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dimanche, 20 janvier 2013

Le radici culturali della decrescita: Meister Eckhart

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Le radici culturali della decrescita: Meister Eckhart

di Pier Luigi Tosi

Fonte: ilcambiamento


Meister Eckhart, vissuto tra il 1260 e il 1328, contemporaneo di Dante, domenicano, professore nell’università di Parigi, fu incriminato dal principe-vescovo di Colonia per eresia e probabilmente il processo, condotto presso la sede papale di Avignone, avrebbe avuto un’infausta conclusione se nel frattempo il protagonista non fosse morto, cosicché il papa potè limitarsi alla condanna solo di alcune proposizioni (con la bolla In agro dominico). Il frate filosofo e teologo espresse il suo pensiero sia con commenti alle sacre scritture, prevalentemente in latino, sia con predicazioni, prevalentemente in tedesco, che sono quelle che più ci interessano ai nostri fini.Per comprendere la forza di rottura dei suoi discorsi, dobbiamo tenere ben presente che operò nell’Europa a cavallo fra XIII e XIV secolo, totalmente dominata nella sua cultura dalla filosofia Scolastica e in particolare dalla Summa theologiae di Tommaso d’Aquino, come testimonia la Divina Commedia. Questa vera e propria opera omnia del pensiero filosofico e religioso presenta il cosmo e la creazione strutturati in maniera rigidamente gerarchica, con Dio al vertice, poi gli angeli, quindi gli uomini e al di sotto le creature animali e vegetali. L’essere umano si situa come cerniera fra mondo spirituale e mondo materiale, mentre il resto del creato è svilito in quanto considerato mera materia senz’anima e posto in sostanza alla mercé degli uomini.

Echkart reagisce, con suo notevole rischio personale, al sistema tomistico e propone un’inedita concezione di Divinità, spesso addirittura distinta e sovraordinata al Dio creatore, che deriva direttamente ed esplicitamente dall’idea di Uno -Tutto cui facevamo riferimento all’inizio. Nel sermone Unus deus et pater omnium si afferma: «Tutte le creature sono in Dio, e sono la sua Divinità, e questo significa la pienezza» e ancora «Dio è Uno, negazione della negazione». Con ciò si intende che distinguere il sé (con la minuscola) dalle altre creature, o un ordine di creature da un altro, significa compiere il più grave dei peccati e precludersi il cammino verso il Sé (con la maiuscola), che è la comprensione dell’unione intima con il Tutto. «Più Dio è riconosciuto come Uno, più è riconosciuto come Tutto» (in Unser herre underhuop und huop von unden uf siniu ougen).

Un altro esempio degno di nota di quanto diciamo è nel sermone Nolite timere eos: «Dio ama se stesso, la sua natura, il suo essere, la sua Divinità. Ma nell’amore in cui ama se stesso ama anche tutte le creature –non in quanto creature, ma in quanto Dio». In seguito: «Dove tutte le creature esprimono Dio, là Dio diviene» e «Perché le creature parlano di Dio e non della Divinità? Perché quello che è nella Divinità è Uno, e di ciò non si può parlare». Emerge con nettezza l’impossibilità di separare sé dagli altri, ma altresì l’uomo dal resto del creato: pensare nell’ottica di un «io« contrapposto alla realtà e agli altri viventi equivale alla negazione della Divinità e alla propria dannazione e disperazione. «Io solo porto tutte le creature nel mio intelletto, prendendole nella loro essenza spirituale, in modo che esse siano una cosa sola in me».

Così come nel sermone Surrexit autem Saulus: «Quando l’anima giunge all’Uno e vi penetra in un completo annullamento di se stessa, essa trova Dio come in un nulla».
Per il mistico tedesco Cristo, il Figlio, è assolutamente affine al Logos eracliteo. Ogni uomo è Cristo se è capace di annullarsi nel Logos, nell’Uno: «Alcuni, di animo non nobile, sono avidi di ricchezze. Altri, di natura più nobile, non fanno caso agli averi, ma cercano l’onore. Altri ancora risuscitano completamente, ma non con Cristo. Infine, si trovano delle persone che resuscitano completamente con Cristo» (da Si consurrexistis cum Christo).

La natura, umana e no, per il nostro autore è libera e indivisa; per comprendere ciò (la mistica eckhartiana fa dichiaratamente riferimento all’intelletto e, benché sia stata riscoperta in età romantica, è lontanissima da ogni irrazionalismo), occorre annullare la propria anima, cioè l’individualità, l’Ego, e renderla completamente partecipe del Tutto. Scrive il commentatore Vannini che «è l’io stesso a scomparire in quanto centro di volontà, centro di forza e di appropriazione (eigenschaft)». Non ci risulterà allora difficile capire perché l’inedita elaborazione di Meister Eckhart sia stata accostata alla mistica orientale (R. Otto) e in particolare al buddismo zen (D.T. Suzuki). Né ci parrà strano annoverare un frate domenicano medievale tra i maestri del pensiero che possono aiutarci a vedere il mondo in termini olistici e non come una riserva di oggetti e di risorse da sfruttare a nostro piacimento, uso e consumo. Ci rammaricherà invece constatare che, a sette secoli di distanza, l’uomo continui a perdersi, insista ad attrezzare tecnologicamente, in modo ognora più sofisticato, le smisurate ambizioni egoiche e il desiderio illimitato di appropriazione.

Tra le straordinarie intuizioni del teologo, vorrei segnalarne una, tratta dalla predica Ein meister sprichet: alliu glichiu dinc minnent sich under einander, ovvero «Un maestro dice: tutte le cose simili si amano reciprocamente«, che così recita: «Ma se il mio occhio, che è uno e semplice in se stesso, si apre e proietta la sua vista sul legno, ciascuno dei due resta quello che è, e tuttavia, nel compiersi della visione, diventano una cosa sola, tanto che si potrebbe chiamare davvero “occhio-legno”, e il legno è il mio occhio«. In qualche modo prefigura l’inestricabile unità, si potrebbe dire complicità, di osservatore e osservato, caratteristica della più avanzata fisica teorica, quella quantistica. Aristotele, fedelmente ripreso da Tommaso, nel De anima aveva affermato: «Nelle realtà immateriali sono lo stesso pensante e pensato«; qui però cade finalmente questa barriera tra immateriale e materiale, per cui in questa stretta comunione possono incontrarsi l’occhio e il legno, l’uomo e l’albero, mentre il pensiero catalogatore è un pernicioso freno alla comprensione della Divinità, che in termini platonici potremmo allora chiamare Anima Mundi.
Concludiamo il breve discorso dedicato a Meister Eckhart con due massime che assumono senso particolare nel contesto di un dibattito sulla decrescita:

«Ascoltate una parola vera! Se un uomo donasse mille marchi d’oro per costruire chiese e conventi, sarebbe grande cosa. Ma molto di più avrebbe donato chi stimasse un nulla mille marchi: questi avrebbe fatto molto più del primo»; «Dimentica ciò che è tuo e acquisirai la virtù».
«Quando l’anima giunge all’Uno e vi penetra in un completo annullamento
di se stessa, essa trova Dio come in un nulla». «Dimentica ciò che è tuo e acquisirai la virtù».

 


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Le Qatar entre le Canal de Suez et l’axe Le Caire-Téhéran

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Le Qatar entre le Canal de Suez et l’axe Le Caire-Téhéran

Ex: http://www.dedefensa.org/

Oui, que veut le Qatar ? Quelle est sa politique, quel est sont but, quels sont ses buts ? Chaque fois l’on croit avoir compris, que ce minuscule émirat croulant sous des tonnes de $milliards a bel et bien une stratégie, qu’il complote, qu’il sait où il va, qu’il achète tout le monde dans un but si précis qu’il brille comme une montagne d’or. Puis, quelque chose de nouveau surgit, dont on s’avise un peu gêné, qu’il pourrait bien s’agir d’une contradiction. Aujourd’hui, la situation à cet égard a des aspects rocambolesques. Les commentateurs eux-mêmes, et parmi les plus avisés, les plus aptes à manier ou manipuler l’information et le reste dans le sens des interprétations les plus audacieuses, commencent à faire de ces contradictions elles-mêmes, sans plus les dissimuler, et finalement de ce qui constitue le mystère qatari, le sujet de leurs articles. En voici deux exemples édifiants.

• Commençons par quelques observations complètement et ingénument étonnés de Mohammad Hisham Abeih, de As Safir, le quotidien libanais indépendant de gauche, toujours bien informé… Ce 10 janvier 2013, le sujet de l’article de Mohammad Hisham Abeih, c’est la visite Premier ministre du Qatar en Égypte… Et l’article se termine par la même question qui semble l’avoir justifié, – question sans réponse, au début comme à la fin de l’article… «The question remains: What does Qatar want from Egypt other than extended economic power and influence in political decision-making?» Il y a dans l’article diverses précisions sur la puissance d’Al Jazeera et, surtout, la présence massive de Frères Musulmans, spécifiquement égyptiens, dans la rédaction de la TV qatari, ce qui correspond à un curieux renversement de l’influence qatari en Égypte qui est partout affirmée. («Specifically, many leading figures at Al Jazeera news are Brotherhood-affiliated Egyptians. […] In addition, Brotherhood guests and loyalists dominate most of the channel’s programs tackling Egyptian political affairs.») Il y a enfin le compte-rendu un peu étonnant de la conférence de presse du 9 janvier au Caire, avec les deux premiers ministres (égyptien et qatari), où fut chaudement débattu le projet prêté au Qatar d’acquérir sous forme de location pour 99 ans rien de moins que… le Canal de Suez.

«The press conference held yesterday [Jan. 9], after Qatari Prime Minister Hamad bin Jassim Al Thani met with Morsi and Egyptian Prime Minister Hisham Qandil, was heated. Hamad found himself having to respond to questions and accusations regarding Qatar's role in Egypt’s political and economic affairs. He said that “Egypt is too great to be dominated by anyone.” Hamad said that if the right to vote in a parliamentary or presidential election in Egypt was granted to everyone in Qatar, the outcome would not be affected. Hamad was referring to Qatar's small population (1.6 million people including expatriates, compared to 90 million in Egypt).

»However, the impact that Egyptians worry about has absolutely nothing to do with Qatar's population, but with money and influence. It was recently rumored that Qatar intended to acquire the Suez Canal in a gradual deal, beginning with developing the canal and managing a few facilities as a prelude to granting it a concession for a period of 99 years. That is about the same period obtained by French adventurer Ferdinand de Lesseps, who persuaded the governor of Egypt, Muhammad Said Pasha, to develop the canal in the mid-nineteenth century.

»Talk about the Suez Canal was initially brought up by former presidential candidate Ahmed Shafiq at the height of his campaign during the presidential election run-off last June. The issue was dealt with lightly by the Muslim Brotherhood, but resonated within the opposition, especially after multiple visits were made by Qatari officials to Egypt, most notably by Emir Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani and Prime Minister Hamad. There were also rumors that Qatar’s Director of Intelligence Ahmed Bin Thani made a secret visit to Egypt last May, where he allegedly met with Brotherhood leader Mohammed Badie. The group’s denial of the news did not stop its spread.

»So the Qatari prime minister found himself obliged to answer a question about Qatar’s intentions regarding the Suez Canal. He said that all talk about this matter is a mere joke, and that there are no Qatari projects concerning the canal, which he considered to have a special Egyptian heritage.»

• Alors, le Qatar veut-il, d’une certaine façon, acheter l’Égypte ? C’est peut-être ce qu’ont pu croire, en s’en réjouissant, les USA et Israël… Mais voici, sous la forme d’un rapport de DEBKAFiles du 14 janvier 2013, confirmé pour la part qui concerne le voyage d’un émissaire du Pentagone au Caire par certaines rumeurs venues de Washington, un autre son de cloche sous la forme de cette courte phrase : «Both Washington and Jerusalem are baffled by Qatar’s inconsistency…» Dans ce rapport de DEBKAFiles, on y voit le Qatar, ami fidèle des USA abritant le quartier-général de la Vème Flotte, principal soutien des rebelles syriens et donc ennemi juré de l’Iran, apprécié également par Israël, soudain décrit comme entremetteur zélé entre l’Égypte et… l’Iran, tout cela concrétisé par des visites iranienne au Caire, notamment celle, secrète, du chef des Gardiens de la Révolution. Il est vrai que le sous-secrétaire à la défense US pour le renseignement, Michael Vickers, qui venait au Caire au début du mois pour organiser la coopération israélo-égyptienne anti-terroriste dans le Sinaï, s’est heurté au désintérêt le plus complet des Égyptiens, tout entiers mobilisés pour les suites de la visite du général iranien Soleimani en attendant celle du ministre iranien des affaires étrangères, avec la bénédiction du Qatar…

«However, according to our sources, Vickers’ mission to reactivate the Libyan and Sinai fronts against Islamist terror ran into a spirit of non-collaboration in Cairo. He found Egyptian leaders immersed in a process of rapprochement with Tehran brokered by Qatar, and was told that fighting the terrorist networks rampant in Sinai was not exactly convenient at that moment. Instead, they were busy entertaining distinguished Iranian guests. DEBKAfile’s intelligence sources report the first was Revolutionary Guards Al Qods Brigades commander, Gen. Qassem Soleimani, who paid a secret visit to Cairo last month, followed last Wednesday, Jan. 11, by Iran’s Foreign Minister Ali Akhbar Salehi. It seems that President Mohamed Morsi has become a fan of Gen. Soleimani. He was deeply impressed by the feat he masterminded of keeping Syrian ruler Bashar Assad in power against all odds. The Iranian general was invited to Cairo to give Egypt’s Muslim Brotherhood expert advice on keeping their regime safe from internal and external conspiracies.

»Washington was disturbed most of all to discover that Qatar was the live wire which egged Cairo on to open up to friendship with Tehran. The Qataris oiled the works by promising cash-strapped Egypt a long-term loan of $2 billion on top of the first like amount extended last year. Both Washington and Jerusalem are baffled by Qatar’s inconsistency – on the one hand, robustly supporting the Syrian rebellion for the overthrow of Bashar Assad, Tehran’s closest ally, while furthering Iran’s drive to win over Egypt’s Muslim Brotherhood and expand its influence in the Arab world, on the other. How does this square with the new pro-US Sunni Muslim axis including Egypt, Qatar and Turkey, which American diplomats negotiated along with the Gaza ceasefire deal in November? Could Qatar be playing a double game by building a second bloc along with Egypt and Iran?

»Qatar’s motivations are vitally important to Israel because its rulers are already spreading tentacles smoothed by heavy cash infusions deep into the Palestinian power centers of Gaza and the West Bank. By working for détente with Iran, Egypt and Qatar could end up opening the Palestinian back door for Tehran to walk through in both territories. This prospect was behind Prime Minister Binyamin Netanyahu’s recent warnings that Hamas could land with both feet in the West Bank in a matter of days.»

Ainsi, oui, certes, – que veut le Qatar ? Encore plus de savoir si le Qatar joue double jeu, on aimerait savoir quel double jeu joue le Qatar ? Et si ce double jeu n’est pas éventuellement triple ? Et ainsi de suite… Certes, l’“Orient compliqué”, mais lorsque cet “Orient compliqué” s’accompagne des $milliards et de la dialectique en narrative et en boucle du bloc BAO, cette complication, devient ivresse ; et lorsque la sensation est celle d’une situation générale que plus personne le contrôle, où toutes les initiatives sont permises, où plus aucune règle de légitimité, d’autorité internationale ne semble prévaloir ni même s’imposer, l’ivresse devient vertige… Il nous paraît donc inutile de vouloir éventuellement avancer l’amorce d’une esquisse d’explications pour les divers faits rapportés ci-dessus, par rapport à ce que l’on sait des diverses aventures du “printemps arabe” et du Qatar. Il nous suffit de constater que la “politique extérieure” du Qatar tend à se “diversifier” dans le sens du désordre, lequel touche d’bord ceux qui pensaient pouvoir s’appuyer sur sa puissance financière et sa puissance d’influence pour faire progresser certaines causes et certains desseins précis.

Notre appréciation du Qatar, comme on a pu le lire dans nos Notes d’analyse le 23 octobre 2012, est qu’il s’agit d’une puissance absolument créé par le Système… («“Avatar” certes, monstre, avorton, Frankenstein, tout cela va très bien après tout… Avec le Qatar tel qu’il est devenu en 2012 à cause de son rôle dans le Système, nous découvrons une nouvelle sorte d’entité monstrueuse… […] Le Qatar et son aventure constituent effectivement un exemple archétypique de l’activité du Système, avec le Qatar devenu lui-même dans son développement des quelques dernières années une parfaite émanation du Système. La rapidité des changements d’orientation de son destin est remarquable, et mesure la puissance de l’activité du Système et des effets que cette activité engendre.») Dans les mêmes Notes, nous estimions encore, en conclusion à propos du destin du Qatar :

«Sans légitimité et sans autre substance que cette charge de puissance négative et dissolvante qu’est devenu l’argent dans le cadre de l’activisme fou du Système, le Qatar est parvenue au sommet de la courbe de son activité de surpuissance devant laquelle tous les pays du bloc BAO s’inclinent avec respect. Dans la logique même de la dynamique qu’on connaît bien désormais, le processus d’autodestruction ne devrait pas tarder à porter tous ses fruits, et l’on peut d’ores et déjà considérer que les avatars rencontrés par les ambitions syriennes du Qatar en sont les premiers…»

Manifestement, nous étions courts et un peu modestes, notamment en nous cantonnant aux seules affaires syriennes et à leur course éventuellement classique. L’“autodestruction”, dans ce cas, entre dans le cadre de l’évolution du Système lui-même et peut prendre, et prend le plus souvent bien entendu, la forme du désordre ; c’en est même la marque la plus évidente, avec les “vertus” de déstructuration et de dissolution que le désordre charrie avec lui et répand autour de lui… Dans ce cas, effectivement, le plus remarquable dans l’actuelle courbe du Qatar telle qu’elle nous est présentée au travers de ces différents exemples, c’est de voir combien l’avancement de surpuissance de cette entité est de plus en plus marquée par le désordre, avec des initiatives allant dans tous les sens et relevant des appréciations immédiates et des occasions de l’instant, sans souci de cohérence et de cohésion, sans souci du désarroi que tout cela entraîne dans les autres pays, – y compris et surtout, chez les “amis” et les “alliés”.

Le Qatar assume sa surpuissance de création du Système, et la paye par l’absence de légitimité qui est la source conjoncturelle (“conjoncturelle” dans ce cas particulier) du processus d’autodestruction, tout cela produisant effectivement une politique extérieure conquérante et de plus en plus désordonnée, qui finit par entraîner ses meilleurs “amis” et “alliés” dans l’incompréhension et le vertige des initiatives contradictoires. Les autres, ceux qui sont d’abord catalogués selon des jugements un peu sommaires dans la catégorie des “ennemis” et des “vassaux”, comme l’Iran et l’Égypte, peuvent et doivent espérer profiter de certaines opportunités, quand l’occasion s’en présente, lors de soubresauts divers de la politique qatari, comme on le voit avec l’Iran et l’Égypte, mais en gardant à l’esprit la fragilité des processus et en favorisant évidemment leurs propres intérêts. (Dans le cas précis, sur le terme et même très rapidement, il apparaît que, malgré l’actuelle forme des relations, des pays comme l’Égypte et l’Iran, à la légitimité affirmée, ont bien plus de chance de tirer leur épingle du jeu dans ce tourbillon dont le Qatar est le centre et le moteur, que le Qatar lui-même, certes, qui apparaît plus que jamais comme un pion ou une sorte d’électron libre, un agitateur du Système…) Finalement, tout s’inscrit d’une façon logique dans le schéma général de la politique-Système et de ses caractères si extraordinaires, si contradictoires.

samedi, 19 janvier 2013

La démocratie globale et les fondements postmodernes de la théologie politique

La démocratie globale et les fondements postmodernes de la théologie politique

par Jure VUJIC

Ex: http://www.polemia.com/

Polémia présente à ses lecteurs le texte – reçu de l'auteur lui-même – de l'intervention de Jure Vujic lors du séminaire sur « L’ETAT, LA RELIGION ET LA LAÏCITE » organisé par l’Académie de Géopolitique de Paris, dans le cadre des grandes questions géopolitiques du monde d’aujourd’hui, le jeudi 22 novembre 2012 à l'Assemblée nationale. Jure Vujic développe en partie son argumentation sur certains principes retenus par Carl Schmitt, notamment sur la notion de Souveraineté et les rapprochements entre les concepts théologiques et étatiques.
Polémia

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Theologie_politique,_Carl_Schmitt,_Louis_Maitrier,_1998.jpgLa postdémocratie globale face au défi de la démoi-cratie

Avec la globalisation et le phénomène institutionnel de la supranationalité dans l’ordre international, on voit apparaître une nouvelle forme de démocratie globale qui, contrairement aux contours territoriaux et ethno-nationaux bien définis de l’Etat-nation de la modernité, transcende le concept de la souveraineté étatique et de la territorialité comme fondement de la démocratie moderne classique. La démocratie n’est plus le vecteur ni le lieu privilégié de la place publique nationale, la Polis et l’Agora grecques, car en se globalisant et en se dé-territorialisant, elle transfert le débat publique et la sphère publique á un autre niveau transnational et global qu’illustrent si bien les vocables suivants : global marketplace, global communications et global civil society (1).

D'autre part sur le plan du pouvoir politique, la nouvelle « gouvernance globale » impose une dynamique transnationale de dialogue, de négociation et de résolution des conflits. Néanmoins les critiques restent vives á l'égard de cette forme contemporaine de gestion politique suspectée de vouloir instaurer une nouvelle forme de « pouvoir planétaire », de « gouvernement mondial » et d'être l'instrument privilégié de l'uniformisation néolibérale économique et financière. La gouvernance globale serait en quelque sorte l'incarnation d'un « leviathan mondial », dont les ressorts néospirituels et théologiques du gouvernement mondial proviendraient de la constitution d'Anderson et des textes fondateurs du messiannisme universaliste étatsunien. Parallèlement au développement de cette gouvernance globale s'accroît le pouvoir planétaire de la « médiacratie » et l'emprise des mass-médias, conjuguée á celle de l'industrie de l'entertainement, la société de spectacle Debordienne, les stratégies de séduction de Lyotard constituent aujourd'hui les piliers de ce qu'Habermas nomme « la servitude volontaire » et de la re-féodalisation sociale .

Raison instrumentale et hybris globale

Il semblerait qu'en dépit de son voile technoscientiste et hyperrationnaliste, la démocratie politique globale constitue en fait un véritable laboratoire de l'esprit, comme l'appelait Julien Benda, dans lequel on s'efforce de générer, sur des fondements constructivistes et séculiers et paradoxalement néothéologiques, une nouvelle forme d'identité globale, un « readymade d'identité » consommable, jetable et interchangeable comme symbole d'un processus d'« a-culturation globale ». L'argument iréniste du déclin de la conflictualité et de l'éradiction de la guerre semble être un leurre face á la montée des extrémismes et ethnoconfessionnels en Europe occidentale et dans le monde entier et l'intensification des dispositifs identitaires et guerriers á l'échelle globale. La « raison instrumentale » déifiée par les Lumières et la sécularisation moderne d'aujourd'hui semblent constituer dans leur forme radicale le levier le plus pussissant d'un processus de re-théologisation de la politique globale. En effet, lorsqu' Habermas opposait la « raison supra-nationale » á la « passion nationale » dans le cadre de la construction européenne, il ne se doutait sans doute pas que le fondamentalisme séculier ou « sécularisé » contemporain et l'idolâtrie néolibérale du marché engendreraient á l'échelon mondial la volonté d'imposer manu militari le modèle de la démocratie de marché, et, avec l'interventionnisme botté de type Wilsonien des Etats-Unis en tant que « gendarme bienveillant du monde », une nouvelle forme d'irrationalité supranationale, reflètant un certain Eros globaliste démesuré. Ici les rôles sont inversés: la figure dionysiaque et érotique du national qui coïncide á la période pré-moderne selon Joseph Walter semble céder la place á une postmodernité globalisante, qui, loin d'être synonyme d'une civilisation policée et mesurée sous la forme d'un néohumanisme rénové, revêt les formes de l'« hybris » polémogène d'une néo-impérialité théologique conquérante. L’ensemble du projet des Lumières, qui s’est répandu en Europe occidentale et de par le monde entier du XVIIIe siècle jusqu’à nos jours, avait pour objet principal de « séculariser » la politique afin d’en extraire les éléments religieux, absolutistes et théologiques. Carl Schmitt constata á merveille, dans la Théologie politique, que l’ensemble des principes politiques modernes contemporains constituent des concepts théologiques sécularisés. En effet, l’expansionnisme parfois violent de ce que l’on appelle le fondamentalisme du marché et l’intégrisme séculier génère en quelque sorte les nouvelles formes de replis identitaires et ethnoconfessionnels sous forme d’intégrisme national et religieux.

La modélisation de l'espace géopolitique entre ingénierie et sacralité

En effet, en matière géopolitique, la re-théologisation des visions et des stratégies politiques passent par la classification et la réduction de l'espace « rival » « hostile » « polémogène » á une « zone chaotique », á une zone soumise á un traitement de l'ingénierie sociale. L'ensemble de l'espace mondial reste sujet á une modélisation et á un formatage géoconstructiviste croissant. Cette grille de lecture et de traitement binariste voire manichéenne du pouvoir dans les relations internationales en vient á classer, selon un mode discriminatoire et dogmatique, les cartes géopolitiques selon une gradation des menaces et de la nature des régimes politiques hostiles en place : les « Etats parias », les « Etats voyous », « les Etats désobéissants », qui deviennent des zones de guerre, des zones d'ingénierie para-gouvernementale, alors que les zones de marchés émergents deviennent des zones d'ingénierie financière globales. A ce titre R. Cooper parle de « zones chaotiques pré-historiques et pré-modernes », dans lesquelles les pouvoirs de la postmodernité démocratique sont appelés á intervenir pour imposer la paix, la stabilité et la démocratie de marché, et cela toujours au nom de ce vieux fond religieux d'absolutisation du projet et du modéle sociopolitique occidental. A ce titre, cette classification n'est pas sans rappeler la géographie sacrée et biblique qui fait référence aux terres barbares, « terres d'impies ». La constitution et l'émergence d'un seul et unique peuple « demos » global reste encore un lointain projet, dans la mesure où il se heurte á la pluralité ethnique, anthropologique et culturelle des « demoi », des peuples singuliers, qui s'inscrivent dans de longues continuités historiques, organiques spatiotemporelles. Les projets Habermasiens d'un « patriotisme constitutionnel », le projet Kantien de « paix perpétuelle » ainsi que l'universalisme Wilsonien incarné par la Société des Nations, souffrent d'une grave carence constructiviste et mécaniciste, car ils procèdent de cette croyance irrationnelle en la séparation du demos de l'ethnos, afin de soustraire l'identité á l'histoire et ouvrir la voie vers une forme d'identité postnationale déconnectée de toutes références territoriales et historiques. Avec ce phénomène de re-théologisation de la politique, la démocratie de marché impérative et conquérante prend les formes d'une « demoi-cracy » détachée dun pôle territorial et organique légitimisant, pour constituer une sorte de matrice néo-impériale expérimentale. A ce titre il semblerait plus sage, dans ce processus de globalisation de la démocratie, d'éviter les écueils d'une contrainte verticale d'uniformisation imposée d'en haut et du « dehors » et, comme le préconise Nicolaidis, appliquer une approche dialogique horizontale entre Etats souverains, qui se reconnaissent dans le modèle d'une « démo-krateo » participative et ethnodifférentialiste, qui conjugue des intérêts similaires et complémentaires.

Sotériologie et « rêve unitariste »

La modernité occidentale a marqué le passage d’une interprétation transcendentale et magico-théologique de la politique vers une forme immanente, rationaliste et constructiviste de la politique. Cependant malgré cette mutation épistémologique, les références religieuses subsistent á l’état latent ou manifeste dans la politique contemporaine. A ce titre M. Gauchet remarque que « les trois idoles du libéralisme: nation, progrès et science » reposent sur une extension du religieux dans le domaine politique en tant que nouvelle sotériologie séculière, recherchant le salut dans la société du marché et du bien-être. La parousie linéaire et progressiste vers l’accomplissement du bonheur terrestre et du bien-être matériel et social constitue ici la transposition de la parousie linéaire eucharistique et religieuse. L'avènement de l'« âge organisationnel » qui a préfiguré la refondation d'un monde « sans maître » et qui a tenté d'expurger le domaine du politique des ressorts pré-modernes, a par voie de conséquence ouvert la voie á une phase libérale que Marx appellera « l'âge orgiastique ». La séparation de la société de l'Etat, la disparition des corps communautaires intermédiaires évoqués par F. Tonnies, ainsi que la dispartion de la communauté organique au profit de la vision sociétaire et contractuelle (Durkheim), s'incrivent dans le droit fil de la « dé-théologisation et la dé-mythification de l'histoire » depuis l'âge des Lumières jusqu'à nos jours. Les théoriciens de l'Etat, Jellinek, Esmein et Hauriou ainsi que Carré de Malberg remarqueront que ce passge vers une nouvelle forme d'ordre étatique se fonde sur l'abstraction et l'impersonnalité des structures législativo-administratives (venant parachever les thèses Weberienne sur la légitimité légale du pouvoir politique) assurant la continuité et l'efficience de l'Etat. Néanmoins la fascination de l'« Unité », le « rêve unitariste », ne disparaîtra pas du domaine politique puisque le globalisme s'évertuera á promouvoir un monde uniforme autocentré, auto-réferentiel (« le One World »), fondé sur une unité constructiviste et mécanique. Ce rêve unitariste est un des avatars du fameux « désenchantement du monde » Weberien en tentant d'unifier l'ethos et le logos politique, l'économicisme et la raison instrumentale avec le discours émancipateur. La nouvelle postdémocratie libérale souffre d'un grave handicap de représentativité et d'organicité, car, en ayant dénaturé les assises organiques de la démocratie moderne ou pré-moderne, elle a indéniablement détaché le « demos » de la notion de « demoi » porteur de visions singulières du monde et de culture politique spécifique, consacrant le règne de la « politique anonyme ».

Le retour du religieux et la théologie sociétale

Néanmoins le monde contemporain reste confronté au phénomène du « retour du religieux » dans la sphère sociale et politique. Ce phénomène est vérifiable au niveau global : intégrisme islamique, néoconfucianisme en Chine communiste, l'émergence des Asian Values et de l'Hinduistan en Inde et en Asie. La redécouverte du religieux en tant que facteur d'intégration individuelle et collective semble jouer un rôle supplétif parallèlement au déclin des idéologies politiques classiques et à la juridicisation et la technicisation de la politique. Si l'on prend en compte la recrudescence du phénomène religieux en politique aux Etats-Unis où le fondamentalisme chrétien protestant a toujours fait bon ménage avec la politique et les signes d'une certaine « resacralisation » du politique en Russie et dans certains pays européens, on constate que le processus irréversible de la sécularisation du politique est loin d'être fini et l'on assiste paradoxalement á l'avènement d'une société « post-séculaire » caractérisée par un retour du fondamentalisme et d'une instrumentalisation du concept de conflit de civilisation. La sécularisation marquée par un processus d'autonomisation du politique et du domaine social et économique par rapport à la sphère religieuse qui s'est opéré depuis la Révolution francaise (l'Ancien Régime) et dans le sillage l’Aufklärung, a abouti á une neutralisation et une rationalisation du politique qui s'est émancipé du rôle social et organisationnel de l'Eglise et du religieux. Pour le juriste Carl Schmitt, le catholicisme doit être considéré comme le fondement de l’État moderne dans la mesure où tous les concepts de la doctrine moderne de l'État sont des concepts théologiques sécularisés. La théologie est donc par nature politique et l’Église un corps politique car, qu'elle le veuille ou non, elle ne peut pas ne pas produire des effets sur la structuration de la société et de l'État dans lesquels elle est insérée. Contrairement á Carl Schmitt, le théologien d’origine protestante Érik Peterson se refuse á reconnaître la légitimation théologique d’une forme d'organisation politique justifiant une attitude de « résistance critique ».

Le caractère irréversible d'autonomisation et d'affranchissement du politique de la sphère religieuse semble souvent, commme le souligne le sociologue Jose Casanova (2), partiellement vrai, car, selon lui, il semblerait légitime de parler d’une sécularisation irréversible de nos sociétés dans le cas des Églises établies (c’est-à-dire officiellement incorporées à l’appareil d’État) lesquelles sont devenues incompatibles avec les États modernes différenciés. Ainsi, « la fusion de la communauté religieuse et de la communauté politique est incompatible avec le principe moderne de la citoyenneté, ce qui rejette toute possibilité de théologie politique. Néanmoins toujours selon Casanova dans le cas des Églises qui auront accepté ce désétablissement et se seront approprié le cadre et les valeurs fondamentales de la modernité, il existerait la possibilité pour ces religions non établies de jouer un rôle social. Casanova parle de « déprivatisation » plutôt que de « sécularisation » . Il y aurait donc une place pour le statut des « religions publiques » pour les traditions religieuses qui auront renoncé à la fusion de la communauté politique et de la communauté religieuse. Dans ce cas, cette transformation implique le renoncement à toute « théologie politique » au sens strict, au profit d’une théologie « sociétale ».

Exégèse et questionnement sur la (dé)-sécularisation

La sécularisation et la théologie ont entretenu pendant des décennies des relations incestueuses, s’étant mutuellement imprégnées. D’autres penseurs, Jürgen Moltmann ou Jean-Baptiste Metz, ont reconnu le phénomène de sécularisation du religieux en reconnaissant dans la Croix de Jésus un symbole politique. Nombreuses sont les analyses sociologiques de C. Schmitt, Giorgio Agamben et de M. Foucault sur la biopolitique, qui voient dans la théologie chrétienne la source structurante du pouvoir étatique moderne. Hans Blumberger mettra l’accent sur une certaine puissance d’auto-affirmation de la modernité pour la libérer de l’emprise théologico-politique. La question de la sécularisation-religion et le dilemme contemporain relatif à la (dé-)sécularisation ont imprégné les travaux d’Augustin, d’Eusèbe de Césarée, de Maïmonide, de Averroès, des auteurs conservateurs comme de Maistre, Bonald, Donoso Cortés et les philosophes de la contre-Révolution, en passant par Spinoza et au XXe siècle des philosophes tels que Löwith, Strauss, Benjamin, Voegelin et Vattimo. La réflexion sur la Shoah et Auschwitz réhabilitera dans le champ épistèmologique et philosophique la théologie politique, surtout lorsque celle-ci s’applique à la nature eschatologique et nihiliste des régimes totalitaires. Le sociologue allemand Hans Joas (3) dans La foi en tant qu'option (Glaube als Option) juge la laïcité et la sécularisation sociale compatibles avec la religion, en pariant sur le rôle intégrationniste et social de la foi en tant que choix individuel et option. Il constate aussi que l'idée de sécularisation et de progrès s'est cristallisée et a évolué á travers plusieurs phases : après s'être imposée en tant que modèle social en Europe occidentale dans les années 1950 et 1960, elle a évolué à travers la théorie de la modernisation occidentale présentée aux Etats-Unis comme le modèle historique. Le regain du religieux dans le domaine social et politique réapparaît selon lui et de façon paradoxale á l'époque de la postmodernité ouù règne un certain polythéisme des valeurs, á l'époque de « la fin des grands récits » qu'annonçait Lyotard, fin époquale á laquelle Hans Joas ne veut pas croire. Joas enfin voit dans le phénomène de l'autotranscendance individuelle et collective une manifestation du religieux social, qui, déconnectée d'un unique centre théologique de référence, permet le foisonnement et l'affirmation d'identités multiples. Ainsi la laïcité et le processus de sécularisation seraient selon lui un phénomène contingent issu d'un contexte social et historique précis. Tout comme la religion Joas affirme que la sécularisation n'est pas une nécessité impérieuse et irréversible.

Sécularisation des idées et « sortie de religion »

La sécularisation contemporaine est multidimensionnelle, car si elle est surtout comprise dans le sens politique (la séparation de l’Église et de l’État), elle tire sa légitimité pratique du domaine sociologique et surtout idéel. En effet, elle a coïncidé avec le vaste phénomène du « désenchantement du monde » et le déclin des croyances religieuses traditionnelles. Avec la relativisation nivelleuse des croyances et le relativisme épistémologique (la religion est une affaire privée et équivaut á n’importe quel autre choix), la sécularisation a permis d’insérer la pensée théologique et religieuse dans le domaine profane. Et par une sorte d’inversion, le profane est devenu sacré. C’est ce que le sociologue Wendrock a constaté lorsqu’il démontre que le concept de « volonté générale » rousseauiste coïncide avec le concept théologique de la « volonté générale de Dieu » que l’on attribue aux jansénistes. Les idées séculières de justice, d’égalité, de salut et de libération sont consubstantielles á l’idée de démocratie, et constituent de même des reliquats de la pensée théologique. Certains auteurs, comme Rémi Brague, critiquent la sécularisation des idées, afin de démontrer que seul le christianisme est en mesure de conserver la cohérence de la morale sociale. Charles Taylor (4) dans  A Secular Age affirme que « le christianisme s’accommode de la sécularisation sans perdre sa substance, son message transcendental ». Il n’est pas certain, d’autre part, que comme le soutient Kolakowski les religions garantissent contre le projet d’un « accomplissement terrestre radical et absolu », car certaines idéologies ultraséculières comme le marxisme et a-religieuses contiennent comme l’a démontré le philosophe Mihael Riklin les matrices quasi religieuses d’une pensée sotériologique en tant que promesse d’une utopie communiste réalisée, á savoir l’accomplissement de la société communiste sans classe. Tous les totalitarismes modernes de droite et de gauche ont emprunté á la religion l’idée de salut et d’émancipation. Le projet totalitaire reste donc émminemment « religieux » dans sa forme et ses buts, tout en empruntant les moyens de persuasion et de coercition sécularisés (la soumission passive, l’internalisation et le conditionnement). De sorte que le projet global d’une humanité uniforme consumériste unifiée par le marché et la communication mondiale prend la forme d’un projet religieux séculier, qui par le biais de la promesse de la société planétaire du bonheur et du bien-être matériel généralisé entend « sortir de l’histoire » tout comme la religion se présente comme un message « transhistorique ». Le projet global politique, économique et culturel, contient les germes d’une re-spiritualisation du politique, car contrairement aux thèses « endistes » d’un Fukuyama ou d’un Gauchet, il ne s’agit pas d’une « sortie de religion » qui marquerait le destin de l’Occident, mais bien au contraire d’un besoin de religion, besoin qui se fait de plus en plus sentir sur les marges paupérisées et la périphérie globale, qui réclame plus de justice et d’égalité.

Jure Georges Vujic
avocat, géopoliticien et écrivain franco-croate
Séminaire sur « L’Etat, la Religion et la laïcité »
Académie de Géopolitique de Paris
22 novembre 2012

Notes :

(1) E. Stiglitz, La Grande Désillusion, Paris Fayard, 2002.
(2) Jose Casanova, Public Religions in the Modern World. (1994)
(3) Hans Jonas, Die Kreativität des Handelns, Frankfurt, Suhrkamp, 1992 ; traduction française: La Créativité de l'agir, traduit de l'allemand par Pierre Rusch (titre original : Die Kreativität des Handelns, 1992), Paris, coll. Passages, Les éditions du Cerf, 1999
(4) Charles Taylor, A Secular Age, Harvard University Press. (2007)

NDLR : Le lecteur sera peut-être surpris que  Polémia ait choisi, pour illustrer l’article de Jure Vujic, le livre de Carl Schmitt Théologie politique, mais il se souviendra que, dans la théorie du juriste et philosophe Carl Schmitt, la théologie politique est une pièce essentielle pour l'interprétation de la nature du politique : « Presque tous les concepts prégnants de la théorie moderne de l'Etat sont des concepts théologiques sécularisés. »

Dernier livre de Jure Vujic, La modernite à l'epreuve de l'image - L'obsession visuelle de l'Occident, Editions l'Harmattan, octobre 2012, 185 pages.

Bibliographie :

LABORDE, C., 2007, Some reflections on European Civic Patriotism, in Simon Piattoni and Riccardo Scartezzini (éd.), European Citizenship : Theories, Arenas, Levels, Edward Elgar.
LACROIX, J., 2002, For a European Constitutional Patriotism, Political Studies, vol. 50.
MAGNETTE, P., 2006. Au nom des peuples : le malentendu constitutionnel européen, Paris : Les éditions du Cerf.
MARKELL, P., 2000. Making affect safe for democracy ? On ‘constitutional patriotism, Political Theory, vol. 28, n° 1, february.
MULLER, J.W., 2004, Europe : le pouvoir des sentiments. L’euro-patriotisme en question, La République des idées, avril-mai.
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BRUCE, Steve. God is Dead: Secularization in the West (2002)
CASANOVA, Jose. Public Religions in the Modern World, (1994)
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FERRY, J. M., 2002.  La référence républicaine au défi de l’Europe, Pouvoirs, n° 100.
GAUCHET M., 2007, L’Avènement de la démocratie, Paris, Gallimard, Bibliothèque des sciences humaines.
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Articles :

Rémi Brague, Pour une métaphysique de base » in Regards sur la crise. Réflexions pour comprendre la crise et en sortir, ouvrage collectif dirigé par Antoine Mercier Paris, Hermann Editions 2010.
Globalisation et deficit de legitimite democratique: faut-il souhaiter une democratie cosmopolitique?, Francois Boucher, Universite Laval, archives Phares, volume 7, 2007.
Jan-Werner Muller Europe : Le pouvoir des sentiments: l'euro-patriotsime en question, La Republique des Idees, 2008.
Ingolf Pernice, Franz Mayer, De la constitution composée de l'Europe, Walter Hallstein-Institut, Revue trimestrielle de droit europeen 36, 2000.
Review: Marcel Gauchet, L’Avènement de la démocratie, Paris, Gallimard, Bibliothèque des sciences humaines, 2007 ; vol. I, La Révolution moderne, 207 p., 18,50 € et vol. II, La Crise du libéralisme.

Correspondance Polémia – 9/01/2013

Extension stratégique du domaine du désordre

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Extension stratégique du domaine du désordre

Ex: http://www.dedefensa.org/

…En effet, à la conclusion apportée à notre Notes d’analyse d’hier, 17 janvier 2013, nous voudrions ajouter un complément. «Ce n'est que de la tactique, pas de la stratégie», disent ces anciens chefs du Shin Beth israélien de la “politique” israélienne dans les territoires occupées. Nous ajoutions, d’un propos plus général : «Voilà ce qu’il en est, selon nous, du Mali comme du reste, ce qui a précédé et ce qui suivra. Il s’agit d’une stratégie réduite à une énorme tactique sans stratégie, un colossal “comment” poursuivi sans trêve, et sans jamais déboucher sur rien puisqu’il est privé de son “pourquoi” qui ferait toute la différence entre le désordre déstructurant et réduit à lui-même, et une politique souveraine légitimant l’action entreprise…»

Un constat complémentaire, s’accordant avec l’analyse du Système et de sa politique (politique-Système) est que cette sorte d’action d’une très grande puissance déstructurante du bloc BAO, sans aucune pensée directrice sinon la confusion des narrative opportunes et contradictoires, résulte en la création d’une situation stratégique de désordre, objectivisée en quelque sorte. Al Qaïda, AQIM, al Nusra, n’en sont à cet égard que les éléments paradoxalement fédérateurs : par leur présence, leur prolifération, leur dynamisme que nous alimentons bien entendu par notre propre cycle surpuissance-autodestruction (certains y voient un complot machiavélique, – vertige et ivresse, et temps perdu de la “connaissance” rationalisatrice), ces divers “terroristes” constituent effectivement, bien que leur action soit primitivement tactique, les éléments fixateurs de cette situation stratégique du désordre. Ce n'est pas leur stratégie mais leur contribution à l'élaboration de cette “situation stratégique de désordre” objectivisée qui résulte de la politique-Système générale, dans tous ses effets directs et indirects. Il faut ajouter que l’élément de la communication (analyses, spéculation, actions spectaculaires, narrative innombrables, “doubles jeux” et “triples jeux” divers des acteurs du bloc BAO, etc.) joue un rôle fondamental, beaucoup plus que la géopolitique comme il se doit, dans la constitution et la fixation de cette “situation stratégique du désordre” en pleine extension. Le développement d’une “menace terroriste directe” contre l’Europe à partir de la situation Mali-Libye-Algérie, à partir des manipulations extraordinaires du bloc BAO dans son rôle dans le processus du “printemps arabe”, est une illustration impeccable de l’importance de ce facteur du système de la communication : la “menace” dénoncée depuis plusieurs années finit par se concrétiser, au niveau de la communication, puis au niveau de cette “situation stratégique de désordre” en expansion. On finit par y croire, cela finit par être, – sans que nous sachions jamais, dans l’instant du constat, la part de réalité et la part de narrative de ce qui finit pas être une vérité-Système, et bien sûr quelle est la réelle substance de cette vérité-Système.

• Concernant le Mali, lié bien entendu à la Libye au départ et à l’Algérie dans le développement de la chose, – peut-on rêver extension plus “stratégique” du désordre, – Russia Today donne une interview de F. Michael Maloof. Ancien “expert” du Pentagone du temps de Rumsfeld, et complètement acoquiné à la cabale Cheney-Rumsfeld/neocons, que nous avons déjà cité à d’autres propos (le 14 août 2012 notamment) et présenté comme ceci  : «…personnage éminemment douteux, qui semble porter ses diverses compromissions comme autant de décorations de campagnes glorieuses, avec plusieurs CV amovibles et tous de type narrative, l’une ou l’autre casserole de corruption». Mais cette description, qui n’est pas loin d’être celle d’un expert type de l’époque-Système de la postmodernité (la différence est que cela se voit et que cela se sait plus ou moins selon l’expert et sa position), n’empêche pas l’expression d’analyses intéressantes lorsque le champ de la réflexion n’est pas directement du domaine d’intérêt des soutiens idéologiques et financiers de l’expert. Pour ce cas, il s’agit du Mali, dans son extension à toute la zone. Maloof prévoit un destin difficile pour la France au Mali et un destin tragique pour la présidence de Hollande, à cause de cette affaire et du reflux de l’opinion publique lorsque la guerre, qu’il compare à l’Afghanistan, donnera tous ses effets… Pour l’heure, Maloof donne des précisions intéressantes sur l’un des faits importants, déjà mentionné, qui est le rôle d’African Command (US) dans la formation au Mali de Touaregs et autres aux techniques des forces spéciales US contre-guérilla, aboutissant à une catastrophique défection de ces recrues, les Touaregs notamment, traités comme l’on sait par les pouvoirs installés en Libye par l’intervention du bloc BAO… Quoi que vaille l’analyse, il faut savoir qu’elle offre ainsi le thème principal de la communication argumentant l’aggravation catastrophique de l’intervention au Mali et de la situation générale de la zone.

[…] Russia Today: «Why did that training initiative go so badly wrong there?«

Michael Maloof: «The training went great at the time when it happened. What happened is that they defected. The man who led the coup, [Capt. Amadou Sanogo], was a military man who was actually trained by the US forces. He has insight, and I think General [Carter F.] Ham, one of our top commanders [in Africa], basically declared that this is a disaster that we’re confronting this problem right now. These troops are very well-trained. They were involved not only in Libya, but also in Mali. They basically turned: They were Tuaregs [nomadic tribes], now they’ve joined forces with AQIM, which is Al-Qaeda in the Islamic Maghreb.»

Russia Today: «Before asking more about the rebels and their makeup, because it is so easy to call them Al-Qaeda, what about the fact that the US, should it not be obliged now to help France more, as people say it is the US fault? Or is Washington distancing itself from what is going on in Mali?»

Michael Maloof: «Not at all. They are involved and providing intelligence and probably will be committing transport to bring in African Union’s troops from African countries. But this could be a double-edged sword, given the uncertainty and volatility within in Mali itself. Many of the foreign troops coming could actually stage their own coups and take over the country. So this is a very dicey situation. It also represents a potential long-term Afghanistan-like effect for France itself, and inadvertently it could suck the United States back yet into another war.»

Russia Today: «So these groups are actually homegrown in Mali? Or has there has been an element of importation of Islamism coming from other countries?»

Michael Maloof: «Both internal and external. They have foreign fighters who have been part of AQIM for some time and as I said earlier this is a part of the grand Al-Qaeda central strategy out of Pakistan these days. I think it’s laying a foundation to lay more attacks into Europe, ultimately. The EU is very concerned about it, I may add.»

Russia Today: «What’s happening in Mali is provoking possible attacks from elsewhere. The French seem to want to stamp out Islamism and stop Islamists from taking not just the north of Mali, but also the rest of the country. Just bombing them and using a military exercise against them – does that really get rid of the ideology and the actual threat?»

Michael Maloof: «No I don’t think so, because after doing something similar for 10 years in Afghanistan we’re ready to pull out and Taliban is ready to move back in. There’s just a question of how effective this approach is going to be. I think that is something the French have to weigh for themselves. This could bring other countries back into a long-drawn conflict. Already Germany is beginning to show some resistance to this and is concerned about the amount of help that they give simply because they see protracted effort such as the experience in Afghanistan.»

Russia Today: «That is exactly what the rebels are saying. That France is falling into a trap and could be experiencing another Iraq, Afghanistan or another Libya. So you think they may be right here: France is taking on a challenge that it may not be able to cope with along with other countries?»

Michael Maloof: «It is almost like a strategy on the part of the rebels to draw them in. I have to add that Russia has a lot to be concerned because it has investments in this region to protect. They of course agreed to the UN Security council resolution to provide assistance to the French. It’s a dicey situation and larger than Mali, per se. It could affect the entire North Africa and enter Europe. I think it is a concern from geostrategic and political standpoint.» […]

• S’intéressant au Mali pour la deuxième fois, DEBKAFiles frappe sur le clou qu’il affectionne, à savoir l’aveuglement de la politique US en Libye, durant et surtout après l’attaque contre le régime de Kadhafi, et la chute et la mort de Kadhafi. Il rejoint ainsi, par son chemin intéressé, l’analyse selon laquelle le bloc BAO (les USA) ont remarquablement instruit et équipé ceux contre lesquels la France et le reste luttent aujourd’hui au Mali (le 17 janvier 2013).

«The disaffected Touareg tribes are supporting al Qaeda against the French as part of their drive for independence. Their added value is the training in special forces’ tactics some 1,500 Touareg fighting men and their three officers received from the US. The US originally reserved them as the main spearhead of a Western Saharan multi-tribe campaign to eradicate al Qaeda in North and West Africa. Instead, the Sahel tribesmen followed the Touareg in absconding to Mali with top-quality weapons for desert warfare and hundreds of vehicles from US and ex-Libyan military arsenals.

»This major setback for US administration plans and counter-terror strategy in Africa tied in with Al Qaeda’s assassination of US Ambassador Chris Stevens and three of his staff in Benghazi last September. Because the United States held back from direct US military action in both cases, Qaeda has been allowed to go from strength to strength and draw into its fold recruits from Mali’s neighbors. They are tightening their grip on northern Mali and have imposed a brutal version of Islam on its inhabitants, putting hundreds to flight.»

• On peut considérer que l’extension du domaine stratégique du désordre se marque également par l’extension de l’aide US aux Français au Mali, comme le signale Russia Today le 18 janvier 2013. (A noter que la décision US, annoncée par le département d’État, contredit une déclaration du Pentagone de la veille qui écartait toute possibilité d’implication terrestre US. Là aussi, désordre, et une situation propice pour l’arrivée de Hagel, qui a comme catéchisme affiché d’éviter tout nouvel engagement US.) On ignore si l’ironie est voulue, mais à l’heure où l’on dénonce les catastrophiques conséquences des mesures d’entraînement de divers groupes locaux par African Command, l’implication US “terrestre” (“boots on the ground”) porte justement sur l’entraînement de forces maliennes et proches… «Washington has agreed to provide France with airlifts to help move troops and equipment in the country's operation in Mali, an official told Reuters. Meanwhile, a group of US military trainers are expected to arrive in the region by the weekend. […] In addition to reports that Washington will help French and Malian forces by way of airlift support for getting troops and equipment to the battlefield, CBS News correspondent Margaret Brennan reported that Secretary of State Hillary Clinton said that US military trainers “will be on the ground by this weekend.”»

Dans le même texte, on lit l’avis de l’historien Gerald Horne, qui confirme celui de Maloof dans une curieuse rencontre d’orientations, là aussi extension du désordre, – puisque Maloof vient des neocons (mais avec évolution à l’appui puisqu’il donne des interviews à Russia Today et à l’iranien pressTV.com) et que Horne est un professeur africain-américain proche de l’extrême-gauche, qui ne dédaigne pas de répondre aux invitations à parler du parti communiste US  : «What Mr. Hollande is doing is enlarging and worsening the existing problem. The problem is that when the body bags return into Paris, the populace will turn on Hollande with a vengeance – and he will be driven from office just as surely as Sarkozy was driven from office.»

• Le complément cartographique (sans exclusive d’autres cas, certes) de la “situation stratégique du désordre” nous conduit en Syrie où rien n’indique que le désordre reflue en quoi que ce soit. Le terrible attentat à la voiture piégée à l’université d’Alep a vu l’immédiate et consternante attribution de la responsabilité de l’acte au régime Assad par le département d’État, – on peut espérer que cela soit un des derniers spasmes de l’équipe des harpies déchaînées Clinton-Rice-Nuland (c’est la porte-parole Nuland qui a émis ce jugement sur l’attentat). L’Union européenne a émis un communiqué beaucoup plus mesuré, qui se démarque un poco de l’avis américaniste-clintoniern. Lavrov a réagi avec une brutalité extrême à ce jugement, l’appréciant comme “le plus blasphématoire” qu’on puisse imaginer ; les Russes en sont à solliciter le vocabulaire sataniste pour apprécier les écarts considérables de la politique-Système qu’a contribué à développer le département d’État des harpies… Pourquoi pas, puisque désordre considérable il y a ?

Et désordre sur le terrain, tout autant, comme enfant naturel et reconnu de la non-stratégie extrémiste du bloc BAO. Le Guardian, qui soutint avec zèle le développement catastrophique de la chose, est désormais un observateur zélé et critique de ses effets tout aussi catastrophiques. Il continue avec deux textes de son envoyé spécial à Alep, Martin Chulov. Nous apprenons, sans surprise excessive, que la tension monte à très grande vitesse entre les rebelles convenables (dits “nationalistes”) et les djihadistes. Dans l’extrait cité ici d’un des deux textes de Chulov, le 17 janvier 2013 (l’autre, également du 17 janvier 2013, est plus long et plus de type reportage), on apprend d’un des chefs rebelles “nationalistes” que la bataille de sa fraction contre les djihadistes commencera “le lendemain de la chute d’Assad”, ce qui laisse prévoir qu’elle pourrait bien précéder cette chute, déjà fortement hypothétique, et alors encore plus hypothétique…

«A schism is developing in northern Syria between jihadists and Free Syrian Army units, which threatens to pitch both groups against each other and open a new phase in the Syrian civil war. Rebel commanders who fight under the Free Syrian Army banner say they have become increasingly angered by the behaviour of jihadist groups, especially the al-Qaida-aligned Jabhat al-Nusra, who they say aim to hijack the goals of the revolution.

»The rising tensions are palpable in the countryside near Aleppo, which has become a stronghold for the well-armed and highly motivated jihadists, many of whom espouse the Bin Laden worldview and see Syria as a theatre in which to conduct a global jihad. Syrian rebel groups, on the other hand, maintain that their goals are nationalistic and not aimed at imposing Islamic fundamentalism on the society if and when the Assad regime falls.

»Fighting between the well-armed jihadists and the regular units who accepted their help from late last summer would mark a dramatic escalation in the conflict that has claimed in excess of 60,000 lives. However, commanders in the north say such an outcome now appears unavoidable. “We will fight them on day two after Assad falls,” one senior commander told the Guardian. “Until then we will no longer work with them.”»

Décomposition du front antisyrien… et de l’insurrection ?

Décomposition du front antisyrien… et de l’insurrection ?

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/


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Le blasphème de Victoria Nuland

Le sang des 87 victimes de l’université d’Alep n’était pas sec que deux voitures piégées et pilotées par des kamikaze ont sauté à Idleb, tuant 22 personnes selon le dernier bilan disponible. Et, selon l’agence Sana, deux autres véhicules du même type ont pu être détruites par l’armée avant d’arriver dans la ville. La porte-parole du Département d’État américain, Victoria Nuland, n’a pas craint d’attribuer le massacre d’Alep à un bombardement de l’aviation syrienne, reprenant à son compte les allégations des Comités locaux de Coordination (CLC) structure de l’opposition intérieure radicale qui, comme ce qui reste de l’ASL, « colle » désormais dans les faits aux extrémistes du Front al-Nosra.

Cette déclaration de Nuland lui a valu une réaction immédiate, et particulièrement sévère, du chef de la diplomatie russe : « J’ai vu sur CNN des communiqués affirmant que l’attentat a été commis par les forces armées du pays. Je ne peux rien imaginer de plus blasphématoire » a ainsi déclaré Sergueï Lavrov. La Russie avait présenté ses condoléances au peuple et au gouvernement syriens juste après l’attentat.

La sortie de Miss Nuland n’est pas seulement blasphématoire, elle est grotesque : comment imaginer que l’aviation gouvernementale, qui n’en est pas à sa première sortie au-dessus d’Alep et de sa région, ait pu cibler un site se trouvant dans le secteur qu’elle contrôle ? Mais l’échec rend fou…

Le mythe de Taftanaz

Car c’est bien un gigantesque fiasco qui se profile à l’horizon pour le front des faux amis de la Syrie. Ces dernières semaines, l’histoire s’est accélérée. Et le sens qu’elle a pris n’est pas favorable à la « révolution » et ses sponsors étrangers. Sur le terrain, l’ASL semble avoir disparu, tant du terrain que des communiqués de l’OSDH, au profit des groupes djihadistes. Et ceux-ci, malgré leurs proclamations, n’enregistrent aucun succès définitif depuis des semaines. Autour de Dama ils ont été écrasés à la fin de l’année dernière. À Alep, ils ont bien du mal à maintenir leur positions. À Homs, ils assurent encore une présence symbolique dans le centre historique. À Marrat al-Numan, ils sont très vite passés du stade de l’ »offensive victorieuse » à celui du harcèlement sporadique.

Taftanaz ? Il faut lire ce qu’en dit à l’agence Reuters le croisé pro-révolution belge Pierre Piccinin, qui revient juste d’un séjour en zone rebelle, dans les environs d’Idleb :

« J’ai vu la Base 46 prise par la rébellion il y a quelques mois : ce qui a été présenté comme une grande victoire n’était rien d’autre que des casernements et des barbelés que l’armée n’a pas voulu protéger. Même chose à Taftanaz, un aéroport militaire tombé la semaine passée, on apprend qu’il n’y avait que 250 soldats vivant sous tentes et seulement des hélicoptères, pas d’avions : une autre base qui n’avait pas vraiment d’importance stratégique pour l’armée« . Encore une fois, c’est un adversaire hystérique de Bachar al-Assad, partisan d’une intervention militaire étrangère en Syrie, qui le dit. Et qui dit encore que la ville d’Idleb « proprement dite reste aux mains du régime de Bachar el-Assad, comme du reste toutes les villes sauf une partie d’Alep« .

Et M. Piccinin constate aussi que l’ASL, dans ce bastion militaire de l’opposition, a « fondu comme neige au soleil« , au profit des groupes islamistes durs, bien mieux équipés et argentés, et attirant de ce fait nombre de jeunes paumés.

Du Mali à la Syrie, en passant par le Qatar

À la fin de son entretien, Piccinin, toujours aussi accro à sa « révolution » syrienne moribonde, regrette que les Occidentaux s’investissent au Mali comme ils ne l’ont jamais fait en Syrie. Or, justement, dans cette accélération de l’Histoire « péri-syrienne », l’affaire du Mali et son prolongement algérien jouent un rôle considérable, dans l’évolution des consciences sinon déjà des déclarations. Car, sur les plateaux des chaînes d’information continue, on entend de plus en plus distinctement, au hasard du défilé de spécialistes et d’analystes, des noms qui fâchent, ou qui gênent :

-le nom « Libye » : personne ne peut cacher le fait qu’un certain nombre des djihadistes du Mali viennent de Libye, ni que l’essentiel de leur armement le plus moderne et performant vient des arsenaux de Kadhafi. Une sacrée pierre dans le jardin dévasté de Sarkozy et de ses amis de l’UMP !

-le nom »Qatar » : là aussi, les langues se délient, d’autant mieux que des journaux de référence en matière d’investigation, le Canard enchaîné et Marianne, viennent d’affirmer que l’émir du Qatar avait livré une importante aide financière aux combattants islamistes du Nord Mali, notamment ceux du Mujao, comme il avait naguère déversé sa manne sur les insurgés libyens, comme il continue de le faire pour les égorgeurs de Syrie. Et que le maire de la grande ville malienne de Gao, sur la ligne de front, a déclaré à RTL que le gouvernement français savait qui soutient les terrorises dans son pays : « Il y a le Qatar par exemple qui envoie soi-disant des aides, des vivres tous les jours sur les aéroports de Gao, Tombouctou (villes aux mains des islamistes) ».

Le Qatar qui, tiens !, a exprimé officiellement, mardi, ses « doutes » sur la pertinence de l’intervention militaire française au Mali, par la bouche de son Premier ministre cheikh Hamad ben Jassem al-Thani. Décidément, l’ami qatari devient de plus en plus difficile à assumer pour nos gouvernants. Et là ça vaut autant pour Hollande que pour Sarkozy. Si ça continue, ces messieurs vont métaphoriquement et diplomatiquement changer de trottoir quand ils apercevront les robes blanches des princes wahhabo-capitalistes, qu ont pourtant été si généreux avec eux ! À terme, le dernier avocat, au sens propre et figuré, de l’émirat sera sans doute le faux-gaulliste et le vrai fiseur Dominique de Villepin…

-Le mot « Syrie », enfin. C’est sans doute de qu’il y a de plus embarrassant à reconnaître pour les anlystes et journalist plus ou moins « alignés ». Mais enfin, le parallèle est quand même fait, encore timidement, entre les barbus du Mujao et d’Ansar Eddine et leurs « cousins syriens » de Jabhat al-Nosra. On a même entendu sur I-Télé ou BFM, un spécialiste dire que du reste certains des occupants actuels du Mali revenaient d’un stage de djihad en Syrie. Et le lien sera fait de plus en plus, tant le roi est nu, l’incohérence diplomatique française évidente et la « révolution syrienne » moribonde. Que la prise d’otages dans le Sud algérien tourne au drame, et alors la position française sur la Syrie deviendra inaudible et intenable.

La « révolution » syrienne en phase terminale ?

La révolution syrienne moribonde ? Nous le pensons sincèrement : elle crève de son impuissance – bientôt deux ans de cafouillage sanglant – à renverser un régime enterré très vite et trop vite par les diplomates et les journalistes aux ordres. Un régime qui tire sa capacité de résistance de la solidité, malgré tout ce qu’on en a dit, de son armée, et du soutien, malgré tout ce qu’on en raconte, de l’essentiel de son peuple. Elle crève bien sûr aussi de sa gangrène islamiste et terroriste, dont le premiers symptômes sont apparus très tôt, dès juin 2011 du côté de Jisr al-Choughour. Elle crève de son harcèlement de toutes les minorités, non seulement alaouites et chrétiennes, mis kurdes, palestiniennes et druzes, mais aussi de la masse des sunnites pacifistes et patriotes, intégrés à la communauté nationale syrienne, et qui ne veulent pas échanger dette communauté conte un califat à la al-Qaïda Elle crève des dollars du Golfe et de l’implication d’Erdogan, qui ne peut que susciter rejet et méfiance de la part de la grande majorité des Syriens. Elle crève des massacres, destructions et privations, acquis le plus tangible de 22 mois. Et aussi du spectacle lamentable de ces coalitions de la carpe islamiste et du lapin bobo, de ces politiciens exilés et stipendiés de la « Coalition nationale » aujourd’hui, du CNS hier, qui donnent le spectacle permanent de leur jactance et de leur impuissance, au point de lasser la plupart de leurs amis étrangers.

Car la « révolution » va crever, enfin, de la désintégration du front de ses soutiens internationaux : il y a objectivement, une nouvelle donne de la diplomatie américaine, avec la relève de Clinton-Panetta par Kerry/Hagel, avec la préoccupation grandissante de l’administration Obama vis-à-vis de la djihadisation de l’insurrection, annoncée déjà voici des mois par le gratin de l’armée américaine : ce ne sera pas une inflexion ouverte, médiatique – les Américains ont trop diabolisé Bachar, trop longtemps -, mais ce sera une irrésistible évolution vers le désengagement de ce bourbier. Il y a aussi ces contacts, reconnus par un organe pro-opposition comme le quotidien libanais L’Orient Le Jour, entre des responsables séoudiens et syriens, certains dans le Golfe commençant à s’effrayer de la vigueur et de la cruauté du monstre salafiste qu’ils ont nourri. Il y a l’impasse pathétique d’Erdogan qui se retrouve avec des dizaines de milliers de réfugiés syriens sur les bras, un front militaire kurde unifié et renforcé de l’Irak à la Syrie, et en délicatesse avec ses voisins immédiats ou proches russes, iraniens, irakiens, arméniens. Sans oublier l’opposition des 2/3 ou des 3/4 de son opinion intérieure à sa gestion de la crise syrienne.

Les alliés les plus fidèles  demeurent apparemment, à l’heure où nous écrivons, la France de Hollande, l’Angleterre de Cameron et le Qatar de l’émir Hamad. C’est mieux que rien, mis ce n’est pas suffisant. Et c’est de plus en plus fragile. La révolution syrienne pourrait bien mourir au Mali…

Indépendamment de ses tares constitutives, de la lassitude et de la confusion chez ses sponsors et des métastases djihadistes, la « révolution syrienne » va périr de la résistance du gouvernement, de l’armée et, en dernière analyse, de la population syriens

Louis Denghien

Unter falscher Flagge!

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Unter falscher Flagge!

1.Zum Zwecke der dauernden Behauptung seiner Unabhängigkeit nach außen und zum Zwecke der Unverletzlichkeit seines Gebietes erklärt Österreich aus freien Stücken seine immerwährende Neutralität. Österreich wird diese mit allen ihm zu Gebote stehenden Mitteln aufrechterhalten und verteidigen.                                                                                  

2. Österreich wird zur Sicherung dieser Zwecke in aller Zukunft keinen militärischen Bündnissen beitreten und die Errichtung militärischer Stützpunkte fremder Staaten auf seinem Gebiet nicht zulassen. (Neutralitätserklärung vom 26. Oktober 1955)

Die Neutralitätserklärung verpflichtet also Österreich zur Landesverteidigung und zur Bündnisfreiheit. Der einen Verpflichtung hat die Politik immer weniger Beachtung geschenkt, der anderen wird immer mehr der  NATO-Marsch geblasen.                      

Streng genommen, haben wir es nicht mit Hochverrat zu tun?  Was schert mich mein Ehrenwort von gestern, wird sich so mancher Spitzenpolitiker dabei denken.

Indes ist die  sicherheitspolitische Lage an unseren Grenzen und darüber hinaus längst nicht so rosig, wie vorgegaukelt. Trotz Ende des Kalten Krieges hat sich die latente Bedrohung unseres Vaterlandes keineswegs verringert, ist eher vielfältiger geworden, und selbst alte Zustände könnten für viele unerwartet wiederkehren. So unmöglich es heute scheinen mag.

Wie aber Konflikte zwischen Nationen später einmal ausgetragen werden, das kann heute niemand genau sagen, daher muß man auf alle Eventualitäten vorbereitet sein. Aber daß militärisches Eingreifen auch von österreichischer Seite nötig sein könnte, hat eine Verteidigungsdoktrin zu berücksichtigen.

Unzweifelhaft erfordern nicht nur die Kleinheit unseres Landes und dessen Neutralität, sondern auch die internationale politische Großwetterlage eine spezielle Landesverteidigungsdoktrin und eine vom Volkswillen getragene Verteidigungsbereitschaft, wobei der geistigen ein Vorrang zukommen sollte.

Diese geistige Bereitsschaft sollte sich dahingehend zeigen, daß man für sein Vaterland oder seine neue Heimat, jedoch nicht für einen Konzern, eine Parteibürokratie oder einen Guru, auch sein Leben einzusetzen bereit ist. Zuviel verlangt?

Wie hieß es doch einmal? „Hätte ich mehr als ein Leben, ich würde sie alle für mein Vaterland opfern.“ Welcher Regierungschef hat das gesagt? Kein lebender jedenfalls, ist ja auch unvorstellbar. Die Aussage stammt nämlich von Preußens Friedrich II.

Der u. a. auch von Egon Friedell geschätzte Preußenkönig meinte zudem, die Truppen seien die Säulen des Staates. Wenn man sie nicht „mit dauerhafter Aufmerksamkeit in der gebührenden Ordnung und Güte erhalte, so sei der Staat bedroht, und das erste Unwetter könne  ihn umwerfen“.

Inhaltlich und ganz im Sinne einer erneuerten Rekrutenausbildung ergänzen ließe sich diese Einschätzung auf gut österreichisch mit den Worten von Conrad von Hötzendorf, Generalstabchef  sämtlicher Armeen Österreichs-Ungarns: „Der Inhalt steht über der Form, der Geist über der Materie, das Erziehen über dem Abrichten, die Überzeugung über dem Zwang, das feldmäßige Können über parademäßigen Drill.“

Dieser Einstellung hätte auch der strenge, aber durchaus human denkende Friedrich II weitgehend zustimmen können. Die Allgemeine Wehrpflicht mit dem Ziel, die innere Einheit zwischen Regierung, Heer und Nation herzustellen, war Mittelpunkt und Kernstück der militärischen Reform in Preußen und führte zu einer der  besten Armeen in Europa.

Anders die Lage im heutigen Österreich: Das ausgehungerte und vernachlässigte, von allen Parteien als innenpolitischer Joker mißbrauchte österreichische Bundesheer  könnte deshalb sogar schon einer von dem um Jungwählerstimmen buhlenden Wiener Bürgermeister ausgerufenen idiotischen Volksbefragung zum Opfer fallen. Zurück bleiben eine gespaltene Armee und ein gespaltenes Volk. Großartig, diese Politik!

Wahrscheinlich hatte der  wohlgenährte Herr im Wiener Rathaus wieder einmal ein Damaskus-Erlebnis wie damals als er (aus Karrieregründen?) als Student von Rechts  nach Links wechselte. Als aus dem Nationalen ein umfassender Internationalist wurde.

Mit seinem wenig glorreichen Vorstoß, so als sei er, von wem immer, als dazu geeigneter „Speaker“ auserkoren worden,  hat Wiens Bürgermeister (bewußt?) einem direktdemokratischen Instrument einen Bärendienst erwiesen.                                                 

Was aufmerksame Beobachter  nicht überraschen dürfte, soll er sich doch schon einmal darüber beklagt haben, daß direkte Demokratie etwas sehr mühsames sei.  Ja, anstrengen tun wir uns nur am Buffet.

Daß heutige Politiker dem  Preußenkönig („Erster Diener seines Staates“) weder in Lebensklugheit und aufrechter Haltung  noch in Bildung und  Kenntnis besonders auch des Armeewesens das Wasser reichen könnten, soll deshalb hier nicht unterschlagen werden. Gerade erst wurde ein Politiker wegen Korruption zu vier Jahren Haft verurteilt, der  aber in Wirklichkeit nur die Spitze des Eisberges repräsentiert.

Der geistige Horizont unserer Politiker erstreckt sich ja in schauerlicher Weise nur von Wahltermin zu Wahltermin. Und Bildung wird in solchen Zeiten ganz allgemein ignoriert. So reicht denn auch die  Phantasie vieler Spitzenpolitiker  über die Szenarien-Vorgaben der NATO  kaum hinaus. Ja manches mutet an, als hätte man es Wort für Wort vom Pentagon abgeschrieben. Und dazu muß man kein zu Guttenberg sein.                                                                                                                                                          Schwedens Generalstabchef denkt da schon etwas anders und weiter. Er hält eine ausländische Invasion (!)  für nicht undenkbar und ist für eine Aufstockung der schwedischen Armee auf 100.000 Mann.                                                                                       

Dazu müßte gewiß die allgemeine Wehrpflicht in Schweden wieder eingeführt werden, denn anders wäre diese Mannschaftsstärke nicht zu erfüllen.

Ähnlich in Richtung Wehrpflicht denkt übrigens auch der –  vielleicht deshalb? –  beim Pentagon in Ungnade gefallene Ex-Afghanistan-Oberkommandierende US-General Stanley A. Chrystal im Falle der USA, wo, wie in Spanien oder BR Deutschland auch, nicht nur Rekrutierungs- und Finanzierungsprobleme zu schaffen machen. *

Doch in deutschen Landen werden diese Probleme ausgeblendet oder mit geschönten Studien übertüncht. Dazu kommt, daß  die Wehrpflicht von manchen als bloßes Zwangsinstrument gesehen und daher abgelehnt wird.                                                           

Zwang?  Gewiß, aber es ist auch eine Frage der Gesinnung, ob man bereits ist, seine Heimat und die Gemeinschaft, der man angehört, ihre Existenz zu verteidigen.

Da nun die Sache mit einer Berufsarmee –  die ja nicht in den Kasernen herumlungern kann und vor allem im Ausland für teures Geld beschäftigt werden muß (um schließlich den Terror in das eigene Land zu holen?) – nach den Erfahrungen in anderen Ländern gar nicht so vorteilhaft  zu sein scheint, stellt sich die Frage: was bewegt dann politische Dampfplauderer dazu, alles auf eine Karte zu setzen?

Gestern noch (2010), auch Bundeskanzler Fayman, für die Wehrpflicht, heute dagegen. Übrigens ÖVP und FPÖ ähnlich, nur umgekehrt. Wenn etwas in Stein gemeißelt ist, wie der  plötzliche Berufsarmee-”Fan”, Verteidigungsminister Darabos, hinsichtlich der Wehrpflicht einmal (2010) beteuerte, dann ist es die Dummheit oder Unaufrichtigkeit  der heute Regierenden in Wien wie im Bund. Und sonst wo.

Was aber steckt nun wirklich hinter diesem verteidigungspolitischen Harakiri? Was veranlaßt Politiker, ihr Volk unter falscher Flagge in ein unkalkulierbares Abenteuer zu führen? Welche Beweggründe führen denn bloß  die Verantwortlichen zur Lobpreisung der dem internationalen Kapital dienlichen Berufsarmee und zu der absurden Demokratie und Bundesheer beschädigenden Volksbefragungsschmierenkomödie?

Auf die  haarsträubenden mit Halbwahrheiten und Lügen vollgespickten und von persönlichen, ideologischen oder geschäftlichen Interessen geleiteten allzu durchsichtigen Argumente der Berufsarmee-Befürworter in Staat und Gesellschaft möchte ich persönlich gar nicht näher eingehen. (Ich bringe im Anhang dieses Blogs zu dem wichtigen Thema ausnahmsweise sehr umfangreiche Informationen des Journalisten Klaus Faißner, der sich im Gegensatz zu Kollegen auflagenstarker „Print“-Medien, die intensiv für eine Berufsarmee trommeln, vor niemandem verbiegen muß )

Was ist nun also der Auslöser, der das Rückgrat von Politikern aller Parteien immer mehr schlaffen Gartenschläuchen gleichen läßt? Vielleicht hilft ein Blick zum großen Bruder, nach US-Amerika. Dort regieren längst Wallstreet und Rüstungskonzerne mit ihrem Sprachrohr Pentagon. Wenn das Pentagon entscheidet, wir gehen nach Syrien, dann marschieren die US-Boys auch dahin. Ganz ohne Kriegserklärung, an Kongreß, Präsident und der Öffentlichkeit vorbei.

Daß mit Einsätzen in Afrika oder Asien auch der „Terrorismus“ gefördert wird (um ihn dann rund um die Uhr bekämpfen zu können?) ist seit Bush nicht mehr zu verheimlichen, ebenso wenig die zunehmend lückenlose Kontrolle der US-Öffentlichkeit. Aufmerksame Beobachter sprechen bereits von einem stillen, schleichenden Putsch des militärisch-industriellen Komplexes.

Aber  nun die bescheidene, aber  nicht zu unterschätzende Frage: Wäre eine solche Entwicklung  in einem demokratischen Land mit einer Armee von Wehrpflichtigen so leicht möglich? Zumindest nicht so leicht wie in Griechenland oder einem anderem südlichen Land. Anfälliger für Putsche ist ohne Zweifel eine Berufsarmee.

Als ehemaliger Angehöriger einer der  besten Elitetruppen der Welt, weiß ich sehr wohl über die Fähigkeiten einer Berufsarmee und  deren Einsatz-Möglichkeiten Bescheid. Was nicht bedeutet, daß ich grundsätzlich gegen Berufssoldaten bin. Ohne sie könnte auch keine Volksarmee auskommen.

Indirekt bestätigt meine Vorbehalte gegen die von außen angedachte NATO-taugliche Berufsarmee in Österreich auch eine Äußerung des US-Publizisten Thomas E. Ricks.  Er meint, eine Armee aus Wehrpflichtigen sei nicht wünschenswert, da die Bevölkerung ganz allgemein „als Bremse im Einsatz von Gewalt zur Durchsetzung legitimer, vielleicht auch nicht populärer Ziele“ wirken würde.” **

Da haben wir es also, und alle, die einer Berufsarmee (in diesem Falle eigentlich eine Wallstreet-Armee) das Wort reden, begeben sich auf demokratiepolitisch bedenkliches Glatteis oder sind überhaupt fest entschlossen für die Sache des „Big Business“ in den Krieg zu ziehen bzw. erwarten, daß andere für sie es tun. Koste es, was wolle. Nicht selten eben Menschenleben.

Ein sehr wesentlicher Hacken an der Sache ist ja eben auch, und das ist nicht unwesentlich, daß eine bestens ausgerüstete und trainierte Berufsarmee längerfristig mit einiger Sicherheit mehr  Kosten und Probleme verursacht als eine Armee von Wehrpflichtigen.      

Da kann mich des österreichischen Verteidigungsministers Michmädchenrechnung kaum vom Gegenteil überzeugen. Im Übrigen, wer einmal lügt, dem glaubt man nicht.

Die  bittere Kosten-Wahrheit, die natürlich auch mit der Überdehnung der politischen und ökonomischen Ambitionen zu tun hat,  tritt  ja neben auch geistig-moralischen Kollateralschäden gerade bei  der US-Armee krass zu Tage. Globale militärische Präsenz ist von „Uncle Sam“ allein nicht (mehr) finanzierbar. Also ist man auf Beiträge finanzieller wie materieller Art seiner Verbündeten in Europa angewiesen.

Es heißt schließlich: militärisch Rohstoffquellen zu sichern und/oder neue „Claims“ abzustecken, damit die globale US-Vormachtstellung noch halbwegs gewährleistet werden kann. Nicht zuletzt Ansprüchen und Begehren von Konkurrenten wie Rußland oder China durch Militärpräsenz rund um den Globus einen Riegel vorzuschieben.

Der NATO als verlängerter Arm des Pentagons fällt dabei neben ihrem politischen und strategischen Auftrag auch die politische und militärische Koordinierung zwecks Erreichung der erwünschten ökonomisch-geostrategisch wichtigen Ziele zu.

Entsprechende  Lobbyarbeit in Brüssel wie auch in den nationalen Hauptstädten durch Beamte des Außenministeriums und Militärs, vor allem indirekter Druck (z. B. ökonomischer Natur)  auf Regierungen dürfen ebenso vorausgesetzt werden wie die der europäischen Industrie in Aussicht gestellten Vorteile bzw. Kooperationen, was manche Pro-Berufsarmee-Stimme aus dieser Ecke verständlicher erscheinen läßt.

Daß sich die USA, und nicht nur sie, dazu, wie einst die Kommunisten, gegenüber der Öffentlichkeit und den Verbündeten der Mittel der psychologischen Kriegsführung mit all ihren erlauben und unerlaubten Kniffen, der Sprachmanipulation, Faktenverzerrung und dazu über wohlgesonnene europäische Massenmedien selbst der Gehirnwäsche bedienen, dessen sind sich zumindest so genannte „Insider“ bewußt.

Es ist übrigens schwer vorstellbar, daß die maßgeblich verantwortlichen NATO-Lakaien  in der EU von selbst auf die Idee gekommen sind, ganz Europa mit Berufsarmeen auszustatten. Man hat sie ihnen eingeredet, wie die schädlichen Glühlampen oder  diese dämlichen Briefkästen.

Da wird es auch gar nicht so schwer gewesen sein, diese eingebildeten Möchtegern-Staatsmänner samt ihrer ohnehin auf US-Kurs segelnden Frontfrau Merkel für außereuropäische Feldzüge zu begeistern. Wo ja nicht ihr Blut vergossen werden soll.

Ja möglicherweise kommt es einmal sogar zu einem Einsatz von fremden Berufssoldaten gegen die Bürger eines EU-Landes, sehr wahrscheinlich sogar, wenn die Politik weiter so verantwortungslos  agiert. Doch vorerst einmal, und das bis auf weiteres, geschieht dies einer Um- und Aufrüstung dienliche Berufsarmee-Projekt doch nur zur Ehre der Herren der Welt und zum Glanz des US-Imperiums,  dessen noch langsamer Niedergang trotz aller Anstrengungen kaum mehr aufzuhalten sein wird. Wobei wir mit in den Abgrund gezogen würden.  Wollen wir das?

*Seit wenigen Wochen sind bereits in 35 afrikanischen Ländern US-Anti-Terrorexperten (was immer sich dahinter versteckt)  im Einsatz. Die US-Regierung unterhält jenseits ihrer Grenzen geheime Folter-Gefängnisse und  hat so genannte Destabilisierungs-Offiziere weltweit, vornehmlich auf etwa 1000  Stützpunkten eingesetzt.                                                                                                                                            

** In Kenntnis der schrecklichen, bemitleidenswerten Lage der von Staat und US-Armee in Stich gelassenen Irak- und Afghanistan-Veteranen (Berufssoldaten), ist mehr als nur Skepsis gegenüber einer Berufsarmee in Österreich angebracht..

Pour une Europe iconoclaste

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Pour une Europe iconoclaste

par Bastien VALORGUES

Depuis octobre 2006 paraît tous les deux mois la revue politique et culturelle, nationale et identitaire, Synthèse nationale dirigée par Roland Hélie. Disposant d’un site Internet et tenant une manifestation annuelle de rencontres, d’échanges, de discussions et de réflexions dans la capitale, voilà qu’elle dispose dorénavant d’une maison d’éditions. Celle-ci vient de publier un ouvrage collectif d’auteurs français, espagnols, belges et hongrois. « Ce livre, écrit Roland Hélie, publié à l’occasion de la VIe Journée nationale et identitaire organisée par Synthèse nationale le 11 novembre 2012 à Paris » rassemble les réponses à quatre principales questions que leur pose le directeur du bimestriel.

La palette des intervenants est large. Elle témoigne de la diversité, de l’hétérogénéité même, du courant national et identitaire. On a la surprise de ne compter que 28 signatures, mais trente est un nombre rond plus satisfaisant. En plus, il faut prendre en compte l’introduction de Roland Hélie et le trentième point de vue est nécessairement celui du lecteur. Si l’on établit une typologie – sommaire et un peu grossière – des tendances qui s’y expriment, on remarque que le royalisme n’a qu’un seul représentant : Franck Abed. Les nationaux sont cinq (Francis Bergeron, Pierre Descaves, Bruno Mégret, Martin Peltier et Jean-Claude Rolinat), huit proviennent de la « nébuleuse néo-droitiste » (Gabriele Adinolfi, Patrick Parment, Philippe Randa, Gilbert Sincyr, Robert Spieler, Pierre Vial et deux rédacteurs réputés d’Europe Maxima, Pierre Le Vigan et Georges Feltin-Tracol), neuf du nationalisme sous toutes ses facettes (Serge Ayoub, Thibaut de Chassey,  André Gandillon, Olivier Grimaldi, Pieter Kerstens, Luc Pécharman, Alain Renault, Hervé Van Laethem et Gabor Vona, le président du Jobbik hongrois) et cinq sont hors-catégorie (Lionel Baland, Nicolas Gauthier, Dr Bernard Plouvier, Enrique Ravello) ainsi qu’un conservateur naïf, Marc Rousset, qui plaide pour l’espéranto comme langue de la construction européenne !
 
Comme il est habituel dans ce genre de livre, les réponses sont variées et inégales tant par leur pertinence que par leur qualité. On est en revanche heureusement surpris par la volonté de tous de remédier à la panne (à l’impasse ?) européenne. Si, pour Alain Renault, « la question “ européenne ” n’est plus seulement géographique mais avant tout biologique » du fait de l’immigration de peuplement, Patrick Parment constate que « les partis sont des gestionnaires de carrière », donc les premiers responsables de la nullité politique, alors que Franck Abed affirme avec justesse que « la République en France est le parti de l’étranger ».
 
Immigration et domination des formations politiciennes favorisent dans les faits un « désarmement moral, énonce Francis Bergeron, [qui] se juxtapose ou se confronte à l’expansionnisme idéologique (islam), territorial (immigration extra-européenne), démographique (forte natalité d’un côté, valorisation de l’avortement et de l’homosexualité de l’autre), moral (vision optimiste et dynamique, volonté entrepreneuriale d’un côté, et le “ tous fonctionnaires ”, de l’autre) ». Plus qu’économique, le mal qui frappe l’Europe est surtout existentiel. Notre continent « se trouve aujourd’hui au bas de l’échelle, dominée par n’importe quel État d’Asie, tout juste bonne à servir de musée et de parc d’entertainment aux touristes du monde, s’indigne Martin Peltier ». « Une civilisation meurt, ajoute Pierre Le Vigan, quand ses élites ne comprennent pas la nature d’un processus en cours, ou quand elles en sont complices – ce qui est le cas. Les élites sont le moteur du productivisme effréné, de la mondialisation capitaliste, de la consommation et consumation de la planète par l’homme. »
 
Par ailleurs, « l’Europe de Bruxelles, qu’il faut considérer comme illégitime car elle ne correspond pas à la volonté des peuples européens, bernés et domestiqués par un conditionnement mental permanent, subit les conséquences de sa dépendance à l’égard des forces mondialistes, estime Pierre Vial. Elle paie le prix de la perte de sa liberté ». Plus définitif encore, Enrique Ravello affirme que « l’actuelle Union européenne est le plus grand ennemi de l’Europe ainsi que des peuples et des pays qui la constituent : elle est mondialiste, néo-libérale et soumise aux États-Unis ». Cette américanisation des esprits lobotomisés fait dire à Nicolas Gauthier qu’« en tant qu’Européen de l’espèce maurrassienne, je me sens plus chez moi à Téhéran qu’à New York ».
 
Paradoxalement pourtant, la crise actuelle de l’Europe est plus que nécessaire, elle est même salutaire. « Par “ crise ”, rappelle Gabriele Adinolfi, nous entendons ce que le mot signifie au sens étymologique, c’est-à-dire passage, transformation, ou si vous voulez, un changement radical guidé du haut. » Le sursaut réclamé se traduira par une « Reconquête, prévient Robert Spieler, [qui] sera, sur tous les plans, européenne ou ne sera pas ». « L’Europe que nous voulons, déclare pour sa part Gilbert Sincyr, pourrait se définir en trois mots : identitaire, autonome et solidaire. » Le Vigan confirme le propos en prévenant qu’« il est temps de réhabiliter le local car l’universel qui prétendrait se passer du local tuerait la vie elle-même de sa chair ». « La fin de l’État-nation et de la démocratie (Adinolfi) » favorise la renaissance du local. « Face à la restructuration dirigiste, mondialiste, esclavagiste, classiste, supranationale, il est possible seulement de recréer l’organicité sociale à la base et d’agir pour que le changement en cours soit ancrée dans le local et encore pour que le local fasse aussi fonction de freinage dans la course culturelle et politique permettant qu’une souveraineté continentale, expression d’identités locales, surgisse à la place de la dimension cosmopolite (Adinolfi). »
 
Les contraintes du réel invitent à procéder par paliers successifs. « Le souverainisme national ne me paraît pas tenable à long terme, mais il peut être une étape avant de construire une Europe autocentrée, un protectionnisme européen, une maîtrise européenne des frontières, un souverainisme européen en d’autres termes, pense Le Vigan. » Si le cadre de l’État-nation fait défaut, agissons autrement. Pour Serge Ayoub, « Troisième Voie se concentre essentiellement sur la formation d’une communauté des travailleurs aptes à faire face à la crise. La B.A.D. (Base autonome durable), la pénétration syndicale, l’autonomisation économique par rapport au système, voilà des réponses adéquates à la situation économique que la France va affronter ».
 
L’action doit prendre de nouvelles formes. Gabriele Adinolfi nous suggère de « procéder dans un esprit néo-sorelien, mais aussi néo-gibelin, à la création de coopératives liées à des territoires donnés et aux catégories sociales. Il faut envisager la création de caisses d’épargne ou de banques de secours mutuel qui financent la production par les investissements des classes productives elles-mêmes. » L’objectif doit tendre vers « une Europe identitaire et solidariste (aux bons sens des termes) [qui] est la seule solution pour pouvoir sortir de cette crise », affirme Hervé Van Laethem qui juge que « seule une troisième voie économique entre le libéralisme sauvage et le dirigisme socialiste pourra nous sauver de ce qui s’annonce comme une tragédie sociale. Et seule une idéologie profondément anticapitaliste, comme l’est le solidarisme, permettra de mettre en place une telle politique ». Cette troisième voie est aussi défendue par Georges Feltin-Tracol qui assure que « notre Europe saura concilier la puissance et la décroissance et s’inspirera de l’expérience de Fiume avec Gabriele d’Annunzio, du modèle suisse et de l’exemple de la Corée du Nord ! ».
 
Ce livre impose finalement une « certitude, croit Roland Hélie : la fin de notre civilisation et de notre identité ne sont pas une fatalité ». Espérons que nos compatriotes européens prendront conscience des périls et riposterons le moment venu.

Bastien Valorgues
 
Sous la direction de Roland Hélie, Face à la crise : une autre Europe ! 30 points de vue iconoclastes, Les Bouquins de Synthèse nationale (116, rue de Charenton, F – 75012 Paris), 2012, 163 p., 18 €.

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

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Carlo Galli, "Leviatano di Thomas Hobbes"

Carlo Galli, "Leviatano di Thomas Hobbes",

16 settembre 2011

 

vendredi, 18 janvier 2013

Soirée Livr'arbitres à Paris

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Konstantin Nikolajewitsch Leontjew

Konstantin Nikolajewitsch Leontjew,

„Kassandra des Zarentums” I:

Biographie eines russischen Reaktionärs

von David Beetschen

Ex: http://www.blauenarzisse.de/

Leontjew.jpgDer russische Schriftsteller, Religionsphilosoph und Aristokrat Konstantin Nikolajewitsch Leontjew galt vielen seiner Zeitgenossen als schwärzester Reaktionär. Und anders als sein kolumbianisches Pendant Nicolás Gómez Dávila sah Leontjew die Welt, abwechselnd als Arzt, Diplomat, Philosoph und Mönch. Das Leben dieses Reaktionärs war, im Vergleich zu dem von Dávila also extrem spannend. Und eine Gestalt wie die seine kann auch Leitfaden für das eigene Leben sein.

Die letzte seiner „9 Thesen“ lautet: „Der Zweck des menschlichen Lebens ist nicht Fortschritt, d.h. eine Vergrößerung des Wohlergehens der Masse und des individuellen Glücks der Person, sondern die geistige Vervollkommnung zur Verwirklichung des Reiches Gottes.“
Seine reaktionäre Gestalt ist es wohl auch, die, trotz der strengen Orthodoxie des Russen, das Bindeglied zwischen ihm und dem kolumbianischen Philosophen und Reaktionär Dávila darstellt. Dávila zeigte sich sehr fasziniert von Leontjew. Mit ihm teilt er auch noch einige andere philosophische Eigenheiten, die an späterer Stelle noch erwähnt werden sollen.

Geburt eines Adligen

Leontjew kam am 13. Januar 1831 als siebtes und letztes Kind der Familie Leontjew auf dem Landsitz Kudinowo südlich von Moskau zur Welt. Deren Landeigentum ging jedoch wegen des aufkommenden Kapitalismus und der Abschaffung der Leibeigenschaft langsam ein. Diese beiden historischen Umstände führten dazu, dass die Familie in den Bankrott getrieben wurde.

Sein Vater, ein eher wenig gebildeter Mann, der früh den Dienst quittierte, damit er sich um das Gut kümmern konnte, und seine Mutter, die Tochter eines Generals, die in einem Institut für adlige Mädchen ihre Ausbildung genoss, erzogen den Jungen. Die Mutter wirkte jedoch stärker auf ihn ein, weil sie ihn bis zu seinem zehnten Lebensjahr zu Hause ausbildete. 1841 trat Leontjew ins Gymnasium in Smolensk ein, das er bis zum Herbst des Jahres 1843 besuchte. Im selben Jahr wechselte er ins Kadettenkorps des Adelsregiments. Durch eine Krankheit musste er jedoch die Militärlaufbahn aufgeben und wechselte anschließend wieder auf ein normales Gymnasium in Kaluga. Dieses schloss er 1849 ab und immatrikulierte sich darauffolgend, ohne Aufnahmeprüfung, im Herbst an der Universität in Jaroslaw, wo er ein Medizinstudium aufnahm. Im Winter desselben Jahres zog es Leontjew jedoch an die Universität von Moskau. Dort setzte er sein Studium fort.

Als Arzt im Krimkrieg

Wegen des Russisch-​Türkischen Krieges in der Krim und dem dort herrschenden Ärztemangel bot die Regierung allen Medizinstudenten, die bereits im achten Semester waren, an, sie beim sofortigen Übertritt auf den Kriegsschauplatz zum Arzt zu ernennen. Außerdem wollte der Staat ihnen dort das doppelte Gehalt zahlen. Am 1. August des Jahres 1854 erhielt Leontjew den Posten eines Assistenzarztes im Kriegslazarett in der Festung Jenikale im nordwestlichen Teil des ukrainischen Kertsch.

Als der Krieg 1856 mit der russischen Niederlage endete, verbrachte Leontjew zunächst eine unbeschwerte Zeit auf der Krim, bis der russische Staat ihn im August des Jahres 1857 aus dem Kriegsdienst entließ.

Erste Versuche in der Schriftstellerei, Arbeit als Übersetzer aus dem Deutschen

Im Frühling 1858 wurde er bei der Familie des Barons Dimitrij von Rosen Hausarzt, blieb dort aber nur bis Ende 1860, weil er zu einem seiner Brüder nach St. Petersburg ging. Dort widmete er sich der berufsmäßigen Schriftstellerei, welche ihm jedoch keine sicheren Einnahmen einbrachte. Aus diesem Grund übersetzte er Artikel aus der deutschen Sprache und unterrichtete als Lehrer, damit er sich mit liquiden Mitteln versehen konnte.

Heirat und diplomatisches Leben am Rande zum Orient

1861 heiratete er im Herbst die aus einfachen Verhältnissen stammende Halbgriechin Julia Politof. Nach einem neunmonatigen Dienst als Kanzleibeamter im Asiatischen Departement des Ministeriums des Äußeren, wurde er im Herbst 1863 als Sekretär und Dolmetscher ins russische Konsulat auf der Insel Kreta beordert. Dort lernte er das orientalische Leben und dessen Kultur schätzen. 1867 beförderte der Staat Leontjew sogar zum Vize-​Konsul der Donauprovinzen.

1868 war ein weiteres einschneidendes Jahr für ihn, denn er wurde Konsul in Saloniki und es gab erste Anzeichen dafür, dass seine Frau an einer Geisteskrankheit litt. In diese Zeit fällt auch Leontjews Abwendung vom Liberalismus hin zum religiösen Konservatismus.

Rettung durch die Gottgebärerin

1871 besuchte er den Mönchsberg Athos, weil er dies geschworen hatte, als er an einer sehr schweren Krankheit litt. Damals rief er die Gottgebärerin an und versprach ihr diesen Besuch im Falle seiner Genesung. Er bat dann auf dem Athos um die Mönchsweihe, welche ihm jedoch die Mönche aufgrund vermuteter Unreife verweigerten. Ab 1873 lebte Leontjew in Konstantinopel, kehrte jedoch im Frühling 1874 bereits wieder nach Moskau zurück und ging ins Kloster Optina Pustyn bei Koselsk.

Leontjews erstes Treffen mit dem wesentlich jüngeren Wladimir Solowjew, einem bekannten Philosophen und Befürworter der Vereinigung der wahren Kirchen, der Orthodoxie und der Katholizität, fand im Jahre 1878 statt, aus dem eine fruchtbare Freundschaft entstand, die beide positiv prägte.

Zensorposten, Mönchsweihe und Tod eines Reaktionärs

Aus Warschau erhielt er 1879 eine Einladung von Fürst Golitzin, der ihn darum bat nach Warschau zu kommen, um ihm dort bei der Arbeit an der Zeitschrift Warschawskji Westnik zu helfen. Bald musste sie aber wegen finanzieller Problemen eingestellt werden. Leontjew selbst hatte ebenfalls große finanzielle Probleme, was ihn dazu nötigte einen Regierungsposten als Zensor anzunehmen, welchen er von 1880 bis 1887, dem Jahr seiner Pensionierung, bekleidete. Am 23. August 1891 war es dann trotzdem soweit für ihn und man gewährte ihm die Teilnahme an der geheimen Mönchsweihe in Optina Pustyn.

Er akzeptierte den Rat eines für ihn zum geistigen Führer und manchmal auch Geldgeber gewordenen Starez Amworsijs, der ihm sagte, dass er in das Dreifaltigkeitskloster von Sergijew Possad bei Moskau gehen solle. Hier verbrachte er dann noch seine letzten Tage, denn er starb bereits am 12. November 1891 im Alter von 60 Jahren an einer Lungenentzündung. Seine körperlichen Überreste wurden auf dem Klosterfriedhof in einer Mönchskutte beigesetzt.

Konstantin Nikolajewitsch Leontjew,

„Kassandra des Zarentums” II:

Der „ästhetische Amoralist”

leont418Z1EGE6JL.jpgWenn Konstantin Nikolajewitsch Leontjew schreibt, schlagen Bomben ein, die Schläfer wachrütteln und das Hässliche als Ziel haben: „O verhasste Gleichheit, o gemeine Gleichmacherei! O dreimal verfluchter Fortschritt! O furchtbarer, mit Blut getränkter, doch malerischer Berg der Weltgeschichte! Vom Ende des 18. Jahrhunderts an liegst du in den Wehen einer neuen Entbindung, aber aus deinem gequälten Schosse kriecht eine Maus hervor.“ Er war wohl einer der wenigen, neben Peter Ernst von Lasaulx oder Carl Friedrich Vollgraff, die im 19. Jahrhundert eine eigene pessimistische Geschichtsphilosophie entwarfen.

Der kolumbianische Katholik und Reaktionär Nicolás Gómez Dávila war im Besitz der russischen Originalausgabe Leontjews, konnte sie aber, gegen seine Gewohnheit Schriften im Original zu lesen, nicht verstehen, da er der russischen Sprache nicht mächtig war. Er kannte Leontjews Theorien jedoch aus Übersetzungen. Dávila veröffentlichte über Leontjews Werken folgenden Spruch Petrarcas, der Homer nicht in der Originalsprache lesen konnte: „Ich freue mich an dem blossen Anblick des Buches, drücke es oft an mein Herz und seufze: du grosser Mann, wie begierig hätte ich dir zugehört!“

Vom liberalen Demokraten zum „schwärzesten Reaktionär“

Leontjew war geprägt von der orthodoxen Christlichkeit: „Dem Christentum müssen wir helfen, selbst auf Kosten unserer geliebten Ästhetik, aus transzendentem Egoismus, aus Furcht vor dem jenseitigen Gericht, zur Erlösung unserer eigenen Seelen. Dem Fortschritt aber müssen wir uns, wo nur möglich, widersetzen; denn er ist ebenso für das Christentum wie für die Ästhetik schädlich.“ Dies erkannte er jedoch erst nachdem er einen Wandel gemacht hatte, vom liberalen Demokraten zum „schwärzesten Reaktionär“. Selbst zwei der größten literarischen Geister seiner Zeit, Tolstoj und Dostojewski, kritisierte er und warf ihnen vor, dass sie ein philanthropisches „Rosenwasser-​Christentum“ predigen, das mehr Häresie als wahrer Glaube sei.

Ein orthodoxer Anhänger des Papstes

Leontjew wurde von seinem Freund Solowjew davon überzeugt, dass es überaus wichtig sei, dass sich die katholische und die orthodoxe Kirche wieder verbinden. Im Gegensatz zu Solowjew hatte Leontjew jedoch nie seinen Glauben gewechselt und blieb orthodox, trotz solcher Aussagen: „Ich verheimliche Ihnen meine Schwäche nicht, die päpstliche Unfehlbarkeit gefällt mir persönlich enorm. Der Starez der Starzen!“ In der Ostkirche werden die mönchisch lebenden Lehrer und spirituellen Begleiter der Novizen und Laien Starzen genannt. „Wäre ich in Rom gewesen, hätte ich nicht gezögert, nicht nur die Hand Leos XIII., sondern auch seinen Fuss zu küssen. Der römische Katholizismus gefällt meinem aufrichtigen despotischen Geschmack wie auch meiner Zuneigung zum geistlichen Gehorsam, und wegen vieler anderer Gründe zieht er mein Herz und meine Vernunft an“, jubelte Leontjew.

Die Theorie der sekundären vermischenden Vereinfachung

Leontjew könnte als ein „Spengler vor Spengler“ gelten, denn es bestehen einige Ähnlichkeiten zwischen beiden Geschichtsphilosophien. Zum Beispiel bemisst Spengler die Existenzdauer einer Kultur auf circa 1000 Jahre, Leontjew dagegen die eines Staatsgebildes auf die gleiche Zeit. Die Gedankengänge des russischen Reaktionärs beruhen auf seinen, von der studierten medizinischen Wissenschaft geschulten, Ansichten der Pathologie und Embryologie. Diese Ansichten übertrug er sogar auf nicht-​organische Körper, beispielsweise ganze Planeten. Seine Geschichtsphilosophie gliedert die Entwicklung in drei Stadien, hier direkt mit dem Beispiel eines Planeten:

- die primäre Einfachheit, solange er sich in Gestalt von gasartiger oder feuerflüssiger Masse befindet

- ein mittleres Stadium der Kompliziertheit, wenn er zu einem feuerflüssigen Kern mit fester Kruste geworden ist, auf der sich Wasser und trockenes Land scheiden und Pflanzen und Lebewesen gedeihen

- die sekundäre vermischte Einfachheit, wenn er sich in eine kalte, leere Stoffmasse verwandelt hat, die fortfährt, um die Sonne zu kreisen

Diese Theorie übertrug er auf die Menschheitsgeschichte, wobei er aber zwischen einer Kultur, ihrem Volk und ihrem Staat unterschied:

- Die Kultur an sich lebe länger als das Volk, das sie hervorgebracht habe, insbesondere der unzerstörbare geistige Keim. Er gehe in andere Völker über, die aus dem Untergang einer Kultur entstanden seien.

- Die Völker würden eine geraume Zeit als ethnographische Masse bestehen. Seiner Meinung nach würden Völker existieren, bevor sie in die Arena der Geschichte eintreten und noch sehr lange zwischen anderen Völkern bleiben, nachdem ihre staatliche Form zerstört wurde.

- Am kürzesten existiere die Staatsform eines Volkes, die die äußere Umhüllung und das innere Gewebe dieser ethnographischen Masse bilde. Die Staatsform werde nicht auf einmal geschaffen, sondern enthülle sich erst im Verlauf des mittleren Stadiums der wachsenden Komplexität.

Dies kann nur ein grober Abriss seiner Geschichtsphilosophie sein, deren Analyse wohl einen ganzen Band füllen könnte ? insbesondere mit Querverweisen zu anderen Personen. Es ist jedoch anzunehmen, dass er diese Theorie unbeeinflusst aufgestellt hatte und wohl auch wegen seiner Unbekanntheit niemanden damit beeinflusste.

Nichtgleichberechtigung als Grundlage von Kulturen

Nach Leontjew könne man in allen Staatswesen qualitativ verschieden soziale Elemente erkennen. Außerdem verrate dies, dass die Trennung der Bürger in nichtgleichberechtigte Gruppen der natürliche Zustand des Menschen sei. Aus seiner oben beschriebenen Theorie leitete er ab, dass die Kulturschöpfung erst in der zweiten Phase der Verkomplizierung eintrete. Diese gehe von einem Stand aus, der privilegiert sei und über mehr Kraft verfüge als die anderen. Der Niedergang dieses Standes, bei der sekundären vereinfachenden Vermischung, führe ebenfalls zum Absinken des Wertes einer Kultur. Der Staat sei wie ein Baum, der zu seiner maximalen Größe heranwächst, Blüten und Früchte trage sowie einer inneren Idee unterliege, die in ihm despotisch herrscht.

Leontjew erkannte durch seine Theorie, dass man bis zur mittleren Epoche Fortschrittler sein müsse, ab der mittleren jedoch zum Konservativismus übergehen sollte. Die Progressiven würden in dieser Zeit nur zerstörerisch wirken. In der letzten Epoche jedoch triumphieren die Progressiven. Aber die Reaktionäre seien mit ihrer Meinung im Recht, dass man den sozialen Organismus stärken und heilen sollte. Leontjew warnte vor einem bloßen Festhalten an der Vergangenheit: „Jetzt bloß konservativ sein, wäre nicht der Mühe wert. Man kann die Vergangenheit lieben, aber man darf nicht daran glauben, dass sie auch nur in ähnlicher Form wieder aufleben wird.“ Da sich der Lauf der Geschichte nicht aufhalten lasse, bleibe nur übrig, an den „Fortschritt“ zu glauben. Jedoch solle diesem mit Pessimismus, nicht mit Optimismus begegnet werden, weil er lediglich eine Umformung der Bürden des menschlichen Leidens hervorbringe.

Leontjew prophezeite den Bolschewisten als „den Typ eines unschädlichen, fleißigen, jedoch gottlosen Durchschnittsmenschen“

Leontjew sagte eine „entsetzliche föderative Arbeiterrepublik“, die nach dem Zusammenbruch Russlands aus dessen Trümmern erstehen würde, voraus. Dazu meinte er: „Zur Stunde erscheinen die Kommunisten (und vielleicht die Sozialisten) als extreme, schrankenlose Liberale (die vor Rebellion und Verbrechen nicht zurückschrecken).

Sie verdienen hingerichtet zu werden.“ Das Ziel dieser Revolution sei jedoch nicht die Schreckensherrschaft, sondern die allgemeine Vermischung, die „den Typ eines unschädlichen, fleißigen, jedoch gottlosen Durchschnittsmenschen“ hervorbringen werde. Er wusste, dass eine vollkommene Anarchie, die die Revolution zuerst gebäre, niemals von Dauer sein könne. Eine volle Gleichheit der Rechte, des Besitzes etc. sei von Natur aus unmöglich. Vielmehr führe dieser Irrglauben dazu, dass die Praxis des Sozialismus diesen umwandeln werde und eine neue Ordnung erschaffe, inklusive einer neuen „Ungleichheit“.

Dahingehend würden die Kommunisten unbewusst an der reaktionären Neuordnung der Geschichte arbeiten, worin ihr indirekter Nutzen bestehe. Jedoch bestehe darin eben nur ihr Nutzen, nicht der Verdienst. Denn weil das neue Haus vielleicht schöner werden würde, heiße das noch lange nicht, dass es rechtmäßig sei, wenn der unvorsichtige Bewohner oder der Brandstifter es anzünden würden.

Ästhetischer Amoralismus

Ihr müsst verstehen, es kommt nicht darauf an, dass man durch väterliche Fürsorge das Böse beseitige, sondern dass man ihm die gesammelte Kraft des Guten gegenüberstellte“, schrieb er. Gewisse Menschen schockiert Leontjew trotzdem, wenn er behauptet, dass man das Böse in der Gesellschaft brauche, das Leid der Menschen, die Sklaverei, die Armut und den Hunger. Er differenzierte das Leiden: in das von Rechtsverletzung, Schlaffheit und schmutziger Bestechung erzeugte sowie jenes Leiden einer höheren Art, das auf Grund leidenschaftlicher, menschlicher Triebe geschehe. Er begründete aber diese Ansichten damit, dass es nur Gutes geben könne, also Barmherzigkeit, Opferbereitschaft und Nächstenliebe, wenn das Böse vorhanden sei, gegen das sich die christlichen Tugenden wenden könnten.

Erst das Leid rufe den Heroismus wach. Aber in einem utilitaristisch-​bourgeoisen Zeitalter, wo man das Leid aus der Gesellschaft verschwinden lasse, gehe alles in die sekundäre vereinfachende Vermischung über und werde so zu einem Klumpen aus Menschenfleisch ohne Differenzierung. Leontjew empfand den Triumph des spießbürgerlichen Ideals als Verspottung der menschlichen Geschichte. Wie Dávila verband er die Ästhetik mit der Ethik und beschrieb das Hässliche, der undifferenzierte Planetenklumpen, als das Böse und das Schöne, die Differenzierung und Buntheit des Lebens, mit allen Übeln und Schrecknissen, als das Gute. Damit erfasste der russische Reaktionär die Welt in ihrer ganzen Komplexität ? ohne Scheuklappen und Augenwischerei.

Carlo Galli: Il nomos de la Terra di Carl Schmitt

Carlo Galli: Il nomos della Terra di Carl Schmitt

Regards sur la Syrie avec Ayssar Midani et Claude Beaulieu

 

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Bonjour.
 
 
Les associations suivantes: "Les Amis du Monde Diplomatique", "Le Comité Valmy" et le "Comité pour une Nouvelle Résistance-CNR" organisent une grande conférence sur la situation en Syrie le mercredi 30 janvier 2013 de 18h à 21h à la Maison des Associations au 12 place Garibaldi à Nice.
 
Le titre de cette conférence est celui paru dans le Monde Diplomatique du mois de janvier 2013 sous le titre suivant:
 
 
Regards sur la Syrie avec
Ayssar Midani et Claude Beaulieu
 
 
Quelques éléments pour présenter les conférenciers.
  • Ayssar Midani  est une franco-syrienne, elle va très souvent dans ce pays et elle connait très bien la situation. Elle est de formation scientifique, présidente d'une association de scientifiques syriens expatriés, Nosstia, présidente d'une association culturelle euro-syrienne, Afamia, et membre de plusieurs associations de défense de la Palestine. Elle  vit et travaille en France comme directeur de projets de systèmes d'information, de réorganisation et conduite du changement.
    > Elle va régulièrement en Syrie, 3 a 4 fois par an, et y organise formations, congrès et workshop scientifiques et techniques. Elle vient d'y passer 4 mois en 2012.
 
  • Claude Beaulieu  militant de sensibilité communiste  est le président du "Comité Valmy". Ce dernier, organisation pluraliste s'inspirant de la Résistance,  a été crée dans une dynamique qui prend ses racines dans le combat contre la ratification du traité de Maastricht . Claude Beaulieu est un connaisseur des problèmes du Moyen-Orient. Il a été un des premiers à se rendre en Syrie  en novembre 2011. Avec Ayssar Midani, il est l'un des fondateurs de la Coordination pour la souveraineté de la Syrie et contre l'ingérence étrangère constituée début janvier 2013.
     
Les axes principaux de cette soirée: 
  1. Revue historique et Importance Géostratégique de la Syrie
  2. Situation économique et politique en Syrie  jusqu'à la veille des évènements
  3. Historique des évènements et rôles des différentes parties 
  4. Témoignage du séjour en Syrie de Claude Beaulieu 
  5. Terrorismes,, Sanctions, Réformes,vie du peuple sous le poids des privations et du terrorisme 
  6. Appel pour aider le peuple syrien.
 
Des précisions importantes.
 
L'article 1 de la Charte des Nations unies consiste à affirmer le droit des peuples à disposer d'eux-mêmes. Cela signifie le rejet de toute ingérence étrangère. Toute intervention militaire sous quelque forme que ce soit est une violation de ce droit fondamental  élaboré après la seconde guerre mondiale afin de garantir la paix entre les différents états.
 
Faut-il rappeler que de nombreux juristes français, René Cassin par exemple, ont participé à la rédaction de ce texte essentiel?
 
Les représentants français étaient tous issus de la Résistance. Stéphane Hessel a aussi participé à la rédaction de la charte des droits de l'homme.
 
Faut-il rappeler que ce texte s'inspirait largement de la fameuse déclaration universelle des droits de l'homme que les révolutionnaires français ont apporté à l'humanité en 1789?
 
Faut-il rappeler que la politique étrangère de la France sous l'impulsion du général de Gaulle a appliqué ces principes là?
 
Faut-il rappeler que la fameuse politique arabe de la France consistait à respecter le droit international inscrit dans la Charte de l'ONU?
 
Sommes-nous toujours dans ce strict respect du droit international accepté par tous les états après la seconde guerre mondiale?
 
L'ONU est fondée sur le principe de l'égalité souveraine de tous ses membres.
 
Les membres de l'Organisation, afin d'assurer à tous la jouissance des droits et avantages résultants de leur qualité de membre, doivent remplir de bonne foi les obligations qu'ils ont assumées au terme de la Charte.
 
Les membres de l'Organisation règlent leurs différents internationaux par des moyens pacifiques, de telle manière que la paix et la sécurité internationales ainsi que la justice ne soient pas mises en danger.
 
Les membres de l'Organisation s'abstiennent, dans leurs relations internationales, de recourir à la menace ou à l'emploi de la force contre l'intégrité territoriale ou l'indépendance politique de tout état.
 
 
A bientôt j'espère
 
Lucien PONS
 
 
 
Nota:
 
Faites circuler ce message le plus possible SVP!!!
 
Amicalement.
Groupe-Média Syrie
 
Twitter: @MWSyria

Des souvenirs sur une Alsace-Lorraine allemande

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Des souvenirs sur une Alsace-Lorraine allemande

par Georges FELTIN-TRACOL

Dans le climat d’inculture généralisée qui ne cesse de s’étendre dans un Hexagone noyé par les écrans de la bêtise voulue et du divertissement marchand de la vacuité ambiante, il importe de saluer deux sympathiques éditeurs lorrains qui copublient les moments alsaciens extraits des Mémoires (1925) du prince Alexandre de Hohenlohe-Schillingsfürst (1862 – 1924). Cette parution opportune éclaire une période méconnue de cette terre qui fut allemande entre 1871 et 1918.

 

Président de l’équivalent germanique du conseil général de Haute-Alsace en 1903 et fils de Clovis de Hohenlohe-Schillingsfürst (1819 – 1901), ancien gouverneur de la région et futur chancelier impérial, Alexandre appartient à une très vieille famille dont « l’anoblissement […], attesté au XIIe siècle, était antérieur à celui des Hohenzollern ! (p. 11) ». Esprit cultivé, francophone et ne cachant pas sa francophilie, ce prince allemand se retrouve au contact quotidien avec ses administrés alsaciens.

 

Le témoignage qu’il laisse dépeint une Alsace-Lorraine ignorée des Français. Ses souvenirs contestent les clichés et autres poncifs diffusés par une historiographie parisienne pédante et revancharde. Il souligne l’influence prépondérante dans les campagnes alsaciennes de l’Église catholique et relève qu’à la veille de la Grande Guerre, le mouvement protestataire francophile est largement minoritaire dans les urnes.

 

L’échec de ce mouvement subversif soutenu clandestinement par Paris ne signifie pourtant pas une adhésion sincère au modèle allemand. Bien au contraire ! Il remarque, d’une part, que « dans l’ensemble, l’Alsace-Lorraine était aussi éloignée de Berlin qu’une colonie africaine ou qu’une station navale d’Extrême-Orient (pp. 63 – 64) » et, d’autre part, que « l’« Alsacien-Lorrain » était une entité qui n’existait que sur le papier En réalité, l’Alsacien est aussi différent du Lorrain que, par exemple, un Normand peut l’être d’un Picard (p. 53) ».

 

Si les protestataires régressent de scrutin en scrutin, la « résistance » à l’assimilation germano-prussienne persiste et s’accentue même. Alexandre de Hohenlohe observe que les jeunes gens des milieux aisés de Strasbourg, de Colmar et de Mulhouse « étaient Français de cœur (p. 55) ». En revanche, il ne retrouve pas cette inclination « dans la population paysanne [où] la plupart avaient des sentiments alsaciens (p. 55) ». La présence française demeure prégnante et l’auteur regrette la fondation d’une université à Strasbourg parce qu’elle la renforce paradoxalement. Il aurait été préférable que les futures élites étudient dans les universités réputées d’outre-Rhin, à Heidelberg ou Fribourg…

 

Son pragmatisme s’appuie sur ses échanges permanents avec les milieux économiques, en particulier les industriels Jean Schlumberger (1819 – 1908) et Édouard Köchlin (1833 – 1914). Le prince de Hohenlohe constate en effet que « chez tous les Alsaciens des hautes classes, on ne parlait que français (p. 41) » si bien qu’il emploie souvent la langue de Molière lors des rencontres privées !

 

Les élites alsaciennes ne se formalisent pas du maintien implicite du français ! Pour preuve, Hugo Zorn von Bulach (1851 – 1921) qui, même devenu responsable politique régional, « ne possédait l’allemand qu’imparfaitement, ce qui le gênait parfois beaucoup dans ses interventions publiques au Parlement, surtout quand on est décrété la publicité des débats et l’usage de la langue allemande à la Délégation d’Alsace. Malgré cela, pour plus de commodité, les députés se servaient encore du français et du patois alsacien dans les séances des commissions (p. 41) ». Situation impensable dans la République française une et indivisible…

 

Alexandre de Hohenlohe ajoute qu’« il a dû être plus d’une fois pénible à ceux qui étaient d’un âge avancé de se trouver en état d’infériorité vis-à-vis des représentants du gouvernement, par suite de leur connaissance défectueuse de la langue allemande. Chose étonnante, quelques-unes d’entre eux, qui pourtant n’avaient pas appris un mot d’allemand dans leur jeunesse avaient réussi, à force d’application et de persévérance, à s’exprime couramment dans cette langue (p. 41) ». Un bilinguisme, voire un trilinguisme, existait donc de facto.

 

Cette situation linguistique originale découle de la spécificité institutionnelle de l’Alsace-Lorraine annexée lors du traité de paix de Francfort de 1871 par l’Empire allemand naissant. Les trois anciens départements français deviennent un Reichsland, ce qui signifie que le jeune État fédéral-impérial en est le propriétaire indivis. Par conséquent, cette « Terre d’Empire » est placée sous l’autorité directe de l’empereur allemand et de son chancelier impérial. Toutefois, le Reichsland bénéficie d’une certaine liberté administrative avec un représentant de l’empereur, le Reichsstatthalter, « littéralement “ celui qui tient lieu ”, le Statthalter fait plus figure de régent que de gouverneur dans ses attributions (p. 20) ». Nommé par Berlin, il préside à Strasbourg le Conseil d’État d’Alsace-Lorraine, dirige un proto-gouvernement régional (quatre secrétaires d’État pour l’Intérieur, la Justice et les Cultes, les Finances et les Domaines et l’Industrie, l’Agriculture et les Travaux publics) et négocie avec la Délégation d’Alsace-Lorraine (Landesausschuss) de trente, puis de cinquante-huit élus au suffrage indirect entre 1874 et 1911. On est loin de la gestion despotique du centralisme parisien.

 

En 1911, le Kaiser Guillaume II accorde à l’Alsace-Lorraine une constitution locale. Le Reichsland devient le vingt-sixième État de la Fédération impériale et son Landesausschuss se transforme en un Parlement bicaméral constitué d’un Sénat de quarante-six membres désignés par l’empereur et les corps intermédiaires locaux, et d’une Assemblée régionale de soixante élus au suffrage universel direct masculin. Le déclenchement de la folle tragédie européenne de 1914 suspendra ces libertés régionales.

 

Alexandre de Hohenlohe se montre très favorable à toute solution neutraliste. « Dès avant 1914, rappelle Laurent Schang dans une belle introduction, [il] s’était prononcé en faveur de la constitution du Reichsland Elsass-Lothringen en État neutre autonome assortie d’un référendum d’autodétermination (p. 13). » Il s’agissait surtout d’éviter tout nouveau drame franco-allemand. Il regrette que Berlin ait finalement choisi la voie du Reichsland pour l’Alsace-Lorraine alors que d’autres solutions étaient à ses yeux possibles. Il en esquisse certaines : une tutelle paternaliste comme le fit son père, Statthalter avant de devenir chancelier, une large autonomie opérée dès 1874 ou 1875 ou, plus surprenant, le partage du territoire alsacien-lorrain entre les principaux États fédérés allemands (Prusse, Bavière, Bade, Wurtemberg). L’auteur de ces Souvenirs a compris que la perte de l’Alsace-Lorraine rend la France inguérissable. Il n’accuse pas Bismarck de cette erreur. « Bismarck pressentait bien les conséquences désastreuses que l’annexion de l’Alsace-Lorraine allait voir pour la politique européenne, avec un caractère comme celui du peuple français. Il voyait plus loin que les généraux, pour qui seules les considérations stratégiques entraient en ligne de compte, mais le côté tragique du grand génie politique qu’a été Bismarck, c’est qu’il n’a pu se libérer de la croyance en la force et en l’épée et qu’il a sous-estimé la puissance des valeurs morales en politique. C’est ainsi que l’avis de Moltke prévalut finalement et que la “ Terre d’Empire ” devient le “ glacis ” de l’Empire (p. 67). »

 

L’auteur sait qu’en 1866, après la victoire prussienne à Sadowa, le futur « Chancelier de Fer » avait pesé de tout son poids pour que le roi Guillaume Ier ne se rangeât pas du côté d’un état-major imbu de pensées frédériciennes qui rêvait de s’emparer de contrées autrichiennes. En 1870, la pression était trop forte pour résister frontalement à l’opinion des militaires victorieux… « On ne lira qu’avec plus d’intérêt ces pages grosses de nostalgie, desquelles émerge le regret d’une soudure “ germano-alsacienne-lorraine ” en bonne voie, sinon achevée, au seuil de la Première Guerre mondiale  (p. 12) », écrit Laurent Schang à propos de ce beau témoignage d’un Européen de langue allemande sur une région-charnière d’Europe occidentale.

 

Georges Feltin-Tracol

 

• Prince Alexandre de Hohenlohe, Souvenirs d’Alsace-Lorraine 1870 – 1923, Introduction et notes de Laurent Schang, traduction d’Edmond Dupuydauby, Édition des Paraiges (4, rue Amable-Tastu, 57000 Metz) – Le Polémarque Éditions (29, rue des Jardiniers, 54000 Nancy), Metz – Nancy, 2012, 77 p., 10 € (+ 5 € de frais de port), à commander aussi sur les sites des éditeurs.

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

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jeudi, 17 janvier 2013

Pétition pour une protection de l’apiculture et des consommateurs face au lobby des OGM

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L’impossible coexistence « OGM / apiculture » établie par la justice

Depuis l’apparition des premières cultures d’OGM en Europe il y a quelques années, les apiculteurs ne cessent d’alerter les pouvoirs publics sur l’impossible coexistence entre ces cultures et l’apiculture. Sous l’influence du lobby OGM et semencier, la Commission Européenne et les autorités nationales sont jusqu’à présent restées sourdes à cet appel.

Or, un apiculteur allemand qui a constaté la présence de pollen de maïs OGM MON 810 dans son miel a intenté une action en justice. Le 5 septembre 2011, la Cour de Justice de l’Union Européenne (CJUE) a décidé qu’un tel miel ne pouvait pas être commercialisé [1].

Nos gouvernants ne peuvent donc plus feindre d’ignorer cette réalité : l’autorisation de cultures d’OGM en plein champ serait fatale à l’apiculture (miel, pollen, propolis) et à l’abeille.

Gare aux manigances

petabeilles.pngLes consommateurs européens ne veulent pas d’OGM dans le miel. La prise de conscience environnementale est devenue telle que la Commission Européenne ne peut prendre le risque de sacrifier délibérément l’abeille au profit de multinationales. Depuis la décision de la CJUE, les tractations vont pourtant bon train.

L’arrêt de la Cour de Justice s’appuie sur le fait que le pollen de maïs MON 810 n’est pas autorisé à la consommation humaine. Des manipulations juridiques qui permettraient de contourner cette interdiction dans le cas du miel sont à l’étude, au mépris de la transparence exigée par les consommateurs.

Seule solution : le moratoire

La coexistence des cultures OGM en plein champ et de l’apiculture est impossible. Personne ne peut plus ignorer cette réalité.

L’abeille est un élément indispensable de l’environnement, de la biodiversité, et un atout incontournable pour la pollinisation de nombreuses cultures. Déjà mise à mal par la pression des pesticides, elle pourrait tout bonnement disparaître de nos campagnes par décision politique, ou être accusée de disséminer les pollens OGM !

Face à ce risque inadmissible, nous demandons instamment à John Dalli, Commissaire européen à la Santé et à la Consommation, et à nos décideurs européens et nationaux de protéger l’abeille, l’apiculture et les professionnels de l’apiculture et de :
- suspendre immédiatement et ne pas renouveler l’autorisation de culture en plein champ du maïs MON 810,
- bloquer l’avancée de tous les dossiers de plantes génétiquement modifiées nectarifères ou pollinifères,
- faire évaluer rigoureusement l’impact des plantes transgéniques sur les ruchers, notamment les couvains et les abeilles hivernales, et de rendre publics tous les protocoles et résultats
- respecter le droit à la transparence pour les consommateurs.

Le miel et les produits de la ruche doivent rester des aliments sains et naturels.

Signez la pétition !

Pour une protection de l’apiculture et des consommateurs face au lobby des OGM


Nous nous engageons à ne pas céder à des tiers les données personnelles des signataires de la pétition. Vos données ne seront pas utilisées en dehors du cadre des activités du site www.ogm-abeille.org.

 

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Islamkritik – Leitideen und Einwände

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Islamkritik – Leitideen und Einwände

Karlheinz Weißmann

Ex: http://www.sezession.de/

(Der Text ist in Teilen ein Auszug aus der Studie Ist der Islam unser Feind? [3], die im Institut für Staatspolitik erarbeitet wurde.)

Vor einigen Jahren machte in Rußland der Roman Moschee der Notre-Dame von Paris Furore. Die Autorin, Jelena Tschudina, schildert in dieser Dystopie das Europa des Jahres 2048: von der Dynastie der Wahhabiten beherrscht, die den letzten Papst zur Abdankung gezwungen und die Scharia eingeführt haben.

Die Überlieferung des Abendlandes ist zu diesem Zeitpunkt längst zerstört, seine Kunstwerke vom moslemischen Mob geschändet, seine Musik verboten, der Vatikan in eine Müllkippe verwandelt. Die neuen Herren haben die Ureinwohner auf den Status von Fellachen herabgedrückt und nehmen sich deren Töchter als Nebenfrauen. Natürlich können die technologischen Standards nicht gehalten werden, lediglich die Türken sorgen für das Funktionieren eines Restes an Infrastruktur, obwohl die übrige Welt »Eurabia« isoliert hat. Die letzten Christen werden in Ghettos zusammengedrängt, gelegentlich wird der eine oder andere herausgezerrt und zwangsweise bekehrt. Vor dem Triumphbogen in Paris steinigen die Gläubigen Ungläubige, die noch Meßwein versteckt halten, und Notre-Dame ist, wie die Hagia Sophia von Konstantinopel, in eine Moschee umgewandelt.

Den Christen bleibt nur noch ein Rückhalt. Jenseits des »grünen Vorhangs«, in Rußland, ist ein starker – auf Nation und Glauben fußender – Staat entstanden. Von hier kommt auch Hilfe für den christlichen Untergrund im Westen, lefebvristische Partisanen, die gegen die Besatzer aus dem Orient den bewaffneten Kampf aufgenommen haben. Mit russischer Hilfe besetzen sie noch einmal die ehrwürdige Notre Dame, zelebrieren die alte Messe in lateinischer Sprache und sprengen sich dann mit dem geschändeten Heiligtum in die Luft.

Der Roman von Jelena Tschudina ist offenbar in keine westliche Sprache übersetzt worden, aber als die ersten Berichte darüber kursierten, gab es auf praktisch jeder islamkritischen Seite Hinweise und Kommentare. Der Grund dafür liegt auf der Hand: Hier wird genau jene Schreckensvision ausgemalt, die jeden umtreibt, der den Islam als Feind betrachtet. Zugegeben: Das ist vereinfacht gesprochen, denn die Islamkritiker bilden keine homogene Größe, auch wenn die Gegenseite immer wieder meint, summarisch von »Antiislamismus«, »antimuslimischem Rassismus« oder »Islamophobie« sprechen zu können. Tatsächlich sind die Motive von Christen, Juden, Konservativen, Liberalen, enttäuschten Linken, Völkischen und Identitären durchaus verschieden. Andererseits wird man zugeben müssen, daß sich in ihren Büchern, Aufsätzen und Netzforen bestimmte Argumentationsfiguren finden, mit denen man sich auseinandersetzen muß, wenn man einschätzen will, ob ihre Feindbestimmung tragfähig ist oder nicht.

Im wesentlichen handelt es sich um fünf Leitideen, die regelmäßig wiederkehren:

1. Das Problem ist der Islam

Während die offizielle Linie gewöhnlich darauf hinausläuft, die Konflikte mit der islamischen Welt auf andere Ursachen – soziale Verwerfung, Entfremdung, Rassismus, Unterentwicklung – zurückzuführen und das Selbstverständnis der Moslems als Opfer zu akzeptieren, beharren Islamkritiker darauf, daß der Islam selbst die Ursache der Probleme und Täter sei. Noch gemäßigt argumentiert Ralph Giordano, wenn er feststellt: »… der politische und militante Islam ist nicht integrierbar, aber auch der ›allgemeine‹ jenseits davon ist…problematisch genug.« Häufiger wird darauf hingewiesen, daß der Islam prinzipiell gleichbedeutend sei mit Unterdrückung und Gewalttätigkeit, daß seine Theorie wie seine Praxis dafür immer neue Beweise lieferten, daß in den islamisch geprägten Staaten nirgends Rechtsregeln wie in den westlichen gelten würden und daß die Aufnahme moslemischer Zuwanderer in Europa daran scheitere, daß sie unfähig seien, von den zentralen Vorgaben ihrer Religion loszukommen. Viele Islamkritiker beschränken sich darauf, dem Islam ein Entwicklungsdefizit vorzuwerfen, das im Prinzip aufholbar sei, wenn er die Anpassungsbemühungen verstärke und sich konsequenter am Westen ausrichtete. Geert Wilders steht aber auch nicht allein, wenn er – in seinem Film Fitna – den Koran mit Hitlers Mein Kampf vergleicht oder man auf dieser Seite vom »Islamofaschismus« spricht.

EINWAND: Ohne Zweifel wird hier ein entscheidender Sachverhalt richtig gesehen und der Neigung, die Probleme aus der Welt zu schaffen, indem man sie umdeutet oder verschleiert, entgegengewirkt. Aber es gibt unter Islamkritikern eine überstarke Neigung, den Islam von seinen normativen Vorgaben her zu interpretieren.

Aber auch hier besteht wie sonst auf der Welt eine Diskrepanz zwischen Vorschrift und Alltagsrealität. Faktisch waren die Vorgaben des Koran oder der islamischen Rechtsregeln nur in bestimmten Epochen in dem Maße und der Totalität bestimmend, die hier als üblicher Fall postuliert werden. Außerdem müßte klarer differenziert werden zwischen der Auffassung, daß der Islam korrigierbar sei, wenn er sich modernisiere und säkularisiere wie das Christentum, und der anderen, daß er das aus prinzipiellen Gründen gar nicht könne. Zwar klingt immer wieder das Motiv des anderen »Kulturkreises« – also einer verhältnismäßig geschlossenen Einheit – an, aber letztlich neigt die Mehrzahl der Islamkritiker doch dem naiven westlichen Entwicklungsdogma zu, demgemäß alle Gesellschaften sich am Muster des Geschichtsverlaufs orientieren (müssen), den England, Frankreich oder die USA genommen haben.

2. Es besteht kein Unterschied zwischen Islam und Islamismus

Üblicherweise wird der Islamismus als eine Variante oder Fehlform des »eigentlichen« Islam verstanden. Diese saubere Trennung von »guten« Moslems und »bösen« Fundamentalisten wird von vielen Islamkritikern als durchsichtiges Bemühen verstanden, eine besorgte Bevölkerung zu beruhigen, die – zu Recht – fürchtet, daß nicht nur islamische Kriegsherren in fernen Weltgegenden eine Bedrohung darstellen, sondern auch ihr arabischer/libanesischer/schwarzafrikanischer/türkischer Nachbar »Schläfer« einer Terrorzelle sein könnte, die Anschläge in unmittelbarer Nähe plant. Diese Besorgnis wird von Islamkritikern grundsätzlich geteilt, die außerdem darauf hinweisen, daß sich äußerlich gut integrierte Moslems oder Konvertiten, die eigentlich im Lande selbst »zu Hause« sind, immer wieder als anfällig für eine Indoktrination erwiesen haben. Deren Erfolg kann man nur erklären, wenn man davon ausgeht, daß Islamisten im Prinzip nichts anderes tun, als den Islam selbst ernst zu nehmen. Eine wichtige Rolle spielt auch bei Bestreiten dieses Zusammenhangs der Verweis auf taqiyya , das Recht eines Moslems, Ungläubige zu täuschen.

EINWAND: Selbst eine ihrem Gegenstand so kritisch gegenüberstehende Islamwissenschaftlerin wie Christine Schirrmacher beharrt darauf, den Islamismus als eine in erster Linie politische, nicht religiöse, Konzeption zu definieren. Er sei eine »totalitäre Ideologie« mit einem im Kern »utopischen Weltbild« und reagiere auf die Unterdrückung, die Armut und die Not in den Gebieten des Nahen Ostens seit dem Ende des 19. Jahrhunderts mit dem Angebot eines »ganzheitlichen Islam«, der als Alternative zu europäischer Modernität, Demokratie und Menschenrechten verstanden wurde. Das Potential entsprechender Bewegungen unter Moslems in Europa sieht Schirrmacher durchaus als erheblich an; es müsse auf etwa zehn Prozent der Heranwachsenden taxiert werden. Schirrmacher geht auch auf die Argumentation der Islamkritiker ein, die die Meinung vertreten, daß der Islamismus im Grunde nur praktiziere, was schon der Ur-Islam wollte: die Einheit von Religion und Politik, die Gemeinschaft der Gläubigen in weltlicher und geistlicher Hinsicht unter dem Gesetz der Scharia. Sie weist aber darauf hin, daß die Mehrzahl der Moslems, man könnte hinzufügen: und die Mehrzahl der real existierenden Staatswesen, in denen Moslems lebten und leben, von diesem Konzept weit entfernt sind. Das Spektrum der religiösen Ernsthaftigkeit ist im Islam kleiner als im Judentum und Christentum, aber doch so groß, daß es von einer Auffassung, die die Tradition als unbedingt verbindlich ansieht, bis zu einer Art Kulturislam reicht, der sich kaum an die »Fünf Säulen« hält.

3. Es gibt eine Kontinuität der islamischen Aggression

Im Frühjahr 2007 veröffentlichte Bernard Lewis einen aufsehenerregenden Essay unter dem Titel »Die dritte Angriffswelle auf Europa rollt« (Bernard Lewis: Der Untergang des Morgenlandes. Warum die islamische Welt ihre Vormacht verlor, Bergisch Gladbach 2002). Gemeint war damit die dritte Angriffswelle der islamischen Expansion, nach der ersten, die von den Arabern, zuerst unter Führung Mohammeds, dann der Kalifen, ausging, und der zweiten, die von den Türken getragen wurde. Die dritte Welle, so Lewis, unterscheide sich von der ersten und zweiten insofern, als sie nicht in Gestalt militärischer Eroberung vor sich gehe, sondern mittels Terror und Einwanderung. Beide Faktoren spielten objektiv zusammen, ohne daß damit behauptet werde, daß jeder Einwanderer ein potentieller Terrorist sei. Als harmlos könne man den Prozeß trotzdem nicht einstufen, und für die Europäer stelle sich die entscheidende Frage: »Ist die dritte Welle erfolgreich? Das ist gar nicht ausgeschlossen. Muslimische Einwanderer haben einige klare Vorteile. Sie haben Glut und Überzeugung, die in den meisten westlichen Ländern entweder schwach sind oder ganz fehlen. Sie sind überzeugt von der Gerechtigkeit ihrer Sache, während wir viel Zeit damit verbringen, uns selbst zu erniedrigen. Sie verfügen über Loyalität und Disziplin, und – was vielleicht am wichtigsten ist – sie haben die Demographie auf ihrer Seite. Die Kombination von natürlicher Vermehrung und Einwanderung, die enorme Umschichtungen in der Bevölkerungsstruktur hervorbringt, könnte in absehbarer Zukunft zu signifikanten Bevölkerungsmehrheiten in wenigstens einigen europäischen Städten, vielleicht sogar Ländern führen.«

EINWAND: Es ist ohne Zweifel so, daß Moslems die Einwanderung von Moslems in Europa als Teil einer Islamisierung oder als Variante des dschihad verstehen können, aber dabei ist nicht aus dem Blick zu verlieren, daß die Migration kein Teil einer islamischen Strategie war. Wer als Arbeiter oder als Flüchtling in den Westen ging, tat das aus einer individuellen Motivation, kaum je mit dem Ziel, die umma auszuweiten. Daher ist auch immer nur ein Teil der Eingewanderten für radikale islamische Vorstellungen ansprechbar, während sich ein anderer mehr oder weniger stark assimiliert hat und ein dritter in Parallelgesellschaften lebt. Die Islamisierung Europas erweist sich insofern als Nebeneffekt eines Bevölkerungsaustauschs, nicht als Ergebnis einer langfristigen Konzeption. Es soll damit gar nicht bestritten werden, welches Gefahrenpotential in diesem Vorgang liegt, auch nicht, daß vom türkischen Staatsislam bis zu dschihadistischen Gruppen alle möglichen Organisationen sich die Schwäche des liberalen Systems zunutze machen oder daß manches Kind gut assimilierter Einwanderer längst zum inneren Gegner dieses Systems geworden ist, aber die Annahme, es gäbe dahinter so etwas wie einen Masterplan, geht an den Realitäten vorbei.

4. Der Islam bildet eine Einheit

Die Annahme eines besonderen islamischen Gefahrenpotentials bezieht ihre Plausibilität selbstverständlich auch aus der Vorstellung, daß der Islam als Einheit agiere. Soweit diese Annahme nicht auf Ignoranz beruht, spielt vor allem die Geopolitik eine Rolle für entsprechende Argumente. Schon Mitte der 1990er Jahre schrieb der französische Politikwissenschaftler Alexandre del Valle: »Es ist nicht übertrieben oder irreal, die islamischen Gemeinschaften in Europa als exterritorialen Vorposten zivilisatorischer und potentiell politisch-juridischer Art zu betrachten, der mit einem außerhalb liegenden islamischen Block verbunden ist«. Sogar Yves Lacoste, der Herausgeber der einflußreichen geopolitischen Zeitschrift Hérodote, teilt diese Auffassung. Lacoste verweist vor allem darauf, daß es für das Terrornetzwerk von Al Kaida möglich war, ein Zusammenspiel zwischen Kommandostellen im Nahen und Fernen Osten und Vorstößen in den westlichen Metropolen zu organisieren und dabei auf die Loyalität ganz verschiedener islamischer Richtungen zu rechnen. Aus der Sicht der Geopolitik erscheinen selbstverständlich auch die Hypothesen Samuel Huntingtons in bezug auf den »Kampf der Kulturen« besonders plausibel (Samuel Huntington: The Clash of Civilizations – Kampf der Kulturen. Die Neugestaltung der Weltpolitik im 21. Jahrhundert, München/Wien 1996).

EINWAND: Grundsätzlich ist Vorsicht gegenüber der Suggestionskraft der Geopolitik geboten, die mit ihrer Fixierung auf den Raum oft die Zwangsläufigkeit von Prozessen behauptet, die dann die Kontingenz des Historischen zuschanden macht. Unbestreitbar ist jedenfalls, daß die drei Hauptträger der islamischen Renaissance –zuerst die Iraner, dann die Araber, zuletzt die Türken – unterschiedliche Generallinien verfolgen und in einem, gelegentlich zu militärischen Konflikten führenden Konkurrenzverhältnis zueinander stehen. Außerdem wird hier wieder ein Argument der islamischen/islamistischen Seite umgekehrt, die »den Westen« oder »Juden und Christen« oder »Kreuzritter und Zionisten« als feindliche, homogene Größe postuliert, um unter Verweis darauf den Zusammenschluß aller Moslems zu fordern. Ein Konzept, das aus agitatorischen Gründen naheliegen mag, aber zur Analyse der eigentlichen Gefahrenmomente wenig beiträgt. Tatsächlich ist der Islam seit den Tagen der ersten Kalifen kein Ganzes mehr gewesen, er besitzt keine Kirchenstruktur und keinen Klerus, und es gibt permanent massive Auseinandersetzungen zwischen verschiedenen islamischen Konfessionen und Fraktionen, was im Grunde ganz der historischen Regel entspricht, daß nur ausnahmsweise eine klare Trennung zwischen Islam und Nicht-Islam existiert.

5. Das Ziel des Islam ist die Islamisierung Europas beziehungsweise der Welt

Wahrscheinlich würde die Mehrzahl der in Deutschland lebenden Moslems die Forderung nach Errichtung einer »Islamischen Republik« ablehnen, aber es bleibt dabei, daß 72 Prozent der hier lebenden Menschen türkischer Abstammung den Islam als einzig wahre Religion betrachten, daß unter den jüngeren die Zahl derjenigen wächst, die sich für religiös oder streng religiös halten, daß 63 Prozent die Koranverteilung durch die Salafisten befürworten und daß sich fast die Hälfte – 46 Prozent – wünscht, zukünftig in einem mehrheitlich von Moslems bewohnten Deutschland zu leben. Bei den Anschlägen vom 11. September gab es unter Moslems – auch wohlangepaßten, auch verwestlichten – mehr als nur »klammheimliche« Freude. Für die Islamkritik sind das alles Indizien dafür, daß eine Islamisierung von ungeahntem Ausmaß bevorsteht, die teilweise auf friedlichem, teilweise auf kriegerischem Weg vonstatten geht, oder noch knapper: »Der Islam will die Welteroberung« (Egon Flaig).

EINWAND: Wenn Sarrazin erklärt, er wünsche nicht, daß das Land seiner »Enkel und Urenkel zu großen Teilen muslimisch ist, daß dort über weite Strecken türkisch und arabisch gesprochen wird, die Frauen ein Kopftuch tragen und der Tagesrhythmus vom Ruf der Muezzine bestimmt wird«, pflichten dem wohl nicht nur Islamkritiker bei. Allerdings stellt sich die Frage, ob man diese Perspektive als realistisch ansehen sollte. Ohne Zweifel wächst die Zahl der Moslems in den Ballungszentren nicht nur Deutschlands, sondern auch Europas teilweise dramatisch. Aber die meisten Prognosen gehen davon aus, daß dieser Prozeß in absehbarer Zeit zum Stillstand kommt und dann auf einem mehr oder weniger hohen Niveau stagniert, daß aber der Bevölkerungsanteil der Moslems in Europa auch im Jahr 2030 lediglich acht Prozent (anstelle der heutigen sechs Prozent), in Deutschland 8,6 Prozent (anstelle der heutigen sechs Prozent) betragen wird. Das hängt wesentlich mit der fallenden Geburtenrate in moslemischen Familien zusammen. Allerdings bleibt es dabei, daß in einigen Ländern – wie Großbritannien, Frankreich oder Schweden – die moslemische Gruppe deutlich stärker wachsen wird. Daß es keinen Grund zur Entspannung gibt, hat aber vor allem damit zu tun, daß man die Altersstruktur in den Blick nehmen muß. Es gibt eine starke Fraktion junger, vor allem junger männlicher Moslems, den sogenannten youth bulge, ausgestattet mit einer »Hyperidentität« (Christopher Caldwell); es gibt die regionale Konzentration, vor allem in den Metropolen; es gibt die Möglichkeit weiterer massiver Zuwanderung – etwa infolge der Assoziierungsabkommen der Europäischen Union und der nordafrikanischen Länder; und es gibt überhaupt das Problem der Bildung ethnischer Brückenköpfe (Christopher Caldwell: Reflections on the Revolution in Europe, London 2010).

Wenn man eine Bilanz in bezug auf die Analysen der Leitideen der Islamkritik formuliert, fällt das Ergebnis zwiespältig aus. Es ist sicher so, daß hier von einigen Personen und Gruppen unter Inkaufnahme erheblicher Schwierigkeiten, wenn nicht der Gefährdung von Leib und Leben, ein Problem angesprochen wird, das angesprochen werden muß. Es ist außerdem so, daß nicht sie, sondern die politisch-mediale Klasse, die Helferindustrie des Multikulturalismus, die Moslemflüsterer, professionellen Beschwichtiger und Appeaser den Ton angeben und alles tun, um die Öffentlichkeit unter das Diktat des »Zusammen leben« zu stellen. Aber das alles genügt doch nicht, um von den Schwächen eines Konzepts abzusehen, das im Grunde unpolitisch ist, weil es seine Feinderklärung gegen eine Größe richtet, die als solche gar nicht existiert: der Islam. Feind kann aber nur sein, wer, mit Carl Schmitt, als eine »der realen Möglichkeit nach kämpfende Gesamtheit von Menschen« auftritt (Carl Schmitt: Der Begriff des Politischen, Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien, Berlin 1979). Und das ist nicht der Fall. Insofern bindet die Islamkritik, soweit sie das und nichts anderes ist, fatalerweise Kräfte, die an anderer Stelle eingesetzt werden müßten: zur Bekämpfung des weißen Masochismus und eines Establishments, das sich seiner bedient; vor allem aber zur Stärkung der nationalen und europäischen Identität.


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Dalla morte del pensiero critico nasce la democrazia totalitaria

Dalla morte del pensiero critico nasce la democrazia totalitaria

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]


 

Il conformismo culturale e l’irreggimentazione del pensiero hanno raggiunto un livello così allarmante da lasciare ampio spazio all’ipotesi che tutto ciò non sia casuale, non sia dovuto “solo” ai meccanismi della società di massa e del relativo consumismo, ma che sia il frutto di un disegno globale ben definito e orchestrato nell’ombra da chi sa e può e vuole giungere al totale lavaggio del cervello dei cittadini-sudditi: una sorta di contro-iniziazione planetaria.

Il sospetto è rafforzato dalla logica del “cui prodest?” e da tutta una serie di indizi, ultimo dei quali l’irrompere, nella nostra lingua, di neologismi assolutamente privi di contenuto, ma presentati come auto-evidenti e, anzi, “sacri”, nel senso che il solo metterne in dubbio la legittimità suona alle masse indottrinate come una sorta di oltraggio agli dèi; neologismi il cui scopo è estendere sempre di più l’area del consenso intorno a slogan e parole d’ordine e attutire e addormentare sempre di più l’uso critico della ragione.

Prendiamo il caso del “femminicidio”, parola di nuovo conio che improvvisamente i media hanno sfornato e che si è imposta con la velocità dell’evidenza: ma una evidenza di strano tipo, in quanto non discussa e non vagliata in sede critica, non maturata nelle coscienze, ma calata dall’alto in maniera auto-referenziale ed equivalente a un mantra, a una giaculatoria liberatrice, contro la quale solo un blasfemo oserebbe sollevare delle perplessità.

Femminicidio, dunque, è la tendenza del maschio padrone e criminale ed assassinare le donne: la sua compagna, sua moglie, le sue figlie, sua madre: pare che il passatempo preferito degli uomini sia diventato quello di ammazzare le donne. È vero che, a volte, succede anche il contrario – possiamo raccontare un fatto di cui siamo personalmente a conoscenza, di una donna che ha ucciso con l’accetta suo marito mentre questi dormiva, ed è anche stata assolta per infermità mentale -, ma tali casi non contano, evidentemente. Ed é altrettanto vero che delitti passionali ce ne sono sempre stati, tutt’al più oggi la merce-notizia si vende meglio quando consiste di ingredienti sadici e truculenti: ma anche questo non ha importanza. Quello che conta è che la cultura femminista oggi imperante ha deciso che chi uccide una donna va punito due volte – una volta perché ha ucciso qualcuno, una seconda volta perché questo qualcuno era una donna; e tanto basta.

Certo, qualche anima ingenua potrebbe obiettare che, allora, bisognerebbe raddoppiare la pena anche per chi uccide un bambino, o per chi uccide un anziano indifeso, o per chi uccide un omosessuale - notoriamente vittima designata della omofobia, o per chi uccide una persona di colore – notoriamente vittima designata dei pregiudizi razziali, e via di seguito; e forse ci arriveremo, effettivamente. Tutto, tranne che parlare di “viricidio”: perché solo chi uccide un uomo, un uomo nel pieno delle forze, non merita un raddoppio della pena, né un particolare biasimo morale: in fondo, un uomo sa ben difendersi; dunque, perché calcare la mano sul suo assassino? Se l’assassino è una donna, poi, qualche buona ragione l’avrà pure avuta…

Quanto alle motivazioni di questo supposto incremento dei “femminicidi”, è chiaro che si tratta di una bieca reazione maschile al tentativo di emancipazione delle donne. Che le donne, non in quanto singole persone (chissà quanti casi di singole donne realmente maltrattate ci sono), ma in quanto genere femminile, possano avere una parte di responsabilità, non certo nelle violenze che subiscono, ma nel deterioramento dei rapporti con l’uomo e nella crisi delle coppie e delle famiglie, ebbene questo lo si può pensare, ma non lo si deve dire, perché dirlo equivarrebbe a esporsi alla gogna mediatica, come è capitato a quel tale parroco di una frazione di Lerici.

Non si può dire, in particolare, che le donne esagerano nel provocare sessualmente i maschi: non si può dirlo, perché è una verità scomoda e fastidiosa; e chi la dice, vien fatto passare per un fiancheggiatore di coloro i quali maltrattano e uccidono le donne; anche se non è affatto così, anche se si tratta solo di una constatazione oggettiva, che qualunque donna intellettualmente onesta - del resto - dovrebbe riconoscere.

Certo, c’è modo e modo di dire le cose; e poi bisogna vedere chi le dice e in che veste le dice: quel parroco, a quel che ci è dato di sapere, ha parlato in maniera rozza e inopportuna, su questo non c’è dubbio. Ma nella sostanza del discorso, siamo proprio sicuri che abbia torto? Che sia quel mostro che i media si sono affrettati a dipingere, auspicandone la sospensione a divinis o, quanto meno, decretandone una messa al bando morale da parte dell’intera società italiana, laica ed ecclesiastica? Noi non ne siamo così convinti.

Del resto, troppe volte si osserva come delle tesi in sé legittime, e talvolta perfino sacrosante, vengono deliberatamente equivocate e stravolte dai media; e come, inoltre, a sostenerle siano dei personaggi a dir poco goffi e maldestri, i quali sembrano far di tutto per rendere insostenibili delle affermazioni di puro buon senso. Vien da pensare -  a giudicar male si fa peccato, diceva Andreotti, ma ci si azzecca quasi sempre - che costoro siano, se non proprio degli infiltrati e degli agenti provocatori, quanto meno degli utili idioti per la causa di coloro i quali, stando nell’ombra, fanno di tutto per orientare l’opinione pubblica su determinate posizioni sociali, culturali e politiche.

Prendiamo il caso della Lega Nord. Essa ha interpretato, fra le altre cose, un legittimo disagio, un legittimo e giustificato timore della popolazione italiana nei confronti della immigrazione selvaggia e dell’aumento esponenziale dei reati legati al furto, alla rapina, allo spaccio di droga, alla prostituzione, alla violenza sessuale. I telegiornali nazionali ne parlano poco, ma le cronache locali della provincia italiana sono piene, ogni giorno, di fatti del genere, che vedono quali protagonisti, all’ottanta per cento, immigrati irregolari e anche regolari.

Non si può dirlo, però: si passa per razzisti. I nostri uomini politici e i nostri amministratori, nelle loro ville e villette dei quartieri residenziali, non sanno, letteralmente, cosa voglia dire vivere in un quartiere degradato dalla presenza di migliaia e migliaia di immigrati, parte dei quali si comportano bene e rispettano le leggi, ma molti dei quali, invece, si comportano malissimo e sono venuti nel nostro Paese con la specifica intenzione di delinquere impunemente. Quei signori non sanno cosa voglia dire vivere in strade e quartieri dove i ladri hanno passato a setaccio tutte le case, tutti gli appartamenti, rubando e non di radio picchiando e terrorizzando gli inquilini. I nostri uomini politici “progressisti” si preoccupano, e giustamente, del sovraffollamento delle carceri, ma non hanno una parola da spendere per quei milioni di loro concittadini che sono costretti a vivere nell’insicurezza e nella paura, a causa di una disordinata e aggressiva immigrazione che procede senza regole e senza filtri da parte delle pubbliche autorità.

Sorge un partito politico che, fra le altre cose, parla di questo problema; ahimé: ne parla in termini inaccettabili, con demagogia, con toni rozzi e brutali: compaiono perfino dei deputati che indossano delle magliette che irridono la religione islamica e la offendono senza ragione, così, per pura stupidità. Viene proprio da pensare che tanta idiozia non sia frutto del caso. Sia come sia: il fatto che la protesta contro l’immigrazione selvaggia sia così male orchestrata, che sia così sgangherata e triviale, la rende automaticamente poco seria, la squalifica, fa sì che essa non venga presa sul serio dai mass-media, i quali – anzi - si accaniscono nel descrivere come barbari quei politici e quegli elettori. Nessuno, a quanto pare, nei salotti del politicamente corretto, si domanda onestamente se quelle voci non vadano prese sul serio; se il malessere dei cittadini non abbia un fondamento reale: è tale il ricatto ideologico, che ciascuno preferisce chiudere occhi ed orecchi davanti all’evidenza, piuttosto che venir sospettato di sentimenti razzisti.

È così che la distruzione del pensiero critico prepara la strada al totalitarismo democratico, che è solo il paravento dei poteri occulti che agiscono nell’ombra: banche, massoneria, multinazionali, agenzie di rating. La strategia è quella del cane di Pavlov: lanciare certe parole d’ordine e far sì che le masse reagiscano in maniera emotiva, viscerale, secondo slogan e frasi fatte, senza un barlume di pensiero critico: lo slogan, infatti, è la negazione del pensare.

Si pronuncia un certo slogan, e il pubblico ammaestrato reagisce con la salivazione: non pensa, non discute, non vuol sentir ragioni: sa di avere la verità in tasca, forte del fatto che milioni di uomini-massa la pensano (si fa per dire) esattamente come lui; o, per essere più esatti, reagiscono allo stimolo esattamente come lui. Non solo: se qualcuno mette in discussione la parola-totem, lo slogan sacro, allora vuol dire che questo tale, oltre ad essere empio, è anche superbo: perché si permette di pensare a modo suo, si permette di disprezzare le opinioni della massa.

Nella reazione pavloviana, dunque, un ruolo importante è svolto da quell’ingrediente antichissimo e sempre efficace che è l’invidia: il veleno dell’invidia per chi pensa di essere migliore, e probabilmente lo è; ma questo va contro i dogmi del totalitarismo democratico, dove tutti sono uguali, DEVONO ESSERE UGUALI, anche nell’intelligenza: come si può ammettere che il mio vicino capisca le cose meglio di me, se non può permettersi neanche il fuoristrada che possiedo io, né le vacanze alle Seychelles, che io non mi faccio mancare? Che senso hanno avuto la Rivoluzione francese e tutto quel che è venuto dopo, se devo riconoscere che il mio vicino sia più intelligente di me? I mediocri possono ammettere, al massimo, la superiorità teorica di qualcuno che è lontano, che non vedono fisicamente, o di qualcuno che è morto e sepolto: ah, come era bravo Van Gogh; che genio impareggiabile, era: peccato che, quand’era vivo, gli toccava vendere le sue tele per un piatto di minestra.

Così vanno le cose in regime di democrazia totalitaria: il “popolo” ha sempre ragione e gli slogan del popolo sono sempre veritieri; anche se a coniarli non è stato il “popolo”, ma qualcun altro; anche se a metterli in circolazione sono stati i media, che fingono di inchinarsi davanti a sua maestà il popolo, lo blandiscono, ne cantano le lodi: come è intelligente il popolo, come è bravo e buono e bello il popolo; ma i poteri dai quali sono finanziati e organizzati, lo disprezzano in maniera radicale, lo usano come un gregge da portare qua e là, da mungere, da tosare, da sfruttare in ogni maniera possibile; sempre, però – questo è il segreto – fingendo di carezzarlo, di ammirarlo, di lodare anche le sciocchezze più macroscopiche che escono dalla sua bocca.

Basta osservare come si comportano i conduttori televisivi allorché, raramente a dire il vero, si trovano davanti al microfono qualcuno che parla in maniera critica e assennata, che non ripete le solite formulette preconfezionate, che dice qualcosa di scomodo e tale da suscitare la riflessione altrui: lo zittiscono, lo insultano, si dissociano solennemente, dicono che egli solo porta la responsabilità delle cose che sta dicendo, che esse non rispecchiano assolutamente il punto di vista di quel telegiornale o di quella rete televisiva; e poi, naturalmente, si guardano bene dall’invitarlo una seconda volta. Anzi, per essere sicuri che non si ripetano certi incidenti, provvedono a imbastire un linciaggio mediatico per direttissima: estrapolano alcune sue frasi, gli fanno dire quello che non aveva detto, tirano fuori, persino, qualche episodio – vero o non vero, o magari gonfiato ad arte – del suo passato, che suoni non troppo edificante: e voilà, il gioco fatto, il guastafeste è messo a tacere una volta per sempre.

Quel prete di Lerici, per esempio: non era un ex militare dalla sberla facile? Non aveva preso a sganassoni un povero barbone? E allora: che aspetta a dimettersi, a lasciare la tonaca per manifesta indegnità? Si è permesso di sostenere che troppe donne, invece di occuparsi della famiglia, e specialmente dei figli, dedicano le loro migliori energie per rendersi sexy e provocanti: orrore, peccato di lesa maestà! Ha detto che, quando un matrimonio va in pezzi, la colpa non è sempre dell’uomo, di questo energumeno brutale e insensibile, ma qualche volta anche delle gentili signore: orrore, peccato di lesa maestà!

Il problema è che, quando le riflessioni di buon senso vengono sistematicamente zittite e criminalizzate, il malessere sociale aumenta, perché non trova alcuna valvola di sfogo, alcun luogo idoneo per essere ascoltato, magari anche criticato, ma soprattutto discusso. È già successo, nella storia recente: fascismo, nazismo e comunismo non erano unicamente e totalmente – non ai loro rispettivi esordi, quanto meno - delle ideologie criminali, ma esprimevano anche delle istante legittime e perfino sacrosante. Respinte con orrore dalla società dei benpensanti, si sono estremizzati, sono degenerati, sono diventati qualcosa di politicamente devastante – e ne è seguito quel che ne è seguito. Ma chi studia seriamente le loro origini, scoprirà facilmente che, al principio, in quelle ideologie vi erano molte cose condivisibili, molte cose di puro buon senso, molte cose di semplice onestà e di giustizia istintiva, almeno in quel contesto storico.

Si ha come l’impressione che i poteri forti, nascosti nell’ombra e tuttora saldamente alla guida del mondo, abbiano fatto del loro meglio per respingere quei movimenti nel sottosuolo, per esasperarli, per estremizzarli con il loro disdegno, con il loro sarcasmo, con il loro rifiuto pregiudiziale, orchestrando ad arte le campagne di disinformazione dei mass-media a livello internazionale. Tanto che, ancora oggi, a parecchi decenni di distanza, è pressoché impossibile parlare di fascismo, nazismo e comunismo senza fare gli scongiuri, senza imprecare contro di essi, senza maledirli in saecula saeculorum, radicalmente e senza appello. Eppure il fascismo non è stato solo bastone e olio di ricino, così come il nazismo non è stato solo Auschwitz, né il comunismo, solo i processi di Mosca ed i gulag siberiani. E senza pensare che anche la democrazia totalitaria ha commesso e continua a commetter dei crimini, al confronto dei quali impallidiscono perfino quelli dei totalitarismi espliciti: dalle bombe atomiche sganciate sul Giappone, alla guerra chimica e batteriologica condotta impunemente nel Vietnam, al milione di morti in Iraq e al milione di morti in Afghanistan, dei quali nessuno parla mai, perché tutti pensano sempre e solo alle 3.500 vittime americani delle Twin Towers – ammesso e non concesso che queste ultime siano state provocate dai terroristi islamici.

Attenzione, dunque: quando i media sfornano neologismi ad orologeria, bisogna raddoppiare lo stato di allerta: significa che la democrazia totalitaria – o meglio, chi si nasconde dietro di essa - si prepara ad un ulteriore giro di vite nel lavaggio del cervello ai nostri danni…

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Ananda K. Coomaraswamy

Ananda K. Coomaraswamy

Anthony Ludovici

Ex: http://www.wermodandwermod.com/

Editor's Note: This is Anthony Ludovici's obituary for Ananda K. Coomaraswamy, published in The New English Weekly 32, 1947–8, pp. 82–83. Ludovici knew Coomaraswamy well for a time, and talks about this here.

The death of Dr. Ananda K. Coomaraswamy last September in the U.S.A., where for some years he had been Fellow for Research in Indian, Persian and Mohammedan Art at the Museum of Fine Arts, Boston, Mass., deprives the Indian people themselves of the greatest champion of their nationalist aims, and the civilized world at large of one of the most enlightened, persuasive and scholarly advocates of an aesthetic as opposed to a mass and machine-produced material culture. In both of these spheres he had shown himself consistent and convinced from the very first and, in one of his last brochures — "Why Exhibit Works of Art?" (1943) — made, I think, the most compelling appeal of all in favour of once more reconciling "work" with culture. The fact that for generations they had been divorced and that "work" is understood by the great majority of the populations of the West to mean something from which the worker has to recover by a resort to "edifying," or at least relaxing, leisure pastimes, was a theme Coomaraswamy never tired of expounding. But he expounded it with a much more formidable apparatus of knowledge and insight than did either Ruskin or Morris and, above all, with a much deeper understanding of what was at stake. For he saw, as no man before him had ever clearly seen. the imminent peril of a world situation in which the majority of common men know of no deeper incentive to their labours than the remuneration these secure them.

In the first decade of the century I knew Coomaraswamy well. We used often to meet and discuss the problems we each had at heart and, although we differed on certain fundamental matters, to one of which I shall allude, my artistic upbringing and leanings inclined me to accept at least his analysis of the essential wrongness of Western industry. Nor have I read any of his works which has not confirmed me in my general agreement with him on this subject. For he was no romantic reactionary, but a logical, cool and penetrating analyst of the subjects of which he made himself master.

He was a tall, strikingly handsome man, with features decidedly Eastern, one in fact who could speak of beauty, as it were, by the right of an instinctive affinity. Owing to his mixed parentage (Indian father and English mother) he was not so dark as the average Indian and having the accent and demeanour of an Englishman could be convincing on a London platform or in any company of Englishmen. Thanks to his command of Greek, Latin and Sanskrit, he was probably the greatest scholar of his age in the Scriptures of both East and West, and was therefore a formidable exponent of the philosophical and ontological foundations of his cultural doctrines.

Educated as a scientist (he made the original Government geological survey of Ceylon) he soon, however, turned his attention wholly to aesthetics, and one of his principal services in this field was to make the art-treasures and art-principles of his Fatherland familiar both to the Western World and the Indian people.

His contributions to the philosophy of art, despite the mass and distinction of his predecessors in the field. are original, profound and, in my view, uniquely important; whilst his successful attempt properly to place the artist in society, is indispensable to all who pretend to any grasp of sociological problems. For in Coomaraswamy, they will encounter no vagueness, no sentimentalizing, no merely nostalgic revivalism. Everything is clear-cut and wholly matter-of-fact. The artist's rôle, his function, his impulses, even his moral code, are all defined with the coolness and exactitude of a mathematician discoursing on the magnitudes of given bodies. But the reader feels the burning passion which could inspire such calm clarity; for only fire could have reduced to their elements the tattered and heterogeneous heaps of refuse which constitute Western aesthetics and the Western conception of the place of aesthetics in a civilization.

Coomaraswamy's last piece of writing — Art, Man and Manufacture — contributed to an interesting symposium on Our Emergent Civilization,* sums up and restates the fundamental principles for which he stood. But those who cannot get access to this book need not despair. In his other writings, most, if not all, of which are to be found in England, they will be able to become acquainted with his considerable achievements in the special domain which he made his life's study.

By way of conclusion, I must mention, all too briefly I am afraid, one of the more fundamental matters on which I felt bound to differ from him. I should have pointed out above that, in his advocacy of Indian Nationalism, Coomaraswamy always argued strictly on purely cultural grounds. He expressly denied that the nationalism he had in view had any basis in breeding and racial standardization. Nevertheless, he claimed emphatically that its prerequisite was what he termed the "re-establishment of a standard of quality." This position I attacked from the first, and for the following reasons:—

 I never have believed that Man can express what he is not. This expression, whether in Art, or any other individual utterances, is always the externalization of what is in him. If there is not quality in him, therefore, it is futile to expect quality in what he expresses. To recover or re-establish quality in Man's expressions of himself, he must first be re-born as a psycho-physical organism possessing quality. Thus I ascribe the Brummagem wares of Western industry, so deeply offensive to Coomaraswamy, not to any extraneous influences, whether economic, scientific, moral or political, but to the fact that Western mankind long ago became biological Brummagem; therefore, that their natural expression could not, in any case, be other than shoddy and devoid of the quality Coomaraswamy sought for in vain. Similarly, if it is essential, for the recovery of Indian Nationalism, that "a re-establishment of a standard of quality" should be effected, I claim that it is idle to work or agitate or reform with this end in view by hortatory and educational means alone. Not until you have made a population something more than biological Brummagem will you eliminate shoddy from its life.

But this objection to Coomaraswamy's doctrines, although fundamental, leaves his penetrating analysis of the artist and his function in society wholly unscathed, and it is by this analysis and the teaching that arises out of it that the brilliant subject of this brief and inadequate appreciation is likely to be known and valued by an enlightened posterity.

 

Source: Studies in Comparative Religion

mercredi, 16 janvier 2013

La CIA espionne toutes vos données persos… et l’Europe s’en fiche

La CIA espionne toutes vos données persos… et l’Europe s’en fiche

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

par Philippe VION-DURY

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Le gouvernement américain s’est octroyé depuis quelques années le droit d’espionner la vie privée des citoyens étrangers, dont les Européens, en mettant à contribution ses grandes compagnies, Facebook, Google ou Microsoft. Et les autorités européennes ferment les yeux.

C’est ce que dénonçait la version américaine de Slate le 8 janvier dernier, en s’apuyant sur le rapport [en anglais] « Combattre le cybercrime et protéger la vie privée sur le Cloud » du Centre d’études sur les conflits, liberté et sécurité, passé jusqu’alors tout à fait inaperçu.

La mise en place d’une sorte de tribunal secret, dont l’action ne se limite plus aux questions de sécurité nationale ou de terrorisme mais à « toute organisation politique étrangère », inquiète les auteurs de ce rapport remis au Parlement européen fin 2012.

Un risque pour la souveraineté européenne

Ceux-ci dénoncent le « Foreign Intelligence and Surveillance Act » (FISA), qu’ils accusent de « constituer un risque pour la souveraineté européenne sur ses données bien plus grave qu’aucune autre loi étudiée par les législateurs européens ».

La loi FISA avait été introduite au Congrès en 2008 pour légaliser rétroactivement les mises sur écoute sans mandat auxquelles s’était livrée l’administration Bush dans le cadre de la lutte contre le terrorisme.

Malgré la polémique qu’il suscite encore, l’amendement a été prolongé en décembre dernier jusqu’en 2017, après que le Sénat l’a approuvé à 73 voix contre 23, tout en rejetant les amendements visant à placer des gardes-fous afin de prévenir d’éventuels abus.

Cette législation autorise expressément les agences de renseignement américaines (NSA, CIA…) à mettre sur écoute sans autorisation judiciaire des citoyens américains communiquant avec des étrangers soupçonnés de terrorisme ou d’espionnage.

« Carte blanche » pour espionner

Caspar Bowden, ancien conseiller sur la vie privée à Microsoft Europe et coauteur du rapport, accuse les autorités américaines d’avoir créé un outil de « surveillance de masse », en s’arrogeant le droit d’espionner les données stockées sur les serveurs d’entreprises américaines.

Pour simplifier, un tribunal secret est désormais capable d’émettre un mandat, secret lui aussi, obligeant les entreprises américaines (Facebook, Microsoft, Google…) à livrer aux agences de renseignement américaines les données privées d’utilisateurs étrangers.

Cette législation se démarquerait des autres en ne se limitant pas aux questions de sécurité nationale et de terrorisme, mais en l’élargissant à toute organisation politique étrangère ; une véritable « carte blanche pour tout ce qui sert les intérêts de la politique étrangère américaine » selon Bowden.

Cela pourrait inclure également la surveillance de journalistes, activistes et hommes politiques européens impliqués dans des sujets intéressant l’administration américaine.

L’inaction des responsables européens

Les auteurs soulignent l’inertie des responsables européens, qu’il trouve « choquante ». Une inquiétude que partage Sophia in ’t Veld, vice-présidente du Comité sur les libertés civiles, justice et affaires intérieures au Parlement européen, dont les propos sont rapportés par Slate :

« Il est très clair que la Commission européenne ferme les yeux. Les gouvernements nationaux font de même, en partie parce qu’ils ne saisissent pas l’enjeu, et en partie parce qu’ils sont effrayés à l’idée d’affronter les autorités américaines. »

Le renouvellement de la loi FISA et la publication de l’étude pourraient bien forcer les autorités européennes et nationales à se saisir de la question et à agir en conséquence. C’est en tout cas ce qu’espèrent les auteurs du rapport.

Philippe Vion-Dury

Lire également : Tout voir, tout entendre : les espions en rêvaient, les Etats-Unis l’ont presque fait

Kritik der Kritik der Islamkritik

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Kritik der Kritik der Islamkritik

By Manfred Kleine-Hartlage

Ex: http://www.sezession.de/

In Sezession Nr. 51 [1] sind zwei Artikel zur Islamkritik erschienen. Auf Karlheinz Weißmanns Islamkritik – Leitideen und Einwände [2] erfolgt hier eine Antwort, deren notwendige Ausführlichkeit den Rahmen der Druckausgabe sprengen würde. Ich veröffentliche sie deshalb hier im Blog:

Karlheinz Weißmann geht es um die Frage, ob „der Islam unser Feind“ sei, und er faßt nachvollziehbarerweise unter dem Titel „Islamkritiker“ alle Kräfte zusammen, die diese Frage bejahen. Ungeachtet der von ihm durchaus gesehenen Heterogenität der islamkritischen Szene identifiziert er fünf

bestimmte Argumentationsfiguren …, mit denen man sich auseinandersetzen muß, wenn man einschätzen will, ob ihre Feindbestimmung tragfähig ist oder nicht

und unterzieht diese Argumentationsfiguren einer nuancierten Kritik, aufgrund deren er zu dem Ergebnis gelangt, die Islamkritik sei ein Konzept,

das im Grunde unpolitisch ist, weil es eine Feinderklärung abgibt, die sich gegen eine Größe richtet, die als solche gar nicht existiert: der Islam.

Um es vorwegzunehmen: Diese Kritik überzeugt mich nicht, weil sie auf einer Fehleinschätzung sowohl des Islam selbst als auch der Islamkritik beruht. Aber der Reihe nach:

Die erste von Weißmann genannte islamkritische These lautet:

1. Das Problem ist der Islam

Weißmann referiert zutreffend, daß Islamkritiker bereits im Islam selbst – nicht erst im Islamismus und schon gar nicht in externen Faktoren wie Armut, Rassismus, Unterentwicklung und dergleichen – die tiefste Ursache für Unterdrückung und Gewalt in der islamischen Welt wie auch für die Anpassungsunfähigkeit vieler muslimischer Migranten in Europa sehen, und ergänzt:

Viele Islamkritiker beschränken sich darauf, dem Islam ein Entwicklungsdefizit vorzuwerfen, das im Prinzip aufholbar sei, wenn er die Anpassungsbemühungen verstärke und sich konsequenter am Westen ausrichtete. Geert Wilders steht aber auch nicht allein, wenn er … den Koran mit Hitlers Mein Kampf vergleicht …

Die Position, wonach der Islam sich zu einem liberalen „Euro-Islam“ weiterentwickeln müsse – gewissermaßen zu einer islamischen Variante des Käßmannchristentums – gibt es zwar, aber wenn man deren Protagonisten, etwa den aus Syrien stammenden Politologen Bassam Tibi, der islamkritischen Szene zurechnen wollte, müsste man deren Grenzen schon sehr weitläufig ziehen – jedenfalls weiter, als Weißmann selbst sie zieht: Die Verfechter eines „Euro-Islam“ sind sicherlich Islamismuskritiker, würden aber die These vehement zurückweisen, „der“ Islam sei unser Feind.

Deshalb hängt auch Weißmanns Mahnung an die Adresse der Islamkritik in der Luft, es müsse

klarer differenziert werden zwischen der Auffassung, daß der Islam korrigierbar sei, wenn er sich modernisiere und säkularisiere wie das Christentum, und der anderen, daß er das aus prinzipiellen Gründen gar nicht könne.

Tatsächlich ist diese letztere Auffassung in der islamkritischen Szene Konsens; deswegen stimmt es auch nicht, wenn Weißmann schreibt, letztlich neige

die Mehrzahl der Islamkritiker doch dem naiven westlichen Entwicklungsdogma zu, demgemäß alle Gesellschaften sich am Muster des Geschichtsverlaufs orientieren (müssen), den England, Frankreich oder die USA genommen haben.

Richtig ist, daß die starke liberale Strömung innerhalb der Islamkritik den Islam seiner Unvereinbarkeit mit westlich-liberalen Wertmustern wegen ablehnt und dazu neigt, diese Werte für das schlechthin „Gute“ zu halten. Imperialistische Implikationen können sich mit einer solchen Position durchaus verbinden, geschichtsdeterministische aber nicht.

Die Vorstellung eines linear verlaufenden Geschichtsprozesses, der mindestens eine Reformation beinhalten müsse, um von dort aus zu Aufklärung und Liberalismus vorzustoßen, ist aus islamkritischer Sicht bereits deshalb nicht haltbar, weil es Reformationen in der islamischen Welt durchaus schon gegeben hat, nur mit völlig anderen Ergebnissen als in Europa:

„Der Islam wurde … bereits in Medina sowohl theoretisch (im Koran) als auch in der Praxis zu einem sozialen Normensystem mit deutlichen juristischen und politischen Akzenten, ja zu einer Gesellschaftsideologie ausgebaut.

In diesem Sachverhalt liegt der Grund dafür, dass islamische Erneuerungsbewegungen regelmäßig andere Akzente setzen als christliche. Zwar geht in beiden Religionen Erneuerung, Re-form, Re-formation mit dem Versuch einher, einen als korrupt erlebten jeweils gegenwärtigen Zustand durch Rückbesinnung auf einen als ideal gedachten Anfang zu überwinden. Führt dieser Versuch im Christentum zur Betonung der sprichwörtlichen „Freiheit eines Christenmenschen“, … so kann ein Muslim, der im Propheten und seiner medinensischen Gemeinde das Ideal sieht, gar nicht umhin, den Islam in dessen Eigenschaft als soziales Normensystem … zu stärken und zu erneuern. Der in Saudi-Arabien herrschende Wahhabismus, der vielen westlichen Beobachtern als Inbegriff eines rückständigen, traditionalistischen Islam gilt, versteht sich selbst, und dies durchaus begründet, als eine Reformbewegung!“ (M.K.-H., Das Dschihadsystem. Wie der Islam funktioniert. Resch-Verlag Gräfelfing 2010, S.145 f.) [3]

Weißmanns zentraler Kritikpunkt an der These, der Islam selbst sei das Problem, ist allerdings ein anderer, nämlich daß es

unter Islamkritikern eine überstarke Neigung [gebe], den Islam von seinen normativen Vorgaben her zu interpretieren. Aber auch hier besteht wie sonst auf der Welt eine Diskrepanz zwischen Vorschrift und Alltagsrealität. Faktisch waren die Vorgaben des Koran oder der islamischen Rechtsregeln nur in bestimmten Epochen in dem Maße und der Totalität bestimmend, die hier als üblicher Fall postuliert werden.

Also vier Thesen:

1. Islamkritiker interpretierten den Islam von seinen normativen Vorgaben her.
2. Deshalb unterstellten sie eine rigide und totale Durchsetzung der Scharia als Normalfall in islamischen Gesellschaften.
3. Diese Unterstellung sei falsch, da sie der tatsächlich vorhandenen Vielfalt islamischer Staats-, Gesellschafts- und Lebensmodelle widerspreche und zudem ahistorisch die Unterschiede zwischen verschiedenen Epochen zugunsten eines statischen und fiktiven Modell-Islam vernachlässige und damit faktenwidrig Norm und Realität gleichsetze.
4. Da diese Konsequenzen falsch seien, sei die Prämisse widerlegt und die von Islamkritikern bevorzugte Interpretation des Islam von seinen normativen Vorgaben her „überstark“.

Ad 1: In der Tat ist der Ausgangspunkt islamkritischer Analysen regelmäßig die Beobachtung, daß das empirische Verhalten muslimischer Gemeinschaften (Völkern, Staaten, Parallelgesellschaften, Organisationen) in hohem Maße mit dem Normen- und Wertesystem korrespondiert, das im Koran verankert, vom Propheten exemplarisch vorgelebt, von der islamischen Rechtstradition zu einem ausgeklügelten System verdichtet und in dieser Form für Muslime sozial verbindlich gemacht wurde – und daß es in dem Maße, wie es damit korrespondiert, den Erwartungen zuwiderläuft, die wir vom Standpunkt eines europäischen – christlich bzw. liberal geprägten – Wertesystems an Muslime richten.

Diese Beobachtung ist schlicht und einfach zutreffend, und sie wird nicht dadurch widerlegt, daß ja nicht alle Muslime sich in gleicher Weise und im gleichen Maße an diesen Normen orientieren. Dieser beliebte Einwand ist deswegen irrelevant, weil die erkenntnisleitende Fragestellung nicht lautet, ob die Muslime unsere Feinde, sondern ob der Islam unser Feind sei. Dieser Gesichtspunkt wird weiter unten noch vertieft werden.

Zur Erklärung dieser weitgehenden Übereinstimmung von Verhaltensnorm und tatsächlichem Verhalten können prinzipiell zwei Modelle dienen: Das eine, das ich hiermit etwas respektlos das naive nennen möchte, lautet, daß Muslime sozusagen Allahs Marionetten seien, weil sie an die islamische Lehre glaubten; woraus die Forderung resultiert, ihnen diesen Glauben auszutreiben.

Das andere Erklärungsmodell, das von weiten Teilen der islamkritischen Szene mindestens implizit geteilt wird, habe ich so umschrieben:

„Niemand, der mit der Materie vertraut ist, und schon gar kein Muslim, wird abstreiten, dass der Islam ein System ist, dass für alle Bereiche des privaten und gesellschaftlichen Lebens gleichermaßen verbindlich ist. (…)

Daraus ergibt sich freilich, dass die Rolle der Religion im Gesamtgefüge islamischer Gesellschaften eine andere ist als im Westen … . Der Islam setzt den Menschen nicht nur in Beziehung zum Jenseits und definiert, was Gut und Böse ist – das tun andere Religionen auch –, er definiert auch, was im legalen Sinne Recht und Unrecht, im politischen Sinne legitim und illegitim, im empirischen Sinne wahr und unwahr ist.

Indem der Islam die von ihm dominierten Gesellschaften in dieser Breite und Tiefe durchdringt, prägt er notwendig auch das System der kulturellen Selbstverständlichkeiten, d.h. die Vor-Annahmen über Wahrheit, Gerechtigkeit, Moral, Ethik, Logik, Gewalt, Geschichte und Gesellschaft – also jene Prämissen, die im Sozialisierungsprozess verinnerlicht werden und dem eigentlich politischen Denken vorausgehen. Diese Vorannahmen verdichten sich zu einer in islamischen Gesellschaften sozial erwünschten Mentalität.“
(Dschihad-System, S. 283)

Dieses Erklärungsmodell schiebt der Illusion einer „Re-education“ von Muslimen, gleich ob gutmenschlich durch „Dialog“ oder islamkritisch durch autoritären Oktroi durchgesetzt, einen Riegel vor. Es führt zu der Forderung, die Bildung bzw. Ausweitung islamischer Parallelgesellschaften durch eine geeignete Einwanderungspolitik – oder vielmehr Aussperrungspolitik – zu verhindern.

Ad 2: Beide Modelle führen allerdings – wenn auch auf theoretisch etwas unterschiedlichen Wegen – zu dem Befund, daß die Freiheit von Nichtmuslimen, den Forderungen der Scharia zuwiderzuhandeln, in dem Maße schrumpft, wie das islamische Normensystem an gesellschaftlicher Durchsetzungsmacht gewinnt, und daß ein für uns unerträgliches Maß an Unterdrückung und Gewalt nicht erst dann erreicht wird, wenn die Scharia formal etabliert und in „Totalität“ durchgesetzt wird, sondern bereits dann, wenn Muslime auf der Alltagsebene ihre Spielregeln diktieren, die von eben diesem Normen- und Wertesystem geprägt sind.

Ad 3: Die beobachtbaren Unterschiede zwischen verschiedenen muslimischen Gesellschaften unterschiedlicher Länder und Epochen spielen unter diesem Gesichtspunkt keine Rolle, weil die Islamkritik eben nicht von der Frage ausgeht, ob jegliche Islamisierung zugleich eine Talibanisierung sei, sondern ob der Islam unser Feind ist, und was sein Vordringen für uns bedeutet. Für uns wäre aber bereits eine verdünnte Scharia unerträglich, und zwar auch dann, wenn sie nicht vom Staat, sondern von einer muslimisch dominierten Gesellschaft durchgesetzt würde.

Ad 4: Die „Neigung [von Islamkritikern], den Islam von seinen normativen Vorgaben her zu interpretieren“, ist daher alles andere als „überstark“: Der Zusammenhang von Norm und Verhalten wird nicht nur als solcher richtig gesehen, sondern auch hinsichtlich seiner Konsequenzen korrekt eingeschätzt.

Die zweite Argumentationsfigur, die Weißmann aufs Korn nimmt, lautet:

2. Es besteht kein Unterschied zwischen Islam und Islamismus

Er präzisiert diese These – die in dieser Grobschlächtigkeit in der Tat von kaum jemandem vertreten wird – dahingehend, daß Islamkritiker auf die starke Anfälligkeit selbst äußerlich gut integrierter Muslime für islamistische Indoktrination bis hin zur Gewaltbereitschaft hinweisen. Er fährt fort,

Deren Erfolg kann man [nach Meinung der Islamkritiker] nur erklären, wenn man davon ausgeht, daß Islamisten im Prinzip nichts anderes tun, als den Islam selbst ernst zu nehmen.

und wendet dagegen ein:

Selbst eine ihrem Gegenstand so kritisch gegenüber stehende Islamwissenschaftlerin wie Christine Schirrmacher beharrt darauf, den Islamismus als eine in erster Linie politische, nicht religiöse, Konzeption zu definieren.

Wenn das Wort „kritisch“ in diesem Zusammenhang nur bedeuten soll, daß Christine Schirrmacher zur offiziösen Schönfärberei Distanz hält, bin ich einverstanden. Freilich wird damit nur etwas umschrieben, was sich für Wissenschaftler von selbst verstehen sollte; eine Gewähr für die Richtigkeit ihrer Thesen oder auch nur für die Fruchtbarkeit und Erkenntnisträchtigkeit ihres Begriffssystems liegt darin noch lange nicht. Tatsächlich folgt Weißmann Schirrmacher in eine begriffliche Falle, nämlich die unreflektierte Anwendung westlicher Begriffssysteme auf nichtwestliche Gesellschaften:

„Die Schwierigkeiten, den Islam auf den soziologischen Begriff zu bringen, haben weniger mit der Vielschichtigkeit des zu beschreibenden Phänomens, also des Islam zu tun, als vielmehr mit der Unzulänglichkeit der ihn beschreibenden Begriffe. Wir sind es gewöhnt, ‚Religion‘, ‚Politik‘, ‚Kultur‘ und ‚Recht‘ als Bezeichnungen voneinander getrennter und gegeneinander autonomer Lebensbereiche aufzufassen. Diese Begriffe sind aber nicht in einem historischen und gesellschaftlichen Vakuum entstanden, und ob sie universell anwendbar sind, ist durchaus fraglich.

Sie sind dazu entwickelt worden, eine ganz bestimmte Gesellschaft zu beschreiben – unsere eigene, funktional differenzierte westliche Gesellschaft –, weswegen sie deren Angehörigen, also uns, auch ohne weiteres einleuchten. Es gibt aber a priori keinen Grund zu der Annahme, dass dieses Begriffsystem zwangsläufig ebenso gute Dienste bei der Analyse nichtwestlicher Gesellschaften leisten müsse; es gibt sogar erstklassige Argumente dagegen:

Die Unterscheidung von Religion und Politik etwa, die uns so selbstverständlich erscheint, dass wir nicht mehr darüber nachdenken, spiegelt sich beim Reden über den Islam in dem antithetischen Gebrauch der Begriffe ‚Islam‘ und ‚Islamismus‘: das eine eine Religion, das andere etwas (nach unserem Verständnis) vollkommen anderes, nämlich eine politische Ideologie, die den Islam bloß ‚missbraucht‘, und zwar als Arsenal, aus dem sie sich mit Propagandaslogans versorgt. Dass der Islamismus zum Islam in derselben Weise gehören könnte wie der Rüssel zu besagtem Elefanten, ist für viele Menschen buchstäblich un-denkbar, weil es in ihrem Begriffssystem nicht vorgesehen ist.

(…)

Kein erstzunehmender Islamexperte (und noch weniger die Muslime selbst) würde bestreiten, dass der Islam sich selbst als umfassende Lebensordnung versteht – also nicht etwa als Religion, wie wir sie uns vorstellen, die man auch im stillen Kämmerlein praktizieren könnte, deren Befolgung Privatsache wäre, und die sich vor allem auf die Gottesbeziehung des Einzelnen auswirkt. Der Islam durchdringt – seinem eigenen Anspruch nach – auch Recht, Politik, Kultur, Wissenschaft und überhaupt jeden Lebensbereich. Es gibt im Islam keinen Vorbehalt nach Art des neutestamentlichen ‚So gebt dem Kaiser, was des Kaisers ist, und Gott, was Gottes ist.‘ (Mt 22,21) Es gibt keine islamfreie Zone, zumindest soll es keine geben.

Dies, wie gesagt, wird auch zugestanden, und dass der Islam keine Säkularisierung erlebt hat, gehört mittlerweile fast schon zur Allgemeinbildung. Bisher fühlte sich aber kaum einer berufen, die soziologischen Konsequenzen dieses unbestrittenen Sachverhaltes zu analysieren. Es scheint auch niemandem aufzufallen, wie inkonsequent es ist, das Fehlen der Säkularisierung islamischer Gesellschaften festzustellen, diese Gesellschaften aber in Begriffen zu beschreiben, die eine solche Säkularisierung gerade voraussetzen.“

(a.a.O., S. 10 f., 13)

Eine Gesellschaft, deren leitendes Normen- und Wertesystem die religiöse Verankerung auch von Politik und Recht fordert, bringt mit Notwendigkeit regelmäßig Kräfte hervor, die damit Ernst machen – in einem modernen Kontext also Islamisten –, und zwar typischerweise dann, wenn der Islam als Grundlage der gesellschaftlichen Ordnung noch nicht etabliert ist, oder wenn er in dieser Hinsicht angefochten wird. Dies ist nicht nur ein deduktiv gewonnener theoretischer, sondern auch ein empirischer Befund: Die Intoleranz gegenüber Nichtmuslimen und „schlechten“, d.h. nonkonformen Muslimen, und die Rigidität, mit der die islamischen Normen durchgesetzt werden, ist regelmäßig dann am größten,

  • wenn die gesellschaftliche Ordnung zusammengebrochen ist und rekonstituiert werden muss, wie heute in den gescheiterten Staaten Afghanistan und Somalia, oder
  • wenn Muslime noch in der Minderheit, aber bereits mächtig genug sind, die Islamisierung nichtmuslimischer Gesellschaften zu erzwingen, wie es in den frühen Phasen sowohl der arabischen als auch der türkischen Expansion der Fall war (ein Aspekt, der uns zu denken geben sollte, zumal wenn wir sehen, daß der Islam in Teilen der muslimischen Parallelgesellschaften in Europa um einiges rigider interpretiert wird als in den meisten Herkunftsländern der Migranten), oder
  • wenn die islamischen Gesellschaften von außen durch nichtmuslimische Mächte bedroht werden, militärisch etwa während der Kreuzzüge, wirtschaftlich, kulturell und militärisch durch die westliche Expansion seit dem 19.Jahrhundert.

Vom Standpunkt einer ganz bestimmten Ideologie kann Islamismus freilich nichts mit dem Islam und der mit ihm zusammenhängenden soziologischen Eigengesetzlichkeit muslimischer Gesellschaften zu tun haben, weil sie mißliebige gesellschaftliche Erscheinungen, eben auch den Islamismus, bereits aus ideologischem Prinzip auf „Unterdrückung, Armut und Not“ zurückführt. Weißmann faßt Schirrmachers Ausführungen zu den Ursachen des Islamismus so zusammen:

Er [der Islamismus] sei eine „totalitäre Ideologie“ mit einem im Kern „utopischen Weltbild“, die auf die Unterdrückung, die Armut und die Not in den Gebieten des Nahen Ostens seit dem Ende des 19. Jahrhunderts mit dem Angebot eines „ganzheitlichen Islam“ reagierte.

Wie sie mit diesem Modell den Erfolg von Islamisten in Europa erklären will, wo Muslime weitaus mehr Rechte und mehr Wohlstand genießen als in den meisten ihrer Herkunftsländer, wird wohl Schirrmachers – und, da er sie zustimmend zitiert, auch Weißmanns – Geheimnis bleiben. Ich gestehe, daß ich die Bedenkenlosigkeit und Naivität einigermaßen befremdlich finde, mit der Weißmann, ein profilierter Konservativer, anscheinend im Vertrauen auf „die Wissenschaft“, ein Erklärungsmuster übernimmt, das erkennbar in den Prämissen linker Ideologie verwurzelt ist.

Weißmann zufolge, der ihr auch hier folgt, weist Schirrmacher die Argumentation der Islamkritiker, wonach der Islamismus nur konsequent praktiziere, was der Islam schon immer gefordert habe, (nämlich die Einheit von Religion und Politik unter dem Gesetz der Scharia) und deshalb notwendig aus ihm hervorgehe, mit dem Argument zurück,

daß die Mehrzahl der Moslems … von diesem Konzept weit entfernt sind.

Das islamistische Potenzial sei mit circa 10 Prozent der Heranwachsenden zwar erheblich, aber dennoch nur minoritär.

Abgesehen davon, daß schlechterdings nicht zu erkennen ist, inwiefern Feststellungen dieser Art die These widerlegen sollen, der Islam bringe den Islamismus als solchen mit Notwendigkeit hervor, ist der zentrale Denkfehler dieses Arguments die Gleichsetzung von Quantität und Qualität – so, als hinge die Durchschlagskraft radikaler ideologischer Positionen vom Bevölkerungsanteil ihrer Anhänger ab; nebenbei gesagt ein Denkfehler, der einem nur vom typisch liberalen Standpunkt eines individualisierenden Denkens unterlaufen kann, das die Dynamik sozialer Beziehungen ausblendet (und deshalb aus Weißmanns Feder merkwürdig inkonsistent wirkt):

Allein ihre eigene nicht abreißende Kette von Niederlagen in den letzten fünfzig Jahren sollte deutsche Konservative hinreichend darüber belehrt haben, daß kleine radikale Minderheiten sehr wohl in der Lage sind, ihre Vorstellungen auch gegen eine widerstrebende Mehrheit durchzusetzen, wenn diese Mehrheit nicht aktiv gegensteuert, weil und sofern sie, die Minderheit, dabei einen bestehenden ideologischen Konsens zu ihren Gunsten umdeutet und ausnutzt. Ein solcher Grundkonsens, und zwar über die Geltung islamischer Normen, besteht in den muslimischen Parallelgesellschaften aber sehr wohl; diese Gemeinschaften bilden den Resonanzboden, ohne den die Islamisten in der Tat nicht erfolgversprechend agieren könnten; und fatalerweise liegt zudem die Definitionsmacht, was „die Muslime“ wollen und „der Islam“ fordert, in den Händen von Organisationen, die meist selbst islamistisch sind (und selbst die, die das nicht sind, weil sie zum Beispiel ethnisch definierte Interessen vertreten, lassen sich mühelos vor den Karren der Islamisten spannen).

Des weiteren hängt die Durchsetzungsfähigkeit gerade von Islamisten nicht zuletzt von ihrer Gewaltbereitschaft ab, die als hemmender und einschüchternder Faktor ins Kalkül nichtmuslimischer Akteure – etwa von Polizeibeamten oder Politikern, aber auch von einfachen Bürgern – einfließt.

Und schließlich werden islamische Standards – etwa, Muslime nicht zu „provozieren“, als Frau oder Mädchen islamischen Vorstellungen von „Sittlichkeit“ zu entsprechen, Muslimen Tribute zu entrichten, gewaltsame Machtdemonstrationen von Muslimen zu dulden – durchaus nicht nur und nicht einmal überwiegend von Islamisten durchgesetzt, sondern vor allem von Kriminellen, denen dabei aber jedes Unrechtsbewußtsein fehlt, weil ihr Verhalten ja „nur“ gegen das Recht der „Ungläubigen“ verstößt und daher in ihrer muslimischen Umgebung aufgrund von deren sozialisatorischer Prägung keine energische soziale Mißbilligung erfährt.

Dritte von Weißmann angefochtene These:

3. Es gibt eine Kontinuität der islamischen Aggression

Weißmann zitiert in diesem Zusammenhang Bernard Lewis, der die fortschreitende Islamisierung Europas als „dritte Angriffswelle der islamischen Expansion“ (nach der arabischen und der türkisch-osmanischen) deutet, und wendet dagegen ein,

daß die Migration kein Teil einer islamischen Strategie war. Wer als Arbeiter oder als Flüchtling in den Westen ging, tat das aus einer individuellen Motivation, kaum je mit dem Ziel, die umma auszuweiten. (…) Die Islamisierung Europas erweist sich insofern als Nebeneffekt eines Bevölkerungsaustauschs, nicht als Ergebnis einer langfristigen Konzeption. Es soll damit gar nicht bestritten werden, … daß vom türkischen Staatsislam bis zu dschihadistischen Gruppen alle möglichen Organisationen sich die Schwäche des liberalen Systems zu Nutze machen … , aber die Annahme, es gäbe dahinter so etwas wie einen Masterplan, geht an den Realitäten offensichtlich vorbei.

Weißmann behauptet also, die muslimische Massenmigration sei nicht als Dschihad zu werten, und begründet dies unter anderem damit, dass es an ihrem Beginn, also um 1960, keinen islamischen „Masterplan“ zur Islamisierung Europas gegeben habe. Dieses Argument ist insofern eine glatte Themaverfehlung, als es bestenfalls die Frage beantwortet, ob der Islam 1960 unser Feind war, nicht aber die, um die es geht, nämlich, ob er es jetzt ist.

Tatsache ist, dass das Ziel der Islamisierung Europas schon in den siebziger Jahren offen verkündet worden ist, daß in dieser Zeit islamistische Organisationen, speziell aus dem Dunstkreis der Muslimbruderschaft, ausgeklügelte Strategien zur Unterwanderung der europäischen Gesellschaften vorgelegt haben, und daß heute unter praktisch allen maßgeblichen islamistischen Strategen und ihren Organisationen Konsens über die Grundzüge dieser Strategie besteht. Dabei agieren diese Organisationen aber nicht im luftleeren Raum, sondern kalkulieren das aufgrund islamischer Sozialisation erwartbare Verhalten (ohne das ihre Strategien gar nicht funktionieren könnten) ihrer Glaubensbrüder an der Basis als selbstverständliche Vorgabe ein.

Gerade dieses Verhalten von Ali Normalmuslim ist der Dreh- und Angelpunkt dieser Strategien, und dies nicht etwa deshalb, weil alle Muslime glühende Dschihadisten wären, sondern gerade deshalb, weil sie das gar nicht zu sein brauchen, um den gewünschten Effekt zu erzielen. Weißmanns Überlegungen, sofern sie auf die individuellen Motive von muslimischen Einwanderern abstellen, taugen schwerlich als Argument gegen eine Islamkritik, deren Pointe gerade darin liegt, daß der Dschihad im Islam strukturell verankert und damit von den Kontingenzen individueller Motivlagen unabhängig ist.

Konkretisieren wir dies an einigen Beispielen:

Es ist allgemein bekannt, daß türkische Einwanderer sich ihre Ehepartnerinnen sehr häufig in der Türkei suchen und sie dann nach Deutschland holen, weil sie davon ausgehen, daß solche Frauen ein traditionell islamisches Wertemuster mitbringen und nicht von westlichen Ideen angekränkelt sind. Mit Dschihadismus hat dies auf den ersten Blick nichts zu tun; das individuelle Motiv, das hinter einem solchen Verhalten steht, dürfte in den meisten Fällen der verständliche Wunsch sein, eine harmonische Ehe zu führen, wozu eben auch gemeinsame sittlich-religiöse Werte gehören. Dies bedeutet freilich zugleich, daß ein anderes Motiv, nämlich der Wunsch, in Harmonie mit den Erwartungen der (deutschen) Gesellschaft zu leben, keine wesentliche Rolle spielt.

Diese Ablehnung sozialer Erwartungen, die von Nichtmuslimen an Muslime gerichtet werden, ist als Norm kulturell verankert und nicht zwangsläufig vom individuellen Glauben abhängig. Daß nicht jeder Einzelne von solchen Normen gleichermaßen stark und in gleicher Weise geprägt ist (wie oben schon erwähnt), ändert nichts an dem Resultat, das sich ergibt, wenn wir nicht den einzelnen Muslim, sondern die islamische Gemeinschaft als Ganze in den Blick nehmen. Wir haben es hier mit der unmittelbaren Wirkung kulturell verinnerlichter islamischer Normen zu tun, insbesondere dem Gebot, zu Nichtmuslimen keine „sozialen Beziehungen zu unterhalten, die die Gefahr des Abfalls vom oder des Verrats am Islam mit sich bringen, ganz gleich, ob diese Gefahr auf emotionaler Nähe, politischer Abhängigkeit oder rechtlicher Bindung basiert“ (Dschihad-System, S.116).

Es soll also alles unterlassen werden, was die innermuslimische Solidarität im Verhältnis zu Nichtmuslimen beeinträchtigt, und dies gilt auch und gerade für die politische Solidarität. Für Muslime, auch die kritischen unter ihnen, ist es demgemäß nahezu unmöglich, eine nichtmuslimische Nation als ihre eigene in dem Sinne zu betrachten, daß sie sich in politischen Fragen an deren Lebensinteressen (und nicht an den Interessen ihrer jeweiligen muslimischen Herkunftsnation) orientierten. Dies ist mitnichten eine Selbstverständlichkeit, wie das Beispiel der Nachkommen von Hugenotten und polnischen Migranten lehrt; es ist eine muslimische Besonderheit.

Dort aber, wo Muslime im Westen sich einen nichtmuslimischen Ehepartner suchen, also bei gemischtreligiösen Paaren, die es ja auch gibt, ist der muslimische Partner in der Regel der Mann. Wiederum ein Sachverhalt, bei dem man über individuelle dschihadistische Motive bestenfalls fruchtlos spekulieren kann, dessen Verwurzelung im islamischen Normensystem aber offen zutage liegt:

„Ein häufig übersehener Aspekt des islamischen Rechts liegt in den Regeln darüber, wer wen heiraten darf: Frauen dürfen nämlich unter keinen Umständen ‚Ungläubige‘ heiraten, während Männer das durchaus dürfen. Zumindest, soweit die ‚Ungläubigen‘ zu den ‚Schriftbesitzern‘ gehören, also Christinnen oder Jüdinnen sind.“ (Dschihad-System, S.129)

Diese Norm ist eine Dschihad-Norm, hat historisch auch in diesem Sinne funktioniert und ihren Teil zur Verdrängung nichtmuslimischer Gemeinschaften beigetragen:

„Eine Gemeinschaft wie die islamische …, die [das] Exogamieverbot für Männer aufhebt, für Frauen aber nicht, betreibt nicht Konsolidierung, sondern demographische Expansion … : Wer die eigenen Mädchen nur innerhalb der eigenen Gemeinschaft verheiratet, die der anderen Gruppen aber wegheiratet und dafür sorgt, dass deren Kinder die Religion des Vaters annehmen (was mit einer gewissen Selbstverständlichkeit unterstellt wird), sorgt dafür, dass die anderen Gruppen durch Osmose langsam, aber sicher verschwinden.“ (Dschihad-System, S.130)

Ich zitiere diese Beispiele, um zu illustrieren, wie irreführend es ist, von „Dschihad“ nur dort zu sprechen, wo irgendwelche „Masterpläne“ verfolgt werden:

„Wer … in einem verschwörungstheoretischen Sinne nach dem großen Strippenzieher sucht, wird enttäuscht werden. Der Islam hat dergleichen nicht nötig, weil die Strippen schon vor eintausendvierhundert Jahren vom Propheten Mohammed – Muslime glauben freilich: von Allah selbst – gezogen worden sind.“ (Dschihad-System, S.287).

Der Islam ist nicht deshalb ein Dschihadsystem, weil alle Muslime Islamisten wären und im Kampf für die Ausbreitung des Islam ihren Lebenssinn suchen würden – dies ist offensichtlich nicht der Fall, auch wenn der Islam auch solche Menschen mit Notwendigkeit hervorbringt, sie eine wichtige Rolle im Dschihad spielen und ihre Anzahl erschreckend hoch ist –, sondern weil die islamischen Sozialnormen so aufeinander abgestimmt sind, daß selbst ihre im Einzelfall vielleicht halbherzige Befolgung, sofern sie nur als Normalfall unterstellt werden kann, die islamische umma in die Lage versetzt, nichtmuslimische Völker unter Druck zu setzen und gegebenenfalls auch zu verdrängen.

Eine liberal-individualisierende Betrachtungsweise freilich, die den Islam nicht als Grundlage einer Gesellschaftsordnung betrachtet, sondern als lediglich individuellen Glauben, der folglich nur in den Köpfen von Muslimen existieren, nicht aber in sozialen Strukturen objektiviert sein kann – eine solche Betrachtungsweise kann „den Islam“ als soziales System und seine Dynamik gar nicht in den Blick bekommen. Wo aber bereits Prämisse ist, daß es den Islam im Grunde nicht gibt, sondern nur viele Muslime, kann als Schlußfolgerung auch nichts anderes herauskommen.

Genau dies ist auch der Punkt, an dem Weißmanns Kritik an der vierten islamkritischen These scheitert:

4. Der Islam bildet eine Einheit

Die Annahme eines besonderen islamischen Gefahrenpotentials bezieht ihre Plausibilität selbstverständlich auch aus der Vorstellung, daß der Islam als Einheit agiert. Soweit diese Annahme nicht einfach auf Ignoranz beruht, spielt vor allem die Geopolitik eine Rolle für entsprechende Argumente. (…) Aus der Sicht der Geopolitik erscheinen selbstverständlich auch die Hypothesen Samuel Huntingtons in bezug auf den „Kampf der Kulturen“ besonders plausibel.

Es ist zutreffend, daß insbesondere die liberalen Teile der islamkritischen Szene, die sich besonders mit „dem Westen“ und dessen Führungsmacht USA identifizieren, Huntingtons These viel abgewinnen können. Weißmann scheint aber nicht Betracht zu ziehen, daß man die Akteurseigenschaft des Islam auch ohne Rückgriff auf geopolitische Denkfiguren bejahen kann. Wer solches tut, ist laut Weißmann nicht etwa Verfechter einer alternativen Theorie, sondern schlicht ein Ignorant. Da ich selbst der Geopolitik eher abhold bin, muß meine Neigung zur Islamkritik daher wohl auf meine notorische Ignoranz [4] zurückzuführen sein.

Weißmann weist Theorien, die den Islam als Einheit auffassen, mit zwei zentralen Argumenten zurück:

Erstens gebe es auch zwischen muslimischen Makroakteuren mannigfache Konflikte:

Unbestreitbar ist es jedenfalls so, daß die drei Hauptträger der islamischen Renaissance – zuerst die Iraner, dann die Araber, zuletzt die Türken – unterschiedliche Generallinien verfolgen und in einem, gelegentlich zu militärischen Konflikten führenden, Konkurrenzverhältnis zueinander stehen.

Zweitens verfüge der Islam über kein entscheidungsfähiges Zentrum, dessen es aber bedürfte, damit er eine Feinderklärung aussprechen und durchfechten könne:

Tatsächlich ist der Islam seit den Tagen der ersten Kalifen kein Ganzes mehr gewesen, er besitzt keine Kirchenstruktur und keinen Klerus, und es gibt permanent massive Auseinandersetzungen zwischen verschiedenen islamischen Konfessionen und Fraktionen …

Weil dies so sei, so folgert Weißmann weiter unten in seinem Fazit, könne er auch nicht sinnvollerweise Gegenstand einer Feinderklärung sein, weil eine solche sich

gegen eine Größe [richten müßte], die als solche gar nicht existiert: der Islam. Feind kann aber nur sein, wer, mit Carl Schmitt, als eine „der realen Möglichkeit nach kämpfende Gesamtheit von Menschen auftritt“… Und das ist nicht der Fall.

Halten wir zunächst fest, daß diese Argumentation, sofern sie auf die Nichtexistenz einer kirchenartigen Hierarchie und überhaupt eines Entscheidungszentrums abstellt und bereits deswegen dem Islam die Akteurseigenschaft abspricht, an derselben Schwäche krankt, die uns bereits oben im Zusammenhang mit den Thesen Schirrmachers aufgefallen ist, nämlich der unreflektierten Übertragung westlicher Begriffe und Ordnungsvorstellungen auf eine Gesellschaft, die auf ganz anderen kulturellen Voraussetzungen basiert, und die daher nicht unbedingt in unseren Begriffen sinnvoll zu beschreiben ist. Wir sind es – zweifellos auch vor dem Hintergrund unserer liberalen Rechtstraditionen, bei Weißmann auch einer konservativen Neigung zum Etatismus – gewöhnt, als „Akteure“ (neben Einzelpersonen) nur solche sozialen Systeme aufzufassen, die ein relativ hohes Maß an formaler Organisation aufzuweisen haben, also etwa Staaten, Kirchen, Parteien, Unternehmen etc., und hierarchisch organisiert sind.

Dabei ist bereits mit Blick auf unsere eigene Gesellschaft durchaus fraglich, ob sich die in ihr existierenden Machtstrukturen und Konfliktlagen auf der Basis eines solchen Vorverständnisses noch sinnvoll beschreiben lassen: Nach dessen Logik nämlich wären auch die politische Linke, die globalen Eliten, die politische Klasse oder das System der etablierten Medien nicht als Akteure (und demgemäß auch nicht als Feinde) anzusprechen, da sie in sich jeweils nicht zentralistisch und hierarchisch, sondern netzartig strukturiert und zudem durch starke interne Konkurrenzverhältnisse geprägt sind. Wer sich freilich nur auf diese Konkurrenzmechanismen und internen Interessenkonflikte konzentriert, wird immer wieder überrascht sein, wie sehr diese angeblichen Nicht-Akteure im Verhältnis zu ihrer Umwelt zu koordiniertem Handeln in der Lage sind, das kaum weniger effektiv ist, als wenn es durch eine zentrale Instanz gesteuert würde. Gerade die politische Rechte, die von all diesen Systemen als Feind markiert und erfolgreich bekämpft wird, hat wenig Anlaß, die Feindfähigkeit solcher Kollektivakteure von der Existenz jeweils zentraler Entscheidungsinstanzen abhängig zu machen.

Darüberhinaus bedarf Carl Schmitts Definition, wonach Feind nur sein könne, wer als „der realen Möglichkeit nach kämpfende Gesamtheit von Menschen auftritt“, der Präzisierung und Erläuterung: Damit ist nämlich nicht gemeint, daß etwa buchstäblich jeder Staatsbürger einer kriegführenden Macht, womöglich einschließlich der Säuglinge und Greise, auch faktisch kämpfen müsse, und nicht einmal, daß jeder Soldat ein Kämpfer sein müsse. Die Existenz etwa von Befehlsverweigerung, Sabotage, Spionage, Feigheit, Desertion etc., allgemein gesprochen die individuelle Mißachtung von kampfbezogenen Verhaltenserwartungen beeinträchtigt zwar den Kampfwert einer Streitmacht, stellt aber ihre Fähigkeit, eine Feinderklärung durchzufechten, nicht prinzipiell in Frage, solange die Erfüllung als Normalfall unterstellt werden kann und daher koordiniertes Handeln möglich ist. Dies hat auch nichts mit individuellen Motivationen zu tun: Es spielt keine Rolle, ob der Soldat kämpft, weil er den Sieg seiner Armee wünscht, oder weil er sicherstellen möchte, daß ihm sein Sold regelmäßig ausgezahlt wird, oder weil er Karriere machen möchte (Ganz allgemein sind soziale Systeme in dem Maße erfolgreich, wie sie individuelle Motive vor den Karren des Gemeinwohls spannen können und sich damit von der Gemeinwohlorientierung des Einzelnen unabhängig machen.). Und schließlich versteht es sich von selbst, daß nur dort gekämpft wird, wo auch gekämpft werden kann, im Zweifel also an der Front.

Nach Carl Schmitt ist eine politische Einheit, wer eine Feinderklärung aussprechen und durchfechten kann. Theorieimmanent ist es keineswegs erforderlich, daß die Feinderklärung stets konkret und situationsbezogen ausgesprochen wird; eine abstrakte und konditionierte Feinderklärung genügt vollkommen, sofern sichergestellt ist, daß bei Eintritt der Bedingungen der Kampf auch tatsächlich sinnvoll koordiniert geführt wird. Dies ist beim Islam der Fall, dessen leitender Gedanke die Feinderklärung gegen alle Ungläubigen ist (die freilich nur dort konkret werden kann, wo muslimische mit nichtmuslimischen Akteuren tatsächlich in der Weise in Berührung kommen, daß sie sinnvollerweise kämpfen können – wo also so etwas wie eine Front existiert), und dessen gesamtes Normensystem darauf hin optimiert ist, muslimische zur Verdrängung von nichtmuslimischen Gruppen zu befähigen, mit denen sie im selben sozialen Raum zusammentreffen; auf eine ausgeprägt dschihadistische Motivation jedes einzelnen Muslims kommt es dabei genauso wenig an wie auf die strikte Normbefolgung aller Muslime.

Die Nichtexistenz eines Entscheidungszentrums ist dabei sogar ein Vorteil, weil der Islam dadurch in seiner Eigenschaft als politische Einheit nicht durch die Korruption eines solchen Zentrums in der Weise kompromittiert werden kann, wie es den europäischen Nationen durch den Verrat ihrer Eliten zur Zeit widerfährt. Selbstverständlich gibt es auch in der islamischen Welt zuhauf korrupte Machthaber, deren Verhalten weit entfernt von einem islamischen Ideal ist, indem sie zum Beispiel westlich inspirierte Reformen durchsetzen, sich mit westlichen Mächten verbünden, Frieden mit Israel schließen oder die Gleichberechtigung von Angehörigen religiöser Minderheiten garantieren; damit stürzen sie aber ihre Herrschaft in tiefe Legitimitätskrisen. Allein das Ausmaß an diktatorischer Gewalt, die sie anwenden müssen, um die Opposition der Gesellschaft gegen diesen Verrat am Islam unter Kontrolle zu halten, dokumentiert freilich die Stärke des Islam und gerade nicht seine Nichtexistenz als politische Einheit.

Was diese Einheit konstituiert und aufrechterhält, ist nicht der darauf gerichtete Wille eines Zentrums, sondern die gemeinsame, religiös fundierte, aber kulturell und sozialisatorisch verinnerlichte Bezugnahme der islamischen Gemeinschaft auf ein Normensystem, das die wechselseitigen Verhaltenserwartungen innerhalb muslimischer Gesellschaften strukturiert, dadurch zu einer objektiven sozialen Gegebenheit wird, zu der muslimische Akteure sich verhalten müssen, und ihrem Verhalten im Zweifel die Richtung weist, die der Konsolidierung der politischen Einheit und ihrer Konfliktfähigkeit nach außen dient.

Wenn wir hierzulande beobachten, daß Muslime häufig und sogar typischerweise ein Verhalten zeigen, das dem Dschihad im Sinne der Verdrängung nichtmuslimischer Völker und Normensysteme förderlich ist (während praktisch niemand von ihnen ein Verhalten zeigt, das diesem Ziel direkt zuwiderliefe), so erweckt dies nicht zufällig den Eindruck koordinierten Handelns, sondern weil die im einzelnen unterschiedlichen Handlungsmuster im System der islamischen Normen einen gemeinsamen Bezugspunkt haben.

„Der Dschihad spielt sich deshalb auf zwei miteinander verschränkten und wechselwirkenden Ebenen ab: Auf der Ebene bewussten zielgerichteten Handelns begegnen wir den eigentlichen Dschihadisten, auf der Alltagsebene der mal mehr, mal minder traditionsorientierten Lebensweise von Muslimen, deren scheinbar unzusammenhängende private Handlungen sich wie von selbst zu einer mächtigen gesellschaftlichen Kraft verdichten, die die nichtislamischen Gesellschaften unter Druck setzt. Der Islam ist ein Dschihad-System, weil er beides notwendig hervorbringt.“ (a.a.O., S.184)

Kommen wir nun zur fünften und letzten von Weißmann kritisierten These der Islamkritik:

5. Das Ziel des Islam ist die Islamisierung Europas beziehungsweise der Welt

Dabei bestreitet Weißmann nicht, daß dies tatsächlich das Ziel ist, glaubt aber Entwarnung geben zu dürfen. Zwar besteht auch nach seiner Auffassung ein ernstes Problem:

Allerdings bleibt es dabei, daß in einigen Ländern – wie Großbritannien, Frankreich oder Schweden – die moslemische Gruppe deutlich stärker wachsen wird. Daß es keinen Grund zur Entspannung gibt, hat aber vor allem damit zu tun, daß man die Altersstruktur in den Blick nehmen muß. Es gibt eine starke Fraktion junger, vor allem junger männlicher Moslems, den sogenannte youth bulge, ausgestattet mit einer „Hyperidentität“ (Christopher Caldwell); es gibt die regionale Konzentration, vor allem in den Metropolen; es gibt die Möglichkeit weiterer massiver Zuwanderung – etwa in Folge der Assoziierungsabkommen der Europäischen Union und der nordafrikanischen Länder; und es gibt überhaupt das Problem der Bildung ethnischer Brückenköpfe.

Dennoch würden Muslime weiterhin eine problematische, aber doch vergleichsweise kleine Minderheit bleiben:

Ohne Zweifel wächst die Zahl der Moslems in den Ballungszentren nicht nur Deutschlands, sondern auch Europas teilweise dramatisch. Aber die meisten Prognosen gehen davon aus, daß dieser Prozeß in absehbarer Zeit zum Stillstand kommt und dann auf einem mehr oder weniger hohen Niveau stagniert, daß aber der Bevölkerungsanteil der Muslime in Europa auch im Jahr 2030 lediglich acht Prozent (an Stelle der heutigen sechs Prozent), in Deutschland 8,6 Prozent (an Stelle der heutigen 6 Prozent) betragen wird. Das hängt wesentlich mit der fallenden Geburtenrate in moslemischen Familien zusammen.

Wie aus der IfS-Studie (Fußnote 96) hervorgeht, stützt Weißmann sich hier ausschließlich auf die Veröffentlichungen des Religionswissenschaftlers Michael Blume, die explizit das Ziel verfolgen, „islamophoben Populisten“ (s. S.1 der hier verlinkten pdf-Datei, die von Weißmann als Quelle angeführt wird [5]) entgegenzutreten, und der seine Behauptung einer „fallenden Geburtenrate in moslemischen Familien“ zumindest in dieser Quelle mit lediglich einer einzigen Grafik untermauert (S.16), deren Quellen summarisch angegeben werden, und deren Berechnungsmethoden nicht überprüfbar sind. Hierzu nur drei kurze Anmerkungen:

Erstens: Es gibt eine neuere Studie der Universität Rostock (Nadja Milewski, „Fertility of Immigrants. A Two-Generational Approach in Germany“), die zwar just zu dem Ergebnis kommt, die Geburtenraten von Migrantinnen würden sich denen der Deutschen annähern, dieses Ergebnis aber mit so halsbrecherischer Rechenakrobatik erzwingt (begründet habe ich das in diesem Artikel in meinem Blog „Korrektheiten“ [6]), daß der Umkehrschluß unabweisbar ist, daß man die These mit sauberen Mitteln nicht hätte untermauern können, daß sie also falsch ist.

Zweitens: Selbst wenn es ihn gäbe, würde ein eventueller Rückgang der Geburtenraten eingewanderter Musliminnen die Tendenz zur demographischen Islamisierung keineswegs stoppen; die Politik würde dieses „demographische Problem“ ohne jeden Zweifel auf dieselbe Weise „lösen“, wie sie es auch bisher schon getan hat, nämlich durch verstärkte Masseneinwanderung, die nach Lage der Dinge überwiegend aus islamischen Ländern käme. In quantitativer Hinsicht würde sich die Islamisierung also keineswegs verlangsamen, in qualitativer sich sogar noch verstärken.

Drittens: Da die politische Motivation hinter solchen Studien mit Händen zu greifen ist, sollte es sich von selbst verstehen, daß man ihnen als Konservativer mit einem gewissen gesunden Mißtrauen gegenübertritt. Weißmanns vertrauensselige Übernahme von „Forschungsergebnissen“, die penetrant nach politisch motivierter Desinformation riechen, mutet an dieser Stelle so befremdlich an wie oben die zustimmende Zitierung von Schirrmachers „Erklärung“ für die Existenz von Islamismus.

In seiner „Bilanz“ kritisiert Weißmann die Islamkritik vom strategischen Standpunkt. Nachdem er ihr vorgeworfen hat, ihre Feinderklärung gegen eine nicht existierende Größe zu richten und damit ein im Grunde unpolitisches Konzept zu verfolgen, fährt er fort:

Insofern bindet die Islamkritik, soweit sie das und nichts anderes ist, fatalerweise Kräfte, die an anderer Stelle eingesetzt werden müßten: zur Bekämpfung des weißen Masochismus und eines Establishments, das sich seiner bedient; …

Es versteht sich von selbst, daß der Islam nicht der einzige und nicht einmal der Hauptfeind ist, weil es ihn als kämpfenden Feind gar nicht gäbe, wenn der innere Feind, also vor allem das Establishment, ihm nicht die Tür geöffnet hätte. Daraus aber zu schließen, er sei keiner, ist eine falsche Analyse.

… vor allem aber zur Stärkung der nationalen und europäischen Identität.

Die Wahrnehmung, erst recht die Stärkung der eigenen Identität setzt vor allem voraus, daß man das Nichtidentische als fremd wahrnimmt. Vielen Europäern ist die Einzigartigkeit ihrer Kultur in keiner Weise bewußt; sie tendieren zu der Auffassung, alle Menschen und Kulturen seien im Wesentlichen gleich, d.h. so wie sie selbst. Die Konfrontation mit dem Islam, der im Gegensatz zu anderen fremden Kulturen auf einer ausgefeilten Ideologie basiert und daher nicht nur „irgendwie“, sondern in einer konkreten und benennbaren Weise fremd und anders ist, wirkt hier als heilsame Roßkur. „Wir“ lernen uns selbst kennen, indem wir „sie“ kennenlernen – zumal „sie“ uns auch noch täglich ihre Kriegserklärungen ins Gesicht schreien.

Dabei schadet es überhaupt nicht, daß nicht alle Islamkritiker rechts sind, und daß man den Islam außer von einem konservativen auch von einem linken oder liberalen Standpunkt kritisieren kann und sogar muß: Die Fremdartigkeit des Islam tritt gerade dadurch grell zutage, daß es buchstäblich keine einzige europäische Geistestradition gibt, die nicht islamkritische Implikationen hätte, zumindest soweit der Islam bei uns einwandert.

Auf der anderen Seite ist Islamkritik ein Querschnitthema, an dem man praktisch jedes konservative oder rechte Thema aufhängen kann. Dies nicht zu sehen und die darin liegenden Chancen nicht wahrzunehmen, ist so töricht wie (vom Standpunkt ihrer eigenen strategischen Interessen) die Haltung mancher Siebzigerjahre-Linker, die von Ökologie nichts wissen wollten, weil damit ja vom Klassenkampf abgelenkt werde und das Thema überhaupt konservativ besetzt war. Es ist durchaus plausibel, daß Islamkritik für die Rechte das werden könnte, was das Ökologiethema für die Linke war, zumal sie bereits jetzt mitnichten Kräfte „gebunden“, sondern der Rechten ganz im Gegenteil Kräfte zugeführt, zumindest aber in Rufweite gebracht hat, die sonst für sie unerreichbar gewesen wären.

Die darin liegenden Chancen zu nutzen, setzt freilich die Bereitschaft voraus, sich mit neuen Themen und Perspektiven auseinanderzusetzen. Diese Offenheit mag lästig sein und insofern auch „Kräfte binden“ – eine Tugend, und zwar eine, die sich auszahlt, ist sie trotzdem: eine Tugend übrigens, die in der islamkritischen Szene deutlich verbreiteter ist als in der konservativen – ich kenne beide aus eigener Anschauung –, und durch die sich erstere von letzterer äußerst vorteilhaft unterscheidet.


Article printed from Sezession im Netz: http://www.sezession.de

URL to article: http://www.sezession.de/35614/kritik-der-kritik-der-islamkritik.html

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Il ricordo di Adriano Romualdi (1940-1973)

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Ricorrenze. Il ricordo di Adriano Romualdi (1940-1973), intellettuale controcorrente

Pubblicato il 17 dicembre 2012 da Gianfranco de Turris
Categorie : Personaggi Rassegna stampa
Ex: http://www.barbadillo.it/ 

Se lo sono chiesto, ce lo siamo chiesto, me lo hanno chiesto nel 1983, nel 1993, nel 2003: che cosa avrebbe fatto, che cosa avrebbe detto, che avrebbe scritto, come si sarebbe comportato Adriano se fosse stato vivo?

Una domanda cui non è facile rispondere, anche per uno come me che della storia fatta con i “se” si occupa. Una domanda però che sottintende un senso di distacco, di privazione, ancora d’incredulità di fronte al suo destino, di sotterranea ammirazione per un uomo immaturamente e tragicamente scomparso a causa di un’imperscrutabile e terribile decisione del Fato (che nel 2000 ha voluto ripetersi con Marzio Tremaglia), anche da parte di chi non l’ha mai conosciuto se non, forse, attraverso i suoi scritti.

Adriano era della mia generazione, quella degli anni ’40, ma il primo di tutti essendo nato proprio nel 1940: oggi avrebbe avuto 63 anni, un signore di una certa età con sicuramente alle spalle molti libri, moltissimi articoli, forse anche una carriera universitaria.

Personalmente già mi sono posto l’interrogativo presentando il volume di tutti gli scritti di Adriano dedicati ad Evola (Su Evola, Fondazione Evola, 1998), ma oggi come oggi non riesco a pensare esattamente alla sua posizione rispetto alla politica odierna, se non che sarebbe stato intransigentemente all’opposizione di quella attualmente espressa dal partito erede del MSI, soprattutto sarebbe stato contro la sua politica non-culturale. Infatti, l’azione di Adriano fu sempre su questo piano che possiamo definire metapolitica, secondo gli insegnamenti evoliani. In tutti questi anni, se fosse vissuto, la sua importanza avrebbe potuto essere, nonostante alcune sue rigidità caratteriali, quella di un catalizzatore culturale: sarebbe diventato un’importante figura di riferimento, organizzatore e promotore d’iniziative, in polemica con l’ufficialità. Per semplice induzione sono quasi sicuro che avrebbe polemizzato con gli indirizzi presi, nella sua ultima fase, dalla Nuova Destra, e penso proprio che in qualche modo ambiguo avrebbero cercato d’incastrarlo, com’è successo a molti altri, durante gli anni del terrorismo e dello stragismo, in qualcosa di losco, di certo lontanissimo dal suo modo di pensare e dai suoi intenti. Era, infatti, una personalità di primo piano, anche per essere il figlio di Pino, uno dei fondatori del MSI ed alla fine vice-segretario, e si esponeva parlando e scrivendo: insomma poteva dare fastidio e per le sue idee e per essere una figura aggregatrice.

Era, proprio per quel suo scarto di pochi anni di età, un “fratello maggiore” (mi pare che la definizione sia di Maurizio Cabona), perché l’unico “maestro” della Destra italiana del dopoguerra, anche se non voleva essere chiamato così, era e rimane Julius Evola, di cui Adriano, per la lunga vicinanza e frequentazione, e per essere stato il primo a divulgarne ed interpretarne la “visione del mondo”, può considerarsi l’unico vero “allievo”. Come tale, come “fratello maggiore”, aiutò ed incoraggiò diversi di noi aprendoci le pagine de L’Italiano, uno dei mensili politico-culturali degli anni ’70, su cui si fecero le ossa in molti e dove si dibatterono argomenti oggi comuni ma che allora erano “nuovi” per la Destra ufficiale e del tutto trascurati: non solo cinema e narrativa contemporanea, ma anche fumetti, uso dei mass media, scienza, ecologia, letteratura fantastica, nuove tecnologie e nuove forme d’espressione, analisi della persuasione occulta, tendenze del costume italiano.

Una parte cospicua della storia della cosiddetta “destra pensante” si dovrà fare esaminando le pagine de L’Italiano soprattutto nel periodo in cui Adriano se n’occupò abbastanza direttamente, cioè negli anni della “contestazione”, fra il 1967 ed il 1973.

Era, infatti, del parere che più che lamentarsi della situazione esistente si dovesse agire concretamente sul piano, appunto, culturale e metapolitico. Conclude, infatti, così il suo saggioPerché non esiste una cultura di Destra del 1965 ed in edizione definitiva del 1970: “Bastano pochi cenni per tracciare le linee di sviluppo di una cultura di destra. Ma quest’astratto orientamento incomincerà a prendere forma quando dei singoli si metteranno a scrivere ed a fare”.

Penso che molti dei suoi amici di allora, magari prendendo strade personali diverse, questa via l’abbiano seguita: hanno scritto ed hanno fatto, nei limiti quantitativi consentiti dalle difficoltà insite all’establishment culturale italiano, per parlare degli ostacoli frapposti dalla stessa Destra ufficiale.

Ma l’hanno fatto.

L’idea che Adriano aveva di cultura la espresse in questo suo saggio, ancor oggi attuale e preveggente, per il semplice motivo che, a distanza di quasi 40 anni, le condizioni – diciamo così ambientali – non sono cambiate affatto. Le ragioni essenziali e di fondo di questa storica difficoltà della “cultura di destra”, a parte le situazioni contingenti e pratiche che non venivano per nulla da lui sottovalutate, Adriano le sintetizzava così: “Ciò non deve farci dimenticare la vera causa del predominio dell’egemonia ideologica della Sinistra. Esso risiede nel fatto che là esistono le condizioni per una cultura, esiste una concezione unitaria della vita materialistica, democratica, umanitaria, progressista. Questa visione del mondo e della vita può assumere sfumature diverse, può diventare radicalismo e comunismo, neo-illuminismo e scientismo a sfondo psicanalizzante, marxismo militante e cristianesimo positivo d’estrazione “sociale”. Ma sempre ci si trova di fronte ad una visione del mondo unitaria dell’uomo, dei fini della storia e della società”.

Invece – ecco la contrapposizione secondo le sue parole – “dalla parte della Destra nulla di tutto questo. Ci si aggira in un’atmosfera deprimente fatta di conservatorismo spicciolo e di perbenismo borghese (…). A Destra si brancola nell’incertezza, nell’imprecisione ideologica. Si è “patriottico-risorgimentali” e s’ignorano i foschi aspetti democratici e massonici che coesistettero nel Risorgimento con l’idea unitaria. Oppure si è per un “liberalismo nazionale” e si dimentica che il mercantilismo liberale e il nazionalismo libertario hanno contribuito potentemente a distruggere l’Ordine Europeo. O, ancora, si parla di “Stato Nazionale del Lavoro” e si dimentica che una Repubblica Italiana fondata sul lavoro ce l’abbiamo già – purtroppo – e che ricondurre in questi termini la nostra alternativa significa soltanto abbassarsi al rango di Socialdemocratici di complemento”.

E concludeva: “Basta poco ad accorgersi che se a Destra non c’è una cultura, ciò accade perché manca una vera idea della Destra, una visione del mondo qualitativa, aristocratica, agonistica, antidemocratica; una visione coerente al di sopra di certi interessi, di certe nostalgie e di certe oleografie politiche”.

Ecco perché nel saggio La “nuova cultura” di Destra, Adriano criticava le idee dell’allora nominato “consigliere culturale” del MSI, Armando Plebe, che era riuscito ad annacquare la piattaforma ideale dell’allora Destra Nazionale facendola diventare neo-illuminista, pragmatica, de-ideologizzata ed al massimo anti-comunista: “egli”, scriveva Adriano, “sotto il profilo ideologico è piuttosto un liberale che un uomo di Destra”. Plebe incassò e non replicò, ma si ricordò di queste critiche, tanto che dopo la sua morte non ebbe la minima remora a definire la posizione di Adriano come “l’aspetto più retrivo ed infecondo della cultura di destra”. Quasi quasi aveva ragione a contrario: nel senso che le posizioni dell’attuale partito che dovrebbe rappresentare la Destra italiana sembrano essere proprio quelle propugnate da Plebe; basti leggere il colloquio-intervista del suo presidente a La Repubblica (4 Novembre 2003) dove, alla domanda “Quali sono le nuovi componenti culturali del suo partito”, così risponde: “Indicherei tre radici essenziali: nazionale, nell’accezione non di nazionalismo ma di amor-patrio; liberale; cattolica”. Come ben si vede, Adriano aveva già capito tutto 40 anni fa. La sua posizione, infatti, faceva riferimento alla “Rivoluzione Conservatrice” nel senso più ampio, e non solo tedesco, del termine. Lo confermò in quello che fu uno dei suoi ultimi scritti: la risposta ad un’inchiesta su “le scelte culturali dei giovani di destra” che avevo preparato per Il Conciliatorema che poi venne pubblicata, poiché si era bruscamente troncata la mia collaborazione con il mensile milanese, sulla rivista dell’Ingegner Volpe, Intervento, nell’aprile 1973, pochi mesi prima del fatale incidente, e che ora ho riunito nel volume I non-conformisti degli anni Settanta(Ares, 2003).

Una rivoluzione che, come ben si sa, si rivolgeva ai valori del passato per andare avanti, secondo una definizione di Moeller Van Den Bruck da Adriano citata: “Essere conservatori non significa dipendere dall’immediato passato, ma vivere dei valori eterni”. Frase che – se permettete – accosterei ad un altro grande cui mi avvicinano alcuni miei interessi: Tolkien, il quale a sua volta diceva: “Autore o amatore di fiabe è colui che non si fa servo delle cose presenti”. In fondo esprimono lo stesso concetto.

Nel prendere questa posizione Adriano metteva in pratica i dettami di Julius Evola che già nel 1950, scrivendo per i ragazzi reduci dell’esperienza della RSI, su Orientamenti al punto secondo consigliava di abbandonare il contingente e mantenere l’essenziale. Per questo motivo, Adriano, pur essendo dissenziente su certe posizioni evoliane, poteva concludere così la sua risposta all’inchiesta prima ricordata: “Se mi è permessa una valutazione personale, noi che abbiamo letto da adolescenti Gli uomini e le rovine (e non siamo poi così pochi) siamo nel nostro ambiente – grazie ad Evola – i soli non qualunquisti”. Appunto, quel che è diventata la Destra ufficiale di oggi. Ma questa possibilità da lui indicata, purtroppo, non è mai stata sfruttata, né sembra possibile farlo attualmente anche se ci sarebbero le condizioni teoriche ottimali per farlo. Infatti, la Sinistra è ideologicamente,culturalmente e moralmente allo sbando: regge solo per il suo essersi da mezzo secolo innestata profondamente nei gangli della cultura italiana e per il rimanervi grazie alla forza d’inerzia, alla convivenza ed al mutuo soccorso. Oggi a sinistra si stanno ammettendo le colpe delle stragi compiute dopo il 25 aprile, si stanno ammettendo i compromessi ed i silenzi colpevoli nei confronti di Stalin e Togliatti, si riconosce l’asservimento degli storici ad una visione comunista con il conseguente condizionamento d’intere generazioni, si ammettono connivenze, complicità, conformismi. Eppure, non si riesce ad approfittare di questo momento di gravissima crisi perché l’ambiente della Destra Politica non è cambiato rispetto a quello descritto da Adriano 40 anni fa, non si è creata una “visione del mondo”, si è andati avanti alla giornata al punto da, alla fine, negare se stessa, rinnegando il proprio passato praticamente in blocco, rifiutando tutti i suoi riferimenti culturali, preferendo il Nulla o il qualunquismo (il che è quasi la stessa cosa) ad un serio ripensamento e ad una riattualizzazione: non ha rifiutato il contingente e mantenuto l’essenziale, ma ha rifiutato sia il contingente che l’essenziale. Ha tagliato, com’è stato scritto con grande compiacimento dei progressisti (ma strumentalmente, ai fini della politica-politicante), tutte le sue radici. Aggiungiamo che ha distrutto i ponti ed ha bruciato i vascelli alle sue spalle: ma non esiste alcun futuro senza un passato. Tanto meno con un passato costruito all’impronta, da neofiti, da nuovi arrivati. Ma c’è di peggio. Non ci si limita a rifiutare il passato di tutto un mondo umano, ma, per essere ben accetti, lo si denigra e lo si offende, andando addirittura contro certe correnti storiografiche che cercano di riequilibrare giudizi puramente ideologici su di esso, con un cinismo assoluto e strumentale. Sicché, per tornare a noi, si è potuto leggere che Adriano era un esaltato, che viveva condizionato dal nibelungico crepuscolo del nazismo, al punto di essere affetto da “autismo ideologico” e di rappresentare una “cultura di addetti alla nostalgia” (Marco De Troia, Fronte della Gioventù, Settimo Sigillo, 2001), quasi un piccolo cattivo maestro nazista, razzista e radicale (G.S. Rossi, La destra e gli ebrei, Rubettino, 2003), perché ovviamente il grande cattivo maestro era Julius Evola, entrambi contrapposti ai “buoni” del vecchio MSI, quelli che poi avrebbero creato l’attuale entità politica sua erede.

Di fronte a questo rinnegamento e a questa denigrazione da parte di una destra che si vuole accreditare presso i “poteri forti” attuali, non si può fare a meno di pensare a qualcosa di concreto, non solo ricordando Adriano, ma ristampando in edizione critica le sue opere da troppo tempo scomparse. Fosse vissuto sino ad oggi, con alle spalle il curriculum culturale di 40 anni di attività, sarebbe stato un punto di riferimento, come ho detto, di una resistenza non solo culturale e metapolitica, ma anche morale. Non essendoci più, noi non possiamo far altro che cercare di seguire gli spunti, le idee, i riferimenti che ci ha lasciato, adeguandoli ai tempi naturalmente, come del resto avrebbe fatto anche lui. Tempi questi che, mai – credo – Adriano avrebbe voluto prevedere, pur avendoli in parte immaginati, anche nelle sue visioni più pessimistiche.

A cura di Gianfranco de Turris

mardi, 15 janvier 2013

F. Klimsch: Junges Mädchen

Fritz Klimsch

Junges Mädchen/Jong meisje

Jeune fille/Young girl

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Pourquoi la France ouvre-t-elle ses portes au Qatar ?

Enquête : Pourquoi la France ouvre-t-elle ses portes au Qatar ?

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Sous Sarkozy comme avec Hollande, le richissime émirat dispose des mêmes facilités pour racheter des pans entiers de notre économie. Que signifie l’appétit d’ogre de ce petit pays ? Pourquoi Paris lui ouvre-t-il ses portes ? Enquête.

La dépêche, stupéfiante, est tombée le 6 novembre dernier : l’ambassadeur du Qatar, Mohamed Jaham al-Kuwari, annonçait à l’Agence France-Presse que son pays avait l’intention d’investir 10 milliards d’euros dans des sociétés du CAC 40. Répondant au journaliste qui évoquait quelques rares déclarations de personnalités qui, comme Bernard-Henri Lévy, Jean-Luc Mélenchon ou Julien Dray, ont manifesté leur inquiétude sur l’influence du Qatar en France, l’ambassadeur a conclu l’interview par une formule aussi ironique qu’arrogante : «C’est quoi, le problème ?»

En effet, il n’y a, apparemment, aucun problème. Apprendre que le fonds souverain qatari va presque doubler le montant de ses participations dans le CAC 40 ne pose aucun problème au gouvernement ni à l’opposition. Organiser la Coupe du monde de football dans un pays où ce sport n’intéresse personne et va nécessiter la construction de stades munis de sols réfrigérants pour pouvoir supporter des températures à 45° C (bonjour Kyoto !), ça n’interpelle personne dans le monde du sport – pas même Michel Platini -, ni dans celui de l’écologie, surtout pas Yann Arthus-Bertrand. Coïncidence : son dernier film a été financé par des Qataris…

Savoir que des Qataris pourraient sélectionner des entrepreneurs de banlieue sur une base communautariste n’inquiète pas grand monde. Installer une annexe de Normale Sup à Doha, ville où l’on est payé 400 dollars ou 12 000 selon la couleur de sa peau, ne dérange personne, et surtout pas Monique Canto-Sperber, présidente du pôle interuniversitaire Paris Sciences et Lettres et Philosophe spécialiste de «l’éthique».

Qu’enfin la France impose à tous ses partenaires l’admission directe du Qatar au sein de la francophonie, sans passer par la case «observateur», comme l’exigeaient les usages jusqu’alors, cela n’ennuie pas grand monde non plus.

A Doha, on appelle ça le «français sonnant et trébuchant». Mais, à Paris, le silence est de rigueur. Depuis des années. On peut même dater l’origine de l’amitié franco-qatarie : le premier voyage de Nicolas Sarkozy, alors ministre de l’Intérieur, à Doha, en décembre 2005. Sarkozy s’est lié d’amitié avec le Premier ministre qatari, Hamad ben Jassem al-Thani, «HBJ» pour les intimes, au risque de mélanger les genres.

Lorsqu’il arrive à l’Elysée, Sarkozy prend l’habitude de recevoir tous les mois «HBJ». Au menu des discussions, les emplettes en France du fonds souverain Qatar Investment Authority (QIA). Selon un patron du CAC 40, «Guéant avait une liste de courses pour les Qataris. On avait l’impression que l’Elysée leur donnait à racheter la France».

C’est durant le quinquennat Sarkozy que le Qatar est entré dans le capital de plusieurs groupes du CAC 40. Le président a même donné de sa personne, en faisant pression sur le président du PSG, Sébastien Bazin, gérant du fonds Colony Capital, pour lui demander de vendre le PSG selon les conditions du Qatar. Bazin proposait aux Qataris 30 % du club de foot parisien pour 30 millions d’euros. Après l’intervention présidentielle, ils en ont récupéré 70 % pour 40 millions (ils en sont désormais propriétaires à 100 %).

Convention fiscale

Mais le sport n’est qu’une conséquence d’une orientation stratégique prise à l’Elysée. C’est sous l’ère Sarkozy que le Qatar s’est imposé – sans provoquer un quelconque débat, même au sein du gouvernement Fillon – comme un médiateur de la diplomatie française au Proche et au Moyen-Orient : intervention financière pour libérer les infirmières Bulgares en Libye (juillet 2007), aide au rapprochement entre Nicolas Sarkozy et Bachar al-Assad, puisque, avant d’aider les combattants, le Qatar était un allié solide du régime baasiste.  

Et, bien sûr, plus récemment, le Qatar, seul pays arabe à le faire, a participé – financement de l’armement, formation des combattants libyens et même présence de 5 000 hommes des forces spéciales – à l’intervention militaire occidentale contre Kadhafi.

La puissance grandissante du Qatar en France semble stimulée par la faiblesse de nos responsables politiques, déboussolés par la crise mondiale et appâtés, parfois, par les largesses supposées de ce petit pays. Ami personnel de la famille de l’émir, Dominique de Villepin, aujourd’hui avocat d’affaires, a pour principal client le Qatar Luxury Group, fonds d’investissement personnel de la cheikha Mozah bint Nasser al-Missned. A droite, parmi les habitués de Doha, on trouve aussi Philippe Douste-Blazy, Rachida Dati ou Hervé Morin.

Dans les milieux diplomatiques français, cette politique du «tout-Qatar» agaçait certains, qui espéraient que François Hollande, réputé partisan d’un resserrement des liens avec l’Algérie, allait en quelque sorte «rééquilibrer» la politique française dans la région.

Certes, François Hollande s’est rendu en Algérie le 19 décembre. Mais il avait vu le Premier ministre de l’émirat, Hamad ben Jassem al-Thani, dans un palace parisien dès le début de 2012. Les deux hommes s’étaient d’ailleurs déjà rencontrés une première fois en 2006, François Hollande le recevant en tant que premier secrétaire du PS. Depuis son élection, il l’a revu à deux reprises, et a accueilli l’émir Hamad ben Khalifa al-Thani à l’Elysée, le 22 août 2012. Un traitement privilégié.

Autre signe de continuité, l’entrée d’investisseurs qataris au capital de France Télécom en juin 2012… «Les gouvernements passent, mais les intérêts demeurent. Les accords financiers entre la France et le Qatar n’ont pas été interrompus, remarque le chercheur Nabil Ennasri, Hollande a seulement mis un terme à l’affichage publicitaire façon Sarkozy.»

Incroyable : la convention fiscale entre les deux pays – une sacrée niche fiscale qui dispense un investisseur qatari de tout impôt sur les plus-values réalisées sur la revente de biens immobiliers en France -, qui avait été tant décriée par le PS (du temps de l’opposition), n’a pas été abrogée…

Il faut dire que, même sous Sarkozy, les Qataris ont eu la prudence de créer ou de maintenir des liens solides avec la gauche française. L’ambassadeur du Qatar en France, Mohamed Jaham al-Kuwari, a préparé la transition politique de longue date en multipliant les contacts avec plusieurs dirigeants socialistes : Ségolène Royal, Laurent Fabius, Elisabeth Guigou, Jack Lang, Bertrand Delanoë, Martine Aubry, mais aussi Pierre Moscovici, Arnaud Montebourg, qui a séjourné à Doha en pleine campagne de la primaire socialiste, ou encore Manuel Valls, seul émissaire du candidat à avoir rencontré l’émir en décembre 2011.

Sous nos latitudes tempérées, le Qatar est un sujet de consensus. Jusque dans les médias, où il est devenu le pays des Bisounours. Comme dans l’émission «Un œil sur la planète», diffusée sur France 2 l’automne dernier, le présentant comme un nouvel eldorado, terre d’accueil de tous les ambitieux et les entrepreneurs.

Ou encore dans une interview de l’ambassadeur de France au Qatar publiée dans la revue Géoéconomie (1). Le diplomate s’enthousiasme d’abord sur les perspectives de coopération entre les deux pays, faisant miroiter aux groupes français la perspective des 120 milliards mobilisés en vue de la Coupe du monde de football en 2022. Autant de beaux contrats pour Bouygues, Vinci, Carrefour et quelques autres.

Mais l’ambassadeur y ajoute le supplément d’âme indispensable aux esprits délicats que nous sommes supposés demeurer : le printemps arabe aurait ainsi révélé – comme l’a reconnu lui-même François Hollande – d’importantes convergences entre les deux pays. L’honneur est sauf.

Feuilletons le dossier de presse «Qatar en France». Il s’y dessine peu à peu un véritable storytelling qatari, que l’on pourrait résumer comme suit : le Qatar est un «nanopays» richissime – 78 260 dollars de revenu par Qatari en 2009, ça fait rêver – mais coincé entre deux géants, l’Iran, avec lequel il doit partager le gisement de gaz North Dome, l’un des plus grands du monde, et l’Arabie saoudite, 14 fois plus peuplée et disposant d’avoirs neuf fois supérieurs.

Cette fragilité obligerait les Qataris à se montrer à la fois plus intelligents et plus diplomates que leurs voisins. Ils chercheraient ainsi une «assurance vie» - l’expression revient chez tous nos interlocuteurs – et seraient prêts à signer des chèques XXL à ceux qui sont susceptibles de lui garantir une protection. La France, avec son siège au Conseil de sécurité de l’ONU, constitue son meilleur allié.

Autre argument en faveur des Qataris, leurs investissements sont jugés «très professionnels». Leur charte, «Vision nationale pour le Qatar 2030», adoptée en 2008, prévoit que les revenus des placements des fonds souverains qataris se substitueront à ceux du gaz.

Il faudrait donc se réjouir, s’enthousiasme Patrick Arnoux, du Nouvel Economiste (2), de leur intérêt pour nos grands groupes : «L’entreprise Qatar, dirigée d’une main ferme par le cheikh Hamad ben Khalifa al-Thani, investit certes par milliards sur des actifs qui ont trois points communs : ils sont unitairement importants, prometteurs pour l’avenir et à forte rentabilité.» Et de vanter les financiers qataris, «issus des meilleures banques américaines comme Lehman Brothers» (curieux, cet éloge d’une banque qui a fait faillite en 2008, déclenchant la crise dans laquelle nous pataugeons encore !).

Et puis, nous assurent tous ces amis français des Qataris, ces derniers ne sont ni gourmands ni exhibitionnistes ; excepté chez Lagardère, ils n’exigent pas de siéger dans les conseils d’administration des sociétés dont ils deviennent actionnaires.

Une alternative aux Saoudiens

Riches en capitaux disponibles, respectueux de l’indépendance de leurs partenaires, les Qataris sont aussi, nous dit-on, modernes. Leur nouvelle constitution donne aux 200 000 Qataris le droit d’élire des représentants locaux qui pourront même être des femmes (au sein d’une chambre cependant strictement consultative).

La chaîne Al-Jazira, qu’ils ont créée en 1996, présentée comme une sorte de CNN arabe, aurait révolutionné l’information au Proche-Orient. La femme de l’émir, la cheikha Mozah bint Nasser al-Missned, a contribué à une véritable cité du savoir à la périphérie de Doha, ouverte aux musées et aux universités occidentales.

Enfin, le sentiment de fragilité des Qataris les pousserait à devenir une tête de pont entre le monde arabo-musulman et l’Occident. Songez que la plus grosse base militaire américaine, autrefois à Bahreïn, a déménagé à Doha et que les Qataris maintiennent des liens avec Israël. Ils constituent ainsi une alternative plus présentable que les Saoudiens, qui soutiennent les salafistes dans la région. Et si le Qatar représentait cet islam modéré dont tant d’Occidentaux espèrent l’avènement depuis des années ?

Bien sûr, comme tout storytelling, celui portant sur le Qatar reflète une partie de la réalité. L’émir, qui a chassé son père du pouvoir en 1995, s’est révélé un fin stratège. «Le Qatar est le premier à avoir acheté des méthaniers, analyse l’économiste Hakim el-Karoui, et à garder ainsi la maîtrise du transport du gaz.» Résultat : le pays frôle les 20 % de croissance en 2012, après 16 % en 2010 et 12 % en 2009.

Ensuite, il semble bien que la stratégie qatarie soit la plus subtile des pays du Golfe. «Les Qataris ne sont pas que des payeurs, observe l’ancien ministre des Affaires étrangères Hubert Védrine, ils sont astucieux et mènent une stratégie d’équilibre, entre Al-Jazira d’un côté, le phare du printemps arabe, la base américaine sur leur territoire et leurs relations assez bonnes avec Israël.»

Enfin, il est patent que les Qataris ne mélangent pas forcément leur politique diplomatique, pas facile à décrypter, et leurs investissements pour lesquels ils recherchent, c’est un banquier qatari qui parle, un «absolute return», autrement dit une garantie de retour sur investissement.

Mais ces indéniables atouts – prospérité économique, stratégie au long cours, subtilité diplomatique – ne doivent pas occulter la face moins reluisante du petit Etat. La condamnation à perpétuité, le 28 novembre, du poète Mohammed al-Ajami, coupable… d’un court texte critique sur l’émir, jette une lumière blafarde sur la modernité qatarie.

Et il y a surtout la relation très particulière que le Qatar entretient avec l’islamisme politique. L’émirat a été, depuis quinze ans, le refuge de bien des activistes radicaux, tel Abassi Madani, l’ex-patron du FIS algérien. Le Hamas a déménagé ses bureaux de Damas à Doha, et la récente visite de l’émir à Gaza n’est pas passée inaperçue.

La chaîne de télé Al-Jazira s’est fait connaître en devenant le diffuseur exclusif des communiqués d’Al-Qaida, et certains ne manquent pas de souligner que Doha a été exempt de tout attentat terroriste. Exilé au Qatar depuis quarante ans, le plus célèbre prédicateur islamiste, Youssef al-Qardaoui, officie chaque semaine sur Al-Jazira.

L’homme a déclaré que «les opérations martyres sont l’arme que Dieu a donnée aux pauvres pour combattre les forts», et que, «tout au long de l’histoire, Allah a imposé aux juifs des personnes qui les puniraient de leur corruption. Le dernier châtiment a été administré par Hitler. [...] C’était un châtiment divin. Si Allah le veut, la prochaine fois, ce sera par la main des musulmans».

Cet activisme n’étonne pas Alain Chouet, ancien chef du service de renseignements de sécurité de la DGSE (services secrets français) : «Comme la famille régnante veut ravir à la famille Al-Saoud d’Arabie saoudite son rôle moteur dans le contrôle de l’islam sunnite à l’échelle mondiale, elle héberge volontiers les imams et prêcheurs de tout poil, à condition qu’ils soient plus extrémistes que les oulémas saoudiens, de façon à leur rendre des points. Et le Qatar finance partout et généreusement tous les acteurs politico-militaires salafistes, dont la branche la plus enragée des Frères musulmans, hostiles à la famille Al-Saoud et bien sûr au chiisme, mais aussi aux régimes « laïcs » et nationalistes arabes susceptibles de porter ombrage aux pétromonarchies.»

Enfin, le Canard enchaîné affirme que les services français ont repéré une présence qatarie dans le nord du Mali, où sévissent des groupes jihadistes. «On pense, explique Roland Marchal, chercheur au Centre d’études et de recherches internationales (Ceri), qu’un certain nombre d’éléments des forces spéciales qataries sont aujourd’hui dans le nord du Mali pour assurer l’entraînement des recrues qui occupent le terrain, surtout d’Ansar Dine.» Ansar Dine, un groupe jihadiste non lié à Al-Qaida.

Bref, la famille régnante au Qatar n’a sans doute pas de doctrine bien établie, mais son jeu diplomatique, fondé sur une double exigence – concurrencer les Saoudiens dans le monde musulman et diaboliser l’Iran – peut l’amener à des positions fort lointaines de «l’islam des Lumières».

Y compris en France. «Si quelqu’un, affirme un bon connaisseur du dossier, avait la curiosité de se poster en face de l’ambassade du Qatar, il pourrait y prendre en photo d’éminents animateurs de la mouvance islamiste radicale.»

Premier instrument de l’influence du Qatar dans le monde arabe, la chaîne Al-Jazira s’est révélée être «le DRH du printemps arabe», selon l’expression de Naoufel Brahimi el-Mili, professeur de science politique et auteur du livre le Printemps arabe, une manipulation ? (3)

Ce dernier a passé des mois à décrypter les émissions de la chaîne qui fut la première à mettre en scène le martyre du vendeur de légumes tunisien Mohamed Bouazizi, dont le suicide, le 4 janvier 2011, a embrasé la Tunisie, avant que la révolte ne se propage en Libye ou en Egypte. A chaque fois, Al-Jazira accompagne et «feuilletone» les mouvements et les combats.

Il apparaît que, partout, les Qataris soutiennent les Frères musulmans, qui constituent la principale force politique du printemps arabe. Et qu’Al-Jazira est leur bras armé. Brahimi note ainsi que le nouveau ministre des Affaires étrangères libyen, Mohamed Abdelaziz, était un journaliste de la chaîne, de même que Safwat Hijazi, devenu une sorte de «conseiller spécial» du gouvernement égyptien. Pour Brahimi, le projet du Qatar est limpide : «Imposer la révolution « démocratique » par le bas, puisque les révolutions par le haut, façon néoconservateur bushiste, ont échoué.»

Autre sujet d’inquiétude, l’activisme sportif des Qataris – Grand Prix de l’Arc de triomphe, achat du PSG, Mondial de handball (2015) et Coupe du monde de football (2022) – ne relève pas forcément d’un amour désintéressé du sport mais bien d’une stratégie délibérée de soft power.

C’est d’ailleurs Nicolas Sarkozy lui-même, cumulant le rôle de superconsultant des Qataris avec celui de président de la République, qui aurait conseillé à l’émir de «passer par le sport» pour implanter Al-Jazira en France. D’où la création de la chaîne BeIN Sport, au risque de déstabiliser le système audiovisuel français, et notamment le financement du cinéma.

Enfin, et ce n’est pas le moins inquiétant, les Qataris manifestent un intérêt particulier pour les secteurs industriels sensibles et stratégiques. Cette inclination est d’abord apparue dans le dossier EADS. A la fin des années 90, l’émir sympathise avec Jean-Luc Lagardère, avec lequel il partage une passion des chevaux.

Les deux couples sympathisent, Bethy Lagardère initiant la cheikha Mozah aux joies de la vie parisienne, tandis que les équipes Lagardère apportent à l’émir leurs conseils avisés dans l’audiovisuel lors de la création d’Al-Jazira. Avant même la mort de Jean-Luc Lagardère, en 2003, l’émir avait émis le vœu d’entrer au capital d’EADS.

Mais Jean-Paul Gut, alors haut dirigeant d’Airbus, avait habilement orienté les Qataris vers une prise de participation dans le groupe Lagardère lui-même, ce qui était moins intéressant pour le Qatar mais répondait à l’inquiétude de l’héritier, Arnaud Lagardère, qui souhaitait s’assurer des alliés solides dans sa société holding. Mais, quand le groupe allemand Daimler a voulu vendre ses parts dans EADS, le Qatar s’est porté acquéreur, ce qui entraîna une vive réaction d’Angela Merkel aboutissant à un engagement de l’Etat allemand à la place de Daimler.

Si les Qataris se sont senti l’audace d’avancer sur des dossiers aussi sensibles, c’est que les liens entre la France et le Qatar sont anciens : 80 % de l’équipement militaire qatari est français et, pour l’anecdote, les 15 ha que la Direction générale de l’armement loue à Bagneux (Hauts-de-Seine) appartiennent à une banque qatarie…

Poker menteur

Autre indice de l’intérêt des Qataris pour les secteurs stratégiques, l’affaire Altis, une société de semi-conducteurs en difficulté que les Qataris voulaient acheter en 2009 pour créer une industrie similaire au Qatar. Mais Augustin de Romanet, alors patron de la Caisse des dépôts, a jugé le projet suspect, et le Fonds stratégique industriel s’est finalement substitué à l’émirat.

Encore plus inquiétant, le jeu de poker menteur autour d’Areva : il s’en est fallu de peu que l’émirat mette la main sur les mines d’uranium du groupe nucléaire ! A la manœuvre, l’ancien secrétaire général de l’Elysée Claude Guéant, l’intermédiaire de choc Alexandre Djouhri, Henri Proglio, le PDG d’EDF, et François Roussely, du Crédit suisse – une des banques conseil en France des Qataris avec la banque Rothschild.

L’alternance est, apparemment, un concept qui ne s’applique pas à cet aréopage. C’est d’ailleurs peut-être ce qui a conduit l’ambassadeur du Qatar à annoncer de nouveaux investissements dans les groupes français.

A ce rythme-là, la France va finir par avoir plus besoin du Qatar que l’inverse.

(1) «Qatar, l’offensive stratégique», no 62, été 2012.

(2) Du 3 mars 2012.

(3) Editions Max Milo, 2012.

Fonds qatari dans le CAC 40 : déjà plus de 6 milliards !

France Telecom (1 %) : 214,5 M€

Lagardère (13 %) : 1,071 milliard €

LVMH (1 %) : 653,64 M€

Suez Environnement (1 %) : 45 M€

Total (3 %) : 2,691 milliards €

Veolia (5 %) : 946,95 M€

Vinci (8 %) : 2 84,11 M€

Vivendi (5 %) : 427,88 M€

Total : 6,334 milliards d’euros

 
IMMOBILIER : 4 MILLIARDS NET D’IMPÔTS

Les avoirs immobiliers en France des Qataris se partagent entre différents membres de la famille régnante. Ils comprennent des immeubles de luxe et de nombreux hôtels. Au total, l’immobilier détenu par l’émirat dans notre pays atteindrait ainsi 4 milliards d’euros. Début 2008, les Qataris ont obtenu le vote au Parlement français d’un statut fiscal qui les exonère d’impôt sur leurs plus-values immobilières en France. Et ils en profitent : ces dernières années, ils ont racheté des hôtels de luxe comme le Martinez et le Carlton, à Cannes, le Royal Monceau, le Concorde Lafayette, l’hôtel du Louvre, à Paris, le Palais de la Méditerranée, à Nice. Mais ils ont également fait main basse sur le somptueux hôtel Lambert sur l’île Saint-Louis, à Paris, le splendide hôtel d’Evreux de la place Vendôme, à Paris, l’immeuble Virgin des Champs-Elysées, le siège de Vivendi, avenue de Friedland, à deux pas des Champs-Elysées, le siège d’Areva près de l’Opéra, et la tour Pacific à la Défense, ainsi que sur le centre de conférences Kléber, lieu chargé d’histoire – le haut commandement militaire allemand s’y était installé sous l’Occupation et c’est là qu’ont été signés les accords de Paris mettant fin à la guerre du Vietnam. Le destin du centre Kléber est de devenir un palace pour milliardaires…

Au total, les avoirs qataris en France – immobilier et CAC 40 – dépasseraient donc les 10 milliards* d’euros selon nos calculs. Une somme qui rejoint les statistiques de la Banque des règlements internationaux (9,79 milliards), ce qui représente trois fois moins que les investissements du Qatar en Grande-Bretagne, mais deux fois plus que ceux de l’Allemagne.

* Valeur au 20 novembre 2012

 

  • Article publié dans le numéro 820 du magazine Marianne, du 5 au 11 janvier 2013

Limonov, intellettuale ribelle tra Nuova Destra, David Bowie e Che Guevara

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Limonov, intellettuale ribelle tra Nuova Destra, David Bowie e Che Guevara
 
Pubblicato il 8 gennaio 2013 da Mario Laferla blog

Un ritratto del 2 giugno 2009

Domenica 31 maggio, a Mosca, in piazza Triumfalnaia, la polizia ha arrestato Eduard Limonov, durante una manifestazione antigovernativa non autorizzata. Con Limonov sono finiti in prigione altri venti dimostranti, tutti fedelissimi del fondatore del partito nazional-bolscevico. Nessuno può sapere quale sarà la sorte di Limonov. Strenuo oppositore di Vladimir Putin e della sua politica, Limonov era stato arrestato altre volte; in particolare nel 2001 era stato condannato a quattro anni (poi ridotti a due) per “terrorismo”.
Eduard Limonov è un personaggio noto in tutto il mondo. Scrittore di successo (ha scritto finora ventotto libri, pubblicati in molti paesi tra cui l’Italia), ha sempre dimostrato tutta la sua avversione per il Cremlino, accentuata con l’avvento al potere di Putin, del quale Limonov non approva nessuno dei suoi provvedimenti in politica interna e in quella estera. A Limonov “L’altro Che” di Mario La Ferla dedica un capitolo intitolato “A Mosca contro Putin”. Perchè Limonov ha sempre dichiarato la sua ammirazione e la sua passione per Ernesto Guevara, suo idolo indiscusso.
Quando si rivolge ai suoi detrattori, Limonov parla così: “Siete tutti figli di puttana! Io sono il Casanova e il Che Guevara della letteratura russa! In questo mondo di belle donne e di uomini malvagi, in questo mondo del sangue, della guerra, degli eroi e dei draghi, io mi sono già conquistato un posto alla tavola rotonda degli eventi”.
Il continuo riferimento al Che nei suoi scritti e nei suoi discorsi é il motivo dominante della sua protesta politica contro il Cremlino. Ernesto Guevara -Limonov lo sa bene- non è mai stato apprezzato dai capi sovietici, nemmeno ai tempi delle sue imprese rivoluzionarie. Anzi, proprio quelle imprese, fastidiose per Fidel Castro e per la sua politica di collaborazione con l’Urss, avevano convinto il Cremlino a contrastare l’attività del Comandante. Per Limonov é un vero piacere sbandierare l’immagine barbuta del Che in ogni manifestazione di protesta nelle vie e nelle piazze di Mosca. Come sbattere in faccia al regime l’ “eroe” che non aveva mai amato.
Eduard Limonov é senza dubbio il personaggio più detestato dall’establishment russo. Non soltanto per la continua attività di oppositore, ma anche per il suo curriculum di scrittore e uomo politico. I suoi libri sono noti ovunque. In particolare hanno ottenuto un successo straordinario il suo primo romanzo “Fuck off America!” (scritto dopo un soggiorno negli Stati Uniti), “Il libro dell’acqua”, “Diario di un fallito” e “Eddy-baby ti amo”. Un suo ammiratore italiano ha scritto: “Dal 2001 al 2003 Eduard Limonov è in carcere e sogna l’acqua. Sogna il mare e i fiumi. Sogna laghi, stagni, paludi, fontane, saune e bagni turchi. Dalle coordinate idrogeografiche evoca i ricordi di epiche scopate, di bagni nell’oceano freddissimo, di amici morti in battaglia. Ogni luogo è un frammento di memoria. Come un mosaico si compone l’autoritratto di un irruente leader politico, un pericoloso bastardo i cui hobby principali sono la fica e la guerra. Dissidente, esule, combattente, Limonov fonda nel 1993 il Partito nazionalbolscevico, vigorosa sintesi di ogni totalitarismo, che seduce hooligans dadapunk e nostalgici, teste rasate e metallari, situazionisti. ‘Il libro dell’acqua’ è la superficie dell’opera d’arte, infedele resoconto di un progetto esistenziale, agiografia di un delirio. Limonov sta lì dove la letteratura finisce, e inizia la vita vera. Anzi, la Storia. Eduard Limonov è Che Guevara e Hitler, Kirillov e Cristo, Henry Miller e David Bowie. Eduard Limonov è una rockstar”.
Questo ritratto, perfetto, spiega l’atteggiamento dei governanti russi nei suoi confronti. Ovunque sia andato, a Parigi o a New York, in Italia o altrove, Limonov ha suscitato interesse e curiosità, ha fatto scrivere cose ripugnanti sulla sua persona e lodi smisurate. Di lui, dei suoi libri e della sua attività politica si sono occupati i giornali di tutto il mondo. Fuggito, o espulso, dalla Russia, alla fine degli anni Sessanta, era andato a vivere negli Stati Uniti, dove aveva simpatizzato con i trozskisti ed era stato avvicinato dal Kgb per fare la spia.Aveva vissuto anche a Parigi e i parigini si erano innamorati di lui. Il suo editore italiano lo ha presentato come un “agitatore politico e artista ribelle, dissoluto libertino e feroce militante armato, Eduard Limonv (nome d’arte che evoca il suono della parola russa ‘granata’) é la più scomoda e inclassificabile figura di dissidente intellettuale nella Russia postcomunista”.
Nel 1993, dopo alcune fallimentari esperienze politiche alternative, Limonov aveva fondato il Fronte, poi diventato Partito, nazional-bolscevico. All’inizio sembrava un gruppo rock: artisti alla moda, ragazzi di buona famiglia annoiati e sempre disposti a partecipare a una divertente provocazione politica, e ragazze che trovavano Limonov attraente. Tra i primi aderenti, chiamati nazbols, c’erano, fra gli altri, il cantante del gruppo comunista siberiano “Difesa civile” Jegor Letov, il gruppo heavy-metal “Metallo arrugginito”, l’ex moglie di Limonov, la cantante di night-club Natalia Medvedjeva, il gruppo di artisti performativi “Nord”, e molti poeti, musicisti e giornalisti. Da un punto di vista ideologico, il partito veniva propagandato come una combinazione tra un programma economico di sinistra (giustizia sociale, proprietà comune, lavoro colletivo) e una politica di destra (priorità dello Stato e della nazione, espansione della Russia fino a Gibilterra). L’obiettivo era quello di riunire sotto un’unica bandiera tutti i gruppi radicali giovanili di destra e di sinistra. La bandiera era un misto tra elementi nazisti e comunisti: il rosso e il bianco di Hitler e la falce e martello di Stalin. Fin dalla fondazione, a fianco di Limonov, c’era anche il filoso Aleksander Dugin, il capofila del neo-eurasismo, il teorico della “rivoluzione conservatrice” che aveva avuto stretti contatti con alcuni esponenti dell’estrema destra europea: Jean-Fracois Thiriart, fondatore della “Jeune Europe”; Claudio Mutti, responsabile italiano di quel movimento; Alain De Benoist e Robert Steuckers. I maestri ai quali il partito di Limonov si ispirava erano Evola e Guénon. Il nazional-bolscevismo di Limonov puntava al superamento di destra e sinistra, secondo l’ispirazione di Thiriart, il quale ammoniva: “Il fascista cattivo e nostalgico non mette paura a nessuno, anzi è utile e funzionale al sistema. Quello che mette veramente paura è il rivoluzionario… Questo non significa certo diventare di sinistra, perchè questa sinistra ci disgusta quanto la destra. Significa oltrepassare i limiti imposti dalla cultura borghese e creare una nuovaq concezione della politica al fine di articolare un fronte nazionale, popolare, socialista”.
Un seguace appassionato delle teorie di Dugin e Limonov é Oleg Gutsulyak, scrittore e filosofo ucraino appena quarantenne. Dopo aver militato nell’eterodossia comunista, al sopraggiungere dell’indipendenìza ucraina aveva aderito all’estremismo nazionalista dell’Una-Unso. Poi era passato nella corrente della “Nouvelle Droite” accettando le tesi del neo-eurasismo russo. Ancora prima di aderire alla “Nouvelle Droite”, il filosofo ucraino aveva letto tutti i libri su Che Guevara che ammirava come “rivoluzionario e come eroe morto per difendere le proprie idee”.
Non molto simpatici alla destra tradizionale, i nazbols sono odiati a sinistra. Nonostante Limonov abbia fatto di tutto per accreditarsi come socialista vicino a Lenin e Trotzsky, i suoi atteggiamenti provocatori, i suoi discorsi offensivi, i suoi libri scandalosi hanno finito per isolarlo in un “splendido ghetto” dove continua a coltivare le sue teorie e a lanciare messaggi minacciosi. I suoi miti sono i personaggi che hanno coltivato l’idea della rivoluzione: in testa ci sono quelli che la rivoluzione l’hanno fatta sul serio, in un modo o nell’altro. Oltre a Lenin, quindi, Mussolini, Hitler, Mao Tse-Tung, Ho Chi Minh, Giap, Saddam Hussein, Gheddafi, Tito, Milosevic, Salvador Allende, Eva Peròn, Gandhi, Malcom X, Nelson Mandela, Augusto Sandino. Ma sopra tutti c’è Ernesto Guevara, il suo Che glorificato in ogni occasione e in ogni maniera.
Della sua attività politica ha detto: “La mia carrietra politica di leader di un partito estremista è inconsueta agli occhi dell’Europa del XXI secolo, ma anche la Russia è un paese inconsueto, e se mi accusano di violenza, allora anch’io posso allo stesso modo rimproverare il potere russo della violenza che viene esercitata nei miei confronti. Il mio tempo è occupato dalla politica e dalla lotta contro il Cremlino. E il Cremlino lotta contro di noi. Ci picchia. Ci reprime, ci mette in prigione… Io non sono fascista, i fascisti hanno cessato di esistere nel 1945 e da allora sono sorti nuovi fenomeni nel mondo politico, sia in Italia che in Russia”.
Il quartier generale del partito di Limonov è in una specie di cantina al numero 3 della Frunceskaja Ulica, spessissimo “visitata” dalla polizia segreta nel tentativo di scoprire qualcosa di compromettente. Sui muri della sede, un grande manifesto con una colomba con la falce e martello e il poster del Che. All’inviata di “la Repubblica”, Margherita Belgioioso, il portavoce di Limonov aveva detto: “Siamo contro la guerra in Iraq e contro quella in Cecenia; Putin è un dittatore. Ci è stata negata per cinque volte la registrazione come partito nonostante abbiamo un diffuso appoggio tra la gente”.
Parlando di Limonov, la Belgioioso scriveva: “Limonov è un enigma che divide l’intellighentia russa: ma tra chi lo sosteneva apertamente c’era persino Anna Politkovsaja, la giornalista assassinata nell’ottobre 2006 mentre rientrava a casa”. Poi aveva parlato Limonov: “Siamo gli unici a fare una vera opposizione a Putin: per questo il Cremlino ci teme”.

A cura di Mario Laferla blog
 

Robert Ménard au Club des Ronchons: liberté d'expression

24 janvier, Paris

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lundi, 14 janvier 2013

Un intervento umanitario in Siria, 150 anni fa

Un intervento umanitario in Siria, 150 anni fa

di Pascal Herren

Fonte: Europeanphoenix

LE1860.jpgUn intervento umanitario in Siria? Il pretesto umanitario era già stato invocato, nel 1860, dalla Francia, per intervenire militarmente in Siria, allora provincia ottomana. Il docente universitario Pascal Herren passa in rassegna in quest’articolo le vere intenzioni della Francia di Napoleone III, anch’esse poco accettabili come quelle della Francia di Sarkozy o di Hollande. Egli ci ricorda inoltre le conseguenze nefaste ch’ebbero a subire le popolazioni della regione.

Un intervento umanitario in Siria è costantemente invocato per mettere fine alle sofferenze che, dal 2011, patisce la popolazione coinvolta nei combattimenti tra il regime e l'opposizione armata. Combattimenti di cui si attribuisce la responsabilità principale - a torto o a ragione- al governo.

 Quest’azione di soccorso passerebbe dunque per il rovesciamento del regime. Sarebbe anche già stata messa in opera da alcuni mesi, sotto una forma indiretta, armando gli insorti e inviando sul territorio agenti e gruppi di combattimento stranieri. Ora, fare uso della forza sul territorio di un paese straniero, senza il consenso delle autorità prestabilite a darlo, contravviene al principio di sovranità degli stati, come scritto nella carta dell’ONU. L’impiego della forza tra stati è proibita ad eccezione del caso di legittima difesa o di azioni collettive decise dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La Corte internazionale di giustizia ha condannato nel 1986 il sostegno militare offerto dall’amministrazione Reagan agli insorti nicaraguensi dei Contras che lottavano per rovesciare il potere sandinista. La Corte aveva anche precisato che un tale sostegno non era appropriato se si parlava di assicurare il rispetto dei diritti dell’uomo, allorché Washington aveva accusato il regime di aver commesso delle atrocità.

Questi ostacoli giuridici non hanno impedito che le operazioni unilaterali, ufficialmente motivate da ragioni altruistiche, non si sviluppassero, per esempio, con il bombardamento dell’ex Yugoslavia durante la crisi del Kosovo nel 1999, o l’invasione dell’Iraq nel 2003. L’ultimo esempio in ordine cronologico è stata l’azione condotta in Libia nel 2011, di cui alcuni stati affermarono che si spinse oltre ciò che permetteva la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza.

Il fondamento di questi interventi unilaterali risiede in un criterio superiore, universalista: il dovere di proteggere la vita di qualsiasi popolazione contro minacce di attentati di massa che pesano su di essa. Ma questo principio, perfettamente legittimo in quanto tale, dipende interamente dalla buona volontà di chi interviene. Infatti, come si fa ad assicurare che lo stato che interviene non si serva dell’immenso potere che si concede impiegando la violenza verso un altro stato per perseguire altre motivazioni che sarebbero riprovevoli? La storia pullula di guerre “giuste” che sono finite piuttosto male per le popolazioni coinvolte. Il grande giurista Emer de Vattel denunciava già nel 1758 la sottomissione degli Indiani d’America da parte dei conquistadores, ottenuta con il pretesto di liberarli dal tiranno.

Gli specialisti del tema hanno costantemente ricercato i precedenti che mostrassero un’azione condotta da una potenza interventista irreprensibile. Hanno creduto per molto tempo di averla trovata nella spedizione del 1860 che riguardò la provincia ottomana della Siria che inglobava l’attuale Libano (Wikipedia in francese afferma: “Nei fatti, e secondo le parole dello stesso Napoleone III, la spedizione fu ‘una operazione a scopo umanitario’”). Dal mese di maggio al mese di agosto di quell’anno, tra le 17.000 e le 23.000 persone, la maggior parte di religione cristiana, furono massacrate nella montagna del Libano e a Damasco durante gli scontri intercomunitari. La notizia, che arrivò in Europa, suscitò l’emozione dell’opinione pubblica. Le autorità ottomane furono accusate di aver incoraggiato, e perfino partecipato alle atrocità commesse dai miliziani drusi sul Monte Libano e dai rivoltosi a Damasco. 

Napoleone III decise allora d’inviare sul posto un corpo di spedizione di 6.000 uomini per mettere fine al “bagno di sangue”, col consenso delle altre potenze europee. Le truppe francesi rimasero meno di un anno sul posto. Si ritirarono una volta ritornata la calma e subito dopo aver messo in piedi una riorganizzazione amministrativa, alla quale sarà attribuito il fatto di aver mantenuto la pace civile fino alla prima Guerra Mondiale. Ancora oggi, alcuni giuristi che pur si oppongono al riconoscimento del diritto d’intervento umanitario, definiscono l’azione del 1860 il solo e “vero” intervento umanitario del XIX secolo.

A guardarli da più vicino, dunque, i dissensi intercomunitari che scoppiarono nel 1860 furono essi stessi esacerbati dal clientelismo praticato all’epoca dalle potenze europee verso le minoranze locali. Bisogna dire che erano in gioco immensi interessi. Si trattava di dividersi le province di un impero ormai alla fine, che i grandi stati europei si disputavano accanitamente. La Siria si trovava infatti sulla rotta strategica che portava alle Indie, il gioiello dell’Impero Britannico. La Francia non nascondeva la sua attrazione per questo paese ricco di promesse commerciali. La Russia cercava già da molto tempo di estendere i suoi territori verso sud. Per arrivare ai propri fini ogni potenza si appoggiava su una comunità locale che ognuno cercava di strumentalizzare: i francesi si fecero protettori dei cattolici, i russi difesero gli ortodossi, gli inglesi parteggiarono per i drusi.

Durante il periodo che seguì l’intervento del 1860, la Francia incrementò la sua intraprendenza economica in Libano, al punto che il 50% della popolazione attiva libanese lavorava nel 1914 nella filiera di produzione francese di soia. Questo settore crollò subito dopo la decisione dell’industria francese di fare a meno dei suoi fornitori libanesi, i quali così persero i loro mezzi di sussistenza.

Un anno più tardi, nel 1915, gli alleati inglesi e francesi organizzarono il blocco delle coste siriane per impedire che le derrate alimentari arrivassero a destinazione in questa regione fortemente dipendente dalle importazioni cerealicole. L’obiettivo era spingere le province arabe a sollevarsi contro il potere centrale di Istanbul, che partecipava alla Prima Guerra Mondiale accanto alla Germania di Guglielmo II. Il risultato fu una carestia senza precedenti che fece 200.000 morti nella zona centrale e settentrionale del Libano e 300.000 altrove in Siria.

Nel 1840, François Guizot, allora ambasciatore francese a Londra, aveva già riassunto i giochi geopolitici che dominavano nelle corti europee e che animavano, secondo lui, la politica del ministro inglese degli affari esteri Lord Palmerston: “Lì ci sono, al fondo di non so quale valle, in cima a non so quale montagna del Libano, degli uomini, delle donne, dei bambini che si amano e si divertono, che domani saranno massacrati perché Lord Palmerston, viaggiando sul treno da Londra a Southampton, avrà detto: “Bisogna che la Siria insorga, ho bisogno che la Siria insorga, se la Siria non insorge, I am a fool”.

Fonte: “Le Temps” (Svizzera), 6 novembre 2012 (ripubblicato da “Reseau Voltaire” l’11 dicembre 2012).

(Traduzione di Europeanphoenix.it ©)
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