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lundi, 05 avril 2010

Brzezinski sta per finire nella pattumeria della storia?

Brzezinski sta per finire nella pattumiera della Storia ?

di Alessandro Lattanzio

Fonte: saigon2k [scheda fonte]



Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

zbigniew_brzezinski.jpgIl 23 Febbraio 2010, l’intelligence iraniana assestava un duro colpo alla strategia neo-mackinderiana dell’amministrazione Obama, catturando Abdolmalek Rigi, il capo del gruppo terroristico Jundallah, responsabile di stragi, rapina a mano armata, sequestro di persona, atti di sabotaggio, attentati e operazioni terroristiche contro i civili, esponenti del governo e militari dell’Iran, assassinando in 6 anni oltre 150 persone in Iran, per la maggior parte civili.

Nell’ultimo attentato compiuto dal Jundullah, il 18 ottobre 2009, nella regione di Pishin, nel Sistan-Baluchistan (sud-est dell’Iran, al confine col Pakistan), rimasero uccise più di 40 persone, tra cui 15 componenti e alti ufficiali del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (Pasdaran), e diversi capi tribali dell’area. Rigi era su un aereo di linea, in un volo notturno, proveniente da Dubai e diretto in Kirghizistan, ma l’aereo è stato intercettato dai caccia dell’aeronautica iraniana e costretto ad atterrare nell’aeroporto di Bandar Abbas, in territorio iraniano. Rigi viaggiava con passaporto afgano, e infatti, probabilmente nell’aprile 2008, aveva incontrato proprio in Afghanistan l’allora segretario generale della NATO, dopo esser stato ospitato presso una base statunitense non precisata. Il fratello di Abdolmalek, Abdulhamid Rigi, che era stato arrestato in precedenza, ha affermato che suo fratello aveva stabilito dei contatti con l’amministrazione statunitense, tramite un certo Amanollah-Khan, il cui nome completo è Amanollah-Khan Rigi, sostenitore del regime dello Shah. Dopo la Rivoluzione del ‘79, Rigi lasciò il paese chiedendo asilo politico negli Stati Uniti. Secondo Abdulhamid gli statunitensi avrebbero arruolato Amanollah-Khan per stabilire un collegamento tra gli USA e il gruppo terroristico Jundallah, e nell’ambito di queste operazioni, Abdolhamid Rigi avrebbe incontrato l’ambasciatore statunitense in Pakistan che gli aveva promesso finanziamenti e un sicuro rifugio in Pakistan. E difatti, sempre secondo Abdolhamid, il governo pakistano è perfettamente al corrente di queste manovre e dove operi il gruppo terroristico Jundallah.

Abdolmalek Rigi ha poi completato le dichiarazioni del fratello:

“Dopo che Obama venne eletto, gli americani ci contattarono e mi incontrarono in Pakistan. Lui mi disse che gli americani chiedevano un colloquio. Io all’inizio non accettai ma lui promise a noi grande cooperazione. Disse che ci avrebbe dato armi, mitragliatrici ed equipaggiamenti militari; loro ci promisero pure una base militare in Afghanistan, a ridosso del confine con l’Iran. Il nostro meeting avvenne a Dubai, e anche lì ripeterono che avrebbero dato a noi la base in Afghanistan e che avrebbero garantito la mia sicurezza in tutti i paesi limitrofi dell’Iran, in modo che io possa mettere in atto le mie operazioni”.

Rigi era diretto a Bishkek, in Afghanistan perché:

“Mi dissero che un alto esponente americano mi voleva vedere e che lui mi aspettava nella base militare di Manas, vicino Bishkek, in Kirghizistan. Mi dissero che se questo alto esponente viaggiava negli Emirati, poteva essere riconosciuto e perciò dovevo andare io da lui. Nei nostri meeting gli americani dicevano che l’Iran aveva preso la sua strada e che al momento il loro problema era proprio l’Iran e non al-Qaida e nemmeno i taliban; solo e solamente l’Iran. Dicevano di non avere un piano militare adatto per attaccare l’Iran. Questo, dicevano, è molto difficile per noi. Ma dicevano che la CIA conta su di me, perché crede che la mia organizzazione è in grado di destabilizzare il paese. Un ufficiale della CIA mi disse che era molto difficile per loro attaccare l’Iran e che, perciò, il governo americano aveva deciso di dare supporto a tutti i gruppi anti-iraniani capaci di creare difficoltà al governo islamico. Per questo mi dissero che erano pronti a darci ogni sorta di addestramento, aiuti, soldi quanti ne volevamo e la base per poter mettere in atto le nostre azioni”.

Il personaggio statunitense che Rigi avrebbe dovuto incontrare, nella base aera dell’USAF di Manas, assieme a un alto funzionario dell’intelligence USA, sarebbe stato Richard Holbrooke, inviato speciale statunitense per l’Afghanistan e il Pakistan, che quel giorno si trovava proprio in Kirghizistan. Ma a un certo punto, le cose, per Rigi, si mettono male: i servizi segreti di Afghanistan e Pakistan, dopo averlo sostenuto per anni nella sua attività terroristica, avrebbero deciso di abbandonarlo all’indomani dell’attentato di Pishin. I servizi segreti pakistani gli dissero, rimanendo però inascoltati, di sparire dalla circolazione, di lasciare la città di Quetta e di rifugiarsi nelle zone montuose del Pakistan. Il 18 Marzo, membri di Jundallah, armati e a bordo di jeep, tentavano di oltrepassare il confine tra Pakistan e Iran, ma appena entrati in territorio iraniano, i terroristi sono caduti in una trappola tesa dalle unità d’élite dei Pasdaran, causando l’eliminazione di numerosi terroristi. Così le forze di sicurezza iraniane infliggevano un altro colpo devastante al Jundullah.

In parallelo con lo smantellamento del Jundullah, l’intelligence iraniana metteva a segno un altro colpo: il 14 Marzo 2010 venivano arrestate trenta persone coinvolte in una cyber-guerra contro la sicurezza nazionale iraniana. La rete clandestina avrebbe ricevuto aiuti dagli Stati Uniti e avrebbe cooperato con gruppi controrivoluzionari monarchici e con l’organizzazione terroristica dei Mujaheddin e-Khalq. Tra i compiti della rete ci sarebbe stata la raccolta di informazioni sugli scienziati coinvolti nel programma nucleare iraniano. In effetti, il giornalista del New Yorker Seymour Hersh rivelò che nel 2006 il Congresso statunitense aveva acconsentito alla richiesta dell’ex presidente George W. Bush di finanziare operazioni coperte in Iran. Hersh, citando Robert Baer, un ex agente della CIA in Medio Oriente, affermò che così vennero stanziati 400 milioni di dollari per le operazioni condotte da al-Qaida, Jundallah e Mujaheddin-e Khalq, con lo scopo di creare il caos in Iran e di screditarne il governo. Inoltre, anche la manipolazione dell’informazione rientrava nel piano di Bush, mentre la CIA stanziava oltre 50 milioni di dollari per attivare un comitato anti-iraniano, denominato IBB, presso il Dipartimento di Stato USA.

Il 17 Marzo 2010, a suggellare il mutamento del quadro strategico regionale, segnalato dalla suddetta svolta nella lotta al terrorismo alimentato dagli apparati d’intelligence e militari statunitensi, Iran e Pakistan hanno firmato l’accordo finale della costruzione del gasdotto TAPI, con cui si trasporterà il gas iraniano in Pakistan, Turchia, e forse India o Cina. Si tratta di un progetto, da completare entro il 2014, che consentirà all’Iran di esportare, per 25 anni, 750 milioni di metri cubi di gas al giorno.

Difatti, il percorso di collaborazione e sovranismo economico-strategico, percorso da Turchia, Iran e Pakistan, non fa altro che cementare e rafforzare la stabilità, già sufficientemente precaria, della regione. Un obiettivo perseguito da Washington, non solo contro Tehran e Islamabad, ma anche contro Ankara. E in effetti, il 22 febbraio 2010, il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan annunciava che la magistratura turca aveva sventato un tentato golpe militare, arrestando in tutto il paese 51 militari (17 tra generali e ufficiali in pensione, quattro ammiragli e almeno altri 28 ufficiali in servizio) accusati di tentato colpo di stato e di associazione per delinquere. Si trattava dell’operazione ‘Bayloz’ (Martello), volta a rovesciare il governo del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) del premier Erdogan. Ai vertici del complotto vi erano Ibrahim Firtina, ex-capo di stato maggiore dell’aeronautica militare turca ed i suoi omologhi Ozden Ornek, della marina e Ergin Saygun, dell’esercito, che nel 2007 accompagnò a Washington il premier Erdogan, nella sua visita al presidente degli USA George W. Bush, l’ex capo delle forze speciali, il generale Engin Alan, e l’ex comandante del primo corpo d’armata, il generale Cetin Dogan. Inoltre almeno altri sette ufficiali in congedo e sette in servizio sono stati fermati. Lo smantellamento dell’organizzazione ‘Bayloz’ è un effetto collaterale dell’inchiesta su un altro golpe, dell’organizzazione clandestina ‘Ergenekon’ che coinvolse più di 300 persone, ora sotto processo e sorvegliate dalle autorità turche, che venne sventata nel 2003 e che prevedeva attentati terroristici contro due moschee di Istanbul, attacchi con ordigni incendiari a dei musei, oltre all’omicidio del premio nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, e dello stesso Erdogan. Tutte azioni volte ad alimentare la ‘strategia della tensione’. Infine era previsto anche l’abbattimento di un aereo di linea turco nel Mar Egeo da attribuire a un caccia greco, con ciò richiamandosi espressamente all’operazione di provocazione ‘Northwood’, stilata dagli Stati Maggiori Riuniti degli Stati Uniti, all’epoca della crisi con la Cuba rivoluzionaria. Tutti aspetti che mostrano chiaramente l’origine di queste organizzazioni eversive turche. Infatti ‘Ergenekon’ era un’organizzazione simile a ‘Gladio’, funzionale quindi alla strategia del piano ‘Stay Behind’ della NATO, con una struttura orizzontale che aveva aderenti in tutti i campo: civili, accademici e militari.

Tali eventi avvengono mentre il Pakistan compie la svolta politica decisiva, attuata a seguito della scoperta e denuncia di una rete clandestina, collegata all’intelligence statunitense, che operava nel suo territorio. Si trattava di un’organizzazione costituita da mercenari, terroristi e squadroni della morte che spargevano terrore presso la popolazione ed effettuavano raid contro svariati obiettivi, pretestuosamente indicati come terroristi o fiancheggiatori dei taliban. Non va escluso che tale rete sia coinvolta nell’ondata dei devastanti attentati che ha colpito il Pakistan negli ultimi anni. Infatti un funzionario del dipartimento alla Difesa USA, Michael Furlong, con la copertura di un programma per la raccolta di informazioni, aveva creato degli squadroni della morte utilizzando una rete di contractor di agenzie paramilitari private, segnatamente un reparto d’elite della Xe Service (ex Blackwater), composta soprattutto da ex membri della CIA e delle forze speciali. Come detto, l’obiettivo era scovare e uccidere presunti taliban e militanti di al-Qaida, sia in Afghanistan che in Pakistan. Furlong aveva assunto i mercenari allo scopo, apparente, di effettuare operazioni di intelligence contro i combattenti e i campi di addestramento taliban, con cui sostenere i militari e i servizi segreti nell’effettuare azioni d’attacco in Afghanistan e in Pakistan (in questo caso aggirando il divieto di operare in territorio pakistano, imposto da Islamabad agli USA), rimanendo al di fuori dalla catena di comando della NATO. In realtà la rete era “al centro di un programma segreto in cui si pianificavano assassinii mirati, azioni mordi e fuggi contro obiettivi importanti ed altre azioni segrete all’interno ed all’esterno del Pakistan”. Probabilmente, la rete occulta di Furlong era controllata dalle gerarchie militari e politiche di Washington, e finanziata sia con fondi distolti dal programma per la raccolta di informazioni, sia probabilmente con lo sfruttamento del narco-traffico della regione. In Germania, in effetti, un servizio trasmesso a febbraio dalla Norddeutsche Rundfunk, la TV pubblica tedesca, ha rivelato che la NATO e il ministero della Difesa tedesco starebbero investigando sulle attività della Ecolog, una multinazionale di proprietà della famiglia albano-macedone Destani, di Tetovo, che con un contratto della NATO, dal 2003, opera in Afghanistan fornendo servizi logistici alle basi dell’ISAF e all’aeroporto militare di Kabul. La Ecolog sarebbe coinvolta nel contrabbando internazionale di eroina dall’Afghanistan. “C’è il rischio che sia stata contrabbandata droga, quindi valuteremo se la Ecolog è ancora un partner affidabile per noi“, ha dichiarato alla Tv tedesca il generale Egon Ramms del NATO Joint Force Command di Brussum, in Olanda. “Siamo al corrente della questione e stiamo investigando con le autorità competenti“, ha confermato un portavoce del ministero della difesa tedesco. Nel 2006 e nel 2008 la Ecolog era stata indagata, in Germania, per traffico di eroina dall’Afghanistan e riciclaggio di denaro sporco. Nel 2002, quando la Ecolog operava in Kosovo per conto del contingente tedesco della KFOR, i servizi segreti di Berlino informarono i vertici della Nato che il clan Destani, collegato all’UCK, controllava il traffico di droga, armi e esseri umani al confine macedone-kosovaro. Il 90 per cento dei quattromila dipendenti della Ecolog sono albano-macedoni.

Non è un caso che rotte del narcotraffico e linee di frattura conflittuali si dispieghino, in modo parallelo, dalle propaggini dell’Himalaya all’Europa balcanica. I fatti su riportati, sono collegati alla politica internazionale enunciata da Obama fin da quando si era candidato alla carica presidenziale degli Stati Uniti d’America, e non a caso Obama è un allievo del neomackinderiano polacco-americano Zbignew Brzezinsky. Brzezinsky ha indicato come obiettivo centrale della politica globale statunitense, impedire che si formi un blocco economico-strategico eurasiatico, intervenendo in quello che Brzezinsky ritiene il ventre molle dell’Eurasia, la macro-regione Balcani-Medio Oriente-Pashtunistan.

Memore del suo successo con i ‘Freedom fighters’, ovvero con i mujahidin afgani che armò e finanziò per combattere la presenza sovietica e il Partito Democratico Popolare in Afghanistan, Bzrezinsky, tramite il suo seguace Barack Obama, ha voluto riprendere la sua vecchia strategia, convinto che la debolezza della Russia e le divisioni fra Iran, Pakistan, India e Cina potessero aiutare gli USA ad approfondire e allargare l’arco delle crisi artificiali che si dipana sulla regione balcanico-mediorientale. Ma l’usura subita dalla forza, vera e immaginaria, degli USA, avutasi grazie alle politiche dell’amministrazione di Bush junior, coniugata all’avanzata economica-strategica di New Delhi e Beijing, alla politica di decisa tutela della propria sovranità da parte di Tehran e alla ripresa, da parte di Mosca, di una politica internazionale di ampio respiro, tesa a creare stretti rapporti di collaborazione e buon vicinato con il suo estero vicino e le altre potenze eurasiatiche, stanno mettendo sotto scacco tutte le mosse di Washington, ideate appunto dal gruppo di Brzezinsky, volte a impedire la realizzazione del peggior incubo per un mackinderiano: la formazione di un blocco economico-strategico in Eurasia. Se, in tale quadro, s’inserisce la crisi con Tel Aviv, conseguenza del riorientamento geostrategico e geopoltico brezinskiano, ossessivamente puntato verso l’Heartland, si può prevedere che il programma neomackinderiano di Washington sia entrato in un vicolo cieco che potrebbe procurare una grave crisi all’amministrazione Obama, che magari potrebbe portare all’abbandono di tale strategia quasi fallimentare. E forse, l’ostinata ricerca di un consenso sul piano interno, procacciato con il varo di una riforma (in realtà demolitoria) per l’estensione della sanità a tutta la popolazione statunitense, rientra nella previsione di questa possibile prossima crisi acuta.



Les Etats-Unis et l'Eurasie: fin de partie pour l'ère industrielle

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

 

Les Etats-Unis et l'Eurasie :

fin de partie pour l'ère industrielle

 

Avec l’aube du 21ème siècle, le monde est entré dans une nouvelle phase du combat géopolitique. La première moitié du 20ème siècle peut être comprise comme une longue guerre entre la Grande-Bretagne (et des alliés variables) et l’Allemagne (et des alliés variables) pour la suprématie européenne. La seconde moitié du siècle fut dominée par une Guerre Froide entre les Etats-Unis, qui émergèrent comme la principale puissance militaro-industrielle du monde après la 2ème Guerre Mondiale, et l’Union Soviétique et son bloc de protectorats. Les guerres américaines en Afghanistan (en 2001-2002) et en Irak (qui, en comptant les sanctions économiques et les bombardements périodiques, s’est poursuivie de 1990 jusqu’au moment présent) ont inauguré la dernière phase, qui promet d’être le combat géopolitique final de la période industrielle – un combat pour le contrôle de l’Eurasie et de ses ressources d’énergie.

 

Mon but est ici de tracer les contours généraux de ce chapitre culminant de l’histoire tel qu’il est actuellement en train de s’écrire. D’abord, il est nécessaire de discuter de géopolitique en général et depuis une perspective historique, en relation avec les ressources, la géographie, la technologie militaire, les monnaies nationales, et la psychologie de ses praticiens.

 

Les fins et les moyens de la géopolitique

 

Il n’est jamais suffisant de dire que la géopolitique concerne le « pouvoir », le « contrôle », ou l’« hégémonie » dans l’abstrait. Ces mots n’ont un sens qu’en relation avec des objectifs et des moyens spécifiques : pouvoir sur quoi ou sur qui, exercé par quelles méthodes ? Les réponses différeront quelque peu dans chaque situation ; cependant, la plupart des objectifs et des moyens stratégiques tend à avoir certaines caractéristiques en commun.

 

Comme les autres organismes, les humains sont sujets aux perpétuelles contraintes écologiques de l’accroissement de la population et de l’appauvrissement des ressources. S’il est peut-être simpliste de dire que tous les conflits entre sociétés sont motivés par le désir de surmonter des contraintes écologiques, la plupart le sont certainement. Les guerres sont généralement menées pour des ressources – terre, forêts, voies maritimes, minerais, et (durant le siècle passé) pétrole. Les gens combattent occasionnellement pour des idéologies et des religions. Mais même alors les rivalités pour les ressources sont rarement loin de la surface. Ainsi les tentatives d’expliquer la géopolitique sans référence aux ressources (un récent exemple est Le choc des civilisations de Samuel Huntington) sont soit erronées soit délibérément trompeuses.

 

L’ère industrielle diffère des périodes précédentes de l’histoire humaine par l’exploitation à grande échelle des ressources en énergie (charbon, pétrole, gaz naturel, et uranium) pour les objectifs de production et de transport – et pour l’objectif plus profond d’accroître la capacité de notre environ­nement terrestre à supporter les humains. La totalité des réalisations scientifiques, des consolidations politiques, et des immenses accroissements de population des deux derniers siècles sont des effets prévisibles de l’utilisation croissante et coordonnée des ressources en énergie. Dans les premières dé­cennies du vingtième siècle, le pétrole a émergé comme la plus importante ressource en énergie à cause de son faible coût et de sa facilité d’utilisation. Le monde industriel dépend maintenant d’une manière écrasante du pétrole pour l’agriculture et le transport.

 

La géopolitique mondiale moderne, parce qu’elle implique des systèmes de transport et de communication à l’échelle mondiale basés sur les ressources en énergie fossile, est par conséquent un phénomène unique de l’ère industrielle. Le contrôle des ressources est largement une question de géographie, et secondairement une question de technologie militaire et de contrôle sur les monnaies d’échange. Les Etats-Unis et la Russie étaient tous deux géographiquement bénis, étant auto-suffisants en ressources énergétiques durant la première moitié du siècle. L’Allemagne et le Japon ne parvinrent pas à atteindre l’hégémonie régionale en grande partie parce qu’ils manquaient de ressources énergétiques domestiques suffisantes et parce qu’ils ne parvinrent pas à gagner et à conserver l’accès à des ressources à un autre endroit (en URSS pour l’une et dans les Indes Néerlandaises pour l’autre).

 

Néanmoins si les Etats-Unis et la Russie furent tous deux bien dotés par la nature, tous deux ont dépassé leurs pics de production pétrolière (qui furent atteints en 1970 et 1987, respectivement). La Russie reste un exportateur net de pétrole parce que son niveau de consommation est faible, mais les Etats-Unis sont de plus en plus dépendants des importations de pétrole tout comme de gaz naturel.

 

Les deux nations ont commencé depuis longtemps à investir une grande partie de leur richesse basée sur l’énergie dans la production de systèmes d’armes fonctionnant avec du carburant pour accroître et défendre leur intérêts en ressources à l’échelle mondiale. En d’autres mots, tous deux ont décidé il y a des décennies d’être des joueurs géopolitiques, ou des concurrents pour l’hégémonie mondiale.

 

A peu près les trois-quarts des réserves pétrolières cruciales restantes du monde se trouvent à l’intérieur des frontières des nations à prédominance musulmane du Moyen-Orient et d’Asie Centrale – des nations qui, pour des raisons historiques, géographiques et politiques, furent incapables de développer des économies militaro-industrielles indépendantes à grande échelle et qui ont, au long du dernier siècle, surtout servi de pions des Grandes Puissances (Grande-Bretagne, Etats-Unis, et l’ex-URSS). Dans les récentes décennies, ces nations riches en pétrole à prédominance musulmane ont rassemblé leurs intérêts dans un cartel, l’Organisation des Pays Exportateurs de Pétrole (OPEP).

 

Si les ressources, la géographie et la technologie militaire sont essentielles à la géopolitique, elles ne sont pas suffisantes sans un moyen financier de dominer les termes du commerce international. L’hégémonie a eu une composante financière aussi bien que militaire déjà depuis l’adoption de l’argent par les empires agricoles de l’Age de Bronze ; l’argent, après tout, est une revendication sur les ressources, et la capacité à contrôler la monnaie d’échange peut affecter un subtil transfert en cours de richesse réelle. Celui qui émet une monnaie – particulièrement une monnaie fiduciaire, c’est-à-dire une monnaie qui n’est pas soutenue par des métaux précieux – a un pouvoir sur elle : chaque transaction devient une prime pour celui qui frappe ou imprime l’argent.

 

Durant l’ère coloniale, les rivalités entre le real espagnol, le franc français et la livre britannique furent aussi décisives que des batailles militaires pour déterminer la puissance hégémonique. Pendant le dernier demi-siècle, le dollar US a été la monnaie internationale de référence pour presque toutes les nations, et c’est la monnaie avec laquelle toutes les nations importatrices de pétrole doivent payer leur carburant. C’est un arrangement qui a fonctionné à l’avantage de l’OPEP, qui conserve un consommateur stable avec les Etats-Unis (le plus grand consommateur de pétrole du monde et une puissance militaire capable de défendre les royaumes pétroliers arabes), et aussi des Etats-Unis eux-mêmes, qui perçoivent une subtile dîme financière pour chaque baril de pétrole consommé par toutes les autres nations importatrices. Ce sont quelques-uns des faits essentiels à garder à l’esprit lorsqu’on examine le paysage géopolitique actuel.

 

La psychologie et la sociologie de la géopolitique

 

Les objectifs géopolitiques sont poursuivis dans des environnements spécifiques, et ils sont poursuivis par des acteurs spécifiques – par des êtres humains particuliers avec des caractéristiques sociales, culturelles et psychologiques identifiables. Ces acteurs sont, dans une certaine mesure, les incarnations de leur société dans son ensemble, recherchant des bénéfices pour cette société en compétition ou en coopération avec d’autres sociétés. Cependant, de tels individus puissants sont inévitablement tirés d’une classe sociale particulière à l’intérieur de leur société – généralement, la classe riche, possédante – et tendent à agir d’une manière telle qu’elle bénéficie de préférence à cette classe, même si agir ainsi signifie ignorer les intérêts du reste de la société. De plus, les acteurs géopolitiques individuels sont aussi des êtres humains uniques, avec des connaissances, des préjugés et des obsessions religieuses qui peuvent occasionnellement les conduire à agir en représentants non seulement de leur société, mais aussi de leur classe.

 

Du point de vue de la société, la géopolitique est un combat darwinien collectif pour une capacité de support accrue ; mais du point de vue du géostratège individuel, c’est un jeu. En effet, la géopolitique pourrait être considérée comme le jeu humain absolu – un jeu avec d’immenses conséquences, et un jeu qui ne peut être joué qu’à l’intérieur d’un petit club d’élites.

 

Depuis qu’il y a eu des civilisations et des empires, les rois et les empereurs ont joué une certaine version de ce jeu. Le jeu attire un type particulier de personnalités, et il favorise une certaine manière de pensée et de perception concernant le monde et les autres êtres humains. L’acte de participer au jeu confère un sentiment d’immense supériorité, de distance, de pouvoir, et d’importance. On peut commencer à apprécier la drogue suprêmement excitante que constitue le fait de participer au jeu géopolitique en lisant les documents rédigés par les principaux géostratèges – des textes sur la sécurité nationale signés par des gens comme George Kennan et Richard Perle, ou les livres d’Henry Kissinger et de Zbigniew Brzezinski. Prenons, par exemple, ce passage de l’Etude de Planification Politique N° 23 du Département d’Etat, par Kennan en 1948 : “Nous avons 50 pour cent de la richesse mondiale, mais seulement 6,3 pour cent de sa population. Dans cette situation, notre véritable travail pour la période à venir est de concevoir un modèle de relations qui nous permette de maintenir cette position de disparité. Pour ce faire, nous devons nous dispenser de toute sentimentalité … nous devons cesser de penser aux droits de l’homme, à l’élévation des niveaux de vie et à la démocratisation”.

 

Une prose aussi sèche et fonctionnelle est à sa place dans un monde de services, de téléphones et de limousines, mais c’est un monde totalement coupé des millions – peut-être des centaines de millions ou des milliards – de gens dont les vies subiront l’impact écrasant d’une phrase par-ci, d’un mot par là. A un niveau, le géostratège est simplement un homme (après tout, le club est presque entièrement un club d’hommes) faisant son travail, et tentant de la faire de manière compétente aux yeux des spectateurs. Mais quel travail ! – déterminer le cours de l’histoire, décider du sort des nations. Le géostratège est un Surhomme, un Olympien déguisé en mortel, un Titan en tenue de travail. Un bon poste, si vous pouvez l’obtenir.

 

L’Eurasie – le Grand Prix du Grand Jeu

 

En regardant leur cartes et leurs globes terrestres, les géostratèges britanniques des 18ème et 19ème siècles ne pouvaient pas manquer de noter que les masses de terre du globe sont hautement asymétriques ; l’Eurasie est de loin le plus grand des continents. Il est clair que s’ils voulaient eux-mêmes bâtir et maintenir un empire vraiment mondial, il serait d’abord essentiel pour les Britanniques d’établir et de défendre des positions stratégiques dans tout ce continent riche en minerais, densément peuplé, et chargé d’histoire.

 

Mais les géostratèges britanniques savaient parfaitement bien que la Grande-Bretagne elle-même est seulement une île au large du nord-ouest de l’Eurasie. Sur ce plus grand des continents, la nation la plus étendue était de loin la Russie, qui dominait géographiquement l’Eurasie ainsi que l’Eurasie dominait le globe. Ainsi les Britanniques savaient que leurs tentatives pour contrôler l’Eurasie se heurteraient inévitablement aux instincts d’auto-préservation de l’Empire Russe. Durant tout le 19ème siècle et au début du 20ème, des conflits russo-britanniques éclatèrent à maintes reprises sur la frontière indienne, notamment en Afghanistan. Un fonctionnaire impérial nommé Sir John Kaye appela cela le « Grand Jeu », une expression immortalisée par Kipling dans Kim.

 

Deux guerres mondiales coûteuses et un siècle de soulèvements anti-coloniaux ont largement guéri la Grande-Bretagne de ses obsessions impériales, mais l’Eurasie ne pouvait pas manquer de rester centrale pour tout plan sérieux de domination mondiale.

 

Ainsi en 1997, dans son livre The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives [Le grand échiquier : la primauté américaine et ses impératifs géostratégiques] , Zbigniew Brzezinski, ancien conseiller à la Sécurité Nationale du président américain Jimmy Carter et géostratège par excellence, soulignait que l’Eurasie devait être au centre des futurs efforts des Etats-Unis pour projeter leur propre puissance à l’échelle mondiale. « Pour l’Amérique », écrivait-il,  “le grand prix géopolitique est l’Eurasie. Pendant un demi-millénaire, les affaires mondiales ont été dominées par des puissances et des peuples eurasiens qui se combattaient les uns les autres pour la domination régionale et qui aspiraient à la puissance mondiale. Maintenant une puissance non-eurasienne est prééminente en Eurasie – et la primauté mondiale de l’Amérique dépend directement de la durée et de l’efficacité avec lesquelles sa prépondérance sera soutenue” [1].

 

L’Eurasie a un rôle de pivot, d’après Brzezinski, parce qu’elle « compte pour 60 pour cent du PNB mondial et environ les trois-quarts des ressources énergétiques connues du monde ». De plus, elle contient les trois-quarts de la population mondiale, « toutes les puissances nucléaires déclarées sauf une et toutes les [puissances nucléaires] secrètes sauf une » [2].

 

Dans la vision de Brzezinski, de même que les Etats-Unis ont besoin du reste du monde pour les marchés et les ressources, l’Eurasie a besoin de la domination américaine pour sa stabilité. Malheureusement, cependant, les Américains ne sont pas accoutumés aux responsabilités impériales : « La recherche de la puissance n’est pas un but qui soulève la passion populaire, sauf dans des conditions d’une menace ou d’un défi soudain pour le sens public du bien-être domestique » [3].

 

Quelque chose de fondamental a basculé dans le monde de la géopolitique avec les attaques terroristes du 11 septembre 2001 – qui a clairement présenté « une menace soudaine … pour le sens public du bien-être do­mestique». Ce basculement a été de nouveau perçu avec la détermination de la nouvelle administration américaine – exprimée avec une insistance croissante en 2002 et pendant les premières semaines de 2003 – d’envahir l’Irak. Ces changements géostratégiques semblent s’être centrés dans une nouvelle attitude américaine envers l’Eurasie.

 

A la fin de la 2ème G.M., quand les Etats-Unis et l’URSS émergèrent comme les puissances dominantes du monde, les Etats-Unis avaient établi des bases permanentes en Allemagne, au Japon, et en Corée du Sud, toutes pour encercler l’Union Soviétique. L’Amérique mena même une guerre manquée et extrêmement coûteuse en Asie du Sud-Est pour acquérir encore un autre vecteur d’encerclement de l’Eurasie.

 

Quand l’URSS s’écroula à la fin des années 80, les Etats-Unis semblèrent libres de dominer l’Eurasie, et donc le monde, plus complètement que toute autre nation dans l’histoire mondiale. La décennie qui suivit fut surtout caractérisée par la mondialisation – la consolidation de la puissance économique collective largement centrée aux Etats-Unis. Il sembla que l’hégémonie US serait maintenue économiquement plutôt que militairement. Le livre de Brzezinski reflète l’esprit de ces temps, recommandant le maintien et la consolidation des liens de l’Amérique avec les alliés de longue date (Europe de l’Ouest, Japon et Corée du Sud) et la protection ou la cooptation des nouveaux Etats indépendants de l’ancienne Union Soviétique.

 

Contrairement avec cette prescription, la nouvelle administration de George W. Bush sembla prendre un virage plus brutal – un virage qui tenait pour acquis les vieux alliés dans son unilatéralisme sans complexes. Par son viol des accords internationaux pour l’environnement, les droits de l’homme, et le contrôle des armes ; par sa poursuite d’une doctrine d’action militaire préventive ; et particulièrement par son obsession apparemment inexplicable de l’invasion de l’Irak, Bush dépensa un énorme capital politique et diplomatique, se créant inutilement des ennemis même parmi les alliés éprouvés. Son motif de guerre – l’élimination des armes de destruction massive de l’Irak – était manifestement ridicule, puisque les Etats-Unis avaient fourni beaucoup de ces armes et que l’Irak ne constituait alors une menace pour personne ; de plus, une nouvelle guerre du Golfe risquait de déstabiliser tout le Moyen-Orient [4]. Qu’est-ce qui pouvait bien justifier un tel risque ? Quelle était la motivation de ce bizarre nouveau changement de stratégie ? A nouveau, une discussion d’arrière-plan est nécessaire avant de pouvoir répondre à cette question.

 

Les Etats-Unis : un colosse à cheval sur le globe

 

A l’aube du nouveau millénaire, les Etats-Unis avaient la technologie militaire la plus avancée du monde et la monnaie la plus forte du monde. Tout au long du vingtième siècle, l’Amérique avait patiemment bâti son empire, d’abord en Amérique Centrale et en Amérique du Sud, à Hawaï, à Puerto Rico, et aux Philippines, et ensuite (après la 2ème G.M.) par des alliances et des protectorats en Europe, au Japon, en Corée, et au Moyen-Orient. Son armée et son agence de renseignement étaient actives dans presque tous les pays du monde alors que son immense puissance semblait tempérée par sa défense ostensible de la démocratie et des droits de l’homme.

 

Dans les années 80, le gouvernement US tomba sous le contrôle d’un groupe de stratèges néo-conservateurs entourant Ronald Reagan et George Herbert Walker Bush. Pendant des années, ces stratèges travaillèrent à détruire l’URSS (ce qu’ils réussirent à faire en minant l’économie soviétique) et à consolider leur puissance en Amérique Centrale et au Moyen-Orient. Ce dernier projet culmina avec la première guerre USA-Irak en 1990-91. Leur but ouvertement déclaré n’était rien moins que la domination mondiale.

 

Alors que l’administration Clinton-Gore insistait sur la coopération multilatérale, son effort pour la mondialisation commerciale – qui transférait impitoyablement la richesse des nations pauvres aux nations riches – était essentiellement une prolongation des politiques Reagan-Bush. Pourtant, les néo-conservateurs enrageaient d’être exclus des reines du pouvoir. Ils se considéraient comme le leadership légitime du pays, et regardaient Clinton et ses partisans comme des usurpateurs. Quand la Cour Suprême nomma George W. Bush Président en 2000, les néo-conservateurs eurent leur revanche. Avec l’assistance des médias serviles, Bush – le fils choyé d’une famille de la côte Est, riche et avec de puissants liens politiques qui avait fait sa fortune dans la banque, les armes, et le pétrole – réussit à se présenter comme un pur Texan « homme du peuple ». Il s’entoura immédiatement du groupe des stratèges géopolitiques - Donald Rumsfeld, Dick Cheney, Paul Wolfowitz, et Richard Perle – qui avaient développé la politique internationale de la première administration Bush.

 

Dans son récent article « La poussée pour la guerre », l’analyste des affaires internationales Anatol Lieven fait remonter les racines du programme stratégique d’extrême-droite à une mentalité persistante de guerre froide, au fondamentalisme chrétien, à des politiques intérieures de plus en plus diviseuse, et à un soutien inconditionnel à Israël. Le but basique de domination militaire totale du globe, écrivait Lieven, “était partagé par Colin Powell et le reste de l’establishment de sécurité. Ce fut, après tout, Powell qui, en tant que Président du Conseil des Chefs d’Etat-Major, déclara en 1992 que les Etats-Unis avaient besoin d’une puissance suffisante « pour dissuader n’importe quel rival de simplement rêver à nous défier sur la scène mondiale ». Cependant, l’idée de défense préventive, à présent doctrine officielle, pousse cela un pas plus loin, beaucoup plus loin que Powell aurait souhaité aller. En principe, elle peut être utilisée pour justifier la destruction de tout autre Etat s’il semble même que cet Etat puisse être capable de défier les  Etats-Unis dans le futur. Quand ces idées furent émises pour la première fois par Paul Wolfowitz et d’autres après la fin de la Guerre Froide, elles se heurtèrent à une critique générale, même de la part des conservateurs. Aujourd’hui, grâce à l’ascendance des nationalistes radicaux dans l’Administration et à l’effet des attaques du 11 septembre sur la psyché américaine, elles ont une influence majeure sur la politique US” [5].

 

Que l’administration ait orchestré d’une certaine manière les événements du 11 septembre – comme cela fut suggéré par les commentateurs Michael Ruppert et Michel Chossudovsky – ou pas, elle était clairement prête à en tirer avantage [6]. Bush proclama immédiatement au monde que « soit vous êtes avec nous, soit vous êtes avec les terroristes ».

 

Avec un budget militaire gonflé, un établissement médiatique craintif et obéissant, et un public effrayé au point d’abandonner volontairement les protections constitutionnelles de base, les néo-conservateurs semblaient avoir gagné le plein contrôle de la nation et être devenus les maîtres de son empire mondial. Mais même alors que leur victoire semblait complète, des rumeurs de dissidence commençaient à se répandre.

 

Insubordination dans les rangs

 

La résistance populaire à la mondialisation commerciale commença à se matérialiser à la fin des années 90, s’unissant pour la première fois dans la manifestation massive anti-OMC à Seattle en novembre 1998. Dès lors, le mouvement anti-mondialisation sembla grandir avec chaque année qui passait, se transformant en un mouvement anti-guerre mondial en réponse aux plans US d’envahir d’abord l’Afghanistan et ensuite l’Irak.

 

Mais le mécontentement vis-à-vis de la domination US du globe ne se limita pas à des gauchistes brandissant des marionnettes géantes dans des manifestations. Alors que les bases militaires américaines s’installaient dans les Balkans dans les années 90, et en Asie Centrale après la campagne d’Afghanistan, les géostratèges en Russie, en Chine, au Japon et en Europe de l’Ouest commencèrent à examiner leurs options. Seule la Grande-Bretagne semblait rester ferme dans son alliance avec le colosse américain.

 

Une réponse apparemment inoffensive à l’hégémonie US mondiale fut l’effort de onze nations européennes pour établir une monnaie commune – l’Euro. Quand l’Euro fut lancé au tournant du millénaire, beaucoup prédirent qu’il serait incapable de rivaliser avec le dollar. En effet, pendant des mois la valeur comparative de l’Euro se fit attendre. Cependant, elle se stabilisa bientôt et commença à monter.

 

Un développement plus inquiétant, du point de vue de Washington, fut la tendance croissante de nations de second ou de troisième rang à abandonner ouvertement les politiques économiques néo-libérales au cœur du projet de mondialisation, puisque les nouveaux gouvernements du Venezuela, du Brésil et de l’Equateur rompirent publiquement avec la Banque Mondiale et déclarèrent leur désir d’indépendance vis-à-vis du contrôle financier américain.

 

En même temps, en Russie le théoricien politique Alexandre Douguine gagnait une influence croissante avec ses écrits géostratégiques anti-américains. En 1997, la même année où parut le livre de Brzezinski Le grand échiquier, Douguine publia son propre manifeste, Les fondements de la géopolitique, recommandant un Empire Russe reconstitué, composé d’un bloc continental d’Etats alliés pour nettoyer la masse terrestre eurasienne de l’influence US. Au centre de ce bloc, Douguine plaçait un « axe eurasien » avec la Russie, l’Allemagne, l’Iran, et le Japon.

 

Alors que les idées de Douguine avaient été bannies à l’époque soviétique à cause de leurs échos de fantaisies pan-eurasiennes nazies, elles gagnaient graduellement de l’influence parmi les officiels russes post-soviétiques. Par exemple, le ministère russe des Affaires Etrangères a récemment décrié la « tendance croissante vers la formation d’un monde unipolaire sous la domination financière et militaire des Etats-Unis » et a appelé à un « ordre mondial multipolaire », tout en soulignant la « position géopolitique [de la Russie] en tant que plus grand Etat eurasien ». Le parti communiste russe a adopté les idées de Douguine dans sa plate-forme ; Gennady Zyouganov, président du parti communiste, a même publié son premier ouvrage de géopolitique, intitulé La géographie de la victoire. Bien que Douguine reste une figure marginale sur le plan international, ses idées ne peuvent qu’avoir une résonance dans un pays et un continent de plus en plus cernés et manipulés par une nation hégémonique puissante et arrogante de l’autre coté du globe.

 

Extérieurement, la Russie – comme l’Allemagne, la France, le Japon, et la Chine – est encore déférente avec les Etats-Unis. Même la dissidence vis-à-vis du montage de Bush pour la guerre en Irak est restée assez modérée. Mais en privé, les dirigeants de tous ces pays sont sans aucun doute en train de faire de nouveaux plans. Peu iraient cependant jusqu’à approuver l’idée d’Alexandre Douguine que l’Eurasie finira par dominer les Etats-Unis, ni l’idée inverse. Néanmoins, en seulement trois ans, l’attitude de nombreux dirigeants eurasiens envers l’hégémonie américaine est passée de l’acceptation tranquille à une critique mordante associée à un examen sérieux des alternatives.

 

Le dilemme américain

 

Douguine et d’autres critiques eurasiens de la puissance américaine commencent par une prémisse qui semblerait ridicule pour la plupart des Américains. Pour Douguine, les Etats-Unis agissent non par force, mais par faiblesse.

 

Pendant de longues années, l’Amérique a supporté une balance commerciale très fortement négative – qu’elle pouvait se permettre seulement à cause du dollar fort, permis à son tour par la coopération de l’OPEP dans la facturation des exportations pétrolières en dollars. La balance commerciale de l’Amérique est négative en partie parce que sa production intérieure de pétrole et de gaz naturel a atteint son point culminant et que la nation dépend maintenant de plus en plus des importations. De même, la plupart des sociétés américaines ont transféré leurs opérations de fabrication outre-mer. Une autre faiblesse systémique vient de la corruption largement répandue dans les sociétés – révélée de façon aveuglante par l’effondrement de Enron – et des liens étroits entre les sociétés et l’establishment politique américain. Bulle après bulle – haute technologie, télécommunications, dérivés, immobilier – ont déjà éclaté ou sont sur le point de le faire.

 

Après le dollar fort, l’autre pilier de la force géopolitique US est son pilier militaire. Mais même dans ce cas il y a des fissures dans la façade. Personne ne doute que l’Amérique possède des armes de destruction massive suffisantes pour détruire le monde plusieurs fois. Mais les Etats-Unis utilisent en fait leur armement de plus en plus à des fins de ce que l’historien français Emmanuel Todd a appelé du « militarisme théâtral ». Dans un essai intitulé « Les Etats-Unis et l’Eurasie : militarisme théâtral », le journaliste Pepe Escobar note que cette stratégie implique que Washington … ne doit jamais apporter une solution définitive à un problème géopolitique, parce que l’instabilité est la seule chose qui peut justifier des actions militaires à l’infini de la part de l’unique superpuissance, n’importe quand, n’importe où … Washington sait qu’elle est incapable de se mesurer aux véritables joueurs dans le monde – Europe, Russie, Japon, Chine. Elle cherche donc à rester politiquement au sommet en brutalisant des joueurs mineurs comme l’Axe du Mal, ou des joueurs encore plus mineurs comme Cuba [7].

 

Ainsi les attaques américaines contre l’Afghanistan et l’Irak révèlent simultanément la sophistication de la technologie militaire US et les fragilités inhérentes de la position géopolitique US. Le militarisme théâtral a le double but de projeter l’image de l’invincibilité et de la puissance américaines tout en maintenant ou en accroissant la domination militaire US sur les nations du tiers-monde riches en ressources. Cela explique largement la récente invasion de l’Afghanistan et l’attaque imminente contre Bagdad. Cette stratégie implique que les actions terroristes contre les Etats-Unis doivent être secrètement encouragées comme justification pour davantage de répression intérieure et d’aventures militaires à l’étranger.

 

Néanmoins nous n’avons pas pleinement répondu à la question posée précédemment – pourquoi la présente administration veut-elle dépenser un si grand capital politique intérieur et international pour mener la guerre imminente en Irak ? Les critiques de l’administration soulignent que c’est une guerre pour le pétrole, mais la situation est en fait plus compliquée et ne peut être comprise qu’à la lumière de deux facteurs cruciaux non pleinement reconnus.

 

La puissance du dollar est remise en question

 

Le premier est que le maintien de la puissance du dollar est en question. En novembre 2000, l’Irak annonça qu’il cesserait d’accepter des dollars en échange de son pétrole, et n’accepterait plus que des Euros. A l’époque, les analystes financiers suggérèrent que l’Irak perdrait des dizaines de millions de dollars à cause de ce changement de monnaie ; en fait, dans les deux années suivantes, l’Irak gagna des millions. D’autres nations exportatrices de pétrole, incluant l’Iran et le Venezuela, ont déclaré qu’elles prévoyaient un changement similaire. Si toute l’OPEP passait des dollars aux Euros, les conséquences pour l’économie US seraient catastrophiques. Les investissements fuiraient le pays, les valeurs immobilières plongeraient, et les Américains se retrouveraient rapidement dans des conditions de vie du Tiers-Monde [8].

 

Actuellement, si un pays souhaite obtenir des dollars pour acheter du pétrole, il ne peut le faire qu’en vendant ses ressources aux Etats-Unis, en souscrivant un emprunt à une banque américaine (ou à la Banque Mondiale – en pratique la même chose), ou en échangeant sa monnaie sur le marché libre et ainsi en la dévaluant. Les Etats-Unis importent en effet des biens et des services pour presque rien, son déficit commercial massif représentant un énorme emprunt sans intérêts au reste du monde. Si le dollar devait cesser d’être la devise de réserve mondiale, tout cela changerait du jour au lendemain.

Un article du New York Times daté du 31 janvier 2003, intitulé « Pour les indicateurs russes, l’Euro dépasse le dollar », notait que « les Russes semblent avoir accumulé jusqu’à 50 milliards de dollars américains en paquets de café et sous leurs matelas, la plus grande réserve parmi toutes les nations ». Mais les Russes échangent tranquillement leurs dollars contre des Euros, et des articles de luxe comme les voitures affichent maintenant des prix en Euros. Plus loin, « La banque centrale de Russie a dit aujourd’hui qu’elle a accru ses avoirs en Euros durant l’année passée jusqu’à 10 pour cent de ses réserves [en devises] étrangères, partant de 5 pour cent, alors que la part de dollars a chuté de 90 à 75 pour cent, reflétant le faible retour d’investissements en dollars » [9].

 

Ironiquement, même l’Union Européenne est préoccupée par cette tendance, parce que si le dollar chute trop bas alors les firmes européennes verront leurs investissements aux Etats-Unis perdre de la valeur. Néanmoins, à mesure que l’UE grandit (elle a programmé l’entrée de dix nouveaux membres en 2004), sa puissance économique est de plus en plus perçue comme dépassant inévitablement celle des Etats-Unis.

Pour les géostratèges US, la prévention d’un passage de l’OPEP des dollars aux Euros doit donc sembler capitale. Une invasion et une occupation de l’Irak donnerait effectivement aux Etats-Unis une voix dans l’OPEP tout en plaçant de nouvelles bases américaines à bonne distance de frappe de l’Arabie Saoudite, de l’Iran, et de plusieurs autres pays-clés de l’OPEP.

 

Le second facteur pesant probablement sur la décision de Bush d’envahir l’Irak est l’appauvrissement des ressources énergétiques US et donc la dépendance américaine croissante vis-à-vis de ses importations pétrolières. La production pétrolière de tous les pays non-membres de l’OPEP, pris ensemble, a probablement culminé en 2002. A partir de maintenant, l’OPEP aura toujours plus de pouvoir économique dans le monde. De plus, la production pétrolière mondiale culminera probablement dans quelques années. Comme je l’ai expliqué ailleurs, les alternatives aux carburants fossiles n’ont pas été suffisamment développés pour permettre un processus coordonné de substitution dès que le pétrole et le gaz naturel se feront plus rares. Les implications – particulièrement pour les principales nations consommatrices comme les Etats-Unis – seront finalement ruineuses [10].

 

Les deux problèmes sont d’une urgence écrasante. La stratégie de Bush en Irak est apparemment une stratégie offensive pour élargir l’empire américain, mais en réalité elle est principalement d’un caractère défensif puisque son but profond est de devancer un cataclysme économique.

 

Ce sont les deux facteurs de l’hégémonie du dollar et de l’épuisement du pétrole – encore plus que l’arrogance des stratèges néo-conservateurs à Washington – qui incitent à un total mépris des alliances de longue date avec l’Europe, le Japon et la Corée du Sud, et au déploiement croissant de troupes US au Moyen-Orient et en Asie Centrale.

 

Même si personne n’en parle ouvertement, les échelons supérieurs dans les gouvernements de la Russie, de la Chine, de la Grande-Bretagne, de l’Allemagne, de la France, de l’Arabie Saoudite et d’autres pays sont pleinement conscients de ces facteurs – d’où les changements d’alliance, les menaces de veto, et les négociations d’arrière-salle conduisant à l’inévitable invasion US de l’Irak.

 

Mais la guerre, bien que devenue inévitable, reste un coup hautement risqué. Même s’il se termine en quelques jours ou en quelques semaines par une victoire américaine décisive, nous ne saurons pas immédiatement si ce coup a payé.

 

Qui contrôlera l’Eurasie ?

 

Alors que j’écris ces lignes, les Etats-Unis préparent des plans pour bombarder Bagdad, une ville de cinq millions d’habitants, et pour déverser pendant les deux premiers jours de l’attaque deux fois plus de missiles de croisière qu’il n’en fut utilisé dans toute la première guerre du Golfe. Les obus et les balles à uranium appauvri seront à nouveau employés, transformant une grande partie de l’Irak en désert radioactif et condamnant les futures générations d’Irakiens (et les soldats américains et leurs familles) à des malformations de naissance, à des maladies et à des morts prématurées. Il est difficile d’imaginer que le spectacle de tant de mort et de destruction non-provoquées ne puisse manquer d’inspirer des pensées de vengeance dans les cœurs de millions d’Arabes et de musulmans.

 

Les stratèges géopolitiques américains diront que l’attaque est un succès si la guerre se termine rapidement, si la production des champs pétrolifères irakiens remonte rapidement, et si les nations de l’OPEP sont contraintes de conserver le dollar comme monnaie courante. Mais cette opération (on ne peut pas réellement l’appeler une guerre), entreprise comme un acte de désespoir économique, ne peut que temporairement endiguer une marée montante.

 

Quelles sont les conséquences à long terme pour les Etats-Unis et l’Eurasie ? Beaucoup sont imprévisibles. Les forces qui sont en train d’être libérées pourraient être difficiles à contenir. Les tendances à long terme les mieux prévisibles ne sont pas favorables. Epuisement des ressources et pression démographique ont toujours été annonciateurs de guerre. La Chine, avec une population de 1,2 milliards, sera bientôt le plus grand consommateur de ressources dans le monde. Dans une époque d’abondance, cette nation peut être vue comme un immense marché ouvert : il y a déjà plus de réfrigérateurs, de téléphones mobiles et de télévisions en Chine qu’aux Etats-Unis. La Chine ne souhaite pas défier les Etats-Unis militairement et a récemment obtenu des privilèges commerciaux en soutenant tranquillement les opérations militaires américaines en Asie Centrale. Mais alors que le pétrole – la base de tout le système industriel – se fait de plus en plus rare et que ses réserves sont plus chaudement disputées, on ne peut pas s’attendre à ce que la Chine reste docile.

 

La Corée du Nord, un quasi-allié de la Chine, était tranquillement neutralisée au moyen de négociations pendant l’ère Clinton, mais s’irrite maintenant d’être classée par Bush dans « l’axe du mal » et de voir un embargo US imposé à ses importations en ressources énergétiques cruciales. Par désespoir, elle tente d’attirer l’attention de Washington en réactivant son programme d’armes nucléaires. En même temps, le nouveau gouvernement sud-coréen est totalement opposé à l’unilatéralisme US et veut négocier avec le Nord. Les Etats-Unis menacent de détruire les installations nucléaires de la Corée du Nord par des frappes aériennes, mais cela provoquerait la formation d’un nuage nucléaire mortel sur toute l’Asie du nord-est.

 

Dans le même temps, l’Inde et le Pakistan ont aussi des intérêts qui finiront probablement par diverger de ceux des Etats-Unis. Ces nations voisines sont, bien sûr, des puissances nucléaires et des ennemis jurés avec des querelles frontalières de longue date. Le Pakistan, actuellement un allié des Etats-Unis, est aussi un fournisseur important de matières nucléaires pour la Corée du Nord, et a apporté une aide aux Talibans et à Al-Qaïda – des faits qui soulignent bien à quel point la stratégie de Washington est devenue tortueuse et contre-productive ces derniers temps.

 

Pour les Etats-Unis, le danger est clair : une hypothétique alliance entre l’Europe, la Russie, la Chine et l’OPEP

 

Le pire cauchemar des Américains serait une alliance stratégique et économique entre l’Europe, la Russie, la Chine, et l’OPEP. Une telle alliance possède une logique inhérente du point de vue de chacun des participants potentiels. Si les Etats-Unis devaient tenter d’empêcher une telle alliance en jouant la seule bonne carte encore dans leurs mains – leur armement de destruction massive – alors le Grand Jeu pourrait se terminer par une tragédie finale.

 

Même dans le meilleur cas, les ressources en pétrole sont limitées et, puisqu’elles vont progressivement diminuer pendant les prochaines décennies, elles seront incapables de supporter l’industrialisation prochaine de la Chine ou le maintien de l’infrastructure industrielle en Europe, en Russie, au Japon, en Corée, ou aux Etats-Unis.

 

Qui dominera l’Eurasie ? Finalement, aucune puissance isolée ne sera capable de le faire, parce que la base de ressources énergétiques sera insuffisante pour supporter un système de transport, de communication et de contrôle à l’échelle du continent. Ainsi les fantaisies géopolitiques russes sont tout aussi vaines que celles des Etats-Unis. Pour le prochain demi-siècle il restera juste assez de ressources énergétiques pour permettre soit un combat horrible et futile pour les parts restantes, soit un effort héroïque de coopération pour une conservation radicale et une transition vers un régime d’énergie post-carburant fossile.

 

Le prochain siècle verra la fin de la géopolitique mondiale, d’une manière ou d’une autre. Si nos descendants ont de la chance, le résultat final sera un monde formé de petites communautés, bio-régionalement organisées, vivant de l’énergie solaire. Les rivalités locales continueront, comme elles l’ont fait tout au long de l’histoire humaine, mais l’arrogance des stratèges géopolitiques ne menacera jamais plus des milliards d’humains d’extinction.

 

C’est-à-dire si tout se passe bien et si tout le monde agit rationnellement.

 

NEW DAWN MAGAZINE, Melbourne, Australia.

 

Notes:

 

[1] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard : American Primacy and its Geopolitical Imperatives (Basic Books, 1997), p. 30.

[2] Ibid., p. 31.

[3] Ibid., p. 36.

[4] Voir Richard Heinberg, "Behold Caesar," MuseLetter N° 128, octobre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com.

[5] Anatol Lieven, "The Push for War," London Review of Books, 30 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.lrb.co.uk/v24/n19/liev01_.html.

[6] Voir les sites web de Michael Ruppert, From the Wilderness www.fromthewilderness.com ; et de Michel Chossudovsky, Centre for Research on Globalisation,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.globalresearch.ca/articles/CHO206A.html.

[7] Pepe Escobar, "Us and Eurasia: Theatrical Militarism," Asia Times Online, 4 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.atimes.com/atimes/archive/12_4_2002.html.

[8] W. Clark, "The Real but Unspoken Reasons for the Upcoming Iraq War,"

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.indymedia.org/front.php3?article_id=231238&group=webcast

[9] Voir Michael Wines, "For Flashier Russians, Euro Outshines the Dollar," New York Times, 31 janvier 2003.

[10] Richard Heinberg, The Party’s Over : Oil, War and the Fate of Industrial Societies (New Society, 2003).

Richard Heinberg, journaliste et enseignant, est membre de la faculté du New College de Californie à Santa Rosa, où il enseigne un programme sur la culture, l’écologie, et la communauté viable. Il rédige et publie la « MuseLetter » mensuelle : http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com. Cet article est une adaptation de son livre à paraître, The Party’s Over: Oil, War, and the Fate of Industrial Societies [La partie est finie : pétrole, guerre, et le sort des sociétés industrielles] (New Society Publishers,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.newsociety.com).

 

[Cet article a été publié dans New Dawn N° 77 (mars-avril 2003)].

samedi, 03 avril 2010

Geheim CIA-rapport laat manipulatie West-Europese publieke opinie zien

Ex: http://www.sargasso.nl/archief/2010/03/30/geheim-cia-rapport-laat-manipulatie-west-europese-publieke-opinie-zien

Geheim CIA-rapport laat manipulatie West-Europese publieke opinie zien

Sargasso biedt regelmatig ruimte voor gastbijdragen. Dit maal een bijdrage van lsdimension met daarin een analyse van recent gelekte documenten van de CIA.


cia_cia_db[1].jpgVan Glenn Greenwald, een geheim CIA-rapport (pdf) dat eerder deze maand opgesteld werd, en gelekt is via de klokkenluiderswebsite WikiLeaks. Wat erin staat is fascinerend. Het is opgesteld door de ‘Red Cell’ (een soort afdeling binnen de CIA die ‘onconventionele’ oplossingen verzint), en laat zien hoe de Verenigde Staten na de val van de Nederlandse regering de publieke opinie in Duitsland en Frankrijk kunnen manipuleren teneinde steun voor de oorlog in Afghanistan te doen toenemen.
Dit is niet alleen één van de meest cynische stukken die ik ooit gelezen heb; het plaatst de controverse in Nederland over verlenging van de missie in Afghanistan ook in een heel ander perspectief.
Het CIA-rapport analyseert eerst hoe de Duitse en Franse regeringen hebben gesteund op de “publieke apathie” (letterlijk) teneinde “kiezers te negeren” (ook letterlijk) en geleidelijk aan troepenaantallen in Afghanistan te verhogen:

Public Apathy Enables Leaders to Ignore Voters
The Afghanistans mission’s low public salience has allowed French and German leaders to disregard popular opposition and steadily increase their troop contributions to the International Security Assistance Force (ISAF).


Als nieuwe gevechten aanstaande lente en zomer meer militaire en burgerlijke slachtoffers zullen eisen, en als een “Nederlands debat” overspringt naar deze landen, zou de publieke opinie zich echter tegen de oorlog kunnen keren. Dit zou Duitse en Franse politici kunnen doen terugdeinzen. Daarom is het belangrijk, aldus het rapport, dat de Duitse en Franse kiezers “duidelijke overeenkomsten tussen resultaten in Afghanistan en hun eigen prioriteiten zien”.
En wat zijn deze prioriteiten? Volgens de CIA zijn de Fransen vooral gefocust op “burgers en vluchtelingen”, en de Duitsers op de “kosten en redenen” van de oorlog. Op deze zorgen zou men zich daarom moeten richten, door middel van het aanpassen van de boodschap. Zo moeten de gevolgen voor de Afghaanse bevolking “gedramatiseerd” worden om bij de Europeanen “schuldgevoelens” teweeg te brengen.
Focusing on a message that ISAF benefits Afghan civilians and citing examples of concrete gains could limit and perhaps even reverse opposition to the mission. Such tailored messages could tap into acute French concern for civilians and refugees.
(…)
Conversely, messaging that dramatizes the potential adverse consequences of an ISAF defeat for Afghan civilians could leverage French (and other European) guilt for abandoning them.
(…)
Some German opposition to ISAF might be muted by proof of progress on the ground, warnings about the potential consequences for Germany of defeat, and reassurances that Germany is a valued partner in a necessary NATO-led mission.
Omdat Europeanen verliefd zijn op Obama adviseert het rapport ook dat deze persoonlijk hun belang voor de NAVO-inspanningen in Afghanistan benadrukt. En mochten ze zich terugtrekken, dan zou Obama expliciet zijn teleurstelling moeten aangeven.
The confidence of the French and German publics in President Obama’s ability to handle foreign affairs in general and Afghanistan in particular suggest that they would be receptive to his direct affirmation of their importance to the ISAF mission – and sensitive to direct expressions of disappointment in allies who do not help.
En nu komt wellicht het beste stuk. Volgens het rapport zijn de vrouwen van Afghanistan de beste boodschappers om een menselijk gezicht op de missie te plakken. Niet alleen omdat vrouwen in het algemeen persoonlijker kunnen spreken, maar ook omdat ze gebruikt kunnen worden om specifiek op Duitse, Franse en andere West-Europese vrouwen te mikken. De CIA heeft ook suggesties voor publiciteitsacties en een media-offensief.
Afghan women could serve as ideal messengers in humanizing the ISAF role in combating the Taliban because of women’s ability to speak personally and credibly about their experiences under the Taliban, their aspirations for the future, and their fears of a Taliban victory. Outreach initiatives that create media opportunities for Afghan women to share their stories with French, German, and other European women could help to overcome pervasive skepticism among women in Western Europe toward the ISAF mission.
(…)
Media events that feature testimonials by Afghan women should probably be most effective if broadcast on programs that have large and disproportionately female audiences.
De website die dit CIA-rapport online heeft gezet,
WikiLeaks, is briljant. De laatste paar jaar hebben ze een keur aan geheime documenten, die activiteiten van regeringen en bedrijven aan het licht brengen, te pakken weten te krijgen en gepubliceerd. Zo hebben ze bijvoorbeeld de gevoelige Standard Operating Manual for Guantánamo Bay online gezet, documenten die laten zien hoe aan de economische ineenstorting van IJsland corrupte offshore loans vooraf gingen, de beruchte e-mailuitwisselingen tussen klimaatwetenschappers, documenten die laten zien dat er giftige afvalstoffen geloosd worden voor de Afrikaanse kust, enzovoort. Ze zijn nu bezig om een controversiële video uit te brengen met beelden van een Amerikaanse luchtaanval in Afghanistan afgelopen mei, waarbij 97 burgers omkwamen.
Dit alles heeft ze echter een gehaat doelwit gemaakt van overheden en economische elites overal ter wereld. Het Pentagon heeft zelfs een rapport opgesteld, dat eveneens door de site werd ondervangen en gepubliceerd, hoe WikiLeaks aangepakt kan worden. De mogelijkheid wordt hierbij geopperd dat zelfs het surfen naar de site als een misdaad gezien kan worden.
Greenwald:
As The New York Times put it last week: “To the list of the enemies threatening the security of the United States, the Pentagon has added WikiLeaks.org, a tiny online source of information and documents that governments and corporations around the world would prefer to keep secret.” In 2008, the U.S. Army Counterintelligence Center prepared a secret report — obtained and posted by WikiLeaks — devoted to this website and detailing, in a section entitled “Is it Free Speech or Illegal Speech?”, ways it would seek to destroy the organization. It discusses the possibility that, for some governments, not merely contributing to WikiLeaks, but “even accessing the website itself is a crime,” and outlines its proposal for WikiLeaks’ destruction as follows: click
Greenwald heeft op zijn site een interview met Julian Assange, de Australische hoofdredacteur van WikiLeaks, die vertelt dat vrijwilligers van WikiLeaks in toenemende mate worden belaagd door de Amerikaanse en andere autoriteiten. Zo is een van hen vorige week
nog gearresteerd en ondervraagd op IJsland. Van hun site:

Over the last few years, WikiLeaks has been the subject of hostile acts by security organizations. In the developing world, these range from the appalling assassination of two related human rights lawyers in Nairobi last March (an armed attack on my compound there in 2007 is still unattributed) to an unsuccessful mass attack by Chinese computers on our servers in Stockholm, after we published photos of murders in Tibet. In the West this has ranged from the overt, the head of Germany’s foreign intelligence service, the BND, threatening to prosecute us unless we removed a report on CIA activity in Kosovo, to the covert, to an ambush by a “James Bond” character in a Luxembourg car park, an event that ended with a mere “we think it would be in your interest to…”.

De reden dat de redacteuren van WikiLeaks zich op IJsland bevinden is dat het IJslandse parlement, na de publicatie van een reeks documenten die laten zien hoe aan de economische ineenstorting van het land verschillende malafide praktijken voorafgingen, wetgeving overweegt die aan klokkenluiders de beste bescherming ter wereld zou moeten geven. Dit zou van IJsland een vrijhaven voor journalisten maken.
Om af te sluiten: dit alles draait om open government, geheimhouding, internetvrijheid en uiteindelijk om de mogelijkheid voor burgers om, eenmaal geïnformeerd, inzicht te krijgen in de werking van regeringen en bedrijven, en te proberen ze te hervormen. Het soort informatiemanipulatie waar de CIA zich blijkens bovenstaand rapport aan schuldig maakt zou voor iedereen openbaar moeten zijn, zodat burgers een oordeel kunnen vormen over politieke vraagstukken, en over de regeringen die vorm geven aan deze vraagstukken. Je kunt hier aan
WikiLeaks doneren, ze helpen, of een veilige inzending doen.

Afghanistan: comment la CIA souhaite manipuler l'opinion publique française

cia.jpgAfghanistan : comment la CIA souhaite manipuler l’opinion publique française

WASHINGTON (NOVOpress) – Dans une note préparée par sa « cellule rouge », chargée des propositions et analyses novatrices, l’agence de renseignement américaine propose de manipuler l’opinion publique française afin de la rendre plus favorable à l’intervention en Afghanistan, et ainsi faciliter l’envoi de renforts français sur le théâtre d’opérations.

Selon ce document, en France et en Allemagne, « l’apathie de l’opinion publique permet aux dirigeants de ne pas se soucier de leurs mandants ». En effet, bien que 80% des Français et des Allemands soient opposés à la guerre, « le peu d’intérêt suscité par la question a permis aux responsables de ne pas tenir compte de cette opposition et d’envoyer des renforts ».

Mais l’agence rappelle le précédent des Pays Bas où la coalition au pouvoir a éclaté sur la question afghane, et s’inquiète d’un possible revirement de l’opinion si les prochains combats sur place sont meurtriers.

Pour les rédacteurs, il convient donc de préparer les opinions publiques à accepter des pertes, notamment en cherchant à établir un lien entre l’expédition afghane et les préoccupations internes.

Pour obtenir ce résultat, plusieurs axes sont proposés par les agents américains :

- La question des réfugiés. L’importance accordée en France à la question des réfugiés, soulignée par la vague de protestation qui a accompagné la récente expulsion de douze afghans, offrant un premier axe de propagande consistant à persuader les Français que l’OTAN vient en aide aux civils.

- Le féminisme et la condition des femmes. Le document propose ainsi d’insister sur les progrès réalisés dans l’éducation des femmes, qui seraient compromis par un retour des talibans. La CIA recommande d’ailleurs de faire délivrer les messages favorables à l’intervention occidentale par des femmes afghanes.

- L’Obamania. Le crédit dont jouit le président Obama en Europe pourrait également être mis à profit, son implication plus directe permettant sans doute de renforcer le soutien à l’intervention.


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vendredi, 02 avril 2010

Vers une guerre commerciale entre la Chine et les Etats-Unis?

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Vers une guerre commerciale entre la Chine et les États-Unis?

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« Le ciel qui surplombe le commerce mondial est noir de nuées d’orage. Les tambours de guerre battent de plus en plus fort. Certains guettent déjà l’équivalent de l’assassinat de l’archiduc François-Ferdinand. Une étincelle suffirait à embraser la planète. » Voilà, dans le journal boursier britannique The Financial Times, l’introduction d’un article consacré aux relations commerciales sino-américaines. L’assassinat de l’archiduc avait été le prélude de la la Première Guerre mondiale. Le risque est réel de voir, le 15 avril, un rapport du trésor américain sur la monnaie chinoise provoquer le choc qui, à son tour, déclencherait la guerre commerciale entre les États-Unis et la Chine. Personne, dans le monde, n’échapperait aux retombées d’une telle guerre.

Depuis quelques mois déjà, d’agressifs sinophobes mènent tambour battant une offensive contre la monnaie chinoise, le yuan. Le sénateur de Pennsylvanie Arlen Specter disait en février : « Les Chinois raflent nos marchés et nos emplois. Entre 2001 et 2007, ils nous ont volé 2,3 millions d’emplois. Les subsides à leur industrie et la manipulation de leur monnaie sont des formes de banditisme international. »

Obama confirme que la Chine doit tolérer pour le yuan un cours de change « centré sur le marché .» Le cours bas du yuan coûte à notre pays des centaines de milliers, voire des millions d’emplois, ajoute le président. Un porte-parole de la Maison-Blanche menace : « Si la Chine ne corrige pas le cours du yuan, les États-Unis seront mis sous pression afin de prendre des mesures contre cette situation. »

Quelques jours plus tard, 130 sénateurs et membres de la Chambre des représentants adressent au président une lettre dans laquelle ils exigent que le gouvernement américain prenne des mesures au cas où les Chinois s’obstinent à ne pas relever le cours de leur monnaie. Le représentant du Maine, Michael Maud, déclare : « Si notre gouvernement n’entreprend aucune action, il met un frein à la relance économique, il entrave la possibilité pour les industriels et les petites entreprises des États-Unis d’étendre leur production et d’accroître l’emploi. »

Le raisonnement est donc le suivant : les produits chinois sont bon marché parce que le cours de la monnaie chinoise est très bas. Les marchés américains sont de ce fait inondés de produits chinois, ce qui fait que les usines américaines ne trouvent plus de débouchés. Et, ainsi, le chômage augmente. Les Chinois doivent réduire leurs importations en réévaluant le yuan. De la sorte, leurs produits aux États-Unis coûteront plus cher, les usines américaines tourneront mieux et pourront mettre plus de gens au travail.

Voilà le raisonnement. La question est celle-ci : qu’y a-t-il de vrai, dans tout cela ?

Le yuan est-il coupable ?

En 2004 déjà, nombre de membres du Parlement américain exigent que le gouvernement chinois relève le cours du yuan de quelque 25 pour cent. En juillet 2005, le gouvernement chinois décide de ne plus fixer le cours du yuan, mais de le laisser évoluer de façon limitée selon une baisse ou une hausse de son cours de tout au plus 0,3 pour cent par jour. Ce faisant, à la mi-2008, le yuan a grimpé de 21 pour cent par rapport au dollar. Durant cette période, l’afflux de marchandises chinoises aux États-Unis ne diminue pas. La réévaluation de 21 pour cent n’a pas résolu le problème. Aujourd’hui, les Américains exigent à nouveau une réévaluation du yuan.

 

La mémoire américaine aurait sans doute besoin de phosphore, mais pas celle des Chinois. Ceux-ci n’ont toujours pas oublié comment, dans les années 70 et 80, les Américains étaient venus insister chez leurs alliés japonais afin qu’ils réévaluent le yen et ce, pour les mêmes raisons, précisément, que celles invoquées aujourd’hui pour la réévaluation du yuan. Pour commencer, les Japonais avaient relevé leur monnaie de 20 pour cent. Et ils l’avaient fait cinq ou six fois d’affilée. En 1970, il fallait payer 350 yen pour un dollar. Aujourd’hui, 90 yen. Pour une réévaluation, c’en est une ! Mais le Japon exporte toujours beaucoup plus de produits vers les États-Unis qu’il n’en importe des mêmes États-Unis. Ceux-ci ont désormais un déficit commercial vis-à-vis du Japon qui, calculé par habitant, est même très supérieur au déficit commercial américain vis-à-vis de la Chine. Et ce, malgré l’énorme réévaluation du yen japonais.

Bon nombre d’économistes américains n’embraient pas sur cette campagne contre la Chine. Ainsi, Albert Keidel, du Georgetown Public Policy Institute, qui déclare : « Je ne suis absolument pas convaincu que les autorités chinoises manipulent le yuan et que son cours est trop bas. Comment peut-on d’ailleurs déterminer si un cours est trop bas ? Il n’existe pas de méthode concluante pour ce faire. »

Pieter Bottelier est un économiste du Carnegie Endowment for International Peace (Fondation Carnegie pour la paix mondiale). Il dit : « Prétendre que la Chine manipule le yuan est absurde. La preuve en est, d’ailleurs, qu’après la chute de Lehman Brothers, le dollar a grimpé. Le yuan a grimpé en même temps. Si les Chinois manipulaient leur monnaie, ils l’auraient bien empêché de grimper. »

Robert Pozen, économiste de la Harvard Business School, n’est pas convaincu non plus de la chose. Il déclare : « Imaginez que les Chinois réévaluent leur monnaie de 15 pour cent. Cela changerait-il quelque chose ? À peine ? »

Daniel Griswold, directeur du Center for Trade Policy Studies à l’Institut Cato de Washington, ne suit pas non plus cette croisade contre le yuan. Il estime : « Un yuan réévalué n’apporterait pas beaucoup d’oxygène à l’économie américaine, pas même s’il était réévalué de 25 pour cent. Depuis 2002, le dollar a perdu beaucoup de sa valeur par rapport au dollar canadien et à l’euro européen et, pourtant, notre déficit commercial via-à-vis du Canada et de l’Europe ne cesse de s’accroître. La réévaluation d’une autre monnaie est rarement une solution aux problèmes internes d’une économie. »

Stephen Roach, chef pour l’Asie de la banque d’affaires américaine Morgan Stanley, ne veut pas entendre parler du lauréat du prix Nobel Paul Krugman qui, dans deux pièces d’opinion publiées dans le New York Times, réclamait des taxes à l’importation sur les produits chinois afin d’augmenter de la sorte de 25 à 40 pour cent le prix de ces produits aux États-Unis. Roach explique : « Le conseil de Krugman est particulièrement mauvais et complètement déplacé. Le yuan est en réalité une bouée éclairante dans la tempête qui nous entoure. Il y a chez nous des gens qui s’époumonent contre la Chine mais qui ne voient pas que les problèmes de notre économie se situent dans notre économie même. Il est temps que Krugman soit fermement remis à sa place. »

Même le Wall Street Journal écrit : « On ne peut en croire ses oreilles. Il y a réellement des hommes politiques et des hommes d’affaires américains qui prétendent que la cause de nos problèmes réside chez les Chinois. Ils utilisent le yuan comme bouc émissaire. »

Le Fonds monétaire international ne pense pas non plus que la réévaluation du yuan puisse être très salutaire : « Une réévaluation du yuan chinois aidera un peu l’économie américaine, mais ne résoudra pas les problèmes internes. Si le yuan chinois est réévalué de 20 pour cent et s’il se passe la même chose avec la monnaie des autres marchés asiatiques en pleine croissance, l’économie américaine pourra peut-être connaître une croissance de 1 pour cent. »

Ces économistes et institutions renvoient aux problèmes internes de l’économie américaine. Examinons l’un des principaux problèmes de cette dernière

Plus de produits avec moins de main-d’œuvre

Les États-Unis, soit à peine 5 pour cent de la population mondiale, produisent presque 25 pour cent de ce qui est produit annuellement dans le monde en marchandises et services. Il y a dix ans, ils n’en étaient encore qu’à 20 pour cent. Malgré la montée de la Chine, malgré « l’envahissement du marché américain, » la part des États-Unis dans la production mondiale a augmenté, passant d’un cinquième à un quart. La production s’étend, la part américaine de la production mondiale augmente. On se poserait la question : De quoi se plaint l’establishment américain, en fait ? Mais le problème est celui-ci : Cette production de plus en plus importante est réalisée par de moins en moins de travailleurs.

 

Le ministère américain de l’Emploi dit qu’en 1979, 19,5 millions de personnes travaillaient dans le secteur industriel (manufacturier) américain. Vingt-six ans plus tard, au premier trimestre 2005, ils sont encore 14,2 millions. La production réalisée par ces 14,2 millions de travailleurs en 2005 était le double de celle des 19,5 millions de 1979. Avec 25 pour cent de travailleurs en moins, on produit deux fois plus. Au cours des 15 premières années qui ont suivi 1979, date de départ du calcul du ministère de l’Emploi, il y avait peu de produits chinois sur le marché américain et, pourtant, les emplois disparaissaient constamment en masse. Le ministère estime qu’un pour cent seulement de ces emplois liquidés sont dus à l’influence de la Chine.

Au cours des 10 années écoulées, chaque travailleur aux États-Unis a produit en moyenne 2,5 pour cent de plus chaque année. Cette hausse de la productivité n’est pas utilisée pour alléger le travail, pour augmenter les salaires, pour appliquer une diminution de la durée du temps de travail ni non plus pour créer plus d’emplois. Les entrepreneurs américains font précisément le contraire : le fruit accru du travail est utilisé pour supprimer des emplois.

Pour les hommes politiques et le monde économique des États-Unis, il est plus facile de montrer du doigt la Chine et le yuan que de vérifier où en sont les choses dans l’économie américaine et de tenter de dégager une solution à ce problème.

L’impact positif de la Chine sur l’économie américaine

Le fait de montrer la Chine du doigt est encore plus étonnant quand on examine tout ce que l’économie américaine doit à la Chine. L’an dernier, au plus fort de la crise, les exportations globales des États-Unis baissaient de 17 pour cent, mais les exportations des États-Unis vers la Chine, par contre, ne régressaient que de 0,22 pour cent. Une aubaine, pour l’économie américaine.

Quelque 50.000 entreprises américaines sont actives en Chine. L’écrasante majorité y gagne beaucoup d’argent. Pour certaines, la Chine constitue même un ange salvateur. Le Financial Times écrit : « Si la General Motors croit en Dieu, elle doit sans doute être en train de prier à genoux pour le remercier de l’existence de la Chine. L’an dernier, la vente des voitures GM en Chine a augmenté de 66 pour cent, alors qu’aux États-Unis, elle baissait de 30 pour cent. Sans la Chine, la GM n’aurait pu être sauvée. »

Les chiffres de vente élevés de la General Motors et de la plupart des autres entreprises américaines en Chine ne sont possibles que parce que l’économie et le pouvoir d’achat de la population y croissent rapidement. C’est une bonne chose, non seulement pour les entreprises américaines en Chine, mais pour toute l’économie mondiale. La Chine est devenue le principal moteur économique de la planète. Le journal du dimanche britannique The Observer écrit : « La Chine tient la barre de la relance mondiale. Elle aide le reste de l’Asie et des pays comme l’Allemagne, qui exporte beaucoup vers elle, à sortir de la récession. La Chine est l’un des principaux facteurs à avoir empêché, en 2009, que le monde ne s’enfonce encore plus dans la crise. »

The Economist écrit dans le même sens : « La Chine connaît une croissance rapide alors que les pays riches sont en récession. Comment osent-ils montrer la Chine du doigt ? »

Chris Wood, un analyste du groupe financier CLSA Asia-Pacific Markets, dit que la Chine s’emploie davantage que les États-Unis à faire face à la crise. Les autorités chinoises accroissent le pouvoir d’achat des gens et c’est un puissant stimulant pour l’économie, ajoute-t-il.

Les chiffres lui donnent raison. Selon le bureau d’étude Gavekal-Dragonomics, le revenu net des ménages chinois dans la période 2004-2009 a augmenté en moyenne et par an de 7,7 pour cent à la campagne et de 9,7 pour cent dans les villes. Depuis le début de la crise, cette tendance s’amplifie encore. On peut le voir dans le tableau ci-dessous, qui reprend les divers indicateurs de l’économie chinoise pour les deux premiers mois de cette année.

Les indicateurs économiques en Chine, évolution en pour cent par rapport à la même période en 2009

jan-fév 2010
Croissance valeur industrielle ajoutée + 20,7 %
Production d’électricité + 22,1 %
Investissements (croissance réelle) + 23,0 %
Vente au détail (croissance réelle) + 15,4 %
Exportations + 31,4 %
Importations + 63,6 %
Vente de biens immobiliers + 38,2 %
Revenu autorités centrales + 32,9 %

Source : Dragonweek, Gavekal, 15 mars 2010, p. 2

Aucune économie occidentale ne peut présenter de tels chiffres. Les indicateurs économiques occidentaux n’atteignent même pas 10 pour cent des indicateurs chinois. Comme l’écrit The Economist : « Comment osent-ils montrer la Chine du doigt ? »

Parcourons un peu la situation :

–les États-Unis savent que l’économie chinoise est un moteur de progrès pour toute l’économie mondiale et également, de ce fait, pour l’économie américaine ;
–ils savent que le yuan a à peine un effet négatif sur l’emploi aux États-Unis mêmes ;
–ils savent que c’est le Canada et non la Chine qui est le premier exportateur vers les États-Unis ;
–ils savent que 56 pour cent des exportations chinoises vers les États-Unis ne sont pas dues à des firmes chinoises mais viennent de multinationales américaines ;
–ils savent qu’un produit étiqueté « Made in China » aux États-Unis devrait généralement porter une étiquette « Made in China, the US, Japan, S-Korea, Taiwan, Thailand, Indonesia, Philippines, Vietnam, Singapore, Malaysia » car, pour 55 pour cent des exportations chinoises, la Chine n’est que le lieu où les diverses composantes sont assemblées, alors que ces composantes ont été produites en dehors de la Chine ;
–ils savent que, du prix de vente des produits assemblés en Chine, une petite part seulement va à la Chine et la plus grosse part va aux producteurs des composantes de ces produits ;
–ils savent que, du fait que l’assemblage est confié à la Chine, les autres pays est-asiatiques exportent beaucoup moins vers les États-Unis, mais bien plus vers la Chine et que le total des exportations est-asiatiques, chinoises y compris, vers les États-Unis, ne sont pas plus importantes, mais moins importantes, qu’il y a dix ans.

Et, pourtant, la Chine et son yuan sont les têtes de Turcs. Daniel Griswold, du Center for Trade Policy Studies, déclare : « L’attitude agressive de Washington à l’égard de Beijing est inspirée par des considérations politiques et non économiques. »

Les motivations

Les États-Unis exigent que le yuan soit réévalué mais ils exigent également, et c’est plus important, que le yuan soit libéré. Actuellement, c’est la Banque nationale chinoise, qui détermine quotidiennement le cours du yuan – depuis juillet 2008, son cours est d’entre 8,26 et 8,28 yuan pour un dollar. Le président Obama a dit : « Le cours du yuan doit être davantage centré sur le marché. » Ce qui signifierait que son cours ne serait plus déterminé par la Banque nationale, mais par le marché. Ce serait une défaite pour l’économie planifiée chinoise et une victoire pour le marché. Car, alors, l’État perdrait l’un des moyens de sa politique financière indépendante et souveraine. L’UNCTAD, l’organisation des Nations unies pour le commerce et le développement, voit où les États-Unis veulent en venir et écrit dans un rapport concernant les dangers entourant le yuan : « Le repos et le calme après la tempête financière sont tout à fait révolus. Le casino qui s’est vidé voici un an, est à nouveau rempli. Une fois de plus, on joue et on parie jusqu’à plus outre. De même, la foi inébranlable dans le fondamentalisme du marché est tout à fait revenue. Cette foi naïve estime toujours que les problèmes économiques peuvent être résolus en confiant le cours des monnaies aux marchés financiers sauvages. Ceux qui pensent que la Chine va permettre aux marchés absolument non fiables de déterminer le cours de sa monnaie ne se rendent pas compte à quel point la stabilité interne de la Chine est importante pour la région et pour le monde. »

En d’autres termes, laisser le cours du yuan au marché, c’est la même chose que de confier vos enfants à un pédophile. Mais l’offensive des États-Unis contre le « cours très bas » du yuan et contre « l’emprise de l’État chinois sur la monnaie » encourage un groupe d’économistes et d’entrepreneurs chinois à réitérer leur appel en faveur d’« une monnaie plus libre, centrée sur le marché. » Les points de vue en faveur du marché et de moins d’intervention de l’État gagnent en force dans une certaine section du monde économique et universitaire chinois et ce n’est surtout pas pour déplaire aux États-Unis.

 

La deuxième raison de l’offensive américaine contre la politique financière du gouvernement chinois est à chercher aux États-Unis mêmes. Le chômage U6 aux États-Unis est à 16,8 pour cent. U6 désigne le chômage officiel plus les chômeurs qui ne cherchent plus de travail parce qu’ils sont convaincus qu’ils ne trouveront quand même pas d’emploi, plus les travailleurs à temps partiel qui aimeraient bien travailler à temps plein mais ne parviennent pas à trouver un emploi de ce type. Le chômage effrayant de 16,8 %, la crise économico-financière la plus grave depuis 1929, l’incertitude quant à savoir si l’Amérique va sortir de la crise et si les entreprises et les familles seront encore en mesure de rembourser leurs dettes, l’incapacité du gouvernement et des entreprises à éviter toute cette misère… tout cela renforce la question : Qui a provoqué cela ? Qui doit en payer la facture ? La Chine est un coupable tout indiqué. Si l’opinion publique emprunte cette direction, les problèmes internes et les contradictions mêmes de l’économie américaine n’apparaîtront pas à la surface. Le journal Monthly Review écrit : « L’intention consiste à convaincre les travailleurs américains que la cause des problèmes ne réside pas dans le système économique même mais dans le comportement d’un gouvernement étranger. »

Tertio, la Chine est également une cible pour une partie de plus en plus importante du monde politique et du monde des affaires des États-Unis pour des raisons géostratégiques. Dans le monde entier, la Chine grignote l’influence américaine. Avant notre ère et jusqu’au milieu du 19e siècle, le centre du monde a été l’Est de l’Asie. Après cela, il s’est déplacé vers l’Europe occidentale et les États-Unis. Aujourd’hui, il retourne vers l’Est de l’Asie. Les États-Unis cherchent des moyens de contrer ce processus et de l’inverser. Ils ne tolèreront pas de ne plus occuper la première place dans le monde. La Chine est de ce fait cataloguée comme un facteur négatif, menaçant. D’où le fait qu’on voit paraître aujourd’hui, aux États-Unis, des ouvrages comme « La Chine est-elle un loup dans le monde ? », de George Walden, et dans lequel le pays est décrit comme une menace de mort pour le monde entier, pour la liberté et la démocratie. Et d’où le fait aussi qu’un film comme « Red Dawn »  (L’aube rouge) va bientôt sortir dans les salles américaines. Allez le voir et vous découvrirez avec effroi comment l’Armée populaire chinoise envahit la ville de Detroit.

Comment réagissent les autorités chinoises ?

Depuis 1991, les relations entre la Chine et les États-Unis sont plus ou moins stables. Cela parce que des dizaines de milliers d’entreprises américaines présentes en Chine gagnent à ce qu’il en soit ainsi. Cela tient également du fait que la Chine est le principal financier extérieur de la dette publique américaine. Et que l’exportation de tant de produits chinois vers les États-Unis tempère la hausse des prix à la consommation, ce qui est positif pour l’économie américaine.

Il semble toutefois que les motivations d’une bonne relation commencent à céder le pas devant les motifs d’attitude agressive envers la Chine. L’offensive des gens qui détestent la Chine fait céder les partisans américains des bonnes relations. Le journal britannique The Telegraph décrit le climat comme suit : « On est convaincu que les relations américano-chinoises sont importantes, mais on ne pense pas qu’une collision frontale entre les deux mènerait à une destruction mutuelle. Washington sortira vainqueur de la lutte. » Cette conviction fait reculer les entreprises américaines qui, ensemble, ont investi 60 milliards de dollars en Chine. Myron Brilliant, vice-président de la Chambre américaine de commerce, déclare : « Je ne pense pas que le gouvernement chinois puisse espérer que le monde américain des affaires va arrêter notre parlement. Notre Chambre de commerce reste un pont entre la Chine et les États-Unis, mais nous ne pouvons plus retenir les loups. »

 

En attendant, le gouvernement chinois résiste pied à pied. Il ne pliera en aucun cas face aux pressions américaines. En ce moment, le gouvernement examine comment les secteurs des importations et des exportations réagiront lors d’une réévaluation du yuan. Les autorités ont l’intention de réévaluer légèrement le yuan, entre 4 et 6 pour cent, pour des raisons macroéconomiques. Une réévaluation rendra les produits chinois plus chers, mais les produits importés seront meilleur marché. L’an dernier, la Chine a importé 1.000 milliards de dollars ; la réévaluation du yuan peut être salutaire à la diminution de l’important excédent commercial. La réévaluation conviendra également à la politique visant à transformer l’appareil économique en le faisant passer d’une production à bas prix à une production de valeur élevée. Et, conformément aux intentions des autorités chinoises, la réévaluation peut également déplacer certaines parties de l’appareil économique vers l’intérieur et l’Ouest du pays. Bref : si une réévaluation a bel et bien lieu, ce sera parce qu’elle cadrera avec la politique macroéconomique.

Mais une réévaluation légère du yuan sera absolument insuffisante aux yeux des gens hostiles à la Chine. Ils veulent une réévaluation d’entre 27 et 40 pour cent. La prochaine étape des « loups » (dixit Myron Brilliant, le vice-président de la Chambre américaine de commerce) sera le rapport semestriel du Trésor américain, qui sortira au plus tard le 15 avril. Il y a de fortes chances que le Trésor accuse la Chine de manipuler le yuan. Ce sera le signal, pour des membres de la Chambre des représentants, d’instaurer des taxes élevées à l’importation sur toute une série de produits chinois. Le Financial Times écrit : « Ca revient à utiliser une bombe atomique. » Car les autorités chinoises prendront des contre-mesures. La guerre commerciale sera alors un fait. La plus importante relation bilatérale dans le monde, celle qui existe entre les États-Unis et la Chine, va sombrer tout un temps dans un mutisme mutuel, avec toutes les conséquences qu’on devine pour les problèmes mondiaux qui ne pourraient être résolus que dans une approche collective.

Cet article a été écrit par Peter Franssen, rédacteur de www.infochina.be, le 26 mars 2010.

Sources
(dans l’ordre d’utilisation)
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-Gideon Rachman, « Why America and China will clash » (Pourquoi l’Amérique et la Chine vont se heurter), The Financial Times, 18 janvier 2010.
-Foster Klug, « US lawmakers attack China ahead of Nov. Elections » (Les législateurs américains attaquent la Chine bien avant les élections de novembre), Associated Press, 15 mars 2010.
-Andrew Batson, Ian Johnson et Andrew Browne, « China Talks Tough to U.S. » (Le langage musclé de la Chine à l’adresse des USA), The Wall Street Journal, 15 mars 2010.
-« US lawmakers urge action on renminbi » (Les législateurs américains veulent hâter les mesures sur le renminbi), The Financial Times, 15 mars 2010.
-Leah Girard, « US Clash w/ China of Currency Manipulation Heats Up » (Le choc entre les États-Unis et la Chine à propos de la manipulation des devises s’échauffe), Market News, 17 mars 2010.
-Xin Zhiming, Fu Jing et Chen Jialu, « Yuan not cause of US woes » (Le yuan n’est pas la cause des malheures américains), China Daily, 17 mars 2010.
-« Stronger yuan not tonic for US economy » (Un yuan plus fort n’aurait rien de tonique pour l’économie américaine), Xinhua, 18 mars 2010.
-Li Xiang, « Sharp revaluation of yuan would be ‘lose-lose’ situation » (Une forte réévaluation du yuan serait une opération perdante pour les deux pays), China Daily, 22 mars 2010.
-« The Yuan Scapegoat » (Le yuan, bouc émissaire), The Wall Street Journal, 18 mars 2010.
-« RMB is not a cure-all for US economy: IMF » (Le renminbi n’a rien d’une panacée pour l’économie américaine, prétend le FMI), Xinhua, 17 février 2010.
-Dan Newman et Frank Newman, « Hands Off the Yuan » (Ne touchez surtout pas au yuan), Foreign Policy in Focus, 16 mars 2010.
-William A. Ward, Manufacturing Productivity and the Shifting US, China and Global Job Scenes – 1990 to 2005 (La productivité manufacturière et le déplacement de la scène de l’emploi américaine, chinoise et mondiale – de 1990 à 2005), Clemson University Center for International Trade, Working Paper 052507, Clemson, 2005, p. 6.
-Daniella Markheim, « Le yuan chinois : manipulé, mal aligné ou tout simplement mal compris ?), Heritage Foundation, 11 septembre 2007.
-Brink Lindsey, Job Losses and Trade – A Reality Check (Pertes d’emplois et commerce – un contrôle de la réalité), Trade Briefing Paper, Cato Institute, n° 19, 17 mars 2004.
-« Premier Wen Says China Will Keep Yuan Basically Stable » (La Premier ministre Wen affirme que la Chine va maintenir la stabilité fondamentale du yuan), Xinhua, 14 mars 2010.
-Patti Waldmeir, « Shanghai tie-up drives profits for GM » (Shanghai fait grimper les bénéfices de GM), The Financial Times, 21 janvier 2010.
-Ashley Seager, « China and the other Brics will rebuild a new world economic order » (La Chine et les autres pays du BRIC vont rebâtir un nouvel ordre économique mondial), The Observer, 3 janvier 2010.
-« Currency contortions » (Contorsions monétaires), The Economist, 19 décembre 2009.
-« Fear of the dragon » (La crainte du dragon), The Economist, 9 janvier 2010.
-DragonWeek, Gavekal, 8 février 2010, p. 2.
-Daniel Griswold, « Who’s Manipulating Whom ? China’s Currency and the U.S. Economy » (Qui manipule qui ? La monnaie chinoise et l’économie américaine), Trade Briefing Paper, Cato Institute, n° 23, 11 juillet 2006.
-« China and the US Economy » (La Chine et l’économie américaine), The US-China Business Council, janvier 2009, p. 2.
-Ambrose Evans-Pritchard, « Is China’s Politburo spoiling for a showdown with America ? » (Le Politburo chinois cherche-t-il une confrontation avec l’Amérique ?), The Telegraph, 14 mars 2010.
-Martin Hart-Landsberg, « The U.S. Economy and China: Capitalism, Class, and Crisis » (L(« conomie américain et la Chine : capitalisme, classe et crise), Monthly Review, Volume 61, n° 9, février 2010.
-« Global monetary chaos: Systemic failures need bold multilateral responses » (La chaos monétaire mondial : les échecs systémiques nécessitent d’audacieuses réponses multilatérales), UNCTAD, Policy Brief n° 12, mars 2010.
-Ho-fung Hung, « The Three Transformations of Global Capitalism » (Les 3 transformations du capitalisme mondial), et Giovanni Arrighi, « China’s Market Economy in the Long Run » (L’économie de marché chinoise dans le long terme), tous deux dans : Ho-fung Hung, China and the Transformation of Global Capitalism (La Chine et la transformation du capitalisme mondial), John Hopkins University Press, Baltimore, 2009, pp. 3-9 et 23.
-Ambrose Evans-Pritchard, op. cit.
-James Politi et Patti Waldmeir, « China to lose ally against US trade hawks » (La Chine va perdre un allié contre les faucons du commerce américain), The Financial Times, 21 mars 2010.
-Keith Bradsher, « China Uses Rules on Global Trade to Its Advantage » (La Chine utilise à son propre profit les règles du commerce mondial), The New York Times, 14 mars 2010.

La nouvelle doctrine de l'OTAN: l'immixtion globale

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

La nouvelle doctrine de l’OTAN : l’immixtion globale

 

Que l’on ne se fasse pas d’illusions : la guerre dans les Balkans n’est qu’un début. Les « interven­tions huma­ni­tai­res », comme celle qui vient d’avoir lieu en Yougoslavie seront monnaie courante dans l’avenir. Ces inter­ven­tions tous azimuts constituent vraisemblablement la nouvelle doctrine de l’OTAN, qui fête ainsi son cin­quan­tième anniversaire. Pourtant, il y a un demi siècle, l’Alliance At­lan­tique se voulait exclusivement un pacte de défense, fondé pour contrer la menace communiste. Aujourd’hui ce principe de défense est caduc, faute de com­munisme. Les nuées de chars d’assaut de l’Est, prompts, disait-on, à foncer vers l’Atlantique en 48 heures, n’exis­tent plus. Que fait l’OTAN, devant cette nouvelle donne ? Elle se mue en gendarme du monde !

 

Le glas sonne pour l’ONU

 

Le principe de défense n’est plus qu’une référence marginale dans la nouvelle doctrine de l’OTAN. Les stratè­ges de Bruxelles et du Pentagone pensent désormais en de nouvelles catégories et élaborent de nouveaux scé­na­rii. Pour l’avenir, il suffira de constater des « actes de terreur », des « sabotages », une « interruption dans le trafic de ressources vitales » ou des « mouvements in­con­trôlés de grands nombres de personnes, surtout s’ils sont la conséquence de conflits armés », pour mobiliser l’Alliance. Dans le futur, l’OTAN entend entrer en ac­tion pour « éviter » et « apaiser » des situations de crise. Mieux : la simple « stabilisation et la sécurité de l’es­pa­ce euro-atlantique » suf­fisent comme motifs d’intervention. C’est un blanc-seing pour intervenir dans tous les coins du glo­be. Rien de plus, rien de moins.

 

Jusqu’ici, il fallait, du moins formellement, un mandat des Nations-Unies pour autoriser l’interven­tion de l’Al­lian­ce. Cette restriction est désormais également caduque. Dans le texte fondant la nouvelle stratégie de l’OTAN, présenté à Washington en avril, les interventions de l’Alliance doivent simplement se référer aux prin­ci­pes de bases de la Charte de l’ONU et être en accord avec ceux-ci. Mais cette stipulation n’est pas con­trai­gnante. L’ONU ou l’OSCE ne doivent plus servir que comme « baldaquin » à des opérations communes, selon les cas qui se présentent. L’important, c’est que tous les pays membres de l’OTAN marquent leur accord. En con­sé­quence de quoi, l’Alliance, en pratique, peut frapper à tout moment n’importe quel pays-cible. A juste titre, l’iré­nologue de Hambourg, Hans J. Giessmann, écrit dans le quotidien berlinois taz, que « le glas a sonné pour l’ONU » et avertit ses lecteurs : «Ceux qui affaiblissent le baldaquin juridique qu’est l’ONU, sont co-respon­sables des conséquences. L’OTAN (…) pourra certainement empêcher certains Etat de faire ce qu’elle se réser­ve, elle, le droit de faire. Si la naissance de la nouvelle OTAN signifie l’enterrement de l’ONU, la conséquence, pour le monde, c’est qu’il n’y aura pas davantage de sécurité au niveau global, mais moins ».

 

On peut en conclure que l’objectif actuel de l’OTAN n’est pas d’augmenter la sécurité sur la surface de la pla­nè­te. Partout où l’OTAN est intervenue ces dix dernières années sous l’impulsion dé­ter­mi­nan­te des Etats-Unis, nous n’avons pas un bonus en matière de sécurité, mais un malus ; la stabilité est en recul, l’insécurité en crois­sance. Quant aux « droits de l’homme », prétextes de la guerre en Yougoslavie, il vaut mieux ne pas en par­ler.

 

Terreur contre les populations civiles

 

Prenons l’exemple de l’Irak : ce pays était l’un des plus progressistes du monde arabe ; il possédait un excellent système d’enseignement et une bonne organisation de la santé ; le régime baathiste était laïc et le régime de Saddam Hussein accordait davantage de libertés citoyennes que les autres pays arabes. Depuis que le pays est sous curatelle de l’ONU et est bombardé chaque semaine par l’aviation américaine (sans que l’opinion publique mondiale y prête encore attention), rien de ces acquis positifs n’a subsisté. Cette ancienne puissance régionale est tombée au niveau d’un pays en voie de développement, où règnent le marché noir, la corruption et l’état d’exception. Vous avez dit « droits de l’homme » ? Vous avez dit « stabilité » ?

 

Prenons l’exemple de la Yougoslavie : lors de son intervention dans ce pays, l’OTAN, appliquant sans retard sa nouvelle doctrine, a renoncé dès le départ à tout mandat de l’ONU et a bombardé pendant des mois un pays européen souverain, faisant ainsi reculer son niveau de développement de plusieurs décennies. Ici aussi apparaît l’ectoplasme des « droits de l’homme », que l’on défend soi-disant. On nous transmet des images de ponts détruits, de fabriques, de chemins de fer, de stations de radio et d’innombrables bâtiments civils bom­bardés, pulvérisés par les bombes ou les missiles de l’OTAN. Même CNN n’est plus en mesure de « retoucher » les photos ou les films. Début mai 98, à l’aide de nouvelles bombes au graphite, les pylônes de haute tension et les usines d’électricité de Belgrade et des environs ont été détruits, coupant l’électricité et l’eau à de larges portions du territoire serbe. A Bruxelles, les porte-paroles de l’Alliance annonçaient avec un effroyable cynisme que l’OTAN était en mesure d’allumer et d’éteindre la lumière en Yougoslavie. On peut se de­man­der quels ont été les objectifs militaires poursuivis par l’Alliance dans ces coupures d’électricité ? Les porte-paroles de l’OTAN ne répondent à cette question que par le silence. L’armée yougoslave, elle, dispose de ses propres générateurs qui, à l’instar des carburants militaires, sont profondément enterrés dans le sol, comme en Suisse. Seule la population civile subit des dommages.

 

Jamais plus la Yougoslavie ne sera la même après la guerre du Kosovo. Son appareil militaire sera affaibli (ce qui réjouira sans nul doute deux pays voisins : la Croatie et la Hongrie), mais aussi son économie et ses infra­struc­tures. On évalue d’ores et déjà que la Yougoslavie a été ramenée au ni­veau qu’elle avait immédia­tement après la seconde guerre mondiale. Les planificateurs de l’OTAN songent déjà à haute voix à détacher le Kosovo de la Serbie et à occuper cette province, à installer là-bas un pro­tec­torat avec la présence d’une armée inter­nationale. Or la République fédérative de You­­go­slavie est un Etat souverain…

 

L’enjeu réel de l’intervention dans les Balkans

 

Dans les Balkans, après l’intervention de l’OTAN, la paix ne reviendra pas et la stabilité politique sera pro­fon­dé­ment ébranlée. Répétons-le : il ne nous semble pas que la stabilité et la paix soient dans l’intérêt des stra­tè­ges de l’OTAN. Quel est alors l’enjeu réel ?

 

On aperçoit les premiers contours de l’ordre politique qui devra régner dans les Balkans sous la férule de l’OTAN. Parallèlement à l’élimination de la puissance régionale qu’était la Serbie, les Etats-Unis reviennent en Europe par le Sud-Est. Cette démarche est impérative pour les Etats-Unis, car sur la côte pacifique du bloc con­tinental eurasien, les Américains reculent. Des penseurs stra­tégiques comme Henry Kissinger et Pat Bu­chanan ont constaté que la Chine, renforcée, sera le futur concurrent de Washington dans cette région. Les per­tes en Asie doivent dès lors être compensées par une avancée stratégique en Europe.

 

Ensuite : les nouveaux partenaires junior des Etats-Unis sont (outre les satrapies européennes ha­bi­tuel­les, dont l’Allemagne), les Turcs. Un contingent turc est présent au sein de la force inter­na­tio­na­le de « paix » au Kosovo. En ayant mis hors jeu la puissance orthodoxe serbe, l’Islam se voit ren­forcé dans le Sud-Est de l’Europe. Wa­shington joue à ce niveau un jeu clair : si l’Europe réussi son in­tégration, si l’espace économique européen s’a­vè­re viable, elle acquerra, bon gré mal gré, une puis­sance géostratégique qui portera ombrage aux Etats-Unis. Si­tuation inacceptable pour le Pen­ta­go­ne. Dans les tréfonds du subconscient européen, la menace islamique-ot­to­mane dans le Sud-Est du continent n’est pas vraiment oubliée. Délibérément, les Américains la réinstallent en Europe pour déstabiliser le processus d’unification européen : ironie et cynisme de l’histoire.

 

L’élargissement de l’OTAN a une odeur de poudre

 

La carte turque est un atout majeur des stratèges américains, également dans le domaine des ap­provision­nements énergétiques. Dans la partie de poker qui se joue en Asie centrale, l’enjeu est le pétrole, entre autres matières premières. Les futures zones d’exploitation se situent sur les rives de la Mer Caspienne et dans les ex-républiques soviétiques de l’Asie centrale musulmane et turco­phone. Dans un tel contexte, on ne s’étonnera pas que l’OTAN, depuis quelques années, s’intéresse à toute coopération militaire et économique avec les Etats de la CEI dans le Sud de l’ex-URSS. L’an dernier, les troupes de l’OTAN ont participé pour la première fois à des manœuvres au Tadjikistan. Ce n’est plus qu’une question de temps, mais, si le processus actuel se poursuit, les anciennes ré­pu­bli­ques musulmanes et turcophones du « ventre mou » de l’ex-URSS appartiendront en bloc à la sphè­re d’influence atlantiste, tout comme les anciens pays du Pacte de Varsovie et l’Ukraine.

 

On le voit clairement : l’Alliance atlantique s’est fixé de nouveaux objectifs planétaires. L’ancienne doctrine pu­rement défensive (en théorie…) est un boulet au pied de l’Alliance actuelle. En consé­quen­ce, l’Alliance se trans­forme en un système interventionniste global.

 

Quoi qu’il en soit : la sécurité ne sera pas de la partie au début du XXIième siècle. Les prochains conflits sont dé­jà programmés : avec la Chine, avec la Russie (complètement désavouée), avec tou­te une série de « méchants Etats » régionaux, que la propagande américaine dénoncera quand cela s’a­vèrera opportun et oubliera tout aussi vite. Hier, c’était l’Afghanistan et le Soudan, aujour­d’hui, c’est la Yougoslavie. Et demain ?

 

D’autres cibles possibles en Europe

 

Peut-être sera-ce le Sud de la France ou les nouveaux Länder de l’Est de l’Allemagne. Je ne blague pas. Com­me l’écrivait l’hebdomadaire d’information américain Time, il y a quelques mois, dans un numéro spécial, les stra­tèges de l’OTAN se soucient déjà de futurs « foyers de crise » en Europe. L’ancienne RDA et quelques villes du Sud de la France sont des cibles potentielles, car elles sont soupçonnées d’être d’ « extrême-droite ». Au Ko­sovo, l’OTAN bombarde parce que les « droits de l’homme » y seraient bafoués. Mais en Turquie, en Israël, à Ti­mor-est, en Indonésie, les droits de l’hom­me sont bafoués depuis des décennies, sans que l’Alliance n’in­ter­vient. Qui décide où tom­be­ront les prochaines bombes ?

 

La réponse est simple. Pendant cinquante ans, l’Alliance a été un instrument destiné à sécuriser les intérêts stratégiques des Etats-Unis. Rien ne changera dans l’avenir. En revanche, ce qui est nou­veau, c’est que le Grand Frère d’Outre-Atlantique définit ses intérêts au niveau global sans ver­go­gne depuis la disparition de l’en­nemi soviétique. Cela continuera tant que le monde acceptera ses ma­nières de cow-boy.

 

Organiser la résistance à l’hégémonisme US

 

Pourtant la résistance à la nouvelle doctrine de l’OTAN s’organise. Le Président de l’Académie russe des scien­ces militaires, le Professeur Machmoud Gareïev exprime ses réserves de manière succincte et concise : « Un nouvel ordre mondial apparaît : une petite communauté d’Etats occidentaux sous l’égide américaine entend dominer et dicter le cours des événements. Le message que cette com­mu­nauté nous lance est clair : ne dérangez pas notre cercle ». Le député socialiste allemand (SPD), Hermann Scheer, manifeste son scepticisme face aux ambitions globales de l’Alliance oc­cidentale. Il écrit à propos des zones de conflit qui se dessinent en Asie : « Les Etats-Unis tentent de contrôler politiquement cette région riche en ressources ; l’Alliance doit dès lors devenir l’escorte militaire des consortiums pétroliers et gaziers (…). L’élargissement de l’OTAN en Asie a une odeur de poudre. Nous devrions ne pas nous en mêler ».

 

Conclusion : la force des uns repose toujours sur la faiblesse des autres. L’hégémonie mondiale que concocte l’OTAN est possible parce que le reste du monde ne s’en est pas soucié. Pour cette raison, il nous apparaît urgent de forger des alternatives à la domination américaine et de leur donner une assise politique. Avec les élites établies, infectées par les virus de la banque et de l’idéologie mon­dialiste, un tel projet ne sera pas possible. En revanche, si des hommes et des femmes à la pen­sée claire, capables de tirer les conclusions qui s’imposent, agissant de Madrid à Vladivostok, l’al­ter­native sera parfaitement possible. L’Internationale des peuples libres : voilà le projet qu’il fau­dra élaborer pour le XXIième siècle.

 

Karl RICHTER.

(Nation-Europa, 6/1999).

jeudi, 01 avril 2010

Quand les alliés des Etats-Unis sont aussi (etsurtout) leurs concurrents: le rôle d'espionnage universel d'"ECHELON"

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

 

 

Quand les alliés des Etats-Unis sont aussi (et surtout) leurs concurrents : le rôle d’espionnage universel d’ « ECHELON »

 

Début 1998, Steve Wright, membre d’OMEGA, une association britannique pour les droits des citoyens basée à Manchester, constate dans un rapport qu’il adresse au Parlement Européen, que tous les courriers électroniques, les conversations té­lé­pho­niques et les fax sont enregistrés par routine par le service de renseignement a­mé­ricain NSA (National Security Agency). La NSA fait suivre toutes ces données ré­col­tées en Europe à l’adresse du Quartier Général de la NSA aux Etats-Unis, à Fort Mea­de dans le Maryland. Avec raison, Wright conclut que la NSA a installé un sy­stè­me de surveillance global, dont le but est de sonder les satellites par lesquels tran­si­te la plus grande partie des communications internationales. A la différence des systèmes de surveillance électroniques, utilisés lors de la guerre froide pour sonder des organismes militaires, le système de surveillance « ECHELON » sert essen­tiel­le­ment à espionner des cibles civiles : des gouvernements, des organisations de tou­tes sortes ou des entreprises commerciales ou industrielles.

 

Quatre pays, explique Wright, se partagent, avec les Etats-Unis, les résultats de cet es­pionnage global : la Grande-Bretagne, le Canada, la Nouvelle-Zélande et l’Au­stra­lie. Les services secrets de ces quatre pays n’agissent en fait que comme four­nis­seurs subalternes de renseignements. En d’autres termes : seuls les Américains con­trôlent complètement le réseau d’espionnage ECHELON. Ensuite, dans le rap­port de Wright, on apprend également que la plus grande station d’écoute du mon­de se trouve à Menwith Hill, en Angleterre dans le Comté du Yorkshire. Cette sta­tion serait en mesure d’écouter la plupart des communications en Europe et dans les pays de l’ex-URSS.

 

Dans ce rapport de Wright, pour la première fois, on apprend officiellement dans l’UE qu’un système d’écoute global et électronique, dont le nom est ECHELON, existe ! Pendant des années, seules des informations fortuites et superficielles cir­cu­laient à propos d’ECHELON. Le premier à avoir parler du concept même d’E­CHE­LON a été le journaliste britannique, spécialisé dans les affaires d’espionnage, Dun­can Campbell. Dans un article pour le magazine New Statesman du 12 août 1988. Il y a onze ans, Campbell révélait qu’ECHELON permettait de surveiller toutes les com­munications venant et arrivant en Grande-Bretagne, à la condition que cette sur­veillance serve l’intérêt national ou favorise l’économie britannique. Récem­ment, Campbell a lui-même rédigé un rapport à la demande d’un groupe de travail de l’UE, le STOA (Scientific and Technological Options Assessments). Le titre de son rapport : Interception Capabilities 2000 (soit : Etat des techniques d’écoutes en l’an 2000). Il traitait en détail d’ECHELON.

 

Les gouvernements décident de l’utilisation du matériel récolté

 

Campbell montre notamment dans son rapport que chaque Etat, participant à E­CHE­­LON, a autorisé ses services secrets ou certains ministères, de consulter tout matériel récolté ayant une importance d’ordre économique ou de les commander. Grâce aux informations ainsi engrangées, des objectifs très divers peuvent être pour­suivis. Campbell ajoute que la décision d’exploiter ou d’utiliser ces informa­tions acquises par espionnage ne relève pas des services secrets impliqués mais des gouvernements.

 

Ce rapport ne manque pas de piquant : en effet, la Grande-Bretagne est membre de l’UE et participe à l’espionnage généralisé de tous ses partenaires. Rappelons à ce propos deux faits : le journal anglais The Independant du 11 avril 1998 constate, vu la participation de la Grande-Bretagne à ECHELON, que celle-ci participe à un con­sortium de services électroniques de renseignements, qui espionne systémati­que­ment les secrets économiques et commerciaux des Etats de l’UE. Le journal ci­tait l’avocat français Jean-Pierre Millet, spécialisé en criminalité informatique. Les partenaires de la Grande-Bretagne, disait Millet, auraient raison d’en vouloir aux Bri­tanniques, parce que ceux-ci n’ont pas abandonné leur coopération avec les A­mé­ricains. Disons aussi en passant que la France, en matière d’espionnage éco­no­mique, n’est pas un enfant de chœur. Ainsi, par exemple, l’ancien chef des ser­vi­ces secrets français, Pierre Marion, avait déclaré que la guerre faisait toujours ra­ge, y com­pris entre pays alliés, dès qu’il s’agissait d’affaires (cf. Spectator, 9 avril 1994). La grogne des Français, dans ce contexte, se justifiait non pas tant parce que la Grande-Bretagne faisait partie du cartel d’ECHELON, mais parce que la Fran­ce ne pouvait pas participer à cette gigantesque machine globale à fouiner.

 

Le nom de code ECHELON découle du terme militaire français « échelon ». ECHE­LON a été au départ conçu par les services de renseignements pour surveiller l’U­nion Soviétique. Après l’effondrement de celle-ci, ce projet, qui a coûté des mil­liards, devait servir à combattre officiellement le terrorisme international. Mais cette justification n’est qu’un rideau de fumée, destiné à dissimuler le véritable ob­jectif. D’après les informations dont on dispose, on peut désormais affirmer qu’E­CHE­LON a bel et bien été conçu prioritairement pour l’espionnage industriel et économique à grande échelle.

 

L’allié militaire officiel peut être l’ennemi économique réel

 

Dans un rapport du 29 mars de cette année, Der Spiegel évoquait que les termes-clefs, avec lesquels ECHELON fonctionne, proviennent avant tout du domaine éco­no­mique américain. Indice supplémentaire que les Américains ne se gênent nulle­ment pour combattre les concurrents étrangers de leurs entreprises par tous les mo­yens, même illicites. Cela leur est complètement égal de savoir si la firme es­pion­née appartient à un pays allié ou ennemi. Deux auteurs ont bien mis cela en exergue, Selig S. Harrison et Clyde V. Prestowitz, dans un article du périodique Fo­reign Policy (79/90) : les alliés militaires des Etats-Unis sont ses ennemis éco­no­mi­ques. Il est fort probable que les Etats-Unis nieront qu’une rivalité fondamentale les oppose aux autres puissances occidentales sur les plans des relations com­mer­cia­les internationales, ce qui les empêchera, par la même occasion, de réagir adé­quatement au niveau des règles de la concurrence.

 

L’ancien directeur du FBI, William Sessions, voit les choses de la même façon : dans un entretien, il a expliqué qu’au­jourd’hui déjà, et, a fortiori dans l’avenir, une puissance est ou sera l’alliée ou l’ennemie des Etats-Unis non seulement selon les nécessités militaires, mais aussi et surtout selon les résultats des observations que les Etats-Unis obtiendront de leurs services de renseignement dans les domaines scientifiques, techno­lo­gi­ques, politiques et éco­no­miques (cf. Washington Times, 30 avril 1992) (ndlr : autrement dit, aucune puissance européenne ou asiatique ne pourra désormais développer un programme de re­cher­ches scientifiques ou technologiques, et réussir des applications pra­tiques, sans risquer d’en­courir les foudres des Etats-Unis et d’être décrite dans les médias comme « to­ta­litaire », « dictatoriale », « communiste » ou « fasciste », ou « rou­ge-brune »).

 

L’espionnage scientifique renforce la mainmise politique

 

Philip Zelikov est encore plus clair dans son ouvrage American Intelligence and the World Economy (New York, 1996). La victoire dans la bataille pour être compétitif sur les marchés du monde est le premier point à l’ordre du jour dans l’agenda de la sécurité américaine. Même vision chez Lester Thurow, célèbre économiste amé­ri­cain du MIT (Massachusetts Institute of Technology), auteur de Head to Head : The Co­ming Battle between Japan, Europe and America (New York, 1992). Sans s’embarrasser de circonlocutions, Thurow écrit que les Etats qui dominent les plus grands marchés définissent également les règles. Il en a toujours été ainsi. Raison pour laquelle les Américains refusent même aux Etats qui participent au réseau ECHELON d’accéder à toutes les données récoltées. Ce genre de restriction est également habituel. Ainsi, par exemple, Mark Urban, dans son livre UK Eyes Alpha. The Inside Story of British Intelligence (Londres, 1996), évoque la coopération entre les services secrets britannique et américain et constate que les Américains n’ont jamais cessé de retenir des informations, de les garder pour eux seuls. Il s’agissait surtout des informations relatives aux affaires commerciales.

 

Ce détail et cette pratique de rétention expliquent les véritables motivations des Amé­ricains et de leurs partenaires dans le réseau d’écoute global ECHELON. Pour­tant il serait inexact et insuffisant d’affirmer que le seul but d’ECHELON est l’es­pion­­nage économique. Comme auparavant, l’intelligence militaire et politique oc­cu­­pe une large part des activités de ce réseau. En priorité, ECHELON sert à faire valoir ses propres intérêts de manière plus efficace.

 

Les révélations du Néo-Zélandais Nicky Hager

 

D’après les explications du Néo-Zélandais Nicky Hager, qui, avec son livre Secret Po­wer. New Zealand’s Role in the International Spy Network (1996), a permis de mieux savoir comment fonctionnait ECHELON, ce système d’espionnage n’est pas a­gen­cé de façon à contrôler et à copier chaque courrier électronique ou chaque té­lé­­copie. Le système vise plutôt à trier et à sonder de grandes quantités de commu­ni­cations électroniques. Les ordinateurs d’ECHELON filtrent au départ de mots-clefs ou de concepts-clefs, consignés dans des « dictionnaires » et, à partir de la masse d’informations récoltées, trient ce qui est intéressant pour les divers ser­vi­ces de renseignement.

 

Dans cette pratique, écrit Hager dans son article du magazine Covert Action Quar­ter­ly (56/96-97), le système de filtrage « Memex », élaboré par la firme britanni­que Memex Technology, joue un rôle primordial. Memex est en mesure de rechercher de grandes quantités de données au départ de concepts-clefs. Ces concepts-clefs englobent les noms de certaines personnalités, d’organisations, de désignations de pays ou de termes scientifiques ou spécialisés. Parmi ces concepts-clefs, on trouve les numéros de fax et les adresses électroniques de certains individus, d’organisations ou d’institutions étatiques.

 

Une chaîne mondiale d’installations d’écoute (comme, par exemple, Menwith Hill ou Bad Aibling en Bavière) a été placée tout autour du globe, pour pomper les réseaux internationaux de télécommunications. ECHELON relie entre elles toutes ces installations d’écoute, qui permettent aux Etats-Unis et à leurs alliés de surveiller une bonne part des communications qui s’effectuent sur la Terre.

 

Ce qui est substantiellement nouveau dans ECHELON n’est pas tant le fait que des ordinateurs sont utilisés pour exploiter des renseignements électroniques à l’aide de certains concepts-clefs (car c’était déjà possible dans les années 70), mais c’est surtout la capacité d’ECHELON et de la NSA de pouvoir placer en réseau tous les ordinateurs mis en œuvre et cela, à grande échelle. Cette mise en réseau permet aux diverses stations d’écoute de travailler comme autant de composantes d’un système global intégré. La NSA, le service secret néo-zélandais GCSB (Government Communications Security Bureau), le service secret britannique GCHQ (Government Communications Head Quarters), le service secret canadien CSE (Communications Security Establishment) et le service secret australien DSD (Defence Signals Directorate) sont les partenaires contractuels de l’UKUSA Signals Intelligence, un pacte entre les divers services de renseignements des puissances anglo-saxonnes. Cette alliance explique par ses origines : elle date de la coopération entre ces ser­vi­ces pendant la seconde guerre mondiale. Au départ, elle visait à faire surveiller l’URSS par les services de ren­sei­gne­ment.

 

Pomper les satellites

 

Grosso modo, ECHELON poursuit trois objectifs. D’abord contrôler les satellites per­mettant les communications internationales qu’utilisent les sociétés télépho­niques de la plupart des Etats du mon­de. Un anneau de tels satellites entoure la Terre. En règle générale, ces satellites sont posi­tion­nés à hauteur de l’Equateur. D’après ce que nous en dit Nicky Hager, cinq stations d’écoutes du ré­seau ECHELON servent à pomper ce que contiennent ces satellites.

 

Deuxième objectif : espionner les satellites qui n’appartiennent pas à Intelsat. Il s’a­­git surtout de satellites russes, mais aussi d’autres satellites régionaux de com­mu­nications. Les stations qui surveillent ces satellites-là sont, d’après Hager, Menwith Hill (Angleterre), Shoal Bay (Australie), Bad Aibling (Bavière/RFA), Misawa (Nord du Japon) et Leitrim (Canada). Cette dernière s’occupe principalement des sa­tellites latino-américains.

 

Enfin, troisième objectif d’ECHELON : coordonner les stations qui s’occupent des systèmes de communications terrestres. Celles-ci sont spécialement intéressantes car elles s’effectuent par l’intermédiaire de câbles transocéaniques et d’une tech­ni­que de haute fréquence, et véhiculent d’énormes quantités de commu­ni­cations of­ficielles, commerciales ou gouvernementales.

 

Le gouvernement allemand tolère cette surveillance tous azimuts

 

La station d’écoute très puissante de Menwith Hill dans le Nord de l’Angleterre disposerait de 22 stations satellitaires de réception. Menwith Hill sert en première instance la NSA, en tant que station terrestre des satellites-espions américains. Ceux-ci surveillent les télécommunications à ra­yon réduit comme par exemple les émetterus militaires ou les « walkie talkies ». Les stations ter­restres d’Alice Springs (Australie) et de Bad Aibling (Bavière) ont une fonction analogue.

 

En Allemagne, les autorités officielles ne veulent rien entendre de tout cela. Ainsi, l’ancien Se­crétaire d’Etat Eduard Lintner (CSU), en poste au ministère de l’intérieur de Bonn, a répondu le 30 a­vril 1998 à une question écrite, posée par le député socialiste Graf, portant sur les activités de la NSA, que le gouvernement fédéral allemand ne savait rien de plus que ce qu’avait dit la presse à ce su­jet !

 

En d’autres termes : le gouvernement fédéral allemand ne sait officiellement rien de cette in­cur­sion massive et de cette grave entorse à l’intégrité des Etats nationaux et des individus. Mais cette attaque vient d’ « Etats amis » de l’Allemagne. C’est tout dire…

 

Michael WIESBERG.

(article paru dans Junge Freiheit, n°26/99 ; redaktion@jungefreiheit.de

Site : http://www.jungefreiheit.de

mardi, 30 mars 2010

Afghanistan, narcotrafficanti sotto contratto Nato?

Afghanistan, narcotrafficanti sotto contratto Nato?

di Enrico Piovesana

Fonte: Peace Reporter [scheda fonte]



us_opium.jpgImpresa privata tedesco-albanese che da anni fornisce servizi logistici alle basi Isaf in Afghanistan, sospettata di traffico internazionale di eroina

In Germania è scoppiato uno scandalo - subito silenziato - che rafforza i sempre più diffusi sospetti sul coinvolgimento delle forze d'occupazione occidentali in Afghanistan nel traffico internazionale di eroina - di cui questo paese è diventato, dopo l'invasione del 2001, il principale produttore globale.

Ecolog, servizi alle basi Nato e traffico di eroina. Un servizio mandato in onda a fine febbraio dalla radio-televisione pubblica tedesca Norddeutsche Rundfunk (Ndr) ha rivelato che la Nato e il ministero della Difesa di Berlino stanno investigando sulle presunte attività illecite della Ecolog: multinazionale tedesca di proprietà di una potente famiglia albanese macedone - i Destani, di Tetovo - che dal 2003 opera in Afghanistan sotto contratto Nato, fornendo servizi logistici alle basi militari Isaf dei diversi contingenti nazionali (compreso quello italiano) e all'aeroporto militare di Kabul. E che, secondo recenti informative segrete e rapporti confidenziali ricevuti dalla stessa Nato, sarebbe coinvolta nel contrabbando internazionale di eroina dall'Afghanistan.
"C'è il rischio che sia stata contrabbandata droga, quindi valuteremo se la Ecolog è ancora un partner affidabile per noi", ha dichiarato alla Ndr il generale tedesco Egon Ramms, a capo della Nato Joint Force Command di Brussum, in Olanda.
"Siamo al corrente della questione e stiamo investigando con le autorità competenti", ha confermato un portavoce della Difesa tedesca ai microfoni dell'emittente pubblica.

Dietro l'impresa, il clan albanese-macedone dei Destani. Il servizio della Ndr spiega che già nel 2006 e poi nel 2008, dipendenti della la Ecolog sono finiti sotto inchiesta in Germania con l'accusa di traffico di eroina - centinaia di chili - dall'Afghanistan e di riciclaggio di denaro sporco. E che nel 2002, quando la Ecolog operava in Kosovo al servizio delle basi del contingente tedesco della Kfor, i servizi segreti di Berlino avevano informato i vertici Nato che il clan Destani, strettamente legato ai gruppi armati indipendentisti albanesi (Uck e Kla), controllava ogni sorta di attività e traffico illegale attraverso il confine macedone-kosovaro: dalla droga, alle armi, al traffico di esseri umani.
La Ecolog, che ha la sua sede principale a Düsseldorf (con filiali in Macedonia, Turchia, Emirati Arabi, Kuwait, Stati Uniti e Cina) è stata fondata nel 1998, ed è oggi amministrata, dal giovane Nazif Destani, figlio del capofamiglia Lazim, già condannato a Monaco di Baviera nel 1994 per dettenzione illegali di armi e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il 90 per cento dei quasi quattromila dipendenti della Ecolog sono albanesi macedoni.

La Ecolog smentisce e fa rimuovere il servizio giornalistico. L'esplosivo servizio della Ndr è stato subito ripreso e amplificato dai mass media tedeschi: dall'emittente nazionale Deutsche Welle al settimanale Der Spiegel.
La reazione della Ecolog è stata immediata e durissima. Thomas Wachowitz, braccio destro di Nafiz Destani, ha bollato come "assurde" e "completamente infondate" le accuse contenute nel servizio, in quanto basate su una "confusione di nomi", e ha chiesto l'intervento della magistratura.
Il 4 marzo, il tribunale federale di Amburgo ha accolto l'esposto della Ecolog, emettendo un'ingiunzione che, senza entrare nel merito del contenuto del servizio giornalistico, impedisce all'emittente Ndr di "sollevare ulteriori sospetti" sull'azienda. La Ndr, dal canto suo, ha dichiarato di ritenere false le argomentazioni della Ecolog e ha annunciato un ricorso contro l'ingiunzione.

 


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samedi, 27 mars 2010

Young Turks - The Ally That Isn't

Srdja Trifkovic:

Young Turks

The Ally That Isn't

Ex: http://www.alternativeright.com/

erdogan%20gul.jpgInside the Beltway, the fact that Turkey is no longer an "ally" of the United States in any meaningful sense is still strenuously denied. We were reminded of the true score on March 9, however, when Saudi King Abdullah presented Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdogan with the Wahhabist kingdom's most prestigious prize for his "services to Islam." Erdogan earned the King Faisal Prize for having "rendered outstanding service to Islam by defending the causes of the Islamic nation, particularly the Palestinian cause," said Abd Allah al-Uthaimin of the prize-awarding group.

Services to the Ummah

Turkey under Erdogan's neo-Islamist AKP has rendered a host of other services to "the Islamic nation." In August 2008 Ankara welcomed Mahmoud Ahmadinejad for a formal state visit, and last year it announced that it would not join any sanctions aimed at preventing Iran from acquiring nuclear weapons. In the same spirit the AKP government repeatedly played host to Sudan's President Omer Hassan al-Bashir -- a nasty piece of jihadist work if there ever was one -- who stands accused of genocide against non-Muslims. Erdogan has barred Israel from annual military exercises on Turkey's soil, but his government signed a military pact with Syria last October and is conducting joint military exercise with the regime of Bashir al-Assad. Turkey's strident apologia of Hamas is more vehement than anything coming out of Cairo or Amman. (Talking of terrorists, Erdogan has stated, repeatedly, "I do not want to see the word 'Islam' or 'Islamist' in connection with the word 'terrorism'!")

Simultaneous pressure to conform to Islam at home has gathered pace over the past seven years, and is now relentless. Turkish businessmen will tell you privately that sipping a glass of raki in public may hurt their chances of landing government contracts; but it helps if their wives and daughters wear the hijab.

Ankara's continuing bid to join the European Union is running parallel with its openly neo-Ottoman policy of re-establishing an autonomous sphere of influence in the Balkans and in the former Soviet Central Asian republics. Turkey's EU candidacy is still on the agenda, but the character of the issue has evolved since Erdogan's AKP came to power in 2002.

When the government in Ankara started the process by signing an Association agreement with the EEC (as it was then) in 1963, its goal was to make Turkey more "European." This had been the objective of subsequent attempts at Euro-integration by other neo-Kemalist governments prior to Erdogan's election victory eight years ago, notably those of Turgut Ozal and Tansu Ciller in the 1990s. The secularists hoped to present Turkey's "European vocation" as an attractive domestic alternative to the growing influence of political Islam, and at the same time to use the threat of Islamism as a means of obtaining political and economic concessions and specific timetables from Brussels.

Erdogan and his personal friend and political ally Abdullah Gul, Turkey's president, still want the membership, but their motives are vastly different. Far from seeking to make Turkey more European, they want to make Europe more Turkish -- many German cities are well on the way -- and more Islamic, thus reversing the setback of 1683 without firing a shot.

The neo-Ottoman strategy was clearly indicated by the appointment of Ahmet Davutoglu as foreign minister almost a year ago. As Erdogan's long-term foreign policy advisor, he advocated diversifying Turkey's geopolitical options by creating exclusively Turkish zones of influence in the Balkans, the Caucasus, Central Asia, and the Middle East... including links with Khaled al-Mashal of Hamas. On the day of his appointment in May Davutoglu asserted that Turkey's influence in "its region" will continue to grow: Turkey had an "order-instituting role" in the Middle East, the Balkans and the Caucasus, he declared, quite apart from its links with the West. In his words, Turkish foreign policy has evolved from being "crisis-oriented" to being based on "vision": "Turkey is no longer a country which only reacts to crises, but notices the crises before their emergence and intervenes in the crises effectively, and gives shape to the order of its surrounding region." He openly asserted that Turkey had a "responsibility to help stability towards the countries and peoples of the regions which once had links with Turkey" -- thus explicitly referring to the Ottoman era, in a manner unimaginable only a decade ago: "Beyond representing the 70 million people of Turkey, we have a historic debt to those lands where there are Turks or which was related to our land in the past. We have to repay this debt in the best way."

This strategy is based on the assumption that growing Turkish clout in the old Ottoman lands -- a region in which the EU has vital energy and political interests -- may prompt President Sarkozy and Chancellor Merkel to drop their objections to Turkey's EU membership. If on the other hand the EU insists on Turkey's fulfillment of all 35 chapters of the acquis communautaire -- which Turkey cannot and does not want to complete -- then its huge autonomous sphere of influence in the old Ottoman domain can be developed into a major and potentially hostile counter-bloc to Brussels. Obama approved this strategy when he visited Ankara in April of last year, shortly after that notorious address to the Muslim world in Cairo.

Erdogan is no longer eager to minimize or deny his Islamic roots, but his old assurances to the contrary -- long belied by his actions -- are still being recycled in Washington, and treated as reality. This reflects the propensity of this administration, just like its predecessors, to cherish illusions about the nature and ambitions of our regional "allies," such as Saudi Arabia and Pakistan.

The implicit assumption in Washington -- that Turkey would remain "secular" and "pro-Western," come what may -- should have been reassessed already after the Army intervened to remove the previous pro-Islamic government in 1997. Since then the Army has been neutered, confirming the top brass old warning that "democratization" would mean Islamization. Dozens of generals and other senior ranks -- traditionally the guardians of Ataturk's legacy -- are being called one by one for questioning in a government-instigated political trial. To the dismay of its small Westernized secular elite, Turkey has reasserted its Asian and Muslim character with a vengeance.

Neo-Ottomanism

Washington's stubborn denial of Turkey's political, cultural and social reality goes hand in hand with an ongoing Western attempt to rehabilitate the Ottoman Empire, and to present it as almost a precursor of Europe's contemporary multiethnic, multicultural tolerance, diversity, etc, etc.

In reality, four salient features of the Ottoman state were institutionalized discrimination against non-Muslims, total personal insecurity of all its subjects, an unfriendly coexistence of its many races and creeds, and the absence of unifying state ideology. It was a sordid Hobbesian borderland with mosques.

An "Ottoman culture," defined by Constantinople and largely limited to its walls, did eventually emerge through the reluctant mixing of Turkish, Greek, Slavic, Jewish and other Levantine lifestyles and practices, each at its worst. The mix was impermanent, unattractive, and unable to forge identities or to command loyalties.

The Roman Empire could survive a string of cruel, inept or insane emperors because its bureaucratic and military machines were well developed and capable of functioning even when there was confusion at the core. The Ottoman state lacked such mechanisms. Devoid of administrative flair, the Turks used the services of educated Greeks and Jews and awarded them certain privileges. Their safety and long-term status were nevertheless not guaranteed, as witnessed by the hanging of the Greek Orthodox Patriarch on Easter Day 1822.

The Ottoman Empire gave up the ghost right after World War I, but long before that it had little interesting to say, or do, at least measured against the enormous cultural melting pot it had inherited and the splendid opportunities of sitting between the East and West. Not even a prime location at the crossroads of the world could prompt creativity. The degeneracy of the ruling class, blended with Islam's inherent tendency to the closing of the mind, proved insurmountable.

A century later the Turkish Republic is a populous, self-assertive nation-state of over 70 million. Ataturk hoped to impose a strictly secular concept of nationhood, but political Islam has reasserted itself. In any event the Kemalist dream of secularism had never penetrated beyond the military and a narrow stratum of the urban elite.

The near-impossible task facing Turkey's Westernized intelligentsia before Erdogan had been to break away from the lure of irredentism abroad, and at home to reform Islam into a matter of personal choice separated from the State and distinct from the society. Now we know that it could not be done. The Kemalist edifice, uneasily perched atop the simmering Islamic volcano, is by now an empty shell.

* * *

A new "Turkish" policy is long overdue in Washington. Turkey is not an "indispensable ally," as Paul Wolfowitz called her shortly before the war in Iraq, and as Obama repeated last April. It is no longer an ally at all. It may have been an ally in the darkest Cold War days, when it accommodated U.S. missiles aimed at Russia's heartland. Today it is just another Islamic country, a regional power of considerable importance to be sure, with interests and aspirations that no longer coincide with those of the United States.

Both Turkey and the rest of the Middle East matter far less to American interests than we are led to believe, and it is high time to demythologize America's special relationships throughout the region. Accepting that Mustafa Kemal's legacy is undone is the long-overdue first step.

Srdja Trifkovic

Srdja Trifkovic

Srdja (Serge) Trifkovic, historian and foreign affairs analyst, is the author of seven books -- including a best-seller, "The Sword of the Prophet" -- and former foreign affairs editor of "Chronicles" (1998-2009). He is a regular contributor to print and broadcast media outlets in Europe and all over the English-speaking world.

Il male atlantista

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Il male atlantista

di Fabio Falchi

Fonte: fabiofalchicultura

 

L'egemonia americana è conquistata in ambito culturale: è per questo che oltre alla critica socioeconomica, c'è bisogno di una "battaglia culturale".



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anti_nato_tshirt.jpgE' noto che il filosofo tedesco Carl Schmitt, interpretando la famosa tesi di von Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ritiene che la politica sia, in un certo senso, la continuazione della guerra con altri mezzi. Categorie decisive per comprendere il Politico sarebbero pertanto due: amico o nemico. Una visione del Politico certamente realistica, che forse ha il difetto di fondarsi, in parte, su una antropologia tutt'altro che convincente come quella di Hobbes, poiché Schmitt condivide l'idea del filosofo inglese secondo cui "auctoritas non veritas facit legem". Il che implica che "auctoritas" sia contrapposta, e non solo distinta, da "veritas"; ossia un'idea che pare trascurare il nesso tra "cosmo" ("veritas") ed agire rettamente orientato ("auctoritas", diversa dalla mera potenza, dalla "potestas" che è la facoltà di imporre la propria volontà mediante la legge), che rende ragione del fatto che Roma (della cui efficienza politica e militare nessuno può seriamente dubitare) fosse sempre attenta a seguire una linea politica conforme alla propria "tradizione" ed a ciò che, ad esempio, gli stoici (non a caso, perlopiù, difensori della concezione imperiale romana) consideravano l'ordine divino del mondo.


Ciononostante, la dicotomia amico vs nemico ha il pregio di farci comprendere sia la dimensione conflittuale che di necessità contraddistingue il Politico, sia che lo Stato è essenzialmente un "campo di forze", il cui equilibrio dipende in ultima analisi dalla capacità di una classe dirigente di usare "misure e proporzioni" largamente condivise e (senza che sia esclusa la possibilità di un ricambio dei membri della élite, né di una partecipazione del popolo alla gestione degli affari pubblici, secondo forme e gradi differenziati) tali da impedire, da un lato, il formarsi tra i "governati" di gruppi così forti da poter mutare l'equilibrio (inteso come la "forma attuale" dello Stato) a loro favore; e, dall'altro, che questo equilibrio venga mutato da entità politiche "esterne", che possono essere Stati, ma anche potentati economici. Anzi, oggi pare siano proprio questi ultimi, con tutte le loro "diramazioni" (fondazioni, think tanks etc.) ad esercitare la maggiore pressione sui singoli Stati nazionali , in modo da determinarne o condizionarne gravemente la politica. Sì che la funzione dei partiti sembra essere quella di non consentire, proprio con il meccanismo delle elezioni "democratiche", ai governati di partecipare effettivamente alla vita politica ed economica del proprio Paese e, riguardo ai popoli europei, in particolare, di prendere coscienza dell'alienazione allo "straniero" della propria "sovranità". Tuttavia, è impossibile trascurare il ruolo fondamenatle che l'America, in quanto Stato, svolge non solo in Occidente ma su scala planetaria , nonostante la crisi del modello unipolare che gli americani hanno cercato di realizzare dopo il crollo dell'Urss (con il pressoché totale e servile consenso dell'Europa). Una crisi dovuta soprattutto all'emergere di nuove potenze quali la Cina e l'India, alla "nuova" Russia di Putin e alla resistenza coraggiosa di altri Paesi, come, ad esempio, l'Iran e il Venezuela (e adesso, per fortuna, anche la Turchia di Erdogan).


E' essenziale quindi comprendere il rapporto tra i "poteri forti" e la politica statunitense, essendo evidente che, comunque sia, vi è ancora necessità di un apparato statale (per motivi militari, ma anche socali, giuridici, di cultura politica, di comunicazione etc.) per occupare "posizioni dominanti" sul piano politico ed economico a livello mondiale. Senza un "potere statale forte", che avalli, sostenga, promuova l'azione dei "privati", nessun "potere forte" sarebbe possibile. Se ciò spiega la lotta tra le varie e più potenti lobbies per assicurarsi il controllo della macchina statale americana, non pregiudica però in alcun modo, piuttosto la rafforza, la "logica di sistema" che caratterizza tanto la politica interna (governo/lobbies vs popolo/cittadini) quanto la politica estera (Usa/lobbies vs altri Paesi, divisi in "amici o nemici"), sia pure con tutti i doverosi distinguo. E' alla luce di questo schema che si può capire, a mio avviso, la rilevanza della lobby ebraica internazionale (si badi, "non" gli ebrei in generale, altrimenti si confonde il tutto con la parte, con conseguenze deleterie, facilmente immaginabili) e la "copertura" quasi assoluta di cui gode ormai Israele, che si può perfino permettere di ricattare gli Usa; tanto che non è esagerato affermare che talvolta "la coda può muovere il cane". Certo gli Usa non sono un'appendice di Israele, né vi è una sola lobby che conti in America. Ma la lobby ebraica, grazie alle sue "ramificazioni multinazionali", è di fatto l'unica che può garantire l'unità di azione a "livello sistemico" dell'imperialismo economico americano e del "mercato globale" (che altro non sono che due facce della stessa medaglia), vuoi perché "attiva"nei gangli vitali di ogni Paese occidentale , vuoi perché è riuscita ad ottenere una vera e propria egemonia culturale, che consente all'atlantismo di presentarsi come la sola espressione dell'humanitas, come unico veicolo di civiltà contro ogni forma di barbarie, nonché come vero erede della cultura europea. Una egemonia culturale che si è imposta facilmente in Europa dopo la definitiva sconfitta del comunismo, considerato anch'esso, come il nazismo, il fascismo ed ora pure l'islamismo, il nemico del genere umano, il "male".
Il fatto è che troppo spesso i crtiici dell'imperialismo americano tendono a sottovalutare gli aspetti propriamente culturali, per concentrarsi esclusivamente su quelli economici e/o politici. Ed è invece questa egemonia culturale, estremamente articolata e "pervasiva", che può "legittimare" la subalternità delle classi dirigenti europee alle direttive atlantiste agli occhi delle masse e perfino agli occhi degli "scettici". In questi ultimi decenni si è addirittura assistito alla nascita di una sorta di nuova "religione", superiore a tutte le altre, la cosiddetta "religio holocaustica", fondata sull'assoluto divieto di studiare anche la persecuzione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale secondo una metotologia scientifica . Chi infrange questo divieto o perfino chi si limita a criticarlo pubblicamente rischia il carcere (in Germania, Austria e Svizzera) oppure, se vive in Francia, una sanzione economica, ma viene comunque sempre "messo al bando"( si viene espulsi dall'Università, licenziati, messi alla gogna, denigrati dai mass media senza avere la possibilità di difendersi etc.). Una "religio" che ha i suoi dogmi, i suoi riti, i suoi sacerdoti, i suoi zelanti servitori e i suoi, più o meno in malafede, fedeli. E che è l'altra faccia dell'atlantismo: simul stabunt simul cadent.
Infatti, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo si può "rappresentarla" come la lotta tra il bene e il male, tra la Grande Israele e gli Imperi del male o gli Stati canaglia, solo se la si interpreta mediante uno schema a priori, che fornisca la "regola" per "ordinare e sistemare" gli eventi, in modo da invalidare ogni critica al "sistema" in quanto tale. Democrazia liberale di tipo angloamericano, liberismo, "culto" del mercato, "fede" nella tecno-scienza, diritti universali "ricalcati "su quelli made in Usa, american way of living devono essere esportati in tutto il mondo anche con la forza, non perché si ha la possibilità di farlo, ma perché è "giusto" farlo e se non vi è ancora la capacità di farlo ovunque, ci se ne dovrebbe rammaricare. Insomma, il "sistema" non funziona o non funziona "bene" senza il consenso delle masse (poco importa che sia un consenso passivo). Perciò occorrono "persuasori" (ma non "occulti", sebbene ci siano, ovviamente, anche questi ) e "cultura" che persuada, che "formi" (si pensi alla scuola , all'Università ed ai mass media) ed in-formi, che orienti e che (questa sì!) soprattutto "occulti". Il vero potere lo si detiene quando si può fare a meno di usare il bastone (che pur si deve avere e meglio se è un "grosso bastone"). Per questo motivo è necessaria l'egemonia culturale. Anche se, o meglio proprio perché non è la nostra "cultura", ma la "cultura" del mercante occidentale, del suo denaro e delle sue banche che ci viene imposta, in quanto il giudeo-cristianesimo sarebbe la "radice"dell'Europa (tesi che è ben differente dal riconoscere che il cristianesimo - nelle sue molteplici e contraddittorie "voci" - è stato la lingua spirituale - "sincretistica", per così dire - dell'Europa durante il Medioevo). Da ciò, tra l'altro, consegue che la civiltà classica, greca e romana, non la si debba "vedere" se non attraverso il prisma del giudeo-cristianesimo e che vi sia netta separazione ed opposizione tra Oriente (la "Terra") e Occidente (il "Mare"). Si vuole così ignorare non solo che Occidente è una parola che da (relativamente ) poco tempo designa la civiltà europea, ma che l'Europa è la "Terra di Mezzo", la "congiunzione fra Terra e Mare". Una congiunzione, una "e", che invece ci indica , contrariamente a quanto ritengono gli atlantisti, da dove proveniamo e dove dovremmo far ritorno, "risalendo" al nostro autentico "inizio", ora che il "Mare" minaccia di sommergerci.
Nulla di più "incapacitante" allora di una critica del capitalismo che prescinda dai "fattori culturali" o che, fraintendendo radicalmente il "senso" del legame sociale, li intenda come "semplice" sovrastruttura della struttura economica. Il capitalismo è un "ismo", un modo di agire e pensare che "fa si-stema", in cui, appunto, "tutto si tiene". Ma si "tiene" secondo la logica dello "sradicamento", della negazione delle "differenze", per veicolare l'ideologia della "merce", dell'equivalenza universale delle "cose" e delle persone ( la "cosificazione" o mercificazione che dir si voglia), dell'astrazione quantitativa che dissolve ogni "esperienza"del tempo qualitativo, non lineare ed uniforme, e dello spazio gerarchicamente orientato. Il che spiega perché tanto più emerge la consapevolezza che la "secolarizzazione" del giudaismo (di cui lo stesso sionismo è un effetto) e del cristianesimo, al di là di ogni considerazione sugli aspetti "sapienziali e tradizionali" certamente presenti in entrambe le religioni, è a fondamento della modernità, vale a dire delle condizioni sociali e culturali per la nascita del capitalismo, nel senso stretto del termine, tanto più diventa evidente il ruolo preponderante, sotto qualsisi profilo, della "forma mentis" dell'homo oeconomicus ed il progressivo adeguarsi della cultura occidentale agli "schemi concettuali" propri del "mercante errante", senza "oikos" ed "abitatore" del tempo.
Se vi è dunque la necessità di decifrare, di volta in volta, l'azione delle lobbies atlantitste (non necessariamente americane) per smascherare i reali obiettivi della politica degli Usa, mostrandone le mistificazioni e le "incongruenze" sempre più gravi (al punto che si impiegano termini per denotare realtà esattamente opposte rispetto a quelle che dovrebbero denotare), vi è ancor più la necessità di una battaglia culturale, un "Kulturkampf", per non ripetere l'errore di privilegiare un'analisi di tipo socio-economica (ripeto, a scanso di equivoci, indubbiamente necessaria), che non può cogliere la specificità dell' "anima capitalistica", il suo carattere proteiforme, che le consente di rimanere sé medesima mutando continuamente "maschera". Una "lacuna" che, in qualche modo, è causa o, se si preferisce, una delle cause della crisi fallimentare del comunismo e del "collasso" delle politiche di stampo socialdemocratico, dal momento che non soltanto ha impedito una comprensione dei "presupposti culturali" del capitalismo, che non fosse basata su una "ingenua " e sovente "volgare" concezione progressista, ma ha addirittura favorito l'affermarsi della "cultura" dell'homo oeconomicus, che è la "conditio sine qua non" del capitalismo occidentale (sotto questo aspetto, di gran lunga più coerente dei suoi "nemici"; per usare un "linguaggio schietto", il peggiore difetto della sinistra si potrebbe designare così: volere l'arancio ma non le arance!).
Vero è che si deve pure tener conto che occidentalizzazione ed atlantismo non sono necessariamente sinonimi, ma è innegabile che attualmente siano i circoli atlantisti che perseguono il disegno di occidentalizzare l'intero pianeta, annientando "identità", lingue, costumi e qualunque complessa "iconografia" - altro termine caro a Schmitt - che non sia quella (israelo)angloamericana. Si tratta di un processo di livellamento e massificazione che può essere contrastato solo dal sorgere di un nuovo equilibrio mondiale policentrico, premessa anche per costruire un'alternativa, "razionale" e credibile, ad ogni forma di occidentalizzazione. Purtuttavia, è lecito pensare che, fino a quando l'Europa non saprà orientare il proprio "asse" geo-politico e geo-filosofico in senso eurasiatista, difficilmente l'atlantismo conoscerà una crisi irreversibile: l'illimitato "Wille zur Macht" dell'Occidente può, come il "Mare", arretrare temporaneamente, per poi ritornare con ancor maggiore forza e impeto. Non dovrebbe destare meraviglia dunque che il sistema capitalistico occidentale più "si occulta" ed "occulta" e più, brandendo la spada vendicatrice del "dio" veterotestamentario per far trionfare il "bene" sulla Terra, lasci venire allo scoperto la sua volontà di potenza. E' questo non il segno accidentale della sua "sostanza", bensì il segno più chiaro della sua vera "natura".

 

 

vendredi, 26 mars 2010

Le "Plan Bernard Lewis"

Mansur KHAN (*) :

Le « Plan Bernard Lewis »

 

Bernard_Lewis.jpgL’orientaliste Bernard Lewis (photo) a la réputation, en Occident, d’être un expert des questions islamiques. Lewis a été jadis un agent de ce département des services  secrets britanniques que l’on appelle le « Bureau arabe ». Plus tard, on l’a muté aux Etats-Unis où il a reçu des chaires de professeur au « Princetown Center for Islamic Studies » et au CSIS de l’Université de Georgetown, un institut avec lequel Henry Kissinger entretenait des contacts très étroits. Mais ses principales couronnes de laurier, Lewis les a gagnées au service d’un institut de grande notoriété, l’ « Aspen Institute ». C’est de cette instance-là que notre célèbre expert en questions islamiques a reçu la mission officielle d’élaborer un plan permettant à terme de remodeler tout le Moyen Orient pour qu’il convienne enfin aux intentions de l’élite au pouvoir aux Etats-Unis. C’est ainsi qu’est né le fameux « Plan Bernard Lewis ». Il contient des propositions détaillées pour éliminer les Etats musulmans du Proche Orient et de les remplacer par une mosaïque de petits Etats gouvernés par des régimes dictatoriaux.

 

Ce plan, toutefois, ne se limitait pas au seul Proche Orient. Il proposait également, et dans le détail, de diviser et de balkaniser toute la région s’étendant du Proche Orient au sous-continent indien. Dans les coulisses du ministère britannique des affaires étrangères, le Plan Lewis circulait allègrement et était considéré comme un programme “officieux” du gouvernement. Ce Plan recevait l’appui de l’élite au pouvoir dans le Royaume-Uni et représentée dans la Haute Chambre, autour de personnalités comme Lord Cayser, Lord Victor Rothschild et d’autres figures en vue de la maçonnerie britannique de rite écossais, sans compter le Duc de Kent. On a commencé à le traduire dans la réalité en favorisant l’implosion du Liban en 1975, sous l’impulsion du ministre américain des affaires étrangères Henry Kissinger. La mise en place du régime de Khomeiny à Téhéran fait partie intégrante de ce plan diabolique: l’Aspen Institute a constitué l’instance principale qui agissait dans le sens de ce projet, ayant notamment favorisé le prise du pouvoir par Khomeiny en Iran (1). La décision de se débarrasser du Shah est tombée lors du “Sommet de la Guadeloupe” en janvier 1979. Le Plan devait favoriser une escalade dans les tensions déjà existantes entre l’Iran et l’Irak et préparer une guerre entre les deux pays. On espérait du régime de Khomeiny qu’il accélèrerait le processus général de dissolution dans la région, comme le préconisait le Plan Lewis. Dans un document significatif, on pouvait lire ce qui suit : « Les Chiites se dresseraient contre les Sunnites et les musulmans modérés contre les groupes fondamentalistes ; des mouvements séparatistes et des entités régionales propres comme le Kurdistan ou le Baloutchistan verraient le jour » (2).

 

Khan---Geheime-Geschic.gifLors d’une conférence ultérieure du Groupe des Bilderberger, qui eut lieu en mai 1979 en Autriche, le Plan Lewis a été adopté de manière plus ou moins officielle. Il poursuivait l’objectif de « balkaniser » l’ensemble du Moyen Orient par le truchement du fondamentalisme islamique et de le fragmenter en de nombreuses petites entités étatiques. Lewis proposait à l’Occident d’encourager tous les groupes ethniques ou minorités autonomes comme les Kurdes, les Arméniens, les Maronites libanais et les peuples de souche turque à se dresser contre leurs gouvernements. Le chaos, qui en résulterait, créerait automatiquement un « arc de crise », dont les Etats-Unis pourraient profiter car la déstabilisation s’étendrait rapidement aux régions mahométanes du flanc sud de l’URSS (3). Un expert soviétique de la CIA, occupant un rang élevé dans la hiérarchie, a déclaré à l’époque et sans circonlocutions diplomatiques que la déstabilisation de l’Union Soviétique était devenue l’un des objectifs majeurs de la politique étrangère américaine et « que l’islam était le grand géant endormi de l’Union Soviétique qui attendait son heure pour se réveiller… et Khomeiny se sentait obligé de prêcher l’islam à ses frères au-delà de ses frontières ». Et Khomeiny, de fait, a apporté son soutien aux moudjahiddins afghans, en leur livrant des armes et en leur fournissant protection contre les Russes ; il a mis ensuite des émetteurs puissants en œuvre pour exporter la révolution islamique dans les régions musulmanes de l’URSS » (4).

 

Le Plan Lewis s’accommodait parfaitement avec les calculs sur le long terme du lobby pétrolier américain. Depuis longtemps, ce lobby cherchait à s’approprier les ressources pétrolières de l’Union Soviétique. Une déstabilisation de l’URSS permettrait aux consortiums pétroliers d’atteindre enfin les gisements de gaz et de pétrole, tant convoités, qui se trouvaient alors dans les régions méridionales de l’ « Empire du Mal ».  C’est dans cette perspective qu’il faut aussi analyser la première guerre d’Afghanistan (5). L’un de ceux qui fomentèrent cette guerre, Zbigniew Brzezinski, qui fut pendant quelques décennies l’un des principaux conseillers à la sécurité aux Etats-Unis, l’avouera expressis verbis de très longues années après son déclenchement et au moins dix ans après son épilogue : le conflit dans les montagnes de Hindou Kouch avait été prévu et fomenté par les Etats-Unis pour amorcer le déclin de l’Union Soviétique.

 

Le Plan Lewis constituait un instrument génial entre les mains de l’élite occulte anglo-américaine car sa mise en œuvre entrainait toute une série de conséquences avantageuses. Le conflit de longue durée qu’il fallait escompter pour tout le Moyen Orient se laissait instrumentaliser sans difficulté et permettait de gagner du terrain et de faire avancer les intérêts américains. La mise en place de Khomeiny en Iran porte tout spécialement la marque de ce plan car il était de notoriété publique que Khomeiny entendait exporter par tous les moyens sa révolution islamiste au-delà des frontières iraniennes (6). De cette façon, d’autres conflits dans l’ensemble de la région pouvaient être préprogrammés. Y compris une guerre entre l’Iran et l’Irak car avec la prise du pouvoir par Khomeiny à Téhéran, une telle conflagration s’avérait plus envisageable que du temps du Shah ; Washington verrait ce conflit comme la solution idéale, vu qu’il mettrait hors combat deux puissances régionales qui contrecarraient, par leur existence même, les visées des Américains. L’Iran se verrait ainsi éliminé car la révolution islamique s’opposait de plus en plus clairement aux intérêts bancaires et pétroliers américains, de même que l’Irak, dont l’industrie pétrolière avait été étatisée dès 1972. Aucun des deux pays ne permettait plus aux consortiums américains de faire des bénéfices. Dans les bureaux de Washington, où l’on planifiait le sort du Proche et du Moyen Orient, on élaborait déjà des scénarios sur le plus long terme, prévoyant un nouveau renversement de pouvoir en Iran, car Khomeiny menaçait de plus en plus dangereusement les intérêts monétaires des Etats-Unis (7).

 

Ce qui s’ensuivit se déroula selon le schéma habituel. Washington réarma en secret les deux camps et à grande échelle pour permettre aux deux belligérants de se doter d’un potentiel militaire suffisant pour une offensive. L’industrie américaine de l’armement en profita largement, avant même que le premier coup ne fut tiré.

 

Mansur KHAN.

(extrait du livre de l’auteur « Das Irak-Komplott mit drei Golfkriegen zur US-Weltherrschaft », pp. 54-56, Grabert Verlag, Tübingen, 2004, ISBN 3-87847-213-7 ; traduction française : Robert Steuckers).

 

Notes :

(*) Mansur U. Khan est né en 1965 à Kaiserslautern. Dès ses plus jeunes années, il s’est vivement intéressé à l’histoire. Il a fréquenté l’Université de Maryland, où il a obtenu un diplôme de sciences politiques et d’économie politique, puis l’Université de Boston, où il a obtenu MA en relations internationales. Il a ensuite travaillé à une thèse de doctorat sur la seconde guerre du Golfe. Il a publié Das geheime Geschichte der amerikanischen Kriege (1998 & 2003, 3ième éd.) et Das Kosovo-Komplott (2001).

 

(1)     Peter BLACKWOOD, Das ABC der Insider, Diagnosen, Leonberg, 1992, p. 378 & ss, p. 293.

(2)     Ibidem, p. 303 & ss.

(3)     William F. ENGDAHL, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung, Böttiger, Wiesbaden, 1997 (3ième éd.), pp. 265 & ss.

(4)     Peter BLACKWOOD, Die Netzwerke der Insider – Ein Nachslagewerk über die Arbeit, die Pläne und die Ziele der Internationalisten, Diagnosen, Leonberg, 1986, p. 183.

(5)     Rainer RUPP, Burchard BRENTJES u. Siegwart-Horst GÜNTHER, Vor dem Dritten Golfkrieg – Geschichte der Region und ihrer Konflikte. Ursachen und Folgen der Auseinandersetzungen am Golf, Edition Ost, Berlin, 2002, p. 133.

(6)     Klaus-Dieter SCHULZ-VORBACH, Mohammeds Erben – Die Fundamentalisten auf dem Weg zum Gottesstaat, Goldmann, München, 1994, p. 53.

(7)     Rainer RUPP (et alii), op. cit., p. 128.

Khan, Mansur
Die geheime Geschichte der amerikanischen Kriege
[100 103]

 


 

Verschwörung und Krieg in der US-Außenpolitik



3. Auflage
624 Seiten
17x24cm
Lexikonformat
Leinen
80 Abbildungen
Register
ISBN-10: 3-87847-208-0
ISBN-13: 978-3-87847-208-7

Euro: 29,80

Kurztext:

Amerikas Kriegspolitik: 200 Jahre blutiger Imperialismus! Obwohl die USA noch nie von einem Gegner direkt bedroht waren und niemals einen äußeren Feind im eigenen Lande hatten, waren sie weltweit an allen größeren Händeln dieses Jahrhunderts beteiligt und gaben meist den Ausschlag. Mansur Khan gibt einen ausführlichen und mit mehr als 1100 Anmerkungen abgestützten Überblick über die US-Kriegspolitik.


Langtext:

In rund 200 Jahren stiegen die USA von einer englischen Kolonie an der Ostküste Nordamerikas zur Weltmacht Nummer ein auf, die heute an allen Stellen der Erde eingreift. Wie das durch dauernde Kriege gegen Nachbarn und dann entfernte Staaten geschah, schildert dieses Buch. Dabei waren die USA – wie insbesondere im Ersten und Zweiten Weltkrieg, in Korea, Vietnam oder am Golf – nie unmittelbar selbst bedroht, sondern es standen stets große wirtschaftliche Interessen hinter Washingtons Drang zum Krieg, der teilweise erst durch klassische Provokationen – z.B. ›Lusitania‹-Versenkung, Pearl Harbor-Angriff, Tonkin-Zwischenfall – für die zunächst kriegsunwillige US-Bevölkerung annehmbar gemacht werden mußte. Besonders in Zeiten ausbrechender wirtschaftlicher Rezession griffen US-Präsidenten zu kriegerischen Auseinandersetzungen, um ihrer Wirtschaft durch Rüstungsaufträge neuen Auftrieb zu geben. Besonders die Motive und Hintergründe der einflußreichen US-Machtelite werden untersucht.

Klappentext:

Seit dem Zusammenbruch des Sowjetimperiums sind die Vereinigten Staaten von Amerika unbestritten die Weltmacht Nummer eins, und sie sind in der Lage, überall auf der Erde ihre Interessen durchzusetzen. Daß sie dazu auch gewillt sind, haben sie im letzten Jahrzehnt durch mehrmaliges militärisches Eingreifen auf den verschiedenen Kontinenten bewiesen. Dabei haben sie stets vorgegeben, für die Stärkung der Demokratie und die Sicherung der Freiheit eingetreten zu sein, obwohl es in Wahrheit eher um harte wirtschaftliche und materielle Vorteile ging.

Wie ein roter Faden zieht sich durch die Geschichte der USA die rücksichtslose Durchsetzung eigener Macht. Aus einer Kolonie wurde in rund zweihundert Jahren durch fast pausenlose Kriege und weiträumige Eroberungen eine imperiale Macht, die heute die ganze Erde kontrolliert und andere Völker wirtschaftlich ausbeutet, die mit dem von ihr geschaffenen Instrument der Vereinten Nationen (UNO) Strafexpeditionen in den verscheidenen Teilen der Welt unternimmt und mit der NATO auch in Europa entscheidenden Einfluß ausüben kann.

Dieses Buch gibt einen Überblick über die Kriegsgeschiche der USA von den Anfängen bis zur Gegenwart und hellt die Hintergründe dieser Entwicklung auf. Es beschreibt die Landnahme, die mit dem Völkermord an den Indianern und der Ausbeutung von Millionen schwarzer Sklaven verbunden war, die Eroberung des riesigen Landes bis zum Pazifik, den amerikanischen Bürgerkrieg und die Auseinandersetzungen mit Mexiko um die großen Territorien im Südwesten. Ausführlich wird das imperiale Ausgreifen seit Ende des vorigen Jahrhunderts behandelt, werden die Kriege um Kuba und die Philippinen, das Eingreifen in Mittelamerika wie in Europa im Ersten und Zweiten Weltkrieg geschildert. Die dann folgenden Kriege in Korea, Vietnam, am Persischen Golf, in Afghanistan oder Somalia setzen diese militärische Linie über kleinere Einsätze in Haiti, Grenada oder Nicaragua bis zur Gegenwart fort.

Dabei stehen vor allem die Motive und Hintergründe der US-Politik im Vordergrund. Ist es Zufall, daß fast jeder größere Krieg der letzten hundert Jahre gerade dann in Washington vom Zaun gebrochen wurde, wenn eine wirtschaftliche Rezession die Vereinigten Staaten heimsuchte, die dann erfolgreich durch die neuen Aufträge für die Rüstungsindustrie behoben werden konnte? Hat die US-Regierung nicht stets den kommenden Gegner über längere Zeit zu beabsichtigten Reaktionen provoziert, um selbst als der Angegriffene zu erscheinen und die kriegsunwillige eigene Bevölkerung zur Befürwortung eines Krieges zu treiben? Wie kam es, daß die USA im Ersten Weltkrieg von einer tief verschuldeten Nation zum Gläubigerstaat wurden und im Zweiten Weltkrieg das britische Empire beerbten, indem sie beide Male einen möglichen früheren Verständigungsfrieden in Europa durch ihr Eingreifen verhinderten?

Die These des Buches ist, daß eine ›Machtelite‹ in den USA das Sagen hat und die jeweiligen Präsidenten als Ausführungsgehilfen benutzt. Wenn diese das Gewünschte nicht ausführen wollen, wie Lincoln oder Kennedy, schreckt man auch nicht vor Mord zurück, um sie zu beseitigen. Kriege dienen dem Profit dieser Machtelite, werden teilweise künstlich verlängert, um zum einen viel Kriegsmaterial zu verbrauchen und zum anderen große Zerstörungen zu verursachen, an deren Beseitigung anschließend noch einmal verdient werden kann. Die von Präsident Theodore Roosevelt kultivierte ›Politik des großen Knüppels‹ ist durch Männer wie Kissinger und Reagan nun auf die ganze Welt erweitert worden, und Washington sieht seine unmittelbaren Interessen heute in fast allen Ländern der Erde berührt.

Wer die Politik unseres Jahrhunderts verstehen will, muß diese Zusammenhänge kennen, muß wissen, wo die Drahtzieher des wirklichen Geschehens sitzen, und sich nicht mit der üblichen oberflächlichen Darstellung nach dem Geschichtsbild der Sieger – und das ist eben die US-Machtelite – zufriedengeben. In diesem Sinne ist dieses Werk ein Aufklärungsbuch und dient dem historischen Revisionismus.

Inhaltsverzeichnis:

Vorwort 9

Einleitung 11

Kapitel 1
Die formenden Jahre der US-Außenpolitik 17
Die Ausrottung der Indianer und die Versklavung der Schwarzen: ›Manifest Destiny‹ bis zum bitteren Ende (ca. 1692-1890) 17
Expansionsdrang und Eroberungskriege: vom richtigen Umgang mit den Nachbarstaaten (1775-1818) 22
Der Befreiungskrieg 1776-1783: Krieg gegen das Mutterland 22
Inoffizieller Kaperkrieg mit Frankreich (1798-1800) 29
Der erste Berberkrieg gegen Tripolis (1801-1805) 31
Die Besitzergreifung von Louisiana und Florida (1803-1819) 32
Der Krieg von 1812 mit Großbritannien 36
Imperialismus in Vollendung oder: die Eroberung von Texas und der Krieg gegen Mexiko (1819-1848) 39
Der amerikanisch-mexikanische Krieg (1846-1848) 44

Kapitel 2
Krieg gegen das eigene Volk: der Amerikanische Bürgerkrieg (1861-1865) 52
Die scheinheilige Demokratie oder die Machtergreifung auf amerikanisch 69
Die Ermordung amerikanischer Präsidenten oder Staatsputsch auf amerikanisch (Lincoln und Kennedy) 74

Kapitel 3
Der Aufstieg zur Weltmacht 90
Pax Americana: Das amerikanische Jahrhundert und seine Kanonenboot Diplomatie 90
»Liefern Sie Bildmaterial, ich liefere den Krieg« - der spanisch-amerikanische Krieg (1898) 91
Erneuter Eingriff in Mexiko oder: wie der lateinamerikanische Hinterhof entdeckt wurde 105

Kapitel 4
Wirtschaftskriege auf amerikanisch 112
Der ›Große Krieg‹ und das große Geld: der Erste Weltkrieg und die USA 113
Der Erste Weltkrieg schuf die Voraussetzungen für den Zweiten Weltkrieg. 132
Wer finanzierte Hitler? 149

Kapitel 5
Die Provokation Japans oder: wie man in einen Weltkrieg eintritt 166
Der manipulierte Angriff auf Pearl Habor 194
Und Deutschlands Schicksal 226

Kapitel 6
Vom Kalten Krieg zum Koreakrieg 237

Kapitel 7
Vietnam, das zweite Gewaltopfer, und andere Eskapaden 264
Kambodscha: Dominostein im Kreuzzug gegen Vietnam 289
Laos: ein weiteres Opfer des Kreuzzuges 295

Kapitel 8
Kleinere Kriege 298
Grenada 1983: Ein Inselstaat bedroht die USA! 298
Libyen 1980-1986: Reagan sieht rot 308 Invasion Panamas 1989 oder: Wie Bush seinen ›Krieg gegen die Drogen‹ gewann 312
Die afghanische Tragödie: eine russische Aggression? 1979-1988 319

Kapitel 9
Der erste Golfkrieg oder: wessen Stellvertreterkrieg war er? 333
Ein Plan für den Mittleren Osten? 335
Amerikanisch-israelische Geheimverbindungen im ersten Golfkrieg 345
Saddam war siegessicher 348
Die Lage in Europa 1989 und die US-Außenpolitik 350

Kapitel 10
Die Vorbereitung der Golfkrise 352
Die Beziehungen USA-Irak nach dem ersten Golfkrieg 352
Irakisch-kuwaitische Beziehungen nach dem ersten Golfkrieg 356
Vorbereitungen der USA auf die Krise am Golf 359
Die Beziehungen zwischen den USA und Kuwait vor dem Golfkrieg 362
Die Wirtschaftslage in den USA 365

Kapitel 11
Die Inszenierung der Golfkrise und die Golfkriegsversehwörung der Bush-Regierung 369
Katastrophen-Diplomatie 383
Warum griff der Irak Kuwait an? 392

Kapitel 12
Der Weg in den Krieg 396
Warum waren die USA am Golfkrieg interessiert? 399
Die Vorbereitungen der Bush-Regierung auf den Golfkrieg 403
Die Zeitabstimmung für den US-Angriff auf den Irak 410
Der Propagandafeldzug der Bush-Regierung: die Medien in den USA und ihr Einfluß auf den Golfkrieg 411
Der Sprachenmord des Pentagons und der Medien 415
Die Ausschaltung der Opposition in den USA 417
Die Brutkasten-Lüge 417

Kapitel 13
Die Gründe der Bush-Regierung für den Golfkrieg 420
Saddam Husseins Machtergreifung mit freundlicher Unterstützung des CIA 420
Die Lüge über das Atomprogramm des Iraks 425
Der Mythos des unterbrochenen Ölflusses 429
Die Bush-Regierung behauptete, der Irak werde Saudi-Arabien angreifen 431
Der Krieg am Golf: Völkermord im Namen der UNO 438
Washingtons verdeckter nuklearer Krieg 442

Kapitel 14
Somalia: Ein bißchen humanitäre Intervention ›The American Way‹ (1993-1994) 445

Kapitel 15
Jugoslawien: Humanitäre Intervention Teil II oder: die verheimlichte Rolle der USA bei der Zerstückelung eines Staates 452
Die USA beherrschen die Region durch Wirtschaftssanktionen 467

Kapitel 16
Irak Teil 11 oder: Wer besitzt Waffen der Massenvernichtung? 470

Nachwort
Ziel erreicht, globale Weltherrschaft der USA? 486

Nachtrag
Der Kosovo-Krieg als Komplott. Humanistische Hegemonie? 498
Das Racak-Massaker - eine bewußte Eskalation zum richtigen Zeitpunkt 500
Das Diktat von Rambouillet 506
Ziele der Machtelite vor und nach dem Kosvovo-Krieg 508
Nachwirkungen des Kosovo-Krieges 510

Anhang I
Amerikanische militärische Interventionen und Kriege seit Gründung der USA 514
Amerikanische Kriege, militärische Interventionen und CIA-Operationen seit 1945 528

Anhang II
Attentatskomplotte der US-Regierung 539

Anhang III
US-Atomwaffenpolitik 545

Anmerkungen 548

Kommentiertes Literaturverzeichnis 582

Personenverzeichnis 611

Über den Autor:

MANSUR U. KHAN, geboren 1965 in Kaiserslautern, interessierte sich schon sehr früh für Geschichte. Besuch der University of Maryland (Diplom in Politikwissenschaften und Volkswirtschaftslehre) und der Boston University (MA im Fach ›Internationale Beziehungen‹). Zur Zeit arbeitet er an einer Dissertation über den Zweiten Golfkrieg. Veröffentlichungen: Das Kosovo-Komplott, 2001; Das Irak-Komplott.

La Chine publie un rapport sur les droits de l'Homme aux Etats-Unis

La Chine publie un rapport sur les droits de l’Homme aux Etats-Unis

par Antoine Decaen (Buenos Aires)

Ex: http://www.mecanopolis.org/

La Chine a riposté aux critiques américaines contenues dans un rapport sur les droits de l’Homme, en publiant son propre document sur les droits de l’Homme aux Etats-Unis.

etats_unis_nouveau_symbole.jpg« Comme les années précédentes, le rapport américain est plein d’accusations contre la situation des droits de l’Homme dans plus de 190 pays et régions, dont la Chine, mais ferme les yeux sur, ou évite et même dissimule les abus massifs des droits de l’Homme sur son propre territoire », a déclaré le Bureau de l’Information du Conseil des Affaires d’Etat (gouvernement chinois) dans son rapport sur les droits de l’Homme aux Etats-Unis.

Le Rapport sur les droits de l’Homme aux Etats-Unis en 2009 a été publié en réponse au rapport 2009 sur la situation des droits de l’Homme dans le monde, publié le 11 mars par le Département d’Etat américain.

Le rapport est « préparé pour aider les gens à travers le monde à comprendre la situation réelle des droits de l’Homme aux Etats-Unis », indique le rapport.

Le rapport a passé en revue la situation des droits de l’Homme aux Etats-Unis en 2009 à travers six thèmes : vie, propriété et sécurité personnelle ; droits civils et politiques ; droits culturels, sociaux et économiques ; discrimination raciale ; droits des femmes et des enfants ; violations des droits de l’Homme par les Etats-Unis contre d’autres pays.

Il critique les Etats-Unis pour avoir utilisé les droits de l’Homme comme « outil politique pour s’ingérer dans les affaires intérieures d’autres pays et diffamer l’image d’autres pays au profit de ses propres intérêts stratégiques« .

La Chine conseille au gouvernement américain de tirer des leçons de l’histoire, avoir lui-même une attitude correcte, d’oeuvrer pour améliorer sa propre situation des droits de l’Homme, et de rectifier ses actions dans le domaine des droits de l’Homme.

Il s’agit de la 11e année consécutive que le Bureau de l’Information du Conseil des Affaires d’Etat publie un article sur les droits de l’Homme aux Etats-Unis, en réponse au rapport annuel du Département d’Etat américain.

« A un moment où le monde souffre d’un grave désastre sur le plan des droits de l’Homme, causé par la crise financière mondiale provoquée par la crise des subprimes américaine, le gouvernement américain ignore toujours ses propres problèmes graves en matière de droits de l’Homme et se réjouit d’accuser d’autres pays. C’est vraiment dommage », indique le rapport.

ESPIONNER LES CITOYENS

Bien qu’il prône la « liberté d’expression », la « liberté de la presse » et la « liberté sur Internet », le gouvernement américain surveille et limite sans aucun scrupule la liberté des citoyens quand il s’agit de ses propres intérêts et besoins, indique le rapport.

Les droits des citoyens sur l’accès aux informations et de leur distribution sont sous stricte supervision, ajoute le rapport.

Selon les médias, l’Agence de sécurité nationale des Etats-Unis a commencé en 2001 à installer des appareils d’écoute spécialisés dans tout le pays pour surveiller les appels, les fax, les emails et recueillir les communications intérieures.

Les programmes d’écoute visaient tout au début les Américains d’origine arabe, mais se sont élargis ensuite à tous les Américains.

Après les attaques du 11 septembre, le gouvernement américain, sous prétexte d’anti-terrorisme, a autorisé ses départements d’intelligence à pirater les communications par email de ses citoyens et à surveiller et supprimer, à travers des moyens techniques, toute information sur Internet qui pourrait menacer les intérêts nationaux des Etats-Unis.

Les statistiques montrent qu’entre 2002 et 2006, le FBI a recueilli des milliers d’informations sur les appels téléphoniques de citoyens américains.

En septembre 2009, le pays a établi un organe de supervision de sécurité sur Internet, renforçant les inquiétudes des citoyens américains sur une utilisation éventuelle du gouvernement américain de la sécurité d’Internet comme prétexte pour surveiller et s’ingérer dans les systèmes personnels.

La soi-disant « liberté de la presse » aux Etats-Unis est en fait complètement subordonnée aux intérêts nationaux et manipulée par le gouvernement américain, souligne le rapport.

Fin 2009, le Congrès américain a passé un projet de loi pour imposer des sanctions contre plusieurs chaînes satellite arabes pour la diffusion de contenus hostiles aux Etats-Unis et incitant à la violence.

LA VIOLENCE RÉPANDUE AUX ETATS-UNIS

La violence répandue aux Etats-Unis menace la vie, la propriété et la sécurité personnelle des Américains, indique le rapport.

En 2008, les Américains ont éprouvé 4,9 millions de crimes violents, 16,3 millions de crimes contre la propriété et 137 000 vols personnels, et le taux de crimes violents est de 19,3 victimes pour 1 000 personnes âgées de 12 ans et plus.

Chaque année, environ 30 000 personnes succombent à des accidents impliquant des armes à feu. Selon un rapport du FBI, il y a eu 14 180 victimes de meurtre en 2008, affirme le rapport.

Les campus sont des zones de plus en plus touchés par les crimes violents et les fusillades. La fondation américaine U.S. Heritage Foundation a rapporté que 11,3% des lycéens à Washington D.C. avaient reconnu avoir été « menacés ou blessés » par une arme durant l’année scolaire 2007-2008.

ABUS DE POUVOIR

La police américaine fait souvent preuve de violence sur la population et les abus de pouvoir sont communs chez les exécuteurs de la loi, indique le rapport.

Les deux dernières années, le nombre de policiers new-yorkais placés sous révision pour avoir engrangé trop de plaintes a augmenté de 50%.

Dans les grandes villes américaines, la police arrête, interpelle et fouille plus d’un million de personnes chaque année, le nombre augmentant brusquement par rapport à il y a quelques années.

Les prisons aux Etats-Unis sont encombrées de détenus. Environ 2,3 millions de personnes ont été placées en garde à vue, soit un habitant sur 198, selon ce rapport.

De 2000 à 2008, la population carcérale américaine s’est accrue en moyenne annuelle de 1,8%.

Les droits fondamentaux des prisonniers aux Etats-Unis ne sont pas bien protégés. Les cas de viol de détenus commis par les employés de prison ont été largement rapportés, ajoute le document.

Selon le département américain de la justice, les rapports sur les délits sexuels à l’égard des détenus commis par les travailleurs de prison dans les 93 prisons fédérales du pays ont doublé au cours des huit années passées.

D’après une enquête fédérale sur plus de 63 000 prisonniers fédéraux ou de l’Etat, 4,5% ont avoué avoir été abusés sexuellement au moins une fois durant les 12 mois précédents.

NOMBRE CROISSANT DE SUICIDES EN RAISON DE LA PAUVRETÉ

Selon le rapport, la population pauvre est la plus importante depuis onze ans.

Le journal Washington Post a rapporté que 39,8 millions d’Américains vivaient dans la pauvreté fin 2008, en hausse de 2,6 millions par rapport à 2007. Le taux de pauvreté en 2008 était de 13,2%, le plus haut niveau depuis 1998.

La pauvreté a entraîné une forte croissance du nombre de cas de suicides aux Etats-Unis. Selon les informations, on enregistre chaque année 32 000 cas de suicides aux Etats-Unis, presque le double des cas de meurtre, dont le nombre est de 18 000, fait savoir le rapport.

VIOLATION DES DROITS DES TRAVAILLEURS

La violation des droits des travailleurs est très grave aux Etats-Unis, indique le rapport.

Selon le journal New York Times, environ 68% des 4 387 travailleurs à bas revenus interrogés lors d’une enquête disent avoir connu une réduction de salaires et 76% d’entre eux ont fait des heures supplémentaires sans être payés correctement.

Le nombre de personnes sans assurance santé n’a cessé d’augmenter pendant huit ans consécutifs, poursuit le rapport.

Les chiffres publiées par le Bureau de recensement des Etats-Unis montrent que 46,3 millions de personnes n’avaient pas d’assurance santé en 2008, représentant 15,4 % de la population totale, en comparaison avec les 45,7 millions en 2007, représentant une hausse consécutive pendant huit ans.

Source : French.china.org

lundi, 22 mars 2010

La Turquie: un partenaire peu fiable

Andreas MÖLZER:

La Turquie: un partenaire peu fiable

 

erdoganturquiecarioca.jpgC’est à un gel diplomatique que nous assistons entre Washington et Ankara. En effet, la Turquie a rappelé son ambassadeur en poste aux Etats-Unis parce que la Commission des affaires étrangères de la Chambre américaine des représentants a qualifié la persécution des Arméniens par l’Empire ottoman pendant la première guerre mondiale de génocide. Pour Ankara, cela n’a apparemment aucune importance que les Etats-Unis soient le principal soutien pour toutes les tentatives turques d’adhérer à l’UE. On s’aperçoit une fois de plus que la Turquie ne tient jamais compte de ses partenaires officiels et, en lieu et place d’une attitude de circonspection, ne poursuit que ses seuls intérêts, quel qu’en soit le prix.

 

La crise diplomatique qui sévit aujourd’hui entre les Etats-Unis et la Turquie doit constituer un sérieux avertissement pour l’Union Européenne: on s’imagine ce qui lui pend au nez si d’aventure Ankara devenait membre à part entière de l’Union. Les Turcs dicteraient sans vergogne leurs conditions à leurs “partenaires” européens, a fortiori parce que l’Union Européenne a tout de même nettement moins de poids que les Etats-Unis. Ensuite, l’ultime conséquence d’une éventuelle adhésion turque serait de voir basculer le centre de gravitation de l’Union de Bruxelles vers Ankara, ce qui signifierait, pour tous les Etats européens, un dangereux statut de vassalité. Pour éviter une telle horreur, qui serait sans fin, il faut tout de suite rompre, et définitivement, les négociations en cours pour l’adhésion pleine et entière de la Turquie à l’UE.

 

Le refus entêté de la Turquie, d’évaluer objectivement les pages sombres de son passé, prouve, une fois de plus, que ce pays est mentalement très éloigné de l’Europe. Bien sûr, personne n’exige des Turcs qu’ils battent indéfiniment leur coulpe, comme le font les Autrichiens et les Allemands à cause des faits et gestes d’un natif de Braunau, cultivant de la sorte un pénible national-masochisme. Pourtant, reconnaître que le massacre de près d’un million et demi d’Arméniens chrétiens était bel et bien un génocide constituerait un geste important pour enfin améliorer les relations entre la Turquie et l’Arménie.

 

Pour l’Union Européenne, enfin, qui cherche à tout prix à faire adhérer la Turquie, l’enjeu de la question arménienne est important : il implique ni plus ni moins la crédibilité même de l’Union. Déjà l’adhésion de la République Tchèque avait été assorti d’un blanchiment scandaleux : on avait accepté d’oublier les décrets de Benes qui avaient enfreint les droits de l’homme et le droit des gens. Ce fut un gifle retentissante au visage des Allemands des Sudètes chassés de leurs terres et donc un péché capital pour la « communauté de valeurs », reposant sur le respect de ces droits, qu’entend être l’UE.  Un péché qui ne devrait pas se répéter.

 

Andreas MÖLZER.

(article paru dans l’hebdomadaire viennois « zur Zeit », n°10/2010 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

dimanche, 21 mars 2010

Final Countdown: Bunkerbrechende Bomben für Iran-Angriff werden nach Diego Garcia gebracht

Final Countdown: Bunkerbrechende Bomben für Iran-Angriff werden nach Diego Garcia gebracht

Udo Ulfkotte : Ex: http://info.kopp-verlag.de/

iran-you-are-next.jpgWenn Regierungen vor lauter Krisen keinen anderen Ausweg mehr wissen, dann lenken sie die Bevölkerung mit Kriegen von der eigenen Unfähigkeit ab. Präsident Obama lässt derzeit 387 bunkerbrechende Bomben in den Indischen Ozean verlegen – von dort aus würden die Bomber starten, die den Iran angreifen sollen. Die Frachtpapiere der »US Navy« liegen vor. Und sie belegen, dass es sich bei dieser Nachricht nicht etwa um eine Zeitungsente handelt.

Das in Florida ansässige Schiffsfrachtunternehmen Superior Maritime Services erhält derzeit 699.500 Dollar dafür, dass es »Gerät« für einen potenziellen Angriff auf den Iran zum amerikanischen Militärstützpunkt Diego Garcia im Indischen Ozean bringt. Die Fracht ist brisant. Es handelt sich nicht etwa um Kleidungsstücke oder Zelte. Nein, es sind bunkerbrechende Bomben der Typen Blu-110 und Blu-117. Die Amerikaner haben dann in wenigen Tagen genügend Bomben auf Diego Garcia, um mehr als 10.000 Ziele im Iran binnen weniger Stunden »auszuschalten«. Darüber berichtet nun die Zeitung Sunday Herald mit Hinweis auf Frachtpapiere der US Navy. Demnach sollen zehn Schiffscontainer mit insgesamt 387 sogenannten Bunker Bustern von Concord in Kalifornien auf die Insel Diego Garcia im Indischen Ozean transportiert werden. Diese Einzelheiten wurden auf einer Website über Ausschreibungen der US Navy veröffentlicht. Dan Plesch, Direktor am Zentrum für internationale Studien und Diplomatie an der Universität von London, sagt dazu: »Sie bereiten sich auf die völlige Zerstörung des Iran vor, US-Bomber sind heute bereit, 10.000 Ziele im Iran innerhalb weniger Stunden zu zerstören.«

 

 

samedi, 20 mars 2010

La CIA mato y enveneno a franceses en los anos 50

La CIA mató y envenenó a franceses en los años 50

Un investigador implica a la CIA en el misterio del “pan maldito”

Un investigador estadounidense afirma que la CIA está detrás del misterioso caso del “pan maldito”, aparente intoxicación alimentaria con síntomas de desorientación mental que afectó en agosto de 1951 a los vecinos de la localidad francesa Pont-Saint-Esprit, con un balance de cinco muertos y 300 afectados, 30 de los cuales fueron recluidos por largos años en centros psiquiátricos.

El periodista estadounidense Hank Albarelli publicó en 2009 un libro que recoge los resultados de su investigación sobre experimentos secretos que la CIA llevó a cabo en el período de la Guerra Fría. Según el periodista, ampliamente citado por la prensa francesa, el “pan maldito” de Pont-Saint-Esprit contenía dietilamida de ácido lisérgico, o LSD, que la CIA pretendía examinar sus efectos.

Supuestamente, la CIA quiso primero esparcir el LSD sobre Pont-Saint-Esprit desde el aire, pero el método no funcionó, así que la sustancia fue agregada finalmente a la harina de pan. Ciertos colaboradores de la farmacéutica suiza Sandoz, que inventó el LSD en 1938, hacen referencia al “secreto de Pont-Saint-Esprit” y a “dietilamida” en una conversación con agentes de la CIA que Albarelli reproduce en su libro.


Los testigos describen como “apocalíptica” aquella noche de agosto de 1951. Además de náuseas, vómitos, diarreas y otros síntomas típicos de una intoxicación alimentaria, los afectados tenían comportamiento anormal, hasta violento.

Un niño de 11 años intentó estrangular a su abuela. Otro hombre gritaba: “Soy un avión”, poco antes de saltar por la ventana de un segundo piso, por lo que se rompió las piernas. Después, se levantó y continuó unos 50 metros. Otra persona vio a su corazón escapar por sus pies y le pidió a un médico que se lo colocara de nuevo. Muchos de los afectados fueron ingresados con camisas de fuerza.

Sin embargo, la versión de Albarelli no convence a todos. El historiador estadounidense Steven Kaplan la calificó de “clínicamente incoherente”. “El LSD empieza a surtir efecto en cuestión de horas contadas mientras que en Pont-Saint-Esprit los síntomas se manifestaron sólo 36 horas después o incluso más tarde”, declaró él en una entrevista con la cadena France 24.

Extraído de La Radio del Sur.

Le fragilità dell'impero americano

Le fragilità dell' impero americano

di Niall Ferguson

Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

niall.jpgPer secoli gli storici, i teorici della politica, gli antropologi - ma anche la gente comune - hanno perlopiù pensato ai processi politici in termini ciclici. Le grandi potenze, come i grandi uomini, nascono, crescono, dominano e poi lentamente scompaiono. Il declino delle civiltà di solito si protrae per un lungo periodo. Anche le sfide che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare sono spesso viste come processi graduali. È la tendenza costante del fattore demografico - che fa salire la quota dei pensionati rispetto ai lavoratori attivi -, non una cattiva politica a condannare la finanza pubblica degli Stati Uniti a sprofondare nei debiti. È l' inesorabile crescita dell' economia cinese, non la stagnazione americana, a far sì che il Pil della Repubblica Popolare supererà quello degli Stati Uniti entro il 2027. Che cosa succederebbe, però, se la storia non fosse ciclica né si muovesse solo lentamente, ma avesse un andamento irregolare - a tratti quasi immobile, ma anche capace di improvvise accelerazioni? E se il crollo non si verificasse dopo secoli, ma arrivasse all' improvviso? Le grandi potenze sono sistemi complessi, fatti di un gran numero di componenti che interagiscono tra di loro. Il loro modo di funzionare si colloca tra l' ordine e il disordine. Per un certo periodo di tempo sembrano procedere in maniera stabile, sembrano aver trovato un equilibrio, ma in realtà continuano ad adattarsi. Poi arriva un momento in cui i sistemi complessi entrano in crisi. Una spinta anche modesta può innescare il passaggio da uno stato di proficuo equilibrio a uno di crisi. Poco dopo il verificarsi di una crisi del genere entrano in scena gli storici. Che però, nel decodificare questi eventi, spesso ne valutano male la complessità. Sono addestrati a spiegare le calamità ricercando cause di lungo periodo, magari lontane decenni. In realtà la maggior parte dei fenomeni anomali che gli storici studiano non sono il culmine di un processo lungo e deterministico, ma piuttosto sconvolgimenti, a volte il crollo completo, di sistemi complessi. Tutti i sistemi complessi hanno alcune caratteristiche in comune. In un sistema del genere, ad esempio, una minima variazione, uno shock relativamente piccolo, possono produrre cambiamenti enormi, spesso imprevisti. Perciò, quando in un sistema complesso le cose vanno male, l' entità dello sconvolgimento è quasi impossibile da prevedere. Tutte le grandi entità politiche sono sistemi complessi. La maggior parte degli imperi hanno un' autorità centrale nominale - un imperatore ereditario o un presidente eletto -, ma in realtà il potere di ogni singolo governante è funzione di una rete di relazioni economiche, sociali e politiche sulle quali lui o lei esercita il suo controllo. Sotto questo profilo gli imperi mostrano molte delle caratteristiche di altri sistemi complessi e adattabili, tra cui la tendenza a passare molto rapidamente dalla stabilità all' instabilità. L' esempio più recente e noto di rapido declino è il crollo dell' Unione Sovietica. Col senno del poi, gli storici hanno individuato ogni genere di marciume nel sistema sovietico, fino all' era Breznev e oltre. Allora però non sembrava fosse così. L' arsenale nucleare dei sovietici era più grande di quello degli Stati Uniti, e i governi di quello che allora era chiamato il Terzo Mondo in quasi tutti i 20 anni precedenti si erano schierati dalla parte dei sovietici. Eppure, meno di cinque anni dopo l' ascesa al potere di Gorbaciov, l' impero sovietico nell' Europa centro-orientale si sgretolò, e poco dopo, nel 1991, fu la volta della stessa Unione Sovietica. Se gli imperi sono sistemi complessi che prima o poi soccombono a crisi improvvise e catastrofiche, quali conseguenze dobbiamo trarne per gli Stati Uniti di oggi? Anzitutto che discutere degli stadi del declino è probabilmente una perdita di tempo. Uomini politici e cittadini dovrebbero preoccuparsi piuttosto di una caduta improvvisa e inaspettata. Inoltre, il crollo di un impero quasi sempre avviene in seguito a una crisi finanziaria. Quindi i campanelli d' allarme dovrebbero suonare molto forte visto che gli Stati Uniti prevedono di avere un deficit di più di 1.500 miliardi di dollari nel 2010, il più alto dopo la Seconda guerra mondiale. Questi numeri non sono buoni, ma nel campo della politica sono altrettanto importanti le percezioni. Nei periodi di crisi degli imperi non sono tanto le reali basi del potere a contare, quanto le attese sugli sviluppi futuri. Le cifre che abbiamo citato non possono da sole erodere la forza degli Stati Uniti, ma possono indebolire la fiducia che per tanto tempo gli americani hanno avuto nella capacità del loro Paese di superare qualsiasi crisi. Un giorno o l' altro una brutta notizia apparentemente casuale - magari un rapporto negativo di un' agenzia di rating - comparirà sulle prime pagine dei giornali in un periodo altrimenti abbastanza tranquillo, e all' improvviso non saranno più solo pochi addetti ai lavori a preoccuparsi della sostenibilità della politica fiscale degli Stati Uniti, ma chiunque, compresi gli investitori all' estero. È questo passaggio a essere fondamentale: un sistema complesso e adattabile è seriamente nei guai quando i suoi componenti perdono la fiducia nella sua capacità di rigenerarsi. La prossima fase della crisi attuale potrebbe incominciare quando la gente inizierà a mettere in discussione la credibilità delle radicali misure finanziarie e fiscali prese per risanare l' economia. Nessun tasso a interesse zero o stimolo finanziario potrà produrre un risanamento sostenibile se la gente, negli Stati Uniti e all' estero, deciderà collettivamente, da un giorno all' altro, che queste misure alla fine porteranno a tassi di inflazione molto più alti o a un vero e proprio crollo. Combattere una battaglia perdente sulle montagne dell' Hindu Kush è già stato il segno premonitore della caduta dell' impero sovietico. Quel che è avvenuto 20 anni fa dovrebbe ricordarci che gli imperi non nascono, si sviluppano, dominano, entrano in declino e cadono secondo un ciclo ricorrente e prevedibile. Gli imperi si comportano piuttosto come tutti i sistemi complessi adattabili. Restano per un certo periodo in apparente equilibrio e poi, improvvisamente, crollano. Washington, sei avvertita. (traduzione di Maria Sepa)

 

Geheimtreffen in New York: Attacke auf den Euro, um den Dollar zu stärken

Geheimtreffen in New York:

Attacke auf den Euro, um den Dollar zu stärken

F. William Engdahl / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

euro_dollar_070920_ms.jpgDie Ursache für die dramatische Krise, die seit Anfang Januar den Euro auf Talfahrt geschickt und dem Dollar in gleichem Maße Aufwind verschafft hat, ist nicht einfach das Finanzproblem Griechenlands. Die Krise ist vielmehr das Resultat eines Komplotts und geheimer Absprachen zwischen einigen der mächtigsten Spekulanten an der Wall Street – zweifellos mit stillschweigender Rückendeckung durch das US-Finanzministerium. Das Ziel ist, den Dollar in dieser schwierigen Zeit dadurch zu retten, dass der Euro, die einzige Währung, die als alternative Reservewährung in Frage käme, geschwächt wird.

Die mächtigsten und einflussreichsten Hedge-Fonds- und Finanzplayer der Welt haben sich zu Beginn der gegenwärtigen »Griechenland-Krise« in New York hinter verschlossenen Türen versammelt, um über massive spekulative Angriffe auf den Euro zu beraten. Die mächtigsten Finanzfirmen haben sich offenbar darauf geeinigt, Finanzderivate wie die berüchtigten Credit Default Swaps (Kreditausfallversicherungen für Anleihen) einzusetzen, um den spekulativen Druck auf den Euro zu richten bzw. den Druck zu verstärken.

Im Dezember wurde der Euro noch mit 1,51 Dollar gehandelt, heute steht er bei ungefähr 1,35 Dollar. Mit einem täglichen Handelsvolumen von mindestens 1,2 Billionen Dollar stellt der Euro einen sehr großen Markt dar. Die New Yorker Hedge-Fonds haben in einem sehr verwundbaren Moment zugeschlagen, als die Nachrichten über das griechische Haushaltsdefizit die Finanzmärkte schockierten. Der Angriff auf den Euro ging mit einer Flut höchst willkommener Berichte in den amerikanischen und britischen Medien über das unmittelbar bevorstehende Auseinanderbrechen der EU und des Euro einher. Die Hedge-Fonds setzten Fremdkapital in enormer Höhe ein – oftmals das 20-Fache des eigenen Einsatzes gegen den Euro. Dabei haben sie auch ein Vielfaches verdient: manchmal Gewinne in Höhe von 100 Prozent innerhalb weniger Tage, mit geborgtem Geld.

 

Wall-Street-Insider George Soros begann seinen Propaganda-Angriff auf den Euro in Davos, nur Tage nach einem Geheimtreffen in New York.

 

An dem New Yorker Geheimtreffen, über das das Wall Street Journal in der Ausgabe vom 26. Februar berichtet, nahmen neben dem Milliardär und Hedge-Fonds-Spekulanten George Soros vom 27 Milliarden Dollar schweren Soros-Fund-Management auch Vertreter von SAC Capital Advisors LP, Greenlight Capital und andere nicht namentlich Genannte teil. Sie einigten sich auf ein konzertiertes Vorgehen gegen den Euro, wobei die griechische Finanzkrise als Hebel benutzt wurde, um dem Ganzen Glaubwürdigkeit zu verleihen.

Am 3. Februar habe ich meinem Artikel »Washingtons Währungskrieg gegen den Euro« (erschienen in KOPP Exklusiv, Ausgabe 06/2010) dargelegt, wie sich derselbe George Soros beim Weltwirtschaftsforum in Davos für die geplante Zusammenarbeit bei dem Angriff auf den Euro ausgesprochen hat. Gegenüber der Presse erklärte er damals, es gebe keine »attraktive Alternative« zum Dollar – de facto ein Signal für eine Attacke auf den Euro, den viele noch vor einem halben Jahr als Alternative zum Dollar als Weltwährung betrachtet hatten. Soros unterstrich, die »Probleme« des Euro machten ihn als Ersatz-Reservewährung untauglich.

Soros’ abfälligen Bemerkungen schloss sich der prominente New Yorker Wirtschaftswissenschaftler Nouriel Roubini an, der behauptete, die Haushaltsschwierigkeiten in Europa führten zu dem »wachsenden Risiko« der Aufspaltung der Einheitswährung: »Nicht in diesem oder in den nächsten zwei Jahren, aber irgendwann könnte die Währungsunion zerbrechen.« Bezeichnenderweise unterhalten sowohl Roubini als auch Soros enge Verbindungen zur Regierung Obama. Soros gehörte zu den ersten Spendern für Obamas Wahlkampf und Roubini ist mit Finanzminister Timothy Geithner gut befreundet.

 

Konzertierte Finanzattacken auf den Euro haben dem Dollar in einem kritischen Moment Aufwind verschafft.

 

Um den Druck auf den Euro aufrechtzuerhalten, schrieb Soros am 22. Februar einen Kommentar in der Londoner Financial Times, der bekanntesten Finanzzeitung der Welt. Dort erklärte er: »Auch wenn Griechenland überlebt, die Zukunft des Euro ist nach wie vor unsicher.«

Die nun enthüllten Einzelheiten über das New Yorker Geheimtreffen der Hedge-Fonds, bei dem die Attacke auf den Euro geplant wurde, bestätigen erneut, was ich bereits in meinem Buch Der Untergang des Dollar-Imperiums beschrieben habe: die Kräfte des Money Trust von der Wall Street greifen zu jedem nur erdenklichen Mittel, um ihre Macht zu verteidigen. Die Höhe der Verschuldung der USA und das Ausmaß der Krise sind so gewaltig, dass es für die Regierung Obama immer schwerer wird, den Mythos der »Green Shoots«, des Aufschwungs, aufrechtzuerhalten.

 

Auch Goldman Sachs maßgeblich beteiligt

Die politisch einflussreiche Wall-Street-Bank Goldman Sachs, die seit dem Beitritt Griechenlands zum Euro im Jahr 2001 an den dortigen Finanzmanipulationen beteiligt war, hat bei der jüngsten Krise ebenfalls die Hand im Spiel. Am 29. Januar trafen sich Vertreter von Goldman Sachs zusammen mit einigen anderen führenden Wall-Street-Firmen in Griechenland mit dem stellvertretenden Finanzminister und Vertretern der griechischen Nationalbank. Soros’ Hedge-Fonds-Attacke begann nur wenige Tage später.

Laut dem Bericht im Wall Street Journal haben Goldman Sachs, die Bank of America und die Londoner Barcley’s Bank gemeinsam mit Soros und den Hedge-Fonds Wetten gegen den Euro abgeschlossen, während Goldman Sachs gleichzeitig als Berater für die Regierung Papandreou tätig ist, ein offensichtlicher Interessenkonflikt.

 

Die Asien-Krise und die Krise um das britische Pfund und die EWU

Das Vorgehen der Hedge-Fonds beim Angriff auf den Euro folgt der Strategie finanzieller Kriegsführung, die Soros und andere Hedge-Fonds bereits in der Vergangenheit verfolgt haben. Soros hat 1992 mit Spekulationen gegen das britische Pfund Sterling nach eigenen Angaben eine Milliarde Dollar Gewinn gemacht – wobei Marktkenner überzeugt sind, dass damals Insider-Informationen eine Rolle gespielt haben – und die britische Regierung gezwungen, Pläne für einen Beitritt zum damals entstehenden Euro fallenzulassen. Wären Großbritannien und die mächtigen Finanzquellen der Londoner City der neuen Eurozone beigetreten, hätte das, wie viele an der Wall Street und in Washington insgeheim befürchteten, möglicherweise das Ende des Dollar als Weltreservewährung bedeutet. Die Tatsache, dass der Dollar als Weltreservewährung agiert, bildet neben dem Pentagon eine der beiden Säulen der amerikanischen Vormachtstellung in der Welt. Verlöre der Dollar diese Position, dann stünde die Zukunft des Amerikanischen Jahrhunderts, die Rolle als alleinige Supermacht, auf dem Spiel.

Ähnlich war die Lage 1997, als ein konzertierter Angriff von Hedge-Fonds, erneut unter Führung von George Soros, einen Angriff auf die Währungen und die Wirtschaft der asiatischen »Tigerstaaten« lancierte. Korea, Indonesien, die Philippinen und Malaysia, damals nachhaltige, von amerikanischer Einmischung unabhängige Volkswirtschaften, wurden durch die Attacke de facto zu Käufern amerikanischer Schulden, weil die Länder in Asien verzweifelt versuchten, sich gegen weitere Angriffe zu schützen. Wie die Sterling-Krise von 1992, so hat auch die Asienkrise von 1997–1998 den schwächelnden Dollar einige Jahre länger am Leben erhalten.

Angesichts der sich verschärfenden Depression in den USA und des Ausmaßes der Bankenprobleme, die von Tag zu Tag schwerer werden, ist die Zukunft des Dollars mehr bedroht denn je. Aus diesem Grund dramatisieren einflussreiche Kreise an der Wall Street, der Federal Reserve und im US-Finanzministerium die relativ überschaubare Krise in Griechenland zum übertriebenen Bild eines »Zusammenbruchs der EU«, weil sie hoffen, damit für ausländische Zentralbanken den Euro als Alternative zum Dollar unattraktiv zu machen. Damit soll nicht gesagt sein, der Euro und der Vertrag von Maastricht seien ein Modell einer gesunden Alternative zu den Problemen der Dollar-Zone. Sie sind alles andere als das. Es soll nur gezeigt werden, welcher geopolitische Machtkampf hinter den Kulissen tobt, um das Sinken der Dollar-Titanic zu verhindern.

 

Dienstag, 09.03.2010

Kategorie: Geostrategie, Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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vendredi, 19 mars 2010

Altbundeskanzler H. Schmidt vergleicht Obama mit Hitler

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Altbundeskanzler Helmut Schmidt vergleicht Obama mit Hitler

Gerhard Wisnewski / http://info.kopp-verlag.de/

»Beckmann« am 22. Februar 2010: War da was? Eigentlich nicht. Vielleicht bis auf die Kleinigkeit, dass Altbundeskanzler Helmut Schmidt den US-Präsidenten Barack Obama in eine Reihe mit Hitler und Stalin stellte. Skandal? Aufschrei? Nicht doch. Stattdessen eisernes Schweigen. Das Zentralorgan »Spiegel Online« erklärte auch warum: Der darf das!

Man schrieb den 22. Februar 2010. In der Talksendung Beckmann saßen dem Moderator zwei Talkgäste gegenüber. Ein weißhaariger, qualmender Helmut Schmidt im Rollstuhl und der jüdische Historiker Fritz Stern. Beide sollen an diesem Abend von Beckmann ordentlich Publicitiy für ihr politisch korrektes Gesprächsbuch Unser Jahrhundert bekommen. Doch dann wird es plötzlich alles andere als politisch korrekt.

»Es gibt eine Regel bei Diskussionen über aktuelle Themen: die sich jeder Teilnehmer merken sollte«, schrieb einmal der jüdische Journalist Henryk M. Broder: »Wer zuerst Hitler, Nazis, Drittes Reich sagt, hat die Arschkarte gezogen. So einer ist entweder NS-Sympathisant oder – noch schlimmer – er missachtet das 11. Gebot: Du sollst nicht vergleichen!«

Nur ganz besondere Persönlichkeiten können sich über dieses 11. Gebot hinwegsetzen, ja, eigentlich gibt es nur einen Deutschen, bei dem man sich das vorstellen kann. Und das ist der quasi unantastbare Altbundeskanzler Helmut Schmidt, der nun auch noch mit seinem jüdischen Freund im Studio saß.

Was Helmut Schmidt »an der Redeart von Barack Obama« nicht gefalle, wollte Gastgeber Reinhold Beckmann (ARD) wissen.

Darauf Schmidt: »Ich habe nichts gegen die Art der Rede. Aber ich habe erlebt, dass Charismatiker hinterher mehr Unheil gestiftet haben, als sie sich selber vorgestellt haben. Immerhin – Adolf Hitler war auch ein Charismatiker.«

Pause. Beckmann und Stern hat es die Sprache verschlagen. Im Studio und in Millionen von Wohnzimmern konnte man eine Stecknadel fallen hören. Stalin und Mao Tse-Tung seien auch Charismatiker gewesen, sagte Schmidt in die Stille hinein, was die Sache nicht besser, sondern nur noch »schlimmer« machte.

Nur, um das einmal festzuhalten: Der ehemalige und wahrscheinlich beste Bundeskanzler, den Deutschland je hatte (was eine relative Wertung ist, keine absolute), stellte den amerikanischen Präsidenten Obama in eine Reihe mit Massenmördern, die Abermillionen von Menschen auf dem Gewissen haben. Und das sollte man nie vergessen – denn eines ist sicher: unüberlegt oder zufällig hat Helmut Schmidt das bestimmt nicht getan.

Daher lautete die spannende Frage: Wie würden Politik und unsere »Qualitätsmedien« reagieren? Antwort: Man erlebte den Versuch, ein aufflackerndes Feuer durch Brennstoffmangel auszuhungern. Aber eine Sendung, die von Millionen Zuschauern gesehen wurde, kann man doch nicht totschweigen! Oh, doch. Man mag es nicht glauben, aber selbst vor einem Millionenpublikum ausgebreitete Skandale und Sensationen kann man ungeschehen machen, indem man sie einfach nicht wahrnimmt und nicht über sie berichtet.

Nehmen wir an, jemand würde einen riesigen Felsbrocken ins Wasser werfen, und auf dem Wasser würden sich nicht die kleinsten Wellen bilden – wäre das nicht der beste Beweis, dass mit diesem Wasser etwas nicht stimmen kann?

jeudi, 18 mars 2010

Austerität à la IWF erreicht die Vereinigten Staaten von Amerika

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Austerität à la IWF erreicht die Vereinigten Staaten von Amerika

Ellen Brown / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Die obligatorischen Prämien für eine private Krankenversicherung sind längst nicht alles: wenn sich die neue Arbeitsgruppe Haushalt des Präsidenten mit ihren Forderungen durchsetzt, stehen uns möglicherweise »obligatorische Sparbeiträge« und weitere, unseren Geldbeutel belastende Einsparungen bevor. Diese radikalen Austeritätsmaßnahmen sind nicht nur gar nicht nötig, die Lage wird dadurch im Gegenteil nur noch weiter verschlechtert. Die Offensive für »fiskalische Verantwortung« geht von falschen ökonomischen Voraussetzungen aus.

Wenn Milliardäre eine Milliarde Dollar versprechen, um die Öffentlichkeit über einen bestimmten Missstand aufzuklären, dann ist man immer gut beraten, ihre Pläne ganz genau zu prüfen. Der Hedge-Fonds-Magnat Peter G. Peterson war früher Vorsitzender des Council on Foreign Relations und Chef der New York Federal Reserve. Heute ist er Seniorchef der Blackstone Group, die mit der Verteilung der staatlichen Gelder bei dem umstrittenen Bailout des Versicherungskonzerns AIG, vielfach als Geschenk an die Banken kritisiert, betraut war. Peterson ist auch Gründer der Peter-Peterson-Stiftung, die es sich zur Aufgabe gemacht hat, den Kongress zu »fiskalischer Verantwortung« zu veranlassen. Dafür hat man David M. Walker angeheuert, den ehemaligen Chef des Government Accounting Office [eine dem deutschen Bundesrechnungshof vergleichbare US-Bundesbehörde], der einen Werbefeldzug für die Eindämmung des galoppierenden Haushaltsdefizits führen soll, das laut Peterson und Walker auf unverantwortliche Ausgaben durch Regierung und Verbraucher zurückzuführen ist. Die Stiftung hat den Dokumentarfilm I.O.U.S.A.* finanziert, mit dem sie die Öffentlichkeit für ihr Anliegen gewinnen möchte, nämlich verminderte Leistungen der Sozialversicherung und von Medicare (der Krankenversicherung für Bedürftige), um Kosten zu sparen und zu »fiskalischer Verantwortung zurückzukehren«.

Nachdrücklich fordert die Petersen-Pew Commission on Budget Reform Maßnahmen zur Begrenzung des US-Haltsdefizits. In beiden Häusern des Kongresses wurden Gesetzesvorschläge zur Bildung einer Arbeitsgruppe Haushalt eingebracht. Im Senat wurde der Vorschlag mit knapper Mehrheit abgelehnt, im Abgeordnetenhaus wurde er zurückgestellt, doch damit war er nicht erledigt. In seiner Rede zur Lage der Nation am 27. Januar kündigte Präsident Obama an, er werde per Exekutivorder eine Arbeitsgruppe des Präsidenten für den Haushalt einberufen, die sich dem Haushaltsdefizit und der Schuldenkrise widmen solle; die Arbeitsgruppe werde nach dem Modell der vom Kongress nicht verabschiedeten Gesetze arbeiten. Wenn der Kongress nicht für »fiskalische Verantwortung« sorgte, dann werde es eben der Präsident tun. »Mir raubt es nachts den Schlaf, wenn ich an all die roten Zahlen denke«, sagte er. Die Exekutivorder wurde am 17. Februar unterzeichnet.

Dem Präsidenten scheint entgangen zu sein, dass unser gesamtes Geld mit Ausnahme der Münzen heute in Form von »roten Zahlen« oder Schulden auf die Welt kommt. Es wird alles in den Büchern von Privatbanken erzeugt und fließt als Kredit in die Wirtschaft. Wenn es keine Schulden gibt, dann gibt es kein Geld, und genau diese privaten Schulden sind jetzt zusammengebrochen. Die Kreditvergabe in den USA ist in den ersten Monaten dieses Jahres stärker geschrumpft als je zuvor in der Geschichte des Landes. Weltweit herrscht eine Kreditklemme; wenn der Kredit schrumpft, dann schrumpft gleichzeitig auch die Geldmenge. Dann gibt es nicht genug Geld, um Waren zu kaufen, also werden Arbeiter entlassen und Fabriken geschlossen, ein ewiger Teufelskreis von Wirtschaftskollaps und Depression. Um diesen Zyklus zu durchbrechen, müssen wieder Kredite fließen, und wenn die Banken dies nicht bewerkstelligen können, dann muss die Regierung einschreiten und die Schulden selbst »monetisieren«, d.h. die Schulden in Dollars verwandeln.

Obwohl die Kreditvergabe noch immer weit unter dem früheren Niveau liegt, beteuern die Banken, sie vergäben so viele Kredite, wie ihnen nach den derzeit geltenden Bestimmungen erlaubt sei. Der eigentliche Engpass liegt bei den sogenannten »Schattengeldgebern« – jenen Investoren, die bis Ende 2007 in großem Stil zu »Wertpapieren« gebündelte Bankkredite aufgekauft und diese Kredite damit aus den Büchern der Banken genommen hatten, sodass die Banken auf der Grundlage ihres Eigenkapitals und der Einlagen wieder neue Kredite generieren konnten. Wegen der dramatisch steigenden Zahl von Ausfällen bei Subprime-Hypotheken sind die Investoren vorsichtiger geworden, solche Kredite zu kaufen, sodass die Banken und Finanzfirmen an der Wall Street sie in ihren Büchern halten und die Verluste einstecken müssen. In den Boomjahren wurde der Umfang des Marktes der Schattengeldgeber auf zehn Billionen Dollar geschätzt. Dieser Markt ist jetzt zusammengebrochen, bei der Geldmenge ist ein riesiges Loch entstanden. Dieses Loch zu stopfen, ist allein die Regierung in Washington in der Lage. Die Staatsschulden abzuzahlen, wenn das Geld bereits knapp ist, macht alles nur noch schlimmer. Wann immer in der Geschichte das Defizit verringert worden ist, ist auch die Geldmenge geschrumpft und die Wirtschaft in eine Rezession gestürzt.

 

Eine genaue Untersuchung der Pläne für eine Haushaltsreform

Das wirft die Frage auf: liegen die Verfechter der »fiskalischen Verantwortung« nur einfach falsch? Oder verfolgen sie womöglich ganz andere Absichten? Die in Erwägung gezogenen Haushaltsentscheidungen sind in der Exekutivorder vage formuliert, doch wer die früheren Pläne der Peterson Commission on Budget Reform genauer untersucht, erkennt, was gemeint ist. Laut Peterson und Walker sollten die Ansprüche aus der Sozialversicherung gesenkt werden, und das genau zu der Zeit, wo die Wall Street den Marktwert der Häuser und die privaten Rentenkonten der eigentlich Anspruchsberechtigten vernichtet hat. Es kommt noch ärger: gemäß dem Plan sollten unter dem Deckmantel »obligatorischer Sparbeiträge« die Beiträge zur Sozialversicherung erhöht werden. Diese zusätzlichen Beträge sollten automatisch vom Gehalt abgezogen werden und auf ein von der Sozialversicherungsbehörde verwaltetes Sonderkonto namens »Guaranteed Retirement Account« eingezahlt werden. Da diese Sparbeiträge »obligatorisch« waren, könnte man sein Geld nicht abheben, ohne eine saftige Strafe hinnehmen zu müssen, und statt eines willkommenen früheren Rentenbeginns aufgrund der zusätzlichen Einzahlung wurde sogar ein höheres Renteneintrittsalter gefordert. In der Zwischenzeit hätten die besagten »obligatorischen Sparbeträge« nur den Investment-Pool der Wall-Street-Banker, die die Gelder kontrollieren, vergrößert.

Genau das könnte mit der Großoffensive zur Aufklärung der Öffentlichkeit über die Gefahren der hohen Staatsverschuldung beabsichtigt sein. Der Politikanalyst Jim Capo beschreibt eine Diashow von David M. Walker nach der Premiere von I.O.U.S.A., bei der dieser einen obligatorischer Sparplan ins Spiel brachte, der sich an dem Modell des Federal Thrift Savings Plan (FSP, einem anderen staatlichen Rentenplan) orientiert. Capo kommentiert:

»Der FSP, der Angestellten von Bundesbehörden, wie beispielsweise den Mitarbeitern der Kongressabgeordneten, offensteht, hat (zumindest auf dem Papier) einen Umfang von über 200 Milliarden Dollar. Ungefähr die Hälfte dieser Vermögenswerte besteht in Form von besonderen nicht übertragbaren US-Schatzwechseln, die eigens für diesen FSP-Plan aufgelegt worden sind. Die andere Hälfte ist in Aktien, Anleihen und Wertpapieren angelegt. … Die fast 100 Milliarden Dollar in [dieser] Hälfte des Plans werden von Blackrock Financial verwaltet. Und Blackrock Financial ist – jetzt kommt’s – ein Ableger von Mr. Petersons Blackstone Group. Tatsächlich sind der FSP und Blackstone wie zwei sich ergänzende Komponenten entstanden. Man kann eigentlich gar nichts falsch machen, wenn man eine Investitionsmanagement-Firma gründet und sich gleichzeitig einen Vertrag sichern kann, der einem einen Anteil der Gehälter von staatlichen Angestellten in die Hand gibt.«

 

Was mit »fiskalischer Verantwortung« wirklich gemeint ist

Dadurch erscheint die »fiskalische Verantwortung« in einem völlig anderen Licht. Anstatt für die Zukunft unserer Enkelkinder zu sparen – wie der Präsident es zu verstehen scheint –, ist es wohl eher ein Codewort dafür, öffentliche Gelder in private Hand zu überführen und der heute bereits ausgequetschten Mittelschicht eine zusätzliche Abgabe aufzubürden. Im Jargon des Internationalen Währungsfonds (IWF) heißt so etwas »Austeritätsmaßnahme«, und dagegen gehen die Menschen in Griechenland, Island und Lettland auf die Straße. Die Amerikaner demonstrieren nur deshalb nicht, weil hier niemand sagt, was wirklich geplant ist.

Man will uns glauben machen, die »fiskalische Verantwortung« (sprich: »Austerität«) diene zu unserem Besten, sie sei tatsächlich nötig, um das Land vor dem Bankrott zu bewahren. Bei der massiven Kampagne, mit der wir über die Gefahren der Staatsverschuldung aufgeklärt werden sollen, warnt man uns immer wieder, die Verschuldung sei gefährlich hoch. Wenn ausländische Geldgeber den Hahn zudrehten, müssten die USA den Staatsbankrott erklären, und all das sei der Fehler der Bürger, die zu viele Kredite aufgenommen und zu viel Geld ausgegeben hätten. Man ermahnt uns, den Gürtel enger zu schnallen und mehr zu sparen. Da wir uns diese Disziplin anscheinend nicht selbst auferlegen könnten, müsse das die Regierung für uns tun in Form eines Plans für »obligatorische Spareinlagen«. Die Amerikaner, die schon jetzt unter hoher Arbeitslosigkeit und Kürzung der öffentlichen Ausgaben zu leiden haben, müssten noch mehr Opfer bringen und einen größeren Teil der Zeche zahlen, genauso wie in den anderen hochverschuldeten Ländern, denen der IWF Austeritätsmaßnahmen aufzwingt.

Zu unserem Glück besteht zwischen der Verschuldung bei uns und der in Griechenland, Island oder Lettland jedoch ein großer Unterschied: Wir schulden unsere Schulden in US-Dollars, unserer eigenen Währung. Unsere Regierung kann ihre Solvenzprobleme lösen, indem sie das zur Abzahlung oder zur Refinanzierung ihrer Schulden erforderliche Geld einfach selbst erzeugt. Diese bewährte Lösung geht zurück bis auf die alte Interimswährung der amerikanischen Siedler und auf die »Greenbacks«, die Abraham Lincoln in Umlauf brachte, um Zinszahlungen in Höhe von 24 bis 36 Prozent zu vermeiden.

 

 

Wirtschaftliche Angstmache

Jede Diskussion über diese vernünftige Lösung wird unweigerlich mit dem Hinweis auf einen weiteren Mythos abgewürgt, den die Finanzelite seit Langem aufrechterhält – nämlich den, es führe zur Hyperinflation, wenn die Regierung die Geldmenge erhöhen dürfe. Anstatt von ihrem souveränen Recht Gebrauch machen zu können, die erforderliche Liquidität zu erzeugen, wird der Regierung gesagt, sie müsse Kredite aufnehmen. Kredite von wem? Von den Bankern natürlich. Und woher bekommen die Banker das Geld, das sie verleihen? Sie erzeugen es in ihren Büchern, genauso wie es die Regierung sonst getan hätte. Der Unterschied ist der: Wenn es die Banker erzeugen, fallen dabei saftige Gebühren in Form von Zinsen an.

Inzwischen versucht die Federal Reserve, die Geldmenge zu erhöhen; und statt an einer Hyperinflation leiden wir weiterhin an den Folgen einer Deflation. Auch wenn bei den Banken wie wild Geld hin- und hergeschoben wird, fließt kein Geld in die Realwirtschaft. Anstatt es an Unternehmen und Privatleute zu verleihen, spekulieren die größeren Banken damit oder kaufen kleinere Banken, Grundstücke, Farmen und Produktionskapazitäten auf, während die Kreditklemme auf der Main Street unverändert weitergeht. Nur die Regierung kann diese Fehlentwicklung korrigieren, indem sie mehr Geld für Projekte bereitstellt, die Arbeitsplätze schaffen, Dienstleistungen verfügbar machen und die Produktivität fördern. Es wirkt nicht inflationär, die Geldmenge zu erhöhen, wenn das Geld für ein Mehr an Waren und Dienstleistungen verwendet wird. Zur Inflation kommt es, wenn die »Nachfrage« (Geld) das »Angebot« (Waren und Dienstleistungen) übersteigt. Wenn Angebot und Nachfrage gleichzeitig wachsen, bleiben die Preise stabil.

Die Vorstellung, die Staatsverschuldung sei zu hoch, um zurückgezahlt werden zu können, und wir überließen diese Monsterlast unseren Enkeln, ist genauso eine Falschbehauptung. Die amerikanische Staatsverschuldung ist seit den Tagen von Andrew Jackson nicht abbezahlt worden und sie braucht auch nicht abbezahlt zu werden. Sie wird einfach von Jahr zu Jahr verlängert, die Geldmenge des Landes stützt sich allein auf den »full faith and credit« [volle Würdigung und Anerkennung, ein Passus aus Artikel IV der amerikanischen Verfassung]. Die einzige Gefahr, die von einer wachsenden Staatsverschuldung ausgeht, ist eine exponenziell steigende Zinslast, aber auch diese Gefahr hat sich bislang nicht materialisiert. Die Zinsen für die Staatsverschuldung sind seit 2006 sogar gesunken – von 406 auf 383 Milliarden Dollar –, weil die Fed die Zinsen auf einen sehr niedrigen Satz festgelegt hat.

Viel weiter können sie allerdings nicht gesenkt werden, sodass die Zinslast bei weiterer Staatsverschuldung steigen wird. Doch auch für dieses Problem gibt es eine Lösung. Die Regierung kann die Federal Reserve einfach anweisen, die Schulden aufzukaufen und es ihr untersagen, die entsprechenden Schuldverschreibungen an private Kreditgeber weiterzuverkaufen. Auf ihrer Website erklärt die Federal Reserve, sie überweise ihre Gewinne nach Abzug der eigenen Kosten an die Regierung, sodass für das Geld kaum Zinsen anfallen.

All die Angstmache darüber, die Wirtschaft bräche zusammen, wenn die Chinesen und andere Investoren unsere Schulden nicht mehr kauften, ist eine weitere Irreführung. Die Fed kann die Schulden selbst aufkaufen – was sie stillschweigend bereits tut. Das ist tatsächlich eine weit bessere Alternative, als die Schulden an Ausländer zu verkaufen, denn damit schulden wir die Schulden nur uns selbst, wie Roosevelts Berater dem Präsidenten seinerzeit versichert haben, als er in den 1930er-Jahren der Defizitpolitik zustimmte, und diese in Dollars verwandelten Schulden kosteten so gut wie keine Zinsen.

Besser noch wäre es, die Fed zu verstaatlichen oder abzuschaffen und die Regierung direkt mit Greenbacks zu finanzieren, wie Lincoln es getan hat. Die heutigen Aufgaben der Fed kann das Finanzministerium ohne Weiteres übernehmen, es fielen nur Verwaltungskosten an. Es gäbe keine Aktionäre und Anteilseigner, die Gewinne abziehen. Die Gewinne könnten vielmehr auf staatliche Konten zur Finanzierung des Bundeshaushalts oder der Haushalte von Bundesstaaten und Kommunen zu null Prozent oder zumindest sehr geringen Zinsen verwendet werden. Würden die Zinszahlungen wegfallen, könnten auf nationaler oder bundesstaatlicher Ebene die Steuern deutlich gesenkt werden. Die staatlichen Geldmanager würden sich nicht hinter einem Schleier der Geheimhaltung verstecken, sondern die Bücher für die Allgemeinheit öffnen.

Eine letzte Falschbehauptung ist der angeblich drohende Konkurs der Sozialversicherung. Die Sozialversicherung kann eigentlich gar nicht bankrott gehen, weil es sich dabei um ein Umlagesystem handelt. Mit den heutigen Beiträgen zur Sozialversicherung werden die heutigen Bezieher bezahlt, falls erforderlich, kann der Beitrag erhöht werden. Als Präsident Bush 2005 seine Kampagne zur Privatisierung der Sozialversicherung startete, schrieb der Washingtoner Ökonom Dean Baker:

»Die wichtigsten Schätzungen zeigen, dass das Programm ohne jede Veränderung bis 2042 alle Leistungen gewährleisten kann. Selbst nach 2042 wird die Sozialversicherung in der Lage sein, (inflationsbereinigt) mehr zu zahlen, als die heutigen Rentner erhalten, obwohl die Einzahlungen nur ungefähr 73 Prozent der voraussichtlichen Zahlungen betragen würden.«

Heute brauchen für Einkommen über 97.000 Dollar keine Beiträge zur Sozialversicherung entrichtet zu werden, wodurch die unteren Einkommensgruppen überproportional belastet werden. Schätzungen über den Verlauf der nächsten 75 Jahre zeigen, dass das prognostizierte Defizit beim Wegfall dieser Obergrenze verschwände. Bei der Debatte der demokratischen Präsidentschaftskandidaten im Herbst 2007 waren nur Barack Obama und Joe Biden bereit, diese wichtige Alternative ernsthaft in Erwägung zu ziehen. Präsident Obama müsste nur die Lösungen in die Tat umsetzen, für die er sich im Wahlkampf eingesetzt hat.

 

Eine Aufklärungskampagne, die wir wirklich brauchen

Was wirklich hinter den Kulissen geschieht, hat wohl Prof. Carroll Quigley, Bill Clintons Mentor bei der Georgetown University, am deutlichsten enthüllt. Als von den internationalen Bankern aufgebauter Insider hat Dr. Quigley 1966 in Tragedy and Hope (Tragödie und Hoffnung) geschrieben:

»Die Mächte des Finanzkapitalismus verfolgten noch ein weitreichendes Ziel, nämlich nichts Geringeres, als ein Weltsystem finanzieller Herrschaft in privaten Händen zu errichten, mit dem sich das politische System jedes Landes und jeder Volkswirtschaft beherrschen lässt. Dieses System sollte in feudalistischer Manier durch die Zentralbanken kontrolliert werden, die gemeinsam agierten, und zwar mithilfe von Geheimabkommen, die bei häufigen privaten Treffen und Konferenzen geschlossen würden.«

Wenn das tatsächlich der Plan ist, dann ist er bereits mehr oder weniger Wirklichkeit geworden. Wenn wir nicht endlich aufwachen und begreifen, was vor sich geht und einschreiten, dann haben die »Mächte des Finanzkapitalismus« freie Bahn. Anstatt auf die Straße zu gehen, sollten wir vor Gericht ziehen, Wählerinitiativen starten und unseren Gesetzgebern zu verstehen geben, dass die Vollmacht zur Geldschöpfung, die die Elite der Privatbanker dem amerikanischen Volk entrissen hat, wieder zurückerobert werden muss. Und dazu muss auch der Präsident aufwachen, dem bisher falsche Vorstellungen über die Bedrohung den Schlaf rauben.


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*Eine Anspielung auf Schuldscheine, IOU, »I owe you« – »Ich schulde Dir« – und USA.

 

Donnerstag, 11.03.2010

Kategorie: Wirtschaft & Finanzen, Politik

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EEUU y la OTAN libran una guerra no declarada contra Russia

EEUU y la OTAN libran una guerra no declarada contra Rusia

Para Moscú, la inacción de los Estados Unidos y la OTAN para combatir el tráfico de drogas en Afganistán, se traducen en una guerra no declarada contra Rusia.

El embajador ruso para la OTAN, Dmitry Rogozin, fustigó a la alianza por su falta de vigilancia sobre el tráfico de estupefacientes en el país asiático.

Afganistán produce alrededor del 90% del opio del mundo. Las drogas afganas entran en Rusia y Asia Central antes que en Europa Occidenta, y son responsables de la muerte de 30 mil rusos anualmente, dijo Rogozin.

Moscú sostuvo, también, que la producción de droga dentro de las fronteras afganas se ha incrementado 10 veces desde el 2001, año en que la OTAN liderada por los Estados Unidos invadieron ese país.


Hoy hay más de 100 mil tropas invasoras lideradas por los Estados Unidos en Afganistán; sin embargo, lejos están los invasores de lograr estabilizar el país. Desde el inicio del año 122 soldados de las fuerzas invasoras han muerto, producto de la resistencia afgana.

Extraído de La República.

mercredi, 17 mars 2010

Wall Street a aidé la Grèce à dissimuler ses dettes et a attisé la crise européenne

Wall Street a aidé la Grèce à dissimuler ses dettes et a attisé la crise européenne

Voilà la traduction du fameux article du New York Times, qui a lancé la polémique il y a un mois.

Par des tactiques analogues à celles qui ont favorisé les subprimes aux USA, Wall Street a aggravé la crise financière qui ébranle la Grèce et sapé la solidité de l’euro, en permettant aux gouvernements européens de dissimuler la croissance de leur endettement.

Tandis que les soucis causés par la Grèce ébranlaient les marchés financiers, des interviews et articles montraient que, durant une décennie, ce pays avait, avec l’aide de Wall Street, tenté de contourner l’endettement maximum imposé par l’UE (Critères de convergence européens relatifs à la dette publique). Un «deal» créé par Goldman Sachs a aidé à faire échapper des milliards de dettes à la surveillance du budget à Bruxelles.

Alors que la crise était prête à exploser, les banques cherchaient encore des moyens de soutenir les efforts de la Grèce pour ne pas rendre de comptes. Début novembre – trois mois avant qu’Athènes ne devienne l’épi­centre d’un ébranlement planétaire du monde de la finance – une équipe de Goldman Sachs s’est rendue dans la cité antique pour faire à un gouvernement qui se débattait pour payer ses dettes une proposition fort moderne ; c’est ce que racontent deux personnes qui ont été instruites lors de cette rencontre.

Les banquiers – emmenés par Gary D. Cohn, Président de Goldman Sachs – ont fait miroiter un instrument financier qui aurait repoussé dans un lointain avenir l’endettement du système de santé grec – un peu comme des propriétaires en faillite prendraient une seconde hypothèque sur leur maison, pour amortir le découvert de leurs cartes de crédit.

Autrefois, cela avait fonctionné. Des familiers de la transaction ont dit qu’en 2001, peu après l’entrée de la Grèce dans l’Union monétaire européenne, Goldman Sachs avait aidé le gouvernement grec à emprunter en secret plusieurs milliards. Ce deal, dissimulé à l’opinion publique, puisqu’il avait été présenté davantage comme une transaction moné­taire que comme un emprunt, avait aidé Athènes à remplir les critères de déficit européens tout en continuant à dépenser au-delà de ses moyens.

Athènes n’a pas donné suite à la nou­velle proposition de Goldman Sachs, mais face à une Grèce qui croule sous les dettes et aux assurances de lui venir en aide fournies par ses voisins plus riches, les deals pratiqués au cours de la dernière décennie ont amené à se poser des questions sur le rôle de Wall Street dans le dernier épisode mondial des drames de la finance.

Tout comme lors de la crise des subprimes et de l’effondrement de l’American International Group AIG, les produits financiers dérivés jouaient un rôle dans l’énorme endettement de la Grèce. Il s’agissait d’instruments financiers que Goldman Sachs, J.P. Morgan Chase et d’autres banques avaient mis au point et qui permettaient à des politiciens grecs, italiens et d’autres encore, sans doute, de dissimuler de nouveaux emprunts.

Dans des douzaines de transactions à travers tout le continent, les banques consentaient des avances – en échange de paiements ultérieurs par les gouvernements, ces engagements n’étant pas mentionnés dans les livres de comptes. La Grèce avait, par ex­emple, abandonné les taxes aéroportuaires et les profits de la loterie nationale pour les années à venir.

Des voix critiques estiment que ces engagements, n’étant pas considérés comme des crédits, trompaient les investisseurs et les in­stances de régulation, quant à l’endettement effectif d’un pays.

Quelques-unes des transactions grecques avaient reçu des noms tirés de la mythologie. L’une d’elles, par exemple, avait été baptisée Eole, nom du dieu des vents.

La crise grecque représente cependant un défi majeur pour la devise européenne, l’euro, et pour la réalisation de l’unité économique du continent. Ce pays est, pour utiliser le jargon bancaire «to big to fail» – trop grand pour qu’on le laisse s’effondrer. Car la Grèce doit au monde 300 milliards de dollars, et de grosses banques frétillent à l’hameçon dont l’appât est constitué par une bonne partie de ces dettes. Un refus de paiements aurait des conséquences dans le monde entier.

Une porte-parole du ministère grec des Finances a déclaré qu’au cours des derniers mois, le gouvernement a rencontré un grand nombre de banques et n’a pris d’engagements envers aucune. Selon elle, tous les financements de la dette «seront menés avec un grand souci de transparence». Goldman et J.P. Morgan n’ont pas souhaité s’exprimer.

Si les manipulations de Wall Street ont éveillé peu d’attention sur la côte ouest de l’Atlantique, elles ont été sévèrement critiquées en Grèce et en Allemagne par le Spiegel. «Les politiciens voudraient faire avancer les choses et dès qu’une banque leur donne les moyens de repousser un problème à plus tard, ils tombent dans le panneau», a déclaré Gikas A. Hardouvelis, économiste et ex-fonctionnaire du gouvernement, qui a contribué à la rédaction du dernier rapport sur les pratiques comptables grecques.

Wall Street n’a pas créé le problème de l’endettement européen. Mais ce sont des banquiers qui ont fourni à la Grèce et à d’autres pays la possibilité de s’endetter au-delà de leurs moyens, et par le biais de trans­actions parfaitement légales. Il existe peu de règles relatives à la manière dont un pays doit lever des fonds pour financer son armement ou son système de santé, par exemple. Le marché de la dette publique – c’est ce que Wall Street entend par «obligations d’Etat» est aussi extensible que gigantesque.

«Quand un gouvernement veut tricher, il peut le faire», dit Garry Schinasi, un vieux briscard du département de surveillance des marchés financiers du Fonds monétaire international, qui observe la fragilité du marché mondial des capitaux.

Les banques ont exploité à fond ce qui représente, pour elles, une symbiose extrêmement lucrative avec les gouvernements dépensiers. Alors que la Grèce n’a fait aucun usage de la proposition de Goldman Sachs de novembre 2009, elle a payé à cette banque plus de 300 millions de dollars au titre de la transaction de 2001, selon les affirmations de plusieurs banquiers bien au courant.

Ce genre de produits dérivés, qui ne sont ni documentés ni déclarés publiquement, contribuent à augmenter encore l’incertitude sur l’ampleur des problèmes grecs et sur l’identité d’autres gouvernements qui auraient pratiqué une comptabilité analogue, ne figurant dans aucun bilan.

L’onde de défiance inonde maintenant les autres pays situés en périphérie de l’­Europe et qui connaissent des difficultés écono­miques, tout en rendant difficile l’accès aux crédits pour certains pays, dont l’Italie, l’Espagne et le Portugal.

Pour unifier l’Europe sous la ban­nière d’une devise unique, on avait créé l’euro avec un péché originel : certains pays – notamment l’Italie et la Grèce – étaient entrés dans la zone euro avec des déficits supérieurs à ceux qu’autorise le traité qui avait créé la devise. Au lieu d’augmenter les impôts ou de réduire leurs dépenses, ces pays ont réduit artificiellement leurs déficits en recourant à des produits dérivés.

Les produits dérivés ne sont pas forcément une mauvaise chose. La transaction de 2001 incluait un produit dérivé connu sous le nom de «swap». Cet instrument, dit «échange de taux d’intérêts», peut aider des pays ou des entreprises à maîtriser les fluctuations du coût de leurs crédits, en échangeant un taux fixe contre un taux variable et inversement. Une autre forme, les swaps de devises, peut atténuer les effets de la volatilité des taux de change.

Mais, grâce à J.P. Morgan, l’Italie a fait mieux encore. En dépit de la persistance de déficits élevés, elle a réussi en 1996, grâce à un produit dérivé, à rendre son budget accep­table, au moyen d’un échange de devises avec J.P. Morgan, à un taux de change favo­rable à la Grèce, ce qui a permis au gouvernement de disposer [de] davantage d’argent. En contrepartie, l’Italie s’est engagée à effectuer des paiements ultérieurs, non enregistrés comme contraignants.

«Les produits dérivés sont un instrument très utile», selon Gustavo Piga, professeur d’économie, qui a rédigé sur la transaction italienne un rapport destiné au Council on Foreign Relations. «Ils ne deviennent dangereux que s’ils servent à enjoliver le bilan.»

En Grèce, on s’est livré à encore plus d’acrobaties financières. On en est arrivé à un marché aux puces à l’échelon national, quand les représentants des autorités ont mis en gage les autoroutes et aéroports, pour se procurer un argent dont on avait un besoin urgent.

Grâce à Eole, une écriture comptable légalement créée en 2001, la Grèce a pu, cette année-là, réduire les dettes qu’affichait son bilan. La transaction prévoyait, entre autres, une avance de liquidités à la Grèce, en ­échange de la cession de futures redevances aéroportuaires. Un deal analogue, Ariane, daté de 2000, a englouti les recettes que le gouvernement tire de la loterie nationale. En dépit des doutes exprimés par beaucoup, la Grèce a classé ces transactions comme ventes, et non comme emprunts.

Les transactions de cette sorte sont très contestées dans les milieux gouvernementaux. Dès 2000, les ministres européens des Finances ont débattu avec âpreté pour savoir s’il fallait, ou non, publier les recours aux produits dérivés utilisés de manière créative en comptabilité.

La réponse a été négative. Mais, en 2002, on a exigé la publication de la comptabilité concernant les Ariane et Eole, qui ne figuraient pas dans le bilan budgétaire des pays, et invité les gouvernements à faire une nouvelle déclaration où ils apparaissent non comme ventes, mais comme crédits.

Toutefois Eurostat, l’Office statistique des Communautés européennes, déclarait en­core en 2008 que «dans un grand nombre de cas, les opérations de titrisation des crédits sont agencées de manière à obtenir, prétendument, un résultat comptable donné, sans tenir compte de la valeur économique réelle de l’opération.» De tels artifices comptables peuvent être profitables à court terme, mais se révéler dévastateurs au fil du temps.

George Alogoskoufis – lors d’un remaniement politique, [il] a été ministre des Finances en Grèce, après le deal avec Goldman – a cri­tiqué, en 2005, cette transaction, devant le Parlement. Celle-ci obligerait le gouvernement, arguait-il, à effectuer de très lourds paiements à Goldman jusqu’en 2019.

Alogoskoufis, qui démissionna un an plus tard, a déclaré la semaine dernière par mail que Goldman avait accepté par la suite une refonte de la transaction «pour restaurer la bienveillance de la République hellène». Selon lui, le nouveau projet était meilleur pour la Grèce.

Selon deux personnes au courant de la transaction, Goldman Sachs a vendu en 2005 le swap de taux d’intérêt à la Banque nationale de Grèce, la principale banque du pays. En 2008, avec l’aide de Goldman Sachs, la banque a inclus le swap dans une écriture juridique baptisée Titlos. Selon Dealogic, un établissement de recherches sur la finance, la banque a conservé les reconnaissances de dettes de Titlos, pour les présenter comme des garanties permettant d’obtenir davantage de crédits de la BCE.

Edward Manchester, premier vice-président de l’agence de notation de solvabilité Moody’s, a déclaré que, vu les engagements à long terme, la Grèce serait en fin de compte la perdante. Selon lui, «le swap Titlos restera toujours non rentable pour le gouvernement grec.»

Source : New York Times – International Herald Tribune du 14 février 2010

L'OTAN: un pacte militaire en quête de sens

Bernhard TOMASCHITZ :

L’OTAN : un pacte militaire en quête de sens

 

Désormais, l’OTAN veut agir globalement pour asseoir l’hégémonie américaine

 

otan1.jpgDeux décennies après la fin de la Guerre Froide, l’OTAN est toujours à la recherche de nouveaux objectifs. On peut déjà deviner dans quelle direction portera la « nouvelle stratégie », décidée fin 2009 lors du Sommet de l’OTAN. L’Alliance atlantique cherche surtout à se donner une nouvelle justification en optant pour des missions en dehors de la zone où elle est sensée agir, des missions qualifiées en anglais de « out of area ». « A une époque d’insécurité globalisée, nous devons amorcer une défense au-delà de nos frontières », a déclaré le Secrétaire général de l’OTAN, Anders Fogh Rasmussen, lors d’une conférence sur la sécurité tenue à Munich.

 

Aujourd’hui déjà, le pacte militaire occidental et ses membres s’efforcent de se défendre « hors zone », notamment en Afghanistan. Dans le pays où se dresse la chaine montagneuse de l’Hindou Kouch, stationne une « armée de protection », l’ISAF, qui est placée sous le commandement de l’OTAN ; elle y agit toutefois sur base d’une résolution du Conseil de Sécurité de l’ONU. Dans l’avenir pourtant, on envisage de faire intervenir l’OTAN sans l’autorisation des Nations Unies, lorsque ses intérêts, ou mieux, les intérêts de Washington, sont en jeu. Car l’OTAN doit devenir, comme l’estime son Secrétaire général Rasmussen, un « forum consultatif pour les questions internationales de sécurité ».

 

Avec cette revendication globale d’hégémonie, on cherche bien évidemment à protéger, surtout contre la Chine, la position hégémonique des Etats-Unis dans le monde. Finalement, l’OTAN, comme le soulignait Rasmussen à Munich, « est surtout et avant tout une alliance transatlantique ; notre centre de gravité restera l’alliance entre l’Europe et l’Amérique du Nord ». Mais comme l’OTAN et les Etats-Unis ne pourront plus agir seuls désormais, il leur faut systématiquement mobiliser « d’autres acteurs importants » et on songe en premier lieu à la Russie. Dans ce contexte, c’est surtout le contrôle des immenses richesses du sol russe qui joue le rôle primordial, richesses que recèlent la Sibérie et l’Extrême Orient russes, peu peuplés.

 

Depuis longtemps dans le collimateur de Washington se trouvent également les incalculables réserves de matières premières des républiques centre-asiatiques, surtout celles de gaz et de pétrole. Dans le projet d’amener ces Etats dans la sphère d’influence américaine, la Turquie joue un rôle clef parce qu’elle possède d’étroites affinités linguistiques et culturelles avec les peuples turcophones d’Asie centrale. La Turquie, membre de l’OTAN, a des « intérêts spéciaux en Asie centrale », comme le dit avec insistance Zbigniew Brzezinski, conseiller toujours très influent pour la Sécurité nationale et cela, depuis le temps où il servait l’ancien président américain Jimmy Carter.

 

Pour ce qui concerne les manœuvres destinées à contrôler la Russie, les stratèges de Washington et du Quartier Général de l’OTAN à Mons en Belgique semblent suivre une double stratégie : d’une part, ils essaient de mettre la Russie devant le fait accompli en élargissant continuellement l’OTAN en direction des frontières russes ; d’autre part, ils misent sur le facteur temps. Zbigniew Brzezinski pense que les « ambitions impériales » de la Russie constituent actuellement un frein à l’inclusion de la Russie dans une « communauté euro-atlantique ». Mais il espère, en même temps, qu’une nouvelle génération de dirigeants russes reconnaîtra bientôt que renoncer aux « ambitions impériales » va dans le sens des « intérêts fondamentaux de la Russie ». Ensuite, Brzezinski espère que le terrible déclin démographique de la Russie poussera Moscou dans les bras de l’Occident. Encerclé par 500 millions d’Européens à l’Ouest et 1,5 milliard de Chinois à l’Est, le Kremlin, pour assurer un contrôle sur ses propres matières premières situées dans des régions peu peuplées, n’aurait, d’après les arguments avancés par Brzezinski, pas d’autre choix que de coopérer avec l’OTAN.

 

Mais la Russie, pour de bonnes raisons, ne perçoit pas l’OTAN comme un partenaire potentiel mais comme un adversaire. Le 5 février 2010, le jour même où l’on ouvrait la Conférence de Munich sur la sécurité, le Président Dimitri Medvedev donnait son blanc seing à la nouvelle doctrine militaire russe, destinée à demeurer en vigueur jusqu’en 2020. Dans le document qui établit cette doctrine, les militaires russes critiquent le fait que « les infrastructures militaires de l’OTAN » se rapprochent de plus en plus des frontières de la Russie ; ils estiment en outre que la mise en place d’un « système stratégique anti-missiles » constitue une menace pour la sécurité de la Russie et, qui plus est, une entorse à « l’équilibre global des forces ». Certes, on peut dire que le gouvernement d’Obama a renoncé à installer un système anti-missiles en Pologne et en Tchécoslovaquie mais, en lieu et place de cette installation préalablement prévue par les Américains, on apprend qu’un « traité bilatéral » vient d’être signé avec la Roumanie, prévoyant la mise en place d’un système de même type dans ce pays d’ici à l’année 2015, afin, prétend-on, de parer à la menace de missiles iraniens. Les militaires russes réservent toutefois leurs critiques les plus acerbes au plan américain de déployer des navires Aegis, disposant de missiles SM-3, dans les eaux de la Mer Noire. Car, selon les clauses du Traité de Montreux de 1936, auquel tant la Russie que la Roumanie ont adhéré, les navires de guerre de pays non riverains ne peuvent circuler plus de 21 jours consécutifs en Mer Noire.

 

Moscou observe aussi avec grande méfiance la constitution en août 2009 du « Conseil des Sages de l’OTAN » qui a pour tâche d’élaborer les nouvelles stratégies du pacte militaire. La présidente de ce caucus de douze personnalités n’est autre que l’ancienne ministre américaine des affaires étrangères, Madeleine Albright. Lors de son mandat, en 1999, l’OTAN avait attaqué la Serbie par la voie des airs. Parmi les autres membres de « Conseil des Sages », il faut compter Geoff Hoon. Ce Britannique était le ministre des affaires étrangères du gouvernement Blair, lorsqu’en mars 2003, la Grande-Bretagne avait fait entrer ses troupes en Irak, aux côtés de celles des Etats-Unis.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans l’hebdomadaire viennois « zur Zeit », n°7/2010 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).    

Obama: Yes, we can kill

Obama: Yes, we can kill

Gerhard Wisnewski / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Tja, unser Barack Obama. Hat man doch gleich geahnt, dass »Yes, we can« irgendwie unvollständig ist. Der gute Barack wollte uns einfach nicht sagen, was wir nun eigentlich können. Nun wissen wir es: »Yes, we can kill« …

obama-chosen-one.jpgIrgendwie sind seine Fans ziemlich still geworden. Kein Wunder: Da killt er in Pakistan fröhlich vor sich hin und knipst »Terroristen«, aber auch Zivilisten von der Luft aus ab. Mit ferngelenkten Drohnen. Ist ungefähr so wie ein Videospiel. Jemand sitzt an einem Bildschirm und betätigt einen Stick – und »paff«: Weg ist der Terrorist. Oder wer auch immer. Denn natürlich kann man Terroristen von Zivilisten gar nicht unterscheiden. Es ist ja das Wesen des Terroristen, dass er in zivil unterwegs ist. Uniformiert ist nur eine reguläre Truppe. Befindet sich der Terrorist in Wirklichkeit also gar nicht am Boden, sondern quasi am anderen Ende des Sticks? Oder gar im Weißen Haus? Das zu beweisen, erfordert nur ein wenig simple Logik.

»Darf ein demokratischer Rechtsstaat per Mausklick töten?«, grämt sich das Zentralorgan »Spiegel Online« angesichts des US-Drohnenkrieges gegen »Al-Qaida« in Pakistan. Eine gute Frage, die aber zu kurz greift. Denn entscheidend ist ja nicht die bloße Technik, sondern die Frage, ob ein demokratischer Rechtsstaat überhaupt relativ wahllos Menschen massakrieren darf – ohne Gerichtsverfahren, ohne Urteil. Und selbstverständlich auch ohne Beweise. Denn wen die USA nun warum zum »Terroristen« ernennen – womöglich h.c. –, bleibt im Wesentlichen ihr Geheimnis. Die wirkliche Frage muss daher lauten: »Kann ein Staat, der relativ wahllos Menschen tötet, ein demokratischer Rechtsstaat sein?« Und die Antwort lautet natürlich nein. So etwas kann nur ein menschenverachtendes Regime tun.

Die Faustregel für uns heißt daher: Terrorist ist der, der von irgendeinem Terroristen in der CIA, im US-Militär oder in der US-Regierung dazu ernannt wird. »Terroristen« in der US-Regierung? Na klar: Denn während der erklärte Terrorist relativ irreal und unbestimmt bleibt, ist der unstreitig reale Terrorist der, der den Joystick betätigt – und natürlich der, der die Befehle dazu gibt. Denn dass er wirklich abknallt, wer ihm gerade vor die Drohne läuft, wird ja ganz offiziell eingeräumt. Ob dagegen das arme Schwein, das da unten am Boden von Raketen zerfetzt wird, wirklich ein Terrorist ist, ist durchaus unklar.

Klar dagegen ist, dass die Befehlshaber und -empfänger in den USA gegen jedes Menschenrecht andere Menschen töten. Und das ist ziemlich genau die Definition von »Terrorist«. Ja, es ist sogar der Wesenskern des Terrorismus (von lat. »terror« = Schrecken), dass er ebenso wahl-  wie scheinbar sinnlos zuschlägt. Dass also jeder ständig unter der Todesdrohung leben muss. Was man auch die »Strategie der Spannung« nennt. Denn klar ist ferner, dass zumindest die Dutzenden von Zivilisten um die »Zielperson« herum mit Terrorismus in der Regel überhaupt nichts zu tun haben, und dennoch liquidiert werden – einfach, weil sie in der Nähe waren.

Aber zum Glück haben wir ja noch die freie Presse, wie etwa Spiegel Online, die das alles aufdeckt. Allerdings bestimmt nicht, um einen Skandal zu entfachen oder Obama an den Pranger zu stellen. Sondern um die Massen an den Gedanken zu gewöhnen,  dass es gerechtfertigt sein kann, wahllos Zivilisten umzubringen.

Am 5. August 2009 zum Beispiel sei es gelungen, einen Baitullah Mehsud zu töten – im 16. Anlauf. »An jenem Tag schwebte eine Drohne vom Typ Predator gut drei Kilometer über dem Haus von Mehsuds Schwiegervater in der pakistanischen Provinz Südwaziristan. Ihre Infrarotkamera sandte in Echtzeit gestochen scharfe Bilder an die CIA-Zentrale in Langley im US-Bundesstaat Virginia. Der Top-Talib saß auf dem Dach des Hauses. Seine Ehefrau, sein Onkel und ein Arzt leisteten ihm Gesellschaft. In diesem Moment wurde Tausende Kilometer entfernt, in den USA, ein Auslöser betätigt. Zwei Hellfire-Raketen schossen aus der Drohne – und trafen ihr Ziel. Am Ende waren Baitullah Mehsud und elf weitere Menschen tot.«

Toll. »16. Anlauf« heißt: Man hat halt ein wenig herumprobiert: »Insgesamt, so die Schätzungen, starben bei den 16 Angriffsversuchen zwischen 207 und 321 Personen – und nicht alle waren Taliban, das ist gewiss.«

Was sich ganz so anhört, als veranstalteten die USA mit ihren Drohnen in Pakistan ein mehr oder weniger lustiges Tontaubenschießen, bei dem sie jeweils einige hundert Menschen abknallen, um dann hinterher zu behaupten: Der zweite Turbanträger von rechts, das war der bekannte Terrorist Mohammed al-Satan.

Na und – ist doch in Afghanistan! Oder in Pakistan! Ja, aber nicht mehr lange. Das ist nur ein Testgebiet mit billigen, recht- und namenlosen Versuchskarnickeln. Sobald das US-Imperium die ganze Welt beherrscht und die Serienproduktion angekurbelt hat, werden die Drohnen den ganzen Globus umschwirren wie Schmeißfliegen. Ortungen aus Handy- und GPS-Netzen werden mit  Identitäten verknüpft und an die Drohnen weitergeleitet. Im Prinzip braucht's dazu auch keine »Piloten« mehr. Sondern die Drohnen übernehmen die Pflege der Landschaft vollautomatisch.

Obama will Guantanamo schließen? Kein Wunder. Denn in Wirklichkeit will Obama überhaupt keine Gefangenen mehr machen. Und das wiederum hört sich so an, als wäre der große Friedensnobelpreisträger Obama in Wirklichkeit ein Kriegsverbrecher.

 

Mittwoch, 10.03.2010

Kategorie: Geostrategie, Politik, Terrorismus

© Das Copyright dieser Seite liegt bei Gerhard Wisnewski


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lundi, 15 mars 2010

L'Armenia tra Erdogan e Obama

armeniasvg_2.pngL'Armenia tra Erdogan e Obama

di Michele Paris

Fonte: Altrenotizie [scheda fonte]

La recente condanna, da parte di una commissione parlamentare del Congresso americano, del genocidio di un milione e mezzo di armeni in Turchia nel 1915, è giunta in un momento molto delicato nei rapporti tra Washington e Ankara. Oltre a mettere a rischio la collaborazione turca su cui contano gli USA in più di una questione in Medio Oriente e in Asia sud-occidentale, il voto della scorsa settimana minaccia contemporaneamente di far saltare il complicato processo di distensione in corso tra Turchia e Armenia.

Ad agitare le acque è stato il voto (23 favorevoli e 22 contrari) con cui la Commissione Esteri della Camera dei Rappresentanti americana giovedì scorso ha bollato come “genocidio” il massacro della popolazione armena durante la Prima Guerra Mondiale. Secondo la Turchia, quei fatti non rappresenterebbero invece uno sterminio di massa deliberatamente progettato, ma andrebbero piuttosto inseriti nel caos del conflitto mondiale e del crollo in atto dell’Impero Ottomano, assediato da più parti, inclusa una ribellione interna armena appoggiata dalla Russia.

La risoluzione, promossa dal deputato democratico della California Howard Berman, dovrebbe così invitare il presidente degli Stati Uniti a impiegare la parola “genocidio” per descrivere la strage del 1915 nel corso del consueto discorso annuale che si terrà il prossimo mese di aprile. Per ottenere la definitiva approvazione, tuttavia, l’iniziativa della Commissione Esteri dovrà prima assicurarsi il voto dell’aula, ipotesi piuttosto improbabile alla luce delle reazioni che essa ha immediatamente suscitato.

Per impedire il passaggio della risoluzione sul genocidio armeno, il governo turco del Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan aveva inviato a Washington alcuni parlamentari del partito di maggioranza ed era ricorso anche ai servizi di una nota compagnia americana di pubbliche relazioni per influenzare i politici coinvolti nel processo di voto. Nonostante gli sforzi é arrivata però l’approvazione e Ankara ha proceduto con il richiamo del proprio ambasciatore negli USA, promettendo ritorsioni più gravi in caso di un prossimo voto dell’intera Camera dei Rappresentanti sulla questione.

“Siamo seriamente preoccupati che il voto di condanna possa danneggiare le relazioni tra Stati Uniti e Turchia e impedire gli sforzi di normalizzazione nei rapporti tra Turchia e Armenia”, ha riassunto una nota dell’ambasciata turca a Washington. Le stesse preoccupazioni devono aver turbato anche il presidente Obama e il segretario di Stato, Hillary Clinton, entrambi impegnati nel vano tentativo di impedire il voto in commissione - sia pure tardivamente e nonostante il loro parere favorevole alla definizione di “genocidio” espresso in campagna elettorale nel 2008.

Con l’aumentare della sua influenza su scala regionale, d’altra parte, gli USA fanno affidamento sulla Turchia in relazione a molteplici questioni, a cominciare dalla pace tra palestinesi e israeliani, per passare al nucleare iraniano, al ripristino di normali rapporti con la Siria e alla stabilizzazione dell’Afghanistan. In quest’ultimo paese, inoltre, Ankara ha da poco incrementato il proprio contingente militare, mentre consente agli americani l’accesso ad alcune basi militari sul proprio territorio per facilitare i collegamenti logistici con l’Iraq occupato.

La potente comunità armena che vive negli Stati Uniti aveva già ottenuto qualche risultato parziale in passato sulla strada verso il riconoscimento del genocidio del 1915. Nel 1975 e nel 1984 la Camera dei Rappresentanti aveva approvato risoluzioni simili, le quali non avevano però mai raggiunto il Senato. Più recentemente, nel 2007, la Commissione Esteri della Camera si era espressa ancora una volta a favore, ma la fortissima opposizione proveniente dalla Casa Bianca occupata da George W. Bush aveva impedito il voto definitivo dell’aula.

A far sentire il proprio peso in quell’occasione era stata un’altra lobby molto influente dall’altra parte dell’oceano, quella israeliana. Un’influenza pro-turca sul Congresso che era iniziata sul finire degli anni Ottanta in concomitanza con la costruzione dell’alleanza strategica tra Israele e Ankara. Il deteriorarsi dei rapporti tra i due paesi negli ultimi tempi – a partire almeno dall’operazione “Piombo Fuso” lanciata a Gaza da Israele a fine 2008 e duramente condannata dal governo di Erdogan – può in parte spiegare il nuovo voto sulla condanna del genocidio armeno. Tanto più che lo stesso deputato Berman, e altri membri della Commissione Esteri che hanno appoggiato la mozione, risultano tradizionalmente vicini alle lobby israeliane in America.

Come a Tel Aviv, in molti ambienti filo-israeliani negli USA si guarda infatti con crescente preoccupazione al sempre maggiore coinvolgimento della Turchia nelle vicende del mondo arabo. Allo stesso modo, i settori neo-conservatori vicini a Israele ritengono che il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) che governa ad Ankara stia pericolosamente indebolendo il tradizionale secolarismo delle istituzioni turche, facendo scivolare il paese verso una deriva islamista.

D’altro canto, altre associazioni filo-israeliane di destra, come l’Istituto Ebraico per la Sicurezza Nazionale (JINSA), e giornali conservatori, come il Wall Street Journal, si sono invece opposti alla condanna del genocidio armeno, precisamente per timore di un possibile ulteriore inasprimento dei rapporti con la Turchia, un alleato troppo importante per Israele e Stati Uniti. Una divergenza di opinioni che potrebbe aver diviso il fronte pro-israeliano e dato il via libera alla condanna del genocidio.

L’altro e più immediato effetto del voto in America sulla questione armena, come già anticipato, potrebbe riguardare il congelamento del processo di riavvicinamento tra Yerevan e Ankara. Da qualche tempo, il governo di Erdogan aveva mostrato una certa disponibilità nei confronti del vicino orientale per rivedere i sanguinosi eventi del 1915. Il nuovo atteggiamento aveva portato lo scorso settembre al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Armenia e alla riapertura dei rispettivi confini, chiusi fin dal 1993.

Con la mediazione della Svizzera, e con il sostegno di Washington, era stato anche raggiunto un accordo per un trattato tra i due paesi, vincolato in ogni caso alla risoluzione della disputa territoriale tra Armenia e Azerbaijian - paese alleato della Turchia - per l’enclave territoriale del Nagorno-Karabakh. Il voto alla Commissione Esteri della Camera americana ha però spinto Ankara a bloccare la ratifica dell’accordo, assestando potenzialmente un colpo letale alle prospettive del già difficile processo di riconciliazione turco-armeno.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

jeudi, 11 mars 2010

Le réveil du Vieux Monde

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Le réveil du Vieux Monde

par Louis SOREL

 

L'édifice diplomatico-stratégique s'écroule et l'Etablissement politique et médiatique n'en finit pas de jouer les prolongations. Ainsi, Thierry de Montbrial, docteur de l'IFRI, prêche le statu quo quand celui-ci n'existe plus, et Jacques Attali, sous couvert de prospective, fait dans le millénarisme soft  (1). C'est donc avec bonheur que nous avons lu le dernier ouvrage de William Pfaff, Le réveil du Vieux Monde. Citoyen américain de souche rhénane, vivant à Paris, William Pfaff développe avec finesse et objectivité ses analyses sur l'ordre international de l'après-guerre. Son diagnostic est sévère et lucide: les héros (Etats-Unis et URSS) sont fatigués et les fissures du monde bipolaire laissent entrevoir un possible retour à la primauté pluriséculaire de l'Europe.

 

indexooooooo.jpgC'est à travers l'analyse de l'évolution conjointe des forces militaires et des ressources économiques des principaux Etats que Paul Kennedy affirme inéluctable le déclin américain (2). Refusant ce primat de l'économique, William Pfaff met en exergue la pluralité des facteurs à l'œuvre dans la genèse de toute configuration historique et l'importance qu'il accorde au substrat culturel l'amène à rejeter l'historicisme linéaire de l'idéologie dominante: «Elles (les sociétés non occidentales) se trouvent ailleurs et sont les héritières d'un passé différent. Et il n'est pas totalement déraisonnable de penser qu'elles puissent avoir un avenir différent». A l'égard de l'histoire la plus immédiate, l'auteur, s'il évoque l'éventuelle responsabilité de l'Allemagne dans le déclenchement de la guerre civile européenne, ne s'en tient pas à la condamnation morale d'un fascisme a-temporel. Le second conflit mondial ne saurait s'expliquer par l'irruption du Malin dans le monde, et si césure il y a, c'est en 1914 que l'Europe, jusqu'alors robe sans coutures, se déchire. En 1917, débarquent les troupes américaines alors que la révolution bolchévique, "traumatisme politique" initial, met fin à l'homogénéité d'une société internationale longtemps eurocentrée. Le système Est-Ouest émerge (dialectique du bolchévisme et de l'anti-bolchévisme), le stalinisme et l'hitlérisme, incarnations de la révolution et de la contre-révolution, recourant aux formes et au symbolisme du système de guerre. Le phénomène totalitaire s'enracinant dans cette époque particulière, anti-fascisme et anti-communisme n'apportent aujourd'hui aucun cadre d'analyse satisfaisant (3).

 

Le «siècle américain» n'a pas

duré cinquante ans...

 

Quarante-cinq années après la clôture de cette guerre de trente ans, la bi-hégémonie américano-soviétique est remise en cause. «Le siècle américain n'aura pas duré cinquante ans» et W. Pfaff fait de l'idéologie américaine la cause majeure des revers extérieurs. De l'isolationnisme de l'Age classique à l'internationalisme de l'après-guerre, la politique extérieure des Etats-Unis se fonde en effet sur la présomption de supériorité morale; qu'il s'agisse de se préserver de ce monde corrompu ou de le convertir, avec pour postulat tacite de Washington à Bush: «L'Amérique ne serait en lieu sûr dans le monde que le jour où le monde lui ressemblerait d'assez près» (4).

 

Ce messianisme à base de calvinisme et de libéralisme n'a cessé de se heurter à la force des choses. L'Amérique s'est enthousiasmée pour les «Etats-Unis d'Europe» mais depuis le guerre commerciale fait rage et l'insipide technocrate qu'est Jacques Delors se surprend à hausser le ton! L'Amérique a cru l'Asie plus docile et ouverte à son influence  mais elle n'en finit pas d'exorciser le spectre du Vietnam!

 

Et pourtant, le vieux vocabulaire de l'exceptionalisme américain persiste, faute d'autre philosophie politique: «Mise au défi de repenser la politique en Amérique centrale, la Commission Kissinger, groupe de réflexion à dominante conservatrice qui remit son rapport en 1984, ne trouva rien de mieux à proposer qu'un ambitieux programme d'assistance pour aider les populations centre-américaines à faire leur la vision de l'avenir que représentent nos idéaux».

 

Parallèlement, les anciennes sociétés culturellement autonomes d'Europe centrale et d'Eurasie auront survécu à la puissance soviétique et démontrent le caractère inéluctablement transitoire du communisme. Cette volonté de faire table rase du passé a généré la situation d'insécurité permanente de l'URSS.

 

Aujourd'hui l'Amérique souffre d'hypertrophie impériale et invoquer les mânes des Founding Fathers  ne conjurera pas le déclin. De même, le retour de Lénine prôné par Gorbatchev ne peut légitimer un système à bout de souffle (5). Ironie de l'histoire, «de cette révolution, il (Gorbatchev) pourrait bien être le Kérenski!». La rétraction des deux protagonistes du jeu politique mondial n'est pas sans risques, mais la fin du «siècle américain» débouche sur un nouveau «siècle européen». De fait, le thème récurrent du Pacifique, Méditerranée du XXIième siècle, a pu dominer l'orée des années 80, la remarquable réussite d'un Japon fondamentalement autre n'a pas valeur paradigmatique, W. Pfaff se montrant circonspect quant à l'éveil de la Chine, tant la vigueur des cultures de frontière fait défaut à la civilisation centrale (6). Demeure donc au centre du monde l'Europe, dont le partage était l'enjeu de la guerre froide, les Etats-Unis ne pouvant s'en abstraire sans renoncer à la puissance.

 

Quelles destinées pour

la Grande Europe...?

 

«Lorsque le maître de la mer dispose d'un pareil atterrage, écrit Georges Buis, il ne le lâche pas». De bon gré, ajouterions-nous. Un temps déclassée mais bénéficiant des plus formidables antécédents historiques, «l'Europe pourrait même à l'avenir compter davantage que les Etats-Unis». Ecrivant ces lignes avant le jeu de domino de l'automne 1989, l'auteur n'envisage alors que le seul sort de la CEE; avec la fermeture de la parenthèse soviétique, les destinées de la Grande Europe sont manifestement autres que celles des Etats-Unis.

 

«Depuis la fin de la guerre, le privilège de l'irresponsabilité a été la qualité saillante de la situation en Europe» et, après quarante années de statu quo, l'espace paneuropéen est à organiser, la question centrale étant l'avenir de l'URSS. Constatant que l'occupation du glacis centre-européen n'a pu assurer la sécurité de l'Etat soviétique, W. Pfaff estime possible et nécessaire un arrangement russo-européen fondé sur la claire conscience du coût prohibitif et de l'irrationalité politique de toute nouvelle guerre en Europe. A cette fin, il réhabilite le statut de la Finlande acquis à la pointe de l'épée et injustement dénigré. «La vieille peur de la Russie, consciente de sa faiblesse et de son arriération, a toujours été la peur de l'encerclement», la neutralisation de l'Europe centrale pourrait l'en affranchir.

 

La guerre froide terminée, W. Pfaff n'entonne pas pour autant un Te Deum.  Au terme d'une aventure politique et morale qui a commencé avec le voyage de Lénine dans un fourgon scellé, les étoiles sont mortes (intitulé du premier chapitre). «L'Amérique fut un empire éphémère» et l'Europe reste «le nœud de l'histoire contemporaine». L'histoire nous offre une page blanche: «L'aventure léniniste est terminée. La question capitale demeure: qu'est-ce qui a commencé?».

 

Louis SOREL.

 

William PFAFF, Le réveil du Vieux Monde. Vers un nouvel ordre international, Calmann-Lévy, 1990, 130 FF.

 

Notes

 

(1) Dans le Figaro  du 5 octobre 1989, Thierry de Montbrial prétend vouloir favoriser leur (les peuples de l'Europe de l'Est) affranchissement de l'impérialisme soviétique, mais «sans bouleverser l'équilibre européen, car nous ne serions certainement pas prêts à en assumer les risques». Jacques Attali, pseudo-futurologue, prédit dans Signes d'horizon  (Fayard, 1989) la fin de la crise par la généralisation de l'ordre marchand, un mode de vie universel, le triomphe de l'individu et du nomadisme...». Voir également John Naisbitt, Méga-tendances - 1990-2000 (éd. First).

(2) Cf. Paul Kennedy, Naissance et déclin des grandes puissances, Payot, Paris, 1989. Cfr. Vouloir  n°50/51. La version originale a suscité un important débat aux Etats-Unis.

(3) cf. Alain de Benoist, «Pensée politique: l'implosion», in Krisis,  n°1, 1989.

(4) Sur la politique extérieure des Etats-Unis, voir Bernard Boëne, «La stratégie générale des Etats-Unis ou le jeu sans fin (?) de l'idéologie et du réalisme», in Stratégique,  n°39/1988. Et l'essai de Michel Jobert, Les Américains  (Albin Michel, 1987).

La prégnance de l'American Creed  depuis deux siècles explique l'aspect "croisade messianique" et les caractères anti-clausewitziens des guerres américaines: les objectifs poursuivis  -la capitulation sans condition de l'adversaire-  et les moyens mis en œuvre sont disproportionnés par rapport aux enjeux initiaux.

(5) Contre la thèse aronienne du projet humanitaire dévoyé par Staline, lire Dominique Colas, Lénine et le léninisme,  PUF, 1987. L'auteur y démontre avec rigueur le caractère intrinsèquement totalitaire du léninisme.

(6) W. Pfaff se réfère à Arnold Toynbee dont l'ouvrage majeur, L'Histoire  (Bordas, 1981) a été recensé par Ange Sampieru dans Vouloir  n°50/51.