. Pues, como escribieron las revistas estadounidenses, cuando era joven se la veía entre feministas. Recordemos asimismo que cuando el Departamento de Estado estuvo encabezado por Madeleine Albright, a propósito, durante la presidencia de Bill Clinton, EEUU bombardearon a Yugoslavia. Con la segunda jefa de este departamento, Condoleezza Rice, Washington desató sus guerras contra Irak y Afganistán. Justo durante de su ejercicio EEUU ha estropeado mucho las relaciones con Rusia e incluso con sus aliados por la línea de la OTAN.

Ahora bien, ¿qué se puede esperar de la señora Clinton de ser aprobada su candidatura por los legisladores? Creo que no se debe esperar mutaciones cardinales en la política de Washington. Pero, pongamos algunos hechos que arrojen luz sobre el credo de Hillary Clinton respecto a la política exterior. Ella acusó a Rusia de que por culpa suya no se logró un consenso internacional sobre la separación de la provincia de Kosovo de Serbia. Criticó los últimos comicios presidenciales en Rusia. En los debates durante la campaña presidencias se olvidó del nombre del futuro jefe del Estado ruso. Abogó por excluir a Rusia del G-20. Se manifiesta febrilmente contra la evacuación de las tropas estadounidenses de Irak. Ya antes de la Olimpíada exhortó a George Bush a que no viajara a China en señal de protesta contra la política de Pekín en el Tibet. Tiene una postura rígida en cuanto al programa nuclear de Irán. Mas, sobre la real influencia de la tercera secretaria de Estado en la política exterior de EEUU se podrá juzgar después de que se ponga al frente de e3ste departamento.

Extraído de La Voz de Rusia.

L'Age de Caïn

L’Age de Caïn
JEAN-PIERRE ABEL
342 pages  ; 14,5 x 20.

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L’AGE DE CAÏN

Premier témoignage sur les dessous
De la libération à Paris.

UN AUTRE SON DE CLOCHE. Oui, c’est un autre son de cloche que nous vous proposons avec cet ouvrage, un autre son de cloche sur « la libération » qui a suivi la seconde guerre mondiale, et toutes les festivités et les joyeusetés qui l’accompagnèrent. Car il paraît que le peuple de France ne peut s’émouvoir et ne célébrer dans son histoire  – d’après ceux qui la rédigent et qui l’imposent aujourd’hui – que les grands massacres, les grands massacres fondés sur la haine de quelque chose qu’il faut faire disparaître pour pouvoir exister. Mais si les tueries de la « révolution » sont encore chantées, celles qui ont accompagné et suivi «  la libération » sont savamment occultées – n’ont pas que l’on en ait honte, mais plutôt que l’on ait honte qu’il y eut de tels Français qu’il fallut éliminer, la bonne excuse. Précieux témoignage que cet ouvrage, donc. Il faut signaler qu’il n’a jamais été contesté, et que les noms et les événements qui y sont décrits le sont d’une manière très précise qui ne prête pas à confusion. Signalons toutefois que l’encyclopédie trotskyste en ligne « wikipedia » se permet d’informer  ceux  qui  la  consultent  de  la façon suivante : En 1948, Abel rédige le récit de sa détention (L'Âge de Caïn) où il critique sévèrement les méthodes employées par la les forces de la libération envers les détenus. Il s'attaque à ce qu'il juge être de l'épuration "sauvage". Cet ouvrage est toutefois suspect de révisionnisme et compte parmi le répertoire des textes dont se revendiquent aujourd'hui les négationnistes  La belle affaire !

Car ce sont bien des dizaines de milliers de Français qui, à travers la France, furent sommairement exécutés, la plupart parfaitement innocents de ce qu’on leur reprochait, ou, plus directement, victimes de règlements de compte ; sans parler de tous ceux qui furent plus simplement incarcérés et torturés (…, car le ministère de l'intérieur, officieusement, donne des chiffres qui varient entre 80.000 et 100.000 exécutions sommaires. Citation d’une note de l’ouvrage).

Quant à l’auteur de l’ouvrage, qui est-il ? Le livre est signé Jean-Pierre Abel, mais ce n’est là qu’un pseudonyme qui fait référence au titre L’âge de Caïn.  Lisons à son sujet ce qu’en dit le site internet de bibliothèque en ligne « Aaargh » : Quelques précisions : Jean-Pierre Abel est en fait René Château. Elève d'Alain, Proche de Gaston Bergery, radical-socialiste et fondateur de la Ligue de la Pensée Française en 1940, directeur jusqu'en 1943 de La France Socialiste, quotidien de Déat. Il a été arrêté le 30 août 1944 comme collaborateur notoire et détenu à l'Institut d'hygiène dentaire et de stomatologie 158, avenue de la Choisy, pendant soixante seize jours. Cet immeuble fut réquisitionné dès la libération et transformé en centre de détention de collaborateurs par des FFI qui s'étaient arrogé le droit de rendre leur propre justice. Robert Aron, dans son Histoire de l'épuration, raconte que cent cinquante personnes, environ, y ont été emprisonnées (dont l'ancien député socialiste L'Hévéder dont il est question dans le texte) en dehors de toute légalité. Certaines furent fusillées dans l'enceinte de l'institut, d'autres furent repêchées dans la Seine. La Préfecture de police, avertie de ces faits, tenta d'y pénétrer mais accueillis à coups de mitraillette, les policiers reculèrent pour éviter un massacre. Le préfet de police Charles Luizet chargea le colonel FFI Aron-Brunetière, chef du 2ème bureau, de faire procéder à la fermeture de l'institut et des autres centres de détention (le lycée Janson de Sailly, la caserne de Reuilly, la mairie du 18ème arrondissement, l'hôtel du Dôme rue Léopold Robert ...). Les détenus, au nombre de 1500 environ, furent transférés à la prison de Fresnes où après un premier interrogatoire, 800 d'entre eux furent immédiatement libérés.

 

26 euros + 5 euros de port.

Pétrole, guerre d'un siècle

Pétrole, une guerre d’un siècle :
L’ordre mondial anglo-américain

Pétrole, une guerre d’un siècle : L’ordre mondial anglo-américain

Cet ouvrage remet radicalement en cause l’idée que l’on se fait communément de la politique internationale et de ses enjeux. Il décrit les moyens extrêmes que les Anglo-Américains sont prêts à mettre en œuvre pour conserver une suprématie née en 1815 et renforcée au prix des deux Guerres mondiales. Nous savons, depuis l’élection de George W. Bush, que la politique américaine et le pétrole entretiennent une relation intime. William Engdahl montre que l’économie des Etats-Unis repose sur un approvisionnement en pétrole bon marché illimité, et sur la suprématie du dollar sur les autres monnaies. Vous découvrirez comment le premier choc pétrolier fut une incroyable et cynique manipulation conçue par Henry Kissinger pour opérer un transfert planétaire de capitaux vers les banques de Londres et de New York, au prix de la ruine des pays du Tiers-monde ; comment ces pays en faillite, contraints de s’endetter auprès du FMI, se virent prêter à grands frais ces mêmes capitaux dont ils avaient été auparavant spoliés. Vous verrez comment la géopolitique du pétrole est à l’origine de l’effondrement de l’Union soviétique, de l’éclatement de la Yougoslavie, et de l’arrivée au pouvoir puis de la chute des Talibans. Vous serez surpris d’apprendre comment, dans les années 1970, les mouvements écologistes anti-nucléaires financés par les grandes compagnies pétrolières, devinrent le cheval de bataille visant à entraver l’indépendance que l’énergie nucléaire aurait pu procurer à nombre d’Etats, afin de les maintenir dans l’orbite des pétroliers. Vous comprendrez enfin que la décision d’envahir l’Irak fut prise pour assurer l’hégémonie de la puissance anglo-américaine et le contrôle de l’économie mondiale pour les 50 ans à venir.

William Engdahl, né en 1944, est économiste et écrivain. Il a étudié les sciences politiques à l’université de Princeton et l’économie à l’université de Stockholm. Il publie depuis plus de 30 ans sur les questions énergétiques, la géopolitique et l’économie, et intervient dans les conférences internationales. Il est conseiller indépendant pour plusieurs grandes banques d’investissement.

Massoneria e fascismo

Massoneria e Fascismo: totale incompatibilità

Autore: Luca Leonello Rimbotti

Da più parti, si è sempre sentito dire che nella Marcia su Roma ci mise lo zampino la Massoneria. Che il re, Badoglio e gran parte dello Stato Maggiore dell’esercito erano massoni; che persino fior di fascisti – da Acerbo a De Vecchi a Farinacci – erano iscritti alla loggia. E che illustri frammassoni, a cominciare dal Gran Maestro Domizio Torrigiani, intorno al Venti erano ferventi ammiratori di Mussolini. Che insomma il 28 ottobre 1922 andò come andò perché, in fondo, tra “fratelli” ci si intende e difatti al Duce, anziché l’arresto per sollevazione armata, arrivò la chiamata al Quirinale. Illusionismi per occultare la complessità del fenomeno fascista.

Fabio Venzi, Massoneria e fascismo

Fabio Venzi, Massoneria e fascismo

In materia, esistono due vulgate storiografiche: una, intesa a separare la Massoneria libertaria dal Fascismo oppressore, minimizzando le complicità iniziali ed enfatizzando la repressione del 1924-25 come segno di inconciliabilità; l’altra, invece, sottolinea le convergenze, gli intrecci, addirittura certe affinità ideologiche che sarebbero palesi tra i due movimenti storici, prima che il “Fascismo-Regime”, divenuto intollerante e totalitario, eliminasse la Massoneria come aveva eliminato ogni altro antagonista. Del primo come del secondo orientamento fanno parte per lo più autori massoni. A parte la storiografia sul Fascismo in generale, la pubblicistica specifica sui rapporti tra Fascismo e Massoneria è quasi regolarmente rappresentata da autori dichiaratamente massoni. Manca una controparte. Come per altri casi macroscopici, al tribunale della storia l’accusato suole essere giudicato dalla vittima. Non sfugge alla regola il recente libro di Fabio Venzi, Massoneria e Fascismo. Dall’intesa cordiale alla distruzione delle Logge: come nasce una “guerra di religione” (Castelvecchi). L’autore ci tiene infatti a informarci di essere detentore del sonante titolo di “Gran Maestro della Loggia Regolare d’Italia” (nientemeno, si precisa per i profani, che «unica Obbedienza italiana riconosciuta dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra») e di essere membro del Royal Order of Scotland. Non sapremmo informare i nostri lettori nel dettaglio circa la sostanza di così prestigiose appartenenze, ma, così a occhio, dovrebbe trattarsi di Massoneria di scuola britannica piuttosto che francese.

Quindi, stando alle diversità di genere, parliamo di quella Massoneria cosiddetta “impolitica”, cosmopolita, filantropica, strutturata sul club privato e l’associazionismo di gentiluomini, che divergerebbe storicamente dalla Massoneria francese, nata giacobina, politicamente impegnata, con forti venature di nazionalismo anche popolare. Diciamo questo perché è proprio Venzi a richiamare tale suddivisione e a ricordare che la Massoneria italiana era del secondo tipo, cioè francesizzante. Per questo, impigliata nelle maglie del gioco politico, a un certo punto, inevitabilmente, venne a contatto con l’astro emergente del Fascismo. Noi non entriamo nel merito delle ortodossie di setta, ma siamo parecchio inclini a pensare che la Massoneria britannica – che a suo tempo fece l’Impero coi metodi filantropici notoriamente in uso presso le compagnie negriere di Sua Maestà –, lungi dall’essere “apolitica”, sia stata e sia a tutt’oggi un perfetto strumento di potere, essendo anzi il fulcro della maniera liberale di intendere la politica. Come una faccenda tra “gentiluomini”, appunto, da gestire con finalità di interesse privato affatto estranee ai concetti stessi di nazione e di popolo. Ma ammantata dal lessico illuminista e dai suoi vuoti, generici principi universali.

È inutile ripercorrere la strada a tutti nota che questo tipo di Massoneria ha percorso trasferendosi ad esempio negli Stati Uniti, dove ha fondato città e associazioni, una moneta, addirittura uno Stato ex-novo, dotandoli tutti di aperte simbologie massoniche. Tanto che vediamo oggi il “patriottismo” americano coincidere alla perfezione con la politica mondiale di imperialismo cosmopolita, risoluta a far marciare la globalizzazione al ritmo dei vecchi ideali massonici di “fratellanza universale”. Massoneria “impolitica”, quella di “antico rito scozzese”? Dove? Quando? La collaudata pratica dei miliardari americani membri delle varie “obbedienze” di sostenere i governi nell’occupazione con la forza dei mercati mondiali e, contestualmente, di fare l’elemosina ai poveri attraverso le elargizioni delle fondazioni private, è ancora oggi la prevalente abitudine sociale del buon liberal-massone “illuminato”. Le multinazionali, controllate dal templarismo bancario, con una mano reggono la governance nella strategia di conquista planetaria delle risorse; con l’altra pilotano la vasta galassia delle ONG e delle Onlus a sfondo sociale… nulla è cambiato nella vincente ricetta massonica degli ultimi tre secoli: etnocidi e slogan umanitari. E partendo dal centro, dal governo, e non dal salotto di casa. Questo il messaggio filantropico del deismo massonico dichiaratamente aspirante – in storico accordo con altri millenarismi – al dominio mondiale.

Dice Venzi: Massoneria e Fascismo delle origini avevano un’ideologia equiparabile. Repubblicanesimo, anti-clericalismo, “religione laica della Patria”, promozione dell’ideale dell’uomo nuovo… e poi il fascio repubblicano, la comune memoria risorgimentale… Entrarono insomma in concorrenza due sistemi che avevano alla base richiami simili. E quando il Fascismo, passato nel frattempo a concezioni dittatoriali, si accorse della pericolosità dell’antagonista, decise di distruggerlo; di qui la “notte di San Bartolomeo” del 30 ottobre 1925, con gli squadristi che devastano le logge, il paio di morti che ci scapparono e la messa fuorilegge delle sette segrete nel mese seguente. La Massoneria, scrive Venzi, venne dal Fascismo considerata «come un potenziale “catalizzatore” delle coscienze degli italiani sulla base di quei valori tradizionali che essa rappresentava».
La Massoneria insomma, che grottescamente si impossessò delle
simbologie della romanità repubblicana, scambiando Bruto per un illuminista, viene elevata a centro politico in grado di competere col Fascismo nella conquista del consenso di massa. Crediamo che sia una sopravvalutazione non da poco, quella di considerare la Massoneria un credibile avversario del Fascismo sul terreno della conquista del popolo. Il massone si occupa di potere, e più volentieri di potere occulto, non di popoli. Non è nella natura della Massoneria reggere uno Stato nazionale e popolare fondato sull’identità. Dove sono allora le “comuni origini” tra Fascismo e Massoneria di cui parla Venzi? Dice: i Fasci erano repubblicani, anti-ecclesiastici… fu poi il PNF che diventò monarchico, filo-Vaticano, rompendo la collaborazione… l’autore trascura di riflettere sulla controprova: durante la RSI – tornata per l’appunto al Fascismo delle origini – la Massoneria non venne trattata meglio di prima… venne anzi percepita come il cuore di una cospirazione mondiale risoluta a estirpare il nazionalismo europeo.

Michele Terzaghi, Fascismo e massoneria Il Fascismo delle origini e la Massoneria, comunque li si rigirino, sono due fenomeni imparagonabili. Il Fascismo fu un’ideologia del riscatto popolare, della mobilitazione di massa attorno ai simboli esclusivi dell’Italianità, una religione della Patria per nulla laica, ma sacrale, incentrata non sui diritti, ma sui doveri della convivenza. Non “due religioni laiche”, dunque, ma un progetto universalista da una parte e una religione politica popolare, una mistica della tradizione etnica dall’altra. E il “patriottismo” massonico poco ha a che vedere col radicale nazionalismo fascista. Questa estraneità di valori, per altro, l’ha sottolineata anche lo storico massone Aldo A. Mola, descrivendo come semplici «assonanze ideologiche epidermicamente affioranti» quello che Venzi invece considera prossimità ideologica.

Ma allora, come si spiega che il Fascismo ante-marcia era pieno di massoni? Prima di tutto col fatto che, ai tempi, chi non era filo-ecclesiastico, se voleva fare politica, prima o dopo capitava dalle parti della loggia. Era così da qualche secolo. In secondo luogo, è sempre stata tipica della Massoneria la pratica dell’infiltrazione. Stare ovunque, essere presenti su tutti i fronti. Per questo, come ricorda lo stesso Venzi, il Grande Oriente non aveva remora alcuna, ma era anzi molto interessato, a entrare nelle file fasciste: «La Massoneria non potrebbe essere se si astraesse dalla vita reale, e non si preoccupasse di penetrare dappertutto, non fosse che a titolo di osservazione e vigilanza», ebbe cura di precisare il “fratello” onorevole Terzaghi.

Come spiegato bene da Evola in memorabili pagine, la Massoneria ha una doppia faccia. Quella antica, tradizionale e “operativa”, connessa con le corporazioni di mestiere. E quella moderna, sovversiva, cosmopolita e “speculativa”, alto-borghese e fanaticamente illuminista. Questo rovesciamento, avvenuto a cavallo tra Seicento e Settecento, Evola lo definì un “mistero”. Si parla, né più né meno, dell’utero da cui è stata partorita la modernità, così come la sperimentiamo ogni giorno. Non è un problema da poco. È il grande enigma. Una vera “parola di passo” non ancora decrittata. Come sia avvenuto che quel grumo di universalismo deista, biblista, a volte – come ha scritto la storica Margaret C. Jacob – anche ebraizzante, sempre parlamentarista, con una sottocultura del segreto che riserva al solo potente la facoltà del “libero pensiero”… come sia avvenuto che dalla corporazione e dalla gilda medievali si fuoriuscito quel potere gigantesco nato un bel giorno – come ricordava Pound – con la fondazione della Banca d’Inghilterra nel 1694 e la creazione della prima loggia inglese nel 1717, questo resta, ancora oggi, una sorta di mysterium tremendum, attorno al quale invano si agita lo storico profano.

Il Fascismo europeo è stato debellato proprio nel nome degli ideali massonici di eguaglianza, fraternità e libertà (per i ricchi) e precisamente da una potenza, gli Stati Uniti, che veicola apertamente i programmi della Massoneria sin dalla sua carta costituzionale. Il Fascismo si sbarazzò della Massoneria perché questa è per struttura anti-nazionale e recisamente classista: da una parte la setta “illuminata” dei reggitori del mondo, dall’altra la plebe universale. Il sogno massonico di Hiram redento, prossimo costruttore di un mondo piallato dalla “fraternità” indifferenziata, è evidentemente l’opposto di un’ideologia dell’identità di popolo, della tradizione nazionale e dell’onore sociale. L’odierna Trilateral, espressione massonica del dominio globale del profitto privato, può contemplare con soddisfazione l’opera alchemica di annientamento di ogni diversità tra i popoli. Un lavoro iniziato nel Settecento e oggi in via di avanzata realizzazione.


Luca Leonello Rimbotti

Berlin: nous l'avons tant voulu...

SYNERGIES EUROPÉENNES / PARTISAN EUROPÉEN - DÉCEMBRE 1989

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Un texte totalement dépassé, mais qui montre bien les espoirs fous que nous avons cultivés au moment de la chute du Mur de Berlin ! Des espoirs que le personnel politique européen, incapable et vendu à l'étranger, n'a pas été capable de faire passer dans le réel. A méditer...

 

 

 

Berlin: nous l'avons tant voulu...

 

 

La lente agonie du communisme, la dislocation du système de Yalta, la réunification allemande

 

Le 9 novembre 1989 est déjà une date historique. Une ère nouvelle vient de s'ouvrir. L'Europe redevient une unité de civilisation, un espace unifié mais divers, un réseau d'échanges multiséculaire. La géopolitique allemande disait qu'elle était un Großraum, un grand espace. Gorbat-chev dit qu'elle est une "maison commune". Simple différence de vocabulaire qui désigne une réalité incontournable que les idéologies marxiste et ploutocra-tique a-vaient voulu nier.

 

Nous l'avions toujours dit: l'Europe ne se fera pas à partir du marché commun, ne se construira pas depuis cet Occident sans élan, engoncé dans son corset matérialiste. L'Europe sera à nouveau un Großraum quand la nation qui occupe son cen-tre sera réunifiée. Et le premier grand pas de cette réunification vient d'avoir lieu. Le Mur de la honte, le Mur qui sym-bolisait la défaite de toute l'Europe vient de tomber. Les peuples de l'Est réclament à nouveau leur droit à l'auto-détermina-tion.

 

Pour nous, militants nationaux-révolution-naires, partisans d'une "troisième voie", cet événement majeur annonce le triom-phe discret de certaines de nos idées. Un triomphe discret qui s'avance toutefois sur un chemin semé d'embûches.

 

Dressons le bilan des événements qui nous apparaissent positifs:

 

- L'Allemagne est en marche vers sa réunification. Le peuple allemand est, en Europe, le peuple-passerelle: c'est lui qui nous relie au monde slave, qui nous arrache à nos torpeurs occidentales. Le territoire allemand est aussi un territoire-pas-serelle: c'est lui que nous devons traverser pour atteindre les Balkans, pour débouler à Delphes ou à Athènes, pour re--joindre la Scandinavie, pour aller flâner sur les gondoles de Venise. Sans l'unité de ce territoire, pas d'unité européenne, pas d'échanges fructueux, pas d'autonomie con-tinentale possible.

 

- La vision du monde des chrétiens-dé-mo-crates s'effondre. Ces misérables voyous politiques ne voulaient pas d'une Eu-rope qui contiendrait une majorité de non-catholiques. Pour nous, l'unité des ethnies d'Europe, l'unité du territoire ma--triciel de notre race, prime de loin les ambitions sectaires du Vatican et de ses alliés de la mafia. Avec la réunification al-lemande en marche, l'Allemagne ne con-tient déjà plus une majorité de Catho-li-ques. La CEE avait été créé dans une op-tique de reconquista: avoir une majorité catholique aux Pays-Bas, isoler les Protes-tants du Nord de l'Allemagne et con-traindre les Anglicans à une sorte d'oe-cu-ménisme, tout en maintenant les Ortho-doxes loin de nous. La CEE devait être un espace entièrement sous la coupe du ca-tho-licisme: désormais, ce rêve est à ran-ger parmi les vieilleries...

 

- Le communisme s'effondre. Notre en-nemi le plus musclé et le plus tenace bais-se la garde. Il est vaincu pour des rai-sons aux racines anciennes et profondes: le marxisme avait fait siens, au début du XIXième siècle, les principes mécani-cis-tes et arithmétiques du libéralisme man-chésterien anglais et avait refusé toute lo-gique biologisante, toute philoso-phie de la vie, tout le dynamisme de la physique quan-tique. Une terrible inquisi-tion régnait dans les pays communistes et dans les universités ouest-européennes marxisées contre tous les "irrationalismes" et contre les idées iden-titaires et nationales. Le com-munisme ne s'est pas mis à jour sur le plan scientifique: il a été battu par le libéralisme dans la course aux technolo-gies. Le commu-nisme a nié non pas les faits nationaux en tant que tels mais leur a assigné une place secondaire. Le prin-temps des peuples remet les horloges à l'heure.

 

- Les peuples descendent dans la rue en Moldavie, dans les Pays Baltes, en Alle-magne de l'Est et en Tchécoslovaquie. Ils crient devant leurs dirigeants commu-nistes: "Wir sind das Volk", nous sommes le peuple. De ce fait, ils dénient aux communistes le droit de les représenter et annoncent que les peuples, en tant que volontés historiques, ne peuvent jamais être encadrés de manière rigide. A Pra-gue, les lycéens hurlent "Jakesch à la pou-belle". Cette fantastique mobilisation de la rue devrait nous faire honte: à l'Ouest, nous n'avons plus de tonus, nous sommes tous des chiffes molles bercées par les sonorités soft de nos walkmen. Quand aurons-nous assez de tripes pour vociférer les mêmes slogans, pour insulter collectivement les démocrates-chrétiens, pour cracher aux visages de nos salauds de sociaux-démocrates, pour gifler nos li-béraux, pour rosser nos flics comme plâ-tre, pour bastonner les banquiers qui tien-nent ici le haut du pavé, pour souffle-ter les arrogants détenteurs du quatrième pouvoir, les journaleux à la solde des puis-sances d'argent? A l'Ouest il n'y a plus de peuples, il y a des masses abruties, tenues en laisse par des marchands de gad-gets.

 

Quant aux perspectives négatives, énumé-rons-les aussi:

- Les préliminaires de la réunification profiteront d'abord aux capitalistes ouest-allemands. Ils bénéficient d'ores et déjà de vastes zones de prospection, avec main-d'œuvre à bon marché, où des pro-fits immenses sont possibles. Ces forces ploutocratiques, alliées à leurs consœurs d'Outre-Atlantique, ont un double intérêt: favoriser l'ouverture pour enregistrer des pro-fits colossaux mais conserver suffi-sam-ment de statu quo pour que les tra-vail-leurs de l'Est puissent toujours bosser à bas salaires. L'Europe capitaliste main-tiendra une partie du statu quo, au béné-fice des réseaux marchands et de la puis-sance américaine. Nous, nous voulons l'éli--mination complète du statu quo. Les nationaux-révolu-tionnaires doivent exiger un code du tra-vail valable pour tous les travailleurs euro-péens et un auto-centrage des investisse-ments des plus-values. Plus question d'aller investir des milliards dans un Tiers-Monde à la main-d'œuvre encore meilleure marché. Chaque sou gagné par les travailleurs européens doit être investi en Europe, dans de bonnes infrastruc-tures routières, ferroviaires, scolaires, universitaires. Il faut maximiser les bud-gets de recherche et bâtir chez nous toutes les usines qui peuvent être bâties.

 

- L'effondrement du communisme laisse notre pire adversaire seul sur le ring. Le libéralisme, vieux et malade, triomphe du seul ennemi qui lui restait. Nous avons lutté pour une troisième voie quand les deux antagonistes nous dominaient, tout en s'affrontant. La disparition du commu-nisme nous laisse seuls et mal préparés face au libéralisme. Nous sommes la deu-xième voie, l'autre voie, l'alternative. Beau--coup de travail at-tend les partisans.

 

- L'euphorie des Allemands de l'Est leur fait aimer d'une manière naïve les pro-duc-tions de l'Occident. Combien de jeu-nes Berlinois, le 10 novembre, sont allé s'acheter un baladeur ou un disque de Mi-chael Jackson? Trop à notre goût. Même si la denrée la plus prisée était le fruit exotique. La tâche des militants NR est de montrer à leurs camarades de l'Est quels sont les artifices de l'American Way of Life. Quels affreux simulacres diffuse la société marchande.

 

En conclusion, les cénacles NR d'Europe occidentale, cette poignée de militants hyper-conscients des enjeux   —et dont la force réside précisément dans cette hy-per-conscience—  doivent se réorganiser face aux nouveaux défis qui s'annoncent pour la décennie 1990. Plus d'anti-com-munisme à l'avant-plan; un renforcement de notre anti-américanisme, dans la me-sure où l'impérialisme yankee sera encore dangereux quand les Nippons auront acheté toutes les industries-clefs des Etats-Unis. Il n'y aura plus lieu de faire uniquement de l'"anti-ceci" ou de l'"anti-cela", mais d'ébaucher et de construire la Cité NR, en forgeant un nouveau droit, un nou-veau code social identitaire et socia-liste taillé pour les producteurs. Une ter-rible disci-pline s'impose désormais à l'étu-diant NR, porteur de l'avenir de notre vision du monde et de la société: cesser de perdre son temps à des marottes littéraires et à des problèmes périphéri-ques; cesser de prononcer des discours oiseux sur la grandeur de l'Europe; cesser de dire que l'économie n'est pas le destin (même si c'est très vrai) pour ne pas avoir à réflé-chir sur les statistiques réelles de notre monde. Etre NR, ce n'est pas être un rouspéteur stérile: c'est être un vo-lontaire toujours prêt, la truelle à la main pour construire la Cité nouvelle.

 

Camarades NR de toutes les régions d'Europe, camarades manuels et intellectuels, mobilisez vos muscles et vos cer-veaux, bandez vos énergies, demain nous appartient!

Il domani appartiene a noi!  

 

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jeudi, 11 décembre 2008

Les Etats-Unis et l'Europe: un déclin programmé

LES ETATS-UNIS ET L’EUROPE : UN DECLIN PROGRAMME


Selon le NCI, le système international sera presque méconnaissable en 2025, présentant l'image d'un ensemble multipolaire. La puissance incontestée des Etats-Unis depuis la fin de la Guerre froide, et que l'on a vu perdre de sa superbe depuis l'aventure irakienne, se verra contrebalancée par l'émergence des nouvelles puissances : pour le NCI, il s'agira surtout de la Chine et de l'Inde. Mais l'affaiblissement des Etats-Unis sera aussi l'effet des développements technologiques, notamment informatiques et nucléaires, dans le chef d'acteurs tant étatiques que non étatiques. A ce sujet d'ailleurs, un rapport renversant publié quasi simultanément par un panel d'experts du Congrès américains, révèle que la Chine a développé des capacités de piratage et d'attaque informatiques telles, qu'elle est d'ores et déjà en mesure de neutraliser les capacités américaines en la matière : et donc par là même les moyens militaires qui en dépendent totalement ! A l'échelle de la planète, indique le NIC, le transfert de bien-être et de pouvoir économique aura pour effet que vers 2040-2050, les PNB réunis des "BRIC" (Brésil, Russie, Inde et Chine) sera équivalent à celui des pays du G7. Quant à la Chine, elle sera déjà en 2025 la seconde puissance économique derrière les Etats-Unis, supplantant à cette place l'Europe, mais en acquérant un statut de puissance militaire de premier plan. Enfin, le NIC consacre une part importante de son rapport aux enjeux transnationaux, qui conditionneront les relations entre les blocs. L'accès de plus en plus raréfié aux ressources naturelles que sont les énergies fossiles, mais aussi l'eau, la nourriture, et même l'air sain mis en danger par le réchauffement climatique, constituera un motif très probable de conflits entre blocs. La question n'est pas tant de savoir si ces conflits auront lieu, mais quand et quelle sera leur ampleur.


Et l'Europe dans tout cela? Elle restera, plus encore qu'aujourd'hui, un "géant boiteux", face à des pôles politiquement et militairement beaucoup plus intégrés. Et ceci principalement, selon le NIC, du fait d'un fossé qui ne fera que s'approfondir entre ses élites et des opinions publiques de plus en plus sceptiques. »



Le Temps, 22 novembre 2008

Le financement douteux des euro-sceptiques

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Andreas MÖLZER:

Le financement douteux des euro-sceptiques

Pour les élections européennes de juin 2009, le millionnaire irlandais Declan Ganley entend se présenter avec sa propre liste “euro-sceptique”, qu’il étendra à tous les pays de l’Union Européenne. D’après ce que l’on a appris jusqu’ici, la troupe bigarrée de ces euro-sceptiques comprendra, d’une part, les adeptes de mouvements conservateurs de droite comme le “Mouvement pour la France” et, d’autre part, ceux de groupements communistes ou crypto-communistes. Vaclav Havel, le président tchèque, qui est un euro-sceptique, serait aussi de la partie, ainsi que le rebelle auto-proclamé autrichien, adversaire de l’UE, Hans-Peter Martin.

Ganley s’est fait connaître du grand public lorsque, ce printemps, il a soutenu financièrement et fort généreusement la campagne contre le Traité de Lisbonne avec l’appui de son “Institut Libertas”. Certes on peut comprendre et même louer cette initiative et ce soutien, mais le scepticisme à l’égard de cet euro-scepticisme-là est de mise quand on se demande d’où vient tout cet argent… En effet, Ganley a gagné ses millions en signant des contrats très avantageux avec les agences qui coordonnent les achats de la Défense américaine, donc avec le noyau dur de l’hégémonisme américain. Nous sommes dès lors en droit d’émettre des soupçons et de penser qu’une grande puissance extra-européenne, les Etats-Unis, est en train de s’immiscer dans les affaires intérieures européennes.

Les compagnons d’arme potentiels de l’Irlandais, comme Vaclav Havel ou Hans-Peter Martin, devront tout de même réfléchir à deux fois et se demander si leur cause est bien servie quand elle recourt indirectement à un argent dont la provenance est bel et bien douteuse. De même, ils devront se demander s’ils ne deviendront pas ainsi le bras prolongé de Washington. Car les choses sont claires: les Etats-Unis, puissance extra-européenne, ne poursuivent que leurs propres intérêts, qui ne correspondent pas à ceux de l’Europe. Tandis que l’UE, tenaillée par le doute, s’efforce tant bien que mal de devenir un “global player”, soit un facteur déterminant sur la scène internationale,  les Etats-Unis, eux, ont bien plutôt l’intention de juguler les velléités d’indépendance européenne sur les plans militaire et diplomatique. Je répond donc “non” à la question qui nous demande, aujourd’hui, s’il est licite d’agir selon l’adage “la fin justifie les moyens”, en s’acoquinant à des alliés aussi douteux.

La lutte contre cette gigantesque fabrication abstraite et artificielle qu’est le Traité de Lisbonne et pour la souveraineté des peuples réels et des Etats nationaux de notre Europe est une tâche qui incombe aux seuls peuples européens. Seuls eux ont le droit de décider de leur avenir. Et à travers toute l’Europe, de la France à la Flandre, de l’Autriche à la Bulgarie, se dressent des partis patriotiques qui s’engagent pour le bien de leurs seuls peuples et non pas pour les intérêts d’une puissance extra-européenne. Ces formations patriotiques lutteront sans appui étranger contre les dysfonctionnements et les aberrations de l’Union Européenne.

Andreas MÖLZER.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°47/2008; traduction française: Robert Steuckers).  

 

 

RFID: la police totale

RFID : la police totale

 

 

Puces intelligentes et mouchardage électronique
Pièces et main d’œuvre
96 pages | 12 x 18,5 cm | 6 euros
isbn 978-2-91583026-2

Hors des laboratoires, des services vétérinaires et de logistique, peu de gens connaissent les RFID (Radio Frequency Identification), aussi nommées « étiquettes électroniques », « intelligentes », « smart tags », « transpondeurs », « puces à radiofréquences ».

Ces mouchards, nés durant la Seconde Guerre mondiale, vont bientôt supplanter les codes-barres dans les objets de consommation, puis envahir les animaux, les titres de transport et d’identité, les livres des bibliothèques, les arbres des villes et finalement les êtres humains à l’aide de puces sous-cutanées : voici venu le temps du marquage électronique universel et obligatoire. Bientôt il sera criminel d’extraire de son corps sa puce d’identité.

– Avez-vous quelque chose à vous reprocher ?

Ceux qui écrivent à l’enseigne de Pièces et Main d’Œuvre enquêtent et s’expriment depuis 2002 sur les nécrotechnologies. Ils ont publié à l’Echappée Terreur et possession, enquête sur la police des populations à l’ère technologique, Le Téléphone portable, gadget de destruction massive et Aujourd’hui le Nanomonde. Les nanotechnologies, un projet de société totalitaire.

http://www.lechappee.org/

Une biographie de Carl Schmitt

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Une biographie de Carl Schmitt

Analyse: Paul NOACK, Carl Schmitt. Eine Biographie, Ullstein/Propyläen, Berlin, 1993, 360 p., ISBN 3-549-05260-X.

 

Si les exégèses de l'œuvre de Carl Schmitt sont fort nombreuses à travers le monde depuis quelques années, si les interpréta­tions de sa notion de “décision” ou de sa “théologie politique” se succèdent à un rythme ahurissant, personne ne s'était encore at­telé à écrire une biographie personnelle du prince des politologues européens. Paul Noack (*1925), germaniste, romaniste et histo­rien, ancien rédacteur des rubriques politiques de la Frankfurter Allgemeine Zeitung  et du Münchener Merkur, actuellement profes­seur d'université à Munich, vient de combler cette lacune, en suivant chronologiquement l'évolution de Schmitt, en révélant sa vie de famille, en évoquant ses souvenirs personnels, consignés dans des journaux, des lettres et des entretiens inédits, et en repla­çant l'émergence des principaux concepts politologiques dans le vécu même, dans l'existentialité intime, de l'auteur. Noack sait qu'il est difficile de périodiser une existence, a fortiori quand elle s'étend presque sur tout un siècle, entrecoupé de guerres, de bouleversements, de violences et d'effondrements. Mais dès le départ, toutes les tranches de la première moitié de la longue vie de Schmitt sont marquées par des coupures: l'enfance (1888-1890) par l'arrachement à la patrie de ses ancêtres, l'Eifel mosellan profondément catholique, et l'exil en Sauerland; l'adolescence (1900-1907), elle, est imprégnée d'une éducation humaniste dans une ambiance cléricale édulcorée, qui a abandonné cette “totalité” mobilisatrice et exigeante, propre du catholicisme intransi­geant; la jeunesse (1907-1918) de Schmitt baigne, quant à elle, dans une Grande Prusse dés-hégélianisée, de facture wilhel­mienne, où l'engouement philosophique dominant va au néo-kantisme; le premier âge adulte (1919-1932) se déploie dans une germanité dé-prussianisée, où règne la démocratie parlementaire de Weimar contestée par les divers mouvements nationaux et par la gauche musclée.

 

Bref, cette périodisation claire, qu'a choisie Noack, indique que les bouleversements, les abandons, les relâchements se succè­dent pour aboutir au chaos des dernières années de la République de Weimar et du grand “Crash” de 1929. Cette effervescence, de la Belle Epoque au Berlin glauque où s'épanouisent au grand jour toutes les perversités, est peut-être féconde sur le plan des ruptures, des idées, des modes, des variétés, des innovations artistiques, des audaces théâtrales: elle plaît assurément aux Romantiques de tous poils qui aiment les originalités et les transgressions. Mais Schmitt reproche aux Romantiques, ceux de la première vague comme leurs héritiers à son époque, de s'engouer temporairement pour telle ou telle beauté ou telle ou telle origi­nalité: ils sont “occasionalistes”, “irresponsables”, incapables de développer, affirmer et approfondir des constantes politiques ou conceptuelles. Toute pensée fondée sur le goût ou le plaisir lui est étrangère: il lui faut de la clarté et de l'efficacité. Sa conviction est faite, il n'y changera jamais un iota: le “moi” n'est pas, ne peut pas être, un objet du penser. Celui qui hisse le “moi” au rang d'objet du penser, participe à la dissolution du monde réel. Ne sont réels et dignes de l'attention du penseur que les hommes qui s'imbriquent dans une histoire, s'en déclarent les héritiers et sont porteurs d'une attitude immuable, éternelle, qui incarnent des constances, sans lesquelles le monde et la cité tombent littéralement en quenouille.

 

Cette option, constate Noack, est le meilleur antidote contre le nihilisme et le désespoir. Pour y échapper, l'homme Schmitt entend ne pas être autre chose que lui-même et ses circonstances, notamment un Catholique impérial et rhénan, comme l'ont été ses an­cêtres. C'est dans ces circonstances-là que Schmitt s'imbrique pour ne pas être emporté par le flot des modes de la Belle Epoque ou du Berlin décadant des années 20. La politique, dès lors, doit être servie par une philosophie du droit fondée sur des concepts durs, impassables, éprouvés par les siècles, comme l'ont été ceux de la théologie jadis. Les concepts politiques qu'il s'agit d'élaborer pour sortir de l'ornière doivent être résolument calqués sur ceux de la théologie, s'ils n'en sont pas des reflets rési­duaires, inconscients ou non. Schmitt, au seuil de sa maturité, demeure quelque peu en marge de la “révolution conservatrice”, dont l'objectif majeur, dans le sillage de Moeller van den Bruck et des autres nationalistes de tradition prusso-protestante, était d'approfondir les fondements de l'“idéologie allemande”, née dans le sillage du romantisme et de la guerre de libération anti-napo­léonienne. Cette “idéologie allemande” véhicule, aux yeux de Schmitt, trop de linéaments de ce romantisme et de cet occasiona­lisme qu'il abomine. Ses références seront dès lors romanes et non pas germaniques, plus exactement franco-espagnoles: Donoso Cortès, de Bonald, de Maistre. C'est dans leurs œuvres que l'on trouve les matériaux les plus solides pour critiquer et dé­construire la modernité, pour jeter bas les institutions boîteuses et délétères qu'elle a générées, reponsables des bouleversements et des arrachements que Schmitt a toujours ressenti dans son propre vécu, quasiment depuis sa naissance. Ces institutions libé­rales, insuffisantes selon Schmitt, sont défendues avec brio, à la même époque, par Hans Kelsen et son école positiviste. Schmitt juge ce libéral-positivisme d'une manière aussi pertinente que lapidaire: «Kelsen résout le problème du concept de souve­raineté en le niant. La conclusion de ses déductions est la suivante: le concept de souveraineté doit être radicalement refoulé». S'il n'y a plus de souveraineté, il n'y a plus de souverain, c'est-à-dire plus de pouvoir personnalisé par des hommes charnellement imbriqués dans une continuité historique précise. par le truchement de ce positivisme froid, le pouvoir devient abstrait, incontrô­lable, incontestable. Son épine dorsale n'est plus une forme héritée du passé, comme la forme catholique pour laquelle opte Schmitt. Sans épine dorsale, le pouvoir chavire dans l'“informalité”: il n'a plus de conteneur, il s'éparpille. Dans ce contexte, quelle est la volonté de Schmitt? Forger un nouveau conteneur, créer de nouvelles formes, restaurer ou re-susciter les formes anciennes qui ont brillé par leur rigueur et leur souplesse, par leur solidité et leur adaptabilité.

 

Quand paraît le “concept du politique” en 1927, il est aussitôt lu par un autre maître des formes et des attitudes, Ernst Jünger, tout aussi conscient que Schmitt de la liquéfaction des formes anciennes et de la nécessité d'en restaurer ou, mieux, d'en forger de nouvelles. Enthousiasmé, Ernst Jünger écrit une lettre à Schmitt le 14 octobre 1930, qui sera l'amorce d'une indéfectible amitié personnelle. Pour Jünger, l'homme des “orages d'acier” de 1914-1918, la démonstration de Schmitt dans le "concept du politique” est une “évidence immédiate” qui “rend toute prise de position superflue” et balaie “tous les bavardages creux qui emplissent l'Europe”. «Cher Professeur», ajoute Jünger, «vous avez réussi à découvrir une technique de guerre particulière: la mine qui ex­plose sans bruit». «Pour ce qui me concerne, je me sens vraiment plus fort après avoir ingurgité ce repas substantiel». Les deux hommes étaient pourtant fort différents: d'une part le guerrier décoré de l'Ordre Pour le Mérite; de l'autre, un pur intellectuel qui n'avait jamais livré d'autres batailles que dans les livres. Jünger essaiera avec un indéniable succès d'introduire la clairvoyance de Schmitt dans les cercles néo-nationalistes, notamment les revues Die Tat, de Hans Zehrer et Erich Fried, et Deutsches Volkstum  de Wilhelm Stapel. La participation des deux hommes aux activités littéraires, philosophiques et journalistiques de la “Konservative Revolution” n'efface par leurs différences: Armin Mohler, nous rappelle Paul Noack, écrit très justement qu'ils sont demeurés chacun dans leur propre monde, qu'ils ont continué à chasser chacun dans leur propre forêt. Césure qui s'est bien visibi­lisée à l'époque du national-socialisme: retrait hautain et aristocratique de l'ancien combattant, engagement sans résultat du jur­site.

 

Mais, souligne Paul Noack, une grande figure de la gauche, en l'occurrence Walter Benjamin, écrivit aussi à Schmitt en 1930, quelques semaines après le “néo-nationaliste” Jünger, exactement le 9 décembre. Benjamin envoyait ses respects et son nou­veau livre au juriste catholique et conservateur, admirateur de Mussolini! Il soulignait dans sa lettre des similitudes dans leur ap­proche commune du phénomène du pouvoir. Cette approche est interdisciplinaire et c'est l'interdisciplinarité qui doit, aux yeux du Benjamin lecteur de Schmitt, transcender certains clivages et rapprocher les hommes de haute culture. Effectivement, l'interdisciplinarité permet seule de pratiquer un véritable “gramscisme”, non un “gramscisme de droite” ou un “gramscisme de gauche”, mais un gramscisme anti-établissement, anti-installations. Paul Noack écrit: «[Schmitt et Benjamin] sont tous deux ad­versaires de la pensée en compromis. Benjamin disait que tout compromis est corruption. Tous deux sont aussi adversaires du parlementarisme, du libéralisme politique et du système politique qui en procède. Tous deux pensent que ce n'est que dans l'état d'exception de l'esprit d'une époque se dévoile véritablement; tous deux manifestent une tendance pour l'absolu et la théologie». Et de citer Rumpf: «Benjamin et Schmitt se rencontrent dans leur rejet et leur mépris d'une bourgeoisie qui s'encroûte dans ce culte générateur du Moi». Ce rapport entre Schmitt et l'un des plus éminents représentants de la “Nouvelle Gauche”, voire de l'“Ecole de Francfort”, permet d'accréditer la thèse longtemps contestée d'Ellen Kennedy, spécialiste américaine de l'œuvre de Schmitt, qui a toujours affirmé que ce dernier a bel et bien influencé en profondeur cette fameuse “Ecole de Francfort” en dépit de ce que veulent bien avouer ses tristes légataires contemporains.

 

Avec l'avènement du national-socialisme, les positions vont se radicaliser. L'effondrement de la République de Weimar laisse un vide: Schmitt croit pouvoir instrumentaliser le nouveau régime, sans assises intellectuelles, s'en servir comme d'un Cheval de Troie pour introduire ses idées dans les hautes sphères de l'Etat. Ses anciennes accointances avec le Général von Schleicher, li­quidé lors de la “nuit des longs couteaux” en juin 1934, la nationalité serbe de son épouse Duchka Todorovitch (les services se­crets se méfiaient de tous les Serbes, accusés de fomenter des guerres depuis l'attentat de Sarajevo) et son catholicisme affiché (son “papisme” disaient les fonctionnaires du “Bureau Rosenberg”): autant de “tares” qui vont freiner son ascension et même préci­piter sa chute. Schmitt laisse des textes compromettants, qui le marqueront comme autant de stigmates, mais échoue face à ses adversaires dans les rangs du nouveau parti au pouvoir. Pire, à cause de son zèle intempestif, il traîne parfois aussi une réputa­tion de naïf ou, plus grave encore, d'opportuniste sans scrupule qui souhaite toujours et partout être le “Kronjurist”, le “juriste prin­cipal”. Plus tard, en 1972, dans un interview à la radio, Schmitt a avoué avoir agi sous l'impulsion d'un bon vieil adage français: «On s'engage et puis on voit». Paul Noack croit déceler dans cette attitude collaborante une certitude de type hégélien: Schmitt, l'homme des livres, l'homme de culture, était persuadé, est demeuré persuadé, qu'au bout du compte, l'esprit finit toujours par triompher de la médiocrité. Le national-socialisme, pour ce catholique de Prusse, pour ce catholique frotté à une idéologie d'Etat de facture hégélienne, était une de ces médiocrités propre de l'homme pécheur, de l'homme imparfait: elle devait forcément suc­comber devant la lumière divine de l'esprit. Erreur fatale et contradiction étonnante chez ce pessimiste qui n'a jamais cru en la bonté naturelle de l'homme, commente Noack (Robert Steuckers).

mercredi, 10 décembre 2008

Sobre las maniobras militares venezolano-rusas

¿Qué significado simbólico tienen las maniobras militares venezolano-rusas?

Las maniobras militares conjuntas de tres días realizadas por Venezuela y Rusia en el mar Caribe terminaron el día 3. Se trata de la primera presencia de la Armada Rusa en el Caribe después de terminada la Guerra Fría.

Estas maniobras, codificadas como “Venezuela-Rusia 2008”, se realizaron dentro de la Zona Económica Exclusiva de Venezuela. El día primero, Venezuela y Rusia enviaron un total de cinco buques, entre ellos, el crucero misilero nuclear “Pedro el Grande” y el gran buque antisubmarino “Almirante Chapanenko” de Rusia. Las maniobras de ese día constituyeron el contenido principal de las maniobras militares de ambos países. Con el crucero misilero nuclear “Pedro el Grande” como buque insignia, se llevaron a cabo ejercicios de coordinación para la “defensa común”. Las maniobras de ese día duraron nueve horas, con la participación de 1.600 rusos y 700 venezolanos.


En el curso de los tres días, las armadas venezolana y rusa realizaron ejercicios antiaéreos, de abastecimiento de combustible, de seguimiento de buques de guerra, de combate coordinado con helicópteros y aviones de combate así como maniobras tácticas antiterroristas y contra narcotraficantes. Luis Márquez Márquez, comandante de operaciones de la Armada Venezolana, dijo que a través de las maniobras, la Armada Venezolana aprendió de la contraparte rusa conocimientos sobre el sistema de comunicación y manejo de armas, aumentando así su capacidad defensiva.

A estas maniobras les han dado importancia altos dirigentes de las partes venezolana y rusa. El 27 de noviembre, el presidente venezolano Hugo Chávez y el visitante presidente ruso Dmitry Medevedev inspeccionaron el gran buque antisubmarino “Almirante Chapanenko” anclado en el puerto septentrional venezolano de La Guaira. Los mandatarios de ambos países visitaron las instalaciones internas y externas del buque, Medevedev explicó a Chávez los armamentos del mismo y los dos escucharon una presentación sobre las maniobras conjuntas por efectuar.

Chávez, siempre con una posición claramente anti-EEUU, mostró en esta ocasión una actitud muy prudente. Reiteró que las maniobras conjuntas tenían una “misión de paz” en lugar de desafiar a Estados Unidos. Medevedev dijo por su parte que Venezuela es uno de los socios más importantes de Rusia en América Latina y que ambos países abogan por un mundo multipolar y por respetar la soberanía nacional y los legítimos derechos de los pueblos. Rusia y Venezuela, apuntó, continuarán desarrollando su cooperación militar, la cual se mantendrá transparente observando estrictamente el derecho internacional y dentro de la esfera permisible.

Un analista señaló que el que Rusia persistiera en realizar maniobras conjuntas con Venezuela en el “patrio trasero” de los Estados Unidos muestra que Rusia hizo una respuesta directa al comportamiento de EEUU que despliega sistema antimisil en Europa Oriental y mantiene a los gobiernos anti-Rusia en sus alrededores. Pero el significado simbólico de estas maniobras conjuntas es obvio y muestra que acaba de empezar la cooperación militar venezolano-rusa.

Estados Unidos siguió de cerca estas maniobras militares, pero sostuvo que no constituyen una amenaza esencial para él. Sean McComarck, portavoz del Departamento de Estado de EEUU, manifestó: “Las maniobras militares de Venezuela y Rusia no constituyen un problema, pero las seguiremos de cerca.” Condoleezza Rice, secretaria de Estado norteamericana, dijo el 26 de noviembre que al entrar la flota rusa en aguas jurisdiccionales de Venezuela, no ha cambiado la posición ventajosa que mantiene Estados Unidos en el hemisferio occidental.

No obstante, con respecto a la acción rusa de vender armas a Venezuela, EEUU ya mostró cierta preocupación. Según se informó, el gobierno de Chávez ha firmado en los últimos años contratos de compra de armas por un monto de 4.400 millones de dólares. Rusia llegó hasta prestar mil millones de dólares a Venezuela, dejándole comprar a Rusia misiles antiaéreos “Tor-M1” y aviones cisterna “IL-78”. Venezuela también se propone comprar de Rusia transportes blindados y helicópteros artillados.

Según informaron medios de comunicación venezolanos, después de estas maniobras militares, Venezuela y Rusia mantendrán su intención para una ulterior cooperación militar. La Armada Rusa ha invitado a una flota de la Marina de Guerra venezolana a visitar Rusia, de manera que ambas partes efectuarán una serie de ítems de cooperación militar en el Mar del Norte. Venezuela ya ha llegado a ser un importante socio de cooperación en la estrategia global de Rusia.

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La Russie Obama-sceptique

LA RUSSIE OBAMA-SCEPTIQUE


Faut-il risquer de biaiser le message du président russe en mettant d’abord l’accent sur les élections américaines ? Nous en prenons le risque, parce que la vision américaine de l’ordre du monde préoccupe la Fédération de Russie, supposée devoir être “contenue”, menacée sur ses frontières, depuis des lunes – depuis des lustres – et que l’épisode géorgien a matérialisé en conflit armé des manœuvres jusque là menées au travers des “organisations non gouvernementales” financées par Washington pour appuyer, dans l’ancienne aire d’influence soviétique, les factions qui lui seraient, une fois parvenues au pouvoir, débitrices. L’expérience nous montre, avec le président géorgien Mikhaïl Saakhaschvili par exemple, que la promotion de la démocratie fait partie d’un l’habillage commode et non prioritaire. (...)


Le président Medvedev attribue sans ambiguïté la situation à l’état d’esprit américain après la chute de l’Union soviétique : “La crise financière mondiale a débuté comme une ‘crise locale’ sur le marché intérieur américain”. Si la Russie, qui a bénéficié de son intégration à l’économie mondialisée, est prête à prendre ses responsabilité, avec d’autres, pour répondre aux difficultés actuelles, il faut néanmoins “mettre en place des mécanismes qui puissent bloquer les décisions erronées, égoïstes et parfois tout simplement dangereuses prises par quelques membres de la communauté internationale.”.


Dans le droit fil des positions prises par la Russie présidée par Vladimir Poutine devant leur unilatéralisme, Dimitri Medvedev stigmatise sans détours les pratiques des Etats-Unis en matière financière : “Ils ont laissé leur bulle financière grossir pour stimuler leur croissance domestique mais ne se sont pas souciés de coordonner leurs décisions avec les autres joueurs sur le marché mondial et ont négligé même le sens de la mesure le plus élémentaire. Ils n’ont pas écouté les nombreux avertissements de leurs partenaires (y compris les nôtres). Le résultat est qu’ils ont causé des dommages, à eux-mêmes et aux autres”. C’est bien la double prétention américaine à défendre d’abord ses intérêts et à conduire les affaires du monde que la Russie continue de contester.


Ainsi, à “l’aube d’une nouvelle direction américaine” par le “phare de l’Amérique” annoncée par Barack Obama nouvel élu, la réponse est-elle immédiate. La Russie tient pour acquise la légitimité d’un monde “polycentrique”. Et elle le montre. Tout, dans la structure même du discours russe souligne combien Moscou s’est senti agressé, acculé, méjugé dans l’affaire géorgienne : le train de mesures décrites par Dimitri Medvedev y est étroitement corrélé, des efforts et ajustements entrepris à l’intérieur du pays jusqu’aux décisions défensives de protection de l’intégrité du territoire qui ont tellement inquiété les partenaires des Russes. Non seulement il n’est plus question de démanteler de nouveaux éléments de la défense nucléaire mais “nous déploierons le système des missiles Iskander dans la région de Kaliningrad pour être capables, si nécessaire, de neutraliser le système de missile anti-missile” que les Américains veulent installer en Pologne, République tchèque et Hongrie. (...)


Dans la réalité, que changerait un retour de Vladimir Poutine à la première place en termes de géopolitique russe ? Il n’y a pas de désaccord politique entre les deux hommes, tous deux veulent affirmer le rôle de leur pays dans le monde, réassurer leur influence et leur sécurité en Asie centrale et dans le Caucase, défendre les intérêts russes dans leurs échanges avec leurs grands partenaires, de la Chine (et l’Inde) à l’Union européenne, de l’Afrique et du Moyen-Orient à l’Amérique latine. Aucun des deux ne veut d’un monde conduit par la puissance américaine, quel qu’en soit le président. Tous deux font la même proposition de nouvel accord sur la sécurité européenne, discutée, souvenons-nous entre les “trois branches de la civilisation occidentale” dans un cadre “véritablement égalitaire”.


Dans la réalité, la Russie est le seul des grands pays aujourd’hui qui annonce clairement qu’elle souhaite un monde “polycentré” et des structures internationales qui reflètent cette multilatéralité – dans tous les domaines, en droit, dans le domaine de la monnaie, dans les équilibres régionaux – ce qui n’est pas illégitime. D’autres le souhaitent sans le dire, certains le craignent et regardent d’où souffle le vent. Or les Etats-Unis jusqu’ici ont écarté cette hypothèse. Le nouveau président, Barack Obama, porte-t-il une vision différente du monde ? Non, pense-t-on visiblement à Moscou. C’est ce que discours à l’Assemblée fédérale affirme : la Russie n’a pas d’intentions belligérantes. Mais elle ne se laissera pas contraindre. Il serait utile de l’entendre. »



Hélène Nouaille et Alain Rohou, Comité Valmy, 7 novembre 2008

"Le regard vide" de l'Europe selon J. F. Mattéi

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Le regard vide de l’Europe selon Jean-François Mattei - Essai sur l’épuisement de la culture européenne

SYNERGIES EUROPEENNES - ECOLE DES CADRES / WALLONIE - Comité de lecture - novembre 2008

Trouvé sur : http://canalacademie.com 

Le philosophe Jean-François Mattei examine la traditionnelle capacité de l’Europe à voir loin, à se projeter, son sens critique, sa croyance dans le progrès, bref sa métaphysique. Loin de l’imprécation des déclinologues ou de l’auto flagellation de ceux qui, comme Suzanne Sontag, considère « la race blanche » comme « le cancer de l’humanité », il nous aide à mieux comprendre la spécificité de l’Europe et les causes de son aveuglement actuel. Damien Le Guay a lu "Le regard vide de l’Europe" et nous fait partager ici son analyse.

Jean-François Mattei, le philosophe, et non l’ancien ministre de la santé, poursuit un travail salutaire de critique en profondeur d’un monde, le nôtre, qui a perdu le sens du lointain. Car après tout, comme l’indiquait Lévinas, la civilisation n’est-elle pas une distance prise avec soi-même qui rend possible une intrigue avec un au-delà de soi. Mais si cette distance s’écrase, si la civilisation perd le goût de l’horizon, alors l’individu s’enferme en lui-même, devient despotique, étranger à tout ce qui n’est pas lui.

En 1999, avec son magnifique livre intitulé La barbarie intérieure (PUF), il avait passé à la paille de fer, par une mise en perspective philosophique et une analyse sans concession, cette phase actuelle de la modernité qu’il considérait comme « immonde » - à savoir inapte à laisser se déployer « le monde » qui nous porte ensemble, nous réunit pour nous faire sortir de nos barbaries intérieures.

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Dans De l’indignation (La table ronde, 2005), d’un ton alerte, il s’en prenait à toutes ces fausses indignations d’opérettes qui pullulent – avec des rebelles autoproclamés, des insurrections convenues. Dès lors : la fausse indignation chasse la bonne. La bonne ? Celle que nous devons avoir vis-à-vis d’une certaine culture contemporaine qui met en péril l’homme et finit par abolir les œuvres d’art elles-mêmes.

Le voici qui nous revient avec un essai Le regard vide (Flammarion, 2007) qu’il sous-titre lui-même « essai sur l’épuisement de la culture européenne ». Avec toujours cette dénonciation de la perversion d’un certain esprit critique qui a finit par se retourner contre lui-même, par devenir nihiliste, il examine la spécificité de l’Europe. Tout le monde la cherche. Lui, la détecte dans le regard. Oui ! Son regard. Il est avant tout porté vers le lointain. Certes cette manière de voir loin, d’aller au loin, de ne pas tenir compte des frontières, peut comporter une part de surplomb. Mais à trop insister, comme on le fait aujourd’hui, sur ses travers méprisants, n’occultons-nous pas cette incroyable capacité européenne de mise en mouvement, de projection – au sens de faire des projets et « d’aller voir là-bas si j’y suis », selon l’expression de Remi Brague ? Seconde caractéristique de ce regard européen : son sens critique qui le conduit, par le recours à l’abstraction, à transformer la réalité. Les développements scientifiques et philosophiques de l’Europe naissent de cette métaphysique-là. Ajoutons une dernière caractéristique : un éloge de l’infini qui donna à l’Europe son sens de l’histoire et sa croyance dans le progrès.

Le regard, donc. Regard sur la cité, sur le monde, sur l’âme. Jean-François Mattéi, textes d’auteurs à l’appui, décline cette spécificité du regard éloigné de l’Europe et devient « théorique ». N’oublions pas que pour les Grecs la « théorie » est une manière de voir, d’acquérir un regard sur le monde. Il montre bien en quoi nous avons assisté à un « aveuglement du regard ». De critique il est devenu autocritique. D’ouvert, il est devenu relativiste. De tendu, il est devenu mou. D’assuré, de son mouvement il est devenu en bougeotte sur lui-même. De spirituel, il est devenu procédural.

Jean-François Mattei, Le regard vide, Essai sur l’épuisement de la culture européenne,Flammarion, 292 pages, 20 €

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L'univers de G. K. Chesterton

L’univers de G.K. Chesterton

L’univers de G.K. Chesterton

petit dictionnaire raisonné
Philippe Maxence
24,00 €

Auteur de plus de cent livres, maître du suspense, de l’humour et de la polémique, le romancier et poète Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) a bâti une œuvre qui a vite traversé les frontières de son Angleterre natale.
En dépit de sa série des “Father Brown”, son héros de prêtre détective, aujourd’hui traduite dans le monde entier, il manquait cependant un aperçu audacieux de ses thèmes et de ses bons mots.

Voici le libre abécédaire de cet univers étoilé de bonheur, de bon sens, de paradoxe et d’excentricité : une occasion unique de découvrir l’homme de cœur et de conviction.
“Chesterton est l’un des premiers écrivains de notre temps et ceci non seulement pour son heureux génie de l’invention, pour son imagination visuelle et pour la félicité enfantine ou divine que laisse entrevoir chaque page de son œuvre, mais aussi pour ses vertus rhétoriques, pour sa pure virtuosité technique.”
Jorge Luis Borge

Passionné par le monde anglo-saxon, Philippe Maxence est notamment l’auteur de Baden-Powell, éclaireur de légende et fondateur du scoutisme (Perrin, 2003), du Monde de Narnia décrypté (Presses de la Renaissance, 2005), et de Pâques 1916, renaissance de l’Irlande. Il est rédacteur en chef du bimensuel L’Homme Nouveau.

 

http://www.librairiecatholique.com

mardi, 09 décembre 2008

Le krach du libéralisme

EN KIOSQUE CETTE SEMAINE


le krach du libéralisme
Un document à posséder pour argumenter lors des séminaires de l'école des cadres ! Bien sûr, cum grano salis, comme pour toutes les publications parisiennes qui véhiculent toujours des germes délétères de jacobinisme, l'idéologie de la terreur qui a justement généré le libéralisme !



En kiosque depuis quelques semaines, un très intéressant numéro du bimensuel Manière de Voir (numéro de décembre-janvier) consacré au krach du libéralisme.


Nouveaux textes sur "Theatrum Belli"

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Bonjour,

Veuillez trouver ci-dessous les dernières publications du blog THEATRUM BELLI (http://www.theatrum-belli.com/).


Armée française : professionalisation et autorité

Les armées ont changé, et c'est un paradoxe, pour une institution dont la pérennité est garantie par des logiques d'action prévisibles et continues. La professionnalisation des armées françaises, intervenue en 1996, offre une occasion de s'interroger sur les processus de transformation des institutions publiques et d'étudier les rapports à l'autorité dans une institution où la hiérarchie...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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L'armée libanaise sera équipée d'armes russes

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Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Les armes de la puissance (1/3)

La guerre apparaît comme le moyen le plus simple d'imposer sa volonté, d'étendre son pouvoir et d'augmenter sa richesse. Dès lors elle entretient avec l'économie des relations anciennes. Chez certains peuples elle faisait même figure d'activité majeure, nomades du désert razziant les agriculteurs sédentaires ou « barbares » à la recherche de butin et de terres. Dans nos siècles...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Les armes de la puissance (2/3)

II. LA GUERRE POUR ET PAR L'ÉCONOMIE Les évolutions de la guerre expliquent qu'elle réclame une mobilisation économique massive. Elles expliquent aussi que l'économie devient en même temps un but et une arme de guerre.   1. L'économie constitue un but de guerre de plus en plus important Déjà présents lors des conflits entre Athènes et Sparte, Napoléon et le...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Les armes de la puissance (3/3)

III. LA FIN DE LA GUERRE ? Pour de multiples raisons, le XXe siècle a pu espérer en une fin de la guerre. Cet espoir a pourtant été déçu.   1. La puissance de destruction des armes modernes interdiraient de s'en servir Les gaz de combat n'ont pas été utilisés par les principaux belligérants pendant la Seconde Guerre mondiale, chacun craignant les représailles...

Cette note a été publiée le 07 décembre 2008

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Ceci est mon bouclier

 

Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Décès du colonel Jean Deuve, résistant et spécialiste du renseignement

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Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Un navire de guerre russe dans le Canal de Panama

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Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Renforts en Afghanistan

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Cette note a été publiée le 06 décembre 2008

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Arthur, Roi des Bretons (1/5)

 

Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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Le crash pétrolier (1/5)

 

Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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L'Allemagne met en place son propre système de satellites espions

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Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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Le Pentagone officialise l'importance donnée à la "guerre irrégulière"

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Cette note a été publiée le 05 décembre 2008

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Lawrence d'Arabie - 1962 - (1/11)

 

Cette note a été publiée le 04 décembre 2008

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La réforme de l'armée russe exaspère les militaires

Réduction des effectifs, refonte de la chaîne de commandement, ventes de terrains et d'immeubles, fermetures des instituts et des académies : la réforme de l'armée dévoilée le 14 octobre par le ministre russe de la défense, Anatoli Serdioukov, est à l'origine d'une vague de mécontentement chez les gradés. "Je le vois bien autour de moi, les officiers ont une dent contre le pouvoir en...

Cette note a été publiée le 04 décembre 2008

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EADS remporte un contrat de 208 millions de dollars de l'armée américaine

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Cette note a été publiée le 03 décembre 2008

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Les bombes à sous-munitions mises hors la loi à Oslo

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Cette note a été publiée le 03 décembre 2008

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Royaume-Uni : Les mouvements terroristes recrutent

Selon plusieurs sources, des citoyens britanniques d'origine pakistanaise auraient participé aux attentats de Bombay. Une information qui confirme l'implication de jeunes Anglais dans des attaques menées de l'Afghanistan à la Somalie. Selon certaines agences du renseignement, plus de 4.000 citoyens britanniques seraient passés par des camps d'entraînement terroristes en...

Cette note a été publiée le 03 décembre 2008

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Armes, trafic et raison d'État (1/6)

 

Cette note a été publiée le 02 décembre 2008

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La France va renforcer sa présence en Afghanistan

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Cette note a été publiée le 02 décembre 2008

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Bien cordialement,

L'équipe Hautetfort
http://www.hautetfort.com/

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"La solidarité" par Maris-Claude Blais

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"La Solidarité", par Marie-Claude Blais

 

SYNERGIES EUROPEENNES - Ecole des Cadres / Wallonie - Comité de lecture - Novembre 2008

Biographie de l'auteur : Marie-Claude Blais enseigne à l'université de Rouen. Elle a publié dans la même collection Au principe de la République. Le cas Renouvier, en 2000.

347 pages. Editions Gallimard (26 octobre 2007). Collection : Bibliothèque des idées

ISBN-10 : 2070784673. ISBN-13 : 978-2070784677


***

Contre l’égoïsme social

Jusqu’aux années 1850, la solidarité fut une loi transcendantale et encore divine, qui postulait l’unité perdue du genre humain et l’harmonie naturelle. Aujourd’hui, la solidarité hante l’espace public : l’impôt de solidarité sur la fortune (ISF) ou le pacte civil de solidarité (pacs), notamment, sont là pour nous le rappeler. Elle a même fait retour dans la doctrine sociale de l’Église, en 1987, via Sollicitudo rei socialis et Jean-Paul II, ce Polonais ami de Solidarnosc : la vertu chrétienne de charité a réintégré l’obligation laïque d’avoir à faire du lien entre des individus émancipés mais dissociés par les Lumières. Elle est montée en épingle depuis 2001 au titre de « valeur universelle » dans les projets de Constitution pour l’Europe. Elle est devenue, note Marie-Claude Blais, au mieux « le nom que prend l’obligation sociale à l’heure du droit des individus », au pire de la « poudre de perlimpinpin ». Bref, il y a une unanimité trop peu consistante autour de ce mot-valise et du vague à l’âme dans son usage, devant les décombres de l’État providence et la déliquescence du lien social.

Certains, il est vrai, croient qu’un solidarisme réinstallé au vif des enjeux du XXIe siècle pourrait avoir de nouveau sa chance. Quoi qu’il en soit, il faut goûter la sauce. Le livre de Marie-Claude Blais, bien informé, parfaitement clair, instruit à bon escient de ce qui fut, en fait, le nirvana philosophique de ce progressisme "républicain, radical et radical-socialiste" de la Belle Époque. Sorti mieux armé de la bataille autour de Dreyfus, il sut combattre tout à la fois la réaction cléricale, le libéralisme sans foi ni loi et le socialisme caporalisé. C’est le radical Léon Bourgeois, éphémère président du Conseil en 1895-1896 et futur prix Nobel de la paix en 1920, qui a peaufiné la notion dans son Solidarité de 1896 et qui, dix ans plus tard, a su convaincre ses amis politiques d’en faire la doctrine officielle de leur jeune parti (le premier qui ait été créé en France, en 1901).

Ces radicaux régnant alors sur la République, celle-ci devint solidariste comme eux et elle le fit accroire à tous les enfants par ses instituteurs et leurs leçons d’instruction civique et morale. La séparation de 1905 et la Grande Guerre de 14-18 ruinèrent pour longtemps ce solidarisme incapable de penser le Mal et la violence. Seul le temps de la Résistance et de la Libération le remit partiellement en selle quand il fallut définir ce qu’on nomme aujourd’hui notre « modèle social » et notamment notre Sécurité sociale. Après trente ans de crises et doutes de tous genres, le voici donc aujourd’hui qui fait un retour inattendu.

Léon Bourgeois a dessiné ses trois lignes de force. Un : la solidarité est la loi naturelle et scientifique, philosophique et morale, qui régit la dépendance réciproque entre les vivants et leur milieu. Deux : les hommes et les citoyens, héritiers et associés, sont tous débiteurs et doivent honorer leur dette sociale en rendant de leur mieux ce qu’ils ont reçu. Trois : un « quasi-contrat » met les individus à égalité originelle de valeur mais les émancipe par le mérite. Bourgeois n’a pas été le seul propagandiste de cette nouvelle foi. Jusqu’aux années 1850, la solidarité fut une loi transcendantale et encore divine, qui postulait l’unité perdue du genre humain et l’harmonie naturelle si chères aux romantiques : tout ce dont rêvèrent des hommes comme Pierre Leroux, Charles Fourier ou Constantin Pecqueur.

Après 1850, l’idée se sécularisa, mêlant l’économie et la philosophie, le droit civil et la morale sociale, la science et l’utopie, l’histoire et la biologie, touchant les républicains de progrès, les radicaux et les maçons mais aussi des socialistes de gouvernement, des pionniers de l’économie sociale, des chrétiens démocrates et sociaux, des syndicalistes, des mutualistes et même des nationalistes conservateurs : Marie-Claude Blais, déjà spécialiste appréciée de la pensée de Charles Renouvier, nous fait découvrir dans toute leur fraîcheur les trop oubliés Charles Secrétan, Alfred Fouillée, Charles Gide, Jean Izoulet ou Émile Durckheim. Tous acharnés à frayer, solidairement, un chemin entre le libéralisme individualiste et l’étatisme collectiviste. Tous dressés contre l’égoïsme social, pour le bien commun. Entonnant la vieille rengaine démocratique, épelant le b-a-ba de la libre fraternité. Pouvons-nous, saurons-nous réapprendre à lire le collectif et l’individuel en pensant à eux ?

JEAN-PIERRE RIOUX (La Croix)

Linkse vernippering

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Linkse versnippering

Gevonden op: http://yvespernet.wordpress.com

In Vlaanderen en Frankrijk is er een kleine crisis bij links, al is er wel een groot verschil in omvang. Waar hier een minipartijtje als Vl.Pro. uiteenvalt in de postjespakkers en de naiëve idealisten, is het in Frankrijk wel wat erger.

Frankrijk

Daar heeft nu Pierre Joxe de Parti de Gauche gesticht, naar het voorbeeld van Die Linke (waar nu ook Oskar Lafontaine bijzit) die zich links van de PS zal positioneren. Wel te begrijpen aangezien geen van beide kandidaten voor het PS-voorzitterschap echte kandidaten van “links” waren. Progressief genoeg, maar links…, daar heb ik mijn twijfels bij.

Aubry, de kandidaat van de partijtop vs Royal, de kandidaat die de PS nog meer het centrum wilt induwen. Geen van beide kandidaten was dus eigenlijk “links”, al was Aubry wel degene die destijds nog de 35uren-week invoerde, en wensten dat ook niet te zijn. En dat is ook het hele probleem van links in Europa. Oftewel zijn ze extreem-links met alle kenmerken ervan; sektarisme/dogmatisme/etc… Oftewel zijn ze centrum, eveneens met alle gevolgen daarvan; onduidelijkheid/wolligheid/geen duidelijk beleid/etc… Het zal dus nog interessant worden in Frankrijk, ik geef de Parti de Gauche een redelijk grote overlevingskans, wat op korte termijn alleen maar voordelen kan vormen voor Sarkozy.

Vlaanderen

In Vlaanderen is het allemaal wat minder idealistisch. Daar is het eerder van het soort de-ratten-verlaten-het-zinkende-schip. Adihar en T’sijen keren nu hun partij de rug toe, wat goed te begrijpen is. Als men iets wil verwezenlijken, zal dat nooit via Vl.Pro. gebeuren en als men een mandaat wilt behouden, zal ook dat niet via Vl.Pro. gebeuren.

Anciaux zelf zal uiteraard Vl.Pro niet snel verlaten, hij zal zo veel mogelijk mensen meenemen naar SP.a om bij die laatsten zijn waarde te tonen. Hoe meer Vl.Pro.-mensen hij kan meenemen, hoe harder hij op tafel kan slaan wanneer de mandaten en verkiezingsplaatsen verdeeld worden. En als ze hem uit de partij smijten, dan kan hij altijd nog de martelaar uithangen. Een win-winsituatie voor Anciaux zelf, uit idealisme zal hij het alvast niet doen…

Repenser la solidarité d'après M. Cl. Blais

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Repenser la solidarité : Marie Claude Blais

 Chronique du livre : La solidarité. Histoire d’une idée, Marie-Claude Blais, Gallimard, 2007

Que faut-il penser de la solidarité, cette charité laïque fondée sur un lien social fort qui a ému nombre de penseurs au XIXe siècle ? Marie-Claude Blais se pose la question en retraçant l’histoire de cette idée.

En 1992, François Azouvi a théorisé une "histoire philosophique des idées"   d’un type nouveau, avant d’innover en dressant une histoire du cartésianisme après Descartes. Marie-Claude Blais, qui avait déjà publié un ouvrage sur Renouvier, relève aujourd’hui le défi.

L’approche est vivante et le sujet stimulant : la solidarité fait partie de ces notions aux contours suffisamment flous pour qu’on les investisse librement des nombreux contenus que chaque époque veut bien leur attribuer. C’est là sa richesse, et peut-être sa faiblesse. Tour à tour concept juridique, idéal romantique, catéchisme social ou vertu républicaine, la solidarité a toujours pris la double forme d’instrument d’analyse de la société et d’exigence individuelle. De ce sujet ambitieux, l’auteur fait un traitement habile.

Selon un modèle bien connu au cinéma, Marie-Claude Blais choisit de partir de la consécration de cette notion par le mouvement solidariste de Léon Bourgeois  . au crépuscule du XIXe siècle, pour revenir ensuite à ses origines et suivre le fil du temps. Le mouvement est agréable, nous nous laissons porter au gré de différents auteurs qui ont trouvé dans la solidarité matière à réfléchir.


Un enchaînement vivant d’itinéraires intellectuels

Marie-Claude Blais, précise et didactique, excelle à nous expliquer comment se déploie l’idée de solidarité, en une période où celle-ci prend une place déterminante dans les représentations politiques. D’un itinéraire intellectuel à l’autre, influences, rebonds et querelles rythment ce roman de la solidarité, enrichie au gré de pensées qui en redéfinissent régulièrement les contours.

On y croisera l’imprimeur Pierre Leroux qui y voyait l’avatar laïc d’un principe évangélique, et le juste milieu entre individualisme et "socialisme", revendiquant d’ailleurs la paternité de ce dernier mot. On y découvrira l’économiste Constantin Pecqueur qui analysait la solidarité selon un mode de production et de répartition distributive des richesses. On y écoutera le juriste suisse Charles Secrétan qui a ancré la notion dans l’immanence. Marie-Claude Blais fait un sort particulier à celui qui avait déjà fait l’objet de ses travaux antérieurs : le philosophe néo-kantien Charles Renouvier qui, évoluant de l’idée de totalité englobante à celle de pluralité d’éléments individuels, a trouvé et salué dans la solidarité une relation de mutuelle dépendance entre les hommes, créatrice de dette.

Les philosophes les plus illustres croisent dans ces pages ceux qui ont bénéficié en leur temps d’un succès d’estime mais que plus personne ne lit aujourd’hui. À la figure renommée d’Emile Durkheim, dont la thèse faisait de la division du travail la source de la solidarité sociale, succède celle, plus oubliée, du philosophe Jean Izoulet, qui voulait asseoir la solidarité laïque sur une religion sociale immanente, et pour qui, dans la longue lignée de la droite organiciste, un enfant n’avait pas forcément besoin d’apprendre à lire ou à écrire, pour peu qu’on lui enseignât son exacte fonction au sein de l’ensemble social auquel il prend part.

Cette longue chaîne intellectuelle s’achève avec Léon Bourgeois, figure du radicalisme et brièvement chef du gouvernement en 1895-1896. Cette année-là, dans un ouvrage au grand retentissement, intitulé précisément Solidarité, il se donne pour ambition de formuler "une théorie d’ensemble des droits et des devoirs de l’homme dans la société".

Entraînés de la sorte, nous en oublions presque l’idée dont il était question. C’est à la fois la force et la faiblesse de l’ouvrage. Car Marie-Claude Blais prend, en réalité, prétexte de l’idée de solidarité pour nous exposer ici une pensée, nous restituer là une ambiance intellectuelle. Le cheminement est plaisant, mais le concept lui-même n’y gagne pas grand-chose.

Une idée à enrichir

À en croire Marie-Claude Blais, l’histoire d’une idée n’est que la recension de ses apparitions dans l’histoire. C’est pour cela que l’on éprouve, à la lecture de La solidarité, un double sentiment de satisfaction et d’incomplétude. Il nous manque la véritable problématisation philosophique dont le concept aurait gagné à faire l’objet.

L’auteur ouvre une porte à la toute fin de l’ouvrage, lorsqu’elle écrit que "la généralisation de ce principe indiscutable devrait pourtant rendre criante l’urgence d’un nouveau travail de conceptualisation"  . Mais c’est en vain que le lecteur cherchera ici un tel travail.

Pour toute pensée nouvelle de l’idée de solidarité, l’auteur nous propose le fil conducteur de la troisième voie "entre l’individualisme libéral et le socialisme collectiviste, la voie d’une démocratie non moins sociale que libérale". À ses yeux, c’est la richesse actuelle de ce concept. Mais la position du ni-ni laisse sur sa faim.

Le sujet aurait mérité que l’auteur apporte une pierre nouvelle à l’édifice, enrichisse cette idée de significations nouvelles. Marie-Claude Blais soulève souvent des questions sans y apporter de commencement de réponses.

Si elle milite pour la réintroduction de la solidarité dans notre champ d’analyse, c’est souvent par défaut : "entre le reflux des solutions collectivistes, l’effacement du modèle marxiste de la lutte des classes, la poussée de l’individualisme juridique et la résurgence offensive du libéralisme économique, nous renouons, structurellement parlant, avec la matrice intellectuelle qui avait imposé la catégorie de solidarité comme la seule à même d’accorder la liberté et le lien, l’indépendance des êtres et leur interdépendance, la responsabilité de chacun et la protection de tous."

Finalement, n’était-ce pas à travers le droit que l’on aurait pu repenser cette fameuse solidarité ? Le principe fondateur de la solidarité chez Léon Bourgeois était une dette primitive de l’homme envers la société humaine, depuis le jour de sa naissance  . À partir de cette idée, les juristes Christophe Jamon et Denis Mazeaud ont élaboré une théorie laissée de côté par une grande partie de la doctrine, mais philosophiquement stimulante : le "solidarisme contractuel". Reprenant l’idée du quasi-contrat mise en avant par Léon Bourgeois et dont Marie-Claude Blais rend bien compte ici, selon laquelle des obligations se forment "sans qu’il intervienne aucune convention, ni de la part de celui qui s’oblige, ni de la part de celui qui s’y est engagé" (article 1370 du Code civil), sorte de "contrat rétroactivement consenti", selon le terme de Bourgeois, ces derniers justifient l’intervention du juge dans le contrat au nom d’une valeur sociale supérieure à la simple autonomie de la volonté des parties : la solidarité.

Réjouissons-nous, en tout cas, que se développe ainsi l’histoire des idées, qui ouvre des possibilités immenses pour l’historiographie comme pour la philosophie !

lundi, 08 décembre 2008

Réflexions sur le retour de la piraterie

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« M. »/ » ‘t Pallieterke :

 

Réflexions sur le retour de la piraterie

Il y a quelque temps, lorsque le Sirius, l’un des plus grands pétroliers du monde, est tombé entre les mains de pirates somaliens, une borne importante sur la voie de l’involution des mœurs contemporaines a été dépassée. La prise de ce navire a dû être un formidable spectacle. On peut l’imaginer : des pirates accrochés à des cordes qui grimpent le long de la coque d’un bâtiment aussi haut que Big Ben, sous une chaleur tropicale et à quelque 800 km environ de la côte africaine. La signification de cet événement, qui s’est déroulé le 15 novembre dernier, ne peut être sous-estimée. Plus aucun navire quittant le Canal de Suez ne peut se considérer à l’abri des pirates, quelques soient ses dimensions, sa destination et son itinéraire.  Voilà en quoi consiste la borne que ces pirates viennent de franchir.

On ne sait pas très bien où se trouve le Sirius aujourd’hui. Selon les dernières nouvelles, il mouillerait quelque part en mer, en face du port de Haradher, qui se trouve entièrement aux mains des pirates somaliens. Ce que l’on sait en revanche, c’est que le bâtiment transportait une cargaison de pétrole d’une valeur de 110 millions de dollars. On s’attend à ce que les pirates exigent quelque 30 millions de dollars pour rendre le navire à ses armateurs légaux. D’après certaines estimations, ce port somalien si louche servirait de prison à quelques 250 marins pris prisonniers sur différents bateaux lors d’opérations lancées par les pirates.

La motivation des pirates est purement vénale

Ces dernières semaines, en matière de piraterie, on n’a parlé que de la Somalie. Mais le problème est plus vaste. Le « Bureau International de la Marine » (BIM) constate que le fléau s’accroît dans le monde entier.  Pour s’en faire une idée : 239 attaques ont eu lieu en 2006 ; l’année suivante, il y a eu une augmentation de 10%. Ce qui est frappant, c’est que les méthodes utilisées pour capturer les navires se font de plus en plus violentes et brutales. En 2007, il y a eu 35% de cas supplémentaires de détournement avec armes qu’en 2006. Le nombre de matelots blessés en 2007 était de 64 ; en 2006, seulement de 17.

Pour comprendre l’ampleur réelle du problème, il faut observer les régions maritimes où les pirates s’attaquent principalement à leurs victimes. Il y a d’abord les « points chauds » habituels comme le Nigeria, le Brésil, l’Indonésie et bien entendu la Somalie. Les experts nous demandent de ne pas raisonner en termes d’amalgame : les situations et motivations de ces nouveaux frères de la côte varient énormément d’un lieu à l’autre.

On peut bien sûr évoquer la pauvreté dans le cas spécifique de la Somalie. Récemment, le journal « The Independant » a publié un reportage de terrain très significatif. Pour les pirates, l’important, c’est surtout l’argent, toujours l’argent et rien que l’argent. Posséder une belle maison, vivre dans le luxe et, surtout chez les musulmans, entretenir un beau harem digne du plus luxurieux des polygames, telles sont donc les motivations premières de ceux qui s’adonnent à la piraterie de nos jours. Le rôle de la religion chez ces pirates semble très ténu sinon inexistant. Lorsqu’un cheikh connu et respecté a déclaré que le détournement du Sirius était un péché particulièrement grave parce que le pétrolier battait pavillon saoudien, les pirates vénaux ne s’en sont nullement souciés. Al Qaïda ne lance pas encore d’opération de piraterie, ce qui rassure certains cénacles. Le constat qu’il s’agit de raids vénaux, dictés par la pauvreté, et non pas motivés par la religion est sans doute pertinent et juste mais recèle toutefois un danger. Les misères sociales jouent certes un rôle dans l’émergence de la nouvelle piraterie mais on ne peut pas réduire ce phénomène à ses seules dimensions sociales et économiques. Ce serait aller trop loin et rater le coche. Ce type de raisonnement réductionniste (qui se réduit aux seuls facteurs économiques et sociaux) s’applique aussi, on le sait trop bien, à plus d’un phénomène de notre vie sociale en Europe : n’a-t-on pas entendu à satiété la vieille rengaine des allochtones pauvres donc, par définition, criminels, etc… ?

Les dommages entrainés par la piraterie sont eux, économiques, clairement mesurables en monnaie sonnante et trébuchante. Et ils sont énormes. Les armateurs doivent modifier l’itinéraire de leurs navires, ce qui entraine des coûts supplémentaires non négligeables. Ils doivent ensuite investir des sommes de plus en plus considérables dans la sécurisation de leurs navires. Par ailleurs, les quatorze ou quinze bâtiments de la « Task Force 150 », une initiative à laquelle plusieurs marines militaires du monde coopèrent, sont fort occupés mais leur puissance est nettement insuffisante. Une seule chose est certaine. Si l’on veut faire de cette région maritime une zone à nouveau sûre, il faudra consentir à de sérieux efforts. Quelle que soit l’option que l’on retiendra prochainement, le prix à payer sera fort élevé.

Les leçons de l’histoire

Peut-être faudrait-il replacer ces événements récents dans une perspective historique. Pendant tout notre moyen âge européen, la piraterie a constitué un fameux fléau. Les régions riveraines de la Méditerranée ont été cruellement touchées par la piraterie sarrasine et barbaresque (1). Les crimes que celle-ci a commis dépassent de très loin ce qui se arrive aujourd’hui dans les eaux de l’Océan Indien à hauteur de la Corne de l’Afrique. On estime qu’entre le 16ème et le 18ème siècles, un million d’Européens ont été enlevés par des pirates (2), surtout venus d’Afrique du Nord. La terreur barbaresque a obligé les populations européennes à quitter les régions littorales car la peur inspirée par les pirates était telle qu’elle provoquait un exode quasi général vers l’intérieur des terres. Pendant longtemps, les Européens ont cru qu’il valait mieux payer des rançons que perdre des cargaisons de grande valeur. Jusqu’au jour où la situation est devenue incontrôlable et ingérable.

Vers 1800, la jeune république des Etats-Unis d’Amérique consacrait encore un cinquième de ses revenus fédéraux à payer des rançons ! La marine américaine n’a été capable de riposter qu’à partir de 1815. Les Britanniques ont à leur tour pris le taureau par les cornes mais il a fallu que les Français conquièrent l’Algérie et la colonisent pour que la piraterie de la rive méridionale de la Méditerranée soit définitivement éradiquée.

Encore un rappel historique : en 75 av. J. C., le fameux Caius Julius Caesar fut enlevé par des pirates dans l’Egée (3). Ils réclamèrent vingt talents de rançon, ce que le futur César considéra comme une injure à sa dignité. Il persuada les pirates qu’il en valait au moins cinquante. Et c’est la somme qu’il réclamèrent à Rome pour libérer leur prisonnier. Le paiement s’effectua très vite et Caius Julius sortit de captivité. A peine libre, il organisa une expédition contre ses ravisseurs. Ils furent exterminés jusqu’au dernier sans merci et sans le moindre scrupule. L’histoire est riche en enseignements.

« M. »/ »’t Pallieterke ».

(article paru dans l’hebdomadaire « ‘t Pallieterke », Anvers, 3 décembre 2008, trad. franc. : Robert Steuckers).

 

Notes :

(1)    NdT : Cf. Jacques HEERS, "Les Barbaresques - La course et la guerre en Méditerranée, XIVe-XVIe siècles", Paris, Perrin, 2001.

(2)    NdT : Cf. Giles MILTON, « White Gold – The Extraordinary Story of Thomas Pellow and islam’s One Million White Slaves », Hodder & Stoughton, 2004.

(3)    NdT : Cf. Adrian GOLDSWORTHY, « Caesar – The Life of a Colossus », Phoenix, Orion Books, London, 2nd édition, 2007.