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dimanche, 26 avril 2015

La teoria del "nomos" in Carl Schmitt: la geopolitica come baluardo contro il nichilismo?

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La teoria del "nomos" in Carl Schmitt: la geopolitica come baluardo contro il nichilismo?

di Ugo Gaudino

La complessa produzione di Carl Schmitt, tanto affascinante quanto labirintica, ha dato un contributo fondamentale alla comprensione del nichilismo e ai processi di secolarizzazione e neutralizzazione che l’hanno provocato. Spinto da un’inesorabile volontà di esorcizzare la crisi e la negatività in cui stava precipitando la decadente Europa d’inizio Novecento, il giurista tedesco si confronta impavidamente con la “potenza del Niente” – esperienza cruciale per la comprensione di quell’epoca e per restare dentro alla filosofia, come ammonivano Junger ed Heidegger in Oltre la linea –, tentando di opporre all’horror vacui soluzioni di volta in volta sempre più solide, concrete ed elementari, nel corso di un itinerario intellettuale lungo, tortuoso e per certi aspetti contraddittorio.

1. Intellettuale eclettico dalla penna sottile e dai molteplici interessi, nonché figura di primissimo piano tra i malinconici testimoni della crisi di un’epoca (quella dell’Europa degli Stati sovrani e della sua migliore creazione, il cosiddetto ius publicum europaeum), l’ambiguità di un personaggio definito non a torto “la sfinge della moderna scienza giuspubblicistica tedesca” non pregiudica la grandezza della sua prestazione, frutto di una visione del mondo disincantata che tenta di addomesticare il caos senza pretendere di neutralizzarlo completamente.

Il nucleo propulsivo della produzione schmittiana sta nel suo essere situato nel contesto di crisi dell’Europa di inizio Novecento, tanto storico-politica quanto logico-teorica. In questa sede si cercherà di far chiarezza sul secondo aspetto, analizzando i tentativi dell’autore di far fronte alla crisi del razionalismo moderno e della mediazione tra Idea e Realtà. Di fronte alle minacciose lande aperte dal nichilismo, Schmitt non reagisce affidandosi a procedimenti antitetici e costruendo edifici metafisici ormai obsoleti nell’età della tecnica né tantomeno crogiolandosi nello spleen come molti intellettuali sedotti dal “Niente”: il giurista di Plettenberg cerca invece di forzare la crisi, di radicalizzarla risalendone alle origini, decostruendola e provando a cogliervi il momento genetico di nuovo, possibile ordine per l’Occidente decadente.

Di qui la prima fase del suo percorso, quella del “decisionismo”, primo tentativo di opposizione al nichilismo. Partendo dalla consapevolezza dell’origine contraddittoria della politica, basata sulla coappartenenza originaria di violenza e forma, Schmitt afferma l’innegabilità degli aspetti entropici e distruttivi della stessa. Tramontata ogni pretesa di mediazione definitiva tra ideale e contingente da parte della ragione, la politica resta in balìa di questa frattura genealogica, in una dialettica in cui la trascendenza dell’Idea non è mai ontologicamente piena ma permeata da un’assenza originaria, immersa nelle sabbie mobili del cosiddetto “stato d’eccezione” che rispetto all’ordine si pone come ombra ed eventualità che può rovesciarlo da un momento all’altro.

La via d’uscita per imporsi sull’eccezione è individuata nella “decisione”, che nasce dal Nulla e tenta di costruire un edificio politico-giuridico nonostante le basi estremamente fragili: l’eccezione, per quanto pericolosa, è realisticamente considerata necessaria per partorire e mantenere l’ordine. Una prospettiva agli antipodi delle utopie dei normativisti, i quali trascurano la possibilità che l’ordine possa auto-rovesciarsi e restano ciecamente aggrappati alla regola ignorando che essa vive “solo nell’eccezione”, come affermato in Teologia politica. Chi decide sullo “stato d’eccezione” è per Schmitt “sovrano”, inteso come colui che riesce a compiere il salto dall’Idea alla Realtà e che ha l’ultima parola su quelle situazioni liminali in cui l’ordinamento è minacciato da gravi crisi che possono sconvolgerne le fondamenta.

Per quanto suggestiva, la fase del decisionismo sembra eccessivamente legata alla categoria dello Stato moderno, di cui il giurista appare profondamente nostalgico (pur non essendo uno “statolatra” tout court come vorrebbero farlo apparire alcuni: lo Stato è soltanto un “bel male” prodotto dalla cultura europea onde evitare la dissoluzione delle guerre civili). Pertanto, vista la crisi dei “Leviatani”, cui Schmitt assiste in prima persona nell’agonizzante Repubblica di Weimar, le strade da percorrere per neutralizzare il “Niente” sono quelle che conducono a istanze pre-statali, sopravvissute alla crisi della razionalità moderna – di cui lo Stato era un prodotto – e nelle quali ricercare l’essenza del “politico” dopo il tracollo della statualità.

2. Si apre così la seconda fase del pensiero schmittiano, incentrata sulla teoria degli “ordini concreti”: questa, ancorandosi alla concreta storicità e spazialità, rappresenta un passo in avanti rispetto alla fluidità dello “stato d’eccezione” e un ponte di collegamento con le successive elucubrazioni sul nomos. Vanificata l’illusione statocentrica, Schmitt dirige la sua lente d’ingrandimento sulle Ortungen dei popoli, soggetti in grado di decidere sulla propria esistenza politica – e quindi sulla dicotomia “amico/nemico” – anche andando “oltre” lo Stato.

Così come l’essenza del politico è ricercata al di là dello Stato, anche il diritto è ormai slegato da questo, che ha perso definitivamente il monopolio della politica che Weber gli riconosceva: pertanto, riprendendo l’istituzionalismo di Maurice Hauriou e di Santi Romano, Schmitt arriva a sostenere che le norme non coincidono né con universali astratti né con decisioni sovrane ma costituiscono il prodotto di determinate situazioni storico-sociali e di contesti in cui si articola il corpo di una nazione. Questa evoluzione ordinamentalista è una tappa necessaria per la costruzione di un edificio giuridico svincolato dallo Stato e fondato sulla concretezza di una normalità non più dipendente dal prius della decisione – in quanto creata dal sovrano – ma preesistente nella prassi di un “io sociale” sedimentatosi col tempo intorno alle consuetudini e allo ius involontarium. La decisione finisce per essere assorbita completamente in “ordinamenti concreti” dai tratti comunitaristici, emotivi ed irrazionali che sembrano avvicinarsi di molto alla concezione del Volk propugnata dal nazionalsocialismo, con cui nel corso di questi anni Schmitt ebbe un rapporto controverso. Negli ultimi anni di Weimar, infatti, il giurista si era fermamente opposto ai movimenti estremisti che avrebbero potuto mettere in pericolo la vita pubblica del Reich, tanto da denunciare l’incostituzionalità del partito nazista nel 1930. Nell’ottica schmittiana, “custode” della Costituzione era solo il Presidente del Reich, il cui ruolo fu difeso strenuamente fino all’ascesa di Hitler. Allora, principalmente per ragioni di opportunismo legate alla carriera prima ancora che per presunte affinità ideologiche, diventò membro del partito, da cui comunque fu allontanato nel 1936, accusato di vicinanza ad ambienti reazionari, conservatori e non ariani da Alfred Rosenberg.

Nonostante la palese eterodossia di un cattolico romano che rifiutava tanto il razzismo biologico quanto il tracotante imperialismo di marca hitleriana (da cui diverge il suo concetto di Grossraum), è innegabile che Schmitt in quegli anni abbia tentato, invano, di rendere compatibili le sue idee con la dottrina nazionalsocialista. Di qui l’ambizioso proposito, contenuto nel saggio del 1934 Stato, movimento, popolo, di delineare un modello costituzionale per il Terzo Reich, visto come la possibile realizzazione del “ordine concreto” in cui l’unità è assicurata dalla combinazione di questi tre elementi – probabilmente anche con l’obiettivo di arginare gli eccessi del Führer. Tuttavia, queste analogie non fanno di Schmitt un Kronjurist ma dimostrano solo la volontà dell’autore di svincolarsi dall’apparato teorico ancora legato alla dimensione statale e la necessità di elaborare un novus ordo capace di fungere da baluardo per il nichilismo.
La valorizzazione delle coordinate spazio-temporali, l’esaltazione del popolo e dell’elemento terrigno, uniti ai saggi di diritto internazionale maturati nel corso degli anni Venti e Trenta non sono dunque da considerare come tratti apologetici del regime quanto piuttosto come preludio alla teoria del nomos e ad una nuova idea di diritto priva di caratteri astratti e legata alla concretezza degli eventi storici, in cui si situa per diventare ordinamento e si orienta per modellare un ambiente, non sottraendosi alla storicità e alla temporalità ma rappresentando anzi un fattore che li co-determina.

Una riflessione dai tratti fortemente geopolitici che sembra neutralizzare la “potenza del Niente” valorizzando l’elemento spaziale in cui collocare l’idea politica, ormai lontana dagli abissi dello “stato d’eccezione”.

3. Il termine nomos viene impiegato nel suo senso originario e ricondotto alla prima occupazione di terra e a quelle attività pratico-sociali di appropriazione, divisione e sfruttamento della medesima. Il diritto è quindi unità di ordinamento e localizzazione (Ordnung und ortung) che non nasce con strumenti razionali ma neppure dalla decisione quanto dalla conquista del territorio: nella terra è situato il nesso ontologico che collega giustizia e diritto.

Di qui la necessità avvertita dal giurista esperto del mondo classico di recuperare l’etimologia autentica del termine νεμειν, che si articola in tre significati: “prendere, conquistare” (da cui i concetti di Landnahme e Seenahme, sviluppati in Terra e mare nel ’42); “dividere, spartire”, ad indicare la suddivisione del terreno e la conseguente nascita di un ordinamento proprietario su di esso; “pascolare”, quindi utilizzare, valorizzare, consumare. Soffermandosi sulla genesi della parola nomos Schmitt vuole restituirle la “forza e grandezza primitiva” salvandola dalla cattiva interpretazione datale dai contemporanei, che l’hanno “ridotta a designare, in maniera generica e priva di sostanza, ogni tipo di regolamentazione o disposizione normativistica”, come afferma polemicamente ne Il nomos della terra, pubblicato nel 1950 e summa del suo pensiero giuridico e politico. L’uso linguistico di “un’epoca decadente che non sa più collegarsi alle proprie origini” funzionalizza il nomos alla legge, non distinguendo tra diritto fondamentale e atti di posizione e facendo scomparire il legame con l’atto costitutivo dell’ordinamento spaziale.

Bersaglio di Schmitt è il linguaggio positivistico del secolo XIX che in Germania aveva reso nomos con Gesetz, ossia legge, errore d’interpretazione ricondotto all’abuso del concetto di legalità tipico dello Stato legislativo centralistico. Il nomos indica invece la piena immediatezza di una forza giuridica non mediata da leggi, di un atto di legittimità costitutivo che conferisce senso alla legalità delle stesse, di una violenza non indiscriminata né indeterminata ma ontologicamente ordinatrice. Il riferimento al celebre frammento 169 di Pindaro sul nomos basileus e al nomos sovrano in Aristotele non fanno che rinforzare la tesi secondo cui la dottrina positivistica, malgrado l’ammonimento degli esponenti della scuola “storica” come Savigny, sarebbe rimasta intrappolata nel quadro nichilistico del suo tempo, da cui Schmitt tenta di uscire riallacciandosi a quegli elementi primordiali che rappresentano una risorsa simbolica fondamentale, da cui l’uomo nasce e a cui s’aggrappa per organizzare la sua vita. Assumendo la piena consapevolezza di essere “animali terrestri” si cerca di evitare la disgregazione dell’epoca contemporanea.

4. Partendo dalla terra, che salva dall’oblio filosofico, coadiuvato da Heidegger e Junger, lo Schmitt di Terra e mare e de Il nomos della terra ritorna alla dimensione ctonia e tellurica dell’individuo, ripercorrendo la storia del mondo e armandosi contro due minacce che rappresentano facce della stessa medaglia: da un punto di vista metafisico il nichilismo della tecnica, che ha prodotto la drastica separazione tra ordinamento e localizzazione, eliminando le differenze e trasformando il nomos in legge, si rispecchia geopoliticamente nell’universalismo di stampo angloamericano, che con la sua weltanschauung utopistica ha provocato la dissoluzione dello ius publicum europaeum, cardine dell’ordine politico dell’Europa moderna.

È opportuno segnalare che questa teoria non riposa su basi radicalmente antitetiche rispetto alle elaborazioni precedenti: l’idea di Giustizia che si manifesta nel nomos è ordine che si rende visibile attraverso il disordine, presa di possesso, recinzione e nel contempo esclusione, radicamento nello sradicamento. L’ultimo Schmitt, in altre parole, traduce in termini spaziali i concetti chiave elaborati negli anni ’20. La sovranità, collocata in precedenza nel tempo concreto della modernità come epoca dell’eccezione ma ancora in uno spazio astratto, ora si radica intensamente nella concretezza spaziale e più precisamente nel vecchio continente. In seguito alla prima rivoluzione spaziale moderna, con l’irruzione sulla scena storica del mare (spazio liscio, vuoto, anomico) e con la scoperta e l’occupazione dell’America prende forma l’ordine europeo degli Stati: il nuovo nomos è riorganizzazione dello spazio, rivolgimento, rivoluzione.

Così come lo Stato moderno non espunge davvero da sé il caos, ma ne è anzi attraversato e continuamente ferito, il nuovo ordine moderno prende forma confinando questo disordine al di fuori di sé, nello spazio extraeuropeo, ma mai cercando di neutralizzarlo in via definitiva.
L’irrazionalità della guerra viene dunque confinata nelle amity lines del mare mentre sul suolo continentale, a mo’ di razionalizzazione effettiva del sacrificio, resta la guerre en forme tra Stati che si riconoscono reciprocamente come sovrani e che non mirano all’annichilimento o alla criminalizzazione del nemico. Una delle maggiori conquiste del diritto pubblico europeo è stata infatti la limitazione della guerra (Hegung des Krieges) e la trasformazione dal bellum iustum delle guerre civili di religione in conflitti “giusti” tra pari, tra hostes aequaliter iusti. Quest’atto di contenimento non è stato frutto delle ideologie razionalistiche, bensì della particolare condizione di equilibrio di cui l’Europa moderna ha goduto fino al 1914. Un assetto fondato non solo sulla dialettica vecchio/nuovo mondo – strumentalizzata da Schmitt, secondo alcuni, per difendere l’imperialismo e il colonialismo europeo -, ma anche sul rapporto tra terraferma e libertà del mare che ha fatto in primis le fortune dell’Inghilterra, che ha scelto di diventarne “figlia” trasformando la propria essenza storico-politica ed arrivando a dominare lo spazio liscio e uniforme.

Ma è nello stesso humus culturale anglosassone che le logiche di neutralizzazione passiva proliferano: il culto del razionalismo, ignaro d’eccezione e di localizzazioni e che tutto uniforma con i suoi sterili meccanismi, che impone la soppressione degli elementi irrazionali ignorando che l’Es, per citare un celebre Freud, prima o poi riesploderà in forme ancor più brutali. Torna infatti la iusta bella, che mira al totale annientamento del nemico, rappresentato stavolta dai soggetti che non si piegano al mondialismo informe e ad una condizione “utopica” che in realtà è guerra civile globale: lo sradicamento dell’u-topos conduce alla deterritorializzazione, che è perdita del nomos in quanto orientamento e ricaduta nel vortice nichilistico che l’ottimismo positivista cercava di esorcizzare con l’uso astratto della ragione.

Ciò che Schmitt cerca di affermare, pertanto, è che solo assumendo consapevolmente la propria origine abissale, la negatività di base e la possibilità della fine inscritta in sé stesso un ordinamento può sperare di sottrarsi al nichilismo: lo ius publicum europaeum ha perduto concretezza trasformando il nomos in astratta legge globale ed abbracciando ideologie internazionaliste e pacifiste che hanno solo gettato il continente in conflitti drammatici e devastanti. Facendogli perdere, inoltre, la sua specificità ed inglobandolo in quella nozione di Occidente tanto indeterminata quanto adatta per un’epoca in cui l’ordine politico sembra esser stato ingabbiato dai gangli del Niente.

Bibliografia essenziale:

AMENDOLA A., Carl Schmitt tra decisione e ordinamento concreto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999
CASTRUCCI E., Nomos e guerra. Glosse al «Nomos della terra» di Carl Schmitt, La scuola di Pitagora, Napoli, 2011
CHIANTERA-STUTTE P., Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo tra Otto e Novecento, Carocci Editore, Roma, 2014
GALLI C., Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 2010
PIETROPAOLI S., Schmitt, Carocci, Roma, 2012
SCHMITT C., Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre der Souveränität, Duncker & Humblot, Monaco-Lipsia 1922, trad it. Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del ‘politico’ (a cura di P. SCHIERA e G. MIGLIO), Il Mulino, Bologna, 1972
ID., Verfassungslehre, Duncker & Humblot, Monaco-Lipsia 1928, trad. it. Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano, 1984
ID., Der Begriff des Politischen, in C. SCHMITT et al., Probleme der Demokratie, Walther Rothschild, Berlino-Grunewald, 1928, pp. 1-34, trad. it. Il concetto di ‘politico’. Testo del 1932 con una premessa e tre corollari, in Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna, 1972
ID., Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Reclam, Lipsia 1942, trad. it. Terra e mare. Una considerazione sulla storia del mondo raccontata a mia figlia Anima, Adelphi, 2011
ID., Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum europaeum, Greven, Colonia 1950, trad. it. Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “ius publicum europaeum”, Adelphi, Milano, 1991
VOLPI F., Il nichilismo, GLF editori Laterza, Roma, 2009


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jeudi, 09 avril 2015

LE CLIVAGE GAUCHE/DROITE : MYTHE OU REALITE ?

LE CLIVAGE GAUCHE/DROITE : MYTHE OU REALITE ?

Conférence inaugurale du Cercle Charles Péguy

Par Chantal DELSOL, membre de l'Institut

samedi, 04 avril 2015

Chantal Delsol réhabilite le populisme

TVL: Chantal Delsol réhabilite le populisme

vendredi, 27 mars 2015

The Visionary Theories of Pitirim Sorokin

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Culture in Crisis: The Visionary Theories of Pitirim Sorokin

By John S. Uebersax

Ex: http://neweuropeanconservative.wordpress.com

Introduction

Pitirim Sorokin, a leading 20th century sociologist, is someone you should know about. Consider this quote of his:

The organism of the Western society and culture seems to be undergoing one of the deepest and most significant crises of its life. The crisis is far greater than the ordinary; its depth is unfathomable, its end not yet in sight, and the whole of the Western society is involved in it. It is the crisis of a Sensate culture, now in its overripe stage, the culture that has dominated the Western World during the last five centuries….

Shall we wonder, therefore, that if many do not apprehend clearly what is happening, they have at least a vague feeling that the issue is not merely that of “prosperity,” or “democracy,” or “capitalism,” or the like, but involves the whole contemporary culture, society, and man? …

Shall we wonder, also, at the endless multitude of incessant major and minor crises that have been rolling over us, like ocean waves, during recent decades? Today in one form, tomorrow in another. Now here, now there. Crises political, agricultural, commercial, and industrial! Crises of production and distribution. Crises moral, juridical, religious, scientific, and artistic. Crises of property, of the State, of the family, of industrial enterprise… Each of the crises has battered our nerves and minds, each has shaken the very foundations of our culture and society, and each has left behind a legion of derelicts and victims. And alas! The end is not in view. Each of these crises has been, as it were, a movement in a great terrifying symphony, and each has been remarkable for its magnitude and intensity. (P. Sorokin, SCD, pp. 622-623)

Background

sorokin1.JPGPitirim Alexandrovich Sorokin (1889–1968) was born in Russia to a Russian father and an indigenous (Komi, an ethnic group related to Finns) mother. Like other intellectuals of his age, he was swept up in the revolt against the tsarist government. He held a cabinet post in the short-lived Russian Provisional Government (1917), and had the distinction of being imprisoned successively by both tsarist and Bolshevist factions. Eventually sentenced to death, he was pardoned by Lenin, emigrated, and came to the US. There he enjoyed a long and distinguished academic career, much of it at Harvard University, where he served as head of the sociology department.

His experience and acute observations of Russian politics left him uniquely suited for understanding the transformational forces of the 20th century. By 1937 he published the first three volumes of his masterpiece, Social and Cultural Dynamics, but he continued to refine his theories for nearly three more decades.

Based on a careful study of world history – including detailed statistical analysis of phases in art, architecture, literature, economics, philosophy, science, and warfare – he identified three strikingly consistent phenomena:

There are two opposed elementary cultural patterns, the materialistic (Sensate) and spiritual (Ideational), along with certain intermediate or mixed patterns. One mixed pattern, called Idealistic, which integrates the Sensate and Ideational orientations, is extremely important.

Every society tends to alternate between materialistic and spiritual periods, sometimes with transitional, mixed periods, in a regular and predictable way.

Times of transition from one orientation to another are characterized by a markedly increased prevalence of wars and other crises.

Main characteristics of the Sensate, Ideational, and Idealistic cultural patterns are listed below. (A more detailed explanation of alternative cultural orientations, excerpted from Sorokin’s writings, can be found here. [Alternative Download: Pitirim Sorokin – Sensate, Ideational, and Idealistic Cultures])

Sensate (Materialistic) Culture

The first pattern, which Sorokin called Sensate culture, has these features:

  • The defining cultural principle is that true reality is sensory – only the material world is real. There is no other reality or source of values.
  • This becomes the organizing principle of society. It permeates every aspect of culture and defines the basic mentality. People are unable to think in any other terms.
  • Sensate culture pursues science and technology, but dedicates little creative thought to spirituality or religion.
  • Dominant values are wealth, health, bodily comfort, sensual pleasures, power and fame.
  • Ethics, politics, and economics are utilitarian and hedonistic. All ethical and legal precepts are considered mere man-made conventions, relative and changeable.
  • Art and entertainment emphasize sensory stimulation. In the decadent stages of Sensate culture there is a frenzied emphasis on the new and the shocking (literally, sensationalism).
  • Religious institutions are mere relics of previous epochs, stripped of their original substance, and tending to fundamentalism and exaggerated fideism (the view that faith is not compatible with reason).

Ideational (Spiritual) Culture

The second pattern, which Sorokin called Ideational culture, has these characteristics:

  • The defining principle is that true reality is supersensory, transcendent, spiritual.
  • The material world is variously: an illusion (maya), temporary, passing away (“stranger in a strange land”), sinful, or a mere shadow of an eternal transcendent reality.
  • Religion often tends to asceticism and moralism.
  • Mysticism and revelation are considered valid sources of truth and morality.
  • Science and technology are comparatively de-emphasized.
  • Economics is conditioned by religious and moral commandments (e.g., laws against usury).
  • Innovation in theology, metaphysics, and supersensory philosophies.
  • Flourishing of religious and spiritual art (e.g., Gothic cathedrals).

Integral (Idealistic) Culture

Most cultures correspond to one of the two basic patterns above. Sometimes, however, a mixed cultural pattern occurs. The most important mixed culture Sorokin termed an Integral culture (also sometimes called an idealistic culture – not to be confused with an Ideational culture.) An Integral culture harmoniously balances sensate and ideational tendencies. Characteristics of an Integral culture include the following:

  • Its ultimate principle is that the true reality is richly manifold, a tapestry in which sensory, rational, and supersensory threads are interwoven.
  • All compartments of society and the person express this principle.
  • Science, philosophy, and theology blossom together.
  • Fine arts treat both supersensory reality and the noblest aspects of sensory reality.

Update: A more recent article that concisely describes the features of Materialism, Ideationalism, and Idealism is ‘What is Materialism? What is Idealism?‘ (Uebersax, 2013b) [Alternative Download]

Western Cultural History

Sorokin examined a wide range of world societies. In each he believed he found evidence of the regular alternation between Sensate and Ideational orientations, sometimes with an Integral culture intervening. According to Sorokin, Western culture is now in the third Sensate epoch of its recorded history. Table 1 summarizes his view of this history.

Table 1
Cultural Periods of Western Civilization According to Sorokin

Period Cultural Type Begin End
Greek Dark Age Sensate 1200 BC 900 BC
Archaic Greece Ideational 900 BC 550 BC
Classical Greece Integral 550 BC 320 BC
Hellenistic – Roman Sensate 320 BC 400
Transitional Mixed 400 600
Middle Ages Ideational 600 1200
High Middle Ages, Renaissance Integral 1200 1500
Rationalism, Age of Science Sensate 1500 present

 

Based on a detailed analysis of art, literature, economics, and other cultural indicators, Sorokin concluded that ancient Greece changed from a Sensate to an Ideational culture around the 9th century BC; during this Ideational phase, religious themes dominated society (Hesiod, Homer, etc.).

Following this, in the Greek Classical period (roughly 600 BC to 300 BC), an Integral culture reigned: the Parthenon was built; art (the sculptures of Phidias, the plays of Aeschylus and Sophocles) flourished, as did philosophy (Plato, Aristotle). This was followed by a new Sensate age, associated first with Hellenistic (the empire founded by Alexander the Great) culture, and then the Roman Empire.

As Rome’s Sensate culture decayed, it was eventually replaced by the Christian Ideational culture of the Middle Ages. The High Middle Ages and Renaissance brought a new Integral culture, again associated with many artistic and cultural innovations. After this Western society entered its present Sensate era, now in its twilight. We are due, according to Sorokin, to soon make a transition to a new Ideational, or, preferably, an Integral cultural era.

Cultural Dynamics

sorokin2.jpgSorokin was especially interested in the process by which societies change cultural orientations. He opposed the view, held by communists, that social change must be imposed externally, such as by a revolution. His principle of imminent change states that external forces are not necessary: societies change because it is in their nature to change. Although sensate or ideational tendencies may dominate at any given time, every culture contains both mentalities in a tension of opposites. When one mentality becomes stretched too far, it sets in motion compensatory transformative forces.

Helping drive transformation is the fact that human beings are themselves partly sensate, partly rational, and partly intuitive. Whenever a culture becomes too exaggerated in one of these directions, forces within the human psyche will, individually and collectively – work correctively.

Crises of Transition

As a Sensate or Ideational culture reaches a certain point of decline, social and economic crises mark the beginning of transition to a new mentality. These crises occur partly because, as the dominant paradigm reaches its late decadent stages, its institutions try unsuccessfully to adapt, taking ever more drastic measures. However, responses to crises tend to make things worse, leading to new crises. Expansion of government control is an inevitable by-product:

The main uniform effect of calamities upon the political and social structure of society is an expansion of governmental regulation, regimentation, and control of social relationships and a decrease in the regulation and management of social relationships by individuals and private groups. The expansion of governmental control and regulation assumes a variety of forms, embracing socialistic or communistic totalitarianism, fascist totalitarianism, monarchial autocracy, and theocracy. Now it is effected by a revolutionary regime, now by a counterrevolutionary regime; now by a military dictatorship, now by a dictatorship, now by a dictatorial bureaucracy. From both the quantitative and the qualitative point of view, such an expansion of governmental control means a decrease of freedom, a curtailment of the autonomy of individuals and private groups in the regulation and management of their individual behavior and their social relationships, the decline of constitutional and democratic institutions. (MSC p. 122)

But, as we shall consider below, at the same time as these crises occur, other constructive forces are at work.

Trends of our Times

Sorokin identified what he considered three pivotal trends of modern times. The first trend is the disintegration of the current Sensate order:

In the twentieth century the magnificent sensate house of Western man began to deteriorate rapidly and then to crumble. There was, among other things, a disintegration of its moral, legal, and other values which, from within, control and guide the behavior of individuals and groups. When human beings cease to be controlled by deeply interiorized religious, ethical, aesthetic and other values, individuals and groups become the victims of crude power and fraud as the supreme controlling forces of their behavior, relationship, and destiny. In such circumstances, man turns into a human animal driven mainly by his biological urges, passions, and lust. Individual and collective unrestricted egotism flares up; a struggle for existence intensifies; might becomes right; and wars, bloody revolutions, crime, and other forms of interhuman strife and bestiality explode on an unprecedented scale. So it was in all great transitory periods. (BT, 1964, p. 24)

The second trend concerns the positive transformational processes which are already at work:

Fortunately for all the societies which do not perish in this sort of transition from one basic order to another, the disintegration process often generates the emergence of mobilization of forces opposed to it. Weak and insignificant at the beginning, these forces slowly grow and then start not only to fight the disintegration but also to plan and then to build a new sociocultural order which can meet more adequately the gigantic challenge of the critical transition and of the post-transitory future. This process of emergence and growth of the forces planning and building the new order has also appeared and is slowly developing now….

The epochal struggle between the increasingly sterile and destructive forces of the dying sensate order and the creative forces of the emerging, integral, sociocultural order marks all areas of today’s culture and social life, and deeply affects the way of life of every one of us. (BT, 1964, pp. 15-16)

The third trend is the growing importance of developing nations:

The stars of the next acts of the great historical drama are going to be – besides Europe, the Americas, and Russia – the renascent great cultures of India, China, Japan, Indonesia, and the Islamic world. This epochal shift has already started…. Its effects upon the future history of mankind are going to be incomparably greater than those of the alliances and disalliances of the Western governments and ruling groups. (BT, 1964, pp. 15-16)

Social Transformation and Love

sorokin3.jpgWhile the preceding might suggest that Sorokin was a cheerless prophet of doom, that is not so, and his later work decidedly emphasized the positive. He founded the Harvard Research Center for Creative Altruism, which sought to understand the role of love and altruism in producing a better society. Much of the Center’s research was summarized in Sorokin’s second masterpiece, The Ways and the Power of Love.

This book offered a comprehensive view on the role of love in positively transforming society. It surveyed the ideals and tactics of the great spiritual reformers of the past – Jesus Christ, the Buddha, St. Francis of Assisi, Gandhi, etc. – looking for common themes and principles.

We need, according to Sorokin, not only great figures like these, but also ‘ordinary’ individuals who seek to exemplify the same principles within their personal spheres of influence. Personal change must precede collective change, and nothing transforms a culture more effectively than positive examples. What is essential today, according to Sorokin, is that individuals reorient their thinking and values to a universal perspective – to seek to benefit all human beings, not just oneself or ones own country.

A significant portion of the book is devoted to the subject of yoga (remarkable for a book written in 1954), which Sorokin saw as an effective means of integrating the intellectual and sensate dimensions of the human being. At the same time he affirmed the value of traditional Western religions and religious practices.

The Road Ahead

Sorokin’s theories supply hope, motivation, and vision. They bolster hope that there is a light at the end of the tunnel, and that it may not be too far distant. The knowledge that change is coming, along with an understanding of his theories generally, enables us to try to steer change in a positive direction. Sorokin left no doubt but that we are at the end of a Sensate epoch. Whether we are headed for an Ideational or an Integral culture remains to be seen. It is clearly consistent with his theories that an Integral culture – a new Renaissance – is attainable and something to actively seek.

One reason that change may happen quickly is because people already know that the present culture is oppressive. Expressed public opinion, which tends to conformity, lags behind private opinion. Once it is sufficiently clear that the tide is changing, people will quickly join the revolution. The process is non-linear.

The West and Islam

Viewed in terms of Sorokin’s theories, the current tensions between the West and Islam suggest a conflict between an overripe ultra-materialistic Western culture, detached from its religious heritage and without appreciation of transcendent values, against a medieval Ideational culture that has lost much of its earlier spiritual creativity. As Nieli (2006) put it:

With regard to the current clash between Islam and the West, Sorokin would no doubt point out that both cultures currently find themselves at end stages of their respective ideational and sensate developments and are long overdue for a shift in direction. The Wahabist-Taliban style of Islamic fundamentalism strays as far from the goal of integral balance in Sorokin’s sense as the one-sidedly sensate, post-Christian societies of Northern and Western Europe. Both are ripe for a correction, according to Sorokin’s theory of cultural change, the Islamic societies in the direction of sensate development (particularly in the areas of science, technology, economic productivity, and democratic governance), the Western sensate cultures in the direction of ideational change (including the development of more stable families, greater temperance and self-control, and the reorientation of their cultural values in a more God-centered direction). Were he alive today, Sorokin would no doubt hold out hope for a political and cultural rapprochement between Islam and the West. (Nieli, p. 373)

The current state of affairs between the West and Islam, then, is better characterized as that of mutual opportunity rather than unavoidable conflict. The West can share its technological advances, and Islam may again – as it did around the 12th century – help reinvigorate the spirit of theological and metaphysical investigation in the West.

Individual and Institutional Changes

Institutions must adapt to the coming changes or be left behind. Today’s universities are leading transmitters of a sensate mentality. It is neither a secret nor a coincidence that Sorokin’s ideas found little favor in academia. A new model of higher education, perhaps based on the model of small liberal arts colleges, is required.

Politics, national and international, must move from having conflict as an organizing principle, replacing it with principles of unity and the recognition of a joint destiny of humankind.

A renewal in religious institutions is called for. Christianity, for example, despite its protestations otherwise, still tends decidedly towards an ascetic dualism – the view that the body is little more than a hindrance to the spirit, and that the created world is merely a “vale of tears.” Increased understanding and appreciation of the spiritual traditions of indigenous cultures, which have not severed the connection between man and Nature, may assist in this change.

Sorokin emphasized, however, that the primary agent of social transformation is the individual. Many simple steps are available to the ordinary person. Examples include the following:

  • Commit yourself to ethical and intellectual improvement. In the ethical sphere, focus first on self-mastery. Be eager to discover and correct your faults, and to acquire virtue. Think first of others. See yourself as a citizen of the world. Urgently needed are individuals who can see and seek the objective, transcendent basis of ethical values.
  • Cultivate the Intellect: study philosophy; read books and poetry; listen to classical music; visit an art museum.
  • Practice yoga.
  • Be in harmony with Nature: plant a garden; go camping; protect the environment.
  • Reduce the importance of money and materialism generally in your life.
  • Turn off the television and spend more time in personal interaction with others.

A little reflection will doubtless suggest many other similar steps. Recognize that in changing, you are not only helping yourself, but also setting a powerfully transformative positive example for others.

The Supraconscious

Sorokin’s later work emphasized the role of the supraconscious — a Higher Self or consciousness that inspires and guides our rational mind. Religions and philosophical systems universally recognize such a higher human consciousness, naming it variously: Conscience, Atman, Self, Nous, etc. Yet this concept is completely ignored or even denied by modern science. Clearly this is something that must change. As Sorokin put it:

By becoming conscious of the paramount importance of the supraconscious and by earnest striving for its grace, we can activate its creative potential and its control over our conscious and unconscious forces. By all these means we can break the thick prison walls erected by prevalent pseudo-science around the supraconscious. (WPL, p. 487)

The reality of the supraconscious is a cause for hope and humility: hope, because we are confident that the transpersonal source of human supraconsciousness is providential, guiding culture through history with a definite plan; and humility, because it reminds us that our role in the grand plan is achieved by striving to rid ourselves of preconceived ideas and selfishly motivated schemes, and by increasing our capacity to receive and follow inspiration. It is through inspiration and humility that we achieve a “realization of man’s unique creative mission on this planet.” (CA, p. 326).

References and Reading

Uebersax, John S. “Culture in Crisis: The Visionary Theories of Pitirim Sorokin.” Satyagraha, 19 August 2010, updated 25 August 2013. <https://satyagraha.wordpress.com/2010/08/19/pitirim-sorkin-crisis-of-modernity/ >.

lundi, 23 mars 2015

Anissimov’s Critique of Democracy

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Anissimov’s Critique of Democracy

By Claus Brinker 

Ex: http://www.counter-currents.com

anissimov.jpegMichael Anissimov
A Critique of Democracy: A Guide for Neoreactionaries [2]
Zenit Books, 2015

Neoreaction is a philosophical movement, which emerged from social media in the past few years, seemingly in response to the hordes of social justice warriors that haunt the realms of message boards, blogs, and Twitter. Being a new movement, it is difficult to define, with every prominent neoreactionary on the internet writing his own definitive blog post (or Kindle book) on the subject. But there are certain commonalities they share. Neoreaction is inegalitarian, against democracy, and in favor of monarchy. The stereotype of neoreactionaries is that they are computer geeks who are interested in serious (but geeky) ethical issues surrounding technological innovation, as well as more banal and boyish pastimes like video games and Japanese animation.

Some of the names most often associated with the movement include Mencius Moldbug (who is considered to be its founder), Nick Land, Bryce Laliberte, and Michael Anissimov, who published a book in February 2015 entitled A Critique of Democracy: A Guide for Neoreactionaries. Anissimov is a noted futurist and has participated in a number of intellectual ventures concerning the ethics of transhumanism, artificial intelligence, and nanotechnology. As a neoreactionary, he is known for his writing contributions at the blog More Right (http://www.moreright.net/ [3]). He is also prolific Twitter user.

Anissimov’s A Critique of Democracy is short and simple, drawing primarily from a few scholarly sources to make the point that democracy ruins civilization. His chosen alternative to democracy is monarchy, which he advocates for to a small degree in this book, but he has stated that his next book will be entitled Monarchy: A Political Study. His arguments against democracy are largely materialistic, utilizing concepts associated with human biodiversity and basic economic principles. Some of his criticisms are reminiscent of Alain de Benoist’s The Problem of Democracy [4], but Anissimov arrives at them from a different path.

After a brief introduction summarizing democracy’s flaws in nine key points, the book begins by examining the science of leadership. Anissimov traces the inevitability of hierarchy in society to evolutionary strategies, which can be deduced from observations of non-human primate behavior as well as archeological evidence. The implication is that there will always be leaders and followers and some are better suited for leadership. When this reality is accepted, society can move beyond the inhibiting belief that every individual deserves a vote.

Anissimov examines the roots of civilization in Mesopotamia and notes that the ability to lead increasingly large numbers of people coincided with other major advances in civilization. Citing Ricardo Duchesne’s The Uniqueness of Western Civilization, he makes the assertion that the founders of Western civilization were not Greek but Aryan:

There are three reasons why the Greeks are often referred to as the foundation of Western Civilization rather than Myceneans or Indo-Europeans. The first is that archaeological and paleogenetic studies of Indo-Europeans are more of a challenge than classical Greek studies and have only begun to bear fruit and consensus during the early 90s. The second is that focus on the Athenian Greeks is more politically amenable to educators in present-day liberal democracies. The third is the association of Indo-Europeans with the Aryan racial theories of Nazi Germany. We do not consider any of these good reasons for why study of Indo-Europeans should be neglected, as they are the true forebears of Western Civilization.

Pointing out that liberal democracies prefer to focus on the Greeks rather than Indo-Europeans highlights a pervading theme in the book, that the bias toward democracy has led to lazy thinking and out-of-hand refusal to consider the merits of a more authoritarian style of government such as was found among the Indo-Europeans.

The book continues by addressing the polarizing effect of democratic government on political factions, which results in the fracturing of cultural solidarity and the alienation of the individual. According to Anissimov, a study of European history reveals “that de facto nation states form along ethnic and cultural lines and that the United States is in fact composed of several such states.” However, to demonstrate the reality of these de facto states, he focuses on political differences (the “red state” versus “blue state” phenomenon), rather than the increasingly multi-racial composition of the United States. In reality, any nation, be it democratic or not, can include a spectrum of political variation while maintaining its ethnic cohesion. But it might be conjectured that democracy exacerbates political differences, polarizing parties to a greater degree than would occur under the type of government Anissimov is proposing.

The critique moves on to discuss the incentives resulting from a democratic form of government versus those created by a monarchy. Anissimov’s primary source for this discussion is Hans-Hermann Hoppe’s Democracy: The God That Failed, and largely consists of contrasting the low time preference incentives of monarchy with the high time preference incentives of democracy. In a democracy policymakers tend toward a higher time preference decisions due to the lack of accountability. Democracy makes it possible for opportunists to bribe the foolish masses into giving them power with short-term benefits. The negative effects of short-sighted policies advanced by these devious politicians are usually not seen until years after they leave office. And if not, the only consequence they face is a failure to get re-elected, in which case they can find themselves a prestigious job on the basis of the supposed leadership they have demonstrated. Whereas, in what Anissimov calls the private government, the failure of a monarch to think in the long-term results in the loss of his personal property or that of his descendants.

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In a chapter on economics, Anissimov challenges the idea that democracies are necessary for economic growth. He concedes that democracies have a more consistent record for economic growth while authoritarian governments have a wider range of success and failure. However, other factors are involved in the disparity between the worst and the best of authoritarian governments, the most prominent correlation being the average IQ of the citizenry. Additionally, there is a wider degree of variance between leadership styles in different countries:

For instance, the economic and social outcome of the absolute authority of the average African military dictator might be systematically different than the economic and social outcome of the average historical Mongolian despot, which is in turn different from the modern Muslim autocrat, who is in turn different than the Enlightenment-era European monarch, and so on. Not all kings were created equal. Being products of the cultures around them, they inherit certain strengths and weaknesses common to all members of that culture.

He also addresses the assumption made by many that unequal distribution of wealth is inherently unjust. In reality, a healthy nation must have some form of wealth inequality. He cautions that pointing to inequality as if it is a problem that must be solved is a tactic frequently used by politicians who seek to exploit the populace in a democracy by appealing to their most debased instinct—jealousy.

Anissimov argues that the Enlightenment is often viewed as a package of ideas that most people believe must be accepted in their entirety or not at all, even though certain of these ideas contradict one another. One example is liberty and equality. Both are considered Enlightenment values, but true liberty will never result in equality, and any attempt to achieve equality requires the suspension of liberties. Some Enlightenment values should be accepted over others when they contradict one another. Furthermore, the development of the scientific method was also a part of the Enlightenment, and the idea that this could not have occurred without democracy is absurd. The underlying point is that a return of monarchies would not necessarily mean a step back for Western civilization. If anything, a post-democratic world would be a step forward.

In the final chapter, Anissimov discusses alternatives to democracy.  He identifies five possible non-democratic alternatives: fascism, monarchy, techno-commercial city states (like Singapore), sea-steading city states, and aristocratic republics with limited voting rights. He makes it clear that monarchies are not fascistic.

There are many differences between monarchy and fascism. The first is that fascism implies a totalitarian state, monarchy does not. Fascism implies no clear separation between the governing party and the governed, monarchy does. Fascism is socialist, monarchy is not. Fascism aggressively presents an overall vision of what society should be, imposed from the top down, monarchy does not. Fascism forbids “unearned income” on paper, meaning any revenue from investment whatsoever, monarchy does not. Fascism has a preoccupation with militarism and “society as barracks,” monarchy does not. Fascism has a leader that represents himself as carrying out the people’s will, monarchy does not. Fascism is about meritocracy independent of social background, monarchy is about heredity and ancestry. Fascism implies a government in control of much of the economy, monarchy implies a government that spends less than 20 percent of the GDP.

Anissimov is clearly coming from a quasi-libertarian perspective and sees capitalism as a good system for society. He sees monarchy as a solution to the degenerative aspects of capitalism by giving a private government the authority to keep non-governmental businesses in check and prevent them from engaging in practices contrary to the national interest. In a democracy this doesn’t happen because people with greater capital have more influence over whether or not policies such as free trade and mass immigration are implemented, which may be detrimental to the nation but are good for those who prefer profit over cultural values. In fact, whenever cultural values get in the way of profit, they can be subverted in a democracy. But a monarch operates as a protector of culture because it is in his best interest to do so.

A Critique of Democracy: A Guide for Neoreactionaries is a useful little book for learning the basic arguments against democracy as well as some of the reasons why neoreactionaries take the idea of monarchy seriously. This book need not be just for reactionaries, but it would be interesting to see how a liberal, particularly a voting rights protester, would respond to the book. The critiques of democracy are sound, but the discussion of alternatives to democracy seems a bit lacking with very one-dimensional perspectives given to all alternatives besides monarchy. However, a more detailed discussion is not really the focus of the book. A spiritual critique of democracy is completely lacking here.

To describe this book as a guide is a bit of a misnomer. While it is fairly easy to navigate because of its brevity, it would be more useful as a guide if the chapters were broken down into subsections with bold headings and if an index were provided. The only chapter with subsections is the final one, and it could have been broken down further. But this criticism of the book’s form is a trifling detail. The book is meant to be read in an electronic format, which would include search functionality that is partially equivalent to an index. When the book was first released, it was only available in electronic formats. Soon afterward, a hard copy became available from the on-demand printing company, Lulu.com, which is where I obtained my copy.

For White Nationalists it is encouraging to see a movement like neoreaction sprouting up among intelligent young men. But neoreaction conflicts with White Nationalism in a way similar to other race realists (see American Renaissance) in that neoreactionaries refuse to give the Jewish question serious consideration. In some ways, Michael Anissimov may serve as an intermediary between these two movements. There is evidence that he is aware the problems posed by Jewish power and influence and takes it seriously. I haven’t seen a definitive statement of his position on the issue, but have noticed his occasional tongue in cheek comments on Twitter regarding Jews. Furthermore, there is an amusing web site attempting to smear his name by describing him as an anti-Semitic, gay, neo-Nazi, Scientologist. It seems that he is known for not backing away from the Jewish question or giving the typical knee-jerk response to silence those who bring it up.

There may be hope that other neoreactionaries will come around as well. For now, we can be thankful that neoreaction has opened yet another path for truth-seekers who may one day find their home in a nice white country.

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2015/03/anissimovs-critique-of-democracy/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2015/03/manissimov-1695202688.png

[2] A Critique of Democracy: A Guide for Neoreactionaries: http://www.amazon.com/gp/product/B00TA70R3Y/ref=as_li_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=390957&creativeASIN=B00TA70R3Y&linkCode=as2&tag=countecurrenp-20&linkId=D7MZZFVQTI32FTWE

[3] http://www.moreright.net/: http://www.moreright.net/

[4] The Problem of Democracy: http://www.counter-currents.com/2011/10/rethinking-democracy-alain-de-benoists-the-problem-of-democracy/

 

vendredi, 20 mars 2015

L’UTOPIA GEOPOLITICA DELL’ “IMPERO LATINO”

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L’UTOPIA GEOPOLITICA DELL’ “IMPERO LATINO”

Davide Ragnolini

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Il Mar Mediterraneo, come topos del rapporto tra Europa e Vicino Oriente e con una naturale vocazione geopolitica di crocevia tra Nord e Sud del mondo, si presenta oggi al centro di un processo storico che vede un’ingerenza di attori atlantici, di natura “oceanica”.

Seguendo lo storico Mollat du Jourdin possiamo distinguere «due Mediterranei europei»,[i] cioè “due mari tra le terre” nel continente europeo. Di quello a nord aperto all’Oceano e «totalmente europeo»[ii] lo storico francese scrive: «i mari del Nord-ovest e del Nord europeo ritrovarono la loro vocazione ad essere il dominio del profitto e del potere, vocazione per altro mai dimenticata»;[iii] del Mediterraneo a sud, con il suo appellativo di mare nostrum, egli scrive che la sua natura sta nell’essere «un mare se non chiuso ad ogni modo incluso in un universo politico, dapprima unico, e centrato sull’Europa, e in seguito esteso all’Africa».[iv] Questo secondo Mediterraneo collocato nel Mezzogiorno dell’Europa si trova in una posizione geografica euro-afroasiatica che lo distingue da quello settentrionale sotto l’aspetto culturale ed antropologico conferendogli un carattere di unicità: «un mare su cui si affacciano tre continenti e tre religioni monoteistiche che non sono mai riuscite a prevalere l’una sull’altra».[v] Danilo Zolo osserva infatti che questo luogo sincretico di culture, popoli ed etnie differenti «come tale non è mai stato monoteista» e si presenta anzi come un «pluriverso irriducibile di popoli e di lingue che nessun impero mondiale oceanico può riuscire a ridurre ad unum».[vi] Nella misura in cui tale pluriverso ha un’unità storico-geografica ma non politica, economica e militare, la “deriva oceanica” del Mediterraneo si verifica attraverso un processo di erosione della sua unità, e sottrazione della suo spazio di autonomia geopolitica a favore di attori diversi da quelli dell’Europa mediterranea e del mondo arabo-musulmano.[vii] Questa considerazione geopolitica sull’unità del pluriverso mediterraneo deve essere congiunta con un’altra più specificamente storico-politica relativa alla crisi dello Stato-nazione, che Habermas, nel 1996, svolgeva nel seguente modo: «la sovranità degli stati nazionali si ridurrà progressivamente a guscio vuoto e noi saremo costretti a realizzare e perfezionare quelle capacità d’intervento sul piano sopranazionale di cui già si vedono le prime strutture. In Europa, Nordamerica e  Asia stanno infatti nascendo organizzazioni soprastatali per regimi continentali che potrebbero offrire l’infrastruttura necessaria alla tuttora scarsa efficienza delle Nazioni Unite».[viii] Le entità sovrastatali a cui fa riferimento il liberale Habermas, apologeta dell’operato dell’Onu e dell’Ue, non sono le stesse delineate dal filosofo hegeliano Alexandre Kojève. Tuttavia la diagnosi dell’idea di Stato-nazione, assieme alla prima considerazione sull’unità del pluriverso mediterraneo, costituisce il punto di avvio dell’intuizione geopolitica del filosofo russo-francese nel suo L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese (27 agosto 1945). Questo Esquisse d’une doctrine de la politique française fu pubblicato in versione dimidiata solo nel 1990 sulla rivista diretta da Bernard-Henry Lévy («La Regle du Jeu», I, 1990, 1). Su questo testo, pubblicato integralmente in italiano nel 2004 all’interno di una raccolta di scritti di Kojève intitolata Il silenzio della tirannide, anche il filosofo italiano Giorgio Agamben ha recentemente richiamato l’attenzione[ix]; tuttavia esso è passato pressoché inosservato all’interno dell’ideologia europeista dominante.

La stesura di questo abbozzo di dottrina geopolitica francese avvenne nell’agosto 1945, e trasse occasione dalla cooptazione di Kojève da parte di un suo ex-allievo nei negoziati dell’Avana per la creazione del GATT.[x] Due sono le preoccupazioni che Kojève espone all’inizio del suo scritto, e sono strettamente legate alle immediate circostanze storiche francesi: una, più remota, era quella relativa allo scoppio di una terza guerra mondiale in cui il suolo francese sarebbe potuto diventare campo di battaglia tra russi e anglosassoni; l’altra, più concreta, era costituita dalla crescita del «potenziale economico della Germania», per cui l’«l’inevitabile integrazione di questo paese – che si tenterà di rendere “democratico” e “pacifico” – all’interno del sistema europeo comporterà fatalmente la riduzione della Francia al rango di potenza secondaria».[xi] Il quadro giuridico-politico internazionale sul quale si delinea l’analisi di Kojève è quello della progressiva crisi dello Stato-nazione, prodotto dalla modernità politica a vantaggio di «formazioni politiche che fuoriescono dai limiti nazionali».[xii] Lo Stato moderno per poter essere politicamente efficace deve, in questo mutato quadro geopolitico, poter poggiare su una «vasta unione “imperiale” di nazioni imparentate».[xiii] A provare tale tendenza secondo Kojève sarebbe anche l’insufficienza dello sviluppo militare, sempre più determinata dai limiti economici e demografici su scala nazionale che rendono impossibile la gestione di eserciti in una fase post-nazionale. Ma il limite è evidentemente nell’idea stessa di Stato-nazione.

Nella lettura storica che egli diede della sconfitta del Reich tedesco viene messa in rilievo l’impossibilità da parte di uno Stato di preservare un’esistenza politica sulla limitata base di uno Stato-nazione e con la sua connessa «ideologia nazionalista».[xiv] Da questo punto di vista nella sua analisi, similmente a quella svolta dal secondo Carl Schmitt, interessato all’idea di Grossraum sul piano internazionale, vi è «la consapevolezza del deperimento della sovranità statuale».[xv] La stessa diagnosi dell’idea e della realtà storica dello Stato-nazione è data oggi da Alain de Benoist, per il quale l’unità artificiale dello Stato-nazione è diventata ormai un’istanza di mediazione inefficace tra le tendenze centrifughe di regionalismi e irredentismi etnolinguistici dal basso e la pressione dei mercati mondiali dall’alto.[xvi]

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Secondo Kojève l’erosione dell’efficacia politica dello Stato-nazione si poté già scorgere da un lato nel liberalismo borghese, che affermava il primato della società di individui sull’autonomia politica dello Stato, dall’altro nell’internazionalismo socialista, che pensava di realizzare il trasferimento della sovranità delle nazioni all’umanità.[xvii] Secondo il filosofo francese, se la prima teoria si caratterizzò per miopia nel non vedere un’entità politica sovranazionale, la seconda fu ipermetrope nel non scorgere entità politiche al di qua dell’umanità. Kojève intuì che la nuova struttura politica statale che si stava configurando sarebbe costituita da imperi intesi come «fusioni internazionali di nazioni imparentate».[xviii] Da un punto di vista storico-filosofico il Weltgeist hegeliano, prima di poter incarnarsi nell’umanità, sembra dover assumere la forma dell’Impero,[xix] senza con ciò rinunciare alla propria teleologia di una metempsicosi cosmostorica tesa ad una comunità mondiale. Una concreta realizzazione storica di un’entità politica sorretta dalla mediazione tra universalismo e particolarismo geopolitico sarebbe stata rappresentata dall’«imperial-socialismo» di Stalin, che si contrappose sia all’astratto Stato-umanità di Trotzki, sia al particolarismo del nazional-socialismo tedesco.

All’imperial-socialismo sovietico, o impero slavo-sovietico, si contrappose un’altra efficace entità politica che Kojève qualifica come imperiale: l’«impero anglo-americano».[xx] Nell’acuta analisi precorritrice del filosofo francese, la «Germania del futuro», estinguendosi come Stato-nazione caratterizzato da esclusivismo geopolitico ed autonomia politica in base al principio postvestfaliano dello Stato come superiorem non reconoscens,[xxi] «dovrà aderire politicamente all’uno o all’altro di questi imperi».[xxii] Da un punto di vista culturale-religioso, la parentela che egli individua tra anglosassoni e tedeschi si fonderebbe sull’ispirazione protestante comune. Il problema che si pose Kojève fu dunque specificamente geopolitico e tuttora assolutamente attuale: scongiurare la riduzione della Francia a «hinterland militare ed economico, e quindi politico, della Germania, divenuta avamposto militare dell’impero anglosassone».[xxiii] L’orientamento della Germania verso l’impero anglo-americano si sarebbe potuto osservare negli sviluppi storici e geopolitici successivi.

Ma nell’analisi dell’hegeliano francese, il problema della riduzione della sovranità coinvolgerebbe conseguentemente le altre nazioni dell’Europa occidentale «se si ostineranno a mantenersi nel loro isolamento politico “nazionale”».[xxiv] Il progetto politico proposto da Kojève è teso quindi alla creazione di una terza potenza tra quella ortodossa slavo-sovietica e quella protestante germano-anglo-sassone: un impero latino alla cui testa possa porsi la Francia al fine di salvaguardare la propria specificità geopolitica assieme a quella di altre nazioni latine, minacciate da un bipolarismo mondiale che preme su uno spazio mediterraneo da oriente e da occidente.

La vocazione di tale progetto imperiale non potrebbe però avere un carattere imperialistico, perché non sarebbe capace di un sufficiente potere offensivo verso gli altri due imperi, ma avrebbe piuttosto la funzione di preservare la pace e l’autonomia geopolitica di un’area che si sottrae al pericolo di egemonie imperialistiche esterne impedendo che il proprio spazio diventi campo di battaglia di Asia e Pacifico.[xxv] L’analisi della situazione della Francia svolta da Kojève rivela però alcune precise difficoltà di realizzazione di questo progetto politico. Secondo il filosofo francese alla «fine del periodo nazionale della storia»[xxvi], che peraltro la Francia faticherebbe a riconoscere, si aggiunge un processo di «spoliticizzazione» del Paese, cioè di perdita della volontà politica ed una conseguente decadenza sotto il piano sociale, economico e culturale. Un progetto sovranazionale implica un dinamismo diplomatico e uno sforzo di mediazione culturale di cui i paesi latini si devono assumere l’impegno. La parentela che Kojève scorge tra le nazioni latine come Francia, Italia e Spagna, e che costituisce l’elemento coesivo di un progetto di entità politica postnazionale, è caratterizzato da un punto di vista culturale da «quell’arte del tempo libero che è l’origine dell’arte in generale».[xxvii] Tale peculiarità dell’«Occidente latino unificato»[xxviii] sarebbe un aspetto identitario omogeneo ai Paesi latini e rimarrebbe ineguagliato dagli altri due imperi. Per questa ragione antropologico-culturale Danilo Zolo può affermare che «l’area mediterranea vanta la più grande concentrazione artistica del mondo».[xxix]

Più in generale, secondo Kojève la formazione di entità politiche imperiali dopo lo Stato-nazione è rafforzata dalla coesione di queste nazioni imparentate con le Chiese più o meno ufficiali ad esse corrispondenti.[xxx] Questa parentela o unione latina può diventare un’entità politica reale solo formando un’autentica unità economica, condizione materiale di esistenza di tale progetto sovranazionale. Ben lungi dall’essere un vettore di conflitto, tale impero latino potrebbe garantire un’intesa politicamente efficace tra culture diverse ma unite nello stesso spazio di appartenenza e comunità di destino. È su questa identità geopolitica comune che è possibile pensare ad un efficace antidoto contro l’idea di clash of civilizations, costitutivamente estranea all’area mediterranea: «un’intesa tra la latinità e l’islam – scrisse Kojève – renderebbe singolarmente precaria la presenza di altre forze imperiali nel bacino mediterraneo».[xxxi]

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Da questo punto di vista identitario-culturale, la considerazione sull’esigenza di unità economica nell’area latina delineata dal filosofo francese è ben lontana dal liberalistico primato dell’economico sul politico che si è affermato ed istituzionalizzato successivamente nell’Unione europea. L’unione economica dei Paesi latini è infatti pensata solo come condizione, mezzo dell’unità imperiale latina, non come una sua ragion d’essere, perché il fine ultimo di questa è essenzialmente politico ed è sorretto da un’ideologia specifica. Categoria fondamentale dell’ideologia dell’unità imperiale latina è l’indipendenza e l’autonomia, alla quale si rivelano subordinati altri aspetti come quelli di potenza e di grandezza. Una politica militarista secondo Kojève tradisce una insicurezza e minaccia di instabilità che la formazione di un progetto sovrastatale mediterraneo dovrebbe allontanare: «il militarismo nasce dal pericolo e soprattutto dalla sconfitta, cioè da una debolezza solo probabile o già verificatasi».[xxxii] Per questa ragione il fenomeno di militarismo ed imperialismo viene da Kojève rigettato come «meschino», e spiegato come il riflesso di uno Stato-nazione fragile e non di una struttura politica imperiale.

A tale impero latino dovrà corrispondere un esercito sovranazionale «sufficientemente potente da assicurargli un’autonomia nella pace e una pace nell’autonomia» e non nella dipendenza di uno dei due imperi rivali.[xxxiii] Come già rilevato sopra, la potenza militare dell’impero latino né potrebbe, né dovrebbe avere carattere offensivo, ma piuttosto un carattere difensivo riferito ad una concreta localizzazione nello spazio: «l’idea di un Mediterraneo “mare nostrum” potrebbe e dovrebbe essere il fine concreto principale, se non unico, della politica estera dei latini unificati […] si tratta di detenere il diritto e i mezzi di chiedere una contropartita a coloro che vorranno circolare liberamente in questo mare o di escluderne altri. L’accesso o l’esclusione dovranno dipendere unicamente dall’assenso dell’impero latino grazie ai mezzi di cui esso solo può disporre».[xxxiv] L’isolamento dei singoli paesi latini non li farebbe altro che naufragare sul blocco imperiale anglo-sassone, trasformandoli in «satelliti nazionali»[xxxv] di una delle due formazioni imperiali straniere. Interessante è l’osservazione di Kojève sul pericoloso potenziale di squilibrio geopolitico ed economico che la Germania può costituire rispetto ai Paesi latini e all’Europa intera: «se il pericolo di una Germania nemica sembra essere scongiurato per sempre, il pericolo economico rappresentato da una Germania “alleata” affrontato all’interno di un blocco occidentale che sia un’emanazione dell’impero anglosassone non è affatto chimerico, mentre rimane, anche sul piano politico, incontestabilmente mortale per la Francia»[xxxvi] e per gli altri Paesi latini. L’impero latino come entità politica autonoma potrebbe essere in grado di «opporsi in maniera costante ad un’egemonia continentale tedesca» o anglo-americana.

L’idea di impero latino non deve cioè essere connessa ai limiti di un anacronistico Stato-nazione, ma riferito a «fusioni internazionali di nazioni imparentate»[xxxvii] o «unione internazionale di nazioni imparentate».[xxxviii).

I problemi politici interni che ostacolerebbero il progetto di impero latino in Francia sarebbero secondo Kojève costituiti sia dal «quietismo economico e politico» che paralizza l’intraprendenza politica del Paese, cioè ostacolano «l’attività negatrice del dato, quindi creatrice e rinnovatrice», sia da formazioni partitiche che si rivelano essere «tanto più intransigenti nel loro atteggiamento quanto meno questo è dottrinale».[xxxix] La compresenza di questi due aspetti agirebbe in modo ostativo rispetto al progetto di impero latino, e non possiamo certo dire che oggi, sotto l’esperienza del commissariamento tecnico-economico dei governi e nella caotica frammentarietà di partiti deideologizzati la situazione possa definirsi più idonea sul piano fattuale per la costruzione di un progetto geopolitico sovranazionale alternativo.

Nell’analisi che Kojève svolge sulla possibile collaborazione ed idoneità dei vari partiti politici esistenti in Francia rispetto al progetto di impero latino, di grande rilievo è il rapporto che viene delineato tra formazione imperiale e Chiesa. Nella nascente fase storica di formazione di imperi post-nazionali le Chiese cristiane tra loro separate sembrano abbisognare dell’esistenza di compagini intermedie tra l’umanità e le nazioni.[xl] Si potrebbe quindi osservare un isomorfismo strutturale dal punto di vista geopolitico tra le Chiese separate e le formazioni imperiali: né universalistici, né limitati in un’anacronistica idea di Stato-nazione. La Chiesa cattolica, in questo quadro geopolitico in cui i movimenti imperiali rappresentano l’attualità, acquisirebbe «il patrocinio spirituale dell’impero latino»[xli] e, tenendosi salda alla propria natura di Chiesa potenzialmente universale, ricorderebbe all’impero latino il suo carattere storicamente transitorio all’interno dello sviluppo storico. Il progetto di impero latino nella sua configurazione storica e geopolitica si differenzia dal Grossraum schmittiano per il fatto che esso non esercita, o almeno non primariamente, la funzione di katechon[xlii] perché da un punto di vista geopolitico rappresenta «la forma intermedia tra Vestfalia e Cosmopolis»,[xliii] e sul piano storico «prepara e anticipa lo stato mondiale».[xliv]

Questo progetto per una dottrina geopolitica francese e mediterranea seppur si inquadri in un rapporto di opposizione all’unipolarismo anglo-americano e sia schiettamente orientato in una prospettiva multipolare, dal punto di vista storico-escatologico diventa vettore di realizzazione dell’idea di Stato-umanità secondo l’umanismo filosofico di Kojève.

L’8 maggio di quest’anno, a proposito del progetto geopolitico di questo singolare «marxiste de droite»[xlv], è apparso sulla rivista tedesca Die Welt un articolo che, al contrario di quello di Agamben, non è affatto passato inosservato. Il sociologo tedesco Wolf Lepenies,[xlvi] nella sua risposta al duro documento del Partito socialista francese contro il dogma economico dell’austerità tedesca, chiama in causa la dottrina geopolitica di Kojève di un’unione contro la Germania, che sembrerebbe acquisire fama e simpatie presso la sinistra francese e troverebbe risonanza presso il filosofo italiano Agamben. L’articolo di Lepenies è critico anche verso l’intuizione kojèviana di una Germania che persegue i propri vantaggi economici all’ombra di un blocco euro-atlantista. Tale episodio è significativo sul piano negativo: un articolo di un quotidiano tedesco conservatore di oggi, fondato dalle forze inglesi vincitrici nel 1946, rivolto contro il progetto geopolitico alternativo da un filosofo francese pensato nel dopoguerra non può che assumere rilievo sotto il profilo della teoria geopolitica contemporanea. Il binomio Germania-Eurolandia, col suo potenziale destabilizzante per il continente europeo e in particolare per i paesi mediterranei europei, può essere ridiscusso solo a partire dalla critica al suo fondamento geopolitico euro-atlantista, come intuì Kojève all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.



[i] MOLLAT DU JOURDIN M., L’Europa e il mare dall’antichità ad oggi, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 14.

[ii] Ivi, p. 29.

[iii] Ivi, p. 66.

[iv] Ivi, p. 29.

[v] ZOLO D., Per un dialogo fra le culture del Mediterraneo in AA. VV., Mediterraneo. Un dialogo tra le sponde, a cura di F. Horchani e D. Zolo, Jouvence, Roma, 2005, p. 18.

[vi] Ibidem.

[vii] Cfr. ZOLO D., La questione mediterranea, in AA. VV., L’alternativa mediterranea, a cura di F. Cassano e D. Zolo, Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 18-21. Cfr. anche l’interessante intervista di Alain de Benoist rivolta a Danilo Zolo su questo tema reperibile nel seguente sito: http://www.juragentium.org/topics/med/it/benoist.htm.

[viii] HABERMAS J., Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza in ID., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 120-121.

[ix] Il titolo dell’articolo di Giorgio Agamben apparso su Repubblica il 15 marzo di quest’anno si intitola “Se un impero latino prendesse forma nel cuore dell’Europa”, ed è reperibile nel seguente sito:  http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/03/15/se-un-impero-latino-prendesse-forma-nel.html.

[x] TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in AA. VV., Quaderni fiorentini per la storia del pensiero moderno, vol. XXXV, Giuffrè Editore, Milano, 2006, p. 379.

[xi] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in ID., Il silenzio della tirannide, Adelphi, Milano, 2004, p. 163.

[xii] Ivi, p. 164.

[xiii] Ivi, p. 165.

[xiv] Ivi, pp. 167-168.

[xv] TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in op. cit., p. 393.

[xvi] Cfr. DE BENOIST A., L’idea di Impero, in AA. VV., Eurasia. Rivista di studi geopolitici, n.° 1/2013.

[xvii] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in op. cit., pp. 168-169.

[xviii] Ivi, p. 169.

[xix] Ivi, p. 170.

[xx] Ivi, p. 171.

[xxi] ZOLO D., Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 68.

[xxii] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in op. cit., p. 172.

[xxiii] Ivi, p. 173.

[xxiv] Ivi, p. 174.

[xxv] Ivi, p. 175.

[xxvi] Ivi, p. 179.

[xxvii] Ivi, p. 183.

[xxviii] Ivi, p. 184.

[xxix] ZOLO D., La questione mediterranea, in AA. VV., L’alternativa mediterranea, op. cit., p. 17.

[xxx] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in op. cit., p. 185.

[xxxi] Ivi, p. 188.

[xxxii] Ivi, p. 193.

[xxxiii] Ibidem.

[xxxiv] Ivi, p. 195.

[xxxv] Ivi, p. 196.

[xxxvi] Ivi, p. 197.

[xxxvii] Ivi, p. 169.

[xxxviii] Ivi, p. 181.

[xxxix] Ivi, p. 198.

[xl] Ivi, p. 208.

[xli] Ivi, p. 209.

[xlii] SCHMITT C., Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, a cura di Franco Volpi, Adelphi, 2003, p. 42 e sgg.

[xliii] TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in op. cit., p. 394.

[xliv] Ivi, p. 398.

[xlv] AUFFRET D., Alexandre Kojève, La philosophie, l’État, la fin de l’Histoire, Paris, Grasset, 1990, p. 423, cit. in TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in op. cit., p. 401.

 

jeudi, 19 mars 2015

La bufala Marcuse

La bufala Marcuse

marcuse1.pngBuona parte degli intellettuali sessantottini, abbandonando al suo destino il proletariato, si sono resi alla teoria della società dei consumi. A ben vedere, se questa condizione rappresentasse la realtà, se si potesse consumare ciò che si produce, il sogno marxiano sarebbe avverato. Ma lungi dall'essere un modello socialista il nostro capitalismo agonistico è strutturato secondo una precisa gerarchia di accesso al consumo. Il fenomeno dei Rich Kids e l'ostentazione della ricchezza, con il recesso del pudore e della riservatezza nell'era della mediatizzazione totale, fanno cadere l'utopico e accomodante ugualitarismo della società dei consumi.
Ex: http://www.lintellettualedissidente.it

La grande truffa che Marcuse e la sua progenie intellettuale hanno smerciato in forma “ribelle” al pensiero Occidentale è un semplicismo accomodante. La scuola di Francoforte, con lo slogan “il proletariato si è svenduto per un piatto di lenticchie”, ha abbandonato la causa operaia. Troppo borghese per un certo intellettualismo, la classe diseredata, piuttosto che perseguire la lotta ha preferito emanciparsi compromettendosi col padronato. Anni di rivendicazioni salariali e lotte sindacali per entrare nella società dei consumi senza ribaltare l’ordine costituito. Così Marcuse ha liquidato il proletariato traditore. Ma, se così fosse, chi potrebbe essere più felice di quel borghese di Marx? Non era proprio il filosofo di Treviri a sognare l’abolizione delle classi all’interno di una società garante indistintamente dell’accesso al consumo? Eppure la nostra è una società capitalistica. Come giustifica, Marcuse, questa contraddizione? Il fatto che tutti possano acquistare un Iphone o un’automobile non è sufficiente ad abolire le disuguaglianze.

mcl1.gifFu Michel Clouscard, negli anni Settanta, a sanare l’errore del francofortese, mettendo sugli attenti, tra le pagine dell’Humanité – quando ancora quel giornale valeva qualcosa – i militanti del PCF: vige una gerarchia di accesso al consumo, perché i beni non si equivalgono. La lavatrice, il frigorifero, l’automobile sono beni di equipaggiamento, dediti a riprodurre la forza lavoro dell’operaio. Così come oggi lo sono l’Iphone, il computer, il nuovo tablet, strumenti che da un lato rinnovano e dall’altro si rendono funzionali al lavoro dell’impiegato. Ma né l’operaio né l’impiegato hanno intenzione di consumare, o almeno non consumano gli oggetti in modo libidinale o ludico. Con ciò, il nostro presente ci obbliga a scrostare questi sedimenti marcusiani per farci confrontare con la realtà: il diverso grado che la società riserva agli individui di consumare senza produrre. Questa scala è recentemente resa pubblica sui social network. Tramite il mondo dei social la struttura verticale e gerarchica di accesso al consumo sembra ristabilirsi svelando l’ipocrita velo di maya che per un trentennio ha illuso chi sperava nella società dell’uguaglianza. Il definitivo collasso della riservatezza puritana, dell’influenza cattolica sulle giovani generazioni, mostrano che la civiltà dei consumi (esente dalla produzione) è una verità per una percentuale bassissima della popolazione, cui è permesso il rito che Clouscard chiama “potlach del plus valore”: lo spreco di valore aggiunto prodotto da altri. Il fenomeno dei Rich Kids su Instagram non è che uno svelamento. Da Beverly Hills fino a Mosca l’ostentazione è una moda anche per le élites dell’ex nomenklatura sovietica che dopo 70 anni di Unione hanno liberalizzato lo champagne e le prostitute oltre le quattro mura domestiche e fuori dai vetri oscurati delle Zil. Ovunque – persino a Teheran, prima che, in nome della decenza comune, il link fu bloccato – i figli delle élites promuovono sfacciatamente la vita lussuosa e lo sperpero di denaro.

C’è chi si scandalizza ed “è sempre banale” (direbbe Pasolini), e chi brama una simile ricchezza, ma il risultato dei social come mediatori tra lo stile di vita dei vertici e le ambizioni della base popolare è il nuovo motore della Storia. Insegna a chi non può praticare il potlach incessantemente che la sottomissione in luogo di produzione permette uno spazio temporale limitato di libertà in luogo di consumo. C’è chi lavora ininterrottamente un anno per fare il miliardario cinque giorni ad agosto in un isola dello sballo. La temporalità della vita viene scandita secondo un ritmo preciso che ad oggi è un brano musicale e uno slogan stampato sulle t-shirt all’ultimo grido: “work hard, party harder”. Più ti sottometti, più sei libero.

Entretien avec David Cumin sur Carl Schmitt

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Entretien avec David Cumin: «Carl Schmitt est un catholique prussien, un Prussien catholique»

Maître de conférences (HDR) à l’Université Jean Moulin-Lyon III, Faculté de Droit, et membre du CLESID, David Cumin est un spécialiste reconnu de l’œuvre de Carl Schmitt dont il a publié une Biographie politique et intellectuelle en 2005Nous revenons ici sur l’actualité et la réalité d’une pensée controversée.

cscu51095HRWDSL._UY250_.jpgPHILITT : Dans votre biographie politique et intellectuelle de Carl Schmitt, vous relativisez sans occulter le rôle qu’il a joué dans l’administration du IIIe Reich. Pourquoi réduit-on l’œuvre de Schmitt à cet épisode, et pourquoi est-ce, selon vous, une erreur ?

David Cumin : J’ai été le premier en France, dans ma thèse soutenue en 1996 à démontrer l’engagement de Carl Schmitt dans le IIIe Reich. Autrefois, cet engagement était plus ou moins occulté, négligé voire oublié. Et c’est en 1994 à la bibliothèque universitaire de Strasbourg que j’ai exhumé tous les textes de Carl Schmitt juriste et politiste de la période qui s’étend de 1933 à 1945. Personne ne l’avait fait depuis la Libération, et c’est en lisant, traduisant, analysant ces textes que j’ai pu avérer ce fait là.

Son engagement a été très fort, mais on ne peut pas réduire la production intellectuelle de Schmitt aux années 1939-1945. Il a écrit avant et après cette période, et il y a des points de ruptures certes, mais aussi une vraie continuité sur certains sujets. Par exemple après 1933, par opportunisme, il intègre la doctrine raciale dans sa conception du droit et de la politique, mais de façon superficielle et controversée. Controversée par les nationaux-socialistes eux-mêmes ! On lui reprochera, à la suite d’une enquête de la SS en 1936, d’être un vrai catholique et un faux antisémite. Dès lors, sa carrière est bloquée. Il aurait peut-être apprécié d’être le juriste du IIIe Reich, mais il n’y est pas parvenu, parce que sa conception raciale était superficielle. Le véritable juriste du IIIe Reich était un rival de Schmitt : Reinhard Höhn.

Si on réduit le personnage et son œuvre à cette période c’est évidemment pour des raisons polémiques, pour les discréditer. Et pourtant, nombreux sont les critiques de Schmitt qui ne connaissent pas ses écrits de la période 1939-1945, qui n’ont toujours pas été traduits pour nombre d’entre eux. Il y a d’ailleurs des textes de cette période qui n’ont rien d’antisémites ou de raciaux, notamment sur le concept discriminatoire de guerre qui reste un texte majeur de droit international.

PHILITT : Voyez-vous une contradiction entre l’héritage intellectuel des grands penseurs politiques classiques (Hobbes, Thucydide, Machiavel, Bodin) porté par Carl Schmitt d’une part, sa catholicité d’autre part, et son adhésion au NSDAP (Parti national-socialiste des travailleurs allemands) ?

David Cumin : Effectivement, Schmitt est un classique, imprégné de culture française, latine, catholique. Il a pour références Bonald, Maistre, Cortès… C’est un Européen catholique ! Mais en même temps il est un nationaliste allemand. Et il se trouve qu’il a, en 1933, les mêmes ennemis qu’Hitler. Il est contre Weimar, contre Versailles et contre le communisme. Or, c’est à ce moment qu’il arrive au sommet de sa carrière, mais il doit concilier sa culture classique et sa catholicité avec son adhésion au NSDAP. Même si ce dernier n’est pas anticatholique dès 1933 puisqu’un Concordat relativement favorable à l’Église catholique est signé, le problème se pose plus tard, et se cristallise autour du problème de l’embrigadement de la jeunesse. Cette lutte contre l’Église met Schmitt dans une situation inconfortable, mais il la surmonte : depuis toujours il a connu la difficulté d’être à la fois catholique et prussien de naissance. En 1938 dans un livre sur Hobbes il formule une critique de l’Église qu’il accuse d’avoir une influence indirecte ou cachée, lui qui faisait l’éloge d’une autorité visible. Mais définitivement, Schmitt est un paradoxe ! Tout en étant catholique, il a divorcé. Ses deux épouses étaient des orthodoxes serbes, autre paradoxe… Mais ce qui est absolument essentiel chez Schmitt, c’est l’ennemi. Pour lui l’ennemi primait sur tout, il disait :  « l’ennemi est la figure de notre propre question ».

PHILITT : Faut-il donc considérer la pensée de Schmitt, et celle de la Révolution conservatrice allemande de manière globale, comme un réel moteur du NSDAP ou comme une simple caution intellectuelle ? 

David Cumin : Ce n’est pas un moteur, ce n’est pas non plus une caution. C’est davantage une connivence. Le NSDAP est un parti de masse, un parti de combat, mais qui n’a pas de réelles idées neuves. Toute la production intellectuelle est due à la Révolution conservatrice allemande, pour autant beaucoup d’auteurs sont distants : Ernst Jünger se distingue immédiatement, Martin Heidegger s’engage mais sera vite déçu. Carl Schmitt est peut-être celui qui s’est le plus engagé, mais comme nous l’avons dit dès 1936 sa carrière est bloquée. Et n’oublions pas que le NSDAP est composé, tout comme la Révolution conservatrice allemande, de différents courants. Par exemple certains sont catholiques, d’autres se réclament du paganisme etc…

Mais il y a tout au plus des passerelles, des connivences, le principal point commun étant le nationalisme et l’ennemi : Weimar, Versailles, le libéralisme et le communisme. D’ailleurs, le NSDAP méprisait les intellectuels, et plus particulièrement les juristes. Encore un problème pour Schmitt, donc.

PHILITT : Une erreur du NSDAP n’est-elle pas d’avoir voulu bâtir une notion d’État stable et pérenne sur des idées (celles de la Révolution Conservatrice Allemande) nées d’une situation d’urgence et d’instabilité, celle de l’entre-deux guerres ?

David Cumin : Effectivement, des deux côtés il y a une pensée de l’urgence, de l’exception, de la crise, de la guerre civile. Les partis communistes, socialistes, le NSDAP, ont tous à l’époque leurs formations de combats. Mais attention sur la question de l’État. Si la plupart des conservateurs, comme Schmitt, mettent au départ l’accent sur l’État, le NSDAP lui met le Volk, le Peuple, la race, au centre. Et après 1933, Schmitt va désétatiser sa pensée : il théorise la constitution hitlérienne selon le triptyque État – Mouvement – Peuple. L’État n’est plus qu’un appareil administratif, judiciaire et militaire. C’est donc le parti qui assume la direction politique, et la légitimité est tirée de la race, du peuple. L’État est en quelque sorte déchu, et le Peuple est réellement au centre. Schmitt pense alors le grand espace, qui reste une pensée valable au lendemain de la guerre ! Dans le contexte du conflit Est-Ouest, ce n’est pas l’État qui est au centre mais c’est bien cette logique des grands espaces qui domine.

PHILITT : Toujours s’agissant du contexte historique, l’appellation de Révolution conservatrice allemande est-elle justifiée ? Les penseurs de ce mouvement intellectuel peuvent-ils réellement être rangés dans le triptyque réaction/conservatisme/progressisme ou faut-il considérer ce mouvement comme spécifique à une époque donnée et ancrée dans celle-ci ?

David Cumin : C’est un moment spécifique à une époque, en effet, et l’expression me semble très judicieuse. Armin Mohler, qui fut secrétaire d’Ernst Jünger, a écrit La Révolution conservatrice allemande en 1950, traduit en France une quarantaine d’années plus tard. C’est donc lui qui a forgé l’étiquette, qui me semble très appropriée. Ce sont des conservateurs, qui défendent les valeurs traditionnelles, mais ils sont révolutionnaires dans la mesure où ils luttent contre la modernité imposée à l’Allemagne (le libéralisme, le communisme). Ils sont révolutionnaires à des fins conservatrices. Ils admettent la modernité technique, qui les fascine, mais veulent la subordonner aux valeurs éternelles. Leurs valeurs ne sont pas modernes. Et ce qui est intéressant, c’est qu’ils s’approprient les concepts modernes de socialisme, de démocratie, de progrès notamment, pour les retourner contre leurs ennemis idéologiques. Par exemple la démocratie pour Schmitt n’est pas définie comme le régime des partis, la séparation des pouvoirs, mais un Peuple cohérent qui désigne son chef.

PHILITT : Vous êtes professeur et auteur d’ouvrages sur l’Histoire de la guerre et le droit de la guerre et de la paix. Avec le recul, pensez-vous que les travaux de Schmitt (sur la figure du partisan, sur le nomos de la terre, par exemple) restent des clés de lectures valides et pertinentes après les bouleversements récents de ces deux domaines ?

hg2677565573.jpgDavid Cumin : Absolument, Le Nomos de la terre et L’Évolution vers un concept discriminatoire de guerre restent deux ouvrages tout à fait incontournables. Le Nomos de la terre est absolument fondamental en droit international, en droit de la guerre. De même que la théorie du partisan, qui pourrait être améliorée, amendée, actualisée, mais demeure incontournable. On peut d’ailleurs regretter que ce ne soit que très récemment que les spécialistes français en droit international se soient intéressés à Schmitt. Pourtant il y a toujours eu chez lui ces deux piliers : droit constitutionnel et droit international. Par exemple, ses écrits sur la Société des Nations sont tout à fait transposables à l’ONU et donc tout à fait d’actualité.

PHILITT : Peut-on considérer qu’il y a aujourd’hui des continuateurs de la pensée de Carl Schmitt ? 

David Cumin : Schmitt a inspiré beaucoup d’auteurs, dans toute l’Europe. Il a été beaucoup cité mais aussi beaucoup pillé… Très critiqué également notamment par l’École de Francfort et Habermas qui a développé son œuvre avec et contre Schmitt. Un ouvrage britannique, Schmitt, un esprit dangereux, montrait bien toute l’influence de Schmitt dans le monde occidental et dans tous les domaines. Le GRECE et la Nouvelle Droite se sont réclamés de Schmitt, mais dans une perspective plus idéologique.

Dans un registre plus scientifique, en science politique, Julien Freund a revendiqué deux maîtres : Raymond Aron et Carl Schmitt. Il en a été un continuateur. Pierre-André Taguieff a été inspiré par Schmitt également, et plus récemment Tristan Storme. Schmitt a influencé énormément d’auteurs à droite comme à gauche. Giorgio Agamben, Toni Negri, la revue Telos aux États-Unis située à gauche sont fortement imprégnés de l’œuvre de Carl Schmitt. On peut difficilement imaginer travailler sur le droit international sans prendre en considération l’œuvre de Carl Schmitt.

PHILITT : Finalement, comment résumeriez-vous la pensée de Carl Schmitt ? 

David Cumin : Tout le paradoxe de l’existence et de l’œuvre publiée de Schmitt se résume ainsi : Carl Schmitt est un catholique prussien, un Prussien catholique. Sa catholicité expliquant son rapport à l’Église qui est pour lui le modèle de l’institution. Son origine prussienne expliquant son rapport à l’État, et surtout à l’armée. Il avait donc ces deux institutions, masculines, pour références, qui fondent le parallèle entre la transcendance et l’exception. Les polémistes disent « Schmitt le nazi », ce qui correspond à une période de sa vie, où il n’était pas forcément triomphant. Je préfère parler du « Prussien catholique », qui met en exergue le paradoxe de son existence et de son œuvre toutes entières.

mercredi, 18 mars 2015

Eléments de réflexion pour une troisième voie

Eléments de réflexion pour une troisième voie

Méridien Zéro propose une émission de réflexion politique sous la forme d'une disputatio à plusieurs voies sur la notion de troisième voie, de troisième position européo-centrée.
Quelle est aujourd'hui l'actualité de cette voie exigeante et difficile qui reste pour nous une référence politique incontournable ?

Pour en discuter, le Lt Sturm a rassemblé autour de lui, et par ordre d'ancienneté, Gabriele Adinolfi, monsieur PGL et Jean Terroir. Cette émission a été enregistrée à la suite de l'émission de Radio Courtoisie sur le même thème, mais l'aborde de façon très différente.

Pour écouter:

http://www.meridien-zero.com/archive/2015/03/13/emission-n-225-elements-de-reflexion-pour-une-troisieme-voie-5582006.html

 

tercérisme, troisième position, révolution conservatrice, europe-puissance, adinolfi,

 

samedi, 14 mars 2015

Beware of Neocon Intellectuals!

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Kristol, Wolfowitz and Cheney

Rationalizing Lunacy

Beware of Neocon Intellectuals!

By Andrew J. Bacevich
TomDispatch.com

Ex: http://www.lewrockwell.com

Policy intellectuals — eggheads presuming to instruct the mere mortals who actually run for office — are a blight on the republic. Like some invasive species, they infest present-day Washington, where their presence strangles common sense and has brought to the verge of extinction the simple ability to perceive reality. A benign appearance — well-dressed types testifying before Congress, pontificating in print and on TV, or even filling key positions in the executive branch — belies a malign impact. They are like Asian carp let loose in the Great Lakes.

It all began innocently enough.  Back in 1933, with the country in the throes of the Great Depression, President Franklin Delano Roosevelt first imported a handful of eager academics to join the ranks of his New Deal.  An unprecedented economic crisis required some fresh thinking, FDR believed. Whether the contributions of this “Brains Trust” made a positive impact or served to retard economic recovery (or ended up being a wash) remains a subject for debate even today.   At the very least, however, the arrival of Adolph Berle, Raymond Moley, Rexford Tugwell, and others elevated Washington’s bourbon-and-cigars social scene. As bona fide members of the intelligentsia, they possessed a sort of cachet.

Then came World War II, followed in short order by the onset of the Cold War. These events brought to Washington a second wave of deep thinkers, their agenda now focused on “national security.”  This eminently elastic concept — more properly, “national insecurity” — encompassed just about anything related to preparing for, fighting, or surviving wars, including economics, technology, weapons design, decision-making, the structure of the armed forces, and other matters said to be of vital importance to the nation’s survival.  National insecurity became, and remains today, the policy world’s equivalent of the gift that just keeps on giving.

People who specialized in thinking about national insecurity came to be known as “defense intellectuals.”  Pioneers in this endeavor back in the 1950s were as likely to collect their paychecks from think tanks like the prototypical RAND Corporation as from more traditional academic institutions.  Their ranks included creepy figures like Herman Kahn, who took pride in “thinking about the unthinkable,” and Albert Wohlstetter, who tutored Washington in the complexities of maintaining “the delicate balance of terror.”

In this wonky world, the coin of the realm has been and remains “policy relevance.”  This means devising products that convey a sense of novelty, while serving chiefly to perpetuate the ongoing enterprise. The ultimate example of a policy-relevant insight is Dr. Strangelove’s discovery of a “mineshaft gap” — successor to the “bomber gap” and the “missile gap” that, in the 1950s, had found America allegedly lagging behind the Soviets in weaponry and desperately needing to catch up.  Now, with a thermonuclear exchange about to destroy the planet, the United States is once more falling behind, Strangelove claims, this time in digging underground shelters enabling some small proportion of the population to survive.In a single, brilliant stroke, Strangelove posits a new raison d’être for the entire national insecurity apparatus, thereby ensuring that the game will continue more or less forever.  A sequel to Stanley Kubrick’s movie would have shown General “Buck” Turgidson and the other brass huddled in the War Room, developing plans to close the mineshaft gap as if nothing untoward had occurred.

The Rise of the National Insecurity State

Yet only in the 1960s, right around the time that Dr. Strangelove first appeared in movie theaters, did policy intellectuals really come into their own.  The press now referred to them as “action intellectuals,” suggesting energy and impatience.  Action intellectuals were thinkers, but also doers, members of a “large and growing body of men who choose to leave their quiet and secure niches on the university campus and involve themselves instead in the perplexing problems that face the nation,” as LIFE Magazineput it in 1967. Among the most perplexing of those problems was what to do about Vietnam, just the sort of challenge an action intellectual could sink his teeth into.

Over the previous century-and-a-half, the United States had gone to war for many reasons, including greed, fear, panic, righteous anger, and legitimate self-defense.  On various occasions, each of these, alone or in combination, had prompted Americans to fight.  Vietnam marked the first time that the United States went to war, at least in considerable part, in response to a bunch of really dumb ideas floated by ostensibly smart people occupying positions of influence.  More surprising still, action intellectuals persisted in waging that war well past the point where it had become self-evident, even to members of Congress, that the cause was a misbegotten one doomed to end in failure.

In his fine new book American Reckoning: The Vietnam War and Our National Identity, Christian Appy, a historian who teaches at the University of Massachusetts, reminds us of just how dumb those ideas were.

As Exhibit A, Professor Appy presents McGeorge Bundy, national security adviser first for President John F. Kennedy and then for Lyndon Johnson.  Bundy was a product of Groton and Yale, who famously became the youngest-ever dean of Harvard’s Faculty of Arts and Sciences, having gained tenure there without even bothering to get a graduate degree.

For Exhibit B, there is Walt Whitman Rostow, Bundy’s successor as national security adviser.  Rostow was another Yalie, earning his undergraduate degree there along with a PhD.  While taking a break of sorts, he spent two years at Oxford as a Rhodes scholar.  As a professor of economic history at MIT, Rostow captured JFK’s attention with his modestly subtitled 1960 bookThe Stages of Economic Growth:  A Non-Communist Manifesto, which offered a grand theory of development with ostensibly universal applicability.  Kennedy brought Rostow to Washington to test his theories of “modernization” in places like Southeast Asia.

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Finally, as Exhibit C, Appy briefly discusses Professor Samuel P. Huntington’s contributions to the Vietnam War.  Huntington also attended Yale, before earning his PhD at Harvard and then returning to teach there, becoming one of the most renowned political scientists of the post-World War II era.

What the three shared in common, apart from a suspect education acquired in New Haven, was an unwavering commitment to the reigning verities of the Cold War.  Foremost among those verities was this: that a monolith called Communism, controlled by a small group of fanatic ideologues hidden behind the walls of the Kremlin, posed an existential threat not simply to America and its allies, but to the very idea of freedom itself.  The claim came with this essential corollary: the only hope of avoiding such a cataclysmic outcome was for the United States to vigorously resist the Communist threat wherever it reared its ugly head.

Buy those twin propositions and you accept the imperative of the U.S. preventing the Democratic Republic of Vietnam, a.k.a. North Vietnam, from absorbing the Republic of Vietnam, a.k.a. South Vietnam, into a single unified country; in other words, that South Vietnam was a cause worth fighting and dying for.  Bundy, Rostow, and Huntington not only bought that argument hook, line, and sinker, but then exerted themselves mightily to persuade others in Washington to buy it as well.

Yet even as he was urging the “Americanization” of the Vietnam War in 1965, Bundy already entertained doubts about whether it was winnable.  But not to worry:  even if the effort ended in failure, he counseled President Johnson, “the policy will be worth it.”

How so?  “At a minimum,” Bundy wrote, “it will damp down the charge that we did not do all that we could have done, and this charge will be important in many countries, including our own.”  If the United States ultimately lost South Vietnam, at least Americans would have died trying to prevent that result — and through some perverted logic this, in the estimation of Harvard’s youngest-ever dean, was a redeeming prospect.  The essential point, Bundy believed, was to prevent others from seeing the United States as a “paper tiger.”  To avoid a fight, even a losing one, was to forfeit credibility.  “Not to have it thought that when we commit ourselves we really mean no major risk” — that was the problem to be avoided at all cost.

Rostow outdid even Bundy in hawkishness.  Apart from his relentless advocacy of coercive bombing to influence North Vietnamese policymakers, Rostow was a chief architect of something called the Strategic Hamlet Program.  The idea was to jumpstart the Rostovian process of modernization by forcibly relocating Vietnamese peasants from their ancestral villages into armed camps where the Saigon government would provide security, education, medical care, and agricultural assistance.  By winning hearts-and-minds in this manner, the defeat of the communist insurgency was sure to follow, with the people of South Vietnam vaulted into the “age of high mass consumption,” where Rostow believed all humankind was destined to end up.

That was the theory.  Reality differed somewhat.  Actual Strategic Hamlets were indistinguishable from concentration camps.  The government in Saigon proved too weak, too incompetent, and too corrupt to hold up its end of the bargain.  Rather than winning hearts-and-minds, the program induced alienation, even as it essentially destabilized peasant society.  One result: an increasingly rootless rural population flooded into South Vietnam’s cities where there was little work apart from servicing the needs of the ever-growing U.S. military population — hardly the sort of activity conducive to self-sustaining development.

Yet even when the Vietnam War ended in complete and utter defeat, Rostow still claimed vindication for his theory.  “We and the Southeast Asians,” he wrote, had used the war years “so well that there wasn’t the panic [when Saigon fell] that there would have been if we had failed to intervene.”  Indeed, regionally Rostow spied plenty of good news, all of it attributable to the American war.

”Since 1975 there has been a general expansion of trade by the other countries of that region with Japan and the West.  In Thailand we have seen the rise of a new class of entrepreneurs.  Malaysia and Singapore have become countries of diverse manufactured exports.  We can see the emergence of a much thicker layer of technocrats in Indonesia.”

So there you have it. If you want to know what 58,000 Americans (not to mention vastly larger numbers of Vietnamese) died for, it was to encourage entrepreneurship, exports, and the emergence of technocrats elsewhere in Southeast Asia.

Appy describes Professor Huntington as another action intellectual with an unfailing facility for seeing the upside of catastrophe.  In Huntington’s view, the internal displacement of South Vietnamese caused by the excessive use of American firepower, along with the failure of Rostow’s Strategic Hamlets, was actually good news.  It promised, he insisted, to give the Americans an edge over the insurgents.

The key to final victory, Huntington wrote, was “forced-draft urbanization and modernization which rapidly brings the country in question out of the phase in which a rural revolutionary movement can hope to generate sufficient strength to come to power.”  By emptying out the countryside, the U.S. could win the war in the cities.  “The urban slum, which seems so horrible to middle-class Americans, often becomes for the poor peasant a gateway to a new and better way of life.”  The language may be a tad antiseptic, but the point is clear enough: the challenges of city life in a state of utter immiseration would miraculously transform those same peasants into go-getters more interested in making a buck than in signing up for social revolution.

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Revisited decades later, claims once made with a straight face by the likes of Bundy, Rostow, and Huntington — action intellectuals of the very first rank — seem beyond preposterous.  They insult our intelligence, leaving us to wonder how such judgments or the people who promoted them were ever taken seriously.

How was it that during Vietnam bad ideas exerted such a perverse influence?  Why were those ideas so impervious to challenge?  Why, in short, was it so difficult for Americans to recognize bullshit for what it was?

Creating a Twenty-First-Century Slow-Motion Vietnam

These questions are by no means of mere historical interest. They are no less relevant when applied to the handiwork of the twenty-first-century version of policy intellectuals, specializing in national insecurity, whose bullshit underpins policies hardly more coherent than those used to justify and prosecute the Vietnam War.

The present-day successors to Bundy, Rostow, and Huntington subscribe to their own reigning verities.  Chief among them is this: that a phenomenon called terrorism or Islamic radicalism, inspired by a small group of fanatic ideologues hidden away in various quarters of the Greater Middle East, poses an existential threat not simply to America and its allies, but — yes, it’s still with us — to the very idea of freedom itself.  That assertion comes with an essential corollary dusted off and imported from the Cold War: the only hope of avoiding this cataclysmic outcome is for the United States to vigorously resist the terrorist/Islamist threat wherever it rears its ugly head.

At least since September 11, 2001, and arguably for at least two decades prior to that date, U.S. policymakers have taken these propositions for granted.  They have done so at least in part because few of the policy intellectuals specializing in national insecurity have bothered to question them.

Indeed, those specialists insulate the state from having to address such questions.  Think of them as intellectuals devoted to averting genuine intellectual activity.  More or less like Herman Kahn and Albert Wohlstetter (or Dr. Strangelove), their function is to perpetuate the ongoing enterprise.

The fact that the enterprise itself has become utterly amorphous may actually facilitate such efforts.  Once widely known as the Global War on Terror, or GWOT, it has been transformed into the War with No Name.  A little bit like the famous Supreme Court opinion on pornography: we can’t define it, we just know it when we see it, with ISIS the latest manifestation to capture Washington’s attention.

All that we can say for sure about this nameless undertaking is that it continues with no end in sight.  It has become a sort of slow-motion Vietnam, stimulating remarkably little honest reflection regarding its course thus far or prospects for the future.  If there is an actual Brains Trust at work in Washington, it operates on autopilot.  Today, the second- and third-generation bastard offspring of RAND that clutter northwest Washington — the Center for this, the Institute for that — spin their wheels debating latter day equivalents of Strategic Hamlets, with nary a thought given to more fundamental concerns.

What prompts these observations is Ashton Carter’s return to the Pentagon as President Obama’s fourth secretary of defense.  Carter himself is an action intellectual in the Bundy, Rostow, Huntington mold, having made a career of rotating between positions at Harvard and in “the Building.”  He, too, is a Yalie and a Rhodes scholar, with a PhD. from Oxford.  “Ash” — in Washington, a first-name-only identifier (“Henry,” “Zbig,” “Hillary”) signifies that you have truly arrived — is the author of books and articles galore, including one op-ed co-written with former Secretary of Defense William Perry back in 2006 calling for preventive war against North Korea.  Military action “undoubtedly carries risk,” he bravely acknowledged at the time. “But the risk of continuing inaction in the face of North Korea’s race to threaten this country would be greater” — just the sort of logic periodically trotted out by the likes of Herman Kahn and Albert Wohlstetter.

As Carter has taken the Pentagon’s reins, he also has taken pains to convey the impression of being a big thinker.  As one Wall Street Journal headline enthused, “Ash Carter Seeks Fresh Eyes on Global Threats.”  That multiple global threats exist and that America’s defense secretary has a mandate to address each of them are, of course, givens.  His predecessor Chuck Hagel (no Yale degree) was a bit of a plodder.  By way of contrast, Carter has made clear his intention to shake things up.

So on his second day in office, for example, he dined with Kenneth Pollack, Michael O’Hanlon, and Robert Kagan, ranking national insecurity intellectuals and old Washington hands one and all.  Besides all being employees of the Brookings Institution, the three share the distinction of having supported the Iraq War back in 2003 and calling for redoubling efforts against ISIS today.  For assurances that the fundamental orientation of U.S. policy is sound — we just need to try harder — who better to consult than Pollack, O’Hanlon, and Kagan (any Kagan)?

Was Carter hoping to gain some fresh insight from his dinner companions?  Or was he letting Washington’s clubby network of fellows, senior fellows, and distinguished fellows know that, on his watch, the prevailing verities of national insecurity would remain sacrosanct?  You decide.

Soon thereafter, Carter’s first trip overseas provided another opportunity to signal his intentions.  In Kuwait, he convened a war council of senior military and civilian officials to take stock of the campaign against ISIS.  In a daring departure from standard practice, the new defense secretary prohibited PowerPoint briefings.  One participant described the ensuing event as “a five-hour-long college seminar” — candid and freewheeling.  “This is reversing the paradigm,” one awed senior Pentagon official remarked.  Carter was said to be challenging his subordinates to “look at this problem differently.”

Of course, Carter might have said, “Let’s look at a different problem.” That, however, was far too radical to contemplate — the equivalent of suggesting back in the 1960s that assumptions landing the United States in Vietnam should be reexamined.

In any event — and to no one’s surprise — the different look did not produce a different conclusion.  Instead of reversing the paradigm, Carter affirmed it: the existing U.S. approach to dealing with ISIS is sound, he announced.  It only needs a bit of tweaking — just the result to give the Pollacks, O’Hanlons, and Kagans something to write about as they keep up the chatter that substitutes for serious debate.

Do we really need that chatter? Does it enhance the quality of U.S. policy? If policy/defense/action intellectuals fell silent would America be less secure?

Let me propose an experiment. Put them on furlough. Not permanently — just until the last of the winter snow finally melts in New England. Send them back to Yale for reeducation. Let’s see if we are able to make do without them even for a month or two.

In the meantime, invite Iraq and Afghanistan War vets to consider how best to deal with ISIS.  Turn the op-ed pages of major newspapers over to high school social studies teachers. Book English majors from the Big Ten on the Sunday talk shows. Who knows what tidbits of wisdom might turn up?

Reprinted with permission from TomDispatch.com.

vendredi, 13 mars 2015

Unité spirituelle et multipolarité planétaire

Unité spirituelle et multipolarité planétaire

par Georges FELTIN-TRACOL

rg1.jpgLe penseur français René Guénon (1886 – 1957) ne suscite que très rarement l’intérêt de l’université hexagonale. On doit par conséquent se réjouir de la sortie de René Guénon. Une politique de l’esprit par David Bisson. À l’origine travail universitaire, cet ouvrage a été entièrement retravaillé par l’auteur pour des raisons d’attraction éditoriale évidente. C’est une belle réussite aidée par une prose limpide et captivante.

 

René Guénon est le théoricien de la Tradition primordiale. de santé fragile et élevé dans un milieu catholique bourgeois de province à Blois, il fréquente tôt les milieux férus d’ésotérisme et y acquiert une somme de savoirs plus ou moins hétéroclites tout en développant une méfiance tenace à l’égard de certains courants occultistes tels le théosophisme et le spiritisme. Côtoyant tour à tour catholiques, gnostiques et francs-maçons, René Guénon édifie une œuvre qui couvre aussi bien la franc-maçonnerie que le catholicisme traditionnel et l’islam.

 

En effet, dès 1911, René Guénon passe à cette dernière religion et prend le nom arabe d’Abdul Waha-Yaha, « le Serviteur de l’Unique ». Puis, en 1931, il s’installe définitivement au Caire d’où il deviendra, outre une référence spirituelle pour des Européens, un cheikh réputé. David Bisson explique les motifs de cette implication orientale. Guénon est réputé pour sa fine connaissance des doctrines hindoues. La logique aurait voulu qu’il s’installât en Inde et/ou qu’il acceptât l’hindouisme. En quête d’une initiation valide et après avoir frayé avec le gnosticisme et la franc-maçonnerie, l’islam lui paraît la solution la plus sérieuse. Même s’il demande aux Européens de retrouver la voie de la Tradition via l’Église catholique, ses propos en privé incitent au contraire à embrasser la foi musulmane.

 

Réception de la pensée de Guénon

 

Les écrits de René Guénon attirent les Occidentaux qui apprécient leur enseignement clair, rigoureux et méthodique. David Bisson n’a pas que rédigé la biographie intellectuelle de l’auteur de La Crise du monde moderne. Il mentionne aussi son influence auprès de ses contemporains ainsi que son abondante postérité métaphysique. La revue Le Voile d’Isis – qui prendra ensuite pour titre Études Traditionnelles – publie avec régularité les articles du « Maître » qui « constituent […] une sorte de guide grâce auquel les lecteurs peuvent s’orienter dans le foisonnement des traditions ésotériques en évitant les contrefaçons spirituelles (théosophisme, occultisme, etc.) (p. 146) ». Guénon se montre attentif à examiner à l’aune de la Tradition le soufisme, l’hindouisme, le taoïsme, le confucianisme, etc., « ce qui permet […] d’évaluer le caractère régulier de telle ou telle branche religieuse. Ainsi, la doctrine tantrique est-elle déclarée conforme et, donc, “ orthodoxe ” au regard des principes posés par la Tradition. De même, la kabbale est considérée comme le véritable ésotérisme de la religion juive et remonte, à travers les signes et symboles de la langue hébraïque, jusqu’à la source de la tradition primordiale (p. 147) ». Il élabore ainsi une véritable « contre-Encyclopédie » spiritualiste et prévient des risques permanentes de cette « contrefaçon traditionnelle » qu’est la contre-initiation.

 

C’est dans ce corpus métaphysique que puisent les nombreux héritiers, directs ou putatifs, de René Guénon. David Bisson les évoque sans en omettre les divergences avec le maître ou entre eux. Il consacre ainsi de plusieurs pages à l’influence guénonienne sur l’islamologue du chiisme iranien et traducteur de Heidegger, Henry Corbin, sur le sociologue des imaginaires, Gilbert Durand, sur le rénovateur néo-gnostique Raymond Abellio et sur les ébauches maladroites – souvent tendancieuses – de vulgarisation conduites par le duo Louis Pauwels – Jacques Bergier. David Bisson s’attache aussi à quelques cas particuliers comme le Roumain Mircea Eliade.

 

rg2.jpgAu cours de l’Entre-deux-guerres, le futur historien des religions affine sa propre vision du monde. Alimentant sa réflexion d’une immense curiosité pluridisciplinaire, il a lu – impressionné – les écrits de Guénon. D’abord rétif à tout militantisme politique, Eliade se résout sous la pression de ses amis et de son épouse à participer au mouvement politico-mystique de Corneliu Codreanu. Il y devient alors une des principales figures intellectuelles et y rencontre un nommé Cioran. Au sein de cet ordre politico-mystique, Eliade propose un « nationalisme archaïque (p. 252) » qui assigne à la Roumanie une vocation exceptionnelle. Son engagement dans la Garde de Fer ne l’empêche pas de mener une carrière de diplomate qui se déroule en Grande-Bretagne, au Portugal et en Allemagne. Son attrait pour les « mentalités primitives » et les sociétés traditionnelles pendant la Seconde Guerre mondiale s’accroît si bien qu’exilé en France après 1945, il jette les premières bases de l’histoire des religions qui le feront bientôt devenir l’universitaire célèbre de Chicago. Si Eliade s’éloigne de Guénon et ne le cite jamais, David Bisson signale cependant qu’il lui expédie ses premiers ouvrages. En retour, ils font l’objet de comptes-rendus précis. Bisson peint finalement le portrait d’un Mircea Eliade louvoyant, désireux de faire connaître et de pérenniser son œuvre.

 

Le syncrétisme ésotérique de Schuon

 

Contrairement à Eliade, la référence à Guénon est ouvertement revendiquée par Frithjof Schuon. Ce Français né en Suisse d’un père allemand et d’une mère alsacienne se convertit à l’islam et adopte le nom d’Aïssa Nour ed-Din. En Algérie, il intègre la tarîqa (confrérie initiatique) du cheikh al-Alawî. Instruit dans le soufisme, Schuon devient vite le cheikh d’une nouvelle confrérie. Dans sa formation intellectuelle, Guénon « apparaît comme un “ maître de doctrine ” (p. 160) ». On a très tôt l’impression que « ce que Guénon a exposé de façon théorique, Schuon le décline de façon pratique (p. 162) ».

 

PFS_couleur.jpgEn étroite correspondance épistolaire avec Guénon, Schuon devient son « fils spirituel ». cela lui permet de recruter de nouveaux membres pour sa confrérie soufie qu’il développe en Europe. D’abord favorable à son islamisation, Schuon devient ensuite plus nuancé, « la forme islamique ne contrevenant, en aucune manière, à la dimension chrétienne de l’Europe. Il essaiera même de fondre les deux perspectives dans une approche universaliste dont l’ésotérisme sera le vecteur (p. 172) ». Cette démarche syncrétiste s’appuie dès l’origine sur son nom musulman signifiant « Jésus, Lumière de la Tradition».

 

Frithjof Schuon défend une sorte d’« islamo-christianisme ». Cette évolution se fait avec prudence, ce qui n’empêche pas parfois des tensions avec l’homme du Caire. Construite sur des « révélations » personnelles a priori mystiques, la méthode de Schuon emprunte « à plusieurs sources. Principalement fondée sur la pratique soufie, elle est irriguée de références à d’autres religions (christianisme, hindouisme, bouddhisme, etc.) et donne ainsi l’impression d’une mise en abîme de l’ésotérisme compris dans son universalité constitutive (p. 203) ». En 1948, dans un texte paru dans Études Traditionnelles, Schuon, désormais fin ecclésiologue, explique que le baptême et les autres sacrements chrétiens sont des initiations valables sans que les chrétiens soient conscients de cette potentialité. Cette thèse qui contredit le discours guénonien, provoque sa mise à l’écart. Dans les décennies suivants, il confirmera son tournant universaliste en faisant adopter par sa tarîqa la figure de la Vierge Marie, en s’expatriant aux États-Unis et en intégrant dans les rites islamo-chrétiens des apports chamaniques amérindiens.

 

Avec René Guénon, Frithjof Schuon et leurs disciples respectifs, on peut estimer que « la pensée de la Tradition semble de façon irrémédiable se conjuguer avec la pratique soufie (p. 175) ». Or, à l’opposé de la voie schuonienne et un temps assez proche de la conception de Mircea Eliade existe en parallèle la vision traditionnelle de l’Italien Julius Evola, présenté comme « le “ fils illégitime ” de la Tradition (p. 220) » tant il est vrai que sa personnalité détonne dans les milieux traditionalistes.

 

Ayant influencé le jeune Eliade polyglotte et en correspondance fréquente avec Guénon, Evola concilie à travers son équation personnelle la connaissance ésotérique de la Tradition et la pensée nietzschéenne. De sensibilité notoirement guerrière (ou activiste), Julius Evola se méfie toutefois des références spirituelles orientales, ne souhaite pas se convertir à l’islam et, contempteur féroce des monothéismes, préfère redécouvrir la tradition spécifique européenne qu’il nomme « aryo-romaine ». Tant Eliade qu’Evola reprennent dans leurs travaux « la définition que Guénon donne du folklore : ce n’est pas seulement une création populaire, mais aussi un réservoir d’anciennes connaissances ésotériques, le creuset d’une mémoire collective bien vivante (p. 269) ». Mais, à la différence du jeune Roumain ou du Cairote, Evola n’hésite pas à s’occuper de politique et d’événements du quotidien (musiques pop-rock, ski…). Quelque peu réticent envers le fascisme officiel, il en souhaite un autre plus aristocratique, espère dans une rectification du national-socialisme allemand, considère les S.S. comme l’esquisse d’un Ordre mystico-politique et collabore parfois aux titres officiels du régime italien en signant des articles polémiques.

 

Tradition et géopolitique

 

Tout au cours de sa vie, Julius Evola verse dans la politique alors que « Guénon n’a cessé de mettre en garde ses lecteurs contre les “ tentations ” de l’engagement politique (p. 219) ». Les prises de position évoliennes disqualifient leur auteur auprès des fidèles guénoniens qui y voient une tentative de subversion moderne de la Tradition… De ce fait, « la plupart des disciples de Guénon ne connaissent pas les ouvrages du penseur italien et, lorsqu’ils les connaissent, cherchent à en minorer la portée (p. 220) ». Néanmoins, entre la réponse musulmane soufie défendue par Guénon et la démarche universaliste de Schuon, la voie évolienne devient pour des Européens soucieux de préserver leur propre identité spirituelle propre l’unique solution digne d’être appliquée. Ce constat ne dénie en rien les mérites de René Guénon dont la réception est parfois inattendue. Ainsi retrouve-t-on sa riche pensée en Russie en la personne du penseur néo-eurasiste russe Alexandre Douguine.

 

Grande figure intellectuelle en Russie, Alexandre Douguine écrit beaucoup, manifestant par là un activisme métapolitique débordant et prolifique. Depuis quelques années, les Éditions Ars Magna offrent au public francophone des traductions du néo-eurasiste russe. Dans l’un de ses derniers titres traduits, Pour une théorie du monde multipolaire, Alexandre Douguine mentionne Orient et Occident et La Grande Triade de Guénon. Il y voit un « élément, propre à organiser la diplomatie inter-civilisationnel dans des circonstances de ce monde multipolaire, [qui] réside dans la philosophie traditionaliste (p. 183) ».

 

Pour une théorie du monde multipolaire est un livre didactique qui expose la vision douguinienne de la multipolarité. Il débute par l’énoncé de la multipolarité avant de passer en revue les principales théories des relations internationales (les écoles réalistes, le libéralisme, les marxismes, les post-positivismes avec des courants originaux tels que la « théorie critique », le post-modernisme, le constructivisme, le féminisme, la « sociologie historique » et le normativisme). Il conclut qu’aucun de ces courants ne défend un système international multipolaire qui prend acte de la fin de l’État-nation.

 

4ptport.jpgMais qu’est-ce que la multipolarité ? Pour Alexandre Douguine, ce phénomène « procède d’un constat : l’inégalité fondamentale entre les États-nations dans le monde moderne, que chacun peut observer empiriquement. En outre, structurellement, cette inégalité est telle que les puissances de deuxième ou de troisième rang ne sont pas en mesure de défendre leur souveraineté face à un défi de la puissance hégémonique, quelle que soit l’alliance de circonstance que l’on envisage. Ce qui signifie que cette souveraineté est aujourd’hui une fiction juridique (pp. 8 – 9) ».  « La multipolarité sous-tend seulement l’affirmation que, dans le processus actuel de mondialisation, le centre incontesté, le noyau du monde moderne (les États-Unis, l’Europe et plus largement le monde occidental) est confronté à de nouveaux concurrents, certains pouvant être prospères voire émerger comme puissances régionales et blocs de pouvoir. On pourrait définir ces derniers comme des “ puissances de second rang ”. En comparant les potentiels respectifs des États-Unis et de l’Europe, d’une part, et ceux des nouvelles puissances montantes (la Chine, l’Inde, la Russie, l’Amérique latine, etc.), d’autre part, de plus en plus nombreux sont ceux qui sont convaincus que la supériorité traditionnelle de l’Occident est toute relative, et qu’il y a lieu de s’interroger sur la logique des processus qui déterminent l’architecture globale des forces à l’échelle planétaire – politique, économie, énergie, démographie, culture, etc. (p. 5) ». Elle « implique l’existence de centres de prise de décision à un niveau relativement élevé (sans toutefois en arriver au cas extrême d’un centre unique, comme c’est aujourd’hui le cas dans les conditions du monde unipolaire). Le système multipolaire postule également la préservation et le renforcement des particularités culturelles de chaque civilisation, ces dernières ne devant pas se dissoudre dans une multiplicité cosmopolite unique (p. 17) ». Le philosophe russe s’inspire de certaines thèses de l’universitaire réaliste étatsunien, Samuel Huntington. Tout en déplorant les visées atlantistes et occidentalistes, l’eurasiste russe salue l’« intuition de Huntington qui, en passant des États-nations aux civilisations, induit un changement qualitatif dans la définition de l’identité des acteurs du nouvel ordre mondial (p. 96) ».

 

Au-delà des États, les civilisations !

 

Alexandre Douguine conçoit les relations internationales sur la notion de civilisation mise en évidence dans un vrai sens identitaire. « L’approche civilisationnelle multipolaire, écrit-il, suppose qu’il existe une unicité absolue de chaque civilisation, et qu’il est impossible de trouver un dénominateur commun entre elles. C’est l’essence même de la multipolarité comme pluriversum (p. 124). » L’influence guénonienne – entre autre – y est notable, tout particulièrement dans cet essai. En effet, Alexandre Douguine dessine « le cadre d’une théorie multipolaire de la paix, qui découpe le monde en plusieurs zones de paix, toujours fondées sur un principe particulier civilisationnel. Ainsi, nous obtenons : Pax Atlantide (composée de la Pax Americana et la Pax Europea), Pax Eurasiatica, Pax Islamica, Pax Sinica, Pax Hindica, Pax Nipponica, Pax Latina, et de façon plus abstraite : Pax Buddhistica et Pax Africana. Ces zones de paix civilisationnelle (caractérisées par une absence de guerre) ainsi qu’une sécurité globale, peuvent être considérées comme les concepts de base du pacifisme multipolaire (p. 130) ».

 

Les civilisations deviennent dès lors les nouveaux acteurs de la scène diplomatique mondiale au-dessus des États nationaux. Cette évolution renforce leur caractère culturel, car, « selon la théorie du monde multipolaire, la communauté de culture est une condition nécessaire pour une intégration réussie dans le “ grand espace ” et, par conséquent, pour la création de pôles au sein du monde multipolaire (p. 127) ». Mais il ne faut pas assimiler les « pôles continentaux » à des super-États naissants. « Dans la civilisation, l’interdépendance des groupes et des couches sociales constituent un jeu complexe d’identités multiples, qui se chevauchent, divergent ou convergent selon les articulations nouvelles. Le code général des civilisations (par exemple, la religion) fixe les conditions – cadres, mais à l’intérieur de ces limites, il peut exister un certain degré de variabilité. Une partie de l’identité peut être fondée sur la tradition, mais une autre peut représenter des constructions innovantes parce que dans la théorie du monde multipolaire, les civilisations sont considérées comme des organismes historiques vivants, immergés dans un processus de transformation constante (p. 131). » Par conséquent, « dans le cadre multipolaire, […] l’humanité est recombinée et regroupée sur une base holistique, que l’on peut désigner sous le vocable d’identité collective (p. 159) ». Ces propos sont véritablement révolutionnaires parce que fondateurs.

 

QhKS4LB+L._SY344_BO1,204,203,200_.jpgPiochant dans toutes les écoles théoriques existantes, le choix multipolaire de Douguine n’est au fond que l’application à un domaine particulier – la géopolitique – de ce qu’il nomme la « Quatrième théorie politique ». Titre d’un ouvrage essentiel, cette nouvelle pensée politique prend acte de la victoire de la première théorie politique, le libéralisme, sur la deuxième, le communisme, et la troisième, le fascisme au sens très large, y compris le national-socialisme.

 

Cette quatrième théorie politique s’appuie sur le fait russe, sur sa spécificité historique et spirituelle, et s’oppose à la marche du monde vers un libéralisme mondialisé dominateur. Elle est « une alternative au post-libéralisme, non pas comme une position par rapport à une autre, mais comme idée opposée à la matière; comme un possible entrant en conflit avec le réel; comme un réel n’existant pas mais attaquant déjà le réel (p. 22) ». Elle provient d’une part d’un prélèvement des principales théories en place et d’autre part de leur dépassement.

 

Une théorie pour l’ère postmoderniste

 

Dans ce cadre conceptuel, le néo-eurasisme se présente comme la manifestation tangible de la quatrième théorie. Discutant là encore des thèses culturalistes du « choc des civilisations » de Samuel Huntington, il dénie à la Russie tout caractère européen. Par sa situation géographique, son histoire et sa spiritualité, « la Russie constitue une civilisation à part entière (p. 167) ». Déjà dans son histoire, « la Russie – Eurasie (civilisation particulière) possédait tant ses propres valeurs distinctes que ses propres intérêts. Ces valeurs se rapportaient à la société traditionnelle avec une importance particulière de la foi orthodoxe et un messianisme russe spécifique (p. 146) ». Et quand il aborde la question des Russes issus du phylum slave – oriental, Alexandre Douguine définit son peuple comme le « peuple du vent et du feu, de l’odeur du foin et des nuits bleu sombre transpercées par les gouffres des étoiles, un peuple portant Dieu dans ses entrailles, tendre comme le pain et le lait, souple comme un magique et musculeux poisson de rivière lavé par les vagues (p. 302) ». C’est un peuple chtonien qui arpente le monde solide comme d’autres naviguent sur toutes les mers du globe. Son essence politique correspond donc à un idéal impérial, héritage cumulatif de Byzance, de l’Empire mongol des steppes et de l’internationalisme prolétarien.

 

Alexandre Douguine fait par conséquent un pari risqué et audacieux : il table sur de gigantesques bouleversements géopolitiques et/ou cataclysmiques qui effaceront les clivages d’hier et d’aujourd’hui pour de nouveaux, intenses et pertinents. Dès à présent, « la lutte contre la métamorphose postmoderniste du libéralisme en postmoderne et un globalisme doit être qualitativement autre, se fonder sur des principes nouveaux et proposer de nouvelles stratégies (p. 22) ».

 

Dans l’évolution politico-intellectuelle en cours, Douguine expose son inévitable conséquence géopolitique déjà évoquée dans Pour une théorie du monde multipolaire : l’idée d’empire ou de « grand espace ». Cette notion est désormais la seule capable de s’opposer à la mondialisation encouragée par le libéralisme et sa dernière manifestation en date, le mondialisme, et à son antithèse, l’éclatement nationalitaire ethno-régionaliste néo-libéral ou post-mondialiste. Dans cette optique, « l’eurasisme se positionne fermement non pas en faveur de l’universalisme, mais en faveur des “ grands espaces ”, non pas en faveur de l’impérialisme, mais pour les “ empires ”, non pas en faveur des intérêts d’un seul pays, mais en faveur des “ droits des peuples ” (p. 207) ».

 

L’auteur ne cache pas toute la sympathie qu’il éprouve pour l’empire au sens évolien/traditionnel du terme. « L’Empire est la société maximale, l’échelle maximale possible de l’Empire. L’Empire incarne la fusion entre le ciel et la terre, la combinaison des différences en une unité, différences qui s’intègrent dans une matrice stratégique commune. L’Empire est la plus haute forme de l’humanité, sa plus haute manifestation. Il n’est rien de plus humain que l’Empire (p. 111). » Il rappelle ensuite que « l’empire constitue une organisation politique territoriale qui combine à la fois une très forte centralisation stratégique (une verticale du pouvoir unique, un modèle centralisé de commandement des forces armées, la présence d’un code juridique civil commun à tous, un système unique de collecte des impôts, un système unique de communication, etc.) avec une large autonomie des formations sociopolitiques régionales, entrant dans la composition de l’empire (la présence d’éléments de droit ethno-confessionnel au niveau local, une composition plurinationale, un système largement développé d’auto-administration locale, la possibilité de cœxistence de différents modèles de pouvoir locaux, de la démocratie tribale aux principautés centralisées, voire aux royaumes) (pp. 210 – 211) ».

 

La démarche douguinienne tend à dépasser de manière anagogique le mondialisme, la Modernité et l’Occident afin de retrouver une pluralité civilisationnelle dynamique à rebours de l’image véhiculée par les relais du Système de l’homme sans racines, uniformisé et « globalitaire ». L’unité spirituelle des peuples envisagée par René Guénon et repris par ses disciples les plus zélés exige dans les faits une multipolarité d’acteurs politiques puissants.

 

Georges Feltin-Tracol

 

• Alexandre Douguine, La Quatrième théorie politique. La Russie et les idées politiques du XXIe siècle, avant-propos d’Alain Soral, Ars Magna, Nantes, 2012, 336, 30 €.

 

• Alexandre Douguine, Pour une théorie du monde multipolaire, Ars Magna, Nantes, 2013, 196 p., 20 €.

 

• David Bisson, René Guénon. Une politique de l’esprit, Pierre-Guillaume de Roux, Paris, 2013, 527 p., 29,90 €.

 

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jeudi, 05 mars 2015

The Real American Exceptionalism

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The Real American Exceptionalism

Though the U.S. was once key in establishing what we now casually call "the international community," recent decades have seen the once noble idea of American leadership fall victim to the noxious paradigm of "American exceptionalism" — complete with drone attacks on civilian populations, endless and borderless wars, and human rights abuses that are a direct affront to some of the global institutions the U.S. once fought to create. (Photo: AP/Robert F. Bukaty)

"The sovereign is he who decides on the exception,” said conservative thinker Carl Schmitt in 1922, meaning that a nation’s leader can defy the law to serve the greater good. Though Schmitt’s service as Nazi Germany’s chief jurist and his unwavering support for Hitler from the night of the long knives to Kristallnacht and beyond damaged his reputation for decades, today his ideas have achieved unimagined influence. They have, in fact, shaped the neo-conservative view of presidential power that has become broadly bipartisan since 9/11. Indeed, Schmitt has influenced American politics directly through his intellectual protégé Leo Strauss who, as an émigré professor at the University of Chicago, trained Bush administration architects of the Iraq war Paul Wolfowitz and Abram Shulsky.

9780299234140_p0_v1_s260x420.JPGAll that should be impressive enough for a discredited, long dead authoritarian thinker. But Schmitt’s dictum also became a philosophical foundation for the exercise of American global power in the quarter century that followed the end of the Cold War. Washington, more than any other power, created the modern international community of laws and treaties, yet it now reserves the right to defy those same laws with impunity. A sovereign ruler should, said Schmitt, discard laws in times of national emergency. So the United States, as the planet’s last superpower or, in Schmitt’s terms, its global sovereign, has in these years repeatedly ignored international law, following instead its own unwritten rules of the road for the exercise of world power.

Just as Schmitt’s sovereign preferred to rule in a state of endless exception without a constitution for his Reich, so Washington is now well into the second decade of an endless War on Terror that seems the sum of its exceptions to international law: endless incarceration, extrajudicial killing, pervasive surveillance, drone strikes in defiance of national boundaries, torture on demand, and immunity for all of the above on the grounds of state secrecy. Yet these many American exceptions are just surface manifestations of the ever-expanding clandestine dimension of the American state. Created at the cost of more than a trillion dollars since 9/11, the purpose of this vast apparatus is to control a covert domain that is fast becoming the main arena for geopolitical contestation in the twenty-first century.

This should be (but seldom is considered) a jarring, disconcerting path for a country that, more than any other, nurtured the idea of, and wrote the rules for, an international community of nations governed by the rule of law. At the First Hague Peace Conference in 1899, the U.S. delegate, Andrew Dickson White, the founder of Cornell University, pushed for the creation of a Permanent Court of Arbitration and persuaded Andrew Carnegie to build the monumental Peace Palace at The Hague as its home. At the Second Hague Conference in 1907, Secretary of State Elihu Root urged that future international conflicts be resolved by a court of professional jurists, an idea realized when the Permanent Court of International Justice was established in 1920.

After World War II, the U.S. used its triumph to help create the United Nations, push for the adoption of its Universal Declaration of Human Rights, and ratify the Geneva Conventions for humanitarian treatment in war. If you throw in other American-backed initiatives like the World Health Organization, the World Trade Organization, and the World Bank, you pretty much have the entire infrastructure of what we now casually call “the international community.”

Breaking the Rules

Not only did the U.S. play a crucial role in writing the new rules for that community, but it almost immediately began breaking them. After all, despite the rise of the other superpower, the Soviet Union, Washington was by then the world sovereign and so could decide which should be the exceptions to its own rules, particularly to the foundational principle for all this global governance: sovereignty. As it struggled to dominate the hundred new nations that started appearing right after the war, each one invested with an inviolable sovereignty, Washington needed a new means of projecting power beyond conventional diplomacy or military force. As a result, CIA covert operations became its way of intervening within a new world order where you couldn’t or at least shouldn’t intervene openly.

All of the exceptions that really matter spring from America’s decision to join what former spy John Le Carré called that “squalid procession of vain fools, traitors... sadists, and drunkards,” and embrace espionage in a big way after World War II. Until the creation of the CIA in 1947, the United States had been an innocent abroad in the world of intelligence. When General John J. Pershing led two million American troops to Europe during World War I, the U.S. had the only army on either side of the battle lines without an intelligence service. Even though Washington built a substantial security apparatus during that war, it was quickly scaled back by Republican conservatives during the 1920s. For decades, the impulse to cut or constrain such secret agencies remained robustly bipartisan, as when President Harry Truman abolished the CIA’s predecessor, the Office of Strategic Services (OSS), right after World War II or when President Jimmy Carter fired 800 CIA covert operatives after the Vietnam War.

Yet by fits and starts, the covert domain inside the U.S. government has grown stealthily from the early twentieth century to this moment. It began with the formation of the FBI in 1908 and Military Intelligence in 1917. The Central Intelligence Agency followed after World War II along with most of the alphabet agencies that make up the present U.S. Intelligence Community, including the National Security Agency (NSA), the Defense Intelligence Agency (DIA), and last but hardly least, in 2004, the Office of the Director of National Intelligence. Make no mistake: there is a clear correlation between state secrecy and the rule of law -- as one grows, the other surely shrinks.

World Sovereign

America’s irrevocable entry into this covert netherworld came when President Truman deployed his new CIA to contain Soviet subversion in Europe. This was a continent then thick with spies of every stripe: failed fascists, aspirant communists, and everything in between. Introduced to spycraft by its British “cousins,” the CIA soon mastered it in part by establishing sub rosa ties to networks of ex-Nazi spies, Italian fascist operatives, and dozens of continental secret services.

As the world’s new sovereign, Washington used the CIA to enforce its chosen exceptions to the international rule of law, particularly to the core principle of sovereignty. During his two terms, President Dwight Eisenhower authorized 104 covert operations on four continents, focused largely on controlling the many new nations then emerging from centuries of colonialism. Eisenhower’s exceptions included blatant transgressions of national sovereignty such as turning northern Burma into an unwilling springboard for abortive invasions of China, arming regional revolts to partition Indonesia, and overthrowing elected governments in Guatemala and Iran. By the time Eisenhower left office in 1961, covert ops had acquired such a powerful mystique in Washington that President John F. Kennedy would authorize 163 of them in the three years that preceded his assassination.

As a senior CIA official posted to the Near East in the early 1950s put it, the Agency then saw every Muslim leader who was not pro-American as “a target legally authorized by statute for CIA political action.” Applied on a global scale and not just to Muslims, this policy helped produce a distinct “reverse wave” in the global trend towards democracy from 1958 to 1975, as coups -- most of them U.S.-sanctioned -- allowed military men to seize power in more than three-dozen nations, representing a quarter of the world’s sovereign states.

The White House’s “exceptions” also produced a deeply contradictory U.S. attitude toward torture from the early years of the Cold War onward. Publicly, Washington’s opposition to torture was manifest in its advocacy of the U.N. Universal Declaration of Human Rights in 1948 and the Geneva Conventions in 1949. Simultaneously and secretly, however, the CIA began developing ingenious new torture techniques in contravention of those same international conventions. After a decade of mind-control research, the CIA actually codified its new method of psychological torture in a secret instructional handbook, the "KUBARK Counterintelligence Interrogation" manual, which it then disseminated within the U.S. Intelligence Community and to allied security services worldwide.

Much of the torture that became synonymous with the era of authoritarian rule in Asia and Latin America during the 1960s and 1970s seems to have originated in U.S. training programs that provided sophisticated techniques, up-to-date equipment, and moral legitimacy for the practice. From 1962 to 1974, the CIA worked through the Office of Public Safety (OPS), a division of the U.S. Agency for International Development that sent American police advisers to developing nations. Established by President Kennedy in 1962, in just six years OPS grew into a global anti-communist operation with over 400 U.S. police advisers.  By 1971, it had trained more than a million policemen in 47 nations, including 85,000 in South Vietnam and 100,000 in Brazil.

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Concealed within this larger OPS effort, CIA interrogation training became synonymous with serious human rights abuses, particularly in Iran, the Philippines, South Vietnam, Brazil, and Uruguay. Amnesty International documented widespread torture, usually by local police, in 24 of the 49 nations that had hosted OPS police-training teams. In tracking torturers across the globe, Amnesty seemed to be following the trail of CIA training programs. Significantly, torture began to recede when America again turned resolutely against the practice at the end of the Cold War.

The War on Terror 

Although the CIA’s authority for assassination, covert intervention, surveillance, and torture was curtailed at the close of the Cold War, the terror attacks of September 2001 sparked an unprecedented expansion in the scale of the intelligence community and a corresponding resurgence in executive exceptions.  The War on Terror’s voracious appetite for information produced, in its first decade, what the Washington Post branded a veritable "fourth branch" of the U.S. federal government with 854,000 vetted security officials, 263 security organizations, over 3,000 private and public intelligence agencies, and 33 new security complexes -- all pumping out a total of 50,000 classified intelligence reports annually by 2010.

By that time, one of the newest members of the Intelligence Community, the National Geospatial-Intelligence Agency, already had 16,000 employees, a $5 billion budget, and a massive nearly $2 billion headquarters at FortBelvoir, Maryland -- all aimed at coordinating the flood of surveillance data pouring in from drones, U-2 spy planes, Google Earth, and orbiting satellites.

According to documents whistleblower Edward Snowden leaked to the Washington Post, the U.S. spent $500 billion on its intelligence agencies in the dozen years after the 9/11 attacks, including annual appropriations in 2012 of $11 billion for the National Security Agency (NSA) and $15 billion for the CIA. If we add the $790 billion expended on the Department of Homeland Security to that $500 billion for overseas intelligence, then Washington had spent nearly $1.3 trillion to build a secret state-within-the-state of absolutely unprecedented size and power.

As this secret state swelled, the world’s sovereign decided that some extraordinary exceptions to civil liberties at home and sovereignty abroad were in order. The most glaring came with the CIA’s now-notorious renewed use of torture on suspected terrorists and its setting up of its own global network of private prisons, or “black sites,” beyond the reach of any court or legal authority. Along with piracy and slavery, the abolition of torture had long been a signature issue when it came to the international rule of law. So strong was this principle that the U.N. General Assembly voted unanimously in 1984 to adopt the Convention Against Torture. When it came to ratifying it, however, Washington dithered on the subject until the end of the Cold War when it finally resumed its advocacy of international justice, participating in the World Conference on Human Rights at Vienna in 1993 and, a year later, ratifying the U.N. Convention Against Torture.

Even then, the sovereign decided to reserve some exceptions for his country alone. Only a year after President Bill Clinton signed the U.N. Convention, CIA agents started snatching terror suspects in the Balkans, some of them Egyptian nationals, and sending them to Cairo, where a torture-friendly autocracy could do whatever it wanted to them in its prisons. Former CIA director George Tenet later testified that, in the years before 9/11, the CIA shipped some 70 individuals to foreign countries without formal extradition -- a process dubbed “extraordinary rendition” that had been explicitly banned under Article 3 of the U.N. Convention.

Right after his public address to a shaken nation on September 11, 2001, President George W. Bush gave his staff wide-ranging secret orders to use torture, adding (in a vernacular version of Schmitt’s dictum),“I don’t care what the international lawyers say, we are going to kick some ass.” In this spirit, the White House authorized the CIA to develop that global matrix of secret prisons, as well as an armada of planes for spiriting kidnapped terror suspects to them, and a network of allies who could help seize those suspects from sovereign states and levitate them into a supranational gulag of eight agency black sites from Thailand to Poland or into the crown jewel of the system, Guantánamo, thus eluding laws and treaties that remained grounded in territorially based concepts of sovereignty.

Once the CIA closed the black sites in 2008-2009, its collaborators in this global gulag began to feel the force of law for their crimes against humanity. Under pressure from the Council of Europe, Poland started an ongoing criminal investigation in 2008 into its security officers who had facilitated the CIA’s secret prison in the country’s northeast. In September 2012, Italy’s supreme court confirmed the convictions of 22 CIA agents for the illegal rendition of Egyptian exile Abu Omar from Milan to Cairo, and ordered a trial for Italy’s military intelligence chief on charges that sentenced him to 10 years in prison. In 2012, Scotland Yard opened a criminal investigation into MI6 agents who rendered Libyan dissidents to Colonel Gaddafi’s prisons for torture, and two years later the Court of Appeal allowed some of those Libyans to file a civil suit against MI6 for kidnapping and torture.

But not the CIA. Even after the Senate’s 2014 Torture Report documented the Agency’s abusive tortures in painstaking detail, there was no move for either criminal or civil sanctions against those who had ordered torture or those who had carried it out. In a strong editorial on December 21, 2014, the New York Times asked “whether the nation will stand by and allow the perpetrators of torture to have perpetual immunity.” The answer, of course, was yes. Immunity for hirelings is one of the sovereign’s most important exceptions.

As President Bush finished his second term in 2008, an inquiry by the International Commission of Jurists found that the CIA’s mobilization of allied security agencies worldwide had done serious damage to the international rule of law. “The executive… should under no circumstance invoke a situation of crisis to deprive victims of human rights violations… of their… access to justice,” the Commission recommended after documenting the degradation of civil liberties in some 40 countries. “State secrecy and similar restrictions must not impede the right to an effective remedy for human rights violations.”

The Bush years also brought Washington’s most blatant repudiation of the rule of law. Once the newly established International Criminal Court (ICC) convened at The Hague in 2002, the Bush White House “un-signed” or “de-signed” the U.N. agreement creating the court and then mounted a sustained diplomatic effort to immunize U.S. military operations from its writ. This was an extraordinary abdication for the nation that had breathed the concept of an international tribunal into being.

The Sovereign’s Unbounded Domains

While Presidents Eisenhower and Bush decided on exceptions that violated national boundaries and international treaties, President Obama is exercising his exceptional prerogatives in the unbounded domains of aerospace and cyberspace.

Both are new, unregulated realms of military conflict beyond the rubric of international law and Washington believes it can use them as Archimedean levers for global dominion. Just as Britain once ruled from the seas and postwar America exercised its global reach via airpower, so Washington now sees aerospace and cyberspace as special realms for domination in the twenty-first century.

Under Obama, drones have grown from a tactical Band-Aid in Afghanistan into a strategic weapon for the exercise of global power. From 2009 to 2015, the CIA and the U.S. Air Force deployed a drone armada of over 200 Predators and Reapers, launching 413 strikes in Pakistan alone, killing as many as 3,800 people. Every Tuesday inside the White House Situation Room, as the New York Times reported in 2012, President Obama reviews a CIA drone “kill list” and stares at the faces of those who are targeted for possible assassination from the air.  He then decides, without any legal procedure, who will live and who will die, even in the case of American citizens. Unlike other world leaders, this sovereign applies the ultimate exception across the Greater Middle East, parts of Africa, and elsewhere if he chooses.

This lethal success is the cutting edge of a top-secret Pentagon project that will, by 2020, deploy a triple-canopy space “shield” from stratosphere to exosphere, patrolled by Global Hawk and X-37B drones armed with agile missiles.

As Washington seeks to police a restless globe from sky and space, the world might well ask: How high is any nation’s sovereignty? After the successive failures of the Paris flight conference of 1910, the Hague Rules of Aerial Warfare of 1923, and Geneva’s Protocol I of 1977 to establish the extent of sovereign airspace or restrain aerial warfare, some puckish Pentagon lawyer might reply: only as high as you can enforce it.

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President Obama has also adopted the NSA’s vast surveillance system as a permanent weapon for the exercise of global power. At the broadest level, such surveillance complements Obama’s overall defense strategy, announced in 2012, of cutting conventional forces while preserving U.S. global power through a capacity for “a combined arms campaign across all domains: land, air, maritime, space, and cyberspace.” In addition, it should be no surprise that, having pioneered the war-making possibilities of cyberspace, the president did not hesitate to launch the first cyberwar in history against Iran.

By the end of Obama’s first term, the NSA could sweep up billions of messages worldwide through its agile surveillance architecture. This included hundreds of access points for penetration of the Worldwide Web’s fiber optic cables; ancillary intercepts through special protocols and “backdoor” software flaws; supercomputers to crack the encryption of this digital torrent; and a massive data farm in Bluffdale, Utah, built at a cost of $2 billion to store yottabytes of purloined data.

Even after angry Silicon Valley executives protested that the NSA’s “backdoor” software surveillance threatened their multi-trillion-dollar industry, Obama called the combination of Internet information and supercomputers “a powerful tool.” He insisted that, as “the world’s only superpower,” the United States “cannot unilaterally disarm our intelligence agencies.” In other words, the sovereign cannot sanction any exceptions to his panoply of exceptions.

Revelations from Edward Snowden’s cache of leaked documents in late 2013 indicate that the NSA has conducted surveillance of leaders in some 122 nations worldwide, 35 of them closely, including Brazil’s president Dilma Rousseff, former Mexican president Felipe Calderón, and German Chancellor Angela Merkel. After her forceful protest, Obama agreed to exempt Merkel’s phone from future NSA surveillance, but reserved the right, as he put it, to continue to “gather information about the intentions of governments… around the world.” The sovereign declined to say which world leaders might be exempted from his omniscient gaze.

Can there be any question that, in the decades to come, Washington will continue to violate national sovereignty through old-style covert as well as open interventions, even as it insists on rejecting any international conventions that restrain its use of aerospace or cyberspace for unchecked force projection, anywhere, anytime? Extant laws or conventions that in any way check this power will be violated when the sovereign so decides. These are now the unwritten rules of the road for our planet.  They represent the real American exceptionalism.

Alfred W. McCoy is professor of history at the University of Wisconsin-Madison, a TomDispatch regular, and author most recently of the book, Torture and Impunity: The U.S. Doctrine of Coercive Interrogation (University of Wisconsin, 2012) which explores the American experience of torture during the past decade. Previous books include: A Question of Torture: CIA Interrogation, from the Cold War to the War on Terror (American Empire Project);Policing America’s Empire: The United States, the Philippines, and the Rise of the Surveillance State, and The Politics of Heroin: CIA Complicity in the Global Drug Trade. He has also convened the “Empires in Transition” project, a global working group of 140 historians from universities on four continents. The results of their first meetings were published as Colonial Crucible: Empire in the Making of the Modern American State.

Solution politique ?

Solution politique ?

par Claude BOURRINET

 

Baudelaireiuyuuyuu.jpgLa politique avant tout, disait Maurras. Parlons plutôt, comme Baudelaire, d’antipolitisme. On sait que le poète, porté, en 1848, par un enthousiasme juvénile, avait participé physiquement aux événements révolutionnaires, appelant même, sans doute pour des raisons peu nobles, à fusiller son beau-père, le général Aupick. Cependant, face à la niaiserie des humanitaristes socialistes, à la suite de la sanglante répression, en juin, de l’insurrection ouvrière (il gardera toujours une tendresse de catholique pour le Pauvre, le Travailleur, et il fut un admirateur du poète et chansonnier populiste Pierre Dupont), et devant le cynisme bourgeois (Cavaignac, le bourreau des insurgés, fut toujours un républicain de gauche), il éprouva et manifesta un violent dégoût pour le monde politique, sa réalité, sa logique, ses mascarades, sa bêtise, qu’il identifiait, comme son contemporain Gustave Flaubert, au monde de la démocratie, du progrès, de la modernité. Ce dégoût est exprimé rudement dans ses brouillons très expressifs, aussi déroutants et puissants que les Pensées de Pascal, Mon cœur mis à nu, et les Fusées, qui appartiennent à ce genre d’écrits littéraires qui rendent presque sûrement intelligent, pour peu qu’on échappe à l’indignation bien pensante.

 

Baudelaire, comme on le sait, est le créateur du mot « modernité », qu’il voyait incarnée dans les croquis de Constantin Guys, et que son sonnet, « À une passante », symbolise parfaitement. La modernité, c’est l’éternité dans la fugacité. Rien à voir, au fond, avec l’injonction rimbaldienne, que l’on voulut volontariste, mais qui n’était que résignée et désabusée, d’être à tout prix moderne. Baudelaire ne destine pas sa pensée à la masse. S’adresse-t-il, du reste, à quiconque ? Il est visionnaire, c’est-à-dire qu’il saisit au vol l’esprit et l’image. L’image, sous la forme des tableaux d’art, fut sa grande passion. Et les symboles, ces images essentielles, qui correspondent avec nous, ces surréalités situées « là-bas », au-delà, mais en jonction avec les sens, et faisant le lien avec les Idées, constituent cette échelle de Jacob, qui nous offre la possibilité de frôler le cœur divin, malgré nos limites angoissantes et torturantes.

 

Baudelaire se situe, au sein d’un monde qui a parodié la dynamique chrétienne, pour la caricaturer en vecteur de progrès infini, ce qui est une autre façon de blasphémer, car seul Dieu seul est infini, pousse l’archaïsme religieux, à grande teneur « traditionnelle » (mais, comme Balzac, il s’inspire du penseur mystique Swedenborg), jusqu’à ne consacrer ce qui lui restait à vivre (il est mort en 1867) qu’à ce culte de la Beauté, qui est une ascension, et non un plaquage sur la réalité sociale-politique. La dimension baudelairienne est la verticalité.

 

Pour le reste, c’est-à-dire sa conception anthropologique, il partage la conception janséniste (contre Rousseau) du péché, impossible à dépasser et à contrer, lequel propose des pièges et des ruses, souvent raffinées, ces « opiums », par exemple, que sont l’amour, la beauté, l’ivresse, élans nobles et dérisoires, qui nous font croire que nous sommes des dieux mais qui, malgré tout, ironiquement, nous donnent un pressentiment du divin… Baudelaire est un idéaliste pessimiste.

 

Il n’existe plus de Baudelaire, au XXIe siècle. On sent parfois, chez certains, son ombre. Par exemple Richard Millet, s’il n’était obsédé par le politique. Sa Confession négative m’a fortement ébranlé. Il retrouve les accents pascaliens, le sens de la grandeur, le goût des gouffres. Il faudrait écrire moins, et moins s’intéresser aux médias. Richard Millet n’est pas assez désespéré. J’évoque ainsi l’un de nos écrivains qui sait encore écrire, donc penser, au sens baudelairien, c’est-à-dire vivre son encre, comme son sang, mais il faut admettre que nous manœuvrons dans un monde de Lilliputiens, qui se pâment devant des monuments hauts comme quatre pommes. On voit bien que ce qui manque, c’est la cruauté. Baudelaire était un grand lecteur de Sade, comme, du reste, les auteurs intelligents de son époque. Malheureusement, on dirait que le seul imbécile qui ait eu alors du génie, Victor Hugo, ait été le seul, au bout de cent cinquante ans, à générer une abondante descendance. Sans la démesure.

 

Que sont devenus nos penseurs, nos grands phares ? On dirait que la littérature, si proche maintenant de la politique politicienne, se fait sur un coin de comptoir. Ça a commencé, il est vrai, au Procope, lorsque des entrepreneurs d’idées s’excitaient les lumières en buvant du café. Depuis, on est sorti dans la rue, de plus en plus polluée et enlaidie par des boutiques, pour ne plus en sortir. L’intelligence est une affaire, comme la bourse, avec ses fluctuations, ses rumeurs, ses coups et ses misères. Le livre est une action, non pas même un enfumage idéologique, comme du temps des « philosophes », mais une option sur une possible rente, au moins symbolique, du moins médiatique. La seule ascension possible, maintenant, c’est celle de l’ascenseur qui porte jusqu’au studio de télévision.

 

Au moins, si quelqu’un avouait que le roi est nu ! Même pas un roi déchu, puisqu’au a perdu la mémoire de tout, même des ors de notre origine divine, surtout de cette noblesse glorieuse, qu’on a remplacée par le clinquant démocratique. Mais un roi déshabillé, à poil, si l’on veut. Illustrons le propos, et provoquons en dévalant un nombre conséquent d’étages, jusqu’aux caves. Il y a un peu de honte à descendre si bas, mais, finalement, c’est là le niveau d’existence de notre monde. Avant donc de rédiger ces réflexions si réalistes, j’ai jeté un coup d’œil, le diable me poussant, sur le site de Riposte laïque, qui a le suprême avantage, pour un analyse intempestif, de synthétiser la bêtise contemporaine, dans une société qui ne manque pas, pourtant, d’émulation en ce domaine. Je lis ainsi qu’il suffit d’éradiquer l’islam de notre terre pour que la France revive, et que le numéro spécial de Charlie Hebdo est, grand bien fasse à cette France si frémissante face à cette perspective de renaissante ! paru. La France, c’est Charlie débarrassé du danger musulman. Le roi tout nu s’amuse. Hugo serait content : les Rigolettos l’ont emporté, et les Sganarelles, et les Scapins. La valetaille s’en donne à cœur joie : il suffit de bouter la galère de Sarrasins hors du port pour que nos champs refleurissent (avec l’aide de Monsanto, évidemment).

 

Nous ne faisons que résumer les débats actuels.

 

Toute cette cuisine alourdit l’estomac. Achevons !

 

On dirait que le bon Dieu, s’étant aperçu que la marmite renvoyait dans la cuisine divine, des odeurs suspectes, avait décidé de touiller à grands coups de louches la mixture mal embouchée et susceptible de sécréter quelque poison.

 

À propos du peuple français, pour autant qu’on jette la mémoire jusqu’au bout de la nuit des temps, on sait que plusieurs civilisations qui nous ont précédés ont disparu dans le néant, laissant à peine quelques traces. Ainsi des Incas, des Celtes… D’autres ont eu la chance d’avoir une postérité culturelle, comme les Hellènes. On ne voit pas pourquoi la France ne connaîtrait pas le sort de ce qui mérite de périr, comme disait Hegel de ce qui existe, ou a existé. Enlevez le lierre suceur de sève à un arbre vermoulu, presque crevé, cela m’étonnerait bien qu’il reparte. La France est cet arbre. Les rares esprits assez cultivés et lucides qui retracent les étapes de la décadence intellectuelle, non seulement de notre pays, que son excellence idéologique a sans doute particulièrement fragilisé, tant l’ivresse du mot conduit vite au vide existentiel (post coitum animal triste), mais aussi la planète entière, submergée par l’Occident nihiliste. La moraline bloque l’intelligence, fatalement.

 

Et je crois que la pire ânerie serait de chercher, à tout prix, une solution.

 

Claude Bourrinet

 


 

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mardi, 03 mars 2015

Carl Schmitt aveva ragione

Carl Schmitt aveva ragione

2775670,1518510,highRes,Carl+Schmitt+%28media_126098%29.jpgDopo la chia­mata alle armi con­tro lo Stato isla­mico e la con­se­guente defi­ni­zione di «guer­riero cro­ciato» rife­rita al nostro mini­stro degli Affari Esteri (e della coo­pe­ra­zione), e con­se­guen­te­mente di nazione nemica rife­rita all’Italia, gli ana­li­sti nazio­nali por­ta­voce degli inte­ressi supe­riori dell’economia si sono sca­te­nati in una ridda di arti­coli che ten­dono a ricon­fi­gu­rare le prio­rità della poli­tica estera euro­pea, e nazio­nale, nei ter­mini di una rin­no­vata «guerra glo­bale con­tro il terrorismo».

L’idea di fondo, comune alla grande stampa main­stream, è quella che l’Europa deve «ripen­sare la guerra»; dopo più di set­tanta anni di pace, infatti, que­sta pro­se­cu­zione della poli­tica con altri mezzi, come diceva Clau­sewitz, si pre­senta ora­mai come una alter­na­tiva con­creta alle incon­si­stenti mano­vre diplo­ma­ti­che fina­liz­zate a cir­co­scri­vere le varie crisi in atto, in par­ti­co­lare quelle ine­renti il fon­da­men­ta­li­smo isla­mico. E allora sarebbe utile, per que­sti appren­di­sti stre­goni, ricor­dare loro le rifles­sioni di Carl Sch­mitt con­te­nute nel suo Nomos della terra, un testo fon­da­men­tale per chi voglia capire, dalla parte di un pen­siero con­ser­va­tore, se non fran­ca­mente rea­zio­na­rio, e dun­que in linea con quello attuale e pre­va­lente, l’evoluzione, o meglio l’involuzione, di que­sto stru­mento geopolitico.

La rifles­sione si apre con il 2 aprile 1917, l’entrata in degli Usa nella Prima Guerra Mon­diale. Sono le moti­va­zioni «uma­ni­ta­rie» quelle che col­pi­scono di più l’autore tede­sco; infatti, Wil­son impe­gna gli Stati uniti con­tro «la guerra navale tede­sca, con­dotta con­tro tutte le nazioni del mondo, ovvero con­tro l’umanità». Que­sta è la moti­va­zione morale che spinge il Pre­si­dente ame­ri­cano ad impe­gnare la sua nazione per «garan­tire atti­va­mente la libertà dei popoli e la pace mondiale».

A par­tire da que­sta ana­lisi, dove sono già con­te­nuti tutti gli ele­menti por­tanti della fase geo­po­li­tica che stiamo vivendo – denun­cia di una guerra di una parte con­tro tutta l’umanità, il rela­tivo giu­di­zio morale, la volontà di por­tare libertà e pace a tutti i popoli della terra — la Ger­ma­nia veniva dichia­rata hostis gene­ris humani – espres­sione sino ad allora nor­mal­mente usata per la cri­mi­na­lità orga­niz­zata inter­na­zio­nale come la pira­te­ria – e dun­que con­si­de­rata un nemico nei con­fronti del quale «la neu­tra­lità non è né moral­mente legit­tima né pra­ti­ca­bile». Oltre­tutto, con quelle moti­va­zioni, gli Stati uniti si erano attri­buito il potere di deci­dere su scala inter­na­zio­nale quale parte bel­li­ge­rante avesse ragione e quale torto.

La con­clu­sione di Sch­mitt è che la Prima Guerra mon­diale, dopo l’entrata in gioco degli Usa sulla base di que­ste moti­va­zioni, aveva ces­sato di essere una clas­sica guerra inter­sta­tale, e si era tra­sfor­mata in una «guerra civile mon­diale» (Welt­bür­ger­krieg), secondo un modello desti­nato ad affer­marsi e a coin­vol­gere l’intera uma­nità. Le rifles­sioni di Sch­mitt si com­pon­gono in una finale, abis­sale, pro­fe­zia: l’avvento di una «guerra totale asim­me­trica e di annien­ta­mento», con­dotta da grandi potenze dotate di mezzi di distru­zione di massa, in pri­mis dalle potenze capi­ta­li­sti­che e libe­rali anglosassoni.

Que­ste rifles­sioni deli­neano già la realtà odierna che è pro­prio quella della guerra negata dal punto di vista giu­ri­dico, se non come forma di poli­zia inter­na­zio­nale in capo alle Nazioni Unite, e della sua sim­me­trica tra­sfor­ma­zione e «glo­ba­liz­za­zione» in forme irri­du­ci­bili a qua­lun­que defi­ni­zione coerente.

Venendo più in spe­ci­fico alle «guerre uma­ni­ta­rie»: «Wer Men­sch­heit sagt, will betrü­gen»: chi dice uma­nità cerca di ingan­narti. Que­sta è la mas­sima che Sch­mitt pro­pone già nel 1927 in Begriff des Poli­ti­schen per espri­mere la sua dif­fi­denza nei con­fronti dell’idea di uno Stato mon­diale che com­prenda tutta l’umanità, annulli il plu­ri­verso (Plu­ri­ver­sum) dei popoli e degli Stati e sop­prima la dimen­sione stessa del loro poli­tico. E a mag­gior ragione Sch­mitt si oppone al ten­ta­tivo di una grande potenza – l’ovvio rife­ri­mento è agli Stati uniti – di pre­sen­tare le pro­prie guerre come guerre con­dotte in nome e a van­tag­gio dell’intera umanità.

Se uno Stato com­batte il suo nemico in nome dell’umanità, la guerra che con­duce non è neces­sa­ria­mente una guerra dell’umanità. Quello Stato cerca sem­pli­ce­mente di impa­dro­nirsi di un con­cetto uni­ver­sale per potersi iden­ti­fi­care con esso a spese del nemico. Se ana­liz­ziamo con lo sguardo anti­ci­pa­tore di Sch­mitt la guerra all’Iraq, quella all’Afghanistan dopo l’11 set­tem­bre, la con­se­guente dichia­ra­zione della «guerra per­ma­nente glo­bale con­tro il ter­ro­ri­smo» e la clas­si­fi­ca­zione uni­la­te­rale degli Stati cana­glia, vediamo come tutte que­ste forme della guerra asim­me­trica con­tem­po­ra­nea, com­presi gli atti di ter­ro­ri­smo a fini poli­tici, siano stati ampia­mente pre­vi­sti e pre­ve­di­bili sin dal secolo scorso.

In pro­spet­tiva dun­que, pro­se­gue Sch­mitt, l’asimmetria del con­flitto avrebbe esa­spe­rato e dif­fuso le osti­lità: il più forte avrebbe trat­tato il nemico come un cri­mi­nale, men­tre chi si fosse tro­vato in con­di­zioni di irri­me­dia­bile infe­rio­rità sarebbe stato di fatto costretto ad usare i mezzi della guerra civile, al di fuori di ogni limi­ta­zione e di ogni regola, in una situa­zione di gene­rale anar­chia. E l’anarchia della «guerra civile mon­diale», se con­fron­tata con il nichi­li­smo di un potere impe­riale cen­tra­liz­zato, impe­gnato a domi­nare il mondo con l’uso dei mezzi di distru­zione di massa, avrebbe potuto alla fine «appa­rire all’umanità dispe­rata non solo come il male minore, ma anzi come il solo rime­dio efficace».

In una delle ultime pagine di Der Nomos der Erde Sch­mitt scrive: «Se le armi sono in modo evi­dente impari, allora decade il con­cetto di guerra sim­me­trica, nella quale i com­bat­tenti si col­lo­cano sullo stesso piano. È infatti pre­ro­ga­tiva della guerra sim­me­trica che entrambi i con­ten­denti abbiano una qual­che pos­si­bi­lità di vit­to­ria. Se que­sta pos­si­bi­lità viene meno, l’avversario più debole diventa sem­plice oggetto di coa­zione. Si acui­sce allora in misura cor­ri­spon­dente l’ostilità fra le parti in guerra. Chi si trova in stato di infe­rio­rità spo­sta la distin­zione fra potere e diritto nell’ambito del bel­lum inte­sti­num. Il più forte vede invece nella pro­pria supe­rio­rità mili­tare una prova della sua justa causa e tratta il nemico come un criminale.

La discri­mi­na­zione del nemico e la con­tem­po­ra­nea assun­zione a pro­prio favore della justa causa vanno di pari passo con il poten­zia­mento dei mezzi di annien­ta­mento e con lo sra­di­ca­mento spa­ziale del tea­tro di guerra. Si spa­lanca così l’abisso di una discri­mi­na­zione giu­ri­dica e morale altret­tanto distrut­tiva». La descri­zione della realtà attuale, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Siria al Libano, sem­bra essere rita­gliata esat­ta­mente su que­ste «pro­fe­zie» di Carl Sch­mitt che altro non dicono se non che il futuro deriva dal pas­sato. E dun­que, se così è, dob­biamo anche pen­sare che il nostro pre­sente di «guerre uma­ni­ta­rie» di inde­fi­nite «mis­sioni mili­tari di pace» di emer­genze uma­ni­ta­rie che altro non sono che situa­zioni di man­cato svi­luppo deli­be­ra­ta­mente lasciate incan­cre­nire al fine di farne, appunto, un casus belli uma­ni­ta­rio, vanno riflet­tute e ripen­sate all’interno di cor­nici radi­cal­mente diverse dalle attuali, pena la geo­me­trica ascesa della bar­ba­rie. Eppure, forse guar­dando ancora più avanti, con­sa­pe­vole delle sfide future e degli orrori pas­sati e pre­senti che, nell’estate del 1950, chiu­dendo la pre­fa­zione a Der Nomos der Erde, Sch­mitt scrive: «È ai costrut­tori di pace che è pro­messo il regno della terra. Anche l’idea di un nuovo Nomos della Terra si dischiu­derà solo a loro».

BN-​Anstoß VI: Geopolitik

BN-​Anstoß VI:

Geopolitik

Ex: http://www.blauenarzisse.de

geopolitikBN.jpgGerade erst ist mit „Die Ausländer“ der fünfte Band unserer Schriftenreihe BN-​Anstoß erschienen. Jetzt kommt schon der nächste. Gereon Breuer hat über „Geopolitik“ geschrieben.

Ein Hauptargument von Felix Menzel in seinem Bändchen über Die Ausländer. Warum es immer mehr werden (BN-​Anstoß V) lautet, daß durch eine verfehlte Außenpolitik des Westens der derzeitige Flüchtlingsansturm auf Europa erst entstehen konnte. BN-​Autor Gereon Breuer schließt genau hier an und erklärt auf beeindruckende Weise die derzeitige internationale Lage, die viele als chaotisch wahrnehmen.

Jeder Staat muß seine nationalen Interessen verteidigen dürfen

Sein Büchlein heißt Geopolitik. Das Spiel nationaler Interessen zwischen Krieg und Frieden (BN-​Anstoß VI). Es erscheint voraussichtlich Ende März und kann ab sofort vorbestellt werden. Breuer geht es darum, anhand der aktuellen Konflikte in der Ukraine und in Syrien aufzuzeigen, wie Geopolitik funktioniert. Geopolitik sterbe nämlich nicht aus, auch wenn die deutsche Presse, Politikwissenschaft und Wikipedia den Begriff nur noch als Erweiterung von Imperialismus verstehen.

Das ist komplett falsch und beweist nur, wie großflächig der Versuch unternommen wird, den Deutschen das Denken in eigenen, nationalen Interessen abzutrainieren. Breuer will hier verlorengegangenes Terrain zurückgewinnen und fängt dazu gewissermaßen beim kleinen Einmaleins an. Er erklärt, was unsere nationalen Interessen sind und wie sie verteidigt werden müßten.

Das Scheitern supranationaler Gebilde

Das Büchlein verfügt über vier Kapitel. Im ersten geht es um die Frage, warum Geopolitik nicht aussterben wird. In Kapitel zwei beschäftigt sich Breuer damit, warum der Mensch immer Krieg führen wird. Im Mittelpunkt steht dabei, daß es supranationalen Gebilden wie den Vereinten Nationen in den letzten Jahrzehnten in keinster Weise gelungen ist, den Krieg abzuschaffen, so wie sich das einige verblendete Intellektuelle gewünscht haben.

Kapitel drei thematisiert schließlich die Veränderung des Krieges in naher Zukunft. Wird dieser vielleicht durch Terrorismus ersetzt? Breuer nutzt diese Frage insbesondere, um sich zum Islamischen Staat zu äußern. Seine Ausführungen sind hier deshalb so wichtig, weil er zu der These vordringt, daß jeder Krieg auch etwas über den zivilisatorischen Stand einer Gesellschaft aussage.

Ein Buch für „Putin-​Versteher“?

Im abschließenden Kapitel skizziert Breuer das geopolitische Agieren der drei Großmächte der Welt. Zu diesen zählt er aktuell die USA, Rußland und China. Europa hingegen fehlt in der Auflistung, weil sich sowohl die einzelnen Nationalstaaten als auch die Europäische Union lieber für fremde Interessen einspannen lassen, als eine eigenständige Politik zu verfolgen.

Für einige wird der sechste Band der Reihe BN-​Anstoß das „Buch eines Putin-​Verstehers“ sein, andere werden es lesen als den Versuch, auf die drohende Islamisierung Europas mit einer außenpolitischen Kurskorrektur zu reagieren. Einige werden sich die kritischen Passagen über den Weltpolizisten USA herauspicken, andere hingegen werden in diffamierender Absicht versuchen, dem Autor vorzuwerfen, er wolle mit diesem Buch den Krieg schönreden.

Um all diese Sachen geht es Breuer jedoch nicht. Er will, daß wir endlich wieder unseren gesunden Menschenverstand benutzen, um zu erkennen, wie Staaten ihre Interessen durchsetzen müssen. Breuer betont dabei: „Nur dann, wenn Staaten sich nur dort einmischen, wo das ihren Interessen dient und sich überall sonst heraushalten, kann ihr weltpolitisches Engagement erfolgreich sein. Ironischerweise fällt es gerade denjenigen, die vehemente Verfechter der Frieden-​schaffen-​ohne-​Waffen-​Ideologie sind, besonders schwer, diesen banalen Grundsatz zu verstehen.“

Gereon Breuer: Geopolitik. Das Spiel nationaler Interessen zwischen Krieg und Frieden. BN-​Anstoß VI. 100 Seiten. 8,50 Euro. Chemnitz 2015. Erscheint Ende März.

+ Hier kann Geopolitik vorbestellt werden.
+ Hier gibt es die Bände 4 bis 6 der Reihe BN-​Anstoß im Paketpreis für 20 statt 25,50 Euro.
+ Band IV: Nazivorwurf. Ich bin stolz, ein Deutscher zu sein.
+ Band V: Die Ausländer. Warum es immer mehr werden.

lundi, 02 mars 2015

Chantal Delsol : défense du populisme et des « demeurés »

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Chantal Delsol : défense du populisme et des « demeurés »

Ex: http://www.lesobservateurs.ch

Revue de presse sur le dernier ouvrage de Chantal Delsol « Populisme. Les demeurés de l’Histoire ». Chantal Delsol est membre de l’Institut, philosophe et historienne des idées.

Le Figaro : Plaidoyer pour le populisme

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Les jeunes gens qui voudraient connaître un de ces admirables professeurs que fabriquait la France d’avant — et qui la fabriquaient en retour — doivent lire le dernier ouvrage de Chantal Delsol. Tout y est : connaissance aiguë du sujet traité ; culture classique ; perspective historique ; rigueur intellectuelle ; modération dans la forme et dans la pensée, qui n’interdit nullement de défendre ses choix philosophiques et idéologiques. Jusqu’à cette pointe d’ennui qui se glisse dans les démonstrations tirées au cordeau, mais que ne vient pas égayer une insolente incandescence de plume. L’audace est dans le fond, pas dans la forme. On s’en contentera.

Notre auteur a choisi comme thème de sa leçon le populisme. Thème dangereux. Pour elle. Dans le Dictionnaire des idées reçues de Flaubert revisité aujourd’hui, on aurait aussitôt ajouté au mot populisme : à dénoncer ; rejeter ; invectiver ; ostraciser ; insulter ; néantiser. Non seulement Chantal Delsol ne hurle pas avec les loups, mais elle arrête la meute, décortique ses injustes motifs, déconstruit son mépris de fer. À la fin de sa démonstration, les loups ont perdu leur légitimité de loups. « Que penser de ce civilisé qui, pour stigmatiser des sauvages, les hait de façon si sauvage ? »

Pourtant, les loups sont ses pairs, membres comme elle de ces élites culturelles, universitaires, politiques, ou encore médiatiques, qui depuis des siècles font l’opinion à Paris ; et Paris fait la France, et la France, l’Europe. Chantal Delsol n’en a cure. Elle avance casquée de sa science de la Grèce antique. Se sert d’Aristote contre Platon. Distingue avec un soin précieux l’idiotès de l’Antiquité grecque, qui regarde d’abord son égoïste besoin, au détriment de l’intérêt général du citoyen, de l’idiot moderne, incapable d’intelligence. Dépouille le populiste de l’accusation de démagogie. Renvoie vers ses adversaires la férocité de primate qui lui est habituellement attribuée par les donneurs de leçons démocratiques :

« Dès qu’un leader politique est traité de populiste par la presse, le voilà perdu. Car le populiste est un traître à la cause de l’émancipation, donc à la seule cause qui vaille d’être défendue. Je ne connais pas de plus grande brutalité, dans nos démocraties, que celle utilisée contre les courants populistes. La violence qui leur est réservée excède toute borne. Ils sont devenus les ennemis majuscules d’un régime qui prétend n’en pas avoir. Si cela était possible, leurs partisans seraient cloués sur les portes des granges. »

Chantal Delsol analyse avec pertinence le déplacement des principes démocratiques, depuis les Lumières : la raison devient la Raison ; l’intérêt général de la cité, voire de la nation, devient celui de l’Humanité ; la politique pour le peuple devient la politique du Concept. Les progressistes veulent faire le bien du peuple et s’appuient sur lui pour renverser les pouvoirs ancestraux ; mais quand ils découvrent que le peuple ne les suit plus, quand ils s’aperçoivent que le peuple juge qu’ils vont trop loin, n’a envie de se sacrifier ni pour l’humanité ni pour le règne du concept, alors les élites progressistes liquident le peuple. Sans hésitation ni commisération. C’est Lénine qui va résolument basculer dans cette guerre totale au peuple qu’il était censé servir, lui qui venait justement des rangs des premiers « populistes » de l’Histoire. Delsol a la finesse d’opposer cette « dogmatique universaliste » devenue meurtrière à l’autre totalitarisme criminel du XXe siècle : le nazisme. Avec Hitler, l’Allemagne déploiera sans limites les « perversions du particularisme ». Ces liaisons dangereuses avec la « bête immonde » ont sali à jamais tout regard raisonnablement particulariste. En revanche, la chute du communisme n’a nullement entaché les prétentions universalistes de leurs successeurs, qu’ils s’affichent antiracistes ou féministes ou adeptes de la théorie du genre et du « mariage pour tous ». Le concept de l’égalité doit emporter toute résistance, toute précaution, toute raison.

Alors, la démocratie moderne a tourné vinaigre : le citoyen, soucieux de défendre sa patrie est travesti en idiot : celui qui préfère les Autres aux siens, celui qui, il y a encore peu, aurait été vomi comme traître à la patrie, « émigré » ou « collabo », est devenu le héros, le grand homme, le généreux, l’universaliste, le progressiste. De même l’égoïste d’antan, l’égotiste, le narcissique, qui préférait ses caprices aux nobles intérêts de sa famille, au respect de ses anciens et à la protection de ses enfants, est vénéré comme porte-drapeau flamboyant de la Liberté et de l’Égalité. Incroyable renversement qui laisse pantois et montre la déliquescence de nos sociétés : « Le citoyen n’est plus celui qui dépasse son intérêt privé pour se mettre au service de la société à laquelle il appartient ; mais celui qui dépasse l’intérêt de sa société pour mettre celle-ci au service du monde... Celui qui voudrait protéger sa patrie face aux patries voisines est devenu un demeuré, intercédant pour un pré carré rabougri ou pour une chapelle. Celui qui voudrait protéger les familles, au détriment de la liberté individuelle, fait injure à la raison. La notion d’intérêt public n’a plus guère de sens lorsque les deux valeurs primordiales sont l’individu et le monde. »

chantal delsol,entretien,théorie politique,politologie,sciences politiques,philosophie,populisme,philosophie politiqueLes élites progressistes ont déclaré la guerre au peuple. En dépit de son ton mesuré et de ses idées modérées, Chantal Delsol a bien compris l’ampleur de la lutte : « Éduque-les, si tu peux », disait Marc-Aurèle. Toutes les démocraties savent bien, depuis les Grecs, qu’il faut éduquer le peuple, et cela reste vrai. Mais chaque époque a ses exigences. « Aujourd’hui, s’il faut toujours éduquer les milieux populaires à l’ouverture, il faudrait surtout éduquer les élites à l’exigence de la limite, et au sens de la réalité. » Mine de rien, avec ses airs discrets de contrebandière, elle a fourni des armes à ceux qui, sous la mitraille de mépris, s’efforcent de résister à la folie contemporaine de la démesure et de l’hubris [la démesure en grec].

Quand ils découvrent que le peuple ne les suit plus, quand ils s’aperçoivent que le peuple juge qu’ils vont trop loin, n’a envie de se sacrifier ni pour l’humanité ni pour le règne du concept, alors les élites progressistes liquident le peuple.

Sud-Ouest : Ce diable de populisme

Le nouvel essai de Chantal Delsol n’est pas franco-français. On a bien sûr en tête, en le lisant, l’exemple du Front national, surtout à l’heure où la classe politique se dispute à nouveau sur l’attitude à tenir en ce dimanche de second tour électoral dans une circonscription du Doubs. Mais le propos de cette intellectuelle libérale et catholique, à la pensée claire et ferme, va au-delà de nos contingences puisqu’il s’agit de s’interroger sur la démocratie.

Celle-ci est-elle fidèle à ses valeurs lorsqu’elle ostracise un courant politique ? Car tel est le sort des partis ou mouvements décrits sous le terme « populistes ». Et dans la bouche de ceux qui les combattent, le mot ne désigne pas un contenu précis, mais claque comme une injure. Du coup, aucun de ces partis — très divers — ne revendique l’adjectif, sauf par bravade, alors qu’au XIXe siècle, le populisme n’avait pas de connotation péjorative et s’affichait sans complexes, en Russie avec les « Narodniki » ou aux États-Unis avec les « Granger ».

Car c’est à une réflexion historique d’ampleur que se livre Chantal Delsol. Des tribuns de la plèbe dans l’Antiquité aux courants protestataires qui agitent notre Europe de 2015, l’essayiste s’interroge sur les raisons qui font que la démocratie, dont Aristote explique — contre Platon — qu’elle n’est pas fondée sur le règne de la vérité, mais sur celui de l’opinion, en est arrivée à diaboliser des expressions politiques se réclamant justement de ce « peuple » qui est pourtant sa raison d’être.

L’explication qui vient à l’esprit, ce sont les dérives totalitaires de ceux qui ont utilisé la démocratie pour la détruire. Bien sûr, l’auteur se range parmi ceux qui encouragent les démocraties à se défendre. Mais les « populismes » que dénoncent aujourd’hui les élites sont-ils vraiment ennemis de la démocratie ? Chantal Delsol ne le croit pas. Selon elle, ce que veulent ces partis contestataires, c’est précisément un débat démocratique où puissent se faire entendre d’autres opinions que les dominantes. Bref, une alternative.

Credo de l’enracinement

Or, tout se passe comme si certaines opinions n’étaient pas jugées recevables, notamment celles qui privilégient l’enracinement des individus et des sociétés à rebours du credo dominant des élites, celui de l’émancipation et du dépassement des cadres et repères traditionnels. Présentées comme une « frileuse » tendance au repli identitaire, ces opinions répandues dans les milieux « populaires » sont qualifiées de « populistes ». Cela les disqualifie d’avance alors qu’elles sont porteuses de leur sagesse propre ; et cela fait de ceux qui les affichent non pas des enfants, comme feraient des technocrates qui considèrent la politique comme une science inaccessible au vulgaire (et donc récusent la démocratie), mais des idiots dont les idées n’ont pas droit de cité.

Risque de « démagogie »

Non seulement il y a là une perversion de la démocratie, qui est par nature la confrontation d’idées entre gens ayant également voix au chapitre ; mais il y a aussi un risque, celui de dessécher le débat public ou le radicaliser. Bien sûr, Delsol soupèse l’autre risque, inhérent à la démocratie depuis ses origines grecques, et que dénonçait déjà Platon, celui de la « démagogie ». Mais la démocratie étant le pire système... à l’exception de tous les autres, il faut en accepter aussi les inconvénients...

Figaro Magazine : « Non, le populisme n’est pas la démagogie »

Marine Le Pen aux marches de l’Élysée en 2017 ? La Gauche radicale au pouvoir en Grèce ? Le populisme semble avoir de beaux jours devant lui... Mais que faut-il entendre exactement par ce mot ? Et comment a-t-il été instrumentalisé par les élites en place ? La philosophe Chantal Delsol nous l’explique.

— Marine Le Pen en tête du premier tour de la présidentielle de 2017, mais battue au second tour selon un sondage CSA ; explosion du terrorisme islamique fondamentaliste sur notre territoire ; avènement de la gauche radicale en Grèce... De quoi ces événements sont-ils le symptôme ?

Chantal Delsol — La concomitance de ces événements est le fruit d’un hasard, on ne saurait les mettre sur le même plan, et pourtant ils sont révélateurs d’un malaise des peuples. Que Marine Le Pen arrive au second tour est à présent presque une constante dans les différents sondages. Comme dans le roman de Houellebecq, il est probable cependant qu’on lui préférera toujours même n’importe quel âne ou n’importe quel fou : mon travail sur le populisme tente justement d’expliquer ce rejet incoercible.

Le terrorisme issu du fondamentalisme islamique ressortit quant à lui à un problème identitaire. Pour ce qui est des attentats, depuis des décennies, les grands partis s’entendent à étouffer la vérité, à tout lisser à l’aune du politiquement correct, c’est ainsi qu’on refuse de voir les problèmes dans nos banlieues où Les Protocoles des Sages de Sion sont couramment vendus, et que l’on persiste à imputer l’antisémitisme au seul Front national, alors qu’il est depuis bien longtemps le fait de l’islamisme. À force de tout maintenir sous une chape de plomb, il ne faut pas s’étonner que la pression monte et que tout explose.

En ce qui concerne la Grèce, c’est la réaction d’une nation qui en a assez d’être soumise aux lois européennes. C’est une gifle administrée à une technocratie qui empêche un pays de s’organiser selon son propre modèle. On observe une imparable logique dans l’alliance de la gauche radicale avec le parti des Grecs indépendants dès lors que ces deux formations sont souverainistes, qu’elles refusent l’austérité, et sont animées d’une semblable volonté de renégociation de la dette.

Rien d’étonnant non plus à voir Marine Le Pen et Jean-Luc Mélenchon saluer quasi de concert le nouveau Premier ministre grec, les extrêmes se retrouvant sur ce même créneau. Centralisatrice et souverainiste, Marine Le Pen a, au reste, gauchisé son programme économique. La souffrance identitaire des banlieues, tout comme l’émergence d’une France périphérique, ou bien encore la revendication par les Français de leurs propres racines et, par-delà nos frontières, le réveil du peuple en Grèce, sont autant de preuves de l’échec du politique.

— D’où cette montée des populismes, pourtant âprement décriée...

Le vocable est devenu aujourd’hui synonyme de démagogie, mais ce n’est qu’un argument de propagande. Il est employé comme injure pour ostraciser des partis ou mouvements politiques qui seraient composés d’imbéciles, de brutes, voire de demeurés au service d’un programme idiot, ce terme d’idiot étant pris dans son acception moderne : un esprit stupide, mais aussi, dans sa signification ancienne, un esprit imbu de sa particularité. L’idiotès grec est celui qui n’envisage le monde qu’à partir de son regard propre, il manque d’objectivité et demeure méfiant à l’égard de l’universel, à l’inverse du citoyen qui, lui, se caractérise par son universalité, sa capacité à considérer la société du point de vue du bien commun. L’idiot grec veut conserver son argent et refuse de payer des impôts. Il cultive son champ et se dérobe face à la guerre, réclamant que l’on paye pour cela des mercenaires. À l’écoute des idiotès, les démagogues grecs attisaient les passions individuelles au sein du peuple, jouant sur le bien-être contre le Bien, le présent contre l’avenir, les émotions et les intérêts primaires contre les intérêts sociaux, si bien qu’au fond, les particularités populaires peuvent être considérées comme mauvaises pour la démocratie. Voilà l’origine. Rien de plus simple, dès lors, pour nos modernes élites, de procéder à l’amalgame entre populisme et démagogie, avec ce paradoxe que les électeurs des « populismes » seront les premiers à se sacrifier lors d’une guerre, car ils ne renonceront jamais à leurs racines ni au bien public, au nom de valeurs qu’ils n’ont pas oubliées. Il est absolument normal qu’une démocratie lutte contre la démagogie, qui représente un fléau mortifère, mais ici il ne s’agit pas de cela : les électeurs des « populismes » ne sont pas des gens qui préfèrent leurs intérêts particuliers au bien commun, ce sont des gens qui préfèrent leur patrie au monde, le concret à l’universel abstrait, ce qui est autre chose. Et cela, on ne veut pas l’entendre.

chantal delsol,entretien,théorie politique,politologie,sciences politiques,philosophie,populisme,philosophie politiqueChez les Grecs, comme plus tard chez les chrétiens, l’universel (par exemple celui qui fait le citoyen) est une promesse, non pas un programme écrit, c’est un horizon vers lequel on tend sans cesse. Or il s’est produit une rupture historique au moment des Lumières, quand l’universalisme s’est figé en idéologie avec la théorie émancipatrice : dès lors, toute conception ou attitude n’allant pas dans le sens du progrès sera aussitôt considérée non pas comme une opinion, normale en démocratie, mais comme un crime à bannir. Quiconque défendra un enracinement familial, patriotique ou religieux sera accusé de « repli identitaire », expression désormais consacrée. C’est la fameuse « France moisie ». Les champs lexicaux sont toujours éclairants...

— Diriez-vous que nous vivons dans un nouveau terrorisme intellectuel ?

Un terrorisme sournois, qui se refuse à considérer comme des arguments tout ce qui défend l’enracinement et les limites proposées à l’émancipation. On appelle populiste, vocable injurieux, toute opinion qui souhaite proposer des limites à la mondialisation, à l’ouverture, à la liberté de tout faire, bref à l’hubris en général. L’idéologie émancipatrice fut le cheval de bataille de Lénine, populiste au sens premier du terme (à l’époque où populiste signifiait populaire — aujourd’hui, la gauche est populaire et la droite populiste, ce qui marque bien la différence), ne vivant que pour le peuple ; mais quand il dut reconnaître que ni les ouvriers ni les paysans ne voulaient de sa révolution, limitant leurs aspirations à un confort minimal dans les usines, à la jouissance de leurs terres et à la pratique de leur religion, il choisit délibérément la voie de la terreur. Il s’en est justifié, arguant que le peuple ne voyait pas clair.

Mutatis mutandis, c’est ce que nous vivons aujourd’hui avec nos technocraties européennes et, particulièrement, nos socialistes qui estiment connaître notre bien mieux que nous. M. Hollande et Mme Taubira nous ont imposé leur « réforme de civilisation » avec une telle arrogance, un tel mépris, que le divorce entre les élites et le peuple est désormais patent. À force de ne pas l’écouter, la gauche a perdu le peuple. L’éloignement de plus en plus grand des mandataires démocratiques pousse le peuple à se chercher un chef qui lui ressemble, et on va appeler populisme le résultat de cette rupture. Si par « gauche » on entend la recherche de la justice sociale, à laquelle la droite se consacre plutôt moins, le peuple peut assurément être de gauche, mais dès lors que l’élite s’engouffre dans l’idéologie, le peuple ne suit plus, simplement parce qu’il a les yeux ouverts, les pieds sur terre, parce qu’il sait d’instinct ce qui est nécessaire pour la société, guidé qu’il est par un bon sens qui fait défaut à nos narcissiques cercles germanopratins. Ce n’est pas au cœur de nos provinces qu’on trouvera les plus farouches défenseurs du mariage entre personnes du même sexe, de la PMA, de la GPA, voire du transhumanisme. Je ne suis pas, quant à moi, pour l’enracinement à tout crin (n’est-ce pas cette évolution qui a fini par abolir l’esclavage au XIXe, et par abolir récemment l’infantilisation des femmes ?), mais il faut comprendre que les humains ne sont pas voués à une liberté et à une égalité anarchiques et exponentielles, lesquelles ne manqueront pas de se détruire l’une l’autre, mais à un équilibre entre émancipation et enracinement. Équilibre avec lequel nous avons rompu. C’est une grave erreur.

— N’entrevoyez-vous pas une possibilité de sortie du purgatoire pour le populisme ?

Ne serait-ce que par son poids grandissant dans les urnes, il sera de plus en plus difficile de rejeter ses électeurs en les traitant de demeurés ou de salauds, et cela d’autant plus qu’une forte frange de la France périphérique définie par le géographe Christophe Guilluy vote désormais Front national. Marine Le Pen se banalise et, toutes proportions gardées, son parti apparaît de plus en plus comme une sorte de post-RPR, celui qui existait il y a vingt ans, avec les Séguin, Pasqua et autres fortes têtes centralisatrices et souverainistes — la presque seule différence étant dans l’indigence des élites FN : qui, parmi nos intellectuels, se réclame aujourd’hui de ce parti ? Mon analyse est que l’Europe court derrière une idéologie émancipatrice qui, au fond, est assez proche d’une suite du communisme, la terreur en moins : un dogme de l’émancipation absolue, considérée non plus comme un idéal, mais comme un programme. Ainsi sont récusées toutes les limites, ce qui rend la société d’autant plus vulnérable à des éléments durs comme le fondamentalisme islamique. Depuis quelques années, un fossé immense se creuse entre des gens qui, du mariage pour tous au transhumanisme, n’ont plus de repères, et des archaïsants qui veulent imposer la charia. Mais nous ne voulons rien entendre. Nous ne voulons pas comprendre que ces archaïsants sont des gens qui réclament des limites. Il est pathétique de penser que devant le vide imposé par la laïcité arrogante, cet obscurantisme irréligieux, le besoin tout humain de religion vient se donner au fondamentalisme islamique — dans le vide imposé, seuls s’imposent les extrêmes, parce qu’ils ont tous les culots.

Dans ce contexte, il n’est pas impossible que les pays anglo-saxons, et notamment les États-Unis, s’en sortent mieux que nous, car il y perdure une transcendance et nombre de règles fondatrices repérables dans les constitutions, et qui structurent les discours politiques.

— Au point qu’une certaine américanisation de nos mœurs pourrait nous retenir ?

Si paradoxal que cela paraisse, je répondrai par l’affirmative. Au fond, même si l’on en constate les prodromes chez les Anciens, et notamment dans La République de Cicéron, le progrès émancipateur est venu du christianisme, mais il ne saurait demeurer raisonnable sans une transcendance au-dessus. Je dirais que l’élan du temps fléché allant au progrès, qui est né ici en Occident, a été construit pour avancer sous le couvert de la transcendance, qui garantit son caractère d’idéal et de promesse, l’enracine toujours dans la terre, et l’empêche de dériver vers des utopies mortifères. Tranchez la transcendance pour ne conserver que l’émancipation et vous voilà à bord d’un bateau ivre. C’est pourquoi je préfère les Lumières écossaises et américaines, qui sont biblico-révolutionnaires, aux Lumières françaises, forcément terroristes.

— À propos de limites, comment analysez-vous l’adoption par le président de la République et le gouvernement du slogan : « Je suis Charlie » ?

Le pouvoir a surfé sur la vague, avec succès d’ailleurs, mais on n’était que dans la communication et l’artifice : gros succès pour la réunion des chefs d’État, avec une manifestation dont les chiffres augmentaient avant même que les gens ne soient sur place ! François Hollande a fait en sorte que sa cote grimpe dans les sondages, et tel fut le cas, mais tout cela risque de se déballonner dès lors que le pays se retrouvera avec ses soucis majeurs. Quant à la caricature de Mahomet réitérée après l’attentat, même avec son caractère ambigu et doucereux, elle demeure pour le milliard six cent millions de musulmans — presque un quart de la population planétaire — une provocation. Il est étrange de voir des gens qui se disent constamment éloignés de l’idée du « choc de civilisations » en train de susciter, avec enthousiasme (par bravade, par sottise : voyez l’âge mental de ces dessins...), une guerre de civilisations...

FigaroVox : « L’Union européenne est une variante du despotisme éclairé »

La certitude de détenir la vérité conduit les dirigeants de l’UE à négliger le sentiment populaire, argumente l’universitaire.

— Faut-il analyser les élections en Grèce comme un réveil populiste ?

Il est intéressant de voir que le parti Syriza n’est pas appelé « populiste » par les médias, mais « gauche radicale ». Le terme « populiste » est une injure, et en général réservé à la droite. Ce n’est pas une épithète objective. Personne ne s’en prévaut, sauf exception. On ne peut donc pas dire de Syriza qu’il est populiste. Et cela affole les boussoles de nos commentateurs : le premier à faire un pied de nez à l’Europe institutionnelle n’est pas un parti populiste…

— Comment expliquer la défiance des peuples européens qui s’exprime d’élections en sondages vis-à-vis de l’Union européenne ?

Les peuples européens ont le sentiment de n’être plus maîtres de leur destin, et ce sentiment est justifié. Ils ont été pris en main et en charge par des super-gouvernants qui pensent connaître leur bien mieux qu’eux-mêmes. C’est ni plus ni moins une variante du despotisme éclairé, ce qui à l’âge contemporain s’appelle une technocratie : le gouvernement ressortit à une science, entre les mains de quelques compétents.

Avant chaque élection, on dit aux peuples ce qu’ils doivent voter, et on injurie ceux qui n’ont pas l’intention de voter correctement. S’ils votent mal, on attend un peu et on les fait voter à nouveau jusqu’à obtenir finalement le résultat attendu. Les instances européennes ne se soucient pas d’écouter les peuples, et répètent que les peuples ont besoin de davantage d’explications, comme s’il s’agissait d’une classe enfantine et non de groupes de citoyens.

L’Action française 2000 : Les Lumières contre le populisme, les Lumières comme messianisme

Extrait de son entretien :

« Le moment des Lumières est crucial. C’est le moment où le monde occidental se saisit de l’idéal émancipateur issu du christianisme, et le sépare de la transcendance : immanence et impatience qui vont ensemble – le ciel est fermé, tout doit donc s’accomplir tout de suite. C’est surtout vrai pour les Lumières françaises. Ce qui était promesse devient donc programme. Ce qui était un chemin, lent accomplissement dans l’histoire terrestre qui était en même temps l’histoire du Salut, devient utopie idéologique à accomplir radicalement et en tordant la réalité. Pour le dire autrement : devenir un citoyen du monde, c’était, pour Socrate (et pour Diogène, ce Socrate devenu fou), un idéal qui ne récusait pas l’amour de la cité proche (dont Socrate est mort pour ne pas contredire les lois). Être citoyen du monde, pour les chrétiens, c’était une promesse de communion, la Pentecôte du Salut.

Mais pour les révolutionnaires des Lumières, dont nos gouvernants sont les fils, être citoyen du monde signifie tout de suite commencer à ridiculiser la patrie terrestre et les appartenances particulières – la famille, le voisinage, etc. Lénine a bien décrit comment s’opère le passage dans Que faire ? – il veut faire le bien du peuple, mais il s’aperçoit que le peuple est trade-unioniste, il veut simplement mieux vivre au sein de ses groupes d’appartenance, tandis que lui, Lénine, veut faire la révolution pour changer le monde et entrer dans l’universel : il va donc s’opposer au peuple, pour son bien, dit-il. C’est le cas de nos élites européennes, qui s’opposent constamment au peuple pour son bien (soi-disant). Pour voir à quel point l’enracinement est haï et l’universel porté aux nues, il suffit de voir la haine qui accompagne la phrase de Hume citée par Le Pen “Je préfère ma cousine à ma voisine, ma sœur à ma cousine, etc.”, pendant qu’est portée aux nues la célèbre phrase de Montesquieu : “Si je savais quelque chose utile à ma famille et qui ne le fût pas à ma patrie, je chercherais à l’oublier. Si je savais quelque chose utile à ma patrie, et qui fût préjudiciable à l’Europe, ou bien qui fût utile à l’Europe et préjudiciable au genre humain, je le regarderais comme un crime.” Or nous avons besoin des deux, car nous sommes des êtres à la fois incarnés et animés par
la promesse de l’universel. »

 

« Populisme. Les demeurés de l’Histoire »
de Chantal Delsol,
aux Éditions du Rocher,
à Monaco,
en 2015,
267 pages,
17,90 €.

samedi, 28 février 2015

Une démocratie pour notre siècle

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Une démocratie pour notre siècle

par Arthur De Grave

Ex: http://fortune.fdesouche.com

Affaiblissement du politique, sécession des élites, émergence d’une culture participative… Le consensus qui existait jusqu’alors autour du régime représentatif est en train de voler en éclats sous nos yeux. Une démocratie est à réinventer pour le siècle qui s’ouvre.

Inutile de tourner autour du pot : notre démocratie représentative – ce système où une minorité élue gouverne – est à bout de souffle.

Dès le départ, le concept était plutôt fragile : si un Athénien du Ve siècle av. J.-C. se retrouvait à notre époque, il s’étonnerait qu’on puisse appeler notre régime démocratie. A Athènes, le pouvoir était aux mains des citoyens eux-mêmes, qui prenaient une part active aux décisions : la démocratie est alors directe et participative.

On l’oublie souvent : l’idée même que la démocratie puisse être autre chose que participative ne s’est imposée que très récemment, vers la fin du XIXe siècle. Notre Athénien parlerait d’oligarchie élective (en grec, oligos signifie “petit nombre”). Le problème, c’est qu’au fil du temps, les tendances oligarchiques du régime représentatif se sont renforcées aux dépens de son vernis démocratique.

Professionnalisation de la vie politique, reproduction des élites gouvernantes, consanguinité entre sphères politiques et économiques, corruption, creusement des inégalités… La liste est bien connue. Mais il faut plutôt y voir les symptômes que les causes du problème. Ces dernières sont à chercher ailleurs.

Au fil du temps, les tendances oligarchiques du régime représentatif se sont renforcées aux dépens de son vernis démocratique

D’un côté, les gouvernés ne font plus aucune confiance à ceux qui n’ont plus de “représentants” que le nom. De l’autre, les élites gouvernantes, s’il est vrai qu’elles se sont toujours méfiées du « flot de la démocratie »1, ne prennent même plus la peine de s’en cacher. En guise d’illustration, les récentes déclarations de monsieur Juncker (« il ne peut y avoir de choix démocratique contre les traités européens ») ou de madame Merkel, qui préfèrent opposer au nouveau gouvernement grec – démocratiquement élu – le train sans fin des réformes nécessaires.

Comment en sommes-nous arrivés là ? Remontons le temps, vers la fin du siècle dernier, quand le politique a cessé d’être considéré comme l’élément central de la vie en commun.

TINA, TINA, TINA (AD LIB.)2

Je suis né en 1986. J’avais trois ans quand le mur de Berlin est tombé. Deux ans plus tard, l’Union Soviétique s’effondrait, par ce qu’on a voulu nous faire voir comme une sorte de nécessité historique. C’était, paraît-il, la fin de l’Histoire, la vraie. Le triomphe de la lumière de la rationalité – économique, nécessairement économique – sur les ténèbres de l’idéologie.

J’ai grandi dans un monde où il n’y avait pas d’alternative. J’ai grandi dans un monde où la politique pouvait être remisée au placard puisque nous étions désormais placés sous le haut patronage de la Raison économique. Le pilote automatique était enclenché, nous pouvions regagner nos couchettes. Étudiant, je me désintéressais à peu près totalement de la vie politique. Comme beaucoup de gens de ma génération, je n’ai vu dans la politique qu’un enchaînement de combats un peu vains et un empilement sans fin de mesures technocratiques. Dans ce marigot qu’était devenue la vie politique, la gauche était condamnée à devenir une copie vaguement délavée de ses anciens adversaires conservateurs. Se convertir, ou mourir. C’est ce qu’on appelle, paraît-il, un aggiornamento.

LA RAISON (DU PLUS FORT EST TOUJOURS LA MEILLEURE)

There is no alternative, nous répétait sans cesse le nouveau clergé. Cette partition rend de jour en jour un son de plus en plus faux. Je suis entré dans l’âge adulte alors que l’Europe commençait à sombrer. Si la victoire de Syriza en Grèce et celle, probable, de Podemos en Espagne suscitent tant d’espérances au sein d’une jeunesse européenne qui avait fini par se résigner à un siècle de paupérisation et d’humiliation, c’est qu’elle signe le grand retour du politique. Mieux : elle révèle que le politique n’avait jamais disparu, que le pilote automatique n’était rien d’autre qu’un mensonge.

Ce qui passe depuis trente ans pour la marche naturelle des choses n’était en fait qu’un programme admirablement exécuté. Sous la rationalité autoproclamée se cachait bien une idéologie, qu’on l’appelle « économisme » ou « orthodoxie libérale ».

D’un côté, les tenants de la rationalité économique stricte, (…) de l’autre, les peuples européens qui commencent à gronder, enrageant de subir cette étrange condition d’auto-colonisés.

Ce qui nous conduit aujourd’hui à l’aube d’une crise politique majeure. La crise, étymologiquement, c’est ce moment paroxystique où deux issues mutuellement exclusives se cristallisent : la vie, ou la mort. La liberté, ou la sujétion. Bref, les positions se polarisent, et le statu quo ne peut être maintenu. D’un côté, les tenants de la rationalité économique stricte qui se crispent et campent sur leurs positions ; de l’autre, les peuples européens qui commencent à gronder, enrageant de subir cette étrange condition d’auto-colonisés.

L’issue de ce combat est incertaine, mais quelle qu’elle soit, pour le système représentatif, il est à peu près certain que le pronostic vital est engagé. Qu’en sortira-t-il ? Ou bien quelque chose de pire, ou bien quelque chose meilleur.

UNE DÉMOCRATIE POUR NOTRE SIÈCLE

Le système représentatif n’a pas fondamentalement évolué depuis l’époque de la rotative et de la machine à vapeur. La dernière innovation en politique ? 1944 : le droit de vote des femmes. Notre conception du rapport entre gouvernant et citoyen – vertical, hiérarchique – n’a pas changé depuis le siècle dernier : vote tous les X ans et tais-toi le reste du temps.

Dans un monde où chacun est connecté avec tous, où les systèmes participatifs bouleversent la plupart des domaines de notre vie quotidienne, le concept même de représentation est devenu franchement poussiéreux. Quand tout – médias, éducation, finance, etc. – devient peu ou prou participatif, pourquoi le système politique devrait-il, lui, échapper à la règle ?

Une première génération d’outils collaboratifs susceptibles de permettre un début de rééquilibrage entre systèmes participatif et représentatif existe déjà : Avaaz, change.org, LiquidFeedback, Parlement & Citoyens, Democracy OS, Loomio… Il ne s’agit que de simples outils, qui ne suffiront pas seuls à raviver la flamme démocratique. Internet a prouvé par le passé qu’il pouvait être l’instrument de notre émancipation comme celui de notre soumission (voir notamment ici et ici). Nous avons probablement déjà fait quelques pas de trop dans la seconde direction.

C’est dans les marges, à la lisière du politique, qu’une nouvelle vision du monde s’élabore
Le principal obstacle à l’établissement d’une démocratie participative n’est cependant pas technique : il est culturel. Le changement ne viendra ni des formations partisanes du passé, ni des hommes et femmes politiques d’aujourd’hui. C’est dans les marges, à la lisière du politique, qu’une nouvelle vision du monde s’élabore. Faire cadeau d’outils collaboratifs à des gens qui gardent une conception césariste du pouvoir, c’est, comme disaient nos grands-mères, donner de la confiture aux cochons3.

Le vent tourne : le parti espagnol Podemos, le premier, a su intégrer les réseaux sociaux et les modes d’organisation horizontaux pour évoluer vers une forme démocratique participative. Peut-être ne s’agit-il que de premières étincelles d’un embrasement plus vaste ? Il n’y a pas si longtemps, nous nous demandions avec David Graeber si la dette ne jouerait pas le rôle de catalyseur de la prochaine grande révolte. Ce cycle vient peut-être de commencer. Les Grecs ont secoué le joug. Nous sommes sortis de la torpeur dans laquelle les berceuses chantées par les économistes orthodoxes nous avaient plongés. Il est maintenant temps de se lever.

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Notes :

1. Emile Boutmy, fondateur de l’Ecole libre des sciences politiques,mieux connue sous le nom de Sciences Po, écrivait en 1872 :« Contraintes de subir le droit du plus nombreux, les classes qui se nomment elles-mêmes les classes élevées ne peuvent conserver leur hégémonie politique qu’en invoquant le droit du plus capable. Il faut que, derrière l’enceinte croulante de leurs prérogatives et de la tradition, le flot de la démocratie se heurte à un second rempart fait de mérites éclatants et utiles, de supériorités dont le prestige s’impose, de capacités dont on ne puisse pas se priver sans folie »

2. TINA, acronyme de There is no alternative. La formule, attribuée à Margaret Thatcher, signifie que le capitalisme de marché est l’unique voie possible.

3. Ou, comme le dit un proverbe populaire russe similaire : « Invite un cochon à ta table, il posera les pieds dessus »

OUISHARE

vendredi, 27 février 2015

El amor al orden del mundo: saber ancestral en el pensamiento de Simone Weil

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El amor al orden del mundo: saber ancestral en el pensamiento de Simone Weil

por Mailer Mattié

Instituto Simone Weil/CEPRID

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

“Si se quisiera emprenderlo, el camino del pensamiento moderno a la sabiduría antigua sería corto y directo”. Simone Weil (Echar raíces,1943).

“El objeto de la búsqueda no debe ser lo sobrenatural, sino este mundo. Lo sobrenatural es la luz: si hacemos de ello un objeto, lo menoscabamos”. Simone Weil (La gravedad y la gracia, 1934-1943).

La realidad sobrenatural -el orden del universo- iluminó intensamente el pensamiento de Simone Weil, especialmente a partir de 1938 cuando, a los veintinueve años, admitió –como recordó en una carta dirigida a Joë Bousquet en 1942- que, si bien Dios nunca había tenido un lugar en sus reflexiones, una rigurosa concepción cristiana había guiado su vocación: el deseo y la búsqueda de la verdad en relación con los problemas de este mundo; disposición a la que seguramente contribuyó el significado espiritual de su experiencia mística. En 1935, en efecto, mientras observaba profundamente conmovida una fervorosa procesión de humildes mujeres en un pueblo de pescadores en Portugal, según sus propias palabras tuvo la certeza de que el cristianismo era la religión de los esclavos. Dos años más tarde, durante un viaje a Italia visitó en Asís la capilla donde solía orar San Francisco y sintió, por primera vez, la necesidad de arrodillarse. Asimismo, en 1938, en una abadía en Francia, experimentó un éxtasis escuchando los cantos gregorianos que entonaban los monjes, igual que en otra ocasión leyendo el poema Love de George Herbert –algo que solía hacer al sufrir violentos dolores de cabeza-, cuando percibió –según reveló también a Bousquet- una presencia “del todo inaccesible a los sentidos y a la imaginación”.

En medio del desconcierto de quienes conocían su escaso interés por los asuntos religiosos, inclusive respecto a su propia ascendencia judía, Simone Weil incorporó con insistencia a Dios en sus cartas, cuadernos, artículos y ensayos escritos principalmente durante los últimos cinco años de su vida, la mayoría recopilados y editados tras su muerte en títulos fundamentales como Pensamientos desordenados, La gravedad y la gracia o su gran obra Echar raíces. Un Dios auténticamente cristiano, antiguo y ausente, cuyo poder no interviene en el destino de los seres humanos.

Su acercamiento al verdadero cristianismo –en oposición al que llamó cristianismo ficticio vinculado a Roma- no significó, sin embargo, ruptura alguna en referencia a la orientación de su pensamiento. Dio un giro, ciertamente, un movimiento en espiral, imitando la proporción divina de la materia, iluminado por un punto infinitamente pequeño, por la luz sobrenatural, como si procediera de tradiciones ancestrales. Acentuó su tono metafórico y poético sin disminuir la energía y la templanza y, sobre todo, sin perder su inclinación permanente hacia los asuntos prácticos, hacia la acción. Su aguda y penetrante atención –esa singular hazaña-, en fin, se concentró aún más en este mundo.

Al conectar con la matriz del conocimiento humano acerca de lo real -cuya continuidad fue interrumpida por el desarrollo de la sociedad moderna y cuyo origen se pierde en el tiempo-, Simone Weil tendió, sin más, un puente, un metaxu, entre el pensamiento contemporáneo occidental y las vertientes del pensamiento antiguo –desaparecidas casi por completo- que reflejaban la proyección del orden del universo, de la verdad eterna, en la construcción de la vida social y en el destino común de la humanidad. En tal sentido, su obra simboliza el encuentro, un punto de intersección entre el pensamiento moderno y el saber de la antigüedad.

Plantear el problema del arraigo del mundo en el universo -en la realidad real-, la iluminación de lo sobrenatural aquí en la tierra, confiere al pensamiento weileano, indudablemente, el horizonte y la jerarquía legítima de su significado espiritual definitivo. El mismo que, a su juicio, sería posible hallar –si se dispone de un “auténtico discernimiento y utilizando un método de lectura que permita aislar los elementos correspondientes”- no solo entre las diferentes religiones, también en las leyendas, en la mitología, en la alquimia, en ciertas herejías y –añadimos- en la cosmología y cosmovisión de los pueblos indígenas originarios, representación de lo que ella misma denominó el pasado vivo, si bien en constante amenaza de extinción.

A su modo de ver, una misma verdad que brota, como esencia común y con múltiples “acentos de alegría”, en determinadas partes del Antiguo Testamento; entre los pitagóricos y los estoicos en Grecia, cuya concepción del Amor Fati –el amor al orden del mundo- constituía el centro de toda virtud humana; en el Tao Te Ching del filósofo chino Lao-Tse del siglo VI a.C.; en el Bhagavad-Gita –el Canto de Dios- del siglo III a.C.; en el budismo zen; y también –podemos agregar- en el Popol-Vuh –el Libro de la Comunidad del pueblo maya quiché-, o en los relatos orales que atesoran numerosos colectivos indígenas en el continente americano. El problema –decía Weil- es que “estamos ciegos, leemos sin comprender”.

Supuso ella, además –como manifestó en 1940 en una carta dirigida a Déodat Roché-, que había existido una civilización continua, anterior al Imperio romano, entre el Mediterráneo y el Cercano Oriente, común a regiones de Egipto, Tracia, Persia y Grecia que compartieron un mismo pensamiento, expresado en modos distintos, acerca del orden sobrenatural –lo que probablemente sucedió también entre las diferentes civilizaciones destruidas en América por la colonización española-, algunos de cuyos postulados podrían inclusive haber inspirado la obra de Platón. En esa antigua tradición situó igualmente la fuente del cristianismo que practicaron, entre otros, los gnósticos, los maniqueos y los cátaros que desaparecieron en el siglo XIII por la acción violenta del incipiente Estado francés y de la Iglesia.

Civilización que, en su criterio, habría experimentado un débil indicio de resurrección, armonizando con el verdadero espíritu cristiano heredero de la Alta Edad Media, durante el “Primer Renacimiento” en el siglo XV, si bien tal actitud fue breve al imponerse finalmente una “orientación contraria a la auténtica espiritualidad que dio paso a la Europa desarraigada”: la misma que, “estúpida y ciegamente”, “desarraigó al mundo entero imponiendo la fuerza de la conquista”.

II

La sociedad moderna, ajena al orden del cosmos y sin raíces porque ha roto con el pasado significaba para Simone Weil, en consecuencia, un mundo “mal hecho”, una “factoría para producir irrealidad”, un gran problema. El ámbito, en fin, donde la vida de la mayoría de las personas transcurre indiferente al destino humano y la relación con el universo es irrelevante. “No miramos las estrellas –advirtió-; desconocemos, incluso, qué constelaciones pueden verse en el cielo en cada época del año y el sol del que hablan a los niños en la escuela no tiene el menor parecido con el que ven”.

El pasado –señaló- ha sido reducido a las “cenizas de la superstición”, instalándose en su lugar el “veneno de nuestra época”: el fetichismo del progreso y la fantasía de la revolución. Un mundo artificial, además, donde la única forma posible de la relación del individuo con Dios es la idolatría: el Dios del “tipo romano”, a quien se atribuye el poder de intervenir “personalmente” en los asuntos humanos; la religión que el Estado puede o no dejar a la elección de cada uno.

simw2.gifResultado de semejante ausencia de luz en la vida contemporánea es, pues, su desequilibrio y su falta de armonía, de templanza. La desmesura lo inunda todo, reiteró Weil: el pensamiento, la acción, la actividad pública y la vida privada. Un desorden, efectivamente, que genera la pérdida de vitalidad y de autonomía en las comunidades y en las personas; que penetra y degrada todas las relaciones y las actividades humanas, a tal punto que los móviles de la conducta individual -restringidos y rebajados al miedo y al dinero-, la opresión del trabajo asalariado y la educación convierten a la gente en seres deshumanizados, infrahumanos. Asimismo, la comunidad –uno de cuyos fines primordiales es mantener la conexión entre el pasado y el futuro- ha sido destruida en todas partes, suplantada por el Estado-nación: en sus palabras, esa “niñera mediocre a la que hay que obedecer”.

El orgullo que inspira la civilización moderna -difundido por la ideología y la propaganda- solo demuestra, por tanto, el nivel de desarraigo y deshumanización que hemos sido capaces de alcanzar.     Sin la influencia de la verdad sobrenatural, ciertamente, el orden social continuará siendo irrespirable: el tejido de las relaciones sociales, la necesidad del alma que Weil consideró más cercana al destino universal. En consecuencia, debe ser el principal objeto al cual dedicar nuestro mayor esfuerzo de atención; intentar, al menos, aproximarnos a la “situación de un hombre que camina de noche sin guía, aunque sin dejar de pensar en la dirección que desea seguir. Para tal caminante –leemos en Echar raíces- hay una esperanza grande”.

III

La privación del pasado, no obstante, impide que el mundo contemporáneo disponga de una auténtica fuente de inspiración para ordenar el tejido social. Un problema real -aunque indiferente a las preocupaciones de la sociedad moderna- al que Weil, sin embargo, dedicó enorme atención, convencida de la tarea urgente de idear un método que sirviera a los pueblos con esa finalidad; es decir, que permitiera encontrar una inspiración ajena al misterio, expresada en primer lugar de forma verbal para ser convertida luego en acción: algo que exigiría, sobre todo –subrayó-, un “interés apasionado” por la humanidad.

Preocupación, por lo demás, universalmente reconocida en la Antigüedad, si bien dejó de percibirse por completo a partir de la segunda mitad del Renacimiento en Europa. Trescientos años más tarde –apuntó Weil-, en pleno auge del capitalismo industrial en el siglo XIX, ya “el nivel de las inteligencias había caído muy por debajo del ámbito en el que se plantean semejantes cuestiones”. En un mundo ideologizado, por otra parte, donde la propaganda ahoga en fanatismo el pensamiento de los individuos, es imposible el surgimiento de cualquier tipo de inspiración.

La propaganda –sostuvo- es contraria a la inspiración, puesto que si ésta es auténtica –es decir, una verdadera luz, un alto grado de conciencia-, eleva el nivel de atención dirigida a ordenar la realidad: a construir un “mundo bien hecho”, orientado al mejoramiento de los pueblos y el arraigo de las personas. Si la virtud de las leyes que ordenan el universo está ausente en la organización social, entonces todo obedecerá a normas ciegas relacionadas con la fuerza y el poder.

IV

La Creación -la eterna sabiduría por “virtud del amor”, una idea que había embriagado auténticamente a los antiguos en opinión de Weil- constituyó en el pasado, precisamente, una fuente de inspiración de la humanidad en todas partes; la verdad traducida a diferentes sistemas de símbolos para expresar los principios del orden universal a tener en cuenta, cuyo legado ha desaparecido casi por completo, a excepción de los tesoros del “pasado vivo” que aún sobreviven en el mundo.

Motivo de inspiración justamente al ser interpretada como un acto de abdicación. La Creación es descreación, afirmó Weil: “el reino del que Dios se ha retirado”; es gravedad y gracia, generosidad y renuncia. No el mejor mundo posible, sino aquel que contiene por igual todos los grados de bien –la fuente de lo sagrado- y de mal; de luz y de desdicha.

El tiempo, el espacio, el movimiento eterno de la materia, expresan esa separación y muestran, además, que el principio que organiza la Creación es la conformidad: la total obediencia del Universo a Dios; el orden del Cosmos es un modelo perfecto, por su perfecta obediencia al Creador. Conformidad –observó Weil- que se refleja en la belleza del mundo, a la que, sin embargo, hemos dejado de prestar atención, cometiendo así un crimen de ingratitud que bien merece el castigo de la desdicha. La materia –subrayó- es bella cuando obedece no a los humanos, sino a Dios.

Admitió, de hecho, que el pensamiento estoico -originado en los siglos III-II a.C.-, había dominado el mundo antiguo hasta el Lejano Oriente, cuando floreció la idea de que el universo era solo obediencia perfecta. Para los griegos, por ejemplo, extasiados al encontrar en la ciencia la maravillosa confirmación de esa obediencia, el círculo representaba el movimiento en el que nada cambia; y en la India, la palabra “equilibrio” era sinónimo del “orden del mundo” y de “justicia”.

Como seres inteligentes, entonces, tenemos ciertamente la opción de aceptar o no la verdad de esa obediencia, aun cuando –decía Weil-, es posible aprender a sentirla en todas las cosas, como se aprende a leer o se aprende un oficio que exige atención, esfuerzo y tiempo.

La sociedad contemporánea, desde luego, ignora la distancia a la que nos encontramos de Dios: un verdadero bien, una ausencia que debe ser amada y que constituye, a la vez, un puente, un metaxu, entre el mundo moderno y la Antigüedad. Weil atribuyó, en consecuencia, los errores de nuestra época precisamente al declive de la influencia de la verdad sobrenatural en el orden social. Huérfana del pasado, en el siglo XVIII, en efecto, la sociedad podía admitir únicamente el ámbito de las cosas humanas; exactamente la razón por la que en 1789 se pretendió instaurar principios absolutos a partir de la noción de derecho, obviando por completo el significado de las obligaciones. En su opinión, una contradicción que generó la confusión del lenguaje y del pensamiento, presente, cada vez con mayor fuerza, en todas las esferas de la vida política y social contemporánea prisionera de la reivindicación. El punto de partida, en fin, de un mundo mal hecho.

Ignorar la verdad eterna significa, en realidad, vivir en la fantasía y el sueño, en la idolatría. Por tanto, el centro del orden del mundo se sitúa en los medios convertidos en fines como la ciencia, la economía, la técnica y el Estado –algo que la gente encuentra completamente natural-, o en aquellos individuos que simbolizan el poder y la fuerza como Napoleón, Hitler o Stalin, entre tantos. Si, además, se atribuye convenientemente al Creador cualidades semejantes para intervenir en este mundo, poco importa –afirmó Weil- en cuál Dios se cree.

simw3.jpgUn “mundo bien hecho”, al contrario, sería una “metáfora real” del orden universal; solo la gracia –la luz sobrenatural, aseguró Weil- puede propiciar el fracaso de la fuerza, de la gravedad: convertir la Creación en objeto de perfecta atención y de amor mediante el trabajo, la ciencia, el arte, la técnica y la educación, considerados auténticos medios para sustituir la ficción del dominio ilimitado sobre la naturaleza por la obligación de obedecerla.

La descreación, la ausencia de Dios, pues, es un privilegio que nos permite reconocernos como co-creadores: es decir, como seres que pueden disponer del don de la libertad para hacer que lo que está aquí abajo se parezca a lo que está allí arriba.

Con el objeto de intentar restablecer la antigua vocación de imitar en la vida social el orden del cosmos, Weil exhortó, en consecuencia, sobre la necesidad de precisar científicamente las relaciones entre el ámbito de lo humano y la órbita de lo sobrenatural. Tarea, por lo demás, a la que atribuyó gran dificultad y cuyo significado precisó en encontrar de nuevo el “pacto original entre el espíritu y el mundo” en la civilización actual: la única posibilidad para evitar que lo social destruya por completo al individuo, puesto que corremos el riesgo –admitió- no solo de desaparecer como especie, sino inclusive de no haber existido jamás.

En la Creación –puntualizó también-, todo está sometido a un método, incluyendo las pautas para la intersección entre este mundo y el otro. En tal sentido, el orden superior puede ser representado en el orden inferior solamente por un punto infinitamente pequeño; gráficamente, la imagen mostraría un punto de contacto entre un círculo y una línea tangente para expresar la sumisión, la obediencia y el amor en el mundo al orden del universo, lo que denominó una “monarquía perfecta”.

Dicha obediencia, por otra parte, sería igualmente manifestación del equilibrio perfecto que anula el poder, la fuerza y la idolatría, dado que el orden social que podría surgir a la luz del espíritu de verdad -de la energía de la verdad sobrenatural-, no sería otra cosa que un equilibrio entre diferentes elementos, armonía cuya naturaleza es la complementariedad de los contrarios, tal como sugiere el movimiento eterno de la materia.

Weil argumentó en 1943, además, que en la construcción de un orden semejante, el Estado estaría llamado a ejercer apenas una acción negativa; es decir, una ligera presión para impulsar el equilibrio. Se trataría, en todo caso, de lo que podríamos llamar un no-Estado, algo que cada vez debería ser más anhelado.

Lo cierto es que, en determinados momentos de la Antigüedad, sin la influencia del orden sobrenatural, la humanidad no habría sido capaz de producir en el mundo aquello que Weil denominó “auténtica grandeza” en el arte, en la ciencia, en el pensamiento y en la vida social en general. No obstante, en la actualidad, en esos mismos dominios persiste lo contrario; es decir, la falsa grandeza que amenaza la esperanza de la humanidad.

V

En Abya Yala –el continente americano-, diversas comunidades indígenas, herederas de antiguas civilizaciones, han conseguido mantener, a pesar de la firmeza de la violencia, diferentes expresiones de una misma y ancestral percepción sobre la creación del mundo que incluye, en términos generales, la antigua idea de la ausencia, del retiro de Dios, a quien solo se advierte a través de su obra.

simw4.gifLa noción de descreación testifica, de esta forma, el sorprendente y prodigioso encuentro del pensamiento weileano con antiguas cosmovisiones, cuyo origen se remonta a cinco mil años, aproximadamente, por ejemplo entre los pueblos que habitaron las regiones de América Central o el Altiplano andino y el territorio del Tahuantinsuyo que comprendía gran parte de América del Sur. Un conocimiento, en efecto, que refleja la iluminación sobrenatural en el mundo, traducido a símbolos milenarios como la chakana de los quechuas y aymaras en los Andes -una escalera de cuatro lados que representa los puentes, la unión entre el mundo de los humanos y lo que está arriba, cuya antigüedad se calcula en cuatro mil años-, o el kultrún mapuche –un tambor ancestral utilizado en rituales sagrados de medicina o fertilidad; constituye una representación del universo, los puntos cardinales, las estaciones y en el centro la Tierra-.

Sabiduría ancestral que contempla, asimismo, las motivaciones que deben encauzar la conducta de los individuos, la práctica social y las pautas de intersección no solo entre este mundo y el otro, también con el pasado. Un método, un modelo permanente de inspiración que contiene a su vez las indicaciones para ser transmitido en el tiempo a todas las generaciones, de tal forma que puedan integrar la obligación de cuidar la Creación como manifestación máxima de amor y de obediencia a un Creador que es también el instructor, el guía ausente.

Según la cosmovisión del pueblo Wiwa -en la Sierra Nevada de Santa Marta en Colombia- por ejemplo, los padres del Universo crearon igualmente La Ley de Sé o Ley de Origen, los mandatos que orientan a la población en su obligación de proteger la vida y el territorio; es decir, las pautas de comportamiento individual y social de las personas, cuya interpretación exige el conocimiento y la intervención de las jerarquías y autoridades legítimas de la comunidad, principalmente de los ancianos.

En el pensamiento indígena, además, la Creación posee un significado evolutivo que contiene al mismo tiempo una advertencia. Los dioses crean y destruyen una vez tras otra, hasta conseguir formar seres auténticamente humanos; es decir, aptos para cuidar obedeciendo –en la tradición oral del pueblo Hopi de Norteamérica, por ejemplo, desobedecer las instrucciones de Konchakila, el Gran Espíritu, supone arriesgarse a perder su identidad y su nombre cuyo significado es “ser pacífico”-. Según la comunidad de que se trate, el relato difiere en relación con las etapas de la Creación que pueden ser dos, tres o cuatro en cada caso.

El Popol-Vuh reúne al respecto los elementos centrales de la narración más extendida entre los pueblos descendientes de los antiguos mayas, cuya tradición oral coincide diferenciándose apenas en alguna variación. El fraile dominico Francisco Ximénez descubrió el manuscrito original en Chichicastenango-Chuilá, Guatemala, alrededor del año 1700 –al parecer, el único que fue rescatado de la destrucción durante la conquista española- y lo tradujo al castellano, texto del cual se hizo luego una versión en francés. Es un relato cosmogónico inspirado probablemente en antiguos códices del pueblo maya-quiché, conocido en su lengua también como Saq Petenaq Ch’aqapalo: La ley que vino desde el mar.

La narración constituye una alegoría de la Creación como obra colectiva, aun cuando la indefinición acerca de sus autores es constante. Como señala Milton Hernán Bentacor -en “Dios, dioses y diositos. Una lectura de la primera parte del Popol-Vuh en comparación con los primeros capítulos del Génesis”, interesante artículo publicado en 2012-, resulta imposible saber si los Creadores son solo Tepeu y Gucumatz, si cumplen instrucciones de una deidad más poderosa como Hurakán o si son simplemente quienes organizan un trabajo conjunto con otros dioses que permanecen ausentes: como si, en realidad, no se quisiera identificar, precisar, la figura del verdadero Creador.

Tepeu y Gucumatz, en efecto, actúan como aprendices –señala Hernán Bentacor-, como deidades menores: se equivocan, discuten, dudan y piden auxilio a otros dioses. Crean primero la tierra, los vegetales, los animales y las montañas; luego, a los distintos seres cuyo destino es honrar y obedecer a quien los ha creado. Así, inicialmente aparecen los seres de barro, imperfectos porque no podían hablar, ni caminar; después, aquellos de madera que hablaban y caminaban, aunque no tenían memoria y, por tanto, no recordaban quién los había creado; finalmente, tras un destructor diluvio de lluvia negra, fueron modelados -con ayuda de las plantas y de los animales- los seres de maíz, de figura humana, dotados de gran inteligencia, hablaban, razonaban, veían, escuchaban y caminaban: es decir, seres dispuestos para honrar y obedecer a un Creador impreciso, lejano.

En la tradición aymara-quechua, por otra parte, existen también diversas versiones de un mismo relato original. En el principio solo existía Wiracocha, quien primero creó a los animales; luego esculpió en piedra seres gigantes y los llamó Jaque (hombres) y, más tarde, a la mujer y la nombró warmi, ordenándoles poblar el Altiplano andino. Wiracocha se dirigió entonces a una montaña muy alta y dispuso las costumbres y las maneras de vivir, aunque aún el universo no tenía luz. Los seres gigantes, sin embargo, desobedecieron las instrucciones y el Creador decidió destruirlos provocando un diluvio -el Unu Pachakuti, el agua que transformó el mundo-; convirtió en estatuas a los que sobrevivieron, dejándolos en grutas y en los cerros. Al diluvio sobrevivió también un puma, cuyos ojos dorados brillaban en medio del lago Titikaka.

Tiempo después, Wiracocha emergió del lago y transformó los ojos del puma en el sol y en la luna. Se dirigió a Tiwanaco y mezclando con agua y barro del Titikaka a los gigantes que había petrificado, creó hombres y mujeres de menor estatura, la nueva humanidad. Les dio vestidos, nombres, instrumentos agrícolas, les enseñó las lenguas, las costumbres, las artes y les transmitió leyes justas para que pudieran cuidar la Creación. Cuando Manco Capac –el primer Inca- fundó Cuzco –el ombligo del mundo, la ciudad más bella del Tahuantinsuyo-, Wiracocha desapareció: se dirigió al Oeste -al Manqhe Pacha-, donde se pierden las aguas y termina la vegetación, el desierto, el lugar de la oscuridad a dónde van los muertos.

En estos relatos ancestrales, por otro lado, coincide también la referencia al diseño y la estructura del Universo. La principal característica es la relación permanente –la intersección- del mundo de los humanos con el dominio de lo sobrenatural.

Entre los pueblos mayas, por ejemplo, se concibe el Universo formado por tres planos superpuestos; la Tierra aparece en equilibrio entre el plano celeste y el inframundo –de donde manan las semillas y el agua, los bienes que sostienen la vida-. Las pirámides probablemente simbolizan la comunicación entre los tres planos. El movimiento de los astros y principalmente del sol orientaba, de hecho, la posición en el espacio de las ciudades más importantes y de los templos.

Según la cosmovisión andina, Wiracocha dividió el Universo en lugares opuestos y complementarios. El Alax Pacha -el mundo de arriba donde están el sol, la luna y las estrellas- y el Manqha Pacha -el mundo de abajo donde mora el pasado-; entre ambos, el Aka Pacha de los humanos.

El futuro, en efecto, constituye para los quechuas y los aymaras un regreso al pasado; en consecuencia, la vida humana transcurre a través de ciclos. Así, cada quinientos años, aproximadamente, se produce una transformación –el Pachakuti- que da paso a un nuevo período. Entonces, el mundo de abajo –el pasado- retorna al Aka Pacha y el ciclo se reinicia.

El pasado se piensa, pues, como un espacio-tiempo –el Pacha-; forma parte del orden del mundo, de su equilibrio: en realidad, no puede ser destruido, dado que el movimiento del tiempo es circular, igual que en el Cosmos.

Además de la tradición oral, los rituales y el calendario han permitido igualmente a los pueblos indígenas conservar y transmitir la memoria ancestral. El calendario conmemora el movimiento eterno del universo, registrando los cambios en el ámbito sobrenatural y en el de los humanos. En los rituales, la música, la danza, el vestido, los alimentos y la bebida se juntan para celebrar la fertilidad de la tierra y la vida comunitaria; para conmemorar el pasado y revitalizar las costumbres y los valores que fortalecen el orden social. Instrumentos, en fin, que fomentan el arraigo de las personas y de la comunidad en el mundo y en el universo.

VI

¿De dónde podría surgir un Renacimiento capaz de transformar el mundo moderno? –Se preguntó Simone Weil-. El equilibrio y la armonía pueden venir solo del pasado –precisó-, siempre que lo amemos. A su juicio, la vida cotidiana –individual y social- tendría que convertirse en una parábola; es decir, en un relato con un profundo significado espiritual. Por tanto, únicamente el pensamiento antiguo podría hacer fluir “la savia de la vida” en todos los lugares del planeta.

Sin el reflejo de la verdad sobrenatural en el orden del mundo, efectivamente, no son posibles las formas de organizar la vida colectiva de acuerdo a los principios de legitimidad, de obligación y de obediencia: la antigua noción de colectividad que incluye a los vivos, a los antepasados y a los que nacerán en los próximos siglos. Un modo de existencia social, pues, que hunde sus raíces en el pasado y penetra en el futuro; el lugar donde puede custodiarse el legado de los ancestros -principalmente la conciencia del destino de la especie humana, en relación con la obligación de mantener el equilibrio en el mundo- y donde puede ser transmitido a las generaciones. Desarrollar el arraigo en una sociedad “bien hecha” conduce, por tanto, a la recuperación de lo auténticamente humano.

En medio de la situación de desarraigo en la que transcurre la vida social contemporánea, entonces, solo es posible encontrar auxilio en aquello que Weil denominó los “islotes del pasado” conservados vivos sobre la tierra. Por ello advirtió sobre la necesidad de preservarlos donde quiera que estén –“en París o en Tahití”-, porque cada vez quedan menos en el planeta. El futuro está vacío –escribió- y para construirlo no hay otra savia que los tesoros que nos lleguen del pasado.

Fuente: CEPRID

jeudi, 26 février 2015

Qu'est-ce que le totalitarisme?

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QU’EST-CE QUE LE TOTALITARISME?

 
Jan Marejko
Philosophe, écrivain, journaliste
Ex: http://www.lesobservateurs.ch

Un système totalitaire n'a rien à voir avec une dictature. L'oppression s'y exerce beaucoup plus sur les âmes que sur les corps. On ne peut pas en repérer la source. Le pouvoir est partout et nulle part. Il n'agit pas par le biais des lois mais par celui d'une norme. Il promet le bonheur pour tout le monde. La servitude y est volontaire et non imposée. Chacun participe à son propre anéantissement.

C'est surtout par une réflexion sur la différence entre norme et loi qu'on saisit le mieux la nature d'un régime totalitaire. Pour une fois, j'ai apprécié un texte de Michel Foucault sur cette différence. La loi sanctionne des actes, des crimes, du concret. Une norme est intériorisée et ne nous lâche pas une seconde parce qu'elle pénètre dans notre intimité. C'est une norme qui nous fait nous sentir coupables, malheureux et comme il se doit, anormaux. Cette distance intérieure entre moi (qui suis raciste par exemple) et le moi que je devrais être (antiraciste) pour être conforme à la norme, est infranchissable. Tous les jours, comme Sisyphe,  je dois me gifler parce que je ne suis pas tout à fait comme je devrais être. J'ai eu une réaction hostile devant un Asiatique ou un Africain et, paf, une gifle !  On souffre beaucoup et certains se disent qu’en devenant franchement racistes, ils ne souffriraient plus. C’est une dangereuse illusion.

C’est une illusion parce qu’à vouloir éliminer toute norme, on se retrouve dans un labeur aussi infini que celui visant la conformité à une norme. On retrouve ici le fameux slogan de mai 68 : il est interdit d'interdire. Or, ce n'est pas aussi simple. Même ceux qui veulent vivre hors normes doivent bien reconnaître cette norme puisqu'ils veulent s'en démarquer. Lorsque les normes règnent sur les esprits, on peut soit s'efforcer d'être normal, soit s'efforcer d'être anormal. Dans un cas comme dans l'autre on vise à s'anéantir, soit parce qu'on devient une copie conforme, soit parce qu'en se situant hors de la normalité, on cesse d'exister. Alors, être ou ne pas être ? Au royaume de la norme ou, ce qui revient au même, en régime totalitaire, on est prisonnier d’une affreuse alternative.

Dans une société où les normes sont toutes-puissantes, le pouvoir n'a presque plus à s'exercer. Étrange pouvoir qui ne nous est pas extérieur mais réside dans nos entrailles. Les individus qui ont mal intériorisé une norme, il faut les corriger ou, pour mieux dire, les réintégrer ou les rééduquer. Comme on sait, les camps de rééducation ont abondé et sont loin d'avoir disparu. Dans une société normée ou totalitaire,  l'autorité n'a plus de sens parce que la grande affaire est de normaliser ceux qui sont restés anormaux : les criminels par exemple qui ne sont plus guère punis par des lois mais réintégrés lorsqu'ils ont avalé les normes requises.

Ce qui est visé à travers cette normalisation, c'est un parfait fonctionnement de tout et de tous. Cette visée provoque nécessairement une violence latente ou explicite. Personne n'accepte volontiers de devenir une chose qui fonctionne bien, parce qu'accepter cela c'est accepter de n'être plus rien, sans substance, vide. Certains, il est vrai, peut-être la majorité, souhaitent n'être plus rien, s'imaginant que le poids de la vie disparaîtrait alors avec l’agenda parfaitement huilé d’un workaholic.

Plus les normes prennent le pas sur les lois, plus grande est la tentation de la violence, surtout chez les jeunes dont les entrailles n'ont pas encore accepté toutes les normes. Sans compter qu'ils savent confusément qu'en devenant normaux, ils cesseraient d'exister. Si la condamnation du racisme se fait à partir d'une norme antiraciste et non d'une loi, la tentation de devenir raciste pour échapper à la normalité antiraciste augmentera. De même, plus on dit qu'être normal c'est être heureux, plus grande sera la tentation de chercher le malheur dans des mutilations ou des scarifications. Dire aux potentiels djihadistes qu'ils seront malheureux sous les drapeaux de Daech, c'est les encourager à partir pour la Syrie.

A ce point, on aura deviné que le totalitarisme n'est pas seulement derrière nous, mais aussi parmi nous. Il serait temps de réaliser que les injonctions à être heureux sont du même ordre que les promesses d'un nouveau royaume ou, pour mieux dire, d'un Jardin d'Eden. Les sectes promettant un tel royaume ou un tel jardin ont toujours abondé. Elles ont souvent recommandé d'exterminer tous ceux qui n'y croyaient pas, le nazisme restant ici un modèle indépassable.

A partir de ces considérations on trouve une définition assez simple de la liberté. Elle consiste à refuser deux tentations : celle du retour à un âge d'or (l’état de nature de Rousseau) et celle d'un grand élan révolutionnaire promettant lui aussi, mais dans le futur, la même existence édénique que les soi-disant béatitudes du passé. Le Christ a bien fait de ne placer ses béatitudes ni dans le passé, ni dans le futur. Le vrai bonheur n'est pas dans le temps ou, pour mieux dire, il s'en échappe, comme les parfums s'échappent des fleurs.  C'est en apprenant à respirer ces parfums qu'on échappe aux tentations totalitaires.

Jan Marejko, 19 février 2015

dimanche, 22 février 2015

Populisme : et si les demeurés de l'Europe n'étaient pas ceux que l'on croit ?

Populisme : et si les demeurés de l'Europe n'étaient pas ceux que l'on croit ?

Ex: http://www.atlantico.fr

Chantal_Delsol.jpgLe « populisme » évoque un courant d'opinion fondé sur l'enracinement (la patrie, la famille) et jugeant que l'émancipation (mondialisation, ouverture) est allée trop loin. Si le « populisme » est d'abord une injure, c'est que ce courant d'opinion est aujourd'hui frappé d'ostracisme. Cet ouvrage a pour but de montrer sur quoi repose cet ostracisme, ses fondements et ses arguments. Et les liens entre le peuple et l'enracinement, entre les élites et l'émancipation. Extrait de "Populisme - les demeurés de l'Histoire", de Chantal Delsol,édité aux éditions du Rocher (1/2).

Bonnes feuilles

Il me semble que le désamour entre les centres et les périphéries est homothétique du désamour entre les élites et les peuples. Des deux côtés, même écart culturel qui avec la modernité s’analyse comme un écart moral et vient échouer dans la relation condescendance/ ressentiment. Même rébellion finalement chez les méprisés qui traduisent leur position, jugée inférieure ou retardataire, comme une opinion, pas moins cohérente que d’autres.

Les centres ont déployé des idéaux et des idoles pour les envoyer rayonner dans l’ensemble du cercle imaginaire, et jusqu’aux confins. Ils ont éduqué les élites des confins pour le meilleur et pour le pire. Ils ont servi d’exemples, rêves et cauchemars mêlés. Ainsi les centres européens (Londres, Berlin, Paris) se confèrent-ils à eux-mêmes une vocation de découvreurs, peut-être usurpée. Quand les centres, où s’était concoctée l’idée d’unification européenne, ont mis en oeuvre l’élargis-sement de l’Europe institutionnelle, il s’agissait pour eux de s’adjoindre des périphéries considérées comme « en retard » dans la marche au progrès.

Ces périphéries étaient supposées désireuses de faire un pas en avant, de se moderniser à tous égards, avec l’aide bienveillante des centres. Se moderniser, autrement dit avancer vers le progrès et les Lumières : cette démarche n’a pas seulement une connotation économique, mais aussi morale. Les centres européens ont pensé qu’ils allaient aider les périphéries à améliorer leur niveau de vie, mais aussi les aider à abandonner des moeurs devenues indésirables avec la marche du temps : les périphéries devraient par exemple accepter la libéralisation des moeurs, repousser la religion dans la seule sphère privée, et en tout cas, devenir en toute chose les admirateurs des centres et non leurs contradicteurs, car les centres ne se voient pas en égaux, mais en guides. C’est ce qui explique la dureté des phrases de Jacques Chirac à l’adresse des pays du centre-est : ceux-ci auraient dû imiter les centres, et non pas revendiquer une liberté de parole et d’action.

Aujourd’hui une grande méfiance s’est instaurée face à l’élargissement, et l’on entend partout en Europe occidentale que l’élargissement a été trop rapide, que l’on n’a pas assez réfléchi, qu’il aurait fallu attendre davantage, voire même qu’il faudrait revenir à un « noyau dur » composé des quelques pays occidentaux dans lesquels l’idée de l’Europe institutionnelle a germé juste après guerre. Cette méfiance répond naturellement à une crainte de devoir partager matériellement le bien-être occidental avec un grand nombre de pays moins favorisés (comme on le sait, les Occidentaux sont assez matérialistes, donc peu portés au partage du bien-être). Mais cette méfiance répond aussi, pour une large part, à la crainte de voir des pays moins « avancés » dans la marche aux Lumières gagner de l’influence en ce qui concerne la définition de la « bonne vie ». Autrement dit, les Occidentaux ont le sentiment que l’élargissement, en incluant des provinces périphériques, pourrait faire reculer l’Europe tout entière dans sa marche au Progrès. Car ces périphéries, comme disait Mauriac à propos des provinces, « croient encore au bien et au mal, gardent le sens de l’indignation et du dégoût ». Autrement dit, à l’égal des provinces par rapport à la capitale, elles sont plus attachées aux traditions et plus défiantes face à des changements dont les centres se font les champions. Nul doute, par exemple, qu’une loi autorisant l’euthanasie, déjà votée en Hollande, s’instaurera plus facilement en Espagne ou en France qu’en Pologne ou en Roumanie. Il suffit de lire la presse occidentale vociférant sur les opinions irlandaise ou polonaise à propos de l’IVG, pour apercevoir l’expression de ce qui est vu comme une menace : le traditionalisme des périphéries.

Les périphéries de l’Europe, comme les provinces au sein d’un même pays, tiennent davantage que les centres au maintien des cultures héritées, et si elles acceptent bien le progrès (qui ne l’accepterait pas ?), elles refusent le plus souvent d’adopter des transformations avant d’en avoir mûrement réfléchi les conséquences. Il est clair qu’aujourd’hui, avec le déplacement de l’Europe élargie vers l’Est, la Pologne met tous ses efforts à faire de Varsovie un nouveau centre européen. Varsovie (ou le duo Varsovie/Cracovie) deviendrait alors une métropole assez différente de Berlin ou de Paris, au sens où elle enverrait l’écho d’une autre interprétation des droits de l’homme et de la post-modernité.

Ces deux pôles, qui symbolisent le paradoxe entre le particulier et l’universel, ont réciproquement besoin l’un de l’autre. Il n’y a pas seulement des centres qui tirent vers les Lumières des périphéries passéistes et trop récalcitrantes. Il y a aussi des périphéries habitées d’anciennes sagesses capables de domestiquer le progrès et d’en limiter les perversions. C’est pourquoi on ne peut approuver sans réflexion la volonté de domination des centres qui s’instituent trop facilement détenteurs du Bien. L’histoire avance sans doute à l’instigation des centres. Mais ce sont les périphéries qui peuvent dresser des barrières au bord des gouffres.

Extrait de "Populisme - les demeurés de l'Histoire", de Chantal Delsol,édité aux éditions du Rocher, 2014. Pour acheter ce livre, cliquez ici.


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samedi, 21 février 2015

Les nouveaux paradigmes du politique

Les nouveaux paradigmes du politique

par Claude BOURRINET

 

bigmother.jpgLes conflits virulents qui ont troublé la vie politique ces deux dernières années ont semblé ranimer la vieille dichotomie entre « gauche » et « droite ». Ne s’agirait-il pas d’une illusion engendrée par la persistance, dans le champ de l’imaginaire idéologique, de réflexes désuets?

 

La postmodernité présente, en effet, plusieurs caractéristiques. Elle se caractérise d’abord par une déréalisation de l’humain, conséquence d’une destruction méthodique des liens fondamentaux qui produisent les appartenances, autrefois considérées comme naturelles, et qui ont été laminées par le libéralisme triomphant, le culte de l’individualisme, du consumérisme, un hédonisme dissolvant, et les progrès de la techno-science. L’humain est comme hors sol, seulement capable de s’attacher à des repères qu’il croît pouvoir se donner. On sait combien, du reste, l’homme ignore quelle histoire il fait, pour peu que l’Histoire soit encore possible.

 

L’évolution de plus en plus accélérée des mœurs, qui a fait passer une société de son statut patriarcal, autoritaire, hiérarchique, à une société clitocratique, maternalisante, infantilisante, émolliente, transforme toute revendication sociopolitique en caprice puéril, en défense d’intérêts particuliers, ou en jeu. Dans le même temps, l’État, qui n’est plus qu’une centrale de management sociétal, et, subsidiairement, un organisme à réprimer toute contestation de l’ordre existant, ne détient plus de puissance que ce que les instances supranationales veulent bien lui laisser. S’emparer de l’Élysée, quelle importance?

 

C’est comme si la vie politique avait été vidée de sang et de sens. Le personnel d’État, qui siège dans les organismes pour la plupart créés sous le Premier Empire, ne sont plus que des machines à projeter des effets d’annonces. On suscite ainsi des réactions, on joue avec les étiquettes, avec des mots chargés de connotations fortes, on manipule des émotions, on provoque de pseudo-événements, dérisoires, qui occupent les consciences. Et, in fine, les concepts de gauche et de droite ne signifient plus grand chose.

 

D’un point de vue géopolitique, un système unique, celui du capitalisme, semble s’imposer. Certes, l’on sait que les États-Unis, acteurs déterminants de cette conquête du marché à l’échelle mondiale, rencontrent des résistances. Cependant, la question est de savoir si ses adversaires incarnent une alternative au libéralisme, auquel cas ils devraient rompre avec le modèle libéral, pour retrouver des racines anciennes, ou bien des alter-libéralismes, des manières différentes de gérer le capitalisme.

 

On voit donc que les enjeux, qui paraissaient clairs il y a cinquante ans, où des systèmes antithétiques s’affrontaient, sont maintenant singulièrement brouillés.

 

Restent des problèmes irréductibles, qu’il est difficile de surpasser, les dangers que présentent l’évolution démographique mondiale, partant les migrations, l’épuisement des ressources énergétiques, la destruction de la nature, la précarisation des société, l’éradication des identités, le ravalement de l’humain à l’état de chose.

 

Cependant, l’homme étant, selon les mots de Dostoïevski, un « animal qui s’habitue à tout », il n’est pas certain que souffrance, désespoir et même l’espoir, aboutissent à une hypothèse de changement radical. Le post-nihilisme a vidé le monde de tout sentiment de la véritable altérité, donc de toute imagination. Le seul rêve permis est celui d’une adaptation heureuse à l’aliénation.

 

Du reste, depuis que l’homme a décidé, au seuil de la modernité, à la Renaissance, que le seul univers possible était le sien, qu’il était le centre du Cosmos, il s’est enfermé dans une prison conceptuel et existentiel.

 

La Révolution est, littéralement, un décentrement de l’individu, un retour aux sources premières de l’Europe spirituelle, à l’assomption de notre Terre natale.

 

Claude Bourrinet

 

• D’abord mis en ligne sur Cercle non conforme, le 9 novembre 2014.

 


 

Article printed from Europe Maxima: http://www.europemaxima.com

 

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vendredi, 20 février 2015

Jean-Claude Michéa: «Si l’on pense sans peur, on ne peut être politiquement orthodoxe»

Jean-Claude Michéa: «Si l’on pense sans peur, on ne peut être politiquement orthodoxe»

 
Ex: http://fortune.fdesouche.com
 
Entretien avec Jean-Claude Michéa qui occupe une place à part dans la pensée critique contemporaine: le philosophe montpelliérain s’est fait connaître en réhabilitant le socialisme populaire, anticapitaliste et anti-autoritaire d’Orwell, se tient loin des médias, loue les vertus du football, affectionne le populisme, tance l’Université et éreinte à l’envi les intellectuels de la gauche plus ou moins radicale.

Rixes et noms d’oiseaux : Lordon, Corcuff, Halimi, Boltanski, Fassin, Garo et Amselle (rien moins) ont ferraillé contre celui, désormais proche des mouvements décroissants, qu’ils accusent de ravitailler la droite réactionnaire. Michéa semble s’en moquer éperdument, amusé, peut-être, à l’idée de scandaliser ceux qu’il assimile à la gauche « bohème » et « petite-bourgeoise » autant qu’à l’extrême gauche « culturelle ».

Le penseur prise les phrases aux allures de piques: il arrive que l’on se perde en chemin mais son œuvre a le mérite de saler les plaies d’une gauche qui, trop souvent, a rompu les ponts avec les classes populaires.

Vous venez du PCF et possédez, à la base, une formation marxiste. Comment en êtes-vous venu à vous intéresser à ces « frères ennemis », pour reprendre la formule de Guérin, que sont Bakounine, Proudhon, Rocker, Camus, Durruti, Voline, Goodman, Louise Michel, Albert Thierry, Chomsky, Landauer, James C. Scott ou Graeber, que vous ne cessez de citer au fil de vos textes ?

Bien des problèmes rencontrés par le mouvement anticapitaliste moderne tiennent au fait que le terme de « socialisme » recouvre, depuis l’origine, deux choses qu’il serait temps de réapprendre à distinguer.

Il s’applique aussi bien, en effet, à la critique radicale du nouvel ordre capitaliste issu des effets croisés de la révolution industrielle et du libéralisme des Lumières qu’aux innombrables descriptions positives de la société sans classe qui était censée succéder à cet ordre, qu’il s’agisse du Voyage en Icarie de Cabet, du nouveau monde sociétaire de Charles Fourier ou de la Critique du programme de Gotha de Karl Marx.

Or il s’agit là de deux moments philosophiquement distincts. On peut très bien, par exemple, accepter l’essentiel de la critique marxiste de la dynamique du capital (la loi de la valeur, le fétichisme de la marchandise, la baisse tendancielle du taux de profit, le développement du capital fictif etc.) sans pour autant souscrire – à l’instar d’un Lénine ou d’un Kautsky – à l’idéal d’une société reposant sur le seul principe de la grande industrie « socialisée » et, par conséquent, sur l’appel au développement illimité des « forces productives » et à la gestion centralisée de la vie collective (pour ne rien dire des différentes mythologies de l’« homme nouveau » – ou artificiellement reconstruit – qu’appelle logiquement cette vision « progressiste »).

C’est donc l’échec, rétrospectivement inévitable, du modèle « soviétique » (modèle qui supposait de surcroît – comme l’école de la Wertkritik l’a bien montré – l’occultation systématique de certains des aspects les plus radicaux de la critique de Marx) qui m’a graduellement conduit à redécouvrir les textes de l’autre tradition du mouvement socialiste originel, disons celle du socialisme coopératif et antiautoritaire, tradition que l’hégémonie intellectuelle du léninisme avait longtemps contribué à discréditer comme « petite-bourgeoise » et « réactionnaire ».

« C’est avant tout la lecture de Guy Debord et de l’Internationale situationniste (suivie de celle d’Orwell, de Lasch et d’Illich) qui m’a rendue possible cette sortie philosophique du modèle léniniste. »

J’ajoute que dans mon cas personnel, c’est avant tout la lecture – au début des années 1970 – des écrits de Guy Debord et de l’Internationale situationniste (suivie, un peu plus tard, de celle de George Orwell, de Christopher Lasch et d’Ivan Illich) qui m’a progressivement rendue possible cette sortie philosophique du modèle léniniste.

Les analyses de l’I.S. permettaient à la fois, en effet, de penser le capitalisme moderne comme un « fait social total » (tel est bien le sens du concept de « société du Spectacle » comme forme accomplie de la logique marchande) et d’en fonder la critique sur ce principe d’autonomie individuelle et collective qui était au cœur du socialisme coopératif et de l’« anarcho-syndicalisme ».

Et cela, au moment même où la plupart des intellectuels déçus par le stalinisme et le maoïsme amorçaient leur repli stratégique sur cet individualisme libéral du XVIIIe siècle – la synthèse de l’économie de marché et des « droits de l’homme » – dont le socialisme originel s’était précisément donné pour but de dénoncer l’abstraction constitutive et les implications désocialisantes.

Mais, au fond, on sent que la tradition libertaire est chez vous une profonde assise morale et philosophique bien plus qu’un programme politique (pourtant présent, aujourd’hui encore, dans tous les mouvements anarchistes constitués de par le monde). Quelles sont les limites théoriques et pratiques que vous lui trouvez et qui vous empêchent de vous en revendiquer pleinement ?

C’est une question assurément très complexe. Il est clair, en effet, que la plupart des anarchistes du XIXe siècle se considéraient comme une partie intégrante du mouvement socialiste originel (il suffit de se référer aux débats de la première internationale).

Mais alors qu’il n’y aurait guère de sens à parler de « socialisme » avant la révolution industrielle (selon la formule d’un historien des années cinquante, le « pauvre » de Babeuf n’était pas encore le « prolétaire » de Sismondi), il y en a clairement un, en revanche, à poser l’existence d’une sensibilité « anarchiste » dès la plus haute Antiquité (et peut-être même, si l’on suit Pierre Clastres, dans le cas de certaines sociétés dites « primitives »).

C’est ce qui avait, par exemple, conduit Jaime Semprun et l’Encyclopédie des nuisances à voir dans l’œuvre de Pao King-yen et de Hsi K’ang – deux penseurs chinois du troisième siècle – un véritable « éloge de l’anarchie » (Éloge de l’anarchie par deux excentriques chinois, paru en 2004).

Cela s’explique avant tout par le fait que la question du pouvoir est aussi ancienne que l’humanité – contrairement aux formes de domination capitalistes qui ne devraient constituer, du moins faut-il l’espérer, qu’une simple parenthèse dans l’histoire de cette dernière. Il s’est toujours trouvé, en effet, des peuples, ou des individus, si farouchement attachés à leur autonomie qu’ils mettaient systématiquement leur point d’honneur à refuser toute forme de servitude, que celle-ci leur soit imposée du dehors ou, ce qui est évidemment encore plus aliénant, qu’elle finisse, comme dans le capitalisme de consommation moderne, par devenir « volontaire ».

En ce sens, il existe incontestablement une tradition « anarchiste » (ou « libertaire ») dont les principes débordent largement les conditions spécifiques de la modernité libérale (songeons, par exemple, à l’œuvre de La Boétie ou à celle des cyniques grecs) et dont l’assise principale – je reprends votre formule – est effectivement beaucoup plus « morale et philosophique » (j’ajouterais même « psychologique ») que politique, au sens étroit du terme.

« La critique anarchiste originelle laisse peu à peu la place à un simple mouvement d’extrême gauche parmi d’autres, ou même, dans les cas les plus extrêmes, à une posture purement œdipienne. »

jean-claude michéa,entretien,décroissance,philosophie,philosophie politique,politologie,sciences politiques,théorie politiqueC’est évidemment la persistance historique de cette sensibilité morale et philosophique (l’idée, en somme, que toute acceptation de la servitude est forcément déshonorante pour un être humain digne de ce nom) qui explique le développement, au sein du mouvement socialiste originel – et notamment parmi ces artisans et ces ouvriers de métier que leur savoir-faire protégeait encore d’une dépendance totale envers la logique du salariat – d’un puissant courant  libertaire, allergique, par nature, à tout « socialisme d’État », à tout « gouvernement des savants » (Bakounine) et à toute discipline de parti calquée, en dernière instance, sur les seules formes hiérarchiques de l’usine bourgeoise.

Le problème c’est qu’au fur et à mesure que la dynamique de l’accumulation du capital conduisait inexorablement à remplacer la logique du métier par celle de l’emploi (dans une société fondée sur le primat de la valeur d’usage et du travail concret, une telle logique devra forcément être inversée), le socialisme libertaire allait progressivement voir une grande partie de sa base populaire initiale fondre comme neige au soleil.

Avec le risque, devenu patent aujourd’hui, que la critique anarchiste originelle – celle qui se fondait d’abord sur une « assise morale et philosophique » – laisse peu à peu la place à un simple mouvement d’extrême gauche parmi d’autres, ou même, dans les cas les plus extrêmes, à une posture purement œdipienne (c’est ainsi que dans un entretien récent avec Raoul Vaneigem, Mustapha Khayati rappelait qu’une partie des querelles internes de l’I.S. pouvaient s’expliquer par le fait qu’« un certain nombre d’entre nous, autour de Debord, avait un problème à régler, un problème avec le père »).

La multiplication des conflits de pouvoir au sein de nombreuses organisations dites « libertaires » – conflits dont les scissions répétitives et la violence des polémiques ou des excommunications sont un symptôme particulièrement navrant – illustre malheureusement de façon très claire cette lente dégradation idéologique d’une partie du mouvement anarchiste moderne : celle dont les capacités de résistance morale et intellectuelle au maelstrom libéral sont, par définition, les plus faibles – comme c’est très souvent le cas, par exemple, chez les enfants perdus des nouvelles classes moyennes métropolitaines (le microcosme parisien constituant, de ce point de vue, un véritable cas d’école ).

De là, effectivement, mes réticences à me situer aujourd’hui par rapport au seul mouvement anarchiste orthodoxe et, surtout, mon insistance continuelle (dans le sillage, entre autres, d’Albert Camus et d’André Prudhommeaux) à défendre cette idée de « décence commune » dont l’oubli, ou le refus de principe, conduit presque toujours un mouvement révolutionnaire à céder, tôt ou tard, à la fascination du pouvoir et à se couper ainsi des classes populaires réellement existantes.

On a du mal à savoir ce que vous pensez précisément de l’État – une problématique pourtant chère aux marxistes comme aux anarchistes…

Je n’ai effectivement pas écrit grand-chose sur cette question (sauf, un peu, dans la Double pensée et dans mon entretien avec le Mauss), tant elle me semble polluée par les querelles terminologiques. Ce que marxistes et anarchistes, en effet, critiquaient sous le nom d’État au XIXe siècle ne correspond plus entièrement à ce qu’on range aujourd’hui sous ce nom (pour ne rien dire de la critique libérale de l’État qui relève d’une autre logique, malheureusement trop facilement acceptée par certains « anarchistes » parisiens tendance Largo Winch).

Le mieux est donc de rappeler ici quelques principes de bon sens élémentaire. Ce qui commande une critique socialiste/anarchiste de l’État, c’est avant tout la défense de l’autonomie populaire sous toutes ses formes (cela suppose naturellement une confiance de principe dans la capacité des gens ordinaires à s’autogouverner dans toute une série de domaines essentiels de leur vie).

Autonomie dont le point d’ancrage premier est forcément toujours local (la « commune » pris au sens large du mot – cf. Marx –, c’est-à-dire là où un certain degré de face-à-face, donc de démocratie directe – est en droit encore possible). Cela implique donc :

a) la critique de tout pouvoir bureaucratique séparé et qui entendrait organiser d’en haut la totalité de la vie commune.

b) la critique de la mythologie républicaine de « l’Universel » dont l’État serait le fonctionnaire, du moins si par « universel » on entend l’universel abstrait, pensé comme séparé du particulier et opposé à lui. L’idée en somme que les communautés de base devraient renoncer à tout ce qui les particularise pour pouvoir entrer dans la grande famille uniformisée de la Nation ou du genre humain.

En bon hégélien, je pense au contraire que l’universel concret est toujours un résultat – par définition provisoire – et qu’il intègre la particularité à titre de moment essentiel (c’est-à-dire non pas comme « moindre mal », mais comme condition sine qua non de son effectivité réelle).

C’est pourquoi – mais on l’a déjà dit mille fois – l’État et l’Individu modernes (autrement dit, l’État « universaliste » et l’individu « séparé de l’homme et de la communauté », Marx) définissent depuis le début une opposition en trompe l’œil (c’est Hobbes qui a génialement démontré, le premier, que l’individu absolu – celui que vante le « rebelle » libertarien – ne pouvait trouver sa vérité que dans l’État absolu [et réciproquement]).

 « Ce que marxistes et anarchistes critiquaient sous le nom d’État au XIXe siècle ne correspond plus entièrement à ce qu’on range aujourd’hui sous ce nom. »

jean-claude michéa,entretien,décroissance,philosophie,philosophie politique,politologie,sciences politiques,théorie politiqueL’individu hors-sol et intégralement déraciné (le « self made man » des libéraux) n’est, en réalité, que le complément logique du Marché uniformisateur et de l’État « citoyen » et abstrait (tout cela était déjà admirablement décrit par Marx dans la question juive). La base de toute société socialiste sera donc, à l’inverse, l’homme comme « animal social » (Marx) et capable, à ce titre, de convivialité (le contraire, en somme de l’individu stirnero-hobbesien).

Le dernier livre de David Graeber sur la dette (qui prolonge les travaux du Mauss), contient, du reste, des passages remarquables sur ce point (c’est même la réfutation la plus cruelle qui soit du néo-utilitarisme de Lordon et des bourdivins). C’est pourquoi une critique socialiste/anarchiste de l’État n’a de sens que si elle inclut une critique parallèle de l’individualisme absolu. On ne peut pas dire que ce lien soit toujours bien compris de nos jours !

Pour autant, et à moins de rêver d’une fédération mondiale de communes autarciques dont le mode de vie serait nécessairement paléolithique, il est clair qu’une société socialiste développée et étendue à l’ensemble de la planète suppose une organisation beaucoup plus complexe à la fois pour rendre possible la coopération amicale entre les communautés et les peuples à tous les niveaux et pour donner tout son sens au principe de subsidiarité (on ne délègue au niveau supérieur que les tâches qui ne peuvent pas être réalisé au niveau inférieur [ce qui est exactement le contraire de la façon de procéder liée à l’Europe libérale]).

C’est évidemment ici que doit se situer la réflexion – compliquée – sur le statut, le rôle et les limites des services publics, de la monnaie, du crédit public, de la planification, de l’enseignement, des biens communs etc.

Tout comme Chomsky, je ne suis donc pas trop gêné – surtout en ces temps libéraux – par l’emploi du mot « étatique » s’il ne s’agit que de désigner par là ces structures de coordination de l’action commune (avec, bien entendu, les effets d’autorité et de discipline qu’elles incluent) qu’une société complexe appelle nécessairement (que ce soit au niveau régional, national ou mondial).

L’important devient alors de s’assurer du plus grand contrôle démocratique possible de ces structures par les collectivités de base (principe de rotation des fonctions, tirages au sort, interdiction d’exercer plus d’un mandat, contrôle des experts, référendums d’initiatives populaires, reddition des comptes, etc., etc.).

Dans l’idéal, la contradiction dialectique entre la base et le « sommet » (et le mouvement perpétuel de va-et-vient entre les deux) pourrait alors cesser d’être « antagoniste ». Mais, vous le voyez, je n’ai improvisé là que quelques banalités de base.

Comme vous le savez, le terme « libertaire » a été inventé par Déjacque en opposition au terme « libéral », lors d’une querelle avec Proudhon. Vous n’avez pas de mots assez durs contre les « libéraux-libertaires » chers, si l’on peut dire, à Clouscard. Comment expliquez-vous cette alliance a priori incongrue ?

« De là le rôle philosophique que les premiers socialistes accordaient aux concepts de “communauté” (on a presque fini par oublier que le terme “socialisme” s’opposait à celui d’”individualisme”) et leur critique du dogme libéral. »

On aura une idée supplémentaire de toutes ces difficultés sémantiques si l’on ajoute que la traduction américaine du mot « libertaire » (le journal de Joseph Déjacque était certes publié à New-York, mais uniquement en français) est libertarian. Or ce dernier terme (qu’on a curieusement retraduit par « libertarien ») en est peu à peu venu à désigner, aux États-Unis, la forme la plus radicale du libéralisme économique, politique et culturel – celle qu’incarnent notamment Murray Rothbard et David Friedman – au point d’être parfois considéré aujourd’hui comme un simple équivalent de celui d’« anarcho-capitaliste » !

Pour dissiper ce nuage d’encre, il est donc temps d’en revenir aux fondements mêmes de la critique socialiste originelle de l’anthropologie libérale. On sait, en effet, que pour les libéraux – il suffit de lire John Rawls – l’homme doit toujours être considéré comme un être « indépendant par nature » et qui ne peut donc chercher à nouer des liens avec ses semblables (ne serait-ce – écrit ironiquement David Graeber – que pour pouvoir « échanger des peaux de castor ») que dans la stricte mesure où ce type d’engagement contractuel lui paraît « juste », c’est-à-dire, en dernière instance, conforme à son « intérêt bien compris ».

jean-claude michéa,entretien,décroissance,philosophie,philosophie politique,politologie,sciences politiques,théorie politiqueDans cette perspective à la Robinson Crusoé (Marx voyait significativement dans le cash nexus des économistes libéraux – terme qu’il avait emprunté au « réactionnaire » Carlyle – une pure et simple « robinsonnade »), il va de soi qu’aucune norme morale, philosophique ou religieuse ne saurait venir limiter du dehors le droit « naturel » de tout individu à vivre en fonction de son seul intérêt égoïste (y compris dans sa vie familiale et affective), si ce n’est, bien entendu, la liberté équivalente dont sont supposés disposer symétriquement les autres membres d’une société libérale (les interventions de l’État « minimal » n’ayant alors plus d’autre prétexte officiel que la nécessité permanente de protéger ces libertés individuelles, que ce soit sur le plan politique et culturel – la défense des « droits de l’homme », y compris en Irak, au Mali ou en Afghanistan – ou économique – la défense de la libre concurrence et de la liberté intégrale d’entreprendre, de vendre et d’acheter).

Or si la plupart des fondateurs du socialisme partageaient effectivement l’idéal émancipateur des Lumières et leur défense de l’esprit critique (ils étaient évidemment tout aussi hostiles que les libéraux aux sociétés oppressives et inégalitaires d’ancien régime), ils n’en dénonçaient pas moins l’anthropologie individualiste et abstraite sur laquelle cet idéal était structurellement fondé. À leurs yeux il allait de soi, en effet, que l’homme était d’abord un être social, dont la prétendue « indépendance naturelle » (déjà contredite par la moindre observation ethnologique) impliquait – comme Marx l’écrivait en 1857 – une « chose aussi absurde que le serait le développement du langage sans la présence d’individus vivant et parlant ensemble ».

 « La liberté d’expression c’est d’abord et toujours, selon la formule de Rosa Luxemburg, la liberté de celui qui pense autrement. »

De là, naturellement, le rôle philosophique absolument central que ces premiers socialistes accordaient aux concepts d’entraide et de « communauté » (on a presque fini par oublier que le terme de « socialisme » s’opposait, à l’origine, à celui d’« individualisme ») et leur critique corrélative du dogme libéral selon lequel l’émancipation intégrale des individus ne pourrait trouver ses ultimes conditions que dans la transformation correspondante de la société – pour reprendre une formule de l’école saint-simonienne – en une simple « agrégation d’individus sans liens, sans relations, et n’ayant pour mobile que l’impulsion de l’égoïsme » (la coexistence « pacifique » des individus ainsi atomisés devant alors être assurée par les seuls mécanismes anonymes et impersonnels du Droit et du Marché, eux-mêmes placés sous l’égide métaphysique du Progrès continuel de la Science et des « nouvelles technologies »). Il suffit, dès lors, de réactiver ce clivage originel (ce qui suppose, vous vous en doutez bien, une rupture radicale avec tous les postulats idéologiques de la gauche et de l’extrême gauche contemporaines) pour redécouvrir aussitôt ce qui sépare fondamentalement un authentique libertaire – celui dont la volonté d’émancipation personnelle, à l’image de celle d’un Kropotkine, d’un Gustav Landauer, ou d’un Nestor Makhno, s’inscrit nécessairement dans un horizon collectif et prend toujours appui sur les « liens qui libèrent » (comme, par exemple, l’amour, l’amitié ou l’esprit d’entraide) – d’un « libertaire » libéral (ou « anarcho-capitaliste ») aux yeux duquel un tel travail d’émancipation personnelle ne saurait être l’œuvre que d’un sujet « séparé de l’homme et de la communauté » (Marx), c’est-à-dire, en définitive, essentiellement narcissique (Lasch) et replié sur ses caprices individuels et son « intérêt bien compris » (quand ce n’est pas sur sa seule volonté de puissance, comme c’était par exemple le cas chez le Marquis de Sade).

jean-claude michéa,entretien,décroissance,philosophie,philosophie politique,politologie,sciences politiques,théorie politiqueC’est d’ailleurs cette triste perversion libérale de l’esprit « libertaire » que Proudhon avait su décrire, dès 1858, comme le règne de « l’absolutisme individuel multiplié par le nombre de coquilles d’huîtres qui l’expriment ». Description, hélas, rétrospectivement bien prophétique et qui explique, pour une grande part, le désastreux naufrage intellectuel de la gauche occidentale moderne et, notamment, son incapacité croissante à admettre que la liberté d’expression c’est d’abord et toujours, selon la formule de Rosa Luxemburg, la liberté de celui qui pense autrement.

L’an passé, Le Monde libertaire vous a consacré quelques pages. S’il louait un certain nombre de vos analyses, il vous reprochait votre usage du terme « matriarcat », votre conception de l’internationalisme et de l’immigration, et, surtout, ce qu’il percevait comme une complaisance à l’endroit des penseurs et des formations nationalistes ou néofascistes – au prétexte qu’ils seraient antilibéraux et que cela constituerait votre clivage essentiel, quitte à fouler aux pieds tout ce qui, dans ces traditions, s’oppose brutalement à l’émancipation de chacune des composantes du corps social. Comprenez-vous que vous puissiez créer ce « malaise », pour reprendre leur terme, au sein de tendances (socialistes, libertaires, communistes, révolutionnaires, etc.) dont vous vous revendiquez pourtant ?

Passons d’abord sur l’idée grotesque – et visiblement inspirée par le courant féministe dit « matérialiste » – selon laquelle l’accumulation mondialisée du capital (dont David Harvey rappelait encore récemment qu’elle constituait la dynamique de base à partir de laquelle notre vie était quotidiennement façonnée) trouverait sa condition anthropologique première dans le développement du « patriarcat » – lui-même allègrement confondu avec cette domination masculine qui peut très bien prospérer, à l’occasion, à l’abri du matriarcat psychologique.

Une telle idée incite évidemment à oublier – comme le soulignait déjà Marx – que le processus d’atomisation marchande de la vie collective conduit, au contraire, « à fouler aux pieds toutes les relations patriarcales » et, d’une manière générale, à noyer toutes les relations humaines « dans les eaux glacées du calcul égoïste ».

« La conception de la solidarité internationale défendue par les fondateurs du mouvement ouvrier était impossible à confondre avec ce culte de la « mobilité » et de la « flexibilité » au cœur de l’idéologie capitaliste moderne. »

Passons également sur cette assimilation pour le moins hâtive (et que l’extrême gauche post-mitterrandienne ne songe même plus à interroger) de l’internationalisme du mouvement ouvrier originel à cette nouvelle idéologie « mobilitaire » (dont la libre circulation mondiale de la force de travail et le tourisme de masse ne représentent, du reste, qu’un aspect secondaire) qui constitue désormais – comme le rappelait Kristin Ross – « le premier impératif catégorique de l’ordre économique » libéral.

Mes critiques semblent avoir oublié, là encore, que l’une des raisons d’être premières de l’association internationale des travailleurs, au XIXe siècle, était précisément la nécessité de coordonner le combat des différentes classes ouvrières nationales contre ce recours massif à la main d’œuvre étrangère qui apparaissait déjà, à l’époque, comme l’une des armes économiques les plus efficaces de la grande bourgeoisie industrielle.

Comme le soulignaient, par exemple, les représentants du mouvement ouvrier anglais (dans un célèbre appel de novembre 1863 adressé au prolétariat français), « la fraternité des peuples est extrêmement nécessaire dans l’intérêt des ouvriers. Car chaque fois que nous essayons d’améliorer notre condition sociale au moyen de la réduction de la journée de travail ou de l’augmentation des salaires, on nous menace toujours de faire venir des Français, des Allemands, des Belges qui travaillent à meilleur compte ».

Naturellement, les syndicalistes anglais – étrangers, par principe, à toute xénophobie – s’empressaient aussitôt d’ajouter que la « faute n’en est certes pas aux frères du continent, mais exclusivement à l’absence de liaison systématique entre les classes industrielles des différents pays. Nous espérons que de tels rapports s’établiront bientôt [de fait, l’association internationale des travailleurs sera fondée l’année suivante] et auront pour résultat d’élever les gages trop bas au niveau de ceux qui sont mieux partagés, d’empêcher les maîtres de nous mettre dans une concurrence qui nous rabaisse à l’état le plus déplorable qui convient à leur misérable avarice » (notons qu’on trouvait déjà une analyse semblable des effets négatifs de la politique libérale d’immigration dans l’ouvrage d’Engels sur la situation de la classe laborieuse en Angleterre).

Comme on le voit, la conception de la solidarité internationale défendue par les fondateurs du mouvement ouvrier était donc un peu plus complexe (et surtout impossible à confondre avec ce culte de la « mobilité » et de la « flexibilité » qui est au cœur de l’idéologie capitaliste moderne) que celle du brave Olivier Besancenot ou de n’importe quel autre représentant de cette nouvelle extrême gauche qui apparaît désormais – pour reprendre une expression de Marx – « au-dessous de toute critique ».

jean-claude michéa,entretien,décroissance,philosophie,philosophie politique,politologie,sciences politiques,théorie politiqueQuant à l’idée selon laquelle ma critique du capitalisme entretiendrait un rapport ambigu, certains disent même structurel, avec le « néofascisme » – idée notamment propagée par Philippe Corcuff, Luc Boltanski et Jean-Loup Amselle –, elle me semble pour le moins difficile à concilier avec cet autre reproche (que m’adressent paradoxalement les mêmes auteurs) selon lequel j’accorderais trop d’importance à cette notion de common decency qui constituait aux yeux d’Orwell le seul fondement moral possible de tout antifascisme véritable.

Il est vrai que les incohérences inhérentes à ce type de croisade (dont le signal de départ avait été donné, en 2002, par la très libérale Fondation Saint-Simon, avec la publication du pamphlet de Daniel Lindenberg sur les « nouveaux réactionnaires ») perdent une grande partie de leur mystère une fois que l’on a compris que l’objectif premier des nouveaux évangélistes libéraux était de rendre progressivement impossible toute analyse sérieuse (ou même tout souvenir concret) de l’histoire véritable des « années trente » et du fascisme réellement existant.

« Faire place nette à cet “antifascisme” abstrait et instrumental sous lequel, depuis 1984, la gauche moderne ne cesse de dissimuler sa conversion définitive au libéralisme. »

Et cela, bien sûr, afin de faire place nette – ce qui n’offre plus aucune difficulté majeure dans le monde de Youtube et des « réseaux sociaux » – à cet « antifascisme » abstrait et purement instrumental sous lequel, depuis 1984, la gauche moderne ne cesse de dissimuler sa conversion définitive au libéralisme. Bernard-Henri Lévy l’avait d’ailleurs reconnu lui-même lorsqu’il écrivait, à l’époque, que « le seul débat de notre temps [autrement dit, le seul qui puisse être encore médiatiquement autorisé] doit être celui du fascisme et l’antifascisme ».

Or on ne peut rien comprendre à l’écho que le fascisme a pu rencontrer, tout au long du XXe siècle, dans de vastes secteurs des classes populaires, et des classes moyennes, si l’on ne commence pas – à la suite d’Orwell – par prendre acte du fait qu’il constituait d’abord, du moins dans sa rhétorique officielle, une forme pervertie, dégradée, voire parodique du projet socialiste originel (« tout ce qu’il y a de bon dans le fascisme – n’hésitait pas à écrire Orwell – est aussi implicitement contenu dans le socialisme »).

Ce qui veut tout simplement dire que cette idéologie ontologiquement criminelle (analyse qui vaudrait également pour les autres formes de totalitarisme, y compris celles qui s’abritent aujourd’hui sous l’étendard de la religion) trouvait, au même titre que le socialisme, son point de départ moral et psychologique privilégié dans le désespoir et l’exaspération croissante d’une partie des classes populaires devant cette progressive « dissolution de tous les liens sociaux » (Debord) que le principe de neutralité axiologique libéral engendre inexorablement (processus qu’Engels décrivait, pour sa part, comme la « désagrégation de l’humanité en monades dont chacune à un principe de vie particulier et une fin particulière »).

Naturellement, la fétichisation du concept d’unité nationale (qui ne peut qu’entretenir l’illusion d’une collaboration « équitable » entre le travail et le capital) et sa nostalgie romantique des anciennes aristocraties guerrières (avec son culte du paganisme, de la hiérarchie et de la force brutale) interdisaient par définition au fascisme de désigner de façon cohérente les causes réelles du désarroi ressenti par les classes populaires, tout comme la véritable logique de l’exploitation à laquelle elles se trouvaient quotidiennement soumises.

De là, entre autres, cet « antisémitisme structurel » (Robert Kurz) qui « ne fait que renforcer le préjugé populaire du “capital accapareur” rendu responsable de tous les maux de la société et qui, depuis deux cents ans, est associé aux juifs » (Robert Kurz ne manquait d’ailleurs pas de souligner, après Moishe Postone, que cet antisémitisme continuait d’irriguer, « de façon consciente ou inconsciente » – et, le plus souvent, sous le masque d’une prétendue solidarité avec le peuple palestinien – une grande partie des discours de l’extrême gauche contemporaine).

Il n’en reste pas moins que l’idéologie fasciste – comme c’était d’ailleurs déjà le cas, au XIXe siècle, de celle d’une partie de la droite monarchiste et catholique (on se souvient, par exemple, du tollé provoqué sur les bancs de la gauche par Paul Lafargue – en décembre 1891 – lorsqu’il avait osé saluer dans une intervention du député catholique Albert de Mun « l’un des meilleurs discours socialistes qui aient été prononcés ici ») – incorpore, tout en les dénaturant, un certain nombre d’éléments qui appartiennent de plein droit à la tradition socialiste originelle.

« On aurait le plus grand mal à trouver dans l’œuvre de Fassin une seule page qui puisse inciter les gens ordinaires à remettre en question la dynamique aveugle du capital. »

Tel est bien le cas, entre autres, de la critique de l’atomisation marchande du monde, de l’idée que l’égalité essentiellement abstraite des « citoyens » masque toujours le pouvoir réel de minorités qui contrôlent la richesse et l’information, ou encore de la thèse selon laquelle aucun monde véritablement commun ne saurait s’édifier sur l’exigence libérale de « neutralité axiologique » (d’ailleurs généralement confondue, de nos jours, avec le principe de « laïcité ») ni, par conséquent, sur ce relativisme moral et culturel « postmoderne » qui en est l’expression philosophique achevée (à l’inverse, on aurait effectivement le plus grand mal à trouver, dans toute l’œuvre d’Eric Fassin, une seule page qui puisse réellement inciter les gens ordinaires à remettre en question la dynamique aveugle du capital ou l’imaginaire de la croissance et de la consommation).

C’est naturellement l’existence de ces points d’intersection entre la critique fasciste de la modernité libérale (ou, d’une manière générale, sa critique « réactionnaire ») et celle qui était originellement portée par le mouvement ouvrier socialiste, qui allait donc permettre aux think tanks libéraux (Fondation Saint-Simon, Institut Montaigne, Terra Nova, etc.) de mettre très vite au point – au lendemain de la chute de l’empire soviétique – cette nouvelle stratégie Godwin (ou de reductio ad hitlerum) qui en est progressivement venue à prendre la place de l’ancienne rhétorique maccarthyste.

Stratégie particulièrement économe en matière grise – d’où le succès qu’elle rencontre chez beaucoup d’intellectuels de gauche – puisqu’il suffira désormais aux innombrables spin doctors du libéralisme de dénoncer rituellement comme « fasciste » (ou, à tout le moins, de nature à engendrer un regrettable « brouillage idéologique ») toute cette partie de l’héritage socialiste dont une droite antilibérale se montre toujours capable, par définition, de revendiquer certains aspects – moyennant, bien sûr, les inévitables ajustements que son logiciel inégalitaire et nationaliste lui impose par ailleurs.

À tel point que les représentants les plus intelligents de cette droite antilibérale ont eux-mêmes fini par comprendre, en bons lecteurs de Gramsci, tout le bénéfice qu’il leur était à présent possible de tirer de leurs hommages sans cesse plus appuyés – et sans doute parfois sincères – à l’œuvre de Marx, de Debord ou de Castoriadis.

Un tel type de récupération est, du reste, d’autant plus inévitable que le disque dur métaphysique de la gauche moderne – à présent « prisonnière de l’ontologie capitaliste » (Kurz) – ne lui permet plus, désormais, de regarder en face la moindre réalité sociologique concrète (comme dans le célèbre conte d’Andersen sur les Habits neufs de l’Empereur) et, par conséquent, de percevoir dans la détresse et l’exaspération grandissantes des classes populaires (qu’elle interprète nécessairement comme un signe de leur incapacité frileuse à s’adapter « aux exigences du monde moderne ») tout ce qui relève, au contraire, d’une protestation légitime (je renvoie ici au remarquable essai de Stephen Marglin sur The Dismal science) contre le démantèlement continuel de leurs identités et de leurs conditions matérielles de vie par la dynamique transgressive du marché mondialisé et de sa culture « postmoderne » (« cette agitation et cette insécurité perpétuelles » – écrivait déjà Marx – « qui distinguent l’époque bourgeoise de toutes les précédentes »).

« La nouvelle stratégie Godwin apparaît bien comme l’héritière directe de la “Nouvelle Philosophie” de la fin des années soixante-dix. »

jean-claude michéa,entretien,décroissance,philosophie,philosophie politique,politologie,sciences politiques,théorie politiqueDe là, bien entendu, l’étonnante facilité avec laquelle il est devenu aujourd’hui possible de discréditer a priori toutes ces mises en question de la logique marchande et de la société du Spectacle qui, il y a quelques décennies encore, étaient clairement le signe d’une pensée radicale – qu’il s’agisse de l’École de Francfort, de l’Internationale situationniste ou des écrits d’Ivan Illich.

Si, par exemple, le Front National – tournant le dos à la rhétorique reaganienne de son fondateur – en vient, de nos jours, à soutenir l’idée que les politiques libérales mises en œuvre par la Commission européenne, et le déchaînement correspondant de la spéculation financière internationale, sont l’une des causes majeures du chômage de masse (tout en prenant évidemment bien soin de dissocier ce processus de financiarisation « néolibéral » des contradictions systémiques que la mise en valeur du capital productif rencontre depuis le début des années soixante-dix), on devra donc désormais y voir la preuve irréfutable que toute critique de l’euro et des politiques menées depuis trente ans par l’oligarchie bruxelloise ne peut être que le fait d’un esprit « populiste », « europhobe » ou même « rouge-brun » (et peu importe, au passage, que le terme d’« europhobie » ait lui-même été forgé par la propagande hitlérienne, au cours de la Seconde Guerre mondiale, dans le but de stigmatiser la résistance héroïque des peuples anglais et serbe à l’avènement d’une Europe nouvelle !).

En ce sens, la nouvelle stratégie Godwin apparaît bien comme l’héritière directe de la « Nouvelle Philosophie » de la fin des années soixante-dix. À ceci près, que là où un Glucksmann ou un BHL se contentaient d’affirmer que toute contestation radicale du capitalisme conduisait nécessairement au Goulag, la grande innovation théorique des Godwiniens aura été de remplacer la Kolyma et les îles Solovski par Auschwitz, Sobibor et Treblinka. De ce point de vue, Jean-Loup Amselle – avec son récent pamphlet sur les « nouveaux Rouges-Bruns » et le « racisme qui vient » – est incontestablement celui qui a su conférer à ces nouveaux « éléments de langage » libéraux une sorte de perfection platonicienne.

Au terme d’une analyse fondée sur le postulat selon lequel « la culture n’existe pas, il n’y a que des individus » (hommage à peine voilé à la célèbre formule de Margaret Thatcher), il réussit, en effet, le tour de force de dénoncer dans le projet d’une « organisation sociale et économique reposant sur les principes d’échange non marchand, de don, de réciprocité et de redistribution » – autrement dit dans le projet socialiste traditionnel – l’une des incarnations les plus insidieuses, du fait de son supposé « primitivisme », de cette « posture rouge-brune qui fait le lit du Front national et de Riposte laïque » (il est vrai qu’aux yeux de cet étrange anthropologue de gauche, les partisans de la décroissance, les écologistes et les « anarchistes de tout poil » avaient déjà, depuis longtemps, largement contribué à cette lente fascisation des esprits).

Le fait qu’une pensée aussi délirante ait pu rencontrer un écho favorable auprès de tant d’« antifascistes » auto-proclamés (pour ne rien dire des éloges dithyrambiques d’un Laurent Joffrin) nous en apprend donc énormément sur l’ampleur du confusionnisme qui règne aujourd’hui dans les rangs de la gauche et de l’extrême gauche post-mitterrandiennes – mouvement anarchiste compris.

« Je suis sincèrement désolé pour tous ces braves policiers de la pensée qui ne font, après tout, que le travail pour lequel l’Université les paye. »

jean-claude michéa,entretien,décroissance,philosophie,philosophie politique,politologie,sciences politiques,théorie politiqueEt, comme par hasard, c’est précisément dans un tel contexte idéologique – contexte dans lequel tous les dés ont ainsi été pipés d’avance – que tous ceux qui tiennent la critique socialiste de Marx, d’Orwell ou de Guy Debord pour plus actuelle que jamais et contestent donc encore, avec un minimum de cohérence, le « monde unifié du capital » (Robert Kurz), se retrouvent désormais sommés par les plus enragés des « moutons de l’intelligentsia » (Debord) de s’expliquer en permanence sur la « complaisance » que cette critique entretiendrait nécessairement avec les idéologies les plus noires du XXe siècle.

Avec à la clé – j’imagine – l’espoir des évangélistes libéraux d’amener ainsi tous ces mauvais esprits à mettre, à la longue, un peu d’eau dans leur vin, de peur de passer pour « passéistes » ou « réactionnaires ». Tout comme, sous le précédent règne du maccarthysme, c’était, à l’opposé, la peur d’être assimilés à des « agents de Moscou » qui était censée paralyser les esprits les plus critiques.

Il se trouve hélas (et j’en suis sincèrement désolé pour tous ces braves policiers de la pensée qui ne font, après tout, que le travail pour lequel l’Université les paye) qu’il y a déjà bien longtemps que j’ai perdu l’habitude de me découvrir – dans la crainte et le tremblement – devant chaque nouvelle procession du clergé « progressiste » (ou, si l’on préfère, devant chaque nouvelle étape du développement capitaliste). Mais n’est-ce pas George Orwell lui-même qui nous rappelait qu’« il faut penser sans peur » et que « si l’on pense sans peur, on ne peut être politiquement orthodoxe » ?

Ballast

jeudi, 19 février 2015

Chantal Delsol réhabilite le populisme...

Chantal Delsol réhabilite le populisme...

Chantal Delsol, auteur de l'essai intitulé Populisme, les demeurés de l'histoire (Rocher, 2015), était reçu le 12 février 2015 par Martial Bild, dans le cadre du journal de TV Libertés. Elle a évoqué à cette occasion la question du populisme au travers de la rupture entre les élites et le peuple...

 

mercredi, 11 février 2015

Elementos nos 85, 86, 87 & 88

ELEMENTOS Nº 88. LA NUEVA DERECHA Y LA CUESTIÓN DEL FASCISMO

 


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SUMARIO.


Nueva Derecha, ¿extrema derecha o derecha extravagante?, por José Andrés Fernández Leost

La Nueva Derecha y la cuestión del Fascismo, por Diego Luis Sanromán

La Nueva Derecha. ¿«Software» neofascista?, por Rodrigo Agulló

Plus Ça Change!  El pedigrí fascista de la Nueva Derecha, por Roger Griffin

¿Discusión o inquisición? La Nueva Derecha y el "caso De Benoist", por Pierre-André Taguieff

El Eterno Retorno. ¿Son fascistas las ideas-fuerza de la Nueva Derecha Europea?, por Joan Antón-Mellón

¿Viejos prejuicios o nuevo paradigma político? La Nueva Derecha francesa vista por la Nueva Izquierda norteamericana, por Paul Piccone

La Nueva Derecha y la reformulación «metapolítica» de la extrema derecha, por Miguel Ángel Simón

El Frente Nacional y la Nueva Derecha, por Charles Champetier

La Nueva Derecha y el Fascismo, por Marcos Roitman Rosenmann

ELEMENTOS Nº 87. LEO STRAUSS: ¿PADRE DE LOS NEOCONS?

 
 

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Sumario.-


Leo Strauss: filosofía, política y valores, por Alain de Benoist


Leo Strauss, el padre secreto de los “neocon”, por Esteban Hernández


Leo Strauss y la esencia de la filosofía política, por Eduardo Hernando Nieto


Leo Strauss, los straussianos y los antistraussianos, por Demetrio Castro


Leo Strauss, ideas sin contexto, por Benigno Pendás


Leo Strauss: los abismos del pensamiento conservador, por Ernesto Milá


Leo Strauss y la política como (in)acción, por Jorge San Miguel


Leo Strauss y la recuperación de la racionalidad política clásica, por Iván Garzón-Vallejo


¿Qué es filosofía política? de Leo Strauss. Apuntes para una reflexión sobre el conocimiento político, por Jorge Orellano


Leo Strauss y su crítica al liberalismo, por Alberto Buela


Leo Strauss y la redención clásica del mundo moderno, por Sergio Danil Morresi


Leo Strauss: lenguaje, tradición e historia, por Jesús Blanco Echauri


Mentiras piadosas y guerra perpetua: Leo Strauss y el neoconservadurismo, por Danny Postel


La mano diestra del capitalismo: de Leo Strauss al movimiento neoconservador, por Francisco José Fernández-Cruz Sequera

 

ELEMENTOS Nº 86. UN DIÁLOGO CONSERVADOR: SCHMITT-STRAUSS

 





Sumario.-

¿Teología Política o Filosofía Política? La amistosa conversación entre Carl Schmitt y Leo Strauss, por Eduardo Hernando Nieto

Entre Carl Schmitt y Thomas Hobbes. Un estudio del liberalismo moderno a partir del pensamiento de Leo Strauss, por José Daniel Parra

Schmitt, Strauss y lo político. Sobre un diálogo entre ausentes, por Martín González

La afirmación de lo político. Carl Schmitt, Leo Strauss y la cuestión del fundamento, por Luciano Nosetto

Modernidad y liberalismo. Hobbes entre Schmitt y Strauss, por Andrés Di Leo Razuk

Leo Strauss y los autores modernos, por Matías Sirczuk

Leo Strauss y la redención clásica del mundo moderno, por Sergio Danil Morresi

Sobre el concepto de filosofía política en Leo Strauss, por Carlos Diego Martínez Cinca

Secularización y crítica del liberalismo moderno en Leo Strauss, por Antonio Rivera García

La obra de Leo Strauss y su crítica de la Modernidad, por María Paula Londoño Sánchez

Carl Schmitt: las “malas compañías” de Leo Strauss, por Francisco José Fernández-Cruz Sequera

Carl Schmitt, Leo Strauss y Hans Blumenberg. La legitimidad de la modernidad, por Antonio Lastra
 

ELEMENTOS Nº 85 EL DINERO: DEIFICACIÓN CAPITALISTA

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La religión del dinero, por Ernesto Milá
 
Dinero, dinerización y destino, por Germán Spano

 

El dinero como síntoma, por Alain de Benoist

 

El poder del ídolo-dinero, por Benjamín Forcano

 

El poder del dinero: la autodestrucción del ser humano, por Antonio Morales Berruecos y Edmundo Galindo González

 

El dinero como ideología, por Guillaume Faye

 

La ideología del dinero en la época actual, por Juan Castaingts Teillery
 
Georg Simmel: el dinero y la libertad moderna, por Andrés Bilbao
 
¿El dinero da la felicidad?, por Pedro A. Honrubia Hurtado

 

Los fundamentos onto-teológico-políticos de la mercancía y del dinero, por Fabián Ludueña Romandini
 
Mundo sin dinero: una visión más allá del capitalismo, por Juan E. Drault
 
La época de los iconoclastas, por Alain de Benoist
 
Las identidades del dinero, por Celso Sánchez Capdequí
 
La ganga y la fecundidad del dinero, por Emmanuel Mounier
 
El dinero-financiero y el poder de la globalización, por Iván Murras Mas y Maciá Blázquez Salom

mercredi, 04 février 2015

Trotskisme yankee et invention du néo-conservatisme

Trotskisme yankee et invention du néo-conservatisme

Auteur : Denis Boneau
Ex: http://zejournal.mobi

Qui sont les « néoconservateurs » américains et occidentaux ? Historique du mouvement issu du trotskisme en gardant présent à l’esprit que Trotski, tout comme Lénine, était un agent de Wall Street et de la City de Londres. Voir à ce sujet notre dossier sur « Wall Street et la révolution bolchévique » de l’historien Antony Sutton. Ceci nous éclaire sur le pourquoi capitalisme et capitalisme d’état (marxisme et ses variantes léniniste, trotskiste, staliniste, puis plus tard maoïste…) sont les deux côtés de la même pièce capitaliste, pilotés par les mêmes intérêts convergents de la haute finance et de l’industrie transnationale. Le mouvement trotskiste néoconservateur n’en est qu’un des avatars supplémentaire…

En France, Jospin et Cambadélis (entre autres) issus du mouvement « lambertiste », en sont les représentants de longue date…

hook1.jpgÀ partir de 1945, les services de propagande états-uniens et britanniques recrutent des intellectuels souvent issus des milieux trotskistes afin d’inventer et promouvoir une « idéologie rivalisant avec le communisme ». Les New York Intellectuals, Sidney Hook (photo) en tête, accomplissent différentes missions confiées par la CIA avec zèle et efficacité, devenant rapidement des agents de premier plan de la Guerre froide culturelle. Des théoriciens majeurs de ce mouvement, comme James Burnham et Irving Kristol, ont élaboré la rhétorique néo-conservatrice sur laquelle s’appuient aujourd’hui les faucons de Washington.

En 1945, les stratèges soviétiques veulent obtenir la reconnaissance des démocraties populaires de l’Europe de l’Est. Ils lancent, en s’appuyant sur les services secrets, une campagne internationale pour la paix. Leur objectif est de conserver le contrôle du « glacis défensif » en évitant une série de conflits armés avec la coalition anglo-saxonne. En Grande-Bretagne, les gouvernements, notamment celui de Clement Attlee, cherchent à rompre avec la propagande de guerre qui a justifié de 1942 à 1945 l’alliance avec Moscou. Dans ce contexte, en février 1948, Attlee crée, au sein du Foreign Office, le Département de recherche de renseignements (IRD), véritable « ministère de la Guerre froide » alimenté par les fonds secrets et chargé de produire de fausses informations pour discréditer les communistes. Aux États-Unis, la situation est plus favorable. Les procès de Moscou, l’exil de Trotski, ancien bras droit de Lénine, et le pacte germano-soviétique ont considérablement nui au Parti communiste. Dans ce contexte, les marxistes rejoignent massivement l’aile trotskiste de la gauche radicale dont une fraction pactisera avec la CIA, trahissant la IVe Internationale. Après une série d’échecs désastreux, les services soviétiques renoncent à toute influence idéologique aux États-Unis et privilégient les pays d’Europe de l’Ouest, spécialement la France et l’Italie.

Les services secrets britanniques et états-uniens cherchent à fabriquer une pensée assez crédible et universelle pour rivaliser avec le marxisme-léninisme. Dans ce contexte, les New York Intellectuals – Sidney Hook, James Burnham, Irving Kristol, Daniel Bell…- vont constituer des combattants culturels particulièrement efficaces.

Les premiers « coups tordus »

Les New York Intellectuals n’ont pas besoin d’infliltrer les milieux communistes : ils s’y trouvent déjà et s’y définissent comme militants trotskistes. La CIA, en recrutant des hommes comme le philosophe marxiste Sidney Hook, collecte des renseignements utiles sur la gauche radicale états-unienne et tente de saboter les réunions internationales parrainées par Moscou.

towund.jpgEn mars 1949, à New York, se tient une « conférence scientifique et culturelle pour la paix mondiale », à l’hôtel Waldorf Astoria. Des délégations de militants communistes s’y pressent ; la réunion est secrètement supervisée par le Kominform. Mais l’hôtel est sous contrôle de la CIA, qui y a installé un quartier général secret au dixième étage. Sidney Hook, qui joue le communiste repenti, reçoit à part des journalistes auxquels il explique « sa » stratégie contre « les staliniens » : intercepter le courrier du Waldorf et diffuser de faux communiqués. Profitant de la « position de cheval de Troie » de Sidney Hook, la CIA mène une campagne d’intoxication médiatique allant jusqu’à divulguer publiquement l’appartenance politique de certains participants préfigurant ainsi la « chasse aux sorcière » du sénateur McCarthy. Avec zèle et brio, Hook mène son équipe d’agitateurs, de délateurs et de manipulateurs, rédigeant des tracts et semant le désordre lors des tables rondes… Simultanément, à l’extérieur de l’hôtel Waldorf, des dizaines de militants d’extrême-droite défilent pancarte à la main pour dénoncer l’ingérence du Kominform. L’opération est un succès total, la conférence tourne au fiasco. ?Tirant les leçons du « coup du Waldorf », la CIA états-unienne et l’IRD britannique systématisent l’enrôlement de trotskistes dans la lutte secrète contre Moscou, au point d’en faire une constante de la « guerre psychologique » qu’ils livrent à l’URSS.

Sidney Hook, chef de file des New York Intellectuals

Né dans un quartier pauvre de Brooklyn en 1902, Sidney Hook entre en 1923 à l’université de Colombia où il rencontre John Dewey, son premier maître à penser. Après son doctorat, il obtient une bourse de la fondation Guggenheim qui lui permet d’étudier en Allemagne et de visiter Moscou. Comme tant d’autres intellectuels de l’époque, il est fasciné par Staline et le régime soviétique. À son retour aux États-Unis, il débute sa carrière à l’université de New York au département de Philosophie. Il ne quittera son poste qu’en 1972 pour s’installer à Stanford au terme d’une évolution intellectuelle qui l’aura conduit du communisme au néoconservatisme. À la fin de la Première Guerre mondiale, après s’être marié avec une militante communiste, Hook s’inscrit dans un syndicat d’enseignants proche du Parti. Il travaille à une traduction de Lénine et publie un livre remarqué, Towards the understanding of Karl Marx. Intellectuel typique de la gauche radicale, il participe aux manifestations contre l’exécution des anarchistes Sacco et Vanzetti.

Au début des années 30, Hook rompt avec les communistes et se rallie au clan des trotskistes réunis au sein de l’American Workers Party, fondé en 1938. Il organise la « Commission d’enquête sur la vérité dans les procès de Moscou » qui a pour but d’innocenter Trotski écarté du pouvoir par Staline.

À partir de 1938, il abandonne définitivement l’idéal révolutionnaire. En 1939, il fonde le Committee for cultural freedom, une organisation antistalinienne qui constituera, après la guerre, l’une des bases du Congress for cultural freedom. Plus qu’une rupture, cette « trahison » – Hook surveille ses anciens amis pour le compte de la CIA – constitue pour lui une opportunité politique et financière attractive. Lorsque Hook évoque les raisons de sa conversion, il désigne des « staliniens » comme Brecht qui, au cours d’une discussion à New York en 1935 aurait plaisanté à propos de l’arrestation de Zinoviev et Kamenev : « Ceux-là, plus ils sont innocents, plus ils méritent d’être fusillés ». Une dénonciation qui en dit long sur les méthodes de Hook qui n’hésitait pas à citer des propos critiques en les retirant de leur contexte pour les rendre odieux.

Dans cette logique de délation, l’initiative du sénateur du Wisconsin, McCarthy, est soutenue discrètement par Hook qui publie deux articles, « Heresy, yes ! Conspiracy, no ! » (Hérésie, oui ! Conspiration, non !) et « The dangers of cultural vigilantism » (Les dangers de la vigilance culturelle) dans lesquels, prétendant critiquer McCarthy, il encourage à espionner et dénoncer les fonctionnaires, intellectuels et politiques proches des communistes. Hook a toujours prétendu par la suite qu’il n’avait jamais soutenu le sénateur du Wisconsin, ce que récuse la philosophe Hannah Arendt, pourtant alliée naturelle de Hook. Dans « Heresy, yes ! », il décrit la postures idéologique des « libéraux réalistes » et la notion de « culpabilité par fréquentation ». Il en déduit que l’État doit mener la « chasse aux sorcières » en gardant l’apparence d’un régime libéral. Pour cela, l’administration, plutôt que de criminaliser les fonctionnaires communistes, doit pouvoir amener les individus suspects à démissionner. Concernant les enseignants, Hook note qu’un professeur communiste « pratique une véritable fraude professionnelle ». Au finale, Hook considère que la « chasse aux sorcières » constitue une erreur politique, non pas en raison de la nature fasciste de cette campagne de délation, mais plutôt parce que l’initiative de McCarthy, trop peu discrète, contribue à mettre en équivalence la violence soviétique et états-unienne. Dans « The dangers of vigilantism », il préconise d’autres moyens, plus secrets, afin de chasser les communistes : il s’agit par exemple de confier la charge des enquêtes de loyauté aux instances professionnelles.

Effectivement Sidney Hook préfère les actions discrètes. Son implication dans plusieurs opérations de la Guerre froide culturelle, dont le Congrès pour la liberté de la culture, met en évidence sa conception de la démocratie, conçue comme une façade nécessaire du bloc atlantiste mené par les États-Unis. En 1972, il quitte New York et devient jusqu’à sa mort l’un des principaux théoriciens conservateurs rassemblés au sein de la Hoover Institution. En fréquentant les cercles de la diplomatie secrète, Sidney Hook devient un conservateur respecté par les gouvernants. En 1985, Ronald Reagan lui remet la plus haute distinction civile états-unienne, la Medal of Freedom après avoir décoré, le même jour Frank Sinatra et Jimmy Stewart. Il meurt en 1989. Sa femme reçoit les condoléances du Président Bush : « Pendant toute sa vie, il fut un défenseur sans peur de la Liberté (…) Alors qu’il affirmait souvent qu’il n’existe rien d’absolu dans la vie, l’ironie voulut qu’il prouve lui-même le contraire car s’il y eut un absolu, ce fut Sidney Hook toujours prêt à combattre courageusement pour l’honnêteté intellectuelle et la vérité ».

Convertir les trotskistes

La « trahison » de Sidney Hook qui a rendu possible la réussite de la campagne d’intoxication du Waldorf est le point de départ d’un mouvement de conversion d’une fraction de l’aile trotsksite. La CIA et l’IRD font confiance aux marxistes repentis pour mener à bien une opération de grande envergure : la fabrication d’une « idéologie rivalisant avec le communisme », selon l’expression de Ralph Murray, premier chef de l’IRD, dont le Congrès pour la liberté de la culture sera le principal instrument de promotion.

PartisanRev-1991q4.jpgLa tactique de la CIA et l’IRD consiste donc, dans un premier temps, à « retourner » des militants trotskistes et à s’assurer de leur obéissance. Pour cela, les services investissent une partie des fonds secrets dont ils disposent afin de « sauver » des revues radicales de la faillite totale. Ainsi la Partisan Review, fief des New York Intellectuals, ancienne tribune communiste orthodoxe, puis trotskiste, reçoit plusieurs dons. En 1952, le chef de l’Empire Time-Life, Henry Luce, verse grâce à Daniel Bell 10 000 dollars pour que la revue ne disparaisse pas. La même année, Partisan Review organise un symposium dont le thème général peut être résumé ainsi : « l’Amérique est maintenant devenue la protectrice de la civilisation occidentale ». Dès 1953, alors que les New York Intellectuals dominent le Congrès pour la liberté de la culture, Partisan Review reçoit une subvention issue du « compte du festival » du Comité américain pour la liberté de la culture, alimenté par la fondation Farfield… avec des fonds de la CIA. De la même manière, New leader animé par Sol Levitas est « sauvé » après l’intervention financière de Thomas Braden… avec l’argent de la CIA. On comprend mieux comment l’agence est parvenue à fidéliser certains groupes de la gauche radicale.

En plus du « sauvetage » de Partisan Review, la CIA collabore avec les services britanniques afin de créer une revue anticommuniste. Il recrute ainsi Irving Kristol, le directeur exécutif du Comité américain pour la liberté de la culture. Kristol est entré en 1936 à City College où il rencontre deux futurs camarades de la guerre froide, Daniel Bell et Melvin Lasky. Trotskiste antistalinien, il travaille pour la revue Enquiry. Après la guerre, recruté par les services états-uniens il retourne à New York pour diriger la revue juive Commentary. Directement financé par les crédits Farfield (CIA), il est chargé d’inventer Encounter sous la surveillance de Josselson. Le « magazine X », qu’il dirige avec le naïf Stephen Spender sera le fer de lance de l’idéologie néoconservatrice états-unienne.

La lutte contre le communisme au Congrès pour la liberté de la culture

Les New York Intellectuals et autres communistes repentis sont logiquement contactés par Josselson (placé sous les ordres de Lawrence de Neufville) qui, pour le compte de la CIA, est chargé de créer le Congrès pour la liberté de la culture. L’objectif est alors d’organiser en Europe de l’Ouest la « guerre psychologique », selon l’expression d’Arthur Koestler, contre Moscou.

Arthur Koestler, né en 1905 à Budapest, a été un militant communiste actif pendant plusieurs années. En 1932, il visite l’Union soviétique. L’Internationale finance l’un de ses livres. Après avoir dénoncé à la police secrète sa petite amie russe, il quitte Moscou et rejoint Paris. Pendant la guerre, il est arrêté et déporté en tant que prisonnier politique. La guerre terminée, Koestler écrit Le Zéro et l’infini, un livre dans lequel il retrace son parcours et dénonce les crimes du stalinisme. La rencontre des New York Intellectuals, par l’intermédiaire de James Burnham, lui permet de fréquenter les milieux où se décident les opérations culturelles secrètes. À la suite de nombreux entretiens avec des agents de la CIA, il supervise l’écriture d’un ouvrage collectif, une commande directe des services. Le Dieu des ténèbres (André Gide, Stephen Spender…) constitue une sévère condamnation du régime soviétique. Arthur Koestler est ensuite employé dans le cadre de la mise en place du Congrès pour la liberté de la culture.

Koestler écrit le Manifeste des hommes libres à la suite de la réunion du Kongress für Kulturelle freiheit de Berlin organisé en 1950 par son ami Melvin Lasky. Pour lui, « la liberté a pris l’offensive ». James Burnham est largement responsable du recrutement de Koestler qui va vite devenir, en raison de son enthousiasme, trop gênant aux yeux des conspirateurs du Congrès.

Le parrain de Koestler, James Burnham, est né en 1905 à Chicago. Professeur à l’université de New York, il collabore à diverses revues radicales et participe à la construction du Socialist Workers Party. Quelques années plus tard, il organisera la scission du groupe trotskiste. En 1941, il publie The Managerial Revolution, futur manifeste du Congrès pour la liberté de la culture, traduit en France en 1947 sous le titre de L’Ère des organisateurs. La conversion de Burnham est particulièrement spectaculaire. En quelques années, après avoir rencontré le chef des réseaux stay-behind, Franck Wisner et son assistant Carmel Offie, il devient un ardent défenseur des États-Unis, selon lui unique rempart face à la barbarie communiste. Il déclare : « Je suis contre les bombes actuellement entreposées en Sibérie ou au Caucase et qui sont destinées à la destruction de Paris, Londres, Rome, (…) et de la civilisation occidentale en général (…) mais je suis pour les bombes entreposées à Los Alamos (…) et qui depuis cinq ans sont la défense – l’unique défense – des libertés de l’Europe occidentale ». Parfaitement conscient de la fonction du réseau stay-behind, Burnham, ami intime de Raymond Aron, passe du trotskisme à la droite conservatrice devenant l’un des intermédiaire principaux entre les intellectuels du Congrès et la CIA. En 1950, lorsque le turbulent Melvin Lasky reçoit des fonds détournés du Plan Marshall, Burnham, Hook et Koestler sont vraisemblablement mis dans la confidence. Burnham va pouvoir, grâce au Congrès pour la liberté de la culture diffuser dans toute l’Europe de l’Ouest son livre The Managerial Revolution.

« Une idéologie rivalisant avec le communisme »

Raymond Aron est le principal artisan de l’importation en France des thèses des New York Intellectuals. En 1947, il sollicite les éditions Calmann-Lévy afin de afin de faire publier la traduction de The Managerial Revolution. Au même moment, Burnham défend aux États-Unis son nouveau livre Struggle for the World (Pour une domination mondiale). L’Ère des organisateurs est immédiatement interprété (à juste titre), notamment par le professeur Georges Gurvitch, comme une apologie de la « technocratie ».

Cherchant à disqualifier l’analyse en termes de luttes de classe, Burnham déclare que les directeurs sont les nouveaux maîtres de l’économie mondiale. Selon l’auteur, l’Union soviétique, loin d’avoir réalisé le socialisme, est un régime dominé par une nouvelle classe constituée de « techniciens » (dictature bureaucratique). En Europe de l’Ouest et aux États-Unis, les directeurs ont pris le pouvoir au détriment des parlements et du patronat traditionnel. Ainsi, l’ère directoriale signifie un double échec, celui du communisme et du capitalisme. La principale cible de Burnham est évidemment l’analyse marxiste-léniniste dont le principe, la dialectique historique, annonce l’avènement d’une société communiste mondiale. En fait, « le socialisme ne succédera pas au capitalisme » ; les moyens de production, partiellement étatisés, seront confiés à une classe de directeurs, seul groupe capable de diriger, en raison de leur compétence technique, l’État contemporain.

Léon Blum a bien compris la dimension fondamentalement anti-marxiste des thèses technocratiques de James Burnham. Après la guerre, en tant qu’allié de Washington, l’ancien homme fort du Front populaire doit pourtant préfacer la traduction française, non sans une certaine gêne : « Si je n’étais sûr de la sympathie des uns et de l’amitié des autres, j’aurais vu dans cette demande comme une trace de malice (…) on imagine guère d’ouvrage qui, sur la pensée d’un lecteur socialiste, puisse exercer un choc plus inattendu et plus troublant ». Avec un parrain comme Raymond Aron et un préfacier comme Léon Blum, L’Ère des organisateurs connaît un succès considérable.

Proche de Sidney Hook avec qui il soutient la « chasse aux sorcières », Daniel Bell publie en 1960 La Fin des idéologies, un recueil d’articles publiés dans Commentary, Partisan Review, New Leader et de communications du Congrès pour la liberté de la culture. La traduction française est préfacée par Raymond Boudon, qui durant toute sa vie a combattu les théories de l’école française de sociologie incarnée par Émile Durkheim et Pierre Bourdieu dans le but d’imposer une conception américanisée des sciences sociales. La Fin des idéologies, comme son nom l’indique, reprend la thèse favorite des New York Intellectuals, à savoir l’extinction du communisme comme idéal. Daniel Bell, membre actif du Congrès pour la liberté de la culture qui contribue à diffuser son livre, annonce aussi l’émergence de nouveaux conflits idéologiques : « La Fin des idéologies fait le pronostic de la désintégration du marxisme comme foi, mais ne dit pas que toute idéologie va vers sa fin. J’y remarque plutôt que les intellectuels sont souvent avides d’idéologies et que de nouveaux mouvements sociaux ne manqueront pas d’en engendrer de nouvelles, qu’il s’agisse du panarabisme, de l’affirmation d’une couleur ou du nationalisme »

De l’anticommunisme au néo-conservatisme

Les New York Intellectuals, engagés dans de multiples opérations d’infiltration, ne revèlent leur véritable appartenance idéologique que tardivement rejoignant massivement les rangs des néoconservateurs dont les principaux bastions sont déjà tenus par des marxistes repentis. Irving Kristol, qui entretient des rapports conflictuels avec Josselson, dirige de 1947 à 1952 Commentary. Une autre figure majeure du néoconservatisme, Norman Podhoretz, sera ensuite placée à la tête de la revue quasi-officielle du Congrès pour la liberté de la culture de 1960 à 1995. En France, Raymond Aron crée Commentaire en 1978. Le fils d’Irving Kristol, William, est le directeur du très néoconservateur Weekly Standard.

William Kristol

Contrairement à une thése répandue, il n’y a pas eu d’infiltration trotskiste dans la droite états-unienne, mais une récupération par celle-ci d’éléments trotskistes, d’abord dans une alliance objective contre le stalinisme, puis pour employer leurs capacités dialectiques au service de l’impérialisme pseudo-libéral. Burnham et Shatchman quittent le Socialist Workers Party et la IVe Internationale en 1940 pour fonder un parti scisionniste. Max Shatchman prône bientôt l’entrisme dans le Parti démocrate. Il rejoint le faucon démocrate Henry « Scoop » Jackson, surnommé le « sénateur Boeing » en raison de son soutien acharné au complexe militaro-industriel. Il réorganise son parti comme une tendance au sein du Parti démocrate sous l’appellation Parti des sociaux démocrates états-uniens (SD/USA). Au cours des années 70, le sénateur Jackson s’entoure de brillants assistants tels que Paul Wolfowitz, Doug Feith, Richard Perle, Elliot Abrams. En conservant le plus longtemps possible son discours d’extrême gauche, Max Shatchman fait de SD/USA une officine de la CIA apte à discréditer les formations d’extrême gauche, tandis qu’il devient l’un des principaux conseillers de l’organisation syndicale anticommuniste AFL-CIO. On trouve au bureau politique de SD/USA des personnalités comme Jeanne Kirkpatrick qui deviendront des icônes de l’ère Reagan. Dans une complète confusion des genres, le théoricien d’extrême droite Paul Wolfowitz intervient comme orateur aux congrès du parti d’extrême gauche. Carl Gershamn devient président de SD/USA, il est aujourd’hui directeur exécutif de la National Endowment for Democracy. D’une manière générale les membres de ce parti, dont les principaux relais sont la revue Commentary et le Committee for the Free World, sont récompensés pour leurs manipulations dès l’élection de Ronald Reagan.

Les New York Intellectuals n’ont pas seulement développé une critique de gauche du communisme, ils ont aussi inventé un habillage « de gauche » aux idées d’extrême droite dont la maturation finale est le néoconservatisme. Ainsi, les Kristol et leurs amis peuvent-ils présenter avec aplomb George W. Bush comme un « idéaliste » qui s’emploie à « démocratiser » le monde.


- Source : Denis Boneau