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mercredi, 06 janvier 2010

Lovecraft, il bambino che invento l'horror

Lovecraft, il bambino che inventò l'horror

di Francesco Boco

 
Articolo di Francesco Boco
Dal Secolo d'Italia di sabato 6 settembre 2008 / Ex: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

Gli anniversari, si sa, sono un’ottima occasione per rispolverare, o scoprire ex novo, i grandi autori. In questo scorcio d’estate, dunque, vale la pena soffermarsi su uno dei maestri indiscussi della letteratura horror e di fantascienza, insieme a Edgar Allan Poe: Howard Philips Lovecraft, del quale si è da poco celebrato il l’anniversario della nascita.
Nichilista. Cinico. Freddo. Così, di recente l’Espresso ha definito lo scrittore francese Michel Houellebecq, autore de Le particelle elementari, vicende di uomini in cerca di un nucleo. Ma quelle tre incisive e rapide parole possono ben adattarsi a descrivere l’autore a cui lo stesso romanziere francese dedicò il suo primo libro nel 1991: H. P. Lovecraft – contro il mondo, contro la vita (Bompiani). Il pamphlet è agile e gradevole, in ossequio al costume francese. Si fa portare volentieri in tasca per essere letto durante una passeggiata, pur non trattando di argomenti propriamente “allegri”. È un suggestivo colpo d’occhio sulla vita e l’opera dello scrittore americano.
Lovecraft, che molto più che autore “di genere” è uno dei maggiori scrittori americani del secolo scorso, nasce il 20 agosto 1980 nel Rhode Island, da un’agiata famiglia borghese. Perde presto il padre e si affeziona molto al nonno Whipple Phillips, dal quale eredita la ricca biblioteca e la passione per la lettura. Tra quegli scaffali il giovane Howard conosce la grande letteratura, le scienze e la mitologia e la sua fantasia inizia a viaggiare, tanto che a sette anni è già autore di brevi racconti fantastici e inizierà presto a essere affascinato dall’inanimato e dal maestoso.
Dopo una crisi nervosa, durante la quale stracciò quasi totalmente i suoi scritti giovanili, nel 1913 viene contattato per degli articoli scientifici dalla United amateur press association, collaborazione che poi si concretizzerà dal 1919, anno in cui Lovecraft riprenderà con entusiasmo l’attività narrativa, potendo finalmente trovare uno sbocco espressivo, seppure amatoriale, ai suoi scritti. Ispirato da grandi maestri come Lord Dunsany, William Hope Hodgson e Arthur Machen scrisse racconti dell’orrore “classico” come La tomba, La dichiarazione di Randolph Carter o Il terribile vecchio, a cui ben presto si affiancarono racconti anticipatori dell’universo mitico per cui è diventato celebre: Dagon (1917) e Nyarlathotep (1920). In questi ultimi ad esempio s’iniziano a intravedere le titaniche e folli città dei “grandi antichi”, gli dèi mostruosi che gorgogliano nell’oscurità stellare. Stupefacenti racconti di fantascienza dove si parla di dimensioni in bilico tra la veglia e il sogno, in cui mostruosi intermediari degli “altri Dèi” e creature informi iniziano a fare la loro comparsa. Con i racconti degli anni seguenti, Lovecraft darà vita al “ciclo di Cthuluh” e a quello di Randolph Carter.
Nel 1923 esce il primo numero della rivista di “science-fiction” Weird Tales, il primo magazine professionale dedicato ai racconti del fantastico e che negli anni costituirà per Howard Phillips il principale sbocco pubblicistico. Nel marzo del 1924 si trasferisce a New York con la giovane moglie Sonia Greene. Qui Lovecraft non si sentirà mai a suo agio. Da “socialista reazionario”, profondamente conservatore e puritano, non riuscirà ad adattarsi alla vita della grande metropoli e la sua paura e avversione per gli immigrati lo travolgerà con delle punte di xenofobia ben note ai critici letterari. A New York prosegue intanto il suo ingrato lavoro di correttore di bozze, che spesso però si trasforma in vera e propria riscrittura di racconti per conto terzi. Tanto che l’edizione completa dei racconti per Mondadori include anche quelli scritti in “collaborazione”. Lo stesso anno, ad esempio, scrisse Sotto le piramidi, su commissione del mago Houdini; perdutolo alla stazione di Providence, dovrà riscriverlo in luna di miele. A New York Lovecraft cerca un impiego, ma il disprezzo per il “business” e la vita movimentata della città lo rendono ben presto insofferente e fu ben felice di fare ritorno alla sua amata Providence nel 1926, in seguito a un trasferimento della moglie nel Midwest per opportunità di lavoro.
Mentre il matrimonio finirà di lì a breve, la sua vena creativa, dopo l’avvilente periodo trascorso nella Grande Mela, è assai prolifica e in questo periodo compaiono molti dei suoi racconti migliori e più famosi. Lo straordinario Il caso di Charles Dexter Ward, Il colore venuto dallo spazio fino al romanzo breve Le montagne della follia (1931). Quest’ultimo era un omaggio al grande Edgar Allan Poe. Si ispirava e proseguiva in quale modo le vicende del romanzo Le avventure di Gordon Pym, prolungandone le suggestioni sull’esplorazione dell’Antartide, allora ancora inesplorato.
I mostruosi miti stellari lovecraftiani prendono forma, compaiono Cthuluh, un terribile incrocio tra un polipo, un toro e un essere volante, altre creature fatte di spore o colori mai visti e così via. La fantasia del “solitario di Providence” è di una vastità e di una potenza straordinarie e la sua scrittura fredda, quasi medica, non fanno che accentuare il senso di disagio e inquietudine che i racconti trasmettono al lettore. L’anno scorso Bompiani ha raccolto, a cura di Gianfranco de Turris, i testi del ciclo di Randolph Carter sotto il titolo Il guardiano dei sogni. Questa interessante iniziativa editoriale presenta un lato meno conosciuto dello scrittore di “cosmic horror”: ci troviamo davanti a una serie di racconti del fantastico che solo in parte hanno a che vedere con l’orrore extraterrestre dei Grandi Antichi. È la vicenda di un lungo viaggio avventuroso, in cui magia e mito, oscurità e luce, s’intrecciano con un ritmo incalzante. Le suggestioni egizie amate da Howard si intravedono nella splendente Città del tramonto e la magia dei gatti lo segue per tutto il viaggio. Si respira un’aria esotica e come rileva giustamente il curatore, qui Lovecraft/ Carter è un novello Ulisse, un cercatore, un viandante che va in cerca della città meravigliosa, e finirà per trovare se stesso. È un racconto che conserva, come molti dell’autore, una costruzione mitica, ma l’immaginazione e il sogno hanno un ruolo determinante. E Lovecraft continua a interrogarci beffardo sulla realtà dei nostri sogni.
Ciò che negli anni ha reso grande questo autore è stata la capacità di superare i vecchi canoni del racconto “gotico” per raggiungere nuove capacità espressive e nuove dimensioni dell’orrore. La paura è inestirpabile dall’animo umano, diceva, e su questo sentimento così radicato egli insistette con grande intensità in tutta la sua opera. Come accennato nasce con Lovecraft l’orrore cosmico, l’orrore cioè che richiama dimensioni altre, al di là di quella semplicemente umana e terrestre. La dimensione del sogno e l’irrazionale fanno la loro comparsa nel mondo e finiscono con l’annientare la vita umana. Il mondo dell’uomo sembra davvero nulla al cospetto dei “grandi antichi”, immobili creature senza vita e senza morte, che scrutano dai più lontani abissi stellari la piccola terra.
Inventò anche la leggenda attorno al libro maledetto chiamato Necronomicon, un trattato blasfemo e proibito in cui sarebbero contenute le formule per evocare i “grandi antichi”. Attorno al mito di questo libro misterioso è fiorita tutta una letteratura fantastica di amanti dell’immaginario e dell’irreale.
L’universo lovecraftiano ha influenzato moltissimi autori contemporanei di racconti dell’orrore o del fantastico, da Stephen King a Fritz Lieber fino al giovane Neil Gaiman artefice del postmoderno e sognante American Gods. Il mondo dei videogiochi è a sua volta debitore all’immaginario legato agli orrori stellari, è il caso della serie Alone in the dark, e anche il cinema ha più volte cercato di omaggiare, con risultati davvero da dimenticare, il maestro di Providence. Tra i pochi, merita d’essere ricordato l’anticonformista John Carpenter, che è riuscito a rendere omaggio a Lovecraft col film Il seme della follia (titolo originale In the Mouth of Madness, che gioca evidentemente con il già citato racconto Le montagne della follia).
Recentemente anche il bonelliano Martin Mystère si è richiamato ampiamente alla mitologia di Cthuluh e orrori vari nel numero di giugno/luglio dal titolo “L’orrore oltre la soglia”, dove tra misteriose cripte e incisioni incomprensibili spunta persino un viscido e gigantesco Cthuluh pronto a fare la pelle agli intrepidi che hanno osato risvegliarlo.
Howard Phillips Lovecraft merita davvero di essere ricordato. La sua influenza sulla letteratura e l’immaginario è immensa e, nonostante le condanne di alcuni censori alla Moorcock, le poche parole incise sulla lapide ancora tengono viva la memoria di un uomo che davvero è diventato un simbolo, e che a ragione ha potuto dire di sé: «Io sono Providence».
Francesco Boco. Nato nel 1984, è specializzando in Filosofia con una tesi su Oswald Spengler e Martin Heidegger. Ha tradotto e curato il saggio di Guillaume Faye su Heidegger, Per farla finita col nichilismo. Collabora a quotidiani e riviste, tra cui: Secolo d’Italia, Letteratura-Tradizione, Divenire e siti web come http://www.uomo-libero.com/ .

Démocratie américaine et dialectique de la liberté

estados-unidos.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Démocratie américaine et dialectique

de la liberté

à propos d'un livre de Gottfried Dietze

 

par Hans-Dietrich SANDER

Parmi les livres dignes d'intérêt récemment pa­rus, et soumis à la conspiration du silence, il y a l'ouvrage sur l'Amérique de Gottfried Dietze:

 

Gottfried Dietze, Amerikanische Demokratie — Wesen des praktischen Liberalismus,  Olzog Verlag, München, 1988, 297 S., DM 42.

 

Depuis longtemps déjà, l'auteur n'avait plus pu­blié d'articles dans la Frankfurter Allgemeine Zeitung  et dans Die Welt (Bonn). Il n'est plus membre de la Mount Pelerin Society.  Il s'en est retiré, parce qu'il ne lui a pas été permis de pro­noncer son discours sur Kant en langue alle­mande lors d'une diète de la dite société à Berlin! Mais personne en revanche n'a pu le traiter de «terroriste intellectuel». Gottfried Dietze est pro­fesseur ordinaire de «théorie comparée des pou­voirs» à la John Hopkins University de Baltimore, l'une des cinq universités les plus co­tées aux Etats-Unis (sa faculté occupe d'ailleurs la première place en son domaine). Ses travaux, il les publie en Allemagne chez J.C.B. Mohr (Paul Siebeck) et chez Duncker & Humblot, c'est-à-dire chez les meilleurs éditeurs de matières polito­logiques. La maison Olzog, qu'il a choisie pour éditer son livre sur l'Amérique, ouvrage destiné à un public plus vaste, ne suscite pas davantage les colères des professionnels hystériques qui enten­dent façonner l'opinion publique selon leurs seuls critères. La démocratie ouest-allemande vient manifestement d'atteindre un seuil critique, où, désormais, ceux qui prononcent des paroles libres, claires, transparentes, passent pour des excentriques. Et, «notre démocratie», pour re­prendre les mots de son Président Richard v. Weizsäcker, ne peut pas se permettre des excen­triques politiques.

 

Critique du libéralisme pur et réminiscences tocquevilliennes

 

Dietze passe depuis longtemps déjà pour un ex­centrique dans notre bonne république. Pour être exact, depuis que le Spiegel a découvert, jadis, qu'il servait de conseiller au candidat à la Présidence américaine Barry Goldwater, et cela, au moment où la guerre du Vietnam atteignait son point culminant. Toute évocation de son nom, à l'époque, suscitait la suspicion. Il a tenté de re­venir en Allemagne, en y postulant un poste uni­versitaire. Sans succès. Le dernier des grands théoriciens du libéralisme politique n'est pas le bienvenu dans la République fédérale, acquise pourtant aux principes du libéralisme. Cette si­tuation n'est pas incompréhensible. Elle découle, d'une part, du rapport même que Dietze entretient avec l'idéologie libérale et, d'autre part, de son engagement politique aux côtés de Goldwater. La modestie de Dietze est telle, qu'il n'a pas osé pa­raphraser Kant dans les sous-titres de ses ou­vrages majeurs, Reiner Liberalismus (Le libéra­lisme pur) et Amerikanische Demokratie (La dé­mocratie américaine). Au premier, il aurait parfai­tement pu donner le titre de Kritik des reinen Liberalismus  (Critique du libéralisme pur); au second, Kritik des praktischen Liberalismus  (Critique du libéralisme pratique). Il aurait ainsi imité le grand penseur de Königsberg, avec sa Critique de la raison pure  et sa Critique de la rai­son pratique.

 

Le titre du livre qui me préoccupe ici, Amerikanische Demokratie,  paraphrase pourtant un autre grand théoricien politique, Alexis de Tocqueville, auteur de La démocratie en Amérique. Mais Dietze adopte une perspective critique à l'endroit des idées de Tocqueville. Il cherche à donner d'autres définitions aux con­cepts. Contrairement à Tocqueville, qui, il y a 150 ans, voulait explorer l'essence de la démo­cratie à la lumière de la démocratie américaine, Dietze cerne la démocratie américaine en soi, qui, dans la forme qu'elle connaît aujourd'hui, n'existait pas encore vers 1830-40, sa transfor­mation radicale par Andrew Jackson n'en étant qu'à ses premiers balbutiements. La démocratie américaine, explique Dietze, est fondamentale­ment différente des autres démocraties, ce qui la rend précaire quand elle est imposée à d'autres pays.

 

La néomanie américaine

 

Dietze approche son sujet en analysant les phé­nomènes et les discours de la quotidienneté amé­ricaine, de la banalité quotidienne de l'American Way of Life, qui, soutenu par cette bonne cons­cience typique du «Nouveau Monde», se présente comme une poussée incessante vers la nouveauté (Drang nach dem Neuen), vers tout ce qui est nouveau. Le concept américain de liberté repose sur un fondement problématique: en l'occurrence sur la volonté d'être toujours prêt à réceptionner cette nouveauté. Ensuite, ce concept trouve son apogée dans la notion de Manifest Destiny, du destin et de la mission de l'Amérique, qui est d'apporter cette liberté à tous les autres peuples. Dans la foulée de ses possibilités illimitées, la démocratie américaine n'a pas créé une forme spécifique de libéralisme politique mais des va­riations libérales toujours changeantes.

 

Ce type de démocratie a très fortement marqué le peuple américain et, à l'inverse, le peuple a mar­qué la démocratie américaine. Les origines des Etats-Unis, faites d'émigrations et d'immigrations, se sont transformées en migra­tions et en vagabondages, en manifestations et en agitations. Le résultat: une absence permanente de racines, qui trouve un parallèle saisissant dans le monde juif toujours dé-localisé (ent-ortet). Cette absence de racines est la condition première de la symbiose actuellement dominante. Contrairement aux symbioses d'antan, cette symbiose actuelle ne présente pas une panoplie de négations qui se combinent utilement à des positions données, mais une gamme de négations qui s'imposent sur la scène publique en se créant du tort les unes aux autres.

 

Une pulsion jamais assouvie de liberté jouissive

 

Le pouvoir du peuple en Amérique oscille ainsi de la démocratie élitaire à la démocratie égalitaire, de la démocratie représentative à la démocratie di­recte, de la démocratie limitée à la démocratie il­limitée. Quelle vue d'ensemble cela donne-t-il? Celle d'un «pot-pourri dans le melting pot»; par «melting pot», nous n'entendons pas, ici, le seul mélange des races et des ethnies. Ce jeu chao­tique dérive précisément de cette pulsion inces­sante vers la nouveauté et se maintient par la force intrinsèque dégagée par cette pulsion. Il dérive des droits inaliénables à jouir de la triade life, li­berty and pursuit of happiness, d'une liberté toujours plus grande qui se mesure surtout à la possession de biens matériels et à leur jouissance. Dans une telle optique, le pays n'est rien, l'individu est tout.

 

Ce serait bien là le perpetuum mobile  d'un monde totalement immanent, si la pulsion de li­berté n'était pas pluri-signifiante et à strates mul­tiples. Dans son analyse, Gottfried Dietze déploie une dialectique de la liberté, où sa position vis-à-vis du libéralisme prend des formes socratiques. En effet, le livre, en de longs passages, se lit comme un dialogue, où chaque facette est oppo­sée à son contraire (son négatif), si bien qu'à la fin, on débouche sur des questions ouvertes.

 

La pulsion de liberté du libéralisme pur n'est pas seulement dirigée contre les tyrans: elle s'épuise dans la lutte interne de concurrences diverses aux frais des autres. Cela ne nous mène pas seule­ment à la lutte hobbesienne de tous contre tous, lutte où apparaîtrait juste la crainte de Hegel de voir l'homme considérer qu'une telle liberté au­torise et prône le vol, le meurtre et le désordre, mais aussi à une exploitation despotique de la mi­norité par la majorité, ce qui serait parfaitement conciliable avec le libéralisme, parce qu'il exige plus de liberté pour l'individu sans regard pour les autres.

 

La transposition de cette émancipation dans le domaine de la libido, comme on a pu l'observer au cours de ces dernières décennies en Amérique, fait que cette pulsion, sans regard pour autrui, qui poursuit sa quête insatiable de bonheur conduit à une «jungle sexuelle» que Hobbes n'avait pas pu imaginer.

 

Une symbiose entre

Jefferson et Freund

 

La permissivité engendrée par la lutte concurren­tielle outrancière et la multiplication des contacts sexuels, où la question du bien et du mal n'est plus posée, a forgé une symbiose entre Jefferson et Freud, dont les conséquences excessives ne peuvent surgir qu'en Amérique: «Les idées de Freud, telles qu'elles ont été prises en compte et perçues par les Américains, ont complété celles de Jefferson —du moins dans les interprétations qu'elles avaient acquises au cours du temps; elles les ont complétées de façon telle que le pensée li­bérale ancrée dans ce peuple s'est vue considéra­blement élargie, s'est apurée à l'extrême et s'est détachée de tout contexte axiologique».

 

Sur le plan de la liberté, nous apercevons très vite la différence essentielle entre Tocqueville et Dietze. Tocqueville voyait une démocratie améri­caine liée à l'idée d'égalité, suscitant une tendance générale et progressive à expulser toute notion de liberté. Dietze, au contraire, voit dans la liberté le pôle adverse de la démocratie et de l'égalité; et, pour lui, la liberté est tout aussi illusoire que la démocratie et l'égalité. Ce que Tocqueville crai­gnait jadis, soit de voir advenir une dictature égalitaire de la démocratie, n'a pas eu lieu: la pulsion de liberté s'y est sans cesse heurtée et en a émoussé les contours.

 

La pulsion de liberté, en tant que fondement ul­time du libéralisme à l'américaine, s'est toujours mise en travers de toutes les mesures de contrôle, d'équilibrage et de conservation. Sans ces me­sures, le libéralisme devient un mouvement anti-autoritaire. De ce fait, le despotisme de la majorité et le mouvement anti-autoritaire sont les extrêmes du libéralisme pratique, extrêmes qui se rejoi­gnent dans le libéralisme pur. Prenons deux exemples.

 

Une presse libre qui censure

ce qui ne lui plaît pas

 

Le premier montre comment l'expression «presse populaire» a acquis un sens ambigu. La presse, qui, à l'origine, était un instrument servant à presser des lettres sur du papier, a fini très vite par presser ses vues dans les cerveaux du peuple, à la manière la plus libérale qui soit: «L'ancienne liberté de presse, soit la liberté de la presse vis-à-vis de toute censure étatique, s'est transformée radicalement: elle est devenue liberté pour la presse de censurer, dénoncer et vilipender l'Etat, des citoyens individuels et des groupes précis de la société d'une manière éhontée, nuisant aux cibles infortunées et profitant à ceux qui usent et abusent de cette liberté. Cette situation s'observe dans tous les pays où la presse est libre mais elle est plus frappante encore aux Etats-Unis, écrit Dietze, le plus libéral des pays».

 

Le deuxième exemple nous montre les possibili­tés illimitées que laisse entrevoir le jeu de mot democracy/democrazy,  où le «pouvoir du peuple» apparaît comme l'«enfollement du peuple». Dietze souligne à plusieurs reprises que la quintessence de la démocratie américaine ne permet pas de percevoir cet «enfollement» comme une dégénérescence. Car la quintessence de la démocratie américaine, c'est que son libéralisme est réellement sans principes, dépourvu de tout point de référence éthique et de toute forme de responsabilité.

 

Les déceptions des Européens face à l'extrême versatilité américaine ne sont dès lors pas con­vaincantes: «Vu d'Amérique, vu du lieu où se bousculent toutes les variantes et variations du li­béralisme, il ne peut guère y avoir de déceptions nées du spectacle et du constat de comportements instables, du va-et-vient de la politique améri­caine. On ne peut être déçu que lorsque quelque chose évolue d'une façon autre, pire, que ce que l'on avait prévu. Mais, dans la démocratie améri­caine, qui se rapproche plus du libéralisme pur que n'importe quelle autre démocratie, on ne doit guère s'attendre à une politique constante. Toute constance y disparaît sous la pression des sou­haits et des désirs des individus et du peuple, mus par l'humeur du moment».

 

Anarchie et volonté de simplification outrancière

 

Au point culminant de ses analyses enjouées et sans pitié, qui rappellent celles de Machiavel, Dietze cite le poète irlandais William Butler Yeats: «Things fall apart; the center cannot hold; Mere anarchy is loosed upon the world»  («Les choses se disloquent; le centre ne maintient plus rien; une anarchie brute envahit le monde»). Pour Dietze, Yeats, dans cette phrase résume l'essence du libé­ralisme pur. Quand cette situation d'anarchie est atteinte, toute dialectique de liberté prend fin.

 

Dietze explique ensuite le processus dans son moteur intime et profond: «Bien des signes nous l'indiquent: la complexité croissante de la vie a éveillé une nostalgie du simple, du pur, avec des simplifications outrancières, si bien que la démo­cratie n'apparaît même plus comme une forme politique dans le sens où l'entendaient Locke ou Rousseau mais bien plutôt comme l'entendait Bakounine». La démocratie à l'américaine est le catalyseur de ce courant sous-jacent fondamental: «Sans doute, très probablement, les évolutions du Nouveau Monde, avec la pulsion constante de changement qui règne là-bas, ont accéléré le pro­cessus. Car l'américanisation du monde est un fait que l'on ne saurait ignorer en ce siècle, que les Américains déclarent être le leur, même si le rêve d'une pax americana  est passé depuis long­temps».

 

La question finale que pose le livre de Dietze est la suivante: «Qu'adviendra-t-il de l'Amérique et de l'américanisme? Il faut attendre. L'avenir nous le dira». Question rhétorique ou question ma­cabre? Dietze prononce des vérités que l'on n'aime guère entendre dans la République de Bonn, où l'on considère la démocratie à l'américaine comme une sotériologie, pour ne pas dire comme une vache sacrée, alors que cette dé­mocratie a été instaurée en RFA comme un sys­tème provisoire mais qu'on s'est habitué à consi­dérer comme définitif. Ce sont des vérités que l'on n'aime guère entendre parce qu'elles sonnent justes. On préfère se boucher les oreilles.

 

Après la révolution populaire allemande de RDA, qui fait apparaître la démocratie de Bonn pour ce qu'elle est vraiment, soit un système provisoire, et la remet en question, il n'est pourtant plus possible de se boucher les oreilles. Les Alle­mands devront, en opérant la synthèse de leurs divers systèmes politiques actuels, trouver une réponse adéquate, adaptée à leur histoire, pour dépasser le système de la démocratie à l'amé­ricaine.

 

Hans-Dietrich SANDER.

(recension parue dans Staatsbriefe 1/1990; adresse: Castel del Monte Verlag, Türkenstr. 57, D-8000 München 40).

 

 

 

mardi, 05 janvier 2010

Barack Obama, Interventionist and Ultimate Jihadi Hero

obama_war_monger.jpgBarack Obama, Interventionist and Ultimate Jihadi Hero

December 31, 2009 : http://original.antiwar.com/

In his less-than-fifteen-minute, 28 December statement on the Detroit airliner attack and Iran, President Obama exhilarated America’s Islamist foes and neatly encapsulated the U.S. governing elite’s absolute inability to see that its full-bore interventionism is leading America to ruin.

In his response to the al-Qaeda attack in Detroit, Obama echoed the identical analytic path blazed by his fellow interventionists George W. Bush and Bill Clinton:  

–The would-be bomber was a lone, extremist Muslim who was acting outside the tenets of his Islamic faith — the religion of peace — and was intent on slaughtering the innocent.  

–We — with our allies — will track down the bomber’s colleagues wherever they are and bring them to justice. 

–We will do the tracking-down gently so as not to undermine our most deeply held values. (And instead of being an adult and quietly firing those who failed to stop the Detroit attacker, I will blame my subordinates, publicly humiliate U.S. intelligence services, terrorize Americans by alleging "catastrophic" and "systemic" failure, and publicly detail the holes in our security system.) 

Obama’s prescription for defeating al-Qaeda and like-minded groups maintains continuity with the failed and stubbornly ignorant approach Washington has adhered to since bin Laden declared war on the United States in August, 1996. (Yes, August 1996 — we have been unsuccessfully fighting this enemy for 13.5 years.)  If the history of America’s al-Qaeda-fight proves anything, it is that 

–Al-Qaeda-ism is not outside the parameters of the Islamic faith.  While not mainstream, the religious justification for fighting U.S. interventionism in the Islamic world is growing in acceptance among the 80 percent of the world’s Muslims who deem U.S. foreign  policy an attack on their faith. In addition, bin Laden’s jihad has an extraordinarily strong positive resonance among always historically minded Muslims. Al-Qaeda’s victories remind them of battles fought by the Prophet and Saladin which produced miraculous victories over far more powerful enemies — like a barely trained kid from Nigeria beating the greatest power the world has ever seen. 

–An obviously failing fight that is now approaching 14-year duration ought to be irrefutable evidence that Clinton’s law-and-order-based strategy — even with Bush’s spasms of vigorously applied military power — has not a prayer of succeeding.  

–Whether we do our tracking/arresting/killing ethically or brutally is irrelevant.  Each al-Qaeda attack on the United States — successful or not — strengthens the hands of those politicians and bureaucrats who will curtail the civil liberties of Americans. The next successful al-Qaeda attack in the United States — because the U.S. military has no telling enemy targets left overseas — will yield civil-rights curtailments that will make President Bush look like Clarence Darrow. 

Besides flogging this dog-eared and bankrupt response to al-Qaeda, Obama likewise followed his predecessors’ refusal to explain our Islamist enemies’ motivation to Americans. This failure is completely attributable to the fact that Obama has aligned himself fully the Bush-Clinton-Bush legacy of interventionism in the Muslim world. 

–By bowing to the Saudi king, accepting the jailer Mubarak’s hospitality, putting U.S. arms at the disposal of the dictator of Yemen (where, by the way, Senator Lieberman is panting for another U.S.-waged war to defend Israel), Obama has reinforced Muslim perceptions that America wants them governed by tyrannical police states that will keep oil flowing to the west. 

–By making an IDF veteran his chief of staff, acquiescing to Israeli settlement expansion, and authorizing billions more in arms for Israel, Obama is convincing Muslims he intends to keep warbling that old American standard:  "Israel, Israel Uber Alles."

–By augmenting the U.S. military force in Afghanistan — in numbers sufficient to tread water and bleed but not to win — and sending the first new forces to southern Afghanistan where al-Qaeda forces are minimal, Obama has reinforced both the general Muslim belief that U.S. policy is meant to destroy Islam, not al-Qaeda, and bin Laden’s certainty that the U.S. military is a paper tiger. 

Then there is Iran.  Listening to Obama as he spoke gave the impression that he was eager to get the Detroit-attack stuff out of the way so he could rhetorically intervene in Iran’s internal affairs.  Joining with our allies — read other Western interventionists and pawns of Israel — Obama said he wanted to condemn the Tehran regime’s at-times-lethal crackdown on opposition demonstrators. He said that Ahmadinejad and the ruling clerics were trampling on the "universal rights" of Iranians, and that such actions must stop. There are, of course, no universal political rights; this idea is the pipedream of Western secular intellectuals and interventionists, and is part and parcel of the interventionist nonsense Obama included in his Nobel speech about the "perfectibility" of the human condition through the efforts of "enlightened" men and women. 

Obama’s mind is emerging as a mind filled with war-causing secular theology of the French Revolution. That revolution was all about enlightened leaders "perfecting" the common man for what the revolutionary elite deemed to be his own good, and using the vehicles of government edict, fanatic secularism, and force to do so. (Sounds a bit like the universal health-care plan, doesn’t it?) The French Revolution went on to father Hitler, Stalin, the Khmer Rouge, and other mass-murdering regimes.  In the American context, the revolution’s impact has been the slow but increasingly complete replacement of the Founders’ sturdy non-interventionism — which recognized the pivotal and necessary role religion plays in all polities — by our current bipartisan elite’s obsession with interfering in other peoples’ internal affairs, especially if those internal affairs are interwoven with religion. For Obama and most members of our governing elite, today’s Iran fairly screams for Western intervention to break the mullahs’ backs and install secularism; to destroy an Israeli foe and ensure AIPAC funds to continue to flow into their pockets; and to make them feel good about themselves, no matter the cost to Americans and their children. 

In a statement of less than a quarter-hour, then, Obama demonstrated how thoroughly he slicked Americans in the last presidential election. The "hope" he offered turns out to be not less but more war-causing interventionism framed by a secularist "moral compass" alien to most non-elite Americans; the "Yes we can" slogan has proven to refer to making Obama’s Washington the agent of forced Westernization from the Congo to Afghanistan, and from Burma to Iran; and the president’s much-touted "audacity" seems nothing more than Obama’s brass in continuing to reassuringly chant the Bush-Clinton-Bush lie to Americans that Islamists attack us because of our way of life not because of our interventionism.  

And thus is how a great republic is being ruined by the littlest of arrogant and willful men.

jeudi, 31 décembre 2009

Geopolitica tras la falsa guerra de EE.UU en Afganistan

gal_1786.jpgGeopolítica tras la falsa guerra de EE.UU. en Afganistán

Uno de los aspectos más notorios del programa presidencial de Obama es que, en Estados Unidos, pocos han cuestionado, en los medios de difusión o por otras vías, la razón del compromiso del Pentágono con la ocupación militar de Afganistán. Existen para ello dos razones fundamentales, y ninguna de ellas puede ser revelada abiertamente a la opinión pública.

Los engañosos debates oficiales sobre la cantidad de soldados que se necesita para «ganar» la guerra en Afganistán, si basta con 30 000 hombres más o si se requieran por lo menos 200 000, no son más que la cortina de humo que está sirviendo para esconder el verdadero objetivo de la presencia militar de Estados Unidos en ese estratégico país de Asia central.


Durante su campaña presidencial del año 2008, el candidato Obama afirmó incluso que es en Afganistán, no en Irak, donde Estados Unidos está obligado a hacer la guerra. ¿Por qué? Porque, según Obama, es en Afganistán donde se ha atrincherado Al Qaeda, que constituye a su vez la «verdadera» amenaza para la seguridad nacional.

Las razones de la implicación estadounidense en Afganistán son en realidad muy diferentes.
El ejército estadounidense ocupa Afganistán por 2 razones: principalmente para restablecer y controlar la principal fuente mundial de opio de los mercados internacionales de heroína y utilizar la droga como arma contra sus adversarios en el terreno de la geopolítica, especialmente contra Rusia. El control del mercado de la droga afgana es capital para garantizar la liquidez de la mafia financiera en bancarrota de Wall Street.

Geopolítica del opio afgano

Según un informe oficial de la ONU, la producción de opio afgano aumentó de forma espectacular después del derrocamiento del régimen talibán, en 2001. Los datos del Buró de Drogas y Crímenes de las Naciones Unidas demuestran que en cada una de las cuatro últimas estaciones de crecimiento (desde 2004 y hasta 2007) hubo más cultivos de adormidera que en todo un año bajo el régimen talibán. En este momento hay en Afganistán más tierra dedicada a la producción de opio que al cultivo de la coca en toda América Latina. En 2007, el 93% de los opiáceos del mercado mundial venían de Afganistán.

No son simples coincidencias. Se ha demostrado que Washington seleccionó cuidadosamente al muy controvertido Hamid Karzai, señor de la guerra de origen pashtún con una larga hoja de servicios en la CIA, especialmente traído de su exilio en Estados Unidos, a quien se le fabricó todo una leyenda hollywodense sobre su «valiente autoridad sobre su pueblo». Según fuentes afganas, Hamid Karzai es actualmente el «Padrino» del opio afgano. No por casualidad Karzai ha sido, y sigue siendo hoy en día, el preferido de Washington en Kabul. A pesar de ello, y también a pesar de la masiva compra de votos, del fraude y de la intimidación, los días de Karzai como presidente pudieran estar contados.

En momentos en que el mundo casi ni se acuerda ya del misterioso Osama Ben Laden ni de Al Qaeda –su supuesta organización terrorista–, o se pregunta incluso si tan siquiera existen, la segunda razón de la larga presencia de las fuerzas armadas de Estados Unidos en Afganistán parece más bien un pretexto para crear una fuerza militar de choque estadounidense permanente con una serie de bases aéreas permanentes en Afganistán.
El objetivo de dichas bases no es acabar con los grupos de Al Qaeda que puedan quedar aún en las cuevas de Tora Bora ni acabar con un mítico «talibán» que, según informes de testigos oculares, se compone actualmente en su mayoría de pobladores afganos comunes y corrientes que nuevamente luchan por expulsar de su tierra una fuerza ocupante, como hicieron en los años 1980 frente a los soviéticos.

Para Estados Unidos, la razón de ser sus bases afganas es mantener en la mirilla y tener la posibilidad de golpear a las dos naciones que, juntas, constituyen hoy en día la única amenaza seria para el poderío supremo de Washington o, como lo llama el Pentágono, America’s Full Spectrum Dominance (el predominio estadounidense en todos los aspectos).

La pérdida del «Mandato Celestial»

El problema de las élites* que detentan el poder en Wall Street y en Washington reside en el hecho que se encuentran hoy empantanados en la más profunda crisis financiera de toda su historia. Esa crisis es un hecho irrefutable para el mundo entero y el mundo está actuando en aras de salvarse a sí mismo. Las élites estadounidenses han perdido así lo que en la historia de la China imperial se conoce como el Mandato Celestial.
Se trata del mandato que se concedido a un soberano o a una élite reinante a condición de que dirija a su pueblo con justicia y equidad. Cuando el que gobierna lo hace de forma tiránica y como un déspota, oprimiendo al pueblo y abusando de él, se expone con ello a la pérdida del Mandato Celestial.

Si las poderosas élites de las firmas y las empresas privadas que han controlado las políticas fundamentales, financiera y exterior, durante la mayoría del tiempo, por lo menos durante el siglo pasado, tuvieron alguna vez en sus manos el mandato celestial, hoy resulta evidente que lo han perdido.

La evolución interna hacia la creación de un Estado policiaco injusto, con ciudadanos que se ven privados de sus derechos constitucionales, el ejercicio arbitrario del poder por personas que nunca obtuvieron un mandato electoral –como el ex secretario estadounidense del Tesoro Henry Paulson y el actual ocupante de ese mismo cargo Tim Geithner– y que roban miles de millones de dólares del contribuyente, sin consentimiento de éste, para sacar de la bancarrota a los principales bancos de Wall Street, bancos que se creían «demasiado grandes para hundirse», son hechos que demuestran al mundo que esas élites han perdido el «Mandato Celestial».

Ante tal situación, las élites que ejercen el poder se desesperan cada vez más por mantener su control sobre un imperio mundial de carácter parasitario que su máquina mediática falsamente llama «globalización». Y para lograr mantener su dominación resulta vital que Estados Unidos logre destruir toda forma naciente de cooperación, en el plano económico, energético o militar, entre las dos grandes potencias de Eurasia que, en teoría, pudieran representar una amenaza para el futuro control de la única superpotencia. Esas dos potencias son China y Rusia, cuya asociación Washington trata de evitar a toda costa.

Ambas potencias euroasiáticas completan el panorama con elementos esenciales. China es la economía más fuerte del mundo, con mano de obra joven y dinámica y una clase media educada. Rusia, cuya economía no se ha recuperado aún del destructivo final de la era soviética y del descarado saqueo que caracterizó la era de Yeltsin, sigue presentando sin embargo cartas esenciales para una asociación. La fuerza nuclear de Rusia y sus fuerzas armadas, aún siendo en gran parte remanentes de la guerra fría, representan en el mundo actual la única amenaza de consideración para la dominación militar estadounidense.

Las élites del ejército ruso en ningún momento han renunciado a ese potencial.
Rusia posee también el mayor tesoro del mundo en gas natural así como inmensas reservas petrolíferas, indispensables para China. Estas dos potencias convergen cada vez más a través de una nueva organización que crearon en 2001, conocida como la Organización de Cooperación de Shanghai (OCS). Además de China y Rusia, los países más extensos del Asia central –Kazajstán, Kirguiztán, Tayikistán y Uzbekistán– también forman parte de la OCS.

El objetivo que alega Washington para justificar la guerra de Estados Unidos, a la vez contra los talibanes y Al Qaeda, consiste en realidad en instalar su fuerza militar directamente en Asia central, en medio del espacio geográfico de la naciente OCS. Irán no es más que un pretexto. El blanco principal son Rusia y China.

Por supuesto, Washington afirma oficialmente que estableció su presencia militar en Afganistán desde el año 2002 para proteger la «frágil» democracia afgana. Sorprendente argumento cuando se analiza la realidad de la presencia militar estadounidense en ese país.
En diciembre de 2004, durante una visita a Kabul, el secretario de Defensa Donald Rumsfeld dio los toques finales a sus proyectos de construcción de 9 nuevas bases militares estadounidenses en Afganistán, en las provincias de Helmand, Herat, Nimruz, Balh, Khost y Paktia.

Esas 9 bases estadounidenses de nueva creación se agregan a las 3 bases militares principales ya instaladas inmediatamente después de la ocupación de Afganistán, durante el invierno de 2002, supuestamente con el fin de aislar y eliminar la amenaza terrorista de Osama Ben Laden.
Estados Unidos construyó sus 3 primeras bases militares en los aeródromos de Bagram, al norte de Kabul, su principal centro logístico militar; de Kandahar, en el sur de Afganistán; y de Shindand, en la occidental provincia de Herat. Shindand, la mayor base militar estadounidense en Afganistán, se encuentra a sólo 100 kilómetros de la frontera iraní, y a distancia de ataque si se trata de Rusia y China.

Afganistán ha estado históricamente en el centro de la gran pugna anglo-rusa, la lucha por el control del Asia central en el siglo 19 y a principios del siglo 20. La estrategia británica consistió entonces en impedir a toda costa que Rusia controlara Afganistán, lo cual hubiese representado una amenaza para la perla de la corona británica: la India.

Los estrategas del Pentágono también ven en Afganistán una posición altamente estratégica. Ese país constituye un trampolín que permitiría al poderío militar estadounidense amenazar directamente a Rusia y China, así como a Irán y a los demás países ricos productores de petróleo del Medio Oriente. En más de un siglo de guerras, las cosas no han cambiado mucho.

La situación geográfica de Afganistán como punto de confluencia entre el sur de Asia, Asia central y el Medio Oriente, es de vital importancia. Afganistán se encuentra además precisamente en el itinerario previsto para la construcción del oleoducto que debe llevar el petróleo de las zonas petrolíferas del mar Caspio hasta el océano Índico, donde la petrolera Unocal, así como Enron y la Halliburton de Cheney, estuvieron negociando los derechos exclusivos del gasoducto para conducir el gas natural de Turkmenistán a través de Afganistán y Pakistán hacia la enorme central eléctrica de gas natural de la Enron en Dabhol, cerca de Mumbai (Bombay). Ante de convertirse en presidente afgano títere de Estados Unidos, Karzai había sido cabildero de Unocal.

Al Qaeda no existe como amenaza

La verdad sobre todo este engaño alrededor del verdadero objetivo en Afganistán aparece claramente cuando se analiza más atentamente la supuesta amenaza de «Al Qaeda» en ese país. Según el autor Erik Margolis, antes de los atentados del 11 de septiembre de 2001, la inteligencia estadounidense proporcionaba asistencia y apoyo tanto a los talibanes como al propio Al Qaeda. Margolis señala que «la CIA proyectaba utilizar [la organización] Al Qaeda de Osama Ben Laden para incitar a los uigures musulmanes a rebelarse contra la dominación china y a los talibanes contra los aliados de Rusia en Asia central.»

Es evidente que Estados Unidos encontró otras vías para manipular a los uigures musulmanes contra Pekín en julio pasado, a través del apoyo estadounidense al Congreso Mundial Uigur. Pero la «amenaza» de Al Qaeda sigue siendo el principal argumento de Obama para justificar la intensificación de la guerra en Afganistán.

Sin embargo, el consejero de seguridad nacional de presidente Obama y ex general de Marines James Jones hizo una declaración, oportunamente enterrada por los amables medios de prensa estadounidenses, sobre la evaluación del peligro que actualmente representa Al Qaeda en Afganistán. Jones declaró al Congreso: «La presencia de Al Qaeda es muy reducida. La evaluación máxima es inferior a 100 ejecutores en el país, ninguna base, ninguna capacidad de lanzar ataques contra nosotros o nuestros aliados.»

Lo cual significa que Al Qaeda no existe en Afganistán. ¡Diablos! Incluso en el vecino Pakistán, lo que queda de Al Qaeda es ya prácticamente imperceptible. El Wall Street Journal señala: «Perseguidos por los aviones sin piloto estadounidenses, con problemas de dinero y con más dificultades para atraer a los jóvenes árabes a las oscuras montañas de Pakistán, Al Qaeda ve reducirse su papel allí y en Afganistán, según los informes de la Inteligencia y de los responsables pakistaníes y estadounidenses. Para los jóvenes árabes que son los principales reclutas de Al Qaeda “no resulta romántico pasar frío y hambre y tener que esconderse”, declaró un alto responsable estadounidense en el sur de Asia.»

Si entendemos bien las consecuencias lógicas de esa declaración no queda más remedio que llegar a la conclusión de que la razón por la cual los jóvenes alemanes y de otros países de la OTAN están muriendo en las montañas afganas no tienen nada que ver con «ganar la guerra contra el terrorismo». Muy oportunamente la mayoría de los medios de prensa prefieren olvidar el hecho que Al Qaeda, en la medida en que esa organización existió alguna vez, fue creada por la CIA en los años 1980.

Se dedicaba entonces a reclutar musulmanes radicales provenientes de todo el mundo islámico y a entrenarlos para la guerra contra las tropas rusas en Afganistán en el marco de una estrategia elaborada por Bill Casey, jefe de la CIA bajo la administración Reagan, entre otras, con el objetivo de crear un «nuevo Vietnam» para la Unión Soviética, lo cual debía conducir a la humillante derrota del Ejército Rojo y el derrumbe final de la Unión Soviética.

James Jones, jefe del National Security Council, reconoce ahora que no hay prácticamente nadie de Al Qaeda en Afganistán. Quizás sea un buen momento para que nuestros dirigentes políticos proporcionen una explicación más honesta sobre la verdadera razón del envío de más jóvenes a Afganistán, a morir protegiendo las cosechas de opio.

F. William Engdahl

Extraído de Red Voltaire.

~ por LaBanderaNegra en Diciembre 22, 2009.

mercredi, 30 décembre 2009

La Doctrine Brzezinski et le Caucase

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Lorenzo MOORE :

 

 

La Doctrine Brzezinski et le Caucase

 

Malgré la relève de la garde à Washington, depuis l’accession d’Obama au pouvoir, le Caucase reste une « région stratégique » dans la tentative américaine de contrôler totalement ou en partie les anciennes zones d’influence russe en Asie centrale, région riche en matières premières. Sur ce front rien n’a changé en fait : c’était clair depuis la première décision prise par la nouvelle présidence d’augmenter les effectifs américains destinés à renforcer la guerre d’occupation en Afghanistan.

 

La partie est mortelle entre les massacres de Grozny et de Beslan

 

Durant la présidence néoconservatrice de Bush, le Caucase avait à nouveau fait parler de lui avec le double attentat aérien contre deux avions de ligne russes et avec la monstrueuse séquestration des enfants de Beslan, où quelques dizaines de guérilleros tchétchènes avaient pris des écoliers et des parents d’élèves en otage dans un établissement scolaire de la ville principale de la république autonome d’Ossétie du Nord, appartenant à la Fédération de Russie. La confrontation entre Russes et Tchétchènes n’est pas le seul conflit en cours dans la région qui fait le pont entre l’Europe et l’Asie. En Géorgie, le président Mikhaïl Saakashvili, après avoir fait plier la république sécessionniste d’Adjarie, entre la Géorgie et la Turquie, a ensuite mené une attaque, vite avortée, contre l’Ossétie du Sud, dont la population est ethniquement et culturellement la même qu’en Ossétie du Nord mais dont le territoire, jadis autonome en Géorgie, est aujourd’hui indépendant après une intervention russe.

 

L’Ossétie du Sud est indépendante de facto depuis 1993, lorsque les indépendantistes sud-ossètes ont obtenu la victoire lors d’une brève guerre de sécessions contre les Géorgiens, peu de temps après l’effondrement de l’URSS. Les Russes avaient appuyé cette sécession et, grâce aux mouvements indépendantistes d’Ossétie, d’Abkhazie et d’Adjarie, ils ont pu revenir dans la région au sud du Caucase. Dans les petites républiques indépendantes grâce aux efforts des troupes de maintien de la paix, les Russes ont pu construire des bases militaires, leur territoire étant soustrait au contrôle de Tbilissi. Avec l’appui des Etats-Unis, Saakashvili avait réussi en décembre 2003 à chasser du pouvoir Chevarnadze. Ce fut le premier épisode dans le processus de reformulation du projet nationaliste géorgien visant à récupérer les territoires cédés dans les années 1991-93. Ce projet nationaliste géorgien n’est possible qu’avec l’appui des Etats-Unis et d’Israël, qui comptent quelques centaines de militaires sur le terrain, officiellement pour contrer le terrorisme mais en réalité pour entrainer l’armée géorgienne.

 

L’appui de Washington ne provient pas d’un amour subi pour la Géorgie en butte avec ses ethnies rebelles, ossètes et abkhazes, mais d’une volonté de chasser définitivement la Russie de la zone où seront transportés vers l’Europe les hydrocarbures de la Mer Caspienne.

 

Le nouveau président géorgien s’est engagé à construire l’oléoduc Bakou/Ceyhan destiné à acheminer le pétrole de la Caspienne et de l’Azerbaïdjan vers le port turc, en traversant le territoire géorgien. Cet oléoduc mettrait hors jeu le tracé menant au port russe de Novorossisk sur la Mer Noire. Ajoutons que cet oléoduc russe passe par le territoire de la Tchétchénie. On voit dès lors clairement pourquoi le conflit en Tchétchénie revêt une importance stratégique cruciale dans les rapports Etats-Unis/Russie et pourquoi Washington se mobilise (en vain) pour inciter les Géorgiens à éliminer les deux petites républiques rebelles et à chasser les bases russes hors du Caucase méridional. La construction d’un oléoduc entièrement contrôlé par la Géorgie, au moment où l’oléoduc concurrent est continuellement menacé de sabotage par la guérilla tchétchène, garantirait par ricochet le contrôle exclusif par les Américains des ressources pétrolifères du Sud de la Caspienne, tout en isolant la Russie de l’Europe et en complétant l’encerclement de l’Iran.

 

C’est dans ce contexte qu’il faut analyser la guerre qu’a déclenché la Géorgie contre l’Ossétie et l’appui récurrent de Tbilissi à la guérilla tchétchène. Saakashvili avait espéré déclencher une guerre de courte durée pour faire plier les Ossètes, pour provoquer leur fuite vers le territoire de la Fédération de Russie et pour contrôler à nouveau le territoire de peuplement ossète. Les Ossètes savaient bien qu’en cas de défaite ils devaient s’attendre à une « purification ethnique » des plus féroces, visant la « géorgianisation » de leur pays, surtout que les Ossètes n’ont pas oublié les 20.000 morts (presque tous des civils) que leur population a subis lors de la guerre de sécession avec la Géorgie.

 

Les Russes, pour leur part, savent que, s’ils sont chassés de leurs bases d’Ossétie et d’Abkhazie, ils seront mis hors jeu dans le Caucase et que les rébellions au sein des nombreuses républiques autonomes de la Fédération se multiplieraient. C’est ce qui explique la riposte militaire russe, rapide et soudaine, contre l’agression géorgienne. Cette action a donné de facto l’indépendance à l’Ossétie du Sud.

 

La question de l’oléoduc est centrale dans ce conflit : c’est elle qui a failli amener la Russie et les Etats-Unis à un conflit chaud, même si c’eut été par tiers acteurs interposés.

 

Qui souffle sur les braises ? Les patrons et les parrains de l’indépendantisme tchétchène !

 

L’assaut donné contre l’école de Beslan et les massacres qui s’ensuivirent, où les guérilleros tchétchènes ont tué un grand nombre d’otages, des enfants, des enseignants et des parents, suite à l’attaque du bâtiment scolaire par les forces spéciales russes, s’inscrivent dans cette seule et même guerre qui dévaste le Caucase depuis la fin de l’URSS. Il est peut-être vrai, comme aiment à le rappeler les commentateurs des médias occidentaux, que la guerre coloniale russe contre les Tchétchènes a commencé dans la première moitié du 19ème siècle, à une époque où l’expansion de la Russie atteignait les régions méridionales du Caucase. Cette guerre n’a jamais pris fin. Mais il est tout aussi vrai que la nouvelle flambée indépendantiste tchétchène a commencé en 1991, avec la déclaration d’indépendance de la petite république autonome du Caucase septentrional et avec la guerre voulue et perdue par Eltsine qui s’ensuivit de 1994 à 1996. Cette phase nouvelle du conflit russo-tchétchène a les mêmes « sponsors » et les mêmes parrains que le renouveau nationaliste géorgien qui a déclenché l’agression contre l’Ossétie méridionale en août 2008. L’indépendantisme tchétchène moderne était laïque au départ et animé par d’anciens officiers soviétiques, bien décidés à profiter du déclin de la Russie après les journées de confusion de l’automne 1991. Ces hommes voulaient affirmer l’indépendance d’un territoire qui aurait pu compter sur les dividendes du transit pétrolier pour assurer sa prospérité.

 

Mais dans les années qui ont suivi l’affirmation de ce premier indépendantisme tchétchène, les Américains ont ressorti la fameuse doctrine Brzezinski, préalablement appliquée en Afghanistan pour chasser le gouvernement laïque pro-russe. Pour y parvenir, les Etats-Unis ont financé des intégristes islamistes, les talibans, et un mystérieux réseau, Al-Qaeda, construit de toutes pièces sous l’égide américaine en utilisant les services de l’extrémiste wahhabite Osama Ben Laden. Dans le Caucase également, les Américains ont bien veillé à éliminer progressivement tous les leaders laïques pour leur substituer une direction religieuse d’obédience wahhabite. Le financement de ces nouvelles équipes vient en premier lieu de la monarchie saoudienne, désireuse d’étendre sa propre influence politique sur tous les territoires à majorité musulmane, par le biais d’une exportation de la version la plus réactionnaire et la plus obscurantiste de la religion islamique, née dans la péninsule arabique au 18ème siècle et adoptée par la dynastie des Saoud qui régnait à cette époque sur les bédouins du Nadjd qui étaient en conflit permanent avec tous les autres royaumes de l’Arabie péninsulaire et avec les shérifs de La Mecque dont provient la dynastie hachémite (à laquelle appartiennent les rois actuels de la Jordanie).

 

Dans les régions du Caucase septentrional, le wahhabisme saoudien a islamisé l’indépendantisme tchétchène et l’a transformé en une guérilla féroce, qui fait feu de tous bois: attentats suicides, massacre d’otages, guerre ouverte, infiltration sur le territoire russe, etc. Mais le wahhabisme n’agit pas seul: à ses côtés se tient l’une des principales compagnies pétrolières mondiales, la Chevron-Texaco, dont la conseillère pour l’espace caucasien et la responsable pour les politiques locales de cette zone de turbulences, est une dame que le monde entier a appris à connaître au cours de ces dernières années: Condoleeza Rice, déjà ministre de la Sécurité nationale sous la présidence de Bush junior.

 

La présence parmi les guérilleros tchétchènes de volontaires wahhabites, issus des nationalités les plus disparates (il y a parmi eux des Arabes de la péninsule, des Algériens, des Egyptiens, des Afghans, des ressortissants du Bengla Desh, etc.) indique, en outre, que le recrutement de ces effectifs wahhabites inclus dans les forces rebelles tchétchènes s’est effectué depuis le début des années 90 sous le patronnage de l’ISI, le fameux service secret pakistanais, inventeur et soutien majeur du régime des talibans en Afghanistan et responsable de l’organisation politique et militaire des militants wahhabites et déobandistes (les déobandistes relèvent d’une autre école islamiste, aux orientations très réactionnaires, née au 19ème siècle parmi les musulmans d’Inde).

 

Finalement, comme en Afghanistan, on voit fonctionner la synergie entre pétrodollars et idéologie religieuse saoudienne, logistique et formation pakistanaises et supervision géopolitique et géoéconomique par le complexe économico-politique américain. L’intérêt des multinationales américaines dans le développement et le maintien de la guérilla tchétchène est évident: mettre hors jeu toutes les concurrences européennes et asiatiques dans le transport du brut de la Caspienne, et, simultanément, couper l’herbe sous les pieds des monopoles russes. Ces objectifs sont poursuivis en même temps qu’un soutien toujours plus marqué aux oligarchies qui gouvernent sur le mode autocratique les Etats asiatiques issus de la désintégration de l’Union Soviétique: en premier lieu, l’Azerbaïdjan qui possède des gisements aux infrastructures déjà bien rodées. Dans ce contexte, par la création de toutes sortes de menées agressives, les intérêts pétroliers et géopolitiques des Etats-Unis cherchent à saboter les tracés anciens des oléoducs transportant le brut azéri, tracés construits à l’époque soviétique et qui mènent tous vers l’intérieur des terres russes.

 

Si l’on tient compte de ce point de vue, tant l’insurrection tchétchène sur le territoire qui mène au port pétrolier de Novorossisk sur la Mer Noire que la guerre avortée déclenchée par la Géorgie de Saakashvili, ont été in fine concoctées par Washington afin de multiplier les incidents, de déstabiliser la région pour aboutir à un contrôle exclusivement américain des flux d’hydrocarbures. Les présidences américaines successives, qu’elles aient été démocrates ou républicaines, de Carter à Obama, ont poursuivi inlassablement cette politique dont l’intention finale est d’empêcher la Russie de devenir une puissance autonome face aux Etats-Unis. Une Russie autonome serait parfaitement capable de poursuivre l’ancienne politique soviétique de s’opposer au leadership unique des Etats-Unis dans le monde. Les Etats-Unis visent aussi à créer les conditions qui feront de l’immense pays qu’est la Russie un objet pour les spéculations de la finance internationale, téléguidées depuis l’Amérique.

 

Par ailleurs, dans ses visées coloniales sur la Russie, les Etats-Unis ont trouvé en Russie même la collaboration intéressée de cette nouvelle classe composée d’anciens fonctionnaires du parti communiste recyclés en oligarques grâce aux positions clefs qu’ils occupent dans le petit monde des capitalistes de la “nouvelle Russie”. Leur action s’avère destructrice du point de vue du développement de la production industrielle russe mais, en même temps, extrêmement habile pour générer des profits chez les financiers. Ce sont eux qui ont fait gonfler au maximum la bulle financière russe qui a explosé en 1998, entraînant la disparition de l’épargne nationale tout en sauvegardant les immenses fortunes que cette nouvelle classe de capitalistes sans entreprises avait accumulées au cours des années précédentes.

 

La guerre en Tchétchénie a toujours été une bonne affaire pour cette nouvelle classe dominante: même si nous faisons abstraction des profits réalisés par la contrebande et le commerce des armes avec l’ “ennemi” tchétchène, la guérilla islamiste du Caucase septentrional est devenue un excellent prétexte pour dévier le mécontentement russe vers un objectif extérieur et pour décider, finalement, du destin politique de la Russie au 21ème siècle. Pour atteindre ces objectifs, Eltsine lui-même et sa bande ont été définitivement sacrifiés à la suite d’une offensive terrible des guérilleros tchétchènes qui ont placé des bombes à Moscou et occupé des hôpitaux au Daghestan en 1999 (toutes ces actions ont été menées par un chef notable, Bassaïev, concurrent du président tchétchène en exil Makhadov; Bassaïev est également le responsable de l’horrible massacre de Beslan).

 

Après Eltsine, Poutine a pris le pouvoir, en se présentant à la nation comme le président de la renaissance russe. Les règles du jeu ont alors changé, Washington a été tenu en échec, tandis que les oligarques ont été soit expropriés soit contraints à l’exil. Poutine a pu avancer dans la mise en oeuvre d’un capitalisme national russe, capable de développer ses propres infrastructures de production et de renforcer ses liens commerciaux et politiques avec les pays européens. Cette politique a été rendue possible grâce à l’exclusion de cette classe d’oligarques liée étroitement au capital financier américain et à la vente à l’encan des matières premières du pays.

 

Derrière cette attaque indirecte contre la Russie, nous voyons se profiler une alliance en apparence bigarrée entre les intérêts stratégiques américains, les intérêts économiques des multinationales américaines du pétrole, du néo-nationalisme géorgien, du fondamentalisme wahhabite téléguidé par l’Arabie Saoudite et de l’oligarchie financière russe repliée à l’étranger. L’objectif de cette alliance est d’abord de démontrer que Poutine n’est pas en mesure de défendre la Russie en y suscitant un climat qui permettrait à terme de lui substituer un autre homme, plus faible et plus enclin à servir les intérêts de la haute finance internationale en Russie et à l’étranger. Cet objectif ne s’est pas réalisé. Et ce n’est donc pas un hasard si le ministre russe des affaires étrangères, Sergueï Lavrov a déclaré, en critiquant directement les pays occidentaux: “[l’Occident] est indubitablement responsable de la tragédie qui frappe le peuple tchétchène parce qu’il donne l’asile politique aux terroristes. Lorsque nos partenaires occidentaux nous disent que nous devons réviser notre politique, qu’ils appellent ‘tactique’, je les invite à ne pas intervenir dans les affaires intérieures de la Russie”. Lavrov faisait directement référence aux décisions prises par les Etats-Unis et l’Angleterre de donner l’asile politique à deux chefs du séparatisme tchétchène, Ilyas Akhmadov et Akhmed Zakaïev, qui vivent aujourd’hui, l’un à Londres, l’autre à Washington.

 

Il suffit de faire quelques recherches sommaires sur la stratégie préconisée par les milieux libéraux-impérialistes d’Angleterre et des Etats-Unis pour déchiffer aisément la stratégie atlantiste qui visait jadis et vise encore aujourd’hui à soustraire toute la région caucasienne à l’influence russe, parce que cette région est riche en pétrole. Cette stratégie a été remise en selle et en pratique, et à toute vapeur, en 1999 et qui s’inscrit plus généralement dans le fameux “Plan Bernard Lewis”, mis en oeuvre dans les années 70. Ce plan proposait de “miner” toutes les régions se situant au sud du territoire de l’URSS et de les transformer en un “arc de crises”. L’objectif principal envisagé dans ce plan était de déstabiliser à long terme cet ensemble de régions en misant surtout sur le fondamentalisme islamique. Les deux points principaux, où devait se concentrer les attaques indirectes, étaient la Tchétchénie et l’Afghanistan.

 

On ne s’étonnera pas dès lors que, parmi les architectes de ces provocations organisées actuellement dans le Caucase, nous retrouvons Zbigniew Brzezinski, conseiller de Carter pour la “sécurité nationale” et qui fut le premier à adopter les plans géopolitiques mis au point par Lewis pour le compte de l’ “Arab Bureau” de Londres. Brzezinski et Lewis comptaient utiliser le radicalisme islamiste contre le communisme soviétique.

 

D’après une revue fort bien informée, Executive Intelligence Review, la notion d’arc de crise, théorisée par Lewis et Brzezinski, fut reprise en bloc par les présidences Reagan et Bush à partir de 1981. Ce fut en bonne partie grâce aux bons offices du directeur de la CIA William Casey et du chef des services français, Alexandre de Maranches. La promotion des moudjahhidins est ainsi devenue un projet cher aux néoconservateurs, qui l’ont introduit au Pentagone et au Conseil de Sécurité nationale à l’époque de Reagan, notamment sous l’impulsion de Douglas Feith, Michael Ledeen et Richard Perle.

 

En 1999, un centre de coordination destiné à orchestrer les déstabilisations est mis en place: les néoconservateurs justifieront son existence au nom de l’idéologie des droits de l’homme. Quant à la “Freedom House”, fondée par Leo Cherne, elle lance un organisme baptisé “American Committee for Peace in Chechnya” (ACPC), dont l’objectif déclaré est d’intervenir dans les affaires intérieures de la Russie, en avançant l’excuse et le prétexte que la “guerre dans l’aire caucasienne” doit être résolue “pacifiquement”.

 

Mais lorsqu’on consulte la liste de ces pacifistes autoproclamés de l’ACPC, on reste bien perplexe. Les fondateurs de ce caucus sont Brzezinski, Alexander Haig (le secrétaire d’Etat qui avait dit, “c’est moi qui suis aux commandes” quand Reagan fut victime d’un attentat en 1982) et l’ex-député Stephen Solarz. Parmi les membres, nous trouvons: Elliot Abrams, Kenneth Adelman, Richard Allen, Richard Burt, Elliot Cohen, Midge Decter, Thomas Donohoue, Charles Fairbanks, Frank Gaffney, Irving Louis Horowitz, Bruce Jackson, Robert Kagan, Max Kampelman, William Kristol, Michael Ledeen, Seymour Martin Lipset, Joshua Muravchik, Richard Perle, Richard Pipes, Norman Podhoretz, Arch Puddington, Gary Schmitt, Helmut Sonnenfeldt, Caspar Weinberger et James Woolsey. L’ACPC se sert des structures de la “Freedom House” mais aussi de celles de la “Jamestown Foundation”, un centre d’études sur la guerre froide dirigé par Brzezinski et Woolsey, dont le but est de promouvoir des opérations de “démocratisation” dans les Etats “totalitaires”. Ce centre d’études édite une “newsletter”, Chechnya Weekly, pour le compte de l’ACPC, de même que d’autres bulletins de propagande dirigés contre la Chine, la Corée du Nord et d’autres pays européens ou asiatiques qui sont dans le collimateur de Washington.

 

Ce sont les Britanniques qui ont recruté les terroristes du Caucase!

 

Les gouvernants russes savent très bien qu’au moment où, aux Etats-Unis, on créait l’ACPC, le gouvernement britannique offrait une aide toujours plus directe aux milieux terroristes.

 

Dans un série de documents datant du 21 janvier 2000 et adressés à Madeleine Albright, alors secrétaire d’Etat, nous trouvons une missive intitulée: “L’Angleterre doit être mise sur la liste des Etats qui promeuvent le terrorisme”. L’Executive Intelligence Review rapporte comment les autorités britanniques ont facilité le recrutement de certains éléments du djihadisme en Angleterre pour les transporter ensuite clandestinement en Tchétchénie. Dans un document de l’ Executive Intelligence Review (sur: http://www.movisol.org/ ), nous pouvons lire, parmi d’autres révélations: “Le 10 novembre 1999, le gouvernement russe avait déjà présenté ses protestations diplomatiques formelles via son ambassade à Londres, pour les attaques perpétrées contre des journalistes russes et pour l’hospitalité offerte au cheikh Omar Bakri Mohammed, chef d’Al Muhajiroon, aile politique de l’organisation de Ben Laden, qui était le groupe recrutant des musulmans en Angleterre pour les envoyer combattre en Tchétchénie contre l’armée russe. L’organisation de Bakri travaillait librement au départ de bureaux situés dans le faubourg londonien de Lee Valley  —deux pièces dans un centre informatique—  et géraient une entreprise offrant des connections à internet. Bakri a admis que des officiers de l’armée ‘en congé’ entraînaient les nouvelles recrues à Lee Valley, avant de les envoyer dans des camps en Afghanistan ou au Pakistan ou avant de les faire entrer clandestinement en Tchétchénie”.

 

Lorenzo MOORE.

(article issu du quotidien romain “Rinascita”, jeudi 11 juin 2009; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

 

 

 

 

 

jeudi, 24 décembre 2009

Obama accepte le Prix Nobel de la Paix et plaide pour la guerre permanente

zbigobam2.jpgObama accepte le prix Nobel de la paix et plaide pour la guerre permanente

 

Article rédigé le 16 déc 2009, par Mecanopolis / http://www.mecanopolis.org/

Dans le discours de réception du prix Nobel de la paix le plus belliqueux jamais entendu, le président américain Barak Obama argumenta le 10 décembre à Oslo en faveur d’une extension permanente de la guerre et de l’occupation coloniale, faisant savoir au monde que l’élite dirigeante américaine avait bien  l’intention de poursuivre sa campagne de domination du globe.

Obama défendit l’envoi de dizaines de milliers de soldats supplémentaires en Afghanistan et évoqua de façon menaçante l’Iran, la Corée du Nord, la Somalie, le Darfour, le Congo, le Zimbabwe et la Birmanie, chacun de ces pays pouvant devenir la cible d’une prochaine intervention militaire américaine.

Cette cérémonie de remise de prix Nobel tenait de la farce sinistre, Obama admettant qu’il était « commandant en chef de l’armée d’une nation plongée dans deux guerres ». Il présenta la guerre comme un moyen légitime de poursuivre des intérêts nationaux.

Dans un langage orwélien il déclara que « les instruments de la guerre [avaient] un rôle à jouer dans la préservation de la paix » que « toutes les nations responsables [devaient] approuver le rôle que des armées munies d’un clair mandat [pouvaient] jouer pour maintenir la paix » et qu’il fallait honorer des troupes impérialistes « non pas comme ceux qui font la guerre, mais comme ceux qui font la paix ».

Recevant un prix sensé, prétendument, promouvoir la paix mondiale, Obama parla en faveur d’actions militaires passées, présentes et futures. Le président américain communiqua cette « dure vérité » à son auditoire que « nous n’éradiquerons pas les conflits violents de notre vivant ». Il promit que les nations continueraient de « trouver que l’usage de la force est non seulement nécessaire, mais aussi moralement justifié » et il souligna le fait que des populations douillettes allaient devoir vaincre leur « profonde ambivalence quant à l’action militaire » et leur « réflexe soupçonneux vis-à-vis de l’Amérique, la seule superpuissance militaire du monde ».

Il admit que des masses de gens dans le monde entier étaient hostiles à la guerre impérialiste, remarquant avec regret que « dans de nombreux pays, il existe un hiatus entre les efforts de ceux qui servent et les sentiments ambivalents du grand public ». Mais au diable volonté populaire et démocratie ! « la croyance que la paix est désirable est rarement suffisante pour parvenir à la réaliser. La paix requiert de la responsabilité. La paix implique le sacrifice ».

Obama articula avec arrogance la croyance de Washington qu’elle peut intervenir en défense des intérêts américains où et quand elle veut, peu importe le coût humain.

Le tout était enrobé, de façon peu convaincante, dans le langage de l’élévation morale, de la « loi de l’amour » et, inévitablement, de « l’étincelle divine ». Il indiqua, bien que le discours et son mode de présentation ne l’indiquent en rien, qu’il avait un « sens aigu du coût d’un conflit armé ». Obama fit au contraire ses remarques sur la guerre et la paix avec la profondeur de sentiment mis par un administrateur d’université à informer d’un règlement de parking.

Obama fut encore plus direct lorsqu’il répondit aux questions posées par des journalistes norvégiens avant la cérémonie. Parlant des onze premiers mois de son administration, il expliqua : « Le but n’a pas été de gagner un concours de popularité ou de recevoir un prix, même prestigieux comme le prix Nobel. Le but a été de faire avancer les intérêts de l’Amérique. »

Il gratifia son auditoire – qui comprenait la famille royale et des hommes politiques norvégiens ainsi que des célébrités d’Hollywood —  d’un historique sommaire et misanthropique de la civilisation humaine (« La guerre … est arrivée avec le premier être humain… le Mal existe dans le monde ») avant de se lancer dans une défense emphatique et mensongère du rôle international de l’Amérique.

Il présenta la période de l’après-guerre comme une période de paix et de prospérité octroyée par des Etats-Unis bienveillants. « L’Amérique a conduit le monde dans la construction d’une architecture destinée à maintenir la paix… les Etats-Unis d’Amérique ont aidé à garantir la sécurité planétaire pendant plus de six décennies avec le sang de nos concitoyens et la force de nos bras… Nous n’avons pas porté ce fardeau parce que nous essayons d’imposer notre volonté ». L’hypocrisie et la falsification atteignent ici un degré époustouflant.

Plus tard, Obama fit cette assertion extraordinaire que « l’Amérique n’a jamais mené de guerre contre une démocratie, et nos plus proches amis sont des gouvernements qui protègent les droits de leurs citoyens ». Mis à part le fait historique que les Etats-Unis on mené des guerres avec l’Angleterre, l’Allemagne et l’Autriche-Hongrie, alors que tous ces pays avaient des systèmes parlementaires, Obama a délibérément escamoté la longue et sordide histoire des interventions américaines contre les peuples de pays opprimés allant du Mexique, de l’Amérique centrale et des Caraïbes dans la première moitié du 20e siècle, au Vietnam, à l’Iran, au Guatemala, au Congo, à l’Indonésie, au Chili, et au Nicaragua dans la période d’après-guerre.

Quant aux « très proches amis de Washington », leur liste comprend actuellement des régimes brutaux et corrompus comme, entre autres, ceux d’Arabie saoudite, du Pakistan, d’Israël, d’Egypte, du Maroc, et d’Ouzbékistan (sans parler des gouvernements fantoches d’Irak et d’Afghanistan), tous régimes pratiquant la torture et une répression généralisée.

Après avoir évoqué le concept de la « guerre juste », associé à une nation qui agit pour se défendre, et affirmé, ce qui est faux, que l’invasion américaine de l’Afghanistan à la suite du 11 septembre 2001 était fondée sur ce principe, Obama dit nettement que Washington n’avait pas besoin d’une telle légitimité.

Il parla en faveur d’une action militaire dont le but « [allait] au-delà de l’autodéfense ou de la défense d’une nation vis-à-vis d’un agresseur ». « Les raisons humanitaires », définies bien sûr par Washington, étaient suffisantes pour justifier « la force » qui pouvait être utilisée contre une bonne partie de l’Afrique, de l’Asie, de l’Amérique latine et de l’Europe de l’Est. Cela n’est rien d’autre que du colonialisme recouvert du manteau de la « guerre juste ».

Obama défendit une version de la doctrine de la guerre préventive de Bush teintée de multilatéralisme et s’efforçant d’affermir le soutien des puissances européennes aux guerres conduites par les Etats-Unis au Moyen-Orient et en Asie centrale. « L’Amérique ne peut pas y arriver seule » dit le président américain.

Les élites dirigeantes européennes, dont les intérêts trouvent une expression dans les décisions du comité Nobel, étaient contentes de rendre service à Obama en lui donnant une tribune qui lui permette de défendre ces guerres et de présenter l’agression impérialiste comme un acte humanitaire. Elles espèrent qu’Obama, contrairement à Bush et Cheney, offrira à l’Europe un rôle (et un partage du butin) dans l’imposition de la « sécurité globale » dans des « régions instables pour de nombreuses années à venir ».

Obama mentionna le discours de prix Nobel prononcé il y a 45 ans par Martin Luther King, afin de répudier son contenu oppositionnel. King, contrairement à Obama, avait prononcé un bref discours attirant l’attention sur la répression continue des noirs et des opposants au racisme dans le sud des Etats-Unis. Il avait insisté pour dire que « la civilisation et la violence sont des concepts antithétiques ».

Avant son assassinat, King était devenu un adversaire déclaré de la guerre du Vietnam. C’est l’assimilation par King du militarisme à l’oppression et à la barbarie qu’Obama et l’ensemble de l’establishment américain trouvent dangereux et tentent de discréditer.

Le discours de réception du prix Nobel d’Obama est une nouvelle étape dans un processus au cours duquel celui-ci perd son masque. Le candidat du « changement » s’avère non seulement être le continuateur, dans tous ses aspects importants, de la politique de Bush et Cheney, mais encore un personnage profondément réactionnaire et répugnant en soi. Son enthousiasme évident pour l’armée et pour la guerre n’est pas feint, il est le résultat de ce qu’Obama est devenu au cours de sa carrière politique.

Jabir Aftab, un ingénieur de 27 ans de Peshawar au Pakistan dit à l’Agence France-Presse le jour de la remise du prix, « Le prix Nobel est pour ceux qui ont accompli quelque chose, Obama lui, est un tueur ». La pensée d’un grand nombre de gens dans la période à venir sera pénétrée de cette compréhension.

David Walsh, Mondialisation.ca

mardi, 22 décembre 2009

La hiperimpotencia americana

UNCLE_SAM_by_Mr_Vengence.jpgLa hiperimpotencia americana

Ex: http://www.lademocracia.es/

Sábado 29 de marzo de 2008, por Jorge Verstrynge


Es la gran diferencia entre el nuevo rico por una parte y el venido a menos por otra. El primero puede pagar; el segundo va endeudándose hasta la quiebra final. ¡Ah! Esta el tercero: los paganinis de siempre. El 1º, los primeros, son -por supuesto- los emergentes: China y la India, mas otros bien dotados en materias primas y los re-emergentes como Rusia, también bien dotada; el segundo, los U.S.A; y los terceros los europeos y algunas petromonarquías… Como verán se trata de dos «ejes»: el «de las finanzas» y el «de las materias primas», y en el cruce de ambos, podemos hallar el meollo de la actual crisis económica.

Pues claro que hay nuevos ricos: «El primer choque es el basculamiento del Mundo desde el Oeste hacia el Este. El motor único americano [1] esta agotado, y China y Asia han tomado el relevo. El segundo choque es consecuencia del primero: la sed china [2] de materias primas ha disparado los precios… y la inflación.

El tercer choque reside en la crisis financiera que se prolonga, se amplifica y termina en el final del crédito fácil, demasiado fácil» [3].

Que los nuevos ricos consuman más ¡ya era hora!. Que muchos poseedores de materias primas se beneficien de esa nueva demanda, también era ya hora. En una situación económica normal, equilibrada, ninguna de esas dos noticias seria mala en sí. Si el «motor-consumo» flaquea aquí, mejor que se dispare allá; si el precio del petróleo, del cobre, del gas, pero también el del trigo, del maíz y de la colza se disparan [4], pues buena noticia que proporciona más países con posibles para mantener-relanzar el consumo. Como además dichos países no eran hasta hace poco grandes consumidores, se desencadenan en ellos verdaderos tsunamis consumistas [5].

Pero vayamos a lo que Le Boucher llama el «tercer choque» [6] y paseémonos por lo que aquí hemos llamado el «eje de las finanzas».

Señala Slvain Cypel [7] que la recesión «ya ha llegado claramente» y cual es su mecanismo: «El empleo ha quedado tocado porque la inversión disminuye. Ésta disminuye porque las condiciones del crédito han sido endurecidas. Los banqueros prestan menos porque la implosión de la «burbuja» de los préstamos hipotecarios no sólo afecta a los resultados, (si no que) también afecta a su capital fijo, (ya que) al derrumbarse el valor de la propiedad inmobiliaria, se derrumba también el valor de la vivienda que recuperan vía los embargos». En el origen hallamos ciertamente la mencionada burbuja: las concesiones de crédito enloquecieron porque «apenas comprada la vivienda, se revalorizaba, lo cual permitía refinanciarse y reendeudarse»(8).

¿Y ahora? Pues lo sencillo seria:

1º relanzar la maquinaria económica inyectando liquidez (o sea poner a funcionar la maquina de hacer billetes), o/y aumentar el déficit publico, o/y aflojando las condiciones de concesión de créditos, o/y bajando los tipos de interés, o/y estableciendo moratorias varias…

2º y apretar el culo hasta sortear la próxima nueva oleada de crisis cuando «aquellos que se han dedicado a endeudarse masivamente para comprar empresas a crédito [8] se encuentren con que no podrán hacer frente al reembolso del crédito, y cuando los bancos tengan que proceder a nuevos embargos…» [9].

O sea chapucear, sorteando sacudidas que serán cada vez más fuertes. Porque la cuestión real es otra: se trata de una degeneración de la variante anglosajona del sistema capitalista, degeneración hiperfinanciarizada a la que propende, naturalmente, la variante antes mencionada; pero que pueda afectar a las otras variantes dada la interrelación y los flujos planetarios.

«Hipercapitalismo» anglosajón. Explica Pierre Larrouturou [10], creador de la expresión, que dicha variante anglo-sajona «nace en los años Reagan-Thatcher cuando es bloqueada la progresión de los salarios, y el paro masivo provoca la precarización de los trabajadores mientras son privilegiados los accionistas. El descenso de la parte de los salarios en la redistribución de las riquezas que arrancó en el mundo anglo-sajón, pasa después a todos los países desarrollados, y fue acentuado por la irrupción de China y de su mano de obra barata.

Pero claro: para que la maquina siguiera funcionando, había que hacer que los trabajadores consumieran por lo que se les incitó a endeudarse, y a sobre endeudarse, y ello, mientras se disparaban las desigualdades. El neoliberalismo necesita estructuralmente un endeudamiento creciente para prosperar» [11]. A la vista de esto, no sirve de mucho cruzar los dedos mientras se relanzaría el crédito interno y externo para relanzar el consumo. Hay en efecto dos palabras claves en toda esta problemática de crisis: la primera el crédito; la 2ª, la mundialización.

De que el crédito constituye un acelerador económico de 1ª magnitud, pueden dar cuenta sin ninguna duda las clases medias europeas y anglosajonas durante los 30 años gloriosos de crecimiento económico post 1945. Pero hay un caso aún más arquetípico: el de un país, los USA, que históricamente, ha hecho su agosto tras pasar a vivir del crédito después de haberlo hecho mediante el expolio. Fue Jacques Rueff, el asesor económico del General De Gaulle [12], quien primero describió las circunstancias que le permitieron a los USA pasar de una modalidad a otra de vivir a costa de los demás: fue gracias a respaldar el dólar y su masiva emisión, también con las reservas de oro y de divisas de países aliados (los cuales, ante el avance alemán, las habían trasladado a los USA en 1914). El resultado final de esa burbuja financiera destinada a financiar una guerra exterior y el ascenso del «American Way of life» fue… la crisis de 1929, cuando las «fuerzas vivas» económicas, de pronto, se «percataron», con pánico, de que vivían, financieramente, sobre un castillo de naipes.

La historia de los USA es la de un país carroñero que esperaba heredar de imperios agonizantes: le bastaba con tender los brazos y esperar, que algo caería… La II Guerra Mundial, al hincar de rodillas a Alemania, aceleró el proceso. Los acuerdos de Bretton Woods «legitimaron» el primero de los mas increíbles golpes de Estado monetarios: el dólar (y accesoriamente la «colega Libra Esterlina») fue consagrado moneda de cambio por excelencia: podía sustituir al oro y a las demás divisas. Es más: se había tornado él mismo, en el oro y las demás divisas. Pero (y no es un «pero» cualquiera), al tiempo que era la divisa internacional por excelencia, seguía siendo la moneda interior del país; el cual podía financiar guerras anticomunistas al igual que potenciar un consumo y un nivel de vida internos destinados no sólo a evitar la tentación comunista en las clases populares [13] sino también a la puesta en entredicho de cómo una elite muy restringida sobreexplotaba a una población inculta, muy influenciable y moldeable. Con dos garantías: una política monetaria y de cambio impuesta a los demás países [14] y que permitía, a través de un dólar fuerte, no sólo hacer frente a unos déficit comerciales y de la balanza de pagos, sino también drenar el ahorro de los demás para compensar la falta de ahorros y los déficit presupuestarios.

Insuficiente: cuando los franceses suben el tono, se ponen a denunciar que los USA viven muy por encima de sus posibilidades, y amenazan con pedir la conversión de sus (muchas) reservas de dólares en oro, se produce el segundo genial golpe de Estado monetario: Nixon suspende unilateralmente la convertibilidad del dólar en oro.

A partir de ese momento, los gobiernos europeos, japonés y otros, se encontraron ante el dilema de, o bien reconocer que sus reservas en dólares poco valían, o bien acordar entre todos mirar para otro lado y apencar… Conforme la productividad de los USA bajaba y su desindustrializacion se disparaba, su economía se financiarizaba. Pero ello fue compensado por el entusiasmo del capital y, sobre todo, por la rendición de los demás gobiernos ante una mundialización sobre todo destinada

1) A permitir al capital, sobre todo el anglosajón, instalarse, casi instantáneamente, allá donde el beneficio es mayor y… repatriable.

2) A favorecer una mayor libertad de circulación de capital (o sea del ahorro) hacia los centros financieros (sobre todo norteamericanos o dominados por). Hoy, pasada ya la euforia que provocó el que los dólares excedentarios pasaran a engrosar enormemente las reservas de los demás países y dopar durante años el crecimiento mundial, el sistema ha demostrado que se está llegando al final del camino. Excepto que los paganinis sigan siendo los imbéciles de la historia, ya va siendo hora de que los USA rebajen su «way of life» a la altura de su capacidad productiva y financiera reales y dejen que otros tomen sus propias decisiones y sus propios modelos de desarrollo. Porque otros pueden ser el motor del consumo, pero también de la producción en un mundo que no sólo en lo militar y en lo político, sino también en lo económico y en lo financiero, no tiene otra salida que la multipolaridad.

Vayámonos al análisis de Thomas Cantaloube [15]: Bush «en ningún caso les dirá a los americanos la verdad. Ni tampoco les dirá que ya es hora de amarrarse el cinturón y de ahorrar más. De

renunciar a los regalitos fiscales y de reducir su consumo energético. No: los americanos creen aún que son los reyes del petróleo cuando en realidad viven del crédito de los chinos. El problema reside en que la negativa de los norteamericanos de mirar la realidad de frente, puede arrastrar al mundo a una espiral infernal… Los chinos, otra vez, van a ser puestos a contribución para comprar Bonos del Tesoro americano. Pero esos empréstitos van a agravar aún más la deuda americana y depreciar al dólar. ¿Hay que aceptar la jugada? No, porque la depreciación del dólar va a restar competitividad a Europa y depreciar nuestras reservas de cambio, así como las chinas, las japonesas y las rusas. Dicho de otra manera, los anglosajones se disponen de nuevo a «mantener la cabeza fuera del agua» haciendo que sean los demás los que paguen por sus errores y su modo de vida» [16].

Las soluciones, a plazo, son otras que las hasta ahora propuestas. Claro que supondrían una independencia de las clases políticas europeas en relación con el Imperio -y el capital- de los que sólo se ven atisbos. Por ejemplo: antaño se pedía a las economías no norteamericanas pero sólidas ser algo así como las «supletorias» del «big one». Se trataba de que tomaran el relevo (eso si, momentáneo) del motor norteamericano hasta que éste recuperara su capacidad de crecimiento. Hoy, sin embargo, se reza por un «desemparejamiento» (un «decouplaje») de dichas otras economías en relación con la norteamericana. ¡La risa que debe darle a un gran economista como Samir Amin partidario de la «desconexión» cuando ha sido denigrado, o al menos obviado, por tanto colegas «economistas»!

Y se reza también por la multipolaridad económica. Un liberal como Le Boucher apuesta por China: «Las economías en desarrollo han crecido vertiginosamente: ya representan el 50% del PIB mundial (en paridad de poder adquisitivo)». El «dragón» (chino), se traga la mitad de la producción de carne de cerdo, ídem para el cemento, y un tercio del acero. Su consumo del petróleo se triplicara de aquí al 2030» [17].

Pero el problema es que China es demasiado dependiente de los USA: «El déficit norteamericano tiene su otro platillo en el excedente asiático. China se ha transformado en el taller de Norteamérica y, al acumular reservas monetarias (en dólares) es su acreedor» [18]. Dicho en Román Paladino: ambos se tienen agarrados por las partes...

¿Y Europa en esto? A pesar de la división política (por cierto fomentada por los USA y la Gran Bretaña), somos en torno al «plátano azul» [19] un mercado de casi 400 millones de consumidores (y más si se suman Turquía y el Maghreb), un mercado lo suficientemente grande como para poder sobrevivir por si mismo con una capacidad expansiva notable (el grado de endeudamiento de un francés es el tercio del de un norteamericano)… si se le protege (por ejemplo, restableciendo ya el control de cambios, esta vez en beneficio del Euro) . En todo caso no hay salvación para nosotros en lo que ya es la hiperimpotencia U.S.

Notas

[1] Si es que en algún momento histórico fue «único»…

[2] el indú

[3] Eric Le Boucher: «Triple choc sur l’economie mundiale» ; Le Monde 17-03-08.

[4] En el caso de estos tres últimos productos, también contribuye al alza de precios la estupidez de los bio-carburantes. Por cierto, que una subida del precio del petróleo suele redundar en mayores proporciones, y en más petróleo…

[5] El consumo es «la madre del cordero» del crecimiento económico: en una sociedad industrial, paradójicamente, producir es lo más fácil. Pero otra cosa es colocar lo producido, algo esencial en una economía capitalista, dado que sin «realización» (es decir que te paguen por lo que produces) no cabe beneficio.

[6] Op.cit.

[7] En «Aux Etats Unis les signes d’une récession proche se multiplient», Le Monde 10-03-08.

[8] Cypel ; Op.cit.

[9] Véase la revista Marianne del 17-03-08 «la segunda crisis del capitalismo del endeudamiento avecina y será tan fuerte (como la de los prestamos hipotecarios). Mismas causas, mismos efectos: los bancos que fueron generosos e inconscientes concediendo prestamos hipotecarios de alto riesgo a las parejas norteamericanas, hicieron lo propio con los grupos de invasores privados deseosos de comprar empresas endeudándose (LBO)… los bancos tienen ahora en sus cuentas centenares de miles de millones de créditos LBO. Pero ya nadie quiere adquirirlos…».

[10] In «Le livre noir du liberalisme», Paris 2007.

[11] Ver también, en Marianne del 01-02-08 «L’hypercapitalisme marche avec la dette».

[12] En «L’ere de l’inflation» Paris 1964 ; y en «Le peché monetaire de l’Occident» Paris 1974.

[13] Un día se reconocerá que la ideología central del siglo XX fue el Comunismo: todo se hizo o se deshizo en función del mismo.

[14] Por ejemplo, se obligaba a los alemanes a reevaluar el marco para evitar una devaluación del dólar.

[15] In «L’Asie et l’Europe vont payer pour l’Amerique, Marianne 01-02-08.

[16] Thomas Cantalouche, Op Cit.

[17] Op. Cit.

[18] Le Boucher Op. Cit.

[19] La mayor concentracion industrial del planeta, en torno al eje.

samedi, 19 décembre 2009

An Alternative to the American Empire of the New World

uncle-sam-bruised-economy.jpgAn Alternative to the American Empire of the New World

By Jaroslaw Tomasiewicz /

Almost childish naiveté, a lack of imagination, simplifications reaching commonness, blind generalizations – these are the impressions one gets after reading Francis Fukuyama’s famous essay `The End of History and the Last Man’. Communism’s crash in the East and the retreat from the “welfare state” in the West are, in the author’s opinion, supposed to mean “the end of history”. Humanity has already found its Kingdom of Heaven, which is liberal democracy married to liberal capitalism, and at this point any change or movement becomes impossible and aimless. In his “wishful thinking” Fukuyama is blind to the liberal model’s crisis, exemplified by such things as growing electoral absence, the loss of credibility of the great traditional parties [1], and the constant continuance of recession. Fukuyama doesn’t want to notice the vitality and dynamism of authoritative free-market systems because this would shake his theory of an unbreakable relationship between parliamentary democracy and the free market. [2] Fukuyama believes in the absolute of the current model of civilization and cannot imagine the existence of humanity in a way different from the technological civilization of economic growth. With the disarming trust of a child, Fukuyama believes that reaching the Paradise on Earth is quite possible (What else would one call “the best possible state of affairs”?).

I guess that is enough of enumerating the new Eternal Happiness Prophet’s mistakes.. Without a shadow of a doubt, the days of August 1991 [3], although not meaning the end of humanity’s history, ended one special age of it. It ended the age in which the major problem was making people happy by fulfilling their material needs, and the most important of the conflicts (whose expression was ideological rivalry between egalitarians and liberals) was attached to distribution of the consumers’ goods. However, as soon as the social-etatists [adherents of the welfare state] disgracefully stepped down from the stage of history and the free-marketers, as it seemed, triumphed everywhere, the apparent monolith of the “free world” started breaking up again. On a global scale, the “cold war” between the communist East and capitalist West is being replaced by economic occupation of the backward Peripheries by the highly-developed Center. [4] On the internal political scenes, the conflict between the “globalists” [5] and defenders of political autonomy and cultural identity begins to sharpen. There is growing resistance to the self-driving economic growth which, by destroying the natural environment, becomes a threat to the further existence of the human species. Sooner or later these conflicts will find their ideological expression and take the place of the old division between the right and the left wing. [6] New division lines run across the traditional parties. Occurrences that could be noticed during the French referendum concerning the Maastricht treaty can be treated as a standard example: political, economic and cultural elites are quite “pro-globalist” and among ordinary people there is much resistance. The great parties of the center remain the defenders of the “status quo” and at the same time the extreme wings of the political scene are protesting. [7]

New opposition – Resistance to the New World Order – is actually going to develop from the political extremes or, more directly, from those factions of the current right and left wing opposition, which – responding to the challenges of the new reality – will rethink their assumptions. The rest will end up in a Skansen museum of political folklore. The extreme right wing will break into the totalitarians fascinated with a vision of global empire and ethnocentrists in whom the devotion to national traditions, autonomy and liberties will win. The same differential process waits for the left wing. The gauchistes [8] have been so far behaving like The Red Army, releasing everyone from everything by force (which has led them into several conflicts not only with the oppressive System but also with different factions of the opposition and the majority of ordinary people). While fighting against national states, they don’t notice that above their hitherto enemy grows a new ogre – the supranational super-state that is even less democratic, less responsible to the societies they govern, and more distant from people. Perhaps the left wing, following its old prejudices, will look for an ally against the state, the Church and family in the supranational structures of the Invisible Empire. [9] However, the victory of the Empire over dying national states and traditional communities will be compulsory, because it will put a lonely and rooted out individual in front of the monster of supranational techno-bureaucracy. And destroying this Beast will certainly require much more strength than the gauchistes have!

NEW ALTERNATIVE: BACK TO PROUDHON

Where is the way out of this trap? What are the requirements for creating New Resistance? Firstly, traditional values such as those rooted in family, ethnic or religious groups have to be rehabilitated (or at least a “non-aggression pact” with the defenders of these “natural communities” should be signed). Secondly, there is a need to accept the rule of self-limitation; self-limitation of people’s needs in order to save nature, self-limitation of an individual’s freedom in other people’s communities or society’s favor. Third, and most important, a pluralistic vision of the world, in which ideas and behaviors different from the standards of Political Correctness are on equal terms, also has to be accepted. When fighting for freedom of your own expression, you cannot deny other people this law, even if they are very different from you! [10] A pluralistic, decentralized society can be the only alternative to a unified and centralized New World Order, a formless plasma fed on pop-culture. Not only does territorial decentralization (broadening the authority of communities and regions) have to occur but also different cultural communities should gain autonomy. [11] Not only the state but also every community should have the opportunity to proclaim its own laws for its people. In that situation, coexistence of traditional patriarchal families and feminists’ or homosexuals’ pairs, religious fundamentalists’ communities and counter-cultural groups, military- racist communities of the right wing and anarchistic or communistic groups of the left wing would be possible. So that the territorial and cultural decentralization doesn’t become a fiction, it has to be accompanied by economic decentralization and that would mean eliminating the concentration of property and production forms. The information technology revolution gives the opportunity to make this process real. I believe that this idea of a pluralistic society is the only program, which would be able to combine so many scattered and quarrelling sections of anti-System opposition. [12] The only requirement for accepting it is surrendering the ambition of making the whole of humanity happy by your own idea (It will be enough if you concentrate on making yourself happy only). Accepting the variety of the world and the dissimilarity of different people is a task not only for the right-wingers. Otherwise, there will still be the same situation in which a huge silent majority of people are watching scuffles between a handful of left-wing extremists and equally few extremists of the right-wing on TV and the whole show is directed by the elite from behind the scenes.

1. In France antisystem parties such as the communists, the ecologists and the nationalists achieved all together 45% of the votes, which is – together with those who didn’t vote – the majority of the society. In the USA an unattached candidate, Ross Perot, had a practical chance to win the presidential election; everywhere in the world unconventional parties such as the Belgian ROSSEM or Swiss Auto-Partei are growing in strength.

2. Moreover, it would lead to a suspicion that our well-organized mass society inevitably creates technocratic crypto-totalitarianism!

3. The failure of the coup d’etat in Moscow ended the agony process of communism in its home.

4. “The Center” in my opinion includes highly-developed countries in West Europe, North America and those of the Pacific basin, “the Peripheries” include the majority of the countries of the `Third World’. Post-communistic countries have so far been the middle zone, but it is more probable that they will be degraded to “the Peripheries” than promoted to “the Centre”.

5. I call “the globalists” a formation which, in the name of economic growth (which would be the key to guaranteeing prosperity for everyone), aims to expand the global market by international integration, which leads to further centralization and cultural homogenization. Another, although not so important, element of the globalisation ideology is, in my opinion, the fetish of “human rights”, whose defense and spread is also said to be one of the purposes of international integration. (See “The New Military Humanism” by Noam Chomksy)

6. However, this doesn’t mean that the problem of national income distribution has already lost its meaning! It is still very important, especially in the poor countries of the Peripheries.

7. In case of Maastricht both the French nationalists and communists voted “No!”

8. “Gauchistes” is a French name I give to all groups from the extreme left wing that are not pro-Soviet.

9. The very same mistake has been made on the part of regionalists (for example, Italian Lega Nord) enthusiastic with the idea of unifying Europe. Actually the “Europe a la Maastricht” won’t be a continent of autonomous regions but a satrapy of the Eurobank and Brussels’s eurocrats.

10. People’s freedom consists also in freedom of their irrational prejudices!

11. Just as in the Middle Ages, when ethnic and religious groups and estates had distinct laws and customs, no matter where they lived.

12. In the countries of the Peripheries, the demand for national emancipation from the political, economic and cultural domination of the Center could be an additional (or even the major) link between the left and the right wing opposition.

Une biographie d'Ezra Pound: le cercle du poète disparu

ezra-pound-negli-anni-giovanili1.jpgUne biographie d'Ezra Pound

Le cercle du poète disparu

 

 

« Avec le véritable artiste, II y a toujours un résidu, il y a toujours en lui quelque chose qui ne passe pas dans son œuvre. Il y a toujours une raison pour laquelle l'individu est toujours plus intéressant à connaître que ses livres. » Cette définition qu'Ezra Pound a pu faire de l'artiste en général résume très précisément le propos de la biographie que John Tytell a consacré à l'auteur des Cantos, car si Ezra Pound demeure pour nombre d'écrivains le poète le plus important de son siècle, que dire du personnage baroque et provocateur qu'il s'est efforcé d'être tout au long d'une vie calquée sur l'histoire ?

 

Qu'on ne s'y trompe pas. Malgré son prénom aux consonances bibliques et les airs de prophète qu'il prenait volontiers vers la fin de sa vie, Ezra Pound n'a été ni dans son œuvre ni dans son existence l’enfant de cœur tourmenté par la notion de péché ou d'humilité. Dis­sident de l'Amérique, du mauvais goût et des valeurs approximatives d'un pays où la Bible et le dollar tiennent lieu de référence, Pound l'est déjà dès son plus jeune âge. « J'écrirai, déclare-t-il à l'âge de douze ans, les plus grands poèmes jamais écrits ». En cette fin de XIXe siècle, en plein Wild West américain, il se découvre une vocation poétique pour le moins incongrue si l'on en juge par les préoccupations de ses compatriotes de l'époque, plus soucieux de bâtir des empires financiers que de partir en guerre contre des moulins à vent. Pendant des années, en subissant les vexations des cuistres, il va se consacrer à l'étude du provençal et à l'art des ménestrels et troubadours précurseurs de la littérature moderne.

 

L'éducation européenne

 

La provocation, ou plutôt le mépris des conventions auquel il restera attaché tout au long de sa vie, ne vont pas tarder à indisposer les habitants des diverses bourgades où il étudie et professe l'art de la poésie. Ses amours avec une sauvageonne de quinze ans, des poèmes comme L'arbre, témoins, comme le note Tytell, d'un paga­nisme croissant, et sa haine de l'Amérique sont le signe avant-coureur que sa vie entière allait devenir un défi lancé aux systèmes occidentaux et une dénonciation de la religion moderne qu'il tenait pour la servante de ces systèmes. Les conflits incessants avec le monde universitaire qui lui refuse quelque chaire, l'ordre moral et l'étroitesse d'esprit de ses contemporains vont avoir pour conséquence le départ de Pound pour l'Europe. Venise, tout d'abord, où il s'exerce au dur métier de gondolier, puis Londres, où son talent va enfin éclore. C'est pour lui le temps des amitiés littéraires avec George Bernard Shaw, puis James Joyce, T.S. Eliot.

 

« Les artistes sont les antennes de la race », déclare-t-il, se faisant ainsi le chantre d'un élitisme et d'une aristocratie de l'art dont il pensera, des années plus tard, trouver une représentation dans le fas­cisme italien.

 

Le Londres aux mœurs victo­riennes ne nuit en rien pour l'heure à l'effervescence d'un génie que l'on commence à voir poindre ici et là dans les revues auxquelles il collabore. La guerre de 14 éclate et nombre des amis de Pound n'en reviendront pas. « C'est une perte pour !'art qu'il faudra venger écrit-il, plus convaincu que quiconque que cette guerre est une plaie dont l'Europe aura bien du mal à cicatriser. Peu après, il se met à travailler à un nouveau poème, « un poème criséléphan­tesque d'une longueur incommen­surable qui m'occupera pendant les quatre prochaines décennies jusqu'à ce que cela devienne la barbe ». Les Cantos, l'œuvre maitresse et fondamentale de Pound, était née.

 

Rencontre avec Mussolini

 

Puis, las de la rigueur anglaise et des Britanniques qu'il juge snobs et hermétiques à toute forme d'art, Pound décide de partir pour la France.

 

Il débarque dans le Paris léger et enivrant de l'après-guerre lorsque brillent encore les mille feux de l'intelligence et de l'esprit. Les phares de l'époque s'appellent Coc­teau, Aragon, Maurras et Gide. Pound s'installe rue Notre-Dame­-des-Champs et se consacre à la littérature et aux femmes. À Paris toujours, il rencontre Ernest Hemingway, alors jeune joumalis­te, qui écrira que « le grand poète Pound consacre un cinquième de son temps à la poésie, et le reste a aider ses amis du point de vue matériel et artistique. Il les défend lorsqu'ils sont attaqués, les fait publier dans les revues et les sort de prison. »

 

La France pourtant ne lui convient déjà plus. À la petite histoire des potins parisiens, il préfère l'Histoire et ses remous italiens. L'aura romanesque d'un D'Annun­zio et la brutalité de la pensée fas­ciste l'attirent comme un aimant.

 

À Rapallo, comme Byron avant lui, Pound partage son temps entre l'écriture – « Les Cantos sont de plus abscons et obscurs », écrit-il à son père –, la réflexion politique et la natation. Son épouse et sa maîtresse enceinte se côtoient tant bien que mal, alors que lui-même flirte davantage avec le régime fas­ciste. En 1933, il rencontre Mussoli­ni pour l'entretenir de ses théories économiques auxquelles le Duce ne prêtera pas la moindre attention. Le « vieux Mussy » confiera toutefois à Pound qu'il a trouvé ses Cantos « divertenti ». « Depuis quand es-tu économiste, mon pote ? lui écrit Hemingway, la dernière fois que je t'ai vu, tu nous emmerdais à jouer du basson ! »...

 

La même année, Pound obtient une tribune à la radio de Rome. L'Amérique, « Jew York » et Confu­cius vont devenir ses chevaux de bataille. Pendant des années, le délire verbal et l'insulte vont tenir lieu de discours à Pound, un genre peu apprécié de ses compatriotes...

 

En 1943 le régime fasciste s'écroule, mais la République de Salo, pure et dure, mêlera la tragédie au rêve. Les GI's triomphants encagent le poète à Pise avant de l'expédier aux États-Unis pour qu'il y soit jugé. « Haute trahison, intelligence avec l'ennemi », ne cessent de rabâcher ses détracteurs nombreux. Pound échappe à la corde mais pas à l'outrage d'être interné pendant douze ans dans un hôpital psychiatrique des environs de Washington. Lorsqu'on lui demanda de quoi il parlait avec les toubibs, il répondit : « D'honneur. C'est pas qu'ils y croient pas. C'est simplement qu'ils n'en ont jamais entendu parler. »

 

Le 9 juillet 1958, le vieux cowboy revient à Naples et dans une ultime provocation répond à l'attente des journalistes par le salut fasciste, dernier bras d'honneur du rebelle céleste.

Christian Ville Le Choc du Mois n° 30 - Juin 1990

 

Ezra Pound, le volcan solitaire, de John Tytell, Ed. Seghers.

dimanche, 13 décembre 2009

"The Web of Debt"

Brown_Web_of_Debt_1.jpgThe Web of Debt

Inleiding

De huidige financiële crisis is niet uit de lucht komen vallen. Het is slechts een samenkomst van meerdere factoren die nu eindelijk hun hoogtepunt bereiken. Dat bankiers reeds lang het financiële systeem manipuleren om daar zelf ongewoon grote winsten uit te slaan, is een publiek geheim. Maar wat mensen minder weten, is dat dit al eeuwenlang bezig is op een schaal die ongezien is. In het boek “The Web of Debt” gaat Ellen Hodgson Brown dieper in op de manipulatie van de geldstromen door de bankiers.

Speculatie doorheen de eeuwen

In een goede 530 bladzijden geeft Ellen Brown een verbazingwekkend duidelijke geschiedenis van de manipulatie van het financiële en monetaire systeem. De nadruk ligt vaak op de evolutie van het bankwezen in de V.S.A., wat echter ons Europeanen niet mag tegenhouden om ons ook in deze materie te interesseren. In deze geglobaliseerde wereld, gedomineerd door het financiële en militair-industriële apparaat van de V.S.A. is het altijd handig om te weten hoe de dingen werken in het centrum van de macht. Ellen Brown geeft een duidelijk overzicht hoe bankiers reeds in het verleden probeerden om misbruik te maken van crisissituaties om enorme winsten te slaan. Zo boden allerlei machtige bankiers van de Eastern Banks aan het begin van de Amerikaanse Burgeroorlog aan Lincoln aan om een lening te geven van 150 miljoen dollar. De keerzijde hiervan was echter dat dit aan een woekerrente was van 24% tot 36%. Hier wordt ook een eerste alternatief gegeven voor het huidige systeem: een monetair beleid van “Greenbacks”. Hierbij zou geld niet langer gebaseerd worden op goud of op speculatie, maar op een economische realiteit. Een Greenback zou immers een bepaalde economische realiteit weerspiegelen.

Ook worden bepaalde “klassiekers” in de wereldwijde financiële zwendel besproken. De speculaties van de beruchte Rotschild-familie in de financiële wereld, de akkoorden van Bretton Woods (die de Europese munten vastketenden aan de dollar), het Akkoord van Washington (dat de facto ervoor leidde dat onze munten nu enkel op speculatie zijn gebaseerd) etc… Zeker ook lezenswaardig is het stuk waarin gesproken wordt over de plannen van sommigen om een soort wereldmunt te creëren via de Speciale Trekkingsrechten (Special Drawing Rights). Dit zou echter de facto neerkomen op een wereldbank die naar hartelust geld zou kunnen bijdrukken. De hyperinflatie van Duitsland in het Interbellum (waarbij men letterlijk een kruiwagen geld nodig had om een brood te kopen) zou dan nog maar klein bier vergeleken zijn met de mogelijke financiële rampen die zouden kunnen ontstaan door het invoeren van deze Speciale Trekkingsrechten.

Een oplossing?

Het laatste gedeelte van het boek wordt gewijd aan het bespreken van alternatieven voor het huidige systeem. Waar het boek in de vorige hoofdstukken nog een goede bespreking en analyse geeft van het huidige systeem, en hoe het tot stand is gekomen, is dit hoofdstuk helaas gekenmerkt door een idealistische, en bij momenten niet echt enorm doordachte, visie op geld. Tegenover het beleid van het oneindig bijdrukken van geld om de stijgende kosten via inflatie proberen op te lossen, stelt Ellen Brown helaas hetzelfde systeem voor. Maar dan met meer macht voor de staat i.p.v. de bankiers. Als nationalisten zouden wij dan ook veel beter nadenken in de richting van een Europese versie van Greenbacks. Maar los van dit laatste deel is dit boek zeker aan dikke aanrader. De analyse die wordt gemaakt is zeker bruikbaar door ons solidaristische volksnationalisten om te kijken waar het probleem is ontstaan en hoe het zich verspreid heeft. We zullen een andere oplossing moeten bedenken dan Ellen Brown, maar om dat te kunnen doen moeten we eerst het probleem begrijpen. En daar is dit boek meer dan geschikt voor. Wel nog even vermelden dat dit boek zover ik weet enkel in het Engels verkrijgbaar is. Via amazon.co.uk kan je het alvast zonder probleem bestellen.

Yves Pernet

BROWN, E., “The Web of Debt”, Third Millenium Press, Baton Rouge, 2008

Bovenstaand artikel komt uit het themanummer van Revolte over de financiële crisis.

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vendredi, 04 décembre 2009

Warum es in den USA (noch) keine Hyperinflation gibt

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Warum es in den USA (noch) keine Hyperinflation gibt

Michael Grandt

Die amerikanische Notenbank »Federal Reserve« hat die Geldmenge drastisch erhöht. Normalerweise ist das die beste Vorbedingung für eine Hyperinflation. Aber warum ist diese bisher noch nicht ausgebrochen?

Eigentlich besagt die klassische ökonomische Theorie, dass die US-Wirtschaft eine Hyperinflation erleben sollte, weil die amerikanische Notenbank bisher 2,2 Billionen Dollar in das System gepumpt hat.

Mehr Geldumlauf bei gleichbleibender Güterproduktion bedeutet Inflation. Die Geldmenge betrug im Jahre 2008 noch 928 Milliarden Dollar, heute sind es über zwei Billionen. Das sollte eigentlich eine hohe Inflation herbeiführen. Aber stattdessen ist die Kerninflation (die Verbraucherpreise ohne Lebensmittel- und Energiekosten) von 2,5 Prozent im Jahr 2008 auf derzeit 1,5 Prozent zurückgegangen. Weshalb konnte die »Great Depression II« bisher vermieden werden, was ist also geschehen?

Keith Fitz-Gerald, Chief Investment Strategist von Money Morning, analysiert die Gründe:

I. Banken horten Bargeld

Es mag unglaublich klingen, aber trotz der Billionen von Steuergeldern, durch die Rettungsaktionen finanziert wurden, um das massiv angeschlagene US-Finanzsystem zu konsolidieren, horten die meisten Banken tatsächlich Bargeld.

Anstatt es aber in Form von Krediten an Verbraucher und Unternehmen weiterzugeben, wie es eigentlich gedacht war, verwenden es die Banken als Reserve – und zwar bereits als das 20-Fache des Volumens, das von der Fed eigentlich vorgeschrieben ist. Demzufolge ist die Kreditvergabe drastisch zurückgegangen.

II. Die USA exportieren die Inflation nach China

Das bedeutet, dass billige Produkte aus der Volksrepublik China, die mit Dollar bezahlt werden helfen, die Preise in den USA niedrig halten. Wenn die Preise in China steigen würden, hätte dies eine sofortige Verteuerung von Waren, wie etwa Jeans, Tennis-Schuhe, Spielzeug, medizinische Geräte, Medikamente usw. zur Folge.

III. Die Verbraucher halten sich zurück

Wenn mehr Geld im Umlauf ist, sollte normalerweise die Nachfrage steigen. Da die Banken das Geld aber zurückhalten, sinkt der Konsum. Das Konsumwachstum ging deshalb von 1,4 Prozent auf nur noch 0,7 Prozent (Angaben des US Department of Commerce) zurück. Das ist verheerend für die Binnennachfrage, denn die Verbraucherausgaben machen rund 70 Prozent der gesamten US-Wirtschaft aus. Die Zurückhaltung bedeutet, dass die Menschen herausgefunden haben, dass es wichtiger ist Geld zu sparen, als es auszugeben.

IV. Die Wirtschaft stellt keine neuen Arbeitnehmer mehr ein

Die Löhne und auch die Lohn-Inflation sind niedriger als im Vergleich zu den üblichen Werten einer gesunden Wirtschaft. Menschen werden  immer noch in Teil- statt in Vollzeit eingestellt und somit an den Rand gedrängt. Vor der Finanzkrise gab es im Schnitt einen Beschäftigungszuwachs von einem Prozent pro Jahr, jetzt könnte er sogar um 4,2 Prozent sinken. Die Arbeitslosenquote liegt das erste Mal seit 23 Jahren über zehn Prozent.

All das hat also dazu beigetragen, die Inflation niedrig zu halten. Jeder dieser vier genannten Faktoren kann sich jedoch jederzeit ändern. Und so stürzen sich die Investoren begierig auf  die Version der Fed, dass alles in Ordnung ist und die Regierung die Inflation im Griff hat. Aber es kann ein böses Erwachen geben.

 

Gibt es einen Aufschwung?

Die Verantwortlichen in Washington werden nicht müde, das Ende der Rezession zu verkünden. Als »Beweise« für ihre Annahme führen sie die steigenden Gewinne vieler  Unternehmen an. Diese rühren aber in Wahrheit oft nicht von einer Umsatzsteigerung her, sondern von einer Kostenredzuzierung – und das sind zwei völlig verschiedene Dinge!

Die Schlussfolgerung von Keith Fitz-Gerald lautet deshalb: »Das Einzige, was die Fed tut, ist, die Verwaltung und die Daten zu manipulieren, und auch das macht sie nicht sehr gut.«

 

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Quelle:

http://www.moneymorning.com/2009/11/04/u.s.-hyperinflation/

 

Donnerstag, 26.11.2009

Kategorie: Wirtschaft & Finanzen

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jeudi, 03 décembre 2009

Deutschlands Goldreserven an USA verpfändet?

goldreserven.jpgDeutschlands Goldreserven an USA verpfändet?

Verschleierungstaktik der Bundesregierung



Die offiziellen Goldreserven der Bundesrepublik Deutschland, knapp 3.500 Tonnen mit einem Marktwert von rund 80 Milliarden Euro, gehören theoretisch zu den zweitgrößten der Welt. Dass dieser Schatz nicht im eigenen Land, sondern größtenteils in der Federal Reserve Bank of New York gelagert wird, wirft die Frage auf, wie es tatsächlich mit der Souveränität der Bundesrepublik bestellt ist. Denn ob die unter dem Straßenpflaster von Manhattan gebunkerten Goldbestände überhaupt noch verfügbar sind, ist ungewiss. Unter Finanzexperten heißt es nämlich, „die Amerikaner betrachten das deutsche Gold als eine Art Wohlverhaltenspfand“. Anders ausgedrückt: als eine Art Geisel für bundesdeutsches Wohlverhalten gegenüber den USA.

SCHWAMMIGE ANTWORTEN

Die Goldbestände entstanden vor allem in den 1950er und 1960er Jahren als Gegenfinanzierung der damaligen Überschüsse in der Leistungsbilanz: Lohn und Symbol des Wirtschaftswunders unter Ludwig Erhard. Sie sollten Deutschland in Zeiten schwerer Krisen absichern. Dieser Goldschatz ist vom deutschen Volk als wichtiger Teil der nationalen Währungsreserven hart erarbeitet worden. Dass so gut wie der gesamte Bestand in die USA „ausgelagert“ wurde, hat die Bundesregierung stets verheimlicht.

Auf Anfragen von Bürgern an die Bundesbank, wie es mit dem Verbleib des Goldes bestellt sei, folgen allenfalls schwammige Antworten. Entsprechend reagiert auch die Bundesregierung. Als der frühere CDU-Bundestagsabgeordnete Martin Hohmann 2002 eine Reihe von Fragen zu den deutschen Goldbeständen an die Parlamentarische Staatssekretärin im Bundesfinanzministerium, Dr. Barbara Hendricks, richtete, reagierte diese ausweichend und irreführend: „Die Deutsche Bundesbank hält einen großen Teil ihrer Goldbestände in eigenen Tresoren im Inland. Sie lässt allerdings auch Goldbestände an wichtigen Goldhandelsplätzen wie z. B. London verwahren.“

Diese Antwort ist eine grobe Verdrehung der Tatsachen. Denn inzwischen ist bekannt, dass nicht ein „großer Teil“ der deutschen Goldbestände, sondern nur ein kümmerlicher Rest im eigenen Land deponiert wurde. Zwischenzeitlich wurde zudem aufgedeckt, dass auch die seinerzeit von der Bundesregierung gegebene Begründung für die Auslagerung des Goldes nicht der Wahrheit entsprach. Berlin teilte mit, die „Aufbewahrung“ im Ausland habe sich „historisch und marktbedingt so ergeben, weil die Deutsche Bundesbank das Gold an diesen Handelsplätzen übertragen bekam“. Und: „Es macht aber auch aus betriebswirtschaftlichen Gründen Sinn, solange die Lagerung dort kostengünstiger ist als der Transport nach Deutschland und der Bau zusätzlicher Tresoranlagen.“ In einem kritischen Kommentar dazu heißt es, verschwiegen werde, „dass die Fremdlagerung unserer Goldreserven einen ganz anderen historischen Hintergrund hat. Tatsächlich wurde das deutsche Gold von den Amerikanern als Faustpfand für gutes Verhalten in der Zeit des Kalten Krieges angesehen.“

DER WUNSCH WASHINGTONS

Schon 1945 hatten sich die einmarschierenden Amerikaner des deutschen Reichsbankgoldes bemächtigt. Deshalb war die Reichsmark (RM) nur theoretisch bis zu ihrem Ende 1948 (Währungsreform) durch Gold gedeckt. Die D-Mark-Eröffnungsbilanz zum 21. Juni 1948 wies folglich kein einziges Gramm Gold auf. Aber bereits 1958 konnte die erst ein Jahr zuvor gegründete Bundesbank eine Goldreserve im Wert von 11,1 Milliarden DM melden! Dieses Gold war dank der hohen Exportüberschüsse im Rahmen der Europäischen Zahlungsunion (EZU) in die Bundesrepublik Deutschland geflossen.

In diesem Zusammenhang: Außenhandelsüberschüsse wurden in der vor 60 Jahren gegründeten EZU zu über 50 Prozent in Gold und Devisen beglichen. Der Rest wurde als Kredit stehengelassen und kam den Ländern zugute, die Defizite hatten. „Die EZU war nichts anderes als ein Verrechnungs- und Beistandskreditsystem. 1958, als 14 westeuropäische Länder die Konvertibilität ihrer Währungen einführten, wurde sie überflüssig“, heißt es in einer finanzpolitischen Betrachtung.

Unter den führenden Zentralbanken mit Goldbesitz sei die Bundesbank die einzige, die nur einen winzigen Teil ihres Bestandes auf eigenem Territorium aufbewahre. Es sei überhaupt „bemerkenswert“, dass die Bundesbank als „einzige“ der führenden Zentralbanken so verfahre. Weder die USA noch Frankreich oder Großbritannien kämen auf die Idee, ihr Gold in der Bundesrepublik Deutschland zu bunkern. Ein Finanzexperte: „Man hätte annehmen können, dass die Bundesbank nach der Wiedervereinigung und Auflösung des Ostblocks (Ende des Kalten Krieges) mit gutem Grund darauf pochen würde, zumindest einen Teil des Goldes zurück nach Frankfurt zu holen. Im Interesse guter Beziehungen zur internationalen Finanzwelt werden die Goldbarren wahrscheinlich bleiben, wo sie sind.“ Denn dies entspräche dem Wunsch Washingtons.

DER BLESSING-BRIEF

Sehr aufschlussreich in Bezug auf den Verbleib der Goldreserven ist, was David Marsh, Korrespondent der Financial Times von 1986 bis 1991, in seinem 1992 veröffentlichten Buch „Die Bundesbank – Geschäfte mit der Macht“ schreibt. So stellt es u. a. fest: „In den Tresorräumen in Frankfurt liegen nur etwa 80 Tonnen, d. h. knapp über 2 Prozent des Gesamtgoldes. Der Rest ist auf die Tresore anderer Zentralbanken, der Federal Reserve Bank in New York, der Bank of England und zu einem kleineren Teil auch der Banque de France verteilt.“ Vertraut sind intime Kenner der Frankfurter (Banken-) Szene auch mit dem so genannten „Blessing-Brief“, der in der Öffentlichkeit weitgehend unbekannt ist.

Karl Blessing stand der Bundesbank von 1958 bis Anfang 1970 vor. Zwischen ihm und der Bundesregierung existierte ein geheimes Verwaltungsabkommen. Besonders gefragt war die Kooperation zwischen Frankfurt und Bonn, als Gold wieder einmal in den Mittelpunkt der Währungspolitik rückte und als Washington Ende der 1960er Jahre einen neuen finanziellen „Ausgleich“ für die Stationierungskosten von US-Militär-Truppen in der Bundesrepublik forderte. Auf entsprechenden Druck zeigte Bonn zunächst nicht die gewünschte Haltung. Daraufhin wurde der Bundesbankpräsident tätig. Per Brief – „Blessing-Brief“ – sicherte er der Federal Reserve die „Immobilisierung“ der deutschen Goldreserven zu. Er versprach, dass die Bundesbank die Reserven nicht aus den USA abziehen werde, „solange die USA Stützpunkte in Deutschland unterhalten“. Dabei soll es einen „dezenten Hinweis“ aus US-Regierungskreisen mit Blick auf Berlin-West gegeben haben.

KEIN NACHVOLLZIEHBARER GRUND MEHR

Nach Beendigung des Kalten Krieges und dem Verschwinden des Eisernen Vorhangs gibt es keinen nachvollziehbaren Grund mehr für ein Verbleiben der deutschen Goldreserven in fremden Händen. Doch Hintergrundinformationen ist zu entnehmen, dass die Bundesbank nicht frei entscheiden kann, wo deutsche Goldreserven gelagert werden. Nach Aussage eines früheren Bankers könne die Bundesbank ihr Gold allenfalls unter einem Vorwand und nur in kleinen Mengen aus New York abziehen – alles andere würde als „Misstrauensbekundung“ bewertet.

Während sich Notenbanken weltweit verstärkt mit dem Edelmetall absichern, soll Deutschland offenbar weiter in der Abhängigkeit der Federal Reserve Bank of New York bleiben. Dass in letzter Zeit der Goldpreis einen Höhenflug verzeichnet, nutzen andere Staaten im nationalen Interesse. Doch der für unser Land zu ziehende Nutzen setzt die uneingeschränkte staatliche Souveränität der Bundesrepublik voraus. Zwar vermittelt die Bundesbank nach außen stets den Eindruck, dass sie jederzeit Verfügungsrechte über die deutschen Goldbestände habe. Aber in Washington bzw. in New York geht man davon aus, dass auch die schwarz-gelbe Regierungskoalition keine Ansprüche erhebt und der deutsche Goldschatz größtenteils dort bleibt wo er ist. Offenbar spielt für Regierende hierzulande keine Rolle, dass es sich um deutsches Volksvermögen handelt.

Hans Weidenbach

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mercredi, 02 décembre 2009

Washingtons Russland-Strategie: ein Trauerspiel

USA-Russia_gif_large.jpgWashingtons Russland-Strategie: ein Trauerspiel

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Die Regierung Obama hat es in nicht einmal sechs Wochen fertiggebracht, in der amerikanischen Eindämmungsstrategie gegenüber Russland ein völliges Durcheinander anzurichten. Der jüngste Schritt in die falsche Richtung war die Entscheidung, Vizepräsident Joe Biden nach Warschau und Prag zu schicken, um dort zu versuchen, das Vertrauen wieder zu kitten, das einen Monat zuvor durch Obamas überraschende Entscheidung, auf die Raketenabwehr in den beiden Ländern zu verzichten, erschüttert worden war. Russland macht sich das politische Chaos in Washington natürlich ohne Zögern zunutze. Immer mehr sieht es so aus, als fuchtelten die Vereinigten Staaten ohne klare strategische Ausrichtung um sich, ob in Afghanistan, im Irak, in Südamerika, in Asien oder jetzt in Zentraleuropa. Viele sprechen schon davon, hier »übernehme« sich ein »Imperium«. So oder so verblasst Washingtons Magie ganz rapide.

In den acht Jahren der Präsidentschaft Bush war die Politik Russland gegenüber klar und eindeutig. Washington hat die NATO in Richtung Osten erweitert und alle Mitgliedsländer des ehemaligen Warschauer Pakts einbezogen. Sowohl in Georgien als auch in der Ukraine wurde per Farbenrevolution ein Regimewechsel erzwungen und eine Regierung an die Macht gehievt, die Washington und der NATO freundlich gesinnt war. Als letzten Coup hatte Präsident George W. Bush Anfang 2007 die Stationierung von Raketen in Polen und den Aufbau hochmoderner Radaranlagen in Tschechien angekündigt. Washington war entschlossen, die einzig verbliebene Atommacht zu zersplittern, die eine Bedrohung für ihre Full Spectrum Dominance – die völlige militärische Beherrschung der ganzen Welt – darstellte. Mit Recht protestierte Moskau, dies bedeute für Moskau eine ernste Bedrohung und habe mit dem angeblichen Schutz vor iranischen Raketenangriffen nicht das Geringste zu tun. Das war vollkommen richtig.

Vielleicht, weil er sich davon aus Moskau Unterstützung für den Druck auf den Iran erhoffte, hat Präsident Obama im September überraschend angekündigt, die USA würden auf den Aufbau des geplanten Raketenschilds in Polen und Tschechien verzichten. Durch diese Nachricht wurde nun aber wiederum in den Augen der Osteuropäer die Glaubwürdigkeit der amerikanischen Sicherheitszusagen erschüttert. Die frühere tschechische Regierung von Ministerpräsident Mirek Topolánek, der die Zukunft seiner Regierung an die Unterschrift unter das höchst unpopuläre Raketenabkommen mit Washington gebunden hatte, wurde nach einem verlorenen Misstrauensvotum abgelöst. Der wegen ihrer Unterstützung für das Verteidigungsabkommen mit den USA nicht gerade beliebten Übergangsregierung des neuen Premierministers Jan Fischer wird jetzt durch Obamas überraschendes Umdenken der Boden entzogen. Topoláneks Regierung hatte der Stationierung der amerikanischen Radaranlagen gegen den Widerstand breiter Bevölkerungskreise und der parlamentarischen Opposition zugestimmt. Ohne diese Entscheidung wäre es wohl nicht zu dem Misstrauensvotum gegen Topolánek gekommen.

Am 23. Oktober gab der ehemalige tschechische Premierminister eine Erklärung ab, in der er US-Vizepräsident Biden aufforderte »die Gründe [darzulegen], die die Regierung Obama bewogen haben, die Radaranlagen in der Tschechischen Republik nun doch nicht zu errichten«. Angesichts von Obamas Entscheidung dränge sich die Frage auf, »ob sich die Vereinigten Staaten als Gegenleistung für bessere Beziehungen zu Russland aus Zentral- und Osteuropa zurückziehen wollen«.

 

Biden versucht, Polen und Tschechen zu beruhigen

Dass Obama jetzt Biden so kurz nach der Kündigung des ursprünglichen Abkommens mit einem neuen Angebot für eine abgespeckte Raketenabwehr nach Prag und Warschau geschickt hat, deutet auf eine ernstzunehmende politische Verwirrung in Washington hin. Wenn beabsichtigt war, dass Moskau sich als Gegenleistung vom Iran distanzierte, so ist es dazu nicht gekommen – die Beziehungen zwischen den beiden Staaten sind eher noch enger geworden.

 Jetzt hat Obama Polen und Tschechien durch Biden einen neuen Raketenabwehrplan angeboten. Polen solle dem Plan der Regierung Obama für ein »rekonfiguriertes« System in Europa zustimmen, in dessen Rahmen die Stationierung von zunächst see- und später auch landgestützten Raketenabwehrwaffen des Typs SM 3 vorgesehen sind. Nach dieser Vereinbarung könnten in Polen SM-3-Abfangraketen zur Abwehr von Kurz- und Mittelstreckenraketen stationiert werden. Bei der Vorstellung dieses Kompromisses erklärte Biden vor der polnischen Presse: »Unser Raketenabwehrsystem gewährleistet die Sicherheit Europas, einschließlich Polens, angesichts einer wachsenden Bedrohung. Die USA wird mit dazu dem neuen System besser dazu gerüstet sein als mit dem alten.« Ja, Obama habe die Stationierung von Raketenabwehrsystemen in Polen und Tschechien ursprünglich damit begründet, sie dienten dazu, vom Iran abgeschossene Raketen abzufangen. Als Grund dafür, dass jetzt Bushs Plan für einen Raketenschirm aufgegeben wird, zitierte Biden neue geheimdienstliche Erkenntnisse, wonach die Reichweite der iranischen Raketen nicht bis Europa reichte; die zuvor geplanten Verteidigungssysteme seien deshalb unnötig. Moskau hatte jedoch stets darauf bestanden – und Bidens Äußerungen scheinen dies erneut zu bestätigen –, die Stationierung in Polen und Tschechien sei in Wirklichkeit direkt gegen Russland und die russische Atomstreitmacht gerichtet.

 

Osteuropas Vertrauen in Washington ist erschüttert

Trotz Bidens hastig vorbereiteter Osteuropa-Reise, bei der er seine Gesprächspartner davon überzeugen wollte, das geplante neue System sei sogar besser als das alte, ist das Vertrauen in die Verlässlichkeit der US-NATO-Partnerschaft schwer erschüttert. Der polnische Außenminister Radoslaw Sikorski, der zuvor als Verteidigungsminister das ursprüngliche Raketenabwehr-Abkommen mit der Regierung Bush ausgehandelt hatte, sagte kürzlich anlässlich eines Besuchs in Washington, Osteuropa brauche eine »strategische Aufmunterung« von Washington. Sikorski rief die USA dazu auf, die NATO müsse in der Region präsent sein, damit deren Wert für das Bündnis nach außen deutlich gemacht würde. Mit einem klaren sarkastischen Seitenhieb auf die derzeitigen Finanzschwierigkeiten der USA erklärte Sikorski bei einer Konferenz in Washington: »Wenn Sie es sich noch leisten können, brauchen wir eine gewisse strategische Aufmunterung.« Sikorski wünscht sich eine bedeutende amerikanische Truppenpräsenz in Polen als Garantie dafür, dass die USA sein Land auch in Zukunft verteidigen werden. Er betonte, im Augenblick seien ganze sechs US-Soldaten in Polen stationiert, während Russland und Weißrussland gerade eine Militärübung mit Hunderten von Panzern in der Grenzregion zu Polen abgehalten hätten. »Wenn Sie auf der einen Seite 900 Panzer und auf der anderen sechs Militärangehörige haben, wären Sie dann überzeugt?«, fragte er.

Anzeichen sprechen dafür, dass die ehemalige US-Außenministerin Condi Rice im August 2008 eine maßgebliche Rolle dabei gespielt hat, den georgischen Präsidenten Saakaschwili zu dem militärischen Angriff auf die Region Südossetien zu ermuntern. Dieser Angriff hat die westeuropäischen NATO-Mitglieder, allen voran Deutschland und Frankreich, dazu veranlasst, sich vehement gegen die von Washington geplante Aufnahme von Georgien und der Ukraine in die NATO zur Wehr zu setzen. Mehrere deutsche Vertreter haben hinter vorgehaltener Hand erklärt: »Wir werden nie wieder Krieg gegen Russland führen, und schon gar nicht zur Verteidigung von Georgien.«

Da nun über die geplanten Raketenabwehrsysteme in Osteuropa ein völliges Durcheinander besteht, hat Washingtons Glaubwürdigkeit in Europa einen neuen Tiefpunkt erreicht. Diese Runde geht eindeutig an Moskau.

 

Dienstag, 24.11.2009

Kategorie: Geostrategie, Politik

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mardi, 01 décembre 2009

Nuevas bases americanas en el mar Negro

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Nuevas bases americanas en el mar Negro

El gobierno de Estados Unidos destinará más de $ 100 millones para construir nuevas bases militares en Bulgaria y Rumanía aunque la administración Obama haya suspendido recientemente sus planes para crear un escudo defensivo anti-misiles en otras partes de Europa oriental.

Según la revista semanal del ejército de los EE.UU. “Barras y Estrellas”, este último compromiso del Pentágono consiste en una base militar de $ 50 millones en Rumanía y otra de $ 60 millones en Bulgaria, que albergarán a 1.600 y 2.500 soldados estadounidenses respectivamente.

Se espera que la base de Rumanía esté terminada en los próximos dos meses, mientras que la apertura de la base búlgara está programado para el 2011 o 2012.

Las bases, financiadas por los Estados Unidos, aunque propiedad de los gobiernos de Rumanía y Bulgaria, serán compartidas por fuerzas americanas y de los países anfitriones, según la revista semanal.

Más de 2.000 soldados se encuentran realizando maniobras cerca de las dos naciones de Europa Oriental.

Durante una reciente visita a Rumanía, el vicepresidente Joe Biden dijo que Bucarest respaldaba la nueva configuración del escudo anti-misiles americano que Washington anunció tras la suspensión de su despliegue de misiles defensivos previstos en Polonia y la República Checa.

Esto significa que elementos del complejo anti-misiles americano pueden aparecer en Rumanía.

Además, los expertos estadounidenses dicen que la construcción de dos nuevas bases en Rumanía y Bulgaria está plenamente en consonancia con la redistribución de las tropas que el ex-presidente George W. Bush anunciara en 2004. Muchos analistas creen que el movimiento de tropas americanas hacia Rumanía y Bulgaria forma parte de una estrategia de redistribución mundial que comenzó en los primeros años de la administración Bush con el objetivo de desplazarlas de Alemania hacia hacia el este.

El Pentágono explica todo esto por la necesidad de llevar sus fuerzas cerca del inestable Oriente Medio.

Rusia lo ve como una amenaza directa a sus intereses por temor a que lo que comienza con una presencia relativamente pequeña del ejército americano en Rumania y Bulgaria, pueda finalmente verse aumentada en gran medida.

Además, la aparición de bases de la OTAN en el Mar Negro se suma a las instalaciones militares que Occidente tiene en el Mar Báltico, y que pone a Rusia en un aprieto.

En otra señal alarmante, cadetes de la academia militar de West Point están ahora recibiendo un curso intensivo de cultura y lengua rusa. Al igual que hicieran en los tres años previos a la invasión de Irak.

Preparándose para apropiarse de la riqueza de petróleo del Mar Caspio, Washington lo hará apoyándose en sus bases de Rumanía y Bulgaria y aumentando la inestabilidad en el Caucaso. ¿Para qué? Para poder enviar a sus fuerzas de paz allí para garantizar la seguridad del transporte de petróleo y gas. Y aquí el contingente americano en Rumanía y Bulgaria puede ser de mucha utilidad.

Traducido por Martin (investigar11S)
New US Bases on the Black Sea, by Mike Sullivan

lundi, 30 novembre 2009

Edward Abbey, Conservative Anarchist

edward-abbey.jpgEdward Abbey, Conservative Anarchist

By Bill Croke / http://newrightamerica.blogspot.com/ 


http://spectator.org/archives/2009/03/13/edward-abbey-conservative-anar

Cactus Ed (a nickname he liked) is dead, lo these twenty years (March 14, 1989). He was a less controversial figure in his time than he is today, and certainly has more readers. I recently attended a lecture/book discussion on the author's Desert Solitaire at my local public library, and wasn't surprised by what I heard. Small town book clubs tend to be the pet projects of liberals bent on "promoting literacy," and attract likeminded people. The discussion was moderated by a local Abbey fan, a woman of some academic credentials, and roughly twenty people took part. I've read Desert Solitaire twice, but went to the lecture on a whim, only flipping through my paperback copy shortly beforehand, intending to just listen. The group chewed over the book for 90 minutes, and the takeaway for me was that most people there thought Abbey to be a larger-than-life iconic character, the life transcending the work. And they mostly agreed with his severe critique of the management of the public lands, his ambiguous views on the national parks, and his anarchic thoughts concerning humankind's history and place on the planet, in general. An amusing evening.

Edward Abbey's posthumous fame lies mostly with the Green Left, especially in the West. He's attained that iconic cult status as a man who embodied equal parts Henry David Thoreau (Larry McMurtry once called him "The Thoreau of the American West") and John Muir, with an added dash of Mikhail Bakunin. Somebody who thought and wrote, but also acted, and influenced others to act, however indirectly. All this begs an old question: Does a writer pushing an agenda in his work compromise the artistic integrity of that work? In Abbey's case the answer is both yes and no, because he was much more a polemicist than an artist.

Edward Paul Abbey was born on January 29, 1927, in Indiana, Pennsylvania, the son of a farmer and logger. After a 1944 hitchhiking trip west at 17, he served in the U.S. Army late in World War II and afterwards, then enrolled at the University of New Mexico in 1948 on the G.I. Bill, eventually earning a Master's Degree in philosophy. During this time Abbey started to write as he began concurrently to explore the backcountry of the Southwest in his spare time, specifically the Four Corners area (where Utah, Colorado, Arizona, and New Mexico meet), otherwise known as the Colorado Plateau because it's drained by that great river.

It was among the last of Western regions to be surveyed and mapped. In 1869, John Wesley Powell was its primary explorer when he led a party in dories down the rapids-ravaged canyons of the Green and Colorado Rivers from Green River, Wyoming, all the way through the Grand Canyon. It's an unforgiving region of deserts and mountains, much of it federal land, and home to a half dozen national parks. Here Abbey found the subject that was the focus of his four decades as a writer.

Abbey started as a novelist with a run into the 1960s with series of competently executed but forgettable books such as Jonathan Troy (1954), The Brave Cowboy (1956), and Fire on the Mountain (1962). The Brave Cowboy was made into Lonely Are the Brave (1962), a film starring Kirk Douglas, thus earning Abbey some much-needed Hollywood money. During this time he also churned out essays and journalism about his wanderings in "the back of beyond."

Money was tight, though, and Abbey also worked odd jobs through the 1950s and '60s. His most noteworthy employment was as a seasonal ranger at Arches National Monument (now Arches National Park) near Moab, Utah, in 1959. This experience (along with others) culminated in the 1968 publication of Desert Solitaire, the book that made his reputation. After that, Cactus Ed became the Thoreau of the West.

Edward-Abbey_000.jpgThe book is in some ways an episodic pastiche. Abbey alternates vividly written chapters describing the multi-hued landscapes of Arches and elsewhere with others featuring cranky polemics about Bureau of Reclamation river dams and "Industrial Tourism." But those sharp landscape renderings are some of the finest writing extant about the desert Southwest. Here he is in Glen Canyon before the eponymous dam was built (1963) that created Lake Powell:

The sandstone walls rise higher than ever before, rounding off on top as half-domes and capitols, golden and glowing in the sunlight, a deep radiant red in the shade.

And this from the same trip:

Beyond the side canyon the walls rise again, slick and monolithic, in color a blend of pink, buff, yellow, orange, overlaid in part with a glaze of "desert varnish" (iron oxide) or streaked in certain places with vertical draperies of black organic stains, the residue from plant life beyond the rim and from the hanging gardens that flourish in the deep grottoes high on the walls. Some of those alcoves are like great amphitheatres, large as the Hollywood Bowl, big enough for God's own symphony orchestra.

Companions to Desert Solitaire are the essays found in such collections as The Journey Home (1977), Abbey's Road (1979), Down the River (1982), Beyond the Wall (1984), and One Life at a Time, Please (1988). The subjects of the essays (the form being possibly Abbey's greatest strength as a writer) vary from detailed accounts of his wanderings -- rafting the Colorado, exploring such landscape oddities as the San Rafael Swell or Big Bend National Park -- to passionate polemics against national park infrastructure development or Bureau of Land Management (BLM) policies on leasing grazing land to ranchers. The latter type showed that Abbey would have done well as an 18th-century pamphleteer. In an essay entitled "Eco-Defense," he writes: "Eco-defense is risky but sporting; unauthorized but fun; illegal but ethically imperative…Spike those trees; you won't hurt them; they'll be grateful for the protection; and you may save the forest. Loggers hate nails."
abbey_truck.jpg


Abbey's most controversial role was only obliquely related to his work. In 1975 he published his novel The Monkey Wrench Gang, a book that alongside Desert Solitaire enhanced his reputation as an environmentalist, but unlike the latter tome it has prose as purple as an Arizona sunset. The plot involves four anarchic enviros who conspire to blow up Glen Canyon Dam. In a case of life imitates art, the book inspired the establishment of a notorious radical green group in 1980 known as Earth First!, with Abbey as a charter member. Other noteworthy members were activist/writer Doug Peacock, and Dave Foreman, an ex-Goldwater Republican. Earth First! "membership" was and remains (to the extent that it even exists today) anonymous and shadowy, as it's known for acts of "monkey wrenching" of earthmoving and logging equipment, spiking trees, stealing survey stakes, cutting wire fences, and so on. "Earth First!" has spawned ancillary groups such as the Earth Liberation Front (ELF), which before its downfall at the hands of the FBI in 2006 burned down a Colorado ski lodge, and destroyed a number of vehicles at an SUV dealership in Eugene, Oregon, among other acts of domestic terrorism.

Cactus Ed was a prickly sort; a conservative anarchist, if you will, who on one hand could support eco-terrorism (a favorite motto was: "Keep America Beautiful -- Burn a Billboard!"), and on the other supported the National Rifle Association (NRA), and restrictions on immigration. When he died of natural causes, some of his Earth First! compatriots famously and illegally absconded with his body, and buried it in a secret place in remote desert outside of Tucson. And there he lies to this day, pushing up cactus.

dimanche, 29 novembre 2009

La clave, la funcion que EE.UU. da a sus bases en Colombia

La clave, la función que EE.UU. da a sus bases en Colombia

Los documentos del Pentágono se han ocultado para difundir sólo algunas reacciones. Chávez habla de guerra, Brasil propone un monitoreo internacional de la frontera, que Uribe se comprometa a limitar en Colombia a la Fuerza Aérea norteamericana… son distracciones intencionales del problema.

Los objetivos que persigue USA en Colombia están en “Estrategia suramericana. Libro Blanco, Comando de Movilidad Aérea (AMC)”, que se publicó en la página oficial del Comando Sur, y en un documento que el Departamento de la Fuerza Aérea envió al Congreso estadounidense. (1) No puede haber dudas sobre ellos.

En ese informe de la Fuerza Aérea de Estados Unidos se afirma:


La base militar de Palanquero en Colombia “garantiza la oportunidad para conducir operaciones… por toda América del Sur”. Palanquero “nos da una oportunidad única para las operaciones de espectro completo en una subregión crítica en nuestro hemisferio, donde la seguridad y estabilidad están bajo amenaza constante de las insurgencias … (y) los gobiernos anti-estadounidenses… “. “Su ubicación central está dentro del alcance de las áreas de operaciones… en la región… La intención es… mejorar la capacidad de EE.UU. para responder rápidamente a una crisis y asegurar el acceso regional y la presencia estadounidense… Palanquero ayuda con la misión de movilidad porque garantiza el acceso a todo el continente de Sudamérica con la excepción del Cabo de Hornos…”… “… también incrementará nuestra capacidad para conducir operaciones de Inteligencia, Espionaje y Reconocimiento … y aumentará nuestras capacidades de realizar una guerra expedita.”

Estos objetivos regionales se encuadran en su estrategia de imperio global. “El Secretario de la Defensa (Donald Rumsfeld) postuló entonces (2002) que Estados Unidos debería sostener su proceso de transformación militar a partir de la premisa de que las guerras del Siglo XXI requerirían un incremento en las operaciones económicas, diplomáticas, financieras, policiacas e inteligencia, al igual que en operaciones militares abiertas y encubiertas;… la formación de alianzas donde la misión a llevar a cabo debe ser la que en última instancia determine la formación de la misma; el desarrollo de acciones preventivas, llevando la guerra hasta donde se encuentre el enemigo; llevar a la percepción del enemigo que Estados Unidos está dispuesto a utilizar cualquier medio o fin para derrotarlo…; la importancia que juegan las operaciones de tierra y el incremento en las campañas aéreas; y finalmente, informar al país lo que Estados Unidos hace.” (2)

Siguiendo esa política informada, Estados Unidos realiza sus operaciones de espectro completo en Sudamérica. La instalación de siete bases en Colombia; la negociación de bases en Panamá; la campaña de desprestigio contra el presidente Chávez; el apoyo diplomático, económico, militar, mediático a los golpistas de Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Honduras; el financiamiento a los partidos opositores en los países del ALBA; el bloqueo e intento de desestabilización a Cuba; la participación en golpes de estado que blanquea después con elecciones manipuladas, como estaba planificado en Venezuela en el golpe del 2002 y se prepara ahora en Honduras; la infiltración de paramilitares colombianos en Venezuela; la alianza con políticos narcoparamilitares…

Esta finalidad evidente es denunciada con fuerza por determinados gobiernos latinoamericanos.
El presidente Chavéz es muy claro. Las bases representan una amenaza para toda la región y directamente para Venezuela. “Esas son bases de inteligencia, en primer lugar de espionaje, desde las cuales se van a planificar invasiones, bombardeos, se van a planificar actos de guerra en nuestras propias narices, ellos van a planificar aquí, al lado, cómo bombardearían Caracas, cómo lanzarían sus bombas sobre puntos neurálgicos venezolanos, sobre las refinerías, sobre las líneas de transmisión eléctricas (…) sobre la represa del Guri, sobre los puestos de mando de la Fuerza Armada, ellos van a planificar la manera cómo aspirarían a neutralizar nuestros aviones de combate”, advirtió y llamó a militares y civiles a prepararse para una guerra.

El presidente Evo Morales rechaza las bases del imperio en Colombia porque dice son para controlar, derribar gobiernos democráticos y saquear los recursos naturales de Latinoamérica. En Bolivia las reservas para 150 años de gas, de hierro para 85 años y quizás el litio. Ante el peligro Morales ordenó la compra de armas en Rusia.

El presidente Daniel Ortega de Nicaragua sostiene que las bases son enclaves de guerra que amenazan a todos los pueblos del continente. Recordó que la norteamericana en Palmerola, Honduras, les sirvió para hacerle la guerra a Nicaragua en los años 80, la base que usaron para el secuestro del presidente Manuel Zelaya.

Fidel Castro escribe que el acuerdo firmado por Uribe equivale a la anexión de Colombia a Estados Unidos, es una amenaza para los países de Centro y Sudamérica y pretende enviar a los colombianos a luchar contra sus hermanos bolivarianos y del ALBA.

Ecuador y Brasil en cambio no consideran los documentos oficiales norteamericanos.

El Parlamento de Ecuador rechaza las bases pero débilmente pide a USA la garantía de no utilizar sus fuerzas contra otras naciones de la región. Su ministro de defensa, titular del Consejo de Defensa de Unasur, quiere que este organismo insista en pedir una cumbre con Obama para que explique la presencia de sus tropas en las siete bases.

El presidente de Brasil declara que confía en la palabra de Uribe y Obama si queda garantizado que las operaciones de las bases son para cuidar sólo problemas internos de Colombia.

Otros gobiernos regionales más bien prefieren guardar silencio.

La gente que maneja el poder en Estados Unidos sabe que la crisis estructural del capitalismo significará el derrumbe del orden actual y se prepara para controlar en su provecho los recursos de la Tierra. Las siete bases son parte de ese objetivo.

Pero la historia no se detiene y hay gobiernos y pueblos dispuestos a oponerse, como lo hacen hoy fuera de la región los iraquíes, afganos, pakistaníes, palestinos, iraníes, para construir de otro modo el mundo.

Rómulo Pardo Silva

Notas
1 Programa de Construcción Militar. Año Fiscal 2010. Presupuesto. Datos de Justificación entregados al Congreso. Mayo 2009. Ver Eva Golinger http://www.centrodealerta.org/documentos_desclasificados/traduccion_del_documento_de.pdf
2 Ver Alejandro Torres Rivera http://www.rebelion.org/noticia.php?id=95210

Extraído de Mal Publicados.

~ por LaBanderaNegra en Noviembre 18, 2009.

Our Chief Industry: War

war_industry_.jpgOur Chief Industry: War

By Justin Raimondo / From: http://original.antiwar.com/

We often hear the complaint that America doesn’t make anything anymore: that is, our economy seems driven not by producing actual things, but utterly intangible creations such as credit default swaps and securitized sub-prime mortgages. Our once-bustling factories are rusted relics. Entire industries have collapsed. Ghost towns have sprung up where cities once thrived, like mushrooms sprouting in a cemetery. Baffled Americans, who – mistaking debt for wealth – thought they lived in the wealthiest country in the world, struggle to define what is happening. Old words like "correction," contraction," and "recession" give way to talk of a second Great Depression, and, in this context, the question "What does America make anymore?" is raised with renewed vigor.

While our factories have long since moved abroad, where wages are lower and regulation is lax, and our crippled industries are in Dr. Obama’s economic intensive care unit, on life support and awaiting last rites, America’s number-one export – representing, by far, our single largest capital investment – is our overseas military presence. What Chalmers Johnson referred to as our "empire of bases" is the framework of an international economic system in which the division of labor is roughly as follows: while Asia is the factory of the world, South America the farmland, and Europe increasingly a theme park/museum, the U.S. role is that of world gendarme.

What do you mean we don’t make anything? What about wars? We make plenty of those: Iraq, Afghanistan, and now Pakistan and perhaps Iran – the Globo-Cop business is booming.

Before the big crash of 2008, you’ll recall, in the glory days of the bubble years, our elites were all atwitter with a vague, glowing vision of the new economic reality, which touted the alleged benefits of "globalization." More than just the traditional free-market prescription of free trade, this concept envisioned extending the reach and influence of Western finance capital over the entire globe. At the end of this road – at "the end of history," as Francis Fukuyama famously put it – we would fall into the all-encompassing embrace of the emerging world state and live happily ever after.

This ever-upward-and-onward Panglossian view, which identified growing Western domination of the global economy with the march of progress itself, was the underlying rationale of an increasingly aggressive policy of U.S. military and political intervention worldwide. We said we were fighting for civilization as we bombed some of the oldest cities in Balkans, and when" humanitarian" interventionism gave way to a more Roman concept of America’s role in the world – the dividing line being, roughly, 9/11/01 – still we invoked the defense of universal values as the ultimate justification for occupation and mass murder. We unhesitatingly identified ourselves and our interests with the advent of modernity and took up the old Kiplingesque burden of empire with alacrity.

This kind of hubris, however, has since gone out of fashion. The trauma of Iraq and an economic downturn have tamped down our crusading fever; a new appeal is needed in order to buttress the global economic and political order our ruling elites once thought they had in their grasp. At a time when the whole rationale for our endless "war on terrorism" is being challenged, a more pragmatic course is called for.

As Republicans resist the extensive new social programs advanced by the Obama administration, including healthcare as yet another entitlement, and popular awareness of the national debt reaches new heights of anxiety, there is one way out: more spending on the military. Here is a measure the thoroughly neoconized Republicans can support wholeheartedly – especially if the money is being spent in their districts. This satisfies White House strategists, who seek a way out of a growing political impasse, and also the economic gurus at Obama’s ear, who believe government spending can create new jobs and kick-start the economy.

These economic geniuses are the latter-day followers of John Maynard Keynes, an economist who believed we could end unemployment and fight our way out of economic malaise by having the government hire workers to dig ditches and then fill them back up again. They didn’t necessarily have to produce anything of value, as long as they went through the motions. All government has to do is "prime the pump," and this will set in motion a process ending in full employment. You can build hospitals or pyramids, it doesn’t matter; military spending will do. In this scenario, we are back to when James Baker was asked to justify the first Gulf war, and he replied, "Jobs, jobs, jobs."

Anything to rev the "economic engine" and otherwise conflate an overused metaphor with a rather more complex reality.

The Obama administration, the Federal Reserve, and the titans of Big Business and Big Labor all face a common problem: how to re-inflate the economic bubble that burst with such a loud bang last year. So far, nothing has worked. The more they pump the economy full of air – i.e., rapidly depreciating dollars – the faster it seems to deflate. The various "stimuli" applied to the patient seem to wear off quickly. The one politically feasible "solution" to this problem is bipartisan support for greatly increased military operations worldwide. What better stimulus than a foreign policy of perpetual war?

In the heyday of the American Imperium, the deal with our vassals was this: we provided a market for their cheap imports and agreed to keep trade barriers down – as long as they took our side and, in many cases, allowed a substantial U.S. military presence on their soil. Yet this system was unsustainable. The problem with having a worldwide empire, as Garet Garrett, the mid-20th-century conservative critic of globalism, put it, is that "everything goes out and nothing comes in."

What the American empire, at its height, aspired to was the creation of a de facto world state [.pdf], with Washington as its capital. What this nascent global government lacked, however, were the two essential items in any government’s toolbox:

(1) The power to levy taxes. Earlier empires exacted tribute from their vassals, but in the American empire the exact opposite principle holds sway: our vassals exact tribute from us, in the form of "foreign aid," including massive military aid.

(2) A central bank, in this case a world central bank, with the power to monetize government debt and re-inflate the economic bubble on a world scale, regulating and "fine-tuning" a fully globalized economy.

As it is, the whole system rests on massive U.S. government debt. In exchange for policing the globe and keeping the "peace," our rulers depend on foreigners buying U.S. debt securities. This is the Achilles heel of the American giant.

As we await Obama’s decision on how many fresh troops to send to the Afghan front, a grand compromise is in the making. Its terms will be as follows: the GOP, for ideological reasons, gives critical support to Obama’s foreign policy initiatives, particularly when it comes to Afghanistan and Pakistan, while the Democratic majority pushes through successive economic stimuli, including generous handouts to their various constituencies: Wall Street, the unions, and the growing underclass. The twin engines of the Keynesian perpetual motion machine will thus be kept whirring – until the bill comes due.

NOTES IN THE MARGIN

I’ve been contributing regularly to The Hill in the form of brief comments on "The Big Question" of the day. Yesterday’s topic: "Which issue will be more important to voters in 2010 – the deficit or jobs?" Here is my answer.

Read more by Justin Raimondo


Article printed from Antiwar.com Original: http://original.antiwar.com

URL to article: http://original.antiwar.com/justin/2009/11/17/our-chief-industry-war/

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dimanche, 22 novembre 2009

Und morgen ganz Eurasien - der Ausbau der US-Brückenköpfe

hires_071220a6849a054_2.jpgUnd morgen ganz Eurasien – der Ausbau der US-Brückenköpfe

Wolfgang Effenberger /

http://info.kopp-verlag.de/

Bereits eine Woche vor dem Besuch von US-Präsident Barack Obama in Japan demonstrierten über 20.000 Japaner in Ginowan gegen den weiteren Ausbau der US-Militärstützpunkte auf der Insel Okinawa und verlangten die Schließung der in der Nähe ihrer Stadt gelegenen amerikanischen Marine-Corps-Futenma-Air-Base. Unter dem Beifall der Demonstranten rief der Bürgermeister von Ginowan, Yoichi Iha, dem japanischen Premierminister Yukio Hatoyama zu, Präsident Obama zu sagen, »dass Okinawa keine US-Basen mehr braucht«. Abschießend forderte der Bürgermeister vom Premier »eine tapfere Entscheidung zu treffen und mit der Last und Qual von Okinawa Schluss zu machen« (1).

Schon früher hatte die Opposition gegen die Anwesenheit einer strategisch bedeutenden US-Militärbasis in Japan Stellung bezogen. Sind doch von diesem »unsinkbaren Flugzeugträger der Vereinigten Staaten« China, Taiwan und Nordkorea leicht zu erreichen. Japan als östliches Einfallstor nach Eurasien.

Eine ähnlich bedeutende Rolle spielt die Bundesrepublik Deutschland im Westen Eurasiens. Obwohl die Bundesrepublik als Brückenkopf der USA deren Operationen in Nahen und Mittleren Osten sowie in Zentralasien erst ermöglicht, sind Vorgänge wie in Japan heute kaum vorstellbar.

Bald 65 Jahre nach dem Zweiten Weltkrieg betteln mit lukrativen Angeboten bundesdeutsche Landes- und Kommunalpolitiker darum, möglichst viele US-Garnisonen in unserem Land zu erhalten. So freut sich Wiesbadens Oberbürgermeister Helmut Müller (CDU) über eine bedeutende Neuansiedlung in der Landeshauptstadt. Völlig unspektakulär war in der US-Armeezeitung Stars & Stripes am 20. Oktober 2009 vom Umzug des Hauptquartiers der US Army/Europa (USAREUR) von Heidelberg nach Wiesbaden zu lesen. (2) Auf dem dortigen US-Airfield Erbenheim soll bis 2013 das neue Europa-Hauptquartier der US Army entstehen. 68 Jahre nach Ende des Zweiten Weltkrieges und nach elf US-Präsidenten seit Harry Truman (1945–1953) sollen in einem amphitheaterähnlichen Einsatz- und Kampfführungszentrum die militärischen Geschicke Europas gesteuert werden. Das 84 Millionen teure dreistöckige Zentrum wird auf ca. 26.500 Quadratmetern mit den neusten Kommunikations- und Planungsgeräten ausgestattet und zur modernsten US-Militäreinrichtung in Europa ausgebaut. Den Grund für den Neubau erläuterte der Operationschef der USAREUR, Brigadegeneral David G. Perkins: »Bisher ist das Hauptquartier der USAREUR weder dazu ausgelegt, noch technisch oder personell so ausgestattet, dass es als Kriegsführungs-Hauptquartier dienen könnte.«

In dieser Transformation sieht Perkins »etwas Bedeutsames, etwas Historisches«. Zur Vorbereitung nahm bereits im Sommer 2008 das USAREUR-Hauptquartier an einer Kommandoübung teil, die unter dem vielsagenden Namen Austere Challenge (Äußerste Herausforderung) lief. Zur Übung gehörte die Errichtung einer vorgeschobenen Kommandozentrale in Grafenwöhr. Das soll den Stäben der USAREUR und des V. US-Corps die Möglichkeit geben, ein simuliertes Kriegsszenario aus der Perspektive eines Hauptquartiers zu erleben. Ebenfalls beteiligte sich das Oberkommando der US-Streitkräfte in Europa – EUCOM in Stuttgart – sowie das Hauptquartier der US-Marine in Europa. Dieses ist identisch ist mit dem der 6. US-Flotte (CNE-C6F in Neapel). Alljährliche Übungen sind geplant.

Neben der Ausbildung zählte Perkins weitere Aufgaben von USAEUR auf: die US Army »schickt Einheiten an die Front, holt sie von dort wieder zurück und sichert die Lebensqualität für die Soldaten und ihre Familien [an ihren europäischen Standorten]« (3). So folgt zwingend der weitere Ausbau der Garnison: eine Army-Unterkunft für 32 Millionen Dollar, ein Unterhaltungszentrum für 8,8 Millionen Dollar und eine Wohnanlage für 133 Millionen Dollar mit bis zu 324 Reihenhäusern, Doppelhäusern und Einfamilienhäusern. Obwohl der Umzug nach Wiesbaden unmittelbar nach Fertigstellung des neuen Kampfführungszentrums vorgesehen ist, hänge nach USAREUR das genaue Umzugsdatum noch von der Zustimmung des Kongresses zu den Baumaßnahmen, von operativen Gegebenheiten sowie von weiteren Bescheiden der Gastgebernation ab. Jedoch haben deutsche Behörden auf den US-Vorgang nur marginalen Einfluss. Das Einsatzzentrum wird innerhalb der US-Liegenschaft in Wiesbaden/Erbenheim gebaut. Die totale Nutzungsüberlassung der deutschen Behörden laut Stationierungsvertrag erlaubt der US- Militärverwaltung freies Spiel der »Notwendigkeiten«. Nach dem Umzug wird die US-Militärgemeinde Wiesbaden um 4.000 Soldaten, Zivilangestellte und Familienmitglieder auf 17.000 Personen anwachsen.

Zugleich sollen die US-Fallschirmjäger der 173rd Airborne Brigade als »Südeuropäische Schnelleingreiftruppe« eine neue Heimat auf dem Flugplatz Dal Molin/Vicenza erhalten. Hier hat das italienische Verteidigungsministerium trotz einiger Widerstände die Baupläne nach einigen Änderungen grundsätzlich gebilligt.

Schon Mitte Dezember 2007 fand in Vicenza eine internationale Kundgebung gegen den geplanten Stützpunkt Dal Molin statt. Neben Aviano – derzeit größte US-Basis Italiens und dem toskanischen Camp Derby – hat die bei Vicenza bereits bestehende US-Großbasis Caserma Ederle eine zentrale Funktion bei den Kriegen gegen Jugoslawien, den Irak und Afghanistan gespielt. Mit der Errichtung des neuen Stützpunktes Dal Molin wird, wie es die Bewegung in Vicenza formuliert, ganz Vicenza zu einer einzigen US-Basis. Dem harten Kern des Widerstandes geht es um mehr als nur um Ederle oder den künftigen Stützpunkt Dal Molin. Sie wollen europaweit US-Basen bekämpfen.

Die Bedeutung des Kosovo für die USA unterstrich US-Vizepräsident Biden bei seinem Besuch am 21. Juni 2009. Obwohl der Internationale Gerichtshof in Den Haag seit dem 17. April 2009 die Rechtmäßigkeit der einseitigen Kosovo-Unabhängigkeit prüft, unterstrich Biden die Unabhängigkeit des Landes als »unumkehrbar«. Ein skandalöses Beispiel für die inzwischen zur Bedeutungslosigkeit degradierten UN. Die USA benötigen ein »unabhängiges« Kosovo, um dort ihren mit viel Geld aufgebauten Stützpunkt Camp Bondsteel langfristig zu nutzen. Nach Rückzug der serbischen Truppen wurde das US-Camp im südlich von Pristina gelegenen Urosevac zum größten Militärstützpunkt seit Vietnam als Außenposten der USA für Operationen im Nahen Osten ausgebaut. Auf dem 3,86 Quadratkilometer großen Stützpunkt können bis zu 7.000 Armeeangehörige aufgenommen werden. (4) Camp Bondsteel soll zum Außenposten der USA für Operationen im Nahen Osten ausgebaut werden und Landebahnen für Kriegsflugzeuge bis hin zu B-52-Bombern erhalten. Ein konkretes Datum für den Abzug der US-Truppen gibt es nicht, vielmehr wird ein Pachtvertrag für 99 Jahre angestrebt. Da ergibt eine endgültige Loslösung von Serbien aus souveränitätsrechtlichen Gründen durchaus einen Sinn. Im Sommer 2001 hob US-Präsident Bush anlässlich eines Besuches im Camp Bondsteel dessen Aufgabe hervor: (5)

»Wir streben eine Welt der Toleranz und der Freiheit an. Von Kosovo nach Kaschmir, vom Mittleren Osten nach Nordirland, ist Freiheit und Toleranz das definierte Ziel für unsere Welt. Und Ihr Dienst setzt hierfür ein Beispiel für die ganze Welt.« (6)

Mit derartig anspruchsvollen ethischen Zielen lassen sich leicht die wirklichen Absichten verdecken. Diese werden parteiübergreifend im elitären Machtzirkel des Council on Foreign Relations (CFR) geschmiedet. Dort finden vor allem Deutungsmuster und Weltbilder regen Zuspruch, die vor über einem Jahrhundert Sir Halford Mackinder, Alfred Thayer Mahan und Nicolas J. Spykman für den angelsächsischen Raum entworfen haben. (7) Rechtzeitig zum US-Präsidentschaftswahlkampf erschien vom vorgestrigen Großmeister der Geostrategie Zbigniew Brzezinski das aus seiner Feder stammende Buch Second Chance (8). Darin unterzieht die graue Eminenz der demokratischen Präsidenten seit Carter und nunmehriger außenpolitischer Berater Barack Obamas die Regierungen Bush I, Clinton und Bush II einer fundamentalen Kritik. Ihnen sei es nach dem Zusammenbruch der Sowjetunion nicht gelungen, ein System dauerhafter amerikanischer Vorherrschaft zu errichten. Nun sei es an der Zeit, verstärkt auf Kooperationen und Absprachen mit Europa und China zu setzen. Dagegen solle Rußland isoliert und möglicherweise auch destabilisiert werden. Das Scheitern der von Brzezinski 1997 formulierten Pläne einer US-Vorherrschaft in Eurasien soll nun durch eine von Europa ausgehende Osterweiterung der NATO kompensiert werden. Die NATO-Mitgliedschaft der Ukraine wird befürwortet und dagegen das russische Bemühen, Einfluss in der Ukraine zu bewahren, als Imperialismus gebrandmarkt. (9)

Die bereits vorhandenen Einrichtungen des US-Militär in den Baltenstaaten sollen durch weitere US-Basen an der Küste des Schwarzen Meeres in Rumänien und Bulgarien ergänzt werden. (10) Auf den beiden Basen sollen über 4.000 US-Soldaten sowie die »Gemeinsame Eingreiftruppe Ost« (Joint Task Force East) stationiert werden. Die Regierungen der beiden Staaten erwarten, dass sich das US-Militär dort für lange Zeit niederlassen wird. (11) Unter anderem dürften diese Basen dazu dienen, um den Transport des Öls und des Gases aus dem Kaspischen Becken zu sichern.

Nicht zu unterschätzen sind auch die politischen Motive, um auch kleinere Truppenkontingente in neuen NATO-Mitgliedsstaaten zu stationieren. Mittels solcher Stationierungsmaßnahmen kann sich Washington eine politisch-wirtschaftliche Einflussmöglichkeit auf die Politik dieser Länder sichern und seine Rüstungsexportinteressen wirksamer wahrnehmen. Dazu braucht man nicht unbedingt Standorte mit guter Infrastruktur und größeren Verbänden, sondern kleinere Standorte, die in Krise und Krieg schnell aufwachsen und zur Unterstützung auch länger anhaltender Kampfhandlungen genutzt werden können. (12)

Trotz des weiteren uneingeschränkten militärischen »Engagements« im Irak, in Afghanistan und nun auch in Pakistan wird das Interesse der bankrotten Vereinigten Staaten deutlich, die eigene militärische Präsenz über Europa hinaus auszudehnen. Schwerpunkte dieses Interesses sind derzeit der Mittlere Osten, der Schwarzmeerraum, der Transkaukasus und Zentralasien sowie Afrika.

Hier sieht der ehemalige US-Botschafter in Nigeria, Princeton Lyman, für Afrika eine neue Bedeutung hinsichtlich »Amerikas relevanten Fragen wie Energie, Terrorismus und Handel« (13). Dieser Erkenntnis wurde 2007 mit der Aufstellung des AFRICA Command (AFRICOM) Rechnung getragen. Dieses Einsatzführungskommando für den afrikanischen Kontinent wurde von EUCOM abgetrennt und ist nun die sechste US-Kommandozentrale für eine bestimmte Region. (14) Zu den Aufgaben dieses Regionalkommandos erklärte US-Präsident George Bush: »Das AFRICA Command wird unsere Bemühungen verstärken, den Menschen in Afrika Frieden und Sicherheit zu bringen und unsere gemeinsamen Ziele von Entwicklung, Gesundheit, Bildung, Demokratie und wirtschaftlichen Fortschritt in Afrika voranzutreiben.« (15) 

Mit Blick auf das Terrornetzwerk Al Kaida soll nach US-Verteidigungsminister Robert Gates die neue Befehlsstelle auch zum »Schutz nichtmilitärischer Missionen und, sofern es nötig ist, auch für militärische Operationen zur Verfügung stehen« (16). Diese Operationen werden im Hauptquartier von AFRICOM in Stuttgart-Möhringen geplant, während EUCOM im nachbarlichen Stuttgart-Vaihingen die Strategien vom Baltikum bis zum Schwarzen Meer umsetzt.

Neben den Befehlszentren in Stuttgart und nun auch bald Wiesbaden ist noch das Luftwaffenhauptquartier der US Air Force Europe in Ramstein – dem größten Stützpunkt der US-Luftwaffe außerhalb der USA – von Bedeutung. Hier wurde und wird die Luftversorgung der Soldaten für die Kriege auf dem Balkan und im Mittleren Osten organisiert. Von der US-Airbase Spangdahlem in der Eifel können die gefürchteten Tarnkappenbomber F-117-A starten, während die Rhein-Main-Airbase in Frankfurt neben Ramstein als die zweite große Drehscheibe der US Air Force agiert. Dort können die riesigen amerikanischen Militärtransporter Galaxy und Globemaster einen Zwischenstopp einlegen. Auch sind hier die mächtigen Tankflugzeuge KC-135 Stratotanker stationiert.

3.500 Kilometer von Bagdad und 5.200 Kilometer von Kabul entfernt liegt im pfälzischen Landstuhl das US-Regional Medical Center (LRMC) mit über 2.000 Mitarbeitern. Landstuhl – die gefühlte deutsche Front in diesem Krieg. Nur acht Kilometer entfernt vom größten Krankenhaus der US Army außerhalb der Vereinigten Staaten landen die mattgrauen C-17-Frachtmaschinen mit ihrer traurigen Fracht. Schwerverletzte werden für ihre weitere Verlegung in die Heimat versorgt, während Leichtverletzte für die Rückkehr in den »Krieg gegen den Terrorismus« behandelt werden. Dieser »Krieg gegen den Terrorismus« wurde nach dem 11. September 2001 nicht als Verbrechensbekämpfung definiert, sondern scheint vielmehr dem Ziel der strategischen Vorherrschaft in dem »Korridor entlang der Seidenstraße« (17) zu dienen. Nach Afghanistan und dem Irak ist der Iran in das Visier der Pentagon-Strategen geraten. Ein Blick in die Landkarte mit dem Verantwortungsbereich des Zentralen US-Kommandos (CENTCOM/Area of Responsibility) genügt.

 

Erst am 9. November 2009 beendeten das U.S. European Command ( EUCOM/ Stuttgart) und die Israel Defense Forces ( IDF) das Luftabwehr-Manöver Juniper-Cobra 2010/JC10. (18) In der zweieinhalbwöchigen Übung wurde in Israel die Einsatzbereitschaft zwischen israelischen und amerikanischen Luftabwehreinheiten trainiert – und abschließend mit scharfen Raketen getestet. Durch seine Teilnahme an diesem Manöver unterstrich US-Admiral Stavridis – in Personalunion Chef aller US-Streitkräfte in Europa und Oberkommandierender sämtlicher NATO-Streitkräfte - die Bedeutung dieses Kriegsspiels. Sollte es vielleicht auch den Iran einschüchtern?

Der Stellenwert der Bundesrepublik Deutschland für die strategischen Absichten der USA lässt sich aus den Angaben in der Base Structure Review 2008 des US-Verteidigungsministeriums ablesen: Von den 761 größeren US-Liegenschaften jenseits der US-Grenzen befinden sich 268 in Deutschland.

Mit weitem Abstand folgen Japan (124) und Südkorea (87). Von den etwa 150.454 dauerhaft in Übersee stationierten US-Soldaten findet sich das größte Kontingent mit 55.147 Soldaten  (19) in der Bundesrepublik.

Ohne bereitwillige deutsche Unterstützung der amerikanischen Aktivitäten könnten die USA ihre Kriege im Irak oder in »AF-PAK« nicht führen. In Grafenwöhr werden die US-Truppen für ihren Einsatz im Irak ausgebildet und von hier aus in den Krieg geflogen. Zurück kommen sie häufig nur noch als Fleischklumpen oder dürfen in Deutschland genesen, um dann wieder zurück in den Krieg geschickt zu werden. Vor diesem Hintergrund mutet die in Deutschland an den Tag gelegte Teilnahmslosigkeit schon sehr zynisch.

Auch weitere Kriege in Eurasien werden nur dank deutscher Hilfe möglich sein. Bisher konnte die US-Armee und ihre Dienstleistungsunternehmen zivile deutsche Flughäfen für den Transport in ihre Kriegsgebiete unkontrolliert nutzen. Obwohl die deutsche Bundesregierung frühzeitig Kenntnis von Verschleppungen mutmaßlicher Terroristen und sogenannter »Gefangenen-Flüge« (Rendition-Flights) hatte, wurden derartige Menschentransporte im deutschen Luftraum nicht unterbunden. (20) 

Hier steht die Bundesregierung in der Verantwortung.

Werden eines Tages die Bürger der Bundesrepublik für die absehbaren Konsequenzen amerikanischer Machtpolitik gerade stehen müssen?

Zum Auftakt seiner Fernostreise unterstrich Barack Obama in Tokio am 14. November 2009 den Anspruch auf die globale Führungsrolle der USA. In seiner Grundsatzrede kündigte er eine Ausweitung der US-Aktivitäten im asiatischen Raum an – soll hier die unter Clinton geborene »Seidenstraßenstrategie« weiter verfolgt werden? Mit dieser Strategie zielt die US-Politik darauf, ihre Wettbewerber im Ölgeschäft, darunter Russland, den Iran und China, zu schwächen und schließlich zu destabilisieren. Das wird im US-Kongressbericht auch ganz offen zugegeben:

»Zu den erklärten Zielen der US-Politik im Hinblick auf die Energieressourcen in dieser Region gehört es, [...] Russlands Monopol über die Öl- und Gastransportrouten zu brechen (21) [...] den Bau von Ost-West-Pipelines zu ermutigen, die nicht durch den Iran verlaufen, sowie zu verhindern, dass der Iran gefährlichen Einfluss auf die Wirtschaften Zentralasiens gewinnt  (22)

Hinzu kommend würde ein Krieg gegen den Iran den USA eine viel solidere Militärbasis im Mittleren Osten als bisher verschaffen und den Einfluss auf Saudi-Arabien und andere Staaten des Mittleren Ostens verstärken. Die USA könnten damit dem gesamten Mittleren Osten ihre Bedingungen aufzwingen. Das werden aber Russland, China und Pakistan sowie auch Indien nicht zulassen.

Als weitere zentrale Themen sprach Obama die US-Stützpunkte in Japan sowie den Kampf gegen den Terrorismus an. Mit seiner Asientour scheint Obama zeigen zu wollen, dass die USA immer noch eine Führungsrolle in der Region innehaben. Angesichts der Finanzkrise, einer maroden Infrastruktur und eines bankrotten Haushaltes scheint das jedoch zunehmend illusorisch sein. Inzwischen sind die Vereinigten Staaten auf dem Finanz und Devisenmarkt von China und Japan abhängig, die gigantische Dollarreserven angehäuft haben. Sollte sich China vom US-Dollar als Leitwährung verabschieden oder gar einen Teil der Dollarreserven verkaufen, so würde das die USA vor große Probleme stellen.


Abkürzungen:

AOR: Area of Responsibility/Verantwortungsbereiche der US-Kommandos

AF-PAK: Afghanistan-Pakistan

AFRICOM: US-Kommandobereich Afrika

CENTCOM: Zentrale US-Kommandobereich

CNE-C6F: Combined Staff of U.S. Naval Forces Europe and Sixth Fleet

EUCOM: US-Kommandobereich Europa

IDF: Israel Defense Forces

NATO: North Atlantic Treaty Organization

USAREUR: US Army/Europa

 

Quellen:

(1) Zitiert aus »Japanese protest US base before Obama visit« in yahoo news unter: http://news.yahoo.com/s/afp/20091108/wl_asia_afp/japanusdiplomacymilitarydemonstration

(2) Patton, Mark: »Contract awarded for Wiesbaden USAREUR center«, in: Stars and Stripes, European edition, Tuesday, October 20, 2009, aufgerufen unter http://www.stripes.com/article.asp?section=104&article=65500

(3) Dougherty, Kevin: »An der USAREUR-Zukunft wird noch gebaut«, in: Stars and Stripes, 28.02.2008,
http://www.stripes.com/article.asp?section=104&article=60285&archive=true

(4) Camp Bondsteel ist modern ausgestattet und bietet zahlreiche Annehmlichkeiten und Einrichtungen des sozialen Lebens: ein Kino, Fitness-Studios, Sportplätze, zwei Kapellen, Bars, einen Supermarkt, mehrere Fastfood-Restaurants, Computer mit Internetanschluss und Videospiele. Im angeschlossenen Laura-Bush-Bildungszentrum können Kurse der University of Maryland und der University of Chicago belegt werden.

(5) Camp Bondsteel ist für Halliburton eine Goldgrube. Von 1995 bis 2000 zahlte die US-Regierung an Kellogg, Brown & Root 2,2 Milliarden US-Dollar für logistische Unterstützung im Kosovo, was der teuerste Vertrag der US-Geschichte ist. Die Kosten für Kellogg, Brown & Root machen fast ein Sechstel der auf dem Balkan für Operationen ausgegebenen Gesamtkosten aus.

(6) US-Präsident George am 24. Juli 2001 im Camp Bondsteel, unter: http://www.whitehouse.gov/news/releases/2001/07/20010724-1.html vom 23. Juli 2008

(7) Ähnliche Ideen hatten einst Friedrich Ratzel, Karl Haushofer und Carl Schmitt für den kontinentalen Raum entworfen.

(8) Brzezinski, Zbigniew: Second Chance. Three Presidents and the Crisis of American Superpower. New York 2007

(9) Vgl. Brzezinski 2007, S. 189

(10) Schon während des Irak-Krieges nutzten in Bulgarien die US-Streitkräfte einen Flugplatz und den Hafen Burgas, in Rumänien den Flugplatz Michail Kogalniceanu und den Hafen von Konstanza. Von diesem Zeitpunkt an wurde über eine Nutzung von Hafenanlagen bzw. Flugplätzen als Logistikstützpunkte in der Nähe der Schwarzmeerküste weiter diskutiert. Vgl. Ward Sanderson: »Laying the groundwork for new positioning«, European Stars and Stripes, 22.08.2004

(11) Balmasov, Sergey: »USA Prepares to Attack Russia in 3 or 4 Years?«, in: Pravda.Ru vom 23. Oktober 2009, abzurufen unter: http://english.pravda.ru/print/world/europe/110090-usa_russia-0

(12) Künftig untergliedern sich die US-Auslandsbasen in drei Kategorien: a) Main Operating Bases (große, ständig genutzte und mit größeren Einheiten und Verbänden belegte Standorte); b) Foward Operating (ständige Standorte, die in Krise und Krieg schnell aufwachsen können) sowie c) Cooperative Security Locations (auf dem Territorium der Gastgebernationen werden Standorte mit wenig US-Personal für bestimmte Operationen zur Verfügung gestellt). Hier können sich vornedisloziierte Waffen oder logistische Einrichtungen zur Unterstützung von Operationen im Einsatzland befinden. So trainieren britische und US-Truppen beispielsweise gelegentlich auf den polnischen Übungsplätzen Drawsko Pomorskij und Wedrzyn.

(13) »Africa is rising on US foreign policy horizon«, in: Alexander’s Oil and Gas Connections, News & Trends: North America, 23/2003

(14) Neben AFRICOM (der größte Teil Afrikas) bestehen fünf weitere US-Kommandozentralen: NORTHCOM (Nordamerika), SOUTHCOM (Mittel- und Südamerika), EUCOM (Europa, Russland), CENTCOM (Naher und Mittlerer Osten einschließlich Afghanistan und der zentralasiatischen ehemaligen Sowjetrepubliken sowie Nordostafrika) und PACOM (Pazifik, einschließlich China).

(15) Stout, David: »Bush Creates New Military Command in Africa« vom 6. Februar 2007 unter: http://nykrindc.blogspot.com/2007/02/president-bush-announces-creation-of.html (aufgerufen am 14. November 2009)

(16) Zitiert aus Mitsch, Thomas: »AFRICOM: Stuttgart wichtigste US-Basis im Wettlauf um Afrikas Öl«, in: AUSDRUCK – Das IMI-Magazin (April 2007).

(17) Mit dem nur fünf Tage vor dem Jugoslawienkrieg verabschiedeten sogenannten »Seidenstraßen-Strategiegesetz« (»Silk Road Strategy Act«) definierten die USA ihre umfassenden wirtschaftlichen und strategischen Interessen in einem militärisch abgesicherten breiten Korridor, der sich vom Mittelmeer bis nach Zentralasien erstreckt.

(18) »IDF and EUCOM Complete Joint Training Exercise For 20 days the two forces trained their cooperation in various defense exercises throughout Israel«, in: Jewish News Today vom 11. November 2009 unter http://www.jewishnews2day.com/jnt/cont.asp?code=8858&cat=uplinks

(19) Weiter aufgezählt sind 8.920 Zivilisten und 33.468 andere Personen (?)

(20) Schäfer, Paul: »Die US-Streitkräfte in Deutschland«, in Freitag, Nr. 15, vom 11. April 2008

(21) Diesem Denken entspringt der Plan, die Gaspipeline Nabucco südlich an Russland vorbeizuführen.

(22) Seidenstraßen-Strategiegesetz: »Silk Road Strategy Act of 1999« (H.R. 1152 – 106th Congress) Offizieller Titel: »Ta arnend the Foreign Assistance Act of 1961 to target assistance to support the econornic and political independence ofthe countries ofthe South Caucasus and Central Asia«. Im Mai 2006 modifiziert: »Silk Road Strategy Act of 2006 (S. 2749 – 109th Congress)«. Offizieller Titel: »A bill to update the Silk Road Strategy Act of 1999 to modify targeting of assistance in order to support the economic and political independence ofthe countries of Central Asia and the South Caucasus in recognition of political and economic changes in these regions since enactment of the original legislation.«

 

Mittwoch, 18.11.2009

Kategorie: Gastbeiträge, Geostrategie, Politik

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Obama: l'uomo della Provvidenza?

Obama: l’uomo della Provvidenza?




di Marco Aurelio Casalino / ex: http://augustomovimento.blogspot.com/


L’elezione di Barack Obama ha scatenato momenti di entusiasmo prossimi al delirio collettivo, un’esaltazione quasi messianica per il primo uomo di colore che ha avuto accesso alla Casa Bianca. In Europa, e nel Mondo, la frenesia ha attraversato tutti gli ambiti sociali, suscitando atti di ritrovata fede nelle virtù (virtù?) della democrazia (democrazia?) statunitense e ubriacature condite da forti dosi di propaganda etnicista per il baldo Obama. Ora, passato qualche mese dall’evento, è venuta l’ora di riconsiderarlo con maggiore attenzione politica e spogliandosi di emotività. È vero, sì, che gli abitanti degli Stati Uniti sono soliti eleggere un uomo politico come fosse una rock star carismatica, tutto stile glamour, molto people, e tutto frasi fatte e propaganda d’impatto (una sintesi fra Fonzie e il Principe di Bel-Air…) ma noi, che dovremmo essere diversi nei giudizi, conoscendo gli uomini, la politica e la storia, avremo un’altra luce nel vedere la realtà per come essenzialmente è (non nutro molte speranze in questo, in quanto è arrivata anche da noi questa sorta di politica daavanspettacolo”, tutta slogan e niente idee… ma almeno ci spero).

Un semplice colpo d’occhio alla squadra che ha gestito e finanziato la campagna del candidato Obama, con una raccolta di biografie delle persone “cruciali”, e tutto torna normale. Infatti, l’importante per le “vere” classi dirigenti statunitensi non è il partito di questo o di quel governo, ma il partito che, pur cambiando, è in grado di assicurare il potere già esistente nello Stato, cioè quel complesso di lobbies militare-industriale-finanziario (cioè politico…) che, apparentemente ma solo spettacolarmente, dà l’impressione di corrispondere alle aspirazioni delle masse, ma realmente continua nel suo “progetto”, fatto di interessi finanziari, simbolici e, quindi, politici. «Bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga come prima» diceva Orwell. Il capitalismo più avanzato e, quindi, più potente è quello apparentemente più tollerante, cioè quello aperto a qualsiasi tipo di partito (democratico ovviamente), a qualsiasi sfaccettatura della amata globalizzazione, quindi socializzazione, sessualizzazione, destra repubblicana, sinistra democratica, ateismo, omosessualità, travestiti, lesbiche, negri, ispanici, cinesi, coreani, ebrei, amerindi ecc. Non esiste origine etnica, né discriminazione politica o culturale, a patto che tutto queste realtà non mettano in discussione il “Potere”. Si tratta di una “positività” estremamente vincente (anche se talvolta scade nel grottesco o nel politically correct), creando una miscela di differenze (innocue) nella quale si dà vita ad un collage, il cosiddetto «Melting pot», dove quella che chiamiamo «società» o «Stato» non è altro che un’accozzaglia di razze, culture, popoli, spersonificati a dovere e amalgamati tutti insieme, come per azzerarli, annientarli, massificarli, come avviene nella sfera della merce e dei prodotti (vedi «l’uomo massa» di Marx).

Da questa realtà profondamente malefica proviene Obama e la sua elezione, e solo i soliti ingenui e ciechi (anche se imbardati di lauree e titoli…) possono non considerarla per quello che è: una grande operazione di marketing politico. Questi dovrebbero sapere, prima di adulare, che lo Stato capitalista che dirige e domina la grande economia (e quindi la politica mondiale), avente come ideologia cardine il “Dio Denaro” e la sacralizzazione quasi mistica della ricchezza (da cui scaturiscono ovviamente povertà e schiavitù per i restanti 2/3 del mondo…), mai avrebbe e mai ha accettato, approvato od anche solo tollerato una forza autenticamente popolare, se Obama in questo l’hanno confuso. Ogni realtà che ha messo o anche solo provato a mettere in discussione l’equilibrio dei Poteri, la distribuzione del denaro (ehm, scusate Dio…) e delle proprietà, è stato schiacciato, senza margini di negoziato, con un gioco “democratico” molto abile. È la storia che parla, non io. Allora, come è andata davvero?

Quattro anni fa Barack Obama non era che un giovane senatore dell’Illinois, eletto da poco, e anche sconosciuto. Due anni fa dichiarò la sua candidatura alla presidenza. Tenendo conto che non è un esperto mestierante della politica come la sua rivale Hillary Clinton, non poteva fare appello a dinastie potenti come Roosevelt o a famiglie cattoliche ricchissime come Kennedy, non ha mai svolto ruoli di primo piano in campo militare come l’altro suo rivale McCain, non ha la preparazione culturale del suo idolo Lincoln, allora c’è davvero da chiedersi: come diavolo (e forse il diavolo ne sa qualcosa…) ha fatto a diventare Presidente di una delle prime potenze mondiali?! Sarà bastato un semplice «Yes, we can!»?! Oppure sarà bastato essere di colore? Per quanto mi riguarda, il valore politico di un uomo non è dato dal suo colore della pelle, anzi, a tutti i suoi buonisti, moralisti e zelanti-simpatizzanti, rispondo che è in realtà una maniera molto razzista e semplicistica di giudicare, quasi che la grande politica sia questione di razza, e non di idee.

Partiamo dal punto cardine che Barack Obama, fin dal momento della sua candidatura, ricevette immediatamente somme considerevoli. E, se mi avete seguito fino ad ora, avrete capito che il “Sistema” non consente mai l’emergere di una candidatura imprevista. Insomma, parliamoci chiaramente: il caro Obama ha giocato il gioco dei padroni della Finanza Mondiale, e il sostegno senza riserve che gli hanno accordato George Soros (in foto) e Warren Buffet (chi sono?... INFORMATEVI!!!) la dice lunga sulle sue relazioni con il capitalismo finanziario e sul suo non essere il “nuovo Messia”. Gli Stati Uniti non sono solo il paese più odiato al mondo, ma anche quello che, a furia di speculazioni da parte dell’alta Finanza Mondiale sui popoli, trascina il Pianeta intero nel suo naufragio economico, nonché culturale. Sono in stato di recessione avanzata, oggetto di speculazioni massicce. Per non perdere il sostegno necessario a proseguire la loro politica imperiale, se non si voleva che il Paese diventasse ingovernabile, bisognava proporre qualcosa di nuovo, una nuova immagine, senza intaccare il potere economico e politico: lavorare sull’immagine come fosse un simulacro. Una scelta di facciata che superasse la solita classe politica che esiste da tre decenni e creare l’uomo della provvidenza. «Creare», ho detto. E Obama coincide perfettamente con quest’immagine: giovane, rinnovato, apparentemente non compromesso con la vecchia guardia politicante, uomo di colore sposato con donna di colore, buon padre di famiglia, sorridente e che, in un periodo di crisi mondiale, dice: «sì, possiamo farcela!». Meglio di così? Ecco costruita l’immagine perfetta, con la speranza di cambiare per il popolo ma senza che il Potere voglia farlo davvero.

Ed ecco un modo fruttuoso per consolidare quest’immagine perfetta. Togliamoci un piccolo sassolino dalla scarpa. Il vincitore del festival di Sanremo non è sempre il miglior cantante, così come chi si aggiudica l’Oscar non è per forza il miglior attore. È solo spettacolo. Ma almeno il premio Nobel (per la pace poi!) dovrebbe essere tutt’altro che spettacolo, dovrebbe essere un esempio, un punto di riferimento. Non è così. È solo spettacolo (ahi noi…). L’assegnazione è spiccatamente pilotata dalle potenti lobbies politiche e dai media a loro asserviti. Ma tutto, nella vita, va dimostrato. Il vincitore del premio Nobel per la pace è Barack Obama, per «i suoi straordinari sforzi nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione fra i popoli». Una scelta quantomeno criticabile e discutibile (per i più) e assolutamente ridicola (per me), in quanto il Presidente USA mantiene ancora schierate le sue truppe in Iraq, prosegue (e come!) la guerra in Afghanistan, anzi coinvolgendo nei raid anche il Pakistan, prosegue le azioni militari in Somalia, mentre soldati USA combattono nelle Filippine. Forse qualcuno («i più», citati poc’anzi) non è ancora soddisfatto. Allora, continuo a rendere ancora più stravagante questo Nobel per la pace: ha piazzato Consiglieri e addestratori militari Usa nel sud della Thailandia, contro i separatisti islamici di Pattani, anche loro accusati di legami con Al-Qaida (rimane ancora oscuro ed inspiegabile nonché invisibile questo “terrorismo” di Al-Qaida…); in Georgia, contro i separatisti osseti e abkhazi sostenuti dalla Russia; in Colombia, contro i guerriglieri delle FARC; in Niger, Mali e Tunisia, contro le cellule locali di Al-Qaida nel Maghreb Islamico (ancora con questo Al-Qaida…); in Yemen contro le milizie di Al-Qaida (!) nella penisola Araba. Ecco il valore di un Nobel per la pace. Sarei curioso di sapere cosa pensano di questa assegnazione tutte le mamme dei militari uccisi (americani e non), o tutte quelle persone che hanno visto massacrati e trucidati i loro cari od anche dei semplici “esseri umani” (non dimentichiamoci che questo siamo…) davanti ai loro occhi, in nome della democrazia e, appunto, della pace (!). Ecco lo «straordinario sforzo» di quest’uomo, ecco la «cooperazione tra i popoli». E mi sto limitando alla semplice amministrazione Obama. Non vorrei andare a ritroso nei precedenti Nobel per la pace. Ora, per il 2010, aspettiamo il Nobel per la “Fisica” a Fabrizio Corona.

Infine, per avere un quadro della situazione veramente completo, farò anche qualche nome sul gadget dei “salvatori”, cioè su coloro che rappresentano gli Stati Uniti d’America, e quindi il suo Presidente: Zbigniew Brzezinski (autore di un libro dove parla di dominio imperiale, dal titolo La grande scacchiera) come dirigente degli Affari Esteri, Bill Gates (non ha bisogno di presentazioni e non fa certo parte del “popolo”…), come Segretario al Tesoro c’è Timothy Geithner (Presidente della FED di New York, anch’essa non proprio attenta ai bisogni del popolo), o anche Lawrence Summers al Consiglio Nazionale Economico (è l’ex presidente di Harvard ed è stato già Segretario al Tesoro con Bill Clinton…). Quanta bella gente, e nuova soprattutto. Ops, dimenticavo: c’è Rahm Israel Emanuel, l’espertissimo lobbista di Washington (già consigliere di Freddie Mae, oggi in fallimento!), l’uomo che fu volontario nell’esercito israeliano durante la guerra del Golfo e che ora predica la guerra contro l’Iran ed un sostegno incondizionato sempre a Israele (ma Obama non era pacifista?).

Se, a mo’ di conclusione, le élites statunitensi avessero voluto davvero mostrare al paese e al mondo un cambiamento simbolico reale e forte (non parlo di un cambiamento di Sistema, che soltanto una rivoluzione potrebbe suscitare), non avrebbero scelto un meticcio il cui padre non era nemmeno un discendente di schiavi. Avrebbero, invece, scelto un indiano, un pellerossa. I neri sono, malgrado loro, il prodotto della conquista del potere bianco negli Stati Uniti. Nonostante siano da sempre stati vittime di un duro e ostentato razzismo da parte dei bianchi, hanno partecipato nondimeno da soldati americani alla conquista del West, senza preoccuparsi troppo della sorte genocida riservata agli Amerindi. E questo è solo un esempio, perché i neri hanno, ormai da secoli, sempre cercato di sopportare questo celato razzismo pur di vivere nell’American dream da
schiavi e scomunicati ma comunque americani. Schiavi sì, ma del loro stesso destino, che loro stessi hanno scelto.

Gli Indiani d’America tutti, invece, pur avendo subìto uno sterminio totale (si parla di circa 70 milioni di persone!), hanno sempre combattuto con indomito coraggio ed infinito onore contro l’invasione bianca, coprendosi di gloria per sempre.
Se l’élite avesse desiderato dare un simbolo forte di un’America che riconosceva il debito con gli autoctoni che i suoi padri hanno spogliato delle loro terre, della loro dignità, cultura e delle loro credenze, avrebbero dovuto promuovere al posto supremo un indiano. Io, personalmente, l’avrei comunque vissuta come un’ennesima presa in giro (prima ti stermino, poi ti metto al comando, tanto comando sempre io…) ma almeno una presa in giro che tiene conto della storia. Ma non poteva farlo, non poteva agire così, avrebbe implicitamente ma automaticamente provato l’illegittimità del potere bianco sui popoli autoctoni. E tutte quelle guerre poi? Non sarebbero state più giuste e democratiche! Allora, meglio Obama. E togliamoci il pensiero.

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samedi, 21 novembre 2009

Pentagon-Weissbuch: Der "Narco-Krieg in Kolumbien" zielt auf ganz Südamerika

colombiaUSbase.jpgPentagon-Weißbuch: Der »Narco-Krieg in Kolumbien« zielt auf ganz Südamerika

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Bislang war die starke US-Militärpräsenz in Kolumbien strikt auf Einsätze gegen Drogeanbau und -handel beschränkt, soll jetzt aber zu einer Ausgangsbasis für Luftangriffe auf ganz Lateinamerika ausgebaut werden. Daran zeigt sich, dass die Bemühungen der Regierungen von Venezuela, Bolivien und Ecuador um engere regionale Wirtschaftskooperation unabhängig von den Vereinigten Staaten zu einem ernsthaften Problem für die Hegemonie der USA genau in dem Teil der Welt wird, den sie seit der Proklamation der Monroe-Doktrin im Jahr 1823 als ihre »Einflusssphäre« betrachten. Immer mehr Länder in der Region lehnen die Anwesenheit der USA als imperiale Dominanz ab und suchen nach Alternativen. Die verstärkte Militärpräsenz in Kolumbien ist ein bedrohliches Anzeichen dafür, dass die USA nun Druck machen wollen.

In einem Dokument, das die US Air Force im Mai 2009 dem amerikanischen Kongress übermittelt hat, versteckt sich eine Erklärung, wonach das Pentagon derzeit die militärische Präsenz auf dem Flugplatz Palanquero in Kolumbien ausbaut, und zwar, wie es in dem offiziellen Dokument heißt, »zum Zweck der Durchführung von Full-Spectrum-Operationen in ganz Südamerika …«.

Full Spectrum Dominance ist die offizielle Strategie des Pentagon, die Welt zu beherrschen und nicht zuzulassen, dass irgendwo ein Gegner erwächst. 2002 hat US-Präsident George Bush im Rahmen des Kriegs gegen den Terror erklärt, zur offiziellen US-Strategie (National Security Strategy of the United States) – inoffiziell »Bush-Doktrin« genannt – gehörten in Zukunft auch »Präventivkriege«, um jede Möglichkeit auszuschalten, die Dominanz der USA als alleiniger Supermacht herauszufordern. Gemäß dieser radikal neuen Präventiv-Doktrin kann gegen feindliche Staaten eingeschritten werden, bevor diese angreifen können, selbst dann, wenn diese gar keinen unmittelbaren Angriff planen. Die Doktrin von 2002 bleibt auch unter Obama offizielle Strategie der USA.

Der Ausbau des US-Luftwaffenstützpunkts im kolumbianischen Palanquero für »Full-Spectrum-Operationen« bedeutet einen klaren Verstoß gegen eine eindeutige Vereinbarung zwischen den Regierungen Kolumbiens und der USA, wonach der Stützpunkt ausschließlich für Einsätze zur Drogenbekämpfung innerhalb Kolumbiens genutzt werden sollte. Demnach dient der »Plan Columbia« nur als fadenscheiniger Deckmantel für die amerikanische Militärpräsenz in Südamerika, die sich gegen Venezuela und andere potenzielle Gegner richtet.

Beide Regierungen haben öffentlich erklärt, die militärische Vereinbarung beziehe sich nur auf Maßnahmen zur Drogen- und Terrorbekämpfung auf kolumbianischem Territorium. Obwohl Präsident Uribe wiederholt betont hat, das Militärabkommen mit den USA wirke sich nicht auf die angrenzenden Staaten aus, herrscht in der Region Misstrauen über die wahren Ziele der Vereinbarung.

Im Dokument der US Air Force wird der Zweck deutlich ausgesprochen: Die USA solle in die Lage versetzt werden, »Full-Spectrum-Operationen in einer wichtigen Region unserer Hemisphäre durchzuführen, in der Sicherheit und Stabilität ständig durch mit Drogengeldern finanzierte terroristische Aufstände … und antiamerikanische Regierungen bedroht sind …« (Hervorhebung durch den Autor – W.E.)

 

Die USA zielen auf Regierungen der ALBA-Mitgliedsstaaten

Das Militärabkommen zwischen Washington und Kolumbien ermöglicht den Zugang zu und die Nutzung von sieben militärischen Einrichtungen in Palanquero, Malambo, Tolemaida, Larandia, Apíay, Cartagena und Málaga. Darüber hinaus ist laut Vereinbarung »im Bedarfsfall der Zugang zu und die Nutzung von allen anderen Einrichtungen und Standorten« in ganz Kolumbien uneingeschränkt möglich. Kolumbien hat dem amerikanischen Militär- und Zivilpersonal, Mitarbeiter privater Militär- und Sicherheitsdienstleister eingeschlossen, vollständige Immunität vor Strafverfolgung in Kolumbien zugesichert. Durch die Klausel, wonach die USA berechtigt sind, alle Einrichtungen im ganzen Land – selbst kommerzielle Flughäfen – zu militärischen Zwecken zu nutzen, wird Kolumbien offiziell zum Satellitenstaat der USA.

Das Dokument der US Air Force unterstreicht die Wichtigkeit des Militärstützpunkts in Palanquero und rechtfertigt die Summe von 46 Millionen Dollar, die der Kongress im Haushalt 2010 für den Ausbau des Flugplatzes und der dazugehörigen Infrastruktur auf dem Stützpunkt bewilligt hat. Der Stützpunkt wird dadurch zu einer sogenannten US Cooperative Security Location (CSL). »Die Einrichtung einer Cooperative Security Location (CSL) in Palanquero dient der Theatre Posture Strategy der COCOM (Command Combatant) und stellt unsere Ernsthaftigkeit unter Beweis. Die Entwicklung bietet eine einmalige Gelegenheit, umfassende Operationen in einer kritischen Teilregion unserer Hemisphäre durchzuführen, in der Sicherheit und Stabilität ständig durch mit Drogengeldern finanzierte Aufstände, antiamerikanische Regierungen, weit verbreitete Armut und wiederkehrende Naturkatastrophen bedroht sind.« (Hervorhebung durch den Autor – W.E.)

Angesichts wiederholter Äußerungen des US-Außen- und Verteidigungsministeriums gegen Venezuela und Bolivien – Länder, in denen demokratisch gewählte Regierungen bemüht sind, eine Wirtschaftspolitik durchzusetzen, die eine faire Nutzung der Rohstoffe, besonders im Bereich Energie, gewährleistet – besteht kein Zweifel, welche Regierungen in Südamerika mit dem Begriff »antiamerikanisch« gemeint sind.

Im April dieses Jahres haben die Staats- und Regierungschefs von Bolivien, Kuba, der Dominikanischen Republik, Honduras, Nicaragua und Venezuela, allesamt Mitgliedsländer der ALBA (Bolivarianische Allianz für die Völker unseres Amerika), die US-Politik in einer gemeinsamen Erklärung kritisiert. Dort hieß es u.a.: »Was wir zurzeit erleben, ist eine weltweite systemische und strukturelle Wirtschaftskrise und keine normale zyklische Krise. Es ist ein Irrtum zu glauben, diese Krise könne durch die Injektion von Steuergeldern und mithilfe einiger regulatorischer Maßnahmen gemeistert werden. Das Finanzsystem ist in der Krise, weil der Wert der Finanzpapiere sechs Mal höher ist als der Wert aller realen Güter und Dienstleistungen, die auf der Welt produziert und erbracht werden. Hier geht es nicht um ein Versagen der ›Regulierung des Systems‹, hier zeigt sich vielmehr ein Aspekt des kapitalistischen Systems, die Spekulation mit allen Gütern und Werten, um maximalen Profit herauszuschlagen.«

In der Erklärung der ALBA heißt es weiter: »Die Länder Lateinamerikas und der Karibik sind dabei, eigene Institutionen aufzubauen …, um den Prozess der gesellschaftlichen, wirtschaftlichen und kulturellen Umgestaltung zu vertiefen, der unsere Souveränität festigen wird … Um den schweren Auswirkungen der weltweiten Wirtschaftskrise zu begegnen, haben die ALBA-TCP-Länder innovative gestalterische Maßnahmen ergriffen mit dem Ziel, echte Alternativen zu der zerrütteten internationalen Wirtschaftsordnung zu entwickeln, anstatt diese gescheiterten Institutionen weiter zu stärken. Darum haben wir das Einheitliche System Regionalen Ausgleichs, SUCRE, ins Leben gerufen, das eine einheitliche Verrechnungseinheit, eine einheitliche Verrechnungsstelle und ein einheitliches Reservesystem umfasst. Gleichzeitig fördern wir den Aufbau großer Unternehmen in den Mitgliedsländern, die unseren Völkern dienen, und führen Mechanismen für einen gerechten Handel untereinander ein, bei denen die absurde Logik des ungebremsten Wettbewerbs nicht mehr gilt.«

Weiterhin wird die Entscheidung der G20-Staaten scharf kritisiert, die Vollmachten des Internationalen Währungsfonds zu erweitern: »Wir stellen die Entscheidung der G20 infrage, den Betrag, der dem Internationalen Währungsfonds zur Verfügung gestellt wird, in einer Zeit zu verdreifachen, in der vielmehr der Aufbau einer neuen Weltwirtschaftsordnung notwendig ist, die eine vollkommene Umgestaltung von IWF, Weltbank und der Welthandelsorganisation einschließt, d.h. den Institutionen, deren neoliberale Politik der Bedingungen maßgeblich zur weltweiten Wirtschaftskrise beigetragen hat.«

Die wiederholten aggressiven Erklärungen des Außen- und Verteidigungsministeriums der USA und des US-Kongresses gegen Venezuela, Bolivien und auch Ecuador zeigen, dass Washington die ALBA-Mitgliedsländer als »ständige Bedrohung« ansieht. Ein Land als »antiamerikanisch« einzustufen, heißt, es zum Feind der Vereinigten Staaten zu erklären. In diesem Licht ist es offensichtlich, dass das Militärabkommen mit Kolumbien in Reaktion auf eine Region geschlossen wird, in der es nach Ansicht der USA heutzutage von »Feinden« wimmelt.

 

Sonntag, 15.11.2009

Kategorie: Geostrategie, Politik

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Madiale Märchenstunde - für eine Handvoll Dollar

taliban.jpgMediale Märchenstunde – für eine Handvoll Dollar

Udo Ulfkotte /

http://info.kopp-verlag.de/

Die Vereinigten Staaten haben mehrfach ganz offiziell erklärt, dass sie Propagandaabteilungen unterhalten, die mediale Stimmung für die US-Einsätze im Irak und in Afghanistan machen sollen. Mitunter lügt man bei solchen Propagandageschichten; auch das ist aus der Sicht der Amerikaner legitim. Und immer wieder fallen die großen »Nachrichtenmagazine« auf die US-Propaganda herein und verbreiten sie bereitwillig. Nun gibt es wieder eine solche Geschichte aus der US-Propagandaabteilung. Und die britische Regierung lügt lieber erst gar nicht mehr, sie teilt der Bevölkerung jetzt ganz offen mit, dass man Menschen kauft – mit Bestechungsgeldern …

Zehn Dollar zahlen die Taliban in Afghanistan pro Tag jedem, der auf ihrer Seite kämpft. Es scheint viele zu geben, die das Geld nehmen und für die Taliban kämpfen. Die ausländischen Truppen stehen jedenfalls vielen Taliban-Kämpfern gegenüber. Die Briten haben nun eine offizielle Dienstanweisung für Afghanistan herausgegeben, die einen neuen Weg zeigt, wie man britisches Leben bis zum Rückzug der britischen Armee aus Afghanistan schont: Die Briten sollen in Afghanistan einfach mehr Geld als die Taliban zahlen. Kämpfer abkaufen heißt die neue Devise. Und wenn Dollar nicht weiterhelfen, weil der Dollarkurs ja ständig verfällt, dann sollen die Briten stets einige Goldstücke bei sich haben und die Taliban-Kämpfer mit Gold aufkaufen. Ein Scherz? Nein, keine Satire, sondern die Realitiät. Die Londoner Times berichtete heute unter der Überschrift »Army tells its soldiers to ›bribe‹ the Taleban« darüber. In dem Bericht heißt es: »British forces should buy off potential Taleban recruits with ›bags of gold‹, according to a new army field manual published yesterday.« Das lässt tief blicken. Anstelle von Munitionstransporten nach Afghanistan wird es also jetzt Gold- und Geldtransporte nach Afghanistan geben. Wem will/kann man das in der europäischen Normalbevölkerung noch erklären?

Muss man auch nicht. Die großen Propagandaabteilungen sorgen ja schon dafür, dass die Menschen in westlichen Staaten noch irgendwie an die Notwendigkeit einer Kriegführung in Afghanistan glauben. Vor wenigen Tagen haben die Propagandaabteilungen wieder einmal Meisterliches vollbracht …

Terroranschläge vom 11. September 2001 – »Pass von 9/11-Helfer in Pakistan aufgetaucht« berichtete das ehemalige Nachrichtenmagazin Spiegel unlängst. In dem Artikel heißt es: »Nun ist seit Jahren die erste Spur von Said Bahaji aufgetaucht. Bei einer von der Armee organisierten Fahrt ins Kampfgebiet von Südwaziristan zeigten pakistanische Soldaten kürzlich Journalisten den deutschen Pass von Said Bahaji, den sie laut eigenen Angaben in einem der Häuser von Extremisten gefunden haben.« Auch die New York Times und andere renommierte Zeitungen erklärten ihren Lesern in jenen Tagen eine angebliche direkte Verbindung zwischen dem »Rückzugsgebiet« der Taliban und den Planern der Terroranschläge des 11. September 2001. Googelt man den Bericht der New York Times, dann findet man ihn wortgleich in 5.785 anderen Medien. Beim Lesen solcher Berichte brennt sich dem Durchschnittsleser tief ins Gedächtnis ein: Taliban = Anschläge vom 11. September 2001. Egal wie rückständig die Steinzeitislamisten der Taliban (die man heute mit Geld und Gold aufzukaufen versucht) auch sein mögen, sie haben angeblich irgendwie etwas mit Terrorplanungen zu tun. Die tiefenpsychologische Aussage dahinter lautet für den Leser: Wenn wir die Taliban in ihren »Rückzugsgebieten« jetzt nicht mit aller Macht bekämpfen, dann gibt es neue Terroranschläge in westlichen Staaten. Man suggeriert den Menschen, dass Terroranschläge in Afghanistan geplant werden. Moslem-Terroristen wie Nidal Malik Hasan, der gerade erst in Fort Hood/Texas unter Berufung auf den Islam viele Muslime ermordete, passen da nicht ins Bild. Nicht einer der Terroranschläge der letzten Jahre ist in Afghanistan oder gar von den Taliban geplant worden. Die Planer der Anschläge von Madrid, von London, die vielen aufgedeckten und verhinderten Anschläge in Deutschland – immer waren die Terroristen heimische Moslems. Das aber will man nicht wahrhaben. 

Wenn man Bevölkerungen einen Krieg schmackhaft machen will, dann braucht man vielmehr Behauptungen, die irrationale Ängste schüren. Dummerweise wurden aber auch die Terroanschläge des 11. September 2001 nicht in Afghanistan und nicht in einem »Rückzugsgebiet« der Taliban geplant, sondern in Hamburg/Deutschland, in Frankreich, in Sarasota/Florida und in Falls Chruch/Virginia. Und  auch das Geld kam nicht aus dem »Rückzugsgebiet« der Taliban, sondern aus Saudi-Arabien. Doch der Krieg wird heute weder gegen Saudi-Arabien, noch gegen Hamburg (Deutschland), Frankreich, Sarasota (Florida) oder Falls Chruch (Virginia) geführt.  

Der US-Nachrichtensender CBS berichtet in diesen Tagen (zum Ärger von Präsident Obama), dass die amerikanische Regierung die Zahl der in Afghanistan und im Irak stationierten US-Soldaten auf mehr als 100.000 erhöhen wolle. Je mehr amerikanische und andere westliche Soldaten man in die Region bringt, umso größer wird die Gefahr von Terroranschlägen in westlichen Staaten – das hat gerade erst das Blutbad von Fort Hood/Texas gezeigt, bei dem der muslimische Major Nidal Malik Hasan aus Wut über die geplante Truppenverstärkung seine Kameraden ermordete. Er wurde nicht aus dem »Rückzugsgebiet« der Taliban gesteuert. Man befürchtet in den USA jetzt, dass alle US-Moslems künftig von den Amerikanern nur noch als Terroristen gesehen werden.

afghanistan-taliban-terrorisme.jpgZurück zum Anfang dieser Geschichte. Die vielen Berichte über einen angeblich gefundenen Pass eines Terrorplaners im »Rückzugsgebiet« der Taliban enthalten nicht eine neue Information. Denn die Tatsache, dass Said Bahaji sich dort aufhält, ist (wie auch der Spiegel in dem Bericht »Pass von 9/11-Helfer in Pakistan aufgetaucht« eingesteht) seit Jahren schon bekannt. Die Veröffentlichung ist ein Propagandaerfolg der Amerikaner. Der Widerstand gegen die Ausweitung des Krieges in der Bevölkerung könnte mit solchen Berichten geringer werden. Die US-Propagandaabteilungen und die Berliner Regierung, die beide die Ausweitung des Krieges und die Entsendung weiterer Truppen planen, werden sich über solche Berichterstattung freuen.

Man kennt das ja alles – erinnern Sie sich: Da gab es vor Jahren die gleichen Propaganda-Berichte über Saddam Hussein und den Irak. Von dort aus seien die Terroranschläge des 11. September 2001 angeblich geplant worden. Man verbreitete das allen Ernstes. Und es wurde gedruckt. Heute ist allein die Erinnerung an diesen Blödsinn peinlich. Unterdessen können heute in aller Ruhe Menschen in Dubai, Hamburg oder den USA Terroranschläge planen. Soldaten, die man in das »Rückzugsgebiet« der Taliban entsendet, werden das nicht verhindern können.   

Und die Taliban in Afghanistan? Die kauft man jetzt für eine Handvoll Dollar auf. Das ist angeblich moderne Terrorabwehr. Eigentlich könnte man die westlichen Soldaten doch nun komplett aus Afghanistan zurückziehen. Man braucht doch jetzt nur noch einen westlichen Zahlmeister, der Tag für Tag mehr als 10 Dollar an jeden Ex-Taliban-Kämpfer auszahlt …

  

Dienstag, 17.11.2009

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Enthüllungen, 11. Sept. 2001, Akte Islam, So lügen Journalisten, Politik, Terrorismus

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vendredi, 20 novembre 2009

Les Etats-Unis: la "puissance intelligente" au service de la guerre

Les États-Unis : la «puissance intelligente » au service de la guerre

Ex: http://polemia.com/

Les derniers événements entourant le déroulement des guerres d’invasion en Asie centrale nous permettent de saisir quelques-uns des éléments de la stratégie des États-Unis et les différentes manœuvres diplomatiques et médiatiques visant à faire basculer l’opinion des Étatsuniens en faveur d’une poursuite de leurs opérations guerrières dans cette région.

La « réintronisation » orchestrée de Hamid Karzaï et l’envoi de renforts de troupes


La « réintronisation » de Hamid Karzaï à la tête du gouvernement fantoche de Kaboul a été orchestrée pour que le climat politique qui a prévalu depuis 2001 se maintienne avec la présence d’un allié acquis aux intérêts des conquérants. Les mots sont difficiles à trouver pour qualifier le caractère légitime de la «victoire» de H. Karzaï. On s’évertue à essayer de rendre maintenant son élection valide alors que la plupart des intervenants, depuis le 20 août dernier, ont discrédité le processus électoral et mis en doute ses résultats.

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En même temps, l’administration Obama et les stratèges du Pentagone ont fait semblant de tergiverser concernant l’envoi ou non de renforts alors que cette manœuvre avait vraisemblablement un double objectif. Le premier celui de jauger le potentiel de troupes additionnelles pouvant être offert par les membres de la coalition et le second, celui de disposer du temps nécessaire pour mesurer le degré de résistance des insurgés et des Talibans au Pakistan. Ainsi, elle a ordonné à l’armée nationale pakistanaise de livrer une guerre sans merci contre les Talibans et les insurgés dans le territoire du Sud-Waziristan. Ce faisant, les États-Unis pourraient peu à peu faire valoir que les efforts de guerre du Pakistan devraient être confortés par des forces militaires additionnelles en Afghanistan afin de faire face à la résistance pouvant éventuellement trouver refuge dans ce territoire. L’administration Obama serait ainsi en mesure de justifier les renforts qu’elle se propose de déployer.

Il est primordial pour cette administration qu’elle donne suite aux pressions exercées par la droite américaine qui réclame une intensification de l’effort de guerre en Afghanistan tout en emmenant l’opinion publique à accepter la décision d’ajouter un contingent important de soldats (on a mentionné des chiffres allant de 40 000 à 60 000). Peu à peu les guerres de l’Afghanistan et du Pakistan pourraient se fondre en un seul et même conflit et il serait alors plus facile de démontrer qu’il est crucial d’augmenter globalement les forces militaires dans cet ensemble, étant donné les menaces grandissantes posées par la résistance tant en Afghanistan qu’au Pakistan. Les États-Unis feront valoir qu’après huit années de guerre un «petit» effort supplémentaire serait nécessaire afin de ne pas revivre un autre Viêtnam.


Obama, une diplomatie de ralliement pour la conquête du monde par la guerre ?

Depuis leur arrivée à la Maison-Blanche le président Obama et sa secrétaire d’État, Hillary Clinton, ont parcouru le monde pour faire entendre le message renouvelé de l’Empire américain. Une rhétorique nouvelle faisant la promotion du modèle bien connu de domination et d’intervention sur tous les continents, modèle basé sur le plan du commandement unifié des États-Unis (voir l’image illustrant l’article NDLR). Ce plan de commandement «a été mis à jour par le Département de la Défense et s’avère un document stratégique clé qui définit les missions, les responsabilités et les aires géographiques de responsabilité pour les commandants en charge des commandements de combattants» étatsuniens et alliés à travers le monde. La totalité de la surface terrestre est encore, dans les faits, le champ de bataille des Étatsuniens et, sous la nouvelle administration, aucune modification substantielle n’a été apportée à ce plan en vue d’en réduire la portée sur l’ensemble des pays du monde.

Les itinéraires suivis par les responsables de la diplomatie étatsusienne leur ont permis de vérifier sur le terrain le taux de solidité de leurs alliances et le degré de fidélité de leurs partenaires et alliés traditionnels et aussi d’identifier et circonscrire les éléments discordants et hostiles. Ainsi, il leur est permis ensuite d’ajuster les orientations de même que l’intensité des opérations qui s’imposent.

La secrétaire d’État s’est même permis de se faire la protectrice des droits humains lors de son séjour à Moscou : «Toutes ces questions - emprisonnements, détentions, coups, meurtres - sont douloureuses à regarder de l'extérieur", a déclaré Mme Clinton, au deuxième jour de sa visite en Russie, sur la radio Echo de Moscou ». Il est difficile de croire que de tels propos puissent être tenus par la responsable de la diplomatie américaine quand on se rappelle les menaces d’oblitération totale qu’elle a proférées contre l’Iran au cours de la campagne présidentielle . Il importe aussi de rappeler que son pays détenait en 2005 la population carcérale la plus élevée au monde avec 2 186 230 prisonniers (25% du total mondial) et que le taux de détention par 100 000 habitants était également le plus élevé avec 737.6 résidents. De plus, «la Peine de mort aux États-Unis est appliquée au niveau fédéral et dans trente-cinq États fédérés sur cinquante que comptent les États-Unis. Aujourd'hui les États-Unis font partie du cercle restreint des démocraties libérales qui appliquent la peine de mort» (Wikipedia). Il est à espérer que la secrétaire d’État trouve aussi douloureuse cette situation qui prévaut dans son pays.

Mes intentions profondes sont les mêmes

Enfin, il convient d’ajouter que les guerres de l’Asie centrale se poursuivent dans la plus grande impunité et que la torture continue d’être pratiquée dans les prisons «secrètes». S’il s’agit là des manifestations des nouveaux concepts proposés en janvier dernier de la «puissance intelligente» et de la «responsabilité» il y a lieu de s’interroger, car il nous semble plutôt que les propos de la diplomatie étatusienne viennent tout simplement voiler le visage de l’impérialisme. Je suis un acteur qui pense maintenant autrement, mais mes intentions profondes sont les mêmes. En réalité, le concept de la «guerre permanente» reste le guide suprême de mon approche diplomatique qui se veut à géométrie variable en fonction des intérêts qu’il me faut sauvegarder. (Les deux pilliers de la nouvelle diplomatie américaine).

Conclusion

Pour la diplomatie étatsunienne il importe de conserver l’appui des plus puissants malgré certains irritants majeurs, car elle pourrait avoir besoin d’eux quand se produira l’effondrement annoncé de l’économie et l’implosion sociale qui en sera la résultante inéluctable. Faire la guerre pourrait devenir trop lourd pour la société et des mandataires capables de le faire seront alors invités à «donner» davantage pour permettre à l’Empire de survivre encore un certain temps. Cette consigne est sans doute celle qui a été transmise aux pays alliés. Ceux-ci, cependant, bien malgré eux, pourraient être entraînés éventuellement avec lui dans sa chute.

Jules Dufour
Mondialisation.ca,
04/11/ 2009

http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=15926

Références
AFP. 2009. Hillary Clinton avocate des droits de l'Homme à Moscou. RTBF Info. Le 14 octobre 2009. En ligne :
http://www.rtbf.be/info/economie/hillary-clinton-avocate-des-droits-de-lhomme-a-moscou-150876

AFP. 2009. L'OTAN adopte une nouvelle stratégie en Afghanistan. Cyberpresse. Le 23 octobre 2009. En ligne :
http://www.cyberpresse.ca/international/moyen-orient/200910/23/01-914285-lotan-adopte-une-nouvelle-strategie-en-afghanistan.php

BEAUCHEMIN, Malorie. 2009. Obama lance un ultimatum à l'Iran. La Presse. Le 25 septembre 2009. En ligne :
http://www.cyberpresse.ca/international/etats-unis/200909/25/01-905686-obama-lance-un-ultimatum-a-liran.php

COURMONT, Barthélémy et contre-feux.com. 2009. Les deux piliers de la nouvelle diplomatie américaine. ilovepolitics. Le 19 mars 2009. En ligne :
http://www.ilovepolitics.info/Les-deux-piliers-de-la-nouvelle-diplomatie-americaine_a1371.html

DUFOUR, Jules. 2007. Le réseau mondial des bases militaires américaines. Les fondements de la terreur des peuples ou les maillons d'un filet qui emprisonne l'humanité. Centre de recherche sur la mondialisation (CRM). Le 10 avril 2007.
En ligne:
http://www.mondialisation.ca/index.php?context=viewArticle&code=DUF20070409&articleId=5314

DUFOUR, Jules. 2009. Le grand réarmement planétaire. Montréal, Centre de recherche sur la mondialisation (CRM). Le 5 mai 2009. En ligne:
http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=13162

DUFOUR, Jules. 2009. Pakistan: un territoire stratégique pour les guerres de l’Occident en Asie Centrale. Montréal, Centre de recherche sur la mondialisation (CRM). Le 10 août 2009. En ligne:
http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=14719

DUFOUR, Jules. 2009. Afghanistan: des élections pour l'imposition de la «démocratie»? Montréal, Centre de recherche sur la mondialisation (CRM). Le 21 août 2009. En ligne:
http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=14871

KAY, Joe. 2008. Hillary Clinton menace d’ ‘effacer' l'Iran de la carte! Alter Info. Le 24 avril 2008. En ligne :
http://www.alterinfo.net/Hillary-Clinton-menace-d-effacer-l-Iran-de-la-carte!_a19103.html

Nombre de prisonniers dans le monde, par pays. PopulationData.net:
http://www.populationdata.net/chiffres/monde-prisonniers-2006.php

Peine de mort aux Etats-Unis :
http://fr.wikipedia.org/wiki/Peine_de_mort_aux_%C3%89tats-Unis

Jules Dufour, Ph.D., est président de l'Association canadienne pour les Nations Unies (ACNU) /Section Saguenay-Lac-Saint-Jean, professeur émérite à l'Université du Québec à Chicoutimi,   membre du cercle universel des Ambassadeurs de la Paix, membre chevalier de l'Ordre national du Québec.



Correspondance Polémia
08/11/2009

Image : Le Plan du commandement unifié des États-Unis
 

Jules Dufour

jeudi, 19 novembre 2009

La geopolitica nascosta dietro la guerra bidone degli Stati Uniti in Afghanistan

US_troops_afghanistan_1009_A_getty_1221022303.jpgLa geopolitica nascosta dietro la guerra bidone degli Stati Uniti in Afghanistan

di F.William Engdahl


da mondialisation.ca / http://www.italiasociale.org/


Traduzione a cura di Stella Bianchi - italiasociale.org

Uno degli aspetti più rilevanti e diffusi del programma presidenziale di Obama negli Stati Uniti è che poche persone nei media o altrove mettono in discussione la ragione dell’impegno del Pentagono nell’occupazione dell’Afghanistan.
Esistono due ragioni fondamentali e nessuna delle due può essere apertamente svelata al grande pubblico.

Dietro ogni ingannevole dibattito ufficiale sul numero delle truppe necessarie per “vincere” la guerra in Afghanistan, se 30.000 soldati siano più che sufficienti o se ce ne vorrebbero almeno 200.000, viene celato lo scopo reale della presenza militare statunitense nel paese perno dell’Asia centrale

Durante la sua campagna presidenziale del 2008, il candidato Obama ha anche affermato che era l’Afghanistan, e non l’Irak, il luogo in cui gli Stati Uniti dovevano fare la guerra.
Qual’era la ragione?Secondo lui era l’organizzazione Al Qaeda da eliminare ed era quella la vera minaccia per la sicurezza nazionale.Le ragioni del coinvolgimento statunitense in Afghanistan comunque sono completamente differenti.

L’esercito Usa occupa l’Afghanistan per due ragioni: prima di tutto lo fa per ristabilire il controllo della più grande fornitura mondiale di oppio nei mercati internazionali dell’eroina e in secondo luogo lo fa per utilizzare la droga come arma contro i suoi avversari sul piano geopolitico, in particolare contro la Russia.
Il controllo del mercato della droga afghana è fondamentale per la liquidità della mafia finanziaria insolvente e depravata di Wall Street.

La geopolitica dell’oppio afghano.

Secondo un rapporto ufficiale dell’Onu, la produzione dell’oppio afghano è aumentata in maniera spettacolare dalla caduta del regime talebano nel 2001.
I dati dell’Ufficio delle droghe e dei crimini presso le Nazioni Unite dimostrano che c’è stato un aumento di coltivazioni di papavero durante ognuna delle ultime quattro stagioni di crescita(2004-2007) rispetto ad un intero anno passato sotto il regime talebano.
Attualmente molti più terreni sono adibiti alla coltura dell’oppio in Afghanistan rispetto a quelli dedicati alla coltura della coca in America Latina.
Nel 2007 il 93% degli oppiacei del mercato mondiale provenivano dall’Afghanistan.E questo dato non è casuale.

E’ stato dimostrato che Washington ha accuratamente scelto il controverso Hamid Garzai che era un comandante guerriero pashtun della tribù Popalzai il quale è stato per molto tempo al servizio della Cia e che, una volta rientrato dal suo esilio dagli Stati Uniti è stato costruito come una mitologia holliwoodiana, autore della sua”coraggiosa autorità sul suo popolo”.
Secondo fonti afghane,Hamid Garzai è attualmente il “padrino” dell’oppio afghano.
Non è affatto un caso che è stato ed è ancora a tutt’oggi l’uomo preferito da Washington per restare a Kabul.
Tuttavia , anche con l’acquisto massiccio dei voti,la frode e l’intimidazione, i giorni di Garzai come presidente potrebbero finire.

A lungo , dopo che il mondo ha dimenticato chi fosse il misterioso Osama Bin Laden e ciò che Al Quaeda, rappresentasse-ci si chiede ancora se questi esistano veramente- e il secondo motivo dello stanziamento dell’esercito Usa in Afghanistan appare come un pretesto per creare una forza d’urto militare statunitense permanente con una serie di basi aeree fissate in Afghanistan.
L’obiettivo di queste basi non è quello di far sparire le cellule di Al Qaeda che potrebbero esser sopravvissute nelle grotte di Tora Bora o di estirpare un “talebano”mitico, che, secondo relazioni di testimoni oculari è attualmente composto per la maggior parte da normali abitanti afgHani in lotta ancora una volta per liberare le loro terre dagli eserciti occupanti, come hanno già fatto negli anni
80 contro i Sovietici.

Per gli Stati Uniti, il motivo di avere delle basi afghane è quello di tener sotto tiro e di essere capaci di colpire le due nazioni al mondo che messe insieme, costituiscono ancora oggi l’unica minaccia al loro potere supremo internazionale e all’America’s Full Spectrum Dominance (Dominio Usa sotto tutti i punti di vista) così come lo definisce il Pentagono.

La perdita del “Mandato Celeste”.

Il problema per le élites al potere (Élite è un eufemismo sempre più usato per designare individui privi di scupoli pronti a qualsiasi cosa pur di realizzare le proprie ambizioni..quasi un sinonimo di psicopatologia) a Wall Street e a Washington,è il fatto che questi siano sempre più impantanati nella più profonda crisi finanziaria della loro storia.
Questa crisi è fuor di dubbio per tutti e il mondo agisce a favore della propria sopravvivenza.
L’élite statunitense ha perso ciò che nella storia imperiale cinese è conosciuto come Mandato Celeste.
Questo mandato è conferito ad un sovrano o ad una ristretta cerchia regnante a condizione che questa diriga il suo popolo con giustizia ed equità.
Quando però questa cerchia regna esercitando la tirannia e il dispotismo, opprimendo il proprio popolo abusandone,a questo punto essa perde il Mandato Celeste.

Se le potenti élites, ricche del privato che hanno controllato le politiche fondamentali (finanziaria e straniera) almeno per la maggior parte del secolo scorso ,hanno ricevuto il mandato celeste, è evidente che allo stato attuale lo hanno perso.
L’evoluzione interna verso la creazione di uno stato poliziesco ingiusto, con cittadini privati dei loro diritti costituzionali, l’esercizio arbitrario del potere da parte di cittadini non eletti, come il ministro delle Finanze Henry Paulson e attualmente Tim Geithner , che rubano milioni di dollari del contribuente senza il suo consenso per far regredire la bancarotta delle più grandi banche di Wall Street, banche ritenute”troppo grosse per colare a picco” tutto ciò dimostra al mondo che esse hanno perduto il mandato.

In questa situazione, le élite al potere sono sempre più disperate nel mantenere il proprio controllo sotto un impero mondiale parassitario, falsamente denominato”mondializzazione” dalla loro macchina mediatica.
Per mantenere la loro influenza è essenziale che gli Stati Uniti siano capaci di interrompere ogni collaborazione nascente nel settore economico , energetico o militare tra le due grandi potenze dell’Eurasia le quali, teoricamente potrebbero rappresentare una futura minaccia nel controllo dell’unica super potenza :la Cina associata alla Russia.

Ogni potenza eurasiatica completa il quadro dei contributi essenziali.
La Cina è l’economia più solida al mondo, costituita da una immensa manodopera giovane e dinamica e da una classe media ben educata.
La Russia, la cui economia non si è ripresa dalla fine distruttrice dell’era sovietica e dagli ingenti saccheggi avvenuti nell’era di Eltsin, possiede sempre i vantaggi essenziali per l’associazione.
La forza d’urto nucleare della Russia e il suo esercito rappresentano l’unica minaccia nel mondo attuale per il dominio militare degli Stati Uniti anche se sono in gran parte dei residui della Guerra Fredda.Le élite dell’esercito russo non hanno mai rinunciato a questo potenziale.

La Russia possiede anche il più grande tesoro al mondo che è il gas naturale e le sue immense riserve di petrolio di cui la Cina ha imperiosamente bisogno.
Queste due potenze convergono sempre più tramite una nuova organizzazione creata da loro nel 2001, conosciuta sotto il nome di Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (Ocs).
Oltre alla Cina e alla Russia ,l’Ocs comprende anche i più grandi paesi dell’Asia Centrale, il Kazakistan, il Kirghizistan,il Tagikistan e l’Uzbekistan.

Il motivo addotto dagli Stati Uniti nella guerra contro i Talebani e allo stesso tempo contro Al Qaeda consiste in realtà nell’insediare la loro forza d’urto militare direttamente nell’Asia Centrale,in mezzo allo spazio geografico della crescente Ocs.
L’Iran rappresenta una diversione,una distrazione.Il bersaglio principale sono la Russia e la Cina.

Ufficialmente Washington afferma con certezza di aver stabilito la sua presenza militare in Afghanistan dal 2002 per proteggere la”fragile”democrazia afghana.
Questo è un bizzarro argomento, quando si và a considerare la sua presenza militare laggiù.

Nel dicembre 2004, durante una visita a Kabul, il ministro della Guerra Donald Rumsfeld ha finalizzato i suoi progetti di costruzione di nove nuove basi in Afghanistan, nelle province di Helmand,Herat,Nimrouz,Balkh,Khost e Paktia.
Le nove si aggiungeranno alle tre principali basi militari già installate in seguito all’occupazione dell’Afghanistan durante l’inverno 2001-2002 pretestualmente per isolare e delimitare la minaccia terroristica di Osama Bin Laden.

Il Pentagono ha costruito le sue tre prime basi su gli aerodromi di Bagram, a nord di Kabul, il suo principale centro logistico militare; a Kandar nel sud dell’Afghanistan; e a Shindand nella provincia occidentale di Herat.
Shindand è la sua più grande base afghana ed è costruita a soli 100 kilometri dalla frontiera iraniana a portata di tiro dalla Russia e dalla Cina.

L’Afghanistan è storicamente in seno al grande gioco anglo-russo, e rappresenta la lotta per il controllo dell’Asia Centrale a cavallo tra il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo.
A quel tempo la strategia britannica era quella di impedire ad ogni costo alla Russia di controllare l’Afghanistan,perché ciò avrebbe costituito una minaccia per la perla della corona imperiale britannica, l’India.

L’Afghanistan è considerato come altamente strategico dai pianificatori del Pentagono.
Esso costituisce una piattaforma da cui la potenza militare statunitense potrebbe minacciare direttamente la Russia e la Cina così come l’Iran e gli altri ricchi paesi petroliferi del Medio Oriente.
Poche cose sono cambiate sul piano geopolitico in oltre un secolo di guerre.

L’Afghanistan è situato in una posizione estremamente vitale, tra l’Asia del Sud , l’Asia Centrale ed il Medio Oriente.
L’Afghanistan è anche ubicato lungo l’itinerario esaminato per l’oleodotto che và dalle zone petrolifere del mar Caspio fino all’Oceano Indiano luogo in cui la società petrolifera statunitense Unocal,insieme ad Eron e Halliburton de Cheney avevano avuto trattative per i diritti esclusivi del gasdotto che invia gas naturale dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan e il Pakistan, per convogliarlo nell’immensa centrale elettrica( a gas naturale) della Enron a Dabhol, vicino a Mumbai(Bombay).
Prima di diventare il presidente fantoccio mandato degli Stati Uniti,Garzai era stato un lobbista della Unocal.

Al Qaeda esiste solo come minaccia.

La verità attinente tutto questo imbroglio che gira intorno al vero scopo che ha spinto gli Stati Uniti in Afghanistran ,diventa evidente se si esamina da vicino la pretesa minaccia di “Al Qaeda” laggiù.
Secondo l’autore Eric Margolis, prima degli attentati dell’ 11 settembre 2001 i Servizi Segreti statunitensi accordavano assistenza e sostegno sia ai talebani che ad Al Qaeda.
Margolis afferma che la”Cia progettava di utilizzare Al Qaeda di Osama Bib Laden per incitare alla rivolta gli Ouigours mussulmani (popolo turco dell’Asia Centrale ndt) contro la dominazione cinese di Pekino nel luglio scorso e di sollevare i talebani contro gli alleati della Russia in Asia Centrale”.

Gli Stati Uniti hanno manifestamente trovato altri mezzi per sobillare gli Ouigours usando come intermediario il proprio sostegno al Congresso mondiale Ouigour.
Ma la “minaccia” di Al Qaeda rimane il punto chiave di Obama per giustificare l’intensificazione della sua guerra in Afghanistan.

Ma per il momento ,James Jones, consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Obama, ex generale della Marina, ha rilasciato una dichiarazione opportunamente insabbiata dagli amabili media statunitensi , sulla valutazione dell’importanza del pericolo rappresentato attualmente da Al Qaeda in Afghanistan.
Jones ha dichiarato al Congresso che”La presenza di Al Qaeda si è molto ridotta.La valutazione massimale è inferiore a 100 addetti nel paese, nessuna base, nessuna capacità nel lanciare attacchi contro di noi o contro gli alleati”.

Ad ogni buon conto, tutto ciò significa che Al Qaeda non esiste in Afghanistan…accidenti…


Anche nel Pakistan vicino, i resti di Al Qaeda non sono stati quasi più riscontrati.
Il Wall Street Journal segnala :”Cacciati dai droni statunitensi, angosciati da problemi di denaro e in preda a gravi difficoltà nel reclutare giovani arabi tra le cupe montagne del Pakistan,Al Qaeda vede rimpicciolire di molto il suo ruolo laggiù in Afghanistan, “ questo secondo informazioni dei Servizi Segreti e dei responsabili pakistani e statunitensi.
Per i giovani arabi che sono i principali reclutati da Al Qaeda, “ non esiste un’utopica esaltazione nell’ aver freddo e fame e nel nascondersi” –ha dichiarato un alto responsabile statunitense nell’Asia del Sud.”.


Se capiamo le conseguenze logiche di questa dichiarazione, dobbiamo dunque concludere che il fatto per cui giovani soldati tedeschi e altri della Nato muoiono nelle montagne afghane, non ha nulla a che vedere con lo scopo di “vincere una guerra contro il terrorismo”.
Opportunamente, la maggior parte dei media scieglie di dimenticare il fatto che Al Qaeda, nella misura in cui questa organizzazione è esistita, era una creazione della Cia negli anni 80.
Questa reclutava e addestrava alla guerra mussulmani radicali pescati dalla totalità del mondo islamico contro le truppe russe in Afghanistan. nel quadro di una strategia elaborata da Bill Casey, capo della Cia sotto Reagan , per creare un “nuovo Viet-nam” per l’’Unione Sovietica che sarebbe poi sfociato nell’umiliante disfatta dell’Armata Rossa e nel fallimento finale dell’Unione Sovietica.

James Jones, gestore del National Security Council riconosce attualmente che non esiste praticamente più nessun membro di Al Qaeda in Afghanistan.
Forse sarebbe ora e tempo di chiedere una spiegazione più onesta ai nostri dirigenti politici sulla vera ragione dell’invio di altri giovani in Afghanistan,solo per mandarli a morire per proteggere le coltivazioni di oppio.


F.William Endhal è l’autore di diverse opere come:

Ogm:Semi di distruzione:l’arma della fame ; e Petrolio, la guerra di un secolo:l’Ordine mondiale anglo-americano

Per contattare l’autore: www.engdhal.oilgeopolitics.net


07/11/2009

mercredi, 18 novembre 2009

A Call to the Alternative Right

pgottfried1.jpgA Call to the Alternative Right
 

As one might surmise, one doesn’t get rich by serving the HL Mencken Club. Unlike other organizations, which have claimed the “conservative” label, belonging to our club is not a ladder to social acceptability or a means of increasing one’s income or deferred annuity allowance. Investing time and energy in an organization like ours is not a wise career move but something reminiscent of the fate that Mustafa Kemal thought would await Turkish troops as they prepared for the British attack at Gallipoli in 1915: “I am not asking you to stand and fight here; I am asking you to die in your tracks.” I doubt that even my favorite American military commander, the grim Stonewall Jackson, would have given his cavalry troops orders that were as bleak as this. But this is what the future founder of the Turkish republic said to his soldiers. I mention this not because I intend to order anyone to his death, but because I’m underlining the extraordinary dedication shown by those who have joined our ranks.

I’m especially impressed by those young people who are here. To say they have embraced the non-authorized Right indicates more than simply an ideological address. It betokens their willingness to become non-authorized dissenters, that is, to turn their backs on the characteristically stale conversations of media debates and the allowable differences of opinion within the Beltway.

Turning one’s back on this prescribed discourse means forfeiting the perks that flow from those in power. It also means being labeled as a troublemaker or extremist—and for those who persist in their orneriness, this choice may also mean being pushed out of magazines for which one previously wrote and having one’s books snubbed by the arbiters of acceptable political concerns.

A question I sometimes hear from my Republican son is this: Why do we believe that what we discuss here could not be discussed at conservative foundations or, say, on FOX-News? Presumably our conversation would be welcome in such outlets, unless we did something as shocking as badmouthing ethnic minorities. But there are two problems with this contention. One, the fact that we, or at least most of us, are kept from these outlets would suggest that whatever we discuss most definitely does not suit Republican- or neoconservative-sponsored forums or publications. This is the case even though we do not seek to insult any ethnic or religious group.

Two, we are obviously raising issues that for ideological or social reasons movement conservative organizations do not engage. A few illustrations might help make this point. Arguing that democracy and freedom are on a collision course, that modern liberal democracies, which combine universal rights with massive welfare states, necessarily undermine communal and family authorities, and that character and intelligence are largely fixed by heredity are not positions that neoconservative Beltway foundations would be eager to take on.

And if one considers the tight connection between movement-conservatives and the Republican Party, having authorized conservative organizations think outside the two-party box becomes even more problematic. After all, GOP partisans and clients do not want to hamper Michael Steele and the Republican National Committee from reaching out. And “reaching out” in this context means frantically trying to raid the other party’s base. Although GOP operators don’t hesitate to put down Democrats, what this amounts to is railing against the high costs of Democratic programs, while ignoring those incurred by the GOP in power.

Movement conservatives have assumed the task of airbrushing positions that GOP politicians are taking or would like some people to think they’re taking. Movement conservative publicists, for example, tried to convince us that Republican presidential candidates Rudolph Giuliani and Mitt Romney had shifted their social views, shortly before the presidential primaries in 2008. These supposedly genuine conversions had occurred on such delicate issues as late-term abortion, gay marriage, and the treatment of illegal immigrants. Nonetheless we were urged to take these timely shifts seriously, because someone at National Review or Weekly Standard has a thing for Rudy or struck up a friendship with Mitt. We were assured that Rudy was solid on the war and that he had once stiffed some Arab leader who came to New York. I would also call attention to a law prepared by Heritage, and introduced in 2005 by Governor Romney in Massachusetts, making sure that every Massachusetts resident had health insurance. Although this measure has contributed to towering state deficits, former Governor Romney, we are told, had nothing to do with this folly. It was supposedly altered by a Democratic legislation beyond recognition. Thus movement conservatives proclaimed, after they had tried to explain away Romney’s earlier support for gay marriage and other positions identified with the social Left.

Conservative journalists have done the GOP establishment other noteworthy favors. They scolded black civil rights leaders and more recently, former President Carter for suggesting that opponents of Obama’s health care plan are driven by racism. But this torrential indignation was almost entirely absent from GOP congressional leaders. Republican whip in the House, Eric Cantor of Virginia, pointedly refused to respond to the charge against his party. Cantor side-stepped the question when it came up in a press interview. Senate Minority leader Mitch McConnell became equally taciturn when confronted by the same charge.

What speaks volumes about how the GOP is handling Carter’s reproach is what GOP National Chairman Michael Steele said at a black institution Philander Smith College, in Little Rock, on September 22. Steele stressed his party’s urgent need to win over the black vote, and he denounced “the subtle forms of racism” that blacks encounter in both employment and college admissions. The GOP would take steps to deal with these subterranean forms of prejudice, and this audience should have no trouble figuring out what these countermeasures are. At last we can see the real value of movement conservative outcries against Democratic accusations of Republican racism. The apparent outrage is a mere diversionary noise for Republican politicians who are trying to make nice to the civil rights lobby. Some movement conservatives may have noticed this but are too ambitious or too comfortable to point out what is taking place.

Also illustrating the difference between us and movement conservatives, especially those who are joined at the hip with the GOP, are the differing ways in which we and they would react to something that recently happened at my college, which was the introduction of an elaborate plan for diversity training among students and faculty. This is something movement conservatives and the alternative Right may conceivably agree about, but here first impressions can be deceiving. Of course, we and they might scoff with equal disdain at our “Five-Year Plan for Strengthening Campus Diversity”—entitled “Embracing Inclusive Excellence”—which talks about the malice being vented against the handful of Jews, Muslims, and Hindus on campus. There is no evidence of these malicious outbursts, and the only evidence for discrimination cited is a methodologically dubious survey answered by 5 students, who were asked if they noticed white Christian students “glancing” suspiciously at them.

We and the neoconservative establishment would recognize (I hope) that these reports were invalid; and even if they were not, the solution offered, recruiting inner-city populations and providing them with scholarships, would not likely end the marginalization of Hindus. We might also have objected with equal annoyance to the plan for sending our faculty to affirmative-action training sessions; finally our two sides might have ridiculed the lop-sided 5 to1 majority by which the diversity plan passed the faculty—without any expectation that this document would be amended to conform to reality.

But having noted this conceivable area of agreement, I would also stress the divergence between our sides when it comes to extricating ourselves from the multicultural fever swamp. Possible neoconservative alternatives to what I’ve described, by such characteristic advocates as Lynne Cheney, David Horowitz and Bill Bennett, might include a compulsory course on the American heritage. This course would showcase our country as a self-perfecting global democracy; and it would take students on an inspirational journey from the Declaration of Independence’s proclamation that “All men are created equal” through FDR’s Four Freedoms down to Martin Luther King’s “I Have a Dream” speech. This and other similar measures would be used to teach students of all races and creeds “democratic values,” the spread of which, we would be told, is the high moral end for which the U.S. was brought into existence.

We might also hear a recommendation from neoconservative social commentator Dinesh D’Souza, calling for extraordinary efforts to integrate college students of all different ethnic backgrounds. D’Souza would accuse our administration of not going far enough to commit students and faculty to a universally exportable democratic way of life. We would also likely be told that recruiting minorities for the wrong reasons would create islands of separateness on our campus instead of making everyone into a member of the world’s first global nation. Finally we might be warned, perhaps by Cal Thomas or David Horowitz, that lurking behind calls for diversity is a hidden plea for anti-Zionism or a defeatist response to the War On Terror. Such hidden agendas characterize the advocates of diversity; who in any case are deviating from the goal of the saintly Martin Luther King, a firm opponent of all forms of quotas, even for black Americans.

Needless to say, I couldn’t think of anyone on the Alternative Right who would take any of these stands. Our side would stress that not every adolescent can do college work. Colleges that are serious about traditional disciplines might appeal to, at most, 20 percent of the young, which is the percentage of those who have the cognitive skills for doing college-level study. Given the fraudulent product that now passes for college education, it is not surprising that most students and faculty can neither learn nor teach what was once deemed appropriate as college subjects.

One could easily point to speakers at this conference who have taken the positions outlined. These fearless critics have questioned the transformation of American higher education into a devalued consumer product, made available to those who are incapable of real learning. Small wonder that colleges are turned into centers of multicultural social experiments and diversitarian gibberish! What better use could one find for a falsely advertised institution that is trying to entertain young social work, communication and primary education majors while taking their parents’ money!

Neoconservative educationists, we might also hear from the Alternative Right, have their own fish to fry. They are seeking to defend their version of the democratic welfare state as the best of all governments. They also have another far-reaching goal that is explicit or implicit in their college outreach. Neoconservatives, to speak about them specifically, wish to limit any disagreement on campuses generated by their aggressively internationalist foreign policy. In pursuit of this end, they happily falsify or obscure certain embarrassing historical facts, e.g., the massive deceit applied to pushing the U.S. into past foreign wars, and the published views of such neocon heroes as Churchill and Wilson dealing with racial and ethnic differences.

Neoconservatives and their defenders would accuse our side of taking positions that have no chance of being accepted. And they might be right on this last point. Our positions would infuriate the educational establishment and much of the public administration apparatus. Many of us, moreover, are strict constitutionalists, who would argue, to the consternation of the political class, that the federal government is excessively entangled in state and local education. It should be of no concern to public administrators whether a private college has or has not been recruiting designated minorities. Academic education should not be an occasion for government social planners to impose their vision on the private sector. Indeed private colleges, if they were truly concerned about being independent, would reject federal and state aid, and they would do all in their power to keep our managerial government from interfering with their institutions.

Note I am not defending “our side” in these debates. I am only making clear that we and they do not hold the same views about American education or about how its problems are to be engaged. I would also concede the obvious here, namely, that some people on our side of the divide may occasionally work for those on the other side and that the GOP out of power will occasionally get behind books and authors presenting arguments that would not please Republican administrations. Not all who make the arguments of the alternative Right have been subject to equally oppressive sanctions or have been uniformly denied a place in the sun. There are disparities in the ways that the GOP-movement conservative establishment has treated individual critics on the right. What seems beyond dispute however is that we and they disagree fundamentally on a wide range of questions, far more than we in this room would disagree with each other. The conventional conservative movement is therefore justified in recognizing that we are more different from their movement than establishment conservatives are from those on the center left. Movement conservatives and neoconservatives dialogue openly with the liberal Left while ignoring or ridiculing us—and this happens for a very good reason. The authorized version of the conservative movement understands that we and they are not of the same spirit. Unlike them, we do not serve the GOP; nor are we obliged to go along with neoconservative whims and fixations lest we lose our jobs or media outlets.

Most of us have already been confined to outer darkness; and there is no way we can change this unless we force our way, screaming and kicking, into the neoconservative-liberal conversation. The reason we must exist is that we dare to raise the questions that are anathema to the conventional media. And this is the reason that we lack corporate money and that our devotees are not writing for the Wall Street Journal, New York Times or Washington Post. We stand outside the egalitarian, managerial-state consensus, a consensus that in the end moves in only in one direction, which is leftward.

Those who opposed this trend were long an isolated minority, but now dissenters can be heard on talk radio, some of whom are even gaining a widespread popular appeal. This for me is a heartening development, despite the sad fact that most of us remain excluded from this turn of events, and although what is being described lacks any deep intellectual content. Note that nothing in these remarks would question the shallowness and histrionics of what I’m characterizing as the conservative talk-show phenomenon. As anyone who knows me can testify, it is hard for me to listen to Limbaugh or Beck for a protracted length of time without suffering an upset stomach. But what I’m noting here are long-range trends. There are forces on the American Right which have attracted mass-democratic attention, forces that the neoconservative media do not entirely own and which they can only provisionally preempt. This may bedevil our adversaries, especially if such populist heroes as Rush Limbaugh, Glenn Beck and Mike Savage strike out on their own, that is, decide to go after the GOP and the neoconservatives with the same fury that they’ve vented on the Democrats.

As the onetime isolated Right continues to gain adherents and visibility, what increases apace is the possibility for a breakthrough. And as one observes the sudden rise of our group, it seems to me that those who were once marginalized have become like lilies in a junkyard. Let us hope this junkyard, which is the conservative movement of programmed party-liners and GOP hacks, will eventually become something else. Perhaps the lilies that have sprung up amid the trash and debris will come to replace the present movement conservative wasteland—together with its FOX-News contributors.

lundi, 16 novembre 2009

Der lange Weg der Abkehr vom US-Dollar

dollar%20collapse_1.jpgDie Angriffe mehren sich: der lange Weg der Abkehr vom US-Dollar

Brigitte Hamann / http://info.kopp-verlag.de/

Ein neuer Angriff auf den Dollar hat stattgefunden. Neun lateinamerikanische Regierungen wollen den Dollar durch die Einheitswährung »Sucre« ablösen. Noch 2010 soll es soweit sein. Der venezolanische Staatschef Hugo Chavez spricht davon, die »Diktatur des Dollars« zu beenden.

Der Dollar gerät weiter in Bedrängnis. Federführend wollen der venezolanische Staatschef Hugo Chavez, der bolivianische Präsident Evo Morales und der ecuadorianische Staatschef Rafael Correa den Status des Dollar als Weltleitwährung für ihre Länder aufheben.

Die neue Währung soll nach dem südamerikanischen Freiheitskämpfer Antonio José de Sucre benannt werden, der an der Seite von Simon Bolivar im 19. Jahrhundert gegen die Spanier kämpfte – und mit ihrem Namen für mehr Freiheit im südamerikanischen Finanzsystem stehen. »Sucre« soll den Dollar im Handel zwischen den bisher neun Mitgliedstaaten der »Bolivarischen Allianz für unser Amerika« (ALBA) ablösen. Venezuela, Bolivien, Ecuador, Kuba, Nicaragua, Honduras sowie die Karibikstaaten Antigua und Barbuda, Dominica und Saint Vincent haben sich zusammengeschlossen, um die »Diktatur des Dollar« zu beenden.

Ob das Projekt durchführbar ist, wird sich zeigen. Marc Hofstetter Gascon von der Universität de los Andes in der kolumbianischen Hauptstadt Bogota ist skeptisch. »Jedes Währungssystem muss auf einem seriösen institutionellen Fundament und einer anerkannten Strategie basieren«, so Hofstetter. »Darüber hinaus sind Abkommen über Wechselkurse und verbindliche steuerliche Regeln notwendig. Die ALBA-Staaten haben alle diese Grundlagen bislang noch nicht.« Das ist sicher richtig, aber noch vor wenigen Jahren wären derart deutliche Angriffe auf den Dollar undenkbar gewesen.

2009 ist das anders. Nur ein paar Wochen ist es her, dass sich die Nachricht verbreitete, die arabischen Golfstaaten würden planen, dem US-Dollar im Ölhandel »den Todesstoß zu versetzen«. Eine Reihe anderer, gravierender Angriffe gingen in diesem Jahr voraus. An zwei möchte ich hier erinnern: den Affront des russischen Präsidenten Medwedew, der auf dem G20-Gipfel von L´Aquila im Juli 2009 eine Münze aus der Tasche zog, die der Prototyp einer »neuen Weltwährung« sein sollte, und an den Jahresbericht der UN-Konferenz für Handel und Entwicklung (UNCTAD). Schon viel früher hat es Provokationen gegenüber dem Dollar gegeben. So berichtete Welt Online am 12. Oktober 2003: »Konvertiten aus Europa erfanden eine islamische Währung. Sie soll die Marktwirtschaft erschüttern. Iran will den Gold-Dinar 2004 einführen.« Doch nun mehren sich die Angriffe und nehmen an Heftigkeit zu.

 

Der Dollarcrash aus astrologischer Sicht

Aus astrologischer Sicht zeigt die massive Auslösung des Horoskops von Bretton Woods sowie des »Coinage Act« vom 2. April 1792 durch die totale Sonnenfinsternis vom 22. Juli 2009, dass sich bis zur nächsten totalen Sonnenfinsternis am 11. Juli 2010 noch Gravierendes ereignen wird. Meines Erachtens wird der US-Dollar bis dahin nicht nur seine Stellung als Weltleitwährung verlieren. Begonnen hat die Endphase der Entwicklung bereits im September. Ab jetzt kann jeden Monat Einschneidendes geschehen. Zwei markante Eckdaten für die weitere Entwicklung sind Ende November 2009 und Mitte Mai 2010.

 

www.brigitte-hamann.de

 

Montag, 09.11.2009

Kategorie: Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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