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mercredi, 03 novembre 2010

Il tramonto del Leviathan statunitense

Il tramonto del Leviathan statunitense

di ANTONIO GREGO

Ex: http://www.centroitalicum.it/

PREMESSA SULL’ESPANSIONISMO STATUNITENSE

uncle-sam-cartoon-pelosi-reid-obama.jpgNel libro Terra e Mare (1) il grande giurista e teorico dello Stato Carl Schmitt interpreta la storia del mondo alla luce della centralità dello scontro geostrategico tra l’elemento tellurico e l’elemento marino, dai quali discendono due diverse concezioni della politica, del diritto e della civiltà. Lo scontro tra questi due elementi ha origine con la storia dell’uomo, basti pensare alla rivalità tra Roma e Cartagine, ma è solo con l’avvento della modernità che l’elemento marino, fino ad allora sottomesso a quello tellurico sembra essere in grado di fronteggiarlo alla pari e anche di avere la meglio su di esso.
L’Inghilterra, conquistando le terre al di là dell’oceano ed esercitando la supremazia sui mari, si è affermata come potenza marittima mondiale: essa è il Leviathan, che si oppone alla potenza terrestre (Behemoth) rappresentata dagli Stati continentali, fondati sull’identità collettiva della nazione e sulla difesa della patria e dell’integrità territoriale.
Con il tramonto della potenza inglese sono gli Stati Uniti a prenderne il posto, rivendicando non solo l’egemonia sulle Americhe con la ‘dottrina Monroe’, ma anche la supremazia negli oceani, attraverso la forza aeronavale, e tramite quest’ultima il dominio globale. Nell’affermazione di questa egemonia marittima mondiale si nasconde, secondo Schmitt, il germe della rovina, perché conduce alla trasformazione del diritto fra gli Stati in diritto privato internazionale, cioè in diritto commerciale, e introduce una forma di moralismo universalistico, politicamente pericoloso, perché fa appello al concetto discriminatorio di guerra giusta. Sicché il forte radicamento tellurico caratteristico del Vecchio Mondo (Eurasia e Africa) si confronta con il Nuovo Mondo, il luogo dell’universalismo indistinto e delocalizzato, ricettacolo di progetti messianici e mondialisti. Di qua una visione imperiale tellurica, di là una talassocrazia che mira all’egemonia mondiale; di qua il nomos della terra, di là la ‘tirannia dei valori’, il relativismo e il nichilismo assoluto che derivano dallo sradicamento e dal primato dell’economia sulla politica. Si tratta quindi di due concezioni geopolitiche, giuridiche e spirituali radicalmente opposte. Tale percezione di uno scontro fatale tra due opposte visioni del mondo si giustifica anche con il vissuto contingente e le posizioni assunte da Schmitt, basti pensare che alla fine degli anni Trenta questi applaudì al Patto Ribbentrop-Molotov ed al contempo riconobbe nell’Occidente, Gran Bretagna e Stati Uniti, l’avversario irriducibile dell’Europa.
Gli Stati Uniti infatti, fin dalla loro fondazione, si sono basati su un costrutto ideologico che postula la loro unicità come luogo della giustizia e della pace (Occidente) in contrapposizione all’Europa (Vecchio Mondo) luogo dell’oscurantismo e della tirannia. Tale forma di ideologia con venature messianiche trova il suo fondamento nel calvinismo professato dai Padri Pellegrini fuggiti dal Vecchio Continente per approdare sulle coste dell’America con l’intento di costruire la ‘Nuova Gerusalemme’. Riassumendo gli Stati Uniti si possono definire, per dirla con Damiano, «una nazione ideocratica, ‘aiutata’, nel suo ‘tracciato’ espansionista, da una costellazione iniziale di favorevoli circostanze geostoriche, quali, l’immenso spazio a disposizione; l’isolamento geografico; l’assenza di potenti vicini; una forte immigrazione di popolamento; la conflittualità europea, specie nei primi decenni dopo l’indipendenza; il predominio inglese sui mari. A ciò va aggiunta la circostanza storica probabilmente più importante, ossia la “deriva suicidaria dell’Europa”, a partire dalla prima guerra mondiale» (2).

SEGNALI INEQUIVOCABILI DI DECADENZA
L’espansionismo statunitense, che ha avuto diverse fasi, arriva al suo culmine nel ventesimo secolo, quando Washington decide di superare la dottrina Monroe di egemonia continentale per passare alla fase ulteriore dell’egemonia globale imponendosi come agente di ‘sovversione’ mondiale (con, a partire dal 1948, Israele quale sub-agente di destabilizzazione regionale nel Mediterraneo e Vicino Oriente). Si badi bene che l’opera di ‘distruzione creativa’ messa in atto dagli Stati Uniti, parte essenziale del suo moto espansionistico, ha agito ed agisce ancora in tutti i campi: economico, culturale, giuridico, spirituale, ma soprattutto a livello politico e geopolitico.
A partire dal 1945, l’emisfero occidentale, coincidente fino a quel momento con le Americhe secondo l’originaria formulazione della dottrina Monroe, si espande fino ad includere prima l’Europa occidentale ed il Giappone, sconfitti ed occupati militarmente, poi, con il crollo dell’Unione Sovietica, il mondo intero. La fine del bipolarismo est-ovest ha, difatti, prodotto un vuoto nel continente eurasiatico che, data l’estrema debolezza e mancanza di obiettivi degli Stati europei, gli Stati Uniti, come unica superpotenza rimasta, hanno cercato velocemente di colmare prima che nuovi attori sorgessero a contrastarla. All’interno di questa strategia americana rientra il fenomeno della globalizzazione, esso non rappresenta altro che il tentativo estremo da parte degli Stati Uniti di estendere al mondo la propria Ordnung. Nasce, infatti, proprio in questa fase il Project for the New American Century (PNAC, Progetto per il Nuovo Secolo Americano), un think tank americano, fondato nel 1997, che delineerà la politica americana negli anni successivi. Tra i fondatori del PNAC, in prevalenza ebrei americani, ci sono personaggi che durante i due mandati presidenziali di Bush Jr. assumeranno incarichi di governo, basti pensare a Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz. Il PNAC non è altro che un progetto scaturito dal filone neoconservatore che, preso il sopravvento nella seconda metà degli anni ’90, fa l’esaltazione fanatica e millenarista dei predetti miti fondatori degli Stati Uniti e del ‘destino manifesto’ quale missione affidata da Dio di civilizzare il mondo, uniti alla crociata ideologica trockista per l’‘esportazione della democrazia’ e la ‘guerra permanente’. Proprio negli anni ’90 si assiste ad una politica estremamente aggressiva e unilateralista di Washington che tuttavia nel mentre continua attivamente a stimolare negli altri Paesi, specialmente in Europa, il multilateralismo e l’interconnessione finanziaria, da utilizzare come leve per indebolire ulteriormente la loro sovranità. Tuttavia la ‘fine della storia’ pronosticata da Francis Fukuyama e il trionfo definitivo del capitalismo di stampo americano che avrebbe portato la globalizzazione e l’americanizzazione del mondo, non si sono verificati.
La fase unipolare dell’espansionismo americano, iniziata approssimativamente nel 1991 e terminata approssimativamente nel 2001, rappresenta non l’inizio del “Nuovo Secolo Americano”, come auspicato dagli americanisti di tutte le risme, ma bensì la sua conclusione, il tentativo estremo da parte degli Stati Uniti di preservare l’egemonia globale e frenare la nuova fase multipolare subentrante. A ben vedere il momento di massimo unipolarismo americano ha coinciso con il culmine della globalizzazione.
Il processo della globalizzazione, le cui origini risalgono al periodo 1944-1947 (Istituzione degli accordi di Bretton Woods, creazione del Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e accordi GATT), rappresenta la proiezione mondiale del sistema statunitense in una logica unipolare egemonica. Si può delimitare la fase ascendente della globalizzazione propriamente detta nel periodo che va dai primi anni ’80 (1980: elezione di Reagan, 1982: morte di Brezhnev) al 1995, quando raggiunge il suo culmine con la creazione dell’OMC ovvero l’Organizzazione Mondiale del Commercio, attestando l’apparente trionfo dell’ideologia liberista che necessita della libera circolazione di capitali, beni e persone.
Non è un caso che proprio in questo breve periodo di trionfo statunitense avviene quella che per Vladimir Putin è stata «la peggior tragedia geopolitica del XX secolo », ovvero il crollo e lo smembramento dell’Unione Sovietica. Un’altra ‘tragedia geopolitica’ avverrà in piena Europa con la dissoluzione della Jugoslavia nel 1991, la conseguenti guerre separatiste e l’apice dell’aggressività anti-europea statunitense raggiunto nel 1999, con i bombardamenti sulla Serbia dietro il paravento della NATO. Tuttavia oggi possiamo affermare che il culmine del ‘momento unipolare’ degli Stati Uniti raggiunto negli anni ’90 piuttosto che rappresentarne il trionfo ne segna già l’inizio della discesa nel baratro.
Al volgere del Terzo Millennio gli USA erano in forte difficoltà sul piano politico-economico, entrando in una vera e propria recessione dopo circa 10 anni di crescita economica forzata e drogata, sorretta da un fortissimo indebitamento interno, da un grande passivo della bilancia dei pagamenti con forte indebitamento esterno, da una tendenza fortemente al ribasso sulla quota imputabile di commercio internazionale. Anche sul piano internazionale la loro egemonia era messa in discussione dall’emersione del potenziale polo geopolitico e geoeconomico rappresentato dall’Unione Europea. La recessione ed il declino della superpotenza USA, la fine delle forme specifiche della globalizzazione, stavano, infatti, avvenendo da diversi anni prima dell’11 settembre 2001, ed evidenti ne erano i segnali. La situazione interna degli USA, già dagli inizi degli anni ’90, presentava dei problemi: basti ricordare che nel 1992 il debito nazionale generale era di oltre 4.000 miliardi di dollari (3), l’assistenza sanitaria era carente e una gran parte della popolazione americana si ritrovava a non avere una minima protezione sociale, il livello degli investimenti e dei risparmi erano inferiori a quelli dei paesi europei, e dal punto di vista produttivo vi era una bassa competitività con minimi tassi di crescita di produttività. La distanza esistente tra ricchi e poveri negli USA è aumentata a dismisura negli ultimi 30 anni; se nel 1969 infatti, l’1% della popolazione possedeva il 25% di ricchezza nazionale, nel 1999 questa percentuale è salita a circa il 40%, mentre l’indebitamento finanziario interno è passato da 12 a 22 trilioni di dollari tra il 1995 e il 2000. Se a ciò si aggiunge l’enorme indebitamento degli USA nei confronti del resto del mondo, coperto da appena il 4% delle riserve di valuta, e il sempre più alto disavanzo commerciale, si comprende quanto diventano forti le debolezze dell’economia americana negli anni ‘90, in piena era della globalizzazione. Inoltre, l’eccedenza degli investimenti attuati da un esagerato afflusso di capitali esteri e da una politica monetaria troppo espansiva ha portato a valori artificialmente gonfiati in Borsa con la conseguente crisi che ne è seguita; i livelli di profitto sono scesi, così come i consumi, ed è evidente che gli Stati Uniti erano in una seria fase di difficoltà economica, ben nascosta dai media e dalle istituzioni internazionali compiacenti, fino a giungere alla recessione, molto prima dei tragici eventi dell’11 settembre.
Un falso grande boom americano sostenuto da un decennio in cui le famiglie e le imprese hanno speso molto di più di quanto guadagnavano e un indebitamento non più sostenibile che, con la successiva moderazione dei comportamenti economici, porta ad un forte rallentamento dell’economia, fino alla recessione. Ecco quindi che, nella seconda metà degli anni ’90, attraverso la guerra del dollaro contro l’euro, la crisi petrolifera a guida americana e la gestione della New Economy nel contesto generale della finanziarizzazione dell’economia, gli Stati Uniti hanno cercato di nascondere la loro crisi ed hanno giocato le loro carte per soffocare le mire di affermazione ed espansionistiche innanzitutto del nuovo polo dell’Unione Europea e in misura via via maggiore anche degli altri poli geopolitici mondiali emergenti. Il gioco del caro dollaro e del caro petrolio si accompagna, quindi, alla ‘bolla finanziaria’ sui titoli della “Net Economy”; questo è uno specifico aspetto del modello complessivo neoliberista imposto dalla globalizzazione americana, una speculazione finanziaria che fa sì che società con scarso fatturato, o appena quotate, nel giro di un mese triplichino, quadruplichino il loro valore. Una globalizzazione finanziaria che da una parte crea forti condizioni e aspettative di guadagno facile e dall’altra determina in continuazione paure di disastrosi crolli. Un NASDAQ, il mercato azionario dei titoli tecnologici, continuamente sbalzato fra eccessi rialzisti ed eccessi ribassisti. E questi terremoti del NASDAQ trovano i loro mandanti proprio negli Stati Uniti, capaci di attirare attraverso i titoli della Net Economy enormi capitali europei sottoposti poi al rischio di continui ed improvvisi crolli. Tuttavia nemmeno la guerra contro l’Euro, l’imposizione del neoliberismo globale e la finanziarizzazione dell’economia sono riusciti ad impedire il declino della potenza americana e l’ascesa di poli geopolitici alternativi, già percepibile all’inizio del terzo millennio. A questo punto, persa la partita per imporre ‘con le buone’, attraverso la globalizzazione dei mercati e la finanziarizzazione speculativa, il loro dominio sul mondo e la ‘fine della storia’, gli Stati Uniti sono costretti a ricorrere ‘alle maniere cattive’, alla guerra, ultima risorsa per uscire dalla crisi sistemica. Dal cilindro viene tirato fuori Bin Laden e il terrorismo islamico, diviene vitale per evitare il disastro che sarebbe anche solo il rallentarsi dei movimenti di capitale verso New York, un attacco al cuore dell’Eurasia con il pretesto della “guerra infinita contro il terrorismo”.

IL DECLINO DELLA POTENZA AMERICANA NEL MONDO
La fase finale e irreversibile del declino americano inizia nel 2001, volendo fare riferimento ad un evento spartiacque si può prendere l’attacco alle torri gemelle av- venuto l’11 settembre del 2001 come simbolo del ‘crollo’ del ‘sogno americano’ e della fine del dominio assoluto della sola superpotenza fino a quel momento.
L’estrema aggressività e l’avventurismo di Washington nel periodo 1995 – 2001 sono stati una disperata reazione alla consapevolezza della fine della fase unipolaristica che ha subito un colpo mortale grazie a due eventi fondamentali: l’adozione dell’Euro nel 1999 e l’elezione di Vladimir Putin alla presidenza russa nel 2000. Come detto in precedenza, tramontato il sogno di egemonia mondiale non restava che la guerra quale extrema ratio per impedire o ritardare l’avvento del multipolarismo. Il periodo 2001 – 2003 è il colpo di coda dell’unipolarismo morente, nel quale gli USA camuffandosi dietro una riesumata NATO si impadroniscono dell’Afghanistan e mettono piede nel Kirghisistan e dell’Uzbekistan, per poi passare all’occupazione dell’Iraq. Nel frattempo la NATO si espande all’inverosimile e attraverso le ‘rivoluzioni colorate’ finanziate da Soros in Ucraina e Georgia arriva a minacciare i confini della Russia. In questo periodo la dottrina della ‘stabilità’ politico-economica internazionale diventa elemento propagandistico prioritario nel tentativo di aggressione all’Eurasia e di dominio manu militari del mondo, dominio imposto attraverso il nuovo ruolo dell’ONU depotenziato e sostituito in pieno dalla NATO. In questo periodo la situazione interna degli USA si aggrava. La disoccupazione ha registrato un notevole aumento, dall’inizio del 2001 si sono avuti oltre 1 milione e 200.000 di disoccupati in più ed il tasso di disoccupazione nell’agosto di quell’anno è arrivato al 4,9%; si è registrata una diminuzione nei consumi di oltre lo 0,5% mentre il PIL nel secondo semestre del 2001 cresce solo dello 0,2%, e il terzo trimestre è addirittura negativo (-0,4%) segnalando, anche ufficialmente, la fase recessiva. Negli anni successivi la situazione si aggrava a causa del drammatico legame fra disoccupazione e logiche liberiste di precarizzazione del vivere sociale. Si aggiunga un mercato di capitali ‘pompato’, dove anche i rialzi e le piccole riprese sono imputabili ai giochi a sostegno dei titoli delle imprese meglio proiettate nei nuovi scenari di economia di guerra post-globale. Si decide di marciare secondo i parametri del sostenimento della domanda e della produzione attraverso una sorta di keynesismo militare come tentativo di risolvere, o almeno gestire, la crisi; per questo l’economia di guerra dell’era Bush Jr. aveva carattere strutturale, cioè ampio respiro e lunga durata sostituendo il Warfare al Welfare, con continui tagli al sistema pensionistico, alla sanità e allo Stato sociale. Dopo l’iniziale apparente successo dell’avventurismo militare americano, nel periodo 2001 – 2003, dovuto all’incertezza internazionale che caratterizzava l’alba della nuova fase multipolare e alla disorganizzazione delle nazioni emergenti, il successivo periodo 2004 – 2009 sancisce la definitiva sconfitta del modello Bush–neocon di attacco al cuore dell’Eurasia quale misura estrema per uscire dall’impasse della crisi. Nel 2006 il PNAC chiude i battenti, attestando il fallimento del progetto di egemonia mondiale.
La guerra russo-georgiana del 2008 o, meglio, la fallita aggressione alla Russia perpetrata per il tramite dell’esercito georgiano armato da Israele e Stati Uniti, ha definitivamente posto la pietra tombale sull’unipolarismo statunitense ed ha sancito e reso effettivo il sistema geopolitico multipolare.

CAUSE DEL DECLINO AMERICANO
In un saggio del 2007 il giornalista Luca Lauriola afferma che l’attuale crisi dell’egemonia americana va imputata ad una molteplicità di cause quali: il ridimensionamento geopolitico del ruolo USA dovuto alla crescita economica e tecnologica dei poli rivali russo, cinese ed indiano; la crisi economica e finanziaria degli USA dovuta a cause sistemiche e non reversibile perché connaturata alla forma del capitalismo americano; il castello di menzogne su cui si basa la strategia di dominio americana per legittimare il proprio espansionismo ha ormai oltrepassato la soglia di tollerabilità ed è sul punto di crollare; le condizioni di vita di gran parte della popolazione statunitense sono simili a quelle di molti paesi sottosviluppati; il ruolo politico sempre maggiore ricoperto dalla lobby sionista.
Per quanto riguarda l’aspetto economico e finanziario, esaminando il periodo 2001 – 2010 praticamente non c’è un solo dato che non indichi una crisi irreversibile del sistema americano. Basti dire tra il 2005 ed il 2010 il numero di disoccupati in USA è praticamente raddoppiato così come, tra questi, è più che quadruplicato il numero di quelli a lungo termine (6 mesi o più) (4). Giova ricordare che gli americani hanno già rischiato la bancarotta e la dissoluzione come entità statale nel 2008 con lo scoppio della ‘bolla immobiliare’ dalla quale si sono salvati in extremis solo grazie all’intervento di Giappone e Cina, timorosi di perdere il mercato di sbocco principale per i loro prodotti. Ma i dati che illustrano in maniera devastante la crisi americana sono quelli del debito pubblico e della bilancia commerciale. A cominciare dagli anni ‘80 (durante l’amministrazione Reagan) gli Stati Uniti hanno iniziato ad avere sia un grande debito pubblico sia un disavanzo commerciale. Il debito pubblico era intorno ai 50-75 miliardi di dollari alla fine degli anni ‘70 e crebbe a oltre 200 miliardi nel 1983. Il disavanzo della bilancia commerciale era attorno allo zero all’inizio degli anni ‘80 ma superò i 100 miliardi di dollari nel 1985. Oggi analizzando il disavanzo commerciale dei vari Paesi gli USA si situano all’ultimo posto della lista con un disavanzo che è piu’ del doppio rispetto a quello della Cina che è in surplus e si situa al primo posto.
Inoltre, il debito pubblico americano ha superato la quota record dei 12 mila miliardi di dollari e non accenna a diminuire risultando essere il più alto al mondo. Ma come mai gli Stati Uniti dopo un ventennio di apparente prosperità, nel quale hanno guidato il processo di globalizzazione, sono oggi sul punto di collassare? Come mai gli Stati Uniti non sono stati in grado di imporre la propria Ordnung al mondo intero? La risposta, più che nell’economia, va ricercata nella natura e nella geopolitica degli USA: « Gli Stati Uniti d’America – potenza talassocratica mondiale – hanno sempre perseguito, fin dalla loro espansione nel subcontinente sudamericano, una prassi geopolitica che in altra sede abbiamo definita “del caos”, vale a dire la geopolitica della “perturbazione continua” degli spazi territoriali suscettibili di essere posti sotto la propria influenza o il proprio dominio; da qui l’incapacità a realizzare un vero ed articolato ordine internazionale, quale ci si dovrebbe aspettare da chi ambisce alla leadership mondiale» (5).
La natura talassocratica degli USA e l’incapacità di governare e amministrare il territorio sono l’origine del loro declino, perciocché non è dato loro il potere di esercitare una funzione regolatrice ed equilibratrice dei vari popoli ed etnie che vivono in un territorio delimitato e di fornire quel senso di unità spirituale basato sulla coscienza di appartenere ad una medesima ecumene, quali invece sono i tratti caratteristici di un impero propriamente detto.

DOPO L’AMERICA

Ricapitolando, l’ultimo ventennio del XX secolo (1980 – 2001), ha visto la potenza degli Stati Uniti raggiungere il suo picco massimo. Quella che oggi viene definita ‘era della globalizzazione’, che ha raggiunto il suo culmine nella metà degli anni ’90, non è stata altro che il tentativo di egemonizzare il mondo, attraverso gli strumenti della finanza speculativa e del soft power (diffusione dei concetti di ‘esportazione della democrazia’, ‘diritti umani’, liberismo, utilizzando anche Hollywood, la musica pop-rock e i ‘nuovi media’, internet in testa), messo in campo dagli USA nel loro ‘momento unipolare’.
Fallito il tentativo di imporsi come soggetto egemone a livello mondiale attraverso l’esportazione dei propri ‘valori’ gli USA nel periodo 2001 – 2008 hanno deciso di puntare tutto in un attacco disperato all’Heartland con tutto il volume di fuoco di cui sono stati capaci, ma anche questa mossa dopo una iniziale serie di successi viene bloccata dalle potenze continentali emergenti. Sempre più si profila all’orizzonte il conflitto aperto, multipolare, tra la ormai ex superpotenza in declino degli USA e i nuovi poli emergenti costituiti dal BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) con in più l’Iran in crescita strepitosa.
Non bisogna però sottovalutare l’attuale potenza degli USA ne la residua capacità di reazione al declino in corso, per due ordini di motivi: come detto all’inizio la natura dell’espansionismo talassocratico americano non si basa sulla sovranità e sul controllo del territorio, perché questo avviene sospinto da forze non-statali, finanziarie ed economiche, che ne costituiscono il vero motore. Sono forze ‘liquide’ come liquido è il mezzo che storicamente hanno prediletto per espandersi, cioè il mare. Questa ‘liquidità’ che contraddistingue l’impalcatura economica e geopolitica degli USA comporta una seria difficoltà a batterli sul loro terreno, che è quello, in senso fisico, dei mari e dei cieli, in senso lato, della finanza e del soft power. In secondo luogo gli USA sono riusciti negli anni addietro ad acquisire posizioni di predominio nel settore finanziario (attraverso il controllo di organismi quali lo SWIFT), in quello della sicurezza mondiale e nel controllo dei ‘nuovi media’, internet in testa.
Dal punto di vista militare la NATO, strumento di accerchiamento della massa eurasiatica, è ancora vitale ed in grado di esercitare la sua funzione antieuropea e antieurasiatica, inoltre restano le centinaia di basi militari e avamposti che gli statunitensi sono riusciti a installare in giro per il mondo e attraverso i quali sono in grado di esercitare ancora una capacità di deterrenza e di controllo sugli Stati ‘ospitanti’. In conclusione pur se in una fase di declino gli Stati Uniti sono ancora capaci di esercitare una residua forma di egemonia, soprattutto nelle zone sotto la loro influenza diretta (Europa e Giappone, in quanto ‘colonizzati’ a tutti gli effetti), piuttosto l’attuale fase è da ritenersi potenzialmente più pericolosa della precedente fase unipolare perché è proprio quando l’animale è ferito mortalmente che la sua reazione diventa più sconsiderata e furente, come dimostrano l’avventurismo in Georgia e le recenti esplicite minacce di attacco nucleare nei confronti di Iran e Corea del Nord.
Tali minacce saranno scongiurate solo da una decisa azione di concerto tra le potenze del blocco eurasiatico e quelle dell’america indiolatina.

NOTE
1) C. Schmitt, Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Reclam, Leipzig 1942, trad. it. Terra e mare, Adelphi, Milano 2002.
2) G. Damiano, L’espansionismo americano, un «destino manifesto»?, Edizioni di Ar, Padova 2006, pp. 14-15. Il termine ‘ideocrazia’ riferito agli Stati Uniti è stato coniato da Costanzo Preve, cfr. C. Preve, L’ideocrazia imperiale americana, Settimo Sigillo, Roma 2004.
3) Da questo punto in avanti e dove non specificato diversamente si tratta di dati ufficiali del governo americano. Cfr. http://www.whitehouse.gov/ e http://www.cbo.gov/
4) Fonte: Bureau of labor statistics, http://www.bls.gov/
5) T. Graziani, America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare, “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici”, XV, 3/2008, p. 7.

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mardi, 02 novembre 2010

Soft Power: la guerre culturelle des Etats-Unis contre la Russie (1991-2010)

Soft power: la guerre culturelle des Etats-Unis contre la Russie (1991–2010)

La nouvelle stratégie et ses organismes

par Peter Bachmaier*

Au cours des deux dernières décennies, les Américains ont modifié leur stratégie: La guerre n’est plus définie purement sous l’angle militaire, elle a recours également à des méthodes informationnelles et psychologiques qu’on appelle «guerre psycholo­gique» ou «guerre culturelle». Ces méthodes ont une longue histoire. Le stratège militaire américain Liddell Hart avait développé avant la Seconde Guerre mondiale la stratégie de l’approche indirecte.1 Pendant cette guerre, les forces américaines et britanniques appliquèrent la guerre psychologique contre l’Allemagne, laquelle fut ensuite utilisée pour rééduquer le peuple allemand. A l’issue du conflit, la CIA et le ministère de la Dé­fense fondèrent, sur le modèle du Tavistock Institute of Human Relations, spécialisé dans la guerre psychologique en Angleterre, des think tanks (laboratoires d’idées) comme la Rand Corporation, l’Hudson Institute d’Herman Kahn, qui étaient dirigés avant tout contre l’Union soviétique.

Soft-power-Joseph-S-Nye.jpgLes méthodes de ces organismes ont été développées par des instituts de sciences soci­ales. Les sciences sociales empiriques améri­caines, c’est-à-dire notamment la sociologie, la psychologie, l’anthropologie, les sciences politiques et les sciences de la communication, sont nées sous leur forme actuelle à l’initia­tive et grâce au financement d’agences militaires et de renseignements dans les années 1940 et 1950.2 Une autre source sont les grandes fondations comme la Carnegie Corporation, la Ford Foundation et la Rockefeller Foundation. Les missions de recherches ont été confiées à des centres scientifiques réputés comme la New School for Social Research de New York, le Bureau of Applied Social Research de Princeton (dirigé par Paul Lazarsfeld), l’Institut für Sozialforschung (dirigé par Max Horkheimer et Theodor W. Adorno), qui était retourné à Francfort en 1949, le Center for International Studies (CENIS) du Massachusetts Institute of Technology, de même que l’Esalen Institute californien, centre de contre-culture qui participa à l’organisation du festival de Woodstock en 1968. Ce sont surtout les principaux instituts de sciences de la communication qui ont participé aux programmes de la guerre psychologique.
Ces instituts publiaient des revues comme le Public Opinion Quarterly (POQ), l’American Sociological Review, l’American Political Science Review et d’autres encore. Les gens qui y travaillaient étaient surtout des immigrants venus d’Allemagne et d’Au­triche qui, plus tard, se sont fait un nom dans leur science: Paul Lazarsfeld, Oskar Morgenstern, Leo Loewenthal, Herbert Marcuse, Walter Lippmann, Harold Lasswell, Gabriel Almond, Daniel Lerner, Daniel Bell, Robert Merton, etc. C’étaient les mêmes centres et les mêmes spécialistes qui étaient respon­sables de la rééducation du peuple allemand. Certains de ces projets concernaient également la préparation de la révolution culturelle des années 1960 avec ses effets secondaires: musique rock, culture de la drogue et révolution sexuelle.
Les «études soviétiques» dépendaient tout particulièrement du gouvernement. Le Russian Research Project de Harvard, dirigé par Raymond Bauer et Alex Inkeles, était une entreprise commune de la CIA, des Forces de l’air et de la Carnegie Corporation. L’Institut publia en 1956 une étude intitulée «How the Soviet System Works» qui devint un clas­sique des Soviet Studies.3 La guerre psychologique comprenait également des émissions de radio de la CIA à l’intention de l’Eu­rope de l’Est – selon Jean Kirkpatrick «un des instruments les meilleurs marché, les plus sûrs et les plus efficaces de la politique étran­gère des Etats-Unis» – c’est-à-dire la Voice of America, RIAS Berlin, Radio Free Europe et Radio Liberty, qui aujourd’hui encore émettent en russe et dans les autres langues de la CEI.4 Ces stations étaient placées sous l’autorité du Congress for Cultural Liberty qui fut fondé en 1950 à Paris par la CIA et qui employait 400 collaborateurs.5
La victoire sur l’Union soviétique a été réalisée avant tout à l’aide de ces méthodes non militaires. La stratégie dont l’objectif n’était pas la coexistence avec l’Union soviétique mais un «démantèlement» du système sovié­tique fut élaborée en 1982 par le gouvernement Reagan.6 Le projet comprenait 7 initiatives stratégiques dont le point 4 était: guerre psycholo-
­gique visant à pro­duire dans la nomenklatura et la population la peur, le sentiment d’insécurité et la perte de re­pères.7 Cette guerre n’était pas dirigée seulement contre le communisme mais contre la Russie, comme le prouvent les affirmations de Zbigniew Brzezinski: «Nous avons détruit l’URSS et nous détruirons la Russie.» «La Russie est un Etat superflu.» «L’orthodoxie est le principal ennemi de l’Amérique. La Russie est un Etat vaincu. On le divisera et le mettra sous tutelle.»8
En 1990, Joseph Nye, collaborateur du Council on Foreign Relations qui défend les mêmes idées que Brzezinski, a forgé pour ces méthodes la notion de «soft power» (pouvoir doux, pacifique) ou «smart power» (pouvoir intelligent) qui a la même origine que l’«ingénierie sociale».9 Il a publié en 2005 son livre intitulé «Soft Power: The Means to Success to World Politics» dans lequel il suggère que l’Amérique devienne attractive par sa culture et ses idéaux politiques. Le Center for Strategic and International Studies de Washington, think tank néoconservateur au conseil de surveillance duquel siègent Henry Kissinger et Zbigniew Brzezinski, a fondé en 2006 une Commission on Smart Power présidée par Joseph Nye et Richard Armitage, qui a déposé en 2009 un mémorandum intitulé «A Smarter, more Secure America» dont l’objectif est de renforcer l’influence des Etats-Unis dans le monde à l’aide de mé­thodes «douces».

Premier succès de la nouvelle stratégie: la perestroïka

Cette stratégie a été appliquée pour la pre­mière fois lors de la perestroïka, lorsque Mikhaïl Gorbatchev est arrivé au pouvoir. Elle a eu des aspects positifs: elle a rétabli la liberté d’opinion et de circulation mais elle a été l’effet d’une influence considérable de l’Occident.11 Au sein du Comité central du Parti communiste d’Union soviétique et de la nomenklatura, un groupe se forma qui adopta les positions occidentales et voulut introduire le système néolibéral occidental.
Le vrai architecte de la perestroïka fut Alexandre Iakovlev, secrétaire depuis 1985 du Comité central responsable de l’idéologie qui avait fait ses études à Washington dans les années 1950 et était depuis lors un partisan convaincu du néolibéralisme, d’après ce qu’il m’a dit lors d’un entretien à Vienne le 9 novembre 2004. Son réseau comprenait des gens comme Egor Gaïdar, Grigori Iavlinski, Boris Nemtsov, Victor Tchernomyrdin, German Gref et Anatoli Tchoubaïs.
Jakovlev créa avec eux une cinquième colonne de l’Occident qui, aujourd’hui encore, tire les ficelles en coulisses. Boris Eltsine fut aussi une créature des Américains. En septembre 1989, lors d’une visite à Washington à l’invitation de l’Esalen Institute, qui entretenait depuis 1979 un programme d’échanges américano-soviétiques, il fut quasiment recruté par le Congrès et put prendre le pouvoir avec l’aide des Américains en 1991.
Grâce à l’intervention de George Soros, Gorbatchev devint membre de la Commission trilatérale qui organisa à Moscou, en janvier 1989, une conférence à laquelle participèrent notamment Henry Kissinger et Valéry Giscard d’Estaing.

Organisations occidentales destinées à influencer culturellement la Russie

A l’époque de la perestroïka, les loges maçonniques et leurs organisations satellites furent à nouveau autorisées.13 A la demande de Kissinger, Gorbatchev autorisa en mai 1989 la fondation de la B’nai Brith Loge à Moscou. Depuis, 500 Loges ont été créées en Russie par les Grandes Loges de Grande-Bretagne, de France, d’Amérique, notamment. En même temps, à l’intention des politiques, des chefs d’entreprise et des membres des professions libérales qui ignoraient les rituels mais partageaient les principes de Loges, on créa des organisations, clubs, comités et fondations plus ouverts. Il y a actuellement plusieurs milliers de membres de Loges en Russie qui participent aux rituels mais dix fois plus de personnes qui appartiennent à la «maçonnerie blanche» et n’observent pas les rituels mais acceptent les principes et sont guidés par les Frères des Loges. Ces organisations sont le Club Magisterium, le Rotary Club, le Lions Club et la Fondation Soros. Leurs membres se consi­dèrent comme une élite qui a des droits particuliers pour gouverner.14
Pour contrôler les écrivains, on a fondé le Centre P.E.N. russe, autre organisation satellite. En ont fait partie des écrivains et des po­ètes connus comme Bella Achmadulina, Anatoli Pristavkin, Ievgueni Ievtouchenko, Vassili Aksionov et Victor Erofeev.
L’Institut pour la société ouverte de George Soros, fondé à Moscou en 1988 déjà, fut dans les années 1990 le principal instrument de déstabilisation et de destruction entre les mains des puissances instigatrices. Soros a orienté ses activités vers le changement d’idéologie des hommes dans l’esprit du néolibéralisme, l’imposition de l’american way of life et la formation de jeunes Russes aux Etats-Unis. La Fondation Soros a financé les plus importantes revues russes et attribué des prix spéciaux afin de soutenir la littérature.15
Dans le cadre de son programme, la Fondation a publié des manuels dans lesquels l’histoire russe est présentée sous l’angle néolibéral et cosmopolite. En septembre 1993, alors que le Parlement subissait des tirs, j’ai eu l’occasion de participe à une remise de prix au ministère russe de l’Education. George Soros a attribué des prix aux auteurs de manuels russes d’histoire et de littérature et le mi­nistre russe de l’Education Evgueni Tcatchenko a déclaré que l’objectif des nouveaux manuels était de «détruire la mentalité russe».
Les programmes de Soros dans le do­maine culturel étaient si variés que pratiquement tout le secteur privé dépendait du financement par la «Société ouverte». L’Institut für die Wissenschaften vom Menschen (IWM), fondé à Vienne en 1983 et également soutenu par Soros a promu la réforme du sys­tème scolaire et universitaire en Russie et dans les pays postsocialistes. Au cours des seules années 1997 à 2000, la Fondation a attribué 22 000 bourses pour un total de 125 millions de dollars.16
Un autre think tank américain est le National Endowment for Democracy (NED) fondé en 1982 par Reagan. Cette institution finance les instituts des partis républicain et démocrate et leurs bureaux de Moscou. Elle soutient avant tout les médias privés et les partis et mouvements politiques pro-occidentaux. Le budget du NED est voté par le Congrès américain au titre de soutien du Département d’Etat. Des politiques éminents font partie de son Comité directeur: John Negroponte, Otto Reich, Alliot Abrams. La NED est la continuation des opérations de la CIA par d’autres moyens. En 2005, elle finançait 45 organisations russes dont les suivantes: la société Memorial pour la formation historique et la protection des droits de l’homme, le Groupe d’Helsinki de Moscou, le Musée Sakharov, les Mères de Tchétchénie pour la paix, la Société pour l’amitié russo-tchétchène, le Comité tchétchène de salut national. 17
Le Centre Carnegie de Moscou a été fondé en 1993 en tant que section de la Fondation Carnegie pour la paix internationale fondée en 1910 par Andrew Carnegie en tant que centre indépendant de recherches pour les relations internationales. Les spécialistes du centre de Moscou étudient les questions les plus importantes de la politique intéri­eure et extérieure de la Russie. Il rassemble des informations sur les problèmes du développement du pays et publie des livres (recueil d’articles, monographies, ouvrages de référence), des périodiques, une revue trimestrielle, «Pro et contra», et la série «Working papers». Il organise régulièrement des conférences. La Fondation est financée par des firmes importantes comme BP, General Motors, Ford, Mott, de même que par Soros, Rockefeller, le Pentagone, le Département d’Etat et le ministère des Affaires étrangères britannique.
La directrice en était jusqu’ici Rose Goettemoeller, ancienne collaboratrice de la RAND Corporation et actuelle ministre américaine adjointe des Affaires étrangères.
Les représentants du monde russe des affaires au conseil de surveillance sont Piotr Aven, Sergueï Karaganov, Boris Nemtsov, Grigori Javlinski et Evgueni Jasine, président de l’Université économique de Moscou. Les collaborateurs de premier plan sont Dmitri Trenine, qui travaille également pour Radio Free Europe et Radio Liberty, et Lilia Chevtsova, tous les deux étant régulièrement invités à l’Ouest pour expliquer que la Russie restreint les libertés démocratiques. Les recherches du Centre de Moscou sont beaucoup utilisées par les classes politiques russe et occidentale. Le travail du Centre est soutenu par la centrale de Washington grâce à un «Programme Russie et Eurasie».18
La fondation Freedom House, créée en 1941 à l’initiative d’Eleanor Roosevelt, est née de la lutte contre l’isolationnisme aux Etats-Unis. Son objectif officiel était de lutter contre le national-socialisme et le communisme. Aujourd’hui, elle est financée par Soros et le gouvernement. Dans les années 1990, Freedom House a créé des bureaux dans presque tous les pays de la CEI et le Comité américain pour la paix en Tchétchénie (membres: Brzezinski, Alexander Haig, James Woolsey, ancien patron de la CIA). Son projet le plus connu est aujourd’hui «Liberté dans le monde» qui, depuis 1972, analyse chaque année tous les pays du monde et les classe en trois catégories: pays «libres», «partiellement libres» et «non-libres» selon le degré de libertés civiles et de droits politiques.19
En 1992, la filiale russe de la fondation Rockefeller Planned Parenthood Federation a été créée à Moscou et dans 52 autres villes russes. Elle a essayé de faire introduire dans toutes les écoles russes la matière «éducation sexuelle» qui a en réalité pour objectif de dissoudre la famille et de créer un homme nouveau, mais ce fut un échec car les fonctionnaires du ministère de l’Education, les enseignants, les parents et l’Eglise ortho­doxe s’y sont opposés, si bien que le projet a été refusé en 1997 lors d’une conférence de l’Académie russe pour l’école. 20
En Occident, les organisations non-gouvernementales (ONG) sont considérées comme des piliers de la société civile. En Russie, elles n’ont rien à voir avec l’édification d’une démocratie directe: ce sont des agences financées et dirigées par l’Occident.

Influence occidentale sur l’école et les médias

Un important objectif de l’influence occidentale est le système scolaire et universitaire. Tout d’abord, après le tournant de 1991, le centralisme et l’idéologie marxiste ont été liquidés avec l’aide de conseillers occidentaux. La loi sur l’école de 1992 et la Constitution de la Fédération de Russie de 1993 ont codifié une profonde réorientation de l’école sous le signe du paradigme démocratique et néolibéral occidental. Elle comprenait l’introduction d’éléments d’économie de marché dans le système scolaire et la création d’une société civile.21
L’octroi de crédits occidentaux à l’école était lié à l’application de certaines directives. C’est ainsi que le système scolaire a été transformé dans le sens du néolibéralisme. Un secteur d’écoles privées onéreuses a été créé. Les écoles secondaires et les universités se sont orientées vers le profit et ont exigé des frais de scolarité. Grâce aux enquêtes PISA de l’OCDE, le système scolaire a été orienté vers l’économie. De nombreuses écoles des zones rurales qui n’étaient plus «rentables» ont été fermées. Beaucoup d’enfants ne sont plus allés à l’école ou l’ont quittée sans diplôme. En 2000, selon un rapport de l’UNESCO, 1,5 million d’enfants russes n’allaient pas à l’école. On a vu se développer la toxicomanie chez les élèves, phénomène inconnu jusque-là.22
La plus importante réforme est celle des universités qui ont été évaluées tout de suite après le tournant de 1991 par la Banque mondiale et le Fonds monétaire international qui ont ensuite élaboré un programme de restructuration sur le modèle anglo-saxon. En 2004 a été adoptée la Déclaration de Bologne qui prévoit le passage à un bachelor (licence) de quatre ans suivi d’un master de deux ans ainsi qu’une présidence avec des conseils d’université où siègent des représentants de l’économie. De nombreux spécialistes de l’éducation y voient une destruction de la tradition de l’université russe car l’enseignement se limite à la transmission d’informations. Aujourd’hui, parmi les quelque 1000 universités et autres établissements supérieur russes, 40% sont privés. Beaucoup d’entre eux ont été créés par l’Occident et l’on y forme une nouvelle élite.23
Un autre secteur suivi avec beaucoup d’attention par l’Occident sont les médias qui, après 1991, ont vécu leur plus grande transformation. Ils ont été privatisés par les réformes néolibérales d’après 1991 et repris par des oligarques ou l’étranger. De nombreuses stations de radio, des journaux et des magazines ont passé aux mains de propriétaires étrangers comme la News Corporation de Rupert Murdoch qui publie, en collaboration avec le Financial Times, le quotidien Vedomosti, le plus important journal financier de Russie et le News Outdoor Group, qui possède la plus grande agence de publicité, présente dans quelque 100 villes russes. Bertelsmann AG, qui possède la plus grande chaîne de télévision européenne, RTL, exploite en Russie la chaîne Ren TV qui diffuse dans tout le pays.24 La Fondation Bertelsmann, créée en 1977 par Reinhard Mohn, un des think tanks les plus puissants de l‘UE, travaille en collaboration avec la Fondation Gorbatchev dont le siège est à Moscou mais qui entretient également des succursales en Allemagne et aux Etats-Unis.
Sous Eltsine, les médias étaient presque tous entre les mains de la nouvelle oligarchie, qui était liée aux centres financiers occidentaux. Vladimir Gousinski possédait la plus grande chaîne de télévision, NTV, et Boris Berezovski contrôlait les journaux. Lorsque Poutine commença à stabiliser le pays, sa tâche la plus urgente fut de contrôler les médias, car sinon, le gouvernement aurait été renversé.
L’américanisation concerne, last but not least, la culture quotidienne qui, sous la forme de concerts rock, d’Internet, de chaînes de télévision privées, de cinémas géants, de discothèques, de CD musicaux, de bandes dessinées, de publicité et de mode, est presque la même qu’en Occident.
L’objectif de la stratégie américaine est d’introduire le système de valeurs occidental dans la société russe. Il s’agit de désidéologiser l’Etat. Dans la Constitution de 1993, l’idéologie étatique a été condamnée en tant que manifestation du totalitarisme et interdite à l’article 13.25
L’idéologie soviétique officielle reposait sur une philosophie matérialiste mais comportait des éléments de nationalisme qui constituaient le ciment maintenant l’Etat. Cette interdiction a privé l’Etat des valeurs nationalistes. Le vide spirituel est rempli aujourd’hui par la culture populaire occidentale.
L’offensive culturelle américaine a pour but de créer en Russie une société multiculturelle, c’est-à-dire cosmopolite, pluraliste et laïque qui dissout la culture nationale russe commune. Le peuple, qui a une histoire et une culture communes, doit être transformé en une population multinationale.

Résistance de l’Etat et de l’intelligentsia russes

Le concept d’Etat imposé depuis 2000 par le président Vladimir Poutine, en particulier le concept d’Etat fort, impliquait une recentralisation partielle, le passage de l’idée d’un Etat multinational à un Etat nationaliste russe et la tendance à réserver une place spéciale à l’Eglise et à la religion orthodoxes.
En avril 2001, le groupe énergétique public Gazprom a pris le contrôle de la chaîne NTV. Le quotidien Sevodnia (Aujourd’hui) a dû cesser de paraître et le rédacteur en chef du magazine a été mis à pied. La chaîne de télévision de Boris Berezovski TV-6 a été fermée en janvier 2002 et Berezovski a émigré en Angleterre.
En septembre 2003, le magnat du pé­trole Mikhaïl Khodorkovski voulait racheter l’hebdomadaire libéral Moscovskie Novosti afin de soutenir les partis de l’opposition libé­rale Union des forces de droite et Iabloco dans la prochaine campagne électorale. Son engagement politique a été une raison impor­tante de son arrestation en octobre 2003. Cette mesure était nécessaire car sinon l’oligarchie aurait réussi, avec l’aide des médias, à prendre le contrôle du gouvernement lui-même. Les trois plus importantes chaînes de télévision, ORT, Russia et NTV et une partie importante de la presse écrite sont contrôlées aujourd’hui par des grands groupes publics (Gazprom et Vnechtorbank) ou directement par l’Etat (RTR).
L’oligarque Vladimir Potanin continue de contrôler les quotidiens Izvestia et Komsomolskaïa Pravda. Actuellement, Novaïa Gazeta (sous le contrôle de l’oligarque Ale­xandre Lebedev et de Gorbatchev) et le quotidien Vedomosti, créé à l’initiative du Wall Street Journal et du Financial Times, sont considérés comme des organes de presse indépendants du gouvernement.26 Depuis 1993, selon une statistique, 214 journalistes ont été assassinés dont 201 sous l’ère Eltsine et 13 depuis l’accession au pouvoir de Poutine (10 pendant son premier mandat et 3 pendant le second).27
La Doctrine nationale pour l’éducation de 1999 et le Concept de 2001 ont réintroduit dans le domaine idéologique les idées patriotiques et nationalistes. Le retour aux valeurs de l’époque tsariste s’est ajouté à la volonté de conserver les avantages du système éducatif de l’Union soviétique. Les écoles privées et les académies soutenues par l’Eglise orthodoxe russe, reconnues par l’Etat depuis 2007, occupent une place particulière. De nou­velles matières ont été introduites dans les pro­grammes des écoles, comme la préparation obligatoire au service militaire, depuis 1999, et les «fondements de la culture orthodoxe», depuis 2007.28
Fait également partie de la guerre psychologique la campagne des médias contre la Russie, menée depuis 10 ans mais surtout depuis l’arrestation de Khodorkovski en 2003 sous la devise «La Russie est en passe de revenir au système soviétique». Un exemple en est la «persécution» des artistes progres­sistes qui consisterait dans le fait de retirer des expositions publiques les œuvres blasphématoires ou pornographiques. Il s’agirait en général de provocations d’ONG financées par l’Occident. Le Centre Sakharov, qui s’est fixé pour but d’imposer une société ou­verte, a organisé en 2003 une exposition intitulée «Attention religion!» où étaient exposées entre autres des œuvres antichrétiennes blasphématoires. La Douma a demandé au Minis­tère public d’engager des poursuites contre le Centre. Les organisateurs ont été condamnés à une amende en 2005.
En 2005, le gouvernement a introduit un nouveau jour de fête nationale: le 4 novembre, date proche de l’ancienne Fête de la Révolution d’Octobre le 7 novembre. Cette fois, il s’agissait de commémorer la victoire sur les troupes d’invasion polonaises en 1612. En 2006, une nouvelle Loi sur les organisations non gouvernementales a été adoptée en vertu de laquelle elles doivent toutes se faire réenregistrer. Leur financement par l’étranger devra être contrôlé plus strictement. Au début de 2008, tous les bureaux régionaux du British Council, à l’exception de celui de Moscou, ont été fermés parce qu’on leur reprochait des activités antirusses.29
Contrairement à l’époque de la perestro­ïka et à l’ère Eltsine, l’intelligentsia russe, depuis l’attaque de la Yougoslavie par l’OTAN en 1999, n’est plus libérale mais nationa­liste. Les écrivains, artistes, réalisateurs et metteurs en scène sont aujourd’hui des patriotes nationalistes et sont soutenus par le Kremlin. Le gouvernement contrôle également les informations politiques des médias, avant tout celles de la télévision, un peu moins celles des journaux.
Auparavant, le représentant principal des traditionnalistes était Alexandre Soljenitsyne à qui on a cependant reproché de ne pas être assez critique à l’égard de l’Occident. Aujourd’hui, le groupe leader est constitué par les po venniki (enracinés dans le terroir). Ils sont chrétiens-orthodoxes, mais envi­sagent la période soviétique dans la tradition de l’histoire russe. Leurs idéologues sont des écrivains ruralistes: Valentin Raspoutine, Vassily Belov et Victor Astafiev. C’est dans les revues Nas Sovremennik, Moskva et Molodaïa gvardia que, dès les années 1970–80, l’idéologie patriotique a été élaborée.
La Fondation pour la perspective historique, dirigée par l’ancienne députée à la Douma Natalia Narotchniskaïa, défend un programme patriotique et chrétien, pos­sède la série éditoriale Svenia, la revue Internet Stoletie et organise des conférences et des congrès. L’intelligentsia patriote nationa­liste débat à propos d’une modification fondamentale du système prévoyant un renforcement de l’Etat et la fermeture des frontières. Les associations d’écrivains, d’artistes et de cinéastes possèdent des maisons de la culture, des galeries d’art, des cinémas et des revues et organisent de nombreuses manifestations. Il y a à Moscou 150 théâtres, opéras et salles de concerts qui jouent essentiellement des œuvres classiques. Le théâtre de metteur en scène, l’art abstrait et la musique atonale occupent une place secondaire.30
L’Autriche et l’Allemagne jouissent d’une image positive, mais c’est surtout la culture alle­mande et l’histoire du passé que l’on connaît. On ne sait pas vraiment ce qui se passe actuellement en Allemagne. Soljenitsyne a toujours espéré que l’Allemagne deviendrait une sorte de pont entre la Russie et le reste du monde parce que les deux pays se sentaient attirés mutuellement.31 Mais les médias allemands transmettent une image déformée de la Russie: selon eux, la Russie serait en passe de revenir au système soviétique et les intellectuels néolibéraux mèneraient un combat dés­espéré. On cite en exemple l’écrivain pornographique Victor Erofeïev qui a été invité en Allemagne par l’hebdomadaire hambourgeois Die Zeit.32 Aujourd’hui, en Russie, la question déterminante n’est pas de savoir si le pays est en train de redevenir une dictature communiste mais une «dictature du relativisme» sur le modèle occidental ou une société chrétienne.33

Le renouveau religieux

La véritable résistance contre l’occidentalisation vient aujourd’hui de l’Eglise ortho­doxe qui est traditionnaliste. Elle défend des valeurs traditionnelles comme le mariage, la famille, la maternité et s’oppose à l’homosexualité. Les églises sont pleines, surtout de jeunes gens. La majorité des jeunes se disent orthodoxes, c’est-à-dire chrétiens et se marient à l’église. Il y a de nouveau 100 millions de croyants, 30 000 prêtres et 600 couvents. L’Académie spirituelle de Serguiev Possad est pleine, elle reçoit 4 candidatures pour une place. Il existe une station de radio ortho­doxe, une maison d’édition, une série de revues, des aumôniers dans l’Armée, les hôpitaux et les prisons et on a réintroduit de facto la disci­pline religion dans les écoles, pour la premi­ère fois depuis 1917. Selon des sondages, 70% des Russes se disent croyants.34
En 2007, l’Eglise orthodoxe russe et le Vatican ont décidé d’engager des pourparlers pour aplanir leurs différends. L’archevêque Ilarion, directeur du département des Af­faires ecclésiastiques étrangères du Patriarcat, ancien évêque russe-orthodoxe de Vienne, a déclaré à ce sujet: «Nous sommes des alliés et nous nous trouvons face au même défi: un laïcisme agressif».35
En Russie, le christianisme ortho­doxe est qualifié de «religion majoritaire». Un 4 novembre, Jour de l’unité nationale en Russie, j’ai eu l’occasion d’assister à une procession extraordinaire sur la place Rouge: le Patriarche marchait au premier rang, puis venaient les dignitaires de l’islam, de la communauté juive et des bouddhistes. C’était un symbolisme intentionnel: «Le Patriarche est le chef de la religion majoritaire, il rassemble les croyants et encourage la collaboration des différentes communautés religieuses. Il est le chef spirituel du peuple tout entier, et pas seulement des croyants orthodoxes.»36

Conclusions

Aujourd’hui, la Russie traverse une crise qui se traduit tout d’abord dans les systèmes financier et monétaire, mais concerne égale­ment le domaine culturel. C’est d’ailleurs là qu’elle a son origine la plus profonde qui consiste en ce que la société laïque pluraliste n’apporte aux hommes ni véritable communauté, ni conception du monde ni sens.
La Russie n’a pas besoin de la «culture matérialiste et égoïste» de la société occidentale actuelle mais d’une idéologie nationale universelle qui comprenne tous les aspects de la vie, développe le pays et rejette tout ce qui menace l’existence du peuple.37
La reprise des relations russo-américaines depuis deux ans ne change cependant rien à l’orientation antirusse à long terme de la politique américaine et n’empêche pas la CIA de redoubler d’activités en Russie. Après la visite d’Obama à Moscou, Hillary Clinton elle-même a insisté sur l’attachement des Etats-Unis à leur concept de leadership mondial absolu. Tôt ou tard, la Russie va devoir choisir entre créer un Etat souverain qui ferme ses frontières et empêche la destruction de sa culture ou capituler et devenir une province de l’Occident.    •
(Traduction Horizons et débats)

1    Basil Liddell Hart, Strategy: The Indirect Approach, 1re éd. 1929, 2e éd. 1954
2    Christopher Simpson, Science of Coercion: Communication Research and Psychological Warfare, 1945–1960, New York, Oxford U.P,. 1994, p. 4
3    Simpson, Science of Coercion, p. 87
4    A. Ross Johnson, R. Eugene Parta, Cold War Broad­casting: Impact on the Soviet Union and Eastern Europe, Woodrow Wilson International Center, Washington, 2010
5    Frances Stonor Saunders, Who Paid the Piper? The CIA and the Cultural Cold War, London 1999
6    Peter Schweizer, Victory: The Reagan Administration’s Secret Strategy That Hastened the Collapse of the Soviet Union, New York, 1994
7    S.G. Kara-Murza, A.A. Aleksandrov, M.A. Muraškin, S.A. Telegin, Revolucii na eksport, Moskva, 2006
8    Cité d’après: V.I. Jakunin, V. Bagdasarjan, S.S. Sulakšin, Novye technologii bor’by s rossijskoj gosudarstvennost’ju, Moskva, 2009, str. 50
9    Joseph Nye, Bound to Lead: the Changing Nature of American Power, Basic Books, 1990 ; Joseph Nye, Transformational Leadership and U.S. Grand Strategy, Foreign Affairs, vol. 85, No 4, July/August 2006, pp. 139–148
10    Richard Armitage, Joseph S. Nye, A Smarter, More Secure America, CSIS Commission on Smart Power, 2009
11    Peter Schweizer, Victory: The Reagan Administrations’s Secret Strategy That Hastened the Collapse oft he Soviet Union, New York, 1994
12    Cela figure dans la biographie officielle d’Eltsine de Vladimir Solovyov et Elena Klepikova, Boris Yeltsin. A political Biography. Après l’audition d’Eltsine devant le Congrès, David Rockefeller a déclaré: «C’est notre homme!»
13    O. A. Platonov, Rossija pod vlast’ju masonov , Moskva 2000, p. 35
14    Platonov, Rossija, p. 3
15    Platonov, Rossija, p. 15
16    Jakunin, Novye techologii, p. 81
17    Jakunin, Novye technologii, p. 90
18    Jakunin, Novye technologii, p. 94 sqq.
19    Jakunin, Novye technologii, p. 92
20    www.pravda.ru 03/19/2008
21    Gerlind Schmidt, Russische Föderation, in: Hans Döbert, Wolfgang Hörner, Botho von Kopp, Lutz R. Reuter (Hrsg.), Die Bildungssysteme Europas, Hohengehren 2010 (= Grundlagen der Schulpädagogik, Bd. 46, 3. Aufl.), p. 619
22    Schmidt, Russische Föderation, p. 635
23    Schmidt, Russische Föderation, p. 632
24    Pierre Hillard, Bertelsmann – un empire des médias et une fondation au service du mondialisme, Paris, 2009, p. 27
25    «1. Le pluralisme idéologique est reconnu dans la Fédération de Russie. 2. Aucune idéologie ne peut s’instaurer en qualité d’idéologie d’Etat ou obligatoire.» Art. 13 de la Constitution de la Fédération de Russie de décembre 1993
26    A. Cernych, Mir sovremennych media, Moskva, 2007
27    Roland Haug, Die Kreml AG, Hohenheim, 2007
28    Schmidt, Russische Föderation, p. 639
29    Das Feindbild Westen im heutigen Russland, Stiftung Wissenschaft und Politik, Berlin, 2008
30    Vladimir Malachov, Sovremennyj russkij nacionalizm in: Vitalij Kurennoj, Mysljaškaja Rossija: Kartografija sovremennych intellektual’nych napravlenij, Moskva 2006, pp. 141 sqq.
31    Interview d’Alexandre Sojénitsyne, Der Spiegel
no 30, 23/07/07; Marc Stegherr, Alexander
Solschenizyn, Kirchliche Umschau, no 10,
Octobre 2008
32    Nikolaj Plotnikov, Russkie intellektualy v Germanii, in: Kurennoj, Mysljaškaja Rossija, p. 328
33    Westen ohne Werte? Interview de Natalia Narotchniskaïa, directrice de l’Institut russe pour la démocratie et la coopération de Paris, Frankfurter Allgemeine Zeitung, no 51, 29/02/08
34    Jakunin, Novye technologii, pp. 196 sqq.
35    Interview du Spiegel
36    Der Spiegel, no 51, 14/12/09
37    Pape Benoît XVI, Encyclique «Spe salvi», Rome, 2007, dans laquelle il parle d’une «dictature du relativisme».

*    Né en 1940 à Vienne, Peter Bachmaier a fait ses études à Graz, Belgrade et Moscou. De 1972 à 2005, il a été collaborateur de l’Österreichisches Ost- und Südeuropa-Institut. Depuis 2006, il est secrétaire du Bulgarisches Forschungsinstitut en Autriche. En 2009, il a effectué un séjour de recherches à Moscou. Le présent texte est l’exposé
qu’il a présenté au Congrès «Mut zur Ethik» à Feldkirch, le 3 septembre 2010.

«Ateliers du futur» en Russie

En juillet 2010 a eu lieu, à Ekaterinbourg, le 21e atelier du futur organisé dans le cadre du Dialogue de Pétersbourg entre l’Allemagne et la Russie et qui a réuni 40 participants. Ces séminaires, auxquels sont invités des jeunes managers russes, ont été fondés en 2004 par la Société allemande pour la politique étrangère qui a organisé, dans les locaux de l’éditeur Gruner & Jahr, qui fait partie du groupe Bertelsmann, le premier «atelier du futur» sur le thème «L’Allemagne et la Russie dans le monde globalisé». L’objectif des séminaires, qui sont soutenus aujourd’hui par la Fondation Körber, est d’analyser le passé communiste et de répandre l’idée d’une société civile démocratique. Les intervenants allemands expliquent aux jeunes Russes qu’un partenariat stratégique avec la Russie n’est possible que sur la base des valeurs occidentales. Ils leur conseillent de rejeter l’héritage impérial russe et de se soumettre aux règles du jeu de la globalisation.
Les Allemands disent aux Russes que depuis les années 1960, ils se sont confrontés à la guerre et au national-socialisme et qu’ils ont assumé leur passé. Ils reprochent aux Russes de rester at­tachés à l’identité soviétique dans le souvenir de la victoire de la Se­conde Guerre mondiale et de ne pas être prêts à surmonter entièrement le totalita­risme, ce qui les empêche de continuer à démocratiser la société. Les participants russes répondent que 1991 a repré­senté une rupture dans leur conscience historique qui a entraîné la dissolution des valeurs fondamentales de la société. Jusqu’ici, les Russes n’ont pas été disposés à «se détacher complètement du passé» et à accepter les «valeurs universelles».

Source: Newsletter, DGAP, 20/7/10

(Traduction Horizons et débats)

lundi, 01 novembre 2010

De ironie van de geschiedenis: Rusland "terug" naar Afghanistan

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De ironie van de geschiedenis: Rusland “terug” naar Afghanistan

Ex: http://yvespernet.wordpress.com

De geschiedenis heeft zo haar ironische verrassingen. Toen socialistisch Rusland, toen nog de Sovjetunie, Afghanistan binnenviel om daar het socialistische regime te ondersteunen, steunde de VSA de moedjahedien die de Russen bevochten. De CIA leverde wapens (de beruchte Stinger-raketten die Russische helikopters konden neerschieten), geld en training aan deze Afghaanse strijders en legde zo, nogmaals ironisch genoeg, de basis voor de Taliban en Al-Qaida vandaag de dag. Dit was de zogenaamde Operatie Cyclone. Deze oorlog zou uiteindelijk ook een grote rol spelen in het instorten van de Sovjetunie wegens de grote verliezen en de onuitzichtbare situatie. In Afghanistan wordt de terugtocht van de Sovjetunie uit hun land ook nog steeds jaarlijks gevierd. Nu dat de NAVO-aanvoerroutes steeds meer blootgesteld worden aan steeds effectievere aanvallen en de Pakistanen de belangrijke Khyber-pas sinds eind september hebben gesloten, zoeken de Amerikanen naar mogelijkheden om dit te compenseren.

De ironie van dit alles? De VSA gaan deze hulp zoeken bij de Russen. Rusland verkoopt militair materiaal aan de NAVO-leden in Afghanistan en aan het Afghaanse leger zelf. Tevens zouden zij piloten opleiden en het Russische grondgebied en luchtruim openzetten voor de bevoorrading van NAVO-troepen. Momenteel zou Rusland al vijf Mi-17 helikopters aan Polen verkocht hebben. Russisch onderminister van Buitenlandse Zaken, Aleksander Grushko, deelde ook al mee dat Afghaanse officieren momenteel in Rusland opgeleid worden. Anatoly Serdyukov, de Russische Minister van Defensie, melde ook dat de NAVO meerdere dozijnen Mi-17′s zou kopen of huren van Rusland. Zelf zouden er geen Russische troepen Afghanistan binnentrekken.

In ruil bouwt de VSA hun “anti-rakettenschild” (ARK), in de praktijk een radar-”afluister”systeem om Rusland te bespioneren, steeds verder af. Zo is dit ARK reeds geschrapt in Polen en Tsjechië. Ook zal Rusland geconsulteerd worden bij de opbouw van een eventueel alternatief voor dit ARK. Verder zou Rusland eisen van de NAVO dat zij de situatie in Georgië, waar o.a. Zuid-Ossetië nog steeds de facto onafhankelijk is onder Russische voogdij, officieel erkennen.

Ook is deze geopolitieke keuze van Rusland geen verrassing. Tegenover islamistisch fundamentalisme voert Rusland een containment-politiek, waar de VSA eerder een roll-back-politiek wensen te volgen. Voor Rusland is het het belangrijkste om het islamitisch fundamentalisme in Afghanistan en Pakistan te houden en ervoor te zorgen dat het zich niet meer naar het noorden, naar de onderbuik van Rusland, verplaatst. Dat daarbij de NAVO zich druk bezig houdt en grote materiële inspanningen moet leveren in Afghanistan, ten koste van hun aandacht naar Rusland toe, is nog eens goed meegenomen. Rusland heeft er dan ook alle belang bij om zowel de islamistische fundamentalisten als de NAVO-troepen met elkaar bezig te laten zijn in Afghanistan.

Volgende maand is er een NAVO-top in Lissabon waar deze gesprekken en besluiten officieel zouden meegedeeld worden. De Russische president, Dmitry Medvedev zou hier ook bij aanwezig zijn.

To Cleanse America: Some Practical Proposals

To Cleanse America:
Some Practical Proposals

Greg Johnson

Ex: http://www.counter-currents.com/

Author’s Note:

The following short piece from 2002 or 2003 has the same major flaw as “Separatism vs. Supremacism,” namely, it deals with the issue in the abstract. Racial separation is not likely to happen this way. Nonetheless, it has the virtue of broadening the reader’s sense of what is morally and practically possible.

50s.jpgI hear a lot of defeatist talk among White Nationalists. A recurring theme is that there are too many non-whites in America to even consider an all-white nation. The most optimistic solution is to partition the country into ethnically pure nations.

The answer to this kind of talk is simple: If it was not too much trouble for all these people to come here, then it will not be too much trouble for them to go back. If whites could conquer and settle this country once, then we can do it again. The only thing stopping us from doing it again is lack of nerve, not lack of ability. But an awakened white nation could quickly set things right.

Part of the problem may be that people are trying to envision a government program that could remove tens of millions of non-whites. It seems impossible, so they give up in dismay. But as a matter of fact, there have already been such programs. From 1929 to 1939, more than one million Mexicans — more than half of them US citizens — were forced to return to Mexico. In the 1950s, more than one million Mexicans were again repatriated by Operation Wetback. Surely with modern computers and law enforcement techniques, it would be relatively easy to scale such programs up to deal with more than 20 million Mexicans plus other non-whites.

But does one really need a massive government operation to cleanse America? After all, most non-whites did not come here through government programs, but through private initiative. They came because there were economic incentives to come. They will leave when there are economic incentives to leave.

And I am not talking about the use of government money to bribe non-whites to leave. That was the feeble proposal of the British National Party, before they abandoned the idea of repatriation altogether as unfeasible.

We need to make a distinction between government programs, in which the state takes the initiative, and government policies, which allow or encourage private initiative. The economic incentives that lead to non-white immigration work only by the government’s permission. If immigration were banned and the ban rigorously enforced, these incentives would become impotent. By the same token, the government can pass laws creating economic incentives for non-whites to go home.

Of course before we talk of incentives, we need to deal with the hundreds of thousands of non-whites, citizens and aliens, who are already incarcerated at public expense for breaking the law. These people should be immediately deported. Then we should crack down on non-white crime and automatically deport all new offenders. That would rid us of millions in short order.

As for non-whites who are here illegally, but who are not already incarcerated, we should first levy fines of $10,000 per day per alien on any business that employs them and any landlord who rents to them. That should send most of them scurrying for the border. After six months or so, the police can scour out the ones who remain and deport them. After another six months, the government can offer a bounty for those who slipped through the cracks.

As for the ones here legally: They should be immediately stripped of their citizenship and all the benefits that come from it. They should be denied any government or government subsidized benefits, e.g., education, welfare, unemployment insurance, health care. We should allow them to sell their property and take the proceeds with them. But to make a quick departure even more appealing, that option would expire after a year. Those who cannot take a hint would then be deported, with a bounty for those who remain.

Such policies, after a couple of years, would rid us of millions of non-whites. Only diplomats, tourists, and traveling businessmen would remain within our borders. Yes, these would be government policies. But the beauty of them is that they would encourage most non-whites to leave on their own initiative. The government would not have to track down, incarcerate, and deport each one, which would be an enormously expensive burden on the taxpayer and economy.

Instead, the policies I propose would stimulate economic activity, especially in travel and real estate. One appealing result is that home prices would drop, making it easier for white couples to get a start. Another result would be higher wages for white workers.

Only after the non-white population had been significantly reduced would a more active government role be necessary, but by that time the problem would be much more manageable.

“But there would be violence! There would be race war!” the defeatists will bleat. Of course there would be.

I am all for minimizing violence. But let’s be real: There already is violence. There already is race war. There already is ethnic cleansing.

Every time a white is robbed, raped, or murdered by a non-white predator, that is race war. The Cincinnati riots were race war. The Wichita Massacre was race war. “Beat up a White Kid Day” was race war. “Polar Bear Hunting” is race war. When tens of thousands of whites fled American cities and lost tens of millions in property because of desegregation, that was ethnic cleansing.

The race war and the cleansing are already upon us. It is just that we are not fighting back. And if we don’t start fighting back, we are going to be destroyed.

Yes, there would be thousands of white race traitors marching and holding candlelight vigils. That’s why we have rubber bullets and fire hoses. Yes, Blacks and Mexicans would riot and burn down their neighborhoods and Korean convenience stores. But that’s why we have police and the National Guard. In the end, non-white lawlessness would simply allow us to accelerate their expulsion.

Yes, violence would have economic costs, but they would be nothing compared to the costs in crime, chaos, ugliness, and inefficiency of keeping these people here. Yes, there would be white casualties. But the white death toll would be nothing compared to the white death toll that is inevitable if we do nothing: namely, extinction.

Pound, Jefferson, Adams e Mussolini

Pound, Jefferson, Adams e Mussolini

Autore: Giano Accame

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

 

È vero: siamo in tempo di crisi e accadono cose davvero sorprendenti. Anche nel movimento delle idee. Occupa appena una trentina di pagine il saggio di Ezra Pound su Il carteggio Jefferson-Adams come tempio e monumento ed è quindi motivo di un lieve stupore l’ampiezza dell’interesse che ha suscitato. Il 18 febbraio scorso si parte con un’intera pagina del Corriere della Sera per una recensione di Giulio Giorello, filosofo della scienza, ma anche raffinato lettore dei Cantos da un versante laico-progressista, che ha acceso la discussione a cominciare dal titolo: Elogio libertario di Ezra Pound. Scambiò Mussolini per Jefferson. Ma il suo era un Canto contro i tiranni. Di quel titolo il giorno dopo profittava Luciano Lanna per ribadire sul nostro Secolo: “Pound (come Jünger) era libertario”. Due giorni dopo (venerdì 20 febbraio) nelle pagine culturali del Corriere della Sera Dino Messina riapriva il dibattito : “Fa scandalo il “Pound libertario”, mentre il 21 febbraio il tema veniva approfondito da Raffaele Iannuzzi nel paginone centrale ancora del Secolo.

Ricordo ancora le critiche rivolte a Pound e a Giorello il 27 febbraio da Noemi Ghetti su LEFT. Avvenimenti settimanali dell’Altraitalia: era abbastanza facile indicare qualche contraddizione tra la censura fascista e lo spirito libertario, pur essendo altrettanto innegabile il durissimo prezzo pagato da Ezra Pound pacifista alla sua appassionata predicazione contro l’usura, la speculazione finanziaria internazionale e le guerre, con le settimane vissute in gabbia nella prigionia americana di Pisa e i dodici anni di manicomio criminale a Washington. Tuttavia nell’ampio dibattito di cui ho segnalato le tappe è comparso solo marginalmente il nome di Luca Gallesi (Antonio Pannullo lo ha però intervistato il 5 marzo in queste pagine sull’etica delle banche islamiche), geniale studioso di Pound cui si deve la pubblicazione del saggio su Jefferson, ma anche e soprattutto l’apertura di nuovi percorsi in una materia di crescente interesse quale è la storia delle idee.

Occorre rimediare alla disattenzione per l’importanza dei contributi che Gallesi ci sta suggerendo e per i risultati che nel campo degli studi poundiani sta raccogliendo con l’editrice Ares guidata da Cesare Cavalleri insieme alla rivista Studi cattolici, anch’essa molto attenta al pensiero economico di un poeta che sin dai primi anni ’30 aveva previsto lo spaventoso disordine della finanza globale e il dissesto con cui oggi il mondo è alle prese. Le Edizioni Ares avevano già pubblicato gli atti di due convegni internazionali curati da Luca Gallesi, prima Ezra Pound e il turismo colto a Milano, poi Ezra Pound e l’economia, e dello stesso Gallesi lo studio su le origini del fascismo di Pound ove dimostra che il più innovativo poeta di lingua inglese del secolo scorso era stato predisposto a larga parte dei programmi socio-economici mussoliniani degli anni di collaborazione a Londra con la rivista The New Age diretta da Alfred Richard Orage, espressione di una corrente gildista, cioè corporativa del laburismo. Dalla frequentazione della società inglese Pound si portò dietro anche alcuni trattati del tutto sgradevoli d’antisemitismo, che negli anni Venti salvo rare eccezioni erano ancora ignote al fascismo italiano. L’introduzione di Gallesi al breve saggio di Pound sul carteggio Jefferson-Adams punta a estendere agli Usa la ricerca già avviata in Inghilterra sulle origini anglosassoni del fascismo poundiano. Questa volta paragoni diretti tra i fondatori degli stati Uniti e il fascismo non emergono come nel più noto Jefferson e Mussolini ripubblicato nel ’95 a cura di Mary de Rachelwiltz e Luca Gallesi da Terziaria dopo che era andata dispersa la prima edizione per la Repubblica sociale del dicembre ’44. Di Jefferson e Adams da Gallesi viene ricordato l’impegno, da primi presidenti americani, nello sventare i tentativi di Hamilton di togliere al Congresso, cioè al potere politico elettivo, il controllo sull’emissione di moneta per delegarlo ai banchieri e alla speculazione attraverso la creazione di una banca centrale controllata, come nel modello inglese, da gruppi privati. Un’altra traccia innovativa per la storia delle idee è stata suggerita da Gallesi il 4 marzo sul quotidiano Avvenire segnalando il saggio dell’americano Jonah Goldberg, che stufo di sentirsi accusare di fascismo ha scalato i vertici delle classifiche librarie con Liberal Fascism, un saggio ove ha sostenuto la natura rivoluzionaria del fascismo, che durante la stagione roosveltiana del New Deal suscitò “negli Usa stima e ammirazione soprattutto negli ambienti progressisti, mentre all’estrema destra il Ku Klux Klan faceva professione di antifascismo”.

Una storia trasversale di idee al di là della destra e della sinistra che Gallesi si prepara a approfondire lungo l’Ottocento americano attraverso la secolare resistenza che da Jefferson in poi vide opporsi correnti legate allo spirito dei pionieri e delle fattorie alla creazione di una banca centrale, che avvenne solo nei primi del Novecento, alla speculazione monetaria e alla dilagante corruzione. Tutti contributi a una interpretazione di Pound, che senza indebolire le posizioni ideali a cui teniamo, risulterà più autentica, più ricca, più fuori dagli schemi, più prossima alla definizione di ”libertario” che della lettura poundiana di Jefferson ha ricavato Giorello.

E non so trattenermi dal riportare due frasi che avevo sottolineate un quindicina di anni fa leggendo la prima volta l’ancor più scandaloso confronto tra Jefferson e Mussolini. Una tesa a far somigliare i due leader nella lotta alla corruzione: “In quanto all’etica finanziaria, direi che dall’essere un pese dove tutto era in vendita Mussolini in dieci anni ha trasformato l’Italia in un paese dove sarebbe pericoloso tentare di comprare il governo”. E proprio alla fine del libro l’invenzione della settimana corta, per una gestione politica della decrescita economica che solo adesso assume aspetti marcati d’attualità: “Nel febbraio del 1933 il governo fascista precedette gi altri, sia di Europa che delle Americhe, nel sostenere che quanto minor lavoro umano è necessario nelle fabbriche, si deve ridurre la durata della giornata di lavoro piuttosto che ridurre il numero del personale impiegato. E si aumenta il personale invece di far lavorare più ore coloro che sono già impiegati”. Queste erano le soluzioni pratiche che piacevano a Pound, autore di solito complicato, ma reso a volte paradossalmente difficile per eccesso di semplicità.

* * *

Tratto da Il Secolo d’Italia del 28 aprile 2009.

samedi, 30 octobre 2010

La sucia verdad detràs de Coca-Cola

Coca-Cola%2043.jpgLa sucia verdad detrás de Coca-Cola

Ex: http://causarevolucionaria.wordpress.com/

La compañía Coca-Cola gasta 2.8 mil millones de dólares al año en publicidad para asegurar que su refresco sea visto como la bebida más icónica de EEUU – una bebida disfrutada alrededor del mundo, constructora de la paz virtual en una botella.

La compañía ha dedicado 124 años puliendo su imágen, pero solo le tomó 300 páginas al autor Michael Balnding para empañar ese brillo. En su nuevo libro, ‘La Máquina de Coca-Cola: La Sucia Verdad Detrás de la Bebida Favorita del Mundo’, Blanding detalla la sórdida historia de la compañía, desde el patentar experimentos de medicina hasta ser una gigante multinacional.


El libro abre con una página que revuelve el estómago sobre la descripción del asesinato de Isidoro Gil, un trabajador del sindicato que estab fijo en la entrada de la planta embotelladora de Coca-Cola en Carepa, Colombia.

Como describe Blanding luego en el libro, Coca-Cola fue acusada de ser cómplice en las muertes de miembros del sindicato en Sur América, quienes fueron asesinados por paramilitares. Algunas personas pueden ver esto como algo espeluznante. Saber que la Compañía Coca-Cola sea acusada de asesinato es como saber que San Nicolás es acusado de ser un pedófilo”, escribe Blanding en la introducción.

Pero a través del libro, él detalla las acusaciones en contra de Coca-Cola en el frente de los derechos humanos, explicando por qué la Coca Cola es vilipendiada en cualquier lugar del mundo.

En India y México, la compañía esta enfrentado un retroceso por acusaciones de que sus plantas embotelladoras han agotado los acuíferos locales y han contaminado fuentes de agua. En Turquía hay más cargos de actividad anti sindical, y en EEUU y Europa, la gente esta harta de la publicidad para los niños de Coca-Cola, especialmente en las escuelas, y están preocupados por el vínculo que hay entre los refrescos y la obesidad.

Fuente

jeudi, 28 octobre 2010

Red Velvet: The Neocons' New Coalition Partners

Red Velvet

The Neocons' New Coalition Partners

 
 
 
Red Velvet  
 Mary Cheney, Alex Knepper, and David Frum

Richard Spencer’s references to Alex Knepper and his erotic activities while working as David Frum’s assistant bring up what is not an isolated embarrassment. It betokens what may be a widening problem for the neoconservative camp and given the influence of the neoconservatives, for the entire authorized Right. (Fortunately our side will not be involved, since we have no more investment in the present conservative movement than we do in the Obama administration.) It is highly doubtful that Knepper’s solicitation of sexual favors, “posting many pieces on a chat site for gay teens,” began the day before yesterday. Presumably there was a cover-up going on for a while, that is, as long as Frum could keep Alex’s critics at bay. Finally despite his value as a gutter journalist, Knepper became too much of a liability to be kept any longer (pardon the double entendre), and so Frum gave him the heave ho with expressions of “regret and remorse.”

I do recall a time when those who stupidly or opportunistically tried to see the good side of their new masters assured me that the ascending neocons were “serious about family issues.” They might have sounded like a cross between Trotsky and Ariel Sharon on foreign policy; and they might have drooled incessantly over Latino immigration, the Civil Rights Act, and the memories of their anti-Stalinist Marxist favs. But when family issues came up, one could supposedly count on them. This may have been the case for a few years, but by now the old story has worn thin. On family issues, the neocons are social-cultural leftists, and it is likely they’re going to drag all their dependents and lickspittles, and particularly their Christian stooges, in the same direction.

The neoconservatives have had a cozy relation with gays for some time, a truth that can be ascertained by looking at the staff of New Criterion, the catamites of Allan Bloom, and many neocon friendships in the New York-Washington Corridor. This however is no reason to ascribe ideological positions to those who feel comfortable around gays. De gustibus non disputandum! And one can always point to the fact that truer conservatives in an earlier period showed the same erotic propensities and were often exposed by the Left for their indiscretions.

 

The difference between then and now however is that none of these earlier homosexual conservatives or their well-wishers went around legitimating alternative lifestyles. It was simply assumed that individuals, including conservatives who thought of themselves as Christians, had their failings; and it was they who would have to cope with such flaws as idiosyncratic sexual preferences. But since the early 1990s, when the Wall Street Journal began bashing Buchanan for insulting the “San Francisco Democrats,” which was taken as a coded reference to gays, the neocon camp has been keen on homosexual rights, even pushing in some well-publicized instances the institution of gay marriage.

Jonah Goldberg, David Frum, and John Podhoretz are only three of the more prominent advocates in the “conservative” communion of extending marriage to gays. And for the last ten days, we’ve been treated to one tirade after the other against New York gubernatorial candidate Carl Paladino, for failing to show sufficient respect for Gay Pride parades. Paladino’s remark before a gathering of Hasidic Rabbis in Brooklyn that they should not “allow their children to be brainwashed” by those who treat homosexual relations as a norm, was perfectly appropriate. Such brainwashing goes on in our public schools incessantly; and I’m sure that Frederic Dicker of the New York Post, Charles Krauthammer on FOX, and other neocon talking heads know what Paladino said is directly related to reality.

But he is clearly not on the same page with Human Events’s “conservative of the year” in 2009, Dick Cheney. Unlike the scorned Paladino, Cheney is passionately in favor of gay marriage and showcases his lesbian daughter. While Cheney’s value as a “conservative” has more to do with his foreign policy belligerence than with his conception of marriage, indisputably his work as a gay activist has not damaged his “conservative” image. By contrast, the spunky Italian hard hat Paladino is being savaged night and day by neocons for taking the opposite position.

Earlier in the year, when every neocon celebrity came out enthusiastically for Obama’s concession to the social Left, to get rid of the “don’t ask, don’t tell” policy on gays in the military, I naively assumed that the reason was the one I heard Krauthammer give: “We’re going to need the military and so why exclude anyone who wants to serve on the basis of sexual preference.” I won’t get into the arguments that could be marshaled on the other side, for example, about gay officers trying to extract favors from those with lower ranks. But presumably if I thought like a neocon, that the primary mission of the U.S. is to get repeatedly into military crusades for democracy, I might have seen Krauthammer’s point.

Unfortunately, by now the neocons, and especially the children of the founding fathers, seem to be intent on accommodating gays, that is, people they’re more likely to run into in Starbucks than their well-wishers who live in fly-over country. And I don’t blame the neocons for preferring sexually ambiguous Jewish publicists whom they meet in their own social world to the cognitively deprived goyim who hang on their every word. I might prefer the company of urbane metrosexuals to those fools who weep over Glenn Beck’s incoherent encomia to MLK.

My question is what will happen when the latest neocon move to the left becomes an authorized position in their movement. Will those who depend on neocon favors go along with the move or will there be some opposition? My prediction is as follows. The drones will fall into line, with their usual rhetorical dishonesty. Just as in the case of the transformation of the Reverend Dr. King, from a quasi-Marxist philanderer and crass plagiarizer into a conservative theologian and Augustinian Christian, gay marriage will become a new exemplification of “family values.” There is no way one could do verbal justice to the sleaziness of kowtowing movement conservatives. I still vividly recall the way The Gambler, Bill Bennett, came out for hyper-Zionist Lieberman for vice-president in 2008, after having devoted years of his life to inveighing against abortion. Supposedly Lieberman, who voted for late-term abortion, was good on “democratic values” and therefore deserved to be president. Perhaps Bennett’s sponsors threw him payola for this highly publicized endorsement.

The most breath-taking example of servility toward the neocon master class that I’ve encountered came in a book of essays by a minor art critic dealing with postmodernist academics. The book treated the violently anti-Western, anti-Christian, and anti-rational ideas of three professors at prestigious universities, all of whom, not incidentally, had conspicuously Russian Jewish names. Although the Jewish backgrounds of these postmodernists may not tell everything about their intellectual journeys, such biographical data is certainly relevant for understanding them. American Jews, like American Irish, are disproportionately on the left but the fact that the Jews go disproportionately into the academic profession may have something to do with the leftist orientation of universities. Moreover, the attraction to postmodernism, as a vehicle for deconstructing a culture that one finds oppressive to one’s ethnic group, would be understandable in a group that feels rightly or wrongly marginalized in a Christian society.

There are certainly ways of expressing this self-evident connection between leftwing postmodernism and Jewish alienation without being unduly offensive. But the author in question had no desire to bring up a taboo subject, which might have cost him a cushy post in the neocon empire. Instead he devoted the last part of his book to beating up on German straw men, which is a favorite neocon pastime, perhaps best exemplified by Alan Bloom’s rant against “the German connection” in The Closing of the American Mind. Apparently recognizably Jewish representatives of leftwing postmodernism had been reading too much Martin Heidegger and were being corrupted by the same ideas that led to the Holocaust.

Now I for one admire Heidegger’s work and, presumably unlike our art critic, I have read his Sein and Zeit several times with growing admiration. I could also never imagine myself believing any of the trash the author in question attributes to Heidegger’s philosophy of being; and I’m not sure it’s even there. And I doubt he believes his other subjects picked up their subversive thinking (or anti-thinking) from Heideggerian ontology. The neocon art critic is obviously trying to kill two birds with one stone, both aimed at pleasing his masters, savaging the goddamned Krauts, who were once ruled by Hitler, and stripping Jewish leftists of any significant Jewish association. Those who play such abject games should have no trouble recognizing gay parades and gay marriage as paradigmatic “family values.” They will be depicted as the newest stage of the Civil Rights revolution, which was a “conservative” event from Selma through Stonewall.

Paul E. Gottfried

paul2.jpgPaul Gottfried has spent the last thirty years writing books and generating hostility among authorized media-approved conservatives. His most recent work is his autobiography Encounters; and he is currently preparing a long study of Leo Strauss and his disciples. His works sell better in Rumanian, Spanish,Russian and German translations than they do in the original English, and particularly in the Beltway. Until his retirement two years hence, he will continue to be Raffensperger Professor of Humanities at Elizabethtown College in Elizabethtown, PA.

mardi, 26 octobre 2010

Macchine da guerra: Blackwater, Monsanto e Bill Gates

Macchine da guerra: Blackwater, Monsanto e Bill Gates

di Silvia Ribeiro

Fonte: megachip [scheda fonte]

Un rapporto di Jeremy Scahill su The Nation (Blackwater’s Black Ops, 15.09.10) ha rivelato che il maggiore esercito mercenario al mondo, Blackwater (ora denominato Xe Services –), ha venduto servizi d’intelligence clandestini alla multinazionale Monsanto. Blackwater è stata ribattezzata nel 2009 dopo essere divenuta famosa nel mondo per via dei numerosi resoconti sui suoi abusi in Iraq, compresi massacri di civili. Resta il maggiore appaltatore privato dei “servizi di sicurezza” del Dipartimento di Stato U.S.A, che pratica il terrorismo di stato dando al governo l’opportunità di negarlo.

blackwater.jpgMolti militari ed ex-funzionari CIA lavorano per Blackwater o società collegate create per sviare l’attenzione dalla propria cattiva reputazione e fanno alti profitti vendendo i propri vili servizi – che vanno dall’informazione e lo spionaggio all’infiltrazione, al lobbying politico fino all’addestramento paramilitare – per altri governi, banche e multinazionali.

Secondo Scahill, gli affari con le multinazionali, come Monsanto, Chevron, e giganti finanziari come Barclays e Deutsche Bank, vengono convogliati tramite due società possedute da Erik Prince, proprietario di Blackwater: Total Intelligence Solutions e Terrorism Research Center. Questi funzionari e direttori si spartiscono la Blackwater.

Uno di loro, Cofer Black, noto per la sua brutalità come uno dei direttori della CIA, è stato quello che ha stabilito il contatto con la Monsanto nel 2008 in qualità di direttore di Total Intelligence, stabilendo un contratto con la società per spiare e infiltrare organizzazioni di attivisti sui diritti animali, anti-OGM e altre attività sporche del gigante della biotecnologia.

Contattato da Scahill, il dirigente Monsanto Kevin Wilson ha rifiutato di commentare, ma ha confermato in seguito a The Nation di aver noleggiato i servizi di Total Intelligence nel 2008 e 2009, secondo la Monsanto solo per tener d’occhio le “quanto divulgato pubblicamente” da parte dei suoi oppositori. Ha aggiunto che Total Intelligence era un’«entità del tutto separata da Blackwater».

Tuttavia, Scahill ha conservato copie di e-mail di Cofer Black dopo l’incontro con Wilson per la Monsanto, dove spiega ad altri ex-agenti CIA, usando le loro e-mail presso Blackwater, che la discussione con Wilson aveva portato Total Intelligence a diventare «il braccio d’intelligence della Monsanto», per spiare attivisti e altre iniziative, compresi «i nostri impegnati a integrare legalmente questi gruppi». Per Total Intelligence Monsanto ha pagato 127mila dollari nel 2008 e 105mila nel 2009.

Non sorprende che una società impegnata nella “scienza della morte” come la Monsanto, dedita fin dall’inizio alla produzione di sostanze tossiche che spaziano dall’Agent Orange ai PCB (bifenili policlorurati), pesticidi, ormoni e semi geneticamente modificati, sia associata a un’altra società di farabutti.

monsanto1.jpgQuasi simultaneamente alla pubblicazione di quest’articolo su The Nation, la Via Campesina ha riferito l’acquisto di 500mila azioni di Monsanto, per più di 23 milioni di dollari, da parte della Fondazione Bill & Melinda Gates, che con tale azione ha finito di gettare via la sua nmaschera “filantropica”. Un’altra connessione che non sorprende.

È un matrimonio fra i due più brutali monopoli nella storia dell’industrialismo: Bill Gates controlla più del 90% della quota di mercato dei software proprietari e Monsanto circa il 90% del mercato globale delle sementi transgeniche e buona parte delle sementi commerciali globali. Non esistono in alcun altro settore industriale monopoli così vasti, la cui stessa esistenza è una negazione del vantato principio della “concorrenza di mercato” del capitalismo.

Sia Gates sia Monsanto sono molto aggressivi nel difendere i loro monopoli ottenuti in malo modo.

billgates7tm-a038d.jpgBenché Bill Gates possa tentare di dire che la Fondazione non sia collegata ai suoi affari, tutto ciò prova che è vero il contrario: la maggior parte delle loro donazioni finiscono per favorire gli investimenti commerciali del magnate, effettivamente non “donando” alcunché: anziché pagare tasse ai forzieri statali, investe i suoi profitti là dove gli frutta economicamente, compresa la propaganda sulle loro presunte buone intenzioni.

Al contrario, le loro “donazioni” finanziano progetti distruttivi come la geoengineering (geoingegneria) o la sostituzione di medicine comunitarie naturali con medicine high-tech brevettate nelle aree più povere del mondo. Quale coincidenza: l’ex-ministro della Sanità Julio Frenk e Ernesto Zedillo sono consulenti della Fondazione.

Come Monsanto, Gates è inoltre impegnato a tentare di distruggere l’agricoltura rurale contadina a livello mondiale, principalmente mediante l’ “Alliance for a Green Revolution in Africa” (AGRA). che funziona come un cavallo di Troia per privare i poveri agricoltori africani delle loro sementi tradizionali, sostituendole con quelle delle proprie aziende per cominciare in seguito con quelle geneticamente modificate (GM).

A tal fine, la Fondazione ha assunto Robert Horsch nel 2006, il direttore di Monsanto. Ora Gates, nell’esporre massicci profitti, ha svelato direttamente la fonte.

Blackwater, Monsanto e Gates sono tre lati della stessa figura: la macchina da guerra al pianeta e a gran parte della gente che lo abita, che siano contadini, comunità indigene, persone che vogliono condividere informazione e conoscenza, o chiunque altro non intenda soggiacere alla cappa del profitto e alla distruttività del capitalismo.

 

* L’autrice è ricercatrice al Gruppo ETC

«La Jornada» ,14.10.10.

 

Traduzione per il Centro Studi Sereno Regis a cura di Miky Lanza, con revisioni di Megachip.

Titolo originale: Machines of War: Blackwater, Monsanto, and Bill Gates

http://www.transcend.org/tms/2010/10/machines-of-war-blac...

 


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

mardi, 19 octobre 2010

Messianismus mit verheerenden Folgen

obama_messie.jpg

Dr. Tomislav SUNIC:

 Messianismus mit verheerenden Folgen

Ex: http://www.deutsche-stimme.de/

Ein Kapitel Hintergrundpolitik: Nutznießer und Drahtzieher der US-Kriege im Irak und Afghanistan

Statt der Frage »Wem nutzt der Krieg in Afghanistan und Irak« kann man auch die Frage stellen: »Wer war der Anstifter dieser beiden Kriege?« Diese direkte Frage klingt aber nicht sachlich und stellt außerdem eine Fundgrube für Verschwörungstheoretiker dar.

Wilde Spekulationen über die wahren Motive dieser Kriege interessieren uns hier nicht, abgesehen von der Tatsache, wenngleich manche auch stimmen mögen. Was uns interessiert ist die Bilanz dieser Kriege, wie diese Kriege sprachlich und völkerrechtlich gerechtfertigt werden und wer von diesen Kriegen am meisten profitiert.

 


Übrigens sind Verschwörungstheorien keinesfalls Kennzeichen sogenannter »Rechtsradikaler« – wie liberalistische Medien oft unterstellen. Laut neuer liberaler Sprachregelung nutzt die herrschende Klasse im Westen gegen ihre politischen Feinde und Gegner auch Verschwörungsvokabeln, die auf Verteufelung und Kriminalisierung abzielen. Auch benutzen die Systempolitiker zur Rechtfertigung ihrer eigenen militärischen Aggressionen durchaus Verschwörungstheorien. Monate vor der Invasion Iraks hatten viele amerikanische Politiker und Medienleute mit vollem Ernst über die »irakischen Massenvernichtungswaffen« schwadroniert. Es stellte sich bald heraus, daß die Iraker keine derartigen Waffen hatten, wie später von denselben Politikern auch zugegeben wurde.


Ähnliche Sprachregelungen sind heute im Wortschatz der EU-Systempolitiker zu bemerken, die freilich ihre politischen Mythen und Vorstellungen nicht mit dem Wort »Propaganda«, sondern mit den Vokabeln »Kulturarbeit« und »Menschenrechte« tarnen.

Feldzugsplan aus der Schublade

Im Falle des Irak und Afghanistans ist es wichtig zu analysieren, wie die Systempolitiker und die Kriegshetzer mit der Sprache umgehen. Einerseits hört man Horrorvokabeln wie »Kampf gegen den Terror«, »Islamofaschismus«, »Al Kaida-Terroristen«, und andererseits vernimmt man sentimentale Sprüche wie »Kampf für die Menschenrechte« »Multikulti-Toleranz« oder »Freiheit für afghanische Frauen«.
Die deutsche Kanzlerin klang dabei auch nicht glaubwürdig, als sie vor kurzem in Bezug auf den deutschen Einsatz in Afghanistan erklärte: »Unsere gefallenen Soldaten haben ihr Leben für Freiheit, Rechtsstaatlichkeit und Demokratie gegeben.« Ihre Worte stellen eine typisch theatralische Metasprache nach kommunistischer Machart dar.
Außer dieser hypermoralischen Seite aus dem liberalen Lexikon sind die empirischen Belege und Beweise für die vorgenannten Angaben, Aussagen und Wunschvorstellungen der Systempolitiker bezüglich des Irak und Afghanistans spärlich, wenn nicht völlig abwesend.
Zunächst eine Bilanz: Der Krieg in Afghanistan wurde drei Wochen nach dem Terroranschlag in New York am 11. September 2001 begonnen. Eine langfristige militärische Strategie für Afghanistan kann man nicht innerhalb von drei Wochen formulieren. Der Plan zum Sturz der Regime in Afghanistan und Irak war schon lange Zeit vorher medial und akademisch in Amerika vorbereitet worden. Die ersten Hinweise auf den kommenden Krieg im Nahen Osten hatten amerikanische Medien und pro-zionistische Kulturkreise in Amerika schon Anfang neunziger Jahren gegeben, nämlich nach dem unentschiedenen ersten Golfkrieg von 1991.
Viele pro-israelische Kreise in Amerika sowie bekannte amerikanisch-jüdische Akademiker und Journalisten entwarfen damals einen langfristigen Plan für die Umorganisation des Nahen Osten und Asiens. Besonders wichtig war die Rolle einer sogenannten Denkfabrik wie dem »American Enterprise Institute« und die Aufstellung des »Projektes für das neue amerikanische Jahrhundert« (PNAC).
Sehr bedeutende Namen waren unter diesem Firmenschild beteiligt. Diese sind unter der Selbsteinschätzung »Neokonservative« bekannt und pflegten dabei ihre eigenen fixen Wahnideen zur Weltverbesserung. Der 11. September kam ihnen wie von Gott gesandt.
Ein entscheidender Kulturkampf, oder in der heutigen Sprache ausgedrückt: eine Erfolgspropaganda, muß in der Regel immer den großen politischen Umwälzungen vorangehen. Der Krieg in Afghanistan und Irak begann zuerst als akademische Auseinadersetzung, die von den neokonservativen Intellektuellen in Amerika bestimmt wurde. Aber das soll nicht heißen, daß sich die Akademiker und die Befürworter dieser Kriege nicht irren konnten. Die ganze völkerrechtliche Architektur der Irakkriege ist heute brüchig geworden.

Schwache Europäer, korrupte Kommunisten

Die US-Neokonservativen wollten seit langem die irakische und iranische Regierung beseitigen. Auch die angebliche Terrorgruppe Al Kaida war eine nebulöse Unterstellung, an der vielleicht etwas dran sein kann, die aber auch falsch sein kann. Wir haben nämlich keine genauen Beweise dafür, daß diese Terrorgruppe wirklich existiert. Aber solche Unterstellungen, ob wahr oder falsch, sind oft ein perfektes Mittel zur Rechtfertigung endloser Kriege. Schlimmer noch: Sie sind heute ein ideales Alibi für die Errichtung eines Überwachungssystems.
Nach neun Jahren Krieg in Afghanistan, nach sieben Jahren im Irak, hat sich das Sicherheitsklima im Nahen Osten und in Afghanistan sowie in der ganzen Welt nicht verbessert, sondern verschlechtert. Darin stimmen fast alle Politiker in Europa und Amerika überein. Heute gibt es einer größere Terrorismusgefahr als vor acht oder neun Jahren. Man kann sagen, daß die Terrorismusgefahr in Europa seitens radikaler Islamisten in dem Maße steigt, wie der Krieg in Irak und Afghanistan andauert.
Und was geschah mit den Europäern? Natürlich brauchten die Amerikaner 2001 die Zustimmung ihrer Verbündeten für die beiden Kriege. In Westeuropa war es dieses Mal ein bißchen schwieriger, da die meisten Systempolitiker in Europa, abgesehen von ihrer sonstigen Anbiederungspolitik gegenüber Washington, wußten, daß diese Kriege keine raschen Resultate erbringen würden. Das offizielle Deutschland war skeptisch, da es mehr muslimische Einwanderer beherbergt als die USA. Aber als europäisches NATO-Mitglied war es nicht leicht, den Amerikanern zu trotzen.

Politische Theologie der Amerikaner

Im Gegensatz zu Deutschland und Frankreich hatten die Amerikaner keine Probleme, Befürworter für ihre Expeditionen in Afghanistan und Irak in Osteuropa zu finden. Einer der Gründe dafür war, daß fast alle Etablierten und Akademiker vom Baltikum bis zum Balkan Überreste oder der Nachwuchs ehemaliger Kommunisten sind. Um ihre eigene kriminelle Vergangenheit aus den kommunistischen Terrorzeiten zu decken, müssen sie jetzt päpstlicher als der Papst sein, also amerikanischer als die Amerikaner selbst.
Die ersten Nutznießer der beiden Kriege waren, zumindest am Anfang der Kriege, wie schon erwähnt, die Neokonservativen und Israel. Aber es ist falsch zu behaupten, daß der Krieg nur von den amerikanischen Neokonservativen gerechtfertigt wurde. Um die wirklichen Motive der amerikanischen Außenpolitik zu begreifen, muß man die amerikanische politische Theologie gut verstehen, insbesondere die Überzeugung vieler amerikanischen Politiker von einer besonderen politischen Auserwähltheit. Die Nutznießer und die Architekten der Kriege sind ein tagespolitisches Phänomen, aber der Zeitgeist, der ihnen die Kriege rechtfertigt ist ein geistesgeschichtliches Phänomen. Dies kann man nicht voneinander trennen.
Uri Avnery, ein linker israelischer Schriftsteller, hat vor kurzem gesagt, daß »Israel ein kleines Amerika und die USA ein großes Israel« seien. Seit einhundert Jahren hat Amerika seine politischen Begriffe aus dem Alten Testament. Im Zuge dessen haben viele amerikanische Politiker ihre Mentalität von den alten Hebräern übernommen. Es ist auch kein Zufall, daß sich Amerika als Gottesbote mit einer universalistischen Botschaft für die ganze Welt wahrnimmt.
Vor 150 Jahren waren es die sezessionistischen Staaten des Südens, die das Sinnbild des absolut Bösen darstellten; später, Anfang des 20. Jahrhunderts, wurde das Sinnbild des »bösen Deutschen« bzw. »der Nazis« zum allgemeinen Feindbild; dann, während des Kalten Krieges, war eine Zeitlang der böse Kommunist in der Sowjetunion das Symbol des absolut Bösen. Heute gibt es keine Kommunisten, Konföderierten oder Faschisten mehr. Deswegen mußten die amerikanischen Weltverbesserer ein Ersatzfeindbild finden: nämlich den »Islamo-Faschisten« oder den islamistischen Terroristen.
In diese Kategorie des Bösen soll man die palästinensische Hamas, die libanesische Hisbollah und manche »Schurkenstaaten« wie Irak oder Iran einstufen. Geopolitisch sind diese Staaten von keinerlei Bedeutung für Amerika. Aber Amerikas religiös-ideologische Beziehungen zu Israel verpflichten die amerikanischen Politiker, Israels Feinde als ihre eigenen Feinde zu behandeln.
Es ist völlig falsch, nur die Israelis oder die Neokonservativen für die Kriege der USA verantwortlich zu machen. Sie sind zwar eindeutig die Nutznießer, aber die wahren Architekten dieser Weltverbesserungsideologie sind die Millionen amerikanischer christlicher Zionisten, die eine außerordentliche Rolle in Amerika spielen. Es ist auch falsch, über angebliche amerikanische »Heuchelei« zu reden, wie es oft üblich ist. Aufgrund ihres alttestamentarischen Geistes glauben viele amerikanische Christzionisten tatsächlich, daß Amerikas Militäreinsätze für alle Völker gut seien.

Die Verantwortung der Messianisten

Aus dieser Positionierung entspringt auch die Ideologie der »Menschenrechte«, die wir heute als etwas Selbstverständliches und Humanes hinnehmen. Aber gerade im Namen der Menschenrechte kann man ganze Völker bzw. viele nonkonformistische Intellektuelle kurzerhand auslöschen. Wenn jemand über »Menschenrechte« spricht, sollte man ihn immer fragen, was mit jenen passieren sollte, die nicht in die Kategorie der vorgesehenen Menschen passen. Das sind dann nämlich meist Bestien und Tiere, die nicht nur umerzogen, sondern kurzerhand physisch liquidiert werden sollten.
Fragen wir uns, welche Gedanken durch die Köpfe der amerikanischen Piloten gingen, die Köln oder Hamburg im Jahr 1943 niederbrannten. Ihrem Selbstverständnis nach waren sie keine Kriminellen. Sie hatten keine Gewissensbisse, da dort unten nach ihrer Auffassung keine Menschen, sondern die Verkörperung ganz besonders gefährlicher Tiere lebten.
Die amerikanischen Christ-Zionisten und viele andere biblische Fanatiker tragen die größte Verantwortung für die meisten der amerikanischen Kriege unserer Zeit. Der Außerwähltheitsgedanke führt nicht zu mehr Völkerverständigung, sondern zu endlosen Kriegen.

Unser Autor Dr. Tomislav (Tom) Sunic ist Schriftsteller und ehemaliger US-Professor für Politikwissenschaft. (www.tomsunic.info) Er ist Kulturberater der American Third Position Party. Sein neustes Buch erschien in Frankreich: La Croatie; un pays par défaut? (Ed Avatar, Paris, 2010)

Etats-Unis: l'imposture messianique

11111112747572285r.jpgETATS-UNIS : L'IMPOSTURE MESSIANIQUE

Nicole Guétin


Cet ouvrage s'attache à analyser l'influence du religieux sur la politique américaine. Il focalise l'attention sur un principe commun que l'on qualifiera de messianisme, compte tenu de l'environnement religieux dans lequel naquit et vit encore la nation américaine. Il s'agit d'esquisser l'évolution de ce concept, une constante dans les préoccupations spirituelles, intellectuelles et sociales du peuple américain, depuis sa période coloniale jusqu'à nos jours. Cette conviction d'œuvrer selon les desseins d'une autorité divine a imprégné l'idéologie nationale et influencé sa politique étrangère.

ISBN : 2747572285

Nombre de pages : 126

Date : 11- 2004

dimanche, 17 octobre 2010

Gli incubi solitari di Edgar Allan Poe

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Gli incubi solitari di Edgar Allan Poe

di Silvio Botto

Ex: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

Il 7 ottobre del 1849 moriva il maestro del brivido
Articolo di Silvio Botto
 
da Linea Quotidiano del 7 ottobre 2010
 
«Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte», recita un famoso aforisma di Edgar Allan Poe. Un uomo che di sogni, anzi di incubi, se ne intendeva eccome. Morì appena quarantenne il 7 ottobre del 1849, ma nella sua breve carriera di giornalista e scrittore lasciò un segno indelebile nella letteratura non solo anglosassone, ma mondiale. E la sua sconfinata produzione è ancor oggi considerata il punto di partenza per chiunque si sia poi cimentato nei generi narrativi da lui inventati o in qualche modo “anticipati”: il racconto poliziesco, il giallo psicologico e il romanzo gotico e persino la fantascienza.

«Nessuno scrittore del terrore – spiega l'autore e critico Francesco Lamendola - né americano, né europeo, ha potuto evitare di fare i conti con lui, di prendere posizione rispetto alla sua figura gigantesca». Infatti non è un caso che nel corso del Novecento le opere di Edgar Allan Poe siano state letteralmente saccheggiate da altri scrittori, da autori cinematografici (la prima trasposizione sul grande schermo, La caduta della casa Usher, è del 1928, ma ne seguiranno molte altre), da musicisti (Lou Reed, Iron Maiden e Alan Parsons Project), da soggettisti di fumetti e persino dai creatori della serie I Simpson, che hanno dedicato un miniepisodio televisivo al racconto “Il corvo”.
 
Come detto, la morte lo colse a quarant'anni la domenica del 7 ottobre in un ospedale di Baltimora, dove era stato ricoverato quattro giorni prima in preda a uno stato di delirio su cui non è mai stata fatta piena luce. C'è chi dice che sia stato aggredito per strada, ma di sicuro ad accelerarne il decesso contribuirono le pessime condizioni di salute dello scrittore, che già da tempo soffriva di alcolismo. Dopo la scomparsa della giovane moglie Virginia, morta tre anni prima di tubercolosi, la disperazione di Poe era apertamente sfociata nella bottiglia, alla quale si era attaccato come un naufrago alla scialuppa. Del resto fin da ragazzo lo scrittore bostoniano manifestò una salute cagionevole e un sistema nervoso poco equilibrato. «Nella mia infanzia mostrai di avere ereditato questi caratteri di famiglia; discendo da una razza che si è sempre distinta per immaginazione e temperamento facilmente eccitabile…», scrisse di sé.
 
Nell'accrescere questa tendenza alla fantasia e all'emozione ebbe un ruolo fondamentale l'infanzia triste e dolorosa del giovane Edgar, che in tenerissima età perse entrambi i genitori e venne di fatto adottato da John Allan, un ricco mercante di Richmond. Nel 1815 il piccolo orfano si trasferì con gli Allan in Inghilterra dove frequentò le scuole fino al 1820. Anche l'adolescenza non fu particolarmente felice: Edgar prima si invaghì della madre di un compagno di studi, che morì prematuramente, poi compose rime per giovani donne delle quali si era innamorato, a quanto pare, non ricambiato. Conobbe giorni felici solo con una certa Sarah Royster, ma il loro matrimonio fu ostacolato dal padre della fanciulla per vecchi rancori con il signor Allan, padre adottivo di Poe. Edgar litigò con quest'ultimo e venne diseredato, tentò senza successo la carriera militare all'accademia di West Point e infine si dedicò al giornalismo e alla scrittura. Nel 1836 sposò la cugina Virginia Clemm, all'epoca tredicenne.
 
Edgar%20Allan%20Poe.jpgPer Edgar Allan Poe sono gli anni migliori. Ottiene buoni risultati nella sua carriera di giornalista e soprattutto comincia a pubblicare con un certo successo i romanzi e racconti che lo renderanno universalmente famoso. Fra il 1837 e 1838 scrive la “Storia di Arthur Gordon Pym”, un romanzo che secondo il critico Gianfranco De Turris prosegue e riprende un’antica tradizione narrativa (con riferimento ad autori come Coleridge, Swift, Cooper), nella quale sono presenti immagini che si ripetono varie volte: il viaggio per mare, la caduta nell’abisso, le tempeste ed i naufragi che colpiscono i protagonisti, la fame e la pratica del cannibalismo, l’esplorazione di terre sconosciute e il contatto con nuove genti indigene. Tutte queste immagini devono essere considerate anche come elementi di un duro itinerario iniziatico del protagonista che, attraversando l’esperienza del dolore, della morte e della resurrezione, assurge nel finale ad una più sublime e superiore dimensione dell’Essere.
 
Non un semplice romanzo d'avventura, quindi. Così come non sono banali racconti gotici (di horror, si direbbe oggi) quelli che gli daranno fama soprattutto in Europa. «L’inquietudine che caratterizza il mondo di Poe – sostiene ancora Lamendola - esprime il dramma del passaggio dalla società pre-moderna alla piena modernità, caratterizzata dall’eclisse del sacro, dalla mercificazione totale dei rapporti umani, dall’efficientismo e dal produttivismo esasperati, dalla perdita del senso del limite e del mistero». L'uomo ottocentesco di Poe, in questo tipicamente americano, affianca al mondo reale - tecnologico, dinamico e dominato dal progresso capitalista - un universo parallelo popolato di funebri ossessioni: «l’attrazione morbosa per la decadenza e la morte; la sepoltura da vivi e il ritorno dei non-morti; i torturanti sensi di colpa; la vendetta a lungo covata e ferocemente messa in opera; in una parola, il cupio dissolvi, il desiderio di auto-distruzione venato di sado-masochismo e di necrofilia».
 
«Mi hanno chiamato folle – scrive Edgar Allan Poe alludendo a se stesso - ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell'intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell'intelletto in generale». In uno scenario così segnato dall'inquietudine e dalla disperazione, potrebbe stupire quella che in realtà è l'altra faccia di Poe, cioè la predisposizione alla logica e al ragionamento matematico e persino una certa tendenza alla comicità e alla narrativa satirica. La passione per le sciarade, i rompicapi e l’applicazione pratica di una logica rigorosa di tipo matematico si rivela pienamente nel filone dei racconti polizieschi, particolarmente ne “I delitti della rue Morgue”, “Lo scarabeo d'oro” e “La lettera rubata”. La sua vena satirica, unita a una feroce critica di certa letteratura popolare del suo tempo, si esprime invece in racconti come “L'angelo del bizzarro”, “L'uomo d'affari”, “Come si scrive un articolo alla Blackwood”.
 
Ma la scomparsa prematura della moglie lo getta nello sconforto e cancella per sempre l'aspetto più lieve della sua complessa personalità, accentuandone invece i lati più cupi e lugubri. Come ha scritto il suo biografo Philip Lindsay, «Tormentato nell’anima, cercò non la pace ma l’infelicità, creando a se stesso situazioni disperate, solitudine e desolazione».
 
Silvio Botto

vendredi, 15 octobre 2010

Comment l'administration Bush a fait payer à Chirac le prix de sa "trahison"

Le journaliste Vincent Nouzille raconte comment l'administration Bush a fait payer à Chirac le prix de sa « trahison »

Un soldat américain couvre le visage d'une statut de Saddam Hussein à Bagdad, en avril 2003 (Goran Tomasevic/Reuters)

 

Dans un livre à paraître cette semaine, le journaliste Vincent Nouzille raconte par le menu la manière dont l'administration Bush a fait payer 5,5 milliards de dollars (4 milliard d'euros) à la France comme prix de sa « trahison » lors du déclenchement de la guerre en Irak en 2003.

Une somme lâchée sous pression par Jacques Chirac lors de la renégociation de la dette irakienne, alors qu'il l'avait initialement refusée. Un prix tenu quasiment secret et qui n'a fait aucun débat en France. Rue89 publie les bonnes feuilles du livre « Dans le secret des présidents ».

 


Ex: http://www.rue89.com/

La Maison Blanche demeure, en cette fin de 2003, très rancunière. George Bush souhaite même mettre la France à l'amende de manière sonnante et trébuchante. Car l'Irak coûte 70 milliards de dollars [50 milliards d'euros, ndlr] par an au budget américain.

Washington ne veut pas être seul à supporter le coût des opérations militaires et de la reconstruction. Paris devrait partager le fardeau, ne serait-ce que pour compenser son refus d'envoyer des troupes aux côtés des GI's.

Durant quelques mois, la Maison Blanche va mener une intense campagne de pression sur l'Elysée afin d'obtenir un chèque de Paris. Le plus surprenant, c'est que Jacques Chirac finira par y céder, piétinant ses propres principes, mais sans le crier sur les toits de peur d'être critiqué pour un geste qui coûtera plusieurs milliards d'euros à la France…

Les coulisses de cette victoire de Bush, passée inaperçue, révèlent la force du rouleau compresseur américain. Le président des Etats-Unis commence son harcèlement à l'automne 2003. […]

Les principaux créanciers de Saddam Hussein

A défaut d'obtenir une grosse rallonge financière directe, la Maison Blanche revient à la charge sur un autre dossier économique sensible : celui de la dette irakienne, accumulée depuis des années par le régime de Saddam Hussein. Le montant des impayés, qui correspond à des achats militaires ou civils de la dictature, atteint plus de 120 milliards de dollars, en tenant compte des arriérés d'intérêts. Les principaux créanciers de l'Irak sont le Japon, la Russie, la France et l'Allemagne.

Coïncidence ou non, ces trois derniers pays se sont opposés à l'offensive américaine. La Maison Blanche voit donc un double avantage à obtenir un abandon de créances en faveur de Bagdad : cela permettrait à l'Irak « nouveau » de repartir sur des bases économiques plus saines, sans ce lourd fardeau à rembourser ; et il y aurait un petit parfum de revanche à faire assumer cet effacement de dettes par des pays si peu coopératifs !

[…] Lorsque [l'émissaire américain, ancien secrétaire d'Etat, ndlr] James Baker rencontre Jacques Chirac, le mardi 16 décembre 2003, la position française est plutôt prudente. La France ne souhaite pas faire de cadeau particulier à l'Irak. […] [Baker obtient ensuite de Chirac que la réduction de la dette irakienne soit d'environ 50%, ce qui représente déjà un effort énorme, ndlr.]

George Bush ne se contente pas de la réduction de moitié de la dette irakienne. Il veut obtenir davantage. En mars 2004, à l'occasion d'un coup de téléphone à Jacques Chirac, […] le président américain demande à son homologue français d'« examiner avec la plus grande attention » la lettre qu'il va lui envoyer au sujet de la dette irakienne. La position des Etats-Unis se dévoile rapidement : ils réclament une annulation de 95% de la dette irakienne, autrement dit un effacement quasi-complet de l'ardoise !

Le coup de pouce du FMI à la Maison Blanche

[…] Au fil des semaines, les négociateurs américains gagnent du terrain. Ils obtiennent des promesses d'appui de leurs « bons » alliés, comme le Royaume-Uni, le Canada, l'Italie et le Japon. Le Fonds monétaire international (FMI) apporte un peu d'eau à leur moulin, estimant qu'une annulation de 70% à 80% serait nécessaire pour que l'Irak puisse tourner la page du passé.

Ce chiffrage du FMI suscite des doutes à Paris. Une autre étude de la Banque mondiale et de l'ONU, publiée à l'automne 2003, évoquait plutôt un besoin d'annulation à hauteur de 33%. Du coup, les exigences de la Maison Blanche sont jugées totalement excessives.

Dans une note au Président Chirac, avant le dîner qui doit avoir lieu à l'Elysée, le 5 juin 2004, en l'honneur de George Bush venu commémorer le D-Day, ses conseillers estiment que la requête américaine serait « coûteuse pour la France », qui est le troisième créancier de l'Irak, avec 6 milliards de dollars d'impayés. Surtout, selon eux, elle pose fondamentalement des « problèmes de principe » :

« Nous ne pouvons pas moralement accorder à l'Irak, un pays potentiellement riche, peu peuplé et qui dispose des deuxièmes réserves de pétrole du monde, des annulations comparables à celles dont bénéficient les pays les plus pauvres et les plus endettés de la planète (80% à 90%).

Alors qu'en termes d'effort, nous allons déjà faire en six mois [pour l'Irak] ce que nous avons mis plus de dix ans à faire [pour les 37 pays éligibles au plan d'aide exceptionnel de pays pauvres, appelé PPTE]. »

 

Bref, il n'est pas question d'aller au-delà des 50% promis à James Baker ! Ce cadeau est déjà disproportionné comparé aux autres pays.

Les conseillers recommandent à Jacques Chirac de tenir bon devant Bush. […]

La discussion s'achève sur un constat de désaccord. […] Pourtant, soumis aux charges répétées de Washington et de ses alliés, l'Elysée va craquer.

« La pression américaine était énorme »

La dernière session de négociations se déroule à Bercy durant trois journées complètes, en novembre 2004. L'ambiance est à couper au couteau. […]

« La pression américaine était énorme. Je n'ai jamais vécu une négociation aussi unilatérale que celle-là », témoigne Jean-Pierre Jouyet, qui présidait les séances.

Au bout de trois jours, le front des créanciers se fissure. Jean-Pierre Jouyet poursuit :

« J'ai appelé Maurice Gourdault-Montagne [le conseiller diplomatique de l'Elysée, ndlr], qui était avec le Président Chirac à un Conseil européen, et je lui ai décrit la situation : les Allemands venaient de lâcher subitement, sans concertation préalable, probablement pour se faire bien voir des Américains. J'ai donc expliqué que nous pouvions continuer de tenir tête, mais que nous étions seuls. Gourdault-Montagne m'a répondu qu'il allait en parler au Président Chirac.

Il m'a ensuite rappelé pour me dire que le Président avait décidé de ne plus s'opposer au consensus. J'ai donc appliqué ces instructions de l'Elysée.

Nous n'aurions sans doute pas pu récupérer grand-chose de nos créances, mais je ne suis pas sorti très content de cette négociation, c'est le moins que l'on puisse dire. »

 

Curieusement, Nicolas Sarkozy, qui s'apprête à quitter ses fonctions de ministre de l'Economie et des Finances pour la présidence de l'UMP, n'intervient pas dans cette discussion, qui concerne pourtant l'argent de l'Etat. Il laisse son directeur du Trésor, Jean-Pierre Jouyet, en prise directe avec l'Elysée.

Les consignes de Chirac conduisent à la conclusion d'un accord portant sur une annulation, par étapes, de 80% de la dette irakienne, soit un effacement total de plus de 30 milliards de dollars pour la vingtaine de pays créanciers concernés : c'est exactement ce que l'Elysée jugeait inacceptable quelques mois auparavant !

L'accord est officialisé par le Club de Paris le 21 novembre 2004, à quelques semaines des premières élections en Irak.

« Nous ne l'avons pas fait pour Bush, mais pour les Irakiens. C'était d'ailleurs le tarif à payer par tous les créanciers », plaide Jean-David Levitte, qui a suivi le dossier comme ambassadeur à Washington.

Le cadeau fait à Bush

D'autres acteurs ont une interprétation différente de ce retournement français. Alors que George Bush vient juste d'être réélu pour un second mandat, Jacques Chirac a décidé, comme le chancelier allemand Schröder, cette concession majeure afin de se rabibocher avec la Maison Blanche. […]

Devant une délégation de sénateurs américains, qu'il recevra le 31 janvier 2005 à l'Elysée, le président de la République confirmera ouvertement avoir cédé à la pression américaine : « A la demande des Etats-Unis, notamment suite à un appel téléphonique du président Bush, la France a accepté d'annuler la quasi-totalité de la dette irakienne », dira-t-il.

Pour éviter une polémique sur ce « cadeau fait à Bush », l'Elysée ne se vantera pas publiquement de son reniement et se gardera de toute communication trop visible sur cette annulation de créances, accordée sans que la France bénéficie, en retour, d'une véritable contrepartie économique.

Le ministère des Affaires étrangères se contentera, à la fin de 2005, d'un discret communiqué annonçant que la France et l'Irak ont signé un accord bilatéral relatif au traitement de la dette irakienne dans le cadre de la mise en œuvre des accords du Club de Paris. Un joli habillage pour une décision hors normes.

Les conseillers de l'Elysée reconnaissent d'ailleurs qu'il s'agit d'une largesse française particulièrement onéreuse. Préparant, au début de 2005, des entretiens de Jacques Chirac avec George Bush et sa secrétaire d'Etat Condoleezza Rice, ils listent les initiatives prises par l'Elysée pour prouver ses bonnes intentions diplomatiques à l'égard de Washington sur l'Irak. On peut y lire notamment :

« Présidente du Club de Paris, la France a fait aboutir une solution audacieuse, généreuse et exceptionnelle du problème de la dette (80% en trois étapes). Cet allègement signifie pour nous une annulation de créances de 5,5 milliards de dollars. »

 

5,5 milliards de dollars ! Il s'agit d'un chèque colossal, puisqu'il représente plus de 4 milliards d'euros, soit dix fois le coût annuel des forces françaises en Afghanistan. Ou 80 fois l'annulation de la dette consentie à Haïti après le tremblement de terre de janvier 2010…

Bush a bien réussi à faire payer Chirac.

Très cher.

► Vincent Nouzille, « Dans le secret des présidents », éd. Fayard/Les Liens qui Libèrent, parution 13 octobre 2010, 583 pages, 24,50 euros.

Photo : un soldat américain couvre le visage d'une statut de Saddam Hussein avec le drapeau américain à Bagdad, en avril 2003 (Goran Tomasevic/Reuters)

jeudi, 14 octobre 2010

Dead Right : The Infantilization of American Conservatism

Dead Right

The Infantilization of American Conservatism

 
 
 
Dead Right
 

Commentaries published on this website, most notably by Richard Spencer and Elizabeth Wright, have underlined the problems with the Tea Party movement and its most prominent representatives. These pointed observations about Glenn Beck, Rand Paul, Sarah Palin, and Christine O’ Donnell have all been true; and if I have more or less defended some of these figures in the past, I’ve done so, while conceding most of the argument made against them. I agree in particular with Elizabeth Wright’s brief against Rand Paul’s stuttering attempt to object to the public accommodations clause in the Civil Rights Act and her withering attack on Glenn Beck’s recent “carnival of repentance” in Washington.

Elizabeth concludes that such soi-disant critics of the Left cannot bring themselves to find fault with any excess in the Civil Rights movement -- and especially not with its far leftist icon Martin Luther King. “Conservatives” are so terrified of being called “racists” or for that matter, sexists or homophobes, that they devote themselves tirelessly to showing they are just as sensitive as the next PC robot. Indeed, they often go well beyond anyone on the left in genuflecting before leftist icons. This was the purpose of the Martin Luther King-adoration rally held by Beck in Washington.

And even more outrageously, such faux conservatives accuse long-dead Democratic presidents, who were well to the right of the current conservative movement, of being more radical than they actually were. It would be no exaggeration to say that Wilson and FDR were far more reactionary than any celebrity in the Tea Party movement. One could only imagine what such antediluvian Democrats would have said if they had heard last year’s “Conservative of the Year,” chosen by Human Events, Dick Cheney, weeping all over the floor about not allowing gays to marry each other. And what would that stern Presbyterian and Southern segregationist Wilson have thought about the cult of King or the attempts by Tea Party leaders Palin and McDonnell to impose feminist codes of behavior on business and educational establishments. Wilson had to be dragged even into supporting the extension of the franchise to women.

The Tea Party sounds so often like the Left because it is for the most part a product of the Left. Its people were educated in public schools, watch mass entertainment, and have absorbed most of the leftist values of the elite class, to whose rule they object only quite selectively. From the demonstrators’ perspective, that elite isn’t patriotic enough in backing America’s crusades for human rights and in looking after the marvelous welfare state we’ve already built. The Tea Party types are understandably upset that their entitlements may be imperiled, if the current administration continues to run up deficits. This is the essence of their anti-government rant. And above all they don’t want more illegals coming into the country who may benefit from the social net and who may be receiving tax-subsidized medical care.

But this, we are assured, has nothing to do with race or culture. In fact the Tea Party claims to be acting on behalf of blacks and legally resident Latinos, in the name of Martin Luther King and all the civil rights saints of the past. It just so happens that almost all these activists are white Christians. Nonetheless, they are also people, as Elizabeth perceptively notices, who would like us to think they’re acting in the name of other ethnic groups, even if those groups don’t much like them. As four “young conservatives” explained to the viewers of the Today show last week, the Right wishes to lower taxes, specifically “to make jobs available to black Americans.” Unfortunately black Americans loathe those reaching out to them, presumably as a gesture of repentance as well as in pursuit of votes.

Those “conservatives” who want a moderate but not excessive welfare state and who act in the name of blacks, Latinos and dead leftist heroes, are fully tuned in to the conservative establishment. According to polls, these folks love FOX-news and avidly read movement conservative publications. Palin, Sean Hannity and Karl Rove, all FOX contributors, are among their favored speakers; and the Tea Party’s likely candidate for president, Sarah Palin, is now surrounded by such predictable neocon advisors as Randy Scheuermann and Bill Kristol. Even with her insipid, ungrammatical phrases about reducing the size of government, Palin already looks like an updated, feminine and feminized version of what the GOP has been running for president for decades, with neocon approval.

Actually one shouldn’t expect anything else from the Tea Party. In the 1980s the conservative movement witnessed a monumental sea change, when the neoconservatives assumed full power and proceeded to kick out dissenters. This development shaped the future of the Right, and its effects are still with us. The neoconservatives not only neutralized any real Right but also managed to infantilize what they took over. An entire generation of serious conservative thinkers were bounced out and replaced by either lackeys or by those who were essentially recycled liberal Democrats. The latter had recoiled from the anti-Zionist stands of the leftwing of the Democratic Party and then were given as a consolation prize carte blanche to swallow up the conservative movement.

Afterwards the establishment Right began to move in the direction of the Left, and it did so while limiting the range of disagreement with its opponents to a few acceptable talking points. The emphasis was on Middle Eastern intervention, disciplining anti-Semitic nations, and spreading “democratic values.” Internally the neocon Herrenklasse had no real interest, except for being able to do favors for corporations that financed them and for the Religious Right, which is fervently Zionist. The notion the neocons bestowed depth on the conservative movement may be the most blatant lie ever told. What they brought was agitprop, of the kind practiced by Soviet bureaucrats, and armies of culturally illiterate adolescents to turn out their party propaganda.

In all fairness, it must be said that the master class tolerated other points of view, for example from Catholic Thomists or Evangelicals, as long as these religiously inspired positions didn’t interfere with what counted for the neocons. Those who called the shots would also occasionally demand from their dependents certain favors, in return for subsidies and publicity, e.g., stressing the compatibility of Christian theology with neocon policies. Freeloading intellectuals could only be tolerated for so long.

This hegemony had two noticeable effects on the current Right, aside from the unchanged role of the neocons as the main power-players. The rightwing activists shown on TV and those they support in elections include badly educated duds, and these are individuals who often don’t sound like anything an historian might recognize as conservative. Their yapping about human rights (supposedly there is now a human right to own a gun) and their outpouring of the politics of guilt, as noted by Elizabeth Wright, are just two of their weird characteristics. About ten years ago I gaped with astonishment when I read a commentary by Jonah Goldberg explaining that the Catholic counterrevolutionary Joseph de Maistre was really a far leftist. It seems that Maistre questioned the idea of universal human rights und dared to note that human beings were marked by different national and ethnic features. These quirks, according to Goldberg, belong exclusively to the left, like “liberal fascism.” When the intellectual Right can come up with such nonsense and then parley it into a fortune, it is hard to imagine any lower depths of cultural illiteracy to which it could sink.

The “conservative wars” of the 1980s, which involved mostly a mopping up operation, also led to a hard Right that is unrelated to any other American intellectual Right. Those associated with this Right wish to have nothing to do with the failed or decimated Old Right that was smashed decades ago. It has found its home among the thirty-some generation and even more, among younger conservatives who are not part of the DC neocon network. One finds among these militants an almost primitive counterrevolutionary mentality. It is one that has taken form as an impassioned reaction to the Left’s masquerading as the Right, which began with the neoconservatives’ ascendancy to total domination. Although I have my reservations about what I’m describing, it must be seen as a spirited response to a fraud as well as to something that is intellectually and aesthetically vulgar.

Clearly this youthful Right is in no way influenced by Russell Kirk or by other “cultural conservatives” of an earlier generation. Its advocates reject a Right that was co-opted by the neocons and by those who are thought to have failed to resist that fateful takeover. Nor would most of those in the “culturally conservative” camp (Jim Kalb may be the exception here) feel comfortable with the exuberant reactionaries of the rising generation. Many of them sound like neo-pagans because they are convinced that the Western religious tradition has given rise to what they condemn as “the pathology of egalitarianism.” The French New Right, Nietzsche, and Carl Schmitt have all shaped this still inchoate youthful American Right. In their case Europe has cast its shadow on the US, unlike the multicultural Left, which, as I have argued in several books, is our poisonous gift to the Europeans.

The emergence of this anti-egalitarian Right and the infantilization of movement conservatism indicate what can not be undone. The American Right has changed irreversibly because of what occurred during the Reagan years and in the ensuing decade. We shall continue to live with the consequences.  

dimanche, 10 octobre 2010

Jack Malebranche's Androphilia: A Manifesto

Jack Malebranche’s Androphilia: A Manifesto

Ex: http://www.counter-currents.com/

Jack Malebranche (Jack Donovan)
Androphilia: A Manifesto
Baltimore, Md.: Scapegoat Publishing, 2006

Near the end of Androphilia, Jack Donovan writes “It has always seemed like some profoundly ironic cosmic joke to me that the culture of men who love men is a culture that deifies women and celebrates effeminacy. Wouldn’t it make more sense if the culture of men who are sexually fascinated by men actually idolized men and celebrated masculinity?” (p. 115).

He has a point there. As Donovan notes, homosexual porn is almost exclusively focused on hypermasculine archetypes: the lumberjack, the marine, the jock, the cop, etc. (I am going to employ the term “homosexual,” despite its problematic history, as a neutral term to denote same-sex desire among men. I am avoiding the term “gay,” for reasons that will soon be apparent.) So why are homosexuals, who worship masculine men, so damn queeny? Most straight men (and women too) would offer what they see as the obvious answer: homosexuals are not real men. They are a sort of strange breed of womanly man, and it is precisely the otherness of masculine men that attracts them so. This is, after all, the way things work with straight people: men are attracted to women, and vice versa, because they are other. We want what we are not. Therefore, if a man desires another man then he must not be a real man.

What makes this theory so plausible is that so many self-identified homosexuals do behave in the most excruciatingly effeminate manner. They certainly seem to be not-quite-men. Donovan thinks (and I believe he is correct) that it is this womanish behavior in homosexuals that bothers straight men so much – more so, actually, than the fact that homosexuals have sex with other men in the privacy of their bedrooms.

Donovan objects to effeminacy in homosexuals as well, but he sees this effeminacy as a socially-constructed behavior pattern; as a consequence of the flawed logic that claims “since we’re attracted to what’s other, if you’re a man attracted to a man you must not be a real man.” Having bought into this way of seeing things, the “gay community” actually encourages its members to “camp it up” and get in touch with their feminine side. They think they are liberating themselves, but what they don’t see is that they have bought into a specific set of cultural assumptions which effectively rob them of their manhood, in their own eyes and in the eyes of society.

Donovan argues, plausibly, that homosexual attraction should be seen as a “variation in desire” among men (p. 21). Homosexuals are men — men who happen to be attracted to other men. Their sexual desire does not make them into a separate species of quasi-men. This is a point that will be resisted by many, but it is easily defended. One can see this simply by reflecting on how difficult it is to comprehend the homosexuals of yore in the terms we use today to deal with these matters. There was, after all, unlikely to have been anything “queeny” (and certainly not cowardly) about the Spartan 300, who were 150 homosexual couples. And the samurai in feudal Japan were doing it too — just to mention two examples. These are not the sort of people one thinks of as “sensitive” and who one would expect to show up at a Lady Gaga concert, were they around today. It is unlikely that Achilles and his “favorite” Patroclus would have cruised around with a rainbow flag flying from their chariot. These were manly men, who happened to sexually desire other men. If there can be such men, then there is no necessary disjunction between homosexuality and masculinity. QED.

In essential terms, what Donovan argues in Androphilia is that homosexuals should reject the “gay culture” of effeminacy and reclaim masculinity for themselves. Ironically, gay culture is really the product of an internalization of the Judeo-Christian demonization of same-sex desire, and its insistence that homosexuality and masculinity are incompatible. Donovan wants gays to become “androphiles”: men who love men, but who are not defined by that love. “Gay men” are men who allow themselves to be defined entirely by their desire, defined into a separate segment of humanity that talks alike, walks alike, dresses alike, thinks alike, votes alike, and has set itself apart from “breeders” in fashionable urban ghettos. “Gay” really denotes a whole way of life “that promotes anti-male feminism, victim mentality, and leftist politics” (p. 18). (This is the reason Donovan often uses “homo” instead of “gay”: gay is a package deal denoting much more than same-sex desire.) He argues that in an effort to promote acceptance of men with same-sex desire, homosexuals encouraged others to regard them as, in effect, a separate sex — really, almost a separate race. “Gay,” Donovan remarks, is really “sexuality as ethnicity” (p. 18). As a result, gay men have cut themselves off from the fraternity of men and, arguably, trapped themselves in a lifestyle that stunts them into perpetual adolescence. Donovan asks, reasonably, “Why should I identify more closely with a lesbian folk singer than with [straight] men my age who share my interests?”

Many of those who have made it this far into my review might conclude now that Androphilia is really a book for homosexuals, and doesn’t have much to say to the rest of the world. But this is not the case. Donovan’s book contains profound reflections on sexuality and its historical construction (yes, there really are some things that are historically constructed), the nature of masculinity, the role of male bonding in the formation of culture, and the connection between masculinity and politics. This book has implications for how men — all men — understand themselves.

Donovan attacks head-on the attempt by gays to set themselves up as an “oppressed group” on the model of blacks and women, and to compel all of us to refrain from uttering a critical word about them. He attacks feminism as the anti-male ideology it is. And he zeroes in on the connection, taken for granted by nearly everyone, between gay culture and advocacy of left-wing causes. Androphilia, in short, is a book that belongs squarely on the political right. It should be no surprise to anyone to discover that Donovan has been busy since the publication of Androphilia writing for sites like Alternative Right and Spearhead.

Donovan himself was a part of the gay community when he was younger, but never really felt like he belonged. He so much as tells us that his desire for men is his religion; that he worships masculinity in men. But it seemed natural to Donovan that since he was a man, he should cultivate in himself the very qualities he admired in others. His desire was decidedly not for an “other” but for the very qualities that he saw, proudly, in himself. (He says at one point, “I experience androphilia not as an attraction to some alien opposite, but as an attraction to variations in sameness,” p. 49).

Donovan is certainly not alone. It’s natural when we think of homosexuals to visualize effeminate men, because those are the ones that stand out. If I asked you to visualize a Swede you’d probably conjure up a blonde-haired, blue-eyed Nordic exemplar. But, of course, a great many Swedes are brunettes (famous ones, too; e.g., Ingmar Bergman). The effeminate types are merely the most conspicuous homosexuals. But there also exists a silent multitude of masculine men who love men, men whom no one typically pegs as “gay.” These men are often referred to as “straight acting” — as if masculinity in a homosexual is necessarily some kind of act. These men are really Donovan’s target audience, and they live a tragic predicament. They are masculine men who see their own masculinity as a virtue, thus they cannot identify with what Donovan calls the Gay Party (i.e., “gay community”) and its celebration of effeminacy. They identify far more closely with straight men, who, of course, will not fully accept them. This is partly due to fear (“is he going to make a pass at me?”), and partly, again, due to the prevailing view which equates same-sex desire with lack of manliness. The Jack Donovans out there are lost between two worlds, at home in neither. Loneliness and sexual desire compels such men to live on the periphery of the gay community, hoping always to find someone like themselves. If they have at all internalized the message that their desires make them less-than-men (and most have), then their relationship to masculinity will always be a problematic one. They will always have “something to prove,” and always fear, deep down, that perhaps they are inadequate in some fundamental way.

Androphilia is therapy for such men, and a call for them to form a new identity and group solidarity quite independent of the “gay community.” On the one hand, Donovan asserts that, again, homosexuality should be seen as a “variation in desire” among men; that homosexuals should see themselves as men first, and not be defined entirely by their same-sex desire. On the other hand, it is very clear that Donovan also has high hopes that self-identified androphiles will become a force to be reckoned with. He writes at one point, “While other men struggle to keep food on the table or get new sneakers for Junior, androphiles can use their extra income to fund their endeavors. This is a significant advantage. Androphiles could become leaders of men in virtually any field with comparative ease. By holding personal achievement in high esteem, androphiles could become more than men; they could become great men” (p. 88).

Is Jack Donovan — the androphile Tyler Durden — building an army? Actually, it looks more like he’s building a religion, and this brings us to one of the most interesting aspects of Androphilia. Repeatedly, Donovan tells us that “masculinity is a religion,” or words to that effect (see especially pp. 65, 72, 76, 80, 116).

A first step to understanding what he is talking about is to recognize that masculinity is an ideal, and a virtue. Men strive to cultivate masculinity in themselves, and they admire it in other men. Further, masculinity is something that has to be achieved. Better yet, it has to be won. Femininity, on the other hand, is quite different. Femininity is essentially a state of being that simply comes with being female; it is not an accomplishment. Women are, but men must become. If femininity has anything to do with achievement, the achievement usually consists in artifice: dressing in a certain manner, putting on makeup, learning how to be coy, etc. Femininity is almost exclusively bound up with being attractive to men. If a man’s “masculinity” consisted in dressing butch and not shaving, he would be laughed at; his “masculinity” would be essentially effeminate. (Such is the masculinity, for example, of gay “bears” and “leatherman.”) Similarly, if a man’s “masculinity” consists entirely in pursuing women and making himself attractive to them, he is scorned by other men. (Ironically, such “gigolos” are often far more effeminate mama’s boys than many homosexuals.) No, true masculinity is achieved by accomplishing something difficult in the world: by fighting, building something, discovering something, winning a contest, setting a record, etc. In order for it to count, a man has to overcome things like fear and opposition. He has to exhibit such virtues as bravery, perseverance, commitment, consistency, integrity, and, often, loyalty. Masculinity is inextricably tied to virtue (which is no surprise — given that the root vir-, from which we also get “virile,” means “man”). A woman can be petty, fickle, dishonest, fearful, inconstant, weak, and unserious — and still be thought of as 100% feminine.

A woman can also be the butchest nun, women’s lacrosse coach, or dominatrix on the planet and never be in any danger of someone thinking she’s “not a real woman.” With men, it’s completely different. As the example of homosexuals illustrates, it is quite possible to have a y chromosome and be branded “not a real man.” Masculinity, again, is an ideal that men are constantly striving to realize. The flip side of this is that they live in constant fear of some kind of failure that might rob them of masculinity in their eyes or the eyes of others. They must “live up” to the title of “man.” Contrary to the views of modern psychologists and feminists, this does not indicate a “problem” with men that they must somehow try to overcome. If men did not feel driven to make their mark on the world and prove themselves worthy of being called men, there would be no science, no philosophy, no art, no music, no technology, no exploration.

“But there would also be no war, no conflict, no competition!” feminists and male geldings will shriek in response. They’re right: there would be none of these things. And the world would be colorless and unutterably boring.

As Camille Paglia famously said, “If civilization had been left in female hands, we would still be living in grass huts.” She also said “There is no female Mozart because there is no female Jack the Ripper.” What this really means is that given the nature of men, we can’t have Mozart without Jack the Ripper. So be it.

It should now be a bit clearer why Donovan says that “masculinity is a religion.” To quote him more fully, “masculinity is not just a quality shared by many men, but also an ideal to which men collectively aspire. Masculinity is a religion, one that naturally resonates with the condition of maleness. Worship takes place at sports arenas, during action films, in adventure novels and history books, in frat houses, in hunting lodges” (p. 65).

Earlier in the book he writes: “All men appreciate masculinity in other men. They appreciate men who are manly, who embody what it means to be a man. They admire and look up to men who are powerful, accomplished or assertive. . . . Men respectfully acknowledge another man’s impressive size or build, note a fierce handshake, or take a friendly interest in his facial hair. . . . Sportscasters and fans speak lovingly of the bodies and miraculous abilities of their shared heroes. . . . While straight men would rather not discuss it because they don’t want to be perceived as latent homosexuals, they do regularly admire one another’s bodies at the gym or at sporting events” (p. 22). None of this is “gay,” “latently gay,” or “homoerotic.” This is just men admiring manliness. One of the sad consequences of “gay liberation” (and Freudian psychology) is that straight men must now police their behavior for any signs that might be read as “latency.” And gay liberation has destroyed male bonding. Just recently I re-watched Robert Rossen’s classic 1961 film The Hustler. In the opening scene, an old man watches a drunken Paul Newman playing pool and remarks to a friend, “Nice looking boy. Clean cut. Too bad he can’t hold his liquor.” No straight man today would dream of openly admiring another man’s appearance and describing him as “nice looking,” even though there need be nothing sexual in this at all.

Of course, there is something decidedly sexual in androphilia. The androphile admires masculinity in other men also, but he has a sexual response to it. An androphile may admire all the same qualities in a man that a straight man would, but the androphile gets turned on by them. Here we must note, however, that although the straight man admires masculinity in men he generally spends a lot less time reflecting on it than an androphile does. And there are innumerable qualities in men (especially physical qualities) which androphiles notice, but which many straight men are completely oblivious to. In fact, one of the characteristics of manly men is a kind of obliviousness to their own masculine attractiveness. Yes, straight men admire masculinity in other men and in themselves — but this is often not something that is brought fully to consciousness. No matter how attractive he may be, if a man is vain, his attractiveness is undercut — and so is his masculinity. Men are attractive — to women and to androphiles — to the extent that their masculinity is something natural, unselfconscious, unaffected, and seemingly effortless. Oddly, lack of self-consciousness does seem to be a masculine trait. Think of the single-minded warrior, uncorrupted by doubt and introspection, forging ahead without any thought for how he seems to others, unaware of how brightly his virtue and heroism shine.

What all this means is that androphilia is masculinity brought to self-consciousness. To put it another way, the androphile is masculinity brought to awareness of itself. It is in the androphile that all that is good and noble and beautiful in the male comes to be consciously reflected upon and affirmed. It is in androphiles like Jack Donovan that the god of masculinity is consciously thematized as a god, and worshipped. Masculinity is a religion, he tells us again and again.

Now, I said a few lines earlier that lack of self-consciousness seems to be a masculine trait. If in androphiles a greater self-consciousness of masculinity is achieved, doesn’t this mean that androphiles are somehow unmasculine? Actually what it means is that they are potentially hyper-masculine. It is true that we admire unselfconscious figures like Siegfried or Arjuna, because they seem to possess a certain purity. But such men are always ultimately revealed to be merely the plaything of forces over which they have no control. Greater still then a naïve, unselfconscious purity is the power of an awakened man, who consciously recognizes and cultivates his virtues, striving to take control of his destiny and to perfect himself. This is part and parcel of the ideal of spiritual virility Julius Evola spoke of so often.

The difference between Siegfried and Arjuna is that the latter had the god Krishna around to awaken him. Krishna taught him that he is indeed a plaything of forces over which he has no control. But Arjuna then affirmed this, affirmed his role in the cosmic scheme as the executioner of men, and became the fiercest warrior that had ever lived.

Most men unconsciously follow the script of masculinity, pushed along by hormones to realize the masculine ideal — usually only to find the same hormones putting them in thrall to women and, later, children. Androphiles consciously recognize and affirm masculinity, and because their erotic desires are directed towards other men, they have the potential to achieve far more in the realm of masculine accomplishment than those who, again, have to “struggle to keep food on the table or get new sneakers for Junior.” Thus, far from being “unmasculine,” androphiles have it within their power to become, well, Overmen. Androphiles have awakened to the god in themselves and other men. There is an old saying on the Left Hand Path: “There is no god above an awakened man.” There is also no man above an awakened man. So much for the idea that a man’s love for other men is a badge of inferiority.

Implicit in the above is something I have not remarked on thus far, and that Donovan does not discuss: the duality in the masculine character. It is a rather remarkable thing, as I alluded to earlier, that testosterone both makes a man want to fight, to strive, and to explore — and also to inseminate a woman and tie himself down to home and family. Of course, without that latter effect the race would die out. But it is nevertheless the case that men are pulled in two directions, just by being men: towards heaven and towards earth. To borrow some terms from Evola again, they have within themselves both uranic and chthonic tendencies. Modern biologists have a way of dealing with this: they insist that all of life is nothing but competition for resources and reproduction. Thus, all of men’s uranic striving, all of their quest for the ideal, all of their adventures and accomplishments, are nothing more than ways in which they make themselves more attractive to females. This is sheer nonsense: nothing but the mindset of modern, middle-class, hen-pecked professors projected onto all of nature.

The truth is that men strive to realize the ideal of masculinity in ways that not only have nothing to do with the furtherance of the species, but are often positively inimical to it. Perhaps the best and most extreme example of masculine toughness one could give is the willingness of the samurai to disembowel themselves over questions of honor. Men strive for ideals, often at the expense of life. Masculinity has a dimension that can best be described as supernatural — as above nature. Women are far more tied to nature than men are, and this (and not sexist oppression) is the real reason why it is almost exclusively men who have been philosophers, priests, mystics, scientists, and artists. It is woman’s job to pull man back to earth and perpetuate life.

One way to look at androphilia is that it is not just the masculine come to consciousness of itself, but the masculine ridding itself of the “natural.” This “natural” side of the man is not without value (again, without it we would go extinct), but it has almost nothing to do with what makes men great. The androphile is free to cultivate the truly masculine aspects of the male soul, because he is free of the pull of the feminine and of the natural. This has to have something to do with why it is that so many great philosophers, artists, writers, mystics, and others, have tended to be androphiles. In 1913, D. H. Lawrence wrote the following to a correspondent: “I should like to know why nearly every man that approaches greatness tends to homosexuality, whether he admits it or not: so that he loves the body of a man better than the body of a woman — as I believe the Greeks did, sculptors and all, by far. . . . He can always get satisfaction from a man, but it is the hardest thing in life to get one’s soul and body satisfied from a woman, so that one is free for oneself. And one is kept by all tradition and instinct from loving a man.”

The androphile, again, is masculinity brought to consciousness of itself — and in him, it would seem, much else is brought to consciousness as well. For what else are science, philosophy, religion, art, and poetry but the world brought to consciousness of itself? These things — which are almost exclusively the products of men — are what set us apart and make us unique as a species. Human beings (again, almost exclusively men), unlike all other species, are capable of reflecting upon and understanding the world. We do this in scientific and philosophical theories, but also in fiction, poetry, and painting. Some of us, of course, are more capable of this than others — capable of achieving this reflective stance towards existence itself. And it would seem that of those men that are, some carry things even further and become fully aware of the masculine ideal that they themselves represent. And they fall in love with this. Sadly, androphile writers, artists, poets, etc., have often bought into the notion that their desire for other men makes them unmasculine and, like Oscar Wilde, have shoe-horned themselves into the role of the decadent, effeminate aesthete.

I think that when Donovan describes masculinity as a religion this is not just a desire to be provocative. I think he does experience his admiration for men as sacred. If this is the case, then it is natural for men who feel as he does to insist that such a feeling cannot be indecent or perverse. Further, it is natural for them to wonder why there are men such as themselves. What I have tried to do in the above reflections (which go beyond what Donovan says in his book) is to develop a theory of the “cosmic role,” if you will, of the masculine itself, and of the androphile. I believe Donovan is thinking along the same lines I am, though he might not express things the same way. He writes at one point:

Masculinity is a religion, and I see potential for androphiles to become its priests — to devote themselves to it and to the gods of men as clergymen devote their lives to the supernatural. What other man can both embody the spirit of manhood and revere it with such perfect devotion? This may sound far-fetched, but is it? If so, then why? Forget about gay culture and everything you associate with male homosexuality. Strip it down to its raw essence — a man’s sexual desire for men — and reimagine the destiny of that man. Reimagine what this desire focused on masculinity could mean, what it could inspire, and who the men who experience it could become. (p. 116)

There is much else in Androphilia that is well-worth discussing, though a review cannot cover everything. Particularly worthy of attention is Donovan’s discussion of masculinity in terms of what he calls physical masculinity, essential masculinity, and cultural masculinity. Then there is Donovan’s discussion of masculine “values.” These really should be called “virtues” (especially given the etymology of this word — mentioned earlier — Donovan his missed a bit of an opportunity here!). The language of “values” is very modern. What he really has in mind is virtues in the Aristotelian sense of excellences of the man. Donovan lists such qualities as self-reliance, independence, personal responsibility, achievement, integrity, etc. He starts to sound a bit like Ayn Rand in this part of the book, but it’s hard to quarrel with his message. The book ends with a perceptive discussion of “gay marriage,” which Donovan opposes, seeing it as yet another way in which gays are aping straight relationships, yearning narcissistically for society’s “approval.”

This is really a superb book, which all men can profit from, not just androphiles. If one happens to be an androphile, however, one will find this is a liberating and revolutionary work.

samedi, 09 octobre 2010

Que se passe-t-il dans les hautes sphères américaines?

Que se passe-t-il dans les hautes sphères américaines ?

Par Frédéric Laurent - Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Encore une fois, drôle de semaine sur les marchés financiers. La volatilité fait rage, dans des volumes peu importants. Pas de déclaration tonitruante, pas de gros titre en apparence… pourtant je m’étonne. Je m’étonne qu’aucun journal n’ait repris l’annonce de la démission d’Herbert Allison, sous-secrétaire adjoint à la stabilité financière aux Etats-Unis.

Donc, la personne qui était chargée de suivre le plan à 700 milliards de dollars lâche l’éponge.

Caricature américaine, septembre 2010

Certes, ce n'est pas la première fois que quelqu’un de haut placé démissionne. Toutefois, quand on sait que ces hauts responsables émargent à plusieurs centaines de milliers de dollars par an, avec tous les « à côté » agréables (secrétariat, chauffeur, voyages d’affaires, logement, pas mal d’avantages en nature), on peut se dire qu’il doit y avoir une bonne raison à ce départ.

 

 

Or là, la raison invoquée serait de pouvoir retrouver son épouse, qui vit dans un autre Etat. Est-ce une raison valable pour lâcher cette fonction ? L’ennui, c’est que cette démission fait suite à trois autres du même calibre, en deux mois. La semaine dernière, il s’agissait de Larry Summers, principal conseiller économique du Président Obama ; et il y a quelques semaines, Christina Romer, une autre conseillère de M. Obama, et Peter Orszag, président du Bureau du budget de la Maison Blanche, quittaient le navire.

Que se passe-t-il dans les hautes sphères du gouvernement et des finances américains ? Certes, les prochaines élections législatives américaines [à mi-mandat, en novembre prochain] paraissent mal engagées pour l’actuelle majorité démocrate. Mais ce type de haut fonctionnaire ne part pas sans une raison majeure. Pas qu’un simple désaccord sur la stratégie voulue par le président. Comment se fait-il que les journalistes du Washington Post ou du New York Times n’aient pas creusé les raisons de ces départs ?

Je vous ai déjà parlé des problèmes financiers majeurs des municipal bonds, qui s’ajoutent à l’endettement intenable de nombreux Etats américains en situation de faillite virtuelle. L’Amérique toute entière serait-elle dans la même situation ?

Cela amène plusieurs suppositions : si les élections sont perdues par les démocrates, les situations politique, sociale et bien entendu économique risquent de devenir ingérables. Devant cette éventuelle défaite, la Fed risque d’être perdue quant à la stratégie à mener. Ces démissions en cascade en sont peut être des preuves avant l’heure.

Ces élections vont être le prélude des revendications d’une Amérique qui s’appauvrit. La population découvre peu à peu que le pays est toujours en dépression et que celle-ci s’aggrave, retombant certainement en récession lors du premier semestre 2011. Est-ce que la Fed tentera une nouvelle mesure désespérée ? Nouvelle manoeuvre à laquelle nos démissionnaires ne veulent pas être impliqués ?

La lecture du dernier rapport du Congrès américain sur l’efficacité du TARP ne peut que confirmer ces doutes. L’introduction au rapport précise que « de graves faiblesses économiques persistent. Depuis la mise en oeuvre du plan, en octobre 2008, 7,1 millions de personnes ont reçues un avis d’expulsion. Depuis les sommets d’avant crise la valeur des maisons a baissé de 28%, et les marchés actions — dans lesquels une grande partie des Américains ont placé leur capital pour leur retraite ou pour l’université de leurs enfants — de 30%. » Ce même rapport reconnaît que si le TARP a fourni un appui pour redonner confiance aux marchés financiers, la question demeure quant à son efficacité réelle sur la relance.

Le dollar va certainement poursuivre son mouvement baissier. La Chine achète du yen et pourrait commencer à vendre ses actifs en dollars — ou tout du moins, à ne plus en acheter. Continuer à monétiser la dette ? Inévitablement l’inflation va repartir aux Etats-Unis. Sans doute interviendra alors un vaste programme d’austérité. Les marchés financiers, qui ont été très soft jusque-là, pourraient le prendre très mal, et la chute n’en serait que plus violente. Et pour valider ce scénario, l’or continue à monter pour le moment en dollars, en ayant dépassé pour la première fois les 1 300 $ l’once.

MoneyWeek

lundi, 04 octobre 2010

Dos Passos, questo sconosciuto

dospassos.jpg

Dos Passos, questo sconosciuto

di Marco Iacona


Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

Lost generation. La “generazione perduta”, per chi non lo sapesse, è un gruppo di scrittori americani giunti in Europa nella prima parte del Novecento e del quale fanno parte Ernest Hemingway, Ezra Pound e Francis Scott Fitzgerald; tre riferimenti essenziali per i contestatori non solo stelle-e-strisce che verranno dopo, compresa l’arcinota Beat generation di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Entrambe le “generazioni” rappresentano quell’America che ci piace, capace di rappresentare con sincerità fatti e personaggi, di autorappresentarsi (contemporaneamente) con afflitta “gagliardia” o affilata confidenza; ma senza trascurare sogni e aspirazioni seppur camuffati da rigide e fredde disillusioni… un atteggiamento pienamente anticonformista, (chi più di loro?), riconoscibile a fatica (con una prosa particolarmente schietta, curata o meno), che affascinerà intellettuali e narratori italiani fino ai nostri giorni. Due nomi su tutti: Italo Calvino e Cesare Pavese. Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Del gruppo di contestatori d’inizio Novecento, fra i primi peraltro a toccare con mano le degenerazioni della società del nuovo secolo (guerra compresa, ovviamente), è parte integrante anche John Dos Passos del quale vogliamo ricordare in queste pagine i quarant’anni dalla morte (28 settembre 1970). Come definirlo innanzitutto? Come definire quell’intellettuale e scrittore che nei primi anni Sessanta venne in Italia invitato da Giano Accame per partecipare agli “Incontri romani della cultura” grazie anche all’organizzazione del “Centro di vita italiano” di Ernesto De Marzio, e insieme a lui Gabriele Marcel, Michel Déon, Odysseus Elytis (futuro premio Nobel) e James Burnham? Anarchico sicuramente, anarchico nella misura in cui Dos Passos, da un punto di vista politico, fu definitivamente poco etichettabile. Di “destra” nel secondo dopoguerra (anche con posizioni maccartiste), e di “sinistra” filocomunista negli anni precedenti, i Venti e i Trenta (ricordiamo l’impegno civile, il rifiuto dell’evento bellico e la collaborazione alla rivista “New Masses”), anni nei quali si registra – dicono i critici – un apparentamento quasi “perfetto” fra impegno politico, temi e forme sperimentali dell’attività dell’ex studente di Harvard. In anni diciamo così “intermedi” (quasi simbolicamente, fra le due posizioni) il nostro venne anche catturato dalle prospettive del “New Deal” americano. Dos Passos può essere considerato allora un anticipatore ideale e pratico (fece volontariato, fra le altre istituzioni, presso la Croce Rossa), dell’intellettuale mai fermo su posizioni rigide, capace di “riposizionarsi”, e pronto a sfidare le (immancabili) vestali dell’ortodossia politica. Sovente le “peregrinazioni” politiche coincideranno con le fortune o le sfortune del romanziere, abilmente decretate dalla critica internazionale.

Dos Passos, e questo lo rese diverso da buona parte degli scrittori della sua generazione, amava anche “volare basso”, fondendo i grandi ideali (chi mai non ne ebbe?) a pagine di critica ordinaria e di schietto giornalismo; scrisse pagine seducenti sui grandi miti del cinema (miti pop, ma allora quasi nessuno lo sapeva), James Dean e Rodolfo Valentino che vide morire l’uno dopo l’altro, confermandosi in questo settore uno scrittore senza molte “regole”, se non la propria volontà e il proprio gusto. Ma anarchico o difensore degli anarchici il nostro lo fu soprattutto in relazione alle vicende legate ai due anarchici italiani in terra americana, vale a dire Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, sfortunati protagonisti di una storia mai dimenticata. Nel 1926, un anno prima della loro condanna a morte (erano anarchici ma non comunisti), l’uno operaio l’altro pescivendolo, Dos Passos dava alle stampe e per conto di un “Comitato di difesa” per i due italiani detenuti dal 1921 Facing the Chair, un libro nel quale da perfetto libertario biasimava il comportamento dei giudici americani vittime, a suo dire, di pregiudizi politici. In quel periodo, con largo anticipo rispetto alla “caccia alle streghe” del prossimo dopoguerra, in America si viveva infatti un clima repressivo rivolto alla cosiddetta sovversione politica. A farne le spese, fra gli altri, i due anarchici italiani emigrati nel 1908 e accusati di rapina e duplice omicidio benché già scagionati da un testimone. Con Dos Passos altri intellettuali illuminati si schiereranno dalla parte degli italiani “Nick” e “Bart”: da Bertrand Russel a Dorothy Parker, da G. B. Shaw a H. G. Wells. Tutto inutile, naturalmente. Fra le proteste generali i due verranno uccisi tramite sedia elettrica nell’agosto del 1927. Successivamente riabilitati (cinquant’anni dopo!) ma penosamente sacrificati sull’“altare della fermezza” di un’America oppressiva e giustizialista, un’America violenta che a, questo punto, non poteva essere per lo scrittore libertario nato a Chicago nel 1896.

Malgrado la ricca biografia, e malgrado il sentimento di apertura verso un mondo che dal secondo decennio del Novecento offriva più canali di comunicazione (soprattutto: il cinema di Eisenstein, la radio e il teatro sperimentale), Dos Passos è un autore oggi poco conosciuto ad eccezione - forse - di due volumi Manhattan Transfer del 1925 e Il 42° parallelo del 1930. In molti, da tempo, hanno dimenticato gli attestati di stima ricevuti (da J. Paul Sartre nel 1947, per esempio: «considero Dos Passos il più grande degli scrittori del nostro tempo»), ma hanno dimenticato, soprattutto, i suoi libri della fase giovanile e quelli dell’ultimo periodo. I primi sono tout court lo specchio di un’epoca il cui “superamento” condurrà l’autore ad abbracciare quelle posizioni radicali che i più conoscono; le posizioni che negli anni hanno affascinato la critica di sinistra, per intenderci... Come per esempio il “libro di guerra” One Man’s Initiation, interessante in proiezione di una crescita “ideale” di Dos Passos (con timbri espressionisti alla maniera di Ernst Jünger, ma assai diverso per ragioni e architetture), e non del tutto differente dalla copiosa narrativa di guerra che conquisterà i mercati occidentali dagli anni Venti in poi, o come Three Soldiers (1921), che si può considerare un romanzo di “tradizione” decadentista, pessimista, diretto a rivelare i tremendi meccanismi di una società moderna attraverso l’esperienza della guerra.

Ma le capacità di narratore-plurale di Dos Passos (qui sì, anticipatore di quella postmodernità che ama rilegare in capitoli unici le fonti che giungono dagli angoli diversi dello scibile), emergono all’interno del romanzo-denuncia sulla condizione del mondo investito dal progresso tecnologico (Manhattan Transfer). Accanto alla denuncia di un’epoca ove hanno preso il sopravvento le divinità malvagie del macchinismo («le turbine, i motori a scoppio e la dinamite … sono le nostre divinità crudeli e vendicative…»), in questo periodo, in Dos Passos, è possibile reperire una quantità importante di citazioni capaci di posizionare l’autore al crocevia di due percorsi essenziali della letteratura mondiale: fra i più classici come Mark Twain alle avanguardie europee e prim’ancora a Walt Whitman inteso alla maniera radicale. Qui la “sociologia” di Dos Passos ci mostra con linguaggio contemporaneo quel grigio mondo, ancora una volta: a lui contemporaneo, che autori anche molto diversi (si pensi a Chaplin o a Garcia Lorca) ci hanno rivelano nelle pieghe più comiche o sentimentali. Norman Mailer e William Burroughs terranno conto, e tanto, delle sue lezione narrative. 

Dos Passos possiede la “fortuna” di trovarsi a raccontare un periodo storico che rappresenta l’alfa della nostra epoca, credendo inoltre di scorgerne, da “buon radicale” militante, “sperimentatore” e “proletario d’elezione” (ma borghese d’estrazione) anche l’inevitabile omega. È questo che affascina i militanti d’ogni “estrazione”. I suoi lavori degli anni Trenta (la ben nota trilogia U.S.A formata dal 42° parallelo, 1919 e Un mucchio di quattrini), rappresentano il punto di massimo impegno “guerrigliero”, si tratta di affreschi complessi di vita americana (con apoteosi del collettivismo), composti con tecniche sperimentali di “finto” realismo. Ma è in codesti stessi capitoli che si consuma anche politicamente il ribellismo anticapitalistico “a sinistra” di Dos Passos. Resosi finalmente conto dell’incolmabile iato esistente fra idea e prassi comunista, già a metà degli anni Trenta lo scrittore cercherà di indirizzare le sue attitudini libertarie verso sponde liberali di “destra”. Era ora… È questo il periodo (c’era da aspettarselo dopotutto), nel quale tutti parleranno di “crisi”, “declino”, eccetera. È questo il periodo (mancheranno ancora più di trent’anni dalla morte!) nel quale Dos Passos comincia a essere un grande dimenticato (“perduto” di nome e adesso anche di fatto). Eppure l’autore di saggi e testi teatrali e di oltre quaranta romanzi (alcuni dei quali, i più famosi e già citati, tradotti da Pavese), continuerà il proprio lavoro fino alla morte, pubblicando fra gli altri un’altra trilogia di vita americana, District of Columbia, una storia degli avi portoghesi, saggi su Jefferson, diari ed epistolari. A nulla servirà la sua indignazione (a parte la dimensione collettiva e militante, resta il tema del pericolo corso dall’individuo nel mondo contemporaneo). A nulla serviranno (anzi!) gli attestati di stima degli intellettuali anticonformisti di “destra”. A quarant’anni dalla morte cos’altro possiamo aggiungere allora, rispetto alla circostanza che Dos Passos sia ancora un autore quasi tutto da scoprire?

 

jeudi, 30 septembre 2010

Les Etats-Unis laissent-ils couler le dollar?

Les Etats-Unis laissent-ils couler le dollar ?

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Fini le temps où Washington assurait au monde qu’il voulait un dollar fort. Alors que le billet vert a plongé à un plus bas de cinq mois contre l’euro mercredi, le gouvernement américain semble très bien s’accomoder de la tendance.

Caricature américaine, août 2010. Sans commentaire...

Les Américains laissent-ils délibérément plonger le dollar ?

«Un dollar fort est dans l’intérêt des Etats-Unis» : cette phrase rituelle des secrétaires au Trésor américain, Timothy Geithner ne l’a pas prononcée en public depuis maintenant un an. Si les Etats-Unis ne le reconnaissent pas officiellement, personne n’est dupe : ils ont tout intérêt à laisser le dollar tomber, s’ils veulent booster la compétitivité de leurs produits et atteindre l’objectif lancé en janvier par Obama, de doubler les exportations américaines en cinq ans.

La Fed est d’autant plus incitée à maintenir un dollar faible, que quasiment toutes les grandes banques centrales mondiales font la même chose avec leur monnaie.

A la mi-septembre, la Banque du Japon est intervenue directement sur le marché des changes, pour la première fois en six ans, afin de freiner l’ascension du yen, emboîtant ainsi le pas à la Suisse, qui bataille depuis plus d’un an pour empêcher une envolée du franc suisse. Quant à la Bank of England, elle s’apprête, comme la Fed, à lancer une nouvelle vague d’assouplissement quantitatif.

Sauf que «si tout le monde cherche à déprécier sa monnaie, cela devient un jeu à somme nulle», met en garde Nordine Naam, économiste à Natixis.

Comment font les Etats-Unis pour affaiblir le dollar ?

 

L’Etat n’a même pas besoin d’intervenir directement sur le marché des changes en vendant du dollar. Le billet vert se déprécie naturellement, pour plusieurs raisons.

D’abord, «la crainte d’une récession, voire d’une déflation aux Etats-Unis cet été, a pesé sur le dollar», explique Nordine Naam.

Ensuite, la pression que Washington exerce sur la Chine pour qu’elle laisse sa monnaie s’apprécier, commence à porter ses fruits. La Chambre des représentants doit notamment se prononcer, vendredi, sur un projet de loi qui imposerait des mesures de rétorsion visant les produits chinois importés aux Etats-Unis. Résultat, le yuan a atteint mardi un de ses plus hauts niveaux depuis 1993 à 6,7 yuan pour un dollar.

Enfin et surtout, l’annonce mardi soir de la Fed qui s’est dite «prête à mener un assouplissement supplémentaire si nécessaire pour soutenir la reprise économique», autrement dit à faire marcher la planche à billets, n’a pas manqué de faire plonger le billet vert. «Il est désormais probable que de nouvelles mesures soient adoptées avant la fin de l’année», a estimé Simon Derrick, de BNY Mellon.

Or, plus de dollars en circulation signifie que chaque billet vert risque de valoir un peu moins. Mercredi, les cambistes ont donc acheté des euros, poussant le cours de la monnaie unique à son plus haut niveau depuis cinq mois.

Cela entraînera-t-il de l’inflation ?

C’est bien ce que souhaiterait la Fed. Elle ne s’en est pas caché, puisqu’elle a déclaré mardi que la faiblesse actuelle de l’inflation n’était pas «compatible» avec sa «mission».

De fait, «l’inflation hors énergie et alimentation était de 0,9% en août, un niveau jamais vu depuis janvier 1966», fait remarquer l’économiste de Natixis. «Or, vu le taux de chômage, l’inflation ne pourra pas venir d’une hausse des salaires», explique-t-il. «En laissant chuter le dollar, la Fed contribue indirectement à renchérir le prix des importations et créer ainsi un peu d’inflation».

Car l’inflation présente un tas d’avantages. Elle permet, d’abord, de réduire le poids de la dette souveraine, qui a dépassé les 13.000 milliards de dollars. [Il] est sûr que «plutôt que de réduire les dépenses publiques ou augmenter les impôts, il est tentant de laisser l’inflation faire le sale boulot», résume Michael Kinsley, du site The Atlantic. C’est d’ailleurs grâce à une inflation de 13% qu’en 1979, le pays a réussi à éliminer 100 milliards de dollars sur ses 830 milliards de dettes.

Deuxième intérêt, en théorie, de l’inflation : elle encourage la consommation. Si les prix ont tendance à grimper, il vaut mieux ne pas attendre pour acheter. Alors que la consommation des ménages, moteur traditionnel de l’économie américaine, est plombée par la nécessité de se désendetter et le chômage, un peu d’inflation serait donc bienvenue, pour booster les dépenses. Mais encore faut-il que les salaires suivent, pour ne pas déteriorer le pouvoir d’achat.

Le problème, c’est qu’en réalité, «la transmission de la politique monétaire ne marche pas dans un contexte de désendettement des agents économiques», explique Nordine Naam. La Fed a beau avoir gonflé son bilan à 2.300 milliards de dollars et inonder le marché de liquidités, l’inflation est restée en deçà de son objectif de 2%. La Fed peut injecter autant de liquidités qu’elle veut, tant que l’activité stagne et que le chômage explose, la demande des ménages est trop fragile pour tirer les prix à la hausse.

L’Expansion

mercredi, 29 septembre 2010

Les Etats-Unis draguent les "leaders" musulmans en France

Les Etats-Unis draguent les « leaders » musulmans en France


WASHINGTON (NOVOpress) – Al Kanz s’en fait l’écho aujourd’hui [1] : les Etats-Unis s’intéressent aux chefs d’entreprise musulmans qui prospèrent notamment en France. A l’initiative de l’IVLP (International Visitor Leadership Program), « 26 entrepreneurs, tous musulmans, sont pour trois semaines les hôtes du gouvernement américain », se félicite le site des consommateurs musulmans. Parmi ces invités, Nabil Djedjik [2], secrétaire général du syndicat patronal SPMF (synergie des professionnels musulmans de France)», et propriétaire de plusieurs restaurants « certifiés halal » en région parisienne.

Depuis plusieurs années, l’ambassade des Etats-Unis développe un réseau de partenariats avec des élus locaux, des associations, des entrepreneurs et des « leaders culturels ». Elle dispose pour cela d’un budget annuel de 3 millions de dollars pour soutenir des projets de rénovation urbaine, des festivals de musique et des conférences. Jeudi dernier, le site du journal La Croix rappelait que l’ambassadeur « a récemment fait venir en France l’acteur américain Samuel L. Jackson (photo) et invité des groupes de rap français à se produire dans sa résidence. Des jeunes des banlieues, en particulier des musulmans, participent chaque année au programme qui invite 20 à 30 « jeunes leaders » Français pour un séjour de plusieurs semaines aux Etats-Unis ». But de la manœuvre ? [3] « tenter d’établir un lien avec la prochaine génération de leaders en France et cela inclut les banlieues ». Autrement dit, la « diversité » au service d’une société de consommation indifférenciée sert les plans du libéralisme américain.


[cc [4]] Novopress.info, 2010, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[http://fr.novopress.info [5]]


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[1] fait l’écho aujourd’hui: http://www.al-kanz.org/2010/09/27/spmf-usa/

[2] Nabil Djedjik: http://fr.linkedin.com/pub/nabil-djedjik/17/581/140

[3] But de la manœuvre ?: http://francois-d-alancon.blogs.la-croix.com/banlieues-francaises-la-difference-americaine/2010/09/23/

[4] cc: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.0/fr/

[5] http://fr.novopress.info: http://fr.novopress.info

mercredi, 22 septembre 2010

La fin de l'exception américaine

La fin de l’exception américaine

Les Etats-Unis tentent un nouveau plan de relance pour lutter contre le chômage qui persiste, une première.

wcc.jpgLa guerre pour l’emploi n’est pas encore perdue, mais de loin pas gagnée. La récession qui a frappé les Etats-Unis en 2007 se distingue de toutes les précédentes depuis la seconde guerre mondiale par la persistance du chômage. Les américains, d’ordinaire si prompts à se remettre en selle, ont cassé leur machine à créer du travaille. Ils découvrent le chômage de longue durée, le plus difficile à résorber comme l’Europe le sait trop bien. De ce point de vue, on assiste à la fin de l’exception américaine.

En position délicate pour les élections de mi-mandat, Barack Obama tente de remporter au moins une bataille avec son nouveau plan de relance. Quitte à creuser encore le déficit abyssal des finances publiques. Au rythme actuel, la dette américaine dépassera 100% du produit intérieur brut avant 2015.

A court terme, le président américain n’a guère de choix car la politique monétaire, l’autre levier d’action, a tiré toutes ses cartouches. Voilà d’ailleurs un point commun avec le Vieux Continent. Comme la Fed, la Banque centrale européenne mène une politique ultra-accommodante – sans effet sur la reprise. L’économie tombe dans ce qu’on appelle une trappe à liquidité, un afflux d’argent bon marché qui ne trouve pas preneur. Ou qui, comme en Suisse, prépare des bulles que la Banque nationale ne peut prévenir sous peine de faire encore davantage flamber le franc.

Les acteurs trop endettés – ménages aux Etats-Unis, Etats et institutions financières en Europe – doivent assainir leur budget. Or, si tous le font en même temps, la récession mondiale est programmée.

Pour l’instant, l’Europe vit en décalage. La situation de l’emploi tend à s’améliorer et la croissance reste positive. De son côté, l’économie helvétique se singularise, avec tous ses indicateurs au vert. Cependant, si les Etats-Unis rechutent, l’ensemble de la planète, la Suisse comprise, en subira les conséquences. Car le dynamisme de l’Asie ne compense pas encore le poids de ce qui reste, de loin, la première économie du monde.

Frédéric Lelièvre
Le Temps [1]

07/09/2010

Correspondance Polémia – 15/09/2010 [2]

Image : Un chercheur d’emploi, aux Etats-Unis.

Frédéric Lelièvre

 


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[1] Le Temps: http://www.letemps.ch/Page/Uuid/b01c0230-b9f7-11df-9ea7-6791aedb1a60/La_fin_de_lexception_am%C3%A9ricaine

[2] Correspondance Polémia – 15/09/2010: http://www.polemia.com/article.php?id=3074

Mit der Klima-Waffe zur Weltherrschaft?

Mit der Klima-Waffe zur Weltherrschaft?

von Dr. Kersten Radzimanowski

Ex; http://www.deutsche-stimme.de/

HAARP und Co.: Nicht nur die USA proben den Wetter-Krieg gegen unliebsame Staaten

alaska-haarp1.gifEs war im Sommer 1952. Exakt am 15. August begann das britische Militär mit seinem geheimen Wetterprogramm namens »Cumulus«, bei dem getestet wurde, Regen als militärische Waffe einzusetzen. Bei diesen Versuchen wurden Wolken mit Chemikalien geimpft, um gezielt ein Abregnen hervorzurufen.

Flieger einer Luftwaffenstaffel versprühten große Mengen von Salzen in den Wolken über der Ortschaft Lynmouth, Grafschaft Devon, bevor sintflutartige Regenfälle einsetzten, bei denen 34 Menschen aus der Gegend zu Tode kamen. Ein Zusammenhang zwischen dem Luftwaffeneinsatz und dem sich daran anschließenden Dauerregen wird vermutet.
Auch die USA setzten im Vietnamkrieg auf Wettermanipulation. Um den Nachschub des Vietcong zu unterbinden, wurde auch hier mit chemischen Substanzen der Monsunregen verstärkt und die Regendauer verlängert. Mit fast 3000 Flugeinsätzen wurden Wolken geimpft. Auch das sollte sintflutartige Regenfälle auslösen und den Feind kampfunfähig machen.
Die CIA führte in Vietnam ebenfalls großangelegte Experimente durch, um mittels intensiver und andauernder Regenfälle durch die Vernichtung von Ernten und der Zerstörung von Wegen Einfluß auf den Krieg zu nehmen. Ein Bericht der US-Luftwaffe von 1996 mit dem Titel: »Das Klima als Multiplikationskraft: Beherrschung des Klimas im Jahr 2025« schließt damit, daß dieses »für eine Dominanz auf dem Schlachtfeld bis zu einem nie zuvor vorstellbarem Grad sorgt« und bezieht die Fähigkeit mit ein, feindliche Operationen zu zerschlagen, Stürme, Trockenheit und Trinkwasserknappheit hervorzurufen.

Apokalyptische Möglichkeiten

Auch die damalige Sowjetunion verfügte über solche Waffen. Zum Zeitpunkt der Reaktorkatastrophe von Tschernobyl wurde der sowjetischen Luftwaffe befohlen, die radioaktiven Wolken über Weißrußland abregnen zu lassen, was auch in bedeutendem Umfange gelang.
Es gibt wenige verläßliche Informationen über die Entwicklung und den Einsatz der geächteten Klima-Waffen. Nach Angaben der Weltwetterorganisation führten 26 Regierungen im Jahr 2000 solche Wetter-Beeinflußungs-
experimente durch. Zwischen 2003/04 bestätigten 16 Regierungen die Arbeit an solch »wissenschaftlichen« Projekten. Die wohl größte Anlage zur gezielten Manipulation des Wetters bzw. Klimas wurde von den USA im Rahmen der »Star-Wars«-Initiativen (SDI) in Alaska errichtet und wird unter dem Namen »High-Frequency Active Auroral Research Program« (HAARP) betrieben. Die technische Basis dieses Programms ist ein elektromagnetisches System aus 360 Funksendern und 180 Antennen, jede 22 Meter hoch, das für die Erforschung von Prozessen in der Ionosphäre bestimmt ist.
Die Station, die 3600 Kilowatt in den Himmel ausstrahlt, ist die weltweit stärkste Anlage, um Einfluß auf die Ionosphäre in der Welt auszuüben. Das 1990 gestartete Programm wird von der Verwaltung für Marineforschungen (Office of Naval Research) und dem Forschungslabor der US-Luftstreitkräfte finanziert. Außerdem sind daran mehrere große US-Universitäten beteiligt.
Mit HAARP sollen aber nicht nur Naturkatastrophen wie Dürre oder Überschwemmungen ausgelöst werden, sondern auch Orkane und selbst Erdbeben. In diesem Zusammenhang halten sich hartnäckig Gerüchte, die behaupten, daß mittels Hochfrequenzradiowellen, die von Satelliten auf bestimmte Punkte auf der Erde reflektiert (gebündelt) werden, sogenannte Hipocampus erzeugt werden, die zum Auslösen eines Erdbebens führen. Das Erdbeben im chinesischen Sichuan am 12. Mai 2008 mit einer Stärke von 7,8 wird in diesem Zusammenhang ebenso genannt wie das Erdbeben Anfang Januar 2010 auf Haiti sowie weitere in Afghanistan und im Iran.

Krieg gegen unliebsame Völker

Aus militärischer Sicht ist das HAARP eine Massenvernichtungswaffe, ein Instrument zur Destabilisierung von landwirtschaftlichen und ökologischen Systemen in »Feindstaaten«. So mutmaßte bereits im Jahre 2000 der Wirtschaftsprofessor an der kanadischen Universität Ottawa Michel Chossudovsky, teilweise könnte der Klimawechsel das Ergebnis der Anwendung einer neuen Generation von »nicht-tödlichen Waffen« sein.
Während uns unsere Systemparteien einreden wollen, mit Schadstoffplaketten und immer neuen Verboten für den »Umweltschutz« die Klimakatastrophe zu verhindern, wird anderenorts mit großem Aufwand der Umweltkrieg gegen unliebsame Völker und Staaten geprobt und geführt. Dieser Koalition der Kriegswilligen von Washington bis Tel Aviv, von London bis Warschau ihre Pläne und Projekte zu durchkreuzen, das ist nicht nur eine lebenswichtige Aufgabe der nationalen Opposition in Deutschland, sondern sollte weltweit jene zusammenführen, die nicht akzeptieren, daß unsere Erde mit immer heimtückischeren Waffen zum Privateigentum der Plutokraten wird.

lundi, 20 septembre 2010

Washington veut éroder l'influence des Etats européens - Lutte d'influence au FMI

Washington veut éroder l’influence des Etats européens

 

Lutte d’influence au FMI

 

fmi-logo.jpgLa tâche du FMI est d’empêcher ou, du moins, de limiter l’effet des crises financières qui affectent les Etats et qui pourraient avoir des répercussions sur l’économie mondiale. Les esprits critiques nous disent que ce système fait tomber les gouvernements et les banques dans la tentation de faire des affaires risquées car, de fait, le FMI, en cas d’échec, vole à leur secours. Le FMI est alimenté par des cotisations payées par les grands Etats industrialisés. Les Etats-Unis sont l’Etat qui, en réalité, profite pleinement de l’institution qu’est le FMI, parce que Washington use de son influence prépondérante pour dire quels Etats doivent recevoir une aide et quels Etats doivent en être privés, et sous quelles conditions.

 

La place prépondérante qu’occupent les Etats-Unis au sein du FMI provient du simple fait qu’ils sont le seul Etat membre disposant d’une minorité de blocage. Lorsque des décisions importantes doivent être prises, une majorité de 85% s’avère nécessaire. De cette façon, rien ne peut s’opposer à la volonté des Américains qui disposent de 16,74% des voix. Dans le « groupe des cinq grands », dont certains s’opposent parfois aux Etats-Unis, il faut compter le Japon (6,01%), l’Allemagne (5,87%), la France (4,85%) et la Grande-Bretagne (4,85%). Les « cinq grands » disposent donc d’une masse de voix équivalant à 38,32%. Tous les autres Etats, qui se sont généralement rassemblés au sein de groupes afin de pouvoir fédérer leurs voix, disposent tous ensemble de 61,68%.

 

Récemment les Etats-Unis ont une nouvelle fois fait étalage de leur puissante musculature. Il s’agit, en l’occurrence, d’occuper les sièges du directoire exécutif, responsable du fonctionnement au quotidien du FMI. D’après les statuts du FMI, ce directoire exécutif prévoit vingt sièges. Avec une majorité de voix de 85%, ce nombre de sièges pourrait être augmenté. On a fait usage de cette possibilité après les adhésions de la Chine, de l’Arabie Saoudite et, en 1992, de la Suisse. Le nombre de membres du directoire exécutif est désormais de vingt-quatre. C’est surtout la Suisse qui a insisté pour que cet élargissement devienne réalité et a obtenu, dès son adhésion, un siège au sein de ce directoire.

 

L’élargissement du directoire exécutif est confirmé depuis lors tous les deux ans par résolution. Lors du dernier vote, cependant, les Etats-Unis ont refusé, en faisant usage de leur minorité de blocage, qu’une telle résolution soit une nouvelle fois entérinée. La raison de ce refus ? Les Etats-Unis cherchent à amoindrir l’influence des Etats de l’UE au sein du FMI. Ils voudraient que 5% des droits de vote passent des pays industriels aux pays dits « émergents ». Les Etats-Unis veulent également donner plus de poids aux pays émergents dans le directoire exécutif, tout en réduisant le nombre de sièges en son sein. Pour y parvenir, Washington exerce une pression sur les Etats de l’UE pour qu’ils consentent à céder une partie de leurs sept sièges permanents au sein du directoire exécutif.

 

Si aucun règlement à l’amiable ne survient avant la fin octobre 2010, alors le directoire comptera à nouveau vingt sièges comme auparavant et les membres du directoire issus des groupes de pays plus petits perdront automatiquement leurs sièges. Il s’agirait des  groupes téléguidés par des pays comme le Brésil, l’Inde, l’Argentine et le Rwanda. Le Brésil et l’Inde surtout n’admettront pas ce recul ni l’obligation de rejoindre d’autres groupes pour pouvoir défendre leurs sièges. La conséquence de tout cela serait une crise grave du FMI.

 

En Suisse, l’inquiétude croît car on pense que les pays de l’UE finiront par s’entendre avec les Etats-Unis pour la répartition des voix et des sièges au détriment de la Confédération Helvétique. Mais, malgré cette inquiétude, la perspective est bonne du point de vue suisse ; en ce moment, le parlement helvétique doit ratifier un crédit de 17,5 milliards de dollars, accordé par la Banque Nationale suisse au FMI. Les politiciens suisses sont d’une autre trempe que leurs homologues allemands : ils défendent leurs intérêts nationaux de manière conséquente et exigent d’ores et déjà de faire dépendre l’octroi de ce crédit du maintien du siège suisse dans le directoire exécutif du FMI.

 

(article paru dans DNZ, Munich – n°35/2010). 

Dreaming of a Culture War

 
Dreaming of a Culture War
 

Dreaming of a Culture War

 

Fjordman’s comments about multiculturalism, which were originally published on the website Gates of Vienna, are so full of dubious assumptions that it is hard to know where to start one’s critique. But having produced copious scholarship on the subject of his literary exercise, I feel driven to question Fjordman’s conclusions.

Western societies, he explains, can be divided into PC-pushing elites and a far more traditionalist populace, which is now preparing to go after the seats of illegitimate power. Fjordman quotes the Hoover Institute-resident scholar Angelo M. Codevilla, writing in American Spectator, Lee Harris’s The Next American Civil War, and Christopher Lasch’s posthumously published Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy to prove his contention. He then brings up Thilo Sarrazin, the president of the German Bundesbank, who just resigned his post under pressure, after having publishing what became a politically incorrect bestseller Deutschland schafft sich ab. These authors all putatively prove the same thing, Harris, Codevilla, and Lasch by what they say and Sarrazin by the excitement that his controversial attack on Muslim immigration has aroused in Germany.

Fjordman thinks that a great revolt of the populace is erupting, as they turn ever more indignantly against the “multicultural oligarchs,” who are “actively hostile to the long-term interests of the white population.” Fjordman incorporates into his ominous or cheery prediction (depending on how one reads things) published statements about cultural divisions in the US. He then segues into Germany, where despite the almost universal condemnation of Sarrazin’s candor by political elites, from Bundespräsident Christian Wulff and Chancellor Angela Merkel to the fuming multiculturalists in the Green Party and Party of the Left, the “people” themselves are behind the courageous former Bundesbank director.

Moreover, the Munich tabloid Bild, which is read by millions, devoted its feature on September 4 to a defense of Sarrazin under the title “Wir wollen keine Sprechverbote.” The editors indicated that the vast majority of Germans are behind Sarrazin and tired of the way the political classes “patronize” them by imposing intricate speech taboos in the name of fighting an imaginary fascist enemy. Fjordman relates what is happening in Germany to the rise of the Tea Parties in the U.S., seeing in both expressions of disdain for arbitrary, undemocratic elites, which are practicing multicultural policies at the expense of the “people.”

Allow me as an expert, who is absent from Fjordman’s commentary, to make two germane observations. First, there is no indication that the German “people” are rejecting their “elites.” Almost 80 percent of Germans polled support the two national parties, which are equally antinational, equally antifascist, equally pro-multicultural, and equally hysterical about showing remorse for the entire German past.

Parties of the Right, like the moderately free market and immigration-critical Republicans, and the more nationalist National Democrats, received altogether about 3 percent of the vote in German federal elections. Far more votes go to the passionately multicultural Greens and the Party of the Left than to the utterly marginalized German Right. If Western Europeans are truly sick of anti-Western elites that are riding rough shod over them, why then in almost all Western countries do the voters rally to the multicultural Left, in record numbers? Germans may be buying Sarrazin’s lament about Third World immigration but they are also gravitating toward the other side. They are running in a beeline toward the very politicians who humiliated and brought down their populist hero.

Second, Fjordman seems to be drunk on Republican propaganda when he writes about revolts about to break out in the U.S. One of his star witnesses, Codevilla, is a fixture at the very Republican American Spectator. How much credence should we lend Codevilla’s picture of impending cultural wars? What he is doing is rephrasing David Brook’s well-known thesis about the U.S. being a land divided between Red and Blue states or constituencies, a situation that has resulted in the earth-shaking development that some voters are Reps while others are Dems. Presumably the next time Michael Steele and Karl Rove orchestrate a GOP victory, we shall be witnessing some kind of “counterrevolution.”

As for the Tea Party revolutionaries Fjordman talks up, they are something far less than a counter-revolutionary army. They are predominantly Bush-McCain Republicans, who think that Obama has pushed deficits too far. According to polls, the Tea Party activists love the welfare state, or at least its entitlements. They just don’t want their social programs endangered by allowing illegal immigrants to take public money or by having the government run up unmanageable debts.

If Tea Party leaders like Palin and Beck, who are constantly singing the praises of the civil rights movement and invoking the ghost of Martin Luther King, are radical right-wingers, then I’ve missed this entirely. While Palin could indeed be the GOP presidential nominee in 2012, she would not be offering us any violent break from the past. In all probability this frequenter of Tea Parties would be providing an ideological replay of the presidential campaign of 2008, when she campaigned as McCain’s very neocon-sounding running mate.

Fjordman has a skewed view of political reality because he is ignoring two self-evident truths (all men being created equal is not one of them). One, people live with authority structures, and the “oligarchs,” whom Fjordman doesn’t fancy any more than I, are the ones we are now confronting. Those who are imposing “democracy” as a value-system, as well as a cornucopia of social programs, control their obliging subjects. They educate the young while their allies in the media supervise our entertainment and, to whatever extent they can, our access to information. The bloated partitocrazia, with its overlapping programs and parasitic “public servants” organize elections and keep the system from getting out of hand.

Finally “democracies,” and particularly the ones that look after their “citizens” with tax monies and custodial oversight of behavior, generate widespread loyalty because of their uninhibited paternalism and because the people are made to believe they consent to having their brains laundered. This is a political success story unparalleled in human history. And the fact that some naughty Germans, who live in the most intellectually controlled society in the West, dare to take a prurient glance at Sarrazin’s politically incorrect observations does not mean that the nation of Hitler, Ulbricht, and Merkel has rediscovered its independence. Germans still overwhelmingly back their police-state with votes. Until about a year ago, this was equally true of Sarrazin, who came out of the very politically correct Social Democrats and who seems shocked that the party bosses expelled him.

Two, although the “oligarchs” climbed to power as enactors of democratic equality through public administration, once ensconced with a massive electorate and equipped with public money and a vast welfariate, these pests are damned hard to remove. In fact barring a major catastrophe, it seems inconceivable that they can be driven from power. And under catastrophe, I do not mean having the unemployment rate, including multiple wage earners in families, rise from ten to eleven percent, or having European inner cities fill up with crime-prone Third World immigrants. The populace can live with these discomforts, and since their authority structure is interpreting for their benefit what is going on in their society while providing social programs, the voters will not likely make much of a fuss.

Moreover, even the non-programmed complaining we now hear is being explained by the media as racism, xenophobia, and anti-Semitism. This censure may be enough to force most of the populace to move back into line. In Germany the acceptable Right shows how moderately “conservative” it is by voting for Merkel and other anti-fascist centrists, while in the US FOX-news and the Weekly Standard are leading our so far fictitious counter-revolution toward a return to a GOP Congress. Fjordman may see things differently, but then our purposes are different. While he’s into happy talk, I’m trying to understand why the current oligarchs have done so well for so long. And I find absolutely no evidence that their string of successes will not continue into the indefinite future.

dimanche, 19 septembre 2010

Chantage au "nazisme" à la SNCF

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Chantage au « nazisme » à la SNCF

Les commandes sont particulièrement attrayantes car elles impliquent d’énormes sommes d’argent, soit, plus de 35 milliards d’euro. C’est la somme que devrait mobiliser le plus grand projet ferroviaire de l’histoire des Etats-Unis. D’ici à l’année 2030, des liaisons TGV devraient être mises en oeuvre entre Los Angeles et San Francisco, d’une part, et entre Sacramento et San Diego, d’autre part. Au cours des prochaines décennies, des tracés similaires devraient être installés et exploités dans plus de dix régions des Etats-Unis, car le Président Obama veut étoffer et moderniser les chemins de fer américains. L’Etat écologique qu’est la Californie devrait jouer un rôle de pionnier dans ce projet. Sur le modèle du TGV français, l’Etat californien devrait, d’ici 2020, construire un nouveau tracé, pour éviter toutes éventuelles collisions avec les trains de marchandises, plus lents. La SNCF et la firme Alstom, qui construit les TGV, espèrent recevoir les avances nécessaires pour une partie des commandes. Mais en Californie, une résistance est en train de se former : la commande formidable qu’espèrent obtenir les Français risque de capoter face à une clause, évoquant le « nazisme ».

 

Blumenfield_070910.jpgLe Sénat de Californie vient d’entériner une proposition de loi spéciale formulée par le député Bob Blumenfield (photo), élu du Parti Démocrate. Le 1 janvier 2011, des conditions particulières pourront être imposées, dont l’objectif est de demander d’énormes compensations, sous prétexte que les chemins de fer français ont joué un certain rôle pendant la seconde guerre mondiale. Blumenfield et ses alliés visent essentiellement la déportation des juifs entre 1942 et 1944. Ils reprochent à la SNCF d’avoir participé au transport de déportés en direction des camps de concentration. L’entreprise d’Etat française refuse depuis des années d’accepter toute forme de responsabilité en cette affaire. Blumenfield rétorque : « Maintenant, on voit arriver cette entreprise en Californie en voulant prendre une part de la plus grande commande publique de l’histoire de notre Etat. Je pense que si une entreprise veut obtenir l’argent du contribuable, elle doit assumer la responsabilité de ses actes dans le passé ». La SNCF doit dès lors payer un dédommagement aux survivants des camps de concentration.

 

De fait, plusieurs procès ont déjà eu lieu en France, concernant les transports de déportés juifs, qui ont eu lieu pendant l’occupation allemande du pays. En 2006, la SNCF a été reconnue coupable mais une juridiction, en appel, a tranché en faveur des chemins de fer, annulant ainsi le premier jugement. Ensuite, le Conseil d’Etat, soit la plus haute juridiction en France, a déclaré, fin 2009, qu’il ne prendrait pas de décision contraire en cette affaire. Tout jugement qui irait dans le sens voulu par Blumenfield ne pourrait donc être prononcé qu’aux Etats-Unis ; dans ce pays, toutefois, un groupe de plusieurs survivants des persécutions nationales-socialistes à l’encontre des Juifs, ont introduit une plainte contre la SNCF auprès d’un tribunal de New York. Outre des dédommagements, ces plaignants réclament aussi, d’après certaines sources, que la SNCF ne puisse plus faire fonctionner des chemins de fer sur le territoire des Etats-Unis, comme le fait la société Keolis depuis peu en Virginie du Nord.

 

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Denis Douté, responsable principal de la SNCF aux Etats-Unis, rejette les reproches formulés contre les chemins de fer français, en avançant l’argument que les cheminots français ont agi « sur ordre de l’occupant » et ont, de surcroît, été très « actifs dans la résistance contre le nazisme ». Et il a ajouté : « Il existe en France, en Israël et aux Etats-Unis une commission très active qui a traité environ 24.000 cas et a payé des dédommagements pour un montant de plus de 550 millions de dollars ». Blumenfield estime, pour sa part, que cette déclaration de Douté, et ces compensations effectivement payées, ne doivent nullement empêcher le paiement de futurs dédommagements.  Il rappelle que de nombreuses entreprises, notamment allemandes, ont payé des dédommagements bien plus élevés, « indépendamment de leur Etat ou de leurs actionnaires », ou « ont créé des fonds ou pris d’autres initiatives ». « La différence avec la SNCF, c’est que celle-ci n’a rien mis en œuvre qui soit similaire », ajoute Blumenfield, qui, en outre, estime que le travail, entrepris jusqu’ici pour corriger l’histoire officielle de l’entreprise, n’est qu’une « fausse idéalisation ».

 

H. W.

(article paru dans DNZ/Munich – n°35/2010).

samedi, 18 septembre 2010

La Colombie dénonce les accords militaires qui la lient aux Etats-Unis

La Colombie dénonce les accords militaires qui la lient aux Etats-Unis

 

COLOMBIE-I-_Converti_-2.jpgC’est une fin de non recevoir claire et nette que le tribunal constitutionnel colombien a adressé aux Etats-Unis. L’objet de cette décision était un accord militaire contesté, qui aurait permis à l’armée américaine d’utiliser sept bases militaires sur territoire colombien. Le tribunal suprême de ce pays latino-américain vient de décider que le traité signé à la fin de l’année dernière entre Bogota et Washington doit être déclaré nul et non avenu.

 

Les prédécesseurs du gouvernement du nouveau président Juan Manuel Santos avaient réglé l’affaire sans en référer au Congrès colombien. Après le prononcé des juges, la décision est désormais entre les mains du Parlement, qui pourra accepter ou refuser les accords et les couler éventuellement en un traité international.  Washington et l’ancien gouvernement colombien avaient justifié la signature de ce pacte en prétextant la lutte contre les cartels de la drogue. Un document émanant du Pentagone laisse entrevoir que les intentions réelles étaient autres. Ce document, en effet, révèle que les Etats-Unis ont l’intention d’étendre leur contrôle à d’autres régions de l’Amérique du Sud. Par conséquent, explique le document, l’autorisation d’utiliser notamment la base aérienne de Palanquero, située au centre du territoire colombien, offrirait « la possibilité unique, de mener des opérations dans une région ‘critique’ sur laquelle des ‘gouvernements anti-américains’ exercent leur influence ».

 

En utilisant ces bases colombiennes, les forces armées américaines pourraient effectivement contrôler l’ensemble de la région amazonienne, le Pérou et la Bolivie. La base de Palanquero offrirait, explicite encore le document stratégique de l’US Air Force, « une mobilité aérienne suffisante » sur le continent sud-américain. Actuellement, plus de 300 soldats américains sont stationnés en Colombie.

 

Cette coopération militaire avec les Etats-Unis a isolé la Colombie et fait de tous ses voisins des adversaires. C’est bien entendu le Venezuela qui se sent visé en premier lieu. A ce propos, l’historien colombien Gonzalo Sanchez a écrit : « Les Etats-Unis veulent surtout obtenir le contrôle de l’espace amazonien, avec toutes les ressources qu’il recèle, et surveiller le Brésil, puissance mondiale en pleine ascension ».

 

H.W.

(article paru dans DNZ, Munich – n°35/2010).

mardi, 07 septembre 2010

Lovecraft's Politics

Lovecraft’s Politics

To many of his admirers, the scariest things H. P. Lovecraft wrote were not about Cthulhu, they were about politics. But, as I hope to show, the politics of this master of looming, irrational, metaphysical horror are solidly grounded in reality and reason.

Lovecraft, like many of the literati who turned to Left- or Right-wing politics early in the 20th century, was concerned with the impact of capitalism and technology on society and culture. The economic reductionism of capitalism was simply mirrored by Marxism, both of them emanations of the same modern materialist Zeitgeist.

Beginning in the late 19th century, a pervasive discontent with materialism led to a search for an alternative form of society, including alternative foundations for socialism, which occupied Europe’s leading socialist minds like Georges Sorel. What emerged early in the 20th Century was variously called “neosocialism” and “planism,” the most prominent exponents of which were Marcel Deat in France and Henri De Man in Belgium. Neosocialism, in turn, influenced the rise of fascism.[1]

Neosocialists primarily feared that the material abundance and leisure promised by socialism would lead to decadence and banality unless joined to a hierarchical vision of culture and education.

This was, for instance, the focus of Oscar Wilde’s The Soul of Man under Socialism, which envisioned an individualistic socialism that liberated humanity from economic necessity to pursue self-actualization and higher cultural and spiritual activities, even if these consisted of nothing more than quietly contemplating the cosmos.[2]

Such concerns cannot be dismissed as effete dandyism. They were shared, for instance, by the famous Depression era New Zealand Labour politician John A. Lee, a one-armed hero of the First World War who more than any other individual tried to pressure the 1935 Labour Government into keeping its election pledges on banking and state credit.[3] In Lee’s words:

Joe Savage . . . sees socialism as piles of goods fairly equitably divided and work equitably divided. I am sure he never sees it as the opportunity to play football, get brown on a beach, dance a fox trot, lie on one’s back beneath the trees, enjoy the intoxication of verse, the perfume of flowers, the joys of a novel, the thrill of music.[4]

Lee envisioned a form of socialism that was not directed primarily towards “piles of goods and work equitably distributed” as an end in itself, but as the means of achieving higher levels of being.

These neosocialist concerns were also shared by the fascists and National Socialists. Combating the enervating and leveling effects of wealth and leisure, and edifying the characters and tastes of the masses were the goals of Dopolavoro in Fascist Italy and Strength Through Joy in National Socialist Germany, as disquieting as this thought may be to socialists of the Left.

While it seems unlikely that Lovecraft was aware of this ideological tumult in European socialism, he arrived at similar conclusions in some key areas.

Lovecraft, like other writers who rejected Marxism,[5] deemed both democracy and communism “fallacious for Western Civilization.”[6] Instead, Lovecraft favored:

. . . a kind of fascism which may, whilst helping the dangerous masses at the expense of the needlessly rich, nevertheless preserves the essentials of traditional civilization and leaves political power in the hands of a small and cultivated (though not over-rich) governing class largely hereditary but subject to gradual increase as other individuals rise to its cultural level.[7]

Lovecraft feared that socialism, like capitalism, would pave the way for universal proletarianization and the consequent leveling of culture. Thus he proposed instead full employment and the shortening of the work day through mechanization under the cultural guidance of an aristocratic socialist-fascist regime.

This again was probably a perceptive insight arrived at independently by Lovecraft, but it was very much a part of the new economic thinking of the time. In England, the Fabian-socialist review, The New Age, edited by guild-socialist A. R. Orage, became a forum for discussing Maj. C. H. Douglas’ “Social Credit” theory, which was proposed as an alternative to the debt finance system, with the issue of a “social credit” to all citizens through a “National Dividend” allowing the full value of production to be consumed. They also aimed at fostering mechanization to decrease work hours and increase leisure, which they thought would be conducive to the blossoming of culture. (These ideas have renewed relevance as the eight-hour workday, the long-fought gain of the early labor movement, is becoming a rarity.)

Both Ezra Pound and New Zealand poet Rex Fairburn were Social Crediters because they judged it the best economic system for the arts and culture.

Lovecraft was concerned at the elimination of the causes of social revolution, and he advocated the limitation of the vast accumulation of wealth, while recognizing the need to maintain wage disparities based on merit. His concern was the elimination of the “commercial oligarchs,”[8] which in practical terms was the purpose of Social Credit and of the neosocialists.

While regarding the primary goal of a nation to be the development of high aesthetic and intellectual standards, Lovecraft recognized that such a society must be based on the traditional social organization of “order, courage and endurance,” his definition of civilization being that of a social organism devoted to “a high qualitative goal” maintained by the aforesaid ethos.

Lovecraft thought the hierarchical social order best fitted to the practicalities of the new machine age was a “fascistic one.” The “demand-supply motive” would replace the profit motive in a state-directed economy that would reduce working hours while increasing leisure hours. The citizen could then be elevated culturally and intellectually as far as innate abilities allowed, “so that this leisure will be that of a civilized person rather than that of a cinema-haunting, dance-hall frequenting, pool-room loafing clod.”

Lovecraft saw no wisdom in universal suffrage. He advocated a type of neo-aristocracy or meritocracy, with voting rights and the holding of public office “highly restricted.” A technological, specialized civilization had rendered universal suffrage “a mockery and a jest.” He wrote that, “People do not generally have the acumen to run a technological civilization effectively.” This anti-democratic principle Lovecraft held to be true regardless of one’s social or economic position, whether as menial laborer or as an academic.

The uninformed vote upon which democracy rests, Lovecraft wrote, “is a subject for uproarious cosmic laughter.” The universal franchise meant that the unqualified, generally representing some “hidden interest,” would assume office on the basis of having “the glibbest tongue” and “the flashiest catch-words.”

His reference to “hidden interests” can only refer to his understanding of the oligarchic nature of democracy. This would have to be replaced by “a rational fascist government,” where office would require a prerequisite test of knowledge on economics, history, sociology and business administration, although everyone—other than unassimilable aliens—would have the opportunity to qualify.[9]

A year after Mussolini took power in 1922 Lovecraft wrote that, “Democracy is a false idol—a mere catchword and illusion of inferior classes, visionaries and dying civilizations.” He saw in Fascist Italy “the sort of authoritative social and political control which alone produce things which make life worth living.”

This was also why Ezra Pound admired Fascist Italy, writing “Mussolini has told his people that poetry is a necessity to the state.”[10] And: “I don’t believe any estimate of Mussolini will be valid unless it starts from his passion for construction. Treat him as artifex and all the details fall into place. Take him as anything save the artist and you will get muddled with contradictions.”[11]

Such figures as Pound, Marinetti, and Lovecraft viewed fascism as a movement that could successfully subordinate modern technological civilization to high art and culture, freeing the masses from a coarse and brutalizing commoditized popular culture.

Lovecraft thought the cosmos indifferent to mankind and concluded that the only meaning of human existence is to reach ever higher levels of mental and aesthetic development. What Sir Oswald Mosley called actualization to Higher Forms in his post-war thinking,[12] and what Nietzsche called the goal of Higher Man and the Overman,[13] could not be achieved through “the low cultural standards of an underdeveloped majority. Such a civilization of mere working, eating drinking, breeding and vacantly loafing or childishly playing isn’t worth maintaining.” It is a form of lingering death and is particularly painful to the cultural elite.

Lovecraft was heavily influenced by Nietzsche and Oswald Spengler.[14] He recognized the organic, cyclic nature of cultural birth, youthfulness, maturity, senility and death as the basis of the history of the rise and fall of civilizations. Thus the crisis brought to Western Civilization by the machine age was not unique. Lovecraft cites Spengler’s The Decline of The West as support for his view that civilization had reached the cycle of “senility.”

Lovecraft saw cultural decline as a slow process that spans 500 to 1000 years. He sought a system that could overcome the cyclical laws of decay, which was also the motivation of Fascism.[15] Lovecraft believed it was possible to re-establish a new “equilibrium” over the course of 50 to 100 years, stating: “There is no need of worrying about civilization so long as the language and the general art tradition survives.” The cultural tradition must be maintained above and beyond economic changes.[16]

In 1915 Lovecraft established his own political journal called The Conservative, which ran for 13 issues until 1923. The focus of the journal was defending high cultural standards, particularly in the field of Letters, but it also opposed pacifism, anarchism,  and socialism and supported “moderate, healthy militarism” and “Pan-Saxonism,” meaning “the domination of English and kindred races over the lesser divisions of mankind.”[17]

Like the neosocialists in Europe, Lovecraft opposed the materialistic conception of history as being equally bourgeois and Marxist. He saw Communism as “destroying the zest for life” for the sake of a theory.[18] Rejecting economic determinism as the primary motive of history, he saw “natural aristocrats” arising from all sectors of a population regardless of economic status. The aim of a society was to substitute “personal excellence for that of economic position”[19] which is, despite Lovecraft’s declared opposition to “socialism,” nonetheless essentially the same as the “ethical socialism” propounded by Henri De Man, Marcel Deat et al. Lovecraft saw Fascism as the attempt to achieve this form of aristocracy in the context of modern industrial and technological society.

Lovecraft saw the pursuit of “equality” as a destructive rationale for “an atavistic revolt” against civilization by those who are uneasy with culture. The same motive was the root of Bolshevism, the French Revolution, the “back to nature” cult of Rousseau, and the 18th Century Rationalists. Lovecraft saw that the same revolt was being taken up by “backward races” under the leadership of the Bolsheviks.[20]

These views are clearly Nietzschean, but they even more specifically resemble those of The Revolt Against Civilization: The Menace of the Underman[21] by the then popular author Lothrop Stoddard, whose work would certainly have attracted Lovecraft, with his concern for the maintenance and rebirth of civilization and rejection of leveling creeds.

Although Lovecraft rejected egalitarianism, he did not advocate a tyranny that represses the masses for the benefit of the few. Instead, he viewed elite rule as a necessary means for achieving the higher goals of cultural actualization. Lovecraft wished to see the elevation of the greatest number possible.[22] Lovecraft also rejected class divisions as “vicious,” whether emanating from the proletariat or the aristocracy. “Classes are something to be gotten rid of or minimized—not to be officially recognized.” Lovecraft proposed to replace class conflict with an integral state that reflected the “general culture-stream.” Between the individual and the state would exist a two-way loyalty.

Lovecraft regarded pacifism as an “evasion and idealistic hot air.” He declared internationalism “a delusion and a myth.”[23] He saw the League of Nations as “comic opera.”[24] Wars are a constant in history and must be prepared for via universal conscription.[25] Historically war had strengthened the “national fiber,” but mechanized warfare had negated the process; in fact the mass technological destruction of the First World War was widely recognized as dysgenic. Nonetheless the European, and specifically the Anglo-Saxon, must maintain his supremacy through firepower, for “a foeman’s bullet is sweeter than a master’s whip.”[26] However, as one might expect from an anti-materialist, Lovecraft repudiated the typical modern cause of warfare, that of fighting for mercantile supremacy, “defense of one’s own land and race [being] the proper object of armament.”[27]

Lovecraft saw Jewish representation in the arts as responsible for what Francis Parker Yockey would call “culture distortion.” New York City had been “completely Semiticized” and lost to the “national fabric.” The Semitic influence in literature, drama, finance, and advertising created an artificial culture and ideology “radically hostile to the virile American attitude.” Like Yockey, Lovecraft saw the Jewish Question as a matter of an “antagonistic culture-tradition” rather than as a difference of race. Thus Jews could theoretically become assimilated into an American cultural tradition. The Negro problem, however, was one of biology and must be recognized by maintaining “an absolute color-line.”[28]

This brief sketch is sufficient, I think, to show that H. P. Lovecraft belongs among an illustrious list of 20th century creative geniuses—including W. B. Yeats, Ezra Pound, D. H. Lawrence, Knut Hamsun, Henry Williamson, Wyndam Lewis, and Yukio Mishima—whose rejection of materialism, egalitarianism, and cultural decadence caused them to search for a vital, hierarchical alternative to both capitalism and communism, a search that led them to entertain and embrace proto-fascist, fascist, or National Socialist ideas.

Notes

[1] Zeev Sternhell, Neither Left Nor Right: Fascist Ideology in France (Princeton: Princeton University Press, 1986).

[2] Oscar Wilde, The Soul of Man Under Socialism, 1891.

[3] After the tour of C. H. Douglas to New Zealand, the banking system and usury were very well understood by the masses of people, and banking reform was a major platform that achieved Labour’s victory. As it transpired, they attempted to renege, but Lee succeeded in getting the Government to issue 1% Reserve Bank state credit to build the iconic and enduring State Housing project that in one fell swoop reduced unemployment by 75%. Lee soon became a bitter opponent of the opportunism of the Labour politicians. However the state credit, albeit forgotten by most, stands as a permanent example of how a Government can bypass private banking and issue its own credit.

[4] Erik Olssen, John A. Lee (Dunedin, New Zealand: University of Otago Press, 1977), p. 66.

[5] K. R. Bolton, Thinkers of the Right (Luton: Luton Publications, 2003).

[6] H. P. Lovecraft: Selected Letters, ed. August Derleth and James Turner (Wisconsin: Arkham House, 1976), Vol. IV, p. 93.

[7] Selected Letters, vol. IV, p. 93.

[8] Selected Letters, vol. V, p. 162.

[9] Selected Letters, vol. IV, pp. 105–108.

[10] Quoted by E. Fuller Torrey, The Roots of Treason (London: Sidgwick and Jackson, 1984), p. 138.

[11] Ezra Pound, Jefferson and/or Mussolini, 1935 (New York: Liveright, 1970), pp. 33–34.

[12] Oswald Mosley, Europe: Faith and Plan (London: Euphorion, 1958), “The Doctrine of Higher forms,” pp. 143–47.

[13] Friedrich Nietzsche, Thus Spoke Zarathustra (Middlesex: Penguin Books, 1975), “The Higher Man,” pp. 296–305. A glimpse of Nietzschean philosophy is alluded to in Lovecraft’s “Through the Gates of the Silver Key” where Carter discerns words from beyond the normal ken: “‘The Man of Truth is beyond good and evil,’ intoned a voice. ‘The Man of Truth has ridden to All-Is-One…’” (Lovecraft, The Dream Quest of Unknown Kadath [New York: Ballantine Books, 1982], “Through the Gates of the Silver Key,” p. 189).

[14] Oswald Spengler, The Decline of The West, 1928 (London: George Allen and Unwin, 1971).

[15] “Fascism . . . was a movement to secure national renaissance by people who felt themselves threatened with decline into decadence and death and were determined to live, and to live greatly.” Sir Oswald Mosley, My Life (London: Nelson, 1968), p. 287.

[16] Selected Letters, vol. IV, p. 323.

[17] H. P. Lovecraft, “Editorial,” The Conservative, vol. I, July 1915.

[18] Selected Letters, vol. IV, p. 133.

[19] Selected Letters, vol. V, pp. 330–33.

[20] Selected Letters, vol. V, p. 245.

[21] Lothrop Stoddard, The Revolt of Against Civilization: The Menace of the Underman (London: Chapman and Hall, 1922).

[22] Selected Letters, vol. IV, pp. 104–105.

[23] Selected Letters, vol. V, pp. 311–12.

[24] Selected Letters, vol. IV, pp. 15–16.

[25] Selected Letters, vol. IV, p. 22.

[26] Selected Letters, vol. IV, pp. 311–12.

[27] Selected Letters, vol. IV, p. 31.

[28] Selected Letters, vol. IV, pp. 193–95.