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samedi, 09 octobre 2010

Maurras e gli intellettuali

“Il Partito dell’Intelligenza”. Maurras e gli intellettuali

di Francesco Perfetti

Fonte: il giornale [scheda fonte]

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In occasione del conferimento della laurea honoris causa rilasciatagli dall’Università di Aix-en-Provence, il grande poeta inglese Thomas Stearns Eliot pronunciò una commossa allocuzione dedicata a Charles Maurras, il fondatore dell’Action Française, ricordando l’impressione che gli aveva fatto la lettura del saggio su L’avenir de l’Intelligence, che egli aveva intrapreso nel 1911, allorché si trovava, studente poco più che ventenne, a Parigi.

Era stato colpito dalla critica al romanticismo e dal classicismo maurrassiani e precisò che per lui, come per altri amici intellettuali, Maurras aveva finito per rappresentare «una sorta di Virgilio» che li aveva accompagnati «alle soglie del Tempio» strappandoli dalle tentazioni dell’agnosticismo. Eliot era un americano naturalizzato inglese e, proprio per questo, il suo apprezzamento per Maurras è significativo. Esso dimostra come il pensiero dello scrittore abbia avuto, anche al di fuori dei confini del suo Paese, nel mondo degli intellettuali, un grande peso. A maggior ragione, naturalmente, la sua influenza si esercitò nella sua Francia, nella Francia della Terza Repubblica. E fu un’influenza importante e assai più profonda di quanto non si pensi soprattutto nell’ambito della cultura più che in quello della politica. Un dato, questo, che è stato messo – comprensibilmente – in ombra dalle vicende politiche che hanno coinvolto Maurras e il movimento monarchico dell’Action Française fino al coinvolgimento del suo autore e dei suoi seguaci nel regime di Vichy.

Il rapporto del maurrassismo con il mondo degli intellettuali è stato analizzato nel corso di un convegno internazionale tenutosi a Parigi, al Centre d’Histoire de Science po., i cui atti sono stati oggi pubblicati col titolo Le maurrasisme et la culture (Presses Universitaires du Septentrion, pagg. 370, euro 26) a cura di Olivier Dard, Michel Leymarie e Neil McWilliam. Ne emerge un quadro mosso, articolato, pieno di sfumature che fa comprendere il fascino che, nel bene o nel male, lo scrittore francese ha esercitato sugli intellettuali del suo tempo.

All’indomani della Prima guerra mondiale, nel momento di maggior successo del movimento dell’Action Française, si parlò del “Parti de l’Intelligence”. E non a torto perché, si potrebbe dire con una battuta, è con Charles Maurras che l’intelligenza e la cultura passarono a destra. E non è un caso che Julien Benda scrivesse il suo celebre pamphlet su La trahison des clercs proprio per denunciare il fatto che molti intellettuali erano finiti, come intellettuali militanti, nelle file dell’Action Française e sulle pagine del quotidiano omonimo. Furono molto vicini a Maurras, anche se in qualche caso poi se ne allontanarono, pensatori cattolici come Jacques Maritain e Georges Bernanos, polemisti come Léon Daudet e Henri Massis, scrittori come Thierry Maulnier, storici come Jacques Bainville e Pierre Gaxotte e via discorrendo. E subirono la suggestione delle sue idee altre personalità del mondo culturale della Francia del tempo, da Paul Bourget a Drieu La Rochelle, da Henri de Montherlant ad André Malraux fino ad Henri Daniel-Rops. Persino uno scrittore come Marcel Proust, così diverso, quanto meno sul piano stilistico, dal classicismo di Maurras non fu insensibile al suo fascino: in una lunga lettera fattagli pervenire nel 1921 l’autore dellaRecherche inviava al suo corrispondente l’omaggio della propria riconoscenza e ammirazione, gli confessava di nutrire l’illusione di esistere, almeno qualche volta, nel suo ricordo e precisava di non aver mai perduto una sola occasione per poter parlare pubblicamente di lui. Che Proust dovesse essere grato a Maurras era in fondo logico, perché era stato quest’ultimo a lanciarlo nel mondo letterario francese con un lungo saggio elogiativo del primo lavoro, Les Plaisirs et les jours (1896).
Maurras, prima di dedicarsi alla politica e di assumere il ruolo di capo riconosciuto della destra francese, si era affermato come giornalista, poeta e scrittore. Dal contatto con la sua ardente e adorata terra di Provenza – dove era nato nel 1868 a Martigues – impregnata di romanità, Maurras aveva sviluppato una sensibilità per tutto ciò che si riferiva al mondo classico. Avrebbe scritto, in seguito, belle pagine sul suo rapporto con Roma: «Sono romano nella misura in cui mi sento uomo: animale che costruisce città e Stati, non un vagante roditore di radici; animale sociale e non carnivoro solitario. Sono romano per tutto ciò che vi è di positivo nel mio essere, per tutto ciò che vi aggiunsero il piacere, il lavoro, il pensiero, la memoria, la ragione, la scienza, le arti, la politica e la poesia degli uomini che vissero insieme prima di me». Poi, il viaggio in Grecia, come inviato speciale della Gazette de France per i giochi olimpici, aveva fatto il resto. E aveva segnato il suo passaggio alla politica: l’amore per la classicità si era tradotto in desiderio di ordine.
 
Da poeta e scrittore classicheggiante Maurras si era trasformato in politico, anzi in teorico della politica elaborando un sistema, quello del nazionalismo integrale, culminante nel progetto di una monarchia «tradizionale, ereditaria, antiparlamentare e decentrata» che doveva recuperare il senso della storia francese. E che, di fatto, diventò popolare soprattutto fra gli intellettuali e gli studenti universitari, anche non monarchici ma nazionalisti, al punto che il padre del sindacalismo rivoluzionario, Georges Sorel, giunse a scrivere che Maurras rappresentava per la monarchia ciò che Marx aveva rappresentato per il socialismo.
L’avventura politica di Maurras e dell’Action Française, iniziata nella spumeggiante e pittoresca fin de siècle con i cabaret, il Moulin Rouge e le dame del Chez Maxim, era proseguita nei ruggenti anni Venti e Trenta, che vedevano, dopo il conflitto mondiale, affermarsi regimi autoritari e totalitari. L’antigermanesimo, frutto del suo classicismo e del suo antiromanticismo, avrebbe spinto Maurras a guardare con simpatia al fascismo italiano, dopo la vittoria del Fronte Popolare, proprio in funzione antitedesca per fronteggiare il pericolo hitleriano in Europa. Nel 1940, durante l’occupazione tedesca, paradossalmente, l’anziano scrittore e polemista sostenne il governo di Vichy come consigliere del maresciallo Pétain che gli sembrava incarnare il simbolo dell’unità dei francesi. Una scelta, questa, che provocò una profonda frattura fra i suoi seguaci, molti dei quali (a cominciare dallo stesso Charles de Gaulle) avrebbero scelto la strada della Resistenza. Una scelta che avrebbe avuto conseguenze sulla stessa vita di Maurras, arrestato nel 1944, processato per collaborazionismo e condannato a morte con una sentenza poi trasformata in ergastolo.

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

 

mercredi, 06 octobre 2010

Guillaume Faye's Archeofuturism in English Version ! A Must !

Guillaume Faye's Archeofuturism in English Version ! A Must !
This book is the most fundamental work by Guillaume Faye. Faye believes that the future of the Right requires a transcendence of the division between those who wish for a restoration of the traditions of the past, and those who are calling for new social and technological forms - creating a synthesis which will amplify the strengths and restrain the excesses of both: Archeofuturism. Faye also provides a critique of the New Right; an analysis of the continuing damage being done by Western liberalism, political inertia, unrestrained immigration and ethnic self-hatred; and the need to abandon past positions and dare to face the realities of the present in order to realise the ideology of the future. He prophesises a series of catastrophes between 2010 and 2020, brought about by the unsustainability of the present world order, which he asserts will offer an opportunity to rebuild the West and put Archeofuturism into practice on a grand scale.

Guillaume Faye: Archeofuturism (Hardback)

Product Description

Archeofuturism, an important work in the tradition of the European New Right, is finally now available in English. Challenging many assumptions held by the Right, this book generated much debate when it was first published in French in 1998. Faye believes that the future of the Right requires a transcendence of the division between those who wish for a restoration of the traditions of the past, and those who are calling for new social and technological forms - creating a synthesis which will amplify the strengths and restrain the excesses of both: Archeofuturism.

Faye also provides a critique of the New Right; an analysis of the continuing damage being done by Western liberalism, political inertia, unrestrained immigration and ethnic self-hatred; and the need to abandon past positions and dare to face the realities of the present in order to realise the ideology of the future. He prophesises a series of catastrophes between 2010 and 2020, brought about by the unsustainability of the present world order, which he asserts will offer an opportunity to rebuild the West and put Archeofuturism into practice on a grand scale.

Archeofuturism, an important work in the tradition of the European New Right, is finally now available in English. Challenging many assumptions held by the Right, this book generated much debate when it was first published in French in 1998. Faye believes that the future of the Right requires a transcendence of the division between those who wish for a restoration of the traditions of the past, and those who are calling for new social and technological forms - creating a synthesis which will amplify the strengths and restrain the excesses of both: Archeofuturism.

Faye also provides a critique of the New Right; an analysis of the continuing damage being done by Western liberalism, political inertia, unrestrained immigration and ethnic self-hatred; and the need to abandon past positions and dare to face the realities of the present in order to realise the ideology of the future. He prophesises a series of catastrophes between 2010 and 2020, brought about by the unsustainability of the present world order, which he asserts will offer an opportunity to rebuild the West and put Archeofuturism into practice on a grand scale.

This book is a must-read for anyone concerned with the course that the Right must chart in order to deal with the increasing crises and challenges it will face in the coming decades.

Guillaume Faye was one of the principal members of the famed French New Right organisation GRECE in the 1970s and '80s. After departing in 1986 due to his disagreement with its strategy, he had a successful career on French television and radio before returning to the stage of political philosophy as a powerful alternative voice with the publication of Archeofuturism. Since then he has continued to challenge the status quo within the Right in his writings, earning him both the admiration and disdain of his colleagues.

'Archeofuturism is thus both archaic and futuristic, for it validates the primordiality of Homer's epic values in the same breath that it advances the most daring contemporary science.' --Michael O'Meara, from the Foreword

Additional Information

Author Guillaume Faye
Full Title Archeofuturism: European Visions of the Post-Catastrophic Age
Binding Hardback
Publisher Arktos Media (2010)
Pages 249
ISBN 978-1-907166-10-5
Language English
Short Description This book is the most fundamental work by Guillaume Faye. Faye believes that the future of the Right requires a transcendence of the division between those who wish for a restoration of the traditions of the past, and those who are calling for new social and technological forms - creating a synthesis which will amplify the strengths and restrain the excesses of both: Archeofuturism. Faye also provides a critique of the New Right; an analysis of the continuing damage being done by Western liberalism, political inertia, unrestrained immigration and ethnic self-hatred; and the need to abandon past positions and dare to face the realities of the present in order to realise the ideology of the future. He prophesises a series of catastrophes between 2010 and 2020, brought about by the unsustainability of the present world order, which he asserts will offer an opportunity to rebuild the West and put Archeofuturism into practice on a grand scale.
Table of Contents Foreword by Michael O'Meara
A Note from the Editor
Introduction

1. An Assessment of the Nouvelle Droite
2. A Subversive Idea: Archeofuturism as an Answer to the Catastrophe of Modernity and an Alternative to Traditionalism
3. Ideologically Dissident Statements
4. For a Two-Tier World Economy
5. The Ethnic Question and the European
6. A Day in the Life of Dimitri Leonidovich Oblomov – A Chronicle of Archeofuturist Times

lundi, 27 septembre 2010

Conservadurismo revolucionario frete a neoconservadurismo

 CONSERVADURISMO REVOLUCIONARIO FRENTE A NEOCONSERVADURISMO

ReCons versus NeoCons

SEBASTIAN J. LORENZ
fidus-schwertwache.jpgBajo la fórmula “Revolución Conservadora” acuñada por Armin Mohler (Die Konservative Revolution in Deutschlan 1918-1932) se engloban una serie de corrientes de pensamiento contemporáneas del nacionalsocialismo, independientes del mismo, pero con evidentes conexiones filosóficas e ideológicas, cuyas figuras más destacadas son Oswald Spengler, Ernst Jünger, Carl Schmitt y Moeller van den Bruck, entre otros. La “Nueva Derecha” europea ha invertido intelectualmente gran parte de sus esfuerzos en la recuperación del pensamiento de estos autores, junto a otros como Martin Heidegger, Arnold Gehlen y Konrad Lorenz (por citar algunos de ellos), a través de una curiosa fórmula retrospectiva: se vuelve a los orígenes teóricos, dando un salto en el tiempo para evitar el “interregno fascista”, y se comienza de nuevo intentando reconstruir los fundamentos ideológicos del conservadurismo revolucionario sin caer en la “tentación totalitaria” y eludiendo cualquier “desviacionismo nacionalsocialista”.
Con todo, los conceptos de “revolución conservadora” y de “nueva derecha” no son, desde luego, construcciones terminológicas muy afortunadas. Por supuesto que la “revolución conservadora”, por más que les pese a los mal llamados “neconservadores” (sean del tipo Reagan, Bush, Thatcher, Sarkozy o Aznar), no tiene nada que ver con la “reacción conservadora” (una auténtica “contrarrevolución”) que éstos pretenden liderar frente al liberalismo progre, el comunismo posmoderno y el contraculturalismo de la izquierda. Pero la debilidad de la derecha clásica estriba en su inclinación al centrismo y a la socialdemocracia (“la seducción de la izquierda”), en un frustrado intento por cerrar el paso al socialismo, simpatizando, incluso, con los únicos valores posibles de sus adversarios (igualitarismo, universalismo, falso progresismo). Un grave error para los que no han comprendido jamás que la acción política es un aspecto más de una larvada guerra ideológica entre dos concepciones del mundo completamente antagónicas.
Tampoco la “nueva derecha” representa un nuevo tipo de política conservadora frente a la ya tradicional economicista, gestionaria y demoliberal, sino que se sitúa en algún lugar “neutro” (no equidistante) entre la derecha y la izquierda (extramuros de la política), como se desprende inmediatamente de la antología de textos de Alain de Benoist publicada por Áltera (“Más allá de la derecha y de la izquierda”). Recordemos que, cuando a Drieu La Rochelle le preguntaron por su adscripción política, jugando con la posición que ocupan en los parlamentos los distintos grupos políticos a la derecha o a la izquierda del presidente de la cámara, el pensador francés se situaba, precisamente, justo por detrás de éste. Toda una declaración de principios.
El propio Alain de Benoist, en la citada antología, se pregunta cuáles son las razones del retraimiento progresivo de la interferencia entre las nociones de derecha y de izquierda, precisando que «desde luego que la derecha quiere un poco más de liberalismo y un poco menos de política social, mientras que la izquierda prefiere un poco más de política social y un poco menos de liberalismo, pero al final, entre el social-liberalismo y el liberalismo social, no podemos decir que la clase política esté verdaderamente dividida» Y citando a Grumberg: «El fuerte vínculo entre el liberalismo cultural y la orientación a la izquierda por un lado, y el liberalismo económico y la orientación a la derecha por otro, podrían llevar a preguntarnos si estos dos liberalismos no constituyen los dos polos opuestos de una única e igual dimensión, que no sería otra que la misma dimensión derecha-izquierda.»
Pero seguramente ha sido Ernst Jünger (“El Trabajador”) quien mejor ha descrito estos conceptos políticos. El conservador genuino –escribe Jünger- no quiere conservar éste o aquél orden, lo que quiere es restablecer la imagen del ser humano, que es la medida de las cosas. De esta forma, «se vuelven muy parecidos los conservadores y los revolucionarios, ya que se aproximan necesariamente al mismo fondo. De ahí que sea siempre posible demostrar la existencia de ambas cualidades en los grandes modificadores, en las que no sólo derrocan órdenes, sino que también los fundan». Jünger observaba cómo se fusionan de una manera extraña las diferencias entre la “reacción” y la “revolución”: «emergen teorías en las cuales los conceptos “conservador” y “revolucionario” quedan faltamente identificados …, ya que “derecha” e “izquierda” son conceptos que se bifurcan a partir de un eje común de simetría y tienen sentido únicamente si se los ve desde él. Tanto si cooperan como si lo hacen al mismo tiempo, la derecha y la izquierda dependen de un cuerpo cuya unidad tiene que hacerse visible cuando un movimiento pasa del marco del movimiento al marco del estado.» Sin comentarios.
Por todo ello, queremos subrayar aquí que, con la denominación de “Nueva Derecha” –aunque no nos agrade tal calificación y optemos por la de “Conservadurismo Revolucionario”--, se hace referencia a un estilo ético y estético de pensamiento político dirigido al repudio de los dogmatismos, la formulación antiigualitaria, el doble rechazo de los modelos capitalista y comunista, la defensa de los particularismos étnicos y regionales, la consideración de Europa como unidad, la lucha contra la amenaza planetaria frente a la vida, la racionalización de la técnica, la primacía de los valores espirituales sobre los materiales. El eje central de la crítica al sistema político “occidental” lo constituye la denuncia del cristianismo dogmático, el liberalismo y el marxismo, como elementos niveladores e igualadores de una civilización europea, perdida y desarraigada, que busca, sin encontrarla, la salida al laberinto de la “identidad específica”. En el núcleo de esta civilización europea destaca la existencia del “hombre europeo multidimensional”, tanto al nivel biológico, que en su concepción sociológica reafirma los valores innatos de la jerarquía y la territorialidad, como al específicamente humano, caracterizado por la cultura y la conciencia histórica. Constituye, en el fondo, una reivindicación de la “herencia” –tanto individual como comunitaria-, fenómeno conformador de la historia evolutiva del hombre y de los pueblos, que demuestra la caducidad de las ideologías de la nivelación y la actualidad de la rica diversidad de la condición humana. Un resumen incompleto y forzado por la tiranía del espacio digital, pero que sirve al objeto de efectuar comparaciones.
Entre tanto, el “Neoconservadurismo” contrarrevolucionario, partiendo del pensamiento del alemán emigrado a norteamérica Leo Strauss, no es sino una especie de “reacción” frente a la pérdida de unos valores que tienen fecha de caducidad (precisamente los suyos, propios de la burguesía angloamericana mercantilista e imperialista). Sus principios son el universalismo ideal y humanitario, el capitalismo salvaje, el tradicionalismo académico, el burocratismo totalitario y el imperialismo agresivo contra los fundamentalismos terroristas “anti-occidentales”. Para estos neconservadores, Estados Unidos aparece como la representación más perfecta de los valores de la libertad, la democracia y la felicidad fundada en el progreso material y en el regreso a la moral, siendo obligación de Europa el copiar este modelo triunfante. En definitiva, entre las ideologías popularizadas por los “neocons” (neoconservadores en la expresión vulgata de Irving Kristol) y los “recons” (revolucionarios-conservadores, de mi cosecha) existe un abismo insalvable. El tiempo dirá, como esperaban Jünger y Heidegger, cuál de las dos triunfa en el ámbito europeo de las ideas políticas. Entre tanto, seguiremos hablando de esta original “batalla de las ideologías” en futuras intervenciones.
[Publicado por "ElManifiesto.com" el  20/08/2010]

jeudi, 23 septembre 2010

Scruton over de Natiestaat, Nation-Building en Wagner

Scruton over de Natiestaat, Nation-Building en Wagner

roger-scruton.jpgOp vrijdag 23 juni jl. gaf de conservatieve filosoof Roger Scruton een lezing over de crisis die het multiculturele dogma in onze samenleving heeft veroorzaakt. Net voor de lezing had ik een kort gesprek met Scruton over de natiestaat, nation-building in Irak en de opvoering van Wagners Ring-cyclus door de Vlaamse opera.

U noemt de natiestaat de grootste Europese verwezenlijking. De Europese Unie heeft dat erfgoed weggegooid. Waarom gelooft u niet dat economische samenwerking conflicten tussen Europese naties zal voorkomen?

Economische samenwerking heeft nooit conflicten voorkomen in het verleden, nietwaar? Natuurlijk is economische samenwerking een goede zaak op zich, maar conflicten hebben hun oorsprong in allerlei rivaliteiten die niets met economie hebben te zien: immigratie en emigratie, bedreigde grenzen, taalverschillen, religieuze verschillen, enz. Het volstaat niet om te zeggen dat we mensen gaan aanmoedigen om handel te drijven met elkaar. Samenwerking tussen a en b is enkel mogelijk indien a zich onderscheidt van b. Indien het onderscheid van de natiestaat verloren gaat, verlies je ook ondernemingen.

Uw verdediging van de natiestaat wordt bekritiseerd door diegenen die menen dat de geschiedenis van de Europese natiestaat samenvalt met de donkerste periode van de Westerse beschaving: kolonialisme, imperialisme, fascisme en nationaal-socialisme. Wat zegt u daarop?

Eerst en vooral, wat is er verkeerd met kolonialisme en imperialisme? Wat is de Europese Unie, als het geen imperialisme is? Empire is een natuurlijk iets voor mensen en het is een manier om conflicten te overwinnen. Over fascisme zou ik zeggen dat het uiteraard gaat om een verminkte vorm van de natiestaat. De natiestaat bestaat in Engeland op zijn minst sinds Shakespeare’s verheerlijking ervan. En de donkerste periode in de Europese geschiedenis werd veroorzaakt door een pathologische vorm van Duits nationalisme, niet door de natiestaat.

Menig islamitisch immigrant kent geen territoriale loyaliteit welke een voorwaarde is voor burgerschap in de natiestaat. Wat te doen met diegenen die niet willen assimileren?

Het correcte beleid tegenover diegenen die niet willen assimileren is hen de optie te geven om elders te gaan waar ze dat wel kunnen, zoals bijvoorbeeld, waar ze vandaan komen.

Er wordt nu veel gepraat over een Amerikaans imperium. Hoe kijkt u daar tegen aan?

Het gaat niet om imperialisme van de oude stempel. Natuurlijk gebruiken de Amerikanen hun macht om – in hun overtuiging – overal ter wereld democratische regeringen te stichten omdat zij denken dat democratie de enige weg naar stabiliteit is. Welke andere vorm van stabiliteit is er in deze moderne wereld? Ik zeg niet dat de Amerikanen het recht hebben om hun macht op deze wijze te gebruiken. Niettemin, dat is hoe ze het doen. Het is niet hetzelfde als imperialisme. Integendeel, het is een poging om onafhankelijke staten te creëren door dictators te verwijderen.

Irak is met zijn met artificiële grenzen een product van het kolonialisme. Zijn de Amerikanen niet gedoemd om te falen in hun nation-building aldaar?

Ik hoop het niet maar het is wel waarschijnlijk voor de redenen waarnaar je verwijst. Irak is een volkomen artificiële staat net zoals België. In een regio die de natiestaat niet heeft gekend is het zeer onwaarschijnlijk om te slagen. Mijn eigen mening is dat de correcte benadering tegenover Irak is om het op te splitsen in een Koerdisch, Sjiitisch en Soennitisch gedeelte.

U bent Wagner-kenner. De Vlaamse Opera gaat Wagners ‘Der Ring des Nibelungen’ (de Ring-cyclus) opvoeren. Momenteel wordt Das Rheingold vertoond. De regisseur heeft echter de context van de Germaanse mythologie overboord gegooid en plaats de opera in een geglobaliseerde internetgemeenschap. Wat denkt u van zo’n interpretatie?

De gewoonte om de opera’s van Wagner te verminken is nu zodanig diep in onze cultuur verankerd dat men niet kan hopen dat ze vertoond zullen worden zoals hij het bedoeld heeft. Indien men de Ring-cyclus ontdoet van de openbaring van de natuur, de jager-verzamelaar gemeenschap, de akkerbouw en de rol van de goden daarin, dan neem je de structuur van het muziekdrama weg. De Ring-cyclus heeft vele betekenissen maar het heeft deze omdat het ook een letterlijke betekenis heeft. Als je de letterlijke betekenis vernietigt, vernietig je ook al de andere.

De regisseur [Ivo Van Hove] zal zich waarschijnlijk verdedigen door te stellen dat hij Wagner vertaalt naar de moderne wereld van vandaag.

De Ring-cyclus is een schitterend portret van de moderne wereld, net omdat het gesitueerd is in mythische tijden. Door deze mythische tijden te creëren maakt Wagner het mogelijk om onze eigen toestand te zien. Als je het vastpint op het huidige moment van de internetcultuur, dan verlies je die mythische tijd en verlies je die eerste moderne betekenis zodat het morgen al verouderd zal zijn.

 
 
Scruton in het Nederlands:

Roger Scruton heeft een uitzonderlijk hoogstaand oeuvre van meer dan 30 boeken geschreven waarbij hij diepgang combineert met breedte: of hij nu schrijft over de dreiging van de islam, over Westerse filosofie, over het conservatisme, over esthetica, over moderne cultuur en zelfs over seksuele begeerte, het is steeds met een professionalisme dat de specialist versteld doet staan.

De betekenis van het conservatisme (Edmund Burke Lezing I, Aspekt, 2001)

Voor de Edmund Burke Stichting sprak Scruton over zijn eigen conservatieve overtuiging en zijn ervaring met mei ’68. Een ideale inleiding met bibliografie.

Het Westen en de islam – Over globalisering en terrorisme (Houtekiet, 2003)

De botsing met de islam dwingt ons, aldus Scruton, om grondig na te denken over de fundamenten van onze politieke ordening.

Moderne cultuur – Een gids voor kritische mensen (Agora, 2003)

Tegenover de richtingloze moderne cultuur plaatst Scruton het spirituele houvast dat onze traditie biedt en houdt hij een warm pleidooi voor ‘hoge cultuur’.

Andere: Filosofisch denken – Een handleiding voor nieuwsgierige mensen (Bijleveld, 2000). In de reeks ‘Kopstukken Filosofie’ verschenen tevens vertalingen van zijn werken over Spinoza en Kant (Lemniscaat, 2000).

 
Meer informatie op Scrutons website.

 

vendredi, 27 août 2010

Right-Wing Anarchism

Right-Wing Anarchism

Ex: http://www.counter-currents.com/

d-Louis-Ferdinand-Celine.jpgThe concept of right-wing anarchism seems paradoxical, indeed oxymoronic, starting from the assumption that all “right-wing” political viewpoints include a particularly high evaluation of the principle of order. . . . In fact right-wing anarchism occurs only in exceptional circumstances, when the hitherto veiled affinity between anarchism and conservatism may become apparent.

Ernst Jünger has characterised this peculiar connection in his book Der Weltstaat (1960): “The anarchist in his purest form is he, whose memory goes back the farthest: to pre-historical, even pre-mythical times; and who believes, that man at that time fulfilled his true purpose . . . In this sense the anarchist is the Ur-conservative, who traces the health and the disease of society back to the root.” Jünger later called this kind of “Prussian” . . . or “conservative anarchist” the “Anarch,” and referred his own “désinvolture” as agreeing therewith: an extreme aloofness, which nourishes itself and risks itself in the borderline situations, but only stands in an observational relationship to the world, as all instances of true order are dissolving and an “organic construction” is not yet, or no longer, possible.

Even though Jünger himself was immediately influenced by the reading of Max Stirner, the affinity of such a thought-complex to dandyism is particularly clear. In the dandy, the culture of decadence at the end of the 19th century brought forth a character, which on the one hand was nihilistic and ennuyé, on the other hand offered the cult of the heroic and vitalism as an alternative to progressive ideals.

The refusal of current ethical hierarchies, the readiness to be “unfit, in the deepest sense of the word, to live” (Flaubert), reveal the dandy’s common points of reference with anarchism; his studied emotional coldness, his pride, and his appreciation of fine tailoring and manners, as well as the claim to constitute “a new kind of aristocracy” (Charles Baudelaire), represent the proximity of the dandy to the political right. To this add the tendency of politically inclined dandies to declare a partiality to the Conservative Revolution or to its forerunners, as for instance Maurice Barrès in France, Gabriele d’Annunzio in Italy, Stefan George or Arthur Moeller van den Bruck in Germany. The Japanese author Yukio Mishima belongs to the later followers of this tendency.

Besides this tradition of right-wing anarchism, there has existed another, older and largely independent tendency, connected with specifically French circumstances. Here, at the end of the 18th century, in the later stages of the ancien régime, formed an anarchisme de droite, whose protagonists claimed for themselves a position “beyond good and evil,” a will to live “like the gods,” and who recognized no moral values beyond personal honor and courage. The world-view of these libertines was intimately connected with an aggressive atheism and a pessimistic philosophy of history. Men like Brantôme, Montluc, Béroalde de Verville, and Vauquelin de La Fresnaye held absolutism to be a commodity that regrettably opposed the principles of the old feudal system, and that only served the people’s desire for welfare. Attitudes, which in the 19th century were again to be found with Arthur de Gobineau and Léon Bloy, and also in the 20th century with Georges Bernanos, Henry de Montherlant, and Louis-Ferdinand Céline. This position also appeared in a specifically “traditionalist” version with Julius Evola, whose thinking revolved around the “absolute individual.”

In whichever form right-wing anarchism appears, it is always driven by a feeling of decadence, by a distaste for the age of masses and for intellectual conformism. The relation to the political is not uniform; however, not rarely does the aloofness revolve into activism. Any further unity is negated already by the highly desired individualism of right-wing anarchists. Nota bene, the term is sometimes adopted by men–for instance George Orwell (Tory anarchist) or Philippe Ariès–who do not exhibit relevant signs of a right-wing anarchist ideology; while others, who objectively exhibit these criteria–for instance Nicolás Gómez Dávila or Günter Maschke–do not make use of the concept.

Bibliography

Gruenter, Rainer. “Formen des Dandysmus: Eine problemgeschichtliche Studie über Ernst Jünger.” Euphorion 46 (1952) 3, pp. 170-201.
Kaltenbrunner, Gerd-Klaus, ed. Antichristliche Konservative: Religionskritik von rechts. Freiburg: Herder, 1982.
Kunnas, Tarmo. “Literatur und Faschismus.” Criticón 3 (1972) 14, pp. 269-74.
Mann, Otto. “Dandysmus als konservative Lebensform.” In Gerd-Klaus Kaltenbrunner, ed., Konservatismus international, Stuttgart, 1973, pp. 156-70.
Mohler, Armin. “Autorenporträt in memoriam: Henry de Montherlant und Lucien Rebatet.” Criticón 3 (1972) 14, pp. 240-42.
Richard, François. L’anarchisme de droite dans la littérature contemporaine. Paris: PUF, 1988.
______. Les anarchistes de droite. Paris: Presses universitaires de France, 1997.
Schwarz, Hans Peter. Der konservative Anarchist: Politik und Zeitkritik Ernst Jüngers. Freiburg im Breisgan, 1962.
Sydow, Eckart von. Die Kultur der Dekadenz. Dresden, 1921.

Karlheinz Weißman, “Anarchismus von rechts,” Lexikon des Konservatismus, ed. Caspar von Schrenck-Notzing (Graz and Stuttgart: Leopold Stocker Verlag, 1996). Translator anonymous. From Attack the System, June 6, 2010, http://attackthesystem.com/2010/06/right-wing-anarchism/

jeudi, 26 août 2010

Günter Maschke : Le déclin de la pensée conservatrice et la renaissance de la nation

Archives de Synergies Européennes - 1987

Le déclin de la pensée conservatrice et la renaissance de la nation

 

par Günter MASCHKE

 

allemagne4.jpgToute mouvance politico-idéologique est la ré­sultante d'une situation politique donnée. Elle articule les aspirations d'une classe sociale iden­tifiable et développe ses concepts en opposition à l'univers mental d'un ennemi concret. La base sociale d'une mouvance politico-idéologique en est à la fois le récipient et le moule : si la forme meurt, ou si le contenant se brise, l'esprit peut-­être survivra mais il ne fera que virevolter sur les décombres d'un passé dont il se réclamera d'abord sur un ton tragique, puis sur le mode nostalgique, enfin de façon grotesque.

 

L'esprit alors sombre dans l'arbitraire, il devient la proie d'aspirations naguère encore étrangères, qui se servent de lui comme d'un paravent idéo­logique lorsqu'elles vont pêcher des âmes aux lisières de leur terrain de chasse. L'esprit devient une arme au service de forces nouvelles, tantôt celles-ci, tantôt celles-là, avec d'autant plus de facilité que sa forme même se défait, que ses contours deviennent flous, incertains. Il se transforme alors en auxiliaire utile de décisions qui lui sont étrangères, et lorsque ces dernières, s'étant servi de lui, parviennent à leurs fins, il lui arrive de croire que leur victoire est la sienne.

 

Le conservatisme allemand : un cadavre mercenaire

 

C'est précisément le destin de la pensée conser­vatrice en Allemagne que d'avoir fait un bout de chemin avec des orientations étrangères, voire adverses. Plus encore que les idéologies concurrentes, dont la base sociale s'est effritée plus lentement et plus tardivement (1), elle a succombé à l'érosion intellectuelle et au plon­geon dans le n'importe-quoi. En Allemagne, le conservatisme est mort en 1870-1871 (2), avec le déclin de l'aristocratie foncière, au plus tard lors de la fondation de l'empire bismarckien, mais les conservateurs, eux, ont survécu. Ils sont devenus les objets, souvent actifs certes, des processus politiques et de l'évolution de la société. Plus l'acte de décès du conservatisme était ancien, plus l'idéologie conservatrice deve­nait fortuite, improvisée et lacunaire, et plus s'imposait à l'esprit la question de savoir ce qui pouvait bien encore être «conservateur».

 

Déjà, sous la République de Weimar, les ré­ponses abondaient. Dans celle de Bonn, tout dé­bat sur le conservatisme s'ouvre encore par des tentatives de définition qui s'organisent chaque année, selon un rituel immuable, autour de son­dages pour des revues, de symposiums, d'anthologies, etc... ; la plupart du temps avec les mêmes orateurs qui ne font que répéter avec componction ce qu'ils disaient déjà trois, cinq ou dix ans auparavant.

 

Trois grandes étapes politiques jalonnent le dé­clin de la pensée conservatrice : la fondation du Reich allemand, la phase finale de la République de Weimar et la création de la République fédé­rale. À chaque fois, le conservatisme fut partie prenante et agissante : sous Bismarck comme force, avant et sous Hitler comme facteur, avec Adenauer comme climat intellectuel. En s'alliant au courant politique incarné tout à tour par ces dirigeants, le conservatisme essaya toujours de sauver la mise à court terme. Comment d'ailleurs eût-il pu faire autrement : ses principes s'étaient évaporés et n'étaient plus applicables au réel. À chaque fois, bien qu'avec toujours moins de conviction, il crut pouvoir décider du cours des événements, du moins en partie, et fut réguliè­rement victime délit force à laquelle il croyait s'unir alors qu'il se livrait à elle pieds et poings liés. Après chaque liaison, d'abord heureuse, puis malchanceuse, il retomba affaibli et dés­emparé, essayant en vain de faire un minimum de clarté sur ses propres structures et sur sa substance. C'est invariablement à lui que furent imputés les errements, réels ou supposés, d'un partenaire bien plus puissant qui l'avait entraîné dans sa course.

 

Le Reich bismarcko-wilhelminien, coupable – dit-on – de la Première Guerre mondiale, aurait été, selon la lecture contemporaine, un système « conservateur ». Le Reich hitlérien, dont le ca­ractère criminel et la fin sanglante étaient, dit-on encore, prévisibles dès le début, n'aurait été que l'exacerbation d'un conservatisme militant puisque, pour l'idéologie dominante, le « fascisme » est contenu en puissance dans l'idéologie conservatrice. Même le parti et le gouvernement du pauvre Helmut Kohl se voient aujourd'hui appelés par leurs adversaires poli­tiques, de façon volontairement diffamatoire mais qui fait mouche, les « conservateurs ». Comme souffre-douleur, le conservatisme a pour lui l'éternité. Mais cela ne prouve en rien son existence.

 

Le conservatisme à la remorque du libéralisme, de Weimar et du nazisme

 

L'alliance avec Bismarck, ci-devant conservateur ultra, amena le gros des conservateurs à accepter le césarisme, lequel paie toujours tribut à la dé­mocratie et à la souveraineté populaire (3), à hausser les épaules quand une couronne légitime (celle du Hanovre) fut mise à la trappe, à s'accommoder du socialisme d'État avec tous ses effets centralisateurs et bureaucratiques et à célébrer les fastes du nationalisme et de l'étatisme. En acceptant comme « moindre mal » la Révolution d'en haut contre la Révolution d'en bas (qui menaçait déjà), le conservatisme a perdu dès cette époque sa liberté d'action et sa capacité à mettre en œuvre une stratégie propre. C'est un pragmatisme instruit par sa propre mi­sère qui l’a poussé à la « trahison ». Avec la se­conde phase de l'Empire, c'est-à-dire le wilhelminisme, dont la façade militaro-junké­rienne arrive encore aujourd'hui à berner de nombreux observateurs, le conservatisme se mit à la remorque du libéralisme. C'est justement parce qu'il arborait un profil politique bas que le libéralisme put réaliser en Allemagne son pro­gramme avec toute la frénésie qui le caractérise : expansion économique, impérialisme, construc­tion d'une flotte de guerre. La politique d'encerclement de l'Allemagne fut la réponse de l'étranger à son ascension trop tardive, laquelle, à l'instar de celle, plus précoce, de l'Angleterre et de la France, ne fut guère qu'un déchaînement d'énergies libérales. Quant à l'« étatisme » de fa­çade de l'Allemagne, il était là pour donner bonne conscience aux réactions émotionnelles de l'étranger.

 

Après 1918, le conservatisme perdit assez rapi­dement ses illusions monarchistes et s'essaya à la critique du wilhelminisme, y compris à sa substance libérale. Confronté à la faiblesse de la démocratie et du libéralisme, il comprit que cette faiblesse était complice de l'oppression et de l'exploitation de la nation allemande par les puissances victorieuses. Ces dernières, grâce au diktat de Versailles et à la SDN de Genève, pratiquaient elles aussi le libéralisme et la démo­cratie, mais, à l'égard de l'Allemagne, dans un sens « machtpolitisch ». Du coup, il devenait im­possible de lutter contre Genève et contre Ver­sailles avec des méthodes libérales. Or, l'antilibéralisme de la Révolution conservatrice, désormais forcée de saper le statu quo, n'était pas logique avec lui-même : cet antilibéralisme-là a toujours été dirigé contre la structure politique interne de la République, jamais contre le libéra­lisme économique en tant que tel. Non seulement celui-ci devait être maintenu, mais il fallait en­core le renforcer : le grand capitaine d'industrie fut célébré au nom du darwinisme social. Hugo Stinnes devenait le Messie. Mieux : ce libéralisme autoritaire s'alliait, de façon plus ou moins dif­fuse, avec les idéologies corporatistes du « Ständestaat » (4). Il s'agissait, selon la formule de Moeller van den Bruck, de « créer des choses qui vaillent la peine d'être conservées » : Dinge schaffen, deren Erhaltung sich lohnt.Cette for­mule, qui renferme, paraît-il, la substantifique moelle de la Révolution conservatrice, pouvait être approuvée par n'importe quelle formation politique ! C'était une formule creuse, dépourvue de force mobilisatrice.

 

Les masses, puisqu'elles existaient, ne pou­vaient être mises en mouvement par une idée qui n'était qu'un mélange d'éléments obscurs em­pruntés à un passé romantisé et à une actualité grisâtre. Et le bavardage sur « la prise en compte du concret » dont les conservateurs avaient, pa­raît-il, l'apanage sur les autres, n'y changeait rien. Pour une révolution, de deux choses l'une : soit elle a des idées politiques simples (en parti­culier quant à l'ordre qu'elle veut instaurer) qui s'imposent d'elles-mêmes (les contradictions et la complexité du réel, cela se règle après la vic­toire). Soit elle arbore une idée floue, élastique, interprétable à volonté et s'adressant à une masse suffisamment nombreuse. L'idéal est la combi­naison des deux : illusion de la clarté et illusion de la défense des intérêts de chacun, lesquels se rejoignent harmonieusement dans la commu­nauté du peuple. Or, sur ces deux points, la Ré­volution conservatrice fut déficitaire. Elle se condamna donc à « suivre » passivement une révolution plus puissante qu'elle, mieux : une ré­volution réelle dont elle pensait naïvement qu'elle se laisserait contrôler et manipuler.

Après le nazisme, un conservatisme culpabilisé

 

Inutile d'expliquer ici que le national-socialisme fut une force anti-conservatrice, une force fondamentalement révolutionnaire, du « jacobi­nisme brun », si l'on veut, du « Rousseau appliqué », selon l'expression de Hans Freyer. Les conservateurs ont attendu jusqu'au lende­main du 20 juillet 1944 pour s'en apercevoir. Beaucoup même attendirent l'après-guerre ! Ils en conçurent un tel sentiment de culpabilité qu'ils mobilisèrent tout leur sens des antiquités historiques pour sortir du placard le conserva­tisme de papa, celui du XIXème siècle. Se mé­prenant totalement sur le caractère nécessaire, inéluctable, de ce qui leur arrivait, ils passèrent leur temps à commémorer le conservatisme ba­varois, prussien, autrichien, hanovrien, catho­lique, etc..., y trouvant d'ailleurs matière à po­lémiques internes : à qui incombait la faute, quand et comment tous leurs malheurs avaient commencé... Bref, un combat d'ombres chi­noises en petit comité. Les yeux fixés sur le na­tional-socialisme avec d'autant plus d'horreur qu'on leur reprochait leur collaboration (réelle), ils reconnurent en lui l'Ennemi, celui que déjà leurs ancêtres combattaient : l'État-Moloch, la Grande Machine, la Bête des Profondeurs, « un certain degré de misère avec promotions et uni­formes su roulement des tambours » (Burck­hardt), avec « le final en point d'orgue : le despotisme sur ses ruines » (Niebuhr).

 

Tout cela était certes fort plausible, mais les conservateurs n'en revenaient, tout compte fait, qu'aux idylles de leurs grands-pères : eux aussi n'avaient embrassé ces marottes que lorsqu'ils furent défaits. Idylles sur lesquelles venait d'ailleurs se greffer la « théorie du déclin » : de l'absolutisme à Hitler, ce n'était qu'une marche ininterrompue vers le malheur, dont l'aboutissement nécessaire est le communisme, déjà installé sur les bords de l'Elbe. On ne tarda pas, cependant, à s'apercevoir que la situation était à ce point désespérée qu'on ne pouvait faire retour ni au conservatisme du XIXème siècle (la séparation fut d'ailleurs pénible) ni à la Révolu­tion conservatrice, d'autant plus qu'entre-temps, celle-ci était devenue la nouvelle bête noire des conservateurs.

 

Le « réalisme » et Adenauer

 

On décida donc d'être « réaliste », ce qui, en l'occurrence, signifia choisir le moindre mal, c'est-à- dire Adenauer. Le communisme, que l'on combattait encore dans les années 50 avec tout le pathos d'une théologie politique vieille de plus d'un siècle, était désormais l'ennemi. Mieux : il était l'ennemi incarné, idéal au contraire de l'autre ennemi, défunt celui-là : le national-socialisme. S'appuyant sur Adenauer, les conservateurs purent ainsi caresser subrepti­cement leurs tendances anti-nationales et anti­-étatiques. Hitler n'avait-il pas été un représentant de l'idée nationale et étatique ? Les conservateurs ne virent pas qu'Hitler était tout autre chose qu'un nationaliste : c'était un impérialiste de la race pour qui le peuple allemand était de la ma­tière première et qui ne se soucia guère de son sort en 1945. En même temps, il avait été le fos­soyeur le plus sûr de l'idée d'État. Car de deux choses l'une : ou il existe une relation entre la protection et l'obéissance, ou il n'y a pas d'État. Prisonniers de leurs réactions émotionnelles, ja­mais totalement surmontées et désormais réacti­vées, les conservateurs se rallièrent à la thèse des rééducateurs : Hitler, c'était « l'État » et la « nation ». Du coup, tous les appels à une inter­vention ordonnatrice de l'État, à une politique efficace, à une administration sachant s'imposer, le cas échéant, de façon autoritaire, furent dé­noncés comme dangereux, fascistoïdes, totali­taires, etc... Dans ce concert, ce sont les conser­vateurs qui braillaient le plus fort, oubliant par là même de balayer devant leur porte.

 

Du libéralisme à la «permissive society »

 

Il reste que dans les années 1945-1949, il était difficile de prévoir les conséquences d'un libéralisme hostile à l'idée de nation, fait d'impuissance et de soumission empressée, qui n'était pas sans rappeler celui de la République de Weimar. Ces conséquences étaient bien en­tendu programmées avec Adenauer, cet ancien ennemi juré du Reich. Les impératifs de la re­construction, l'immense réservoir de discipline de l'Allemagne et le « principe de l'expérience » (Prinzip Erfahrung),cher à Schelsky, camouflèrent, quelque temps encore, la décom­position de la nation et de l'État. En outre, jusqu'aux années 60, les patriarches avaient les rênes du pouvoir bien en mains : Adenauer, Heuss, Schumacher, Kaisen, Ernst Reuter, etc... Nul ne s'avisa alors que ces politiciens étaient ceux de la phase déclinante de Weimar, des hommes prédestinés à inaugurer la grande restauration libérale, elle qui ne reconnaît aucune frontière dictée par l'État et par l'esprit national. C'est elle qui a préparé l'intégration de la ma­jeure partie de l'Allemagne à l'Occident et le remplacement de « Vaterland »(patrie) par « Abendland »(Occident), lequel dégénéra rapi­dement en « permissive society ».

 

On ouvrit toutes grandes les portes à un libéra­lisme économique échevelé, indifférent aux bar­rières nationales ou étatiques. Le tout avec la bé­nédiction plus ou moins avouée des conserva­teurs qui récolteront dans les années 60, avec ahurissement, ce qu'ils avaient contribué à se­mer. Bien entendu, ils étaient – et sont res­tés – parfaitement inconscients de leur part de responsabilité. Ils s'empressèrent de s'allier avec ceux qn'Armin Mohler appelle les « Kerenskis de la Révolution culturelle », de Topitsch à Lübbe. Leur seule devise était : « on ne va pas plus loin ! ». Ils voulaient bâtir sur les sables mou­vants de l'ordre existant les bunkers à partir desquels s'élancerait la contre-offensive. Ils s'imaginaient naïvement trouver un point d'appui quelconque dans cette réalité. Autrement dit, c'est dans l'économie de marché forcenée d'une masse à qui l'on avait extirpé la conscience nationale et inculqué le primat du « social », que devaient refleurir discipline, droi­ture, volonté de défense, éthique familiale, in­sensibilité aux sirènes de la décadence, re­foulement de l'égoïsme de masse, résistance aux facilités des ersatz d'existence. Or, quiconque plaide pour l'économie libérale de marché et le système des besoins à satisfaire sans songer à réguler ces forces, par définition expansives, au moyen d'une « idée incontestable », c'est-à-dire un principe supérieur, se condamne à des com­bats d'arrière-garde sans issue.

 

L'idéologie conservatrice du « moindre mal » a engendré le déclin actuel

 

En fin de compte, il s'imagine être « conser­vateur » et « national » alors qu'il  ne fait que renforcer la soumission aux États-Unis – et se retrouve du même coup intellectuellement en deçà du mouvement pacifiste. Car celui-ci, au moins, sait fort bien que la République fédérale est un pays occupé, qu'elle souffre d'un déficit de souveraineté aux effets potentiellement mor­tels, et que les États-Unis sont nos ennemis. Même si le mouvement pacifiste en arrive à des conclusions absurdes, il reste idéologiquement, pour ce qui concerne le diagnostic du mal, fort en avance sur les conservateurs.

 

Tout ce qui offusque les conservateurs n'est pas exclusivement certes, mais dans une large me­sure tout de même, le résultat de la dénationali­sation, de l'illusion européenne, de la foi dans le primat de l'économie et du bien-être, de l'abandon naïf à une Loi fondamentale qui n'est qu'un « cadeau » des vainqueurs et un esclavage accepté avec zèle par les vaincus. Ce n'est pas ici le lieu de critiquer la partitocratie et le parlemen­tarisme. Il reste qu'il n'y a pas de massification et de « déclin culturel » sans destruction de l'identité nationale. Il n'y a pas de disparition de l'éthique sociale sans dénigrement ni démantè­lement de l'État, lequel, finalement, ne peut fonctionner que dans une nation qui se veut elle-­même. Il n'y a pas de sous-culture de masse américaine sans destruction de la tradition, à la­quelle coopèrent avec zèle l'État en place et ses fonctionnaires puisque c'est la condition même de leur carrière et la garantie de leur pouvoir. Dans ce système de faiblesse confortable – je dirais presque : jouissive – aucune ligne de dé­fense n'existe plus. En effet, le «moindre mal» a toujours suffisamment mauvaise conscience pour capituler bientôt sous la pression du plus grand mal, alors même que celui-ci a été identi­fié.

 

Avec la CDU, plus rien à défendre ! Avec une optique national-révolutionnaire, un avenir à construire !

 

L'itinéraire de la CDU, qui incarne toujours, aux yeux de nombreux conservateurs, le « moindre mal », illustre parfaitement cette loi d'airain de la planche savonneuse : « on ne connaît que trop, écrit Ernst Jünger, le visage de la démocratie sur le tard, celle où la trahison et l'impuissance ont lissé leurs stigmates, où tous les ferments de dé­composition, tous les éléments morts, allogènes et ennemis ont magnifiquement prospéré ; assurer à tout prix la pérennité du système, voilà leur objectif secret » (5). Situation où il n'y a plus rien à défendre, à tenir, à conserver...

 

Si les conservateurs veulent encore sauver quelque chose de ce qui leur est cher, il ne leur reste qu'à renouveler le programme de la Révo­lution conservatrice en le précisant, en le concrétisant et en le radicalisant. Tout est dans le comparatif : pour transposer dans le concret le pays qu'ils recherchent dans leur âme meurtrie, ils devront, s'ils veulent le contempler, se muer en nationaux-révolutionnaires. Bien sûr, Bonn n'est pas Weimar, mais rien n'empêche de considérer ce nouveau Versailles et ce nouveau Genève (« l'Occident », « l'Europe », la « réédu­cation ») pour ce qu'ils sont : Bonn, c'est un Weimar à la puissance dix, un super-Versailles ! Or, la reconquête de la nation, seule possibilité de sauver ce qui reste du conservatisme, se heurte, outre aux blocages que nous connais­sons, au simple fait qu'avant 1933, cette re­conquête était relativement facile parce que les couches supérieures de la société d'alors étaient exploitées par leurs « sœurs de classe» des pays victorieux tandis qu'aujourd'hui, devenues par­tie prenante du système, elles sont elles aussi à la mangeoire. C'est la raison pour laquelle le combat doit s'amorcer « à la base » et non « par le haut ». L'anticapitalisme doit être authentique et non, comme avant 1933, mi-embarrassé mi-dé­magogique.

 

Il n'y a plus de nationalisme anti­communiste qui soit possible !

 

L'entreprise, cependant, apparaît insurmontable parce qu'en Allemagne, la nation est venue « d'en haut » et « de droite », espaces où, depuis l'équipée hitlérienne, d'ailleurs souvent mal in­terprétée, aucune mobilisation n'est plus pos­sible. Autre chose : il est de plus en plus question de « tentatives » de fonder un parti national. Mais ces projets commettent l'erreur de donner la priorité au combat anticommuniste, ce qui, tout compte fait, n'est qu'un retour à Adenauer et au premier Strauss. Or, ce genre de nationalisme ne mène strictement à rien : la clé de la réunification allemande se trouve au Kremlin, pas dans les orangeries californiennes ! La volonté et la force d'aller l'y chercher sont l'affaire des Allemands et pour cela, ces derniers doivent être prêts à passer des arrangements avec le super-grand de l'Est. Bien sûr, cette volonté, qui doit toujours rester attentive aux périls, n'est pas une panacée, mais sans elle, rien ne peut se faire.

 

L'actualité nous force à ajouter que toute exi­gence de réunification qui n'inclurait pas un tel arrangement et n'approuverait pas explicitement la neutralité d'une Allemagne restaurée dans son intégralité territoriale, sera bien évidemment re­jetée par les Russes. On l’a vu au printemps et à l'été 1987. Mais si l'on exige qu'il soit mis fin à la « division de l'Europe » (comme si l'Europe était une unité au même titre que l'ancienne Al­lemagne), moyennant la réunification allemande sous un chapiteau « européen », cette exigence, vue de Moscou, ne pourra être interprétée que comme une déclaration de guerre implicite, même si ce genre de fantasmes tient plutôt du discours d'arrière-salle de café. Ce genre de « propositions » sur la réunification allemande est anti-nationale, étant donné sa vision du passé de l'Allemagne.

 

La gauche a servi les intérêts américains !

 

La gauche, en fait, n'a toujours pas compris qu'elle s'est laissée utiliser comme appendice de la rééducation et donc comme servante des inté­rêts américains. Son pseudo-anti-américanisme consiste en réalité à reprocher aux vainqueurs de ne pas vivre leurs propres impératifs catégo­riques. Knut Nevermann et Hans-Jürgen Krahl sont tout aussi victimes de la « pédagogie so­ciale » que Volker Rühe ou Gerold Tandler. L'hypertrophie moralisatrice d'un côté, le nou­veau culte du « juste milieu » de l'autre, se com­plètent finalement, leur affrontement n'étant en fin de compte que le débat entre deux méthodes différentes de se mettre à plat ventre.

 

Pourtant, la tâche est aussi démesurée que la dé­faite est totale, comme est totale l'inconscience quant à la situation de l'Allemagne sous ce su­per-Versailles. Le premier pas doit être une rup­ture mentale, voire psychique et affective avec l'entreprise « République fédérale » ; le second un effort de réflexion sérieuse. Les craintes, les pa­linodies et les scrupules des conservateurs, ce prosaïsme terre-à-terre soit-disant « réaliste » sont parfaitement stériles. Comme toujours, les grandes choses ne viennent que du foisonnement de la vie qui, elle, n'a jamais réellement fécondé la pensée conservatrice et qui, aujourd'hui, se consume dans la mesquinerie de la gestion au quotidien. « Je crois et je soutiens, écrivait Clau­sewitz, qu'un peuple n'a rien de plus haut à res­pecter que la dignité et la liberté de son exis­tence..., que la souillure d'une lâche soumission est indélébile... et je tiens la fausse intelligence avec laquelle les petits esprits veulent échapper au danger pour la chose la plus funeste que puissent inspirer la crainte et la peur » (6).

 

L'acte de naissance d'une nation est souvent la guerre civile. Il y a fort à parier que l'acte de sa reconquête ne soit pas autre chose puisque le pire ennemi de la nation est une partie de celle-ci. Ce n'est pas là du romantisme de western, c'est une déduction plausible après reconnaissance du terrain de la crise. Inter faeces et urinam nasci­mur !Pendant plus d'un siècle, les conserva­teurs ont montré des dons pour la méta­morphose. Ils ont toujours été les dindons de la farce, qu'ils fussent aveugles, mal-voyants ou bien lucides. Pourquoi ne réussiraient-ils pas à se sacrifier en s'abolissant enfin comme conser­vateurs afin de ressusciter comme nationaux-ré­volutionnaires ? Après tout, ce sont eux, sans doute, qui perçoivent le mieux la dépravation de la société contemporaine, qui ont à son égard les réactions émotionnelles les plus fortes. Pour la première fois, une chance réelle s'offre à eux : être à l'avant-garde !

 

Günter MASCHKE.

(Traduction française de Jean-Louis Pesteil. Texte paru dans l'anthologie intitulée Der Pfahl I, publiée par les éditions Matthes & Sein de Munich en 1987. Adresse : Matthes & Seitz, Mauerkirchestrasse 10, Postfach 86 05 28, D-8000 Mûnchen 86. Cette anthologie, dora un second volume est paru en 1988, est une véritable mine d anti-conformisme. Sa lecture et sa méditation sont obligatoires pour qui veut échapper aux pesanteurs morales, étriquées, rationalistes, philistines).

Notes :

 

(1) II n'y a pas de socialisme sans un prolétariat qui a une conscience de classe ; il n'y a pas de croyance au progrès sans petite-bourgeoisie en progrès ; il n'y a pas de libéra­lisme sans une bourgeoisie active ; il n'y a pas de conservatisme sans une aristocratie détentrice des terres. Certes, l'histoire est bien plus complexe que ne l'affirment ces lieux communs du marxisme vulgaire. Mais ceux qui les écartent en viennent finalement à produire des idées bi­zarres : ils imaginent que ces idéologies de base peuvent être élargies à plaisir sans qu'elles ne perdent ni cohérence ni consistance. Pour comprendre comment s'est opérée la dissolution de la pensée conservatrice, dissolution qui est le résultat de la dissolution de sa classe porteuse, lire : Panajotis Kondylis, Konservativismus : Geschichtlicher Kampf und Untergang, Stuttgart, 1986.

(2) Les conservateurs de la vieille garde, en Prusse, étaient pleinement conscients de cet état de fait mais ils n'en voulaient pas moins demeurer crispés sur leurs posi­tions perdues. Lire : Hans Joachim Schoeps, Das andere Preussen : Konservative Gestalten und Probleme im Zeitalter Freidrich Wilhelms IV, Honnef/Rhein, 1957.

(3) C'est aussi la principale réticence des frères von Ger­lach à l'égard de Bismarck. De l'autre côté de la barrière, dans le monde de la gauche, la révérence du césarisme adressée à la démocratie est notée avec un sobre sentiment de triomphe. Voir: P.J. Proudhon, La Révolution sociale démontrée par le Coup d'État du 2 décembre, Bruxelles, 1852.

(4) À ce propos, il convient de se référer à une étude très sérieuse et pleine de sarcasmes, due à la plume du natio­nal-socialiste Justus Beyer : Die Ständeideologien der Systemzeit und ihre Überwindung, Darmstadt, 1942.

(5) Ernst Jünger, Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt, Hamburg,1932, S. 236.

(6) Carl v. Clausewitz, Bekenntnisdenkschrift (Februar 1812) ; je cite d'après une édition contemporaine, intitulée Schriften, Aufsätze, Briefe, Bd. 1,Hrsg. Hahlweg, Göttingen, 1966, pp. 688 et suivantes.

mercredi, 25 août 2010

Spengler: Criticism & Tribute

Spengler: Criticism & Tribute

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Editor’s Note:

Oswald Spengler’s Man and Technics and Revilo Oliver’s America’s Decline: The Education of a Conservative and The Origins of Christianity are available for purchase on this website.

RPO_63smism.jpgConceived before the First World War is Oswald Spengler’s magisterial work, Der Untergang des Abendlandes (Munich, 1918). Read in this country chiefly in the brilliantly faithful translation by Charles Francis Atkinson, The Decline of the West (New York, two volumes, 1926-28), Spengler’s morphology of history was the great intellectual achievement of our century. Whatever our opinion of his methods or conclusions, we cannot deny that he was the Copernicus of historionomy. All subsequent writings on the philosophy of history may fairly be described as criticism of the Decline of the West.

Spengler, having formulated a universal history, undertook an analysis of the forces operating in the immediately contemporary world. This he set forth in a masterly work, Die Jahre der Entscheidung, of which only the first volume could be published in Germany (Munich, 1933) and translated into English (The Hour of Decision, New York, 1934). One had only to read this brilliant work, with its lucid analysis of forces that even acute observers did not perceive until 25 or 30 years later, and with its prevision that subsequent events have now shown to have been absolutely correct, to recognize that its author was one of the great political and philosophical minds of the West. One should remember, however, that the amazing accuracy of his analysis of the contemporary situation does not necessarily prove the validity of his historical morphology.

The publication of Spengler’s first volume in 1918 released a spate of controversy that continues to the present day. Manfred Schroeter in Der Streit um Spengler (Munich, 1922) was able to give a précis of the critiques that had appeared in a little more than three years; today, a mere bibliography, if reasonably complete, would take years to compile and would probably run to eight hundred or a thousand printed pages.

Spengler naturally stirred up swarms of nit-wits, who were particularly incensed by his immoral and preposterous suggestion that there could be another war in Europe, when everybody knew that there just couldn’t be anything but World Peace after 1918, ’cause Santa had just brought a nice, new, shiny “League of Nations.” Such “liberal” chatterboxes are always making a noise, but no one with the slightest knowledge of human history pays any attention to them, except as symptoms.

Unfortunately, much more intelligent criticism of Spengler was motivated by emotional dissatisfaction with his conclusions. In an article in Antiquity for 1927, the learned R. G. Collingwood of Oxford went so far as to claim that Spengler’s two volumes had not given him “a single genuinely new idea,” and that he had “long ago carried out for himself” — and, of course, rejected — even Spengler’s detailed analyses of individual cultures. As a cursory glance at Spengler’s work will suffice to show, that assertion is less plausible than a claim to know everything contained in the Twelfth Edition of the Encyclopaedia Britannica. Collingwood, the author of the Speculum Mentis and other philosophical works, must have been bedeviled with emotional resentments so strong that he could not see how conceited, arrogant, and improbable his vaunt would seem to most readers.

It is now a truism that Spengler’s “pessimism” and “fatalism” was an unbearable shock to minds nurtured in the nineteenth-century illusion that everything would get better and better forever and ever. Spengler’s cyclic interpretation of history stated that a civilization was an organism having a definite and fixed life-span and moving from infancy to senescence and death by an internal necessity comparable to the biological necessity that decrees the development of the human organism from infantile imbecility to senile decrepitude. Napoleon, for example, was the counterpart of Alexander in the ancient world.

We were now, therefore, in a phase of civilizational life in which constitutional forms are supplanted by the prestige of individuals. By 2000, we shall be “contemporary” with the Rome of Sulla, the Egypt of the Eighteenth Dynasty, and China at the time when the “Contending States” were welded into an empire. That means that we face an age of world wars and what is worse, civil wars and proscriptions, and that around 2060 the West (if not destroyed by its alien enemies) will be united under the personal rule of a Caesar or Augustus. That is not a pleasant prospect.

Oswald Spengler, 1880 - 1936

The only question before us, however, is whether Spengler is correct in his analysis. Rational men will regard as irrelevant the fact that his conclusions are not charming. If a physician informs you that you have symptoms of arteriosclerosis, he may or may not be right in his diagnosis, but it is absolutely certain that you cannot rejuvenate yourself by slapping his face.

Every detached observer of our times, I think, will agree that Spengler’s “pessimism” aroused emotions that precluded rational consideration. I am inclined to believe that the moral level of his thinking was a greater obstacle. His “fatalism” was not the comforting kind that permits men to throw up their hands and eschew responsibilities. Consider, for example, the concluding lines of his Man and Technics (New York, 1932):

Already the danger is so great, for every individual, every class, every people, that to cherish any illusion whatever is deplorable. Time does not suffer itself to be halted; there is no question of prudent retreat or wise renunciation. Only dreamers believe that there is a way out. Optimism is cowardice.

We are born into this time and must bravely follow the path to the destined end. There is no other way. Our duty is to hold on to the lost position, without hope, without rescue, like that Roman soldier whose bones were found in front of a door in Pompeii, who, during the eruption of Vesuvius, died at his post because they forgot to relieve him. That is greatness. That is what it means to be a thoroughbred. The honorable end is the one thing that can not be taken from a man.

Now, whether or not the stern prognostication that lies back of that conclusion is correct, no man fit to live in the present can read those lines without feeling his heart lifted by the great ethos of a noble culture — the spiritual strength of the West that can know tragedy and be unafraid. And simultaneously, that pronouncement will affright to hysteria the epicene homunculi among us, the puling cowards who hope only to scuttle about safely in the darkness and to batten on the decay of a culture infinitely beyond their comprehension.

That contrast is in itself a very significant datum for an estimate of the present condition of our civilization …

Three Points of Criticism

Criticism of Spengler, therefore, if it is not to seem mere quibbling about details, must deal with major premises. Now, so far as I can see, Spengler’s thesis can be challenged at three really fundamental points, namely: (1) Spengler regards each civilization as a closed and isolated entity animated by a dominant idea, or Weltanschauung, that is its “soul.” Why should ideas, or concepts, the impalpable creations of the human mind, undergo an organic evolution as though they were living protoplasm, which, as a material substance, is understandably subject to chemical change and hence biological laws? This logical objection is not conclusive: Men may observe the tides, for example, and even predict them, without being able to explain what causes them. But when we must deduce historical laws from the four of five civilizations of which we have some fairly accurate knowledge, we do not have enough repetitions of a phenomenon to calculate its periodicity with assurance, if we do not know why it happens.

(2) A far graver difficulty arises from the historical fact that we have already mentioned. For five centuries, at least, the men of the West regarded modern civilization as a revival or prolongation of Graeco-Roman antiquity. Spengler, as the very basis of his hypothesis, regards the Classical world as a civilization distinct from, and alien to, our own — a civilization that, like the Egyptian, lived, died, and is now gone. It was dominated by an entirely different Weltanschauung, and consequently the educated men of Europe and America, who for five centuries believed in continuity, were merely suffering from an illusion or hallucination.

Even if we grant that, however, we are still confronted by a unique historical phenomenon. The Egyptian, Babylonian, Chinese, Hindu, and Arabian (“Magian”), civilizations are all regarded by Spengler (and other proponents of an organic structure of culture) as single and unrelated organisms: Each came into being without deriving its concepts from another civilization (or, alternatively, seeing its own concepts in the records of an earlier civilization), and each died leaving no offspring (or, alternatively, no subsequent civilization thought to see in them its own concepts). There is simply no parallel or precedent for the relationship (real or imaginary) which links Graeco-Roman culture to our own.

Since Spengler wrote, a great historical discovery has further complicated the question. We now know that the Mycenaean peoples were Greeks, and it is virtually certain that the essentials of their culture survived the disintegration caused by the Dorian invasion, and were the basis of later Greek culture. (For a good summary, see Leonard R. Palmer, Mycenaeans and Minoans, London, 1961). We therefore have a sequence that is, so far as we know, unique:

Mycenaean>Dark Ages>Graeco-Roman>Dark Ages>Modern.

If this is one civilization, it has had a creative life-span far longer than that of any other that has thus far appeared in the world. If it is more than one, the interrelations form an exception to Spengler’s general law, and suggest the possibility that a civilization, if it dies by some kind of quasi-biological process, may in some cases have a quasi-biological power of reproduction.

oswald_spengler_4.jpgThe exception becomes even more remarkable if we, unlike Spengler, regard as fundamentally important the concept of self-government, which may have been present even in Mycenaean times (see L. R. Palmer, Mycenaeans and Minoans, cited above, p. 97). Democracies and constitutional republics are found only in the Graeco-Roman world and our own; such institutions seem to have been incomprehensible to other cultures.

(3) For all practical purposes, Spengler ignores hereditary and racial differences. He even uses the word “race” to represent a qualitative difference between members of what we should call the same race, and he denies that that difference is to any significant extent caused by heredity. He regards biological races as plastic and mutable, even in their physical characteristics, under the influence of geographical factors (including the soil, which is said to affect the physical organism through food) and of what Spengler terms “a mysterious cosmic force” that has nothing to do with biology. The only real unity is cultural, that is, the fundamental ideas and beliefs shared by the peoples who form a civilization. Thus Spengler, who makes those ideas subject to quasi-biological growth and decay, oddly rejects as insignificant the findings of biological science concerning living organisms.

It is true, of course, that man is in part a spiritual being. Of that, persons who have a religious faith need no assurance. Others, unless they are determined blindly to deny the evidence before us, must admit the existence of phenomena of the kind described by Franz E. Winkler, M.D., in Man: The Bridge Between Two Worlds (New York, Harper, 1960), and, of course, by many other writers. And every historian knows that no one of the higher cultures could conceivably have come into being, if human beings are merely animals.

But it is also true that the science of genetics, founded by Father Mendel only a century ago and almost totally neglected down to the early years of the Twentieth Century, has ascertained biological laws that can be denied only by denying the reality of the physical world. Every educated person knows that the color of a man’s eyes, the shape of the lobes of his ears, and every one of his other physiological characteristics is determined by hereditary factors. It is virtually certain that intellectual capacity is likewise produced by inheritance, and there is a fair amount of evidence that indicated that even moral capacities are likewise innate.

Man’s power of intervention in the development of inherited qualities appears to be entirely negative, thus affording another melancholy proof that human ingenuity can easily destroy what it can never create. Any fool with a knife can in three minutes make the most beautiful woman forever hideous, and one of our “mental health experts,” even without using a knife, can as quickly and permanently destroy the finest intellect. And it appears that less drastic interventions, through education and other control of environment, may temporarily or even permanently pervert and deform, but are powerless to create capacities that an individual did not inherit from near or more remote ancestors.

The facts are beyond question, although the Secret Police in Soviet Russia and “liberal” spitting-squads in the United States have largely succeeded in keeping these facts from the general public in the areas they control. But no amount of terrorism can alter the laws of nature. For a readable exposition of genetics, see Garrett Hardin’s Nature and Man’s Fate (New York, Rinehart, 1959), which is subject only to the reservation that the laws of genetics, like the laws of chemistry, are verified by observation every day, whereas the doctrine of biological evolution is necessarily an hypothesis that cannot be verified by experiment.

The Race Factor

It is also beyond question that the races of mankind differ greatly in physical appearance, in susceptibility to specific diseases, and in average intellectual capacity. There are indications that they differ also in nervous organization, and possibly, in moral instincts. It would be a miracle if that were not so, for, as is well known, the three primary races were distinct and separate at the time that intelligent men first appeared on this planet, and have so remained ever since. The differences are so pronounced and stable that the proponents of biological evolution are finding it more and more necessary to postulate that the differences go back to species that preceded the appearance of the homo sapiens. (See the new and revised edition of Dr. Carleton S. Coon’s The Story of Man, New York, Knopf, 1962.)

That such differences exist is doubtless deplorable. It is certainly deplorable that all men must die, and there are persons who think it deplorable that there are differences, both anatomical and spiritual, between men and women. However, no amount of concerted lying by “liberals,” and no amount of decreeing by the Warren [Supreme Court] Gang, will in the least change the laws of nature.

Now there is a great deal that we do not know about genetics, both individual and racial, and these uncertainties permit widely differing estimates of the relative importance of biologically determined factors and cultural concepts in the development of a civilization. Our only point here is that it is highly improbable that biological factors have no influence at all on the origin and course of civilizations. And to the extent that they do have an influence, Spengler’s theory is defective and probably misleading.

Profound Insights

One could add a few minor points to the three objections stated above, but these will suffice to show that the Spenglerian historionomy cannot be accepted as a certainty. It is, however, a great philosophical formulation that poses questions of the utmost importance and deepens our perception of historical causality. No student of history needed Spengler to tell him that a decline of religious faith necessarily weakens the moral bonds that make civilized society possible. But Spengler’s showing that such a decline seems to have occurred at a definite point in the development of a number of fundamentally different civilizations with, of course, radically different religions provides us with data that we must take into account when we try to ascertain the true causes of the decline. And his further observation that the decline was eventually followed by a sweeping revival of religious belief is equally significant.

However wrong he may have been about some things, Spengler has given us profound insights into the nature of our own culture. But for him, we might have gone on believing that our great technology was merely a matter of economics — of trying to make more things more cheaply. But he has shown us, I think, that our technology has a deeper significance — that for us, the men of Western civilization, it answers a certain spiritual need inherent in us, and that we derive from its triumphs as satisfaction analogous to that which is derived from great music or great art.

And Spengler, above all, has forced us to inquire into the nature of civilization and to ask ourselves by what means — if any — we can repair and preserve the long and narrow dikes that alone protect us from the vast and turbulent ocean of eternal barbarism. For that, we must always honor him.

Journal of Historical Review, vol. 17, no. 2 (March-April 1998), 10-13.

 

dimanche, 22 août 2010

UN ouvrage fondamental sur la "révolution conservatrice"

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

Un ouvrage fondamental sur la révolution conservatrice

 

Richard FABER (Hrsg.), Konservatismus in Geschichte und Gegenwart, Königs­hau­sen & Neu­mann, Würzburg, 1991, ISBN 3-88479-592-9.

 

Deux contributions de cet ouvrage collectif intéressent directement notre propos: 1) Ri­chard FABER, «Differenzierungen im Be­griff Konservatismus. Ein religionssoziolo­gi­scher Versuch» et 2) Arno KLÖNNE, «"Rechts oder Links?". Zur Geschichte der Nationalrevolutionäre und Na­tionalbolsche­wisten». Richard Faber, dont nous connais­sons déjà la concision, résume en treize points les positions fondamentales du "con­servatisme" (entendu dans le sens alle­mand et non pas britannique):

◊1) le principe de "mortui plurimi", le culte des morts et des anciens, garant d'un ave­nir dans la conti­nui­té, de la durée.

 

◊2) Ce culte de la durée im­plique la no­stal­gie d'un ordre social stable, comme celui d'a­vant la révolution, la réfor­me et la re­nais­san­ce (Hugo von Hofmanns­thal).

 

◊3) Dans l'actualité, cette nostalgie doit con­duire l'homme politique à défendre un or­dre économique "sain", respectant la plu­ralité des forces sociales; à ce niveau, une con­tra­diction existe dans le conservatisme con­temporain, où Carl Schmitt, par exem­ple, dé­nonce ce néo-médiévisme social, com­me un "romantisme politique" inopé­rant, au nom d'un étatisme efficace, plus dur encore que le stato corporativo italien.

 

◊4) L'ordre social et politique dérive d'une re­­pré­sentation de l'empire (chinois, babylo­nien, perse, assyrien ou romain) comme un analogon du cosmos, comme un reflet mi­cro­cosmique du macrocosme. Le christia­nis­­me médiéval a retenu l'essentiel de ce cosmisme païen (urbs deis hominibusque com­munis). La querelle dans le camp con­ser­vateur, pour Faber, oppose ceux qui veu­­­lent un retour sans médiation aux sour­ces originales païen­­nes et ceux qui se con­tentent d'une ré­­pétition de la synthèse mé­dié­vale christia­ni­sée.

 

◊5) Les conservateurs perçoivent le fer­ment chrétien comme subversif: ils veu­lent une re­ligion qui ne soit pas opposée au fonction­nement du politique; à partir de là, se déve­loppe un anti-christia­nisme conservateur et néo-païen, ou on impose, à la suite de Jo­seph de Maistre, l'ex­pé­diant d'une infailli­bi­li­té pontificale pour bar­rer la route à l'impo­li­tis­me évangélique.

 

◊6) Les positivistes comtiens, puis les maur­ras­siens, partageant ce raisonnement, déjà présent chez Hegel, parient pour un catho­li­cis­me athée voire pour une théocratie a­thée.

 

◊7) Un certain post-fascisme (défini par Rü­diger Altmann), observable dans toutes les traditions politiques d'après 1945, vise l'in­té­gration de toutes les composantes de la so­ciété pour les soumettre à l'économie. Ainsi, le pluralisme, pourtant affiché en théo­rie, cè­­de le pas devant l'intégra­tion/ho­mo­loga­tion (option du conservatisme technocrate).

 

◊8) Dans ce contexte, se dé­ve­lop­pe un ca­tholicisme conservateur, hostile à l'auto­no­mie de l'économie et de la so­cié­té, les­quel­les doivent se soumettre à une "syn­thèse", celle de l'"organisme social" (suite p. 67).

 

◊9) Le contraire de cette synthèse est le néo-li­béralisme, expression d'un polythéis­me po­liti­que, d'après Faber. Les principaux re­pré­sentants de ce poly­théis­me libéral sont O­do Marquard et Hans Blumenberg.

 

◊10) Dans le cadre de la dialectique des Lu­mières, Locke estimait que l'individu devait se soumettre à la société civile et non plus à l'autorité po­litique absolue (Hobbes); l'exi­gence de soumission se mue en césarisme chez Schmitt. Dans les trois cas, il y a exi­gence de soumission, comme il y a exi­gen­ce de sou­mission à la sphère économique (Alt­mann). Le conservatisme peut s'en ré­jouir ou s'en insurger, selon les cas.

 

◊11) Pour Fa­ber, comme pour Walter Ben­jamin avant lui, le conservatisme représente une "tra­hi­son des clercs" (ou des intellec­tuels), où ceux-ci tentent de sortir du cul-de-sac des discussions sans fin pour débou­cher sur des décisions claires; la pensée de l'ur­gence est donc une caractéristique ma­jeu­re de la pensée conservatrice.

 

◊12) Faber cri­ti­que, à la suite d'Adorno, de Marcuse et de Ben­jamin, le "caractère affir­ma­teur de la cul­ture", propre du con­ser­va­tisme. Il re­mar­que que Maurras et Maulnier s'engagent dans le combat politique pour pré­server la culture, écornée et galvaudée par les idéo­logies de masse. Waldemar Gu­rian, disciple de Schmitt et historien de l'Ac­tion Fran­çai­se, constate que les sociétés ne peuvent sur­vivre si la Bildung disparaît, ce mé­lange de raffinement et d'éducation, pro­pre de l'é­li­te intellectuelle et créatrice d'une na­tion ou d'une civilisation.

 

◊13) Dans son dernier point, Faber revient sur la cosmologie du conservatisme. Celle-ci implique un temps cyclique, en appa­ren­ce différent du temps chrétien, mais un au­teur comme Erich Voe­gelin accepte explici­te­ment la "plus ancien­ne sagesse de l'hom­me", qui se soumet au rythme du devenir et de la finitude. Pour Voe­gelin, comme pour cer­tains conserva­teurs païens, c'est la pen­sée gnostique, an­cêtre directe de la moder­nité délétère, qui re­jette et nie "le destin cy­clique de toutes choses sous le soleil". La gnose christia­ni­sée ou non du Bas-Empire, cesse de per­ce­voir le monde comme un cos­mos bien or­don­né, où l'homme hellé­ni­que se sentait chez lui. Le gnostique de l'an­tiquité tardive, puis l'homme moderne qui veut tout mo­di­fier et tout dépasser, ne par­vient plus à re­gar­der le monde avec émerveillement. Le chré­tien catholique Voe­gelin, qui aime la cré­a­tion et en admire l'or­dre, rejoint ainsi le païen catholique Maur­ras. Albrecht Erich Günther, figure de la ré­vo­lution conserva­trice, définit le conserva­tis­me non comme une propension à tenir à ce qui nous vient d'hier, mais propose de vi­vre comme on a toujours vécu: quod sem­per, quod ubique, quod omnibus.      

 

Dans sa contribution, Arno Klönne évoque la démarche anti-système de personnalités comme Otto Strasser, Hans Ebeling, Ernst Niekisch, Beppo Römer, Karl O. Paetel, etc., et résume clairement cette démarche en­tre tous les fronts dominants de la pen­sée politique allemande des années 20 et 30.  Le refus de se laisser embrigader est une leçon de liberté, que semble reprendre la "Neue Rechte" allemande actuelle, sur­tout par les textes de Marcus Bauer, philo­so­phe et théologien de formation. Un ex­cel­lent résumé pour l'étudiant qui sou­hai­te s'i­ni­tier à cette matière hautement com­ple­xe (RS).

 

vendredi, 20 août 2010

La croisade de Thomas Molnar contre le monde moderne

La croisade de Thomas Molnar contre le monde moderne

par Arnaud FERRAND-LÉGER

Ex: http://www.europemaxima.com/

molnar.jpgDans le monde clos des intellectuels catholiques, Thomas Molnar reste un penseur à part. Philosophe, universitaire, écrivain et journaliste, l’ancien exilé hongrois réfugié aux États-Unis est rentré dans sa patrie dès la chute du communisme. Depuis il enseigne la philosophie religieuse à l’Université de Budapest. Mieux, avec la victoire des jeunes-démocrates de Viktor Orban, le professeur Molnar fut le conseiller culturel du jeune Premier ministre magyar avant de retourner dans l’opposition.

 

En France, les interventions de Thomas Molnar se font maintenant rares dans la presse, y compris parmi les journaux catholiques et nationaux. Il publia longtemps dans le bimensuel Monde et Vie d’où, d’une plume acérée, il diagnostique d’un œil sévère et avisé le délabrement du monde postmoderniste. En revanche, il continue la publication de ses ouvrages. Le dernier, Moi, Symmaque et L’Âme et la Machine, composé de deux essais, porte encore un regard inquiet sur le devenir de la société industrielle occidentale. Rarement, un livre aura justement traduit la crise mentale profonde dans laquelle sont plongés les catholiques de tradition. Il faut croire que l’accélération du monde soit brusque pour que le catholique Molnar se mette à la place du sénateur romain Symmaque, dernier chef du parti païen au IVe siècle. Symmaque fut le dernier à essayer de restaurer les cultes anciens…

 

 

Tel un nouveau Symmaque, Thomas Molnar charge, sabre au clair !, contre le relativisme moral, le multiculturalisme, l’inculture d’État, la perte des valeurs traditionnelles, l’arnaque artistique… Il n’hésite pas à affronter les grandes impostures contemporaines ! Mais le docteur Molnar ouvre un corps social entièrement métastasé.

 

 

Découvrir Thomas Molnar

 

 

Cette nouvelle dénonciation – efficace – permettra-t-elle à son œuvre prodigieuse de sortir enfin du silence artificiel dans lequel la pensée dominante l’a plongée ? Jean Renaud le croit puisqu’il relève le défi. A travers cinq entretiens, précédées d’une étude fine et brillante de l’homme et de ses livres, Jean Renaud se propose de faire découvrir cet étonnant universitaire hongrois. Même si son ouvrage se destine en priorité au public francophone d’Amérique du Nord (Pour les « Américains nés dans un monde unilatéral, programmé, horizontal, indifférencié ! Un de [leurs] ultimes recours, ce sont ces quelques Européens qui, de par le monde, persistent »), le lectorat de l’Ancien Monde peut enfin connaître la pensée originale de cet authentique réactionnaire, entendu ici dans son acception bernanosienne.

 

 

Non sans une pointe d’humour, Jean Renaud présente le professeur Molnar comme « toujours prêt à attaquer et à tenir, même pour soutenir des causes impopulaires, cet ennemi de l’Europe politique, cet exilé en terre d’Amérique mérite néanmoins parfaitement le titre d’Européen. Non seulement possède-t-il les principales langues du vieux continent, il est d’abord et surtout resté fidèle à un héritage, multiple, ondoyant, traversé de lignes harmoniques, de fragiles équilibres. Cet héritage européen n’est point porté par lui comme une cape décorative ornée de nostalgies : il est vivant et doit être protégé par le verbe et par la pensée ». Ce combat qui fait frémir toute la grande conscience humaniste n’est pas « sans taches, puisque [son promoteur] est blanc, mâle et hétérosexuel, ni impertinence, car il n’en manifeste aucune honte ». D’ailleurs, insatisfait d’exposer ses opinions incongrues, il osa s’exprimer dans la presse nationale-catholique et participa à plusieurs colloques du G.R.E.C.E.; c’est dire la dangerosité du personnage !

 

 

Bien sûr, Thomas Molnar n’adhère pas à la Nouvelle Droite. Il en diverge profondément sur des points essentiels. Ce catholique de tradition reste un fervent défenseur du principe national. Il « préfère ce nationalisme que l’on dit “ étroit ” et “ identitaire ” au mondialisme homogénéisé, uniforme, forcément totalitaire. Bref [il ne veut] pas que les “ valeurs ” américaines, après celles de Moscou, soient imposées à l’humanité. […] Les petits peuples, ajoute-t-il, à l’égal des puissants, sont indissolublement attachés à leur identité nationale : langue, littérature, souvenirs historiques incrustés dans les monuments, les chansons, les proverbes et les symboles. Voilà les seuls outils propres à résister aux conquêtes et aux occupations. Pour la même raison, il est impossible d’organiser des alliances ou des fédérations de petites nations : les haines et les méfiances historiques les empêchent de se fédérer. C’est un malheur, mais que voulez-vous ? »

 

 

Contempteur des fausses évidences

 

 

Auteur d’une remarquable contribution à l’histoire de la Contre-Révolution, sa vision de la droite est impitoyable de lucidité. Après avoir montré que « le libéralisme […] est antinational par essence, morceau difficile à avaler pour ces hommes de droite qui se veulent des conservateurs à l’américaine, tels Giscard, Barre et Balladur. […] Il est significatif, continue-t-il, de constater que l’histoire de la droite est jalonnée de grandes illusions et, partant, de grandes déceptions. […] La droite n’a pas de politique, elle a une “ culture ”. La politique ne se trouve qu’à gauche depuis 1945; la droite ne fait que “ réagir ” de temps en temps avec un Pinochet au Chili, un Antall en Hongrie. C’est de courte durée. […] La droite n’a pas le choix : autoexilée de la politique, elle déplore cet exil qui promet d’être permanent, elle ferme les yeux et préfère s’illusionner ».

 

 

Persuadé de l’importance du combat métapolitique et de son enjeu culturel, Thomas Molnar note, avec une précision de chirurgien, que « l’opinion de droite, et la droite catholique en fait partie intégrante, ne s’intéresse guère aux arguments, aux raisonnements, au jeu subtil de la culture. Elle se sent, depuis 1789, lésée dans ses droits, dans sa vérité, et cherche à regagner ses positions d’antan. Elle se laisse enfermer dans un ghetto, pleine de ressentiment, et fait tout pour limiter sa propre influence, son propre poids, afin de pouvoir dire par la suite qu’elle est victime de l’histoire et de ses influences sataniques ». Ce réac suggère des orientations nouvelles qui détonnent dans un milieu sclérosé. Il propose par conséquent une rénovation radicale du discours banalement conservateur.

 

 

La partie la plus intéressante des entretiens concerne toutefois la Modernité, ses conséquences et son avenir. Respectueux d’« un réel multiforme jamais possédé, dans son intégralité, par la raison humaine », Thomas Molnar observe que « le ciel de la modernité est fermé; les certitudes d’antan ont mauvaise presse. Mettons-nous dans la peau de l’homme moderne : ses deux poteaux indicateurs sont l’utopie et la technologie, le miracle politique et le miracle matériel, idéaux éphémères qui s’écroulent à chaque instant. Fini le rêve marxiste, vive le libéralisme ! Plus de voyage dans la lune, vive l’intervention biotechnique ! Le cosmos, jadis peuplé de dieux, ressemble aujourd’hui à quelques gros cailloux qui tourne et éclatent, naissent et s’éteignent ». Voilà le triste bilan de « la philosophie moderne [… qui] est le refus des essences et l’accueil de l’existence brute, du devenir […] plutôt que de l’être. […] La perte de l’essence entraîne celle des structures, puis celle des significations. on peut dire n’importe quoi, à l’instar de la peinture moderne. Nous habitons le paradis des tartuffes et des charlatans, paradis où fleurit la dégringolade du sens ».

 

 

La crise de la Modernité

 

 

Or la désespérance nihiliste est superfétatoire. Pis elle est inutile, car si l’« on se sert, aujourd’hui, de ce mot “ désenchantement ” pour décrire la perte du sacré; n’oublions pas qu’il peut y avoir, dans un avenir proche ou lointain, une perte du profane, plus exactement une perte du noyau de notre civilisation technicienne et mécanicienne ». Il envisage alors tranquillement « l’effondrement graduel (toujours la fatigue des civilisations) de la mentalité technicienne, voire scientifique, par le reflux de la civilisation occidentale, qui a atteint, avec la domination américaine sur la planète, une espèce de nec plus ultra ». Certes, «l’idéologie industrielle, profondément subversive, la publicité, l’étalage du privé sur la place publique, la confusion des sexes, le règne de la machine et des robots bloquent, pour le moment, notre horizon », mais « les modernes ont tout perdu, souligne à son tour Jean Renaud; ils nous ont peut-être profondément offensés, mais ils sont fous. Leur univers est imaginaire. Chacun à notre place, il nous est possible de résister, de tenir quotidiennement, de refuser l’isolement d’aider le jeune et le vieux, d’accumuler ces actes modestes que nous avons désappris, ces actes par lesquels l’âme se fortifie. Le monde moderne existe de moins en moins ». Si les catholiques actuels savaient encore penser et s’ils cessaient de suivre les sirènes de la confusion moderne, le professeur Molnar serait sans conteste leur référence intellectuelle.

 

 

« Pour la liberté de l’âme face à la robotisation », tonne Thomas Molnar qui poursuit ainsi une véritable croisade spirituelle contre un monde déshumanisé et mécanisant, toujours plus négateur de la diversité naturelle. En d’autres temps et en d’autres lieux, Thomas Molnar aurait été un croisé de haute tenue, car il est dans l’âme un Croisé contre le Désordre contemporain. Ode alors à l’homme qui fut la Chrétienté…

 

 

Arnaud Ferrand-Léger

 

 

Moi, Symmaque, suivi de L’Âme et la machine, Éditions L’Âge d’Homme, 167 p.

 

Du mal moderne. Symptômes et antidotes, cinq entretiens de Thomas Molnar avec Jean Renaud, précédé de « Thomas Molnar ou la réaction de l’esprit » par Jean Renaud, Québec, Canada, Éditions de Beffroi, 1996.


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In memoriam: Thomas MOlnar (1921-2010)

In Memoriam: Thomas Molnar (1921–2010)
 
 

MolnTH.jpgThomas Molnar, the esteemed political philosopher and historian, passed away on July 20 at the age of eighty-nine. Dr. Molnar was a friend of ISI from its earliest days. He lectured frequently for the Institute and contributed many articles to the Intercollegiate Review and Modern Age. In 2003 ISI awarded him its Will Herberg Award for Outstanding Faculty Service.

Requiescat in pace.

The following profile of Dr. Molnar was originally published in American Conservatism: An Encyclopedia (ISI Books, 2006). Also, consult the First Principles archival section to read some of Dr. Molnar’s fine essays.

A political philosopher by training, Thomas Molnar was born June 26, 1921, in Budapest and studied in France just before the Second World War, by the end of which he found himself interned in Dachau for anti-German activities. His first book, Bernanos: His Political Thought and Prophecy (1960), was a pioneering study of the work of the famous French Catholic novelist, who had moved from membership in the Action Française to writing on behalf of the French resistance. Taking his cue from Bernanos, Molnar would, like the novelist, go on to become a fiercely independent and contrarian writer, as well as a critic of modern political and economic systems that attempted to deny or transform man’s nature and his place in the cosmos. As Molnar would write of Teilhard de Chardin in perhaps his most wide-ranging book, Utopia: The Perennial Heresy (1967): “[Teilhard’s] public forgets . . . that man cannot step out of the human condition and that no ‘universal mind’ is now being manufactured simply because science has permitted the building of nuclear bombs, spaceships and electronic computers.” Throughout his career, Molnar would remain the enemy of such transformative philosophical endeavors—whether they came in the form of Soviet communism or Western technological hubris. In this respect, his critique of classical and modern “Gnosticism” mirrored the work of the philosophical historian Eric Voegelin.

Revolted by the communist conquest (and 1956 suppression) of his homeland, Molnar early found himself interested in twentieth-century counterrevolutionary movements such as the Action Française and the Spanish Falangists. He examined such movements in his penetrating study The Counter-Revolution (1969), pointing to the quality they shared with their counterparts on the Left: a loathing of the rise of the commercial class and its mores. Regardless of the important constituencies such movements might find in the middle class—Engels was a factory owner’s heir, Maurras got his funding from French manufacturers—Molnar concluded that the animating sentiment of each such movement was hostility to the “bourgeois spirit.”

Molnar’s study of these secular counterrevolutionary movements revealed their limitations and their participation in the modern spirit that aims to “manage” human nature by means of state or party in accord with an ideological plan. Molnar rediscovered his childhood Catholic faith in the early 1960s, and it would ever after serve as the lodestar guiding his political, cultural, and philosophical writings. Among his most important books are Twin Powers: Politics and the Sacred (1988) and The Church: Pilgrim of Centuries (1990), which examine the struggle between church and state in medieval and early-modern history—and this battle’s continuing implications for politics and ecclesiastical governance. Molnar identifies two destructive tendencies rooted in the medieval and early-modern periods whose implications only became obvious in the twentieth century: first, Erastianism, the subjection of spiritual authority to the power of the state or the preferences of civil society; and second, Puritanism, a claim by the state to spiritual power and redemptive purpose.

Molnar was one of the earliest writers and academics to associate himself with the Intercollegiate Society of Individualists (later Intercollegiate Studies Institute), joining its lecture program and frequently publishing in the Intercollegiate Review and Modern Age. His writing also appeared in dozens of other publications and in several European languages on topics ranging from classical history and French literature to foreign policy and modern philosophy. Molnar traveled to every inhabited continent and moved increasingly in his later years toward a global, world-historical (rather than particularly Western) view of events; he retained, however, a firmly Catholic faith that rendered him skeptical of secular undertakings, including the conservative movement. A personal friend of luminaries Russell Kirk and Wilhelm Röpke, Molnar was more pessimistic than either of those thinkers about the prospects of saving the essentials of Western civilization from the advancing effects of the “ideology of technology,” which promised with more apparent plausibility than did previous systems (such as Marx’s) to make man into a different animal, if not in fact a god. Molnar was the author of more than thirty books.

Further Reading
  • Molnar, Thomas. The Decline of the Intellectual. Cleveland: World, 1961.
  • ———. The Emerging Atlantic Culture. New Brunswick, N.J.: Transaction, 1994.
  • ———. The Pagan Temptation. Grand Rapids, Mich.: Eerdmans, 1988.

vendredi, 13 août 2010

Thomas Molnar (1921-2010)

Thomas Molnar (1921-2010)
 
Ex: Nieuwsbrief Deltastichting nr. 38 - Augustus 2010
 
De Hongaars-Amerikaanse politieke filosoof Thomas Molnar werd in 1921 geboren te Boedapest als Molnár Tamás. Hij liep school in de stad Nagyvárad, op de Hongaars-Roemeense grens, die werd ingenomen door Roemeense troepen in 1919. Het jaar nadien bepaalde het Verdrag van Trianon dat de stad, herdoopt als Oradea, zou toebehoren aan Roemenië. Begin jaren ‘40 verhuisde hij naar België om er in het Frans te studeren aan de Université Libre de Bruxelles (ULB). Tijdens de oorlog werd hij er als leider van de katholieke studentenbeweging door de Duitse bezetter geïnterneerd in het KZ Dachau. Na de oorlog keerde hij terug naar Boedapest en was er getuige van de geleidelijke machtsovername door de communisten. Daarop vertrok hij naar de Verenigde Staten, waar hij in 1950 aan de Universiteit van Columbia zijn doctoraat in filosofie en geschiedenis behaalde. Hij droeg vaak bij tot National Review, het in 1955 door William F. Buckley opgerichte conservatieve tijdschrift. Hij doceerde aan verscheidene universiteiten en na de val van het communistisch regime in Hongarije ook aan de Universiteit van Boedapest en de Katholieke Péter-Pázmány-Universiteit. Sinds 1995 was hij ook lid van Hongaarse Academie der Kunsten. Hij is de auteur van meer dan 40 boeken, zowel in het Engels als Frans, en publiceerde in tal van domeinen zoals politiek, religie en opvoeding.
 
Geïnspireerd door Russell Kirks ”The Conservative Mind” ontwikkelde Molnar zich tot een belangrijk denker van het paleoconservatisme, een stroming in het Amerikaanse conservatisme die het Europese erfgoed en traditie wil bewaren en zich afzet tegen het neoconservatisme. Paul Gottfried vermeldt terecht in zijn memoires (Encounters. My Life with Nixon, Marcuse, and Other Friends and Teachers. ISI Books, 2009) dat Molnar in verschillende van zijn geschriften zijn verachting voor de Amerikaanse maatschappij en politiek niet onder stoelen of banken steekt. Zo bespot hij de “boy scout” mentaliteit van Amerikaanse leiders , hun “Disney World”-opvattingen over de toekomst van de democratie en identificeert hij protestantse sektarische driften achter het Amerikaanse democratische geloof. Het Amerikaanse materialisme is volgens hem geëvolueerd van een ondeugd naar een wereldvisie. Het is dus niet toevallig dat Molnar vandaag wordt ‘vergeten’ door mainstream conservatieven aan beide zijden van de Atlantische Oceaan.
 
Molnar trad ook veelvuldig in debat met Europees nieuw rechts. Toen Armin Mohler zijn "Nominalistische Wende" uiteenzette, bediende Molnar hem van een universalistisch antwoord. Als katholiek intellectueel publiceerde Molnar in 1986 samen met Alain de Benoist “L’éclipse du sacré” waarin zij vanuit hun gemeenschappelijke bezorgdheid voor de Europese cultuur de secularisering van het Westen bespreken. “The Pagan Temptation”, dat het jaar nadien verscheen, was Molnars weerlegging van de Benoists “Comment peut-on etre païen?” Molnars eruditie en originaliteit blijken echter onverenigbaar met elk hokjesdenken en dat uitte zich onder meer  in het feit dat hij enderzijds lid was van het comité de patronage van Nouvelle Ecole, het tijdschrift van Alain de Benoist, en anderzijds ook voor de royalisten van de Action Française schreef.
 
Thomas Molnar stierf op 20 juli jongstleden, zes dagen voordat hij 90 zou worden, te Richmond, Virginia.
 
Meer informatie bij het Intercollegiate Studies Institute, waar men tal van artikels en lezingen van Thomas Molnar kan consulteren.
 

mardi, 22 juin 2010

Etats-Unis: être Noir et conservateur

Archives de Synergies Européennes - 1997

Etats-Unis: être Noir et conservateur

 

Le conservatisme des Noirs, aux Etats-Unis n'est plus un paradoxe, on n'est plus automatiquement de “gauche” quand on est Noir, ni hostile aux Noirs quand on est conservateur. Une enquête menée récemment par le Washington Post  a établi que 26% des Noirs américains s'identifient politiquement comme con­servateurs, c'est-à-dire veulent limiter le pouvoir du gouver­ne­ment fédéral, diminuer les impôts, introduire une répression plus mus­clée de la criminalité, réformer la sécurité sociale et favoriser l'ini­tiative personnelle. Certes, ces Noirs se félicitent des acquis moraux et légaux du Mouvement des Droits Civils, entrainé jadis par Martin Luther King, mais les porte-paroles de ces dynamiques Afro-Américains conservateurs rejet­tent le dis­cours répétitif sur l'inégalité, dont ils seraient automati­quement des victimes parce qu'ils sont Noirs, et critiquent sévère­ment les rituels au­to-référentiels du Mouvement des Droits Civils actuels et institutionalisés, figés et éta­blis. Les conserva­teurs afro-américains défendent tout un é­ven­tail d'idées, ils sont divers dans leurs expressions politiques et dans leurs va­riantes conservatrices, mais, en règle générale, acceptent une vision “positive et humaniste” du projet américain, tout en s'opposant à cette lancinan­te et lourde insistance sur la “victimisation” raciale, qui fait les choux gras des bien-pensants de la gauche libérale. Le livre de Stan Faryna, Brad Stetson et Joseph G. Conti présente les idées prin­ci­pales de fi­gures comme le Juge noir Clarence Thomas, l'ancien dé­puté Gary Franks, les écrivains Shelby Steele et Glenn Loury (tant dans des articles d'exégèse de leurs discours que dans des textes émanant directement de leur plume). Le conservatisme noir aux Etats-Unis rejette donc les politiques gouvernementales visant d'abord à victimiser l'ensemble de la population noire puis de généraliser des politiques sociales faisant des Noirs autant d'objets de pitié et de sollicitude, générant ainsi un racisme à rebours et toute une série d'attitudes finalement insultantes. Les Noirs ne doivent plus dès lors prendre la parole en tant que Noirs, que “pauvres Noirs”, mais doivent parler d'eux-mêmes et de leurs propres réalisations. Pour le conservatisme noir, la race con­ditionne la vie d'un individu mais ne saurait en aucun cas la définir totalement. Le conservatisme noir n'est pas révolutionnaire, il ne proclame pas une sécession implicite comme Garvey jadis ou Farrakhan aujourd'hui, il ne fait pas appel au boycott ou à la violence, mais refuse la position que les idéologies dominantes assignent irrémédiablement aux Noirs, celle d'être toujours des victimes, des pauvres, des paumés ou des criminels.

 

Benoît DUCARME.

Stan FARYNA, Brad STETSON, Joseph G. CONTI (ed.), Black and Right. The Bold New Voice of Black Conservatism in America, Praeger Trade, Greenwood Publishing Group (88 Post Road West, PO Box 5007, Westport, CT 06.881-5007, USA), 1997, 192 p., $19.95, ISBN 0-275-95342-4.

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jeudi, 10 juin 2010

Cette droite schizophrène

CETTE DROITE SCHIZOPHRÈNE

Ex: http://www.emediat.fr/

Chronique de Paul-Alexandre Martin

Après la diffusion sur TF1 d’un reportage au sein des musulmans salafistes de Marseille, j’entends dire ici et là que le temps des modérés est révolu, qu’une nouvelle ère se doit de débuter, et que nos gouvernants doivent faire preuve de courage face à la menace des minarets qui commenceraient à percer le sol sous nos pieds. Cependant, je ne peux m’empêcher de sourire au vu des commentaires des uns et des autres, tous se disent « réacs’ », « très à droite », « ultraconservateurs », une vraie génération de camelots du Roy à les entendre. Et quand il s’agit de leur demander d’expliciter leurs « croyances » politiques, ceux-ci me répondent alors : « libéral-conservateur », ou « capitaliste-traditionaliste ». Tous affirment cela avec arrogance, et un air de gentil provocateur, se pensant encore plus subversif qu’un gay qui ferait son coming-out aujourd’hui. Leurs idoles ? Ils tiennent en un couple : Ronald Reagan et Margaret Thatcher. Aucun d’eux n’est français, mais peu importe ils vous expliqueront là aussi que plus patriotes qu’eux : « y’a pas ! ».

Revenons-en au sujet initial, et aux réactions suscitées par la diffusion d’un tel reportage. N’est-il pas déjà risible de voir TF1, aller enquêter sur les méfaits des replis identitaires religieux, conséquence directe du communautarisme, et de l’abandon de l’assimilation ? TF1, chaîne détenue par Martin Bouygues, fils de Francis Bouygues, qui nous expliquait dans les années 70, que la main d’œuvre étrangère avait toutes les vertus du monde et qu’il fallait la faire venir sur notre sol, crachant ainsi à la figure des ouvriers français, « trop chers » – salauds de pauvres ! Bref, un Francis Bouygues d’ores et déjà converti au libéralisme anglo-saxon, dont le seul appât du gain s’est substitué à l’éthique entreupreunariale, et qui a du applaudir des deux mains lorsque Ronald & Margaret ont été portés au pouvoir outre-Atlantique, et outre-Manche.

Des grands patrons qui se sont appuyés sur des politiques adeptes du libéralisme pour pouvoir toujours plus déréglementer et obtenir ainsi satisfaction. Des politiques qui pensaient toujours que la solution se trouvait là où la croissance était « la plus forte », qu’importent les dégâts occasionnés dans certains secteurs, comme en Angleterre qui propose désormais un magnifique éventail de professions allant du « Mac job », au trader de la City…les usines ont entre temps disparu du paysage, elles. Nos bons lobbys ont ainsi obtenu gain de cause de nos dirigeants, sans trop d’encombres, pour que le regroupement familial voit le jour. Adieu l’immigration régulée, et assimilée ! Désormais, on met aussi de côté la tradition française de l’assimilation pour embrasser la seule intégration sur le marché du travail.

Une conversion au libéralisme, et une volonté de construire un marché toujours plus grand, débordant du cadre national, puis continental, à qui l’on doit des banlieues surpeuplées, une France désindustrialisée, une précarité de l’emploi, une immigration incontrôlée…Ces constats là, que la plupart des gens censés, et qui gardent les pieds sur terre, font, ces jeunes dont je vous parlais plus haut sont incapables d’en tirer des conclusions. L’instabilité chronique de nos sociétés, qui font face à une communautarisation sauvage, débouchant sur des replis identitaires et religieux, où des déracinés s’enferment dans ce qui faisait leur identité originelle, doit être résorbée certes, afin de garantir une unité nationale menacée. Sauver aussi une France, en décomposition, en voie de devenir à terme un tas de décombres, sur lequel ne doivent pas prospérer ceux qui nous ont mené à cette situation.

Il faut surtout, et avant toute chose, sortir la droite de son carcan schizophrène, qui lui fait dire des choses aussi absurdes, que grotesques. Cette dite « droite » qui pense que capital et tradition ne font qu’un, que l’ordre marchand est l’allié des valeurs ancestrales, et du conservatisme social. La droite dominante, et qui nous gouverne – s’il nous reste un tantinet de pouvoir à Paris – sombre aujourd’hui dans un état de déliquescence car sa spiritualité a disparu, ses valeurs originelles ayant été troquées pour celle d’un libéralisme issu de 68…et si cette fameuse dichotomie libérale ne faisait en réalité qu’un, messieurs les « droitiers » ?

mardi, 11 mai 2010

Léon Daudet ou "le libre réactionnaire"

Leon-Daudet.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

 

Un livre d'Eric Vatré: Léon Daudet ou  "le libre réactionnaire"

 

par Jacques d'ARRIBEHAUDE

 

Eric Vatré est en train de se faire une spécialité dans la biographie, art difficile et ingrat où les Français pa-raissent souvent légers devant les gigantesques tra-vaux d'érudition des chercheurs anglo-saxons. La personnalité de Léon Daudet est ici bien évoquée. Une des plumes les plus alertes, les plus vives, les plus cinglantes de la critique littéraire de ce premier demi-siècle. Un grand et passionné remueur d'idées et d'opinions, d'une liberté de ton absolue au service d'une pensée résolument hostile à ce qu'on a appelé depuis "l'idéologie dominante".

 

D'où le titre choisi par Vatré, à mon avis un pléonasme, car on imagine mal un réactionnaire qui ne choisirait pas librement d'être à contre-courant de ce qu'il aurait tout avantage à courtiser à longueur de colonnes, à l'exemple de l'ordinaire racaille journalistique contemporaine.

 

Vatré constate, sans vraiment l'expliquer, l'énigme d'une "Action Française" où cohabitent Maurras, apôtre farouche et sourd de la France seule et de sa prétendue supériorité intellectuelle, et Daudet, autre-ment ouvert, féru de Shakespeare, enthousiaste de Proust et de Céline, sensible à la peinture, à la musique, aux souffles poétiques venus d'ailleurs, là où Maurras, fossilisé dans ses plâtres académiques, sonne éperdument le clairon des grandeurs mortes dans le saint pré-carré du monarque introuvable.

 

Au total, Daudet, l'un des hommes au monde les moins doués pour l'action, et, en ce sens, une belle figure de cette IIIème République qu'il haïssait, et dont les ténors parlementaires ventripotents, crasseux et barbichus, si ridicules qu'ils fussent, sem-blent des aigles prodigieux comparés à nos politiciens actuels.

 

A lire et à relire avec le plus grand profit, pour plus de renseignements sur cette époque sans pareille, Les Décombres  de Lucien Rebatet.

 

Jacques d'ARRIBEHAUDE.

 

Eric VATRE, Léon Daudet ou le "libre réaction-nai-re",  Editions France-Empire, 1987, 350 pages, 110 FF.

 

 

vendredi, 07 mai 2010

Caspar von Schrenck-Notzing, rénovateur du conservatisme

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

Portrait de Caspar von Schrenck-Notzing, éditeur de “Criticón”, rénovateur du conservatisme

 

schrenck.jpgSon pseudonyme est “Critilo”: ce qui a une signification profonde. En effet, “Critilo” est une figure du roman El Criticón (1651-57) de Bal­tasar Gracián. Le titre de ce roman, Caspar von Schrenck-Notzing l'a repris pour le donner à sa célèbre revue d'inspiration conservatrice, Criticón. A travers tout le roman El Criticón,  Baltasar Gracián déve­loppe une théorie du regard, où “voir” signifie réceptionner le monde avec étonnement, mais cette réception par les yeux est une toute autre chose que l'opinion du vulgum pecus: elle vise bien plu­tôt à aller dénicher, avec méfiance, les vrais visages qui se ca­chent derrière les masques, à mettre au grand jour les cœurs qui se dissi­mulent derrière les vêtements d'apparat. Ces principes d'El Criticón  sont les fils con­ducteurs qui nous permettent de juger l'œuvre pu­blicistique du Ba­ron Caspar von Schrenck-Notzing.

 

Celui-ci est publiciste, éditeur, rédacteur, maquettiste, correcteur, archiviste, excellent commentateur de l'actualité et éditorialiste dans sa revue. Depuis plus de trois décennies, Caspar von Schrenck-Notzing se consacre à mettre sur pied un réseau conservateur. Car il faut promouvoir, dit-il, la cause du conservatisme en publiant des revues, en introduisant publications et articles d'inspiration conser­vatrice dans les circuits de diffusion et dans les organes qui font l'o­pinion. Il faut promouvoir le conservatisme en créant des acadé­mies privées et des bibliothèques, des maisons d'édition, des radios, des télévisions et des agences de presse, sinon il n'y aura jamais de “renversement des opinions” en faveur d'un néo-conser­vatisme moderne. Jusqu'ici, les mouvements conservateurs ont été marqués par de longues suites de disputes entre profes­seurs sans chaires, discutant interminablement autour de chopes de bière dans leurs bistrots favoris. Rien de constructif n'en est évidemment ressorti. Aucune coopération raisonnable ne peut s'ensuivre.

 

L'œuvre de Schrenck-Notzing est surtout dirigée contre la dictature de l'opinion collective. Les contre-courants culturels, les personna­lités originales voire marginalisées et les “partisans” en marge des grandes idéologies dominantes le fascinent. Infatigable, pendant toute sa vie, Schrenck-Notzing a lutté contre la machinerie journa­listique qui jette de la poudre aux yeux, qui noie le réel derrière un écran de fumée idéologique. Ses livres, tels Charakterwäsche (1965), Zukunftsmacher (1968) et Honorationendämmerung (1973) sont devenus des classiques de la littérature conservatrice et sont... con­testataires justement parce qu'ils sont conservateurs. L'an passé, il a édité un ouvra­ge de référence essentiel, le Lexikon des Konser­vatismus (1996), excellent panorama des multiples facettes de cette mouvance con­servatrice.

 

En s'appuyant sur les écrits de Baltasar Gracián, Schrenck-Notzing nous dit: «Si, comme au XVIIième siècle, la communauté ne peut plus maîtriser le chaos, mais, au contraire, l'incarne, alors l'homme ne peut plus opposer au conformisme aveugle que la raison déchif­frante; la condition humaine se reflète bien, dans ce cas, dans la si­tuation du temps, car l'obligation de faire fonctionner son intelli­gence est en l'homme, chaotique par nature, comme un diamant au beau milieu d'un plat de méchants légumes et de vilains navets».

 

Schrenck-Notzing est né le 23 juin 1927 à Munich. Il est le fils d'un champion hippique, qui, pendant un certain temps, dirigea l'écurie des chevaux de course de l'armée. Il est aussi le petit-fils du méde­cin pionnier de la parapsychologie, Albert von Schrenck-Notzing. Et l'arrière-petit-fils de Ludwig Ganghofer.

 

Peter D. RICHARD.

(article paru dans Junge Freiheit  n°26/97).

 

samedi, 01 mai 2010

Edmund Burke et la Révolution française

edmund-burke.jpgArchives de SYNERGIES EUROPÉENNES - 1988

 

Edmond Burke et la Révolution Française

 

par Jacques d'ARRIBEHAUDE

 

Les Réflexions sur la Révolution en France,  publiées à Londres le 1er novembre 1790 par Edmund Burke, célèbre parlementaire irlandais, n'ont cessé depuis lors d'irriter la longue suite de nos dirigeants politiques épris de niaiseries démagogiques et accoutumés à endormir l'opinion de mascarades égalitaires dans l'imposture généralisée des "Droits de l'homme et du citoyen".

 

A la veille du Bicentenaire dont les fastes dispendieux et grotesques vont encore ajouter au trou sans fond de la Sécurité Sociale et crever un peu plus la misérable vache à lait électorale saignée à blanc par les criminels irresponsables qui, au nom de l'Etat et pour le bonheur du peuple, osent encore exhiber le bonnet phrygien et se réclamer de la "Carmagnole", la lecture de Burke, telle une cure d'altitude, est un merveilleux contrepoison.

 

Félicitons comme ils le méritent le jeune historien Yves Chiron (auquel l'Académie vient de décerner le Prix d'Histoire Eugène Colas) et son éditeur qui ren-dent enfin accessible au public un ouvrage depuis long-temps introuvable, un auteur dont la liberté d'ex-pression, la vigueur de pensée, la puissance évocatrice et prophétique toujours intacte, réduisent à son abjection et à son néant  l'"Evénement" dont on nous somme sans répit de célébrer la générosité sublime, la gloire sans pareille, et une grandeur que le monde entier, jusqu'au dernier Botocudo, jusqu'à l'ultime survivant de la terre de Feu et de Rarotonga, ne cesse de nous envier frénétiquement.

 

Cependant, Yves Chiron note à juste titre dans son étude que "ce qui se passe en 1789-1790 n'est pas un évènement localisé et spécifiquement français: c'est le premier pas vers un désordre généralisé où se profilent la vacance du pouvoir, la disparition des hiérarchies sociales, la remise en question de la propriété – la fin de toute société.

 

Plus précisément, c'est la date du 6 octobre 1789 que Burke, contemporain, retient comme signe fatal et révélateur, marqué par le glissement irréversible dans la boue et le sang. "Dans une nation de ga-lan-terie, dans une nation com-posée d'hommes d'honneur et de chevalerie, je crois que dix mille épées seraient sorties de leurs fourreaux pour la venger (la Rei-ne) même d'un regard qui l'aurait menacée d'une insulte! Mais le siècle de la chevalerie est passé. Celui des sophistes, des économistes et des calculateurs lui a succédé: et la gloire de l'Europe est à jamais éteinte".

 

Burke fut le premier à dénoncer l'imposture des "droits de l'homme"

 

Or, par une sinistre ironie de l'Histoire, il se trouve que la France s'est précipitée dans cet interminable bourbier au moment précis où son prestige était le plus éclatant, son économie en pleine ascension, la qualité de sa civilisation reconnue partout sans con-teste. Ainsi que le souligne Yves Chiron, Burke note que les "droits de l'homme" flattent l'égoïsme de l'individu et sont ainsi négateurs, à terme, de la vie sociale. Dans un discours au Parlement (britannique), en février 1790, il s'élève avec violence contre ces droits de l'homme tout juste bons, dit-il, "à inculquer dans l'esprit du peuple un système de destruction en mettant sous sa hache toutes les autorités et en lui remettant le sceptre de l'opinion". L'abstraction et la prétention à l'universalisme de ces droits, poursuit Chiron, contredisent trop en Burke l'historien qui n'apprécie rien tant que le respect du particulier, la différence ordonnée et le rela-ti-visme qu'enseigne l'Histoire. Il n'aura pas de mots assez durs pour stigmatiser Jean-Jacques Rousseau, "ami du genre humain" dans ses écrits, "théoricien" de la bonne nature de l'homme et qui abandonne les enfants qu'il a eu de sa concubine: "la bienveillance envers l'espèce entière d'une part, et de l'autre le manque absolu d'entrailles pour ceux qui les touchent de près, voilà le caractère des modernes philosophes… ami du genre humain, ennemi de ses propres enfants".

 

Un autre paradoxe, et non des moindres, a voulu que les sociétés de pensée, l'anglomanie aveugle et ridicule qui sévissait partout en France alors même que la plupart de nos distingués bonimenteurs de salon ne comprenait un traître mot d'anglais, aient pu répandre l'idée que les changements qui se préparaient seraient à l'image de cette liberté magnifique qui s'offrait Outre-Manche à la vue courte, superficielle et enivrée, d'un peuple d'aristocrates honteux, de sophistes à prétention philosophiques, de concierges donneurs de leçons et de canailles arrogantes.

 

Logorrhée révolutionnaire et pragmatisme britannique

 

Nul ne s'avisait dans le tumulte emphatique qui rem-plissait ces pauvres cervelles de débiles et de gre-dins, de ces "liaisons secrètes" que Chateaubriand a si bien perçu par la suite entre égalité et dictature, et qui la rendent parfaitement incompatible avec la liberté. L'Angleterre, pays de gens pratiques, ne pouvait qu'être aux antipodes de l'imitation "améliorée" que l'on croyait en faire, et ses grands seigneurs, accourus pour acheter à vil prix le mobilier et les trésors de la Nation vendus à l'encan, n'en revenaient pas de ce vertige de crétinisme et de l'hystérie collective et criminelle emportant follement le malheureux peuple de France vers l'esclavage, la ruine et l'effacement de la scène du monde, au nom de fumées et d'abstractions extravagantes, mensongères et pitoyables". Quant à la masse du peuple, dit Burke, quand une fois ce malheureux troupeau s'est dispersé, quand ces pauvres brebis se sont soustraites, ne di-sons pas à la contrainte mais à la protection de l'autorité naturelle et de la subordination légitime, leur sort inévitable est de devenir la proie des impos-teurs. Je ne peux concevoir, dit-il encore, comment aucun homme peut parvenir à un degré si élevé de présomption que son pays ne lui semble plus qu'une carte blanche sur laquelle il peut griffonner à plai-sir… Un vrai politique considérera toujours quel est le meilleur parti que l'on puisse tirer des matériaux existants dans sa patrie. Penchant à conserver, talent d'améliorer, voilà les deux qualités qui me feraient ju-ger de la qualité d'un homme d'Etat.

 

Burke, écrit Chiron, "ne conteste pas que la France d'avant 1789 n'ait eu besoin de réformes, mais était-il d'une nécessité absolue de renverser de fond en comble tout l'édifice et d'en balayer tous les décombres, pour exécuter sur le même sol les plans théo-riques d'un édifice expérimental? Toute la France était d'une opinion différente au commencement de l'année 1789". En effet. Et, comme l'exprime si jus-tement la sagesse populaire anglaise, "l'enfant est parti avec l'eau du bain". L'énigmatique "kunsan-kimpur" que nos marmots ont obligation d'ânonner dans nos écoles avec les couplets de l'amphigourique et grotesque "Marseillaise" n'abreuve depuis lurette le plus petit sillon de notre exsangue et ratatiné pré carré. Seuls des politicens que le sens du ridicule n'étouffe pas vibrent encore de la paupière et des cor-des vocales tandis que de leur groin frémissant s'échappe indéfiniment, telle une bave infecte, la creu-se et mensongère devise de notre constitution criblée d'emplâtres: "Liberté, égalité, fraternité".

 

Céline décrit le résultat...

 

Céline, si lucide et si imperméable à la rémoulade d'abstractions humanitaires dont résonnent sans trève nos grands tamtams médiatiques, et qui savait son Histoire comme on ne l'enseigne nulle part, a dé-crit la situation une fois pour toutes dans une des pages les plus saisissantes du Voyage.  "Ecoutez-moi bien, camarade, et ne le laissez plus passer sans bien vous pénétrer de son importance, ce signe ca-pi-tal dont resplendissent toutes les hypocrisies meurtrières de notre société; "L'attendrissement sur le sort du miteux…! C'est le signe… Il est infaillible. C'est par l'affection que ça commence… Autrefois, la mode fanatique, c'était "Vive Jésus! Au bûcher les hérétiques!" mais rares et volontaires, après tout, les hérétiques. Tandis que désormais… les hommes qui ne veulent ni découdre, ni assassiner personne, les Pacifiques puants, qu'on s'en empare et qu'on les écartèle afin que la Patrie en devienne plus aimée, plus joyeuse et plus douce! Et s'il y en a là dedans des immondes qui se refusent à comprendre ces choses sublimes, ils n'ont qu'à aller s'enterrer tout de suite avec les autres, pas tout à fait cependant, mais au fin bout du cimetière sous l'épithète infâmante des lâches sans idéal, car ils auront perdu, ces ignobles, le droit magnifique à un petit bout d'ombre du monument adjudicataire et communal élevé pour les morts convenables dans l'allée du centre, et puis aussi perdu le droit de recueillir un peu de l'écho du Ministre qui viendra ce dimanche encore uriner chez le Préfet et frémir de la gueule au-dessus des tombes après le déjeuner".

 

Que l'on me pardonne cette citation un peu longue et d'ailleurs incomplète, mais elle m'a paru comme un prolongement naturel des Réflexions  de Burke, tout en évoquant irrésistiblement l'Auguste Président, grand amateur de cimetières, panthéons et nécropoles, qui s'apprête à commémorer en grande pompe et dans l'extase universelle le Bicentenaire de l'incomparable Révolution Française.

 

Jacques d'ARRIBEHAUDE.

 

Yves CHIRON, Edmond Burke et la Révolution Française,  Editions Téqui, Paris, 1988, 185 pages (54 FF).

 

 

mercredi, 31 mars 2010

Postmortem Report: a collection of essays by Tomislav Sunic

Postmortem Report: a collection of essays by Tomislav Sunic

Ex: http://majorityrights.com/

Tom_Sunic_Tomoslav_Council_of_Conservative_Citizens_2008.jpgYou may already know that Tom Sunic’s new book Postmortem Report: cultural examinations from postmodernity has been published.  Tom is a fine essayist - among the best we have - and Postmortem Report brings together the best of his work in this format.  He asked me to produce some blurb to announce the book here, but I thought a few short passages might be more to your taste.  These are what he selected.

From the (suitably straightening) foreword by Kevin MacDonald:

Europeans who have any allegiance to their people and culture cannot stand by and accept this state of affairs. We are approaching an endgame situation in the West. In the United States, people of non-European descent will be the majority in just a few short decades, and the same will happen throughout Europe and other societies established by Europeans since the dawn of the Age of Discovery. At that point, the centuries-old hostilities and resent-ments of non-White peoples toward Whites that Sunic discusses will come to the fore, and the culture and Europe will be irretrievably lost.

We must confront this impending disaster with a sense of psychological intensity and desperation. Reading Tom Sunic’s essays will certainly provide the background for understanding how we got here and perhaps also for finding our way toward the future.

And from the text, a subject which just occasionally gets an airing here:

In conclusion, one could say that, in the very beginning of its development, Judeo-Christian monotheism set out to demystify and desacralize the pagan world by slowly supplanting ancient pagan beliefs with the reign of the Judaic Law. During this century-long process, Christianity gradually removed all pagan vestiges that coexisted with it. The ongoing process of desacralization and the “Entzauberung” of life and politics appear to have resulted not from Europeans’ chance departure from Christianity, but rather from the gradual disappearance of the pagan notion of the sacred that coexisted for a long time with Christianity. The paradox of our century is that the Western world is saturated with Judeo-Christian mentality at the moment when churches and synagogues are virtually empty.

And more:

And yet, we should not forget that the Western world did not begin with the birth of Christ. Neither did the religions of ancient Europeans see the first light of the day with Moses—in the desert. Nor did our much-vaunted democracy begin with the period of Enlightenment or with the proclamation of American independence. Democracy and independence—all of this existed in ancient Greece, albeit in its own unique social and religious context. Our Greco-Roman ancestors, our predecessors who roamed the woods of central and northern Europe, also believed in honor, justice, and virtue, although they attached to these notions a radically different meaning.

On two giants of the German revolutionary conservative tradition:

One cannot help thinking that, for Spengler and his likes, in a wider historical context, war and power politics offer a regenerative hope against the pervasive feeling of cultural despair. Yet, regardless of the validity of Spengler’s visions or nightmares, it does not take much imagination to observe in the decadence of the West the last twilight-dream of a democracy already grown weary of itself.

... And what to say about the German centenarian, enigmatic essayist and novelist Ernst Jünger, whom the young Adolf Hitler in Weimar Germany also liked to read, and whom Dr. Joseph Goebbels wanted to lure into pro-Nazi collaboration? Yet Jünger, the aristocratic loner, refused all deals with the Nazis, preferring instead his martial travelogues. In his essay Annäherungen: Drogen and Rausch, Jünger describes his close encounters with drugs. He was also able to cut through the merciless wall of time and sneak into floating eternity. “Time slows down . . . The river of life flows more gently… The banks are disappearing.” While both the French president François Mitterrand and the German chancellor Helmut Kohl, in the interest of Franco-German reconciliation, liked meeting and reading the old Jünger, they shied away from his contacts with drugs.

On the racio-political attack against our people:

The whole purpose of classicism and neoclassicism, particularly in plastic art, but also in philosophy and literature suggested that Europeans had to abide by the cosmic rules of racial form and order. Whatever and whoever departs from order — brings in decadence and death. The word and epithet “racist” and “racism” are usually hurled against White nationalists, never ever scathing other racial non-European out-groups. Over the last fifty years, no effort has been spared by the Western system and its mediacracy to pathologize White Western peoples into endless atonement and perpetual guilt feelings about their White race. The intended goal was to create a perception that all non-European races and out-groups are immune to sentiments of xenophobia or racial exclusion. The incessant anti-White propaganda and the idealization of non-Whites have attained grotesque dimensions, resulting in clinical self-hate and neurotic behavior among the majority of Whites.

And, finally, on the perils of being labelled a “racist”:

Intellectual terror in American colleges is well hidden behind the garb of feigned academic conviviality and the “have-a-wonderful day” rhetoric of superficially friendly peers. Yet it has far more insidious effects than the naked terror I experienced in a drab ex-communist Europe. Apart from being a derogatory, value-laden word that immediately lends itself to an array of catastrophic fantasies and judgment-day scenarios, the word “Nazi” also gives birth to a schizoid behavior among a number of White nationalists, particularly in America. Many of them seriously project in their minds National Socialist Germany as a country populated by Albino-like Nordic Übermenschen possessing a hidden force that could be resuscitated any day either in Patagonia or on astral UFOs. As noted previously in The Occidental Observer, the false reenactment of political events leads to their farcical repetition — with dangerous political consequences. In our postmodernity, the overkill of false images leads to the real kill. The often rowdy and infantile behavior of such “proud Aryan internet warriors” scares off serious White people who could otherwise be of some help in these decisive days of struggle for Western civilization. We must ask ourselves: Cui bono? Who benefits?

jeudi, 25 mars 2010

Questions to Robert Steuckers: In order to precise the positions of SYNERGIES EUROPEENNES

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Questions to Robert Steuckers:

In order to precise the positions of Synergies Européennes

Interview by Pieter Van Damme, for an end of course dissertation


The following is a translation of an interview with Robert Steuckers founder of Synergies Européennes. S.E. is an excellent pan European organization with a very fine history of activism that was born as a result of a split from Alain DeBenoist's GRECE quite some time back.

***

Q: To what extent can "national-bolshevism" be included in the "third way", between liberalism and Marxism?


RS : National-bolshevism does not refer to any economic theory or project of society: this is too often forgotten. This composed term has been used to denominate the (temporary, indeed) alliance between the traditional cadres of German diplomacy, eager to release the Reich defeated in 1918 from the Western enterprise, and the leading elements of German communism, eager to find a weight ally in the West for the new-born USSR. With Niekisch – ancient cadre of the Council Republic of Monaco, crushed by the nationalist Freikorps [Franc Corps] under the mandate of Noske's social-democrat power – national-bolshevism assumes a more political shade, but in the majority of cases its self-denomination chooses the "national-revolutionary" label. The concept of national-bolshevism becomes a polemical concept, used by journalists to indicate the alliance between the extreme wings on the political chessboard. Niekisch, in the times when he was considered as a leading figure of national-bolshevism, was no more politically active, strictly speaking; he was the editor of newspapers appealing to the fusion of the national and communist extreme wings (the extremities of the political "horse-shoe", said Jean-Pierre Faye, author of the book Les langages totalitaires [Totalitarian languages]. The notion of "Third Way" made its appearance within this literature. It had different avatars, as a matter of fact mixing nationalism to communism, or some libertarian elements in the nationalism of the young people of Wandervogel to some communitarian options elaborated by the left, as it is the case, for instance, of Gustav Landauer. [1]

These ideological mixes were initially elaborated within the internal debate of then existing national-revolutionary factions; then after 1945, when there was hope that that some third way would become the way of Germany, torn between East and West, and when such Germany would be no more the place of the European divide, as on the contrary the bridge between the two worlds, managed by a political model combining the best qualities of the two systems, ensuring both freedom and social justice at a time. On a different level, the name of "third way" was sometimes used to called the German techniques of economic management which differed from Anglo-saxon techniques, although from within the same market liberalism. The latter techniques are considered to bee to much speculative in their progress, too little careful of the social continuum structured by non-market sectors (health and social welfare, teaching and university). In this German view of the 1950s and 1960s, market liberalism must be consolidated by respect and support to the "concrete orders" of the society, as to become an "order-liberalism". Its functioning will be optimal once the sectors of welfare and education do not limp, do not engender social misguidance due to the negligence of the non-market sectors by a political power too much subdued to banking and financial circuits.

The French economist Michel Albert, in his famous work Capitalisme contre capitalisme [Capitalism against capitalism], translated in many languages, opposes indeed such order-liberalism to the neo-liberalism en vogue after the coming to power of Thatcher in the United Kingdom and Reagan in the United States. Albert calls order-liberalism as the "Rhenish-model", defining it as a model loath to stock market speculation as a way to maximise profits without structural investments, and as a model attentive to the preservation of education "structures" and a social welfare apparatus, sustained by a solid hospitalising network. Albert, order-liberal follower of the German way, re-evaluates non-market sectors under attack after the coming of neo-liberalism. The French "nouvelle droite" [ND, new right], preferably working within a dream-like framework, though masked by the adjective "cultural", did not take into account this fundamental distinction made by Albert in a book nevertheless hugely diffused through all European countries. If the ND had to opt for an economic strategy, it should have started with the defence of existing structures (that are also cultural achievements), in concert with gaullists, socialists and ecologists struggling to defend them, and should have criticised those politicians who – following the neo-liberal and Anglo-Saxon fashion – give speculative trends a free rein. Neo-liberalism dislocates non-market achievements (that is cultural practical achievements) and any ND, claiming the supremacy of culture, should act in defence of such non-market structures. Due to the mediocrity of the leading personnel of the Parisian ND, this work was not undertaken. [2]


Perroux, Veblen, Schumpeter and the heterodoxes

Anyway, economics in France operates – with Albertini, Silem and Perroux – a distinction between "orthodoxy" and "heterodoxy". As "orthodoxies" (plural) it means the economic techniques applied by European powers: 1) Marxist Soviet-style planned economy, 2) free, unrestrained market economy, the Anglo-Saxon fashion (pure liberalism or classic liberalism, deriving from Adam Smith, present neo-liberalism being but an avatar of the former), 3) economics offering some mix between the two former techniques, such as it was theoretically expressed by Keynes at the beginning of the XX century and adopted by most social-democrat governments (British labourites, the German SPD, the Austrian SPÖ, Scandinavian socialists). As heterodoxy the French political science means every economic theory not deriving from pure principles, that is from disembodied rationality, as on the contrary from peculiar, real and concrete political histories. In this perspective, heterodoxes are the heirs of the famous German "historical school" of the XIX century, of Thorstein Veblen's institutionalism and of Schumpeter's doctrines. Heterodoxes do not believe in universal models, as against the three dominating forms of orthodoxy. They think that there exist as many economics and economic systems as national and localhistories. Together with Perroux and beyond their particular differences and divergences, the heterodoxes think that the historical character of structures is in itself worth being given due respect, and that economic problems must be solved respecting such structures' own dynamics.

More recently, the notion of "Third Way" was brought again to the fore with the coming to power of Tony Blair in the United Kingdom, after about twenty years of thatcherian neo-liberalism. Apparently, as a principle, Blair comes closer to the German third way; as a matter of fact, he is but trying to make the British working class accept the achievements of liberalism. His "third way" is a placebo, a set of buffer measures and devices against the unpleasant social effects of neo-liberalism, but it does not reach the core of the matter: it is only a timid shift towards some keynesian position, that is towards one more orthodoxy, already practised by labourites but presented to the voters through a much more "workerist" and muscular language. Blair would have really launched a third way had he centred his policies on a deeper defence of the non-market sectors of the British society and on some forms of protectionism (once already favoured by a more muscular keynesism, a keynesism oriented to order-liberal - or order-socialist, order-labourite – trends). [3]

Q: What is the role of Marxism, or bolshevism, in this framework?


RS : Soviet-style Marxism failed everywhere, its role is finally brought to nothing, even in the countries that experienced the market economy. The sole nostalgia left, that comes to the light in every discussion with people emigrated from those countries, goes to the excellence of the educational system, able to communicate a classical corpus, and to the schools of music and dance, local expressions of the Bolshoy; this nostalgia can be found even in the smallest villages. The ideal thing would be to couple such education network, impermeable to the spirit of 1968, to an heterodox economic system, clearing the way to cultural variety, without the control of a rigid ideology preventing the blossoming of the new, both on the cultural and economic plan.

Q : Did Synergy then quit organic solidarism or not?


RS : No, it did not. Since it is just heterodoxies – plural, so that they can answer to the imperatives of the autonomous contexts – that represent ipso facto organic reflexes. Heterodox theories and practices stem from an organic humus, as against orthodoxies elaborated in the test-tube, indoor, outside of any concrete context. Because of their defence of dynamic structures engendered by the peoples and their own institutions, and of the non-market and welfare sectors, heterodoxies immediately imply solidarity among the members of a political community. The third way brought forward by heterodox doctrines is forcedly an organic and solidarist third way. The problem you seem to rise here is that a good number of right-wing groups and small couches wrongly used and equivocated the terms "organic" and "solidarist", or "community", never making reference to the complex corpus of heterodox economic science. It was easy then for Marxist critics, for instance, to label the militants of those movements as jokers or cheaters, manipulating empty words without any real and concrete meaning.

Participation et interest in the times of De Gaulle

The concrete and actual example to which the ND could have made reference was the set of reform attempts in De Gaulle's France during the 1960s, with the "participation" of the workers in the enterprises and their "interest" to the reaped benefits. Participation and interest are the two pillars of the gaullian reform of the market liberal economy. Such reform does not go in the direction of Soviet-style rigid planning, although a Planning Office was forecast, as in the direction of the anchorage of the economy within a given population, in this case the French population. In parallel, this orientation of the French economy towards participation and interest is coupled with the reform of the representative system, where the national assembly (i.e. the French parliament) should be sided until the end of its term by a Senate where would sit not only the elected representatives of the political parties, but also the representatives of the professional associations and the regions, directly chosen by the people without the parties acting as a go-between. In this sense De Gaulle spoke about a "Senate of the professions and the regions".

For minute history, this reform by De Gaulle was by no means taken into account by the French right-wing and by the ND, partly coming from them, since those right-wings found themselves in the camp of the partisans of a French Algeria and therefore rejected, altogether irrationally, every manifestation of the gaullian power. This undoubtedly explains the total absence of any reflection upon these gaullian social projects in the ND literature. [4]

Q : The economic visions of the conservative revolutionaries seem to me to be rather confused, and apparently have but one common denominator, the rejection of classical liberalism!


RS : Economic ideas in general, and introductory manuals to the history of economic doctrines give a very small room to heterodox currents. These manuals – that are imposed to the students in their first years, and that are destined to give them a sort of Ariadne's thread to keep their way through the succession of economic ideas – almost do not include anymore the theories of the German historical school and their many avatars in Germany and elsewhere (in Belgium at the end of the XIX century Emile de Laveleye, genial scholar and vulgariser of the theses of the German historical school). The only notable exception are the manuals of Albertini and Silem, quoted above. From Sismondi to List, from Rodbertus to Schumpeter, a different vision of economics is developed, focusing on the context and accepting the infinite variety of the ways of realising the political economy. These doctrines do not reject so much liberalism, since some of their bearers qualify themselves as "liberals", as the refusal of acknowledging the contextual and circumstantial differences in which economic policy must concretise. Pure "liberalism", rejected by the conservative revolutionaries, because is a kind of universalism. It believes that it can find application everywhere in the world without taking into account the variable factors of the climate, the population, its history, the kinds of cultivation that are traditionally practised, etc. This universalist illusion is shared by the other two pillars (Soviet-Marxist and Keynesian-socialdemocratic) of economic orthodoxy. The universalist illusions of orthodoxy notably led to neglecting food cultivation in the Third World, to the spreading of monocultures (which exhaust the soil and do not cover the whole of food and vital requirements of a single population) and, ipso facto, to famines, among which those of Sahel and Ethiopia stay printed in memory. In the corpus of the ND, the interest to the context in economics produced a series of studies on the works of the MAUSS (Anti-Utilitarian Movement in Social Sciences), whose leading figures, labelled as "leftists", explored a range of interesting problematics and analysed in deep the notion of "gift" (that is, the forms of traditional economy not based on the axioms of interest and profit). Promoters of this institute were notably Serge Latouche and Alain Caillé. Within the framework of the ND, it was especially Charles Champetier who dealt with such themes. And with an incontestable vivacity. Anyway, despite the congratulations he deserved for his exploratory work, it must be said that the simple transplant of the corpus of the MAUSS into that of the ND was impossible, and rightly so, since the ND did not prepare any clear-cut study about the contextualist approaches in economics, both from right-wing and left-wing labelled doctrines. Notably no documentary search, aimed at reinserting into the debate the historical (hence contextualist) process, had been realised upon the German historical schools and their avatars, true economic valve of a conservative revolution that is not limited, obviously, to the time-space running from 1918 to 1932 (to which Armin Mohler had confined himself, in order not to sink into some unmastered exhaustiveness).

The roots of the conservative revolution trace back to German romanticism, to the extent that it was a reaction against the universalist "geometricism" of Enlightment and the French Revolution: they nevertheless encompassed all the works of the XIX century philologists who widened our knowledge about antiquity and the so-called «barbarian» worlds (as the Persian, German, Dacian and Maurian peripheries of the Roman Empire by Franz Altheim), the historical school in economics and the sociologists related to it, the aesthetic revolution started by the English pre-Raphaelites, by John Ruskin, by the Arts & Crafts movement in England, by Pernstorfer in Austria, by Horta's architecture and the Van de Velde furniture-makers in Belgium, etc. The mistake of the Parisian journalists, who spoke at random about the "conservative revolution" without possessing a true German culture, without really sharing the competence of the Northern European soul (and neither those of the Iberian or Italian soul), was to reduce this revolution to its sole German expressions during the tragic, hard and exhausting years after 1918. In this sense the ND lacked cultural and temporal depth, it did not have enough reach in order to magisterially impose itself upon the dominant non-culture. [5]

Coming straight back to economic issues, let us say that a conservative revolution is revolutionary to the extent that it aims at defeating the universalist models copied from revolutionary geometricism (according to Gusdorf's expression); and it is conservative to the extent that it aims at returning to the contexts, to the history that let them emerge and made them dynamic. In the domain of urbanism as well, every conservative revolution aims at erasing the filth of industrialism (the project of the English pre-Raphaelites and of their Austrian disciples around Pernerstorfer) or geometrical modernism, in order to rejoin the traditions of the past (Arts & Crafts) to make new unheard-of forms blossom (MacIntosh, Horta, Van de Velde).

The context in which an economy develops is not exclusively determined by the economy itself, as by a lot of different factors. Hence the new-right criticism to economicism, or to "all-economism". Unfortunately this criticism did not remark the philosophical relationship of the non-economic (artistic, cultural, literary) process with the economic process of the historical school.

Q : Is it correct to say that Synergon, as against the GRECE, gives less attention to purely cultural activity, to the benefit of concrete political events?


RS : We do not give less attention to cultural activity. We give as much. But as you remarked, we do give a heightened attention to the events of the world. Two weeks before his death, the spiritual leader of Briton independentist, Olier Mordrel, who followed our work, called me on the phone, knowing his death was near, in order to sum up things, to hear one last time the voice of someone whom he felt intellectually close to – though never mentioning at all his state of health, because it was not the case either to pity himself or let himself be pitied. He told me: «What makes your reviews indispensable is your constant reference to real life». I was much enticed by this homage from an elder man, who had been anyway very niggard of praises and regards. Your question indicates that you undoubtedly felt – sixteen years later and through the readings concerning the themes of your dissertation – the same state of things as Olier Mordrel did at the eve of his passing. The judgement of Olier Mordrel seemed to me to be all the more interesting, in retrospect, since he is a privileged witness: having returned from his long exile in Argentine and Spain, he became rather soon accustomed to the ND, just before this came under the lights of the media. Then he saw its apogee and the beginning of its decline. And he attributed this decline to its incapacity of learning the real, the living, and the dynamics operating in our societies and in history.

Resorting to Heidegger


This will of learning or, in Heidegger's words, to reason in order to operate the unveiling of the Being and thus get out of nihilism (of the oblivion of Being), immediately implies to indefatigably review the facts of the present and past worlds (the latter being always able to come back again on the front, potentially, despite their temporary sleep), but also to encourage them in a thousand new ways in order to arouse new ideological and political constellations, to mobilise and strumentalise them in order to destroy and erase the heaviness stemming from institutionalised geometricism. Our path clearly proceeds from the will to add concreteness to the philosophical visions of Heidegger, whose language, too complex, has not yet engendered any revolutionary (and conservative!) ideology or praxis. [6]

Q : Is it correct to affirm that Synergies Européennes represents the actual avatar of the national-revolutionary doctrinal corpus (of which national-bolshevism is a form)?


RS : I feel there is in your question, in some way, too mechanic a vision of the ideological path leading from the conservative revolution and its national-revolutionary currents (since the Weimar epoch) and the present action of European Synergies. You seem to perceive in our movement a simple transposition of Weimar national-revolutionary corpus in our times. Such transposition would be anachronistic, and stupid as such. Anyway, within this corpus, Niekisch ideas are interesting to analyse, as well as his personal path and memories.

Nevertheless, the most interesting text of this movement stays that co-signed by the Jünger brothers, Ernst and most of all Friedrich-Georg, titled Aufstieg des Nationalismus [The Rise of Nationalism]. For the Jünger brothers, in this work as in other important articles or letters of that time, "nationalism" is a synonymous of "peculiarity" or "originality" – peculiarity and originality which must stay as such, never allowing to be obliterated by some universalist scheme or by some empty phraseology which its users pretend to be progressive or superior, valid for every time and place, a discourse destined to replace all languages and poetries, all epopees and histories. Being a poet himself, Friedrich-Georg Jünger, in this text-manifesto of the national-revolutionaries of the Weimar years, opposes the straight lines, the rigid geometries typical of the liberal-positivist phraseology, to the windings, meanders, labyrinths and serpent-like layouts of the natural, organic data. In this sense, this a sort of prefiguration of the thinking of Gilles Deleuze, with his rhizome creeping everywhere in the territorial plan, in the space, which is the Earth. Similarly, the hostility of nationalism, as it was conceived by the Jünger brothers, to the dead and petrified forms of liberal and industrial societies can be understood only in parallel to the analogous criticism by Heidegger and Simmel.

In the majority of cases, the present so-called national-revolutionary circles – often led by false wise men (very conceited), big tasteless faces or frustrated people who seek an uncommon way to emerge – as a matter of fact limited themselves to reproduce, like xerographers, the phraseology of the Weimar era. This is at the same time insufficient and clownish. This discourse must be used as an instrument, as a material - but together with more scientific philosophical or sociological materials, more generally admitted into scientific institutions - and obviously compared to moving reality, to marching actuality. The small couches of false sages and frustrated people, ill with acute "fuehreritis", were clearly unable to perform such task.

Beyond Aufstieg des Nationalismus


As a consequence, it seems to me impossible today to uncritically reconnect to the ideas of Aufstieg des Nationalismus and to the many reviews of the times of the Weimar Republic (Die Kommenden, Widerstand d'Ernst Niekisch, Der Aufbruch, Die Standarte, Arminius, Der Vormarsch, Der Anmarsch, Die deutsche Freiheit, Der deutsche Sozialist, Entscheidung by Niekisch, Der Firn, also by Niekisch, Junge Politik, Politische Post, Das Reich by Friedrich Hielscher, Die sozialistische Nation by Karl Otto Paetel, Der Vorkämpfer, Der Wehrwolf, etc.).

When I say "uncritically" I do not mean that this doctrinal corpus should be treated by a dissolving criticism, that it should be rejected as immoral or anachronistic, as it is done by those who try to change the colour of their skin or "bypass the customs". I mean that we must attentively read them again, but carefully taking into account the further evolution of their authors and the dynamics they aroused in other camps than that of close revolutionary nationalism. An example: Friedrich Georg Jünger publishes in 1942 the final version of his Die Perfektion der Technik [The perfection of Technique], which lays the foundations of the whole post-war German ecological thinking, at least in its non-political aspects – being as such depreciated and stupidly caricature-like. Later Friedrich Georg launches the review of ecological reflection Scheidewege, which continues to be published after his death in 1977. Aufstieg des Nationalismus must be therefore read again in the light of those later publications, and the national-revolutionary and soldiery message of the 1929s (already containing some ecological intuitions) must be coupled to the biologizing, ecological and organic corpus extensively commented on the pages of Scheidewege. In 1958 Ernst Jünger – together with Mircea Eliade and with the collaboration of Julius Evola and the German traditionalist Leopold Ziegler - founds the review Antaios, whose aim is to dive the readers into the great religious traditions of the world. Later, Martin Mayer studied Jünger's works in all these aspects and clearly showed the links connecting this thinking – covering a whole century – to a quantity of different intellectual worlds, such as surrealism – always forgotten by the national-revolutionaries of Nantes and elsewhere and by the Parisian ND, who consider themselves as infallible oracles but do not seem to know very much, once one takes the trouble to scratch a little the surface of things! Because of their Parisian coquetry, they try to have a German look, a "prussianhelmet" look, that suits all those "zigomars" as a London bowler-hat to an orang-outang! Meyer thus recalls the painting work of Kubin, the close relation between Jünger and Walter Benjamin, the esthetical distance and nonchalance connecting Jünger to the dandies, to the aesthetes and to a great number of romantics, the influence of Léon Bloy upon that German writer who died at the age of 102, the contribution of Carl Schmitt to his progress, the capital dialogue with Heidegger started in the second post-war period, the impact of Gustav Theodor Fechner's philosophy of nature, etc.

In France the national-revolutionaries and the anachronistic and caricature-like NDs should equally remember the closeness of Drieu La Rochelle to Breton's surrealists, notably when Drieu took part into the famous "Barrès trial" staged in Paris during the first world war. The uncritical transfer of the German national-revolutionary discourse of the 1920a in nowadays reality is misguided , often ridiculous device, deliberately ignoring the immeasurable extent of the post-national-revolutionary path of the Jünger brothers, of the worlds they explored, elaborated, interiorised. The same remark is valid notably for the ill reception of Julius Evola, solicited in the same misguided and caricature-like way by those neurotic pseudo-activists, those sectarian of the satano-sodomistic saturnalias based in the mouths of the Loire, or those pataphysical and porno-videomaniac metapolitologists, generally coming to nothing else but jest or parody. [7]

Q : Why does Synergies give so much attention to Russia, apart from the fact that this country belongs to the Eurasian ensemble?


RS : The attention we give to Russia proceeds from the geopolitical analysis of European history. The first intuition that moved our efforts for about a quarter of century was that the Europe where we were born, the Europe of the division sanctioned by the conferences of Teheran, Yalta and Postdam, was no place to live; it condemned our peoples to exit from history, to live into an historical, economic and political stagnation, which in time means death. Blocking Europe at the height of the Austrian-Hungarian border, cutting the Elba at the height of Wittenberg, depriving Hamburg of its Brandenburger, Saxon and Bohemian hinterland – all these are strangling strategies. The Iron Curtain divided industrial Europe from complementary territories and from that Russia which, at the end of the XIX had become the supplier of commodities to Europe, the extension of its territories towards the Pacific Ocean, the indispensable fortress locking up the European territory from the assaults it had to suffer until the XVI century from the peoples of the steppe. The English propaganda painted the Tsar as a monster in 1905 at the time of the Russian-Japanese war, it encouraged sedition in Russia in order to put the brake to this pre-communism European-Russian synergy.

Communism, financed by New York bankers as it had been the case of the Japanese fleet in 1905, served to build chaos in Russia and to hinder optimal economic relations between Europe and the Russian-Siberian space. Exactly as the French revolution, supported by London (see Olivier Blanc, Les hommes de Londres [London's Men], Albin Michel), ruined France, annihilated all its efforts to create its own Atlantic fleet and turn outwards instead of turning to our own territories, made of the mass of French (and Northern African) recruits cannon fodder for the City during the Crimean war, in 1914-1918 and in 1940-45. An outward-oriented France, as Louis XVI wished indeed, would have reaped immense benefits, would have ensured itself a solid presence in the New World and Africa since the XVIII century, and probably would not have lost its Indian agencies. A France turned towards the blue line of he Vosges provoked its own demographic implosion, committed a biological suicide. The worm was in the fruit: after the loss of Canada in 1763, a mistress elevated to the rank of marquise said: «Phoow! Why care about some square miles of snow!» and «After us, the Flood». Great political foresight! It could be compared to that of a meta-politiologist of the 11th arrondissement, who looks down on the few reflections by Guillaume Faye about "Eurosiberia"! At the same time, this declining French monarchy clang to our imperial Lorraine, snatched it from its natural imperial family, a scandal to which the governor of the Austrian Netherlands, Charles de Lorraine, had no time to find remedies; Grand Master of the Teutonic Order, he wanted to finance its re-conquest paying on his own money a well-trained and equipped army of 70,000 men, accurately chosen. His death put an end to this project. This prevented the European armies from disposing of the Lorraine fortress to put an end, some years later, to the revolutionary comedy that blooded Paris and was about to commit the Vendean genocide. Everything to the great benefit of Pitt's services!

At the present stage of our researches, we realise in the first place that the project of recasting and indefectible Euro-Russian alliance is not an anomaly, a whim or an original idea. On the contrary! It is a recurring imperial care since Charles the Great and Otto I! Forty years of Cold War, European division and mediatic dejection tele-guided by the United States made two or three generations of Europeans forget about the achievements of their history.

The roman limes on the Danube


Afterwards, our readings led us to realise that Europe, since the Carolingian era, wanted itself as the heir of the Roman empire and aspired to reconstruct the latter all along the ancient Danubian limes. Rome had the Danube under check from its source to its mouth in the Black Sea by deploying a major and strictly organised river fleet, by building works of art (among which bridges of colossal dimension in those times, with pillars 45 meters high above the bed of the river), improving the technique of boat-bridges for its assaulting legions to cross, by concentrating to the Pannonian pass many well trained legions armed with advanced materials, as well as in the province of Scythia, corresponding to Doubroudja south of the Danube. The aim was to contain the invasions coming from the steppes mostly at the level of the two passage points with no important relieves, that is the Hungarian plain (the "puszta") and the mentioned Doubroudja, at the junction between present Romania and Bulgaria. No empire could blossom in Europe, in the ancient times and in the high Middle Ages, if those passage points were not locked for the non-European peoples of the steppe. Consequently, within the framework of the Holy Alliance of Prince Eugene (see below), it was necessary to get rid of the Turkish Ottoman enterprise, an irruption alien to Europeanness come from the South-East. After the studies of the American Edward Luttwak on the military strategy of the Roman Empire, we realise this one was not simply a circum-Mediterranean empire, centred around the Mare Nostrum, as also a Danubian, or Rhenish-Danubian empire, with a river crossing the whole Europe, where not only a military fleet but also a civilian and commercial fleet cruised, allowing exchanges with the German, Dacian or Slavic tribes of Northern Europe. The coming of the Huns to the Pannonian pass upsets this order in the ancient world. The alien character of the Huns does not allow to turn them into Foederati, as it was the case of the German and Dacian peoples.

The Carolingians wanted to restore the free circulation on the Danube by advancing their pawns in the direction of Pannonia, occupied first by the Avars, then by the Magiars. Charles the Great starts the excavation of the Rhine-Danube channel later called as Fossa Carolina. It is thought that it was used, for a very short time, to envoy troops and materials towards the Noricum and the Pannonia. Charles the Great, in spite of its privileged links with the Roman Pope, ardently looked for being recognised by the Byzantine Basileus and even thought about giving him one of his daughters as a wife. Aix-la-Chapelle, the capital of the German Empire, is built as a cast of Byzantium. His marriage project failed, with no other apparent reason than the personal attachment of Charles to his daughters, whom he wanted to keep with himself by making them abbesses of the great Carolingian abbeys, without the least demureness. This fatherly attachment, then, did not allow to seal a dynastic alliance between the Western German Empire and the Eastern Roman Empire. The Carolingian era finally closed with a check, because of an ill-omened constellation of powers: the French kings, then the Carolingians (and the Pipinides before them) became allied (sometimes unconditionally) to the Roman Pope, enemy of the Irish-Scottish Christianism that sends missions in Danubian southern Germany, and to Byzantium, legal heir of the Roman imperiality. The Papacy would later use the energies of Germany and France against Byzantium, having no other goal than to assert his own supremacy. On the contrary, it should have persisted in the work of peaceful penetration of the Irish-Scottish into the Danubian east, from Bregenz and Salzburg, favouring the peaceful transition from paganism to Irish Christianism instead of giving free hand to zealots payed by Rome like Boniface, since the Irish-Scottish variant of Christianism was not opposed to Byzantine orthodoxy and thus a modus vivendi could be arranged from Ireland to Caucasus. This synthesis would have allowed an optimal setting of the European continent, which would make impossible the return of the Mongolian peoples and the Turkish invasions of the X and XI centuries. Then the Spanish reconquista would have been advanced by six centuries! [8]

After Lechfeld in 955, the organisation of the Pannonian pass

These reflections upon the check of the Carolingians, exemplified by the sterile and criminal bigotry of his descendent Lois the Pious, show that there can be no consistent European civilisation bloc without mastering and organising the territory at the mouths of the Rhine in the Black Sea. Besides, what is absolutely significant, Otto I rises to imperial dignity after the battle of Lechfeld in 955, that allows to regain access to Pannonia after the elimination of the partisans of the Magyar kahn Horka Bulcsu and the rise of the Arpads, who promise to lock up the Pannonian pass as it was done by the Roman legions in the time of the glorious Urbs. Thanks to the German army of emperor Otto I and to the loyalty of the Hungarians to the Arpads' promise, the Danube becomes again either German-Roman or Byzantine (eastward of the "cataracts" of the Iron Door). If Pannonia is no more a passage for the Asian nomads who can dislocate the whole continental political organisation in Europe, ipso facto, imperiality is geographically restored.

Otto I, married to Adelaide, the heiress of the Lombard kingdom in Italy, means to reorganise the Empire by ensuring his check upon the Italian peninsula and negotiating with the Byzantines, despite all the reticence of the Papacy. In 967, twelve years after Lechfeld, five years after his crowning, Otto receives a message from the Byzantine Basileus, Nicephore Phocas, and proposes a joint alliance against the Saracens. This will be tacitly realised with Nicephore's successor, more pliant and far-sighted, Ioannes Tzimisces, who authorises the Byzantine Princess Theophana to marry the son of Otto I, the future Otto II, in 972. Otto II will not be up the task, undergoing a terrible defeat by the Saracens in Calabria in 983. Otto III, son of Theophana who becomes regent awaiting for his majority, will not get to consolidate his double German and Byzantine heritage

The forthcoming reign of Konrad II will be exemplar under this perspective. This salic emperor lives in good relations with Byzantium, whose lands east of Anatolia begin to be dangerously harassed by the Seljuchides raids and the Arabs inroads. The Ottonian heritage in Pannonia and Italy, together with peace with Byzantium, allowed a veritable renaissance in Europe, accompanied by a remarkable economic expansion. Thanks to the victory of Otto I and the inclusion of Arpads' Pannonia in the European imperial dynamics, our continent's economy knew a phase of expansion, demographic growth continued (population increased by 40% between the year 1000 and 1150), the tillage of forests goes at full speed ahead, Europe progressively gains weight on the northern Mediterranean shores and the Italian cities start their formidable process of expansions, while the Rhenish towns become important metropolis (Cologne, Magonza, Worms with its superb roman cathedral).

This expansion and the quiet yet strong reign of Konrad II show that Europe cannot know economic prosperity and cultural expansion unless the space between Moravia and the Adriatic is secured. Otherwise, it is decline and marasmus. Such is the capital historical lesson learnt by Europe's gravediggers: in 1919 at Versailles they want to segment the course of the Danube into as many antagonist states as possible; in 1945, they want to establish a divide on the Danube at the height of the ancient border between Noricum and Pannonia; between 1989 and 2000 they want to set a zone of permanent troubles in the European south-east in order to prevent the East-West suture and they invent the notion of an insuperable civilisation gap between the Protestant-Catholic West and the Orthodox-Byzantine East (see the theses of Samuel Huntington).

In the Middle Ages it is the Rome of Papacy which sinks this expansion by contesting the temporal power of the German Emperors and by weakening thus the European building altogether, deprived of a powerful and well articulated secular arm. The care of the Emperors is to co-operate in harmony and reciprocity with Byzantium, in order to restore the strategic unity of the Roman Empire before the East-West divide. But Rome is the enemy of Byzantium, even before being the enemy of the Muslims. To the tacit but very badly articulated alliance between the German Emperor and the Byzantine Basileus, the Papacy will oppose the alliance between the Holy Siege, the Norman kingdom of Sicily and the kings of France, an alliance which also supports all the seditious movements and the particular and lowly material interests in Europe, once they sabotage the imperial projects.

The imperial dream of the German Emperors


The Italian dream of the Emperors, from Otto III to Frederick II Hohenstaufen, aims at uniting under the same supreme authority the two great communication waterways in Europe: the Danube at the centre of the lands and the Mediterranean at the junction of three continents. Against the national-socialist or folkist ("völkisch") interpretations of Kurt Breysig and Adolf Hitler himself, who never ceased to criticise the Italian orientation of the Middle Age German Emperors, one is forced to realise that the space between Budapest (the ancient Aquincum of the Romans) and Trieste on the Adriatic, having the Italian peninsula and Sicily as their extension, allows – if these territories are united by the same political will – to master the continent and face any external invasion: those of the nomads from the steppe and from the Arabian desert. The Popes contested the Emperors the right to manage for the sake of the continent the Italian and Sicilian affairs, which they deemed to be their own personal apanages, subtracted from any continental, political and strategic logic: by acting this way, and with the complicity of the Normans of Sicily, they weakened their enemy, Byzantium, but at the same time Europe altogether, which could neither gain its foothold in Africa nor sooner free the Iberian peninsula, nor defend Anatolia against the Seljukides, nor help Russia facing the Mongolian invasions. The situation demanded the federation of all forces into a common project.

Because of the seditious plots of the Popes, French kings, Lombard rioters, scrupleless feudals, our continent could not be "membered" from the Baltic to the Adriatic, from Denmark to Sicily (as it was equally wished by another far-sighted spirit of the XIII century, The King of Bohemia Ottokar II Premysl). Since then Europe has not been able to finish any great design in the Mediterranean (hence the slowness of the reconquista, left to the sole Hispanic peoples, and the failure of the Crusades). Europe was so frail on its eastern side that it has been in danger, after the disasters of Liegnitz and Mohi in 1241, to be completely conquered by the Mongols. This fragility – that could have been fatal – was the result of the weakening of the imperial institute due to the intrigues of the Papacy.

About the necessary alliance of the two European imperialities

In 1389 the Serbs are crushed by the Turks in the famous battle of Blackbirds Field [Kosovo Polje], dramatic prelude to the definitive fall of Constantinople in 1453. Europe then gets repelled, its back against the Atlantic and the Arctic. The sole reaction of the continent comes from Russia, a country thus inheriting ipso facto the Byzantine imperiality since the very moment the latter ceases to exist. Moscow becomes then the "Third Rome"; it inherits from Byzantium the title of the Eastern imperiality. There were two empires in Europe, the Western Roman Empire and the Eastern Roman Empire; and again there are two, despite the fall of Constantinople: the Sacred Roman-German Empire and the Russian Empire. The latter goes directly to the offensive, bite the lands conquered by the Mongols, destroys the Tatar kingdoms of the Volga, pushing ahead towards the Caspian. As a consequence, tradition and geopolitics are compelling: the alliance wanted by the German Emperors after Charles the Great between Aix-la-Chapelle and Byzantium must be pursued – but from now on by an imperial German-Russian alliance. The Western (German) Emperor and the Eastern (Russian) Emperor must act de concert in order to push back the enemies of Europe (the two-headed strategic space, as the bicephalous eagle is) and free our lands from the Ottoman and Muslim encircling, with the support of the local kings: kings of Spain, Hungary, etc. Here is the historical, metaphysical and geopolitical reason of every German-Russian alliance.

This alliance will work, despite the French betrayal. France was hostile to Byzantium on behalf of the anti-imperial Popes of Rome. It will take part to the destruction of the fortresses of the Empire in the West and will ally with the Turks against the rest of Europe. Hence the irresolvable contradictions of the French "nationalists": they simultaneously appeal to Charles Martel (an Austrasian of our countries between the Mose and the Rhein, invoked to save ill-organised Neustria and Aquitaine, which – decaying and prey to any kind of dissent – could not withstand the Arab invasion); and those same French nationalists validate the crimes of betrayal of felon kings, cardinals and ministers: Francis I, Henry II, Richelieu, Louis XIV, Turenne – that is, zealots of the Revolution, as if the Austrasian Charles Martel had never existed!

The Austrian-Russian alliance works with the Holy Alliance erected at the end of the XVII century by Eugene of Savoy, who pushes back the Ottomans on all borders, from Bosnia to the Caucasus. The geopolitical intent is to consolidate the Pannonian pass, to activate a Danubian river fleet, to organise a deep defence of the border by units of Croatian, Serbian and Rumanian peasant-soldiers supported by German and Lorrainian colons, to free the Balkans and, in Russia, to take back Crimea and put under check the northern shores of the Black Sea, in order to enlarge the European space to its full Pontian territory. In the XVIII century Leibniz will reiterate this necessity to include Russia into a great European alliance against the Ottoman push. Later, the Holy Alliance of 1815 and the Pentarchy of the beginning of the XIX century will be an extension of the same logic. Bismarck's alliance of the three emperors and his concerted policy with Saint Petersburg, which he never abandoned, are but modern applications of the views of Charles the Great (never realised) and of Otto I, the veritable founder of Europe. Since these alliances ceased to operate, Europe entered a new phase of decline, notably to the benefit of the United States. The Versailles Treaty in 1919 aims at the neutralisation of Germany, while its pendant, the Trianon Treaty, sanctions the partition of Hungary, deprived of its extension in the Tatra mountains (Slovakia) and of its union with Croatia created by king Tomislav, a union later established by the Pacta Conventa in 1102, under the leadership of the Hungarian king Koloman Könyves ("The one who had a crazy love for books"). Versailles destroyed what the Romans had united, restores what the troubles of the dark centuries had imposed on the continent, destroys the work of the Crown of Saint-Etienne who had harmoniously restored the Roman order while respecting the Croatian and Dalmatian peculiarities.

Versailles was above all a crime against Europe since that necessary Hungarian-Croatian harmony in this key geographical zone was destroyed, thus precipitating Europe into a new era of idle troubles to which a new emperor, one day, must necessarily put an end. Wilson, Clemenceau and Poincaré, France and the United States bear the responsibility of this crime in the face of history, as well as the brainless bearers of this ethics of conviction (and consequently of irresponsibility) brought by this laicism of French-revolutionary rehash. Beyond its professed exterior hostility to the Catholic religion, this pernicious ideology acted exactly in the same way as the simoniac Popes of the Middle Ages: it destroyed the optimal organising principle of our Europe, its adepts being blinded by smoky principles and filthy interests, deprived of any historical and temporal depth. Their principles and interest were completely unfit for providing the assizes of a political organisation, let alone an empire.

In the face of this disaster, Arthur Moeller van den Bruck, leading figure of the conservative revolution, launches the idea of a new alliance with Russia, despite the establishment in power of Leninist bolshevism, since the principle of the alliance between the two emperors must stand up and against the desacralisation, horizontalisation and profanation of politics. Count von Brockdorff-Rantzau will apply this diplomacy, what shall lead to the German-Soviet anti-Versailles: the Rapallo agreement signed by Rathenau and Chicherin in 1922. From there we come back to the problematic of "national-bolshevism", that I already evoked in the course of this interview.

In the 1980s, when the development of military strategies, armaments and most of all inter-continental ballistic missiles leads to the acknowledgement that no nuclear war is possible in Europe without the total destruction of the conflicting countries, there appeared the necessity to get out of the impasse and to negotiate in order to bring Russia back into European concerted policy. After perestroika, started in 1985 by Gorbachev, the thaw is announced, hope revives: but it will be soon followed by delusion. The succession of inter-Yugoslav conflicts will block Europe again between the Pannonian pass and the Adriatic, while the mediatic propaganda offices, led by CNN, invent a thousand reasons to deepen the gap between Europeans and Russians.

Block of the European dynamics between Bratislav and Trieste

These historical explanations must lead us to understand who the self-nominated defenders of an Europe without Russia (or against Russia) really are – the papist or masonic gravediggers of Europe, and that their action condemns our continent to stagnation, decline and death, as it did stagnate, decline and waste away from the Huns invasions to the restauratio imperii by Otto I, after the battle of Lechfeld in 955. After the reorganisation of the Hungarian plain and its inclusion in the European orbit, the economic and demographic growth of Europe followed soon. A similar renaissance is whatthey wanted to prevent after the thaw which followed Gorbachev's perestroika, since this geopolitical rule granting prosperity is always valid (for instance, the Austrian economy tripled its commercial turnover in a few years after the dismantling of the Iron Curtain along the Austrian-Hungarian border in 1989). Our enemies know very well the ways of European history. Much better than our own coward and decaying political personnel. They know the point to strike us, block us, strangle us is always there – between Bratislava and Trieste. In order to prevent the reunion of the two Empires and a new period of peace and prosperity, which would make Europe shine from thousands lights and would condemn our competitors to a second-rank role, simply because they do not possess the wide rage of our potentialities, the fruit of our differences and our peculiarities.

Q : What are the concrete positions of European Synergies concerning institutions like the parliament, people's representation, etc. ?


RS : The vision of European Synergies is democratic albeit hostile to all forms of partitocracy – since partitocracy, supposedly "democratic" is in fact the perfect denial of democracy. At the theoretical level European Synergies makes reference to a Russian liberal of the beginning of the century, militant of the Cadet party: Moshe Ostrogovsky. The analysis left by this Russian liberal in the face of the bolshevist revolution lays on an obvious acknowledgement: every democracy should be a system imitating the movement of things in the City. Electoral mechanisms logically aim at giving representation to the effervescences acting within the society, day by day, without subverting anyway the immutable order of politics. As a consequence, the instruments of representations, that is the political parties, must too represent the passing effervescences and never aim to eternity. The malfunctioning of parliamentary democracy stems from the fact that political parties become a rigidly permanent presence within the society, enrolling more and more mediocre people in their ranks. In order to put a remedy to this inconvenient, Ostrogovski suggest that democracy laid on "ad hoc" parties, timely requesting urgent reforms or precise amendments, then proclaiming their dissolution in order to free their personnel, which could the forge new petitioner movements – thus allowing to redistribute the cards and to share the militants into new (similarly provisional) formations. Parliaments would then gather citizens who never would get encrusted in political professionalism. Legislative periods would be shorter, or – as in the beginning of Belgian History or in the United Kingdom of Netherlands from 1815 to 1830 – a third of the assembly would be changed every third part of the legislative period, thus allowing an accelerated circulation of political personnel and the elimination (sanctioned by the urns) of those who proved incompetent; this circulation today exists no more, which – apart from the issue of census vote – gives us a less perfect democracy than in those times. The problem is to prevent the political careers of individuals who would end by knowing no more of real public life.

Weber & Minghetti: for maintaining the separation of the three powers


Max Weber too made some pertinent observations: he noted that the socialist and christian-democrat parties (the German Zentrum) install incompetent figures into the key positions; those take their decision in spite of any good sense, are animated by the ethics of conviction instead of responsibility, and demand the division of political or civil servant posts according to the simple pro-rata of votes, without having to prove their real competence in exercising their functions. The Italian XIX century liberal minister Minghetti very soon perceived how this system would put an end to the separation of the three powers, since the parties and their militants, armed by the ethics of conviction, source of all demagogies, wanted to control and manipulate justice and destroyed every compartimentation between the legislative and the executive powers. The democratic equilibrium among the three powers – originally put as water-tight compartments in order to warrant the citizens' freedom, as devised by Montesquieu – can neither work nor exist anymore, in such a context of hysteria and demagogy. Here we stand today.

European Synergies does not therefore criticise the parliamentary institution in itself, but clearly displays its aversion to any malfunctioning, to any private intervention (parties are private associations, as a matter of facts and as Ostrogovsky recalls) in the recruitment of political personnel, civil servants, etc., to any kind of nepotism (co-optations of the members of the family of a political man or civil servant to a political or administrative post). Only the examination by a totally neutral jury should allow the access to a charge. Any other means of recruitment should be treated as a grave offence.

We also believe that parliaments should not be the simple representative chambers where would sit the chosen members of political parties (that is, of private associations, demanding discipline without authorising any right to tendencies or any personal initiatives by the deputy). Not very citizen is the member of a party, as a matter of fact the majority of them does not own any affiliation card. As a consequence, parties generally represent no more than 8-10% of the people, and 100% of the parliament! The excessive weight of the parties should be corrected by the representation of professional associations and unions, as it was envisaged by De Gaulle and his team when they spoke about the "senate of professions and regions".

The constitutional pattern that Professor Bernard Willms (1931-1991) favoured lays on a three chambers assembly (Parliament, Senate, Economic Chamber). Half the Parliament would be recruited among candidates chosen by the parties and personally elected (no votes for the lists); the other half would be formed by the representatives of the corporative and professional councils. The Senate would be essentially a regional representative organ (like the German or Austrian Bundesrat). The Economic Chamber, similarly organised on a regional basis, would represent the social bodies, including the unions.

The problem is to consolidate a democracy leaning upon the "concrete bodies" of society, and not only upon private associations of ideological and arbitrary nature, as the parties. This idea is close to the definition of "concrete bodies" given by Carl Schmitt. However, every political entity lays on a cultural heritage, which must be taken into account, according to the analysis of Ernst Rudolf Huber, disciple of Carl Schmitt. For Huber a consistent State is always a Kulturstaat, and the state apparatus has the duty to preserve this culture, expression of a Sittlichkeit [ethicity] exceeding the simple limits of ethics to include a wide range of artistic, cultural, structural, agricultural and industrial productions, whose fecundity must be preserved. A more diversified representation, going beyond that 8-10% of party members, allows indeed to better guarantee this fecundity, spread through the whole social body of the nation. The defence of the "concrete bodies" implies the trilogy "community, solidarity, subsidiarity" – the conservative answer, in the XVIII century, to the project of Bodin, aimed at destroying the "intermediate bodies" of the society, i.e. the "concrete bodies" leaving but the individual-citizen alone against the state Leviathan. The ideas of Bodin have been realised by the French revolution and its ghost of the geometrical society – a realisation that started just from the uprooting of professional associations by the Le Chapelier law of 1791. Nowadays the updated resort to the trilogy "community, solidarity, subsidiarity implies giving the maximum of representativity to the professional associations, to the real masses, and to reduce the absolute power of parties and functionaries. In the same way, Professor Erwin Scheuch (Cologne) proposes today a set of concrete measures in order to free the parliamentary democracy from all misguidings and corruption that suffocate it. [9]

Bibliographical notes


[1] More on this subject: see 1) Thierry MUDRY, Le ‘socialisme allemand': analyse du télescopage entre nationalisme et socialisme de 1900 à 1933 en Allemagne, in: Orientations, n 7, 1986; 2) Thierry MUDRY, L'itinéraire d'Ernst Niekisch, in: Orientations, n 7, 1986.

[2] More on this subject: 1) Robert STEUCKERS, "Repères pour une histoire alternative de l'économie", in: Orientations, n 5, 1984; 2) Thierry MUDRY, "Friedrich List: une alternative au libéralisme", in: Orientations, n 5, 1984; 3) Robert STEUCKERS, "Orientations générales pour une histoire alternative de la pensée économique", in: Vouloir, n 83/86, 1991; 4) Guillaume d'EREBE, "L'Ecole de la Régulation: une hétérodoxie féconde?", in: Vouloir, n 83/86, 1991; 5) Robert STEUCKERS, L'ennemi américain, Synergies, Forest, 1996/2ième éd. (. (contains some reflections on the ideas of Michel Albert); 6) Robert STEUCKERS, "Tony Blair et sa ‘Troisième Voie' répressive et thérapeutique", in: Nouvelles de Synergies européennes, n 44, 2000; 7) Aldo DI LELLO, "La ‘Troisième Voie' de Tony Blair: une impasse idéologique. Ou de l'impossibilité de repenser le ‘Welfare State' tout en revenant au libéralisme", in: Nouvelles de Synergies eruopéennes, n 44, 2000.

[3] More on this subject: Guillaume FAYE, "A la découverte de Thorstein Veblen", in: Orientations, n 6, 1985.

[4] More on this subject: Ange SAMPIERU, "La participation: une idée neuve?", in: Orientations, n 12, 1990-91.

[5] More on this subject: Charles CHAMPETIER, "Alain Caillé et le MAUSS: critique de la raison utilitaire", in: Vouloir, n 65/67, 1990.

[6] More on this subject: Robert STEUCKERS, "La philosophie de l'argent et la philosophie de la Vie chez Georg Simmel (1858-1918)", in: Vouloir, n 11, 1999.

[7] More on this subject: 1) Robert STEUCKERS, "L'itinéraire philosophique et poétique de Friedrich-Georg Jünger", in: Vouloir, n 45/46, 1988; 2) Robert STEUCKERS, Friedrich-Georg Jünger, Synergies, Forest, 1996.

[8] More on this subject: Robert STEUCKERS, "Mystères pontiques et panthéisme celtique à la source de la spiritualité européenne", in: Nouvelles de Synergies européennes, n 39, 1999.

[9] More on this subject: 1) Ange SAMPIERU, "Démocratie et représentation", in: Orientations, n 10, 1988; 2) Robert STEUCKERS, "Fondements de la démocratie organique", in: Orientations, n 10, 1988; 3) Robert STEUCKERS, Bernard Willms (1931-1991): Hobbes, la nation allemande, l'idéalisme, la critique politique des ‘Lumières', Synergies, Forest, 1996; 4) Robert STEUCKERS, "Du déclin des ours politiques", in: Nouvelles de Synergies européennes, n 25, 1997 (on the theses of Prof. Erwin Scheuch); 5) Robert STEUCKERS, "Propositions pour un renouveau politique", in: Nouvelles de Synergies européennes, n 33, 1998 (at the end of the article, about the theses of Ernst Rudolf Huber); 6) Robert STEUCKERS, "Des effets pervers de la partitocratie", in: Nouvelles de Synergies européennes, n 41, 1999.

Bibliography:

Jean-Pierre CUVILLIER, L'Allemagne médiévale, deux tomes, Payot, tome 1, 1979, tome 2, 1984.
Karin FEUERSTEIN-PRASSER, Europas Urahnen. Vom Untergang des Weströmischen Reiches bis zu Karl dem Grossen, F. Pustet, Regensburg, 1993.
Karl Richard GANZER, Het Rijk als Europeesche Ordeningsmacht, Die Poorten, Antwerpen, 1942.
Wilhelm von GIESEBRECHT, Deutsches Kaisertum im Mittelalter, Verlag Reimar Hobbing, Berlin, s.d.
Eberhard HORST, Friedrich II. Der Staufer. Kaiser - Feldherr - Dichter, W. Heyne, München, 1975-77.
Ricarda HUCH, Römischer Reich Deutscher Nation, Siebenstern, München/Hamburg, 1964.
Edward LUTTWAK, La grande stratégie de l'Empire romain, Economica, 1987.
Michael W. WEITHMANN, Die Donau. Ein europäischer Fluss und seine 3000-jährige Geschichte, F. Pustet/Styria, Regensburg, 2000.
Philippe WOLFF, The Awakening of Europe, Penguin, Harmondsworth, 1968.

dimanche, 14 mars 2010

Entrevue avec Marco Tarchi, chef de file de la "Nuova Destra" italienne

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Entrevue avec Marco Tarchi, chef de file de la «Nuova Destra» italienne

 

propos recueillis par Jürgen Hatzenbichler et Helena Pleinert lors de l'Université d'été du GRECE (1990) à Roquefavour en Provence

 

Qu'est-ce que la «nuova destra» en Italie? Quels objectifs poursuit-elle? Comment se présente-t-elle globalement?

 

campo-hobbit1.jpgLa nouvelle droite italienne est essentiellement un mouvement de pensée qui s'est constitué à partir de la seconde moitié des années 70, en partie sous l'influence de la nouvelle droite française, en partie à la suite de l'évolution de quelques centaines de jeunes gens, déçus par leurs expériences au sein des droites ou des extrêmes droites italiennes. C'est aujourd'hui un groupe qui travaille surtout dans les milieux culturels et intellectuels, en éditant toute une série de publications, revues et livres, dont, surtout, notre mensuel Diorama letterario et notre revue théorique trimestrielle Trasgressioni. Ce groupe tente de jeter les fondations d'une nouvelle idéologie qui s'oppose simultanément à la pensée libérale, aujourd'hui hégémonique en Europe, et à ce qui reste encore du vieux rêve marxiste. Ce groupe se divise en deux sous-groupes majeurs: un groupe militant de quelque 150 personnes, qui travaille sans relâche à élaborer cette idéologie nouvelle, et un groupe plus vaste de sympathisants (1500 personnes), qui diffusent les résultats des travaux des précédents dans leur milieu. Ces sympathisants diffusent donc les revues et les livres que nous éditons.

 

Quand on entend parler de la «droite» italienne, chez nous, en Autriche, c'est généralement des «néo-fascistes» du MSI ou de la Destra Nazionale qu'il s'agit. Comment la nuova destra se différencie-t-elle de ce néo-fascisme? Y a-t-il entre elle et eux des frontières nettes, bien distinctes?

 

Certainement. Les frontières sont bien nettes entre nous et les néo-fascistes du MSI, même si la plupart d'entre nous ont connu une expérience très décevante dans ce mouvement. Les différences sont nombreuses et je ne pourrai vous en citer que quelques-unes. Premièrement, nous, garçons et filles de la nuova destra, n'avons aucune attitude nostalgique. Pour nous, le fascisme et le national-socialisme sont des phénomènes qui doivent être jugés historiquement et qui ne peuvent en aucun cas servir de modèles de référence dans le débat politique et culturel actuel. Ensuite, nous n'acceptons pas les positions nationalistes et chauvines qui ont toujours caractérisé les mouvances de droite et d'extrême-droite en Italie. Notre vocation est européenne. Notre volonté est de nous ouvrir au monde. Ce qui nous détache également, vu d'un autre angle, d'une autre perspective, du monde de l'extrême-droite, c'est notre refus de l'anti-modernisme droitier. Nous essayons, au contraire, d'être sans cesse confrontés à cette modernité. Nous essayons de voir s'il n'y a pas moyen d'affronter de façon différente les défis de la modernité. Une façon qui ne soit ni matérialiste ni sécularisée ni utilitariste ni individualiste à la manière du libéralisme aujourd'hui dominant. C'est la raison pour laquelle nous n'acceptons pas les attitudes occidentalistes et atlantistes, typiques des mouvements d'extrême-droite. De plus, nous rejettons les attitudes militaristes et autoritaires. Pour nous, le problème de recréer un sentiment communautaire d'appartenance ou des identités collectives est un problème d'épanouissement de l'esprit humain et non pas d'obligations émanant d'une autorité quelconque, comme tente de la faire accroire les mouvements néo-fascistes. Il faut encore ajouter que, dans le cadre de notre européisme, nous voulons remettre en question l'Etat-Nation et redistribuer les charges politiques entre des régions culturelles autonomes en Europe, ce qui nous éloigne diamétralement des positions xénophobes et chauvines de l'extrême-droite italienne.

 

Cette idée d'autonomie, que vous venez d'évoquer, me suggère d'emblée une question: quelle est la position de la nuova destra italienne vis-à-vis de l'ethnie allemande du Tyrol du Sud?

 

vocedellafogna.jpgNous estimons que les attitudes de toutes les parties en présence au Tyrol du Sud sont excessives. Nous sommes évidemment en faveur de la reconnaissance des droits de tous les groupes ethniques, de leur droit à vivre leur propre culture dans leur territoire propre. En même temps, nous croyons que le rapport qui existe aujourd'hui entre les communautés allemande et italienne du Tyrol du Sud doit se définir à partir d'une volonté réelle d'organiser une coexistence sur base de valeurs communes. Une telle harmonie existe en Finlande entre les communautés finnoise et suédoise ainsi que dans d'autres régions d'Europe. Il faut instituer un véritable bilinguisme des deux côtés. Il faut à tout prix se débarrasser de l'idée qui veut que lorsque l'on a pour voisins des gens différents de nous, ils sont automatiquement des ennemis. Il faut au contraire penser que tous ont le droit de vivre leurs traditions culturelles, de les maintenir, en s'appréciant mutuellement. Ce qui ne signifie pas, évidemment, que mœurs et styles de vie doivent se mélanger entre Italiens et Allemands, mais je ne pense pour autant qu'il faut que s'institue une sorte d'apartheid comme le voudraient, paraît-il, les uns et les autres. Notre position est très proche de celle de certains Verts du Tyrol du Sud, surtout celle de leur chef, Alexander Lange, qui, lui, s'est toujours prononcé pour le respect des droits des différentes cultures, en refusant tout affrontement et tout apartheid. Lui, le garmanophone, et moi, l'italophone, appartenons à la macro-culture européenne et avons intérêt à créer les conditions d'une coexistence harmonique et continue. Il n'y a aucune raison pour refuser l'autre, de manière primaire.

 

Ce qui nous a beaucoup intéressé, en Autriche et en Allemagne, ce sont les débats et les colloques qui ont réunis des protagonistes et de la nouvelle droite et de la nouvelle gauche. Quels ont été les thèmes de ces débats?  

Le thème principal que nous avons débattu, portait sur la crise de la modernité, c'est-à-dire la crise des institutions politiques et culturelles dans la réalité d'aujourd'hui, l'insuffisance des idéologies de droite, du centre et de gauche à nous formuler des projets d'avenir, à nous donner l'espoir de sortir de cette crise. Ce n'est pas un hasard si les premiers intellectuels de gauche ou d'extrême-gauche que nous avons rencontré publiquement sont des gens qui, à partir d'une critique des positions du marxisme classique, ont beaucoup lu et médité des auteurs comme Nietzsche ou Heidegger ou d'autres auteurs, qu'ils appellent les «philosophes de la pensée négative» en voulant les opposer aux philosophes de la «culture bourgeoise». Et c'est à l'initiative de quelques-uns des plus importants de ces intellectuels, comme Massimo Cacciari ou Giacomo Marramao ou Ferugio Masini, spécialiste très connu de Nietzsche et Heidegger, que nous avons pu confronter nos idées et nos espoirs et réfléchir à la possibilité de dépasser et la culture libérale marchande et les projets de socialisme réel totalitaire, qui se sont réalisés dans l'Est de l'Europe. Mais nous avons trouvé aussi d'autres interlocuteurs à gauche, parmi les Verts ou les animateurs d'autres mouvements sociaux, équivalents aux Bürgerinitiativen allemandes, qui, tous, souhaitent porter le débat sur le terrain de la qualité de la vie. Un terrain assez éloigné de celui de la défense des intérêts, terrain de la politique actuelle. Dans ce sens, eux comme nous essayons de faire revivre la participation du peuple à la chose politique, une participation venue d'en-bas, de la base. Notre objectif commun est donc de trouver des formes d'expression institutionnelles qui ne se limitent pas au Parlement, aux partis classiques, etc. Cette gauche non-conformiste et la nuova destra essayent donc, ensemble, de retrouver cette dimension de «mouvement populaire», dynamique, reflet de l'effervescence permanente de la socialité. Nous voulons par là lancer une formule politique différente. Cette nécessité politique fait que nous nous retrouvons entre personnes qui, il y a vingt ans, étaient farouchement hostiles les unes aux autres. Nous avons été profondément déçus de nos expériences dans les mouvements de la droite autoritaire. Eux ont abandonné, déçus, un marxisme figé, braqué sur l'idéologème de la lutte des classes. Notre coopération vise à trouver une voie de synthèse, qui n'est pas une voie «ni droite ni gauche» mais une voie qui soit à la fois celle de la droite et de la gauche. Nous pensons donc en terme de conjonction (et...et), non de disjonction (ou bien...ou bien) ou d'exclusion (ni...ni). Nous voulons additionner ce qu'il y avait de meilleur dans les intuitions de la droite et de la gauche de ce siècle. Pour nous, il est très important de reprendre en compte dans un sens critique, non nostalgique, toutes les tentatives qui, depuis le début du siècle et même dans les années 30, ont essayé de transcender les idéologies résiduelles du XIXième siècle et de trouver des réponses allant au-delà du matérialisme contemporain. Pour parfaire une telle opération, nous devons puiser aussi bien à droite qu'à gauche.

 

vocefogna.jpgJe voudrais maintenant vous poser une question d'ordre pratique... Chez nous, il est encore impensable d'amorcer un débat public entre gens de droite et gens de gauche. Comment avez-vous réussi ce coup de maître sur le plan pratique?

 

La différence qu'il y a entre la situation italienne et la situation allemande/autrichienne, c'est que nous n'avons pas de «complexe national» découlant des événements de l'entre-deux-guerres et de la dernière guerre. Le fascisme a été digéré assez facilement, surtout par les intellectuels. Ensuite, le mouvement communiste a eu beaucoup plus d'importance chez nous, tant pour les intellectuels que pour la masse du peuple, qu'en Allemagne ou en Autriche. Dans cette masse de citoyens italiens, un bon million de personnes ont été fortement déçues par l'autoritarisme communiste. Elles ont remis en question leur façon de pensée, y compris le style dur de l'anti-fascisme militant; elles ont opéré leur auto-critique et se sont dit que, avant de prendre une position, il faut discuter avec les autres. La crise de la gauche, très forte, et notre propre crise, due à notre déception d'avoir perdu tant de temps à militer dans les rangs des droites, permettent de confronter nos positions, de nous expliquer les uns aux autres le sens de nos engagements, de critiquer nos omissions. La première fois que nous avons organiser un débat public avec un intellectuel de gauche très connu, Massimo Cacciari  —c'était en novembre 1982—  il y a eu un scandale, bien sûr. Par exemple, le quotidien du parti communiste, L'Unitá, a fait paraître plusieurs articles contre ce colloque. Il faut savoir que ce philosophe célèbre était aussi, à l'époque, député du parti communiste. Il n'a cependant pas été exclu et beaucoup d'intellectuels ont salué ce colloque qui, disaient-ils, inaugurait une ère de discussions fécondes entre personnes affables et civilisées. L'expérience, pensaient-ils, devait être renouvelée. Après cette première expérience, que les uns jugeaient dangereuse et les autres positives, nous avons organisé des colloques avec des personnalités socialistes, écologistes, progressistes et universitaires. Il faut dire qu'en Italie, tous les mythes progressistes de la culture de gauche ont été démontés par les intellectuels de la gauche déçue. Et, comme nous, garçons et filles de la nuova destra, sommes perçus comme les seuls qui ont eu le courage de critiquer les manies de la droite, les intellectuels de gauche développent une certaine curiosité à notre égard. C'est pourquoi ces débats ont eu lieu.

 

Nous avons également dialogué avec un personnage que vous connaissez sans doute en Autriche, le sociologue socialiste Acquaviva, qui a écrit un livre sur le Tyrol du Sud avec Gottfried Eisenmann, où il réclamait la partition de la province. Cette succession ininterrompue de débats est un réflexe à l'encontre de la situation des années 70, les années dites «de plomb», où tout débat était impossible vu le recours incessant à la terreur, tant à gauche qu'à droite. Cette situation était intenable. Ce fut comme une libération de pouvoir enfin dialoguer, se parler, se voir, après des années et des années de bagarres. Cette évolution a été naturelle et nous pouvons, bien sûr, poursuivre ce dialogue, chacun gardant ses positions dans une atmosphère de fair-play. Une telle situation se vérifiera dans tous les pays où il y a eu un mouvement communiste important qui, aujourd'hui, s'effondre. C'est sans doute pourquoi, en Autriche et en Allemagne, où la situation politique est très différente, cette évolution sera plus difficile. Mais je crois bien que cela viendra... Surtout à la suite de ce qui se passe en Europe de l'Est... Toutes les positions devront être redéfinie, reclassées.

 

J'essaye de comparer un petit peu la situation italienne à la situation autrichienne ou allemande; chez nous, pour les intellectuels déçus par la gauche, le grand problème, la crise, le complexe, ce n'est pas, bien sûr, Hitler ou le problème juif, etc,  —choses certes importantes—  mais la honte de leur passé stalinien. Ces intellectuels cultivent un complexe à l'égard de tout ce qui a été de gauche et ils veulent à tout prix prendre distance.

 

Ces débats n'ont-ils lieu qu'entre intellectuels ou existe-t-il des groupements politiques qui incarnent ces idées synthétiques nouvelles?

 

Il est évidemment plus facile d'organiser des colloques entre intellectuels. Cela n'empêche qu'il y a eu quelques impacts politiques directs; je citerai comme exemple la revue officielle du parti socialiste italien qui nous a offert ses colonnes pour débattre des problèmes soulevés par la crise de la démocratie moderne. J'y ai publié un article dans ce contexte. Pour ce qui concerne les autres mouvements, nous avons plus de chances de débattre avec les Verts. Nous avons eu également des contacts avec Lotta Continua, l'un des mouvements les plus radicaux de l'extrême-gauche italienne. D'anciens militants de ce groupe ont même collaboré à nos revues. Quant au parti communiste, sa situation actuellement est si complexe qu'il faut mieux attendre les évolutions qui surviendront immanquablement. Il me semble inutile d'aller y chercher des interlocuteurs aujourd'hui, avec la situation de confusion que nous connaissons. Outre les milieux de gauche, certains mouvements de renouveau catholique ont accepté de dialoguer avec nous. Ainsi, à Padoue, il y a deux ans, nous avons débattu publiquement, devant plusieurs centaines de personnes, avec le leader vert Alexander Lange, dont je viens de parler, et un responsable de Communione e liberazione, association liée au mouvement de jeunesse catholique qui conteste la démocratie chrétienne officielle et ses positions. Le thème de ce colloque était le refus de l'individualisme, de la société marchande, et la possibilité de créer de nouvelles formes de solidarité afin de reconstituer une sorte d'humus social et donc de dépasser le stade égoïste qui suscite conflits sur conflits à tous les niveaux sociaux.

 

En fait, vous cherchez à fonder un nouveau sentiment communautaire. La modernité est en crise. Il y a un philosophe italien, Julius Evola, qui nous a parlé d'un retour à la Tradition. A votre avis, quelle est l'importance d'Evola dans la pensée d'aujourd'hui?

 

Evola a une signification en tant que témoin de cette crise de la modernité. Son œuvre nous permet de comprendre quelles sont les faiblesses de la modernité, quels sont les fondements de la crise de la spiritualité, quelles sont les raisons de l'avènement de la société marchande matérialiste, etc. Lire Evola est également utile pour étayer une critique des mœurs modernes. Mais en revanche, dans ses livres, on trouve assez peu d'éléments positifs concrets pour construire une pratique véritable de l'anti-modernité. Evola s'est borné à déconstruire de fond en comble les assises de la modernité mais il n'a pas répondu à la modernité ni indiqué de modèle alternative. Il est tombé dans le piège du déterminisme de la thèorie des cycles. Il envisageait seulement de faire s'achever le plus vite possible le cycle de la décadence pour pouvoir rebâtir quelque chose après cette tabula rasa. Or cette attitude, qui consiste à attendre une catastrophe finale, ne permet pas de vivre réellement la crise du monde moderne. Nous, praticiens de la métapolitique qui voulons demeurer en prise avec tout le réel, sommes confrontés à l'impératif de vivre dans ce monde, dans cette crise, et d'essayer de lui imprimer notre sens, d'y ancrer les valeurs que nous portons en nous. Si l'on se borne à ne lire qu'Evola, on risque de basculer dans le rêve stérile ou, pire, dans le sectarisme de style soit «guerrier» soit «aristocratique» (c'est-à-dire avec la volonté d'être ne dehors du monde), ce qui apparaît complètement dément et ridicule pour nos contemporains, qui n'arrivent pas à savoir de quoi il s'agit. De plus, il est arrivé que certains «évolomanes» aient dévoyé des jeunes gens dans des formes tout à fait stériles de combat politique qui, parfois mais rarement, ont débouché sur une hyper-violence terroriste, et, le plus souvent, dans les circuits extra-politiques de la magie, du spiritisme, de l'ésotérisme pur, du n'importe-quoi. Je pense, au vu de tout cela, qu'il faut lire Evola mais comme le témoin d'une époque et non comme un prophète.

 

Mais où trouvez-vous donc l'équilibre, vous, les hommes et les femmes de la Nuova Destra: d'un côté vous voulez la démocratie à la base (la Basisdemokratie) et, de l'autre, vous valorisez et exaltez l'élite...

 

Aujourd'hui, il est très difficile de parler d'«élite», parce que, bien sûr, les élites se créent à partir des valeurs centrales, fondamentales, d'une société. Donc nous devons en premier lieu poser le problème du changement de la mentalité collective. Nous devons d'abord exercer une influence sur la mentalité collective. Et nous préoccuper de ceux qui manipulent cet imaginaire collectif, sur ceux qui détiennent les média, qui agissent dans les milieux du journalisme et de la culture, etc. Je crois qu'il est important de dire aux gens qu'il est possible de construire des valeurs alternatives, différentes de celles que nous vivons actuellement. Mais ce n'est que lorsque ce processus de transformation de la mentalité collective sera bien avancé que l'on pourra à nouveau se poser la question des élites. D'un point de vue théorique, on peut dire qu'une démocratie de base, une démocratie organique, dans laquelle le peuple pourrait reprendre peu à peu sa signification, retrouver petit à petit son unité, est la matrice idéale d'une élite non coupée du peuple, entretenant avec lui des liens multiples, contrairement à ce qui se passe aujourd'hui, quand les partis politiques sont devenus pratiquement des machines à produire des élites désancrées, non constituées des meilleurs mais des plus obéissants à l'appareil. Je crois qu'aujourd'hui, on peut très bien travailler à réveiller l'intérêt des gens, par exemple, en évoquant le combat pour la qualité de la vie, pour la sauvegarde de l'environnement, pour ˇˇˇˇ

niste, sa situation actuelle est si complexe qu'il vsituation de confusion que y règnessenrêt des gens:ss la redécouverte du sens du sacré, pour la reconstruction des solidarités collectives, pour le refus des égoïsmes sociaux, etc. Ce travail de réveil peut parfaitement s'accompagner d'une volonté de reconstruire les élites. Mais cette reconstitution doit s'accomplir a postriori; le premier pas doit être la restauration de la démocratie de base car, sinon, les partis politiques, la partitocratie, empêcheront toute recréation d'élites échappant à leur contrôle.

 

En générale, c'est la gauche qui croit détenir le monopole de la démocratie de base. Evidemment, en Italie, vous avez tellement de partis, votre sphère politique est instable et parfois, Autrichiens et Allemands, s'étonnent, amusés, de la multiplicité des initiatives politiques italiennes... Quelle est la signification des partis pour la société italienne?

 

dioramalett.jpgLa signification des partis dans la société italienne aujourd'hui? Nous devons d'abord constater une importante désaffection de la population vis-à-vis des partis. J'en veux pour preuve le taux d'abstentions élevé lors des dernières élections municipales et régionales de mai 1990 ainsi que le vote pour les ligues régionalistes, qui refusent le système institutionalisé des partis, et pour les mouvements anti-institutionnels. Nous constatons donc un refus populaire de la domination des partis, alors que, malheureusement, le système italien est de plus en plus contrôlé par les partis. Il existe un mot que l'on utilise beaucoup en Italie, dont je ne connais pas la traduction ni en français ni en allemand, qui la lottizazione. Vocable qui désigne, en tous domaines, le partage entre les partis des postes de fonctionnaires à pourvoir. Ce qui permet de se ménager une clientèle ou d'influencer la télévision, la presse, les institutions universitaires, les banques, certains secteurs de l'économie, etc. Comme il y a, d'une part, accroissement incessant de la puissances des lobbies et, d'autre part, désaffection du public vis-à-vis des partis pourvoyeurs en personnel de ces mêmes lobbies, je crois qu'il est désormais possible d'organiser cet espace d'intersection où errent des masses d'électeurs qui ne croient plus aux messages idéologiques des partis ou sont mécontents de se voir exclus de certains emplois, en dépit de leurs qualités professionnelles.     ement incessant de la puissance

 

De nouveaux mouvements sociaux doivent exploiter cette situation pour recréer une sorte de rapport direct des citoyens avec la politique, avec la vie sociale, en essayant de circonvenir les partis, du moins dans certains secteurs. Le scénario que l'on pourrait avoir demain serait marqué par l'apparition de nouveaux mouvements, qui ne seraient ni de droite ni de gauche ni du centre, tout en étant porteurs de différentes idéologies, et qui seraient tous d'accord pour écarter les vieux partis de la gestion du pouvoir. Ce renouveau constitue à mes yeux un combat assez intéressant. Aujourd'hui, c'est sans doute encore trop tôt pour l'amorcer mais demain les choses pourraient changer. La crise d'aujourd'hui pourra s'amplifier, dans le sens où les distorsions de la modernité deviendront insupportables, tant dans le domaine de l'économie que dans celui de l'écologie ou de la culture. Une quantité de phénomènes se manifestent déjà de nos jours: songeons à l'environnement, à l'émigration, à la perte d'identité de certaines cultures, aux problèmes de croissance économique car nous ne croyons pas que la croissance économique du capitalisme industriel durera jusqu'à la fin des temps. Des difficultés surgiront inévitablement: nous n'allons pas nécessairement vers des lendemains chantants. La situation confortable dont bénéficient les partis risque de disparaître. Le terrain glisse sous leurs pieds, il est instable.

 

La nuova destra et la nuova sinistra ont-elles un projet commun pour l'Europe? Par exemple, une Europe des régions, une Europe articulée autour de la démocratie de base?

 

Oui. On peut dire que depuis quelques années, les nouvelles droites européennes, qui ne revendiquent pas toutes l'étiquette de «nouvelle droite», se retrouvent autour d'une série de thèmes et de propositions. Nous sommes tous convaincus, notamment, que notre destin est un destin continental où les querelles comme celle du Tyrol du Sud, que nous avons évoquée tout à l'heure, n'auront plus de raisons d'exister. Ainsi, si l'on parle de «régions culturelles», d'ethnies, de coexistence entre des cultures différentes, etc., nous pourrions très très bien nous entendre et donc organiser petit à petit, en gardant chacun nos spécificités, notre culture, une sorte de mouvement de conscience collective, appelé à se renforcer et à devenir une véritable école de pensée, qui, elle, n'aura pas de limites. Qui pourra souder en une communauté de pensée des hommes et des femmes venus de tout le continent, du Portugal à la Russie-Sibérie. Ce qu'il faut faire aujourd'hui, c'est réflechir à la nouveauté fondamentale de la nouvelle droite, de mettre l'accent sur le terme «nouvelle» et non plus sur le terme «droite». Sinon, nous traînerons encore l'héritage des courants de pensée vétustes et vermoulus des années 50 et 60 qui continuent, envers et contre tout, à répéter les mêmes slogans et à appréhender le réel au départ de clivages révolus. Vouloir restaurer les nationalismes chauvins participe de ces archaïsmes de la pensée... C'est à nous, à notre génération, que revient le devoir de dépasser définitivement ces vieilleries. Je pense que ce qui se fait actuellement dans les revues de la nouvelle droite en Europe est important. Car ce qui s'écrit en France, en Italie, en Espagne, en Belgique, en Allemagne, en Yougoslavie, en Grèce, en Pologne, en Russie, en Grande-Bretagne, en Hongrie, etc. donne déjà l'idée d'une unité, au moins intellectuelle, du continent européen. En partant de ce constat, nous avons deux choses à faire: nous traduire mutuellement et ne pas revenir en arrière car le passé est le passé et il faut bâtir du neuf, un futur commun. Il faut que nous parlions dans nos publications des revues étrangères et de nous réunir de temps à autre pour parler des mêmes problèmes, pour confronter nos divergences. Il faut traduire et publier au maximum pour faire connaître aux Allemands ce que pensent les Italiens ou les Français, aux Italiens ce que pensent les Belges ou les Autrichiens, les Yougoslaves ou les Grecs... Voilà ce qui est important...

 

Revenons un peu en arrière. Le passé, en Allemagne et en Autriche, est un gros problème. On le refoule constamment. Vous nous dites qu'en Italie, ce problème n'existe plus. Ou qu'il est nettement moindre. Quelle est la différence entre le refoulement du fascisme et le refoulement du national-socialisme?

 

La différence? Elle se situe, à mon sens, dans l'acceptation des thèses d'un grand historien italien, Renzo de Felice, qui, aujourd'hui, réalise un travail colossal sur la vie de Mussolini et toute l'histoire du fascisme. Renzo de Felice est un homme de gauche, d'origine juive, un socialiste, qui, donc, n'était pas d'emblée enclin à être un nostalgique de l'époque fasciste. A la lecture de ses œuvres, on s'est rendu compte que les vingt années de régime fasciste en Italie n'ont pas été simplement des années où a triomphé le régime autoritaire mais des années où il s'était passé beaucoup d'autres choses. Il y a eu des réalisations sociales, un renouvelement des structures administratives de l'Etat, qui ont été considérablement modernisées. Les Italiens n'ont nullement vécu dans un goulag pendant vingt ans mais ont eu la possibilité de participer à la vie politique et culturelle de leur époque. Bien sûr, il y avait des problèmes: la liberté était restreinte, etc. Dans les années 70, les interprétations globales de Renzo de Felice, ses investigations tous azimuts, ont suscité d'énormes débats; aujourd'hui, presque plus personne ne conteste leur validité. C'est la raison pour laquelle nous pouvons dire que le passé a été digéré en Italie, dans le sens où l'opinion a compris que le fascisme était une partie de l'histoire italienne, partie que la plupart des citoyens refusent désormais, mais qui est considérée comme révolue et surmontée. Dans le cas de la communauté allemande en général, le phénomène de digestion du national-socialisme sera plus long. Car il y a le problème de l'élimination de la commnauté juive d'Europe. Je crois cependant que le débat sur le national-socialisme ne pourra être éludé et devra être replacé dans un autre contexte. Personnellement, je travaille dans le domaine de la science politique et je constate que de plus en plus d'auteurs actifs dans les universités américaines adoptent vis-à-vis du national-socialisme une attitude nouvelle, qui n'est plus celle du rejet systématique ou de la haine. Je pense que cela annonce la tendance future des sciences historiques et politiques. Malheureusement pour vous, les Allemands et les Autrichiens seront les derniers à accepter ces nouvelles méthodes de travail. Mais qu'ils sachent bien qu'Outre-Atlantique, le national-socialisme est d'ores et déjà «historiciser» de la même façon que le fascisme italien, à la suite des études de Renzo de Felice. L'affaire Nolte, il y a quelques années, est un fait intéressant. Nolte a essayé d'introduire dans l'historiographie allemande contemporaine les méthodes anglo-saxonnes, qui font littéralement passer le passé. Je ne crois pas que les rétentions allemandes soient un problème de manipulation médiatique ou idéologique mais un problème de «lavage de cerveau», de Charakterwäsche, comme le disait il y a quelques années Caspar von Schrenck-Notzing. Les Allemands sont colonisés psychologiquement depuis la fin de la deuxième guerre mondiale. Mais la construction de l'Europe, et son renforcement, passe par le dépassement de ces blocages, de ces complexes, parce que la vaste communauté germanophone doit jouer un rôle-clef dans l'Europe de demain. Il sera donc impossible de poursuivre ce chantage continu, de faire sans cesse de la surenchère à propos du passé allemand. Je crois donc que tôt ou tard, le problème sera résolu. Dans le cadre de la Grande Europe en gestation, le problème sera digéré définitivement. Il faudra certes attendre encore quelques années. Il serait intéressant, dans ce sens, que les universitaires allemands se penchent sérieusement sur les travaux effectués à l'étranger sur le national-socialisme. Cela accelèrerait bien des choses.

 

Monsieur Tarchi, puis-je vous demander quelques précisions sur votre formation universitaire?

 

J'ai presque 38 ans. Je suis chargé de recherches à l'université de Florence, au département des sciences politiques. Je m'occupe plus particulièrement des problèmes de la crise des régimes démocratiques pendant le premier après-guerre, soit les années 20 et 30. Je dirige deux revues de la nouvelle droite italienne, Diorama Letterario et Trasgressioni. Je traduis également des livres dans le domaine des sciences politiques.

 

Monsieur Tarchi, nous vous remercions de nous avoir accordé cet entretien.

vendredi, 19 février 2010

Der Engel der Vernichtung

Der Engel der Vernichtung
Angriff gegen den aufklärerischen Optimismus, verdunkelt von Kraftworten: Zum 250. Geburtstag von Joseph de Maistre

Günter Maschke - Ex: http://www.jungefreiheit.de/ 

JMaistre.jpgLa neve sulla tosta, ma il fuoco nella bocca!", rief ein begeisterter Italiener aus, der das einzige überlieferte Portrait Joseph de Maistres betrachtete, das kurz vor dessen Tode entstand. Das Haupt weiß, wie von Schnee bedeckt und aus dem Munde strömt Feuer: De Maistre gehört zu den wenigen Autoren, die mit zunehmenden Jahren stets nur radikaler und schroffer wurden und sich der sanft korrumpierenden Weisheit des Alters entschlungen, gemäß der man versöhnlicher zu werden habe und endlich um die Reputation bemüht sein müsse. Fors do l'honneur nul souci, außer der Ehre keine Sorge, war der Wahlspruch des Savoyarden, und zu seiner Ehre gehörte es, immer unvermittelter, schonungsloser und verblüffender das Seine zu sagen.

Der Ruhm de Maistres verdankt sich seinen Kraftworten, mit denen er den ewigen Gutmenschen aufschreckt, der sich's inmitten von Kannibalenhumanität und Zigeunerliberalismus bequem macht. "Der Mensch ist nicht gut genug, um frei zu sein", ist wohl noch das harmloseste seiner Aperçus, das freilich, wie alles Offenkundige, aufs Äußerste beleidigt. Beharrliche Agnostiker und schlaue Indifferenzler entdecken plötzlich ihre Liebe zur Wahrheit und erregen sich über den kaltblütigen Funktionalismus de Maistres, schreibt dieser: "Für die Praxis ist es gleichgültig, ob man dem Irrtum nicht unterworfen ist oder ob man seiner nicht angeklagt werden darf. Auch wenn man damit einverstanden ist, daß dem Papste keine göttliche Verheißung gegeben wurde, so wird er dennoch, als letztes Tribunal, nicht minder unfehlbar sein oder als unfehlbar angesehen werden: Jedes Urteil, an das man nicht appellieren kann, muß, unter allen nur denkbaren Regierungsformen, in der menschlichen Gesellschaft als gerecht angesehen werden. Jeder wirkliche Staatsmann wird mich wohl verstehen, wenn ich sage, daß es sich nicht bloß darum handelt, zu wissen, ob der Papst unfehlbar ist, sondern ob er es sein müßte. Wer das Recht hätte, dem Papste zu sagen, daß er sich geirrt habe, hätte aus dem gleichen Grunde auch das Recht, ihm den Gehorsam zu verweigern."

Der Feind jeder klaren und moralisch verpflichtenden Entscheidung erschauert vor solchen ganz unromantischen Forderungen nach einer letzten, alle Diskussionen beendenden Instanz und angesichts der Subsumierung des Lehramtes unter die Jurisdiktionsgewalt erklärt er die Liebe und das Zeugnisablegen zur eigentlichen Substanz des christlichen Glaubens, den er doch sonst verfolgt und haßt, weiß er doch, daß diesem die Liebe zu Gott wichtiger ist als die Liebe zum Menschen, dessen Seele "eine Kloake" (de Maistre) ist.

Keine Grenzen mehr aber kennt die Empörung, wenn de Maistre, mit der für ihn kennzeichnenden Wollust an der Provokation, den Henker verherrlicht, der, zusammen mit dem (damals) besser beleumundeten Soldaten, das große Gesetz des monde spirituel vollzieht und der Erde, die ausschließlich von Schuldigen bevölkert ist, den erforderlichen Blutzoll entrichtet. Zum Lobpreis des Scharfrichters, der für de Maistre ein unentbehrliches Werkzeug jedweder stabilen gesellschaftlichen Ordnung ist, gesellt sich der Hymnus auf den Krieg und auf die universale, ununterbrochene tobende Gewalt und Vernichtung: "Auf dem weiten Felde der Natur herrscht eine manifeste Gewalt, eine Art von verordneter Wut, die alle Wesen zu ihrem gemeinsamen Untergang rüstet: Wenn man das Reich der unbelebten Natur verläßt, stößt man bereits an den Grenzen zum Leben auf das Dekret des gewaltsamen Todes. Schon im Pflanzenbereich beginnt man das Gesetz zu spüren: Von dem riesigen Trompetenbaum bis zum bescheidensten Gras - wie viele Pflanzen sterben, wie viele werden getötet!"

Weiter heißt es in seiner Schrift "Les Soirées de Saint Pétersbourg" (1821): "Doch sobald man das Tierreich betritt, gewinnt das Gesetz plötzlich eine furchterregende Evidenz. Eine verborgene und zugleich handgreifliche Kraft hat in jeder Klasse eine bestimmte Anzahl von Tieren dazu bestimmt, die anderen zu verschlingen: Es gibt räuberische Insekten und räuberische Reptilien, Raumvögel, Raubfische und vierbeinige Raubtiere. Kein Augenblick vergeht, in dem nicht ein Lebewesen von einem anderen verschlungen würde.

Über alle diese zahllosen Tierrassen ist der Mensch gesetzt, dessen zerstörerische Hand verschont nichts von dem was lebt. Er tötet, um sich zu nähren, er tötet, um sich zu belehren, er tötet, um sich zu unterhalten, er tötet, um zu töten: Dieser stolze, grausame König hat Verlangen nach allem und nichts widersteht ihm. Dem Lamme reißt er die Gedärme heraus, um seine Harfe zum Klingen zu bringen, dem Wolf entreißt er seinen tödlichsten Zahn, um seine gefälligen Kunstwerke zu polieren, dem Elefanten die Stoßzähne, um ein Kinderspielzeug daraus zu schnitzen, seine Tafel ist mit Leichen bedeckt. Und welches Wesen löscht in diesem allgemeinen Schlachten ihn aus, der alle anderen auslöscht? Es ist er selbst. Dem Menschen selbst obliegt es, den Menschen zu erwürgen. Hört ihr nicht, wie die Erde schreit nach Blut? Das Blut der Tiere genügt ihr nicht, auch nicht das der Schuldigen, die durch das Schwert des Gesetzes fallen. So wird das große Gesetz der gewaltsamen Vernichtung aller Lebewesen erfüllt. Die gesamte Erde, die fortwährend mit Blut getränkt wird, ist nichts als ein riesiger Altar, auf dem alles, was lebt, ohne Ziel, ohne Haß, ohne Unterlaß geopfert werden muß, bis zum Ende aller Dinge, bis zur Ausrottung des Bösen, bis zum Tod des Todes."

Im Grunde ist dies nichts als eine, wenn auch mit rhetorischem Aplomb vorgetragene banalité supérieure, eine Zustandsbeschreibung, die keiner Aufregung wert ist. So wie es ist, ist es. Doch die Kindlein, sich auch noch die Reste der Skepsis entschlagend, die der frühen Aufklärung immerhin noch anhafteten, die dem Flittergold der humanitären Deklaration zugetan sind (auch, weil dieses sogar echtes Gold zu hecken vermag), die Kindlein, sie hörten es nicht gerne.

Der gläubige de Maistre, der trotz all seines oft zynisch wirkenden Dezisionismus unentwegt darauf beharrte, daß jede grenzenlose irdische Macht illegitim, ja widergöttlich sei und der zwar die Funktionalisierung des Glaubens betrieb, aber auch erklärte, daß deren Gelingen von der Triftigkeit des Glaubens abhing - er wurde flugs von einem bekannten Essayisten (Isaiah Berlin) zum natürlich 'paranoiden' Urahnen des Faschismus ernannt, während der ridiküle Sohn eines großen Ökonomen in ihm den verrucht-verrückten Organisator eines anti-weiblichen Blut- und Abwehrzaubers sah, einen grotesken Medizinmann der Gegenaufklärung. Zwischen sich und der Evidenz hat der Mensch eine unübersteigbare Mauer errichtet; da ist des Scharfsinns kein Ende.

Der hier und in ungezählten anderen Schriften sich äußernde Haß auf den am 1. April 1753 in Chanbéry/Savoyen geborenen Joseph de Maistre ist die Antwort auf dessen erst in seinem Spätwerk fulminant werdenden Haß auf die Aufklärung und die Revolution. Savoyen gehörte damals dem Königreich Sardinien an und der Sohn eines im Dienste der sardischen Krone stehenden Juristen wäre wohl das ehrbare Mitglied des Beamtenadels in einer schläfrigen Kleinstadt geblieben, ohne intellektuellen Ehrgeiz und allenfalls begabt mit einer außergewöhnlichen Liebenswürdigkeit und Höflichkeit in persönlich-privaten Dingen, die die "eigentliche Heimat aller liberalen Qualitäten" (Carl Schmitt) sind.

Der junge Jurist gehörte gar einer Freimaurer-Loge an, die sich aber immerhin kirchlichen Reunionsbestrebungen widmet; der spätere, unnachgiebige Kritiker des Gallikanismus akzeptiert diesen als selbstverständlich; gelegentlich entwickelte de Maistre sogar ein wenn auch temperiertes Verständnis für die Republik und die Revolution. Der Schritt vom aufklärerischen Scheinwesen zur Wirklichkeit gelang de Maistre erst als Vierzigjährigem: Als diese in Gestalt der französischen Revolutionstruppen einbrach, die 1792 Savoyen annektierten. De Maistre mußte in die Schweiz fliehen und verlor sein gesamtes Vermögen.

Erst dort gelang ihm seine erste, ernsthafte Schrift, die "Considérations sur la France" (Betrachtungen über Frankreich), die 1796 erschien und sofort in ganz Europa Furore machte: Die Restauration hatte ihr Brevier gefunden und hörte bis 1811 nicht auf, darin mehr zu blättern als zu lesen. Das Erstaunliche und viele Irritierende des Buches ist, daß de Maistre hier keinen Groll gegen die Revolution hegt, ja, ihr beinahe dankbar ist, weil sie seinen Glauben wieder erweckte. Zwar lag in ihr, wie er feststellte, "etwas Teuflisches", später hieß es sogar, sie sei satanique dans sons essence. Doch weil dies so war, hielt sich de Maistres Erschrecken in Grenzen. Denn wie das Böse, so existiert auch der Teufel nicht auf substantielle Weise, ist, wie seine Werke, bloße Negation, Mangel an Gutem, privatio boni. Deshalb wurde die Revolution auch nicht von großen Tätern vorangetrieben, sondern von Somnambulen und Automaten: "Je näher man sich ihre scheinbar führenden Männer ansieht, desto mehr findet man an ihnen etwas Passives oder Mechanisches. Nicht die Menschen machen die Revolution, sondern die Revolution benutzt die Menschen."

Das bedeutete aber auch, daß Gott sich in ihr offenbarte. Die Vorsehung, die providence, leitete die Geschehnisse und die Revolution war nur die Züchtigung des von kollektiver Schuld befleckten Frankreich. Die Furchtbarkeit der Strafe aber bewies Frankreichs Auserwähltheit. Die "Vernunft" hatte das Christentum in dessen Hochburg angegriffen, und solchem Sturz konnte nur die Erhöhung folgen. Die Restauration der christlichen Monarchie würde kampflos vonstatten gehen; die durch ihre Gewaltsamkeit verdeckte Passivität der Gegenrevolution, bei der die Menschen nicht minder bloßes Werkzeug sein würden. Ohne Rache, ohne Vergeltung, ohne neuen Terror würde sich die Gegenrevolution, genauer, "das Gegenteil einer Revolution", etablieren; sie käme wie ein sich sanftmütig Schenkender.

Die konkrete politische Analyse aussparen und direkt an den Himmel appellieren, wirkte das Buch als tröstende Stärkung. De Maistre mußte freilich erfahren, daß die Revolution sich festigte, daß sie sich ihre Institution schuf, daß sie schließlich, im Thermidor und durch Bonaparte, ihr kleinbürgerlich-granitenes Fundament fand.

Von 1803 bis 1817 amtierte de Maistre als ärmlicher, stets auf sein Gehalt wartender Gesandter des Königs von Sardinien, der von den spärlichen Subsidien des Zaren in Petersburg lebt - bis er aufgrund seiner lebhaften katholischen Propaganda im russischen Hochadel ausgewiesen wird. Hier entstehen, nach langen Vorstudien etwa ab 1809, seine Hauptwerke: "Du Pape" (Vom Papste), publiziert 1819 in Lyon, und "Les Soirées de Saint Pétersbourg" (Abendgespräche zu Saint Petersburg), postum 1821.

Die Unanfechtbarkeit des Papstes, von der damaligen Theologie kaum noch verfochten, liegt für de Maistre in der Natur der Dinge selbst und bedarf nur am Rande der Theologie. Denn die Notwendigkeit der Unfehlbarkeit erklärt sich, wie die anderer Dogmen auch, aus allgemeinen soziologischen Gesetzen: Nur von ihrem Haupte aus empfangen gesellschaftliche Vereinigungen dauerhafte Existenz, erst vom erhabenen Throne ihre Festigkeit und Würde, während die gelegentlich notwendigen politischen Interventionen des Papstes nur den einzelnen Souverän treffen, die Souveränität aber stärken. Ein unter dem Zepter des Papstes lebender europäischer Staatenbund - das ist de Maistres Utopie angesichts eines auch religiös zerspaltenen Europa. Da die Päpste die weltliche Souveränität geheiligt haben, weil sie sie als Ausströmungen der göttlichen Macht ansahen, hat die Abkehr der Fürsten vom Papst diese zu verletzlichen Menschen degradiert.

Diese für viele Betrachter phantastisch anmutende Apologie des Papsttums, dessen Stellung durch die Revolution stark erschüttert war, führte, gegen immense Widerstände des sich formierenden liberalen Katholizismus, immerhin zur Proklamation der päpstlichen Unfehlbarkeit durch Pius IX. auf dem 1869 einberufenen Vaticanum, mit dem der Ultramontanismus der modernen, säkularisierten Welt einen heftigen, bald aber vergeblichen Kampf ansagte.

Die "Soirées", das Wesen der providence, die Folgen der Erbsünde und die Ursachen des menschlichen Leidens erörternd, sind der vielleicht schärfste, bis ins Satirische umschlagende Angriff gegen den aufklärerischen Optimismus. Hier finden sich in tropischer Fülle jene Kraftworte de Maistres, die, gerade weil sie übergrelle Blitze sind, die Komplexität seines Werkes verdunkeln und es als bloßes reaktionäres Florilegium erscheinen lassen.

De Maistre, der die Leiden der "Unschuldigen" ebenso pries wie die der Schuldigen, weil sie nach einem geheimnisvollen Gesetz der Reversibilität den Pardon für die Schuldigen herbeiführen, der die Ausgeliefertheit des Menschen an die Erbsünde in wohl noch schwärzeren Farben malte als Augustinus oder der Augustinermönch Luther und damit sich beträchtlich vom katholischen Dogma entfernte, der nicht müde wurde, die Vergeblichkeit und Eitelkeit alles menschlichen Planens und Machens zu verspottern, - er mutete und mutet vielen als ein Monstrum an, als ein Prediger eines terroristischen und molochitischen Christentum.

Doch dieser Don Quijote der Laientheologie - doch nur die Laien erneuerten im 19. Jahrhundert die Kirche, deren Klerus schon damals antiklerikal war! -, der sich tatsächlich vor nichts fürchtete, außer vor Gott, stimmt manchen Betrachter eher traurig. Weil er, wie Don Quijote, zumindest meistens recht hatte. Sein bis ins Fanatische und Extatische gehender Kampf gegen den Lauf der Zeit ist ja nur Gradmesser für den tiefen Sturz, den Europa seit dem 13. Jahrhundert erlitt, als der katholische Geist seine großen Monumente erschuf: Die "Göttliche Komödie" Dantes, die "Siete Partidas" Alfons' des Weisen, die "Summa" des heiligen Thomas von Aquin und den Kölner Dom.

Diesem höchsten Punkt der geistigen Einheit und Ordnung Europas folgte die sich stetig intensivierende Entropie, die, nach einer Prognose eines sanft gestimmten Geistesverwandten, des Nordamerikaners Henry Adams (1838-1918), im zwanzigsten und einundzwanzigsten Jahrhundert zur völligen spirituellen, aber auch politischen und sittlichen Anomie führen würde.

Der exaltierte Privatgelehrte, der in St. Petersburg aufgrund seiner unbedeutenden Tätigkeit genug Muße fand, sagte als erster eine radikale, blutige Revolution in Rußland voraus, geleitet von einem "Pugatschev der Universität", was wohl eine glückliche Definition Lenins ist. Die Prophezeiung wurde verlacht, war Rußland doch für alle ein Bollwerk gegen die Revolution. Er entdeckte, neben Louis Vicomte de Bonald (1754-1840), die Gesetze politisch-sozialer Stabilität, die Notwendigkeit eines bloc des idées incontestables, Gesetze, deren Wahrheit sich gerade angesichts der Krise und des sozialen Atomismus erwies: Ohne Bonald und de Maistre kein August Comte und damit auch keine Soziologie, deren Geschichte hier ein zu weites Feld wäre. De Maistre, Clausewitz vorwegnehmend und Tolstois und Stendhals Schilderung befruchtend, erkannte als erster die Struktur der kriegerischen Schlacht und begriff, daß an dem großen Phänomen des Krieges jedweder Rationalismus scheitert; der Krieg war ihm freilich göttlich, nicht wie den meist atheistischen Pazifisten ein Teufelswerk; auch ihn durchwaltete die providence.

Endlich fand de Maistre den Mut zu einer realistischen Anthropologie, die Motive Nietzsches vorwegnahm und die der dem Humanitarismus sich ausliefernden Kirche nicht geheuer war: Der Mensch ist beherrscht vom Willen zur Macht. Vom Willen zur Erhaltung der Macht, vom Willen zur Vergrößerung der Macht, von Gier nach dem Prestige der Macht. Diese Folge der Erbsünde bringt es mit sich, daß, so wie die Sonne die Erde umläuft, der "Engel der Vernichtung" über der Menschheit kreist - bis zum Tod des Todes.

Am 25. Februar 1821 starb Joseph de Maistre in Turin. "Meine Herren, die Erde bebt, und Sie wollen bauen!" - so lauteten seine letzten Worte zu den Illusionen seiner konservativen Freunde. Das war doch etwas anderes als - Don Quijote. 

Joseph de Maistre (1753-1821): Außer der Ehre keine Sorge, lautete der Wahlspruch des Savoyarden, und zu seiner Ehre gehörte es, immer unvermittelter und schonungsloser das Seine zu sagen

Günter Maschke lebt als Privatgelehrter und Publizist in Frankfurt am Main. Zusammen mit Jean-Jacques Langendorf ist er Hausgeber der "Bibliothek der Reaktion" im Karolinger Verlag, Wien. Von Joseph de Maistre sind dort die Bücher "Betrachtungen über Frankreich", "Die Spanische Inquisition" und "Über das Opfer" erschienen.


dimanche, 14 février 2010

Démocratie sous tutelle: entretien avec Paul Piccone

piccone.jpgArchives de Synergies Européennes - 1995

 

Démocratie sous tutelle

 

Entretien avec Paul Piccone, directeur de «Telos» (New York)

 

Dans les années 60, la plus importante des revues culturelles américaines, Telos, éditée à New York, crée le phénomène de la «Nouvelle Gauche» et ouvre la voie à la “contestation permanente” de 1968, en important aux Etats-Unis la pensée critique de l'Ecole de Francfort, d'Adorno et de Marcuse. Mais aujourd'hui, étonnant signe des temps: Telos  diffuse désormais la pensée de Carl Schmitt aux Etats-Unis, avec l'intention bien profilée de donnée une “épine dorsale” aux New Republicans, qu'on appelle aussi la New Right aux Etats-Unis. L'un des directeurs de Telos  est Paul Piccone, philosophe du politique, Italo-Américain de tempérament volcanique que j'ai rencontré lors d'un colloque à Pérouse. Il m'a parlé avec beaucoup d'enthousiasme de Gianfranco Miglio, le politologue qui a introduit Schmitt en Italie. «L'alliance entre Fini et Miglio», m'a dit Piccone, «est la véritable nouveauté, une nouveauté surpre­nante, dans votre pays. C'est le présidentialisme plus le fédéralisme. C'est l'Etat fort mais “petit”, assorti des libertés locales, des autonomies culturelles, de l'articulation des différences. C'est ce que tentent de réaliser les néo-conservateurs aux Etats-Unis».

 

Q.: Mais, cher Professeur, je vous demande un instant... Je voudrais que vous m'expliquiez comment vous êtes passé d'Adorno à Schmitt, de la nouvelle gauche à la nouvelle droite...

 

PP: Je vous dirais tout simplement que la première chose à se mettre en tête, c'est que la dichotomie gauche/droite est désormais dépassée. Aujourd'hui, le conflit politique ne passe plus par ces catégories, mais par d'autres: nous avons et nous aurons d'autres clivages: les populistes (les partisans du peuple) contre la nouvelle classe des technocrates, la démocratie contre la radicalisation de l'idéologie des Lumières.

 

Q.: Je crains de ne pas comprendre: votre populisme, c'est donc la droite; et la “nouvelle classe”, c'est la nouvelle gauche, “radicale-chic”...

 

PP: Il faut commencer par s'ôter de la tête l'idée fausse du populisme qu'a bricolée la gauche; quand elle parle de populisme, elle imagine des foules de paysans du Middle West, ignorants et armés de fourches, qui s'en vont lyncher des Noirs et molester des Juifs. Cette imagerie sert la nouvelle classe; en la manipu­lant, elle défend son pouvoir. La démocratie, pour la “nouvelle classe”, constitue un danger: parce que, pour elle, le peuple, source originelle de la souveraineté, est aussi le réceptacle d'une irrationalité invin­cible. De ce fait, le peuple a besoin de dirigeants sages et éclairés qui disent et manient les “règles” for­melles de la démocratie. Mais la démocratie représentative en vient à représenter de moins en moins les besoins de la vie réelle des gens, et de plus en plus des techniques formelles. Et sur ce champ technico-formel, seuls sont autorisés à intervenir les avocats, les bureaucrates, les intellectuels. De fait, cette conception est bien celle du progressisme de ce siècle, depuis le marxisme réel jusqu'à la sociale-démo­cratie et au Parti Démocrate américain; tous sont les versions différentes d'un centralisme bureaucra­tique qui essaie par tous les moyens de justifier son existence et de se légitimer politiquement. C'est ainsi que fonctionne le puissant appareil administratif-redistributif qui corrige les différences créées par le mar­ché. Finalement, la vie réelle du peuple, avec son organicité et son patrimoine d'expériences collectives, en vient à être entièrement dominée par un seul et unique héritage culturel, celui des Lumières qui se pro­clame frauduleusement seul “rationnel”, seul “universel(lement valable)”. Et prétend protéger le peuple contre lui-même. Les néo-républicains américains s'opposent à cette mythologie; leur lutte prend la forme d'une lutte contre la bureaucratie étatique omniprésente, qui empêche les communautés particulières de vivre comme elles l'entendent.

 

Q.: C'est donc un phénomène très américain...

 

TELOS142_MED.gifPP: C'est vrai. Très américain au sens le plus profond du terme. La démocratie américaine, en effet, a été fondée par des fanatiques religieux  —les pères pélerins du Mayflower—  qui ont fui l'Europe pour pouvoir conserver leur liberté d'être des fanatiques. Ils ont donc créé un système de liberté, où tous ont le loisir d'être fanatiques sans être troublés par personne; et spécialement sans être dérangés par les héritiers de la “démocratie jacobine” de la Révolution Française, qui prétendent imposer à chacun, au nom de la Raison, un catalogue bien délimité de valeurs auxquelles nous sommes tous priés de nous adapter. Mais je ne crois pas que cela soit un phénomène exclusivement américain: parce qu'aujourd'hui la Raison des Lumières, qui au fil des décennies s'est faite Etat, menace tout le monde. Au fait, a-t-on arrêté la Madonne en Italie?

 

Q.: Vous voulez dire la Madonne de Civitavecchia, celle qui pleure des larmes de sang? Les juges, en effet, l'ont mise sous sequestre car ils suspectaient une super­cherie, ils ont cru que l'on abusait de la crédulité populaire...

 

PP:  A qui le dites-vous... Je ne sais pas si la Madonne pleure pour du vrai, mais ce qui m'importe, moi, c'est que ceux qui y croient sont libres d'y croire sans que l'autorité de l'Etat n'ait à s'y immiscer pour dé­cider si oui ou non ces larmes de sang sont une tromperie qui abuse de la crédulité populaire. Cet incident devrait vous montrer à quoi se réduit la démocratie formelle... Elle n'est plus que l'expression d'une classe de “protecteurs” qui protègent l'ensemble des citoyens jugés incapables de se gouverner eux-mêmes. La démocratie représentative est périmée et s'est muée en une démocratie radicale (qui se dit “libérale” dans le monde anglo-saxon), où les choix démocratiques sont réduits et réservés à ce qui est parfaitement insignifiant. Déjà l'Ecole de Francfort avait démasqué cette fraude. Mon évolution de la nou­velle gauche à la nouvelle droite s'explique par une fidélité à cette démarche démasquante.

 

Q.: Mais cette démarche était de gauche...

 

PP: Si vous voulez. L'Ecole de Francfort, et tout spécialement Adorno, dans sa Critique de l'Aufklärung, nous ont expliqué comment la “rationalité instrumentale”, absoluisée, finit par exclure comme “irrationnels” tous les réflexes vitaux des gens normaux pour qui vivre est plus important que penser. La démocratie des Lumières, qui est une démocratie représentative, n'offre qu'une représentation appauvrie de la vie politique. Ce qui nous ramène au phénomène dont nous subissons aujourd'hui les effets néga­tifs: les démocraties deviennent ingouvernables, les masses sont devenues abstentionnistes, c'est le règne des intérêts particuliers. La démocratie a sombré dans le radicalisme démocratique qui rend tout gouvernement impossible.

 

Q.: Que peut-on faire pour s'y opposer?

 

PP: Il faut récupérer à notre profit la pensée de Carl Schmitt. Parce que Carl Schmitt a théorisé la contra­diction fondamentale entre ce “radicalisme libéral” (issu des Lumières) et la démocratie. Schmitt a amorcé une critique démocratique de la démocratie libérale issue des Lumières et nous a montré combien il était nécessaire de surmonter les formalismes, les “règles”, afin de restaurer les liens entre gouvernants et gouvernés, sans lesquels la démocratie n'a pas de sens.

 

Q.: Mais cette démocratie schmittienne n'est-elle pas la fameuse démocratie plébis­citaire, portée à bout de bras par un homme providentiel?

 

PP: C'est cela le nouveau populisme. Il doit conduire à l'émergence d'une politique populiste, faite par le peuple et pour le peuple. Cette politique ne sera plus l'œuvre d'une caste de professionnels, mais par des membres effectifs d'une communauté déterminée, qui font de la politique pour exprimer directement les exigences et les besoins expérimentés dans la vie quotidienne, la leur et celle de leurs électeurs.

 

Q.: Comment décririez-vous l'expérience Berlusconi?

 

PP: Berlusconi est le moindre mal, parce qu'il n'y a pas autre chose pour l'instant. Mais Berlusconi n'a pas de programme, pas de “vision”. C'est l'axe Fini-Miglio qui me semble aujourd'hui plus prometteur en Italie. A deux, ils peuvent jeter les bases d'une démocratie populiste en Italie.

 

(propos recueillis par Maurizio BLONDET; entretien paru dans Pagine Libere, Rome, juin 1995).

lundi, 08 février 2010

Julius Evola on Tradition and the Right

Julius Evola on Tradition and the Right
(La Vera Destra)

evola01.jpgBaron Julius Evola (1899-1974) was an important Italian intellectual, although he despised the term. As poet and painter, he was the major Italian representative of Dadaism (1916-1922). Later he became the leading Italian exponent of the intellectually rigorous esotericism of René Guénon (1886-1951). He enjoyed an international reputation as the author of books on magic, alchemy and eastern religious traditions and won the respect of such important scholars as Mircea Eliade and Giuseppe Tucci. His book on early Buddhism, The Doctrine of Awakening,[1] which was translated in 1951, established his reputation among English-speaking esotericists. In 1983, Inner Traditions International, directed by Ehud Sperling, published Evola’s 1958 book, The Metaphysics of Sex, which it reprinted as Eros and the Mysteries of Love in 1992, the same year it published his 1949 book on Tantra, The Yoga of Power.[2]

The marketing appeal of the topic of sex is obvious. Both books, however, are serious studies, not sex manuals. Since then Inner Traditions has reprinted The Doctrine of Awakening and published many of Evola’s esoteric books, including studies of alchemy and magic,[3] and what Evola himself considered his most important exposition of his beliefs, Revolt Against the Modern World.[4]

In Europe Evola is known not only as an esotericist, but also as a brilliant and incisive right-wing thinker. During the 1980s most of his books, New Age and political, were translated into French under the aegis of Alain de Benoist, the leader of the French Nouvelle Droite.[5] Books and articles by Evola have been translated into German and published in every decade since the 1930s.[6]

Discussion of Evola’s politics reached North America slowly. In the 1980s political scientists Thomas Sheehan, Franco Ferraresi, and Richard Drake wrote about him unsympathetically, blaming him for Neo-Fascist terrorism.[7] In 1990 the esoteric journal, Gnosis, devoted part of an issue to Evola. Robin Waterfield, a classicist and author of a book on René Guénon, contributed a thoughtful appreciation of his work on the basis of French translations.[8] Italian esotericist Elémire Zolla discussed Evola’s development accurately but ungenerously.[9] The essay by Gnosis editor Jay Kinney was driven by an almost hysterical fear of the word “Fascist.” He did not appear to have read Evola’s books in any language, called the 1983 edition of The Metaphysics of Sex Evola’s “only book translated into English” and concluded “Evola’s esotericism appears to be well outside of the main currents of Western tradition. It remains to be seen whether his Hermetic virtues can be disentangled from his political sins. Meanwhile, he serves as a persuasive argument for the separation of esoteric ‘Church and State.’”[10]

With the publication of Men Among the Ruins: Post-War Reflections of a Radical Traditionalist,[11] English speakers can read Evola’s political views for themselves. They will find that the text, in Guido Stucco’s workman-like translation, edited by Michael Moynihan, is guarded by a double firewall. Joscelyn Godwin’s “Foreword” answers Jay Kinney’s hysterical diatribe of 1990. Godwin defends publishing Evola’s political writings by an appeal to “academic freedom,” which works “with the tools of rationality and scholarship, unsullied by emotionality or subjective references” and favors making all of Evola’s works available because “it would be academically dishonest to suppress anything.” Godwin’s high praise for The Doctrine of Awakening implicitly condemns Kinney’s ignorance. Evola’s books on esoteric topics reveal “one of the keenest minds in the field . . . The challenge to esotericists is that when Evola came down to earth, he was so ‘incorrect’ – by the received standards of our society. He was no fool; and he cannot possibly have been right . . . so what is one to make of it?”

Godwin’s “Preface” is followed by an introduction of more than 100 pages by Austrian esotericist H. T. Hansen on “Julius Evola’s Political Endeavors,” translated from the 1991 German version of Men Among the Ruins,[12] with additional notes and corrections (called “Preface to the American Edition”). Hansen’s introduction to Revolt Against the Modern World[13] is, with Robin Waterfield’s Gnosis essay, the best short introduction to Evola in English. His longer essay is essential for serious students, and Inner Traditions deserves warm thanks for publishing it. The major book on Evola is Christophe Boutin, Politique et Tradition: Julius Evola dans le siècle (1898-1974).[14]

Readers of books published by Inner Traditions might have guessed Evola’s politics. The Mystery of the Grail,[15] first published in 1937, praises the Holy Roman Empire as a great political force, led by Germans and Italians, which tried to unite Europe under the Nordic Ghibellines. Esotericists will probably guess that the title of Revolt Against the Modern World is an homage to Crisis of the Modern World,[16] the most accessible of René Guénon’s many books. The variation is also a challenge. Evola and Guénon see the modern world as the fulfillment of the Hindu Kali Yuga, or Dark Age, that will end one cosmic cycle and introduce another. For Guénon the modern world is to be endured, but Evola believed that real men are not passive. His praise of “The World of Tradition” with its warrior aristocracies and sacral kingship is peppered with contempt for democracy, but New Age writers often make such remarks, just as scientists do. If you believe you know the truth, it is hard not to be contemptuous of a system that determines matters by counting heads and ignores the distinction between the knowledgeable and the ignorant.

Visionary Among Italian Conservative Revolutionaries

Evola was not only an important figure in Guénon’s Integral Traditionalism, but also the leading Italian exponent of the Conservative Revolution in Germany, which included Carl Schmitt, Oswald Spengler, Gottfried Benn, and Ernst Jünger.[17] From 1934-43, Evola was editor of what we would now call the “op-ed” page of a major Italian newspaper (Regime Fascista) and published Conservative Revolutionaries and other right-wing and traditionalist authors.[18] He corresponded with Schmitt,[19] translated Spengler’s Decline of the West and Jünger’s An der Zeitmauer (At the Time Barrier) into Italian and wrote the best introduction to Jünger’s Der Arbeiter (The Worker), “The Worker” in Ernst Jünger’s Thought.[20]

Spengler has been well served by translation into English, but other important figures of the Conservative Revolution had to wait a long time. Carl Schmitt’s major works have been translated only in the past few decades.[21] Jünger’s most important work of social criticism, Der Arbeiter, has never been translated.[22] The major scholarly book on the movement has never been translated, either.[23] It is a significant statement on the limits of expression in the United States that so many leftist mediocrities are published, while major European thinkers of the rank of Schmitt, Jünger, and Evola have to wait so long for translation, if the day ever comes. It is certainly intriguing that a New Age press has undertaken the translation and publishing of Evola’s books, with excellent introductions.

The divorced wife of a respected free market economist once remarked to me, “Yale used to say that conservatives were just old-fashioned liberals.”[24] People who accept that definition will be flabbergasted by Julius Evola. Like Georges Sorel, Oswald Spengler, Whittaker Chambers, and Régis Debray, Evola insists that liberals and communists are in fundamental agreement on basic principles. This agreement is significant, because for Evola politics is an expression of basic principles and he never tires of repeating his own. The transcendent is real. Man’s knowledge of his relationship to transcendence has been handed down from the beginning of human culture. This is Tradition, with a capital T. Human beings are tri-partite: body, soul, and spirit. State and society are hierarchical and the clearer the hierarchy, the healthier the society. The worst traits of the modern world are its denial of transcendence, reductionist vision of man and egalitarianism.

These traits come together in what Evola called “la daimonìa dell’economia,” translated by Stucco as “the demonic nature of the economy.”[25] Real men exist to attain knowledge of the transcendent and to strive and accomplish heroically. The economy is only a tool to provide the basis for such accomplishments and to sustain the kind of society that permits the best to attain sanctity and greatness. The modern world denies this vision.

In both individual and collective life the economic factor is the most important, real, and decisive one . . . An economic era is already by definition a fundamentally anarchical and anti-hierarchical era; it represents a subversion of the normal order . . . This subversive character is found in both Marxism and in its apparent nemesis, modern capitalism. Thus, it is absurd and deplorable for those who pretend to represent the political ‘Right’ to fail to leave the dark and small circle that is determined by the demonic power of the economy – a circle including capitalism, Marxism, and all the intermediate economic degrees. This should be firmly upheld by those today who are taking a stand against the forces of the Left. Nothing is more evident than that modern capitalism is just as subversive as Marxism. The materialistic view of life on which both systems are based is identical.[26]

Most conservatives do not like the leftist hegemony we live under, but they still want to cling to some aspect of modernity to preserve a toehold on respectability. Evola rejected the Enlightenment project lock, stock, and barrel, and had little use for the Renaissance and the Reformation. His books ask us to take seriously the attempt to imagine an intellectual and political world that radically rejects the leftist worldview. He insists that those really opposed to the leftist regime, the true Right, are not embarrassed to use words like reactionary and counter revolutionary. If you are afraid of these words, you do not have the courage to stand up to the modern world.

He also countenances the German expression, Conservative Revolution, if properly understood. Revolution is acceptable only if it is true re-volution, a turning back to origins. Conservatism is valid only when it preserves the true Tradition. So loyalty to the bourgeois order is a false conservatism, because on the level of principle, the bourgeoisie is an economic class, not a true aristocracy. That is one reason why at the end of his life, Evola was planning a right-wing journal to be called The Reactionary, in conscious opposition to the leading Italian conservative magazine, Il Borghese, “The Bourgeois.”

For Evola the state creates the nation, not the opposite. Although Evola maintained a critical distance from Fascism and never joined the Fascist Party,[27] here he was in substantial agreement with Mussolini and the famous article on “Fascism” in the Enciclopedia Italiana, authored by the philosopher and educator, Giovanni Gentile. He disagreed strongly with the official philosophy of 1930’s Germany. The Volk is not the basis of a true state, an imperium. Rather the state creates the people. Naturally, Evola rejected Locke’s notion of the Social Contract, where rational, utilitarian individuals come together to give up some of their natural rights in order to preserve the most important one, the right to property. Evola also disagreed with Aristotle’s idea that the state developed from the family. The state was created from Männerbünde, disciplined groups entered through initiation by men who were to become warriors and priests. The Männerbund, not the family, is the original basis of true political life.[28]

Evola saw his mission as finding men who could be initiated into a real warrior aristocracy, the Hindu kshatriya, to carry out Bismarck’s “Revolution from above,” what Joseph de Maistre called “not a counterrevolution, but the opposite of a revolution.” This was not a mass movement, nor did it depend on the support of the masses, by their nature incapable of great accomplishments. Hansen thinks these plans were utopian, but Evola was in touch with the latest political science. The study of elites and their role in every society, especially liberal democracies, was virtually an Italian monopoly in the first half of the Twentieth century, carried on by men like Roberto Michels, Gaetano Mosca, and Vilfredo Pareto. Evola saw that nothing can be accomplished without leadership. The modern world needs a true elite to rescue it from its involution into materialism, egalitarianism and its obsession with the economy and to restore a healthy regime of order, hierarchy and spiritual creativity. When that elite is educated and initiated, then (and only then) a true state can be created and the Dark Age will come to an end.

Egalitarianism, Fascism, Race, and Roman Catholicism

Despite his criticism of the demagogic and populist aspects of Fascism and National Socialism, Evola believed that under their aegis Italy and Germany had turned away from liberalism and communism and provided the basis for a return to aristocracy, the restoration of the castes and the renewal of a social order based on Tradition and the transcendent. Even after their defeat in World War II, Evola believed that the fight was not over, although he became increasingly discouraged and embittered in the decades after the war. (Pain from a crippling injury suffered in an air raid may have contributed to this feeling.)

Although Evola believed that the transcendent was essential for a true revival, he did not look to the Catholic Church for leadership. Men Among the Ruins was published in 1953, when the official position of the Church was still strongly anti-Communist and Evola had lived through the 1920s and 1930s when the Vatican signed the Concordat with Mussolini. So his analysis of the Church, modified but not changed for the second edition in 1967, is impressive as is his prediction that the Church would move to the left.

After the times of De Maistre, Bonald, Donoso Cortés, and the Syllabus have passed, Catholicism has been characterized by political maneuvering . . . Inevitably, the Church’s sympathies must gravitate toward a democratic-liberal political system. Moreover, Catholicism had for a long time espoused the theory of ‘natural right,’ which hardly agrees with the positive and differentiated right, on which a strong and hierarchical State can be built . . . Militant Catholics like Maritain had revived Bergson’s formula according to which ‘democracy is essentially evangelical’; they tried to demonstrate that the democratic impulse in history appears as a temporal manifestation of the authentic Christian and Catholic spirit . . . By now, the categorical condemnations of modernism and progressivism are a thing of the past . . . When today’s Catholics reject the ‘medieval residues’ of their tradition; when Vatican II and its implementations have pushed for debilitating forms of ‘bringing things up to date’; when popes uphold the United Nations (a ridiculous hybrid and illegitimate organization) practically as the prefiguration of a future Christian ecumene – this leaves no doubt in which direction the Church is being dragged. All things considered, Catholicism’s capability of providing an adequate support for a revolutionary-conservative and traditionalist movement must be resolutely denied.[29]

Although his 1967 analysis mentions Vatican II, Evola’s position on the Catholic Church went back to the 1920s, when after his early Dadaism he was developing a philosophy based on the traditions of India, the Far East and ancient Rome under the influence of Arturo Reghini (1878-1946).[30] Reghini introduced Evola to Guénon’s ideas on Tradition and his own thinking on Roman “Pagan Imperialism” as an alternative to the Twentieth Century’s democratic ideals and plutocratic reality. Working with a leading Fascist ideologue, Giuseppe Bottai (1895-1959), Evola wrote a series of articles in Bottai’s Critica Fascista in 1926-27, praising the Roman Empire as a synthesis of the sacred and the regal, an aristocratic and hierarchical system under a true leader. Evola rejected the Catholic Church as a source of religion and morality independent of the state, because he saw its universalistic claims as compatible with and tending toward liberal egalitarianism and humanitarianism, despite its anti-Communist rhetoric.

Evola’s articles enjoyed a national succès de scandale and he expanded them into a book, Imperialismo Pagano (1928), which provoked a heated debate involving many Fascist and Catholic intellectuals, including, significantly, Giovanni Battista Montini (1897-1978), who, when Evola published the second edition of Men Among the Ruins in 1967, had become the liberal Pope Paul VI. Meanwhile, Mussolini was negotiating with Pope Pius XI (1857-1939) for a reconciliation in which the Church would give its blessings to his regime in return for protection of its property and official recognition as the religion of Italy. Italy had been united by the Piedmontese conquest of Papal Rome in 1870, and the Popes had never recognized the new regime. So Evola wrote in 1928, “Every Italian and every Fascist should remember that the King of Italy is still considered a usurper by the Vatican.”[31] The signing of the Vatican Accords on February 11, 1929, ended that situation and the debate. Even Reghini and Bottai turned against Evola.[32]

Evola later regretted the tone of his polemic, but he also pointed out that the fact that this debate took place gave the lie direct to extreme assertions about lack of freedom of speech in Fascist Italy. Evola has been vindicated on the main point. The Catholic Church accepts liberal democracy and even defends it as the only legitimate regime. Notre Dame University is not the only Catholic university with a Jacques Maritain Center, but neither Notre Dame nor any other Catholic university in America has a Center named after Joseph de Maistre or Louis de Bonald or Juan Donoso Cortés. Pope Pius IX was beatified for proclaiming the doctrine of the Immaculate Conception, not for his Syllabus Errorum, which denounced the idea of coming to terms with liberalism and modern civilization.

Those who want to distance Evola from Fascism emphasize the debate over Pagan Imperialism. For several years afterwards Fascist toughs harassed Evola, until he won the patronage of Roberto Farinacci, the Fascist boss of Cremona. Evola edited the opinion page of Farinacci’s newspaper, Regime Fascista, from 1934 to 1943 in an independent fashion. Although there are anecdotes about Mussolini’s fear of Evola, the documentary evidence points in the opposite direction. Yvon de Begnac’s talks with Mussolini, published in 1990, report Mussolini consistently speaking of Evola with respect. Il Duce had the following comments about the Pagan Imperialism debate:

Despite what is generally thought, I was not at all irritated by Doctor Julius Evola’s pronouncements made a few months before the Conciliation on the modification of relations between the Holy See and Italy. Anyhow, Doctor Evola’s attitude did not directly concern relations between Italy and the Holy See, but what seemed to him the long-term irreconcilability of the Roman tradition and the Catholic tradition. Since he identified Fascism with the Roman tradition, he had no choice but to reckon as its adversary any historical vision of a universalistic order.[33]

Mussolini’s strongest support for Evola came on the subject of race, which became an issue after Italy’s conquest of Ethiopia in 1936. Influenced by Nazi Germany, Italy passed Racial Laws in 1938. Evola was already writing on the racial views consistent with a Traditional vision of mankind in opposition to what he saw as the biological reductionism and materialism of Nazi racial thought. His writings infuriated Guido Landra, editor of the journal, La Difesa della Razza (Defense of the Race). Landra and other scientific racists were especially irritated by Evola’s article, “Scientific Racism’s Mistake.”[34] Mussolini, however, praised Evola’s writings as early as 1935 and permitted Evola’s Summary of Racial Doctrine to be translated into German as Compendium of Fascist Racial Doctrine to represent the official Fascist position.[35]

Evola accepts the Traditional division of man into body, soul, and spirit and argues that there are races of all three.

While in a ‘pure blood’ horse or cat the biological element constitutes the central one, and therefore racial considerations can be legitimately restricted to it, this is certainly not the case with man, or at least any man worthy of the name . . . Therefore racial treatment of man can not stop only at a biological level.[36]

Just as the state creates the people and the nation, so the spirit forms the races of body and soul. Evola had done considerable research on the history of racial studies and wrote a history of racial thought from Classical Antiquity to the 1930’s, The Blood Myth: The Genesis of Racism.[37] Evola knew that in addition to the tradition of scientific racism, represented by Gobineau, Houston Stewart Chamberlain, Alfred Rosenberg, and Landra was one that appreciated extra- or super-biological elements and whose adherents included Montaigne, Herder, Fichte, Gustave Le Bon, and Evola’s contemporary and friend, Ludwig Ferdinand Clauss, a German biologist at the University of Berlin.[38]

Hansen has a thorough discussion of “Evola’s Attitude Toward the Jews.” Evola thought that the negative traits associated with Jews were spiritual, not physical. So a biological Jew might have an Aryan soul or spirit and biological Aryans might – and did – have a Semitic soul or spirit. As Landra saw, this was the end of any politically useful scientific racism. The greatest academic authority on Fascism, Renzo de Felice argued in The Jews in Fascist Italy that Evola’s theories are wrong, but that they have a distinguished intellectual ancestry, and Evola argued for them in an honorable way.[39] In recent years, Bill Clinton was proclaimed America’s first black president. This instinctive privileging of style over biology is in line with Evola’s views.

Hansen does not discuss Evola’s views on Negroes, to which Christophe Boutin devotes several pages of Politique et Tradition.[40] In his 1968 collection of essays, The Bow and the Club,[41] there is a chapter on “America Negrizzata,” which argues that, while there was relatively little miscegenation in the United States, the Telluric or Negro spirit has had considerable influence on the quality of American culture. The 1972 edition of Men Among the Ruins ends with an “Appendix on the Myths of our Time,” of which number IV is “Taboos of our Times.”[42] The two taboos discussed forbid a frank discussion of the “working class,” common in Europe, and of the Negro. Although written thirty years ago, it is up-to-date in its description of this subject and notices that the word “Negro” itself was becoming taboo as “offensive.”[43] La vera Destra, a real Right, will oppose this development. This appendix is not translated in the Inner Traditions or the 1991 German editions, confirming its accuracy.

At the end of Men Among the Ruins, instead of the Appendix of the 1972 edition, stands Evola’s 1951 Autodifesa, the speech he gave in his own defense when he was tried by the Italian democracy for “defending Fascism,” attempting to reconstitute the dissolved Fascist Party” and being the “master” and inspirer” of young Neo-Fascists.[44] Like Socrates, he was accused of not worshipping the gods of the democracy and of corrupting youth. When he asked in open court where in his published writings he had defended “ideas proper to Fascism,” the prosecutor, Dr. Sangiorgi, admitted that there were no such passages, but that the general spirit of his works promoted “ideas proper to Fascism,” such as monocracy, hierarchism, aristocracy or elitism. Evola responded.

I should say that if such are the terms of the accusation,[45] I would be honored to see, seated at the same bank of accusation, such people as Aristotle, Plato, the Dante of De Monarchia, and so on up to Metternich and Bismarck. In the same spirit as a Metternich, a Bismarck,[46] or the great Catholic philosophers of the principle of authority, De Maistre and Donoso Cortés, I reject all that which derives, directly or indirectly, from the French Revolution and which, in my opinion, has as its extreme consequence Bolshevism; to which I counterpose the ‘world of Tradition.’ . . . My principles are only those that, before the French Revolution, every well-born person considered sane and normal.[47]

Evola’s Autodifesa was more effective than Socrates’ Apology, since the jury found him “innocent” of the charges. (Italian juries may find a defendant “innocent,” “not guilty for lack of proof,” or “guilty.”) Evola noted in his speech, “Some like to depict Fascism as an ‘oblique tyranny.’[48] During that ‘tyranny’ I never had to undergo a situation like the present one.” Evola was no lackey of the Fascist regime. He attacked conciliation with the Vatican in the years before the 1929 Vatican Accords and developed an interpretation of race that directly contradicted the one favored by the German government and important currents within Fascism. His journal, La Torre (The Tower), was closed down in 1930 because of his criticism of Fascist toughs, gli squadristi. Evola, however, never had to face jail for his serious writings during the Fascist era. That had to wait for liberal democracy. Godwin and Hansen are absolutely correct to emphasize Evola’s consistency and coherence as an esoteric thinker and his independence from any party-line adherence to Fascism. On the other hand, Evola considered his politics a direct deduction from his beliefs about Tradition. He was a sympathetic critic of Fascism, but a remorseless opponent of liberal democracy.

Inner Traditions and the Holmes Publishing Group[49] have published translations of most of Evola’s esoteric writings and some important political books. Will they go on to publish the rest of his oeuvre? Joscelyn Godwin, after all, wrote, “It would be intellectually dishonest to suppress anything.” Evola’s book on Ernst Jünger might encourage a translation of Der Arbeiter. Riding the Tiger[50] explains how the “differentiated man” (uomo differenziato) can maintain his integrity in the Dark Age. It bears the same relation to Men Among the Ruins that Aristotle’s Ethics bears to his Politics and, although published later, was written at the same time.Riding the Tiger[51] There are brilliant essays in The Bow and the Club, but can a book be published in contemporary America with an essay entitled “America Negrizzata?” Pagan Imperialism is a young man’s book, vigorous and invigorating.

The most challenging book for readers who enjoy Men Among the Ruins is Fascism Seen from the Right, with its appendix, “Notes on the Third Reich,”Riding the Tiger[52] where Evola criticizes both regimes as not right-wing enough. A world respectful of communism and liberalism (and accustomed to using the word “Fascist” as an angry epithet) will find it hard to appreciate a book critical, but not disrespectful, of il Ventennio (the Twenty Years of Fascist rule). I would suggest beginning with the short pamphlet, Orientamenti (Orientations),[53] which Evola composed in 1950 as a summary of the doctrine of Men Among the Ruins.

Hansen quotes right-wing Italians who say that Evola’s influence discourages political action because his Tradition comes from an impossibly distant past and assumes an impossibly transcendent truth and a hopelessly pessimistic view of the present. Yet Evola confronts the modern world with an absolute challenge. Its materialism, egalitarianism, feminism, and economism are fundamentally wrong. The way out is through rejecting these mistakes and returning to spirit, transcendence and hierarchy, to the Männerbund and the Legionary Spirit. It may be discouraging to think that we are living in a Dark Age, but the Kali Yuga is also the end of a cosmic cycle. When the current age ends, a new one will begin. This is not Spengler’s biologistic vision, where our civilization is an individual, not linked to earlier ones and doomed to die without offspring, like all earlier ones.[54]

We are linked to the past by Tradition and when the Dark Age comes to an end, Tradition will light the way to new greatness and accomplishment. We may live to see that day. If not, what will survive is the legionary spirit Evola described in Orientamenti:

It is the attitude of a man who can choose the hardest road, fight even when he knows that the battle is materially lost and live up to the words of the ancient saga, ‘Loyalty is stronger than fire!’ Through him the traditional idea is asserted, that it is the sense of honor and of shame – not halfway measures drawn from middle class moralities – that creates a substantial, existential difference among beings, almost as great as between one race and another race. If anything positive can be accomplished today or tomorrow, it will not come from the skills of agitators and politicians, but from the natural prestige of men both of yesterday but also, and more so, from the new generation, who recognize what they can achieve and so vouch for their idea.[55]

This is the ideal of Oswald Spengler’s Roman soldier, who died at this post at Pompeii as the sky fell on him, because he had not been relieved. We do not need programs and marketing strategies, but men like that. “It is men, provided they are really men, who make and unmake history.”[56] Evola’s ideal continues to speak to the right person. “Keep your eye on just one thing: to remain on your feet in a world of ruins.”

End Notes

[1]. La dottrina del risveglio, Bari, 1943, revised in 1965.

[2]. Lo Yoga della potenza, Milan, 1949, revised in 1968, was a new edition of L’Uomo come Potenza, Rome, 1926; Metafisica del sesso, Rome, 1958, revised 1969.

[3]. Introduzione alla magia quale scienza del’Io, 3 volumes, Rome, 1927-29, revised 1971, Introduction to Magic: Rituals and Practical Techniques for the Magus, Rochester, VT: 2001; La tradizione hermetica (Bari, 1931), revised 1948, 1971; The Hermetic Tradition, Rochester, VT: 1995.

[4]. Rivolta contro il mondo moderno, Milan, 1934, revised 1951, 1969.

[5]. Robin Waterfield gives a useful bibliography at the end of his Gnosis essay (note 8, below) p. 17.

[6]. Karlheinz Weissman, “Bibliographie” in Menschen immitten von Ruinen, Tübingen, 1991, pp. 403-406, e.g., Heidnischer Imperialismus, Leipzig, 1933; Erhebung wider die moderne Welt, Stuttgart, 1935; Revolte gegen die moderne Welt, Berlin, 1982; Den Tiger Reiten, Vilsborg, 1997.

[7]. Thomas Sheehan, “Myth and Violence: The Fascism of Julius Evola and Alain de Benoist,” Social Research 48: 1981, pp. 45-73; Franco Ferraresi, “Julius Evola: tradition, reaction and the Radical Right,” Archives européennes de sociologie 28: 1987, pp. 107-151; Richard Drake, “Julius Evola and the Ideological Origins of the Radical Right in Contemporary Italy,” in Peter H. Merkl, (ed.), Political Violence and Terror: Motifs and Motivations, Berkeley, 1986, pp. 61-89; idem, The Revolutionary Mystique and Terrorism in Contemporary Italy, Bloomington, 1989.

[8]. Robin Waterfield, “Baron Julius Evola and the Hermetic Tradition,” Gnosis 14:1989-90, pp. 12-17.

[9]. Elémire Zolla, “The Evolution of Julius Evola’s Thought,” Gnosis 14: 1989-90, pp. 18-20.

[10]. Jay Kinney, “Who’s Afraid of the Bogeyman? The Phantasm of Esoteric Terrorism,” Gnosis 14: 1989-90, pp. 21-24.

[11].. Gli uomini e le rovine, Rome, 1953, revised 1967, with a new appendix, 1972.

[12]. H. T. Hansen, “Julius Evolas politisches Wirken,” Menshen immitten von Ruinen (note 6, above) pp. 7-131.

[13]. H. T. Hansen, “A Short Introduction to Julius Evola” in Revolt Against the Modern World, Rochester, VT, 1995, ix-xxii, translated from Hansen’s article in Theosophical History 5, January 1994, pp. 11-22.

[14]. Christophe Boutin, Politique et Tradition: Julius Evola dans le siècle, 1898-1974; Paris, 1992.

[15]. Il mistero del Graal e la tradizione ghibellina dell’Impero, Bari, 1937, revised 1962, 1972; translated as The Mystery of the Grail: Initiation and Magic in the Quest for the Spirit, Rochester, Vt., 1997.

[16]. René Guénon, Crise du monde moderne (Paris, 1927) has been translated several times into English.

[17]. H. T. Hansen, “Julius Evola und die deutsche konservative Revolution,” Criticón 158 (April/Mai/June 1998) pp. 16-32.

[18]. Diorema: Antologia della pagina special di “Regime Fascista,” Marco Tarchi, (ed.) Rome, 1974.

[19]. Lettere di Julius Evola a Carl Schmitt, 1951-1963, Rome, 2000.

[20]. L”Operaio” nel pensiero di Ernst Jünger (Rome, 1960), revised 1974; reprinted with additions, 1998.

[21]. The Concept of the Political, New Brunswick, NJ, 1976; The Crisis of Parliamentary Democracy, Cambridge, MA, 1985; Political Theology, Cambridge, MA, 1985; Political Romanticism, Cambridge, MA, 1986. Recent commentary includes Paul Gottfried, Carl Schmitt: Politics and Theory, New York, 1990; Gopal Balakrishnan, The Enemy: An Intellectual Portrait of Carl Schmitt, London, 2000.

[22]. Ernst Jünger, Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, Hamburg, 1932, was translated into Italian in 1985.

[23]. Armin Mohler, Die konservative Revolution in Deutschland, 1918-1932, Stuttgart, 1950, revised and expanded in 1972, 1989, 1994, 1999.

[24]. Panajotis Kondylis, Conservativismus: Geschichtlicher Gehalt und Untergang, Stuttgart, 1986, devotes 553 pages to this theme.

[25]. My impression is that daimonìa dell’economia implies “demonic possession by the economy.” In Orientamenti (see note 53, below), Evola writes of “l’allucinazione e la daimonìa dell’economia,” “hallucination and demonic possession.”

[26]. Men Among the Ruins: Post-War Reflections of a Radical Traditionalist, Rochester, VT, 2002, p. 166. “Absurd and deplorable” is for assurdo peggiore, literally, “the worst absurdity;” circolo buio e chiuso “dark and small circle,” literally “dark and closed circle.” Chiuso is used in weather reports for “overcast.”

[27]. Evola applied for membership in the Fascist Party in 1939 in order to enlist in the army as an officer, but in vain for reasons discussed by Hansen (note 26, above) xiii. The application was found by Dana Lloyd Thomas, “Quando Evola du degradato,” Il Borghese, March 29, 1999, pp. 10-13. Evola mentioned this in an interview with Gianfranco De Turris, I’Italiano 11, September, 1971, which can be found in some reprints of L’Orientamenti, e.g., Catania, 1981, 33 (See note 53, below).

[28]. Evola cites Heinrich Schurtz, Altersklassen und Männerbünde: Eine Darstellung der Grundformen der Gesellschaft, Berlin, 1902; A. van Gennep, Les rites du passage, Paris, 1909; The Rites of Passage, Chicago, 1960.

[29]. Men Among the Ruins (note 26, above) pp. 210-211; Gli uomini e le rovine (note 11, above) pp. 15-151. “A ridiculous hybrid and illegitimate organization” translates questa ridicola associazione ibrida e bastarda.

[30]. Elémire Zolla gives the essentials about Reghini’s influence on Evola in his Gnosis essay (note 9, above).

[31]. Imperialismo Pagano, Rome, 1928, p. 40.

[32]. Richard Drake, “Julius Evola, Radical Fascism, and the Lateran Accords,” Catholic Historical Review 74, 1988, pp. 403-319; E. Christian Kopff. “Italian Fascism and the Roman Empire,” Classical Bulletin 76: 2000, pp. 109-115.

[33]. Yvon de Begnac, Taccuini Mussoliniani, Francesco Perfetti, (ed.), Bologna, 1990, p. 647.

[34]. “L’Equivoco del razzismo scientifico,” Vita Italiana 30, September 1942.

[35]. Sintesi di dottrina della razza, Milan, 1941; Grundrisse der faschistischen Rassenlehre, Berlin, 1943.

[36]. Sintesi di dottrina della razza (note 35, above) p. 35. Since Hansen (note 26, above) 71 uses the German translation (note 12, above) 90, the last sentence reads “Fascist racial doctrine (Die faschistischen Rassenlehre) therefore holds a purely biological view of race to be inadequate.”

[37]. Il mito del sangue: Genesi del razzismo, Rome, 1937, revised 1942.

[38]. Ludwig Ferdinand Clauss, Rasse und Seele. Eine Einführung in den Sinn der leiblichen Gestalt, Munich, 1937; Rasse ist Gestalt, Munich, 1937.

[39]. Renzo de Felice, The Jews in Fascist Italy: A History, New York, 2001, 378, translation of Storia degli Ebrei Italiani sotto il Fascismo, Turin, 1961, revised 1972, 1988, 1993. Evola is discussed on pp. 392-3.

[40]. Boutin (note 14, above) pp. 197-200.

[41]. L’Arco e la clava, Milan, 1968, revised 1971. The article is pp. 39-46 of the new edition, Rome, 1995.

[42]. Gli uomini e le rovine (note 11, above) Appendice sui miti del nostro tempo, pp. 255-282; Tabù dei nostri tempi, pp. 275-282.

[43]. Gli uomini e le rovine (note 11, above) p. 276: la tabuizzazione che porta fino ad evitare l’uso della designazione “negro,” per le sue implicazioni “offensive.”

[44]. J. Evola, Autodifesa (Quaderni di testi Evoliani, no. 2) (Rome, n.d.)

[45]. Banco degli accusati is what is called in England the “prisoner’s dock.”

[46]. At this point, according to Autodifesa (note 44, above) p. 4, Evola’s lawyer, Franceso Carnelutti, called out, “La polizia è andata in cerca anche di costoro.” (“The police have gone to look for them, too.”)

[47]. Men Among the Ruins (note 25, above) pp. 293-294; Autodifesa (note 44, above) pp. 10-11.

[48]. Bieca is literally “oblique,” but in this context means rather “grim, sinister.”

[49]. Holmes Publishing Group (Edwards, WA) has published shorter works by Evola edited by the Julius Evola Foundation in Rome, e.g. René Guénon: A Teacher for Modern Times; Taoism: The Magic of Mysticism; Zen: The Religion of the Samurai; The Path of Enlightenment in the Mithraic Mysteries.

[50]. Cavalcare la tigre, Rome, 1961, revised 1971.

[51]. Gianfranco de Turris, “Nota del Curatore,” Cavalcare la tigre , 5th edition: Rome, 1995, pp. 7-11.

[52]. Il Fascismo, Rome, 1964; Il Fascismo visto dalla Destra, con Note sul terzo Reich, Rome, 1970.

[53]. Orientamenti (Rome, 1951), with many reprints.

[54]. J. Evola, Spengler e “Il tramonto dell’Occidente” (Quaderni di testi Evoliani, no. 14) (Rome, 1981).

[55]. Orientamenti, (note [53]., above), p. 12; somewhat differently translated by Hansen (note 26, above) p. 101.

[56]. Orientamenti (note 53, above) p. 16. Hansen (note [26]., above) p. 93 translates “It is humans, as far as they are truly human, that make history or tear it down,” reflecting the German (note 12, above) p. 118: “Es sind die Menschen, sofern sie wahrhaft Menschen sind, die die Geschichte machen oder sie niederreissen.” The parallel sentence in Men Among the Ruins (note 11, above) p. 109: sono gli uomini, finché sono veramente tali, a fare o a disfare la storia, is translated by Stucco (note 26, above) p. 181: “It is men who make or undo history.” He omits finché sono veramente tali, but gets the meaning of uomini right.

dimanche, 07 février 2010

El influjo de Francia en Juan Donosos Cortés

El influjo de Francia en Juan Donosos Cortés

 

por Gonzalo Larios Mengotti - Ex: http://www.arbil.org/

Si señalábamos en el nº 117 de Arbil que Donoso Cortés había recibido en su juventud una formación liberal ilustrada, debemos ahora hacer hincapié en que ésta fue fundamentalmente bebida de fuentes y modelos provenientes de Francia.

donoso-cortes-observateur-revolution-europe-f-L-1.jpgNo sólo sus primeras lecturas lo acercan a los autores galos del siglo XVIII, sino también sus estudios universitarios los desarrolló en las universidades más progresistas y, por ende, más afrancesadas de la España de entonces.

 

Donoso recibió lecciones de francés desde muy joven [1] , perfeccionándolo luego durante sus diversas estadías en Francia a partir de 1840. Al margen de esta circunstancia, un joven ávido de lecturas, como lo fue siempre Donoso, no podría estar ajeno al poderoso influjo cultural que desplegaba por entonces Francia, no sólo en su vecina España, sino, en mayor o menor medida, en todo el mundo occidental. De esta influencia transpirenaica, como casi todos los de su generación, bebió el joven Donoso sus primeras ideas políticas, incomprensibles si no se tiene en cuenta el devenir vanguardista de los acontecimientos políticos franceses. No me refiero en especial a la trascendente revolución de 1789, ni a la consiguiente expansión napoleónica, sucesos que a pocos europeos o hispanoamericanos pudieron dejar de afectar de algún modo, sino a la política francesa que se desarrolló a partir de la Carta de 1814, que acompañó el interrumpido reinado de Luis XVIII, y al de su sucesor Carlos X; a los intentos involucionistas de éste, y a su final anticipado por la llamada revolución de julio, que dió lugar a una monarquía burguesa encabezada por Luis Felipe de Orleans. Por último, al devenir de ésta a través de sus distintos ministerios.

 

Fueron éstos los acontecimientos que marcaron el entorno de la juventud de Donoso Cortés. Sus estudios y sus análisis y, como consecuencia, sus pensamientos políticos de entonces estuvieron fuertemente influenciados por la apasionante realidad política de Francia. Esta se convirtió así en estadio avanzado del desarrollo político europeo, guía previa y, por ello, modélica y aleccionadora de la situación española, que a través de la guerra de la independencia, las Cortes de Cádiz, el regreso del rey "deseado", pasando por el trienio liberal, la "invasión" de los cien mil hijos de San Luis, la férrea restauración de Fernando VII, el Golpe de Estado de 1832, y el Estatuto Real, para detenernos sólo aquí, demuestran un paralelismo demasiado evidente y deudor de los sucesos franceses.

 

Desde hacía tiempo la "luz" venía de Francia y Donoso estuvo siempre alerta para recibirla. Si la revolución del 48 o la posterior llegada al poder de Luis Napoleón se consideran indispensables para entender al último Donoso, este papel en su juventud lo desempeñará la revolución de julio y la monarquía de Luis Felipe. Siempre fueron francesas las fuentes básicas en que se inspiró su pensamiento aunque las filtró con las peculiariedades propias de su estilo y de su genio. Liberales doctrinarios sucederán a las lecturas clásicas de la Ilustración. Contrarrevolucionarios franceses como de Bonald, de Maistre, o el romántico Chateaubriand, influyeron, antes de lo que comúnmente se cree, en el pensamiento del extremeño.

 

Si el pensador español recibe con avidez las nuevas tendencias intelectuales que surgen allende los pirineos, también, siguiendo el tópico ilustrado, considera a España vacía de filosofía, no sólo en su tiempo, lo que en parte es correcto, sino, y recojo sus palabras, "siempre es cierto que en la península española jamás levantó sus ramas frondosas a las nubes el árbol de la filosofía" [2] . Su formación afrancesada le aleja del conocimiento de la filosofía española, con gravedad de los pensadores escolásticos del siglo XVI, Suárez, Mariana o Vitoria, en alguno de los cuales sólo se interesó durante los años finales de su vida. La causa del influjo galo la debemos encontrar también en su propio tiempo, la primera mitad del siglo XIX; "de ese maestro soy plagiario" [3] , replicará con orgullo y desdén, a aquellos que tildan de afrancesadas sus Consideraciones sobre la diplomacia, acometiendo luego en contra del estilo desfasado de puristas, "que imitan más o menos al de los escritores del siglo XVI, sin saber que cometen un anacronismo" [4] . Donoso no dejó nunca de sentirse español, pero, como vemos, su formación y su circunstancia le otorgaron una clara disposición receptiva de las principales corrientes del pensamiento galo: "la dote con que me envanezco es un amor entrañable a mi país, y la debilidad que publico es mi inclinación irresistible, instintiva, por la Francia" [5] .

 

La confesión fue sincera. De ambos sentimientos dio copiosas pruebas durante toda su vida.

 

Si bien pudo conocer el pensamiento liberal inglés, el utilitarismo de Bentham y quizás el conservadurismo de Burke, como también la corriente idealista que con fuerza surgía en Alemania, estas fuentes fueron por lo general secundarias dentro de su pensamiento y recibidas, si no conocidas, a través de obras principalmente francesas. Por ello señaló que M. de Staël, Cousin y Constant, tres autores ya leídos por Donoso, "fueron los que principalmente hicieron conocer a la Francia los sistemas filosóficos de la Alemania" [6]  y, probablemente, a su vez, por esa vía los conoció él mismo.

 

Comprendiendo la fuerza de este influjo cultural galo, es como mejor podemos valorar sus constantes reflexiones en torno a los vaivenes políticos de Francia, en estos primeros años de actividad publicista, relacionados con la Carta de 1814 y la revolución de julio de 1830.

 

En este artículo describiremos la conexión  intelectual del español con un sistema, para con él dar, mediante la adopción del principio de la soberanía de la inteligencia, una respuesta global al problema político que planteó el desmoronamiento del Antiguo Régimen en gran parte de Europa. Esta relación esta fundamentada en el ideario que en su día había inspirado la Carta francesa de 1814, y que luego volvió a replantearse con la monarquía luisfelipista. Es decir, en la acción ideológica que llevó a cabo el grupo, más que partido, conocido como liberal doctrinario, que en torno a Royer-Collard reúne, entre otros, a Guizot, Víctor de Broglie, Barante, y Pierre F. de Serre; todos destacados intelectuales que ingresan en la política en una época compleja y de constante agitación, en busca de una línea conciliadora entre el antiguo y el nuevo régimen, propiciando el justo medio que sin retornar al pasado, logre acabar con los excesos provenientes de la revolución.

 

Donoso, en 1834, denota ya una marcada y evidente inspiración en el grupo al que nos acabamos de referir. Aquel año, el joven intelectual español se queja amargamente de que el principio victorioso de julio de 1830, es decir, el de los doctrinarios, el de la inteligencia, no haya sido extendido desde Francia hacia el resto de Europa. Ello se lo imputa a la política internacional no intervencionista que ha impuesto la Santa Alianza a Luis Felipe de Orleans y que no disgusta a algunos de los propios doctrinarios, que la considerarían propicia para una mayor consolidación de la frágil situación francesa. Donoso, por el contrario, pretende hacer ver el supuesto papel histórico que corresponde al país galo en la expansión por Europa del principio de la inteligencia. Para el extremeño, la revolución de Julio debió de tener el carácter de "una revolución en las ideas" [7]  y Francia, por someterse a los dictados de la Santa Alianza, habría renunciado a su misión. No es, sin embargo, filantrópica y desinteresada la posición de Donoso, sino más bien un llamado a sus vecinos a intervenir en apoyo de la causa liberal en España, acuciada por entonces en la guerra contra el carlismo. Con esta intención plantea que el gobierno francés debe encabezar una guerra en el extranjero que le permitiría exteriorizar el espíritu revolucionario, sacarlo de sus fronteras, ya que, de otro modo, pugnaría internamente por destruir la propia nación francesa. Para Donoso la revolución fue, en 1830, una respuesta al intento de restauración que encabezó Carlos X, por lo tanto la estima como una "revolución inmensa, poderosa, que debió presidir la regeneración del mundo... pero que se está devorando a sí misma por no haber tenido la conciencia de su poder y el sentimiento de su fuerza" [8] . El espíritu revolucionario es disolvente en la situación que aqueja a Francia, ya que se expresaría en contra de la monarquía orleanista, instauradora del principio de la inteligencia; por el contrario, ese espíritu es positivo en España, ya que, mientras el carlismo se mantenga en armas, es decir, el absolutismo [9]  se plantee como una alternativa de poder, la posibilidad de un regreso al Antiguo Régimen es, a diferencia de Francia, aún factible.

 

Al año siguiente vuelve el extremeño a referirse a la revolución de julio en términos incluso de mayor admiración, en contraste, esta vez, con la cruda situación española que califica, expresivamente, como un "combate de pigmeos que luchan en una tierra movediza" . La revolución de julio, en cambio, "ha saludado al pueblo rey que hizo en tres días la obra de tres siglos y se reposó después majestuoso y sublime" [10] . Está aquí el valor que Donoso reconoce en esta hora a la conocida como revolución de 1830: produjo rapidos avances y reformas, acabó con la tentación absolutista y, de forma simultánea, ha dominado el inicial espíritu revolucionario disolvente, al defender sus justas conquistas. En el fondo, se está valorando la significativa situación por la cual los doctrinarios se han hecho con los frutos de la revolución y, al mismo tiempo, la han logrado encauzar y dominar. Es en estos años cuando aparecen con énfasis, en el pensador español, los aspectos positivos de las revoluciones, en la medida en que hayan sido guiadas por la inteligencia. En el caso de julio de 1830, la revolución significaría la encarnación momentánea de la inteligencia en todas las clases sociales, conformando así el pueblo una existencia excepcional (así lo será también su soberanía), que se diluirá luego, en tiempos normales, al retornar la inteligencia a las clases medias.

 

El propio Donoso no esconde en sus Lecciones de derecho político su seguimiento del ideario doctrinario al citarlos para afirmar el principio de la soberanía de la inteligencia, incluso en tiempos de revolución, y más aun cuando salen en defensa de la revolución de julio, legitimada por la "falta de inteligencia" demostrada por la restauración de Carlos X, como por la conducta, "prudente y entendida" [11] , que la revolución adoptó tras la victoria. Este es el ánimo que habría acompañado al sector moderado en el golpe de 1832 en La Granja. Pero más allá de la utilidad que le pueda prestar para legitimar la situación española, de los doctrinarios franceses recoge Donoso la idea maestra de su esquema político de entonces la soberanía radicada en la inteligencia y, aun más, un método de interpretación de la realidad, un instrumento filosófico: el eclecticismo. Royer-Collard, padre y, en sus inicios, primera figura del grupo doctrinario, conocedor de la filosofía escocesa del sentido común, esbozó principios que, al dedicarse él por entero a las actividades políticas, desarrollaría su discípulo Víctor Cousin, incorporando influencia del idealismo alemán. Lo que propone Cousin con su eclecticismo, ya en 1828, es encontrar la vía media, la selección de las partes que se consideran verdaderas de cada sistema, en la creencia de que ninguno de ellos era completo, y de que no existía tampoco ninguno absolutamente falso. Como lo describe el propio Donoso, su pretensión "era proceder, por medio del examen de todos los sistemas filosóficos, a la reunión en un cuerpo de doctrina de todas las verdades exageradas o incompletas que encerraban en su seno" [12] .

 

El espíritu de esta corriente del justo medio lo reconocía emblemáticamente plasmado en la Carta francesa de 1814, que en lo político buscaba cuidadosamente el objetivo de "hacer posible el tránsito al Estado constitucional salvaguardando los derechos de la Corona" [13] . Por ello la Carta no era una Constitución corriente sino, más bien, una concesión voluntaria del rey que pretendería dar satisfacción a lo que fue considerado como una necesidad de sus súbditos. La soberanía no está en cuestión, arranca la Carta de la autoridad Real que, graciosamente, concede ciertas prerrogativas como, históricamente, la monarquía tradicional pudo en su tiempo realizar análogas concesiones. Los doctrinarios participaron directamente con esta fórmula, colaborando desde la Cámara con el gobierno de Luis XVIII en una actitud de orientación política que fue tornándose cada vez más crítica, a medida que el régimen tiende hacia políticas restauracionistas. El régimen que emana de la revolución de julio será distinto, como diferente será la nueva Carta, e incluso la casa reinante. Ya no se trata de una mera concesión real, sino de una aceptación del nuevo rey de jurar y observar una Carta. A Luis Felipe se le llama por una necesidad superior, no sólo dinástica ni únicamente popular; busca su reinado la combinación de ambos principios de legitimidad, originado, como fue, por peculiares e irrepetibles circunstancias. De allí que su posición representó finalmente una transición de uno a otro principio, diluyéndose la nueva legitimidad y la posibilidad de la instauración de una nueva dinastía. [14]Cuando Donoso se refirió al Estatuto Real, que en España se estableció en 1834, calificándolo como un equilibrio entre el pasado y la modernidad a través del principio de inteligencia, bien cabe aplicar también esta inspiración a las Cartas francesas de las que venimos hablando. Fueron estos documentos los que, en desmedro de los antecedentes constitucionales de 1791 en Francia y de 1812 en España, dan pasos seguros y no precipitados que permiten la transición hacia un nuevo régimen que culminará, años después, instaurando la soberanía popular. Donoso, en esta época, piensa aún en la capacidad de contención del pueblo que suponen las clases medias, a través del mecanismo electoral censitario, ya que, como veremos, jamás fue partidario de la soberanía popular.

 

El anhelo de tranquilidad, tras decenios de enorme agitación, la victoria de cierto ánimo de equilibrio, ante fuerzas radicales desorganizadas, permitió que fueran los doctrinarios quienes se hicieran con el poder tras los tumultos de 1830. Como lo ha descrito Ortega y Gasset:

 

"el grupo de Royer-Collard y Guizot fue el que primero dominó intelectualmente los hechos, que tuvo una doctrina. Y, como es inevitable, se hizo dueño de ellos" [15]

 

El momento político les era de modo evidente favorable, y supieron aprovecharlo. Su doctrina era precisamente la del justo medio, aquella que no quería regresar al pasado, ni olvidarlo del todo. Que quería las conquistas de la revolución, pero no sus desmanes..

 

En este período, que se extiende entre los años 1834 y 1837, es cuando Donoso se muestra mayormente imbuido, decididamente influenciado por una corriente específica de pensamiento, el liberalismo doctrinario. Lo acogió globalmente con el entusiasmo y vigor propio de su carácter y al mismo tiempo con cierto particularismo. Dogmatiza el principio doctrinario de la inteligencia, convirtiéndolo, durante estos tres años, en una especie de panacea, capaz de resolverlo todo y, sin el cual, nada podría entenderse correctamente de la vida en sociedad. No obstante, el joven intelectual español asume el doctrinarismo con peculiariedad propia, lo diferencia de los franceses su consideración unitaria del poder y la consiguiente crítica a su pretendida división; aspecto éste clave dentro de su pensamiento político, más allá de sus años doctrinarios.

 

Existe innegable unidad en los escritos donosianos que van desde 1834 hasta la última de sus Lecciones, en febrero de 1837. Dentro del itinerario de sus ideas, lo considero un paréntesis, esencialmente marcado por su dependencia ideólogica del grupo francés de Royer-Collard. Influencia del liberalismo doctrinario, pudo muy probablemente recibir antes de 1834 y algo después de 1837, pero en ningún caso determinante. Sólo entre aquellos años Donoso se mostró consciente y convencido de la eficacia de su sistema basado en la soberanía de la inteligencia. Antes o después, aparece difuso; sin plantearlo con decisión, hacia 1832 o 1833, y, ciertamente, haciéndole compartir con otros, desde 1837, el sitial director de la vida social, que en su día le había atribuido en exclusiva. Ningún autor ha negado unidad a los tres escritos claves de este paréntesis [16] , y así se entiende que hayan sido considerados como su apogeo doctrinario, aunque se ha tendido en general a extender en demasía la fase liberal doctrinaria, o mejor dicho, a no delimitarla con suficiente claridad. Curiosamente, Joaquín Costa [17] , aún en el siglo XIX, con innegable acierto distingue estos escritos de los que inmediatamente le anteceden y continúan. Coincido pues con Costa en ajustar la fase doctrinaria al período 1834-1837.

 

Distinto es lo que acontece con el eclecticismo, ya que, como método o filosofía, si bien Donoso lo critica con agudeza junto al doctrinarismo durante 1838, posteriormente, en variadas ocasiones y con no menos ingenio, lo continuará utilizando cuando las circunstancias se lo señalen conveniente. Así, avanzados los años cuarenta, Donoso seguirá, con altos y bajos, utilizando el método de interpretación ecléctico para enfrentarse a la realidad de su sociedad, probablemente por carecer de otro método que lo reemplace o, simplemente, porque es el que, en ocasiones, mejor le satisface a sus propósitos político-publicistas.

·- ·-· -······-·
Gonzalo Larios Mengotti


[1] Donoso, durante su infancia en Don Benito, estudió en su casa bajo la guía de Antonio Beltrán, un tutor que desde Madrid trajeron sus padres. Beltrán le habría enseñado latín, francés y las materias básicas que necesitaría en Salamanca. Graham, Ob. cit. p. 22. 

[2]  Filosofía de la Historia  Juan Bautista Vico (1838), OC, I, 620.

[3]  Respuesta a una crítica (1834), OC, I, 288.

[4]  Ibid, 289.

[5]  Relaciones entre Francia y España (1838), OC, I, 618.

[6]  Lecciones de derecho político (1836-1837), OC, I, 425. En adelante me refiriré a este escrito sólo como Lecciones.

[7] Consideraciones sobre la diplomacia (1834), OC, I, 261.

[8]  Ibid., 253.

[9]  Para el liberalismo decimonónico, el carlismo representó el absolutismo. El concepto no es ciertamente el más adecuado, ya que la intención carlista fue la restauración de la monarquía tradicional española, que, expresada en el lema Dios, Rey y Fueros, pretendió diferenciarse de la monarquía absoluta de inspiración francesa. Ver Suárez, Federico: La crisis política del Antiguo Régimen en España.

[10]  Sobre la opinión emitida por el señor Istúriz (1835), OC, I, 298.

[11]  Lecciones (1836-1837), OC, I, 427. 

[12] Ibid. p.426. Antes de dos años, Donoso cambiará su visión optimista ante el eclecticismo. Ver Polémica con Rossi (1838), OC, I, pp. 492-510.

[13]  Díez del Corral, Ob. cit. p. 56.

[14]  Metternich resume así su punto de vista con respecto a la frágil condición del trono de Luis Felipe: "El trono del nueve de agosto se ha erigido en lugar del que acaba de caer. ¿Está éste en posesión de buenas condiciones de vitalidad? Ciertamente que no. Por un lado carece de la autoridad de los sufragios populares, en los cuales se han apoyado todas las formas de gobierno que han existido entre 1792 y 1801; por otro le falta el apoyo tan poderoso del derecho histórico, sobre el cual reposaba el trono restaurado; tampoco tiene la fuerza popular de la República, aunque esta fuerza sea extremadamente brutal; del Imperio no tiene la gloria militar ni el genio ni el brazo de Napoleón; tampoco dispone del apoyo del principio de legitimidad que poseen los Borbones... El trono de 1830 era, en cierta manera, algo híbrido: la historia se encargará de demostrar su debilidad". ( Mémoires, documents et écrits divers laissés par le prince Metternich, Paris, 1882) . Citado por Roger, Juan: Ideas políticas de los católicos franceses , Madrid, 1951, p. 168.

[15] Ortega y Gasset, José. "Guizot y la Historia de la civilización en Europa", prólogo a F. Guizot, Historia de la civilización en Europa , Madrid, 1990, p.10.

[16]  Estimo como tales, Consideraciones sobre la diplomacia (1834), La Ley Electoral (1835), y  Lecciones de derecho político (1836-1837).

[17] Costa, Joaquín: "Filosofía política de Donoso Cortés" en Estudios jurídicos y políticos, Madrid, 1884, p.123. Costa señala cuatro períodos en la vida del "ilustre marqués de Valdegamas"; el segundo lo sitúa entre 1834 y 1837, y lo caracteriza por su "eclecticismo doctrinario".


dimanche, 24 janvier 2010

Erik M. Ritter von Kuehnelt-Leddihn: Garantiert unmodern

Garantiert unmodern

Ex: http://www.deutsche-stimme.de/

Immer noch lesenswert: Randnotizen zum 100. Geburtstag von Erik Maria Ritter von Kuehnelt-Leddihn

kuehnelt-leddihn
Rechts, aber nicht unbedingt
»konservativ«: Kuehnelt-
Leddihn (1909 – 1999)

Der am 31. Juli 1909 geborene Erik Maria Ritter von Kuehnelt-Leddihn zählt zu den  beinahe vergessenen Geistesgrößen des vergangenen Jahrhunderts – Grund genug, sich seiner zum 100. Geburtstag wieder zu erinnern.

Gebürtiger Steirer, studierte Kuehnelt-Leddihn, schon in jungen Jahren tiefkatholische Anhänger der Reichsidee altösterreichischer Prägung, in Wien und Budapest, unternahm 1930 im Alter von 21 Jahren seine erste Rußlandreise, über die er für eine konservative ungarische Zeitung berichtete, und lehrte von 1937 bis 1947 an verschiedenen Kollegs in den USA.

Zu dieser Zeit hatte er auch bereits seine ersten zeitkritischen Romane veröffentlicht, die stets den Glauben einbezogen. Kuehnelt-Leddihn betrachtete sich als Mann der äußersten Rechten und war ein Gegner der modernen, sich von der Französischen Revolution herleitenden kollektivistischen Ideologien; die Französische Revolution stellte für ihn überhaupt die Urkatastrophe der neueren Geschichte dar. In ihrem Gefolge griff sowohl die Demokratie mit ihren – für Kuehnelt weder theologisch, philosophisch noch anderweitig begründbaren – Prinzipien der Gleichheit aller Menschen und der Richtigkeit von Mehrheitsentsåcheidungen und ihrer Neigung zur Unterdrückung von völkischen und sozialen Minderheiten sowie Eliten Platz als auch der logisch an die Demokratie anknüpfende egalitäre Sozialismus und der ebenfalls auf der Demokratie gründende »identitäre«, d.h. gleichmacherische Nationalismus.

Den Nationalsozialismus betrachtete er als Synthese beider und verortete auch ihn auf der »linken« Seite des politischen Spektrums. Hier ist der bei Kuehnelt-Leddihn zuweilen besondere Gebrauch der Begriffe zu beachten: »Identitär« bedeutet ihm so viel wie »übereinstimmend«; einem solchen Prinzip stellte er das »diversitäre« gegenüber, d.h. ein die gewachsene Vielfalt achtendes. Den »Nationalismus« betrachtete er als »identitär«, der Gewachsenes in ein Prokustesbett zwängen möchte, wie es beispielsweise auch in der Französischen Revolution der Fall war.

Demokratische Sentimentalisierung

Die Ursache für die Katastrophen der Moderne sah der Ritter, der sich nach seiner Rückkehr Ende der vierziger Jahre in Tirol niederließ, im großen Abfall vom Christentum seit dem 18. Jahrhundert und im damit verbundenen Machbarkeitswahn eines sich selbst überschätzenden Menschentums. Er gab einem übervölkischen, traditionalen Reichsgedanken den Vorzug, einem nicht auf »Blut«, sondern »Boden« bezogenen Patriotismus sowie dem freiheitlichen Rechtsstaat und wandte sich gegen die demokratische Sentimentalisierung und Unsachlichkeit, die er in den Wahlkämpfen mit ihrem Stimmenfang und im parlamentarischen Betrieb ausmachte.

In seinem 1953 erschienenen Werk »Freiheit oder Gleichheit« vertrat Kuehnelt unter Bezug auf zahlreiche Denker des 19. Jahrhunderts die These, Freiheit und Gleichheit seien unvereinbar, und beschäftigte sich ausführlich mit den Grundideen von Monarchie und Demokratie und mit politischen Prinzipien. Er unterschied vier Phasen des Liberalismus, wobei er die dritte Phase – den relativistischen Altliberalismus – nicht als im wirklichen Sinne liberal betrachtete, während er für den entstehenden Neuliberalismus, für den u.a. Röpke und Müller-Armack standen, Sympathien hegte.

Als Alternative zur Liberaldemokratie, die an ihrem inneren Gegensatz scheitern und zu Chaos oder totalitärer Tyrannei führen müsse, wie mehrfach geschehen, plädierte Kuehnelt für ein unparteiisches, professionelles Beamtentum, einen unabhängigen Gerichtshof, dem auch Theologen angehören sollten, und eine monarchische Spitze samt Kronrat. Ständische und regionale Volksvertretungen sah sein grober Entwurf ebenfalls vor.

Aktuelle Warnung vor der Linken

Zeitlebens warb Kuehnelt, der 1957 mit alljährlichen ausgedehnten Weltreisen begann, für die Formulierung einer konservativen oder rechten Ideologie, die theistisch und transzendental ausgerichtet und »personalistisch« sein, Vernunft und Gefühl in Einklang bringen, Tradition und Erfahrung achten, die gewachsene Vielfalt des Menschengeschlechts wertschätzen und Staat und Kirche in ein geordnetes Verhältnis bringen solle.

Vorrangig war für ihn die Wahrung von Freiheit, Recht und Ordnung. Er war überzeugt, daß die Rechte ohne eine solche zusammenhängende Schau und nur mit reinem Pragmatismus der Linken – der östlichen wie der westlichen oder auch einer möglichen Neuauflage des Nationalsozialismus – und ihren profilierten Ideologien nicht entgegentreten könne, worin er sich beispielsweise mit Gerd-Klaus Kaltenbrunner einig sah.

Mit diesem Thema befaßte sich Kuehnelt u. a. in den Aufsätzen »Der Anti-Ideologismus« (Criticon 120, 1973), »Ideologie und Utopie« (in: »Rechts, wo das Herz schlägt«, Graz, 1980) und »Die Krise der Rechten« (in: »Die recht gestellten Weichen«, Wien, 1989). Seine Vorstellungen einer Rechtsideologie stellte er ausführlich im 1982 in den USA erschienenen »Portland-Manifest« dar.

Die Selbstverortung vieler Konservativer als in der Mitte stehend erschien Kuehnelt als mutlos, den Begriff »konservativ« lehnte er ab, da dieser nicht besage, was zu erhalten sei. 1985 erschien eine Generalabrechnung mit der Moderne, »Die falsch gestellten Weichen. Der rote Faden 1789-1984«, in welcher Kuehnelt-Leddihn die neue Geschichte seit der Französischen Revolution aus seiner Sicht kenntnisreich, zuweilen, wie es ihm oft beliebte, im guten Sinne polemisch, darstellte, »eine Anti-Festschrift, die es in sich hat«, wie sich Caspar von Schrenck-Notzing in seiner Besprechung in Criticon ausdrückte.

Trotz der Ereignisse der Jahre 1989-1991 besteht auch heute noch, wenngleich vielleicht in geschwächter Form, das von Kuehnelt festgestellte Ideologiemonopol der Linken. Die Vormachtstellung der Linken bedeutete für Kuehnelt die Herrschaft der Halbgebildeten über die Ungebildeten in Medien und Schulen, Die wahrhaft großen Geister hätten stets rechts gestanden, äußerte er in einem Criticon-Aufsatz 1991.
1995 warnte er unter dem Titel »Die Linke ist noch nicht am Ende« in »Theologisches« die Rechte vor der Unterschätzung der vermeintlich geschwächten Linken. Diese sei »ihre zwei größten Hypotheken losgeworden: den Köhlerglauben an den Staatskapitalismus (der richtige Name für den Sozialismus) und die friedensbedrohende UdSSR mit ihren Gulags und anderen Greueltaten.«

»Panoptikum für unmoderne Menschen«

Sie sei gegen Bindungen und wende sich nun neben der Kirche vor allem gegen die Familie, ihr Programm sei »nicht mehr die Götterdämmerung marxistisch-leninistischen Charakters [...] sondern die Verschweinung der Völker, die zum Schluß womöglich nur mehr aus Hurenböcken, Dirnen, Urningen, verwahrlosten Kindern, Drogensüchtigen und Aids-Kranken bestehen, eine wahrhaft ›marcusische‹ Vision!« An der Richtigkeit dieser Anmerkungen kann heute kaum noch ein Zweifel bestehen. Die nach 1990 aufkeimende Hoffnung, mit linker Utopie und daraus hervorgehenden, von Lüge begeleiteten Experimenten sei es vorbei, hat sich noch nicht erfüllt.

Seinen Lebensabend verbrachte Kuehnelt-Leddihn weiterhin studierend, schreibend und lehrend. Über Kindheit und Jugend sowie seine ausgedehnten Bildungs- und Vortragsreisen schrieb er sein letztes, erst posthum im Jahre 2000 erschienenes Buch »Weltweite Kirche«. Die Theologie hatte er immer als Kern seiner Beschäftigung betrachtet. Am 26. Mai 1999 starb Erik von Kuehnelt-Leddihn in Lans/Tirol.

Manfred Müller hatte schon 1981 in Nation & Europa in seiner Besprechung des bereits erwähnten Aufsatzbandes »Rechts, wo das Herz schlägt. Ein Panoptikum für garantiert unmoderne Menschen« geäußert, man treffe »heute selten auf einen so belesenen und weitgereisten Schriftsteller wie Kuehnelt-Leddihn«, und er biete »auch Nationalisten vielfältige Anregung zu fruchtbarer geistiger Auseinandersetzung.« Und der im Januar dieses Jahres verstorbene Freiherr von Schrenck-Notzing, welcher den Ritter gut gekannt hatte, bezeichnete ihn 2006 als »Fundgrube, die noch der Erschließung harrt.«

Über Erik von Kuhnelt-Leddihn erscheint voraussichtlich Ende des Jahres eine von Marco Reese, Marius Augustin und Martin Möller  herausgegebene Monographie.

Marco Reese

vendredi, 08 janvier 2010

Armin Mohler et la révolution conservatrice

die-konservative-revolution-196x300.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Armin Mohler et la «Révolution Conservatrice»

(2ième partie)

 

par Luc PAUWELS

 

 

Dans notre numéro 59/60 de novembre-décembre 1989, Robert Steuckers avait analysé la première partie de l'introduction théorique d'Armin Mohler. Au même moment, Luc Pauwels, directeur de la revue Teksten, Kommentaren en Studies (in nr. 55, 2de trimester 1989), se penchait sur le même maître-ouvrage de Mohler et mettait l'accent sur la seconde partie théorique, notamment sur la classification des différentes écoles de ce mouvement aux strates multiples. Nous ne reproduisons pas ci-dessous l'entrée en matière de Pauwels, car ce serait répéter en d'autres mots les propos de Steuckers. En revanche, le reste de sa démonstration constitue presque une sorte de suite logique à l'analyse parue dans notre n°59/60.

 

Débuts et contenu

 

Les premiers balbutiements de la Révolution Conservatrice, écrit Mohler, ont lieu lors de la Révolution française: «Toute révolution suscite en même temps qu'elle la contre-révolution qui tente de l'annihiler. Avec la Révolution française, advient victorieusement le monde qui, pour la Révolution Conservatrice représente l'adversaire par excellence. Définissons provisoirement ce monde comme celui qui refuse de mettre l'immuable de la nature humaine au centre de tout et croit que l'essence de l'homme peut être chan­gée. La Révolution française annonce ainsi la possibilité d'un progrès graduel et estime que toutes les choses, relations et événements sont explicables rationnellement; de ce fait, elle essaie d'isoler chaque chose de son contexte et de la comprendre ainsi pour soi».

 

Mohler nous rappelle ensuite un malentendu te­nace, que l'on rencontre très souvent lorsque l'on évoque la Révolution Conservatrice. Un malen­tendu qui, outre la confusion avec le fascisme et le national-socialisme, lui a infligé beaucoup de tort: c'est l'idée erronée qui veut que tout ce qui est (ou a été) fait et dit contre la Révolution fran­çaise, son idéologie et ses conséquences, relève de la Révolution Conservatrice.

 

La Révolution de 1789 a dû faire face, à ses dé­buts, à deux types d'ennemis qui ne sont en au­cune manière des précurseurs de la Révolution Conservatrice. D'abord, il y avait ses adversaires intérieurs, qui estimaient que les résultats de la Révolution française et/ou de son idéologie égali­taire étaient insuffisants. Cette opposition interne a commencé avec Gracchus Babeuf (1760-1797), adepte d'«Egalité parfaite» (la majuscule est de lui), qui voulait supprimer toutes les formes de propriété privée et espérait atteindre l'«Egalité des jouissances». Sa tentative de coup d'Etat, appelée la «Conjuration des Egaux», fut tué dans l'œuf et l'aventure se termina en parfaite égalité le 27 mai 1797... sous le couperet de la guillotine.

 

Toutes les tendances qui puisent leur inspiration dans l'égalitarisme de Babeuf et qui, sur base de ces idées, critiquent la Révolution française, n'ont rien à voir, bien entendu, avec la Révolution Conservatrice (RC). Elles appartien­nent, pour être plus précis, aux traditions du marxisme et de l'anarchisme de gauche.

 

Ensuite, la Révolution française, dès ses débuts, a eu affaire à des groupes qui la combattaient pour maintenir ou récupérer leurs positions so­ciales (matérielles ou non), que les Jacobins me­naçaient de leur ôter ou avaient détruites. Les adeptes de la RC ont toujours eu le souci de faire la différence entre leur propre attitude et cette position; ils ont qualifié l'action qui en découlait, écrit Mohler, de «restauratrice», de «réactionnaire», d'«altkonservativ» («vieille-con­servatrice»), etc. Mais, au cours du XIXième siècle, les tenants de la RC (qui ne porte pas en­core son nom, ndt) et les «Altkonservativen» font face à un ennemi commun, ce qui les force trop souvent à forger des alliances tactiques avec les réactionnaires, à se retrouver dans le même camp politique. Ainsi, la différence essentielle qui sé­pare les uns des autres devient moins perceptible pour les observateurs extérieurs. Dans les rangs mêmes de la RC, on s'aperçoit des ambiguïtés et le discours s'anémie. Pour les RC de pure eau, ces alliances et ces ambiguïtés auront trop sou­vent des conséquences fatales. Mohler nous l'explique: «Car, à la RC, n'appartiennent  —comme le couplage paradoxal des deux mots l'indique— que ceux qui s'attaquent aux fonde­ments du siècle du progrès sans simplement vouloir une restauration de l'Ancien Régime».

 

Sous sa forme pure, la RC est toujours restée au stade de la formulation théorique. Rauschning, lui aussi, décrit ce caractère composite dans son ouvrage intitulé précisément Die Konservative Revolution: «Le mouvement opposé, qui se dresse contre le développement des idées révolu­tionnaires, a amorcé sa croissance au départ de stades initiaux embrouillés et semi-conscients, pour atteindre ce que nous nommons, avec Hugo von Hoffmannstahl, la RC. Elle représente le renversement complet de la tendance politique actuelle. Mais ce contre-mouvement n'a pas en­core trouvé d'incarnation pure, adaptée à lui-même. Il participe aux tentatives d'instaurer des modèles d'ordre totalitaire et césariste ou à des essais plattement réactionnaires. C'est pour toutes ces raisons, précisément, qu'il reste confus et brouillon...».

 

Sur base de cette constatation, Mohler observe que toute description cohérente du processus de maturation de la RC se mue automatiquement en une véritable histoire des idées. Si on cherche à la décrire comme une partie intégrante de la réalité politique, elle déchoit en un événement subalterne ou marginal. De ce fait, il ne faut pas donner des limites trop exiguës à la RC: elle déborde en effet sur d'autres mouvements, d'autres courants de pensée. Et vu le flou de ces limites, flou dû à la très grande hétérogénéité des choses que la RC embrasse, des choses qui font irruption dans son champs, Mohler est obligé de tracer une démar­cation arbitraire afin de bien circonscrire son su­jet. Il s'explique: «Au sens large, le terme "Révolution Conservatrice" englobe un ensemble de transformations s'appuyant sur un fondement commun, des transformations qui se sont ac­complies ou qui s'annoncent, et qui concerne tous les domaines de l'existence, la théologie comme par exemple les sciences naturelles, la musique comme l'urbanisme, les relations inter­familiales comme les soins du coprs ou la façon de construire une machine. Dans notre étude, nous nous bornerons à donner une définition ex­clusivement politique au terme; notre étude se limitant à l'histoire des idées, nous désignons par "Révolution Conservatrice" une certaine pensée politique».

 

Les pères fondateurs, les précurseurs et les parrains

 

Une pensée politique, une Weltanschauung, im­plique qu'il y ait des penseurs. Mohler les appelle les Leitfiguren,  les figures de proue, que nous nommerions par commodité les «précurseurs». Mohler souligne, dans la seconde partie de son ouvrage, inédite dans les premières éditions, que l'intérêt pour les précurseurs s'est considérable­ment amplifié. Les figures qui ont donné à la RC sa plus haute intensité spirituelle et psychique, ses penseurs les plus convaincants et aussi ses incarnations humaines les plus irritantes ont dé­sormais trouvé leurs biographes et leurs ana­lystes».

 

Si l'on parle de «père fondateur», il faut évidem­ment citer Friedrich Nietzsche (1844-1900), re­connu par les amis et les ennemis comme l'initiateur véritable du phénomène intellectuel et spirituel de la RC. A côté de lui, le penseur fran­çais, moins universellement connu, Georges Sorel (1847-1922)... Nous reviendrons tout à l'heure sur ces deux personnages centraux.

 

Au second rang, une génération plus tard, nous trouvons le «trio» (ainsi que le nomme Mohler): Carl Schmitt (1888-1985), Ernst Jünger (°1895) et Martin Heidegger (1889-1976). Mohler cite ensuite toute une série de penseurs dont l'influence sur la RC est sans doute moins directe mais non moins intense. Les parrains non-alle­mands sont essentiellement des sociologues et des historiens du début de notre siècle qui, très tôt, avaient annoncé le crise du libéralisme bour­geois: les Italiens Vilfredo Pareto (1848-1923) et Gaëtano Mosca (1858-1941), l'Allemand Robert(o) Michels (1876-1936), installé en Italie, l'Américain d'origine norvégienne Thorstein Veblen (1857-1929). L'Espagne nous a donné Miguel de Unamuno (1864-1936) puis, une gé­nération plus tard, José Ortega y Gasset (1883-1956). La France, elle, a donné le jour à Maurice Barrès (1862-1923).

 

Quelques-uns de ces penseurs revêtent une double signification pour notre propos: ils sont à la fois «parrains» de la RC en Allemagne et partie intégrante dans les initiatives conservatrices-révo­lutionnaires qui ont animé la scène politico-idéo­logiques dans nos propres provinces.

 

Parmi les «parrains» allemands de la RC, Mohler compte le compositeur Richard Wagner (1813-1883), les poètes Gerhart Hauptmann (1862-1946) et Stefan George (1868-1933), le psycho­logue Ludwig Klages (1872-1956) et, bien sûr, Thomas Mann (1875-1955), Gottfried Benn (1896-1956) et Freidrich-Georg Jünger (1898-1977), le frère d'Ernst.

 

D'autres parrains allemands sont à peine connus dans nos provinces; Mohler les cite: les poètes Konrad Weiss (1880-1940) et Alfred Schuler (1865-1923), les écrivains Rudolf Borchardt (1877-1945) et Léopold Ziegler (1881-1958), un ami d'Edgar J. Jung, connu surtout pour son livre Volk, Staat und Persönlichkeit («Peuple, Etat et personnalité»; 1917). Enfin, il y a Max Weber (1864-1920), le plus grand sociologue que l'Allemagne ait connu, célèbre dans le monde entier mais pas assez pratiqué dans nos cercles non-conformistes.

 

La RC dans

d'autres pays

 

Pour Mohler, la RC est «un phénomène politique qui embrasse toute l'Europe et qui n'est pas en­core arrivé au bout de sa course». Dans la préface à la première édition de son ouvrage, nous lisons que la RC est «ce mouvement de rénovation intel­lectuelle qui tente de remettre de l'ordre dans le champs de ruines laissé par le XIXième siècle et cherche à créer un nouvel ordre de la vie. Mais si nous ne sélectionnons que la période qui va de 1918 à 1932, nous pouvons quand même affir­mer que la RC commence déjà au temps de Goethe et qu'elle s'est déployée sans interruption depuis lors et qu'elle poursuit sa trajectoire au­jourd'hui sur des voies très diverses. Et si nous ne présentons ici que la partie allemande du phé­nomène, nous n'oublions pas que la RC a touché la plupart des autres pays européens, voire cer­tains pays extra-européens».

 

Mohler réfute la thèse qui prétend que la RC est un phénomène exclusivement allemand. Il suffit de nommer quelques auteurs pour ruiner cet opi­nion, explique Mohler. Quelques exemples: en Russie, Dostoievski (1821-1881), le grand écri­vain, chaleureux nationaliste et populiste russe; les frères Konstantin (1917-1860) et Ivan S. Axakov (1823-1886). En France, Georges Sorel (1847-1922), le social-révolutionnaire le plus original qui soit, et Maurice Barrès (1862-1923). Ensuite, le philosophe, homme politique et écri­vain espagnol Miguel de Unamuno (1864-1936), l'économiste et sociologue italien Vilfredo Pareto (1848-1923), célèbre pour sa théorie sur l'émergence et la dissolution des élites. En Angleterre, citons David Herbert Lawrence (1885-1930) et Thomas Edward Lawrence (1888-1935), qui fut non seulement le mystérieux «Lawrence d'Arabie» mais aussi l'auteur des Seven Pillars of Wisdom,  de The Mint,  etc.

 

Cette liste pourrait être complétée ad infinitum. Bornons-nous à nommer encore T.S. Eliot et le grand Chesterton pour la Grande-Bretagne et Jabotinski pour la diaspora juive. Tous ces noms ne sont choisis qu'au hasard, dit Mohler, parmi d'autres possibles.

 

Dans les Bas Pays de l'actuel Bénélux, on ob­serve un contre-mouvement contre les effets de la Révolution française dès le début du XIXième siècle. En Hollande, les conservateurs protestants se donnèrent le nom d'«antirévolutionnaires», ce qui est très significatif. Guillaume Groen van Prinsterer (1801-1876) et Abraham Kuyper (1837-1920) donnèrent au mouvement antirévo­lutionnaire et au parti du même nom (ARP, de­puis 1879) une idéologie corporatiste et orga­nique de facture nettement populiste-conservatrice (volkskonservatief). Conrad Busken Huet (1826-1886), prédicateur, journaliste et romancier, in­fléchit son mouvement, Nationale Vertoogen, contre le libéralisme, héritier de la Révolution française. Son ami Evert-Jan Potgieter (1808-1875) qui, en tant qu'auteur et co-auteur de De Gids,  avait beaucoup de lecteurs, évolua, lui aussi, dans sa critique de la société, vers des positions conservatrices-révolutionnaires; il dé­crivait ses idées comme participant d'un «radicalisme conservateur» (konservatief radika­lisme).

 

Après la première guerre mondiale, aux Pays-Bas, les idéaux conservateurs-révolutionnaires avaient bel et bien pignon sur rue et se distin­guaient nettement du conservatisme confession­nel. Ainsi, le Dr. Emile Verviers, qui enseignait l'économie politique à l'Université de Leiden, adressa une lettre ouverte à la Reine, contenant un programme assez rudimentaire d'inspiration con­servatrice-révolutionnaire. Sur base de ce pro­gramme rudimentaire, une revue vit le jour, Opbouwende Staatkunde  (Politologie en marche). Le philosophe et professeur Gerard Bolland (1854-1922) prononça le 28 septembre 1921 un discours inaugural à l'Université de Leiden, tiré de son ouvrage De Tekenen des Tijds (Les signes du temps), qui lança véritablement le mouvement conservateur-révolutionnaire aux Pays-Bas et en Flandre.

 

Dans les lettres néerlandaises, dans la vie intellec­tuelle des années 20 et 30, les tonalités et in­fluences conservatrices-révolutionnaires étaient partout présentes: citons d'abord la figure très contestée d'Erich Wichman sans oublier Anton van Duinkerken, Gerard Knuvelder, Menno ter Braak, Hendrik Marsman et bien d'autres. En Flandre, la tendance conservatrice-révolutionnaire ne se distingue pas facilement du Mouvement Flamand, du nationalisme flamand et du courant Grand-Néerlandais: la composante national(ist)e de la RC domine et refoule facilement les autres. Hugo Verriest et Cyriel Verschaeve, deux prêtres, doivent être mentionnés ici (1), de même qu'Odiel Spruytte (1891-1940), un autre prêtre peu connu mais qui fut très influent, surtout parce qu'il était un brillant connaisseur de l'œuvre de Nietzsche (2). En dehors du mouvement fla­mand, il convient de mentionner le leader socia­liste Henri De Man (3), le Professeur Léon van der Essen (4) et Robert Poulet, récemment décédé et auteur, entre autres, de La Révolution est à droite (5). Sans oublier le Baron Pierre Nothomb (6), chef des Jeunesses Nationales et Charles Anciaux de l'Institut de l'Ordre Corporatif (7).

 

Les noms de Lothrop Stoddard et de Madison Grant, défenseurs soucieux de l'identité de la race blanche, de James Burnham, théoricien de The Managerial Revolution,  mais aussi auteur du The Suicide of the West  et de The War we are in, montrent que les Etats-Unis aussi ont contribué à la RC. Dans les grands bouleversements qui af­fectent depuis quelques dizaines d'années l'Afrique, l'Asie et l'Amérique Latine, on peut, explique Mohler, trouver des phénomènes appa­rentés: «Notamment le mélange, caractéristique de la RC, de lutte pour la libération nationale, de révolution sociale et de rédécouverte de sa propre identité».

 

Le mouvement ouvrier péroniste en Argentine, avec Juan et Evita Perón, constitue, sur ce cha­pitre, un exemple d'école. Plus nettement mar­quée encore est l'œuvre du révolutionnaire chi­nois, le Dr. Sun Ya-Tsen (1866-1925), fondateur du Kuo-Min-Tang, qui, dans son livre Les trois principes du peuple (8), prêche explicitement pour le nationalisme, la révolution sociale et la voie chinoise vers la démocratie.

 

Mohler pose un constat: le fait que la Révolution française a mis en branle un contre-mouvement conservateur dont le point focal a été l'Allemagne, indique clairement que nous avons affaire à un phénomène de dimensions au moins européennes; «L'accent mis sur l'élément alle­mand dans la RC mondiale se justifie sur certains plans. Mêmes les expressions non allemandes de cette révolution intellectuelle contre les idées de 1789 s'enracinent dans ce chapitre de l'histoire des idées en Allemagne, qui s'étend de Herder au Romantisme. En Allemagne même, cette révolte a connu sa plus forte intensité».

 

L'un des facteurs qui a le plus contribué à l'européanisation générale de la RC est sans con­teste la large diffusion des œuvres et des idées de Nietzsche. Armin Mohler tente de ne pas englo­ber Nietzsche dans la RC, mais démontre de fa­çon convaincante que sans Nietzsche, le mouve­ment n'aurait pas acquis ses Leitbilder («images directrices») typiques et communes. Son in­fluence s'est faite sentir dans les Bas Pays, no­tamment chez le jeune August Vermeylen (9) et, d'après H.J. Elias (10), sur toute une génération d'étudiants de l'Athenée d'Anvers, parmi les­quels nous découvrons Herman van den Reeck, Max Rooses, Lode Claes et d'autres figures cé­lèbres. La philosophie de Nietzsche a permis qu'éclosent dans toute l'Europe des courants d'inspiration conservatrice-révolutionnaire.

 

Le Normand Georges Sorel, le second «père fondateur» de la RC selon Mohler (11), est toute­fois resté inconnu dans nos régions. Cet ingé­nieur et philosophe n'a pratiquement jamais été évoqué dans notre entre-deux-guerres (12). A notre connaissance, la seule publication néerlan­daise qui parle de lui est l'étude de J. de Kadt sur le fascisme italien; elle date de 1937 (13). On dit qu'il aurait exercé une influence discrète sur Joris van Severen (14) mais son meilleur biographe, Arthur de Bruyne (15), dont le travail est pourtant très fouillé, ne mentionne rien.

 

Les groupes «völkisch»

 

Nous ne devons pas concevoir la RC comme un ensemble monolithique. Elle a toujours été plu­rielle, contradictoire, partagée en de nombreuses tendances, mouvements et mentalités souvent antagonistes. Mohler distingue cinq groupes au sein de la RC; leurs noms allemands sont: les Völkischen, les Jungkonservativen  et les Nationalrevolutionäre, dont les tendances idéo­logiques sont précises et distinctes. Ensuite, il y a les Bündischen  et la Landvolkbewegung, que Mohler décrit comme des dissidences historiques concrètes qui n'ont produit des idéologies spéci­fiques que par la suite. Cette classification en cinq groupes de la RC allemande n'est pas aisément transposable dans les autres pays. Partout, on trouve certes les mêmes ingrédients mais en doses et mixages chaque fois différents. Cette prolixité rend évidemment l'étude de la RC très passionnante.

 

Le premier groupe, celui des Völkischen, met l'idée de l'«origine» au centre de ses préoccupa­tions. Les mots-clefs sont alors, très souvent, le peuple (Volk), la race, la souche (Stamm)  ou la communauté linguistique. Et chacun de ces mots-clefs conduit à l'éclosion de tendances völkische  très différentes les unes des autres. Dans la foule des auteurs allemands de tendance völkische, si­gnalons-en quelques-uns qui ont été lus et appré­ciés à titres divers chez nous, de manière à ce que le lecteur puisse discerner plus aisément la nature du groupe que par l'intermédiaire d'une longue démonstration théorique: Houston Stewart Chamberlain, Adolf Bartels, Hans F.K. Günther, Ernst Bergmann, Erich et Mathilde Ludendorff, Herman Wirth et Erwin Guido Kolbenheyer.

 

Chez nous, quand la tendance völkische est évo­quée, l'on songe tout de suite à Cyriel Verschaeve qui y a indubitablement sa place. Les mots-clefs volk  (peuple) et taal  (langue) peuvent toutefois nous induire en erreur car l'ensemble du mouvement flamand a pris pour axes ces deux vocables. Une fraction seulement de ce mouve­ment peut être considérée comme appartenant à la tendance völkische, notamment une partie de l'orientation grande-néerlandaise qui, explicite­ment, plaçait le «principe organique de peuple» (organische volksbeginsel),  théorisé par Wies Moens (16), ou le «principe national-populaire», au-dessus de toutes autres considérations poli­tiques et/ou philosophiques. Nous songeons à Wies Moens lui-même et à la revue Dietbrand,  à Ferdinand Vercnocke, à Robrecht de Smet et sa Jong-Nederlandse Gemeenschap (Communauté Jeune-Néerlandaise), à l'aile dite Jong-Vlaanderen (Jeune-Flandre) de l'activisme (17), à l'anthropologue Dr. Gustaaf Schamelhout (18), etc.

 

Au sein de la tendance völkische  a toujours co­existé, chez nous, une tradition basse-allemande (nederduits),  à laquelle appartenaient Victor Delecourt et Lodewijk Vlesschouwer (qui partici­pait, e.a., à la revue De Broederhand),  le Aldietscher  (Pan-Thiois) Constant Jacob Hansen (1833-1910) (19) et le germanisant plus radical encore Pol de Mont (1857-1931), qui déjà avant la première guerre mondiale avait développé son propre corpus völkisch.

 

Le groupe des Jungkonservativen

 

A rebours de volks (völkisch), le terme de jung­konservativ (jongkonservatief)  n'a jamais, à ma connaissance, été utilisé dans nos provinces. En Allemagne, démontre Mohler, le terme jungkon­servativ  est le vocable classique qu'ont utilisé les fractions du mouvement conservateur qui, par l'adjonction de l'adjectif «jeune» (jung), vou­laient se démarquer du conservatisme antérieur, purement «conservant» et réactionnaire, l'Altkonservativismus. Les Jungkonservativen  s'opposent, en esprit et sur la scène politique, au monde légué par 1789 et tirent de cette opposition des conséquences résolument révolutionnaires. Les grandes figures du Jungkonservativismus,  également connue hors d'Allemagne, sont no­tamment Oswald Spengler (20), Arthur Moeller van den Bruck (21), Othmar Spann, Hans Grimm et Edgar J. Jung.

 

Le peuple et la langue, concepts-clefs des Völkischen, ne sont certes pas niés par les Jungkonservativen,  encore moins méprisés. Mais pour eux, ces concepts ne sont pas perti­nents si l'on veut construire un ordre: ils condui­sent à la constitution d'Etats nationaux fermés, monotone, comparables aux Etats d'inspiration jacobine. De plus, ces Etats précipitent l'Europe, continent qui n'a que peu de frontières linguis­tiques et ethniques précises, dans des conflits frontaliers incessants, dans des querelles d'irrédentisme, des guerres balkaniques. En per­vertissant le principe völkisch,  ils provoquent une extrême intolérance à l'encontre des minorités ethniques et linguistiques à l'intérieur de leurs propres frontières. De tels débordements, l'histoire en a déjà assez connus.

 

Le mot-clef pour les Jungkonservativen est dès lors le Reich. L'idée de Reich,  prisée également dans les Bas Pays, n'implique pas un Etat fermé à peuple unique ni un Etat créé par un peuple conquérant sachant manier l'épée. Le Reich est une forme de vivre-en-commun propre à l'Europe, né de son histoire, qui laisse aux souches ethniques et aux peuples, aux langues et aux régions, leurs propres identités et leurs propres rythmes de développement, mais les ras­semble dans une structure hiérarchiquement su­périeure. Dans ce sens, explique Mohler, l'Etat de Bismarck et celui de Hitler ne peuvent être considérés comme des avatars de l'idée de Reich. Ce sont des formes étatiques qui oscillent entre l'Etat-Nation de type jacobin et l'Etat-conquérant impérialiste à la Gengis Khan.

 

En langue néerlandaise, Reich  peut parfaitement se traduire par rijk. Dans d'autres langues, le mot allemand est souvent traduit à la hâte par des mots qui n'ont pas le même sens: «Empire» suggère trop la présence d'un empereur; «Imperium» fait trop «impérialiste»; «Commonwealth» suggère une association de peuples beaucoup plus lâche.

 

Mentionnons encore trois particularités qui nous donnerons une image plus complète du groupe jungkonservativ.  D'abord, l'influence chrétienne est la plus prononcée dans ce groupe. L'idée médiévale de Reich est perçue par quelques-uns de ces penseurs jungkonservativ comme essen­tiellement chrétienne, qualité qui demeurera telle, affirment-ils, même si l'idée doit connaître encore des avatars historiques. Les Jungkonservativen chrétiens perçoivent la catholitas comme une force fédératrice des peuples, comme une sorte de ciment historique. Pour eux, cette catholitas  ne semble donc pas un but en soi mais un instrument au service de l'idée de Reich.

 

Ensuite, ces Jungkonservativen cutlivent une nette tendance à peaufiner leur pensée juridique, à ébaucher des structures et des ordres juridiques idéaux. C'est en tenant compte de cet arrière-plan que le deuxième concept-clef de la sphère jung­konservative,  en l'occurrence l'idée d'ordre, prend tout son sens. En dehors de l'Allemagne, c'est incontestablement ce concept-là qui a été le plus typique. Mohler écrit, à ce propos: «L'unité, à laquelle songent les Jungkonservativen  (...) englobe une telle prolixité d'éléments, qu'elle exige une mise en ordre juridique».

 

rivolu10.jpgEnfin, troisièmement, les Jungkonservativen  sont les plus «civilisés» de la planète RC et, pour leurs adversaires, les plus «bourgeois». Après eux viennent les Völkischen,  qui passent pour des philologues mystiques ou des danseurs de danses populaires, et les Nationaux-Révolutionnaires, qui font figures de dinamiteros exaltés. Des cinq groupes, les Jungkonservativen sont les seuls, dit Mohler, qui ne s'opposent pas de manière irréconciliable à l'environnement poli­tique établi, soit à la République de Weimar. Ils sont restés de ce fait des interlocuteurs acceptés. Entre eux et les adversaires de la RC, les ponts n'ont pas été totalement coupés, malgré les cé­sures profondes qui séparaient à l'époque les familles intellectuelles.

 

Dans les Bas Pays, plusieurs figures de la vie in­tellectuelle étaient apparentées au courant jung­konservativ.  Songeons à Odiel Spruytte qui, malgré son ancrage profond dans le Mouvement Flamand, restait un défenseur typique de l'«universalisme» d'Othmar Spann (22). Aux Pays-Bas, citons Frederik Carel Gerretsen, his­torien, poète (sous le pseudonyme de Geerten Gossaert) et homme politique (actif, entre autres, dans la Nationale Unie).

 

Lorque l'on recherche les traces de l'idéologie jungkonservative  dans nos pays, il faut analyser et étudier les concepts de solidarisme et de per­sonnalisme: les tenants de cette orientation doctri­nale appartenaient très souvent à la démocratie chrétienne. Les «navetteurs» qui oscillaient entre la démocratie chrétienne et la RC, version jung­konservative,  étaient légion.

 

Le Jungkonservativ  le plus typé, le seul à peu près qui ait vraiment fait école chez nous, c'est Joris van Severen. Chez lui, les concepts-clefs d'«ordre» et d'«élite» sont omniprésents; sa pen­sée est juridico-structurante, ce qui le distingue nettement des nationalistes flamands aux dé­marches protestataires et friands de manifesta­tions populaires. Autre affinité avec les Jungkonservativen: sa tendance à chercher des interlocuteurs dans l'aile droite de l'établisse­ment... Mais ce qui est le plus éton­nant, c'est la similitude entre sa pensée de l'ordre et l'idée de Reich des Jungkonservativen de l'ère wei­marienne: Joris van Severen refuse la thèse «une langue, un peuple, un Etat» et part en quête d'un modèle historique plus qualitatif, reflet d'un ordre supérieur, mais très éloigné de l'Etat belge de type jacobin, qui, pour lui, était aussi inaccep­table. Dans cette optique, ce n'est pas un hasard qu'il se soit référé aux anciens Pays-Bas, dans leur forme la plus traditionnelle, celle du «Cercle de Bourgogne» du Reich  de Charles-Quint. Jacques van Artevelde (23) en avait lancé l'idée au Moyen Age et elle avait tenu jusqu'en 1795. L'argumentation qu'a développé Joris van Severen pour étayer son idéal grand-néerlandais dans le sens des Dix-Sept Provinces historiques (24), et contre toutes les tentatives de créer un Etat sur une base exclusivement linguistique, est au fond très semblable à celle qu'avait déployé Edgar J. Jung lorsqu'il polémiquait avec les Völkischen  pour défendre l'idée de Reich. A la fin des années 30, van Severen parlait de plus en plus souvent du «Dietse Rijk»  (de l'Etat thiois; du Regnum  thiois), utilisant dans la foulée le vieux terme de Dietsland (Pays Thiois) (25) pour bien marquer la différence qui l'opposait aux «nationalistes linguistiques» (26).

 

Les nationaux-révolutionnaires

 

Le troisième groupe, celui des nationaux-révolu­tionnaires, est un produit typique de la «génération du front» en Allemagne. Il est plus difficile à cerner pour nous, dans les Bas Pays. De plus, la plupart des auteurs nationaux-révolu­tionnaires sont peu connus chez nous. Friedrich Hielscher, Karl O. Paetel, Arthur Mahraun, pour ne nommer que les plus connus d'entre eux, sont très souvent ignorés, même par les politologues les plus chevronnés. D'autres, en revanche, sont beaucoup plus célèbres. Mais cette célébrité, ils l'ont acquise pendant une autre période et pour d'autres activités que leur engagement national-révolutionnaire. Ainsi, Ernst von Salomon acquit sa grande notoriété pour ses romans à succès. Otto et Gregor Strasser, à la fin de leur carrière, ont été connus du monde entier parce qu'ils ont été les compagnons de route de Hitler, avant de s'opposer violemment à lui et, pour Gregor, de devenir sa victime. Ernst Niekisch, lui, est sou­vent considéré à tort comme un communiste parce qu'après la guerre il a enseigné à Berlin-Est (27). Mais cette notoriété, due à des faits et gestes po­sés en dehors de l'engagement politique, fait que les nationaux-révolutionnaires sont en général très mal situés. On les considère comme des «nazis de gauche», ce qui est inexact dans la plu­part des cas, sauf peut-être pour Gregor Strasser, assassiné sur ordre de Hitler en 1934. Ou bien on les considère comme des communistes sans carte du parti, ce qui n'est vrai que pour quelques-uns d'entre eux.

 

En réalité, l'attitude nationale-révolutionnaire est le fruit d'une étincelle jaillie du choc entre l'extrême-gauche et l'extrême-droite. Les étin­celles ne meurent pas si l'on parvient, grâce à elles, à allumer un foyer: ce que voulaient les na­tionaux-révolutionnaires. Ils considéraient plus ou moins les Völkischen  comme des roman­tiques et des «archéologues» et les Jungkonservativen  comme des individus qui voulaient construire du neuf avant que les ruines n'aient été balayées. Evacuer les ruines, mieux, contribuer énergiquement au déclin rapide du monde bourgeois, dénoncer la décadence capita­liste: voilà ce que les nationaux-révolutionnaires comprenaient comme leur tâche. Pour la mener à bien, ils présentait un curieux cocktail de passion sauvage et de froideur sans illusions, produit de leur expérience du front.

 

Mohler cite une phrase typique de Franz Schauwecker, figure de proue du «nationalisme soldatique»: «L'Allemand se réjouit de ses dé­clins parce qu'ils sont le rajeunissement». La gauche comme la droite sont dépassées pour les nationaux-révolutionnaires. Ils voulaient dépasser la gauche sur sa gauche et la droite sur sa droite. Pour eux, Staline était un conservateur et Hitler un libéral. Ce que les temps nouveaux apporte­ront, ils ne le savent pas trop: «mouvement», tel est le premier mot-clef. Le deuxième, c'est la «nation», celle qui est née dans les tranchées. Schauwecker décrit comment la réalité et la foi, comment l'instinct et la profondeur de la pensée, la nature et l'esprit ont fusionné. «Dans cette unité, la nation était soudainement présente». C'est cela pour eux, le nationalisme: la société allemande sans classes.

 

Au Pays-Bas, il y a eu une figure nationale-révo­lutionnaire bien typée: Erich Wichman (1890-1929), surnommé souvent avec mépris le «premier fasciste néerlandais», alors qu'il est très difficile de coller l'étiquette de fasciste (si l'on entend par fasciste, cette sorte de militaires d'opérette chaussés de belles bottes bien cirées) sur ce représentant impétueux de la bohème hol­landaise, au visage déformé par un oeil de verre. Les noms des groupuscules qu'il a fondé De Rebelse Patriotten  (Les Patriotes Rebelles), De Anderen  (Les Autres), De Rapaljepartij  (Le Parti de la Racaille) trahissent tous l'élan oppositionnel et le défi adressé à «tout ce qui est d'hier», assor­tis d'un résidu de foi nationale. A son ami, le Dr. Hans Bruch, il écrivit ces phrases révélatrices: «Je n'ai pas besoin de vous dire que, moi comme vous, nous souhaitons que les Pays-Bas et Orange soient au-dessus de tout! Mais... ce cri de guerre ne peut plus être un cri de guerre parce qu'il a été répété a satiété, éculé, galvaudé et usé par les nationalistes de vieille mouture; par de gros bonshommes tout gras affublés de mous­taches tombantes, qui remplissent des salles de réunion pour se plaindre, se lamenter et se con­sumer en jérémiades parce que notre nation, hé­las, n'a jamais eu assez de sentiment national. (...) Et nous, les combatifs, nous ne pouvons rien avoir en commun avec eux! Car, nous, nous ne voulons pas nous plaindre, mais agir. Mais nous ne voulons pas non plus pousser des cris de joie, car nous savons qu'en tant que peuple nous n'avons encore rien - nous avons la ferme vo­lonté de mettre un terme définitif à notre misère!» (28).

 

La prose de Wichman, en violence et en radica­lisme, ne cède en rien devant les phrases de Franz Schauwecker ou d'autres nationaux-révolution­naires: «Tout, aujourd'hui, est cérébralisé et cal­culé. Il n'y a plus place en ce monde pour l'aventure, l'imprévu, l'élasticité, la fantaisie et la «démonie». La raison raisonnante la plus bête garde seule droit au chapitre. Dieu s'est mis à vivre peinard. Cette époque est morte, sans âme, sans foi, sans art, sans amour. (...) Ce n'est plus une époque, c'est une phase de transition mais qui peut nous dire vers où elle nous mène? Si tout devient autrement que nous le voulons — et pourquoi cela ne deviendrait-il pas autrement? On pourra une fois de plus nous appeler "les fous". Tout acte peut être folie, est en un certain sens une folie. Et celui qui craint d'être appelé un "fou", d'être un "fou", celui qui craint d'être une part vivante d'un tout vivant, celui qui ne veut pas "servir", celui qui ne veut pas être "facteur" en invoquant sa précieuse "personnalité" et ainsi faire en sorte qu'advienne un monde contraire à ses pensées, celui qui a peur d'être un «lépreux de l'esprit», qui ne veut être "particule", qui ne veut être ni une feuille dans le vent ni un animal soumis à la nécessité ni un soldat dans une tran­chée ni un homme armé d'un gourdin et d'un re­volver sur la Piazza del Duomo (ou sur le Dam); celui qui ne commence rien sans apercevoir déjà la fin, qui ne fait rien pour ne pas commettre de sottise: voilà le véritable âne! On ne possède rien que l'on ne puisse jeter, y compris soi-même et sa propre vie. C'est pourquoi, il serait peut-être bon de nous débarrasser maintenant de cette "République des Camarades", de cette étable de "mauvais bergers". Oui, avec violence, oui, avec des "moyens illégaux"! C'est par des phrases que le peuple a été perverti, ce n'est pas par des phrases qu'il guérira (Multatuli) (29). Donc, répé­tons-le: aux armes!».

 

Le type du national-révolutionnaire a également fait irruption sur la scène politique flamande, surtout dans les tumultueuses années 20. Notamment dans le groupe Clarté  et dans sa né­buleuse, qui voulaient forger un front unitaire ré­volutionnaire regroupant les frontistes flamands (30), les communistes, les anarchistes et les so­cialistes minoritaires. On hésite toutefois à ranger des individus dans cette catégorie car l'engagement proprement national-révolutionnaire n'a quasi jamais été qu'une phase de transition: quelques flamingants radicaux ont tenté de trou­ver une synthèse personnelle entre, d'une part, un engagement nationaliste flamand et, d'autre part, une volonté de lutte sociale-révolutionnaire. Après une hésitation, longue ou courte selon les individualités, cette synthèse a débouché sur un national-socialisme plus proche du sens étymo­logique du mot que de la NSDAP, encore peu connue à l'époque. Chez d'autres, la synthèse conduisit à un engagement résolument à gauche, à un socialisme voire un communisme teinté de nationalisme flamand.

 

Boudewijn Maes (1873-1946) est sans doute l'une des figures les plus hautes en couleurs du microcosme «national-révolutionnaire» flamand. Ce nationaliste flamand libre-penseur (vrijzinnig) avait lutté contre les activistes pendant la première guerre mondiale parce qu'ils étaient trop bour­geois à son goût. Après 1918, il les défendit parce qu'il était animé d'un sens aigu de la justice et parce qu'il s'estimait solidaire du combat na­tional flamand. Aussi parce qu'il voyait en eux des victimes de l'«Etat bourgeois» belge et donc des révolutionnaires potentiels. En 1919, il est élu au Parlement belge sur les listes du Frontpartij.  Il y restera seulement deux ans. Dans des groupuscules toujours plus petits, no­tamment au sein d'un Vlaams-nationaal Volksfront, il illustra un radicalisme pur, dont il ne faut pas exagérer la portée, et par lequel il voulait dépasser les socialistes et les communistes sur leur gauche. Plus tard, il passa au socialisme et mourut communiste flamand.

 

A propos des deux derniers groupes de la RC al­lemande, nous pouvons être brefs. Les Bündischen, héritiers des célèbres Wandervögel, constituent un phénomène typique dans l'histoire du mouvement de jeunesse allemand, lequel a véritablement alimenté tous les cénacles de la RC. Notre mouvement de jeunesse flamand, depuis Rodenbach (31), en passant par l'Algemeen Katholiek Vlaams Studentenverbond (AKVS) (32), jusqu'au Diets Jeugdverbond, n'est pas comparable aux Bündischen sur le plan idéolo­gique: la majeure partie des affiliés à l'AKVS, à ses successeurs et à ses émules, est restée, des années durant, fidèle à une sorte de tradition völ­kische catholisante. D'autres noyauteront l'aile droite de la démocratie chrétienne flamande. Cette communauté de tradition forme aujourd'hui en­core le lien entre les groupes nationalistes fla­mands et certains cénacles du parti catholique. C'est l'idéologie de base que partagent notam­ment un journal comme De Standaard et les ani­mateurs du pélérinage annuel à la Tour de l'Yser (IJzerbedevaart).

 

La Landvolkbewegung  fut une révolte paysanne, brève mais violente, qui secoua le Slesvig-Holstein entre 1928 et 1932. On peut tracer des parallèles entre des événements analogues qui se sont produits au Danemark et en France mais, dans nos régions, nous n'apercevons aucun phé­nomène de même nature. Mohler lui-même, dans son Ergänzungsband (cf. références infra) de 1989, revient sur sa classification antérieure des strates de la RC en cinq groupes: la Landvolkbewegung  a été de trop courte durée, trop peu chargée d'idéologie et trop dépendante d'orateurs issus d'autres groupes de la RC (surtout des nationaux-révolutionnaires) pour constituer à égalité un cinquième groupe.

 

Le fascisme défini

par les Staliniens

 

Mohler note que la littérature secondaire concer­nant la RC parue depuis 1972 (année de parution de la seconde édition de son maître-ouvrage) est devenue de plus en plus abondante et imprécise. La raison de cet état de choses: la propagation de la conception stalinienne du fascisme, y compris dans les milieux universitaires. «Cette concep­tion, qui a l'élasticité du caoutchouc, est en fait un concept de combat, contenant tout ce que le stalinisme perçoit comme ennemi de ses desseins, jusque et y compris les sociaux-démocrates. Lorsque l'on parlait jadis du national-socialisme de Hitler ou du fascisme de Mussolini, on savait de quoi il était question. Mais le «fascisme alle­mand» peut tout désigner: la NSDAP, les Deutsch-Nationalen, la CDU, le capitalisme, Strauß comme Helmut Schmidt  -  et c'est préci­sément cette confusion qui est le but. Et bien sûr, la RC, elle aussi, aboutit dans cette énorme marmite».

 

Cette confusion a débouché d'abord sur une litté­rature tertiaire traitant du fascisme et dépourvue de toute valeur historique, ensuite sur des petits opuscules apologétiques qui «désinforment» en toute conscience. Prenons un exemple pour montrer comment le concept illimité de fascisme, propre au vocabulaire stalinien, s'est répandu dans le langage courant au cours des années 70 et 80: l'écrivain néerlandais Wim Zaal écrit un livre qui connaitra deux éditions, avec un titre chaque fois différent pour un contenu grosso modo iden­tique. Ce changement de titre est révélateur. En 1966, l'ouvrage est titré De Herstellers (Les Restaurateurs). Il traite de plusieurs aspects de l'idéologie conservatrice-révolutionnaire aux Pays-Bas. La définition qu'il donne de cette idéologie n'est pas tout à fait juste mais elle a le mérite de ne pas être ambiguë et parfaitement concise; nous lui reprocherions de réduire l'univers conservateur-révolutionnaire à celui des adeptes de l'«ordre naturel», ce qui n'est pas le cas car d'autres traditions intellectuelles l'ont ali­menté. Ecoutons sa définition: «Ce que visait le mouvement restaurateur, c'était précisément de restaurer l'ordre naturel du vivre-en-commun et de le débarrasser des maux que lui avait infligés les forces révolutionnaires à partir de 1780. Toutes les conséquences de ces révolutions n'étaient pas perverses mais leurs principes l'étaient». La seconde édition (remaniée) du livre paraît en 1973: elle traite du même sujet mais change de titre: De Nederlandse fascisten (Les fascistes néerlandais).

 

De Gorbatchev au Pape Jean-Paul II, de Reagan à Khomeiny, y a-t-il une figure de proue du monde politique ou de l'innovation idéologique qui n'ait jamais été traité de «fasciste» par l'un ou l'autre de ses adversaires? Dans de telles conditions, ne doit-on pas considérer que le mot est désormais vide de toute signification, du moins pour ce qui concerne le récepteur. En revanche, dans le chef de l'émetteur, le message est très clair; celui qui traite un autre de «fasciste», veut dire: «J'entends vous discriminer sur le plan intellectuel»; en d'autres mots: «Je refuse tout dialogue».

 

Ni dans cet article ni dans le travail de Mohler, le fait de dénoncer cet usage élastique du terme «fascisme» ne constitue pas une tentative d'évacuer du débat les rapports historiques réels qui ont existé entre, d'une part, la RC et, d'autre part, le fascisme ou le national-socialisme. La pensée révolutionnaire-conservatrice ne peut être purement et simplement réduite au rôle de «précurseur» de l'idéologie fasciste. ce serait trop facile et grotesque. A ce propos, Mohler écrit: «Tous ceux qui critiquent les idées de 1789 cou­rent le risque de se voir étiquettés par les prota­gonistes de ces idées révolutionnaires de "pères fondateurs du fascisme" (ou du "nazisme") (...) D'Héraclite à Maître Eckehart, en passant par Paracelse et Luther, Frédéric le Grand, Hamann et Zinzendorf, pour aboutir à Schopenhauer et Kierkegaard, on peut, dans la foulée, construire les arbres généalogiques du fascisme les plus fantasmagoriques».

 

En réalité, parmi les protagonistes des idées con­servatrices-révolutionnaires, on trouvera les ap­préciations et les attitudes les plus diverses vis-à-vis du fascisme, tant en Allemagne que dans nos pays. La prudence et la précision s'imposent. Quelques figures de la RC se sont en effet con­verties très vite et avec beaucoup d'enthousiasme au nazisme, comme, par exemple, un Alfred Bäumler ou un Ernst Kriek, ou, chez nous, un Herman van Puymbroeck (33), futur rédacteur-en-chef de Volk en Staat. D'autres ont vu leur enthousiasme s'évanouir rapidement, mais trop tard pour échapper à la mort: l'exemple de Gregor Strasser, assassiné le 30 juin 1934, un jour avant Edgar J. Jung, qui avait, lui, combattu le natio­nal-socialisme dès le début et avec la plus grande énergie. Thomas Mann et Karl Otto Paetel choisi­rent d'émigrer, tout comme Otto Strasser et Hermann Rauschning. Le national-révolution­naire dur et pur, ennemi de Hitler, Hartmut Plaas, mourra en 1944 dans un camp de concentration tout comme l'avocat liégeois Paul Hoornaert, grand admirateur de Mussolini et chef de la Légion Nationale.

 

Pour d'autres encore, la collaboration mena à un ultime engagement dans la Waffen-SS,  dont ils ne revinrent jamais; pour citer deux exemples, l'un flamand, l'autre néerlandais: Reimond Tollenaere (1909-1942) et Hugo Sinclair de Rochemont (1901-1942). Au cours de cette même année 1942, la collaboration était déjà un passé bien révolu pour un Henri De Man ou un Arnold Meijer, ex-chef du Zwart Front néerlan­dais. Quant à Tony Herbert, jadis figure symbo­lique de tout ce qui comptait à droite en Flandre dans les années 30, il était déjà entré de plein pied dans la résistance. Dans la véritable résistance à Hitler, derrière l'attentat du 20 juillet 1944, se profile une quantité de figures issues de la RC, notamment de la Brigade Ehrhardt, comme l'Amiral Wilhelm Canaris, le Général Hans Oster voire l'écrivain Ernst Jünger. Quant à l'homme qui, en 1945, dans le tout dernier numéro de Signal, la revue de propagande allemande qui pa­raissait dans la plupart des langues européennes pendant la guerre, publia un article pathétique pour marquer la fin du IIIième Reich, était une fi­gure de la RC: Giselher Wirsing, issu du Tat-Kreis (34). En 1948, il participera à la fondation du journal Christ und Welt,  dont il deviendra le rédacteur en chef en 1954 et le restera jusqu'à sa mort en 1975 (35).

 

Les noms que nous venons de citer ne constituent pas des exceptions. Loin de là. Tous répondent en quelque sorte à la règle. Mais comment expli­quer à quelqu'un qui a été élevé sous l'égide du concept stalinien de fascisme, ou a reçu un ensei­gnement universitaire marqué par ce concept, que c'est un fait historiquement attesté que dès le dé­but de l'année 1933, le citoyen néerlandais Jan Baars (36), chef de l'Algemene Nederlandse Fascistenbond (ANFB; = Ligue Générale des Fascistes Néerlandais), envoie un télégramme à Hitler pour protester contre la persécution des Juifs (37). Le 30 janvier 1933, le jour où Hitler arriva au pouvoir, un autre télégramme partit de Hollande. Non pas envoyé par Jan Baars mais par l'association des étudiants catholiques d'Amsterdam, le cercle Thomas Aquinas. C'était un télégramme de félicitations. Précisons-le. Au cas où vous ne l'auriez pas deviné.

 

Luc PAUWELS.

(texte paru dans la revue anversoise Teksten, Kommentaren en Studies, nr. 55, 2de Trimester 1989; adresse: DELTAPERS v.z.w., Postbus 4, B-2110 Wijnegem).       

 

(1) cfr. Arthur De Bruyne, Cyriel Verschaeve - Hendrik De Man, West-Pocket, 4-5, De Panne, 1969.

Jos Vinks, Cyriel Verschaeve, de Vlaming, De Roerdomp, Brecht/Antwerpen, 1977.

Hugo Verriest (1840-1922) fut l'élève de Guido Gezelle au cou­vent théologique de Roeselare (Roulers). Nommé prêtre en 1864. Enseigne à Bruges, Roeselare, Ypres, Heule. Curé à Wakken, commune de la famille de Joris van Severen en 1888. Exerça une influence prépondérante sur le mouvement étudiant nationaliste d'Albrecht Rodenbach (la fameuse Blauwvoeterij).

A son sujet, lire: Luc Delafortrie, Reinoud D'Haese, Noël Dob­belaere, Antoon Van Severen, Rudy Pauwels, Dr. R. Bekaert, Hugo Verriest - Joris Van Severen, Komitee Wakken, Wakken, 1984.

(2) Frank Goovaerts, «Odiel Spruytte. Een vergeten konserva­tief-revolutionnair denker in Vlaanderen», in Teksten, kommen­taren en studies,  nr. 55/1989.

(3) Sur De Man en français: André Philip, Henri De Man et la crise doctrinale du socialisme,  Librairie universitaire J. Gam­bier, Paris, 1928.

Revue européenne des sciences sociales, Cahiers Vilfredo Pareto, Tome XII, 1974, n°31 («Sur l'œuvre de Henri De Man»).

Michel Brelaz, Henri De Man. Une autre idée du socialisme,  Ed. des Antipodes, Genève, 1985.

En guise d'introduction générale: Robert Steuckers, «Henri De Man», in Etudes et Recherches, GRECE, Paris, n°3, 1984.

En anglais: Peter Dodge, Beyond Marxism. The Faith and Works of Hendrik De Man,  M. Nijhoff, The Hague (NL), 1966.

(4) Léon van der Essen, Pages d'histoire nationale et européenne, Les Œuvres/Goemare, Bruxelles, 1942.

Léon van der Essen, Alexandre Farnèse et les origines de la Bel­gique moderne, 1545-1592,  Office de publicité, Bruxelles, 1943.

Léon van der Essen, Pour mieux comprendre notre histoire na­tionale,  Charles Dessart éd., s.d.

(5) Robert Poulet, La Révolution est à droite. Pamphlet,  De­noël et Steele, Paris, 1934.

(6) Frederic Kiesel, Pierre Nothomb,  Pierre de Meyere éd., Pa­ris/Bruxelles, 1965.

(7) Charles Anciaux, L'Etat corporatif. Lois et conditions d'un régime corporatif en Belgique,  ESPES, Bruxelles, 1942.

(8) Dr. Sun Ya-Tsen, The Three Principles of the People, China Publishing Company, Taipei R.O.C., 1981.

(9) August Vermeylen, écrivain flamand, né à Bruxelles en 1872 et mort à Uccle en 1945. Etudie à Bruxelles, Berlin et Vienne. Il enseignera à Bruxelles et à Gand. Sera démis de ses fonctions par les autorités allemandes en 1940. Influence de Baudelaire et du mouvement décadent français mais défenseur de la langue néer­landaise. Co-fondateur de la revue littéraire Van Nu en Straks. Individualiste anarchisant à ses débuts, il évoluera vers un socia­lisme communautaire, justifié par un panthéisme dynamique. Son œuvre la plus célèbre est De wandelende Jood (Le Juif er­rant), illustrant la quête de la vérité en trois phases: la jouissance sensuelle, l'ascèse et le travail.

(10) Hendrik J. Elias, Geschiedenis van de Vlaamse Gedachte,  4 delen, Uitg. De Nederlandse Boekhandel, Antwerpen, 1971. Ces quatre volumes retracent l'histoire intellectuelle du mouvement flamand et recense minutieusement les influences diverses qu'il a subies, notamment celles venues des Pays-Bas, d'Allemagne et de Scandinavie. Ces ouvrages sont indispensables pour com­prendre les lames de fond non seulement de l'histoire flamande mais aussi de l'histoire belge.

(11) Mohler se réfère surtout au livre de Michael Freund, Georges Sorel. Der revolutionäre Konservatismus (V. Kloster­mann, Frankfurt a.M., 1972). De même qu'aux passage que consacre Carl Schmitt à Sorel dans Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus (1926), aujourd'hui dispo­nible en français sous le titre de Démocratie et Parlementarisme  (Seuil, 1988).

(12) Sorel a exercé une incontestable influence sur le philosophe martyr José Streel (1910-1946), idéologue du rexisme et auteur, entre autres, de La Révolution du XXième siècle (Nouvelle So­ciété d'Edition, Bruxelles, 1942). Dans cet ouvrage concis, on repère aussi l'influence prépondérante de Péguy, Maurras et De Man. Sur José Streel, lire ce qu'en écrit Bernard Delcord, «A propos de quelques "chapelles" politico-littéraires en Belgique (1919-1945)», in Cahiers du Centre de Recherches et d'Etudes historiques de la Seconde Guerre mondiale/Bijdragen van het Na­vorsings- en Studiecentrum voor de Geschiedenis van de Tweede Wereldoorlog, Bruxelles, Ministère de l'Education natio­nale/Ministerie van Onderwijs, Archives Générales du Royaume - Algemeen Rijksarchief, Place de Louvain 4 (b.19), Bruxelles, 1986. On lira de même toutes les remarques que formule à son sujet le Prof. Jacques Willequet dans La Belgique sous la botte, résistances et collaborations, 1940-1945, Ed. Universitaires, Pa­ris, 1986. Signalons aussi que José Streel fut l'un des artisans de l'accord Rex-VNV, règlant, dans le cadre de la collaboration, le problème linguistique belge.

(13) J. De Kadt, Het fascisme en de nieuwe vrijheid,  N.V. Em. Querido's Uitgevers-Maatschappij, Amsterdam, 1939.

(14) Sur Joris Van Severen, lire: L. Delafortrie, Joris Van Seve­ren en de Nederlanden, Oranje-Uitgaven, Zulte, 1963.

Jan Creve, Recht en Trouw. De Geschiedenis van het Verdinaso en zijn milities,  Soethoudt, Antwerpen, 1987.

(15) Arthur De Bruyne, Joris Van Severen, droom en daad,  De Roerdomp, Brecht/Antwerpen, 1961-63.

(16) Le poète Wies Moens (1898-1982) fut un activiste (un «col­laborateur») pendant la première guerre mondiale. Il étudia à l'Université de Gand de 1916 à 1918. Il purgera quatre ans de pri­­son pour ses sympathies nationalistes. Il fondera les revues Pogen  (1923-25) et Dietbrand (1933-40). En 1945, il est con­damné à mort mais trouve refuge aux Pays-Bas pour échapper à ses bourreaux. Il fut le principal représentant de l'expression­nisme flamand et entretint des liens avec Joris Van Severen, avant de rompre avec lui.

Cfr. Erik Verstraete, Wies Moens,  Orion, Brugge, 1973.

(17) L'activisme est la collaboration germano-flamande pendant la première guerre mondiale. A ce propos, lire: Maurits van Haegendoren, Het aktivisme op de kentering der tijden, Uitgeve­rij De Nederlanden, Antwerpen, 1984.

(18) Frank Goovarts, «Dr. G. Schamelhout, antropologie en Vlaamse Beweging», in Teksten, kommentaren en studies, nr. 42, 1985. Le Dr. G. Schamelhout peut être considéré comme un élève de Georges Vacher de Lapouge. Il s'est intéressé également aux ethnies européennes.

(19) Le mouvement pan-thiois (Alldietscher Beweging)  visait à unir toutes les «tribus» basses-allemandes, soit néerlandaises et allemandes du nord, en forgeant un Etat qui aurait rassemblé les Pays-Bas, la Belgique (avec les départements français du Nord et du Pas-de-Calais), la Prusse, le Hanovre, le Oldenbourg, etc. La langue de cet Etat aurait été une synthèse entre le néerlandais ac­tuel et les dialectes bas-allemands. A ce sujet, lire: Ludo Si­mons, Van Duinkerke tot Königsberg. Geschiedenis van de All­dietsche Beweging,  Orion, Brugge, 1980.

(20) Sur Spengler, l'ouvrage en français le plus complet est celui de Gilbert Merlio, Oswald Spengler, témoin de son temps, Aka­demischer Verlag Hans-Dieter Heinz, Stuttgart, 1982 (deux vo­lumes).

(21) Sur Arthur Moeller van den Bruck, l'ouvrage en français le plus complet est celui de Denis Goeldel, Moeller van den Bruck (1876-1925), un nationaliste contre la révolution,  Peter Lang, Frankfurt a.M./Bern, 1984.

(22) Deux livres récents sur Spann: Walter Becher, Der Blick aufs Ganze. Das Weltbild Othmar Spanns, Universitas, Mün­chen, 1985.

J. Hanns Pichler (Hg.), Othmar Spann oder die Welt als Ganzes, Böhlau, Wien, 1988.

(23) Pour comprendre le mouvement d'unité dans les Bas Pays au Moyen Age, lire Léon Vanderkinderen, Le siècle des Arte­velde. Etudes sur la civilisation morale et politique de la Flandre et du Brabant,  J. Lebègue & Cie, Bruxelles, 1907.

(24) Les dix-sept provinces regroupent les pays suivants dans l'optique de Joris Van Severen et de ses adeptes de jadis et d'aujourd'hui: la Frise, le Groningue, la Drenthe, l'Overijssel, le Pays de Gueldre, le Pays d'Utrecht, la Hollande, la Zélande, le Brabant, le Limbourg (Limbourg historique, Limbourg belge, soit l'ex-Comté de Looz, Limbourg néerlandais contemporain), le Pays de Liège, le Pays de Namur, le Luxembourg (Grand-Du­ché, Luxembourg belge et Pays de Thionville/Diedenhofen), le Hainaut, la Flandre, l'Artois et la Picardie.

(25) Le terme néerlandais de «Dietsland» se traduit en français par «Pays Thiois». Le long de la frontière linguistique, en Pays de Liège, on trouve également la forme «tixhe», typique de l'ancienne graphie liégeoise. On parle également de «Lorraine thioise» pour désigner la partie allemande de la Lorraine.

(26) Van Severen semble être le seule représentant de la RC dans nos pays à avoir utiliser et revendiquer le terme de «conservateur-révolutionnaire». C'était dans un article du 23 juillet 1932, paru dans De West-Vlaming.  Cité par Arthur De Bruyne, op. cit., p. 140.

Rappelons qu'une querelle demeure sous-jacente entre, d'une part, le nationalisme à base exclusivement linguistique, rêvant d'un Etat néerlandais unissant la Flandre et les Pays-Bas, et, d'autre part, les adeptes des Dix-Sept Provinces Unies, regroupant les régions néerlandophones, wallonophones, picardophones et ger­manophones de l'ancien «Cercle de Bourgogne».

(27) Pour comprendre l'itinéraire d'Ernst Niekisch, lire Uwe Sauermann, Ernst Niekisch und der revolutionäre Nationalismus, Bibliothekdienst Angerer, München, 1985.

(28) Cité par Wim Zaal dans De Nederlandse Fascisten, Weten­schapelijke Uigeverij, Amsterdam, 1973.

(29) Multatuli est le pseudonyme d'Eduard Douwes Dekker (1820-1887), écrivain néerlandais, pionnier de la colonisation de l'Indonésie. Lecteur de Nietzsche, il se posera en partisan d'une monarchie éclairée et d'un système d'éducation non étouffant. Son roman le plus célèbre est Max Havelaer, une chronique as­sez satirique de la colonie néerlandaise en Indonésie.

(30) Le frontisme est le mouvement politique des années 20 en Flandre, porté par les soldats revenus du front. Sur la scène élec­torale, il se présentait sous la dénomination de Frontpartij. Ce mouvement d'anciens soldats du contingent était pacifiste et sou­cieux de ne plus verser une seule goutte de sang flamand pour la France, considérée comme ennemie mortelle des peuples ger­maniques et du catholicisme populaire.

(31) Albrecht Rodenbach (1856-1880), jeune poète flamand, formé au séminaire de Roeselare (Roulers), élève de Hugo Ver­riest (cf. supra), fonde, en entrant à la faculté de droit de l'Université Catholique de Louvain, le mouvement étudiant fla­mand, la Blauwvoeterij. Ses poèmes mêlent un catholicisme charnel et sensuel, typiquement flamand, à un paganisme wagné­rien, nourri de l'épopée des Nibelungen: un contraste éton­nant et explosif...

A son sujet, lire: Cyriel Verschaeve, Albrecht Rodenbach. De Dichter,  Zeemeeuw, Brugge, 1937.

(32) L'AKVS publie toujours une revue, AKVS-Schriften. Adresse: AKVS-Schriften,  c/o Paul Meulemans, Kruisdagenlaan 75, B-1040 Brussel. Tél.: 02/734.25.52.

(33) La radicalité des positions de H. Van Puymbrouck transpa­raît dans le texte d'une brochure publiée à Berlin en 1941 et inti­tulée Flandern in der neuen Weltordnung  (Verlag Grenze und Ausland, Berlin, 1941) et rééditée en 1985 par Hagal-Boeken, Speelhof 10, B-3840 Borgloon.

(34) Sur le Tat-Kreis,  cfr.: Klaus Fritzsche, Politische Roman­tik und Gegenrevolution, Fluchtwege in der Krise der bürgerli­chen Gesellschaft: Das Beispiel des «Tat-Kreises», edition Suhr­kamp, es 778, Frankfurt a.M., 1976. Ouvrage très critique mais qui révèle les grandes lignes de l'idéologie du Tat-Kreis.

(35) A propos de Giselher Wirsing, on lira avec profit le texte que lui a consacré Armin Mohler au moment de sa mort en 1975 («Der Fall Giselher Wirsing») et repris dans son recueil intitulé Tendenzwende für Fortgeschrittene, Criticón Verlag, München, 1978.

(36) Jan Baars, né le 30 juin 1903, fit partie de la résistance néerlandaise pendant la guerre. Il est décédé le 24 avril 1989.

(37) Wim Zaal, op. cit., p.119.