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mardi, 30 mai 2017

Brzezinski: il Carl Schmitt americano e la sua idea di impero

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Brzezinski: il Carl Schmitt americano e la sua idea di impero

Ex: http://www.linterferenza.info 

Il teorico del liberal-imperialismo Zbigniew Brzezinski è stato il più importante ed insidioso teorico reazionario di tutta la seconda metà del XX secolo.

Brzezinski fu il vero ispiratore, creatore e finanziatore di Al Qaeda in funzione anti Urss; dietro il golpe neonazista in Ucraina e la destabilizzazione della Siria c’è sempre la sua lunga mano. Esponente del sionismo cosmopolita non ha mai accettato le avventure militariste di Israele; per lui lo Stato ‘’per soli ebrei’’ doveva limitarsi ad essere una portaerei degli Usa senza rallentare troppo il progetto imperialistico nord-americano che prevede la conquista dell’Eurasia. Per questa ragione gli Usa, con tutta probabilità, non avranno più uno stratega del suo calibro, i plutosionisti vanno dietro ad Israele ‘’come un mulo’’ senza guardare alla rapace borghesia statunitense tanto cara al cinico teorico polacco.

Per questo esperto (di destra) di geopolitica Russia e Cina, o meglio tutto il blocco capitalistico euroasiatico, doveva essere smembrato; l’arma per realizzare il progetto di ‘’tribalizzazione’’ era ( ed è ) il separatismo etnico e religioso. lIn cosa differisce la Dottrina Brzezinski dalla Dottrina Kissinger? Un articolo molto documentato, di qualche anno fa, pubblicato nel sito dello studioso Miguel Martinez, ce le illustra entrambe:

‘’Lo “scontro delle civiltà”, prima di essere un articolo o un libro, è un progetto che si colloca ben al di sopra di Huntington. è un vero e proprio “piano di guerra” messo a punto da un raggruppamento di potere tra le due sponde dell’Atlantico che fa capo all’Inghilterra. La sovraccoperta del libro mette in evidenza gli elogi di due esponenti di questo mondo: Henry Kissinger e Zbignew Brzezinski. Il primo promuove gli schemi geopolitici sin dalla sua tesi di laurea ad Harvard, «A World Restored» in cui elogiava la diplomazia dell’“equilibrio delle forze” che fu instaurata al Congresso di Vienna del 1815 dal ministro degli Esteri britannico lord Castlereagh e dal Cancelliere austriaco principe di Metternich. Dopo la laurea, negli anni Cinquanta, Kissinger si dedicò a costruire quella rete harvardiana nelle varie amministrazioni democratiche e repubblicane di cui oggi Huntington è una delle figure di primo piano. Huntington è stato addestrato a ripetere quello che diceva Kissinger. Un esempio è il suo articolo apparso sul numero di Survival di gennaio-febbraio 1991, quando Bush e la Thatcher scatenarono la guerra del Golfo. Su quella rivista del britannico International Institute for Strategic Studies (IISS) Huntington scriveva che la politica americana nei confronti dell’Eurasia deve avere come premessa le teorie geopolitiche di Mackinder e adottare lo stesso approccio seguito da lord Castlereagh al Congresso di Vienna del 1815.

Brzezinski, invece, quando nel 1976 divenne Consigliere di Sicurezza Nazionale sotto Jimmy Carter, sviluppò una sua teoria geopolitica chiamata “l’Arco di Crisi”. Calcolava che tutta l’ampia regione lungo il fianco meridionale dell’Unione Sovietica sarebbe stata percorsa da instabilità sempre più destabilizzanti (a causa del “fondamentalismo islamico” oppure di conflitti tribali e razziali), e che questo doveva essere geopoliticamente sfruttato come un’arma contro l’impero sovietico. Nel National Security Council diretto da Brzezinski l’incarico di direttore della pianificazione della sicurezza era affidato ad Huntington. Brzezinski e Huntington erano giunti nell’amministrazione Carter passando per la Commissione Trilaterale, un’organizzazione fondata e finanziata da David Rockefeller nel 1974. Nel 1975 Huntington aveva realizzato per la Trilaterale lo studio «The Crisis of Democracy» in cui sosteneva che il mantenimento delle democrazie rappresentative e delle istituzioni che hanno una base popolare non è più affatto facile e garantito in un’epoca in cui l’imposizione di misure di austerità “richiede” regimi post-democratici e non-democratici’’ 1

Nel 1996 Brzezinski fonda il Central Asia Institute presso la School of Advanced International Studies della John Hopkins University. I soldi per il progetto provenivano dalla Smith Richardson Foundation ed è la stessa centrale imperialistica che permise a Brzezinski di finanziare gli strateghi reazionari di Harward e Samuel Hungtinton, il teorico dello ‘’scontro di civiltà’’. Il potere di quest’uomo fu, a dir poco, enorme. Devo ricordare che Brzezinski ‘’è stato uno dei primi promotori della carriera di Madeleine Albright, attuale segretario di Stato USA ( l’articolo risale a qualche anno fa ), prima alla Columbia University poi, nel 1978, portandola con sé, insieme ad Huntington, nel Consiglio di Sicurezza Nazionale di Carter per affidarle l’incarico di collegamento con il Congresso USA’’. Brzezinski dichiarò che la democrazia capitalistica per funzionare ha bisogno dell’apatia delle masse; le elite, per tenere buono il ‘’popolino’’, devono ricorrere a quella che Platone chiamò la ‘’nobile menzogna’’ castrando le rivendicazioni di libertà e giustizia sociale. Il pensiero geopolitico sopra illustrato, invece, prende il nome di Arco della crisi e – come vedremo – verrà riproposto anche in Siria.

Il segretario del Partito comunista siriano Ammar Baghdash, lo scorso anno a Roma, ci ha parlato della strategia imperialistica Usa, la sua analisi – certamente di grande spessore – è stata puntualmente sintetizzata da Fabrizio Marchi nelle sue linee guida essenziali:

“A Partire dagli anni ’80 – ha spiegato Baghdash – è in corso un progetto di destabilizzazione di tutto il Medio oriente da parte degli USA di cui Brzezinski fu il principale ideologo. Questa “teoria” si fonda sull’idea che esiste un’ area, che va dall’Asia centrale fino alla Somalia che è di interesse strategico per gli USA. Nello stesso tempo però questa vasta area deve essere tenuta in uno stato di costante tensione. Tale progetto prevede la distruzione e la frammentazione degli stati nazionali in tante entità e “staterelli” su base etnica e confessionale. E’ così che sono state create “tre Somalie”, la stessa sorte è toccata all’Irak, la Jugoslavia è stata distrutta, l’Afghanistan è stato occupato e anche la Libia è stata aggredita e poi smembrata’’ 2

Questo non ha impedito a Brzezinski di consigliare ad Obama, nel 2009, in caso di aggressione imperialistica israeliana contro l’Iran, di ‘’colpire i jet israeliani’’ 3. Per questa mente diabolica i nemici erano Russia e Cina, gli Usa non potevano perdere tempo, armi e denaro dietro a Netanyahu. Il vero sionismo, secondo Brzezinski, è quello anglosassone, erede del colonialismo britannico; l’imperialismo di Tel Aviv può aspettare ( ma non aspetta ).

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Professore di Obama alla Columbia University, impegnato in tutto il mondo a diffondere il suo pensiero reazionario partendo da una prospettiva certamente superiore rispetto ai più ottusi sionisti, negli ultimi mesi sembrò avvicinarsi a Donald Trump. L’Europa non è più un insieme di Stati vassalli ma una alleata. Il marxista Michele Basso ci svela quest’ultimo inganno, l’ultimo tranello di Brzezinski, articolato, complesso e, come sempre, mai banale:

‘’Brzezinski ha cambiato il linguaggio, non chiama più gli europei vassalli, ha fatto passi avanti nell’ipocrisia, pur senza raggiungere i vertici di virtuosismo di Obama. Ma non ci caschiamo. Se B. meno di 20 anni fa ci chiamava vassalli, non è credibile se oggi ci chiama alleati. E, se leggiamo bene il suo progetto, sotto le espressioni più caute, si cela la vecchia arroganza imperiale. 


Il vecchio piano egemonico non è stato cestinato, ma solo aggiornato.
Brzezinski comincia con un tono biblico ed espone 5 verità: 
“”Mentre finisce la loro epoca di dominio globale, gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale.” 


Pone cinque verità fondamentali:
La prima di queste verità è che gli Stati Uniti sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo, ma, dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale.” (Towards a Global Realignment, Zbigniew Brzezinski, The American Interest) (1)
Non seguiremo B. sul Monte Sinai, ed esporremo in modo informale le sue posizione, con le critiche.


Sulla via del dominio USA, Brzezinski trova due ostacoli : la forza militare russa e la potenza economica cinese, per ora non ancora tradotta in potenza bellica. Una guerra mondiale sarebbe troppo pericolosa, e quindi bisogna addomesticare le due potenze, offrendo soluzioni, nell’ambito del consenso di Washington, mescolate a minacce. Non si tratta di trovare accordi tra grandi stati. Ad ognuna delle 2 potenze vengono fissati d’autorità un percorso e relative zone d’influenza. Quello di Brzezinski non è tanto un messaggio alla Russia e alla Cina, quanto piuttosto una traccia di programma per il governo degli Stati Uniti, un’indicazione su come conservare, sia pure in una forma diversa, l’egemonia mondiale’’ 4

L’imperialismo Usa ha devastato tre quarti della popolazione mondiale con guerre neocoloniali degne dei regimi nazifascisti; Brzezinski se ne va con i suoi libri, le sue ampie conoscenze geopolitiche, un’ abilità diplomatica senza pari e qualche milione di morti sulla coscienza. Fu russofobo, amico di Al Qaeda e degli speculatori senza scrupoli che spaccano la schiena ad intere nazioni ma – non possiamo negarlo – padroneggiava le strategie militari ed aveva una cultura sconfinata. Per dirla con Brecht, in altri tempi, a questo strano personaggio con gli occhi da lucertola, in tanti gli avrebbero riservato un buon muro e delle buone pallottole.

http://www.kelebekler.com/caimani/24.htm

http://www.linterferenza.info/esteri/fianco-del-popolo-si...

https://comedonchisciotte.org/brzezinski-obama-dovrebbe-a...

http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o49221:m2

 

World in flames - the deadly legacy of Cold War warrior Brzezinski

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World in flames - the deadly legacy of Cold War warrior Brzezinski

by Neil Clark

Ex: https://www.rt.com

Neil Clark is a journalist, writer, broadcaster and blogger. He has written for many newspapers and magazines in the UK and other countries including The Guardian, Morning Star, Daily and Sunday Express, Mail on Sunday, Daily Mail, Daily Telegraph, New Statesman, The Spectator, The Week, and The American Conservative. He is a regular pundit on RT and has also appeared on BBC TV and radio, Sky News, Press TV and the Voice of Russia. He is the co-founder of the Campaign For Public Ownership @PublicOwnership. His award winning blog can be found at www.neilclark66.blogspot.com. He tweets on politics and world affairs @NeilClark66
 
How ironic that a major upsurge in violence in Afghanistan has coincided with the death of Zbigniew Brzezinski, the viscerally anti-Russian Cold War warrior and architect of the US policy of backing jihadists in the country to 'bleed' the Soviet Union.

On Saturday, the first day of Ramadan, 18 people were killed in a suicide blast close to a military base in Khost Province. Meanwhile, attacks by militants on the security forces in Badghis Province reportedly left 36 dead and many more wounded. On Friday, another blast killed ten civilians in Herat Province.

2017 has been a very bloody year for Afghanistan, with the UN Assistance Mission reporting more than 2,100 civilians were killed or injured between January and March.

None of this was mentioned when the establishment eulogies to Brzezinski started pouring in.

I was one of several presidents who benefited from his wisdom and counsel,” said Barack Obama.

Former Presidents George H.W. Bush and Jimmy Carter also paid generous tributes. But while our condolences go out to Brzezinski’s family and friends at this difficult time, any objective assessment of what ‘Zbig’ actually achieved as US National Security Advisor would have to conclude that his influence was disastrous not just for the people of Afghanistan, but for the world as a whole. Put simply; the world would now be a much safer place if Brzezinski had used his considerable intellectual skills in pursuits other than global politics.

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Zbig's obsession in the late 1970s was with giving the Soviet Union their own Vietnam. Appointed President Carter’s National Security Advisor in 1977 Brzezinski found himself at loggerheads with Secretary of State Cyrus Vance, a man of peace who genuinely wanted to strengthen detente with Moscow.

Brzezinski’s anti-Soviet strategy was two-fold. Firstly, to aggressively promote the issue of human rights, the so-called ‘third basket’ of the 1975 Helsinki Accords, as a means of destabilizing the eastern bloc.

Brzezinski recognized the political advantage to be had from the human rights issue, for it put pressure on the Soviet Union and rallied opposition to Moscow,” said Jeremy Isaacs and Taylor Downing in their book Cold War. But there was great hypocrisy at play here, as ‘Zbig’ was quite happy to work with governments whose human rights records were far worse than that of the Soviet Union’s to achieve his objectives.

The second strand of his strategy was to try to entice the Kremlin to send troops into Afghanistan.

To understand how Afghanistan became a new and crucial front in the Cold War we have to go back to the summer of 1973. King Mohammed Zahir Shah, who had governed the country since 1933, was deposed by his cousin Mohammed Daoud Khan with the help of Afghan communists. Daoud though continued his country’s non-aligned policy and liked to say by way of illustration that he was “ready to light his American cigarettes with Russian matches.

However, the government in Kabul was increasingly courted by the US and tempted with offers of aid. Daoud banned the communist People’s Democratic Party of Afghanistan and dismissed Soviet-trained army officers. The result was the so-called ‘Saur Revolution,’ which brought the pro-Soviet Nur Muhammad Taraki to power in April 1978.

The left-wing government initiated reforms of land ownership and encouraged women to join literacy classes alongside men,” record Isaacs and Downing.

Eurasian chessboard & total surveillance: 10 quotes by the late Zbigniew https://on.rt.com/8cvs 

Hardline Islamic clerics weren’t too happy and religious opposition to the left-wing government grew. Brzezinski saw a great opportunity to back the anti-government Mujahedeen or ‘Soldiers of God.' It’s a commonly held, but erroneous view, that the US only started to support the fundamentalist ‘rebels’ after the Soviet tanks had rolled into Kabul at Christmas 1979.

In fact, US financial assistance for anti-government forces had begun BEFORE the invasion- and was expressly designed to provoke a Soviet military response. In 1998 Brzezinski admitted that he had got President Carter to sign the first order for secret aid to ‘rebels’ in July 1979 a full five months before the Soviets intervened.

I wrote a note to the president in which I explained to him that in my opinion, this aid was going to induce a Soviet military intervention,” Brzezinski said. Even before that, US officials had been meeting with ‘rebel’ leaders. While in 1977 Zbig had set up the Nationalities Working Group - whose goal was to weaken the Soviet Union by stirring up ethnic and religious tensions.

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The Kremlin was faced with a terrible dilemma. It was damned if it did intervene to help the beleaguered Afghan government, and damned if it didn’t. There was a fear Islamic fundamentalism if prevailing in Afghanistan after the Islamic Revolution in Iran, could spread to the Soviet Union itself and on top of this NATO had agreed to site Pershing and Cruise missiles in Europe.

But still the Kremlin, perhaps suspecting a trap was being set for them, was reluctant to commit ground troops. Taraki pleaded with Moscow for more assistance and visited the Kremlin in September 1979. But not long afterward Taraki himself was toppled (and killed by suffocation with pillows) with his Prime Minister Hafizullah Amin, taking over as president. Moscow believed that Amin was getting ready to pivot toward the west.

The Kremlin finally decided to act, even though there was still opposition from within the Politburo. On 24th December 1979, Brzezinski got the Christmas present from ‘Santa’ Brezhnev that he had long wanted. “The day that the Soviets officially crossed the border, I wrote to President Carter, essentially: ‘We now have the opportunity of giving to the USSR its Vietnam War,'” he later admitted. Cyrus Vance urged a diplomatic solution, but unfortunately, Carter listened to Zbig. 

The national security advisor flew to Pakistan in early 1980 and posed, two years before the first Rambo film, for photographs holding a Chinese-made machine gun at the Khyber Pass. “Your cause is right, and God is on your side,” he told the assembled holy warriors.

Over the next decade, billions of dollars of aid and weaponry from the US and their allies poured in for the Islamist rebels, euphemistically labeled ‘freedom fighters.'

In 1982, Ronald Reagan even dedicated the Space Shuttle Columbia to the anti-government fighters.

The struggle of the Afghan people represents man’s highest aspiration for freedom,” the President declared

It wasn’t just Afghan ‘rebels’ who were fighting against the socialist government in Kabul. Encouraged and equipped by the US and their allies, between 25,000 and 80,000 fighters came in from other countries.

Hawks in Washington, following Brzezinski’s anti-Moscow lead, did all they could to prevent a diplomatic solution to the conflict. The aim, to use Zbig’s phrase, was to “make the Soviets bleed as much and as long as is possible.

Mikhail Gorbachev’s warnings about the dangers of Islamic fundamentalism and a hardliner takeover of Afghanistan having far-reaching global consequences went unheeded. The Taliban and Al-Qaeda grew out of the Mujahedeen and then many years later, the US led an invasion of Afghanistan to try and get rid of the Taliban. But the Taliban is still there (as is ISIS and Al-Qaeda) and has just launched a deadly new spring offensive.

Afghanistan has known nothing but war these last forty or so years and Brzezinski’s desire to give the Soviet Union “its Vietnam War” has an awful lot to do with it.

Not only that but his strategy of backing jihadists to destabilize and help bring down secular, socialistic governments friendly to the Soviet Union or Russia has been copied in other countries, such as Libya and Syria with such devastating consequences nationally and internationally.

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Not that the ‘great man’ showed any remorse for what he had done. Far from it. In 1998 he was asked: “Do you regret having supported Islamic fundamentalism, which has given arms and advice to future terrorists?” Brzezinski replied: “What was more important to the history of the world? The Taliban or the collapse of the Soviet empire? Some agitated Muslims or the liberation of Central Europe and the end of the Cold War?

When his interviewer then countered with “Some agitated Moslems”? But it has been said and repeated: Islamic fundamentalism represents a world menace today, Brzezinski’s response was to say ‘Nonsense.'

In 2008 when he was asked again about his Afghanistan policies Brzezinski saidI would not hesitate to do it again.” When we look back at the disagreements in 1979 and 1980 between Zbig and the more cautious Cyrus Vance, who labeled Brzezinski “evil” time has surely shown us who was right and who was wrong. If only Vance and not the too-clever-by-half academic had prevailed.

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The statements, views and opinions expressed in this column are solely those of the author and do not necessarily represent those of RT.

lundi, 29 mai 2017

The Real Story of Zbigniew Brzezinski That the Media Isn’t Telling

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The Real Story of Zbigniew Brzezinski That the Media Isn’t Telling 

by

(ANTIMEDIA) Zbigniew Brzezinski, former national security advisor to President Jimmy Carter, died Friday at a hospital in Virginia at the age of 89. Though the New York Times acknowledged that the former government advisor was a “hawkish strategic theorist,” misrepresenting his legacy as one of otherwise infinite positivity may not be as easy as the establishment might like to think.

As the United Kingdom plays around with levels of the so-called “terror threat” following a devastating attack by an ISIS-inspired individual — and as the Philippines goes into an almost complete state of martial law following ISIS-inspired destruction — Brzezinski’s timely death serves as a reminder to seek a deeper understanding of where modern terrorism originated in the first place.

As the New York Times explains, Brzezinski’s “rigid hatred of the Soviet Union” guided much of America’s foreign policy “for better or worse.” From the Times:

“He supported billions in military aid for Islamic militants fighting invading Soviet troops in Afghanistan. He tacitly encouraged China to continue backing the murderous regime of Pol Pot in Cambodia, lest the Soviet-backed Vietnamese take over that country.[emphasis added]

While it is progressive of the New York Times to note Brzezinski’s support for Islamic militants, downplaying the effect of his vindictive foreign policy agenda with a mere sentence does an injustice to the true horror behind Brzezinski’s policies.

Because a 1973 coup in Afghanistan had installed a new secular government that was leaning towards the Soviets, the U.S.  endeavored to undermine this new government by organizing multiple coup attempts through America’s lackey states, Pakistan and Iran (the latter was under the control of the U.S.-backed Shah at the time.) In July 1979, Brzezinski officially authorized aid to the mujahideen rebels in Afghanistan to be delivered through the CIA’s program “Operation Cyclone.”

Many people defend America’s decision to arm the mujahideen in Afghanistan because they believe it was necessary to defend the country and the wider region from Soviet aggression. However, Brzesinski’s own statements directly contradict this rationale. In a 1998 interview, Brzezinski admitted that in conducting this operation, the Carter administration had “knowingly increased the probability” that the Soviets would intervene militarily (suggesting they began arming the Islamist factions before the Soviets invaded, making the rationale redundant since there was no invasion Afghanistan freedom fighters needed to repel at the time). Brzezinski then stated:

Regret what? That secret operation was an excellent idea. It had the effect of drawing the Russians into the Afghan trap and you want me to regret it? The day that the Soviets officially crossed the border, I wrote to President Carter: We now have the opportunity of giving to the USSR its Vietnam war.”

This statement went further than merely boasting at the instigation of war and the ultimate collapse of the Soviet Union. In his memoir, entitled “From the Shadows,” Robert Gates — former CIA director under Ronald Reagan and George H.W. Bush and secretary of defense under both George W. Bush and Barack Obama — directly confirmed this covert operation began six months prior to the Soviet invasion with the actual intention of luring the Soviets into a Vietnam-style quagmire.

Brzezinski knew exactly what he was doing. The Soviets were then bogged down in Afghanistan for approximately ten years, fighting an endless supply of American-supplied weapons and trained fighters. At the time, the media even went so far as to laud Osama bin Laden — one of the most influential figures in Brzezinski’s covert operation. We all know how that story ended.

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Even with full knowledge of what his CIA-funded creation had become, in 1998 Brzezinski stated the following to his interviewers:

“What is most important to the history of the world? The Taliban or the collapse of the Soviet empire? Some stirred-up Moslems or the liberation of Central Europe and the end of the cold war?”

The interviewer at the time, refusing to allow this answer to pass, retorted:

“Some stirred-up Moslems? But it has been said and repeated: Islamic fundamentalism represents a world menace today.”

Brzezinski dismissed this statement outright, replying: “Nonsense!”

This occurred back when the journalists asked government officials pressing questions, a rare occurrence today.

Brzezinski’s support for these radical elements led directly to the formation of al-Qaeda, which literally translates to “the base,” as it was the base in which to launch the repulsion of the anticipated Soviet invasion. It also led to the creation of the Taliban, a deadly entity currently deadlocked in an endless battle with NATO forces.

Further, despite Brzezinski’s statements, which attempt to depict a lasting defeat of the Russian empire, the truth is that for Brzezinski, the cold war never ended. Though he was a critic of the 2003 invasion of Iraq, Brzezinski’s stranglehold over American foreign policy continued right up until his death.

It is no coincidence that in Syria, the Obama administration deployed an Afghanistan-quagmire-type strategy toward another Russian ally — Assad in Syria. A cable leaked by Wikileaks dated December 2006 — authored by William Roebuck, who was chargé d’affaires at the US embassy in Damascus at the time — stated:

“We believe Bashar’s weaknesses are in how he chooses to react to looming issues, both perceived and real, such as the conflict between economic reform steps (however limited) and entrenched, corrupt forces, the Kurdish question, and the potential threat to the regime from the increasing presence of transiting Islamist extremists. This cable summarizes our assessment of these vulnerabilities and suggests that there may be actions, statements, and signals that the USG can send that will improve the likelihood of such opportunities arising.” [emphasis added]

Much like Operation Cyclone, under Barack Obama, the CIA was spending approximately $1 billion a year training Syrian rebels (to engage in terrorist tactics, nonetheless). The majority of these rebels share ISIS’ core ideology and have the express aim of establishing Sharia law in Syria.

Just like in Afghanistan, the Syrian war formally drew in Russia in 2015, and Brzezinski’s legacy was kept alive through Obama’s direct warning to Russia’s Vladimir Putin that he was leading Russia into another Afghanistan-style quagmire.

So where might Obama have gotten this Brzezinski-authored playbook from, plunging Syria further into a horrifying six-year-long war that has, again, drawn in a major nuclear power in a conflict rife with war crimes and crimes against humanity?

The answer: from Brzezinski himself. According to Obama, Brzezinski is a personal mentor of his, an “outstanding friend” from whom he has learned immensely. In light of this knowledge, is it any surprise that we saw so many conflicts erupt out of nowhere during Obama’s presidency?

On  February 7, 2014, the BBC published a transcript of a bugged phone conversation between Assistant Secretary of State Victoria Nuland and the U.S. Ambassador to Ukraine, Geoffrey Pyatt. In that phone call, the representatives were discussing who they wanted to place in the Ukrainian government following a coup that ousted Russian-aligned president Viktor Yanukovych.

Lo and behold, Brzezinski himself advocated taking over Ukraine in his 1998 book, The Grand Chessboard, stating Ukraine was “a new and important space on the Eurasian chessboard…a geopolitical pivot because its very existence as an independent country (means) Russia ceases to be a Eurasian empire.” Brzezinski warned against allowing Russia to control Ukraine because “Russia automatically again regains the wherewithal to become a powerful imperial state, spanning Europe and Asia.”

Following Obama, Donald Trump came into office with a completely different mentality, willing to work with Russia and the Syrian government in combatting ISIS. Unsurprisingly, Brzezinski did not support Trump’s bid for the presidency and believed Trump’s foreign policy ideas lacked coherence.

All that being said, just last year Brzezinski appeared to have changed his stance on global affairs and instead began to advocate a “global realignment” — a redistribution of global power — in light of the fact that the U.S. is no longer the global imperial power it once was. However, he still seemed to indicate that without America’s global leadership role, the result would be “global chaos,” so it seemed unlikely his change in perception was rooted in any actual meaningful change on the geopolitical chessboard.

Further, the CIA’s very existence relies on the idea of a Russian threat, as has been evidenced by the agency’s complete assault on the Trump administration whenever it appears détente is possible with the former Soviet Union.

Brzezinski died safely in a hospital bed, unlike the millions of displaced and murdered civilians who were pawns in Brzezinski’s twisted, geopolitical chess games of blood and lunacy. His legacy is one of militant jihadism, the formation of al-Qaeda, the most devastating attack on U.S. soil by a foreign entity in our recent history, and the complete denigration of Russia as an everlasting adversary with which peace cannot — and should not — ever be attained.

« Le grand échiquier » de Zbigniew Brzezinski

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« Le grand échiquier » de Zbigniew Brzezinski

par Philippe Raggi

Ex: http://www.polemia.com 

L’œil américain sur l’échiquier mondial.

♦ Il est toujours bon de rappeler certaines choses, même si celles-ci furent dites il n’y a pas si longtemps de cela ; n’est-ce pas un des premiers principes pédagogiques ?
Ainsi, les propos de Zbigniew Brzezinski peuvent-ils prendre aujourd’hui peut-être davantage de reliefs, de couleurs, quatorze ans après la publication française de son ouvrage intitulé Le grand échiquier paru chez Fayard.

Très proche de l’exécutif américain, ancien conseiller à la sécurité de la présidence des Etats-Unis, expert fort écouté du Center for Strategic and International Studies, membre du très influent Counsil on Foreign Relations, Zbigniew Brzezinski est loin d’être un personnage de second rang. Quelques années après le médiatique « Clash of civilisations » de Samuel P. Huntington, où développant le concept d’Occident cet auteur désignait les adversaires des Etats-Unis et l’importance du bloc islamo-confuséen, et où le paradigme de l’après guerre froide devenait le choc des civilisations, Brzezinski faisait paraître The grand chessboard. Cet ouvrage est un examen sérieux de géopolitique mondiale, et trace les objectifs stratégiques des Etats-Unis pour les prochaines décennies.

Dès l’introduction, nous sommes renseignés sur la portée de l’ouvrage ; il ne s’agit pas d’un énième travail de géostratégie présentant les forces, les interactions, les évolutions, les constantes du monde contemporain, mais bien d’une vision de géostratégie s’inscrivant dans une eschatologie terrifiante. Le but est clair : asseoir et renforcer le rôle dominant des Etats-Unis comme première puissance mondiale ; pour cela, nous dit Brzezinski, il faut à tout prix empêcher l’émergence d’une puissance sur le continent eurasien capable de rivaliser avec les Etats-Unis. En effet, nous dit-il, celui qui tiendrait ce continent serait le maître du monde ; Hitler et Staline, qui l’avaient compris, s’y sont d’ailleurs essayés dans le passé mais sans succès. Les Etats-Unis doivent veiller au respect légitime de la primauté américaine sur cette Eurasie, car ses objectifs sont « généreux ». Ainsi, dans cette logique implacable, défier l’Amérique serait agir contre « les intérêts fondamentaux de l’humanité ». Tout est dit.

Dans le premier chapitre, nous est brossé le tableau de l’évolution de la puissance américaine depuis 1898 (guerre contre l’Espagne) jusqu’à son état actuel de première puissance mondiale. Nous y voyons cette attitude anti-européenne constitutive de la création des Etats-Unis : cette Europe aux « privilèges archaïques et aux hiérarchies sociales rigides ». La première irruption des Etats-Unis dans la géopolitique européenne n’est pas abordée du point de vue de ses portées réelles, meurtrières (les quatorze points de Wilson portant en germe les conflits européens à venir), mais sous l’angle du formidable idéalisme américain allié à une puissance militaire, économique sans précédent qui font que ses principes sont pris en compte dans la recherche de solutions aux problèmes européens ; le nouvel acteur de l’arène internationale fait valoir sa vision du monde.

La fin de la seconde guerre mondiale fait émerger un monde bipolaire, et le temps de la guerre froide voit se mettre en place des enjeux géopolitiques clairement définis : les Etats-Unis contre l’Eurasie (URSS), avec le monde comme enjeu. Avec l’effondrement et l’éclatement de l’Union Soviétique, les Etats-Unis deviennent, nous dit Brzezinski, « la première puissance globale de l’histoire ». Le parallèle avec Rome est vite amené, et nous apprenons que Rome (empire simplement régional) est même dépassée.

L’auteur établit ensuite la liste des empires ayant eu une aspiration à la domination mondiale ; il y en a eu trois : l’empire romain, la Chine impériale et l’empire mongol. Parmi ces trois, seul l’empire mongol approche la définition moderne de puissance mondiale, nous dit Brzezinski ; seul cet empire peut être comparé aux Etats-Unis d’aujourd’hui. Mais, après deux siècles d’existence (du XIIIème au XVème siècle), cet empire disparaissait sans laisser de traces ; ce qui devrait faire réfléchir d’avantage l’auteur.

L’Europe devient ensuite le foyer de la puissance globale et le lieu où se déroule les luttes pour l’acquérir, sans toutefois être dominé par un Etat en particulier. Brzezinski note que la France en premier lieu (jusqu’en 1815), puis la Grande-Bretagne (jusqu’en 1914) ont eu leur période de prééminence. Mais, aucun de ces empires n’a vraiment été global. Le fait que les Etats-Unis se soient élevés au rang de puissance globale est, lit-on, unique dans l’histoire. Ce pays a un appareil militaire qui est le seul à avoir un rayon d’action global.

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Cette prééminence fait de l’ombre à la Russie et à la Chine ; néanmoins, le retard technologique de ces deux pays fait qu’ils n’ont pas de politique significative sur le plan mondial. Dans les quatre domaines clés (militaire, économique, technologique et culturel) les Etats-Unis sont dominants, et ceci lui confère la position de seule superpuissance globale.

Brzezinski développe ensuite ce « système global » propre aux Etats-Unis. La puissance globale des Etats-Unis viendrait d’une part du pluralisme de sa société et d’autre part de son système politique. Incidemment, nous apprenons que par le passé les Européens, dans leurs visées impériales, n’ont été que des « aventuriers ». Autre élément de ce système : les idéaux démocratiques sont aujourd’hui identifiés dans le monde comme issus de la tradition politique américaine ; les Etats-Unis sont devenus Le modèle incontournable. La doctrine américaine, « mélange actif » d’idéalisme et d’égoïsme, est le seul qui prévaut; bien entendu ceci pour le plus grand profit de tous.

Mais cette suprématie américaine repose également, apprend t-on, sur un système élaboré d’alliances couvrant la planète. L’OTAN, l’APEC, le FMI, l’OMC, etc. (dans lesquels les Etats-Unis ont un rôle prépondérant, sinon directif) constituent un réseau mondial actif et incontournable dans la constitution et la conservation de la puissance globale américaine. Et les Etats-Unis se doivent de conserver cette position d’hégémonie globale sans précédent ; il y aurait comme une « mission » confiée à ce pays. Il lui faut impérativement prévenir toute émergence de rivaux, maintenir le statu quo ; ceci au nom du bien être de l’humanité, bien entendu.

De nouveau, dans le second chapitre, et avec la même logique utilisé par l’auteur dans l’introduction, on apprend que le maintien de la prééminence des Etats-Unis dans le monde va de pair avec la paix dans le monde. L’enjeu est l’Eurasie, nous dit Brzezinski ; C’est l’Eurasie qui est « l’échiquier », c’est là que se déroule le jeu pour la domination mondiale. Apparaît alors la phobie des Etats-Unis : une éventuelle unité politique de l’Eurasie. Et l’auteur d’établir l’univers des possibles, la recension des différents cas de figures qui feraient que les Etats-Unis seraient en position d’affaiblissement ; nous apprenons que l’hégémonie américaine est superficielle, et qu’elle ne passe pas par un contrôle direct sur le monde. C’est ce qui distinguerait l’Amérique des empires du passé. De plus, toujours dans les faiblesses du « géant », il y a le fait que le système de la démocratie « exclu toute mobilisation impériale » ; mais on peut en douter justement par ces moyens d’alliances et de coalitions très « incitatifs » mis en place. Nous sommes également surpris dans la vision que Brzezinski prête aux Américains face à leur statut de superpuissance mondiale sans rivale : ils ne considèreraient pas que ce statut leur confère des avantages particuliers. Les faits prouveraient plutôt autre chose.

Nous abordons plus loin les thèmes de la géostratégie et de la géopolitique. Sans surprise, nous apprenons que la géographie prédestine les priorités immédiates des pays ; nous le savions depuis au moins Napoléon. Halford J. Mackinder au début du siècle avait tracé déjà ce que nous avions vu plus haut développé par Brzezinski, à savoir que « qui gouverne l’Europe de l’Est domine le heartland, qui gouverne le heartland domine l’île-monde, et qui gouverne l’île-monde domine le monde » (le heartland étant le cœur continental). L’Amérique suit donc cette voie pour parvenir au maintien de son rang.

Suit une analyse des principaux acteurs et une reconnaissance appropriée du terrain. Les Etats eurasiens possédant une réelle dynamique géostratégique gênent les Etats-Unis, il s’agit donc pour ces derniers de formuler des politiques spécifiques pour contrebalancer cet état de fait. Ceci peut se faire par trois grands impératifs : « éviter les collusions entre vassaux et les maintenir dans l’état de dépendance que justifie leur sécurité ; cultiver la docilité des sujets protégés ; empêcher les barbares de former des alliances offensives ». Tout le programme des Etats-Unis est là. Pour la poursuite de son analyse, Brzezinski distingue les « acteurs géostratégiques » (France, Allemagne, Russie, Chine et Inde) des « pivots géopolitiques » (Ukraine, Azerbaïdjan, Corée, Turquie et Iran). Les premiers sont en mesure de modifier les relations internationales, « au risque d’affecter les intérêts de l’Amérique » ; les seconds ont une position géographique leur donnant « un rôle clé pour accéder à certaines régions ou leur permet de couper un acteur de premier plan des ressources qui lui sont nécessaires ».

La France et l’Allemagne sont deux acteurs géostratégiques clés qui, par « leur vision de l’Europe unie », (…) « projet ambitieux », (…) « s’efforcent de modifier le statu quo ». Ces acteurs sont l’objet « d’une attention toute particulière des Etats-Unis ». Cependant, on peut se poser la question de la « réelle volonté d’indépendance européenne » instiguée par ces deux pays.

La Russie, joueur de premier plan malgré l’affaiblissement de son Etat, n’a pas tranché quant à son attitude vis à vis des Etats-Unis : partenaire ou adversaire ? La Chine, puissance régionale importante, a des ambitions élevées : la Grande Chine. Le Japon, puissance internationale de premier ordre mais qui ne souhaite pas s’impliquer dans la politique continentale en Asie. Maintenir les relations avec le Japon est un impératif pour les Etats-Unis, ne serait-ce que pour maintenir la stabilité régionale. L’Inde, qui se définit comme un rival de la Chine, est le seul pôle de pouvoir régional en Asie du Sud ; cependant ce pays n’est pas gênant pour l’Amérique car il ne contrarie pas les intérêts américains en Eurasie. L’Ukraine, l’Azerbaïdjan : le sort de ces deux pays dicteront ce que sera ou ne sera pas la Russie à l’avenir. La Turquie, facteur de stabilité dans la Mer Noire, sert de contrepoids à la Russie dans le Caucase, d’antidote au fondamentalisme islamique, et de point d’ancrage au Sud pour l’OTAN. Brzezinski nous fait là un chantage à l’islamisme pour que la Turquie intègre l’Union Européenne : « l’Amérique va profiter de son influence en Europe pour soutenir l’admission éventuelle de la Turquie dans l’UE, et mettre un point d’honneur à la traiter comme un état européen » afin qu’Ankara ne glisse vers les intégristes islamiques. Mais les motifs américains sont aussi plus prosaïques : les Etats-Unis soutiendront « avec force l’ambition qu’ont les Turcs de mettre en place un pipeline reliant Bakou à Ceyhan qui servirait de débouché à la majeure partie des ressources en énergie du bassin de la mer Caspienne ». L’Iran est, curieusement, un élément stabilisateur dans la redistribution du pouvoir en Asie Centrale ; il empêche la Russie de menacer les intérêts américains dans la région du golfe persique. « Il n’est pas dans l’intérêt des Etats-Unis de continuer à avoir des relations hostiles avec l’Iran », et ceci « malgré son sentiment religieux, à condition que celui-ci ne se traduise pas par un sentiment anti-occidental ». Mais les véritables raisons pointent quelques lignes plus bas, avec « la participation des Etats-Unis au financement de projets de pipelines entre l’Iran, l’Azerbaïdjan et le Turkménistan ».

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Vis à vis de l’Europe, les USA sont, dans les principes tout au moins, pour la construction européenne ; cependant, leur souhait est une Europe vassale. L’OTAN est non seulement le support essentiel de l’influence américaine mais aussi le cadre de sa présence militaire en Europe de l’Ouest. Pour autant, c’est un réel partenariat que souhaite l’Amérique ; on peut se demander toutefois, à l’aune de ces points de vues contradictoires (une Europe à la fois vassale et partenaire), quelle est la marge de manœuvre laissée à l’Europe par les Etats-Unis, et dans quels domaines elle pourrait s’exercer.

La problématique géostratégique européenne sera, lit-on, directement influencée par l’attitude de la Russie et de sa propre problématique. Et pour faire face à toute éventualité, les Etats-Unis doivent empêcher la Russie de « recouvrer un jour le statut de deuxième puissance mondiale » ; à terme, ce pays posera un problème lors de son rétablissement comme « empire ». L’Asie centrale, zone inflammable, pourrait devenir le champ de violents affrontements entre Etats-nations. Le Golfe persique est une chasse gardée des Etats-Unis ; « la sécurité dans cette zone est du ressort de l’Amérique ». On comprend mieux les enjeux de la guerre menée contre l’Irak. Le défi du fondamentalisme islamique quant à lui « n’est guère stratégique » ; ce qui expliquerait l’attitude ambiguë des USA à l’égard de celui-ci. L’Islam n’a pas d’ « Etat-phare » dirait Huntington. La Chine pour sa part évolue, mais l’incertitude demeure quant à sa démocratisation. Brzezinski note que dans le cas de l’émergence d’une « grande Chine », le Japon resterait passif ; cette neutralité cause quelques craintes aux Etats-Unis. De plus, les Etats-Unis doivent se prémunir contre l’éventualité d’un développement de l’axe sino-japonais. L’Amérique doit faire des concessions à la Chine si elle veut traiter avec elle ; « il faut en payer le prix » nous dit l’auteur. Toujours dans cette zone, la mesure impérative de la stratégie US est « le maintien de la présence américaine en Corée du Sud » ; elle est d’« une importance capitale ». Une autre crainte américaine serait la naissance d’une grande coalition entre la Chine, la Russie et peut-être l’Iran ; une coalition anti-hégémonique, « unie par des rancunes complémentaires ». Enfin, pour maintenir la primauté américaine, la solution adoptée et recommandée est « l’intégration de tous ces Etats dans des ensembles multilatéraux, reliés entre eux, et sous l’égide des Etats-Unis ».

Le chapitre suivant aborde l’Europe, « tête de pont de la démocratie », où il faut entendre en fait, bien sûr, « tête de pont des Etats-Unis ». L’Union Européenne, union supranationale, dans le cas où elle réussirait deviendrait une puissance globale, apprend t-on ; ce qui veut dire qu’elle ne l’est pas aujourd’hui. La réussite de ce projet, permettrait à ces pays européens « de bénéficier d’un niveau de vie comparable à celui des Etats-Unis » ; mais est-ce vraiment la panacée, et a-t-on besoin de cette Europe-là pour y parvenir ? Par ailleurs, ce niveau de vie n’est-il pas déjà atteint ? Dans l’appréciation de cette idée de projet européen, on note toujours un « oui, mais » ; en effet, cette Europe est placée incidemment « sous l’égide américaine ». Nous pouvons à juste titre nous demander où est le réel « partenariat », « la réelle équité » tant vantée par l’auteur ?

Brzezinski nous fait un tableau sans concession de l’Union Européenne : les Etats européens dépendent des Etats-Unis pour leur sécurité ; une « Europe vraiment européenne n’existe pas » ; et poursuit-il, « sans détour, l’Europe de l’Ouest reste un protectorat américain ». Tous ceci est un soufflet à ceux qui pensent que l’Europe, grâce à l’Union, est la structure permettant une indépendance vis à vis des Etats-Unis. Comme la situation de l’Union européenne est floue, indécise, « les Etats-Unis ne doivent pas hésiter à prendre des initiatives décisives ».

« Le problème central pour l’Amérique est de bâtir une Europe fondée sur les relations franco-allemandes, viable, liée aux Etats-Unis et qui élargisse le système international de coopération démocratique dont dépend l’exercice de l’hégémonie globale de l’Amérique ». Ainsi, comme partout ailleurs, les USA se moquent de leurs « alliés » du moment ; seuls comptent les intérêts finaux américains. Observant la politique européenne et son évolution récente, Brzezinski nous dit que la lutte contre la montée « de l’extrémisme politique et du nationalisme étriqué » doit se faire par la constitution « d’une Europe plus vaste que la somme de ses parties – c’est à dire capable de s’assigner un rôle mondial dans la promotion de la démocratie et dans la défense des droits de l’homme ». Le procédé est toujours le même ; pour asseoir ses fins, il faut « diluer» les entités dans des ensembles plus vastes. De plus, dans le processus de construction « européenne », l’UEO apparaît de fait comme l’antichambre de l’OTAN. Il est trop tôt, nous dit Brzezinski, pour fixer catégoriquement les limites orientales de l’Europe. Cependant, pour ce qui est du connu, « l’objectif géostratégique central de l’Amérique en Europe est de consolider sa tête de pont sur le continent eurasien » ; ceci pour constituer un tremplin dans le but « d’instaurer en Eurasie un ordre international fondé sur la démocratie et la coopération », en fait sur la domination américaine.

Le rôle de l’Allemagne est celui du bon vassal, « bon citoyen de l’Europe, partisan déterminé des Etats-Unis » ; elle n’a jamais remis en cause « le rôle central des Etats-Unis dans la sécurité du continent ». C’est l’effondrement du bloc soviétique qui a fait que « pour l’Allemagne, la subordination à la France n’offrait aucun bénéfice particulier ». Elle a aujourd’hui un rôle entraînant ; « en entretenant des relations étroites avec la puissante Allemagne, ses voisins bénéficient de la protection rapprochée des Etats-Unis ». Avec le rapprochement germano-polonais, « l’Allemagne peut exercer son influence jusque dans les pays baltes, l’Ukraine, la Biélorussie ». La sphère d’influence allemande s’est déplacée vers l’Est, et « la réussite de ces initiatives confirme la position dominante de l’Allemagne en Europe centrale ». Sans l’élargissement de l’OTAN aux pays de l’Est, « l’Amérique essuierait une défaite d’une ampleur mondiale », note Brzezinski. Ainsi, la collaboration américano-germanique est-elle « nécessaire pour élargir l’Europe vers l’Est ». Par ailleurs, nous apprenons que « l’Europe ne se réalisera pas sous l’égide de Berlin » ; parions toutefois que, pour l’auteur, cela ne s’envisage bien plutôt « sous l‘égide de Washington ».

Quant à la France, « puissance moyenne post-impériale », elle n’a pas les moyens de ses prétentions. Son rêve de grandeur pour une Europe sous conduite française correspondrait pour elle, nous dit l’auteur, à la « grandeur de la France ». Cependant, elle pourrait avoir des velléités pour traiter directement avec la Russie, et ainsi s’affranchir relativement des Etats-Unis ; nous voyons poindre là une légère inquiétude vis à vis de la France. Pour autant, la France est tout de même « un partenaire indispensable pour arrimer définitivement l’Allemagne à l’Europe ». N’étant pas assez forte pour faire obstacle aux objectifs géostratégiques américains en Europe, « la France avec ses particularismes et ses emportements peut être tolérée ». Quant au couple franco-allemand est primordial pour les intérêts américains ; une remise en cause de cette unité « marquerait un retour en arrière de l’Europe », et serait « une catastrophe pour la position américaine sur le continent ». Il est clair également que les Etats-Unis se servent de l’Allemagne (dominant économiquement en Europe) pour canaliser et « tenir » la France.

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La chapitre suivant, intitulé « Le trou noir », traite de la Russie à l’aune des changements survenus depuis la fin de l’Union Soviétique et la naissance de la Communauté des Etats Indépendants. « Il est indispensable que l’Amérique contre toute tentative de restauration impériale au centre de l’Eurasie » qui ferait obstacle à ses objectifs géostratégiques premiers : « l’instauration d’un système euro-atlantique ». Après l’effondrement de l’Empire, qui a vu un vide politique (le « trou noir ») s’instaurer au cœur même de l’Eurasie, et qui a ramené la Russie « au niveau d’une puissance régionale du tiers monde », Brzezinski constate que cet état a très peu d’espaces « géopolitiquement sûrs ».

Les frontières actuelles de la Russie ont reculé de plus de mille kilomètres vers le Nord après 1991, et les états qui l’entourent actuellement constituent une ceinture, un obstacle à son épanouissement, à son développement ; ceci tant vers l’Est que vers la Mer Noire et le Sud-Est de l’ancien Empire. L’auteur fournit une réponse américaine aux questions russes ; l’Amérique se préoccupe de savoir « ce qu’est la Russie, et ce que doivent être ses missions ainsi que son territoire légitime ». Mais la raison essentielle qui fait le regard critique, systématique américain vis à vis de la Russie est qu’elle a « une identité eurasienne », une « personnalité eurasienne », ce que les Etats-Unis n’ont pas par nature. Et si les Etats-Unis soutiennent l’Ukraine c’est que sans ce dernier, aucune restauration impériale n’est possible pour la Russie. C’est l’application de la technique du « roll back », celle du refoulement de la Russie vers l’Asie.

Plus loin, Brzezinski note que les Etats de l’ex-URSS, pour échapper aux nouvelles visées « impériales » russes, « ont cherché à tisser leurs propres réseaux de relations internationales, avec l’Ouest pour l’essentiel, mais aussi avec la Chine ou les pays musulmans au Sud ». La seule solution honorable pour la Russie, nous dit l’auteur, est « une direction partagée avec l’Amérique » ; ce pays « devrait se résoudre à jouer un rôle de tampon entre l’expansionnisme chinois et l’Ouest », à choisir l’Europe, alliée des Etats-Unis, pour faire face à d’éventuelles visées expansionnistes chinoises. Reste donc pour Moscou le « choix européen, seule perspective géostratégique réaliste » ; et, par choix « européen » ont peut entendre, en fait, choix « occidentalo-américain ». Pour les Etats-Unis, « la Russie paraît vouée à devenir un problème », et d’autant plus si d’aventure une alliance avec la Chine et l’Iran se concrétisait. C’est la raison pour laquelle les Etats-Unis doivent « éviter de détourner la Russie de son meilleur choix géopolitique » à savoir, l’Europe atlantiste. La Russie doit s’intégrer à l’Europe, en suivant un processus graduel, commençant par sa « participation au Conseil de l’Europe », à l’instar de la Turquie Kémaliste qui « s’est engagée sur la voie de la modernisation, de l’européanisation et de la démocratisation » ; la deuxième étape de cet arrimage européen de la Russie serait la proposition d’une charte avec l’OTAN par l’Europe et l’Amérique. Enfin, ultime étape dans ce processus, l’intégration de la Russie dans l’Union Européenne. Cependant, précise l’auteur, le choix de l’Europe pour la Russie se fera plus facilement une fois l’Ukraine intégrée elle-même à l’OTAN et à l’Union Européenne.

Les « Balkans eurasiens » sont l’objet du chapitre suivant. Ces nouveaux « Balkans » sont constitués de neufs pays : le Kazakhstan, le Kirghizistan, le Tadjikistan, l’Ouzbékistan, le Turkménistan, l’Azerbaïdjan, l’Arménie, la Géorgie et l’Afghanistan. Les facteurs d’instabilité des ces « Balkans eurasiens » sont nombreux : de graves difficultés nationales, des frontières contestées des voisins ou des minorités ethniques, peu d’homogénéité nationale, des luttes territoriales, ethniques ou religieuses. Toutes les options peuvent donc être envisagées quant à l’avenir de cette région, nous dit Brzezinski.

Les voisins intéressés, nourrissant des visées politiques sur la région sont la Russie, la Turquie, l’Iran et la Chine. La Russie qui veut retrouver sa zone d’influence, renouer avec ses républiques d’hier, et dont les visées géopolitiques vont vers le Sud, en direction de l’Azerbaïdjan et du Kazakhstan.; la Turquie qui se considère comme le leader potentiel d’une communauté turcophone aux frontières très floues ; l’Iran, dont le principal souci est le renouveau de l’islam en Asie centrale ; la Chine enfin, que les ressources énergétiques de la région attirent, et qui veut y avoir un accès direct hors contrôle de Moscou. Les motifs d’intérêts sont essentiellement économiques : « la région renferme une énorme concentration de réserve de gaz naturel, d’importantes ressources pétrolières, auxquelles viennent s’ajouter des gisements de minerais, notamment des mines d’or ». Mais il y a aussi des raisons plus profondes (et qu’il est curieux de voir soulever par un américain) des facteurs « relevant de l’histoire ».

D’autres pays ont leurs regards tournés vers cette région : le Pakistan qui veut exercer une influence politique en Afghanistan et profiter à terme de la construction de pipelines reliant l’Asie centrale à la Mer d’Oman. L’Inde qui, pour faire face aux projets du Pakistan et à la montée de l’influence chinoise, est favorable au développement de l’influence iranienne en Afghanistan, ainsi qu’à une présence russe plus importante dans ses anciennes républiques. Les Etats-Unis enfin, qui « agissent en coulisse », cherchent à ménager le pluralisme géopolitique, et tentent « d’empêcher la Russie d’avoir la suprématie ». La dynamique russe et les « ambitions anachroniques » de Moscou dans cette région sont « nuisibles à la stabilité de celle-ci ». Et nous apprenons que « les objectifs géostratégiques américains recouvrent en fait les intérêts économiques de l’Europe et de l’Extrême-orient » ; nous sommes toujours dans cette logique « philanthropique » américaine. L’engagement des Etats-Unis dans cette région, nous dit Brzezinski, est considérée par les pays concernés comme « nécessaire à leur survie ». Les motifs généraux américains sont les pipelines et leurs tracés actuels ; le but des Etats-Unis étant de ne plus passer par des pipelines courant sur le territoire russe, non plus au Nord donc mais par le Sud et la médiane de cette région des Balkans eurasiens. « Si un pipeline traversait la Mer Caspienne pour atteindre l’Azerbaïdjan et, de là, rejoignait la Méditerranée en passant par la Turquie, tandis qu’un autre débouchait sur la Mer d’Oman en passant par l’Iran, aucune puissance unique ne détiendrait le monopole de l’accès à la région ». On comprend aisément à cette lumière les actions et les soutiens américains à tel ou tel pays ; on peut saisir ainsi la bienveillance des Etats-Unis pour les « étudiants en théologie », les Pachtouns de Kaboul, au détriment des Tadjiks d’Ahmed Shah Massoud concentrés dans les régions du Nord de l’Afghanistan.

Dans l’avenir, Brzezinski voit dans ses Balkans eurasiens une montée de l’islamisme, des conflits ethniques, un morcellement politique, et une guerre ouverte le long de la frontière méridionale de la Russie. Une zone donc qui fera sans doute parler d’elle bientôt.

Quelle doit être la politique américaine en extrême orient ? C’est l’objet du chapitre suivant. Pour être efficace, elle doit avoir un point d’ancrage dans cette région, nous dit l’auteur. Il est essentiel, poursuit-il, que les Etats-Unis aient d’étroites relations avec le Japon, et qu’ils établissent une coopération avec la Chine. Si l’extrême orient connaît aujourd’hui un dynamisme économique extraordinaire, il va néanmoins de pair avec une incertitude politique croissante. C’est « un volcan politique en sommeil » ; il ne possède pas de « structures de coopération multilatérale » comme l’Union européenne et l’OTAN, et ce malgré l’ASEAN. Cette région est devenue, selon l’Institut International d’Etudes Stratégiques, « le plus gros importateur d’armes, dépassant l’Europe et le Moyen-Orient ».

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Il existe dans cette partie du monde de nombreux points de frictions : les relations entre la Chine et Taiwan ; les îles Paracels et Spratly, objets de multiples convoitises ; l’archipel Senkaku qui sont disputées par la Chine et le Japon ; la division de la Corée et l’instabilité inhérente à la Corée du Nord ; les îles Kouriles, sujets à controverses entre la Russie et le Japon ; enfin, des conflits territoriaux et / ou ethniques divers, le long de la frontière chinoise, également entre le japon et la Corée, enfin entre la Chine et l’Indonésie à propos des limites océaniques. La Chine est « la puissance militaire dominante de la région » ; et, dans l’absence d’équilibre entre les puissances, l’on a vu l’Australie et l’Indonésie se lancer dans une plus grande coopération militaire ; Singapour a également, avec ces deux pays, développé une coopération en matière de sécurité. La probabilité de voir se réaliser ces conflits dépendront « de la présence et du comportement américains ».

Brzezinski vante la Chine du passé, « pays qui [ au XVIIème siècle ] dominait le monde en termes de productivité agricole, d’innovation industrielle et par son niveau de vie ». Puis, il compatit avec les « cent cinquante années d’humiliation qu’elle a subies » ; la Chine doit être « lavée de l’outrage causé à chaque chinois », et « les auteurs doivent être châtiés ». Parmi les auteurs, la Grande-Bretagne a été dépossédée de son Empire, la Russie a perdu son prestige et une partie de son territoire ; restent les Etats-Unis et le Japon qui sont le principal souci de la Chine aujourd’hui. Selon l’auteur, la Chine refuserait « une véritable alliance sino-russe à long terme, car elle aurait pour conséquence de renforcer l’alliance nippo-américaine » et car « cette alliance empêcherait la Chine d’accéder à des technologies modernes et à des capitaux, indispensables à son développement ».

Nous est brossé ensuite les différents cas de figure possibles. L’auteur fait état des prévisions prometteuses relatives à la Chine ; cependant, il doute de ses capacités à « maintenir pendant vingt ans ses taux de croissance spectaculaire ». Actuellement, nous dit-il, la croissance rapide de la Chine accentue la fracture sociale liée à la répartition des richesses ; ces inégalités ont un impact sur la stabilité du pays. Mais le rayonnement de la Chine « pourraient bien amener les riches chinois d’outre-mer à se reconnaître dans les aspirations de la Chine ». Autre cas de figure évoqué, l’éventualité d’un repli sur soi de la Chine.

Dans son espace régional, la Chine joue le Pakistan et la Birmanie contre l’Inde son « rival géopolitique ». L’objectif de Pékin serait « une plus grande influence stratégique sur l’Asie du Sud-Est », contrôler le détroit de Malacca et le goulet de Singapour. La Chine élabore « une sphère d’influence régionale » ceci en particulier vers ses voisins de l’Ouest qui cherchent un contre poids à l’influence russe. Brzezinski traite des relations américano-chinoise mais sans comprendre l’attitude de Pékin, et en jouant les naïfs : « (…) en raison de ce qu’ils sont et de leur simple présence, les Etats-Unis deviennent involontairement l’adversaire de la Chine au lieu d’être leur allié naturel ». Par ailleurs, les Chinois savent que « leur influence dans la région se trouverait automatiquement renforcée par la moindre attaque qui viendrait miner le prestige américain ». L’objectif central de la politique chinoise serait d’affaiblir l’Amérique pour que cette dernière ait besoin d’une Chine « dominant la région » et « mondialement puissante pour partenaire ».

Autre point d’extrême orient analysé par l’auteur : le Japon, dont les relations avec l’Amérique, nous dit-il, feraient dépendre l’avenir géopolitique de la Chine. Le paradoxe du Japon est qu’il « a beau être riche, dynamique et économiquement puissant, il n’en est pas moins un Etat isolé dans sa région et politiquement limité dans la mesure où il est tributaire d’un allié puissant qui s’avère être non seulement le garant de l’ordre mondial mais aussi son principal rival économique » : les Etats-Unis. Mais, « la seule véritable question politique pour le Japon consiste à savoir comment utiliser la protection des Etats-Unis afin de servir ses propres intérêts ». Le Japon est, apprend-t-on, un pays «qui ne se satisfait pas du statu quo mondial ». Depuis le milieu des années quatre-vingt-dix, note Brzezinski, on observe une redéfinition de la politique étrangère de ce pays. Cette redéfinition porte le Japon à « ménager la Chine plutôt que de laisser le soin aux Etats-Unis de la contenir directement ». Cependant « très peu [de japonais] se prononcent en faveur d’une grande entente entre le Japon et la Chine » car cela déstabiliserait la région, et provoquerait le désengagement des USA, subordonnant la Corée et Taiwan à la Chine, mettant « le Japon à la merci de cette dernière ».

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Les Etats-Unis veilleront à ce que le Japon mette « en place une coopération véritablement internationale, mieux institutionnalisée » à l’instar du Canada, « Etat respecté pour l’utilisation constructive de ses richesses et de son pouvoir, et qui ne suscite ni craintes ni ressentiments ». Les objectifs globaux des USA étant de faire du Japon « le partenaire essentiel et privilégié de la construction d’un système » de coopération mondiale.

La partie n’est pas gagnée d’avance en extrême orient pour les Etats-Unis, concède Brzezinski, car « la création d’une tête de pont démocratique est loin d’être imminente (…) contrairement à ce qui s’est passé en Europe ». On note la prudence des Etats-Unis vis à vis de la Chine : « il est préférable de la traiter comme un acteur crucial sur l’échiquier mondial », et la faire participer au G7, lui donnant accordant ainsi du crédit et satisfaisant son orgueil. Les USA doivent également « se montrer conciliant sur certaines questions, tout en restant ferme sur d’autres », poursuit Brzezinski. Et revenant sur le problème de Taiwan, nous apprenons que « les Etats-Unis interviendraient pour défendre non pas l’indépendance de Taiwan, mais leurs propres intérêts géopolitiques dans la région Asie-Pacifique » ; voilà qui est clair. Pour ce qui concerne la Corée et le Japon, l’Amérique peut « jouer un rôle décisif en soutenant la réconciliation » ; la stabilité apportée faciliterait « le maintien de la présence des Etats-Unis en extrême orient », et cette réconciliation « pourrait servir de base à une éventuelle réunification » de la Corée

Toutefois, nous dit Brzezinski, les Etats-Unis ne sont pas seulement la première superpuissance globale, mais seront très probablement la dernière, ceci à cause de la diffusion de plus en plus généralisée du savoir et de la dispersion du pouvoir économique. Si les Etats-Unis ont pu exercer une prépondérance économique mondiale, ils le doivent à « la nature cosmopolite de [leur] société (…) qui [leur] a permis (…) d’asseoir plus facilement leur hégémonie (…) sans pour autant laisser transparaître [leur] caractère strictement national ». Il est peu probable qu’un autre pays puisse faire de même ; « pour simplifier, n’importe qui peut devenir Américain, mais seul un Chinois peut être Chinois ». Il transparaît dans ces propos une négation radicale de l’altérité. Les Etats-Unis ne veulent pas « l’autre », ils ne le conçoivent même pas ; ils ne connaissent que l’autre en tant que « même », un clone en quelque sorte ; piètre intelligence du monde, de la richesse, de la diversité de l’homme que ce rapport à l’autre, spécifiquement américain.

Comme la puissance Américaine ne saurait durer sans fin (nous ne sommes pas arrivé avec le triomphe de l’Amérique et de ses « idéaux » à la fin de l’Histoire, pour reprendre les mots d’un illuminé nommé Francis Fukuyama), Brzezinski nous trace « l’après domination états-unienne ». Le legs de l’Amérique au monde, à l’histoire, doit être une démocratie planétairement triomphante, nous dit-il, et surtout, la création d’une « structure de coopération mondiale (les Nations Unies sont « archaïques ») (…) qui assumerait le pouvoir de « régent » mondial ». Voilà donc un testament établi pour la poursuite mondiale – et jusqu’à la fin des temps – du « rêve américain ». Mais chacun sait que les temps comme les rêves ont toujours une fin.

Si la recension des objectifs géostratégiques américains est établie, la formulation et la structure interne de l’ouvrage sont assez confuses puisque l’on retrouve souvent des éléments concernant un sujet deux ou trois chapitres plus loin. L’auteur manque un peu de rigueur dans son exposition. Plus généralement, si l’on comprend la logique de ce discours de la part d’un américain, on ne peut décemment acquiescer aux propos de Zbigniew Brzezinski. Dès lors que l’on n’est pas américain, on ne peut pas souscrire aux thèses énoncées dans ce livre; ce serait sinon, pour prendre l’exemple d’un animal, comprendre les motivations de son prédateur, et accepter de se laisser dévorer par lui. Si certains constats de l’auteur sont justes et relèvent du bon sens, il n’en demeure pas moins qu’il faut combattre ces objectifs impériaux / impérialistes américains malgré cette apathie qui caractérise malheureusement les Européens en général et les Français en particulier, cet état de « dormition » dont parle Dominique Venner (1).

Philippe Raggi
29/04/2014

PS : J’avais écrit ce commentaire sur le livre de Brzezinski dès la parution de son ouvrage en France. Je n’ai rien modifié à ce texte depuis lors.

Source : A l’Est de Suez, Blog de Philippe Raggi sur l’Asie du Sud-Est et notamment sur l’Indonésie.
http://philippe-raggi.blogspot.fr/2014/04/loeil-americain...

Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard : American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, New York, Basic Books, 1997.
Le grand échiquier, traduction de The Grand Chessboard : American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, Paris, Collection Pluriel, Hachette Littérature, 1997
Le grand échiquier, éditions Fayard/Pluriel, mars 2011, 288 pages (réédition)

Zbigniew Brzezinski est expert au Center for Strategic and International Studies (Washington, DC) et professeur à l’université Johns Hopkins de Baltimore. Il fut conseiller du président Carter, s’oppose à Reagan, Clinton et Bush et reste toujours un ardent partisan de la suprématie américaine dans le monde..

Note :

(1) Cf. : http://www.dominiquevenner.fr/2010/07/l%E2%80%99europe-en...

Correspondance Polémia – 5/05/2014

dimanche, 28 mai 2017

Massenmigration in welthistorischer Perspektive

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Massenmigration in welthistorischer Perspektive

Der Untertitel dieses Buches, Über die Unvereinbarkeit von Sozialstaat und Masseneinwanderung, ist dagegen irreführend. Das ist gut so. Zu diesem Thema gäbe es schließlich wirklich nichts mehr zu sagen. Wer bis jetzt nicht begriffen hat, daß ein Solidarsystem nur aufgrund der Exklusivität seiner Leistungen funktionieren kann, daß auf gut Deutsch „wir nicht das Sozialamt der Welt sein können“, ohne unsere Sozialsysteme durch Überbeanspruchung in den Zusammenbruch zu treiben, der wird es nie verstehen.

Zum Glück hat Rolf Peter Sieferle (1949-2016) weit mehr zu bieten als diese Trivialität. In Das Migrationsproblem versucht er das Phänomen der Masseneinwanderung innerhalb des funktionalen Rahmens der heutigen westlichen Demokratie zu erklären und geschichtlich einzuordnen. Das alles geschieht auf knappen 124 Seiten. Sieferles Problem besteht daher nicht, wie der Titel befürchten ließ, in der ewigen Wiederholung des bereits Gesagten. Im Gegenteil: Bei diesem Großessay – das Wort „Studie“ taugt hier wirklich nicht – muß er sich den Vorwurf gefallen lassen, die Masse gebündelt präsentierter Einsichten kaum zusammenhalten zu können.

Ebenso lesbar wie umfassend

Trotz des Mangels an innerer Struktur bleibt das Buch jedoch ebenso lesbar, wie es umfassend ist. Es gelingt Sieferle vom Kern seiner Erörterung, der destruktiven Wechselwirkung zwischen Sozialstaat und Einwanderung, in welcher der Sozialstaat die Einwanderer anzieht und diese den Sozialstaat überdehnen, Verbindungen in fast alle Richtungen aufzubauen.

Er beginnt mit den Ursachen der Migration und macht deutlich, daß es angesichts der Bevölkerungsexplosion der Dritten Welt keinen relevanten Unterschied zwischen Wirtschaftsmigranten und Bürgerkriegsflüchtlingen gibt. Vom welthistorisch unvermeidlichen Rückgang der „Bürgerschaftsrente“ in den alten Industrieländern geht er über zur Entlarvung der verschiedenen Narrative, mit denen die Politik der Masseneinwanderung ihr Handeln bemäntelt.

Einwanderer stoßen nicht in „leere Räume“

Insbesondere eine einfache Erkenntnis verdient es gerade auch von den Gegnern des multikulturellen Experiments zur Kenntnis genommen zu werden: Die derzeitige Masseneinwanderung hat nichts mit der rückläufigen Demographie der entwickelten Länder zu tun. Diese ist vielmehr eine gesunde Entwicklung in einer Zeit, in der das Massensterben durch Infektionskrankheiten glücklicherweise der Vergangenheit angehört.

Die „Invasoren“ (org. Sieferle) stoßen nicht in leere Räume vor. Im Gegenteil, sie ziehen normalerweise aus dünner besiedelten in dichter besiedelte Gebiete. Sieferle leugnet nicht den von Gunnar Heinsohn postulierten demographischen Druck des Jugendüberschusses, aber die komplementäre Idee eines demographischen Soges aus dem kinderarmen Europa, der ja immer ein „selber schuld“ impliziert, verweist er ins Reich der Legenden. Dasselbe gilt für die sich selbst so bezeichnende antiimperiale Ideologie, die die Armut der Dritten Welt durch angeblich ausbeuterischen Handel mit der Ersten erklärt. Als ob diese Länder nicht schon lange vor der Kolonialzeit arm gewesen wären und das Handelsvolumen der Industrieländer untereinander nicht ihren Warenaustausch mit den Entwicklungsländern um ein Mehrfaches überstiege.

Die ochlokratische Degeneration

Dabei spricht Sieferle den Europäern keineswegs die Verantwortung für ihr derzeitiges Dilemma ab. Im Gegenteil, er betrachtet ihre gegenwärtigen politischen Systeme als unreformierbar korrumpiert. Manchmal beschleicht einen dabei der Verdacht, der unspektakuläre Titel des Buches diene der Verschleierung, um zumindest das Geschrei der Sorte bundesrepublikanischer Kritikaster abzuhalten, die solch ein Buch sowieso nicht lesen, aber bei einer treffenderen Inhaltsbeschreibung schon wegen des Titels in das übliche Gekreische verfallen wären.

Sieferle sieht unsere Demokratie jedenfalls in vollem ochlokratischen Verfall, der sich an der steigenden Staatsverschuldung, die ja nichts anderes als Konsum auf Pump ist, geradezu messen lasse. Kurz erörtert er die Probleme der verschiedenen Formen staatlicher Degeneration um schließlich die Frage zu stellen, ob das chinesische System nicht besser geeignet wäre die Nachhaltigkeitsprobleme des 21. Jahrhunderts zu bewältigen.

Universalistische Ethik und tribalistische Moral

In dieser Ochlokratie wirke nun die universalistische Ethik der Gleichheitsideologie katastrophal. Das infantilisierte Volk wähle auch in der Ethik den Weg des geringsten Widerstandes und finde nichts dabei, sich durch die Aufnahme unintegrierbarer „Barbaren“ (org. Sieferle) jenes gute Gewissen zu kaufen, daß in den Wohlfahrtszonen zum Lebensstandard gehöre.

Hier liegt jedoch auch die größte Schwäche des Buches. Sieferle, der sonst weit mehr Erscheinungen erörtert, als hier behandelt werden können, schweigt sich über die Entstehung und Verbreitung der multikulturellen Ideologie aus. Sie scheint ihm vom Himmel gefallen, ein unabwendbares Schicksal der abendländischen Zivilisation. Lediglich den Nationalsozialismus macht er als Ursache aus. Hier verfällt Sieferle jenem ganz speziellen konservativen Auschwitzkult, der Hitler die Schuld am eigenen Versagen zuschiebt. Angesichts eines solchen Verhängnisses kommt es ihm gar nicht mehr in den Sinn sich zu fragen, ob die gegenwärtige metapolitische Misere nicht vielmehr das Ergebnis harter propagandistischer Arbeit der Linken war, die mit ebensolchen Anstrengungen auch in die Mülltonne der Geschichte getreten werden kann. Stattdessen nimmt das Buch entschieden defätistische Züge an.

Wieder einmal die Deutschen

Mit dem Holocaust als Ursache des Multikulturalismus stößt Sieferle auch auf eine merkwürdige Version der These vom deutschen Sonderweg, die sich durch das ganze Buch zieht. Gerade Deutschland erscheint ihm als das unangefochtene Zentrum und der Ausgangspunkt des multikulturellen Wahnsinns. Damit verglichen sei der restliche Westen noch relativ normal. In seinem anderen Nachlaßwerk, Finis Germania, wird dies noch deutlicher, gepaart mit einer für solche Ansichten nicht untypischen Anglophilie, die das gegenwärtigen England und Amerika, aber auch Frankreich als „bürgerlich-aristokratische Welt“ bezeichnet.

Angesichts des jahrzehntelang von keiner Polizei behinderten Handels pakistanischer Banden mit englischen Mädchen, den regelmäßig brennenden französischen Vorstädten und der absurden Exzesse amerikanischer social justice warriors, dürften jedoch alle auf deutsche Besonderheiten verweisenden Erklärungen der multikulturellen Ideologie schwer haltbar sein. Damit ist es freilich auch nicht möglich, sich durch den Verweis auf ein angebliches geschichtliches Verhängnis von der eigenen Handlungsverantwortung loszusprechen.

Die eigentlichen Probleme

Sehr sinnvoll ist hingegen Sieferles Einordnung des Migrationsproblems in die geschichtlichen Horizonte unserer Zeit. Angesichts seiner langjährigen Beschäftigung mit dem Thema ist es nicht verwunderlich, daß er hier vor allem an die unbewältigten energiewirtschaftlichen Fragen unserer industriellen Zivilisation denkt. Die gegenwärtige Wirtschaftsweise zerstöre rasch die eigenen Grundlagen und eine neue Nachhaltigkeit sei nur durch massive technologische Durchbrüche – und keineswegs durch Nullwachstum – möglich.

Ob ein islamisiertes oder afrikanisiertes Europa zu dieser tatsächlichen Menschheitsaufgabe seinen Beitrag wird leisten können, sei doch mehr als fraglich. Mit dieser Einordnung zeigt Sieferle das Migrationsproblem als das auf, was es letztlich ist: Ein neuer Barbarensturm, den wir angesichts drängendster anderer Probleme derzeit brauchen können wie einen Kopfschuß.

Rolf Peter Sieferle: Das Migrationsproblem. Über die Unvereinbarkeit von Sozialstaat und Masseneinwanderung. Die Werkreihe von TUMULT#01. Hg. von Frank Böckelmann. 136 Seiten.

Bildhintergrund: Regina Sieferle (privat)CC-BY-SA 4.0

Le dossier Macron et le retour de Boris Vian

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Le dossier Macron et le retour de Boris Vian

par Nicolas Bonnal

Ex: http://www.dedefensa.org 

Tout le monde a souligné à foison leur ressemblance. Or j’avais signé aux Belles Lettres en 2008 un contrat sur Boris Vian et notre modernité. Je vivais alors dans la Bolivie de mon cher Evo Morales, plus précisément à Sucre (et dans le Gran hôtel de Che Guevara qui plus est, un trois étoiles à neuf euros), et malheureusement l’Alliance française du coin de la rue n’avait pas un seul exemplaire de l’œuvre du maître ! Le web était moins riche que maintenant et je n’honorai donc pas mon contrat. Et comme on ne versait plus d’à-valoir…

J’ai tout de même retrouvé quelques textes, et je les donne à mes lecteurs préférés...

"On est curieusement entrés dans l'ère de l'écume des jours"

De l'écume des jours ? Oui, celle de Boris Vian, qui se résume à deux axes, par-delà les provocations verbales du petit maître oublié : les gens deviennent puérils, ludiques, et l'espace, l'espace vital surtout se rétrécit.

Comme nos contemporains, les "adulescents" de Vian sont très ludiques ; ils sont aussi techno-dépendants, rêvent de pianocktail et de patinage ; ils ne sont pas très sexués et ils ne sont pas, mais alors pas du tout politisés. Ils rêvent d'être des ignares, et d'ailleurs on va tuer le Jean-Sol Partre national (ah, nos intellos rive gauche !) pour bien marquer ce rêve américain. On rêve de jazz et de négritude, comme aujourd'hui de rap et d’exotisme cheap. Avec ces certitudes, on ignore où l'on est, on ignore même si l'on est. Vian a célébré le modèle du jeune con, qui allait vieillir un beau jour (le jeune, pas le con). Et on a fait de cela le modèle du progrès, du moderne, de la jeunesse, de la mode. Imaginez les héros de Boris Vian avec cinquante de plus, et vous avez les retraités d’aujourd’hui…

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Mais surtout, parce que l'histoire de la bêtise prendrait trop de place, il y a une diminution d'espace. Lorsque la pauvre Chloé devient malade, l'appartement commence à diminuer. J'ai évoqué ironiquement l'odyssée de l'espace, où d'ailleurs on voit les cosmonautes mener des vies considérablement médiocres ; mais cette odyssée est devenue une descente aux abysses. L'individu post-historique est surtout post-spatial, il n'a pas de maison, pas d'appartement ; ou bien il a trois fois moins de place que son grand ancêtre de la Nouvelle Vague (sur ce sujet j’ai bâti mon roman décalé comme on dit, et onirique), et il lui faut travailler pour rembourser, ou plutôt vivre pour rembourser, puisque le travail ne suffira pas, qu'il sera toujours moins rétribué, quand ses études auront été inutilement rallongées. Il faut 500 mois de SMIC pour acheter un deux-pièces dans notre beau Paris.

La diminution d'un espace vital n'est pas sans effet : on a réduit l'espace habitable depuis Thatcher et aussi –surtout – depuis l'euro, et les gens se sont calmés. Ils ont été réduits à la portion congrue, réduits en part de marché, réduits à la merci de l'ennemi. Dans une société où l'on peut plus respirer, se loger, fumer en discutant, ou discuter en fumant, se garer, se déplacer, s'exprimer, on se doute que la possibilité de changement radical, si elle venait encore à l'esprit de quelques-uns capables de structurer leur pensée, serait de facto impossible à exécuter ».

Je rajoute ce texte de célébration du triste maître de ma jeunesse giscardienne :

Il y a cinquante ans mourait Boris Vian. A bien des égards la présence de cet auteur s’est faite discrète, d’autant que les temps qui courent souvent trop vite ont tendance à oublier jusqu’à leurs pères. Pourtant, Boris Vian fait partie d’un patrimoine bien vendu, mais qui ne s’est jamais internationalisé ou même exporté, ni sous la forme de chansons ni sous celle de romans.

Boris Vian c’est la douceur de vivre des années 50, l’intrusion de la sacro-sainte modernité dans la France dite moisie, le sens de l’humour et de la générosité, le refus de tous les chauvinismes et de toutes les intolérances... C’est aussi le sens de l’amour et de la légèreté, la célébration de la jeunesse et de la nouveauté.

France & surmodernité

La société médiatique adore se célébrer : espérons qu’elle saura célébrer Boris Vian, car elle lui doit beaucoup. Vian a été en effet le prophète de la révolution culturelle qui a fait de la vieille mère des arts, des armes et des lois cette fille de Marx et de coca-cola, du fast-food et de Canal +. Vian, sans le vouloir, partout où il a mis le doigt, l’a bien mis. Il a fait un sans-faute dans son œuvre, la plus sérieuse comme la plus décalée, la plus tragique comme la plus dérisoire pour ajourner la France et la mettre à la hauteur de la modernité. Mais la France est fatiguée : aussi userons-nous du terme de surmodernité pour exprimer cet état de dépression satisfaite dans laquelle se trouve le pays. Il y a en effet un double enjeu chez Vian : un enjeu euphorique et un enjeu dramatique.

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Exception française & fou-rire

Il y a une dizaine d’années, nous pouvions encore sans rire évoquer ou dénoncer une exception française ; exception que Marc Bloch avait définie ainsi : nous nous reconnaissons aussi bien dans le sacre de Clovis que dans la Fête de la Confédération. La France de gauche comme la France de Droite aimait ses lieux de la mémoire, ses petites fêtes, son 14 juillet, sa Jeanne d’Arc, sa colline inspirée, ses faubourg Saint-Antoine.

Avec Boris Vian, c’est tout cet apanage qui a disparu. On entra dans un procès de déculturation totale, d’américanisation-dépression avec un rejet complet de sa culture et de sa civilisation. Nous y reviendrons.

Vian a réglé ses comptes ou plutôt ses contes avec une France du passé et dépassée qu’il détestait. Il l’a fait avant beaucoup d’autres, et nous l’avons tous suivi.

Nous naviguerons entre américanisation et dépression. Comparez la bonne humeur pornographique d’On tuera tous les affreux (un ex-savant nazi fabrique des modèles nymphomanes et des politiciens sur une nouvelle île du Dr Moreau) à l’atmosphère grise et française de l’arrache-cœur, de l’herbe rose ; comparez ce refus empathique de la petite France profonde et de son clocher fatidique à l’adoration de la grande agglomération yankee et polluée, bourrée de limousines, de gros bras et de filles délurées – et puis vous comprendrez pourquoi ces Français soi-disant exilés à Chicago (764 morts pour ce qui va de cette année) ont voté pour le candidat des supermarchés et du progrès sociétal. Attendez-vous à une réduction de mètres (maîtres) carrés et à une énième révolution culturelle comme celles que promouvait Vian dans ses chansons dérisoires.

Les petites chansons ont certes vieilli car elles étaient de piètre qualité, comme les romans sauce surréaliste, mais elles donnaient l’inspiration du jour et à venir : le changement de sexe (bourrée de complexes !), la complainte du progrès avec le partage des biens (ah, Gudule, écoute-moi…) entre divorcés-remariés, et toute cette entropie de bistrot branché qui nous préparait à la culture détonante de Canal+ et de l’ère bobo. Le slogan de l’arche Delanoë était d’ailleurs de changer d’ère. Vian nous aurait concocté une laide chanson sur les Google babies vendus aux couples LGBT, conçus en Israël et incubés en Inde par des mères porteuses payées trois dollars. Avec le fou rire.

Un dernier mot : le mutant de la gauche libérale et sociétale a écrit une chanson nommée le déserteur. Or c’est bien ce qui résume notre époque. La France est devenue un pays de déserteurs, la France, comme tant d’autres pays occidentaux aussi, est un pays de désertion (revoyez les films de Godard, Tati, Risi et Fellini pour l’Italie pour analyser ce que je veux dire). Cela n’empêchera pas de faire la guerre nucléaire pour Soros et les oligarques humanitaires.

Le cas Vian confirme en tout cas que le Macron-cosmos va naviguer à 80-85% de satisfaits, car vous n’imaginez pas ce qu’on peut faire du peuple français…

Sources

L’écume des jours ; l’arrache-cœurs ; et on tuera tous les affreux ; chansons

Bonnal – les maîtres carrés (roman héroï-comique)

«Wie der Westen Syrien ins Chaos stürzte»

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«Wie der Westen Syrien ins Chaos stürzte»

Ein neues Buch von Michael Lüders

von Carola und Johannes Irsiegler

Ex: http://www.zeit-fragen.ch 

Michael Lüders ist Nahost-Experte und war lange Jahre Nahost-Korrespondent für die deutsche Wochenzeitung Die Zeit. Er hat bereits verschiedene Bücher zu den Entwicklungen im Nahen Osten publiziert und wird vielen Lesern von Zeit-Fragen bereits bekannt sein. Sein neuestes Buch, «Die den Sturm ernten. Wie der Westen Syrien ins Chaos stürzte», knüpft, wie bereits der Titel vermuten lässt, thematisch an sein früheres Werk «Wer den Wind sät. Was westliche Politik im Orient anrichtet» an: Wer den Wind sät, wird Sturm ernten. Ging es in jenem, 2015 erschienenen Buch darum, die politischen und strategischen Verwicklungen des Westens im gesamten Nahen Osten und die Mitschuld des Westens unter Führung der USA an der jetzigen Misere aufzuzeigen, so konzentriert sich Lüders in seinem brandaktuellen Buch auf die Entwicklungen in Syrien.

Eine andere Geschichte als die Nato-Hofberichterstattung

«Kriege werden erzählt, nicht anders als Geschichten», so steigt Lüders in das Thema ein und zeigt auf, worum es ihm geht: Er will den anderen Teil der Geschichte beleuchten, der in der Nato-Hofberichterstattung unserer Leitmedien bewusst weggelassen oder in verfälschender Weise dargestellt wird. Der Geschichte von den «Werten», für die westliche Politik stehe und die es in Syrien zu verteidigen gelte, stellt er die strategischen und wirtschaftlichen «Interessen» der Akteure gegenüber. Vor hundert Jahren wurde die Ausbeutung ganzer Erdregionen durch europäische Mächte noch damit begründet, die «Eingeborenen» an die Segnungen der «Zivilisation» heranzuführen. Heute werden im Namen sogenannter westlicher Werte ganze Regionen mittels Soft- und/oder Hardpower destabilisiert, um sie dann um so besser ihrer Schätze berauben und für die eigenen hegemonialen Interessen ausnutzen zu können. Wenn «Werte» zum Alibi einer hegemonialen Politik werden, hören sie auf, Werte zu sein.

Michael Lüders hält klar fest: Der Krieg in Syrien hätte ohne die massive Einmischung von aussen niemals die grösste Fluchtbewegung seit dem Zweiten Weltkrieg ausgelöst. Die Terrorakte in verschiedenen europäischen Ländern wie auch die Flüchtlingskrise sind direkte Folgen einer gewaltsamen Interventionspolitik. «Ohne die Fehler des Westens, namentlich der USA im Irak, wäre der ‹Islamische Staat› gar nicht erst entstanden.»

Eine Geschichte von Staatsstreichen, Putschversuchen und Klientelregimen

Um die aktuellen Entwicklungen einordnen und sich gegen das propagandistische Kriegsgeschrei der Nato-Medien wappnen zu können, muss man die Vorgeschichte kennen. Diese stellt Lüders ausführlich dar. Er beginnt mit den Ränkespielen der imperialistischen Mächte England und Frankreich nach dem Ersten Weltkrieg und fährt mit dem amerikanischen Hegemoniestreben nach dem Zweiten Weltkrieg fort. Es ist eine Geschichte von inszenierten Staatsstreichen, Putschversuchen und Klientelregimen; und von dem Versuch, jegliche Entwicklung hin zu einer eigenständigen, in den eigenen Traditionen fussenden Politik zu verhindern. Es hat im Nahen Osten Ansätze zu einer solchen, den Interessen der eigenen Völker verpflichteten Politik gegeben, es gibt sie auch heute noch, wenn man die Völker nur in Frieden liesse und sie ihr geistiges und kulturelles Potential ausschöpfen könnten. Aber, so Lüders: «Unter den sozialen, gesellschaftlichen und politischen Rahmenbedingungen, wie sie heute in der arabischen Welt bestehen, unter den Bedingungen also von Armut, Unfreiheit, Staatszerfall und Terror, ist kein Raum für Reformdenken. Die Menschen sind hinlänglich mit ihrem eigenen Überleben befasst.»

Friedliche Entwicklung möglich, wenn die Einmischung von aussen aufhört

Eine friedliche Entwicklung in der Region ist möglich, wenn die Einmischung von aussen aufhört und den Völkern die dazu nötige Zeit zugestanden wird. Für eine solche Erneuerung muss, so Lüders, auch der Glaube derjenigen, die dort leben, berücksichtigt werden: «Von Marokko bis Indonesien spielt der Glaube an Gott eine zentrale Rolle im Leben des einzelnen wie auch der Gesellschaft. Wer annimmt, die Region sei ohne den Faktor Islam zu erneuern, denkt westlich.» Islam und Islamismus sind dabei nicht gleichzusetzen. Dass letzterer vom Westen erst gezüchtet wurde, um ihn dann «zur Freude der Rüstungsindustrie» zu bekämpfen, und wohl auch, um einen Vorwand für die permanente Interventionspolitik zu schaffen, kann im gegenwärtigen geistigen Unklima in unseren Ländern nicht genügend betont werden. «Den ‹Islamischen Staat› ein für alle Mal zu besiegen, hat übrigens in letzter Konsequenz niemand ein wirkliches Interesse. Er liefert den kleinsten gemeinsamen Nenner aller Interventionsmächte […].»

Information und Aufklärung statt interessengeleiteter Propaganda

Michael Lüders räumt mit fast allen Narrativen auf, die in unseren Leitmedien mantrahaft wiederholt werden. Zum Beispiel mit dem Narrativ, dass es sich in Syrien um einen Kampf des Volkes gegen ein böses Regime handle. «Das westliche Narrativ, die gesamte syrische Bevölkerung oder wenigstens doch die überwältigende Mehrheit hätte sich gegen Assad erhoben, ist eindeutig falsch […], weder die religiösen Minderheiten, […], noch die sunnitischen Händler» haben sich bis heute dem Aufstand angeschlossen. Rund die Hälfte der Syrer stehe nach wie vor hinter Assad. «Die westliche Wahrnehmung, die syrische ‹Opposition› verträte das gesamte oder auch nur nennenswerte Teile des syrischen Volkes, entbehrt jeder sachlichen Grundlage. Das entwertet nicht die Kritik der Oppositionellen am Regime – aber auch in freien Wahlen hätten sie kaum Chancen auf Sieg.» Die meisten Syrer ziehen die jetzige Regierung mit allen Einschränkungen einer Herrschaft der Dschihadisten vor. Ihnen ist es – wie auch den Verantwortlichen im Westen – bekannt, dass die Herrschaft der Dschihadisten die Alternative sein wird, wenn Assad gehen muss.

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Der Leser erhält zudem viele Hintergrundinformationen über die verschiedenen Kriegsparteien, die helfen, die zum Teil widersprüchlichen Entwicklungen besser zu verstehen. Interessant ist in diesem Zusammenhang die Rolle Englands, das im ganzen Syrien-Konflikt und heute wieder verstärkt durch seine bellizistischen und interventionistischen Hetztiraden auffällt. Wie nebenbei erfährt der Leser, dass Grossbritannien zum zweitgrössten Waffenlieferanten Saudi-Arabiens aufgestiegen ist, dort massive Geschäfte mit dem Tod macht und dazu noch die völkerrechtswidrigen saudischen Luftangriffe auf den Jemen leitet und koordiniert. Soviel zu den Werten, die Aussenminister Johnson regelmässig für sich reklamiert. Dass diejenigen, die «sich allein den Menschenrechten verpflichtet glauben», in Syrien laut schreien, aber zum Jemen schweigen, ist ein anderes Kapitel.

Wer ist verantwortlich für die Giftgas-Angriffe?

Besonders aktuell sind Lüders Ausführungen zu den Giftgas-Einsätzen auf Ghouta bei Damaskus im Jahre 2013: «Der Giftgas-Angriff auf Ghouta und die Reaktionen darauf sind ein Lehrstück dafür, wie spielend leicht die Öffentlichkeit in einer so elementaren Frage wie Krieg und Frieden manipuliert werden kann […].» Noch heute wird dieses Verbrechen ungeprüft der Regierung Assad angelastet.

Wie gross war das Geschrei, die USA müssten jetzt endlich Damaskus bombardieren, allen voran damals wie heute auch wieder Hillary Clinton und ihr Verbindungsmann zu den Dschihadisten John McCain, die es erst möglich gemacht haben, dass Waffen aus dem libyschen Arsenal in die Hände der dschihadistischen Kämpfer gelangen konnten.

Lüders legt dar: «Die genannten Indizien legen den Schluss nahe, dass nicht das AssadRegime für den Giftgas-Angriff auf Ghouta verantwortlich war, sondern die Nusra-Front, unter Regie der türkischen Regierung.» Denken wir die jüngsten Ereignisse hinzu, so können wir ein weiteres Mal mitverfolgen, wie Kriegsgründe geschaffen werden und eine ahnungslose Bevölkerung massenmedial für reine Interessenpolitik manipuliert wird – hier bei uns im Westen wie auch in den Ländern des Nahen Ostens.

Eine Weltordnung begründen, die um Ausgleich und Kompromiss bemüht ist

Michael Lüders schliesst sein Buch mit dem Aufruf, eine «Weltordnung zu begründen, die um Ausgleich und Kompromiss unter den jeweiligen Akteuren bemüht ist, einen Dialog auf Augenhöhe führt». Die rechtlichen Grundlagen für ein friedliches Zusammenleben auf unserer Erde sind ja vorhanden. Auf sie könnte man, so man will, gut aufbauen.

Was kann jeder einzelne tun? Lüders plädiert dafür, den offiziellen Verlautbarungen zu misstrauen und auch medialen Darstellungen nicht unkritisch zu folgen. Es ist doch erschreckend, wie wenig es braucht, «politische Feindbilder zu erzeugen oder am Leben zu erhalten».

Der Logik aus Macht und Dominanz entsagen

Die Lektüre von Lüders Buch hilft, sich gegen die permanenten Manipulationsversuche der Kriegsfraktion zu wappnen, einen eigenen inneren Standpunkt zur Frage von Krieg und Frieden, zur Frage von Recht und Unrecht und zur Frage der Gleichwertigkeit zwischen den Völkern zu entwickeln. Am Ende fordert uns der Autor auf, der Logik aus Macht und Dominanz zu entsagen und uns anders zu denken, unter Einbeziehung all derer, die guten Willens sind. Vielleicht bedürfe es «tatsächlich einer grundlegenden Bewusstseinsänderung, der Einsicht, dass wir keine Wahl haben als unsere Zukunft selbst zu gestalten».

Ein lesenswertes Buch, ein Buch das informiert, das zur Diskussion anregt und ein emotionales Gegengift zur Kriegspropaganda darstellt. Es sollte weite Verbreitung finden unter den vielen Mitbürgern, die sich wie wir für eine Welt des friedlichen Miteinanders einsetzen.      •

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Kampagnen verweisen auf Menschen, die Interessantes zu sagen haben

km. Das neue Buch von Michael Lüders hat in Deutschland sehr unterschiedliche Reaktionen ausgelöst. Ein paar weitverbreitete deutsche Leitmedien haben gegen den Autor scharf polemisiert und versucht, seine Seriosität in Frage zu stellen. Aber das war nicht die durchgängige Reaktion. Michael Lüders wird in ganz Deutschland zu zahlreichen Lesungen und Vorträgen eingeladen, das Kulturmagazin der ARD, «titel, thesen, temperamente», hat Autor und Buch am 30. April positiv gewürdigt. Fazit der Sendung: «Lüders' Buch ist wichtig, man sollte ihm zuhören und mit ihm reden.» Die Universität Trier steht trotz eines Protestbriefes zu einer Gastprofessur des Buchautors – und der Kommentar von zwei für die Vorlesungsreihe verantwortlichen Hochschullehrern spricht für sich: «Den Autoren [des Protestbriefes gegen Michael Lüders] geht es offenkundig darum, die Freiheit der Wissenschaft an der Universität zu behindern, indem man verlangt, jemanden auszuladen, der unbequeme Meinungen vertritt.» Eindrucksvoll auch der Bericht und Kommentar von saarland-fernsehen.de nach der ersten Vorlesung von Michael Lüders in Trier: «Er demaskiert den Narrativ westlicher Politik, ‹in erster Linie Gutes tun zu wollen›, als Deckmantel für interessen- und machtgetriebene Geopolitik. […] Nicht humanitäres Wohlwollen, sondern geopolitisches Kalkül treibt die Grossmächte an […]. Folgt man Michael Lüders’ Vortrag, dann ist er [der Nahe Osten] dem Westen äusserst nahe, wenn es darum geht, dort seine Interessen zu wahren. Aber doch so fern, wenn die Menschen und deren Wohlergehen im Mittelpunkt stehen sollten.»

Der Deutschlandfunk hatte zwar vor allem die Kritik an Lüders referiert, liess ihn aber auch selbst zu Wort kommen, woraufhin der Autor die Vorgehensweise gegen ihn treffend charakterisierte: «Grundsätzlich muss man wohl sagen, wer sich gegen den Mainstream stellt und wer vorherrschende Gewiss-heiten in der Politik, aber auch in der medialen Berichterstattung in Frage stellt, der muss natürlich gewappnet sein, dass er Gegenwind bekommt, denn das gefällt natürlich nicht allen, dass da jemand eine offizielle Lesart, die als richtig empfunden wird, in Frage stellt.» Und: «Mir fällt auf, dass diejenigen, die meine Ansichten teilen, oder generell die Menschen, die nicht eine bestimmte Mainstream-Linie bedienen, häufig nicht in der Sache, sondern als Person kritisiert werden.»

Allem Anschein nach beeindruckt das aber viele Menschen in Deutschland nicht mehr. Das Misstrauen gegenüber dem «Mainstream» ist sehr gross geworden, Kampagnen verweisen auf Menschen, die Interessantes zu sagen haben. Das spricht sich herum.

Frankreich-Wahl – das Syndikat hat eingegriffen

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Frankreich-Wahl – das Syndikat hat eingegriffen

Für Deutschland droht Macron teuer zu werden

von Prof. Dr. Eberhard Hamer

Ex: http://www.zeit-fragen.ch

Jeder wundert sich, wie ein politischer Nobody wie Macron plötzlich in Frankreich die meisten Stimmen erringen konnte – vorbei an bewährten Politikern und etablierten Parteien.

Das Geheimnis Macron lüftet sich, wenn man erfährt,

  • dass es sich um einen Rothschild-Banker handelt,
  • dass die französische ebenso wie die deutsche Presse von der Finanz- und Grosswirtschaft dirigiert werden,
  • dass die französischen Konzerne und Arbeitgeberverbände (ebenso wie die deutschen) fanatisch für ein Gesamteuropa und die weitere Zuwanderung von Arbeitskräften kämpfen und Angst davor hatten, dass Le Pen siegen würde,
  • dass aber das französische Volk und das Syndikat aus Finanz- und Grosswirtschaft beide von den korrupten Politfunktionären der alten Parteien gründlich enttäuscht sind und diesen Leuten die Unterstützung entzogen haben,
  • so dass – um Le Pen zu verhindern – das Syndikat nun einen neuen Mann aus dem Hut gezaubert, finanziert, ihm die Mainstream-Presse zu Hilfe geschickt und ihn so als Retter der eigenen Machtposition, der eigenen Europa-Interessen, für weitere Immigration und gegen den Verfall der Traditionsparteien durchgesetzt hat.

Hier zeigte sich, wie das Machtsyndikat von Finanz- und Konzernwirtschaft die politische Macht über Frankreich hat und über Parteien und Volksströmungen hinweg durchsetzen kann. Die Kluft zwischen dem Wirtschaftssyndikat und dem politischen Frankreich wurde zugunsten ersterer durch einen von ihr ins Rennen geschickten und mit allen Machtmitteln durchgesetzten Kandidaten entschieden.

In Deutschland ist die Ausgangsposition ähnlich. Auch hier besteht längst eine Kluft zwischen einerseits der Finanz- und Konzernindustrie, ihrer Presse und den etablierten Parteien und andererseits den Interessen der Mehrheit des Volkes, welches zum Beispiel keine Haftung für alle Staaten und Banken Europas tragen oder keine Massenimmi-gration nach Deutschland will. Wer diese Interessen des Volkes vertritt, wird vom Machtkartell der Konzerne, der Presse und ihrer Politik als -«populistisch» diffamiert, als Gefahr für die von den Konzernen geforderte Zuwanderung und politische Zentralisierung Europas angesehen und in der von diesen Kräften beherrschten Presse zunehmend mit Hassartikeln verfolgt, so dass inzwischen deren Repräsentanten gefährlich leben und sozial ausgegrenzt werden.

Eins ist in Deutschland wie in Frankreich: Alle etablierten Parteien vertreten die Forderungen der im Hintergrund regierenden Finanzindustrie und Konzerne und trommeln auf die Gegenmeinung ein.

Für Deutschland droht aber Macron teuer zu werden. Seine Hinterleute wollen, dass Europa entgegen allen Verträgen aus der Haftungs- und Schuldenunion zu einer Transfer-union und zu einer Fiskalunion mit einem eigenen Finanzminister fortentwickelt wird. Dann verliert zum Beispiel Deutschland seine Finanzsouveränität, werden unsere Steuern, unsere Exportüberschüsse und unsere Target-Guthaben bei der EZB alle in den gemeinsamen Topf geworfen und von der EU-Kommission nach dem Willen der südeuropäischen Schuldnerländer verteilt. Wir haften dann nicht nur für alle Schulden wie jetzt, sondern wir haben dann auch keine Überschüsse mehr, sondern nur noch gemeinsame und wachsende Schulden – die von mir schon bei der Gründung des ESM beschworene «Lust am gemeinsamen Untergang».

Macron hat auch bereits verkündet, dass für Frankreich die Schuldenbremse (3%) nicht mehr gelte, dass man entgegen aller EU-Verträge lieber hemmungslos Schulden machen wolle als zu sparen und dass die Sparwünsche Deutschlands nicht mehr die EU blockieren, sondern sich dem Willen des Finanzsyndikats unterwerfen müssten. Praktisch läuft das auf die Sozialisierung aller deutschen Export-überschüsse, Guthaben und Sparanstrengungen hinaus.

Man könnte sagen: «Es wird nichts so heiss gegessen, wie es gekocht wird.» Da aber die südeuropäischen Schuldenländer infolge des Brexit eine deutliche Mehrheit über die Sparländer haben, wird die EU zum hemmungslosen fröhlichen Schuldenstadel, die EZB zur Schuldenmaschine und zum Hedgefonds aller europäischen Staatsschulden, wird dadurch der Euro immer wertloser – bis niemand den Euro mehr haben will oder der Crash aus einer der Finanz- oder Sozial-blasen schon früher eintritt.

Nicht nur Macron hat gewonnen, sondern vor allem das hinter ihm stehende Finanzsyndikat für die Eurozentralisierung und Fortsetzung der Schuldenorgien – alles, was Deutschland nicht wollte und für das es nun mit büssen wird.       

samedi, 27 mai 2017

Macron, artefact et marionnette

 

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Macron, artefact et marionnette

par Guillaume Faye

Ex: http://www.gfaye.com  

Un artefact est une fabrication qui se substitue au réel et dont la vraie nature est travestie. Une marionnette est un personnage de spectacle dirigé par une volonté extérieure. Emmanuel Macron relève peut–être des deux. Feu d’artifice médiatique, brillant et creux, talentueux et retors, il est le produit de forces idéologiques et financières qui l’ont créé afin de neutraliser la menace d’une France identitaire.  Macron a été formaté pour donner à la décadence et à la destruction de la France le visage rassurant d’un jeune premier souriant. En outre, son ”libéralisme” économique, sympathique de prime abord dans ce pays objectivement communiste au taux de chômage double de ses voisins, s’avérera vite bidon. Macron sera une poule mouillée en matière de réformes. Trop peur de la bagarre…

L’opération Macron, montée par des réseaux financiers et médiatiques   

L’élection d’Emmanuel Macron  à l’Élysée serait « le coup de poker le plus sidérant de toute l’histoire politique française » selon Guillaume Tabard (Le Figaro 10/05/2017). En tout cas, il a été bien préparé, notamment par l’exécution de François Fillon grâce à un appareil judiciaire partial, politisé et obéissant à Macron, alors ministre de l ‘Économie de Hollande (voir un article précédent de ce blog).

Tous les médias s’extasient – ou font semblant – de la fulgurante ascension du plus jeune président de la République, 39 ans, hors parti, fondateur d’un mouvement, En marche !, (devenu ” La République En Marche”, LREM) véritable start up politique revendiquant déjà 230.000 adhérents (chiffre exagéré, évidemment) et ridiculisant le PS et la droite. Pas de miracle là dessous : seulement une opération financière massive, préparée dans le secret depuis 2014, destinée à faire élire l’exécutant, le porte–parole de milieux dirigeants cosmopolites, oligarques internationaux alliés à d’importants intérêts musulmans. Pierre Bergé est évidemment de la partie. Tous ont choisi en Macron leur cheval de Troie, pour mettre la main sur la France et enrayer le péril (”populiste” ou plutôt populaire) du Front national présenté comme fascisant. Bien que ce dernier soit bien affaibli par l’agent Philippot et le programme contre–productif qu’il a imposé. 

La ligne économique floue de Macron – et nullement ”libérale” ! –  n’est pas le plus important pour ceux qui l’ont fabriqué ; ce qui compte, c’est son positionnement politique cosmopolite et islamophile. Macron et son lobby sont le résultat d’une opération financière internationale de grande ampleur – avec des dessous probablement cent fois plus opaques que les petites combines de Fillon poursuivi pour des broutilles par une justice au garde–à–vous. Fillon, qui était le symbole d’une France provinciale et catholique détestée – autant que la France déclassée et prolétarisée qui votre FN. Deux populations de souche méprisées par l’oligarchie cosmopolite qui finance Macron et qu’il représente. 

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La fulgurante ascension du playboy Emmanuel Macron, jamais vue dans l’histoire de la République ni chez nos voisins, s’explique donc en grande partie par l’ampleur d’une stratégie financière et médiatique  préparée depuis quelques années, impliquant de très gros investissements. Jamais Le Canard Enchaîné ni la justice n’oseront se pencher sur les ressorts de l’ascension de Macron.  C’est un homme qui a beaucoup plus de pouvoirs d’intimidation et de relations que M. Fillon…   

La campagne électorale de Macron a été financée à hauteur de 15 millions d’euros sans qu’aucune investigation judicaire ne survienne. Dans l’opacité la plus totale. À côté de cela, Fillon, le cocu content, est persécuté par une justice aux ordres. Cherchez l’erreur.

Show, vacuité et boniments

 Flou et ambigu sur tous les sujets, surtout régaliens, Emmanuel Macron apparaît à la fois brillant et d’une vacuité insipide. Mais dans cette société du spectacle, le vide, la superficialité, le show l’ont emporté sur le raisonnement et la réflexion politiques.  

 Rien que le vocabulaire d’Émmanuel Macron, se voulant le « progressiste » contre les « réactionnaires »appartient aux clichés de la vieille gauche. Macron est un jeune vieux, qui recycle des poncifs. C’est le produit chromé d’élites médiocres et fluctuantes, intelligentes, certes,  mais sans caractère ni convictions.

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La « recomposition complète de la vie politique » avec Macron est une plaisanterie. La majorité des médias aux ordres (qui critiquent le ”poutinisme” de leurs confrères russes !) l’ont présenté  comme « le président des patriotes contre la menace nationaliste ».  Patriote, un homme qui explique qu’il n’y a pas de culture française, mais seulement une ” culture  en France ” ?

Un de ses expressions répétitives, « je vais être clair », signifie exactement le contraire. Le ”macronisme” est un syncrétisme opaque et mou qui se compare ridiculement au gaullisme en se voulant ”rassembleur”.  En Marche ! signifie aussi l’inverse : Sur Place ! L’immobilisme, le réformisme minimaliste ou fallacieux sont la marque de fabrique de Macron, dont les ”réformes” n’ont été que des crottes de souris quand il était dans le gouvernement socialiste. Il représente le Système avec perfection : une communication flamboyante, des actes et des résultats misérables. 

En nommant le juppéiste Edouard Philippe (droitiste mou sans idées précises, girouette, issu du PS passé à droite et…islamophile) comme Premier ministre, Macron veut évidemment casser la droite et récupérer un maximum de voix LR aux législatives. Se concrétise bien là une stratégie de type IIIe et IVe République, politicienne mais non pas politique (c’est-à-dire avec un ”axe de volonté”) au sens de Carl Schmitt.

Macron se présente comme le rassembleur droite–gauche, une sorte de voiture balai. Il est la synthèse du vieux Système, de la gauche d’appareil et de la droite affairiste (et non pas entrepreneuriale), c’est–à–dire les deux faces de la même pièce. Il ne rassemble qu’une oligarchie déjà rassemblée.  

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Macron, agent de l’invasion migratoire et de l’islamisation

Ses propos tenus  en Algérie où il a accusé son propre pays de « crimes contre l’humanité » du fait du colonialisme (tout cela pour obtenir le vote des musulmans de France) révèlent un homme sans honneur et inquiétant. On note aussi une étrange tolérance envers un membre musulman de son équipe qui refusait de condamner le terrorisme islamique. Sur l’immigration et l’islamisation, Macron sera probablement encore plus laxiste que ses prédécesseurs. Il semble indifférent, voire favorable, à ces processus mortels pour la France.

Le président du Crif, (principale association juive), au nom d’une position anti FN, a appelé à voter pour lui, bien qu’il soit soutenu par l’UOIF (Union des organisations islamiques de France), structure  islamiste et antisémite dissimulée, partisane de la disparition d’Israël, financé par l’Arabie saoudite, actrice de l’islamisation de l’Europe et très en retrait sur la condamnation du terrorisme djihadiste. C’est une contradiction suicidaire de la part de cette haute autorité juive.   

Comme un certain nombres de hauts responsables juifs, M. Francis Kalifat, exactement d’ailleurs comme ses homologues chrétiens, est victime d’une naïveté destructrice face à l’islam. À moins que ce ne soit du calcul… Mais il est risqué. En tout cas, Emmanuel Macron  a été le candidat (comme Hollande) plébiscité par l’immense majorité des votants musulmans. Et c’est lui que les islamistes préfèrent. C’est normal : il n’y a rien dans son programme pour arrêter ou même ralentir l’invasion migratoire. Et tout pour l’accentuer.   

Soumission, la feuille de route du gouvernement Macron

Le Premier ministre, Édouard Philippe, un de ces LR macronisés, est un faux laïc et un vrai dhimmi (soumis) islamophile. Maire du Havre, il avait, en 2012, fait jeter 8.500 desserts  de cantines scolaires parce qu’ils contenaient de la graisse de porc, se soumettant ainsi avec lâcheté à la charia et imposant la nourriture hallal aux enfants non–musulmans. 

Dans la même veine, le nouveau président a promis une « bienveillance exigeante » envers l’idéologie islamique. On sait ce que ce genre de langue de bois veut dire. Plus encore que Juppé, inventeur de l’ « identité heureuse », Macron veut favoriser la discrimination positive, le multiracialisme et le multiculturalisme « heureux et inclusifs » (alors qu’ils sont dévastateurs). Macron est un grand ami de l’invasion migratoire à majorité islamique. C’est normal : les financiers qui l’ont porté au pouvoir, d’où pourraient-ils venir ? De quels pays ?

Détail très important : Malek Boutih, ancien président de SOS Racisme, encarté socialiste, musulman, peu soupçonnable de ”racisme islamophobe”, péché capital, a été éjecté de En Marche ! Pourquoi ?  Parce qu’il critiquait trop l’islamisme violent et l’UOIF, « classée parmi les organisations terroristes par les Émirats arabes unis », note Ivan Rioufol. Cette UOIF, très louche, a bruyamment soutenu Emmanuel Macron. Réfléchissez pourquoi. UOIF–Macron, même combat ?    

Macron refuse d’interdire les Frères musulmans en France, comme le voulait Fillon. Son ministre de la Justice, François Bayrou, vieille canaille opportuniste et girouette professionnelle, est sur la même ligne que lui. Macron, sous des dehors factices de lutte contre Dae’ch au Mali et au Moyen–Orient, capitulera devant l’islam conquérant et son immigration invasive en terre de France. Encore plus que ses cinq catastrophiques prédécesseurs (Giscard, Mitterrand, Chirac, Sarkozy, Hollande). 

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Macron contre  le FN : procédés déshonorants

Macron est, en beaucoup plus dur, sur la même ligne anti FN que la majorité des politiciens guimauve LR – dont le chef bien coiffé Baroin qui a appelé à voter pour lui contre Marine Le Pen et qui, maintenant, en pleine contradiction, appelle à voter contre LREM aux législatives. (1) 

Macron sera le défenseur utopique et angélique des « quartiers populaires » (immigrés non–Européens musulmans) et des « minorités culturelles » (même signification), qui seront bientôt majorités, si rien ne change, et qui le sont déjà dans de nombreuses villes et banlieues, avec une explosion de la criminalité, de l’insécurité et de la dégradation des conditions de vie.

Un des ministres de Macron, Richard Ferrand, a été un des financiers d’associations palestiniennes et une de ses secrétaire d’État, Marlène Schiappa, est une militante anti–israélienne pro–arabe. Macron se dit ”pro –Européen”, mais n’est–ce pas être  ”anti–Européen” que d’organiser l’invasion ethnique de l’Europe ? Inversion orwelienne perverse du langage. 

Macron a essayé de ”rediaboliser” Marine Le Pen et le FN par une visite symbolique à Oradour–sur–Glane et au Mémorial de la Déportation et à celui de la Shoah, et en célébrant la mémoire d’un Marocain, Brahim Bouarram, noyé dans la Seine il y a plus de vingt ans en marge d’un défilé du 1er mai du FN à la suite d’une rixe avec des skins qui n’avaient rien à voir avec ce dernier. Le message est clair : Marine Le Pen et le FN seraient des racistes héritiers de Vichy et du nazisme. Ce procédé usé est injurieux, comme l’a montré Gilles–William Goldnadel, pour la mémoire des juifs jadis déportés, instrumentalisés par la communication électorale de Macron qui, par ailleurs, manœuvre sans scrupules  avec les musulmans judéophobes.  La communauté juive devrait vraiment se poser des questions sur Macron et son double discours permanent. Ce président n’est pas fiable. Pour personne.

Après Macron, le FN ?

Archange entouré de courtisans, il est mauvais pour le nouveau président d’être pris par les médias pour une sorte d’Obama français, de thaumaturge. Emmanuel Macron, pendant toute sa campagne, a donné l’impression, par sa gestuelle, son regard étrangement fixe et son langage ampoulé et exalté – mais insignifiant – d’imiter un télé–évangéliste américain. Le spectacle primait sur le fond, quasi absent. Plus merveilleuse est l’image, plus dure sera peut-être la chute. D’autant que déjà, en tout début de mandat, sa cote de popularité est plus faible que celle de ses prédécesseurs ; il ne bénéficiera d’aucun ”état de grâce”. Plusieurs commentateurs ont dit qu’il ne fera pas de vieux os et que son échec entraînera en 2022 la victoire du Front national. Mais ce dernier ne semble pas au meilleur de sa forme. Ce sera le thème du prochain article de ce blog : «  L’avenir  du Front national ».  

(1) Le FN avait inventé l’UMPS pour souligner la connivence entre l’UMP et le PS. Et, suite à une profonde bêtise qui procède d’une profonde logique, le mouvement de Macron s’intitule LREM (La république en marche) qui reproduit (ridicule) LR – Les Républicains.  

vendredi, 26 mai 2017

"La France atlantiste ou le naufrage de la diplomatie" de Hadrien Desuin

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Tribune littéraire d’Eric Delbecque

"La France atlantiste ou le naufrage de la diplomatie" de Hadrien Desuin

Ex: http://destimed.fr 

Dans La France atlantiste ou le naufrage de la diplomatie (Éditions du Cerf), Hadrien Desuin part d’un constat fort et simple : la vassalisation de la France dans le monde. Il en tire une conclusion tout aussi limpide et lourde : à l’heure de la mondialisation, la hiérarchisation classique qui donne la priorité à la politique intérieure sur la politique étrangère ne fonctionne plus. Dans un monde « ouvert », il convient d’abord de manifester sa cohérence et sa force à l’étranger. Or, l’Hexagone ne s’en montre plus capable.

Notre voix à la surface de la planète se résume à trois mots : morale, compassion et communication. Adieu à la realpolitik. Desuin parle avec une grande clarté et justesse : « Aujourd’hui, la nouvelle religion universelle des droits de l’Homme voudrait en finir avec la distinction entre conviction éthique et action diplomatique. Pour les chantres de la mondialisation heureuse, la fragmentation des nations est néfaste sans qu’ils ne réalisent combien le meilleur des mondes qu’ils projettent laisse place à une fragmentation communautaire bien plus violente. De surcroît, la globalisation ressort propice à une sorte de naïveté humanitaire où chaque crise internationale apparaît réductible un fait divers collectif ».

Sur un jeu d’échec global réapparaissant dans sa nature forcément tragique, la France a perdu la boussole dans le grand chaos planétaire. Quant à l’Europe, elle ne trouve pas sa place dans la grille internationale de la puissance. Notre pays s’égare dans un atlantisme paresseux qui lui évite le trouble d’élaborer dans la douleur un position constructive et originale dans le concert des nations, dont elle a pourtant eu le secret durant la parenthèse gaullienne.

Parallèlement, elle s’engouffre trop volontiers dans la promotion d’un droit d’ingérence caricatural qui fabrique davantage de problèmes qu’il n’en résout. « Le concept de « guerre humanitaire » […], écrit l’auteur, forme une synthèse hybride entre le courant doctrinaire atlantiste et belliciste d’une part et la mouvance associative des droits de l’homme d’autre part. Il relève du glissement des idéaux du pacifisme humaniste militant vers la notion de responsabilité militaire protectrice. L’ingérence marque la tentative de légitimer par le droit international n’importe quelle guerre au nom de principes supérieurs, indéniablement nobles mais aux conséquences incalculables et aux effets souvent désastreux ».

Hadrien Desuin décrit ensuite quelques lieux où s’élabore cet atlantisme droit-de-l’hommiste, compagnon du néoconservatisme, notamment la Fondation pour la Recherche Stratégique (FRS), créée en 1993. Le résultat aujourd’hui ? Une politique étrangère réduite au suivisme vis-à-vis des Américains, et une propension à substituer le respect craintif du politiquement correct à l’analyse géopolitique lucide. Ce premier problème se double d’un second : la dénonciation permanente de l’identité nationale qui conduit à un « messianisme humanitaire à la française ». Ce dernier s’enracine dans une conception « hors-sol, déracinée et abstraite de l’identité. Inversement, le messianisme à l’américaine repose sur la certitude que les Etats-Unis ont une mission évangélisatrice et que l’humanité doit suivre la patrie américaine ».

L’ensemble de cette logique a fini par aboutir à la réintégration par la France du commandement militaire de l’OTAN. Quant à l’Europe de la défense, elle demeure une politique assez théorique… Les Européens, français compris, apparaissent toujours peu ou prou à la remorque de Washington. Notons d’ailleurs que la Maison Blanche sait s’affranchir des règles de la morale droit-de-l’hommiste quand les intérêts de la bannière étoilée l’exigent. En témoigne le cas de l’Iran : plus question d’Axe du Mal ou d’exportation du modèle démocratique. Face aux ambitions russes et chinoises, il est devenu essentiel de régler la question iranienne. Il en découle naturellement une politique de défense peu enthousiasmante depuis vingt ans (malgré les efforts et les incontestables réussites de personnalités particulières, comme Jean-Yves Le Drian). Notons enfin que l’auteur met en lumière les incohérences de la politique française au Moyen-Orient et vis-à-vis de la Russie.

Au final, Hadrien Desuin démontre avec talent et précision que la France ne décide plus en toute indépendance sur la scène internationale mais en fonction d’intérêts politiciens et au nom de l’utopie d’une démocratie universelle qui produit des désastres en série. Retrouver la singularité de la voix de la France impose de sortir de cette impasse. Un ouvrage stimulant à lire attentivement !

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Eric DELBECQUE Président de l’ACSE et membre du Comité Les Orwelliens (ex-Comité Orwell). Il vient de publier : Le Bluff sécuritaire

Baudelaire et la conspiration géographique

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Baudelaire et la conspiration géographique

par Nicolas Bonnal

Ex: http://www.dedefensa.org 

Lisons les Fleurs de Baudelaire moins bêtement qu’à l’école. Et cela donne :

Le vieux Paris n’est plus (la forme d’une ville

Change plus vite, hélas ! que le cœur d’un mortel)…

On est dans les années 1850, au début du remplacement haussmannien de Paris. Baudelaire comprend ici l’essence du pouvoir proto-fasciste bonapartiste si bien décrit par son contemporain Maurice Joly ou par Karl Marx dans le dix-huit brumaire. Et cette société expérimentale s’est étendue à la terre entière. C’est la société du spectacle de Guy Debord, celle ou l’Etat profond et les oligarques se mêlent de tout, en particulier de notre « environnement ». C’est ce que je nomme la conspiration géographique.

La conspiration géographique est la plus grave de toutes. On n’y pense pas assez, mais elle est terrifiante. Je l’ai évoqué dans mon roman les territoires protocolaires. Elle a accompagné la sous-culture télévisuelle moderne et elle a créé dans l’ordre :

• Les banlieues modernes et les villes nouvelles pour isoler les pauvres.

• Les ghettos ethniques pour isoler les immigrés.

• La prolifération cancéreuse de supermarchés puis des centres commerciaux. En France les responsabilités du gaullisme sont immenses.

• La hideur extensive des banlieues recouvertes d’immondices commerciaux ou « grands ensembles » conçus mathématiquement.

• La tyrannie américaine et nazie de la bagnole pour tous ; le monde des interstates copiés des autobahns nazies qui liquident et recouvrent l’espace millénaire et paysan du monde.

• La séparation spatiale, qui met fin au trend révolutionnaire ou rebelle des hommes modernes depuis 1789.

• La décrépitude et l’extermination de vieilles cités (voyez Auxerre) au profit des zones péri-urbaines, toujours plus monstrueuses.

• La crétinisation du public et sa déformation physique (le docteur Plantey dans ses conférences parle d’un basculement morphologique) : ce néo-planton est en voiture la moitié de son temps à écouter la radio.

• La fin de la conversation : Daniel Boorstyn explique dans les Américains que la circulation devient le sujet de conversation numéro un à Los Angeles dans les années cinquante.

Dans Slate.fr, un expert inspiré, Franck Gintrand, dénonce l’horreur de l’aménagement urbain en France. Et il attaque courageusement la notion creuse et arnaqueuse de smart city, la destruction des centres villes et même des villes moyennes, les responsabilités criminelles de notre administration. Cela donne dans un de ses derniers textes (la France devient moche) :

« En France, cela fait longtemps que la survie du commerce de proximité ne pèse pas lourd aux yeux du puissant ministère de l’Economie. Il faut dire qu’après avoir inventé les hypermarchés, notre pays est devenu champion d’Europe des centres commerciaux. Et des centres commerciaux, ça a quand même beaucoup plus de gueule que des petits boutiquiers… Le concept nous vient des États-Unis, le pays des «malls», ces gigantesques espaces dédiés au shopping et implantés en banlieue, hermétiquement clos et climatisé. »

Il poursuit sur l’historique de cet univers totalitaire (pensez à Blade runner, aux décors de THX 1138) qui est alors reflété dans des films dystopiques prétendant décrire dans le futur ce qui se passait dans le présent.

La France fut ainsi recouverte de ces hangars et autres déchetteries architecturales. Godard disait que la télé aussi recouvrait le monde. Gintrand poursuit à propos des années soixante:

« Pas de centres commerciaux et multiples zones de périphérie dans «La France défigurée», célèbre émission des années 70. Et pour cause: notre pays ne connaissait à cette époque que le développement des hypermarchés (le premier Carrefour ouvre en 1963). On pouvait regretter l'absence totale d'esthétique de ces hangars de l'alimentaire. »

Le mouvement est alors ouest-européen, lié à la domination des trusts US, à la soumission des administrations européennes, à la fascination pour une fausse croissance basée sur des leurres (bagnole/inflation immobilière/pseudo-vacances) et encensée par des sociologues crétins comme Fourastié (les Trente Glorieuses). Dans les années cinquante, le grand écrivain communiste Italo Calvino publie un premier roman nommé la Spéculation immobilière. Ici aussi la liquidation de l’Italie est en marche, avec l’exploitation touristique que dénonce peu après Pasolini, dans ses si clairvoyants écrits corsaires.

En 1967, marqué par la lecture de Boorstyn et Mumford, Guy Debord écrit, dans le plus efficace chapitre de sa Société du Spectacle :

« Le moment présent est déjà celui de l’autodestruction du milieu urbain. L’éclatement des villes sur les campagnes recouvertes de « masses informes de résidus urbains » (Lewis Mumford) est, d’une façon immédiate, présidé par les impératifs de la consommation. La dictature de l’automobile, produit-pilote de la première phase de l’abondance marchande, s’est inscrite dans le terrain avec la domination de l’autoroute, qui disloque les centres anciens et commande une dispersion toujours plus poussée».

Kunstler a très bien parlé de cette géographie du nulle part, et de cette liquidation physique des américains rendu obèses et inertes par ce style de vie mortifère et mécanique. Les films américains récents (ceux du discret Alexander Payne notamment) donnent la sensation qu’il n’y a plus d’espace libre aux Etats-Unis. Tout a été recouvert de banlieues, de sprawlings, de centres commerciaux, de parkings (c’est la maladie de parking-son !), d’aéroports, de grands ensembles, de brico machins, de centrales thermiques, de parcs thématiques, de bitume et de bitume encore. Voyez Fast Food nation du très bon Richard Linklater.

Je poursuis sur Debord car en parlant de fastfood :

« Mais l’organisation technique de la consommation n’est qu’au premier plan de la dissolution générale qui a conduit ainsi la ville à se consommer elle-même. »

On parle d’empire chez les antisystèmes, et on a raison. Ne dit-on pas empirer ?

Je rappelle ceci dans mon livre noir de la décadence romaine.

« Pétrone voit déjà les dégâts de cette mondialisation à l’antique qui a tout homogénéisé au premier siècle de notre ère de la Syrie à la Bretagne :

« Vois, partout le luxe nourri par le pillage, la fortune s'acharnant à sa perte. C'est avec de l'or qu'ils bâtissent et ils élèvent leurs demeures jusqu'aux cieux. Ici les amas de pierre chassent les eaux, là naît la mer au milieu des champs. En changeant l'état normal des choses, ils se révoltent contre la nature. »

Plus loin j’ajoute :

Sur le tourisme de masse et les croisières, Sénèque remarque :

« On entreprend des voyages sans but; on parcourt les rivages; un jour sur mer, le lendemain, partout on manifeste la même instabilité, le même dégoût du présent. »

Extraordinaire, cette allusion au délire immobilier (déjà vu chez Suétone ou Pétrone) qui a détruit le monde et son épargne :

« Nous entreprendrons alors de construire des maisons, d'en démolir d'autres, de reculer les rives de la mer, d'amener l'eau malgré les difficultés du terrain… »

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Je laisse Mumford conclure.

« Le grand historien Mumford, parlant de ces grands rois de l’antiquité, parle d’une « paranoïa constructrice, émanant d’un pouvoir qui veut se montrer à la fois démon et dieu, destructeur et bâtisseur ».

Bibliographie

Bonnal – Les territoires protocolaires ; le livre noir de la décadence romaine ; les maîtres carrés

Debord – La société du spectacle

Kunstler – The long emergency

Mumford – La cité dans l’histoire (à découvrir absolument)

EU kijkt toe terwijl Saudi Arabië en Turkije op de Balkan het Kalifaat oprichten

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EU kijkt toe terwijl Saudi Arabië en Turkije op de Balkan het Kalifaat oprichten
 
Ex: http://xandernieuws.punt.nl 

‘Kosovo veranderd in islamitisch terreurcentrum’

‘Geweld- en haatimams kunnen dankzij Europese troepen ongestoord hun gang gaan’ 


Terwijl de Balkan in snel tempo wordt geïslamiseerd, onderneemt Europa helemaal niets. Veel burgers beseffen inmiddels dat wij daarna aan de beurt zullen zijn.

Recht onder de ogen van de KFOR vredestroepen in Kosovo is Saudi Arabië druk bezig het door de NAVO van Servië afgepakte moslim drugs- en maffiarepubliekje Kosovo te veranderen in een strenge Shariastaat. De Turken zijn ondertussen in meerdere Balkanlanden bezig hun invloed dwingend uit te breiden. Zoals bekend streeft de Turkse dictator Erdogan –die afgelopen weekend opnieuw tot hoofd van de islamistische AK Partij werd ‘gekozen’- naar het herstel van het Ottomaanse Rijk, inclusief de destijds door de Turken veroverde landen van Oost Europa.

Kosovo dankzij Europese troepen veranderd in islamistisch terreurcentrum

De Saudische pogingen om Kosovo ‘in te lijven’ in hun extreem strenge en discriminerende variant van de islam, het Wahabisme, zouden volgens het Duitse Die Welt worden bevestigd in een geheim rapport van de regering in Berlijn. Daarin worden eerdere vragen van Linke parlementariër Sevim Dagdelen over de groeiende invloed van Saudi Arabië en Turkije op de Balkan behandeld.

Zowel de Saudische staat, rijke individuele Arabieren als NGO’s en andere instellingen pompen voortdurend geld en haatimams in Kosovo. ‘Onder de ogen van KFOR heeft Kosovo zich tot een islamistisch terreurcentrum in de regio ontwikkeld. Het is schandalig dat Saudische geweld- en haatpredikers dankzij Duitse soldaten ongestoord de ideologische basis daarvoor konden leggen,’ aldus Dagdelen.

Turken ook in Oost Europa begonnen met herstel Ottomaanse Rijk

Concurrent Turkije is ondertussen ook bezig zijn eigen variant van de islam –die feitelijk nog gevaarlijker is, omdat deze onder het dekmantel van ‘gematigdheid’ minstens net zo extreem en gewelddadig is als de Saudische versie- te verspreiden op de Balkan.

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‘Sinds de AKP regering in 2002 aan de macht kwam, en met name sinds de ambtstermijn van voormalig minister van BuZa Ahmet Davutoglu, is het buitenlandse beleid van Turkije een nieuwe richting ingeslagen,’ vervolgt Dagdelen. ‘In lijn met deze nieuwe richting wordt ook –maar niet uitsluitend- politieke nadruk gelegd op gebieden, die vroeger deel van het Ottomaanse Rijk waren.’

AKP versus Gülen beweging

Vooral in de nu al overwegend of gedeeltelijk islamitische Balkanlanden Bosnië-Hercegovina, Albanië, Macedonië en Kosovo worden de Turken steeds actiever. Het conflict tussen de Erdogans AK Partij en de Gülen beweging, die volgens Ankara verantwoordelijk is voor de mislukte staatsgreep van vorig jaar, begint ook in deze landen op te laaien.

De Turkse regering oefent de nodige druk op de Balkan overheden uit om instellingen van Gülen te sluiten, en zowel namen van volgelingen van Gülen als informatie over hen los te krijgen. Turkse regeringsofficials maken hier geen geheim van, mede omdat Europa toch nooit actieve stappen tegen Turkije onderneemt.

‘Strijd om ziel van islam’

In zijn boek ‘Vijandbeeld Europa over het Tijdperk Erdogan’ beschrijft ondernemer en oprichter van de AD-Democraten Remzi Aru hoe de DITIB en andere Turkse verenigingen en instellingen actief lobby voeren in de Balkanlanden. Hij rechtvaardigt dit door te stellen dat er in landen zoals Bosnië, Kosovo en Albanië een ‘strijd om de ziel van de islam’ zou kunnen uitbreken, waarin de Turken en Saudi’s tegenover elkaar komen te staan.

Volgens de Linke parlementariër kan Erdogan ongestoord zijn ‘Neo-Osmaanse imperialistische politiek’ in Kosovo doorzetten. Tegelijkertijd gebruikt hij zijn groeiende invloed in Kosovo om ook daar –net als in zijn eigen land- politieke zuiveringen uit te voeren. (1)

Eerst de Balkan, dan wij

Als de EU lidstaten hier niets tegen ondernemen –en daar ziet het er niet naar uit-, dan kan de Balkan al binnen enkele jaren geheel ten prooi vallen aan de islam en het Kalifaat. Veel –maar nog lang niet genoeg- Europese burgers gaan inmiddels beseffen dat het daar niet bij zal blijven, en dat daarna onze landen –goedschiks of kwaadschiks- aan de beurt zullen zijn.

Maar zolang ook wij nog steeds een regering hebben die weigert ook maar iets te ondernemen tegen de islamisering van onze samenleving en de massa immigratie uit moslimlanden, zal de Turken en Saudi’s geen strobreed in de weg gelegd worden, mede dankzij de volle medewerking van Brussel.

Xander

(1) Anonymous

America’s Culture War On Russia

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America’s Culture War On Russia

 

The other day on this blog, in a discussion of Team Trump’s dodgy relations with Russian officials, I described Russia as a “hostile foreign power.” Some of you objected to that, saying that Russia is actually friendly. That’s simply not true. I mean, I wish the US and Russia were more friendly, but we are hostile foreign powers to each other. After all, it was the United States that pushed post Cold War NATO to the Russian border. Maybe we had good reasons for that (or not), but there’s no rational way for the Russians to see it other than a hostile act.

In The Atlantic last week, Sigal Samuel wrote about Russian (and Eastern European) anxiety about America’s hostility on the culture war front:

In many Central and Eastern European countries, people are concerned about America’s influence on Russia and on their own nations—and they want Russia to push back, according to a major new Pew Research Center survey.

The results of the survey—released, by coincidence, just hours after Russian Foreign Minister Sergei Lavrov visited the White House and jokedabout Comey’s firing—reveal that in most nations with Orthodox Christian majorities, Russia is seen as an important buffer against the influence of the West. Because the study was conducted between June 2015 and July 2016, before Trump’s election, it does not capture any shifts in public opinion that his administration may have provoked. Still, the survey offers illuminating insights into how America is perceived, and about how those perceptions correlate with religious identity.

There are complex reasons why the Orthosphere nations see the West as a threat, including economic ones. However:

But the perception of clashing values goes beyond different economic models. Pheiffer Noble added that there is a widespread sense among Russians that they are safeguarding civilization, be it through the conservative gender norms and sexual norms they advocate, the literature they produce, or the soldiers they send off to war in every generation. “In Russian culture, they have their canon, and their canon is pretty impressive,” she said. “They’ve got Tolstoy and Dostoevsky. They’ve got iconography. They’ve got the idea of suffering as a cultural value—and they feel like they’re also winning at that.”

Sergei Chapnin, the former editor of the official journal of the Russian Orthodox Church, agreed that many Russians feel their country is both integral to European culture and superior to it. (Indeed, 69 percent say their “culture is superior to others,” the survey shows.) “We have a desire to cooperate with Europe and to call Europe an enemy,” he said. “These exist at the same time in the mass consciousness in Russia.” But he also warned that “politicians manipulate” this psychological tension, appealing sometimes to pro-Western feeling and sometimes to anti-Western feeling, in order to serve their own purposes.

Well, sure. But that doesn’t mean the psychological and cultural tensions aren’t real, and important. It’s very difficult for Americans to think of ourselves as anything but bearers of light and goodness to the nations of the world. Along those lines, many of us (especially secular liberals) see resistance to American values — and, more broadly, secular Western values — as a sign of irrational prejudice. The presumption that Western values are universal values is very strong.

These values are globally powerful not so much because they are true (though they may be), but because they are borne by the most economically and culturally powerful nations on earth, especially the United States. Ryszard Legutko, the Polish Catholic political philosopher, writes about how Western liberalism has come to mimic the coercive and unjust ways of the communism it displaced in Eastern Europe. Cultural imperialism is a real thing, and it is no less imperialistic because it hides its aggressiveness from the aggressors. As Legutko puts it, “The liberal-democratic man, especially if he is an intellectual or an artist, is very reluctant to learn, but, at the same time, all too eager to teach.”

When it comes to Orthodox Christianity and Orthodox Christian peoples, many Westerners assume that the Orthodox are just like our Christians, except they use more incense and come in more pronounced ethnic flavors. I used to be this way too, before I entered Orthodoxy in 2006. At that time, a fellow convert in my parish told me to be patient, that it would take at least a decade for my mind to begin thinking like an Orthodox Christian. I didn’t understand that. I thought it would simply be a matter of getting used to a few doctrinal changes, and a different way of worship. Not true. Orthodoxy is not so much a set of propositions as it is a way of being in the world — a way that has for the most part not been conditioned by the experience of modernity, as Western Christianity has.

I’m not here to argue whether that’s a good or a bad thing, though I think it’s mostly a good thing. My point is that Orthodox Christian civilization is meaningfully different from Western civilization, which assumes that liberal individualism is the correct social model.

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In the US, for example, our religious culture has been dramatically shaped by Evangelical Protestantism, the Enlightenment, and capitalism — all modern phenomenon that understand religion in individualistic, voluntary terms. Orthodox cultures have a much more traditional form of Christianity and morality, and see religion in far more communal terms — as it was seen in the West prior to the Reformation and the Enlightenment. Patriarch Kirill, the head of the Russian Orthodox Church, has correctly described the basic principle of Western cultural life today as affirming the individual’s freedom of choice, which includes diminishing the role of religion in public life. Kirill continued:

We cannot say that we live in a completely peaceful environment. Today there are battles without roar of guns, and the enemy who threatens us does not visibly cross our borders. However, we are all involved into what the Orthodox tradition calls ‘the invisible battle’. Everyone today is involved in this battle. We are offered a chaos, but we should not be bought by these recommendations and should not participate in the creation of chaos … We are offered sin, a destruction of the moral foundations.

In an academic paper about differences between the West and the Orthodox East on the meaning of human rights, law professor Mark Movsesian has written:

The [Russian Orthodox Church’s social teaching’s] ambivalence about individual rights and its emphasis on the religious community reflect central themes in Orthodox thought, which distrusts Western-style individualism. It is not simply a matter of rejecting the “excesses of individualism” in the matter of Western communitarian scholars. Orthodoxy often expresses discomfort with the very idea of the autonomous individual as a rights-holder. Orthodox thought emphasizes the relational self: a person is defined by relationship to others in the body of the Church. As Daniel Payne writes, “the Orthodox tradition understands the human being ecclesially rather than individualistically.” As a consequence, the tradition has a problem with the idea of individual rights in the Western manner. “[I]f there is any concept of rights in Orthodox political culture,” Payne explains, it is not individual rights, but “group rights.”

Moreover, Orthodox thought conflates religious and national identities in a stronger way than in the West. To be sure, religion can serve as a marker of national and cultural identity in the West as well; consider Italy and Poland. And citizenship in Orthodox countries is not directly tied to religion; as a formal matter, one can be a Russian citizen and not an Orthodox Christian. But religion and nationality are intertwined in a particularly powerful way in the Orthodox world. In Russia, for example, it is a “widely accepted idea”—“shared by politicians, intellectuals and clergy”—that Orthodoxy is the fundamental factor in national identity. Other historical and ethnic factors pale in comparison. The same may be said for other Orthodox countries, like Greece.

This is hard for Westerners — including Westerners like me, who have converted to Orthodoxy — to grasp. I bristle, for example, at restrictions on religious liberty in Russia, in particular on the freedom of minority forms of Christianity. But this is because I have a Westernized view of how religion relates to society. As Movsesian says elsewhere in the same law journal paper (for which there is no link), the Catholic Church’s current teaching on religious liberty is also informed by modernity’s individualism.

My point in this blog entry is not to argue for the superiority of one model over the other. I think both have their strengths and weaknesses. I do want, however, to point out that when Orthodox countries reject liberal Western ideas (e.g., gay rights, religious liberty), they are not necessarily doing so out of bigotry, but because they have a fundamentally different view on what the human person is, what the church is, and what society is. They see the West’s war on their traditions in the name of secular liberalism as an act of aggression — and they’re right. Many of us Westerners regard our actions instead as human rights activism, as fighting for basic liberties against structures of bigotry. But doing so requires accepting the modern Western way of seeing the world as normative — and assuming so is an act of cultural imperialism.

Hey, sometimes cultural imperialism is defensible. It was a very good thing, for example, that the colonizing British in the 19th century put an end to the ancient Indian practice of suttee (widow-burning). Even so, we should practice self-awareness when we are being cultural imperialists, and understand how our cultural hegemony appears in the eyes of other civilizations.

Contemporary America most fundamentally operates on the principle elucidated by Justice Anthony Kennedy in the 1992 Planned Parenthood v. Casey opinion:

At the heart of liberty is the right to define one’s own concept of existence, of meaning, of the universe, and of the mystery of human life.

Leaving aside the legal and philosophical incoherence of this statement, and the coercion it conceals, it is nevertheless an accurate précis of the way Americans think about the relationship between society and religion, or any other source of transcendent meaning. Orthodox countries rightly reject it, because it is profoundly untrue to their own traditions and ways of living. To the Orthodox mind, what Kennedy proposes here is not liberty at all, but a form of bondage. Again, I’m not trying to convince you that the Orthodox view is correct, but only to point out that when Orthodox countries push back against Western “human rights” activists, it is a matter not only of self-defense, but defending themselves against what they genuinely believe to be lies that will destroy the fabric of society.

 

jeudi, 25 mai 2017

Trump à Riyad: la guerre à l'Iran

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Trump à Riyad: la guerre à l'Iran

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu 

Personne ne s'est étonné, sinon indigné, de voir Trump réserver sa première rencontre à l'étranger au pire des régimes finançant partout le terrorisme et la guerre, l'Arabie saoudite. Normalement, un président américain va d'abord soit au Canada, soit au Mexique. S'il franchit l'Atlantique, il se rend en Europe, par exemple à Bruxelles ou Berlin.
 
C'est que Trump (drôlement surnommé par Pepe Escobar dans l'article référencé ci-dessous, Abu Trump al Amriki, Trump l'Américain), attend de Riyad d'importants contrats d'armement, ainsi qu'un appui dans la lutte contre le terrorisme. Ces contrats rendront évidemment service à l'industrie militaire américaine, mais tout laisse craindre que les armements fournis aillent renforcer les pays sunnites dans leur lutte contre l'Iran. 

Dans ce sens, le dimanche 21 mai, Trump  a prononcé un discours sur l'islam devant les représentants d'une cinquantaine de nations musulmanes, dont 37 chefs d'État ou de gouvernement. Beaucoup d'observateurs craignaient qu'il ne se laisse engager dans une improvisation dont il a le secret, aux conséquences pouvant être catastrophiques. Ceci n'a pas été le cas. Il s'est tenu au discours qui avait été préparé pour lui.

Il a exhorté les pays musulmans à n'offrir aucun "refuge aux terroristes" et a annoncé un accord avec les pays du Golfe pour lutter contre le financement du "terrorisme". "Il s'agit d'une bataille entre des criminels barbares qui cherchent à éradiquer la vie humaine et des gens bien de toutes les confessions qui cherchent à la protéger", a-t-il déclaré. Par ailleurs, il a invité les pays arabes à compter avant tout sur eux-mêmes.

« Les nations du Proche-Orient ne peuvent attendre que la puissance américaine écrase cet ennemi à leur place » a-t-il dit : « Nous ne sommes pas ici pour donner des leçons, nous ne sommes pas ici pour dire aux gens comment ils doivent vivre, ce qu'ils doivent faire, qui ils doivent être ou comment prier,et cela demande de se montrer soudés face aux meurtres de musulmans innocents, à l'oppression des femmes, à la persécution des juifs et au massacre de chrétiens ».

Rien à objecter. Cependant, comme l'on pouvait s'y attendre, il n'a pas convié l'Iran à cette lutte contre le terrorisme. Il l'a au contraire entre les lignes assimilée à ce terrorisme. Nous avions énuméré dans un article précédent les nombreuses raisons qui opposent les intérêts américains à ce pays, y compris les pressions d'Israël 1).

Ceci veut dire que si le discours de Trump a apparemment séduit les gouvernements arabes sunnites réunis à Riyad, c'est parce qu'il a annoncé implicitement une participation accrue des Etats-Unis à la lutte contre l'Iran. Compte tenu des liens solides de ce pays avec la Russie, Trump a été perçu comme encourageant une mobilisation accrue du monde arabe, non seulement contre l'Iran, mais contre ses alliés dans le monde chiite et indirectement, contre la Russie.

Plus que jamais, Donald Trump s'est donc comporté de façon irresponsable au plan géostratégique. Moscou ne manquera pas de le souligner 2). Les pays européens devraient réagir, compte tenu des perspectives que leur offre une ouverture diplomatique plus grande à l'égard de Téhéran. Mais on peut craindre qu'ils n'en fassent rien. Eux aussi sont intéressés par les pétro-dollars de l'Arabie.

Notes

1) Réélection de Hassan Rohani en Iran http://www.europesolidaire.eu/article.php?article_id=2569...

2) Voir aussi de Pepe Escobar https://sputniknews.com/columnists/201705201053811797-abu...

mercredi, 24 mai 2017

F. William Engdahl : Gods of Money & War on Cash

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F. William Engdahl

The Gods of Money – How America Was Hijacked

Source: http://gunsandbutter.org
http://williamengdahl.com

The Gods Of Money: How America Was Hijacked
Guest: F. William Engdahl

Finance analyzed as power; Alexander Hamilton's First Bank of the United States; the War of 1812; central banking backed by the power of the state, but in private hands; a silent coup d'etat since 1945 by the international bankers of Wall Street;

the 1913 creation of the Federal Reserve as a private central bank; the US Constitution gives the monetary power to congress; President Andrew Jackson and the Second Bank of the United States; the assassination of President Abraham Lincoln arranged by London bankers because he issued Greenbacks to finance the Civil War; President John Kennedy assassinated five months after his proclamation to print silver certificates; the CIA's dark agenda;

the Bretton Woods Dollar System; the two pillars of US hegemony: the dollar's reserve status and the world's most powerful military; financial warfare against the Euro; debt slavery; fractional reserve banking; the US empire resembles Rome of the 4th Century.

 

F. William Engdahl

Washington's Dangerous War On Cash: What It's Really About

Source: http://GunsandButter.org
http://williamengdahl.com
http://information-machine.blogspot.com

India withdraws 86% of the value of all currency in circulation; USAID; Project Catalyst; Global Innovation Exchange; Better Than Cash Alliance; Bill and Melinda Gates Foundation; UNICEF; UN Development Program; Mitre Corporation; the Foreign Account Tax Compliance Act (FACTA); Organization for Economic Cooperation and Development (OECD); the larger global agenda of total control; ECB set up to favor Germany; Trade Czar Peter Navarro; US currency war aimed at destroying the Euro; US planned destruction of the Eurozone; glyphosate; fascism of EU bureaucracy in Brussels; assassination of Chairman of Deutsche Bank, Alfred Herrhausen; US emerging as the biggest tax haven in the world.

Shaping the Future: Moscow and Beijing’s Multipolar World Order

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Shaping the Future:

Moscow and Beijing’s Multipolar World Order

Ex: http://www.lewrockwell.com 

Once in a while, think tanks such as the Brookings Institute are able to deal with highly strategic and current issues. Often, the conferences held by such organizations are based on false pretences and copious banality, the sole intention being to undermine and downplay the efforts of strategic opponents of the US. Recently, the Brookings Institute’s International Strategy and Strategy Project held a lecture on May 9, 2017 where it invited Bobo Lo, an analyst at Lowy Institute for International Policy, to speak. The topic of the subject, extremely interesting to the author and mentioned in the past, is the strategic partnership between China and Russia.

The main assumption Bobo Lo starts with to define relations between Moscow and Beijing is that the two countries base their collaboration on convenience and a convergence of interests rather than on an alliance. He goes on to say that the major frictions in the relationship concern the fate that Putin and Xi hold for Europe, in particular for the European Union, in addition to differences of opinions surrounding the Chinese role in the Pacific. In the first case, Lo states that Russia wants to end the European project while China hopes for a strong and prosperous Europe. With regard to the situation in the Pacific, according to this report, Moscow wants a balance of power between powers without hegemonic domination being transferred from Washington to Beijing.

The only merit in Lo’s analysis is his identification of the United States as the major cause of the strategic proximity between Moscow and Beijing, certainly a hypothesis that is little questioned by US policy makers. Lo believes Washington’s obsession with China-Russia cooperation is counterproductive, though he also believes that the United States doesn’t actually possess capabilities to sabotage or delimit the many areas of cooperation between Beijing and Moscow.

What is missing in Lo’s analysis are two essential factors governing how Moscow and Beijing have structured their relationship. China and Russia have different tasks in ushering in their world order, namely, by preserving global stability through military and economic means. Their overall relationship of mutual cooperation goes beyond the region of Eurasia and focuses on the whole process of a sustainable globalization as well as on how to create an environment where everyone can prosper in a viable and sustainable way. Doing this entails a departure from the current belligerent and chaotic unipolar world order.

Moscow and Beijing: Security and Economy

Beijing has been the world’s economic engine for over two decades and shows no signs of slowing down, at least not too much. Moscow, contrary to western media propaganda, has returned to play a role not only on a regional scale but as a global power. Both of these paths of military and economic growth for China and Russia have set things on a collision course with the United States, the current global superpower that tends to dominate international relations with economic, political and military bullying thanks to a complicit media and corrupt politicians.

In the case of Beijing, the process of globalization has immensely enhanced the country, allowing the Asian giant to become the world’s factory, enabling Western countries to outsource to low-cost labor. In this process of economic growth, Beijing has over the years gone from being a simple paradise for low-cost outsourcing for private companies to being a global leader in investment and long-term projects. The dividends of years of wealth accumulation at the expense of Western nations has allowed Beijing to be more than just a strategic partner for other nations. China drives the process of globalization, as recently pointed out by Xi Jinping in Davos in a historic speech. China’s transition from a harmless partner of the West to regional power with enormous foreign economic investments place the country on a collision course with Washington. Inevitably, Beijing will become the Asian hegemon, something US policymakers have always guaranteed will not be tolerated.

The danger Washington sees is that of China emerging as a regional superpower that will call the shots in the Pacific, the most important region of the planet. The United States has many vested interests in the region and undeniably sees its future as the leader of the world order in jeopardy. Obama’s pivot to Asia was precisely for the purposes of containing China and limiting its economic power so as to attenuate Beijing’s ambitions.

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Unsurprisingly, Washington’s concerns with Moscow relate to its resurgence in military capabilities. Russia is able to oppose certain objectives of the United States (see Ukraine or Syria) by military means. The possibility of the Kremlin limiting American influence in Eastern Europe, the Middle East and Eurasia in general is cause for concern for American policy makers, who continue to fail to contain Russia and limit Moscow’s spheres of influence.

In this context, the strategic division of labor between Russia and China comes into play to ensure the stability of the Eurasian region as a whole; in Asia, in the Middle East and in Europe. To succeed in this task, Moscow has mainly assumed the military burden, shared with other friendly nations belonging to the affected areas. In the Middle East, for example, Tehran’s partnership with Moscow is viewed positively by Beijing, given its intention to stabilize the region and to eradicate the problem of terrorism, something about which nations like China and Russia are particularly concerned.

The influence of Islamist extremists in the Caucasian regions in Russia or in the autonomous region of Xinjiang in China are something that both Putin and Xi are aware can be exploited by opposing Western countries. In North Africa, Egypt has signed several contracts for the purchase of military vehicles from Moscow, as well as having bought the two Mistral ships from France, thereby relying on military supplies from Moscow. It is therefore not surprising that Moscow and Egypt cooperated with the situation in Libya and in North Africa in general.

In Southeast Asia, Moscow seeks to coordinate efforts to reach an agreement between Afghanistan, Pakistan and India. The entry into the Shanghai Cooperation Organization (SCO) of New Delhi and Islamabad (Tehran will be next), with the blessing of Beijing as the protagonist of the 2017 SCO meeting, is a keystone achievement and the right prism through which to observe the evolution of the region. Moscow is essentially acting as a mediator between the parties and is also able to engage with India in spite of the dominating presence of China. The ultimate goal of Moscow and Beijing is to eradicate the terrorist phenomenon in the Asian region with a view to what is happening in North Africa and the Middle East with Iran and Egypt.

Heading to a Multipolar World Order

The turning point in relations between Moscow and Beijing concerns the ability to engage third countries in military or economic ways, depending on these countries’ needs and objectives. Clearly in the military field it is Moscow that is leading, with arms sold to current and future partners and security cooperation (such as with ex-Soviet Central-Asian republics or in the Donbass) and targeted interventions if needed, as in Syria. Beijing, on the other hand, acts in a different way, focusing on the economic arena, in particular with the Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) at its center.

Initiatives such as the One Belt One Road (OBOR) and the Maritime Silk Road have the same strategic aim of the Russian military initiative, namely, ensuring the independence of the region from a geo-economic perspective, reaching win-win arrangements for all partners involved. Naturally, the win-win agreement does not mean that China wins and then wins again; rather, a series of bilateral concessions can come to satisfy all actors involved. An important example in this regard that explains the Sino-Russian partnership concerns the integration of the Eurasian Union with the Chinese Silk Road. The Russian concerns over the predominant status of the Chinese colossus in Central Asia have been assuaged by a number of solutions, such as the support of the OBOR infrastructure program to that of the Eurasian Union. Beijing is not interested in replacing Moscow’s leading role the post-Soviet nations in Central Asia but rather with providing significant energy and economic development to particularly underdeveloped nations that are in need of important economic investment, something only Beijing is able to guarantee.

The linking of the Eurasian Economic Union (EEU) with the One Belt One Road initiative guarantees Moscow a primary role in the transit of goods from east to west, thereby becoming the connecting point between China and Europe while expanding the role and function of the EEU. All participants in these initiatives have a unique opportunity to expand their economic condition through this whole range of connections. Beijing guarantees the money for troubled countries, and Moscow the security. The SCO will play a major role in reducing and preventing terrorist influence in the region, a prerequisite for the success of any projects. Also, the AIIB, and to some extent the BRICS Development Bank, will also have to step in and offer alternative economic guarantees to countries potentially involved in these projects, in order to free them from the existing international financial institutions.

One Belt One Road, and all the related projects, represent a unique occasion whereby all relevant players share common goals and benefits from such transformative geo-economic relationships. This security-economy relationship between Moscow and Beijing is  the heart of the evolution of the current world order, from the unipolar to the multipolar world. The US cannot oppose China on the economic front and Russia on the military front. It all comes down to how much China and Russia can continue to provide and guarantee economic and security umbrellas for the rest of the world.

mardi, 23 mai 2017

Allemagne: Intégrer les migrants ?

  • La liste ne place pas la culture allemande en position dominante et ne la considère même pas comme culture de référence (Leitkultur) ; quant au groupe de travail il n'exige pas des migrants qu'ils s'assimilent au mode de vie allemand. En réalité, les principes directeurs encouragen, les Allemands à adopter les normes culturelles que les migrants ont importées avec eux en Allemagne.

  • "Nous ne pouvons demander que nos coutumes soient respectées si nous ne sommes pas capables de les énoncer ... Notre pays est façonné par le christianisme ... L'Allemagne fait partie de l'Occident, culturellement, spirituellement et politiquement". — Thomas de Maizière, ministre allemand de l'intérieur.

  • Les partisans du Leitkultur affirment qu'il faut empêcher l'émergence de sociétés parallèles, notamment celles qui sont régies par la charia islamique.

Un groupe de travail gouvernemental mis en place pour promouvoir l'intégration des migrants dans la société allemande a établi et rendu public la liste des caractéristiques qui fondent la culture allemande.

Cette liste gomme soigneusement un certain nombre de termes politiquement incorrects comme « patriotisme » ou « culture dominante » (Leitkultur) et ramène les traditions et valeurs allemandes au plus petit dénominateur commun. Le groupe de travail fait implicitement du multiculturalisme l'expression essentielle de la culture allemande.

L'initiative pour l'intégration culturelle (Initiative Kulturelle Integration) a été créée en décembre 2016 par le gouvernement allemand pour promouvoir la « cohésion sociale » d'une société allemande qui, grâce à la chancelière Angela Merkel s'est enrichie de plus d'un million de migrants en provenance d'Afrique, d'Asie et du Moyen-Orient.

Le groupe de travail - piloté par le Conseil allemand de la culture (Deutscher Kulturrat) en étroite collaboration avec le ministère de l'Intérieur et deux douzaines d'associations spécialisées dans les médias, les affaires religieuses et l'intérêt général - a été chargé de parvenir à un consensus sur ce qui forme le cœur de la culture allemande. L'opération avait bien sûr pour but de faciliter l' « intégration culturelle » des migrants en les encourageant à adhérer à un corpus de valeurs culturelles unanimement partagées.

Après cinq mois de délibération, le groupe de travail a présenté le 16 mai une liste de ce qu'il a affirmé être les 15 principes directeurs de la culture allemande. Sous le slogan « Cohésion dans la diversité », la liste énumère surtout des idées génériques - égalité entre les sexes, liberté d'expression, liberté de religion, pluralisme et démocratie - qui n'ont rien de spécifiquement allemand.

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La liste ne mentionne pas non plus que la culture allemande est la culture de référence (Leitkultur) en Allemagne, ni que cette culture allemande est intrinsèquement liée à chacun des points évoqués ; quant au groupe de travail, il n'exige pas explicitement que les migrants s'assimilent au mode de vie allemand. Les principes directeurs énoncés produisent même le sentiment inverse : ils encourageraient en fait les Allemands à adopter les normes culturelles que les migrants ont apportées avec eux en Allemagne. L'objectif du groupe de travail qui était à l'origine d'inciter à l'intégration et à l'assimilation semble avoir évolué vers la coexistence, la tolérance et l'adoption par les Allemands de la culture de base du migrant.

Le préambule démarre ainsi :

« L'intégration affecte l'ensemble de la population en Allemagne. La cohésion sociale ne se décrète pas et ne peut faire l'objet d'une politique ... La solidarité est l'un des principes fondamentaux de notre coexistence. Elle se manifeste dans notre compréhension mutuelle et dans l'attention aux besoins des autres - nous défendons une société de solidarité ...

« L'immigration change la société et exige de l'ouverture, du respect et une tolérance mutuelle ... Il n'est pas correct d'agiter des craintes et d'afficher son hostilité - nous défendons une société cosmopolite ...

« Le processus d'intégration européen n'est pas seulement une garantie pour la paix en Europe, la prospérité et l'emploi, il incite aussi à la convergence culturelle et à l'émergence de valeurs européennes communes - nous voulons une Europe unie ».

Le ministre allemand de l'Intérieur Thomas de Maizière, partisan bien connu de l'idée d'une culture dominante (Leitkultur), a exprimé sa déception face au flou dans lequel le groupe de travail s'est cantonné pour ce qui est de la Germanité. « Nous ne pouvons exiger que l'on respecte nos coutumes si nous hésitons à les énoncer », a-t-il déclaré. Lors d'une conférence de presse donnée à Berlin le 16 mai, il a développé :

« Je suis formellement en désaccord avec le Conseil culturel allemand sur la Leitkultur : j'aime ce mot, ce qui n'est pas le cas du conseil. Je n'ai toujours pas compris si ce qui vous dérange est le mot 'noyau dur' ou le mot 'culture' ou la combinaison des deux mots. A moins qu'il ne s'agisse d'autre chose dans le passé ».

Les tenants de la Leitkultur affirment qu'il faut empêcher qu'en Allemagne, se constituent des sociétés parallèles, notamment quand elles sont régies par la charia islamique. Ces opposants proclament qu'énoncer le principe de Leitkultur obligerait les migrants à abandonner certains éléments de leur identité pour se conformer aux us et coutumes de la majorité – soit le contraire de l'idéal multiculturel qui autorise les migrants à reproduire en Allemagne toutes les composantes de leur identité.

Le 29 avril, De Maizière a publié une tribune dans Bild qui a provoqué un torrent de critiques. Il exigeait des migrants qu'ils acceptent la Leitkultur allemande, affirmant que sans l'adhésion de tous à un « noyau culturel de base, la société perdrait ce fil conducteur d'autant plus nécessaire que les mouvements migratoires et la société ouverte nous rendent plus diversifiés ».

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Dans son article, de Maizière a énuméré les dix caractéristiques qui sont à la base de la culture allemande, y compris la méritocratie et le respect de la culture et de l'histoire allemandes. Il a ajouté: « au-delà de notre langue, de notre constitution et du respect des droits fondamentaux, quelque chose nous lie dans nos cœurs, et ce quelque chose nous rend différents et nous distingue des autres».

Concernant la religion, de Maizière a écrit que « notre Etat est neutre, mais amical envers les églises et les communautés religieuses ... Les clochers d'église structurent notre paysage. Notre pays est façonné par le christianisme ... L'Allemagne fait partie de L'Occident, de manière culturelle, spirituelle et politique ». Il a ajouté :

« En Allemagne, nous disons notre nom et pour nous saluer nous nous serrons la main. Nous sommes une société ouverte. Nous marchons visage dévoilé. Nous ne portons pas de burqas ».

Les réflexions de De Maizière ont été largement tournées en dérision. Martin Schulz, candidat des sociaux-démocrates (SPD) à la chancellerie, a déclaré que la « culture dominante » de l'Allemagne, c'était la liberté, la justice et la coexistence pacifique, lesquelles étaient au cœur de la constitution ».

Jamila Schäfer du Parti Vert, a déclaré :

« Dès que vous définissez votre identité par le pays auquel vous appartenez, vous tendez à adopter une attitude de supériorité. C'est dangereux et antidémocratique car c'est une attitude d'exclusion. Une société est toujours en évolution et les mouvements migratoires sont un facteur de changement. Je ne crois pas qu'un vivre ensemble pacifique passe par la préservation de sa propre culture ».

Poussé à l'extrême, le point de vue de Schäfer indique aux Allemands qu'ils auraient intérêt à renoncer à la culture allemande en échange d'une paix sociale chimérique : le patrimoine judéo-chrétien allemand serait ainsi lentement remplacé par la charia islamique. De nombreux élus allemands sont d'accord avec Schäfer.

Le leader des démocrates libres, Christian Lindner, a accusé de Maizière de rouvrir un débat « vieux et obsolète »: « encore une fois, il s'agit de religion ».

« Une certaine conception de l'islam suggère, voire même interdit, aux hommes de serrer la main des femmes. Ce n'est pas une bonne chose, mais cela ne fait de mal à personne. Le débat sur la Leitkultur n'a rien à voir ici ».

La commissaire allemande à l'intégration, Aydan Özoğuz, a jugé « ridicule et absurde » le débat sur la Leitkultur. Dans une tribune du Tagesspiegel, elle a soutenu :

« Au-delà de la langue, une culture spécifiquement allemande n'est tout simplement pas identifiable. Historiquement, les cultures régionales, l'immigration et la diversité ont façonné notre histoire. La mondialisation et la pluralisation ont amplifié plus encore la diversité. Les immigrants ne peuvent tout simplement pas être régis par une culture majoritaire ».

En dépit de la critique des politiciens allemands, de Maizière semble avoir le soutien de l'opinion publique allemande. Un sondage Insa-Focus du 5 mai, a indiqué que 52.5% des Allemands interrogés estiment que l'Allemagne a besoin d'une Leitkultur. Seuls 25.3% des personnes interrogées ont déclaré qu'elles y étaient opposées.

Les arguments de de Maizière surgissent au beau milieu d'une campagne destinée à rallier à la CDU les votes conservateurs. Une partie de cet électorat, ulcéré par la politique migratoire de Merkel, a rallié Alternative pour l'Allemagne (AfD) un parti d'opposition qui se donne comme objectif de réduire les flux migratoires.

Un sondage Forsa-Stern-RTL du 17 mai a montré que si les élections fédérales de septembre avaient lieu aujourd'hui, la CDU de Merkel gagnerait avec 38% des voix, loin devant le SPD avec 26%. Le FDP obtiendrait 8% des voix, suivi des Verts et de l'AfD qui auraient chacun 7%. Si les Allemands devaient choisir leur chancelier directement, sans passer par les listes d'un parti, Merkel gagnerait avec 50%, contre 24% pour son principal challenger, Martin Schulz, du SPD. Les électeurs allemands, du moins pour l'instant, semblent se satisfaire du statu quo, avec ou sans Leitkultur.

Soeren Kern est Senior Fellow du Gatestone Institute basé à New York.

What do Chinese net users think of the white left?

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What do Chinese net users think of the white left?

Ex: https://ozconservative.blogspot.com  

If a Chinese net user wants to insult their opponent they are likely to use the derogatory term baizuo which means "white left." What do they mean by this?

According to one source:
baizuo is used generally to describe those who “only care about topics such as immigration, minorities, LGBT and the environment” and “have no sense of real problems in the real world”; they are hypocritical humanitarians who advocate for peace and equality only to “satisfy their own feeling of moral superiority”; they are “obsessed with political correctness” to the extent that they “tolerate backwards Islamic values for the sake of multiculturalism”; they believe in the welfare state that “benefits only the idle and the free riders”; they are the “ignorant and arrogant westerners” who “pity the rest of the world and think they are saviours”.

Why would ordinary Chinese people dislike the Western left so much? Here is the reason given:
The stigmatization of the ‘white left’ is driven first and foremost by Chinese netizens’ understanding of ‘western’ problems. It is a symptom and weakness of the Other.

The term first became influential amidst the European refugee crisis, and Angela Merkel was the first western politician to be labelled as a baizuo for her open-door refugee policy. Hungary, on the other hand, was praised by Chinese netizens for its hard line on refugees, if not for its authoritarian leader. Around the same time another derogatory name that was often used alongside baizuo was shengmu (圣母) – literally the ‘holy mother’ – which according to its users refers to those who are ‘overemotional’, ‘hypocritical’ and ‘have too much empathy’.

Many Chinese on social media came to identify Hillary Clinton with the white left and so supported Donald Trump in the American election. When one public intellectual, Rao Yi, took the opposing view,
An overwhelming majority of Zhihu users thought that Rao had only proved that he was typical of the ‘white left’: biased, elitist, ignorant of social reality and constantly applying double standards.

The Chinese seem aware that a modern liberal politics is suicidal:
According to Baidu Trends, one of the most related keywords to baizuo was huimie: “to destroy”. Articles with titles such as ‘the white left are destroying Europe’ were widely circulated.

To understand why the Chinese might reject the white left so firmly, it helps to consider moral foundations theory. This is a theory popularised by Professor Jonathan Haidt. Based on research into different cultures around the world, it was found that there are six basic moral foundations:

1. The care/harm foundation: the focus here is on maximising individual care and minimising harm, protecting the vulnerable.

2. The fairness foundation: not cheating the system, people rewarded according to their contributions.

3. The loyalty/betrayal foundation: being loyal to our tribe/team (including patriotism).

4. The authority/subversion foundation: respecting the authority or hierarchy necessary to preserve social order.

5. The sanctity/degradation foundation: protecting a sense of what is hallowed or sacred in institutions and ideals.

6. Liberty/oppression: not wanting to be dominated/bullied by a tyrant.

What Haidt found was that Western liberals are very strong on the first foundation (and also to a degree the sixth) but are not very committed to the others. Traditionalists, in contrast, were found to hold all six foundations in equal regard.

If, then, you are a Chinese net user, who is used to taking all six moral foundations into account, you are likely to perceive the white left negatively. You will see them putting all the emphasis on the first foundation (care/harm) - hence the criticism of the white left as being "hengmu:" overemotional, hypocritical empathisers. Similarly, the lack of emphasis on fairness (as proportionality) on the left leads to the criticism by the Chinese of the support by the white left for free riders. And, finally, the lack of a concern for the loyalty foundation leads the white left open to the accusation by the Chinese of destroying their own tradition.

lundi, 22 mai 2017

Notre ami le Michéa

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Notre ami le Michéa

Pierre Le Vigan*,

urbaniste, essayiste

Ex: http://metamag.fr 

Jean-Claude Michéa a souvent dit lui-même qu’il écrivait toujours le même livre. C’est exact. Et pourtant, aucun de ses livres ne laisse indifférent. Car Michéa creuse et renouvelle toujours le sillon qu’il a lui-même ouvert. S’il n’y a pas de thèses nouvelles dans Notre ennemi le capital, on ne cesse de voir des points de vue neufs qu’ouvre la critique des illusions du progrès que produit l’auteur depuis plus de 15 ans. La gauche, en tant qu’elle est devenue essentiellement progressiste, est devenue le contraire du socialisme : telle est la thèse de Michéa.

Ce socialisme, on a reproché à Michéa de ne pas le définir, ou de le réduire à la décence du peuple, la décence commune des gens ordinaires. Cette décence est bien évidemment nécessaire, pour autant, elle n’a jamais été considérée par l’auteur comme ouvrant par elle seule au socialisme. Celui-ci, Michéa le définit, comme Proudhon, et comme le dernier Marx (qui rejoignait le premier Marx dans son a-scientisme), comme une autre organisation du pouvoir : de bas en haut, et de la circonférence au centre. C’est le fédéralisme, ou encore le communalisme libertaire. Il veut du commun et du public autant que possible, mais de l’État pas plus que nécessaire. Il donne au bien commun toute sa place, à l’intérêt privé rien que sa place. C’est un anarchisme qui recherche un ordre, sinon sans État, du moins avec un État le moins envahissant possible. C’est le contraire de l’ordre actuel, où l’État met ses moyens au service de plus en plus de marchandisation forcée de la société.

Jean-Claude Michéa éclaire toutes les raisons de se prononcer pour l’économie au sens d’Aristote (le soin de la maison, y compris les grandes maisons que sont les peuples) contre la chrématistique, contre le progrès mais pour des progrès, contre l’idéologie No border mais pour le local « moins les murs » (c’est-à-dire l’universel selon Miguel Torga), contre le revenu universel (p. 293) entérinant l’éviction des classes populaires, qui cesseraient de chômer pour être définitivement assistées, contre la double tyrannie du droit et du marché, qui s’alimentent l’un l’autre.

Ainsi, Michéa défend à la fois le socialisme et la cause du peuple, un peuple actuellement renvoyé, territorialement, symboliquement et idéologiquement, dans les périphéries (bien étudiées par Christophe Guilluy) d’un pouvoir auquel correspond bien l’expression de « capitalisme cool » (Thomas Frank, The conquest of cool) ou encore de tyrannie souriante. Si le capitalisme est avant tout « l’histoire d’une révolution permanente » (Joyce Appleby), et ce d’abord dans le domaine culturel, Michéa plaide pour le droit, qui est celui du peuple, à des permanences, à des sécurités. C’est ce qui fait taxer Michéa de « conservateur ». Ce n’est pas si faux. Sauf que, pour conserver ce qui mérite de l’être, il faut aujourd’hui être révolutionnaire. Donc s’inscrire dans tout autre chose que le bougisme actuel.

Jean-Claude Michéa, Notre ennemi le capital, Climats-Flammarion, 316 pages, 19 €.

Connaitre les ouvrages de Pierre Le Vigan : cliquer ICI

dimanche, 21 mai 2017

Sylvain Tesson On n'est pas couché 20 mai 2017

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Sylvain Tesson

On n'est pas couché 20 mai 2017

Sylvain Tesson - On n'est pas couché 20 mai 2017 #ONPC

On n'est pas couché
20 mai 2017
Laurent Ruquier avec Vanessa Burggraf & Yann Moix
France 2
#ONPC

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http://www.france2.fr/emissions/on-n-...

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Nouveau Gouvernement Macron : ultra-libéralisme, soumission à Bruxelles et bellicisme

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Nouveau Gouvernement Macron : ultra-libéralisme, soumission à Bruxelles et bellicisme

Nous avons un nouveau gouvernement. Qu'importe, d'ailleurs ! C'est Macron qui gouvernera, ou plutôt l'éminence noire Attali ; l'un des maîtres du monde les plus redoutables, Rothschild ; l'UE des banksters et l'Amérique profonde des néo-conservateurs. Et ce gouvernement, sans doute très provisoire, n'est là que pour flouer les futurs électeurs aux Législatives.

D'ores et déjà, quatre tendances:

- Ultra libéralisme,

- Soumission à Bruxelles,

- Mise en place du Nouvel Ordre Mondial, totalitaire (un seul Parti), liberticide, asexué..

- Préparation aux guerres...

L'ultra libéralisme saute aux yeux. Peu importe d'ailleurs que l'on se dise de gauche, de droite, du centre, il suffit de voir arriver Gérard Collomb, grand bourgeois partisan de la mondialisation malheureuse, ou au Travail (quelle provocation !) Muriel Pénicaud, engagée dans les multinationales notamment du CAC40. La contestation sera dans la rue, et de masse ! Surtout avec le grand perdant de la Primaire, Bruno Le Maire, parrain des jobs à 5 euros (http://www.lepoint.fr/presidentielle/et-bruno-le-maire-cr...), qui hérite de l'Economie. L'homme est choisi par Macron pour son libéralisme impitoyable...
 

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La TOTALE soumission à Bruxelles passera entre autres par deux Européistes acharnées, la Modem De Sarnez pour toujours plus d'UE des banksters, et horreur suprême, pour le TAFTA (https://www.libre-echange.info/veille/article/vote-desast...), et la « centriste » Goulard, ne voyant pas l'austérité dans les politiques actuelles, et adversaire résolue de la liberté d'information sur le Net. Cette politique de folle soumission à Bruxelles sera totalement contraire aux intérêts des Français. Et au numérique, voici un homme issu de la diversité, d'une famille marocaine, pour créer des « French Bureau ». On est loin d'un Montebourg...

Le Nouvel Ordre Mondial (NWO) cher à Attali se met INSIDIEUSEMENT en place, dès ce mercredi matin avec l'annonce du choix des rythmes scolaires par nos écoles, pour pas après pas, mener à l'autonomie des établissements, et à la PRIVATISATION de l'enseignement public ; qui le voit ? Tout est si bien présenté pour nous berner ! Le NWO est totalitaire, avec un seul Parti - comme celui que le pion Macron prépare discrètement -, des médias collabos (ainsi, C dans l'Air annonce déjà « la palme d'or du casting » pour ce gouvernement), des lois liberticides (Macron a prévu la poursuite de la loi d'Urgence, et qu'il gouvernera par ordonnances ; Mme Goulard veillera à bâillonner la ré-information), la préparation à un monde asexué (la féministe Marlène Schiappa travaillera au respect de l'égalité des femmes et des hommes, prélude d'un futur monde asexué)...
 

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Pire que tout, des va-t-en guerres réputés rentrent dans le nouveau gouvernement Macron-Rothschild, de Mme De Sarnez mettant sur le même plan l'humaniste (http://eva-coups-de-coeur.eklablog.com/assad-n-est-pas-un...) Assad et les égorgeurs de Daesh, à Sylvie Goulard (on peut s'attendre avec elle à un déploiement en Syrie voire contre la Russie, et à une Défense européenne soumise à l'OTAN), et ne parlons pas de Le Drian, qui a fait ses preuves en ciblant obsessionnellement le Président Assad, en osant soutenir et armer (au nom, l'hypocrite, de la « lutte contre le terrorisme ») l'I, en laissant prospérer Boko Haram, en jouant au pompier-pyromane en Afrique, pour après avoir délégué des mercenaires islamistes, proposer les services de la France afin de « rétablir l'ordre », comprenez : contrôler la politique d'Etats africains, et piller leurs ressources. Le Drian ne va-t-il pas aussi se confronter à Poutine ? Alerte, la France sera sur un volcan...

De toutes façons, même si nous avons là une idée de la politique qui sera menée par Macron-Rothschild, il s'agit certainement d'un gouvernement provisoire, mélangeant individus de Droite, de Gauche, du Centre, au bilan désastreux, recyclés pour donner aux Français l'illusion de « rassemblement », alors que le but est de draguer les Electeurs déboussolés par tous les bouleversements, en particulier par les difficultés que connaissent actuellement les Partis traditionnels, victimes du machiavélisme du pouvoir actuel appuyé en coulisses par le plus perfide, François Hollande, et les médias aux ordres du Système.

Pour séduire les Electeurs, on fait miroiter un rassemblement harmonieux, alors qu'il a en son sein un Bayrou qui sera vite floué (http://actualiteevarsistons.eklablog.com/macron-et-bayrou...), le leurre provisoire Hulot prié de collaborer avec un gouvernement pour qui le profit prime sur tout, sur la défense de l'environnement en particulier, et qui défendra les centrales nucléaires comme le gaz de schiste !
« Un pathétique pitre dont la veste est évidemment réversible vient d'être nommé premier sinistre » (AbdalahGeronimoCohen)
La vie politique moralisée ? Foutaises ! Le Premier Ministre lui-même traîne plusieurs boulets (https://www.legrandsoir.info/edouard-philippe-implique-da..., http://www.lexpress.fr/actualite/politique/edouard-philip.....), et le travail de la Haute Autorité est toujours contestable, car elle n'a jamais dénoncé, par ex, les multiples casseroles de Macron (voir mon dossier http://actualiteevarsistons.eklablog.com/macron-et-bayrou...).
 

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Ainsi, tout est imposture : Gouvernement au casting fourre-tout pour berner les indécis, ministres leurres, pseudo renouveau, buts réels masqués dont le plus important est de « diviser pour régner »... Et la menace Macron est plus que jamais d'actualité (http://actualiteevarsistons.eklablog.com/la-menace-macron...).

Les Français vont-ils mordre à l'hameçon, ou enfin démasquer l'imposteur Macron ?
 
 
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“Histoire mondiale de la guerre économique” de Laïdi Ali

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“Histoire mondiale de la guerre économique” de Laïdi Ali

par Auran Derien, universitaire

Ex: http://metamag.fr 

Il y a toujours eu une dimension économique dans les conflits. Cet ouvrage s’efforce de prouver ce point et y parvient à la perfection.

Les intérêts s’affrontent, d’où l’on déduit naturellement un aspect polémologique dans les contacts économiques. L’auteur a décidé de balayer les siècles pour nous sortir de l’obscurantisme dans lequel veulent nous maintenir les professionnels de la justification mensongère : soit il n’y aurait pas de guerre économique car le commerce est pacifique (niaiserie énoncée par Montesquieu) ; soit le thème de la guerre économique servirait à détruire les classes moyennes et les conditions des travailleurs. Pourtant, la guerre pour les ressources a véritablement une longue histoire.

Dès les temps préhistoriques, le parasitisme prit son envol. Si certains groupes se comportent comme des fourmis, accumulent des provisions pour traverser la ténèbre hivernale, d’autres les attaquent pour voler les réserves ou simplement prendre leur place là où les conditions de survie paraissent plus favorables, comme par exemple près des sources.

Tant que la fonction politique s’exerce sous la forme de fédérations, d’empires instables, de tributs, les marchands prennent souvent l’initiative de démarrer des conflits. Les foires commerciales du Moyen Âge furent l’occasion de regroupements entre trafiquants afin de promouvoir la guerre militaire, le blocus contre d’autres foires ou d’autres centres de pouvoir. Ces associations de trafiquants se payent des mercenaires, développent des politiques d’influence auprès de princes auxquels elles peuvent fournir des produits car elles détiennent le monopole du commerce. Le cas de la Hanse, au XIVème siècle, illustre cet usage de la force par les marchands.

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A partir de la Renaissance, lentement, l’État prend son envol et intervient pour s’emparer des ressources découvertes dans les nouveaux continents. Depuis les pirates anglais, appuyés par la royauté, la guerre économique s’est systématisée, devenant l’utilisation de moyens illégaux et déloyaux pour protéger et conquérir des marchés. Cette utilisation de la violence en économie sert aussi la puissance publique lorsque l’Etat et les trafiquants ne font qu’un. Il est normal que les Anglo-saxons, inspirés par l’Ancien Testament où l’on proclame que les trafiquants sont des élus, se soient lancés dans toutes les crapuleries susceptibles de donner de la puissance. Le cas du thé, développé au chapitre 17 de l’ouvrage, est très significatif. Robert Fortune, biologiste, fut utilisé par la Compagnie des Indes pour remplir une mission de renseignement: aller voler le secret de fabrication du thé ainsi que des plans. Il se déguise, vole, plante en Inde les fruits de ses larcins. Et cela fonctionne. Les anglais pourront inonder le monde du thé produit en Inde.

L’auteur soutient que la guerre économique contemporaine prend son envol avec la chute du mur de Berlin (1989). Les services de renseignement quittent le secteur public, sortent du domaine politique pour se préoccuper de protéger l’information de l’entreprise. Avec l’obsession de la global-invasion, volonté de quelques gangs de s’emparer des richesses du monde, l’espionnage et la protection se privatisent. Le problème de tous les agents importants se formule de la même manière: être le leader, soit en économie, soit en technologie, en propagande ou en politique.

Ali Laïdi regrette que l’Europe soit incapable de se protéger et de s’affirmer. Sans boussole, sans volonté propre, le déclin voire la chute que tout le monde observe est inévitable. En France, depuis peu, une réflexion sur la guerre économique a lieu, mais sans être suivie d’applications. La vente de toutes choses aux mafias étrangères est la preuve d’une absence dramatique d’élites. Les petits trafiquants à la Macron sont sélectionnés par des Maîtres tout à fait visibles pour incarner la fonction la plus veule qui ait jamais existé, celle du larbin volontaire.

Pour cette première partie du XXIème siècle, l’agenda de la guerre, comme disent les Américains, est avant tout établi par la guerre économique « celle qui fait rage et qui ne dit pas son nom » selon feu Mitterrand – et plus encore la guerre monétaire, basée sur le mensonge et la dette. Aussi il paraît difficile d’accepter que les formes actuelles de la guerre économique soient une conséquence directe de la chute du mur de Berlin. La guerre monétaire a commencé en 1971, avec l’abandon de la convertibilité « or » du dollar, avec la déréglementation et les taux de changes flottants. Les USA sont devenus la patrie des faux monnayeurs. Leurs établissements financiers ont évidemment corrompu les dirigeants des pays européens afin qu’ils endettent leurs pays, donnant en gage les biens nationaux que les assassins globalitaires s’approprient ainsi gratuitement.

On ne saurait terminer ce tour d’horizon sans rappeler les falsifications des statistiques économiques, dont les intellectuels honnêtes encore en vie font grand cas pour démonter les vérités révélées des criminels en col blanc désormais à la tête de l’occident. On a eu un bel aperçu en 2008 lors de la crise des “subprimes”, puisque deux sociétés de crédit les mieux cotées du marché, Freddie Mac et Fannie Mae, ainsi que la banque Lehman Brothers trafiquaient leurs bilans. Auparavant, l’affaire Enron avait déjà amplement démontré le trucage et les évaluations de complaisance. De même, depuis 1988 a été créé le « Working Group on Financial Market » chargé d’orienter la bourse suivant les indications de la Réserve Fédérale, dont chacun sait qu’elle appartient à un consortium de banques privées. Les manipulations des cours de l’or, de l’argent et autres métaux précieux, ceux des matières premières industrielles ou agricoles, tout est frelaté à travers les produits dérivés et autres outils spéculatifs.

En novembre 2008, à l’occasion du G20, la Chine se faisant le porte-parole des pays émergents (Brésil, République sud-africaine, Inde…) a demandé qu’à la référence dollar soit désormais substituée un panier de matières premières (or, argent, pétrole, etc. ) comme étalon de la valeur. D’autres États préconisent de revenir à des systèmes mixtes associant au métal des paniers de monnaies. À défaut de guerre ouverte, la guerre des matières premières, la manipulation de leurs cours, la dictature insupportable du dollar changent peu à peu les équilibres de force. Cela n’est pas en faveur de l’Occident en crise, quels que soient ses talents en matière d’ingénierie financière car les guerres peuvent se gagner et en même temps sonner le glas final de la puissance.

La guerre économique a donc un bel avenir et l’OTAN, ce machin au service des trafiquants, aura encore de nombreuses occasions de bombarder et tuer des civils sans défense, car il convient de matraquer les faibles et d’éviter la confrontation avec les puissances montantes.

Ali Laïdi : Histoire mondiale de la guerre économique. Perrin, 1976, 576p., 26€.

samedi, 20 mai 2017

La NSA, fléau mondial

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La NSA, fléau mondial

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu 

La cyber-attaque qui a infecté cette dernière semaine 200.000 ordinateurs dans le monde entier serait due selon les experts en cyber-sécurité à un ransomware nommé Wannacrypt. Tout laisse craindre que cette attaque ne se renouvelle en s'amplifiant cette semaine.

On nomme ransomware un logiciel malveillant (malware) qui crypte les fichiers d'un ordinateur infecté, et demande une rançon en Bitcoin pour en restaurer l'accès. Nul en principe ne connait les bénéficiaires de cette rançon, puisque le bitcoin est une monnaie virtuelle dont les mouvements peuvent être cryptés. On peut penser cependant qu'avec les moyens dont ils disposent, les gouvernements pourraient identifier ces bénéficiaires, s'ils existaient vraiment. Mais existent-ils réellement ? Peut-être s'agit-il de créations virtuelles inventées par les malwares.

On pouvait s'attendre à ce que la Russie soit accusée d'être derrière cette attaque, comme elle l'a été à propos des fichiers du Democratic National Committee soutien de la candidature d'Hillary Clinton et de John Podesta, l'un de ses agents. Ces documents ont considérablement gêné la candidature de Hillary Clinton en montrant d'une part les manœuvres par lesquelles celle-ci avait déconsidéré son rival au sein du parti démocrate, Bernie Sanders, et d'autre part comment la candidate s'était mise au service de Wall Street et plus particulièrement de Goldman Sachs. On peut penser que ces révélations, diffusées par Wikileaks, avaient favorisé l'élection de Donald Trump.

Or comme Trump avait été accusé par les services de renseignement d'être une marionnette dans les mains de Vladimir Poutine, la fuite a-t-on assuré ne pouvait que provenir de Moscou. Cependant, malgré tous leurs efforts, les services américains avaient été incapables de prouver l'interférence de Moscou dans le processus électoral ayant finalement abouti à l'élection de Trump. L'un des arguments employés contre Moscou était que le piratage (hacking) était si sophistiqué qu'il ne pouvait que provenir d'un grand Etat, en l'espèce la Russie.

Aujourd'hui par contre les divers services de sécurité informatique n'ont mis que quelques heures pour penser pouvoir identifier l'auteur de l'attaque. Il s'agirait d'une organisation criminelle encore non identifiée utilisant des outils développés par la NSA, sous le nom de code Eternal Blue, afin d'attaquer les ordinateurs des Etats et organisations que la NSA a décidé d'espionner pour son propre compte. Malheureusement pour la NSA, ces outils auraient été piratés par un groupe de hackers jusqu'ici anonymes connus sous le nom de “Shadow Brokers.”

Ceux-ci seraient-ils des agents de la NSA elle-même, devenus criminels pour leur propre compte ? S'agit-il de cyber-criminels venus de l'extérieur ? Peu importe. Le point important, qui devrait être souligné avec plus de véhémence par les victimes de ces cyber-attaques, est que la NSA par sa puissance et par sa volonté d'infiltrer tous les systèmes informatiques, amis comme ennemis, se révèle être une menace contre la sécurité de l'ensemble des réseaux numériques mondiaux. Ni la Russie ni la Chine ne disposent à ce jour d'une arme de cette puissance.

Or ni le gouvernement américian, ni aucun autre gouvernement, ne se déclare désireux de mettre un terme aux activités de la NSA. Si pourtant celle-ci continue d'avoir les mains libres pour espionner le monde entier avec ses malwares, on peut être certain que la dernière cyber-attaque sera suivie par de nombreuses autres, de plus en plus graves. L'appel lancé à une plus large utilisation de logiciels de cryptage n'aura guère d'effets. Ceux-ci pourront facilement être contournés par les puissants moyens dont dispose la NSA.

Ce service deviendra-t-il le nouveau maître du monde?

Note

Sur la cyber-attaque, voir Mediapart https://blogs.mediapart.fr/ivan-kwiatkowski/blog/130517/q...

vendredi, 19 mai 2017

Emmanuel Macron et la soumission de la France aux Etats-Unis

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Emmanuel Macron et la soumission de la France aux Etats-Unis

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu 

Le nouveau gouvernement français désigné par Emmanuel Macron comporte certes des personnalités intéressantes. Mais la ligne politique de ce gouvernement et sa marge de manoeuvre dépendront du résultat des élections législatives du 18 juin
 Selon le poids et la nature de l'opposition à Macron qui en résultera, le programme de celui-ci, au plan intérieur, pourra plus ou moins bien être appliqué. De toutes façons, tout laisse penser qu'il sera plus orienté à droite qu'à gauche. La France en Marche a beau vouloir refuser le recours à ce qu'elle prétend être une terminologie dépassée, l'opinion continuera à reconnaître les différences entre la droite et la gauche. Ainsi une législation du travail faisant comme il est prévisible une large part aux exigences du MEDEF et du CAC 40, au détriment des intérêts des salariés, sera sans ambiguïté ressentie comme de droite.

Mais la question n'est pas là. La vraie question concerne le positionnement de la France au plan international. Ceci tant en ce qui concerne l'Union européenne que dans le domaine des relations avec les Etats-Unis et la Russie. En ce qui concerne l'Union, nous avons précédemment indiqué que malgré les demandes de la France, renouvelées lors de la dernière entrevue à Berlin Merkel-Macron, rien ne changera. L'Allemagne continuera à refuser toute politique visant à relancer l'économie française par des investissements industriels européens, comme à protéger l'économie, non seulement française mais européenne, par un minimum de barrières extérieures. Or comme l'Allemagne a réussi à la suite d'abandons français successifs, à mettre la politique de l'Union au service de ses intérêts à court terme, les nouveaux ministres « européens » du gouvernement Macron n'obtiendront aucune concession de sa part.

Il y a plus grave. Aucun effort ne sera fait par la France pour se dégager de la domination des intérêts de la finance américano-centrée. Ceci d'autant plus que les intérêts économiques des groupes qui ont financé la campagne de Macron et qui continueront à l'appuyer vivent essentiellement de leurs activités à Wall Street. Aucun effort ne sera fait non plus pour rapprocher la France d'un rôle qui correspondrait pourtant à sa situation géographique et à ses intérêts pour l'avenir, celui d'une puissance eurasiatique. Les candidats aux présidentielles qui proposaient un début de rapprochement avec Moscou n'ont pas été entendu. Emmanuel Macron n'a jamais proposé la moindre démarche en ce sens, le nouveau gouvernement français vu sa composition n'en fera rien non plus.

Or des évènements très importants se préparent au plan intérieur américain. Tout laisse penser qu'à Washington la campagne anti-Donald Trump prendra de plus en plus d'ampleur. Il risque d'être prochainement destitué. Les éléments les plus bellicistes du complexe militaro-diplomatique américain prendront alors le pouvoir. Si la France n'a pas su prendre ses distances vis-à-vis des Etats-Unis, elle sera entrainée, comme tous les alliés de ceux-ci, notamment au sein de l'Otan, dans des affrontements pouvant prendre une forme militaire avec la Russie et la Chine.

Mais manifestement Macron dans ce domaine n'est pas et ne sera pas De Gaulle. Se positionner d'une façon équilibrée entre l'Est et l'Ouest ne paraît pas être le moindre de ses soucis. Atlantiste il est, atlantiste il restera.

Les fruits pourris de la partitocratie allemande

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Les fruits pourris de la partitocratie allemande

par Karl Müller

Ex: http://www.zeit-fragen.ch 

A la veille des élections au Bundestag allemand de septembre 2017, la Landeszentrale für politische Bildung [«Centrale pour la formation politique»] de Bade-Wurtemberg a publié une étude de 88 pages concernant le «populisme de droite». Cette institution étatique de droit public est soumise au Landtag [Parlement] de Bade-Wurtemberg. Actuellement, cinq partis politiques sont représentés au Landtag: l’Alliance 90/Les Verts, la CDU, l’Alternative pour l’Allemagne (AfD), la SPD et la FDP. L’AfD a, lors des élections au Landtag en mars 2016, obtenu la troisième place en nombre de voix, soit 15,1% des électeurs en faveur des candidats de ce parti. La situation est similaire dans d’autres Länder du pays. Les adversaires de l’AfD sont choqués et s’efforcent de faire diminuer le nombre d’électeurs en faveur de ce parti afin de le faire disparaître de la scène politique.

Une institution étatique discrimine un parti

Avec sa nouvelle brochure, la «Centrale pour la formation politique» s’immisce activement dans la campagne électorale. Elle apparaît comme un soutien aux autres partis, car dans ce cahier, dans le chapitre consacré au «populisme de droite» se trouvent des textes dépréciatifs visant l’AfD, donc l’un des partis se présentant aux élections de septembre.
Les concurrents de l’AfD ont le droit, dans le cadre de leur liberté d’opinion, de s’exprimer sur l’AfD comme sur d’autres partis. Mais ce n’est pas le cas pour une institution étatique telle que la «Centrale pour la formation politique du Bade-Wurtemberg».
Dans son article 21, la Loi fondamentale allemande règle le rôle des partis politiques et les relations entre l’Etat et les partis. On y trouve les formulations suivantes:

«(1) Les partis concourent à la formation de la volonté politique du peuple. Leur fondation est libre. Leur organisation interne doit être conforme aux principes démocratiques. Ils doivent rendre compte publiquement de la provenance et de l’emploi de leurs ressources ainsi que de leurs biens.
(2) Les partis qui, d’après leurs buts ou d’après le comportement de leurs adhérents, tendent à porter atteinte à l’ordre constitutionnel libéral et démocratique, ou à le renverser, ou à mettre en péril l’existence de la République fédérale d’Allemagne, sont inconstitutionnels. La Cour constitutionnelle fédérale statue sur la question de l’inconstitutionnalité.
(3) Les modalités sont réglées par des lois fédérales.»

Les organes et les institutions étatiques ne peuvent intervenir dans la vie des partis que dans la mesure où ces derniers ne répondent pas aux conditions de l’alinéa 1 de l’article 21 ou si, selon l’alinéa 2, ils sont inconstitutionnels.
 Au préalable de l’éventuelle reconnaissance par la Cour constitutionnelle allemande d’une violation de la Constitution, les partis peuvent être observés par les autorités des Länder et l’Office fédéral pour la protection de la Constitution, lors d’un soupçon fondé d’inconstitutionnalité. Il est alors possible de mentionner les partis concernés dans les rapports publiquement accessibles de ces offices.

«Populisme de droite», une notion agressive …

«Populisme de droite» n’est pas une notion constitutionnelle ou d’importance juridique. C’est, tout au contraire, une notion chargée d’émotion et de ce fait plutôt diffuse utilisée dans les débats d’idées entre les partis et très souvent à caractère plutôt dépréciatif. Il vise une mise à l’écart de la société et donc à la discrimination. Il n’est pas compatible avec la participation à la vie politique et sociale sur un pied d’égalité de tous les partis et toutes les personnes.

… et le rôle ambigu de certains professeurs universitaires

Il n’est guère possible d’améliorer cette situation quand des professeurs universitaires se mêlent de cette lutte d’opinion, comme cela est le cas dans la brochure de la «Centrale pour la formation politique». Il s’agit bien plus d’une instrumentalisation alarmante des Hautes écoles afin d’enrober une certaine position d’une touche «scientifique». Pour l’instant, on ne se préoccupe guère publiquement de ce procédé. La grande majorité des membres des Hautes écoles continuent de se prévaloir d’une aura scientifique impliquant soi-disant l’objectivité et la vérité. Des études, telle celle de Tim B. Müller parue en 2010 concernant l’instrumentalisation de milliers de «scientifiques» par les services secrets américains – «Les va-t’en-guerre et les savants. Herbert Marcuse et les systèmes de pensée pendant la guerre froide» – ne sont guère publiquement discutées. On peut estimer qu’il n’en ira pas autrement en Allemagne, alors même que la Loi fondamentale élève la «liberté de la science» à un droit fondamental. C’est donc cette dépendance bien visible et cet esprit partisan de nombre de scientifiques qui répand dans la population un scepticisme concernant les performances des universités. Malheureusement, cela mène également au scepticisme envers la science elle-même.
Pour un pays comme l’Allemagne, prétendant appliquer la séparation des pouvoirs et être un Etat de droit libre et démocratique, cette prise de parti de la part des organes et des instances étatiques représente un grand danger. Par la soumission de scientifiques aux puissants partis politiques, on augmente gravement ce danger.

L’Allemagne, une partitocratie

L’Allemagne est depuis longtemps caractérisée de «partitocratie», c’est-à-dire un Etat dans lequel les partis politiques tiennent fortement en mains le pouvoir étatique. Il existe cependant diverses appréciations de ce fait. Les partis utilisent-ils ce pouvoir pour le bien commun, ou en profitent-ils pour des intérêts personnels? L’exemple de la «Centrale pour la formation politique» de Bade-Wurtemberg se prête à la deuxième version, comme bien d’autres organismes. Des esprits critiques envers la partitocratie, à l’instar de Karl Albrecht Schachtschneider et Hans Herbert von Arnim, tous deux spécialistes de droit public, mettent depuis de nombreuses années le doigt sur ce phénomène.
Il semble cependant que tous les partis ne sont pas les bienvenus dans cette partitocratie. Pour «y avoir accès» en tant que parti, il faut remplir des «conditions d’accès» se trouvant au-delà du droit et de la loi. C’est ainsi que les partis se départagent les possibilités d’influer sur le pouvoir étatique afin de discriminer un nouveau parti qui, au cours des élections des trois dernières années, a connu d’importants succès et caresse l’espoir de faire son entrée dans le Bundestag en septembre prochain.

«Course au pouvoir» et «oubli du pouvoir»

Richard von Weizsäcker, membre du CDU et ancien président fédéral du pays, avait déjà déclaré – il y a 25 ans, dans une interview accordée à l’hebdomadaire allemand Die Zeit – que l’orientation vers partitocratie était une erreur. Il estima que l’influence des partis dépassait de loin ce que la Loi fondamentale avait voulu: «Ils [les partis] s’infiltrent dans toutes les structures de notre société, y compris dans la vie des sociétés pourtant apolitiques […]. Cela s’étend, directement ou indirectement, dans les médias, dans la justice lors des élections de juges, mais également dans la vie culturelle et sportive, dans les instances cléricales et les universités.» Les organes étatiques, prévus par la Loi fondamentale, «ont passé sous la houlette d’une influence grandissante […] d’un centre ne faisant pas partie des organes constitutionnels, mais se trouvant pratiquement au dessus d’eux: les centrales des partis politiques.» Richard von Weizsäcker parlait de la «course au pouvoir» et de l’«oubli du pouvoir» des partis. Course au pouvoir, car le seul but des partis consiste à gagner les élections et à renforcer ses positions au sein du pouvoir étatique; oubli du pouvoir, car les partis ont totalement perdu de vue leur mission constitutionnelle de contribuer à la formation de la volonté politique du peuple tout en respectant la souveraineté populaire et l’ordre étatique constitutionnel.

L’injustice ne peut être combattue que par la justice

Il y a 25 ans de cela et l’état des choses n’a pas avancé. Bien au contraire. L’absence de scrupules des partis, dans leur façon de traiter le pouvoir étatique qu’ils ont usurpé, s’est accrue. Aujourd’hui, on entend dire que l’Allemagne se rapproche, ou se trouve
déjà, dans une situation remplissant les conditions mentionnées dans l’article 20 al. 4 de la Loi fondamentale. Cet article précise que «tous les Allemands ont le droit de résister à quiconque entreprendrait de renverser cet ordre, s’il n’y a pas d’autre remède possible.»
«Résistance» signifie uniquement rétablir l’ordre étatique prévu par la Loi fondamentale. Cela correspond à dire que la «résistance» ne doit pas dépasser le cadre de l’ordre constitutionnel et étatique, qu’elle est limitée par les droits fondamentaux formulés dans le cadre de la Loi fondamentale. L’injustice doit être combattue par la justice.