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dimanche, 04 juillet 2010

Le élites di Washington sono molto préoccupate per i nuovi blocchi anti-egemonici

Le élites di Whashington sono molto preoccupate per i nuovi blocchi anti-egemonici

di Pepe Escobar - Salvador Lopez Arnal

Fonte: Come Don Chisciotte [scheda fonte]





Lentamente ma energicamente il popolo del Sud si organizza e si prepara politicamente non solo per frenare l'imperialismo militarista e bellicista degli Stati Uniti ma anche per mettere fine all'ipocrisia dell'abuso di dominazione neo-coloniale da parte delle potenze industriali europee, con le loro addormentate società civili. Frenare le ingiustizie a cui sono sottomessi numerosi popoli in pieno ventunesimo secolo, rispetto e mutua reciprocità sono i nuovi dogmi. In questa intervista, il nostro collega Pepe Escobar analizza il modo in cui alcuni paesi emergenti, come il Brasile, la Turchia o l'India, stanno organizzando una nuova era di relazioni armoniche e rispettose fra i popoli.

Domanda: in un recente articolo pubblicato da Asia Times Online [1], tradotto da Sinfo Fernández di Rebelión, lei parlava della dominatrice. Mi permetta di complimentarmi per la sua trovata terminologica. Perché lei crede che la Segreteria di Stato statunitense (Hillary Clinton) si adatti bene a questo termine? Non sono migliorate le forme di politica estera degli Stati Uniti nell'amministrazione Obama?

Pepe Escobar: Hillary è una dominatrice nel senso che è capace di soggiogare tutto il Consiglio di Sicurezza dell'ONU invece di ammettere il fallimento della sua diplomazia. Forse lo ha imparato con Bill... O forse sono tutti masochisti.

No, non è così. La ragione principale è che la Cina e la Russia si lasciarono dominare. Cina e Russia decisero che era meglio lasciare la stridula Hillary dominare il palco per qualche giorno, e lavorare in silenzio per raggiungere il loro obiettivo: porre sanzioni con il massimo sentore “light” su Teherán. Per ciò che riguarda l'Iran, gli Stati Uniti sono ciechi, lo vedono tutto rosso. Lo stesso può dirsi in relazione a Israele, lo vedono tutto bianco celestiale.

Domanda: il nodo centrale del suo recente articolo – «Irán, Sun Tzu y la dominatrix» [2] [
Traduzione Comedonchisciotte N.d.r] – è l'accordo fra le diplomazie di Brasile, Turchia e Iran sul tema dello sviluppo nucleare di quest'ultimo Paese. In cosa consiste questo accordo?

Pepe Escobar: è essenzialmente lo stesso accordo proposto dagli stessi statunitensi nell'ottobre del 2009. La differenza sta nel fatto che, secondo la proposta del 2009, l'arricchimento dell'uranio si realizzava in Francia e in Russia e ora, attraverso l'accordo, si effettuerà in Turchia.

La differenza fondamentale è nel metodo. Turchia e Brasile si sono comportate con diplomazia, senza polemiche e rispettando le ragioni iraniane. Altro dettaglio fondamentale: tutto quello che hanno fatto era già stato discusso in dettaglio a Washington. Quando è stato presentato un risultato concreto, quando è stato raggiunto l'accordo con l'Iran, Washington, mi permetta la metafora bellica, ha sparato loro un colpo nelle costole.


Domanda: non è una novità nella diplomazia internazionale che Brasile e Turchia, due paesi non contrapposti agli Stati Uniti, si mettano in gioco in questa faccenda? Perché lei crede che abbiano scommesso su questa strategia autonoma? Cosa vincerebbero? L'Iran non è forse lontano, molto lontano, dal Brasile?

Pepe Escobar: ogni Paese ha i suoi motivi per espandere la propria mappa geopolitica. La Turchia si vuole proiettare come attore eccezionale, che conta davvero in Medio Oriente. Ne consegue una politica diciamo post-Ottomana, organizzata dal Ministro delle Relazioni Estere, il professor Ahmet Davutoglu.

Anche il Brasile, con una politica molto intelligente di Lula e del suo ministro Celso Amorim, vuole posizionarsi come mediatore onesto nel Medio Oriente. Il Brasile fa parte della BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) che secondo me è attualmente il vero contro-potere all'egemonia unilaterale degli Stati Uniti. Se circa due settimane fa ha discusso formalmente a Brasilia la sua adesione, la Turchia sarebbe parte del gruppo, il quale sarebbe quindi chiamato BRICT. Questa è la nuova realtà nella geopolitica globale. E, senza dubbio, le vecchie élites di Washington sono diventate livide.

Domanda: non sembra, come lei stesso segnalava, che l'accordo abbia suscitato entusiasmo nella Segreteria di Stato né nei governi europei. Perché? Vorrebbero che la strada diplomatica fallisca per proseguire con le loro sanzioni e condurci ad uno scenario bellico? Se è così, cosa guadagnerebbero con esso? Non ci sarebbero troppi fronti aperti allo stesso tempo?

Pepe Escobar: dalla prospettiva della politica interna degli Stati Uniti, quello che interessa a Washington è cambiare il regime. Ci sono almeno tre tendenze in lizza. I “realisti” e la sinistra del Partito Democratico che sono a favore del dialogo; l'ala del Pentagono e dei servizi di intelligence vogliono almeno delle sanzioni, e i repubblicani, i neocolonialisti, le lobby di Israele e la sezione Full Spectrum Dominance del Pentagono vogliono un cambio di regime sia come sia, inclusa la strada militare, se fosse necessario.

I governi europei sono cagnolini da compagnia di Bush o di Obama. Non servono a niente. Ci sono voci autorevoli in alcune capitali europee e a Bruxelles. Sanno che l'Europa ha bisogno del petrolio e del gas iraniano per non essere ostaggi di Gazprom. Ma sono una minoranza.

Domanda: lei crede che il Governo iraniano aspiri, oltre le sue dichiarazioni, a possedere un armamento nucleare? Per farsi rispettare? Per piegare Israele? Per attaccarla? Pakistan nucleare, India nucleare, Israele nucleare, Iran nucleare. Tutta questa zona non diventerebbe un'autentica polveriera?

Pepe Escobar: sono stato molte volte in Iran e mi sono convinto di quanto segue: il regime iraniano può causare rabbia ma non è un sistema suicida. Il leader supremo, in diverse occasioni, ha annunciato una fatwa affermando che l'arma nucleare è “non-islamica”. Le Guardie Rivoluzionarie supervisionano il programma nucleare iraniano, senza dubbio, ma sanno molto bene che le ispezioni e il controllo della IAEA, Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica, sono molto seri. Se punteranno a sviluppare una bomba atomica rudimentale, saranno scoperti e denunciati immediatamente.

Di fatto, l'Iran non ha bisogno di alcuna bomba atomica come elemento di dissuasione. Gli basta un arsenale militare high-tech, di tecnologia sempre più avanzata. L'unica soluzione giusta sarebbe una denuclearizzazione totale del Medio Oriente che Israele, ovviamente, con i suoi più di duecento missili nucleari, non accetterà e mai rispetterà.

Domanda: che ruolo gioca la Russia in questa situazione? Lei ricordava che l'impianto nucleare di Bushehr fu costruito dalla Russia, che lì si stanno si stanno svolgendo le ultime prove e che probabilmente si inaugurerà quest'estate.

Pepe Escobar: Bushehr deve essere inaugurata in agosto, dopo molti ritardi. Per la Russia l'Iran è un cliente privilegiato in termini nucleari e degli armamenti. Ai russi interessa che l'Iran continui in questo modo, che la situazione non cambi. Non vogliono l'Iran come potere nucleare militare. È una relazione con molti nodi, ma soprattutto commerciale.

Domanda: nel suo articolo lei cita il vecchio generale e stratega Sun Tzu. Ricorda un aforisma del filosofo cinese: “lascia che il tuo nemico commetta i suoi errori e non correggerli”. Lei afferma che Cina e Russia, maestri strateghi quali sono, stanno applicando questa massima rispetto agli Stati Uniti. Che errori stanno commettendo gli USA? Sono tanto goffi i suoi strateghi? Non hanno per caso letto Sun Tzu?

Pepe Escobar: tutti gli statunitensi ben educati nelle università hanno letto Sun Tzu. Altra cosa è saperlo applicare. Cina e Russia, in una strategia comune ai BRIC, si accordarono per lasciare gli Stati Uniti con l'illusione di condurre le sanzioni, nello stesso tempo in cui lavorarono e lavorano per minarle al massimo e approvare in ultima istanza un pacchetto di sanzioni molto “light”. Russia e Cina vogliono stabilità in Iran con il beneficio delle loro importanti relazioni commerciali. Nel caso della Cina, tenga in conto che l'Iran è un grande fornitore di gas e questo riguarda la massima sicurezza nazionale.

Domanda: siamo, lei riassume, in una situazione in cui sul tavolo dell'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica c'è un accordo di interscambio approvato dall'Iran, mentre nelle Nazioni Unite è in marcia un'offensiva di sanzioni contro l'Iran. Lei si domanda di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”. Io le domando: di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”?

Pepe Escobar: la vera “comunità internazionale”, i BRIC, i paesi del G-20, le 118 nazioni in sviluppo del Movimento dei non-allineati, insomma, tutto il mondo in sviluppo, sta con Brasile, Turchia e la loro diplomazia di non-opposizione. Solo gli Stati Uniti vogliono sanzioni e i suoi patetici, ideologici cani da compagnia europei.

Domanda: lei afferma anche che l'architettura della sicurezza globale, “vigilata da un pugno di temibili guardiani occidentali auto-nominati”, è in coma. L'Occidente “atlantista” affonda come il Titanic. Non esagera? Non confonde i suoi desideri con la realtà? Non c'è il pericolo reale che l'affondamento distrugga quasi tutto prima di affondare definitivamente?

Pepe Escobar: io ero già di fronte, con l'orrore di tutto il mondo, come per ora poter almeno credere nella possibilità di un nuovo ordine, delineato soprattutto dal G-20 e dai paesi del BRICT. Inclusa la T finale.

Il futuro economico è dell'Asia e il futuro politico è dell'Asia e delle grandi nazioni in via di sviluppo. È chiaro che le élites atlantiste rinunciano al loro potere solo dopo aver visto i propri cadaveri distesi per terra. Il Pentagono continuerà con la sua dottrina di guerra infinita. Però prima o poi non avrà come pagarla. Non nego che sia una possibilità che gli USA, in un futuro prossimo, sotto l'amministrazione di un pazzo repubblicano di estrema destra, entri in un periodo di guerra allucinata, sconvolta. Se così fosse, sarà senza dubbio la sua caduta, la caduta del nuovo Impero Romano.

Domanda: quale forte lobby degli USA è a favore della guerra infinita a cui si è appena riferito? Chi sostenta e finanzia questa lobby?

Pepe Escobar: La guerra infinita è la logica della Full Spectrum Dominance, la dottrina ufficiale del Pentagono, che include “l’encirclement” di Cina e Russia, la convinzione che questi paesi non possano emergere come ficcanaso e competitori degli USA, e inoltre fare tutti gli sforzi per controllare o almeno vigilare Eurasia. È la dottrina del Dr. Strangelove [3], però è anche la mentalità dei dirigenti militari statunitensi e della maggioranza del suo establishment. Il complesso industrial-militare non ha bisogno dell'economia civile per sostentarsi. Ha in elenco un'enorme quantità di politici e tutte le grandi corporazioni.

Domanda: lei parla della dottrina del Dr. Zbigniew “conquisteremo l'Eurasia”. Un'altra trovata, mi permetta un altro complimento. Il vecchio assessore alla sicurezza nazionale, lei segnala, sottolineò che “per la prima volta in tutta la storia umana, l'umanità si è svegliata politicamente -questa è una nuova e totale realtà- , una cosa mai successa prima”. Secondo lei è così? Che parte dell'umanità addormentata si è svegliata?

Pepe Escobar: per le élites statunitensi il dato essenziale è che Asia, America Latina e Africa stanno intervenendo politicamente nel mondo in un modo impensabile durante il colonialismo e che la decolonizzazione è, per loro, un incubo senza fine. Come dominare chi ora sa come comportarsi per non essere dominato di nuovo? È una domanda basilare.

Domanda: Washington, profondamente unilaterale, lei segnala, non esita a puntare l'indice fino al più vicino dei suoi amici. Perché? Sono per caso l'incarnazione dell'Asse del Male? Può essere raggiunta l'egemonia con procedimenti così poco gentili? Fino a quando?

Pepe Escobar: Non si può sottovalutare la crisi statunitense. È totale: economica, morale, culturale e politica. Ed anche militare perché furono distrutti in Iraq e sono al limite di un’umiliante sconfitta totale in Afganistan. Il nuovo secolo americano morì già nel 2001. L'11 settembre, oggi, si può interpretare come un messaggio apocalittico di fine.

Domanda: ma qual è uno degli attori principali della politica statunitense nel Vicino Oriente? Israele è addormentato? Quali sono i piani dei bulli di Gaza? [4]

Pepe Escobar: Israele si è convertito in quello che io chiamo “briccone” [birbante, o stato villano]. Sparta paranoica, etno-razzista, che ha la responsabilità della macchia profonda dell'apartheid. Israele sarà ogni volta più isolata dal mondo reale, protetta solo dagli USA, di cui è uno Stato-cliente. E il suo incubo, come se si trattasse di un film horror hollywoodiano, sarà il ritorno di ciò che è stato represso: la storia gli farà pagare per tutto l'orrore che ha perpetrato e continua a perpetrare contro i palestinesi.

Domanda: che opinione ha dell'azione di Israele dello scorso 30 maggio? Che senso può avere un attacco a dei pacifisti solidali con Gaza?

Pepe Escobar: fa parte della stessa logica di sempre. Abbiamo sempre ragione; quelli che sono contro le nostre politiche sono terroristi o antisemiti. Ora Israele è nella fase di difendere l'indifendibile: il blocco di Gaza.

È chiaro che ora tutto il mondo lo sa e non lo potrà più ingannare con le sue bugie, la Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele. Ma dubito, come nel caso degli Stati Uniti, che questa volta siano capaci di imparare la lezione.

Pepe Escobar [foto accanto al titolo N.d.r.], analista geopolitico. È autore di «Globalistan: How the Gbalizad World is Dissolving into Liquid War» (Nimble Books, 2007) e di «Red Zone Blues: a shapshot of Baghdad during the surge». Recentemente ha pubblicato «Obama does Globalistan» (Nimble Books, 2009), un libro che merita di essere tradotto (in spagnolo) con urgenza.

NOTE

[1] Fonte:
http://www.atimes.com/atimes/Middle...

[2]
http://www.rebelion.org/noticia.php..., 27 maggio 2010.

[3] Il film di S. Kubrick il cui titolo in italiano è “il Dottor Stranamore”, uno dei film preferiti di Manuel Sacristán.

[4] La domanda è stata formulata prima dell'attacco alla Flotilla della libertà e solidarietà. L'intervista termina con una domanda sull'attacco. “La Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele”, afferma Escobar.

Titolo originale: ""LA GUERRA INFINITA ES LA LÓGICA DE LA DOCTRINA OFICIAL DEL PENTÁGONO”"

Fonte: www.rebelion.org
Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=107156
04.05.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GABRIELLA REHO
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[Truppe statunitensi sparse per il mondo nel tentativo di ottenere una dominazione militare, oltre che economica. Il caso iracheno è esemplare. Si tratta di un’invasione per il petrolio, con il pretesto di difendersi da possibili armi nucleari che non sono mai state trovate.]

vendredi, 02 juillet 2010

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un'invasione coordinata

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

di Hugo Rodríguez

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

Il presente articolo espone uno sguardo più comprensivo del coordinamento militare degli USA e del Regno Unito nella regione sudamericana. Negli ultimi due anni gli analisti locali hanno molto insistito sulla presenza americana senza mai menzionare una delle basi militari più grandi del mondo appartenente agli USA (Comando Sud) e, men che meno, senza riconoscere il ruolo e la complementarità che le stesse hanno da un punto di vista storico e fattuale nei riguardi della presenza militare del Regno Unito nella nostra terra e nelle nostre acque.

In questo primo lavoro che vi presentiamo, vogliamo solo evidenziare la localizzazione di tutte le basi (attuali e storiche); lasciando per successive illustrazioni la specifica analisi del Consiglio di Sicurezza dell’UNASUR, le analisi dei Ministeri della Difesa della regione, i loro principali successi e insuccessi.

Prendendo come spunto la ricerca effettuata dall’équipe giornalistica di TeleSur e con l’informazione ufficiale del Regno Unito e del Comando Sud degli Stati Uniti, ho sviluppato il seguente schema che evidenzia tutte le basi militari della NATO attualmente presenti in Sudamerica.


 

Base Militare

Localizzazione

Invasore

Organo Militare Superiore

Malvine

Argentina

GB

NATO

George

Argentina

GB

NATO

Sandwich

Argentina

GB

NATO

Tristán de Cuña

Oceano Atlantico

GB

NATO

Santa Helena

Oceano Atlantico

GB

NATO

Ascensión

Oceano Atlantico

GB

NATO

Estigarribia

Paraguay

USA

NATO

Iquitos e Nanay

Perù

USA

NATO

Tres Esquinas Colombia

USA

NATO

Larandia

Colombia

USA

NATO

Aplay

Colombia

USA

NATO

Arauca

Colombia

USA

NATO

Tolemaida

Colombia

USA

NATO

Palanquero

Colombia

USA

NATO

Malambo

Colombia

USA

NATO

Aruba

Antillas

USA

NATO

Curaçao

Antillas

USA

NATO

Roosevelt

Puerto Rico

USA

NATO

Liberia

Costa Rica

USA

NATO

Guantánamo

Cuba

USA

NATO

Comalapa

El Salvador

USA

NATO

Soto Cano

Honduras

USA

NATO

IV flotta

Oceano Atlantico y Pacifico

USA

NATO


 

La NATO è un trattato degli armamenti per la protezione e la cooperazione bellico-politico-economico tra gli stati membri. Fu costituito nel clima della Guerra Fredda e il suo omologo orientale è il trattato di Varsavia. La NATO è integrata dai paesi dell’Ovest europeo e dagli Stati Uniti e Canada. Questa organizzazione militare multilaterale negli ultimi anni si è dedicata a effettuare incursioni militari nei paesi che non sono membri della stessa. Ricordiamo che l’appoggio americano al Regno Unito, nel 1982, si articolò da qui.

È importante osservare con attenzione lo schema sulle basi della NATO, perché la sua parziale visione taglia di sbieco l’analisi, il fuoco dell’attenzione e anche, poiché costituisce la cosa più importante, taglia nella direzione non corretta le raccomandazioni sulle politiche di difesa regionale. Ad esempio, coloro che mettono a fuoco le nuove basi americane in Colombia, osservano a chiare lettere che, insieme alla politica mediatica dell’America del Nord, quelle basi hanno come obiettivo il Venezuela. Altri, cioè coloro che complementano questa analisi con la localizzazione della IV flotta, osservano, invece, che il centro è il Brasile. In ogni caso, tanto la dirigenza venezuelana quanto quella brasiliana si stanno dando da fare per incrementare e aggiornare il loro equipaggiamento, navi e spesa militare per essere all’altezza delle circostanze e delle basi che li circondano. Ma gli altri paesi della regione non dovrebbero cullarsi con questa analisi, in particolare, la nostra repubblica Argentina, pensando che solo quelli citati costituiscono il bersaglio di un eventuale attacco. Come osserva Lacolla (Dall’Afganistan alle Malvine), loro vengono per sfruttare le nostre risorse, principalmente il petrolio, successivamente punteranno la mira sull’acqua. Ma attualmente, la maggioranza delle analisi geopolitiche, comprese quelle del Consiglio di Difesa dell’UNASUR, hanno ignorato nei loro studi sulla regione le basi militari del Regno Unito.

Il tipo di configurazione che questo fatto impone non serve solo per prenderle in considerazione, ma anche per conoscere quale è il coordinamento storico e fattuale delle basi del Regno Unito insieme a quelle degli Stati Uniti. Per questa regione, un’analisi corretta non si deve soffermare alle sole basi stanziate in Colombia, bensì procedere e osservare con gli stessi occhi tutte le basi militari della NATO che, evidentemente, hanno un bersaglio, il quale non è così piccolo come lo possono essere due paesi e alcune isole con petrolio. L’obiettivo è il Sudamerica (e le sue risorse) ; tuttavia, la miopia di quei dirigenti o settori presuntamente rappresentativi della nostra società che ignorano e persino deridono gli avvertimenti che gli sono rivolti, potrà diventare molto dispendiosa nel breve termine.

Dal canto suo, il Comando Sud, meglio conosciuto come IV flotta, complementa le precedenti enclave imperialiste ed è una sorta di mega base militare mobile, è congiuntamente un complesso di portaerei e navi da guerra che circondano il Sudamerica. Nella cartina concernente le basi, si trova sovrapposta un’altra cartina con la dicitura « Souther Command. Area Focus », quella è la cartina ufficiale del Senato degli Stati Uniti, è il luogo dove navigano (in acque internazionali, ma non sempre), le imbarcazioni belliche del paese di Obama. La IV flotta ebbe la sua origine durante la Guerra Fredda per arrestare l’ideologia antimperialista che fiorisce come l’eritrina nelle nostre terre, in quanto naturale reazione di autodifesa da parte di qualsiasi società aggredita. Vale a dire che, stando al margine da ogni presentazione diplomatica, quelle navi compiono la funzione di reprimere ogni manifestazione antimperialista nella regione.

Ciò che deve rimanerci ben chiaro è che sono pochi i paesi dell’America latina che stanno adottando misure per salvaguardare non solo le proprie risorse ma anche per proteggere sé stessi. La nostra amata Argentina non appartiene a quella compagine.


 

Fonti :

Comando Sur : http://www.southcom.mil

TeleSur : http://www.telesurtv.net

Foreign and Commonwealth Office : http://www.fco.gov.uk/en


 

 

(trad. Vincenzo Paglione)

 

 

* Hugo Rodríguez è direttore del Grupo de Estudios Estratégicos Argentinos.

Fonte : http://geopoliticaargentina.wordpress.com/2010/06/21/la-otan-en-suramerica/


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Bush-Krieger Petraeus soll es richten

Bush-Krieger Petraeus soll es richten

Wolfgang Effenberger

 

Patraeus-Afghanistan-Pakistan-1-theater.jpgAuf Wunsch von US-Präsident Barack Obama musste der bisherige Afghanistan-Befehlshaber Stanley McChrystal seinen Hut nehmen. Grund waren despektierliche Äußerungen des Generals über die Administration in Washington. Nachfolger wurde General David Petraeus. Brisant, denn das von ihm verfasste Feldhandbuch gilt als radikalste Militärdoktrin der Gegenwart. Nun muss er sich auf den Pulverfässern von Irak und Afghanistan beweisen.

 

 

 

US-Präsident Barack Obama feuerte nach einem Vier-Augen-Gespräch im Oval Office am 23. Juni 2010 seinen Afghanistan-Befehlshaber Stanley McChrystal wegen dessen »höhnischer Bemerkungen« über die Washington-Administration.

Die kritischen Äußerungen sind in einem Porträt über McChrystal im US-Musikmagazin Rolling Stone enthalten (1). Unter dem Titel »The Runaway General« (übersetzt »Der abtrünnige General«) werden abfällige Bemerkungen des Generals über einige Top-Mitarbeiter der Obama-Administration wiedergegeben.

 

Mit scharfer Kritik wurden Vizepräsident Joe Biden, der US-Botschafter in Kabul, Karl Eikenberry, Obamas Sicherheitsberater James Jones sowie der Sonderbeauftragte für Afghanistan und Pakistan, Richard Holbrook, überzogen. Letzteren hält McChrystal für einen Wichtigtuer, dessen E-Mails er als lästig empfand. In Jones sieht der geschasste General einen Clown, dessen Weltsicht zum Jahr 1985 passt, während er sich von Eikenberry verraten fühlt. Für Vizepräsident Joe Biden blieb nur Spott: »Bite me« (Auf Deutsch: »Leck mich«). Schon im vergangenen Herbst hatte McChrystal die Anti-Terror-Strategie von Biden als »kurzsichtig« bezeichnet. Sie würde in ein »Chaos-Istan« führen. Und Barack Obama selbst? »Uninteressiert« und »uninformiert« – so McChrystals Einschätzung nach dem ersten zehnminütigen Treffen zwischen dem Afghanistan-Kommandeur und seinem Oberbefehlshaber. Besonders enttäuschend empfand es McChrystal, dass der Präsident und Oberbefehlshaber nichts über seine Person gewusst und sich auch nicht sonderlich engagiert gezeigt habe.

 

Was mag diesen spartanischen General, den zähen Ausdauersportler und ehemals loyalen Feldkommandeur Obamas bewegt haben?

 

Wie tief mussten also die Meinungsverschiedenheiten zwischen der Politik in Washington und der Armeeführung in Kabul sein, dass ein Vier-Sterne-General diesen Weg wählt, um auf den Bruch aufmerksam zu machen? Was sagt uns das über den Zustand der Mission in Afghanistan und Pakistan?

 

Die Despektierlichkeiten waren für den Präsidenten eine außerordentliche Herausforderung durch einen militärischen Führer – jedoch noch vor der Grenze zur Insubordination: Das US-Magazin stellt den General als einsamen Kämpfer dar, der sich von den Entscheidern in Washington alleingelassen fühlt. Das hätte den Präsidenten zum Nachdenken anregen müssen.

 

McChrystal hatte erst im Juni vergangenen Jahres den Oberbefehl über die westlichen Truppen in Afghanistan übernommen. Seinen Vorgänger, General David McKiernan, hatte die Regierung gefeuert, weil sie mit dessen Strategie nicht zufrieden war.

 

Binnen Minuten präsentierte Obama als Nachfolger für den gefeuerten ISAF-Kommandeur keinen geringeren als dessen Vorgesetzten, General David Petraeus, bis dato Befehlshaber des wichtigsten US-Regionalkommandos CENTCOM! 

Flankiert von Vizepräsident Joe Biden, Verteidigungsminister Robert Gates und Admiral Mike Mullen, Vorsitzender der Joint Chiefs of Staff, erklärte Obama diesen Schritt im Rosengarten des Weißen Hauses: »Aber Krieg ist größer als jeder Mann und jede Frau, größer als ein Gefreiter, ein General oder ein Präsident …« (2). Anschließend forderte Obama den Senat auf, die Ernennung von Petraeus zügig zu bestätigen: »Dies ist eine Änderung in der Personalentwicklung, es ist aber keine Veränderung der Politik«, betonte Obama.

Von Personalentwicklung kann jedoch keine Rede sein. Wie groß müssen die Schwierigkeiten sein, wenn kein geeigneter ISAF-Kommandeur aufgebaut werden kann und sich Obama des Befehlshabers von CENTCOM bedienen muss? Militärisch gesehen ist dies für Petraeus ein Abstieg und für Obama ein Offenbarungseid.

Nun soll Petraeus seinen irakischen Lorbeeren noch afghanische hinzufügen.

Im Irak-Krieg kommandierte er die 101. Luftlandedivision und begann nach der Zerschlagung des Regimes von Saddam Hussein, die neuen irakischen Sicherheitskräfte aufzustellen und auszubilden (3).

In die Vereinigten Staaten zurückgekehrt, übernahm er am 20. Oktober 2005 das Kommando über das US Army Combined Arms Center (CAC). Während dieser Zeit war er für die Erstellung des Feldhandbuchs FM 3-24 zuständig. Eine der Autoren des Handbuchs ist die Anthropologin Montgomery McFate, Schöpferin des vom Pentagon initiierten Programms »Operationssystem der Feldhumanforschung« und Beraterin des Verteidigungsministeriums. McFate zeichnet sich durch ihre Parteinahme aus, mit der sie die enge Zusammenarbeit zwischen Anthropologen und Militärs in asymmetrischen Kriegen, die Verletzung der elementarsten Menschenrechte und der grundlegendsten Prinzipien der UNO, rechtfertigt. Sie konnte die Counterinsurgency-Strategen davon überzeugen, dass die Anthropologie eine wirkungsvollere Waffe als die Artillerie sein kann.

 

Am 5. Oktober 2007 veröffentlichte die New York Times einen Artikel von David Rohde über die Überlegung von US-Militärs einer neuen entscheidenden Waffe in den Aufstandsbekämpfungsoperationen: »eine mit Anthropologen und anderen Gesellschaftswissenschaftlern ausgestattete Mannschaft zum permanenten Einsatz in den Kampfeinheiten der US-Besatzungstruppen in Afghanistan und im Irak« (4). Rohde berichtet, dass diese einzigartige Verwicklung der Gesellschaftswissenschaften in die Kriegsanstrengungen der USA ein erfolgreiches experimentelles Programm des Pentagons darstellt. Dieses Programm wurde, als es im Februar 2007 begann, vehement von den Kommandierenden des Kriegsschauplatzes empfohlen. Im September desselben Jahres autorisierte der Verteidigungsminister Robert M. Gates einen zusätzlichen Posten über 40 Millionen Dollar, um jeder der 26 Brigaden in den beiden erwähnten Ländern ähnliche Gruppen zuzuweisen.

 

Diese offene Komplizenschaft der Hochschulkreise mit den Militärs rief bei unabhängigen US-Intellektuellen eine Welle der Kritik hervor. Sie verurteilten die Mitarbeit der Hochschullehrer bei diesem Handbuch, das zur Verfolgung, Folter und Ermordung von Menschen bestimmt ist, und das der militärischen Besatzung von Ländern in den »dunklen Winkeln der Welt« dient, in denen die USA ihre Interessen durchsetzen wollen.

 

Seither gilt das Feldhandbuch FM 3-24 als Richtlinie der US Army für die »Aufstandsbekämpfung« (counterinsurgency). In dieser Doktrin sieht die Bundeswehr die radikalste Militärdoktrin der Gegenwart (5). Sie stellt viele traditionelle Paradigmen der US-Kriegsführung auf den Kopf und liefert gleichwohl auch eine praxisorientierte und detaillierte Handlungsanweisung. In ihm manifestiert sich das Konzept von US-General David Petraeus, wonach der Sicherheit und dem Wohlstand der Zivilbevölkerung im Einsatzland die höchste Priorität einzuräumen ist – so die Einschätzung der Bundeswehr. 

Vom 10. Februar 2007 bis zum 16. September 2008 versuchte dann Petraeus als Kommandeur der Multi-National Force Iraq (MNF-I) diese Doktrin umzusetzen. Jedoch nicht vollkommen – wie die letzten großen Anschläge im Irak beweisen. Ebenso verfolgte McChrystal in Afghanistan diese Counterinsurgency-Strategie. Danach sollen die alliierten Truppen nur zurückhaltend »tödliche Gewalt« anwenden, also etwa auch die Zivilbevölkerung bedrohende Luftschläge anfordern. Aber auch hier blieben die Erfolge aus. Dafür eskalierten die Verluste.

 

So erschütterte am 10. Mai 2010 die bisher schwerste Anschlagsserie des Jahres den Irak. Über 100 Menschen starben bei Attentaten in mehreren irakischen Städten, rund 350 wurden zum Teil schwer verletzt. Die Anschläge reihen sich ein in eine Phase erhöhter Gewalt im Umfeld der am 7. März stattgefundenen Parlamentswahlen.

 

In dieser Situation sind die Erwartungen an Petraeus besonders hoch. Vor allem für Obama. Denn noch ist nicht klar, wie viel von der Affäre an ihm hängen bleibt.

__________

Anmerkungen

(1) Michael Hastings: »The Runaway General«, in Rolling Stone, 22. Juni 2010, S. 1, unter www.rollingstone.com/politics/news/17390/119236

This article appears in RS 1108/1109 from July 8-22, 2010, on newsstands Friday, June 25

 

(2) Jennifer Loven / Anne Gearan: »General McChrystal Relieved Of Command: Obama Takes General Off Top Afghan Post«, in Huffington Post, 23. Juni 2010

 

(3) Damit erhielt er als Erster das Kommando über das Multi National Security Transition Command Iraq.

 

(4) David Rhode: »Army Enlists Anthropology in War Zones«, in The New York Times, 5. Oktober 2007, unter www.nytimes.com/2007/10/05/world/asia/05afghan.html

 

(5) Bundeswehr, unter

 

http://www.readersipo.de/portal/a/sipo/kcxml/04_Sj9SPykssy0xPLMnMz0vM0Y_QjzKLN7KI9zUJBslB2f76kZiixsFIokEpqfre-r4e-bmp-gH6BbmhEeWOjooA2cvujg!!/delta/base64xml/L2dJQSEvUUt3QS80SVVFLzZfMjhfTTVI?yw_contentURL=/01DB131300000001/W27UUB6G987INFODE/content.jsp

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

mardi, 22 juin 2010

L'US Army à la chasse au trésor afghan

L’US Army à la chasse au trésor afghan

Le Pentagone a découvert un nouveau « Klondike » en Afghanistan. Près de 1 000 milliards de dollars seraient enfouis dans le sous-sol du pays, ce qui en ferait un géant minier d’une taille comparable à celle de l’Australie.

 

Minéraux en Afghanistan (cliquez sur la carte pour l'agrandir)

 

 

 

Depuis longtemps, les géologues russes et américains avaient identifié d’importantes richesses minières en Afghanistan. Dans ses rapports annuels sur les pays, l’US Geological Survey (USGS) avait listé les minerais présents en abondance dans ce pays : cuivre, or, minerai de fer, marbre, nickel, soufre, talc… Toutefois, Chin S. Kuo, le responsable de l’étude, notait que l’absence d’infrastructures, de main-d’œuvre qualifiée, sans oublier les problèmes non résolus de sécurité, interdisaient pour le moment l’exploitation de ces richesses.

 

 

 

Selon l’étude de l’USGS, les réserves cuprifères (prouvées et possible) du pays atteindraient 60 millions de tonnes (Mt). Une fraction des 3 milliards de tonnes possible, probable et vérifiée estimées par l’USGS, dans le monde. Celles, prouvées de minerai de fer s’établiraient à 2,2 milliards de tonnes. Une quantité respectable, mais limitée en comparaison des 160 milliards de tonnes estimées par l’organisme américain ou des 20 milliards de tonnes détenues par l’Australie. Les réserves du pays avaient également été examinées dans une enquête du Mining Journal publiée en 2006.

 

Activité « artisanale », le secteur primaire afghan ne produit annuellement pas plus de 150 000 tonnes de charbon, 50 000 tonnes de ciment, 7 000 tonnes de chromite, 20 000 barils de pétrole brut et 50 millions de mètres cubes de gaz naturel. Seul gisement de grande taille, la mine de cuivre d’Aynak dans la province de Logar a été attribuée en 2007 à l’entreprise chinoise China Metallurgical Group, pour une durée de 30 ans. Pour obtenir ce contrat, MGC a dû verser plus de 3 milliards de dollars, un milliard de plus que n’étaient prêts à verser les grands mineurs internationaux.

 

Outre les métaux ferreux et les métaux de base, l’Afghanistan dispose également d’importantes réserves de métaux mineurs dit stratégiques : tantale, niobium, béryllium, ainsi que de lithium sous plusieurs formes.

 

Malgré leur richesse, ces gisements n’étaient jusqu’à présent pas identifiés à hauteur de 908 milliards de dollars, comme le décrit un mémo du Pentagone cité par le New York Times. « Il y a là un extraordinaire » potentiel, a surenchéri le général David Petraeus, commandant en chef des troupes des Etats-Unis en Afghanistan. Affirmant avoir utilisé des documents datant de l’occupation soviétique, l’Etat-major n’hésite pas à reprendre les superlatifs, recyclant l’expression « Arabie Saoudite du lithium », pour en affubler l’Afghanistan.

 

 

Interrogée par le Washington Post, Stephanie Sanok, qui travaille sur ce type de question pour l’Ambassade des Etats-Unis en Irak, a rappelé que si « tout le monde est au courant », de la richesse minière du pays, « il n’y a aucun moyen de l’atteindre ». Pour Craig Sainsbury, un analyste de Citigroup qui a récemment effectué une évaluation des plus grandes mines du monde, l’estimation du Pentagone, qui mettrait l’Afghanistan au niveau de l’Australie, est bien trop élevée. De plus, évaluer la valeur d’un gisement sans poser la question des coûts de production n’a pas de sens. Particulièrement énergivore, l’extraction minière serait extrêmement difficile dans un pays dont la production d’électricité est au niveau des Iles Féroé.

 

La richesse minière potentielle de l’Afghanistan pourrait aussi bien l’aider à stabiliser son économie, qu’accentuer la guerre civile en cours. « Nous pouvons aussi bien devenir un nouveau Congo, qu’un Botswana ou un Chili », a commenté un ancien ministre des Finances afghan, Ashraf Ghani.

 

En janvier dernier, le Wall Street Journal expliquait que « le ministère des Mines est considéré comme l’un des départements les plus corrompus du gouvernement ». Les concessions sont attribuées en fonction des pots-de-vin et non des intérêts du pays, souligne le quotidien de Wall Street, mettant en cause l’attribution d’Aymak. Reconnaissant la difficulté à réunir les capitaux nécessaires à l’exploitation du cuivre ou du minerai de fer, l’USGS et le Département de la Défense tentent d’identifier les projets qui ne nécessitent pas autant de capitaux.

 

L’usine nouvelle

 

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D’autres articles sur le sujet :

 

L’Afghanistan disposerait de gigantesques réserves de minerais, dont du lithium

 

Des géologues américains ont découvert en Afghanistan de gigantesques réserves de minerais, dont du cuivre et du lithium, évaluées à plusieurs milliards de dollars, a rapporté lundi le New York Times.

 

Ces gisements, qui comprendraient également du fer, de l’or, du niobium et du cobalt, seraient suffisants pour faire de ce pays ravagé par la guerre un des premiers exportateurs mondiaux de minerais, ont estimé des responsables de l’administration américaine cités par le journal.

 

Les seules réserves de lithium de l’Afghanistan seraient ainsi comparables à celles de la Bolivie, détenteur des premières réserves mondiales, selon le New York Times.

 

Le lithium est un composant indispensable des batteries rechargeables, utilisé pour les téléphones et les ordinateurs portables ainsi que pour les automobiles électriques.

 

L’Afghanistan pourrait ainsi devenir « l’Arabie saoudite du lithium« , selon une note interne du Pentagone citée par le journal.

 

De même, les réserves de fer et de cuivre seraient susceptibles de faire de l’Afghanistan un des principaux producteurs mondiaux, selon les responsables cités par le journal

 

« Il y a là-bas un potentiel stupéfiant« , a déclaré au journal le général David Petraeus, chef d’Etat-major général, selon qui toutefois « il y a bien sûr beaucoup de ’si’ « . « Mais je pense que, potentiellement, c’est d’une immense portée« , a-t-il ajouté.

 

« Cela deviendra l’ossature de l’économie afghane« , a estimé pour sa part Jalil Jumriany, conseiller du ministère afghan des Mines, cité par le journal.

 

La découverte a été faite par une petite équipe de géologues et responsables du Pentagone, en s’appuyant sur les cartes et les données collectées par les experts miniers soviétiques durant l’occupation par l’URSS de ce pays durant les années 1980.

 

Les géologues afghans avaient caché chez eux pour les mettre à l’abri ces documents après le retrait de l’URSS, avant de les ressortir en 2001 après la chute des talibans.

 

« On avait les cartes, mais il n’y eu pas de suite, parce qu’on a eu 30 à 35 ans de guerre« , a déclaré Ahmad Hujabre, un ingénieur afghan qui travaillait au ministère des Mines dans les années 1970.

 

Selon le journal, le président Hamid Karzaï a été récemment informé de ces découvertes par un responsable américain.

 

Les Echos

 

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Du lithium pour les batteries en Afghanistan

 

Depuis 2001, les Américains cherchent désespérément Oussama Ben Laden dans les montagnes afghanes mais voilà que leurs efforts pourraient être récompensés. Si le riche Saoudien est toujours introuvable, en revanche, des géologues travaillant pour l’armée US viennent de découvrir que le sous-sol d’Afghanistan regorgeait de richesse en tous genres.

 

Outre le cuivre, le colbat, l’aluminium et l’or, ils auraient trouvé un important gisement de lithium, équivalent à celui de la Bolivie, actuellement premier fournisseur de ce métal.

 

Les esprits chagrins se demandent sans doute ce que viennent faire ces considérations minières au coeur d’un site consacré à l’actualité des télécoms. Les plus aguerris d’entre vous auront cependant fait le rapprochement : le lithium est un des principaux composants des batteries modernes, celles-là même qui alimentent les terminaux les plus performants du type iPhone.

 

On se souvient d’ailleurs qu’en 2008, d’inquiétants cas d’auto-combustion d’iPod nano s’étaient déclarés et qu’en août 2009 un iPod Touch avait explosé dans un jardin anglais. Dans chacun de ces cas, la batterie lithium-ion des appareils avait été incriminée. On imagine alors ce que les Talibans pourraient faire avec de telles quantités de lithium sous leurs pieds.

 

DegroupNews

 

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Les réserves minières, une vaste opération de com’

 

Le 14 juin, The New York Times annonçait en une que les Etats-Unis avaient découvert de vastes gisements miniers en Afghanistan. En fait, cette information, connue depuis longtemps, apparaît pour l’armée américaine comme un moyen de justifier sa présence sur le terrain.

 

S’il n’était pas signé James Risen – ce grand reporter du New York Times est actuellement en conflit avec l’administration Obama, qui exige qu’il divulgue l’identité de ses sources -, l’article paru le lundi 14 juin à la une du quotidien : « U.S. Identifies Vast Riches of Minerals in Afghanistan » [Les Etats-Unis découvrent de vastes richesses minières en Afghanistan] aurait suscité une bonne dose de scepticisme. D’autant qu’une simple recherche sur Google fait apparaître un certain nombre d’articles plus anciens contenant des informations identiques.

 

L’administration Bush avait conclu en 2007 que l’Afghanistan était potentiellement assis sur de vastes réserves de minerais et que cet élément devait être pris en compte dans la politique américaine de soutien au gouvernement de Kaboul. Les Soviétiques étaient déjà au courant en 1985, comme le montre une histoire économique de la région depuis 2002 sur le site de l’Institut de technologie de l’Illinois : « L’Afghanistan possède des réserves d’une grande variété de minerais, notamment du fer, du chrome, du cuivre, de l’argent, de l’or, du talc, du magnésium, du mica, du marbre et du lapis-lazuli. Dès 1985, des études soviétiques signalaient également la présence de réserves potentiellement intéressantes d’amiante, de nickel, de mercure, de plomb, de zinc, de bauxite, de lithium et de rubis. Au milieu des années 1980, le gouvernement afghan s’apprêtait à exploiter à grande échelle certaines de ces ressources avec le soutien technique des Soviétiques. La priorité était donnée aux vastes réserves de fer et de cuivre du pays.« 

 

Selon un ancien haut responsable du département d’Etat américain, des discussions sur la meilleure façon d’exploiter ces ressources à l’avenir étaient déjà en cours entre Washington et le gouvernement Karzaï dès 2006. Et, en 2009, le gouvernement afghan a commencé à lancer des appels d’offres pour divers projets d’exploitation minière.

 

La façon dont l’information a été présentée – avec des citations du général David Petraeus en personne, commandant des forces américaines en Afghanistan et en Irak, et de Paul Brinkley, promu pour l’occasion au poste de vice-ministre de la Défense – laisse penser à une vaste opération de communication visant à influencer l’opinion publique à propos de la guerre. En effet, comme le savent ceux qui ont lu les travaux du géographe américain Jared Diamond sur le déterminisme géographique, un pays possédant de vastes ressources en minerai tend vers la stabilité, pourvu qu’il soit doté d’un gouvernement central fort et stable.

 

Dans son article, Risen souligne que la découverte de ces réserves tombe à pic. Il parle notamment des réserves de lithium, un métal essentiel dans l’industrie électronique. Un haut fonctionnaire, lui, dit que l’Afghanistan pourrait devenir « l’Arabie Saoudite du lithium« , en référence à l’or noir qui a fait la richesse du royaume.

 

Le sentiment général qui prévaut aux Etats-Unis et ailleurs dans le monde à propos de la guerre est que la stratégie américaine de contre-insurrection n’a pas réussi à asseoir le gouvernement Karzaï dans les régions hostiles. Et que cette stratégie est vouée à l’échec. Pour les théoriciens et les stratèges du Pentagone, ce n’est pas ainsi que les choses devaient tourner.

 

Quel meilleur moyen de rappeler aux gens – par « gens », je veux dire les Chinois, les Russes, les Pakistanais et les Américains – que le pays est promis à un avenir radieux que de diffuser ou rediffuser des informations valables mais déjà connues sur la richesse potentielle de la région ?

 

L’administration Obama et les militaires américains savent parfaitement qu’un article en une du New York Times attirera instantanément l’attention du monde. L’information est exacte, mais elle n’est pas si nouvelle que cela. Il faut s’interroger sur le contexte dans lequel intervient une telle révélation.

 

La « découverte » américaine fait sourire les Russes et saliver les Afghans

 

« Les cartes soviétiques ont aidé le Pentagone à trouver beaucoup de choses utiles en Afghanistan« , souligne le quotidien gouvernemental russe Rossiskaïa Gazeta à propos de la découverte de gisements miniers par des géologues américains dont fait état l’article du New York Times.

 

Il ne restait « plus qu’à se rendre sur place et à vérifier les données » collectées par les géologues soviétiques et archivées à la bibliothèque de Kaboul, écrit la presse russe. « Mille milliards de dollars en perspective« , titre le journal, en référence au montant auquel sont évaluées les réserves en minerai, notant que, comme en Irak avec le pétrole, c’est l’appât du gain qui motive les Américains en Afghanistan.

 

« Le mythe de l’Eldorado sert souvent à justifier l’expansion impériale. Les grandes puissances se persuadent souvent qu’il faut qu’elles contrôlent tel ou tel territoire éloigné parce qu’il est censé regorger d’or, de diamants, de pétrole, etc., et qu’un contrôle physique s’avère essentiel pour préserver l’accès à ces richesses« , rappelle le professeur de relations internationales Stephen Walt sur le site Internet du bimestriel américain Foreign Policy, qui a amplement commenté la « découverte » américaine.

 

En Afghanistan, le webzine Afghan Paper se réjouit de cette découverte, mais redoute un pillage des ressources, notamment en lithium, par les pays étrangers. « L’Etat afghan n’a pas les moyens financiers ni la stabilité politique nécessaires pour gérer au mieux l’exploitation d’un tel gisement. Il est possible que des pays tels que l’Inde, la Chine ou la Russie essaient de s’implanter davantage dans notre pays pour tirer profit de nos ressources en lithium. Quelles sont les chances que notre peuple profite un jour des retombées économiques de cette découverte ? Si les dirigeants de notre pays ne bradent pas entièrement le sol aux pays étrangers en ne pensant qu’à leur profit personnel, alors ce gisement sera notre chance pour ne plus dépendre des aides extérieures et affirmer une véritable indépendance.« 

 

 

 

 

 

 

- Article original en anglais : The Atlantic

 

- Traduction française et encadré : Courrier International

 

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Afghanistan : le président Karzaï appelle le Japon à investir dans les minerais

 

Le président afghan Hamid Karzaï a appelé vendredi le Japon à investir dans les réserves colossales de minerais découvertes en Afghanistan, qui pourraient faire de ce pays ravagé par la guerre un des premiers exportateurs mondiaux.

 

Le gouvernement afghan a estimé jeudi à trois mille milliards de dollars la valeur de ces gisements, soit trois [fois] plus que les estimations des géologues américains révélées en début de semaine.

 

 

Selon un responsable du Pentagone, l’Afghanistan disposerait de réserves énormes de lithium, de fer, de cuivre, d’or, de niobium et de cobalt.

 

« Les perspectives de l’Afghanistan sont donc très bonnes« , a dit le président Karzaï. « L’Arabie saoudite est la capitale mondiale du pétrole et l’Afghanistan va devenir la capitale mondiale du lithium.« 

 

Le lithium est un composant indispensable des batteries rechargeables, utilisé pour les téléphones et les ordinateurs portables ainsi que pour les automobiles électriques.

 

Les seules réserves de lithium de l’Afghanistan seraient comparables à celles de la Bolivie, qui jouit des premières réserves mondiales, selon les experts américains.

 

« Le Japon est le bienvenu pour participer à l’exploration de lithium« , a souligné le président afghan.

 

« L’Afghanistan doit donner en priorité l’accès aux pays qui l’ont aidé massivement au cours des dernières années« , a-t-il ajouté à l’adresse du deuxième pourvoyeur d’aide à son pays après les Etats-Unis.

 

Le Japon a promis l’an dernier de verser d’ici 2013 jusqu’à cinq milliards de dollars pour la reconstruction de l’Afghanistan.

 

Le président afghan a remercié jeudi le nouveau Premier ministre japonais Naoto Kan pour le soutien solide du Japon. Mais Tokyo a insisté sur la nécessité d’une meilleure gouvernance de l’Afghanistan miné par la corruption.

 

AFP (via Le Point)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Etats-Unis: être Noir et conservateur

Archives de Synergies Européennes - 1997

Etats-Unis: être Noir et conservateur

 

Le conservatisme des Noirs, aux Etats-Unis n'est plus un paradoxe, on n'est plus automatiquement de “gauche” quand on est Noir, ni hostile aux Noirs quand on est conservateur. Une enquête menée récemment par le Washington Post  a établi que 26% des Noirs américains s'identifient politiquement comme con­servateurs, c'est-à-dire veulent limiter le pouvoir du gouver­ne­ment fédéral, diminuer les impôts, introduire une répression plus mus­clée de la criminalité, réformer la sécurité sociale et favoriser l'ini­tiative personnelle. Certes, ces Noirs se félicitent des acquis moraux et légaux du Mouvement des Droits Civils, entrainé jadis par Martin Luther King, mais les porte-paroles de ces dynamiques Afro-Américains conservateurs rejet­tent le dis­cours répétitif sur l'inégalité, dont ils seraient automati­quement des victimes parce qu'ils sont Noirs, et critiquent sévère­ment les rituels au­to-référentiels du Mouvement des Droits Civils actuels et institutionalisés, figés et éta­blis. Les conserva­teurs afro-américains défendent tout un é­ven­tail d'idées, ils sont divers dans leurs expressions politiques et dans leurs va­riantes conservatrices, mais, en règle générale, acceptent une vision “positive et humaniste” du projet américain, tout en s'opposant à cette lancinan­te et lourde insistance sur la “victimisation” raciale, qui fait les choux gras des bien-pensants de la gauche libérale. Le livre de Stan Faryna, Brad Stetson et Joseph G. Conti présente les idées prin­ci­pales de fi­gures comme le Juge noir Clarence Thomas, l'ancien dé­puté Gary Franks, les écrivains Shelby Steele et Glenn Loury (tant dans des articles d'exégèse de leurs discours que dans des textes émanant directement de leur plume). Le conservatisme noir aux Etats-Unis rejette donc les politiques gouvernementales visant d'abord à victimiser l'ensemble de la population noire puis de généraliser des politiques sociales faisant des Noirs autant d'objets de pitié et de sollicitude, générant ainsi un racisme à rebours et toute une série d'attitudes finalement insultantes. Les Noirs ne doivent plus dès lors prendre la parole en tant que Noirs, que “pauvres Noirs”, mais doivent parler d'eux-mêmes et de leurs propres réalisations. Pour le conservatisme noir, la race con­ditionne la vie d'un individu mais ne saurait en aucun cas la définir totalement. Le conservatisme noir n'est pas révolutionnaire, il ne proclame pas une sécession implicite comme Garvey jadis ou Farrakhan aujourd'hui, il ne fait pas appel au boycott ou à la violence, mais refuse la position que les idéologies dominantes assignent irrémédiablement aux Noirs, celle d'être toujours des victimes, des pauvres, des paumés ou des criminels.

 

Benoît DUCARME.

Stan FARYNA, Brad STETSON, Joseph G. CONTI (ed.), Black and Right. The Bold New Voice of Black Conservatism in America, Praeger Trade, Greenwood Publishing Group (88 Post Road West, PO Box 5007, Westport, CT 06.881-5007, USA), 1997, 192 p., $19.95, ISBN 0-275-95342-4.

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vendredi, 18 juin 2010

La menace culturelle américaine

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990

Robert Steuckers:

La menace culturelle américaine

Discours prononcé à l'Université de Louvain, le 16 janvier 1990

 

Lorsque nous examinons l'histoire de ces deux derniers siècles, nous devons bien constater qu'il y a, malgré les discours apai­sants et lénifiants, une opposition radicale, portant sur les principes fondamentaux du politique, entre l'Europe et l'Amérique. Dès le début de l'histoire américaine, de l'histoire des Etats-Unis en tant qu'Etat in­dépendant, il y a eu confrontation avec le vieux continent. Quand les treize colonies nord-américaines ont voulu se détacher de l'Angleterre, elles ont voulu simultané­ment se détacher de l'Europe, rompre avec le passé, la mé­moire, la source matricielle que celle-ci représente pour tous les peuples de souche européenne. Mais cette vo­lonté de rupture était déjà inscrite dans la société coloniale américaine de 1776, dont la culture était marquée pro­fondément par la pensée utopique. Les pélerins du Mayflower, pères fondateurs de la nation américaine, étaient des dissidents religieux anglais, des groupes humains qui voulaient réaliser l'utopie sur terre en faisant table rase des institutions nées du passé. S'opposant aux diverses strates de l'établissement britannique ainsi qu'aux modes de vie ancestraux des peuples germaniques et celtiques des Iles Britanniques (la «merry old England»), les «dissidents» (Levellers, Diggers, Fifth Monarchists, Seekers, Ranters, Baptists, Quakers, Muggletonians, etc.) n'eurent plus d'autre solu­tion que d'émigrer en Amérique, de s'installer sur des terres vierges où ils pouvaient créer de toutes pièces la société idéale de leurs vœux (Cfr. Christopher Hill, The World Turned Upside Down. Radical Ideas during the English Revolution,  Penguin, Harmondsworth, 1975-76). Ces expérimentations socio-poli­tiques de nature religieuse et sectaire ont fait de l'Amérique l'espace de la nouveauté pour la nouveauté, de l'éternel nouveau, l'espace où se réaliserait concrètement la fin de l'histoire, où la marche de l'histoire arrive à son termi­nus, où les hommes poussent un grand ouf de soulagement parce qu'ils ne devront plus combattre un destin sour­nois, toujours acharné, qui ne leur laisse aucun repos, parce qu'ils ne devront plus admettre de compromissions conciliantes et mâtiner ainsi la pureté utopique de leurs rêves religieux. Bref, l'Amérique, c'est le paradis des in­satisfaits de l'Europe.

 

En 1823, Monroe proclame sa célèbre doctrine («L'Amérique aux Américains»), derrière laquelle se dissimule, à peine voilée, la volonté déjà ancienne de rompre définitivement avec le Vieux Continent. Dans l'optique des Américains de l'époque de Monroe, le Nouveau Monde est le réceptacle de la liberté, tandis que le Vieux Monde, qui venait de sortir de la tourmente na­poléonienne et se débattait dans le carcan de la Restauration, est le foyer de tous les obscurantismes. Ce clivage, qu'induit la Doctrine de Monroe, constitue en fait une déclaration de guerre éternelle à l'Europe, à l'histoire en tant que tissu de vicissi­tudes tragiques incontournables, à la mémoire en tant qu'arsenal de stratégies pour faire front à ces vicissitudes, à tout ce qui n'est pas utopique-américain, soit produit d'une déclaration de principes désincarnés et d'une spontanéité sentimentale sans racines ni passé.

 

Devant cette arrogance utopique-américaine, il y a eu peu de réaction en Europe. Les vieilles nations de notre continent n'ont pas relevé le défi de cette nation coloniale endettée, éloignée, que personne ne prenait fort au sé­rieux à l'époque. Un diplo­mate a toutefois réagi d'une manière étonnamment moderne; c'était Johann Georg Hülsemann, un Hannovrien au service de l'Autriche. A la Doctrine de Monroe, il entendait opposer un principe de même nature, soit «l'Europe aux Européens». Dans son esprit, cela signifiait qu'Américains, d'une part, Européens, d'autre part, devaient forger et appliquer des principes de droit et d'organisation économique dis­tincts, assis sur des bases philosophiques et factuelles différentes, hermétiques les unes par rapport aux autres. La réalité américaine, soit l'installation de personnes déracinées sur un territoire vierge (comme tous les Européens de l'époque, Hülsemann ne tenait absolument pas compte du facteur qu'est l'autochtonité amérin­dienne), permettait l'éclosion plus aisée d'un libéralisme utopique et pur, tandis que la réalité européenne, tissu hypercomplexe légué par une his­toire mouvementée, qui a laissé derrière elle un enchevêtrement multiple de strates socio-démographiques souvent antago­nistes, doit élaborer une stratégie d'organisation conservante, conciliante, faite de compromis multiples et rétive à toute schématisation sectaire.

 

Quand éclate la Guerre civile américaine, qui s'étendra de 1861 à 1865, l'Europe rate sa dernière chance de briser définitive­ment l'unité territoriale et étatique des Etats-Unis, avant que ceux-ci ne deviennent une grande puis­sance, riche en ressources diverses, capable de concurrencer dangereusement toutes les puissances européennes réunies. La France et l'Angleterre sou­tiennent le Sud; la Prusse et la Russie soutiennent le Nord: on constate donc qu'il n'y a pas eu de cohésion européenne. Il au­rait fallu soutenir le plus faible contre le plus fort, exactement comme l'Angleterre avait soutenu les Etats les plus faibles d'Europe contre Napoléon. Le territoire actuel des Etats-Unis aurait sans doute été divisé en trois ou quatre Etats (un au Nord, un au Sud, un à l'Ouest et un Alaska demeuré russe) plus ou moins antagonistes et le Canada ainsi que le Mexique auraient ac­quis plus de poids. Le continent nord-américain aurait été «balkanisé» et n'aurait pas pu intervenir avec autant de poids dans les guerres européennes du XXième siècle.

 

Cette dernière chance, l'Europe ne l'a pas saisie au vol et, deux ans après la guerre de Sécession, les Etats-Unis, définitive­ment unifiés, amorcent leur processus d'expansion: en 1867, la Russie tsariste vend l'Alaska pour fi­nancer ses guerres en Asie Centrale. En 1898, avec la guerre hispano-américaine, les Etats-Unis vainqueurs ac­quièrent non seulement les îles des Caraïbes (Cuba, Puerto-Rico) mais aussi Guam, les Hawaï et les Philippines, soit autant de tremplins pacifiques vers les im­mensités asiatiques. 1898 marque véritablement le début de l'«impérialisme américain».

 

Quand éclate la première guerre mondiale, les Etats-Unis restent d'abord neutres et optent pour une position at­tentiste. D'aucuns prétendront qu'agit là le poids des éléments démographiques germano- et irlando-américains, hostiles à toute al­liance anglaise. Mais cet isolationisme, conforme aux interprétations pacifistes de la Doctrine de Monroe, va s'avérer pure chimère quand l'Angleterre jouera son meilleur atout et pratiquera sa straté­gie du blocus. Celle-ci a un effet immédiat: seuls les belligérants riverains de l'Atlantique peuvent encore com­mercer avec les Etats-Unis, soit la France et la Grande-Bretagne. Devant la puissance continentale allemande, ces deux puissances occidentales puiseront à pleines mains dans l'arsenal améri­cain. Elles s'y ruineront et dila­pideront leurs réserves monétaires et leurs réserves d'or pour acheter vivres, matériels de toutes sortes, tissus, etc. aux marchands d'Outre-Atlantique. Avant le conflit, les Etats-Unis étaient débiteurs partout en Eu­rope. En 1918, ses créanciers deviennent ses débiteurs. L'Allemagne, pour sa part, perd la guerre mais n'a pratiquement pas de dettes à l'égard des Etats-Unis. La République de Weimar s'endettera auprès des banques américaines pour pouvoir payer ses dettes de guerre à la France, qui tente de la sorte de se reconstituer un trésor. Mais la IIIième République n'agira pas sagement: elle n'investira pas dans l'industrie métropolitaine, financera des projets grandioses dans ses colonies et investira dans les nouveaux pays d'Europe de l'Est afin de consolider un hypo­thétique «cordon sanitaire» contre l'Allemagne et la Russie. Toutes politiques qui connaîtront la faillite. Quelques exemples que nous rappelle Anton Zischka dans son livre consacré à l'Europe de l'Est (C'est aussi l'Europe,  Laffont, Paris, 1962): le Plan Tardieu d'une confédération danubienne sous l'égide de la France, couplé à l'alliance polonaise, conduisit à un déséquilibre inimaginable des budgets nationaux polonais et roumain, avec, respectivement, 37% et 25% de ceux-ci consacrés aux dépenses militaires, destinées à contrer l'Allemagne et la Russie. En 1938, ce déséquilibre est encore accentué: 51% en Roumanie, 44% en Tchécoslovaquie, 63% en Pologne! La France elle-même subit la saignée: la majeure partie de ses capitaux passaient dans la consolidation de ce cordon sanitaire, au détriment des investissements dans l'agriculture et l'industrie françaises. La Roumanie, acculée, n'eut plus d'autre choix que de conclure des traités commerciaux avec l'Allemagne, comme venaient de le faire la Hongrie, la Yougoslavie et la Bulgarie. Sans or et sans devises, mais armée d'un système de troc très avantageux pour ses clients et fournisseurs, l'Allemagne exsangue battait la France sur le plan économique dans les Balkans et encerclait, par le Sud, les deux derniers alliés de Paris: la Pologne et la Tchécoslovaquie, petites puissances affaiblies par le poids excessif de leurs budgets militaires.

 

La période de 1919 à 1939, soit l'entre-deux-guerres, est aussi l'époque où l'Europe, déséquilibrée par les prin­cipes fumeux de Clémenceau et de Wilson, subit le premier assaut de la sous-culture américaine. Modes, spec­tacles, mentalités, musiques, films concourent à américaniser lentement mais sûrement quelques strates sociales en Europe, notamment des éléments aisés, désœuvrés et urbanisés. Cette intrusion de la sous-culture américaine, sans racines et sans mémoire, suscite quelques réactions parmi l'intelligentsia européenne; en Allemagne, le philosophe Keyserling et l'essayiste Adolf Halfeld mettent l'accent sur la «primitivité» américaine. Qu'entendent-ils par là? D'abord, il s'agit d'un mélange de spontanéité, de sentimentalité, de goût pour les slo­gans simplistes, d'émotivité creuse qui réagit avec une immédiateté naïve à tout ce qui se passe. Ce cocktail est ra­rement sympathique, comme on tente de nous le faire accroire, et trop souvent lassant, ennuyeux et inconsis­tant. Ensuite, cette spontanéité permet toutes les formes de manipulation, prête le flanc à l'action délétère de toutes les propagandes. Plus aucune profondeur de pensée n'est possible dans une civilisation qui se place sous cette enseigne. L'intelligentsia y devient soit purement pragmatique et quantitativiste soit ridiculement morali­sante et, en même temps, manipulatrice et histrionique. Enfin, dans un tel contexte, il s'avère progressivement impossible de replacer les événements dans une perspective histo­rique, d'en connaître les tenants et aboutis­sants ultimes et de soumettre nos spontanéités au jugement correcteur d'un relati­visme historique sainement compris.

 

En relisant Keyserling et Halfeld aujourd'hui, nous constatons que l'américanisation des années 20 constitue bel et bien la source de la manipulation médiatique contemporaine. Nos radios et télévisions reflètent l'absence d'historicité et la senti­mentalité manipulatoire de leurs consœurs américaines, même si, apparemment, c'est dans une moindre mesure. Dans la presse écrite et dans l'édition, la déliquescence américanomorphe s'observe égale­ment; avant guerre, quand on évoquait des faits historiques en Belgique, on mentionnait une quantité de source; aujourd'hui, les histoires du royaume proposées au grand public, surtout dans la partie francophone du pays, sont pauvres en sources. Ces lacunes au niveau des sources permettent aux gros poncifs idéologiques, astucieusement rabotés par la soft-idéologie ambiante, de s'insinuer plus aisément dans les têtes.

 

En France, les réactions à l'américanisation des mœurs et des esprits s'est moins exprimée dans le domaine de la philosophie que dans celui de la littérature. Paul Morand, par exemple, nous décrit la ville de New York comme un réceptacle de force, mais d'une force qui dévore toutes les énergies positives qui jaillissent et germent dans l'espace de la ville et finit par toutes les dé­truire. La beauté sculpturale des femmes du cinéma américain, l'allure sportive des acteurs et des soldats, sont solipsistiques: elles ne reflètent aucune richesse intérieure. Duhamel ob­serve, quant à lui, la ville de Chicago qui s'étale comme un cancer, comme une tache d'huile et grignote inéxora­blement la campagne environnante. L'urbanisation outrancière, qu'il compare à un cancer, suscite également la nécessité d'organiser la vitesse, la systématisation, le productivisme de plein rendement: l'exemple concret que choisit Duhamel pour dénoncer cet état de choses délétère, ce sont les abattoirs de Chicago, qui débitent un bœuf en quelques dizaines de secondes, vision que Hergé croquera dans Tintin en Amérique.  Qu'on me permette une pe­tite digression: l'aspect cancéromorphe de l'expansion urbaine, quand elle est anarchique et désordonnée, si­gnale précisément qu'un pays (ou une région) souffre dangereusement, que les sources vives de son identité se sont taries, que sa culture propre­ment tellurique a cédé le pas devant les chimères idéologiques fumeuses du cos­mopolitisme sans humus. C'est précisément une involution dramatique de ce type que l'on observe à Bruxelles depuis un siècle. Un cancer utilitariste a miné, grignoté, dissous le tissu urbain naturel, si bien que le jargon pro­fessionnel des architectes a forgé le terme de «bruxelliser» pour désigner l'éradication d'une ville au nom du pro­fit, travesti et camouflé derrière les discours déracinants et universalistes. Ceaucescu envisageait de raser les vil­lages roumains et, à la suite d'un tremblement de terre, il avait parachevé le travail du séisme dans les vieux quar­tiers de Bucarest. Le monde lui en a tenu rigueur. Mais pourquoi ne tient-il pas rigueur aux édiles bruxelloises responsables du trou béant du quartier nord, responsables des milliers de crimes de lèse-esthétique qui défigurent notre ville? Je vous laisse méditer cette comparaison entre le Chicago décrit par Duhamel, les projets de Ceaucescu et la bruxellisation de Bruxelles... Et je reviens à mon sujet. Pour citer une phrase de Claudel, écrite pendant l'entre-deux-guerres: «Que l'Asie est ra­fraichissante quand on arrive de New York! Quel bain d'humanité intacte!». Cette citation parle pour elle-même.

 

Bien sûr, l'écrasement de l'Amérique sous la logique du profit, de la publicité, du commerce et du productivisme outrancier, a suscité des réactions aux Etats-Unis aussi. Je me bornerai à vous rappeler ici l'œuvre d'un Ezra Pound ou d'un T.S. Eliot, qui n'ont jamais cessé de lutter contre l'usure et les résultats catastrophiques qu'elle provoquait au sein des sociétés. N'oublions pas non plus Sinclair Lewis qui caricaturera avec férocité l'arrivisme petit-bourgeois des Américains dans son roman de 1922, Babbitt,  avant de recevoir, en tant que premier Américain, le Prix Nobel de Littérature en 1930. Chez un Hemingway, derrière les poses et les exagérations, nous percevons néanmoins une irrésistible attraction pour l'Europe et en particulier pour l'Espagne, ses diffé­rences, ses archaïsmes et ses combats de taureaux, lesquels avaient aussi fasciné Roy D. Campbell, Sud-Africain anglophone. Sur un plan directement politique, saluons au passage les isolationnistes américains qui ont dé­ployé tant d'énergies pour que leur pays reste en dehors de la guerre, pour qu'il respecte vraiment la Doctrine de Monroe («L'A­mérique aux Américains») et qu'il invente à son usage un système socio-économique propre au continent nord-américain, im­possible à exporter car trop ancré dans son «contexte». C'était là une position ra­dicalement contraire à celle des messianistes interven­tionnistes, regroupés autour de Roosevelt et qui croyaient pouvoir donner au monde entier un unique système, calqué sur le modèle américain ou, plus exactement, sur le modèle hypergaspilleur de la High Society  des beaux quartiers de New York.

 

Pour Monroe en 1823, le Vieux Monde et le Nouveau Monde devaient, chacun pour eux-mêmes, se donner des principes de fonctionnement, des constitutions, des modèles sociaux propres et non transférables dans d'autres continents. Les Euro­péens, soucieux de préserver à tous niveaux un sens de la continuité historique, ne pou­vaient qu'acquiescer. Hülsemann, que j'ai évoqué au début de mon exposé, était d'ailleurs d'accord avec cette vo­lonté de promouvoir un développement séparé des deux continents. Son souci, c'était que les principes du Nouveau Monde ne soient pas instrumentalisés au bénéfice d'une poli­tique de subversion radicale en Europe. La manie de faire de tout passé table rase, observable chez les dissidents britan­niques fondateurs de la nation améri­caine et en particulier chez les Levellers, aurait disloqué tout les tissus sociaux d'Europe et pro­voquer une guerre civile interminable. Mais avec Wilson et l'intervention des troupes du Général Pershing en 1917 sur le front oc­cidental, avec Roosevelt et son mondialisme américanocentré, les principes éradicateurs de l'idéologie des Levellers, que craignait tant un Hülsemann, font brusquement irruption en Europe. Vers le milieu des années 40, Carl Schmitt et quelques autres mettent clairement en exergue l'intention des Etats-Unis et de l'Administration Roosevelt: forcer le monde entier, et surtout l'Europe et le Japon, à adopter une politique de «portes ouvertes» sur tous les marchés du monde, c'est-à-dire à renon­cer à toutes les politiques d'auto-centrage économique et à tous les «marchés protégés» coloniaux (l'Angleterre sera la princi­pale victime de cette volonté rooseveltienne). Cette ouverture globale devait valoir non seulement pour toutes les marchan­dises de la machine industrielle amé­ricaine, qui, avec les deux guerres mondiales, avait reçu une solide injection de conjonc­ture, mais aussi et surtout pour tous les produits culturels américains, notamment ceux de l'industrie cinématographique.

 

Carl Schmitt nous démontre que l'Empire britannique a été un «retardateur de l'histoire», en empêchant les conti­nents, les uni­tés civilisationnelles, de s'unir et de se fédérer en des grands espaces cohérents, au sein desquels au­rait régné une paix ci­vile. L'Angleterre, en effet, a protégé les «hommes ma­lades», comme la Turquie ottomane à la fin du XIXième siècle. Cette politique a été poursuivie après 1918 et après 1945, quand la Grande-Bretagne et les Etats-Unis, qui, en ce domaine, prenaient le relais de Londres, remirent en selle et protégèrent des régimes caducs, sclérosés, obsolètes, inutiles, pesants, ridicules, corrompus. C'est non seulement vrai en Amérique la­tine et en Asie (le régime sud-vietnamien est l'exemple d'école) mais aussi en Europe où les clowneries de la po­litique belge ont pu se poursuivre, de même que les corruptions insensées de l'Italie, les bouffonneries de la IVième République en France, etc. La politique «retardatrice» anglo-américaine interdit aux nouvelles formes de socialité de s'exprimer, de se déployer et puis de s'asseoir dans les tissus sociaux. Plus d'alternatives, de nou­velles expériences visant à rendre les sociétés plus justes, plus conformes à la circulation réelle des élites, ne sont possibles dans un tel monde. Interdits aussi les nouveaux regroupements d'Etats dans le monde: panafrica­nisme, paneuropéisme, panara­bisme nassérien...

 

Dans l'optique de ses protagonistes, cette politique retardatrice-réactionnaire doit être consolidée par un impé­rialisme culturel en mesure de contrôler les peuples dans la douceur. L'Union Soviétique, elle, a contrôlé l'Europe centrale et orientale par le biais de ses armées, de son idéologie marxiste-léniniste, du COMECON, etc., tous instruments grossiers qui n'ont donné que de très piètres résultats ou ont connu carrément l'échec. Les événe­ments récents ont prouvé que les méthodes soviétiques de contrôle n'ont pas réussi à éradiquer les sentiments d'appartenance collective ni les consciences nationales ou religieuses pré-sovié­tiques. A l'Ouest, en revanche, la stratégie de contrôle américaine s'est montré plus efficace et plus subtile. Le ci­néma de va­riété américain a tué les âmes des peuples plus sûrement que les obus de char de l'armée rouge ou les ukases des ap­paratchniks commu­nistes. En disant cela, je ne dis pas qu'il n'y a pas de bons films américains, que les cinéastes d'Outre-At­lantique n'ont pas réalisé de chefs-d'œuvre. Indubitablement, dans ce flot de productions, il y a des œuvres géniales que nous reverrons sans doute avec plaisir et admiration dans quelques décennies. Mais, indépendamment du carac­tère génial de telle ou telle œuvre, la politique de l'impérialisme culturel a été de greffer sur le corps fortement historicisé de l'Europe l'idéologie du nivellement des Founding Fathers,  avec son cortège grimaçant de phéno­mènes connexes: la sentimentalité débridée, le ma­nichéisme simplet et hystérique, le novisme pathologique haineux à l'égard de tout recours aux racines, la haine camouflée derrière le carton-pâte des bons sentiments, etc. Bref, un cortège qui aurait suscité la verve d'un Jérôme Bosch. Car l'invasion de ces affects mépri­sables a pour conséquence de diluer toutes les cohésions identitaires.

 

Aujourd'hui même, ce 16 janvier 1990, Dimitri Balachoff a déclaré au micro de la RTBF que les films américains sont univer­sels. Caractéristique qu'il trouve éminemment positive. Mais pourquoi universels? Parce que, ex­plique Balachoff, les Etats-Unis sont un melting pot  et qu'en conséquence, tout produit culturel doit être compris par des Irlandais et des Anglais, des Es­pagnols et des Hispanics,  des Noirs et des Indiens, des Italiens, des Juifs et des Français... Comment le film américain s'est-il débrouillé pour devenir cette sorte de koiné  moderne de l'image? Balachoff nous donne sa réponse: par une simplification des dialogues, du contenu intellectuel et de l'intrigue. Mais comment peut-on mesurer concrètement cette simplification? Eh bien, parce que, dixit Balachoff, un film américain reste parfaitement compréhensible sans son pendant quinze minutes. Au con­traire, un film italien, privé de son, ne se comprendra que pendant trois minutes. Un film tchèque, dans la ligne des Kafka, Kundera et Havel, ne serait sans doute compréhensible que pendant trente secondes, si on coupe le son.

 

La tendance générale de l'impérialisme culturel américain est donc d'abaisser le niveau d'une production cinéma­tographique en-deçà même du niveau linguistique le plus élémentaire, parce toute langue est l'expression d'une identité, donc d'une manière d'être, d'une spécificité parfois difficile à comprendre mais d'autant plus intéressante et enrichissante. C'est cette volonté d'abaisser, de simplifier, que nous critiquons dans l'américanisme culturel contemporain. Cet appauvrissement de la langue et de l'intrigue, voilà ce que Claude Autant-Lara a voulu crier haut et fort dans l'hémicycle strasbourgeois. Il s'est heurté à l'incompréhension que l'on sait. Il a causé le scan­dale. Non pas tant à cause de quelques dérapages antisémites mais précisé­ment parce qu'il critiquait cette simpli­fication américaine si dangereuse pour nos créations artistiques. Des témoins oculaires, membres d'aucun parti, ont pu voir, après le départ théâtral des socialistes et des communistes, les visages consternés, inter­rogateurs et béotiens des députés conservateurs, libéraux et démocrates-chrétiens. L'un d'eux a même chuchoté: «Mais il est fou, il attaque l'Amérique!». Ce pauvre homme n'a rien compris... Ce pauvre homme n'a manifestement pas de lettres, pas de sens de l'esthétique, ce malheureux n'a pas saisi le sens de son siècle que l'on a pourtant nommé le «siècle américain».

 

Mais, à ce stade final de mon exposé, il me paraît utile de brosser un historique de l'américanisation culturelle de l'Europe de­puis 1918. Après la Grande Guerre, les Etats-Unis détiennent un quasi monopole de l'industrie ciné­matographique. Quelques chiffres: de 1918 à 1927, 98% des films projetés en Grande-Bretagne sont américains! En 1928, une réaction survient à Westminster et une décision gouvernementale tombe: 15% au moins des films projetés dans les salles du Royaume-Uni doi­vent être britanniques. En Allemagne, en 1945, les autorités alliées imposent, sur pression américaine, l'interdiction de tout Kartell.  Dès que la zone occidentale récupère des bribes de souveraineté avec la proclamation de la RFA, le parlement, encore étroitement contrôlé par les autorités d'occupation, vote le 30 juillet 1950 une loi interdisant toute concentration dans l'industrie cinématographique allemande. Mais le cas français est de loin le plus intéressant et le plus instructif. En 1928, Herriot fait voter une loi pour protéger l'industrie française du cinéma, afin, dit-il, «de protéger les mœurs de la nation contre l'influence étrangère». En 1936, sous le Front Populaire, la France baisse la garde: sur 188 films projetés, 150 sont améri­cains. En 1945, 3000 films américains inondent l'Europe qui ne les avait jamais encore vus. André Bazin dira que, dans cette masse, il y a cent films intéressants et cinq à six chefs-d'œuvre. En 1946, Léon Blum, figure issue de ce Front Populaire qui avait déjà baissé la garde, accepte, devant la pression américaine, le défer­lement. En quoi cette pression américaine consis­tait-elle? En un ultimatum à la France ruinée: les Etats-Unis ne donneraient aucun crédit dans le cadre du Plan Marshall si les Français refusaient d'ouvrir leurs frontières aux productions cinématographiques américaines!! La France a capitulé et, quelques décennies plus tard, le linguiste et angliciste Henri Gobard en tirait les justes conclusions: la France, minée par une idéologie laïque de la table rase, débilitée par son modèle universaliste de pensée politique, devait tout logiquement aboutir à cette capitula­tion inconditionnelle. Elle avait arasé les cultures régionales patoisantes; elle tombe victime d'un universa­lisme araseur plus puissant, biblique cette fois.

 

Dans les années 50, la situation est catastrophique dans toute l'Europe: le pourcentage des films américains dans l'ensemble des films projetés en salle est écrasant. 85% en Irlande; 80% en Suisse; 75% en Belgique et au Danemark; 70% aux Pays-Bas, en Finlande, en Grande-Bretagne et en Grèce; 65% en Italie; 60% en Suède. Les choses ont certainement changé mais le poids de l'industrie cinématographique américaine reste lourd, y com­pris dans le monde de la télévision; il étouffe la créativité de milliers de petits cinéastes ou d'amateurs géniaux qui ne peuvent plus vendre leur travail devant la concurrence des gros consortiums et devant les onéreuses cam­pagnes publicitaires que ces derniers peuvent financer. De surcroît, il répend toujours l'idéologie délétère améri­caine sans racines donc sans responsabilité. Les lois anglaises de 1928 doivent donc être à nouveau soumises à discussion. L'esprit qui a présidé à leur élaboration devrait nous servir de source vive, de jurisprudence, pour lé­gi­fé­rer une nouvelle fois dans le même sens.

 

Quelle est la signification de cette politique? Quels en sont les objectifs? Résumons-les en trois catégories. 1: Les peuples d'Europe et d'ailleurs doivent être amenés à percevoir leurs propres cultures comme inférieures, pro­vinciales, obscurantistes, «ringardes», non éclairées. 2: Les peuples européens, africains, arabes et asiatiques doivent dès lors accepter les critères amé­ricains, seuls critères modernes, éclairés et moraux. Il faut qu'ils lais­sent pénétrer goutte à goutte dans leur âme les prin­cipes de cet américanisme jusqu'à ce qu'ils ne puissent plus réagir de manière spécifique et indépendante. 3: L'Etat ou le sys­tème qui deviennent maîtres de la culture ou, pour être plus précis, de la culture des loisirs, deviennent maîtres des réflexes so­ciaux. Une application subtile de la théorie pavlovienne... Cette politique, sciemment menée depuis 1945, recèle bien des dangers pour l'humanité: si elle parvient à pousser sa logique jusqu'au bout, plus aucune forme de pluralité ne pourra subsister, le kaléido­scope que constituent les peuples de la planète sera transformé en une panade insipide d'«humain trop humain», sans possibilité de choisir entre diverses alternatives, sans pouvoir expérimenter des possibles multiples, sans pouvoir lais­ser germer, dans des âmes et des espaces différents, des virtualités alternatives. Bref, nous aurions là un monde gris, con­damné au sur place, sans diversité de réflexes politiques. Pour le chanteur breton Alan Stivell, chaque culture exprime une facette spéci­fique de la réalité. Effacer une culture, la houspiller, c'est voiler une part du réel, c'est s'interdire de découvrir la clef qui donne accès à cette part du réel. Dans cette perspective, l'universalisme est une volonté d'ignorance qui rate pré­cisément ce qu'il prétend attendre, soit l'universel.

 

L'exemple des Pays Baltes est bien intéressant. Les peuples baltes regroupent cinq à six millions de personnes, très cons­cientes de leur identité, des ressorts de leur histoire, de leurs droits et de l'importance de leur langue. Après avoir croupi pendant quarante ans sous la férule soviétique, cette conscience populaire est restée vivante. A l'Ouest, il n'y a rien de sem­blable. L'expérience des écoles bretonnes doit se saborder. Au Pays Basque, la bas­quisation de certaines chaînes de télévision a fait que l'on a traduit en basque les épisodes du feuilleton Dallas!

 

Que convient-il alors de faire pour redresser la barre, dresser un barrage contre cet américanisme qui constitue, pour parler en un langage moins polémique et plus philosophique, une volonté d'extirper toutes identités et ra­cines, de biffer tous contextes pour laisser le champ libre à une et une seule expérimentation et pour interdire à jamais à d'autres virtualités de passer de la puissance à l'acte? Il faut engager un Kulturkampf  radical dans tous les domaines de l'esprit et de la société et pas seulement dans le cinéma. Nous devons nous rendre pleinement indé­pendants de Washington tant dans le domaine alimentaire (nous importons trop de blé et de soja; avant l'entrée de l'Espagne et du Portugal dans la CEE, nous dependions à 100% des Etats-Unis pour notre consommation de soja, produit de base dans l'alimentation du bétail) que dans les domaines militaire et tech­nologique. Partout il nous faudra entreprendre une quête de nos valeurs profondes: en théologie et en philosophie, en littéra­ture et en art, en sociologie et en politologie, en économie, etc. Le Kulturkampf  que nous envisageons oppose la plura­lité ka­léidoscopique des contextes et des identités à la grise panade du mélange que l'on nous propose, où le monde se réduira à un misérable collage de brics et de brocs coupés de leur humus.

 

Le Kulturkampf  demande des efforts, de la participation, de l'intiative: publiez, traduisez, écrivez, parlez, orga­nisez confé­rences et fêtes, faites usage de vos caméras vidéo, lisez sans trêve. La fin de l'histoire qu'annoncent les triomphalistes du camp d'en face n'aura pas lieu. De la confrontation des différences, de la joie des fraternités et du tragique des conflits naissent synthèses et nou­veautés. Il faut que ce jaillissement ne cesse jamais.

 

Robert STEUCKERS.

Bruxelles et Louvain, 15 et 16 janvier 1990.

jeudi, 17 juin 2010

La Chine achète de la dette américaine

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La Chine achète de la dette américaine

L’article ci-dessous est tiré du site Boursorama. A lui seul, il confirme que les agences de notation US dégradent la note de certains pays européens dans le seul but de favoriser la vente des obligations US aux Chinois… Si la note de certains pays européens est dégradée, la fiabilité de ces Etats est considérée comme moindre. Cela renforce la crédibilité des USA et facilite l’écoulement de sa dette. Vous constaterez que la crise de l’euro est survenue au moment même où les chinois réduisaient leurs achats de dettes US… (Lionel Franc, T&P-Wallonie).

La Chine a renforcé sa participation à la dette des Etats-Unis pour le deuxième mois consécutif en avril en la portant à un total de 900,2 milliards de dollars (732,7 milliards d'euros), avec l'achat de 5 milliards de dollars (44,1 milliards d'euros) supplémentaires de bons du Trésor, a annoncé mardi le gouvernement américain.

Le département du Trésor précise que la participation étrangère dans sa dette est passée de 72,8 à 3.960 milliards de dollars (de 59,3 à 3.223 milliards d'euros).

L'achat des titres par la Chine devrait lever certaines inquiétudes concernant l'éventualité d'une hausse du coût du crédit pour les Etats-Unis faute d'investissement étranger suffisant dans la dette. C'est une bonne nouvelle pour le pays, qui a enregistré un déficit fédéral historique de 1.400 milliards de dollars l'an dernier, chiffre qui devrait rester supérieur à 1.000 milliards en 2010 et 2011.

Les doutes des marchés financiers quant à la solvabilité de pays européens comme la Grèce, renforcés lundi par la dégradation par l'agence Moody's de la note de la dette d'Athènes en catégorie spéculative, incitent les investisseurs à se reporter sur les titres du Trésor américain.

La Chine est le premier détenteur étranger de titres du Trésor américain. Ses investissements de mars et avril succèdent à six mois de réduction ou de stabilité de la participation chinoise.

Le Japon, créancier N°2, a également investi dans des titres du Trésor en avril, de même que la Grande-Bretagne et des pays producteurs de pétrole. AP

st/v390

    

Il vizio oscuro dell'Occidente

Massimo Fini     

[28 apr 2003] :

Il vizio oscuro dell’Occidente

Ex: http://www2.unicatt.it/unicatt/

 

onclesam575757.jpgE se l’11 settembre fosse colpa nostra? Non, come farneticato da qualche fanatico in preda a convulsioni anti-americane, che siano stati gli statunitensi ad abbattere le Twin Towers, magari con la complicità degli ebrei, in una riedizione un po’ stantia del complotto dei «Savi di Sion». No, in altro senso. E cioè nel senso che l’11 settembre sarebbe la «conseguenza logica, e prevedibile, della pretesa dell’Occidente di ridurre a sé l’intero esistente».

 

È quello che cerca di dimostrare Massimo Fini nel suo pamphlet «Il vizio oscuro dell’Occidente», dove sferra un attacco violento alla nostra certezza, manifesta, inconscia, o ipocriticamente celata nel politically correct, di appartenere ad una civiltà superiore. L’accusa all’Occidente è di totalitarismo, di reductio ad unum, ossia di voler cancellare tutto ciò che è «altro da sé», fagocitandolo. «All’occupazione dell’intero pianeta», afferma Fini, avevano già aspirato in passato «il cristianesimo, il colonialismo classico, il marxismo-leninismo». Oggi il tentativo sta riuscendo al modello di sviluppo economico e industriale egemone, di cui gli Stati Uniti incarnano l’essenza ed esprimono la potenza.

 

La matrice di questo impulso totalitario è la convinzione, sincera ma nefasta, di vivere nel «migliore dei mondi possibili», e quindi di «credersi il Bene» senza rendersi conto «di operare eternamente il Male». Perché nel mondo della democrazia, delle libertà, del benessere materiale, ossia nel presunto migliore dei mondi possibili, il luccichio è illusorio. Sentiamo, secondo Fini, la frustrazione «di non essere né felici né sereni, ma divorati dall’angoscia, dalla nevrosi, dalla depressione, dall’anonimia, in misura maggiore del più disperato abitante di un tugurio terzomondista». La causa va ricercata in un sistema incardinato sull’insoddisfazione, sulla competizione e l’invidia, in cui l’uomo è costantemente lanciato verso obiettivi, raggiunti i quali se ne daranno di ulteriori, in una corsa senza fine. Solo in questo modo il sistema economico può mantenere quel dinamismo indispensabile alla sua conservazione. «Come al cinodromo i cani levrieri…inseguono la lepre di stoffa che, per definizione, non possono raggiungere», così l’uomo insegue la felicità, parola senza corrispettivo reale: l’appagamento e l’armonia interiore sono preclusi.

 

All’origine di questo andamento schizofrenico la centralità, nel sistema di valori occidentale, dell’economia rispetto ai legami affettivi, emotivi, esistenziali. Il prodotto di questa civiltà è il «Consumatore», un essere vivente omologato e privato di un’identità autentica, terminale acefalo di tutto quello che il mercato propina, narcotizzato grazie all’induzione di nuovi bisogni.

 

Questa è per Fini la civiltà «made in West» che, in forza della nostra potenza militare ed economica, andiamo esportando nel mondo, nel tentativo di assimilarlo al nostro sistema di valori, al «migliore dei mondi possibili». Con le buone o le cattive, per ragioni che di volta in volta sono economiche o etiche o umanitarie, ma sempre, alla fine, perché non tolleriamo la diversità. E quale arma, si chiede Fini, è opponibile all’assoluta egemonia militare occidentale (o meglio statunitense), ai tribunali speciali, costituiti ad hoc dai vincitori per processare gli sconfitti, ad un «modello economico pervasivo», il sistema capitalista, in continua espansione? «Di fronte ad un blocco di potere di questa portata, inattaccabile direttamente e frontalmente, quale altra risposta se non il terrorismo, per chi voglia combatterlo con le armi?». Perché quando tale modello avrà inglobato il mondo intero, lo scontro si sposterà al suo interno: «fra i fautori della modernità e le folle deluse, frustrate ed esasperate, che avranno smesso di crederci».

 

Bastano poco più di sessanta pagine a Fini per fustigare con gelida lucidità l’Occidente, i suoi valori e il suo attualizzarsi. Illuminante, eccessivo, provocatorio, inquinato da un relativismo livellante, «Il vizio oscuro dell’Occidente», comunque lo si voglia considerare, è un libricino sferzante e acuto che si può condividere o meno, ma che ha il pregio di non lasciare indifferenti e attizzare il dibattito. Stimolando quel «pensiero che pensi la modernità», la cui assenza è per Fini una delle carenze più gravi del nostro tempo.

Paolo Algisi

lundi, 14 juin 2010

Apokalypse Now: Die Wahrheit über die Bohrinsel-Katastrophe

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Apokalypse Now: Die Wahrheit über die Bohrinsel-Katastrophe

Gerhard Wisnewski

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Niedlich, das kleine Rohr am Meeresgrund, aus dem seit Wochen das Öl sprudelt – nicht wahr? Nur: Warum schaffen es die Ingenieure ums Verrecken nicht, das Ding zu schließen? Warum konnte man nicht einfach eine Glocke mit einer Leitung am oberen Ende draufsetzen und das Öl abpumpen? Ganz einfach: Weil die offene Leitung gar nicht das Problem ist. In Wirklichkeit strömt das Öl direkt aus dem Meeresboden. Und diesen »Krater« kann möglicherweise niemand schließen. Was bedeuten kann, dass die Ölquelle noch Jahre sprudelt – bis sie leer ist und große Teile der Umwelt tot sind. Doch lesen Sie selbst …

Wie ein Schwarm riesiger, fetter Schnaken sitzen die rund 4.000 Ölbohrinseln im Golf von Mexiko auf dem Wasser. Mit ihren ellenlangen dünnen und verletzlichen Rüsseln saugen sie in bis zu 2.400 Metern Tiefe eine hochbrisante Flüssigkeit aus gewaltigen Reservoiren unter dem Meeresboden. Hier, in weiteren Tausenden Metern Tiefe, schwappen seit ewigen Zeiten langsam riesige Blasen aus Gas, Öl und Ölschlamm hin und her, bis sie irgendwo eine »Höhle« beziehungsweise ein Reservoir gefunden haben, in dem sie sich sammeln. Nach diesen Reservoiren bohren die »Schnaken« wie Moskitos nach Blutgefäßen und setzen dabei ihr Leben aufs Spiel, wie man an dem Unfall der Deepwater-Horizon-Bohrinsel sieht.

Denn der Kampf mit diesen Naturgewalten gleicht einem Ritt auf dem Vulkan. Die unterseeischen Ölreservoire stehen häufig unter einem gewaltigen Druck. Ein Reservoir zu öffnen, ohne dabei in die Luft zu fliegen, ist ein kitzliges Unterfangen, das im Wesentlichen mit einem ausgeklügelten Druckmanagement im Bohrloch und -kanal bewältigt wird. Und nichts fürchtet der Ölingenieur so sehr wie das totale Versagen dieses Managements, nämlich den »Blowout« – Sie wissen schon: Das nette Klischee von dem Bohrturm mit der sprudelnden Ölquelle, um die begeisterte Menschen tanzen.

In Wirklichkeit ist der Blowout eine Katastrophe. Seit jeher wurden dabei Menschenleben, Anlagen und die Umwelt zerstört. Wobei man einen Blowout an Land allerdings relativ schnell in den Griff bekommen kann – und natürlich auch muss. Alles andere wäre eine Katastrophe von apokalyptischen Ausmaßen.

Schießt das Öl mit einem zu hohen Druck durch den Rüssel der »Schnake« nach oben, kann es sich im Prinzip seinen Weg bis nach oben bahnen und die Schnake umbringen – wie eben am 20. April 2010 im Golf von Mexiko geschehen. Zwar gibt es jede Menge trickreicher Sicherungen, die genau das verhindern sollen und es in 99,9 Prozent der Fälle auch tun – zum Beispiel das Blowout-Ventil (Blowout Preventer): Eine pfiffige Erfindung, die den Blowouts im Prinzip ein Ende machte oder sie zumindest auf fast null reduzierte. Aber das »fast« ist in diesem Fall genau das Problem. Wo ein »fast« normalerweise ausreicht, ist das bei einem Unterwasser-Blowout im tiefen Wasser anders. Dieser darf ganz einfach nicht passieren.

 

Das Gespenst des Blowouts

Schon vor 13 Jahren machten sich Fachleute erhebliche Sorgen um einen sogenannten »sustained deepwater-Blowout« (anhaltenden Tiefwasser-Ölausbruch), und zwar nirgendwo anders als im Golf von Mexiko. »Weltweit wird in immer tieferem Wasser nach Öl gebohrt. Ein bedeutender Tiefwasser-Bohrboom findet im Golf von Mexiko statt«, schrieb am 1. Januar 1997 das Offshore Magazin. Bisherige Unterwasser-Blowouts seien häufig durch »natural well bridging« geschlossen worden: Das heißt, durch ein Zusammenbrechen des Ozeanbodens wurde das Bohrloch zugeschüttet. Aber diese erste Hoffnung hat sich im Macondo-Ölfeld schon mal nicht erfüllt. Stattdessen wurde daraus ein »sustained deepwater-blowout«, dessen Folgen laut Offshore Magazin »schwerwiegend« wären. Denn: Wie ein »Ultratiefwasser-Blowout« zu bekämpfen wäre, davon hat man keine Ahnung. »Die Möglichkeiten, einen Ultratiefwasser-Blowout zu kontrollieren, sind sehr begrenzt«, so das Offshore-Magazin. Und das ist schlimm. Denn mit »Ultratiefwasser« waren in diesem Artikel nur 300 Meter Wassertiefe gemeint. Die Deepwater Horizon bohrte aber in der fünffachen Wassertiefe, nämlich in 1.500 Metern!

Zwar erwischte es auch schon andere Bohrinseln im Golf von Mexiko: Am 3. Juni 1979 zum Beispiel ereilte ein Blowout die Ölbohrinsel Sedco 135F, woraufhin zuerst 30.000 Barrel, dann 20.000 Barrel und schließlich 10.000 Barrel pro Tag austraten (1 Barrel = 159 Liter) – und zwar zehn Monate lang. Erst dann – also nach fast einem Jahr – gelang es, den Ausbruch zu stoppen. Das Bohrloch von Sedco 135F befand sich in lediglich 50 Metern Wassertiefe. Noch fast 20 Jahre später machte man sich Gedanken, was wohl passieren würde, wenn so etwas in 300 Metern Wassertiefe passieren würde, wie der Artikel im Offshore-Magazin aus dem Jahr 1997 zeigt. Nun sind wir bei 1.500 Metern.

Die eigentliche Katastrophe

Bei dem Unfall der Deepwater Horizon geht es nicht um einen Tanker, wie durch entsprechende Vergleiche dauernd nahegelegt wird. Hier geht es im Prinzip um Reservoire, aus denen Tanker gespeist werden. BP-Sprecher schätzten den Inhalt der nun weitgehend unkontrolliert sprudelnden Macondo-Lagerstätte auf 50 Millionen Barrel, andere Experten auf 100 Millionen. Also irgendetwas zwischen 15 und 30 Supertankern. Vielleicht aber auch sehr viel mehr.

Aktuelle Schätzungen von der Deepwater-Horizon-Bohrstelle gehen von 10.000 bis 84.000 Barrel austretendem Öl pro Tag aus. Und da sind wir auch schon bei des Pudels Kern: Wieso »Schätzungen«? Hat man eine Ölleitung mit einem gegebenen Durchmesser und einer messbaren Durchflussgeschwindigkeit, kann man die austretende Menge pro Zeiteinheit doch fast auf den Liter genau berechnen! Hier geht das aber nicht. Und nicht nur das: Die Schätzungen weichen auch gravierend voneinander ab – warum? Und schließlich erklärte der mit der Bewältigung der Krise beauftragte Admiral Thad Allen, es sei sogar »völlig unmöglich, eine genaue Schätzung abzugeben«. Warum?

Die Antwort kann nur heißen, dass es erstens wirklich mehrere Lecks gibt und dass diese zweitens nicht definierbar sind – und damit die Austrittsmenge nicht berechenbar ist. Warum nicht? Ganz einfach: Weil es sich nicht um technische Lecks nach Art der gern gezeigten gebrochenen Ölleitung handelt, sondern weil das Öl aus dem Seeboden selbst austritt. Und weil ein solches Ereignis niemand kontrollieren kann, ist das die eigentliche Katastrophe.

Wie kann so etwas passieren? Ganz einfach: Indem der kilometertiefe Bohrkanal, der vom Seeboden aus senkrecht in die Tiefe führt, zusammenbricht und das von unten heraufschießende Öl seitlich in den Meeresboden austritt.

 

Ein erhellendes Gespräch

Am 7. Juni 2010 spielte sich zwischen der MSNBC-Reporterin Andrea Mitchell und dem sehr gut informierten US-Senator Bill Nelson aus Florida folgender Dialog ab:

Nelson: Andrea, wir werden hier zurzeit mit etwas Neuem konfrontiert, und zwar sind das Berichte, wonach das Öl aus dem Ozeanboden sickert …, was darauf hinweisen würde, falls es stimmt, dass die Umfassung des Bohrloches selbst perforiert ist … unter dem Meeresgrund. Also sehen Sie, dass die Probleme mit dem, womit wir hier konfrontiert sind, schlicht enorm sein könnten.

Mitchell: Damit ich es besser verstehe: Wenn das stimmt, dass es aus dem Meeresboden heraustritt, würde nicht einmal eine Entlastungsbohrung eine endgültige Lösung darstellen, um das zu schließen? Das bedeutet, dass wir es mit Öl zu tun haben, das aus zahlreichen Stellen am Meeresboden nach oben sprudelt?

Nelson: Das ist möglich. Es sei denn, Sie bekommen die Entlastungsbohrung tief genug hinunter, unterhalb von der Stelle, an welcher der Bohrkanal gebrochen ist.

 

Ich bin kein Freund von angeblich globalen Katastrophen. Die meisten werden nur benutzt, um eine weltweite Diktatur zu errichten. Man erkennt das auch daran, dass sie ganz unbefangen propagiert werden: Ozonloch, Klimakatastrophe, Asteroideneinschlag, und wie sie alle heißen. Sie werden auch deswegen unbekümmert propagiert, weil die Politik keine Angst vor ihnen haben muss. Weil sie Fiktion sind, können sie auch nie aus dem Ruder laufen. Gefahrlos kann sich der Politiker daher als Retter aufspielen, weil die angeblich tödliche Gefahr, vor der er uns retten will, ohnehin nicht existiert. Die wirklich drohenden globalen Katastrophen werden dagegen nicht propagiert, jedenfalls nicht in ihrer wirklichen Dimension, eben weil man sie möglicherweise oder wahrscheinlich nicht in den Griff bekommen kann.

 

Schlimmstenfalls wird das Öl jahrelang sprudeln

Ganz anders als beispielsweise bei der Klimakatastrophe werden beim Blowout des Macondo-Ölfeldes keine Szenarien veröffentlicht. Vergeblich wartet man hierzulande auf bunte Computersimulationen und Prognosen, wie sich die Katastrophe weiterentwickeln könnte. Umsonst hofft man auf Internationale »Panels« und Krisensitzungen von »Wissenschaftlern«. Penibel wird ausschließlich über den Ist-Zustand berichtet. Nanu – so kennen wir sie doch gar nicht, unsere Medien und Politiker?!

Im schlimmsten Fall wird das Öl jahrelang sprudeln und wie ein Sandstrahlgebläse zusammen mit Felsen, Sand und Geröll einen immer größeren Trichter am Meeresboden auswaschen. Das Öl umrundet die Florida-Landzunge und mündet in den Golfstrom. Über die Azoren- und Atlantik-Strömungen erreicht es Europa und Nordafrika. Die wenigen Forscher, die sich mit der Frage beschäftigen, rechnen angeblich mit einer globalen Verbreitungszeit von 18 Monaten. Ein mir bekannter Offshore-Experte und Ingenieur bestätigte: »Das kann apokalyptische Ausmaße annehmen.«

Das Öl ist aber nicht das einzige Problem. Es gibt noch eine weitere Eskalationsstufe. Indem der Trichter immer tiefer ausgewaschen und -geschliffen wird, wird gleichzeitig die Decke zwischen dem auslaufenden Ölreservoir und dem Meeresboden immer dünner. Die immer dünnere Decke wird mit dem Druck des Meerwassers beaufschlagt, bis sie bricht. Durch das Absacken des Meeresbodens entsteht an der Oberfläche eine Welle, die sich an den ohnehin bereits geschädigten Küsten Mexikos und Floridas zu einem Tsunami aufbaut. Und zwar zu einem giftigen Tsunami aus Wasser, Öl und Ölschlämmen. Wobei das keine Prognose ist, sondern das, was auf dem Spiel steht. Und daraus erklärt sich auch die Verzweiflung, mit der BP-Verantwortliche jetzt russische Experten um Hilfe gebeten haben.

Die Wahrheit ist: Die Deepwater-Horizon-Katastrophe könnte ein schwerer Schlag für die USA werden, und zwar wirtschaftlich und ökologisch. Vielleicht sogar für den Planeten.

 

Livestreams von den BP-Unterwasserrobotern finden Sie unter:

http://www.bp.com/genericarticle.do?categoryId=9033572&contentId=7062605

dimanche, 13 juin 2010

Ölpest im Golf von Mexiko: eine "Halliburton"-Connection

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Ölpest im Golf von Mexiko: eine »Halliburton«-Connection

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Am 20. April starben bei einer Explosion der von der Ölgesellschaft BP betriebenen Bohrinsel »Deepwater Horizon« vor der Küste von Louisiana im Golf von Mexiko elf Menschen, wenig später sank überraschend die gesamte Bohrinsel. Durch das Unglück wurde die bislang größte Ölpest der Geschichte ausgelöst – wahrscheinlich um Größenordnungen schlimmer, als bei der Havarie der »Exxon Valdez« 1989 – und noch ist sie nicht unter Kontrolle. BP beteuert, die Sicherheitsvorkehrungen seien ausreichend gewesen, der Fehler müsse an anderer Stelle liegen. Eine genauere Untersuchung fördert hingegen einige sehr bezeichnende Dinge im Zusammenhang mit der Ölpest zutage.

Bemerkenswert ist zunächst einmal die Doppelzüngigkeit von BP, eine der Großen Vier angloamerikanischen Ölgesellschaften, die zusammen mit Goldman Sachs und den Wall-Street-Banken de facto den gesamten weltweiten Ölmarkt beherrschen. Der Chef von BP-Amerika, Lamar McKay, verteidigte zunächst öffentlich im US-Fernsehen die Sicherheitsvorkehrungen seines Unternehmens und erklärte, der »Ausfall eines einzelnen Bauteils« habe zu der massiven Ölpest an der Golfküste geführt. Laut einem Sprecher habe es sich von dem von McKay erwähnten defekten Bauteil, welches das Desaster verursacht habe, um einen Bohrlochschieber, einen sogenannten Blow-Out-Preventer, gehandelt.

Während also der BP-Chef erklärt, verantwortlich sei ein defekter Blow-Out-Preventer, ein Bauteil bei einer Ölplattform, das im Falle einer Explosion oder eines anderen Unfalls das Austreten des Öls verhindern soll, sprach Salvin, der offizielle Unternehmenssprecher von BP, davon, die Ursache der Explosion sei ungeklärt und betonte: »Wir schließen nichts aus.«

Könnte es sein, dass es bei der schlimmsten Ölpest der Geschichte einen politisch brisanten Hintergrund gibt?

Es stellt sich nämlich heraus, dass die BP – vormals British Petroleum, ein Unternehmen mit engen Verbindungen zum ehemaligen britischen Premierminister Tony Blair, das diesen 2003 darin bestärkt hatte, George W. Bushs Irakkrieg zu unterstützen – seit Jahren mit den amerikanischen Aufsichtsbehörden im Streit liegt, und zwar genau hinsichtlich der Frage, wie viele Sicherheitsstufen erforderlich sind, um einen Unfall bei einer Tiefseebohrung wie in diesem Fall zu verhindern.

In einem Brief an das US-Innenministerium, das für die Aufsicht über Ölbohrungen vor der amerikanischen Küste verantwortlich ist, erhob BP 2009 Einwände gegen neue Bestimmungen, die die Regierung zur Verbesserung der Sicherheitsstandards auf Ölplattformen vorgeschlagen hatte. BP schrieb damals an die US-Regierung: »Wir sind der Ansicht, dass die derzeitige Sicherheits- und Umweltstatistik der Ölindustrie beweist, dass die freiwilligen Programme … auch weiterhin erfolgreich sind.« Was wohl so viel heißen sollte wie: »Vertrauen Sie uns …«

BPs dubiose Geschichte seit dem Ersten Weltkrieg

Wie ich in meinem Buch Mit der Ölwaffe zur Weltmacht darlege, durchziehen Intrigen, Bestechung und kriminelle Machenschaften die gesamte Geschichte von BP.

Als die britische Elite im Jahre 1914 die Entwicklung in Gang setzte, die direkt zum Ersten Weltkrieg führte, hatte das Unternehmen die Hand im Spiel. Das Deutsche Reich und die deutsche Industrie zusammen mit der Deutschen Bank standen kurz vor der Vollendung des ambitioniertesten Eisenbahn-Infrastrukturprojekts der damaligen Welt – einer Eisenbahn-Verbindung von Berlin nach Bagdad.

Die britische Royal Navy, deren Marineminister ein junger Politiker namens Winston Churchill war, betrachtete diese Bagdad-Bahn, die 2003 von amerikanischen und britischen Bomben endgültig zerstört worden ist, als tödliche Bedrohung für Großbritanniens neue Ölquellen in Persien (Iran) und Kuwait. BP war ursprünglich unter dem Namen Anglo-Persian Oil Company als staatliches britisches Unternehmen gegründet worden. Churchill hatte die Marine soeben vom Kohlebetrieb auf die effizientere und leichtere Ölbefeuerung umgestellt, London betrachtete die Bagdad-Bahn als Bedrohung für die »nationale Sicherheit« des Empires.

In den 1950er-Jahren überredete die BP den US-Geheimdienst CIA, sich an einem Putsch zum Sturz des demokratisch gewählten iranischen Premierministers Mohammed Mossadegh, der BP im Iran verstaatlicht hatte, zu beteiligen. BP ist auch die wichtigste Ölgesellschaft bei dem Ölprojekt Kaspisches Meer–Baku. Dieses Projekt ist wesentlicher Bestandteil der amerikanisch-britischen Strategie, die Vorherrschaft russischer Pipelines in den ehemals zur Sowjetunion gehörenden zentralasiatischen Republiken durch den Bau der neuen westlichen Pipeline Baku–Tiflis–Ceyhan zu brechen. Um zu gewährleisten, dass diese Pipeline ausschließlich über Territorien von anti-russischen Staaten verläuft, inszenierte der US-Geheimdienst 2003 in Tiflis einen Regimewechsel, die sogenannte Rosen-Revolution. Dadurch wurde Washingtons Marionette Michail Saakaschwili an die Macht gebracht, der zuvor versprochen hatte, Georgien in die NATO zu führen – eine echte Provokation für Moskau und die Sicherheit Russlands. Georgien bedeutete für Washington und London die einzige Option, die nicht unter potenziellem Einfluss Russlands stand, sofern ein neues amerikafreundliches Regime errichtet werden konnte.

2008 stiegen Öl-Futures auf den Rekordpreis von 147 Dollar pro Barrel, bevor sie im Gefolge der Nachrichten über einen weltweiten Finanz-Tsunami nach dem Bankrott der Investmentbank Lehman Brothers im September 2008 wieder abstürzten. Nach Aussagen gut informierter Händler am Ölmarkt war BP zusammen mit Goldman Sachs hinter den Kulissen maßgeblich an der Manipulation des Ölpreises auf 147 Dollar beteiligt, um den britischen und den Wall-Street-Banken sowie auch BP einen massiven finanziellen Gewinn zu verschaffen, während sich der Finanzkrach weiter verschärfte.

Spielt Halliburton eine Rolle?

Der wahre Grund dafür, dass eine ganze Ölbohrinsel gesunken ist – immerhin ein riesiges, hochentwickeltes Ingenieurs-Bauwerk von der Größe eines Häuserblocks in einer Großstadt – ist noch nicht ermittelt, doch inzwischen ist ein höchst beunruhigendes Element bekannt geworden, nämlich, welche Rolle die Halliburton Corp., eines der korruptesten Unternehmen auf der ganzen Welt, bei der ganzen Sache spielt. Die Firma Halliburton, die noch bis vor Kurzem ihren Hauptsitz in George Bushs Heimatstaat Texas hatte, ist der größte Öl-Dienstleister der Welt und eines der größten Bauunternehmen weltweit. Ermittler der US-Regierung werfen Halliburton vor, Milliarden Dollars, welche die Firma ab 2003 für den Wiederaufbau des Irak erhalten hatte, »verloren« zu haben.

Ermittler, die die mögliche Ursache der massiven Ölpest im Golf von Mexiko untersuchten, konzentrieren sich auf die Rolle der Firma Halliburton, die dafür verantwortlich war, die Rohre unter Wasser einzubetonieren. Die Firma hat bestätigt, das Zementieren des Bohrlochs und der Rohre sei 20 Stunden vor der Explosion am 20. April abgeschlossen worden.

Am vergangenen Freitag haben die Abgeordneten Henry A. Waxman, Vorsitzender des Ausschusses für Energie und Handel im US-Repräsentantenhaus, und Bart Stupak, Vorsitzender des Unterausschusses für Aufsicht und Untersuchungen, in einem an David J. Lesar, den Vorstandsvorsitzenden von Halliburton, gerichteten Brief verlangt, Vertreter von Halliburton sollten bis zum 7. Mai sämtliche Dokumente bezüglich »der Möglichkeit oder des Risikos einer Explosion oder eines Ausbruchs auf der Bohrinsel Deepwater Horizon sowie den Status, die Adäquatheit, Überwachung und Inspektion der Zementierungsarbeiten« offenlegen.

Halliburton nennt es »verfrüht und unverantwortlich, über spezifische Ursachen zu spekulieren«. Vier Angestellte des Unternehmen waren zum Zeitpunkt des Unglücks auf der Bohrinsel stationiert.

»Halliburton hatte die Zementierungsarbeiten an der letzten Bohrlochauskleidung plangemäß beendet«, hieß es in einer äußerst vage formulierten Antwort. »Gemäß der anerkannten Praxis der Branche … wurden Test durchgeführt, die Unversehrtheit der Bohrlochauskleidung bestätigten.«

Seit der Explosion sind mehr als zwei Dutzend Sammelklagen gegen BP, gegen den Eigentümer der Bohrinsel Transocean Ltd. und gegen Halliburton eingereicht worden. BP »übernimmt die volle Verantwortung« für die Ölpest, man werde die Betroffenen angemessen entschädigen, teilte das Unternehmen mit.

Als es im August 2009 in der Timor-See vor Australien zu einem großen sogenannten Blowout kam, wurde Halliburton mangelnde Sorgfalt bei den Betonierungsarbeiten vorgeworfen. Eine entsprechende Untersuchung vor Ort ist noch im Gang.

Nach Ansicht von Experten verweist die zeitliche Nähe der Zementierungsarbeiten durch Halliburton zu der Explosion – nur ca. 20 Stunden danach – und die früheren Zementierungs-Probleme bei anderen Blowouts »auf die Firma als möglichen Schuldigen«. Der ehemalige Ölingenieur Robert MacKenzie erklärt: »Es ist wahrscheinlich, dass das Ausströmen des Gases an die Oberfläche etwas mit dem Zement zu tun hatte.« Genau dieses Gas hat wohl zu der gewaltigen Explosion geführt, die die Plattform zum Sinken brachte.

Auch die Regierung Obama verhält sich merkwürdig

Immer häufiger wird kritisiert, die Regierung Obama hätte gemeinsam mit BP mehr zur Eindämmung der Katastrophe unternehmen müssen. Um der offenen Kritik zu begegnen, sie habe zu spät adäquat reagiert, schickte die Obama-Regierung am Sonntag zwei Kabinettsmitglieder in die Sonntag-Talkshows im Fernsehen. Heimatschutzministerin Janet Napolitano sagte in Fox News Sunday, die Regierung habe »alle Mann an Deck« beordert, um die Ölpest zu bekämpfen. Was das allerdings konkret bedeutet, darüber äußerte sie sich nicht.

BP hatte im Februar 2009 bei der US-Regierung einen Plan zur Erkundung und eine Analyse der Auswirkungen auf die Umwelt eingereicht und dabei versichert, man könne ein Katastrophenszenario, ein »worst case scenario«, am Bohrort beherrschen. Als »worst case scenario« wurde in dem Dokument das Austreten von 162.000 Barrel pro Tag bei einem unkontrollierten Blowout bezeichnet – das sind etwa 25 Millionen Liter pro Tag. Derzeit treten deutlich mehr als 200.000 Barrel täglich aus. Wenn das Öl den Golfstrom erreicht und zu den Stränden Floridas wandert – und sich vielleicht sogar um die Südspitze des Bundesstaats herum auf die Ostküste ausbreitet –, dann droht nach Ansicht von Experten eine ökologische und ökonomische Katastrophe epischen Ausmaßes. Anwohner der Küstenregionen Louisianas beklagen sich bereits, BP behindere die Schutzmaßnahmen.

Öl an der Oberfläche ist nur ein Teil des Problems. Professor Ed Overton von der Louisiana State University, Chef des Risiko-Einschätzungs-Teams für den Fall einer Ölpest, befürchtet, das in das Bohrloch eingeführte Rohr könnte völlig einbrechen. Wenn das geschähe, gäbe es keine Warnung, die resultierende Springquelle könnte noch weit verheerender sein. »Wenn so etwas passiert, dann macht es KRABUMM … Wenn das Ding einbricht, dann haben wir einen wirklich großen Schlag.«

BP verweigert Angaben darüber, wie viel Öl sich unter der Plattform befindet, dies sei Firmengeheimnis. Immerhin wurde angedeutet, es seien mindestens »einige zehn Millionen Barrel«.

Obama hat alle neuen Probebohrungen vor der Küste einstweilen gestoppt, sofern die Bohrinseln nicht über neuartige Sicherheitsvorkehrungen verfügen, die eine neue Katastrophe verhindern.

Als wolle er der wachsenden Kritik begegnen, hat der Sprecher des Weißen Hauses, Robert Gibbs, einen Blog mit dem Titel Die Reaktion auf die Ölpest eingerichtet, in dem er beschreibt, was die Regierung seit der Explosion Tag für Tag unternommen hat, dabei fallen immer wieder Worte wie »sofort« oder »schnell«. Es wird behauptet, Obama hätte »schon sehr früh« alle zuständigen Behörden angewiesen, sämtliche verfügbaren Ressourcen auf das Unglück und die Ermittlung der Ursachen zu richten. Aha. Weitere Informationen folgen.

vendredi, 11 juin 2010

La sfida totale

LA SFIDA TOTALE

INTERVISTA A DANIELE SCALEA

 

Stefano Grazioli

Ex: http://www.italiasociale.net/

 

sfida-totale.jpgTanti parlano e scrivono di geopolitica, pochi ne capiscono davvero qualcosa. Daniele Scalea è uno di questi. Giovane, 25 anni e una laurea in Scienze storiche alla Statale di Milano, Daniele Scalea - che già da qualche anno é nella redazione di Eurasia -  ha esordito con un opera di grande spessore (un assaggio sul sito), dimostrando che le sponde del Lago Maggiore (vive a Cannobio) possono diventare un osservatorio privilegiato per capire e spiegare le vicende del Mondo che ci circonda. A confermarlo non sono tanto io, quanto chi ha scritto la prefazione del nuovo libro di Daniele, “La sfida totale – Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali” (Fuoco Edizioni), e cioè il generale Fabio Mini, uno che ne capisce: “Si potrebbe tranquillamente dire che Daniele Scalea ha scritto un trattato di alta Geopolitica. Ha descritto il mondo attuale cercando di interpretarlo alla luce delle teorie classiche della Geopolitica confermandone, e ce n’era bisogno, la validità metodologica. Ha preso in esame tutti i grandi attori mondiali e dopo una panoramica appassionata, non c’è nient’altro da dire”.

Ecco, non aggiungo altro nemmeno io. Consiglio solo di correre in libreria o ordinare il libro via internet direttamente dall’editore. E di leggere con attenzione la lunga  intervista che gentilmente che l’autore ci ha concesso.

 

Rovesciamo la bottiglia e partiamo dal fondo. Lei conclude il suo libro scrivendo che la nascita del Nuovo Mondo, o perlomeno la ristrutturazione geopolitica di quello vecchio, potrebbe essere oltremodo complicata: in sostanza il passaggio da un sistema semi-unipolare a uno multipolare rischia di produrre dolorose frizioni dovute al fatto che la potenza egemone – gli Stati Uniti – opporrà resistenza alla perdita del proprio potere. La “sfida totale” ha già vincitori e vinti?

La tendenza storica del post-Guerra Fredda marcia contro gli USA. Negli anni ’90 la geopolitica mondiale ha vissuto il suo “momento unipolare”, e tutto sembrava girare per il verso giusto, dalla prospettiva di Washington. Ma già si covava quanto sarebbe venuto. L’ultimo decennio ha visto l’emergere a livello economico, strategico ed infine anche politico di veri e propri competitori della “unica superpotenza rimasta”: il riferimento è prima di tutto a Cina e Russia, ma una menzione la meritano pure India, Brasile, Giappone. Il sogno della “fine della storia” è svanito. Gli USA hanno tentato, sotto Bush, un ultimo brutale tentativo di mantenere la propria supremazia incontrastata: il progetto di “guerra infinita”, che avrebbe dovuto annichilire come un rullo compressore tutti i possibili nemici e competitori, ma che si è arenato già sui primi due scogli incontrati, ossia Afghanistan e Iràq. L’ordine mondiale odierno è “semi-unipolare”, con Washington ancora potenza egemone, ma più per la cautela dei suoi rivali che per la propria forza ed autorità. La crisi finanziaria del 2008 è partita dagli USA ed ha mandato parzialmente in frantumi quell’ordine economico su cui si fonda gran parte del potere di Washington. Tutto lascia supporre che si concretizzerà il ritorno ad un vero e proprio ordine “multipolare”, e questa è anche la mia previsione.

Però …come spesso accade c’è un “però”. Uno degli errori più comuni del nostro tempo è quello di percepire le tendenze come fattori fissi ed immutabili, quando in realtà sono contingenti. Come sosteneva Hume, l’uomo è portato a credere in ciò che è abituato a vedere, ossia ad assolutizzare il contingente. Ma le inversioni di tendenza sono sempre possibili. Gli Stati Uniti non hanno accettato e difficilmente accetteranno il ruolo di ex egemone in declino. A meno d’implosioni interne del tipo pronosticato da Igor Panarin, riusciranno ad opporre resistenza, ed hanno molto frecce al loro arco se non per bloccare, quanto meno per rallentare la transizione al mondo multipolare: ricordiamo, tra i principali, il poderoso strumento militare (che spesso fa cilecca, ma per capacità di proiezione globale non ha pari), la “egemonia del dollaro” (Henry Liu), la centralità nel sistema finanziario, l’influenza culturale. Già il secolo scorso la supremazia delle talassocrazie anglosassoni fu sfidata, prima dal Reich tedesco e poi dall’Unione Sovietica, e sappiamo bene tutti come andò a finire. Meglio non vendere la pelle dell’orso (o le penne dell’aquila, se vogliamo esser più precisi nell’allegoria zoologica) prima d’averlo ucciso. Certo però che questi USA d’inizio XXI secolo paiono solo la copia sbiadita della superpotenza del ventesimo: molta della loro grandezza deriva dall’eredità delle generazioni passate, e quando sono chiamati a difenderla non sembrano all’altezza del proprio rango senza pari.

E ora dall’inizio, tuffandoci un po’ nel passato. L’attacco al cuore della Terra, all’Heartland, che gli Stati Uniti hanno attuato su quattro direttrici (sovversione politica, espansione militare, risorse energetiche, supremazia nucleare): può sintetizzare?

La strategia statunitense, quanto meno dagli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale in poi (e forse anche da prima), è fortemente ispirata ai princìpi della geopolitica. L’Heartland (H. Mackinder) è una delle categorie basilari di questa disciplina: è la Terra-cuore, il centro del continente eurasiatico, storicamente impermeabile alla potenza marittima – quest’ultima incarnata prima dall’Impero britannico e poi dal “imperialismo informale” statunitense. L’Heartland è occupato dalla Russia, che rappresenta perciò stesso il principale ostacolo e minaccia potenziale all’egemonia della potenza talassocratica, ossia marittima, degli USA. Dalla fine della Guerra Fredda ad oggi, Washington e Mosca hanno più volte tentato approcci amichevoli, ma tutti sono finiti male. All’arrendevolezza di El’cin si rispose con lo smembramento della Jugoslavia, ed i Russi reagirono portando al Cremlino un certo Vladimir Putin. Le sue aperture dopo l’11 settembre sono state ripagate con la penetrazione statunitense in Asia Centrale, nel “cortile di casa” russo. Anche l’attuale recentissimo idillio tra Obama e Medvedev durerà poco. Nessuno vuole sfociare nel determinismo, ma la geografia è un fattore importante nella vicenda umana, ed in questo caso la geografia condanna Russia e USA ad essere, almeno nello scenario attuale, quasi sempre nemici.

Dagli anni ’90 ad oggi gli Statunitensi, sulla scia di teorizzazioni come quelle di Zbigniew Brzezinski, lungi dall’allentare la morsa su Mosca hanno cercato di sfruttare il crollo dell’URSS per neutralizzare definitivamente la minaccia russa. Le “direttrici d’attacco”, come da lei sottolineato, sono state quattro:

a) la sovversione politica: tramite la CIA, enti pubblici o semi-pubblici come il National Endowment for Democracy o U.S. Aid, e finte ONG gli USA hanno orchestrato una serie di colpi di Stato in giro per l’ex area d’influenza moscovita, allo scopo d’insediare quanti più governi filo-atlantici e russofobi fosse possibile. I casi più celebri: Serbia, Georgia, Ucraìna, Kirghizistan. Ci hanno provato persino in Bielorussia e in Russia (leggi Kaspàrov), ma non è andata bene. I governanti locali si sono fatti furbi ed hanno iniziato a porre una serie di restrizioni alle attività d’organizzazioni straniere nei propri paesi. Gli ultimi eventi in Ucraìna e Kirghizistan fanno pensare che l’ondata di “rivoluzioni colorate” sia ormai in fase di risacca;

b) l’espansione militare: la NATO si potrebbe definire come l’alleanza che lega l’egemone statunitense ai paesi ad esso subordinati. Non è qualitativamente diversa dalla Lega Delio-Attica capeggiata da Atene, o dalle varie alleanze italiche di Roma. Un’alleanza non certo tra pari. Nata in funzione anti-sovietica, scioltasi l’URSS non solo non ha chiuso i battenti ma si è allargata verso est, fino ai confini della Russia. La nuova dottrina militare russa cita espressamente la NATO tra le minacce per il paese;

c) le risorse energetiche: una potente leva strategica per la Russia è costituita dalla sua centralità nel commercio energetico intra-eurasiatico. Gli USA hanno cercato di sminuirla facendo dell’Asia Centrale un competitore di Mosca, tramite gasdotti e oledotti alternativi che scavalcassero il territorio russo. L’impossibilità di costruire la condotta trans-afghana, il ridotto impatto del BTC ed il fallimento annunciato del Nabucco chiariscono che il progetto, almeno per ora, non ha avuto successo;

d) la supremazia nucleare: è un punto sovente ignorato dai commentatori occidentali. Si definisce “supremazia nucleare” la capacità d’uno Stato di vincere una guerra atomica senza subire danni eccessivi, ossia di sferrare un “primo colpo” (first strike) parando la successiva rappresaglia. Quando si dispone di migliaia di testate e missili nucleari, come gli USA, è facile annientare un rivale con una guerra atomica: il grosso problema è riuscire ad evitare d’essere annientati a propria volta se il nemico, come la Russia, ha a sua volta migliaia di armi nucleari con cui rispondere. Ecco dunque l’idea dello scudo ABM (anti-missili balistici), il sogno di Reagan riesumato da Bush e per niente accantonato da Obama. Resterà ancora a lungo una delle principali pietre della discordia tra Mosca e Washington. Infatti, il Cremlino non si beve la storia che lo scudo ABM sia rivolto contro l’Iràn e la Corea del Nord, e nel mio libro spiego dettagliatamente il perché.

Lei si sofferma sulla politica estera statunitense dell’ultimo decennio sviscerando le differenze tra idealisti e realisti alla Casa Bianca. Cosa ha cambiato l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca?

Ha cambiato molto, ma probabilmente meno di quello che avrebbe potuto se non ci fosse stata la crisi finanziaria del 2008. Obama era portatore d’una geostrategia alternativa a quella neoconservatrice, meno fissata sul Vicino e Medio Oriente e più attenta agli equilibri globali nel loro complesso. Essa comprendeva anche una non dichiarata strategia anti-russa di tipo brzezinskiana. La stessa distensione con l’Iràn era ed è mirata soprattutto a rivolgere la potenza persiana contro Mosca in funzione di contenimento sul fianco meridionale.

Inutile dire che la crisi ha scompaginato i piani. Gli USA si sono ritrovati con l’acqua alla gola, ed Obama s’è accontentato di cercare di salvarne la supremazia mondiale. L’ideologismo di Bush è stato sostituito con un po’ di sana Realpolitik, e la minaccia ed uso della forza militare sono oggi stemperate dal ricorso alla diplomazia come via prediletta. Ma ciò non è sufficiente. Washington, capendo di non farcela più da sola, sta cercando di cooptare qualche grande potenza come stampella della propria egemonia. All’inizio Obama ha cercato di formare il famoso “G-2” con la Cina, ma ben presto la tensione ha preso a montare ed oggi Washington e Pechino si guardano in cagnesco come non succedeva da decenni. Così Obama ha messo nel mirino la Cina, ed ha pensato bene di corteggiare la Russia. Il “leviatano” talassocratico ed il “behemoth” tellurocratico si sono già trovati fianco a fianco contro una potenza del Rimland, ossia del margine continentale dell’Eurasia (mi riferisco alla Germania nel secolo scorso), ma non credo che ciò si ripeterà oggi. Gli USA superpotenza avrebbero potuto cooptare la Russia di El’cin e del primo Putin, ma si sono rivelati troppo avidi di potere ed hanno finito con l’allontanarla. Oggi sono ancora la potenza egemone, e perciò suscitano invidia ed ostilità, ma sono un egemone zoppo,  e dunque appoggiarlo non dà più gli stessi vantaggi d’un tempo. Allearsi con qualcuno che ti vorrebbe come stampella del suo potere traballante non è una prospettiva così allettante. Il Cremlino prenderà altre strade. Solo quando gli USA si saranno ridimensionati al rango di grande potenza inter pares, allora si potrà ridiscutere d’alleanze strategiche.

L’8 dicembre 1991 i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, riuniti a Brest, proclamarono la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che Gorbačev fu costretto ad accettare suo malgrado. L’ex presidente russo Vladimir Putin, ora primo ministro, ha affermato che la dissoluzione dell’Urss è la stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo. È d’accordo?

Il termine “catastrofe” sottintende un giudizio di valore, e dunque è soggettivo. Restando sul merito, è indubbio che il crollo dell’URSS, ossia della potenza terrestre dell’Heartland che conteneva la superpotenza marittima, è stato un evento epocale. E dal punto di vista dei Russi, non si può che considerare catastrofico. Ma non solo dal loro. Il crollo della diga sovietica – una diga criticabile e controversa fin quanto si vuole – ha aperto la strada al tentativo egemonico degli USA, col suo contorno di prevaricazione e guerre. Per gli Statunitensi la disgregazione dell’URSS è stata un successo, per i Polacchi una benedizione, per i Cubani, i Siriani o i Palestinesi una disgrazia.

Vladimir Putin è stato, tra luci ed ombre, il simbolo della ritorno della Russia sulla Grande Scacchiera. Lei scrive che la “Dottrina Putin” può essere interpretata come un realismo in salsa russa, fondato sull’accorta tessitura d’alleanze intra-continentali con la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia e l’Europa Occidentale. Cioè?

Ho ripreso la definizione che cita da Tiberio Graziani, direttore della rivista “Eurasia”. In Russia, dopo la fine del comunismo sono emerse due visioni ideologiche: quella eurasiatica, che vede negli USA il nemico storico da combattere ad ogni costo, e quella occidentalista, che vede nell’Ovest il beniamino da emulare e compiacere ad ogni costo. La Dottrina Putin esula da questi schemi e si pone nel mezzo degli “opposti estremismi”. Putin ha adottato linguaggi e formalità cari agli occidentali, ed ha a lungo considerato prioritari i rapporti con l’Europa e gli USA. Ma non è mai stato arrendevole e rinunciatario, non ha mai rinunciato a difendere il ruolo della Russia nel mondo ed il suo “spazio vitale” nell’Heartland. Quando ha verificato che con Washington non c’erano spazi di dialogo, si è rivolto altrove. Le alleanze intra-continentali da lei citate servono a creare un “secondo anello di sicurezza” (il primo dovrebbe essere il “estero vicino”) attorno alla Russia. L’obiettivo finale è estromettere la talassocrazia, ossia gli USA, dall’intera massa continentale eurasiatica, per mettere definitivamente in sicurezza la Russia.

Secondo Parag Khanna i “tre imperi” del nuovo mondo multipolare sarebbero Usa, Cina e Unione Europea, mentre la Russia farebbe parte del “secondo mondo”. Lei non è d’accordo. Perché?

Perché la visione di Parag Khanna si fonda sostanzialmente su valutazioni di tipo economico e sulle sue simpatie personali. L’economia è importante ma non rivela tutto. Ad esempio, l’Unione Europea, si sa, è un gigante economico ma un nano politico. Non è neppure uno Stato, bensì un’accozzaglia di Stati nazionali che, come stanno dimostrando gli eventi attuali, in mezzo alla tempesta preferiscono pensare ognuno per sé. La Russia ha un ingente patrimonio geopolitico, in termini geografici, militari ed energetici, che può giocare efficacemente sulla grande scacchiera mondiale. Mosca è ancora al centro della politica internazionale, considerarla parte del “secondo mondo” è ingiustificato.

La Cina è e sarà comunque uno dei protagonisti di questo secolo e intorno al ruolo di Pechino si gioca ovviamente il futuro di Washington. Riprendo allora le sue parole: «Per gli Usa il contenimento della Cina dovrebbe avvenire attraverso due “cani da guardia” posti al suo fianco: l’India e il Giappone. Davvero Nuova Delhi e Tokio sono disposti a ricoprire il ruolo che Washington vorrebbe affibbiare loro, oppure preferiranno unirsi a Pechino per creare una “sfera di co-prosperità” asiatica?»

È un dilemma che non ha ancora trovato risposta. L’India sembrava più vicina alla Cina qualche anno fa, quando entrò nel gergo comune degli addetti ai lavori il termine “Cindia”. Al contrario, il Giappone che qualche anno fa pareva nemico irriducibile di Pechino oggi gli si sta riavvicinando. La situazione è fluida e difficile da decifrare, ma la sensazione è che Nuova Delhi e Tokio cercheranno la vincita sicura: aspetteranno di capire con certezza chi avrà la meglio tra Cina e USA, e solo allora punteranno tutto sul cavallo vincente.

Spostiamoci infine Oltreoceano, dove comunque i grandi attori sono sempre gli stessi. Nel libro scrive che Obama sembra deciso a recuperare l’influenza sul “cortile di casa”, e con qualsiasi mezzo. Russia e Cina, invece, offrono una sponda diplomatica alle nuove potenze emergenti come Brasile e Venezuela. I prossimi conflitti sono programmati?

Il Sudamerica è storicamente un’area molto pacifica. Ma ciò è dovuto anche alla sua storia di marginalità nel quadro geopolitico, ed all’egemonia a lungo incontrastata degli USA. Oggi questi due fattori stanno venendo meno. In Sudamerica sta emergendo una grande potenza mondiale – il Brasile – mentre il controllo degli USA sul “cortile di casa” è stato seriamente intaccato. Cina e Russia si fanno beffe della Dottrina Monroe, punto fermo della strategia statunitense da un paio di secoli. Washington passerà all’azione, o meglio alla reazione, e non sappiamo ancora quali strumenti sceglierà.

Maggiore integrazione economica? L’ALCA è stato bocciato da quasi tutti i paesi sudamericani.

Legami militari? In Sudamerica la Russia ha superato gli USA nell’esportazione di armi.

Influenza culturale? I sentimenti anti-statunitensi, tradizionalmente radicati nell’area, appaiono al massimo storico, ed il risveglio della comunità indigena porta ad una riscoperta del proprio retaggio più arcaico, piuttosto che all’adozione della way of life nordamericana.

Colpi di Stato? In Venezuela ci hanno provato ma fu un fallimento; un pesce molto più piccolo come l’Honduras è caduto nella rete, ma si ritrova quasi completamente isolato nella regione.

Guerre per procura? I paesi sudamericani sono molto restî a scendere in guerra tra loro, se non altro perché sono tutti instabili al loro interno e temono gravi contraccolpi domestici. Attorno alla Colombia la tensione sta montando, e molto decideranno le imminenti elezioni presidenziali. Santos ricorda per certi versi Saakašvili: è una testa calda, con lui tutto sarebbe possibile. Mockus, al contrario, cercherebbe la distensione coi vicini ed allenterebbe i legami con gli USA. In ogni caso, per Bogotà sarebbe una mossa come minimo azzardata andare in guerra coi vicini, quando non controlla neppure il proprio territorio nazionale.

Guerre in prima persona? Sono da escludersi almeno finché le truppe nordamericane rimangono impantanate in Iràq e Afghanistan. Anche dopo aver evacuato i due paesi mediorientali, l’esperienza inciderà negativamente sulla propensione alla guerra nei prossimi anni. Certo, non sono eventi traumatici come il Vietnam – avendovi preso parte soldati professionisti e non cittadini coscritti – ma il paese è comunque demoralizzato e le casse vuote. Inoltre i paesi sudamericani si stanno integrando: attaccarne uno significherebbe rovinare i rapporti con tutti.

Per tali ragioni, ritengo che nei prossimi anni Washington si limiterà a sovvenzionare e “pompare” a livello mediatico i propri campioni in loco: lo sta già facendo in Brasile, anche se difficilmente il Partito dei Lavoratori di Lula sarà scalzato dal potere. In qualche “repubblica delle banane” centroamericana potranno pure organizzare dei golpe, ma l’arma tradizionale dell’influenza nordamericana sui vicini meridionali appare sempre più spuntata.

La perdita dell’egemonia sul continente americano rappresenterà una svolta epocale per gli USA e la geopolitica mondiale. Gli Stati Uniti d’America, potenza continentale, hanno potuto inventarsi potenza marittima contando sull’isolamento conferito dall’assenza di nemici sulla terraferma: dal Novecento hanno perciò potuto proiettarsi con sicurezza sugli oceani e al di là degli stessi. Con l’emergere di forti rivali nelle Americhe, gli USA perderebbero uno dei loro storici vantaggi strategici: smetterebbero di essere “un’isola” geopolitica e ritornerebbero una potenza continentale.

Quali sono questi “rivali” che gli USA potranno trovare nel continente? Facile rispondere il Brasile, su tutti, che ha dimensioni e demografia adatte a sfidare la supremazia di Washington nell’emisfero occidentale. Facilissimo citare il “blocco bolivariano”, paesi che presi singolarmente sono deboli, ma che se dovessero riuscire ad unirsi, resi più forti dalla veemenza ideologica, creerebbero non pochi problemi ai gringos, come li chiamano loro. E non scordiamoci il Messico. Il Messico è una nazione molto grande, direttamente confinante con gli USA, e coltiva – anche se silenziosamente – storiche rivendicazioni territoriali sul sud degli Stati Uniti. La sua economia è in forte crescita: fra pochi anni sarà considerata una grande potenza, almeno in quest’ambito. Fatica a tenere sotto controllo la parte settentrionale del paese, ma è quella meno popolata e più povera. In compenso ha un’arma atipica. Samuel Huntington, poco prima di morire, lanciò un avvertimento ai propri connazionali: di guardarsi dall’enorme aumento numerico dei Latinos – per lo più messicani – negli USA. I Latinos sono concentrati in pochi Stati: California, Texas, Arizona, New Mexico ed anche Florida (qui si tratta di cubani e portoricani). Giungono in massa e tendono a conservare la propria lingua, la propria religione ed il proprio modo di vivere. Hanno già acquisito un ingente peso elettorale, ma in massima parte non sono integrati nella società statunitense. Nel Sud, i cartelli criminali del narcotraffico hanno costituito veri e propri “Stati nello Stato”, che spadroneggiano nei quartieri latini, sanno autofinanziarsi illecitamente tramite il traffico di droga e la prostituzione, hanno veri e propri eserciti armati fino ai denti. Un soggetto ideale per condurre una guerra asimmetrica, se se ne creassero le condizioni. Questi cartelli del narcotraffico hanno eguale potere al di là del confine, nel settentrione del Messico, e forti collusioni con le autorità di Città del Messico. Non è un caso che negli USA da alcuni anni stiano cercando d’arginare l’immigrazione e d’integrare i Latinos nella società, mentre in Messico non fanno nulla per dissuadere i propri cittadini dall’espatriare nelle terre che gli Statunitensi rubarono al Messico centocinquant’anni fa. La situazione è esplosiva, e qualche analista – come George Friedman – se n’è accorto.

 

22/05/2010

mardi, 08 juin 2010

Un général américain annonce de nouvelles guerres

Un général américain annonce de nouvelles guerres pour les « dix années qui viennent »

Lors de la visite du président fantoche de l’Afghanistan, Hamid Karzaï, qui s’est déroulée du 10 au 14 mai dernier à Washington, des attachés militaires français ont rapporté une surprenante déclaration du général James Cartwright, l’adjoint du patron des armées US :  les forces armées américaines vont s’engager dans de nouvelles guerres.

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Depuis plusieurs semaines, en prévision de l’accueil réservé à Karzaï au Département d’État, au Pentagone et à la Maison-Blanche, Obama avait interdit à ses ministres, à ses chefs militaires et à ses diplomates de se livrer à la moindre critique de son hôte. Oubliées, les incartades de Karzaï, qui avait accusé l’ambassadeur américain à Kaboul d’avoir voulu le faire battre à l’élection présidentielle. Passées par pertes et profits, les déclarations publique du chef afghan, qui récemment encore menaçait de « rejoindre les talibans» si les Américains continuaient à se comportent en « occupant ». Et surtout, plus question de voir, dans la presse, un commentaire sur la corruption du clan Karzaï et ses relations avec les trafiquants d’opium.

Cela n’aura néanmoins pas suffit à réduire au silence certains membres du Pentagone. Passionnés de statistiques, ces bavards ont sélectionnés, pour leurs chefs, plusieurs chiffres déprimants sur cette guerre lointaine.

Recrudescence des opérations de la résistance afghane

Selon le dernier numéro du Canard Enchainé, dont les sources seraient des attachés militaires français, en mars dernier les services américains ont recensé 40 attaques de la résistance par jour, et , mieux encore, il faudra s’attendre à enregistrer, au total, 21′000 agressions de ce genre à la fin 2010.

Autre information révélée par l’hebdomadaire : l’offensive dirigée par le général McChrystal dans le Helmand serait loin d’être un « franc succès » : les talibans continuent de contrôler cette zone proche du Pakistan. Voilà qui n’augure rien de bon à quelques semaines de la « grande offensive » dans la région de Kandahar, ou des commandos américains ont déjà détecté la présence de jeunes insurgés, qui ont rasé leur barbe et sont porteur d’armes modernes.

Des guerres pour les dix prochaines années

Le Canard Enchainé, rapporte surtout une surprenante déclaration du général James Cartwright, l’adjoint du patron des armées US. Le 13 mai, au Centre des études stratégiques, il s’est autorisé à prédire l’avenir devant un auditoire médusé : « Pendant les dix années qui viennent, les forces armés américaines resteront engagées dans le même genre de conflit qu’elles ont connu en Irak et en Afghanistan »

Faudra-t-il que Sarkozy, ou son successeur, accepte d’envoyer des Français participer à de nouvelles guerres américaines ? Les nombreux candidats à la future élection présidentielle de 2012 devraient y réfléchir. Les électeurs aussi.

Agata Kovacs, pour Mecanopolis

El acuerdo Iràn-Brasil-Turquia: un desafio a la prepotencia de EE.UU e Israel

El acuerdo Irán-Brasil-Turquía: Un desafío a la prepotencia de EE.UU. e Israel

Consortium News/ICH
BRASIL DICE QUE EL ACUERDO CIERRA EL CAMINO A NUEVAS SANCIONES PARA IRÁN
Puede que los tiempos estén cambiando –por lo menos un poco– y que EE.UU. e Israel ya no puedan dictar al resto del mundo cómo hay que manejar las crisis en Oriente Próximo, aunque la secretaria de Estado Hillary Clinton y sus amigos neoconservadores en el Congreso y en los medios estadounidenses han tardado en darse cuenta. Tal vez piensan que siguen controlando la situación, que siguen siendo los listos que menosprecian a advenedizos como los dirigentes de Turquía y Brasil que tuvieron la audacia de ignorar las advertencias de EE.UU. y siguieron recurriendo a la diplomacia para prevenir una posible nueva guerra, ésta respecto a Irán.

 

El lunes, el primer ministro turco Recep Tayyip Erdogan y el presidente brasileño Luiz Inacio Lula da Silva anunciaron su éxito al persuadir a Irán para que envíe aproximadamente un 50% de su uranio poco enriquecido a Turquía a cambio de uranio más enriquecido para su utilización en aplicaciones médicas pacíficas.

El acuerdo tripartito es análogo a otro planteado a Irán por países occidentales el 1 de octubre de 2009, que obtuvo la aprobación iraní en principio pero que luego fracasó.

El que el anuncio conjunto del lunes haya sorprendido a los funcionarios estadounidenses denota una actitud pretenciosa propia de una torre de marfil frente a un mundo que cambia rápidamente a su alrededor, como los antiguos imperialistas británicos desconcertados por una oleada de anticolonialismo en el Raj [administración colonial de India, N. del T.] o algún otro dominio del Imperio.

Significativamente, los funcionarios de EE.UU. y sus acólitos en los Medios Corporativos Aduladores (o MCA) no pudieron creer que Brasil y Turquía se atreverían a impulsar un acuerdo con Irán al que se opusieran Clinton y el presidente Barack Obama.

Sin embargo existían señales de que esos poderes regionales ascendentes ya no estaban dispuestos a comportarse como niños obedientes mientras EE.UU. e Israel tratan de tomarle el pelo al mundo para conducirlo a una nueva confrontación en Oriente Próximo.

Hacer frente a Israel

En marzo, el primer ministro israelí Benjamin Netanyahu se sintió tan molesto con la defensa del diálogo con Irán por parte del presidente Lula da Silva que dio un severo sermón al recién llegado de Sudamérica. Pero el presidente brasileño no cedió.

Lula da Silva se mostró crecientemente preocupado de que, a falta de una diplomacia rápida y ágil, Israel probablemente seguiría la escalada de sanciones con un ataque contra Irán. Sin andarse con rodeos, Lula da Silva dijo:

“No podemos permitir que suceda en Irán lo que pasó en Iraq. Antes de cualquier sanción, debemos realizar todos los esfuerzos posibles para tratar de lograr la paz en Oriente Próximo.”

Erdogan de Turquía tuvo su propia confrontación con un dirigente israelí poco después del ataque contra Gaza desde el 17 de diciembre de 2008 hasta el 18 de enero de 2009, en el que murieron unos 1.400 habitantes de Gaza y 14 israelíes.

El 29 de enero de 2009, el presidente turco participó con el presidente israelí Shimon Peres en un pequeño panel moderado por David Ignatius del Washington Post en el Foro Económico Mundial en Davos, Suiza.

Erdogan no pudo tolerar la resonante y apasionada defensa de la ofensiva de Gaza de Peres. Erdogan describió Gaza como “prisión al aire libre” y acusó a Peres de hablar fuerte para ocultar su “culpa”. Después de que Ignatius otorgó a Peres el doble del tiempo que a Erdogan, este último se enfureció, e insistió en responder al discurso de Peres.

El minuto y medio final, capturado por la cámara de la BBC, muestra a Erdogan apartando el brazo estirado de Ignatius, mientras éste trata de interrumpirlo con ruegos como: “Realmente tenemos que llevar a la gente a la cena”. Erdogan continúa, se refiere al “Sexto Mandamiento –no matarás-”, y agrega: “Estamos hablando de asesinatos” en Gaza. Luego alude a una barbarie “que va mucho más allá de lo aceptable,” y abandona la sala anunciando que no volverá a ir a Davos.

El gobierno brasileño también condenó el bombardeo de Gaza por Israel como “una reacción desproporcionada”. Expresó su preocupación de que la violencia en la región había afectado sobre todo a la población civil.

La declaración de Brasil se hizo el 24 de enero de 2009, sólo cinco días antes de la enérgica crítica de Erdogan ante el intento del presidente israelí de defender el ataque. Tal vez fue el momento en el que se plantó la semilla que germinó y creció en un esfuerzo decidido de actuar enérgicamente para impedir otro sangriento estallido de hostilidades.

Es lo que Erdogan hizo, con la colaboración de Lula da Silva. Los dos dirigentes regionales insistieron en un nuevo enfoque multilateral para impedir una potencial crisis en Oriente Próximo, en lugar de simplemente aceptar la toma de decisiones en Washington, guiado por los intereses de Israel.

Así que pónganse al día, muchachos y muchachas en la Casa Blanca y en Foggy Bottom [Barrio de Washington en el que se encuentra la sede del Departamento de Estado, N. del T.]. El mundo ha cambiado; ya no tenéis la última palabra.

En última instancia podríais incluso agradecer que hayan aparecido algunos adultos prescientes, que se colocaron a la altura de las circunstancias, y desactivaron una situación muy volátil de la que nadie –repito, nadie– habría sacado provecho.

Argumentos falaces para un cambio de régimen

Incluso se podría haber pensado que la idea de que Irán entregue cerca de la mitad de su uranio poco enriquecido se vería como algo bueno para Israel, disminuyendo posiblemente los temores israelíes de que Irán podría obtener la bomba en un futuro previsible.

Desde todo punto de vista, la entrega de la mitad del uranio de Irán debería reducir esas preocupaciones, pero NO parece que la bomba sea la preocupación primordial de Israel. Evidentemente, a pesar de la retórica, Israel y sus partidarios en Washington no ven la actual disputa por el programa nuclear de Irán como una “amenaza existencial”.

Más bien la ven como otra excelente oportunidad para imponer un “cambio de régimen” a un país considerado uno de los adversarios de Israel, como Iraq bajo Sadam Hussein. Como en el caso de Iraq, el argumento para la intervención es la acusación de que Irán quiere un arma nuclear, un arma de destrucción masiva que podría compartir con terroristas.

El hecho de que Irán, como Iraq, ha desmentido que esté construyendo una bomba nuclear –o que no haya información verosímil que pruebe que Irán esté mintiendo (un Cálculo Nacional de Inteligencia de EE.UU. expresó en 2007 su confianza en que Irán había detenido tales empeños cuatro años antes)– es normalmente descartado por EE.UU. y sus MCA.

En su lugar se vuelve a utilizar la aterradora noción de que Irán con armas nucleares podría de alguna manera compartirlas con al-Qaida o algún otro grupo terrorista para volver a atemorizar al público estadounidense. (Se hace caso omiso del hecho de que Irán no tiene vínculos con al-Qaida, que es suní mientras Irán es chií, tal como el secular Sadam Hussein desdeñaba al grupo terrorista.)

No obstante, antes en este año, la secretaria de Estado Clinton, al responder a una pregunta después de un discurso en Doha, Qatar, dejó escapar una parte de esa realidad: que Irán “no amenaza directamente a EE.UU., pero amenaza directamente a muchos de nuestros amigos, aliados, y socios” –léase Israel, como el primero y principal de los amigos.

A Clinton también le gustaría que usáramos la gimnasia mental requerida para aceptar el argumento israelí de que si Irán construyera de alguna manera una sola bomba con el resto de su uranio (presumiblemente después de refinarlo al nivel de 90% requerido para un arma nuclear cuando Irán ha tenido problemas tecnológicos a niveles mucho más bajos), se plantearía una amenaza inaceptable para Israel, que posee entre 200 y 300 armas nucleares junto con los misiles y bombarderos necesarios para lanzarlas.

Pero si no se trata realmente de la remota posibilidad de que Irán construya una bomba nuclear y quiera cometer un suicidio nacional al utilizarla, ¿qué está verdaderamente en juego? La conclusión obvia es que el intento de infundir miedo respecto a armas nucleares iraníes es la última justificación para imponer un “cambio de régimen” en Irán.

Los orígenes de ese objetivo se remontan por lo menos al discurso del “eje del mal” del presidente George W. Bush en 2002, pero tiene un precedente anterior. En 1996, destacados neoconservadores estadounidenses, incluyendo a Richard Perle y Douglas Feith, prepararon un documento radical de estrategia para Netanyahu que planteaba un nuevo enfoque para garantizar la seguridad de Israel, mediante la eliminación o neutralización de regímenes musulmanes hostiles en la región.

Llamado “Cortar por lo sano: Una nueva estrategia para asegurar el país [Israel]”, el plan preveía abandonar las negociaciones de “tierra por paz” y en su lugar “restablecer el principio de la acción preventiva”, comenzando por el derrocamiento de Sadam Hussein y enfrentando a continuación a otros enemigos regionales en Siria, el Líbano e Irán.

Sin embargo, para lograr un objetivo tan ambicioso –con la ayuda necesaria del dinero y el poderío militar estadounidenses– había que presentar como insensatas o imposibles las negociaciones tradicionales de paz y exacerbar las tensiones.

Obviamente, con el presidente Bush en la Casa Blanca y con el público en EE.UU. indignado por los ataques del 11-S, se abrieron nuevas posibilidades –y Sadam Hussein, el primer objetivo para “asegurar el área”, fue eliminado por la invasión de Iraq dirigida por EE.UU-

Pero la Guerra de Iraq no se desarrolló con la facilidad esperada, y las intenciones del presidente Obama de revivir el proceso de paz de Oriente Próximo y de entablar negociaciones con Irán emergieron como nuevos obstáculos para el plan. Se hizo importante mostrar lo ingenuo que era el joven presidente ante la imposibilidad de negociar con Irán.

Saboteando un acuerdo

Muchas personas influyentes en Washington se espantaron el 1 de octubre pasado cuando Teherán aceptó enviar al extranjero 1.200 kilos (entonces cerca de un 75% del total en Irán) de uranio poco enriquecido para convertirlos en combustible para un pequeño reactor que realiza investigación médica.

El negociador nuclear jefe de Irán, Saeed Jalili, presentó el acuerdo “en principio” de Teherán en una reunión en Ginebra de miembros del Consejo de Seguridad de la ONU, más Alemania, presidida por Javier Solana de la Unión Europea.

Incluso el New York Times reconoció que esto, “si sucede, representaría un logro importante para Occidente, reduciendo la capacidad de Irán de producir rápidamente un arma nuclear, y logrando más tiempo para que fructifiquen las negociaciones”.

La sabiduría convencional presentada actualmente en los MCA pretende que Teherán echó marcha atrás respecto al acuerdo. Es verdad; pero es sólo la mitad de la historia, un caso que destaca cómo, en el conjunto de prioridades de Israel, lo más importante es el cambio de régimen en Irán.

El intercambio de uranio tuvo el apoyo inicial del presidente de Irán Mahmud Ahmadineyad. Y una reunión de seguimiento se programó para el 19 de octubre en el Organismo Internacional de Energía Atómica (OIEA) en Viena.

Sin embargo el acuerdo fue rápidamente criticado por grupos de la oposición de Irán, incluido el “Movimiento Verde” dirigido por el candidato presidencial derrotado Mir Hossein Mousavi, quien ha tenido vínculos con los neoconservadores estadounidenses y con Israel desde los días de Irán-Contra en los años ochenta, cuando era el primer ministro y colaboró en los acuerdos secretos de armas.

Sorprendentemente fue la oposición política de Mousavi, favorecida por EE.UU., la que dirigió el ataque contra el acuerdo nuclear, calificándolo de afrenta a la soberanía de Irán y sugiriendo que Ahmadineyad no era suficientemente duro.

Luego, el 18 de octubre, un grupo terrorista llamado Jundallah, actuando con información extraordinariamente exacta, detonó un coche bomba en una reunión de altos comandantes de los Guardias Revolucionarios iraquíes y de dirigentes tribales en la provincia de Sistan-Baluchistán en el sudeste de Irán. Un coche repleto de Guardias también fue atacado.

Un brigadier general que era comandante adjunto de las fuerzas terrestres de los Guardias Revolucionarios, el brigadier que comandaba el área fronteriza de Sistan-Baluchistán y otros tres comandantes de brigada resultaron muertos en el ataque; docenas de oficiales militares y civiles resultaron muertos o heridos.

Jundallah reivindicó los atentados, que tuvieron lugar después de años de ataques contra Guardias Revolucionarios y policías iraníes, incluyendo un intento de emboscada de la caravana de automóviles del presidente Ahmadineyad en 2005.

Teherán afirma que Jundallah está apoyado por EE.UU., Gran Bretaña e Israel, y el agente en retiro de operaciones de la CIA en Oriente Próximo, Robert Baer, ha identificado a Jundallah como uno de los grupos “terroristas buenos” que gozan de ayuda de EE.UU.

Creo que no es coincidencia que el ataque del 18 de octubre –el más sangriento en Irán desde la guerra de 1980 hasta 1988 con Iraq– haya tenido lugar un día antes de que las conversaciones nucleares debían reanudarse en la OIEA en Viena para dar seguimiento al logro del 1 de octubre. Era seguro que los asesinatos aumentarían las sospechas de Irán sobre la sinceridad de EE.UU.

Era de esperar que los Guardias Revolucionarios fueran directamente a su jefe, el Supremo Líder Ali Jamenei y argumentaran que el atentado y el ataque en la ruta demostraban que no se podía confiar en Occidente.

Jamenei publicó una declaración el 19 de octubre condenando a los terroristas, a los que acusó de estar “apoyados por las agencias de espionaje de ciertas potencias arrogantes.”

El comandante de las fuerzas terrestres de los Guardias, quien perdió a su adjunto en el ataque, dijo que los terroristas fueron “entrenados por EE.UU. y Gran Bretaña en algunos países vecinos”, y el comandante en jefe de los Guardias Revolucionarios amenazó con represalias.

El ataque fue una noticia importante en Irán, pero no en EE.UU., donde los MCA relegaron rápidamente el incidente al gran agujero negro de la memoria estadounidense. Los MCA también comenzaron a tratar la cólera resultante de Irán por lo que consideraba como actos de terrorismo, y su creciente sensibilidad ante el cruce de sus fronteras por extranjeros, como un esfuerzo por intimidar a grupos “pro democracia” apoyados por Occidente.

A pesar de todo, Irán envía una delegación

A pesar del ataque de Jundallah y de las críticas de los grupos opositores, una delegación técnica iraní de bajo nivel fue a Viena a la reunión del 19 de octubre, pero el principal negociador nuclear de Irán, Saeed Jalili, no participó.

Los iraníes cuestionaron la fiabilidad de las potencias occidentales y presentaron objeciones a algunos detalles, como dónde tendría lugar la transferencia. Los iraníes plantearon propuestas alternativas que parecían dignas de consideración, como que se hiciera la transferencia del uranio en territorio iraní o en algún otro sitio neutral.

El gobierno de Obama, bajo creciente presión interior sobre la necesidad de mostrarse más duro con Irán, descartó directamente las contrapropuestas de Irán, al parecer por instigación del jefe de gabinete de la Casa Blanca, Rahm Emanuel, y del emisario regional neoconservador Dennis Ross.

Ambos funcionarios parecieron opuestos a emprender cualquier paso que pudiera disminuir entre los estadounidenses la impresión de que Ahmadineyad fuera otra cosa que un perro rabioso que debía sacrificarse, el nuevo sujeto más detestado (reemplazando al difunto Sadam Hussein, ahorcado por el gobierno instalado por EE.UU. en Iraq).

Ante todo eso, Lula da Silva y Erdogan vieron la semejanza entre el afán de Washington de una escalada de la confrontación con Irán y el modo en que EE.UU. había conducido al mundo, paso a paso, hacia la invasión de Iraq (completada con la misma cobertura ampliamente sesgada de los principales medios noticiosos estadounidenses.)

Con la esperanza de impedir un resultado semejante, los dos dirigentes recuperaron la iniciativa de transferencia de uranio del 1 de octubre y lograron que Teherán aceptara condiciones similares el lunes pasado. Especificaban el envío de 1.200 kilos de uranio poco enriquecido de Irán al extranjero a cambio de barras nucleares que no servirían para producir un arma.

Sin embargo, en lugar de apoyar la concesión iraní al menos como un paso en la dirección adecuada, los responsables de EE.UU. trataron de sabotearla, presionando en su lugar por más sanciones. Los MCA hicieron su parte al insistir en que el acuerdo no era más que otro truco iraní que dejaría a Irán con suficiente uranio para crear en teoría una bomba nuclear.

Un editorial en el Washington Post del martes, con el título “Mal acuerdo,” concluyó triste e ilusionadamente: “Es posible que Teherán eche marcha atrás incluso respecto a los términos que ofreció a Brasil y Turquía –caso en el cual esos países se verían obligados a apoyar sanciones de la ONU.”

El miércoles, un editorial del New York Times dio retóricamente unas palmaditas en la cabeza a los dirigentes de Brasil y Turquía, como si fueran campesinos perdidos en el mundo urbano de la diplomacia dura. El Times escribió: “Brasil y Turquía… están ansiosos de tener mayores roles internacionales. Y están ansiosos de evitar un conflicto con Irán. Respetamos esos deseos. Pero como tantos otros, fueron engañados por Teherán”.

En lugar de seguir adelante con el acuerdo de transferencia de uranio, Brasil y Turquía deberían “sumarse a los otros protagonistas importantes y votar por la resolución del Consejo de Seguridad”, dijo el Times. “Incluso, antes de eso, debieran volver a Teherán y presionar a los mulás para que lleguen a un compromiso creíble y comiencen negociaciones serias.”

Centro en sanciones

Tanto el Times como el Post han aplaudido la actual búsqueda por el gobierno de Obama de sanciones económicas más duras contra Irán –y el martes, consiguieron algo que provocó su entusiasmo.

“Hemos llegado a acuerdo sobre un borrador contundente [resolución de sanciones] con la cooperación tanto de Rusia como de China,” dijo la secretaria Clinton al Comité de Relaciones Exteriores del Senado, dejando claro que veía la oportunidad de las sanciones como una respuesta al acuerdo Irán-Brasil-Turquía.

“Este anuncio es una respuesta tan convincente a los esfuerzos emprendidos en Teherán durante los últimos días como cualquier otra que pudiésemos suministrar,” declaró.

A su portavoz, Philip J. Crowley, le quedó la tarea de explicar la implicación obvia de que Washington estaba utilizando las nuevas sanciones para sabotear el plan de transferir fuera del país la mitad del uranio enriquecido de Irán.

Pregunta: “¿Pero usted dice que apoya y aprecia [el acuerdo Irán-Brasil-Turquía], pero no piensa que lo obstaculiza de alguna manera? Quiero decir que, ahora, al introducir la resolución el día después del acuerdo, usted prácticamente asegura una reacción negativa de Irán.”

Otra pregunta: “¿Por qué, en realidad, si usted piensa que este acuerdo Brasil-Turquía-Irán no es serio y no tiene mucho optimismo en que vaya a progresar y que Irán seguirá mostrando que no es serio en cuanto a sus ambiciones nucleares, por qué no espera simplemente que sea así y entonces obtendría una resolución más dura e incluso Brasil y Turquía votarían por ella porque Irán los habría humillado y avergonzado? ¿Por qué no espera simplemente para ver cómo resulta?”

Una pregunta más: “La impresión que queda, sin embargo, es que el mensaje –seguro que es un mensaje para Irán, pero hay también un mensaje para Turquía y Brasil, y es básicamente: salgan de la arena, hay muchachos y muchachas grandes en el juego y no necesitamos que se metan. ¿No aceptan eso?”

Casi me da pena el pobre P.J. Crowley, que hizo todo lo posible por hacer la cuadratura de éste y otros círculos. Sus respuestas carecían de candor, pero reflejaban una extraña capacidad de adherirse a un punto clave; es decir, que la “verdadera clave”, el “tema primordial” es el continuo enriquecimiento de uranio por Irán. Lo dijo, en palabras idénticas o similares al menos 17 veces.

Es algo curioso, en el mejor de los casos, que en este momento el Departamento de Estado haya decidido citar ese único punto como algo espectacular. El acuerdo ofrecido a Teherán el 1 de octubre pasado tampoco requería que renunciara al enriquecimiento.

Y el énfasis actual en la no observación de resoluciones del Consejo de Seguridad –que habían sido exigidas por EE.UU. y sus aliados– recuerda misteriosamente la estrategia para llevar al mundo hacia la invasión de Iraq en 2003.

Crowley dijo que el gobierno no piensa en “un itinerario en particular” para someter a votación una resolución, y dijo que “tardará lo que sea”. Agregó que el presidente Obama “presentó un objetivo de que esto se termine a finales de esta primavera” –aproximadamente dentro de un mes.

Contrainiciativa

A pesar de los esfuerzos de los círculos oficiales de Washington y los formadores de opinión neoconservadores para desbaratar el plan Irán-Brasil-Turquía, todavía parece mantenerse vivo, por lo menos de momento.

Funcionarios iraníes han dicho que enviarán una carta confirmando el acuerdo a la OIEA dentro de una semana. Dentro de un mes, Irán podría embarcar 1.200 kilos de su uranio poco enriquecido a Turquía.

Dentro de un año, Rusia y Francia producirían 120 kilos de uranio enriquecido a 20% para utilizarlo en la reposición de combustible para un reactor de investigación en Teherán que produce isótopos con el fin de tratar a pacientes de cáncer.

En cuanto a la afirmación de Clinton de que China, así como Rusia, forma parte de un consenso sobre el borrador de resolución del Consejo de Seguridad, el tiempo lo dirá.

Se duda en particular de la firmeza de la participación china. El lunes, responsables chinos saludaron la propuesta Irán-Brasil-Turquía y dijeron que debe explorarse a fondo. Funcionarios rusos también sugirieron que se debería dar una oportunidad al nuevo plan de transferencia.

Las propuestas de nuevas sanciones tampoco van tan lejos como deseaban algunos partidarios de la línea dura en EE.UU. e Israel. Por ejemplo, no incluyen un embargo de gasolina y otros productos refinados del petróleo, un paso duro que algunos neoconservadores esperaban que llevara a Irán al caos económico y político como preludio para un “cambio de régimen”.

En su lugar, la propuesta de nuevas sanciones especifica inspecciones de barcos iraníes sospechosos de entrar a puertos internacionales con tecnología o armas relacionadas con el tema nuclear. Algunos analistas dudan de que esta provisión tenga mucho efecto práctico sobre Irán.

Israel consultará con Washington antes de emitir una respuesta oficial, pero funcionarios israelíes han dicho a la prensa que el acuerdo de transferencia es un “truco” y que Irán ha “manipulado” a Turquía y Brasil.

Existen todos los motivos del mundo para creer que Israel buscará exhaustivamente una manera de sabotear el acuerdo, pero no está claro que los instrumentos diplomáticos usuales funcionen en esta etapa. Queda, claro está, la posibilidad de que Israel se juegue el todo por el todo y lance un ataque militar preventivo contra las instalaciones nucleares de Irán.

Mientras tanto es seguro que el primer ministro israelí Netanyahu aplicará toda la presión que pueda sobre Obama.

Como antiguo analista de la CIA, espero que Obama tenga la sangre fría necesaria para ordenar un Cálculo Nacional de Inteligencia especial por la vía rápida sobre las implicaciones del acuerdo Irán-Brasil-Turquía para los intereses nacionales de EE.UU. y los de los países de Oriente Próximo.

Obama necesita una evaluación sin adornos de las posibles ventajas del acuerdo (y sus potenciales aspectos negativos) como contrapeso para el cabildeo favorable a Israel que inevitablemente influye en la Casa Blanca y el Departamento de Estado.

* * *

Ray McGovern trabaja con Tell the Word, el brazo editor de la ecuménica Iglesia del Salvador en Washington, DC. Fue analista de la CIA durante 27 años y ahora sirve en el Grupo de Dirección de Profesionales Veteranos de la Inteligencia por la Cordura (VIPS).

Este artículo fue publicado primero en ConsortiumNews.com

Fuente: http://www.informationclearinghouse.info/article25492.htm

lundi, 07 juin 2010

Il terrorisme sud asiatico, sotto l'ombra della CIA

Il terrorismo sud asiatico, sotto l'ombra della Cia

di Alessandro Cisilin

Fonte: il Fatto Quotidiano

Talebani, movimenti tribali, narcotrafficanti, immigrati caucasici e sauditi affiliati di Al Qa’ida, indipendentisti del Kashmir, fondamentalisti indù, naxaliti, Tigri tamil. La mappa del terrorismo nell’Asia del Sud descrive un’inquietante continuità nell’intero asse tra le colline afgane dello Waziristan fino al Bangladesh, passando per le valli dell’Indo e del Gange a ridosso dell’Himalaia, e poi giù a Sud nelle foreste del Deccan, e ancor più giù col separatismo induista nello Shri Lanka.

Il territorio che è forse la culla più antica della civiltà globale è oggi l’epicentro di movimenti di guerriglia di vario orientamento religioso e politico, non senza significativi legami con attori occidentali. Situazioni apparentemente non paragonabili tra loro se non nell’ampiezza delle fondamenta storiche e delle persone coinvolte. Sono decine di migliaia i militanti in ciascuna delle entità citate, formati in centinaia di centri di addestramento. E, a prescindere dall’ideologia che ne istituisce i diversi collanti, sono quasi sempre mobilitati da obiettivi materiali.

terror_deesIl nodo irrisolto delle rivendicazioni di frontiera tra India e Pakistan. Il controllo del territorio e dei traffici di droga e armi nelle colline tra Afganistan e Pakistan. Il cosiddetto “corridoio rosso” delle foreste tra il Bengala e il Sudest dell’India, rivendicato dai maoisti alleati dalle tribù locali, contro le mire del governo e delle multinazionali del ferro. Che si tratti di Maometto o Krishna, Shiva o Mao, l’oggetto della ribellione trova sempre riscontro in tensioni politico-territoriali decennali, se non addirittura secolari.

Le responsabuilità del divisivo retaggio coloniale britannico rappresentano un dato scontato presso gli storici.

Meno evidente è il riprodursi di ambigue presenze europee e americane dietro ai sempre più frequenti fatti di sangue, a cominciare dai servizi d’intelligence. L’esempio recente più clamoroso è quello del 49nne David Coleman Headley, statunitense che all’anagrafe di Islamabad risulta Daood Gilani.

Si trova in una prigione degli Stati Uniti con l’accusa di aver architettato l’assalto a Mumbai nel 2008 e l’attentato a Pune tre mesi fa, costati la vita complessivamente a oltre duecento persone, in circostanze a tutt’oggi largamente misteriose, a cominciare dal movente - se non nell’esito di aver rallentato la ripresa del dialogo di pace indo-pakistano.

La matrice degli attacchi era islamica, si è detto e documentato, ma la vittima più illustre è stato il capo dell’antiterrorismo di Delhi Hemant Karkare, che stava indagando sui servizi deviati e il fondamentalismo indù.

E le stranezze continuano con la stessa storia personale di Headley, che non è quella dell’invasato islamico, bensì di un ex collaboratore della Drug Enforcement Agency per l’Asia del Sud, nonché, si sospetta, della Cia. Un doppiogiochista come troppi nell’area, del quale l’India ha chiesto invano l’estradizione. E che non ha potuto finora neppure interrogare.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it


Clint Eastwood und der Abtritt des weissen Mannes

clint_eastwood_gran_torino1.jpgClint Eastwood und der Abtritt des weißen Mannes

Ex: http://www.sezession.de/

Martin LICHTMESZ

Zum heutigen 80. Geburtstag von Clint Eastwood ist in der aktuellen Jungen Freiheit eine von mir verfaßte Würdigung mit dem Titel „Das Ende des weißen Mannes“ erschienen. Dieser bezieht sich vor allem auf Eastwoods Film „Gran Torino“ aus dem Jahr 2008, den man auch als eine Art Schwanengesang des Regisseurs und Schauspielers lesen kann. Der ist indessen ungebrochen agil und hat rechtzeitig zur Fußball-Weltmeisterschaft den Nelson-Mandela-Film „Invictus“ gedreht, der 1995 während der (hierzulande wohl wenig bekannten) „Rugby-Union-Weltmeisterschaft“ spielt.

Es ist bezeichnend, daß Hollywood einen Film über Südafrika nicht in der mehr als problematischen Gegenwart, sondern in der frühen Präsidentschaftsperiode Mandelas ansiedelt, als im Westen der Eindruck erweckt wurde, daß mit dem Ende der Apartheid das Gute nun für immer gesiegt habe – „and they lived happily ever after.“ (Daß es natürlich ganz anders kam, kann man in der neuen IfS-Studie „Südafrika. Vom Scheitern eines multiethnischen Experiments“ nachlesen.) Das Image Mandelas im Westen wurde schon in den Achtzigern vorwiegend von der US-Unterhaltungsindustrie geprägt, die ihn mit starbesetzten Benefizkonzerten und Anti-Apartheids-Filmen als eine Art zweiten Gandhi (und zwar einen Gandhi frei nach Richard Attenborough und Ben Kingsley) präsentierte.  Und passend zur Fußball-WM wird in „Invictus“ mal wieder das alte sentimentale Liedchen angestimmt, daß Sportsgeist die Rassenspannungen nachhaltig kurieren und aus „Feinden Freunde“ machen könne, wie es in der literarischen Vorlage heißt.

Es ist traurig, Eastwood an einem solch verlogen-politisch korrekten Projekt beteiligt zu sehen.  Dabei denke ich nicht nur an den Mann, der noch im hohen Alter ein Meisterwerk wie „Letters from Iwo Jima“ (2007) gedreht hat, das die Schlacht um die Pazifikinsel ausschließlich aus der Sicht der Japaner zeigt (ein ähnlich fairer Film über die deutsche Seite der Normandie-Invasion steht noch aus.)  Ich denke dabei auch an Eastwood als Symbolfigur, zumindest was seine Leinwand-Persona betrifft.

Während Hollywood heute beinah geschlossen auf der Seite der Demokraten steht (das war nicht immer so), sind Republikaner wie Schwarzenegger oder eben Eastwood eher die Ausnahme. In den Siebzigern wurde er wegen Filmen wie „Dirty Harry“, die liberale Gemüter entsetzten, als „Faschist“ und reaktionärer Macho geschmäht, heute gilt er als klassische Ikone traditioneller Männlichkeit. Dazu paßt auch, daß er als einer der wenigen US-Filmemacher dem oft totgesagten ur-amerikanischen Genre schlechthin, dem Western, über Jahrzehnte hinweg die Treue gehalten hat – freilich vor allem in seiner düsteren, „revisionistischen“ Form, die sich spätestens seit dem Vietnam-Krieg durchgesetzt hat.

Wo der Klassikerstatus erreicht ist, sind auch das Klischee und die (Selbst-)Parodie nicht mehr fern. In „Gran Torino“ hat Eastwood nicht nur den eigenen Kinomythos einer halb-ironischen Revision unterzogen, der Film reflektiert auch die in Obamas Amerika stetig an Einfluß gewinnende Vorstellung, daß die Herrschaft des weißen Mannes allmählich auch dort an ihr Ende gekommen ist. Dabei vermischt der Film auf eigentümliche Weise emphatisch hervorgehobene konservative Wertvorstellungen mit einer liberalen message, die durchaus mit dem Zeitgeist von Obamas (vermeintlich) „post-rassischem Amerika“ kompatibel ist.

Eastwood spielt darin den knorrigen Witwer Walt Kowalski, der auf seiner Veranda ein großes Sternenbanner wehen läßt, eigenbrötlerisch vor sich hin grantelnd den Lebensabend verbringt und bei fremdem Übertritt auf seinen Rasen auch mal das Gewehr zückt. Der polnischstämmige Koreakrieg-Veteran ist verbittert darüber, daß das Amerika seiner Jugend und seine Werte längst verschwunden sind. Sein Wohnort ist fast völlig überfremdet durch den Zuzug von Ostasiaten. Die Großmutter der benachbarten Hmong-Familie beschimpft ihn genauso rassistisch, wie er sie. Für seine eigene Familie hingegen ist er nur mehr ein misanthropischer Dinosaurier.

Der Film stellt sich zunächst ganz auf Kowalskis Seite, indem er ihn zwar als rauhbeiniges Ekel zeichnet, aber die Gründe seiner Verstimmung nachvollziehbar macht. Die eigene Familie ist oberflächlich und abweisend, die Fremdartigkeit der Nachbarn enervierend. Sein Hausarzt wurde durch eine Asiatin ersetzt, während die kopftuchtragende Sprechstundenhilfe seinen Namen nicht aussprechen kann und er im Warteraum der einzige Weiße in einem bunten Gemisch von Menschen unterschiedlichster Herkunft ist.

Vor allem aber sind die Straßen beherrscht von multikultureller Gewalt: Gangs von Latinos, Asiaten und Schwarzen machen sich die Vorherrschaft streitig. Die Weißen sind entweder wie Walts Familie fortgezogen oder aber unfähig, sich zu wehren. In einer Schlüsselszene wird das in Kowalskis Nachbarschaft lebende Hmong-Mädchen in Begleitung eines jungen Weißen von einer schwarzen Gang bedroht. Der Weiße trägt ein Hip-Hopper-Outfit, das den Habitus der Schwarzen zu imitieren sucht. Seine plumpen Versuche, sich beim Anführer der Gang im Ghettoslang anzubiedern („Alles cool, Bruder!“) gehen nach hinten los.

Ehe die Situation – vor allem für das Mädchen – richtig ungemütlich wird, schreitet Eastwood ein und demonstriert wie schon in „Dirty Harry“ mit gezücktem Revolver, daß Gewalt nur mit Gegengewalt bekämpft werden kann. Zu dem verängstigten weißen Jungen sagt er voller Verachtung: „Schnauze, du Schwuchtel! Willst du hier den Oberbimbo geben? Die wollen nicht deine Brüder sein, und das kann man ihnen nicht verübeln.“ Hier denkt man als deutscher Zuschauer unweigerlich an den von einem türkischen Dealer gemobbten Jungen aus dem berüchtigten Fernsehfilm „Wut“.  Die schwarze Gang indessen guckt dem pistolenschwingenden Alten mit einer Mischung aus Angst und aufrichtigem Respekt nach – Respekt, den sie ihm, nicht aber dem feigen „Wigger“ entgegenbringen können.

Im Laufe der Handlung wird Kowalski schließlich eher widerwillig zum Schutzpatron der benachbarten Hmong-Familie, insbesondere des schüchternen jungen Thao, der sich der Gang seines Cousins nicht anschließen will, und dem es an einem starken männlichen Vorbild fehlt. Dem bringt Kowalski schließlich bei, wie man Waffen und Werkzeuge benutzt, Mädchen anspricht und rassistische Witze erzählt.

Im Gegensatz zu Walts Familie werden bei den Hmong von nebenan der Zusammenhalt und die konservative Tradition großgeschrieben, so daß er irgendwann irritiert erkennen muß: „Ich habe mit diesen Schlitzaugen mehr gemeinsam als mit meiner eigenen verdammten verwöhnten Familie.“ Dabei profitieren die Hmong wiederum von der Lockerung allzu enger Traditionen durch den amerikanischen Einfluß. „Ich wünschte, mein Vater wäre mehr so gewesen wie Sie. Er war immer so streng zu uns, so traditionell, voll von der alten Schule“, sagt Thaos Schwester zu Kowalski. „Ich bin auch von der alten Schule!“ – „Ja… aber Sie sind Amerikaner.“

Wie so oft tritt Eastwood am Ende des Films gegen eine Überzahl von Schurken in Form der Gang des bösen Cousins an, doch diesmal um sich selbst zu opfern, anstelle zu töten. Sein Hab und Gut erbt die katholische Kirche, seinen symbolbeladenen „Gran Torino“ Baujahr 1972 der junge Hmong, während die eigene Familie leer ausgeht.  Die Söhne des patriarchalen weißen Mannes haben sich freiwillig von ihm losgesagt, womit sie sich allerdings auch selbst entwaffnet und dem Untergang preisgegeben haben. Denn beerbt werden sie nun von verdienten Adoptivsöhnen aus anderen Völkern.

So scheint „Gran Torino“ die Idee zu propagieren, daß mit dem Aussterben der weißen Männer, die Amerika aufgebaut haben, nicht auch unbedingt der amerikanische Traum am Ende ist – er muß nur in die richtigen Hände gelegt werden, und Rasse und Herkunft spielen dabei eine untergeordnete Rolle; dazu muß der Film freilich einen scharfen Gegensatz zwischen „anständig“- konservativen und kriminell-entwurzelten Einwanderern konstruieren.  Dies funktioniert im – freilich trügerischen! – Rahmen des Films auch recht gut, und vermag sogar die nicht ausgesparten negativen Seiten der „multikulturellen Gesellschaft“ zu übertönen.

Diese ins Positive gewendete Resignation läßt jedoch überhaupt keinen Platz mehr für den Gedanken, die Weißen könnten sich eventuell nun doch noch wieder aufrichten, die desertierenden Söhne also wieder zu den wehrhaften Vätern und Großvätern zurückfinden, wie der weiße Junge, der meint, er könnte die feindseligen Andersrassigen durch Anbiederung und Angleichung beschwichtigen. Im Gegenteil scheint „Gran Torino“ ihren Abgang für gegeben und unvermeidlich anzunehmen, ihn jedoch zu akzeptieren, solange „die Richtigen“ das Erbe antreten. Um so mehr fällt ins Gewicht, daß gerade Clint Eastwood als ikonische Figur des weißen, männlichen Amerika es ist, der in diesem Film den Stab weitergibt.

Was das Schicksal der weißen Amerikaner betrifft, so ist der Subtext von „Gran Torino“ keineswegs übertrieben. Der weiße Bevölkerungsanteil in den USA ist seit den frühen Sechzigern um etwa ein Drittel auf 65 Prozent gesunken, bei anhaltender Tendenz. Im Süden sind bereits weite Teile des Landes hispanisiert, während Multikulturalismus, „Diversity“-Propaganda und Rassendebatten rund um die Uhr die Medien beherrschen. Routinemäßig wird den diffusen Protesten der Tea Party-Bewegung, die fast ausschließlich von Weißen getragen werden, impliziter „Rassismus“ vorgeworfen. Tatsächlich mag hier eine dumpfe Ahnung der kommenden Entmachtung der eigenen, bisher dominanten ethnischen Gruppe hineinspielen,  während gleichzeitig jeder Ansatz zum Selbsterhalt tabuisiert und diffamiert wird.

Ein Kommentator der generell eher obamafreundlichen, linksliberalen New York Times schrieb in einem Artikel im März 2010 im Grunde nichts anderes:

Die Verbindung eines schwarzen Präsidenten und einer Frau als Sprecherin des Weißen Hauses – noch überboten durch eine „weise Latina“ im Obersten Gerichtshof und einen mächtigen schwulen Vorsitzenden des Kongreßausschusses – mußte die Angst vor der Entmachtung innerhalb einer schwindenden und bedrohten Minderheit (sic) im Lande hervorrufen, egal was für eine Politik betrieben würde.  (…) Wenn die Demonstranten den Slogan  „Holt unser Land zurück“ skandieren, dann sind das genau die Leute, aus deren Händen sie ihr Land wiederhaben wollen.

Aber das können sie nicht. Demographische Statistiken sind Avatare des Wechsels (change), die bedeutender sind als irgendeine Gesetzesverfügung, die von Obama oder dem Kongreß geplant wird. In der Woche vor der Abstimmung über die Gesundheitsreform berichtete die Times, daß die Geburtenraten von asiatischen, schwarzen und hispanischen Frauen inzwischen 48 Prozent der Gesamtgeburtenrate in Amerika betragen (…). Im Jahr 2012, wenn die nächsten Präsidentschaftswahlen anstehen, werden nicht-hispanische weiße Geburten in der Minderzahl sein. Die Tea Party-Bewegung ist praktisch ausschließlich weiß. Die Republikaner hatten keinen einzigen Afroamerikaner im Senat oder im Weißen Haus seit 2003 und insgesamt nur drei seit 1935. Ihre Ängste über ein sich rasch wandelndes Amerika sind wohlbegründet.

jeudi, 03 juin 2010

USAID gibt den Hungernden in Haiti Saatgut von "Monsanto"

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USAID gibt den Hungernden in Haiti Saatgut von »Monsanto«

F. William Engdahl / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Man fühlt sich an den berühmten Satz »Sollen sie doch Kuchen essen!« erinnert, den Marie Antoinette in Frankreich zu Beginn der Französischen Revolution von 1789 angesichts sich zusammengerottender hungernder Bauern geäußert haben soll, wenn jetzt der GVO- und Agrochemiekonzern »Monsanto« mithilfe der US-Entwicklungsbehörde USAID 475 Tonnen Saatgut an das vom Erdbeben verwüstete Haiti übergibt. Die erste Lieferung ist bereits unterwegs. Die Haitianer betrachten das Saatgut als Trojanisches Pferd, den Versuch, haitianischen Bauern GVO-Saatgut aufzudrängen. Sie organisieren deshalb zum Empfang die demonstrative Verbrennung des Saatguts. »Monsantos« Vorgehen zählt zur langen Liste von Versuchen, einer verzweifelten Bevölkerung das Saatgut des Konzerns aufzuzwingen, wie beispielsweise bereits 2004 im Irak geschehen.

Wie AP berichtet, hat Monsanto eine »Spende« von Saatgut angekündigt, bei dem es sich, wie der Konzern behauptet, nicht um GVO-, sondern um Hybrid-Saatgut im Marktwert von vier Millionen Dollar handelt. Damit bekommt Monsanto zum ersten Mal in Haiti den Fuß in die Tür. Der Konzern wird dem zerstörten Land 475 Tonnen Mais-Saatgut und verschiedene Gemüsesaaten liefern.

Die Auslieferung koordiniert die USAID, die für die staatliche weltweite Entwicklungshilfe der USA zuständige Regierungsbehörde, die wiederholt dabei ertappt worden ist, GVO-Saatgut als amerikanische »Nahrungsmittelhilfe« zu verteilen. Merkwürdigerweise müssen die Bauern nach Angaben einer USAID-Sprecherin das Saatgut auf Märkten kaufen, »um zu verhindern, dass die Wirtschaft vor Ort mit kostenlosen Waren überschwemmt wird«. Monsanto erhält nach Aussage der USAID keinerlei Geld aus dem Verkauf. Weitere Informationen darüber, an wen der Erlös gehen wird, waren von der USAID nicht zu erhalten.

Elizabeth Vancil, Direktorin der Abteilung Entwicklungs-Initiativen bei Monsanto, nannte die Spende in einer bereits im April verschickten E-Mail »ein tolles Ostergeschenk«.

Selbst wenn Monsanto die Wahrheit sagt und es sich bei dem Saatgut um Hybrid- und nicht um GVO-Saatgut handelt, bedeutet es für das arme Land ein weiteres Verhängnis. Hybridsamen, die durch manuelle Fremdbestäubung von Pflanzen erzeugt werden, erbringen laut Monsanto höhere Erträge als nichthybride Samen. Diese Behauptung ist bereits mehrfach widerlegt worden; außerdem müssen die Landwirte jedes Jahr neues Saatgut kaufen und können keinen Teil der letzten Ernte als Saatgut verwenden, wie es die Bauern seit Jahrtausenden getan haben. Diese Hybriden haben keine Samen.

Für Monsanto bedeutet dies den ersten Schritt hin zur Kontrolle über die reichen Anbauflächen der Karibik-Insel. Um Monsantos Ehrlichkeit bei der Berichterstattung über das eigene Handeln ist es zudem nicht besonders gut bestellt. In meinem Buch Saat der Zerstörung: Die dunkle Seite der Gen-Manipulation lege ich dar, wie Monsanto die Öffentlichkeit jahrzehntelang über die Gefahren ihrer Toxine wie PCBs, Dioxin oder Agent Orange belogen und wiederholt Testergebnisse gefälscht hat, die an die Regierungen übermittelt wurden, um die Sicherheit seiner GVOs zu beweisen.

Monsanto hatte ursprünglich vorgeschlagen, seinen Genmais und andere Samen zu »spenden«, doch dies wurde vom haitianischen Landwirtschaftsministerium abgelehnt. Monsanto hat daraufhin angekündigt, nur nicht gentechnisch veränderte Hybride zu schicken. Doch selbst die sind giftig.

Die Saaten von Monsanto sind mit zahlreichen giftigen Chemikalien verunreinigt, teilt die haitianische Bauernorganisation von Papay, die GVOs und die ausländische Kontrolle über das Saatgut vehement ablehnt, in einer Erklärung mit. Das von Monsanto an Haiti gespendete Hybrid-Mais-Saatgut ist mit dem Fungizid Maxim XO behandelt, die Calypso-Tomatensamen enthalten Thiram, einen chemischen Wirkstoff aus der hochgiftigen Gruppe der Ethylenbisdithiocarbamate (EBDCs). EBDCs haben bei Tests an Mäusen und Ratten zu so schwerwiegenden Schädigungen geführt, dass die US-Umweltschutzbehörde EPA das Tragen einer speziellen Schutzkleidung für Landarbeiter beim Umgang mit EBDC-behandelten Pflanzen angeordnet hat. Laut EPA-Verordnung müssen thiramhaltige Pestizide mit einem besonderen Warnhinweis versehen werden; in Produkten für Hobbygärtner darf der Wirkstoff nicht enthalten sein.

Angeblich hat Monsanto das Thiram in einer E-Mail an das haitianische Landwirtschaftsministerium erwähnt, aber weder auf die Gefahren hingewiesen noch Schutzkleidung oder eine Schulung für die Landwirte angeboten, welche das giftige Saatgut ausbringen.

 

Haitianische Bauern planen die Verbrennung des Saatguts

Obwohl die Böden in Haiti zu den fruchtbarsten in der Hemisphäre zählen, ist das Land nicht in der Lage, sich selbst zu ernähren. Das liegt vor allem daran, dass die US-Regierung über USAID in den letzten Jahren dort kostenlose Nahrungsmittelhilfe des US-Landwirtschaftsministeriums abgeladen hat, was die kleinen Bauern vor Ort ruinieren und das Land von Importen abhängig machen soll. Industriell hergestellte Nahrungsmittel, wie etwa fabrikmäßig erzeugte Hähnchen, haben die Krise so weit verschlimmert, dass nach Angaben des UN-Welternährungsprogramms 2,4 Millionen Haitianer, das heißt jeder vierte, schon vor dem Erdbeben im Januar nicht genug zu essen hatten.

Als Antwort auf die Nachricht über das Monsanto-Saatgut planen haitianische Bauern dessen Verbrennung. Chavannes Jean-Baptiste, der Anführer der Bauernbewegung von Papay (MPP) hat die Nachricht, dass Monsanto 60.000 Säcke (475 Tonnen) Hybrid-Mais-Saat und Gemüsesamen, die teilweise mit hochgiftigen Pestiziden behandelt sind, spenden wird, als »ein neues Erdbeben« bezeichnet. Die MPP ruft für den 4. Juni, den Weltumwelttag, zu einem Protestmarsch gegen die Präsenz von Monsanto in Haiti auf. Berichten zufolge soll bei diesen Protesten das Saatgut verbrannt werden.

In einem offenen Brief bezeichnete Chavannes Jean-Baptiste das Eindringen von Monsanto-Saatgut nach Haiti als »einen schweren Angriff auf unsere Kleinlandwirtschaft, auf die Bauern, die Artenvielfalt, auf Creole-Samen ... und auf das, was von der Umwelt in Haiti übrig geblieben ist«. Haitianische Bürgergruppen protestieren energisch gegen den Import von Agrobusiness-Saatgut und -Lebensmitteln, der den heimischen Ackerbau mit selbst erzeugtem Saatgut ruiniert. Sie sind besonders besorgt über den Import von gentechnisch veränderten Organismen (GVOs).

Monsanto ist berüchtigt für den aggressiven Vertrieb von Saatgut, besonders des patentierten GVO-Saatguts, bei dem die Landwirte einen »Technologie-Lizenzvertrag« unterzeichnen müssen, wobei sie oft genug gar nicht wissen, was sie da eigentlich unterschreiben. Monsanto hat sich weltweit ein Beinahe-Monopol für Saatgut aufgebaut, indem der Konzern zunächst mit Dumpingpreisen in einen Markt eingestiegen ist, um sich Marktanteile und die Unterschrift unter Lizenzverträge zu sichern. Anschließend werden die Preise erhöht und Bedingungen gestellt, die die Landwirte in vielen Fällen nicht erfüllen können. Kleinbauern werden in den Bankrott getrieben und Großgrundbesitzer können das Land zu Schleuderpreisen übernehmen.

Die Haitianer sorgen sich nicht nur über die gefährlichen Chemikalien oder künftige GVO-Importe. Sie bestehen zu Recht darauf, dass die Zukunft Haitis von der Nahrungsmittelsouveränität abhängt, also der heimischen Lebensmittelproduktion für den eigenen Verbrauch. Genau die steht auf dem Spiel, wenn Monsanto ins Land kommt.

»Die Menschen in den USA sollten uns helfen zu produzieren und uns kein Essen oder Saatgut schenken. Sie nehmen uns die Chance, uns selbst zu helfen«, sagt Jonas Deronzil, Mitglied einer landwirtschaftlichen Kooperative in Verrettes.

Monsanto hat sich schon lange den Zorn von Umweltschützern, gesundheitsbewussten Menschen und Kleinbauern zugezogen – schon seit der Herstellung von Agent Orange im Vietnam-Krieg. Unzählige amerikanische Vietnam-Veteranen, die mit Agent Orange in Berührung gekommen waren, sind an Krebs erkrankt, nach Angaben der vietnamesischen Regierung sind in Vietnam 400.000 Menschen durch Agent Orange getötet oder schwer geschädigt und 500.000 Kinder mit schweren Missbildungen geboren worden.

Monsanto, Syngenta, DuPont und Bayer stellen heute mehr als die Hälfte des weltweit verwendeten Saatguts her. Monsanto besitzt knapp 650 Saatgut-Patente, vor allem für Sojabohnen, Mais und Baumwolle. Der Konzern ist der weltweit größte Anbieter von GVO-Saatgut und besitzt gemeinsam mit der US-Regierung das Patent auf die sogenannten »Terminator-Technologien«, sodass Monsanto Saatgut anbieten kann, das nach nur einer Ernte »Selbstmord begeht«. Monsanto hat aggressiv andere große Saatguthersteller aufgekauft, um sich die Konkurrenz vom Hals zu schaffen, hat genetische Veränderungen für neue Pflanzensorten patentieren lassen und kleine Bauern vor Gericht gezerrt – »Ostergeschenke« sind nicht Monsantos Art.

Bis 2007 hatte Monsanto in sieben US-Bundesstaaten insgesamt 112 Gerichtsverfahren gegen amerikanische Farmer wegen angeblicher Vertragsverletzung im Zusammenhang mit GVO-Patenten angestrengt. Von den Gerichten wurden dem Konzern über 21 Millionen Dollar zugesprochen. In vielen Fällen hat Monsanto Farmer angezeigt, deren Felder von Pollen oder Samen aus dem GVO-Anbau eines Nachbarn kontaminiert worden waren oder auf deren Feldern GVO-Saatgut aus der Vorjahrsernte gekeimt hatte, obwohl im darauffolgenden Jahr GVO-freies Staatgut ausgebracht worden war, so das amerikanische Center for Food Safety.

In Kolumbien hat Monsanto von der US-Regierung 25 Millionen Dollar für die Lieferung von Roundup Ultra erhalten, das im Rahmen des amerikanischen Drogenbekämpfungsprogramms Plan Colombia zum Einsatz gekommen ist. Roundup Ultra ist eine hochkonzentrierte Version von Monsantos Herbizid Glyphosat, wirkt jedoch noch stärker giftig. Beim Versprühen von Roundup Ultra sind in Kolumbien ganze Nahrungsmittelernten vernichtet und Quellen sowie Schutzgebiete verseucht worden. Berichten aus der Region zufolge häufen sich Fälle von Missbildungen bei Neugeborenen und Krebserkrankungen.

Via Campesina, der weltgrößte Bauernverband mit Mitgliedern in etwa 60 Ländern, bezeichnet Monsanto als »einen der Hauptfeinde der nachhaltigen bäuerlichen Landwirtschaft und der Nahrungsmittelsouveränität für alle Völker«. Der Verband behauptet, in dem Maße, wie Monsanto und andere multinationale Konzerne einen immer größeren Teil der Anbauflächen und der Landwirtschaft kontrollierten, würden Kleinbauern von ihren Höfen vertrieben und verlören ihre Arbeit.

Der haitianische Rechtsanwalt und Menschenrechtsaktivist Ezili Danto erklärt: »Sie verteilen genveränderten Mais und Gemüse an Menschen in Haiti, die sowieso schon unterernährt sind. Haben Sie je eine Aubergine oder eine Gurke gekauft, die keine Samen hatte? Dann wissen Sie, dass das merkwürdiges Essen ist. Unfruchtbares Essen! Frankenstein-Essen. Braucht das vom Erdbeben verwüstete Haiti wirklich solche Geschenke? Nein. Nein, im Namen von 300.000 toten Haitianern, von zahllosen anderen, die sich auf der Suche nach Asyl aufs offene Meer hinaus wagen, und von 1,5 Millionen Obdachlosen sagen wir NEIN DANKE zu mehr Abhängigkeit, zu Monopolen der Reichen, wirtschaftlicher Sklaverei, zum Verlust der Fruchtbarkeit des Bodens oder des Wasserschutzes, zu noch mehr importierten Toxinen, die das Grundwasser noch weiter verseuchen, und zur Vernichtung des heimischen Saatgutvorrats.«

 

Haiti-Zar Bill Clinton

Eine aufschlussreiche Fußnote zu den Entwicklungen in Haiti seit dem Erdbeben vom 12. Januar liefert die Rolle des ehemaligen US-Präsidenten Bill Clinton.

Der haitianische Landwirtschaftsminister hat zwar formell der Lieferung von Monsanto-Saatgut zugestimmt, Fragen der haitianischen Bauern, wie etwa der, woher sie denn das Geld zum Kauf des Saatguts bekämen, bisher jedoch unbeantwortet gelassen. Zu welchen Bedingungen erhält man das Saatgut? Wer bekommt das Geld? Auch USAID schweigt zu diesem Thema. Kein Wort darüber, dass die Hybridsamen im nächsten Jahr für die neue Ernte neu gekauft werden müssen, was für die Bauern, die ohnehin ums Überleben kämpfen müssen, eine neue Abhängigkeit erzeugt.

Die wichtigsten Entscheidungen über die wirtschaftliche und politische Zukunft Haitis werden seit dem Erdbeben nicht von Haitianern getroffen, obwohl der Präsident und die meisten der Kabinettsmitglieder und Parlamentsabgeordneten überlebt haben. Haiti wird heute de facto von einem Komitee unter Führung des ehemaligen US-Präsidenten und GVO-Befürworters Bill Clinton verwaltet. Laut einem Bericht der New York Times vom 30. März wurde dieses Komitee dem Präsidenten René Preval vom US-Außenministerium – dessen derzeitige Chefin Hillary Clinton ist – vor die Nase gesetzt. Preval hatte um eine Behörde gebeten, die gemäß einem Dekret des haitianischen Präsidenten gebildet und nicht von außen eingesetzt worden wäre, konnte sich jedoch nicht durchsetzen.

Im April hat das Parlament von Haiti unter dem Druck, zum Wiederaufbau des zerstörten Landes auf internationale Hilfe angewiesen zu sein, eingewilligt, seine Vollmachten für Finanzen und Wiederaufbau während des Ausnahmezustands an eine Interimskommission zum Wiederaufbau von Haiti (CIRH) unter ausländischer Führung abzutreten. Das CIRH hat den Auftrag, den Wiederaufbau Haitis nach dem Erdbeben zu leiten, für den 9,9 Milliarden Dollar an internationaler Hilfe zugesagt worden sind. CIHR bewilligt Vorgehen, Projekte und deren Budgets. Die Weltbank, unter Führung des ehemaligen Bush-Beraters Robert Zoellick, verwaltet das Geld.

Die CIRH-Mitglieder kommen mehrheitlich aus dem Ausland. Um stimmberechtigtes ausländisches Mitglied zu werden, muss die entsprechende Institution in zwei aufeinanderfolgenden Jahren mindestens 100 Millionen Dollar gespendet oder Haiti mindestens 200 Millionen Dollar Schulden erlassen haben.

Vorsitzende des CIRH sind der US-Sondergesandte Bill Clinton und Premierminister Jean-Max Bellerive. Die einzige Aufsichtsmöglichkeit besteht im Vetorecht des amerikafreundlichen Präsidenten Preval, der sich in der Vergangenheit – höflich formuliert – nicht gerade darin hervorgetan hat, haitianische Interessen zu vertreten.

Das Marionettenregime Preval hat das verzweifelte Parlament ebenfalls dafür gewonnen, die Amtszeit Prevals und anderer Vertreter bis Mai 2011 zu verlängern, falls es nicht vor Ende November zu Neuwahlen kommt.

 

Mittwoch, 26.05.2010

Kategorie: Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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mardi, 01 juin 2010

Etats-Unis: nouvelles alliances politiques?

Etats-Unis: nouvelles alliances politiques?

 

Les Républicains entendent reconquérir l’électorat afro-américain

 

michael-steele.jpgEn novembre 2010 auront lieu les élections pour le Congrès américain. Les deux partis mastodontes des Etats-Unis, inamovibles et contrariant l’émergence de toute tierce voie, sont en train de constituer leurs futures listes et on sait d’ores et déjà que les Républicains (le “Grand Old Party”) truffera les siennes de candidats noirs, afro-américains. Ce glissement en direction de l’électorat afro-américain s’explique par le succès de Barack Obama lors des dernières présidentielles. Les Républicains, contrairement aux idées reçues et répétées à satiété par des médias peu soucieux d’exactitude historique, comme l’immonde torchon bruxellois qu’est “Le Soir”, ont généralement promu, dans le passé, les lois d’émancipation raciale au contraire des Démocrates qui les freinaient en tablant sur l’électorat des “petits blancs”, des catholiques et des syndicalistes d’origine irlandaise ou italienne ou des immigrés juifs d’Europe centrale ou orientale. Ce n’est qu’au cours des deux ou trois dernières décennies que les Démocrates ont cherché à gagner l’électorat afro-américain et ont pleinement réussi dans ce travail de conquête. En quelque sorte, en renouant avec leur sollicitudes passées pour les Noirs américians, les Républicains reviennent à la case départ, en constatant les pertes qu’ils ont essuyées en n’ayant plus aucun représentant afro-américain au Congrès. Les deux grands partis des Etats-Unis sont donc à la recherche d’un même électorat qui n’est plus du tout celui des Euro-Américains (WASP et autres) ou d’une frange précise de celui-ci. Dès lors, les Euro-Américains risquent bel et bien d’être très bientôt les prochains laissés pour compte des politiciens américains. Le moteur de la reconquête républicaine des électeurs afro-américains est sans conteste Michael Steele (photo), depuis l’an passé le premier président noir du Parti Républicain qui n’est ni député ni sénateur. Steele est donc l’Obama potentiel des Républicains dans les prochaines joutes électorales aux “States”.

 

Le glissement de la classe politique américaine, toutes  étiquettes confondues, vers les masses non blanches de l’électorat américain  —glissement espéré avec tant d’ardeur candide par les tenants de l’idéologie multiculturelle et craint par les nostalgiques de la suprématie blanche—  est donc en train de s’opérer à grande vitesse: Démocrates comme Républicains doivent impérativement, pour gagner toutes les futures élections aux USA, s’ouvrir aux minorités de souche non européenne. Les chiffres sont là et les Républicains les ont retenus: seulement 5% des Noirs américains ont voté pour le “Grand Old Party”, lors des présidentielles qui ont porté Obama à la magistrature suprême. Pour revenir au pouvoir et, plus tard, reprendre cette magistrature suprême, les Républicains doivent mordre, et à pleines dents, dans cette masse de 95% d’électeurs d’Obama. Cependant, comme l’atteste par ailleurs l’histoire politique des Etats-Unis, tous les Afro-Américains ne partagent pas les idées politiques des Démocrates: certains critiquent sévèrement aujourd’hui le premier président coloré des Etats-Unis. De nouvelles alliances, de nouvelles combinaisons politico-électoralistes, sont donc en train de se forger: d’une part, le mouvement dit “Tea Party” séduit de larges strates d’Euro-Américains préoccupés et inquietés par le glissement général de la politique américaine en direction des minorités non blanches et, d’autre part, les Républicains cherchent à rallier une bonne fraction de l’électorat afro-américain d’Obama. Nous avons là un noeud de contradictions que l’art politicien et médiatique américain réussira sans doute à résoudre, du moins pour le temps fort bref d’une campagne électorale (les lecteurs de Toqueville savent comment fonctionnent ces “bricolages” politico-médiatiques). Contrairement aux généralisations et aux hyper-simplifications véhiculées par les médias du Vieux Continent, l’électorat afro-américain ne constitue pas un bloc homogène et non fissible: d’un côté, certains se souviennent qu’ils doivent une bonne part de leur émancipation aux Républicains (Martin Luther King l’était) et, de l’autre, la frange la plus radicale des “obamistes”, regroupés dans le lobby “Black Caucus”, actif parmi les députés du Congrès, estime que l’actuel président américain n’en fait pas assez pour son électorat afro-américain, auquel il doit son éclatante victoire électorale.

 

La campagne électorale de cet automne risque donc bien de nous livrer quelques solides surprises et de contredire les aboyeurs de slogans préfabriqués qui fossilisent nos médias en Europe. Wait and see.

 

(commentaires à propos d’une note parue dans “Der Spiegel”, Hambourg, n°21/2010).

lundi, 31 mai 2010

Quand les Etats-Unis veulent contrôler le climat sur toute la planète...

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2005

 

Roberto TOSO:

Quand les Etats-Unis veulent contrôler

le climat sur toute la planète...

 

Y a-t-il quelqu’un qui joue avec les chiffres?

 

Les dates ne sont que coïncidence: 26 décembre 2002 : cyclone “Zoé” en Polynésie; 26 décembre 2003: tremblement de terre en Iran; 26 décembre 2004: le gigantesque tsunami qui vient de ravager les côtes de l’Océan Indien. Je ne dirais pas, dans la suite de cet article, que le tsunami de décembre 2004 a été provoqué, comme l’affirment certains sites “conspirationnistes”, par une expérimentation technologique secrète, et donc “voulue”, ajouteront certains commentateurs. Mais cette coïncidence dans les dates et cette volonté, qui est mienne, de ne pas céder à la tentation conspirationniste ne doivent pas nous conduire à rejeter en bloc et a priori le fait que l’idée a sûrement déjà germé dans certains esprits, de vouloir contrôler les phénomènes atmosphériques. Dont acte. Les hypothèses conspirationnistes et paranoïaques n’existeraient toutefois pas, si certaines prémisses n’avaient pas existé pour étoffer de tels délires, car, de tous temps, l’imagination la plus débridée a toujours besoin d’un point d’appui dans la réalité pour pouvoir se déployer.

 

 

 

Le Projet HAARP

 

Au cours des siècles, les modifications climatiques ont toujours représenté l’un des catalyseurs les plus puissants capables de susciter les facultés humaines de penser et de réfléchir. Elles ont en effet influencé les croyances et les actions, les motivations et les décisions, toujours, en apparence sur le mode de la causalité, alors qu’en réalité, nos facultés étaient guidées par une logique de fer: celle que nous impose la nature.

 

Toutefois, depuis l’ère de la révolution industrielle jusqu’à nos jours, l’homme a infligé à la Terre des blessures profondes, si bien qu’aujourd’hui, celle-ci ne présente plus, comme dans  l’antiquité, un équilibre quasi parfait sur le plan bio-environnemental.

 

La communauté scientifique nous avertit sans cesse des dangers d’une surchauffe de la planète. Il n’en demeure pas moins que le risque majeur, que nous courrons et que les mass-media ignorent en règle générale, provient de mutations climatiques provoquées pour des raisons militaires.

 

Depuis 1992, le Département de la Défense des Etats-Unis développe un projet, coordonné tout à la fois par la marine et l’aviation américaines, que l’on a appelé HAARP (pour: “High Frequency Active Auroral Research Program”). En réalité, il s’agit du noyau même d’un projet bien plus vaste, et bien plus connu, notamment sur le nom de “Guerre des étoiles”. Il a été commencé dès le début des années 80 sous Reagan, pour se poursuivre à la fin de cette décennie sous Bush-le-Père. Ce projet connaît actuellement une phase d’accélération, dopé par un budget militaire d’une ampleur sans précédent, que l’on justifie au nom d’un “double langage” d’orwellienne mémoire: “La guerre, c’est la paix”. 

 

La base principale, où l’on développe le Projet HAARP, se situe dans une vaste zone à Gakona en Alaska. Sur ce terrain, 180 pylônes d’aluminium, hauts de 23 m, ont été installés. Sur chacun de ces pylônes, nous trouvons deux antennes, l’une pour les basses fréquences, l’autre pour les hautes fréquences. Cette dernière est en mesure de transmettre des ondes de hautes fréquences jusqu’à une distance de 350 km. Ces ondes peuvent être dirigées vers des zones stratégiques pour la planète, que ce soit sur le sol ou dans l’atmosphère.

 

Comme on peut l’imaginer, toute l’opération se mène au nom de nobles objectifs: il s’agit d’études universitaires sur l’ionosphère et de développer de nouvelles techniques radar,  qui permettront, à terme, d’accélérer les communications avec les sous-marins et de rendre possibles des radiographies de terrain, afin de déceler la présence d’armes ou d’équipements, jusqu’à des dizaines de kilomètres de profondeur. Pour confirmer cette vocation pacifique, le projet a mis un site en ligne qui nous donne l’image d’une station scientifique bien innocente, visibilisée par une quantité de “webcams”.

 

Mais la réalité, comme d’habitude, il faut aller la rechercher en dessous de la surface.

 

De Tesla à Eastlund

 

Dans les années 80, Bernard J. Eastlund, un physicien texan attaché au MIT de Boston, s’est inspiré des découvertes de Nikola Tesla, qui avait enregistré aux Etats-Unis le brevet n°4.686.605, dénommé “Méthode et équipement pour modifier une région de l’atmosphère, de la magnetosphère et de l’ionosphère terrestres”. Tesla avait ensuite déposé onze autres brevets. Dans l’un d’eux, il décrivait la propriété réflexive de l’ionosphère, qu’il convenait d’utiliser comme “systèmes de rayons énergétiques”, capables de “produire des explosions nucléaires  graduelles sans radiations”, ainsi que des “systèmes de détection et de destruction de missiles nucléaires” et des “systèmes de radars  spatiaux”.

 

L’ARCO a acquis certaines de ces inventions. L’ARCO est propriétaire de vastes réserves de gaz naturel en Alaska, qui peuvent être converties en énergie électrique redistribuable via l’ionosphère à tous les clients dans le monde: la vision de Tesla, qui voulait distribuer l’énergie  sans fil et gratuitement à  tous les foyers de la Terre, a donc été partiellement réalisée, mais viciée dans son principe généreux par de solides intérêts économiques.

 

En outre, ces inventions font qu’il devient possible de manipuler le climat, c’est-à-dire de créer de la pluie quand cela s’avère nécessaire pour l’agriculture ou de neutraliser des phénomènes destructeurs comme des tornades ou des ouragans. 

 

C’est à ce niveau-ci que le gouvernement américain est entré dans le jeu, rendant l’histoire plus compliquée.

 

Tous les brevets d’Eastlund ont d’abord été mis sous scellés, à la suite d’un ordre ultra-secret, pour être ensuite transmis à la  “E-Systems”, une des principales entreprises qui fournit des  technologies avancées aux  services  secrets de grandes puissances du monde. Cette entreprise a ensuite été absorbée par Raytheon, l’une des quatre grandes entreprises fournissant du matériel à la défense américaine. Elle produit notamment les missiles Tomahawk et Stinger (dont la plupart ont fini entre les mains de pays classés dans l’Axe du Mal ou de groupes terroristes), ainsi que les fameux “Bunker Busters”. Les connexions, qui unissent ces firmes au pouvoir, passent toutes par la personne de Richard Armitage, aujourd’hui vice-ministre des Affaires Etrangères au sein de l’Administration Bush. Armitage, qui était déjà “consultant”, est membre du conseil d’administration, détenteur de signature et “supporter” convaincu de la PNAC, impliquée dans de nombreuses opérations de la CIA, depuis l’époque de la Guerre du Vietnam à aujourd’hui.

 

Sur base des découvertes  d’Eastlund, c’est lui qui orienterait le potentiel du  Projet HAARP en direction d’un point spécifique de l’ionosphère, afin de la réchauffer jusqu’à ce qu’elle s’élève physiquement, de manière à créer  un gonflement hautement réfléchissant, qu’il définit comme un “effet lent”. Le but est d’acheminer les rayons vers la Terre  en leur procurant des effets dévastateurs: la puissance de telles ondes serait telle qu’elle provoquerait des modifications de dimensions moléculaires au sein de l’atmosphère, causant  —suite aux diverses fréquences—  des modifications climatiques ou la désagrégation des processus mentaux de l’homme, voire, aussi, des effets sur les mouvements tectoniques de magnitudes encore imprécisées.

 

Des stratégies globales

 

Les événements géopolitiques actuels étaient prévisibles depuis de nombreuses années: il suffisait de lire certains livres prophétiques comme “Le Grand échiquier” de Zbignew Brzezinski, paru en 1997, ou les textes programmatiques de la PNAC (“Project for a New American Century”), parus la même année.

 

Nous pourrions deviner l’avenir aujourd’hui aussi, si nous lisions plus attentivement les écrits et les déclarations de penseurs influents et de personnalités militaires haut placées, qui évoquent un futur relativement proche.

 

Le même Brzezinski, conseiller en matières de sécurité au temps de Carter, écrivait déjà en 1970, dans son livre “Entre deux époques”: “La technologie va  rendre disponibles, aux leaders des principales nations, des moyens pour conduire des opérations de guerre secrète, qui exigeront seulement la mise sur pied de forces de sécurité très réduites [...]. Il s’agit de techniques capables de modifier le climat afin de provoquer des périodes longues de sécheresse ou de tempête”.

 

Brzezinski fait référence, à  cette époque-là, aux armes rudimentaires qui existaient déjà, résultats des premières études sur le développement de la guerre climatique. Songeons, dans ce cadre, au Projet Popeye, visant à étendre la saison des moussons au Vietnam.

 

Le document le plus intéressant est une étude rédigée par sept officiers de l’armée américaine en août 1996 et qui porte pour titre “Le climat comme démultiplicateur de puissance: le contrôler avant 2025”. Cette étude a vu le jour à la suite d’une directive émise par la Commandement des forces aériennes américaines et visait à stimuler un débat intellectuel au sein de l’armée, pour affirmer finalement : “En 2025, les forces aéro-spatiales des Etats-Unis pourront contrôler le climat, si elles parviennent, dès aujourd’hui, à cumuler les nouvelles technologies et à les développer dans la perspective de les utiliser en cas de guerre [...]. Il s’agira d’améliorer les conditions en cas d’opérations menées par des alliés ou d’annuller les effets de celles menées par l’ennemi, au moyen de scénarios climatiques faits “sur mesure”. Enfin, il s’agira de se donner les moyens de dominer complètement, à l’échelle globale, l’ensemble des moyens de communications et de l’espace; les modifications climatiques offriront aux combattants une vaste gamme de moyens possibles pour battre ou soumettre l’adversaire”.

 

Ces projets ont été confirmés par une étude ultérieure, qui date de 2003. Celle-ci porte pour titre: “Maîtriser l’ultime champ de bataille: les prochaines avancées dans l’utilisation militaire de l’espace”. Elle est l’oeuvre du “Project Air Force” de la Rand Corporation, une “boîte à penser” liée aux lobbies du pétrole et de l’armement, dont l’un des administrateurs fut Donald Rumsfeld et l’un des conseillers-administrateurs Lewis Libbey, membre fondateur de la PNAC, actuel directeur du personnel de Dick Cheney.

 

Le concept qui est à la base de ce rapport est celui de “Full Spectrum Dominance”. Ce qui revient à dire: une politique d’investissements militaires exceptionnels, visant la conquête de l’espace et le maintien dans l’espace d’une position de supériorité, sinon de contrôle absolu. Cette position de supoériorité obligerait donc ceux qui veulent en découdre avec l’ “Empire” de le faire pas terre ou par mer. Sur ce chapitre, les paroles prononcées par Joseph W. Ashby, le Commandant en chef du “Spatial Command” américain sont significatives: “Certaines personnes n’aiment pas en entendre parler, mais, en termes absolus, nous serons bientôt capables de combattre dans l’espace. Plus précisément: nous combattrons dans l’espace et depuis l’espace. Un jour, nous frapperons des objectifs terrestres, des navires, des avions ou des objectifs situés sur la terre ferme, tout cela depuis l’espace”.

 

Le 22 février 2004, le journal “The Observer” a publié un rapport “secret”, réclamé préalablement par Andrew Marshall, un conseiller influent de Rumsfeld, et échappé du Pentagone. La conclusion de ce rapport était la suivante: “Un brusque changement climatique conduira à une catastrophe globale de proportions gigantesques, avec une guerre nucléaire et des désastres naturels, condamnant des nations entières à la disparition sous les eaux des océans; les rares survivants lutteront pour les ressources raréfiées, soit les céréales, l’eau et l’énergie”.

 

On peut s’imaginer qu’il s’agit là de la description d’un futur fort lointain, tel qu’on le met en scène dans un film d’Hollywood; pourtant, en 2006 déjà, le lancement dans la stratosphère du “Falcon” aura lieu; c’est un drone armé de têtes nucléaires capable de voler à douze fois la vitesse du son, virtuellement inattaquable; des développements ultérieurs le rendront capable de frapper de manière ubiquitaire, à partir du territoire des Etats-Unis.

 

En 2006 aussi, ce sera l’année où le Projet HAARP se verra doter de ses derniers transmetteurs prévus, portant l’ensemble du système à sa puissance maximale. Est-ce toujours bien dans le but annoncé, celui d’aider l’agriculture dans le monde?

 

La communauté scientifique

 

Nombreuses sont les voix qui protestent face à ces folies et ces projets destructeurs. Parmi elles, celle d’une scientifiques de réputation internationale, Rosalie Bertell, qui dénonce “les scientifiques militaires américains qui travaillent sur des systèmes climatiques comme armes potentielles. Les méthodes qu’ils tentent de mettre au point comprennent l’accroissement des tempêtes et le déviement des flux de vapeur de l’atmosphère terrestre afin de produire des sécheresses et des inondations voulues”. Richard Williams, physicien et consultant auprès de l’Université de Princeton, dit que “les tests visant la surchauffe de l’ionosphère constituent autant d’actes irresponsables, relevant d’un vandalisme global  [...]. Le Projet HAARP pourrait constituer un danger sérieux pour l’atmosphère terrestre. Avec des expérimentations de ce type, on apportera des dommages irréparables en peu de temps”.

 

Certains chercheurs soupçonnent d’ores et déjà que quelques modifications climatiques actuelles, bien observables, telles des séismes, des ouragans, des raz-de-marée ou des sécheresses persistantes, proviennent de ces expérimentations à buts militaires.

 

La Russie

 

Le Parlement russe, la Douma, a émis un communiqué en 2002, signé par 188 députés, où il était écrit: “Sous le couvert du Programme HAARP, les Etats-Unis sont en train de créer de nouvelles armes géophysiques intégrales, qui pourront influencer les éléments naturels par le biais d’ondes radio de haute fréquence. La signification de ce saut technologique est comparable au passage historique des armes blanches aux armes à feu, ou des armes conventionnelles aux armes nucléaires”. Quelques scientifiques craignent que l’ionosphère pourrait imploser sous l’effet de déséquilibres électriques. Leurs conclusions: “Pouvons-nous en vérité risquer d’altérer quelque chose que nous ne comprenons pas du tout, et qui appartient à toutes les formes de vie (et non  pas seulement de la vie humaine) présentes sur cette planète?”. 

 

Récemment, le Président russe Vladimir Poutine a  annoncé avoir développé un nouveau type de missile balistique télécommandé, capable de changer de trajectoire au cours de son voyage, rendant du coup complètement inutile les systèmes de défense inclus dans le fameux “bouclier spatial”: est-ce un bluff ou non? Quoi qu’il en soit, il est certain que les projets militaires des Etats-Unis, mis au point au cours de ces dernières années, ont généré une nouvelle course aux armements, sans précédent dans l’histoire, qu’il conviendrait de ralentir et de réguler. Mais ce projet de modérer les effets pervers de cette nouvelle course aux armements est systématiquement freiné et saboté par l’unique super-puissance restante qui s’est arrogé le droit de juger l’accumulation d’armements, non pas au nom d’intérêts globaux, mais au nom de ses seuls intérêts propres. Les accumulations américaines sont donc, dans cette optique, au service du “Bien”, tandis que les autres ne sont que l’expression d’une indicible méchanceté, celle de l’ “Axe du Mal”. Dans de telles conditions, nous avons sous les yeux les prémisses d’une nouvelle guerre froide de dimensions globales.

 

Quant à la Russie, elle a, elle aussi, mis en avant certains projets basés sur les découvertes de Tesla de la fin des années 50, développant de la sorte une recherche parallèle à celle des Etats-Unis, sauf qu’elle s’avère plus lente vu la faiblesse économique terrible de la Russie actuelle. Qui sait si Emmanuel Todd, le chercheur français qui avait prédit la fin de l’empire soviétique dès 1976, dans “La chute finale. Essai sur la décomposition de la sphère soviétique” (R. Laffont), n’a pas raison une fois de plus quand il décèle, dans ses nouvelles analyses, les mêmes indicateurs, notamment dans son livre de 2003, “Après l’Empire. Essai sur la décomposition du système américain” (Gallimard), où il annonce la déliquescence de l’ultime super-puissance. Pour l’heure, la Chine se tait. Comme l’affirmait Bertold Brecht: “La science, quand elle est au service du pouvoir, n’apporte que des malheurs à l’humanité entière”.

 

Roberto TOSO.

Article trouvé sur : http://www.luogocomune.net ; sources: New York Times, Heart Island Journal, BBC, Canadian Working TV, Earthpulse Press, autres. Cet article a été reproduit par le quotidien romain “Rinascita”, 11 janvier 2005.

 

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samedi, 29 mai 2010

Il tramonto del Leviathan statunitense

Il tramonto del Leviathan statunitense

di Antonio Grego - 26/05/2010

Fonte: eurasia [scheda fonte] 

 

Il tramonto del Leviathan statunitense

Premessa sull’espansionismo statunitense

Nel libro Terra e Mare (1) il grande giurista e teorico dello Stato Carl Schmitt interpreta la storia del mondo alla luce della centralità dello scontro geostrategico tra l’elemento tellurico e l’elemento marino, dai quali discendono due diverse concezioni della politica, del diritto e della civiltà. Lo scontro tra questi due elementi ha origine con la storia dell’uomo, basti pensare alla rivalità tra Roma e Cartagine, ma è solo con l’avvento della modernità che l’elemento marino, fino ad allora  sottomesso a quello tellurico sembra essere in grado di fronteggiarlo alla pari e anche di avere la meglio su di esso.

L’Inghilterra, conquistando le terre al di là dell’oceano ed esercitando la supremazia sui mari, si è affermata come potenza marittima mondiale: essa è il Leviathan, che si oppone alla potenza terrestre (Behemoth) rappresentata dagli Stati continentali, fondati sull’identità collettiva della nazione e sulla difesa della patria e dell’integrità territoriale.

Con il tramonto della potenza inglese sono gli Stati Uniti a prenderne il posto, rivendicando non solo l’egemonia sulle Americhe con la ‘dottrina Monroe’, ma anche la supremazia negli oceani, attraverso la forza aeronavale, e tramite quest’ultima il dominio globale. Nell’affermazione di questa egemonia marittima mondiale si nasconde, secondo Schmitt, il germe della rovina, perché conduce alla trasformazione del diritto fra gli Stati in diritto privato internazionale, cioè in diritto commerciale, e introduce una forma di moralismo universalistico, politicamente pericoloso, perché fa appello al concetto discriminatorio di guerra giusta. Sicché il forte radicamento tellurico caratteristico del Vecchio Mondo (Eurasia e Africa) si confronta con il Nuovo Mondo, il luogo dell’universalismo indistinto e delocalizzato, ricettacolo di progetti messianici e mondialisti. Di qua una visione imperiale tellurica, di là una talassocrazia che mira all’egemonia mondiale; di qua il nomos della terra, di là la ‘tirannia dei valori’, il relativismo e il nichilismo assoluto che derivano dallo sradicamento e dal primato dell’economia sulla politica. Si tratta quindi di due concezioni geopolitiche, giuridiche e spirituali radicalmente opposte. Tale percezione di uno scontro fatale tra due opposte visioni del mondo si giustifica anche con il vissuto contingente e le posizioni assunte da Schmitt, basti pensare che alla fine degli anni Trenta questi applaudì al Patto Ribbentrop-Molotov ed al contempo riconobbe nell’Occidente, Gran Bretagna e Stati Uniti, l’avversario irriducibile dell’Europa.

Gli Stati Uniti infatti, fin dalla loro fondazione, si sono basati su un costrutto ideologico che postula la loro unicità come luogo della giustizia e della pace (Occidente) in contrapposizione all’Europa (Vecchio Mondo) luogo dell’oscurantismo e della tirannia. Tale forma di ideologia con venature messianiche trova il suo fondamento nel calvinismo professato dai Padri Pellegrini fuggiti dal Vecchio Continente per approdare sulle coste dell’America con l’intento di costruire la ‘Nuova Gerusalemme’. Riassumendo gli Stati Uniti si possono definire, per dirla con Damiano, «una nazione ideocratica, ‘aiutata’, nel suo ‘tracciato’ espansionista, da una costellazione iniziale di favorevoli circostanze geostoriche, quali, l’immenso spazio a disposizione; l’isolamento geografico; l’assenza di potenti vicini; una forte immigrazione di popolamento; la conflittualità europea, specie nei primi decenni dopo l’indipendenza; il predominio inglese sui mari. A ciò va aggiunta la circostanza storica probabilmente più importante, ossia la “deriva suicidaria dell’Europa”, a partire dalla prima guerra mondiale» (2).

Segnali inequivocabili di decadenza

L’espansionismo statunitense, che ha avuto diverse fasi, arriva al suo culmine nel ventesimo secolo, quando Washington decide di superare la dottrina Monroe di egemonia continentale per passare alla fase ulteriore dell’egemonia globale imponendosi come agente di ‘sovversione’ mondiale (con, a partire dal 1948, Israele quale sub-agente di destabilizzazione regionale nel Mediterraneo e Vicino Oriente). Si badi bene che l’opera di ‘distruzione creativa’ messa in atto dagli Stati Uniti, parte essenziale del suo moto espansionistico, ha agito ed agisce ancora in tutti i campi: economico, culturale, giuridico, spirituale, ma soprattutto a livello politico e geopolitico. A partire dal 1945, l’emisfero occidentale, coincidente fino a quel momento con le Americhe secondo l’originaria formulazione della dottrina Monroe, si espande fino ad includere prima l’Europa occidentale ed il Giappone, sconfitti ed occupati militarmente, poi, con il crollo dell’Unione Sovietica, il mondo intero. La fine del bipolarismo est-ovest ha, difatti, prodotto un vuoto nel continente eurasiatico che, data l’estrema debolezza e mancanza di obiettivi degli Stati europei, gli Stati Uniti, come unica superpotenza rimasta, hanno cercato velocemente di colmare prima che nuovi attori sorgessero a contrastarla. All’interno di questa strategia americana rientra il fenomeno della globalizzazione, esso non rappresenta altro che il tentativo estremo da parte degli Stati Uniti di estendere al mondo la propria Ordnung. Nasce, infatti, proprio in questa fase il Project for the New American Century (PNAC, Progetto per il Nuovo Secolo Americano), un think tank americano, fondato nel 1997, che delineerà la politica americana negli anni successivi. Tra i fondatori del PNAC, in prevalenza ebrei americani, ci sono personaggi che durante i due mandati presidenziali di Bush Jr. assumeranno incarichi di governo, basti pensare a Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz. Il PNAC non è altro che un progetto scaturito dal filone neoconservatore che, preso il sopravvento nella seconda metà degli anni ‘90, fa l’esaltazione fanatica e millenarista dei predetti miti fondatori degli Stati Uniti e del ‘destino manifesto’ quale missione affidata da Dio di civilizzare il mondo, uniti alla crociata ideologica trockista per l’‘esportazione della democrazia’ e la ‘guerra permanente’. Proprio negli anni ‘90 si assiste ad una politica estremamente aggressiva e unilateralista di Washington che tuttavia nel mentre continua attivamente a stimolare negli altri Paesi, specialmente in Europa, il multilateralismo e l’interconnessione finanziaria, da utilizzare come leve per indebolire ulteriormente la loro sovranità. Tuttavia la ‘fine della storia’ pronosticata da Francis Fukuyama e il trionfo definitivo del capitalismo di stampo americano che avrebbe portato la globalizzazione e l’americanizzazione del mondo, non si sono verificati. La fase unipolare dell’espansionismo americano, iniziata approssimativamente nel 1991 e terminata approssimativamente nel 2001, rappresenta non l’inizio del “Nuovo Secolo Americano”, come auspicato dagli americanisti di tutte le risme, ma bensì la sua conclusione, il tentativo estremo da parte degli Stati Uniti di preservare l’egemonia globale e frenare la nuova fase multipolare subentrante. A ben vedere il momento di massimo unipolarismo americano ha coinciso con il culmine della globalizzazione.

Il processo della globalizzazione, le cui origini risalgono al periodo 1944-1947 (Istituzione degli accordi di Bretton Woods, creazione del Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e accordi GATT), rappresenta la proiezione mondiale del sistema statunitense in una logica unipolare egemonica. Si può delimitare la fase ascendente della globalizzazione propriamente detta nel periodo che va dai primi anni ‘80 (1980: elezione di Reagan, 1982: morte di Brezhnev) al 1995, quando raggiunge il suo culmine con la creazione dell’OMC ovvero l’Organizzazione Mondiale del Commercio, attestando l’apparente trionfo dell’ideologia liberista che necessita della libera circolazione di capitali, beni e persone. Non è un caso che proprio in questo breve periodo di trionfo statunitense avviene quella che per Vladimir Putin è stata «la peggior tragedia geopolitica del XX secolo», ovvero il crollo e lo smembramento dell’Unione Sovietica. Un’altra ‘tragedia geopolitica’ avverrà in piena Europa con la dissoluzione della Jugoslavia nel 1991, la conseguenti guerre separatiste e l’apice dell’aggressività anti-europea statunitense raggiunto nel 1999, con i bombardamenti sulla Serbia dietro il paravento della NATO. Tuttavia oggi possiamo affermare che il culmine del ‘momento unipolare’ degli Stati Uniti raggiunto negli anni ‘90 piuttosto che rappresentarne il trionfo ne segna già l’inizio della discesa nel baratro.

Al volgere del Terzo Millennio gli USA erano in forte difficoltà sul piano politico-economico, entrando in una vera e propria recessione dopo circa 10 anni di crescita economica forzata e drogata, sorretta da un fortissimo indebitamento interno, da un grande passivo della bilancia dei pagamenti con forte indebitamento esterno, da una tendenza fortemente al ribasso sulla quota imputabile di commercio internazionale. Anche sul piano internazionale la loro egemonia era messa in discussione dall’emersione del potenziale polo geopolitico e geoeconomico rappresentato dall’Unione Europea. La recessione ed il declino della superpotenza USA, la fine delle forme specifiche della globalizzazione, stavano, infatti, avvenendo da diversi anni prima dell’11 settembre 2001, ed evidenti ne erano i segnali. La situazione interna degli USA, già dagli inizi degli anni ‘90, presentava dei problemi: basti ricordare che nel 1992 il debito nazionale generale era di oltre 4.000 miliardi di dollari (3), l’assistenza sanitaria era carente e una gran parte della popolazione americana si ritrovava a non avere una minima protezione sociale, il livello degli investimenti e dei risparmi  erano inferiori a quelli dei paesi europei, e dal punto di vista produttivo vi era una bassa competitività con minimi tassi di crescita di produttività. La distanza esistente tra ricchi e poveri negli USA è aumentata a dismisura negli ultimi 30 anni; se nel 1969 infatti, l’1% della popolazione possedeva il 25% di ricchezza nazionale, nel 1999 questa percentuale è salita a circa il 40%, mentre l’indebitamento finanziario interno è passato da 12 a 22 trilioni di dollari tra il 1995 e il 2000. Se a ciò si aggiunge l’enorme indebitamento degli USA nei confronti del resto del mondo, coperto da appena il 4% delle riserve di valuta, e il sempre più alto disavanzo commerciale, si comprende quanto diventano forti le debolezze dell’economia americana negli anni ‘90, in piena era della globalizzazione. Inoltre, l’eccedenza degli investimenti  attuati da un esagerato afflusso di capitali esteri e da una politica monetaria troppo espansiva ha portato a valori artificialmente gonfiati in Borsa con la conseguente crisi che ne è seguita; i livelli di  profitto sono scesi, così come i consumi, ed è evidente che gli Stati Uniti erano in una seria fase di difficoltà economica, ben nascosta dai media e dalle istituzioni internazionali compiacenti, fino a giungere alla recessione, molto prima dei tragici eventi dell’11 settembre. Un falso grande boom americano sostenuto da un decennio in cui le famiglie e le imprese hanno speso molto di più di quanto guadagnavano e un indebitamento non più sostenibile che, con la successiva moderazione dei comportamenti economici, porta ad un forte rallentamento dell’economia, fino alla recessione. Ecco quindi che, nella seconda metà degli anni ‘90, attraverso la guerra del dollaro contro l’euro, la crisi petrolifera a guida americana e la gestione della New Economy nel contesto generale della finanziarizzazione dell’economia, gli Stati Uniti hanno cercato di nascondere la loro crisi ed hanno giocato le loro carte per soffocare le mire di affermazione ed espansionistiche innanzitutto del nuovo polo dell’Unione Europea e in misura via via maggiore anche degli altri poli geopolitici mondiali emergenti. Il gioco del caro dollaro e del caro petrolio si accompagna, quindi, alla ‘bolla finanziaria’ sui titoli della “Net Economy”; questo è uno specifico aspetto del modello complessivo neoliberista imposto dalla globalizzazione americana, una speculazione finanziaria che fa sì che società con scarso fatturato, o appena quotate, nel giro di un mese triplichino, quadruplichino il loro valore. Una globalizzazione finanziaria che da una parte crea forti condizioni e aspettative di guadagno facile e dall’altra determina in continuazione paure di disastrosi crolli. Un NASDAQ, il mercato azionario dei titoli tecnologici, continuamente sbalzato fra eccessi rialzisti ed eccessi ribassisti. E questi terremoti del NASDAQ trovano i loro mandanti proprio negli Stati Uniti, capaci di attirare attraverso i titoli della Net Economy enormi capitali europei sottoposti poi al rischio di continui ed improvvisi crolli. Tuttavia nemmeno la guerra contro l’Euro, l’imposizione del neoliberismo globale e la finanziarizzazione dell’economia sono riusciti ad impedire il declino della potenza americana e l’ascesa di poli geopolitici alternativi, già percepibile all’inizio del terzo millennio. A questo punto, persa la partita per imporre ‘con le buone’, attraverso la globalizzazione dei mercati e la finanziarizzazione speculativa, il loro dominio sul mondo e la ‘fine della storia’, gli Stati Uniti sono costretti a ricorrere ‘alle maniere cattive’, alla guerra, ultima risorsa per uscire dalla crisi sistemica. Dal cilindro viene tirato fuori Bin Laden e il terrorismo islamico, diviene vitale per evitare il disastro che sarebbe anche solo il rallentarsi dei movimenti di capitale verso New York, un attacco al cuore dell’Eurasia con il pretesto della “guerra infinita contro il terrorismo”.

Il declino della potenza americana nel mondo

La fase finale e irreversibile del declino americano inizia nel 2001, volendo fare riferimento ad un evento spartiacque si può prendere l’attacco alle torri gemelle avvenuto l’11 settembre del 2001 come simbolo del ‘crollo’ del ‘sogno americano’ e della fine del dominio assoluto della sola superpotenza fino a quel momento.

L’estrema aggressività e l’avventurismo di Washington nel periodo 1995 – 2001 sono stati una disperata reazione alla consapevolezza della fine della fase unipolaristica che ha subito un colpo mortale grazie a due eventi fondamentali: l’adozione dell’Euro nel 1999 e l’elezione di Vladimir Putin alla presidenza russa nel 2000. Come detto in precedenza, tramontato il sogno di egemonia mondiale non restava che la guerra quale extrema ratio per impedire o ritardare l’avvento del multipolarismo.

Il periodo 2001 – 2003 è il colpo di coda dell’unipolarismo morente, nel quale gli USA camuffandosi dietro una riesumata NATO si impadroniscono dell’Afghanistan e mettono piede nel Kirghisistan e dell’Uzbekistan, per poi passare all’occupazione dell’Iraq. Nel frattempo la NATO si espande all’inverosimile e attraverso le ‘rivoluzioni colorate’ finanziate da Soros in Ucraina e Georgia arriva a minacciare i confini della Russia. In questo periodo la dottrina della ‘stabilità’ politico-economica internazionale diventa elemento propagandistico prioritario nel tentativo di aggressione all’Eurasia e di dominio manu militari del mondo, dominio imposto attraverso il nuovo ruolo dell’ONU depotenziato e sostituito in pieno dalla NATO. In questo periodo la situazione interna degli USA si aggrava. La disoccupazione ha registrato un notevole aumento, dall’inizio del 2001 si sono avuti oltre 1 milione e 200.000 di disoccupati in più ed il tasso di disoccupazione nell’agosto di quell’anno è arrivato al 4,9%;  si è registrata una diminuzione nei consumi di oltre lo 0,5% mentre il PIL nel secondo semestre del 2001 cresce solo dello 0,2%, e il terzo trimestre è addirittura negativo (-0,4%) segnalando, anche ufficialmente, la fase recessiva. Negli anni successivi la situazione si aggrava a causa del drammatico legame fra disoccupazione e logiche liberiste di precarizzazione del vivere sociale. Si aggiunga un mercato di capitali ‘pompato’, dove anche i rialzi e le piccole riprese sono imputabili ai giochi a sostegno dei titoli delle imprese meglio proiettate nei nuovi scenari di economia di guerra post-globale. Si decide di marciare secondo i parametri del sostenimento della domanda e della produzione attraverso una sorta di keynesismo militare come tentativo di risolvere, o almeno gestire, la crisi; per questo l’economia di guerra dell’era Bush Jr. aveva carattere strutturale, cioè ampio respiro e lunga durata sostituendo il Warfare al Welfare, con continui tagli al sistema pensionistico, alla sanità e allo Stato sociale.

Dopo l’iniziale apparente successo dell’avventurismo militare americano, nel periodo 2001 – 2003, dovuto all’incertezza internazionale che caratterizzava l’alba della nuova fase multipolare e alla disorganizzazione delle nazioni emergenti, il successivo periodo 2004 – 2009 sancisce la definitiva sconfitta del modello Bush–neocon di attacco al cuore dell’Eurasia quale misura estrema per uscire dall’impasse della crisi. Nel 2006 il PNAC chiude i battenti, attestando il fallimento del progetto di egemonia mondiale.

La guerra russo-georgiana del 2008 o, meglio, la fallita aggressione alla Russia perpetrata per il tramite dell’esercito georgiano armato da Israele e Stati Uniti, ha definitivamente posto la pietra tombale sull’unipolarismo statunitense ed ha sancito e reso effettivo il sistema geopolitico multipolare.

Cause del declino americano

In un saggio del 2007 il giornalista Luca Lauriola afferma che l’attuale crisi dell’egemonia americana va imputata ad una molteplicità di cause quali: il ridimensionamento geopolitico del ruolo USA dovuto alla crescita economica e tecnologica dei poli rivali russo, cinese ed indiano; la crisi economica e finanziaria degli USA dovuta a cause sistemiche e non reversibile perché connaturata alla forma del capitalismo americano; il castello di menzogne su cui si basa la strategia di dominio americana per legittimare il proprio espansionismo ha ormai oltrepassato la soglia di tollerabilità ed è sul punto di crollare; le condizioni di vita di gran parte della popolazione statunitense sono simili a quelle di molti paesi sottosviluppati; il ruolo politico sempre maggiore ricoperto dalla lobby sionista. Per quanto riguarda l’aspetto economico e finanziario, esaminando il periodo 2001 – 2010 praticamente non c’è un solo dato che non indichi una crisi irreversibile del sistema americano. Basti dire tra il 2005 ed il 2010 il numero di disoccupati in USA è praticamente raddoppiato così come, tra questi, è più che quadruplicato il numero di quelli a lungo termine (6 mesi o più) (4). Giova ricordare che gli americani hanno già rischiato la bancarotta e la dissoluzione come entità statale nel 2008 con lo scoppio della ‘bolla immobiliare’ dalla quale si sono salvati in extremis solo grazie all’intervento di Giappone e Cina, timorosi di perdere il mercato di sbocco principale per i loro prodotti. Ma i dati che illustrano in maniera devastante la crisi americana sono quelli del debito pubblico e della bilancia commerciale.

A cominciare dagli anni ‘80 (durante l’amministrazione Reagan) gli Stati Uniti hanno iniziato ad avere sia un grande debito pubblico sia un disavanzo commerciale. Il debito pubblico era intorno ai 50-75 miliardi di dollari alla fine degli anni ‘70 e crebbe a oltre 200 miliardi nel 1983. Il disavanzo della bilancia commerciale era attorno allo zero all’inizio degli anni ‘80 ma superò i 100 miliardi di dollari nel 1985. Oggi analizzando il disavanzo commerciale dei vari Paesi gli USA si situano all’ultimo posto della lista con un disavanzo che è piu’ del doppio rispetto a quello della Cina che è in surplus e si situa al primo posto. Inoltre, il debito pubblico americano ha superato la quota record dei 12 mila miliardi di dollari e non accenna a diminuire risultando essere il più alto al mondo.

Ma come mai gli Stati Uniti dopo un ventennio di apparente prosperità, nel quale hanno guidato il processo di globalizzazione, sono oggi sul punto di collassare? Come mai gli Stati Uniti non sono stati in grado di imporre la propria Ordnung al mondo intero? La risposta, più che nell’economia, va ricercata nella natura e nella geopolitica degli USA: « Gli Stati Uniti d’America – potenza talassocratica mondiale – hanno sempre perseguito, fin dalla loro espansione nel subcontinente sudamericano, una prassi geopolitica che in altra sede abbiamo definita “del caos”, vale a dire la geopolitica della “perturbazione continua” degli spazi territoriali suscettibili di essere posti sotto la propria influenza o il proprio dominio; da qui l’incapacità a realizzare un vero ed articolato ordine internazionale, quale ci si dovrebbe aspettare da chi ambisce alla leadership mondiale» (5).

La natura talassocratica degli USA e l’incapacità di governare e amministrare il territorio sono l’origine del loro declino, perciocché non è dato loro il potere di esercitare una funzione regolatrice ed equilibratrice dei vari popoli ed etnie che vivono in un territorio delimitato e di fornire quel senso di unità spirituale basato sulla coscienza di appartenere ad una medesima ecumene, quali invece sono i tratti caratteristici di un impero propriamente detto.

Dopo l’America

Ricapitolando, l’ultimo ventennio del XX secolo (1980 – 2001), ha visto la potenza degli Stati Uniti raggiungere il suo picco massimo. Quella che oggi viene definita ‘era della globalizzazione’, che ha raggiunto il suo culmine nella metà degli anni ‘90, non è stata altro che il tentativo di egemonizzare il mondo, attraverso gli strumenti della finanza speculativa e del soft power (diffusione dei concetti di ‘esportazione della democrazia’, ‘diritti umani’, liberismo, utilizzando anche Hollywood, la musica pop-rock e i ‘nuovi media’, internet in testa), messo in campo dagli USA nel loro ‘momento unipolare’.

Fallito il tentativo di imporsi come soggetto egemone a livello mondiale attraverso l’esportazione dei propri ‘valori’ gli USA nel periodo 2001 – 2008 hanno deciso di puntare tutto in un attacco disperato all’Heartland con tutto il volume di fuoco di cui sono stati capaci, ma anche questa mossa dopo una iniziale serie di successi viene bloccata dalle potenze continentali emergenti. Sempre più si profila all’orizzonte il conflitto aperto, multipolare, tra la ormai ex superpotenza in declino degli USA e i nuovi poli emergenti costituiti dal BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) con in più l’Iran in crescita strepitosa. Non bisogna però sottovalutare l’attuale potenza degli USA ne la residua capacità di reazione al declino in corso, per due ordini di motivi: come detto all’inizio la natura dell’espansionismo talassocratico americano non si basa sulla sovranità e sul controllo del territorio, perché questo avviene sospinto da forze non-statali, finanziarie ed economiche, che ne costituiscono il vero motore. Sono forze ‘liquide’ come liquido è il mezzo che storicamente hanno prediletto per espandersi, cioè il mare. Questa ‘liquidità’ che contraddistingue l’impalcatura economica e geopolitica degli USA comporta una seria difficoltà a batterli sul loro terreno, che è quello, in senso fisico, dei mari e dei cieli, in senso lato, della finanza e del soft power. In secondo luogo gli USA sono riusciti negli anni addietro ad acquisire posizioni di predominio nel settore finanziario (attraverso il controllo di organismi quali lo SWIFT), in quello della sicurezza mondiale e nel controllo dei ‘nuovi media’, internet in testa. Dal punto di vista militare la NATO, strumento di accerchiamento della massa eurasiatica, è ancora vitale ed in grado di esercitare la sua funzione antieuropea e antieurasiatica, inoltre restano le centinaia di basi militari e avamposti che gli statunitensi sono riusciti a installare in giro per il mondo e attraverso i quali sono in grado di esercitare ancora una capacità di deterrenza e di controllo sugli Stati ‘ospitanti’. In conclusione pur se in una fase di declino gli Stati Uniti sono ancora capaci di esercitare una residua forma di egemonia, soprattutto nelle zone sotto la loro influenza diretta (Europa e Giappone, in quanto ‘colonizzati’ a tutti gli effetti), piuttosto l’attuale fase è da ritenersi potenzialmente più pericolosa della precedente fase unipolare perché è proprio quando l’animale è ferito mortalmente che la sua reazione diventa più sconsiderata e furente come dimostrano l’avventurismo in Georgia e le recenti esplicite minacce di attacco nucleare nei confronti di Iran e Corea del Nord.

Tali minacce saranno scongiurate solo da una decisa azione di concerto tra le potenze del blocco eurasiatico e quelle dell’america indiolatina.

NOTE

1) C. Schmitt, Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Reclam, Leipzig 1942, trad. it. Terra e mare, Adelphi, Milano 2002.

2) G. Damiano, L’espansionismo americano, un «destino manifesto»?, Edizioni di Ar, Padova 2006, pp. 14-15. Il termine ‘ideocrazia’ riferito agli Stati Uniti è stato coniato da Costanzo Preve, cfr. C. Preve, L’ideocrazia imperiale americana, Settimo Sigillo, Roma 2004.

3) Da questo punto in avanti e dove non specificato diversamente si tratta di dati ufficiali del governo americano. Cfr. http://www.whitehouse.gov/ e http://www.cbo.gov/

4) Fonte: Bureau of labor statistics, http://www.bls.gov/

5) T. Graziani, America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare, “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici”, XV, 3/2008, p. 7.

Il presente articolo è stato pubblicato nel numero 3-4 di Italicum


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Etats-Unis: ghettoïsation et réseaux de forteresses privées

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

Etats-Unis: ghettoïsation et réseaux de forteresses privées

 

Sur tout le territoire des Etats-Unis, les Américains se barricadent derrière des haies, des murs, des barbelés électrifiés. Ils prennent ainsi congé de leurs voisins et de leurs contemporains; ils s'enferment dans des zones contrôlées par des systèmes complexes de sécurité. On estime que huit millions de citoyens américains vivent dans des communautés fermées, à l'abri de murs. Ces communautés, on les rencontre surtout à Los Angeles, Phoenix, Chicago, Houston, New York et Miami. Cette ten­dance à l'enfermement volontaire est devenue une vogue dans les nouvelles banlieues comme dans les quartiers centraux des vieilles villes. Les résidents de ces communautés cherchent un refuge, à fuir les problèmes que pose l'urbanisation. Mais, sur le plan de l'Etat et de la nation, que signifie cette fuite à l'intérieur de bastions privés?

 

Le livre Fortress America  est la première étude globale de cette curieuse évolution et de son impact social. Les premières communautés barricadées (gated communities)  étaient des villages où allaient vivre des retraités ou des aires de luxueuses villas, propriétés des super-riches. Aujourd'hui, la majorité des nouvelles communautés barricadées sont issues de la classe moyenne, voire de la classe moyenne supérieure. Même des “voisinages” (neighborhoods)  de personnes aux revenus mo­destes utilisent désormais le système des barricades et édifient des grilles d'entrée gardées par des vigiles armés jusqu'aux dents. L'enfermement volontaire n'est plus l'apanage des seuls happy fews.

 

Fortress America  examine les trois catégories principales de com­munautés barricadées et tente d'expliciter les raisons qui les pous­sent à l'enfermement: nous trouvons

1) les lifestyle communities, y compris les communautés de retrai­tés, les communautés de loisirs et de sport (golfe, etc.), ainsi que les nouvelles villes des banlieues;

2) les prestige communities, où les grilles d'entrée symbolisent richesse et statut social; elles comprennent les enclaves ré­servées aux riches et aux personnes célèbres, les cités résidentielles fer­mées pour les professionnels de haut niveau et pour les executives de la classe moyenne;

3) les zones de sécurité, où la peur de la criminalité et des hors-la-loi motive principalement la construction de murs et de pa­lissades, âprement défendus.

 

Les auteurs, Blakely et Snyder, étudient les dilemmes sociaux et po­litiques, les problèmes que cet enfermement volontaire pose à la sim­ple governance officielle: que devient-elle si des millions d'Américains choisis­sent d'en refuser les règles et de privatiser leur environnement? Snyder et Blakely posent des questions essentielles quant à l'avenir de la société américaine: ces communautés fermées et barricadées reflètent-elles une fortress mentality,  largement répandue aux Etats-Unis? Ces communautés barricadées contribuent-elles à réduire la criminalité ou à accroître la peur? Que faut-il penser d'une société et d'un pays où les clivages sociaux séparant les zones d'habitation nécessitent des patrouilles armées et des grilles électrifiées pour éloigner d'autres citoyens, jugés indésirables? Au niveau local, quel est l'impact de ces communautés privées sur le comportement électoral des citoyens? Que se passe-t-il sur le plan du fonctionnement de la démocratie, si les services pu­blics et les autorités locales sont privatisés et si le sens de la responsabilité communautaire s'arrête à la porte d'entrée élec­trifiée? L'idée de démocratie peut-elle encore se transposer dans le réel sous de telles conditions?

 

Nos deux auteurs suggèrent des mesures préventives, mais sont bien obligés de constater que la fragmentation de la nation américaine en communautés antagonistes, retranchées derrière des barrières électrifiées et les fusils des vigiles, est un défi considérable, difficile à gérer. Les polarisations qui s'accumulent risquent fort bien de signifier à terme la fin de la “nation américaine”. Question: «Peut-il y avoir un contrat social sans contact social?». Certes, les barrières peuvent protéger, mais elles accroissent aussi la paranoïa des citoyens qui identifient vie urbaine et criminalité déchaînée.

 

Benoît DUCARME.

Edward J. BLAKELY & Mary Gail SNYDER, Fortress America. Gated Communities in the United States, Brooking Institution Press (1775 Massachusetts Avenue, NW, Washington, DC 20036), 1997, 192 p., $24.95, ISBN 0-8157-1002-x.

 

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vendredi, 28 mai 2010

Russia and the New World Order - The Geopolitical Project of Pax Eurasiatica

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Russia and the New World Order - The Geopolitical Project of Pax Eurasiatica

Nikolaj von Kreitor (1996)

For the period after the end of Second World War, the United States gained increasing prominence as the leading power of imperialist reaction, taking Germany’s place in this respect... And its ruling class managed, particularly during the imperialist era, to have the democratic forms so effectively preserved that by democratically legal means, it achieved a dictatorship of monopoly capitalism at least as firm as that which Hitler set up by tyrannical procedures...And this democracy could, in substance, realize everything sought by Hitler.
Gyorgy Lukacs(1)

Resoluteness does not first take cognizance of Situation and put that Situation before itself; it has put itself into that Situation already. As resolute, Dasein is already taking action.
Martin Heidegger(2)
We don’t have enemies in the East.
Bismarck

The concept of the state presupposes the concept of the political. The specific political distinction to which political actions and motives can be reduced is that between friend and foe, wrote Carl Schmitt.(3) The affirmation of the political is a recognition of the reality of the political and thus a recognition and identification of the foe. Only by affirmation of the political in an act of decision, which by necessity is a meta-existential choice, can a nation as a collective entity assert its own sovereignty and thus political future.

In the aftermath of the dissolution of Soviet Union in 1991 which reduced the former Great Power to a state without politics and thus to a landmass in chaos, a sort of a Weimar-republic of the 90-ties, and in the face of the new American expansionism, the ideological discussion and search for viable political orientation within the former Soviet Union has intensified. Professor Nikolaj Zagladin pointed recently that the competition between the Soviet Union and the United States during the period of the Cold War must be characterized as a real war during which actual military power had been used to a very limited extend- mostly in proxy wars. This was so not because of a lack of will but because of the nature of the military technology— the existence of nuclear weapons made the war impossible. The nature of the war between the United States and the Soviet Union, known as the Cold War, was to its essence technology specific. But the Cold War was in fact the Third World War, claims Zagladin.(4) To a similar conclusion comes Zbigniew Brzezinski, the former National Security Advisor to President Carter, and presently one of the major ideologists of the «Expansionists of 1991», who wrote, paraphrasing von Clausewitz, that «the Cold War can be defined as warfare by other (non-lethal) means. Nonetheless, warfare it was. And the stakes were monumental. Geopolitically the struggle, in the first instance, was for control over the Eurasian landmass and, eventually, even for global preponderance».(5) Obviously the Soviet Union gave up much more in the settlement than the United States, agreed to the dissolution of the Warsaw Pact, although the military arm of American domination of Western Europe, NATO, continues to exist and is steadily expanding. Soviet Union unilaterally reduced its engagement in the Third World while the United States escalated her interventionist foreign policies. Soviet Union even supported the war in Iraq, a war that to its essence was a war for the control of the oil in the Persian Gulf and thus a war against the national interest not only the Soviet Union, but also of other European countries; a war that made it less likely that an accommodation between the Soviet Union and Western European countries could be reached. Soviet Union even agreed to withdraw its military forces from Germany while the United States intends to permanent her occupation of Germany, a fact that was clearly stated by President Bush during the November 7-8, 1991 NATO summit meeting in Rome. And that brings us to the post Cold War settlement, its consequences for Russia and for the international order. A critical observer will characterize this settlement as analogous to a Second Treaty of Versailles. Zbigniew Brzezinski point out that as a consequence of the Second Treaty of Versailles, the defeated Russia is passing into American receivership. «This is an outcome historically no less decisive and no less one-sided than the defeat of Napoleonic France in 1815, or of Imperial Germany in 1918. Unlike the Peace of Westphalia, which ended the Thirty Years War in a grand religious compromise, cuius regio, cuius religio , does not apply here. Rather, from a doctrinal point of view, the outcome is more similar to 1815 or 1945; the ideology of the losing side has itself been repudiated. Geopolitically the outcome is also suggestive of 1918, the defeated empire is in a process of dismantlement. As in previous termination of war there was a discernible moment of capitulation, followed by postwar political upheavals in the losing state. That moment came most probably in Paris on November 19, 1990. At a conclave marked by ostentatious displays of amity designed to mask the underlying reality, the erstwhile Soviet leader, Michael Gorbachev, who had led the Soviet Union during the final stages of the Cold War, accepted the conditions of the victors by describing in veiled and elegant language the unification of Germany that had taken place entirely on Western terms as a ‘major event’. This was the functional equivalent of the act of capitulation in the railroad car in Compiegne in 1918 (the capitulation of Germany) or on the U.S.S. Missouri in August 1945 (the capitulation of Japan).»(6) George Kennan remarked that «the collapse of the Soviet system amounted to the unconditional surrender we envisaged-a voluntary one if you will, but surrender nevertheless.»(7) And as a result the United States is attempting to impose on Russia terms of surrender stated in the National Security Council Memorandum 20/1 (NSC 20/1) which already in 1948 defined the American war aims in the Cold War and envisioned a post Cold War settlement tailored after the Brest-Litovsk treaty of 1918(8) , leading to the partition of the Soviet Union, disarmament, destruction of the national economy of Russia and establishment of American protectorate over large parts of the territory of the former Soviet Union: (...)Such terms would have to be harsh ones and distinctly humiliating...They might well be something along the lines of the Brest-Litovsk settlement of 1918...(We) would have to demand:
a. Direct military terms (surrender of equipment, evacuation of key areas, etc) designed to assure military helplessness...
b. Terms designed to produce a considerable economic dependence on the outside world.(9) NSC 20/1 stated further that the unified geopolitical space of the Soviet Union—the «fortress Heartland»—had to be destroyed by partitioning of the country and inclusion of above all the Baltic States and Ukraine into a Shatterbelt of U.S.A controlled territory.

Wolfram Henrieder has pointed out that de Gaulle wanted the German issue solved- the unification of Germany, because it constituted a decisive cause and justification for American continuous military presence in Europe, a cause that would be eliminated with the solution of the German question, leading to the dissolution of the Cold War military alliances and speeding American withdrawal from Europe(10) , creating an emancipated Europe to the Urals. «The creation of unified Europe requires political decision which is tantamount to a will of independence... A united Europe, in this sense, could be build only in opposition to America.»(11) By her dominant position within the alliance America has kept Europe in a straitjacket, has made her fearful of speaking in her own voice. Since Europe has lost its elan and has borrowed an American personality, it must be forced to reassume an identity. As this identity does not exists, it must be created. If Europe can be roused only by instilling an apprehension over American hegemony, then this must be done for the sake of Europe’s survival, claimed de Gaulle for whom a truly emancipated Europe was an America-free Europe.

From this perspective Gorbachev’s foreign policy and the geopolitics of implosion of Perestrojka negatively effected the possibilities for emancipation of Europe. In the ongoing political debate in Russia but also in France, it has been asserted that the defeat of the Soviet Union begins to appear as a defeat for Europe as well.

Lenin once characterized the original Treaty of Versailles in the following words:
“What is the Versailles Treaty? This unheard of, predatory peace, enslaves tens of millions of people, including the most civilized. This is not a treaty but dictates imposed by robbers with a knife in hand on a defenseless Germany. Germany has been deprived from all her colonies by virtue of the Versailles Treaty. Turkey, Persia and China have been enslaved. Seventy percent of the world population live in conditions of enslavement...And that is why this international order, which rests on the Versailles Treaty, rests in reality on a volcano."(12) And while Russia at the moment is in the same predicament as Germany after the W.W.I, the predatory New World Order, proclaimed by President Bush and implemented by the present Clinton administration, also rests on a volcano.
The intensifying confrontation of Russia with the dictates of the New World Order has led to intensive ideological debate about the future of Russia. This debate has resulted in a renewed interest for the writings of the prominent German jurist Carl Schmitt whose book, “The Concept of the Political”, has already been translated into Russian and published in the sociological magazine Voprosy Sotsiologij.(13) The known Russian politician and chief editor of the influential magazine Elementy (Elements) Alexander Dugin must be credited with the first comprehensive introduction of the works of Carl Schmitt in the essay “Carl Schmitt- Five Lessons for Russia”, published in the Journal of Russian Writers ‘Nash Sovremennik’ (Our Contemporary)(14) and with the creative applications of his writing to the contemporary political and ideological chaos in Russia. “For Russia the writing of Schmitt are of special interest and significance because of his brilliant analysis of state of emergency and exceptional situations in contemporary political reality and the necessity of a decision to preserve the national existence of people. ..People exists politically only if they constitute an independent political community/entity and only if they as an entity oppose other political entities in order to preserve its understanding of the cultural specificity of its own community...The theory of exceptional circumstances and with it related theme of decision are of paramount importance for us today, because we are now in such historical juncture of the history of Russian people and Russian state in which the state of emergency has become a natural state of our nation, permeating and constituting the Being of our nation...We Russians must discover and understand our national essence and existence because we live in a time of emergency which demands a act of collective existential choice, an act of supreme decision.”(15) Here one can see a Heideggerian motif- the political identifies the essence and existence of community; it is the empirical Russian nation which in a time of national emergency must become fully political in an act of self-choice and decision and thus choose itself and its own historical destiny.(16) The act of self-choice presupposes a nation that has become political because only the political being of Russia gives existential meaning to the friend-enemy antithesis, what does not politically exist cannot consciously decide(17) , political unity is grounded on political existence. Political sovereignty is an existential question because it concerns the resolution of an existential conflict. Not only does every politically-existing people decide on the question of its own political existence and any possible danger to it; it decides also on whether an existential question actually exists- a question which is political by its very nature. Since for politically-existing people there is always the possibilities of an existential conflict, the question of sovereignty, i.e. the ultimate existential decision, always remains open.(18) «Every existing political unity has its value and existential justification not in the rightness or usefulness of norms but in its existence. Juridically considered, what exists as apolitical force has value because it exists. From this stems its ‘right to self-preservation’, the presupposition of all further considerations; it seeks above all to maintain its existence , it protects its existence, its integrity, its security, and its constitution - all existential values»(19) Carl Schmitt points out that «as long people exists in the political sphere, it must itself make use of the distinction between friend and enemy, at the same time reserving it for extreme conjunctures which it itself judges as such. This is where the essence of its political existence lies. From the moment it lacks the capacity or the will to use this distinction, a people ceases to exist politically...If the people should no longer have the strength or the will to continue in the political sphere, this is not the end of politics in the world. It is only the end of weak people...If the state refuses or is unable to make a decision in an exceptional situation, it inevitable runs the risk that other forces will make one in its place and establish their norms.»(20) Building on this theme Alexander Dugin sees the elements of will, decision and time intertwined in the quest for historical existence of Russia: «Decisionism not only amplifies and focuses on the state of emergency and the exceptional circumstances, but it is also a defense reaction against those circumstances: in the moment of historical decision for authentic national future, the people and the nation actualize their past and decide their future in a dramatic mobilization of the present. The present then becomes the focal point and synthesis of three qualitative characteristics of time: its source, i.e. the past when people entered into a historical existence, the will of the people directed toward the future, and the political self-assertion of the historically existing people in an act of decision which at the same time is an act of authenticity, in the present. In the supreme mobilization of the decision the historically existing Russian people reveals, recaptures and mobilizes its timeless historical uniqueness and identity. Therefore the political and historical future of Russian people is build on understanding and affirmation of its historical past...

If the Russian people can self-assert themselves and their historical choice in this fateful and dramatic juncture, and if the Russian people are able to reveal and designate friends and enemies, recapturing from the flow of history its political self assertion, then the supreme political decision of the Russian people would be an authentic, historical and existential decision , an affirmation of thousand years of history of Russian people and the Russian state. If on the other hand political decisions will be taken by others, i.e. by the United States in the guise of the insidious ideology of pseudo universalism, which the United States is in the process of establishing as the only legitimate ideology in the New World Order, then our future will be un-Russian, i.e. the future will cease to exist for us. The historical Being of Russian people, Russian state and the Russian nation will became a Being without a future and thus a non-Being. Thus also Russian past will loose its meaning, will dissipate into nothingness: the historical drama of Russian history in the post-Gold War period will became a tragedy of submission under the dictates of the American New World Order, a tragedy of annihilation of Russian future».(21)
«Past, present, and future are existential characteristics, and thus render possible fundamental phenomena such as understanding, concern and determination. This opens the way for the demonstration of historicity as a fundamental existential determination.»(22) Alexander Dugin emphasizes that the essence of a nation’s being-in-the world is a hermeneutical process of questioning and problematization of a crisis situation, a state of emergency. The concept of political existence of the Russian nation is actualized in a time of radical disintegration and regression, a time of emergency and outer and inner danger which creates awareness of being situated in a crises which must take on a political form. The understanding of the political roll of Russia in contemporary world after the dissolution of the Soviet Union, is a power to grasp the nation’s possibilities for being, which by necessity not only requires a disclosure of the nation’s concrete potentialities for being, in a sense of preserving itself and maintaining its own authenticity, but also the revealment of the sources for an inauthentic national existence. This revealment presupposes the identification of the foe which in the process of a national self-understanding becomes manifest; the hermeneutical circle thus closes - the reached understanding leads to resoluteness and demands a political decision on the part of the Russian nation;(23) because the potentiality for authentic national Being remains a mere potentiality unless accompanied by political decisionism. It is the decision to choose itself and thereby to oppose the foe and thus become political, which is the supreme political act of the nation. Those are the issues that are entertained in the most recent issues of Elementy (Elements), the ideological organ of the Russian opposition, dedicated to geopolitical discourse and ideological alternatives in the post-Cold War Russia, a period in which in the words of Aaron Friedberg, Professor in political sciences in Princeton, « the United States has emerged as a single, unchallenged ‘Great Satan’, against whom all ideological energies must be mobilized». The magazine is published by the Center for Special Meta-Strategical Studies in Moscow and beside Alexander Dugin, who is the publisher, lists among its co-editors the editor of the most important opposition newspaper Zavtra (formely Den’), Alexander Prochanov, the New European Right’s ideologists Alain de Benoist (editor of the French magazines Neuvelle Ecole, Elements, Krisis), Robert Steuckers (editor of the Belgian magazines Orientations, Synergies Europeennes and Vouloir) the Italian geopolitician Claudio Mutti, the Serbian geopolitician Dragosh Kalajic, as well as the controversial Russian politician and member of the former Parliament, colonel Victor Alsknis.(25) The interesting issues contain a translation of Carl Schmitt’s essay on “Nomos and the principle of Grossraum”, Karl Haushofer’s work on “Continental geopolitical unity” as well as contributions of authors such as Alain de Benoist and the Austrian general Heinrich Jordis von Lochhausen, the foremost theoretician of contemporary geopolitics and advocate of European liberation from American occupation. Alexander Dugin must be credited with both political imagination and ideological creativeness. He introduces a new vocabulary of resistance. In the tradition of a true iconoclast he identifies not only the foe of Russia and, in the future, of Europe— the United States , but also exposes the most pervasive ideological mystification— Der Mythus des 20. Jahrhunderts— namely the Myth of American Democracy and its claim of pseudo-universality. And finally he argues for the establishment of a new Grossraum in Europe, Pax Euroasiatica , opposing Pax Americana, and based on a coalition of Russia with Central European powers such a Germany and France—a new geopolitical continental block. In essence this concept could be described as a Monroe Doctrine for Europe which will exclude every American intervention in European affairs as well as necessitate a dissolution of NATO and withdrawal of all American military forces from European soil. A Monroe Doctrine for Europe is also a radical departure from the established American paradigm of international order- defined by Zbigniew Brzezinski as »American domination of Europe is axiomatic»(26) —,a paradigm that has been transformed into oppressive political theology and exercise of American hegemony. The relevance of Dugin’s writings as well as the magazine Elementy lies in the formulation of the geopolitical doctrine of Eurasian defense against American expansionism. The geopolitical discourse translates itself into a vision of future liberation which, according to Dugin, must become a categorical imperative for Russia’s-being-in the-world.


THE PRINCIPLE OF GROSSRAUM

The most fundamental principle in geopolitics is the principle of Grossraum formulated by Carl Schmitt in his book “Voelkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot fuer raumfremde Maechte” and seen by him as a foundation for the science of international law. A Grossraum is «an area dominated by a power representing a distinct political idea. This idea was always formulated with a specific opponent in mind; in essence, distinctions between friend and enemy would be determined by this particular political idea. As an example Schmitt cited the American Monroe Doctrine and its concept of nonintervention by foreign powers in the American Raum»(27) This is the core of the great original Monroe Doctrine, a genuine Grossraum principle, namely the union of a politically-awakened people, a political idea and, on the basis of this idea , a politically-dominant Grossraum excluding foreign intervention.(28)

According to the concept of Grossraum the national sovereignty of a country depends not only on its military power, technological development and economic base but also on the size and geographical location of its land. The sovereignty of a country depends on its geopolitical independence and self-sufficiency of the geographical region. Countries that strive to achieve sovereignty must resolve the problem of territorial self-sufficiency. The Grossraum is a geopolitically unified and economically autarchic space— a spatial power. It is a «territory with rounded-out production and consumption which, if necessary, may exist by itself within closed doors.»(29) As such it protects itself from intervention by spatially alien states and from any other potential Grossraum,(30) and above all from American «Open Door» imperialism—defined by Isiah Bowman as American version of Nazi-Germany’s Lebensraum—in its geopolitical, economical or military manifestation.
Prior to the dissolution, or as Alexander Dugin claims, subversion of the Soviet Union in 1991(31) , in the bipolar world of two Superpowers , there existed two competing Great Areas (Grossr?ume) or two opposing political blocks, each with its sphere of influence and ideology: the Atlantic Grossraum dominated by the United States and the Eurasian Grossraum dominated by the Soviet Union. The political competition between the two blocks gave a substantial latitude for autonomy and independence for countries included in the sphere of influence of the two blocks. However after 1991 a completely new world system has been created. The bipolar world landscape of two superpowers has been transformed into a mono landscape of one superpower imposing its will on the rest of the world.

«The existence of the socialist block and the Warsaw Pact was a decisively positive factor for the prospective European unity, continental integration and future sovereignty of Eurasia. The end of the bipolar world and the emergence of the unipolar New World Order, is a blow on Eurasia, a blow on the continentalism and on the future of all Eurasian countries. If Russia would not immediately start to reconstruct her Greater Area (confirmed by the Helsinki Agreement) ...she would bring to a catastrophe not only herself, but also all people on the World Island...Today Russia, situated in the heart of the Eurasian continent, represents from a geopolitical point of view Europe as a continental block. Therefore the geopolitical interests of Russia and Europe not only confluence but are identical.»(32) In order to understand the historical background of the conflict between the Atlantic Grossraum and the Eurasian Grossraum as well as Dugin's analysis of the American New World Order as a final attempt by the United States for world domination, — a Monroe Doctrine for the whole world as envisioned already by President Wilson at the end of the WWI—, a short account of geopolitical concepts is necessary.

It was the British author Halford Mackinder who in 1904 proposed the notion that the continental part of Eurasia, by virtue of its land mass and geo-strategical importance, forms the world Heartland. The power that controls the Heartland threatens the sea powers-once Great Britain, now the United States—that control the World Island— that is our planet. In 1919 he claimed the necessity for control of the Eastern Europe by the sea power. After the Versailles settlement the new Eastern European countries, concieved as exclusive sphere of influence of the sea powers, had to form a cordon sanitaire between Germany and Russia preventing the geopolitical consolidation of Eurasia. «Who rules East Europe commands the Heartland. Who rules the Heartland commands the World Island. Who rules the World Island commands the World,»(33) asserted McKinder.

In 1943 MacKinder reformulated his theory— the state that controls the Heartland will dominate the World Island.(34) At the same time McKinder acknowledged that «The Heartland is the greatest natural fortress on earth. For the first time in history it is manned by a garrison sufficient both in number and quality»(35) The American geopolitician Alfred Mahan formulated the idea that world hegemony of sea powers can be maintained by control of series of bases around the Eurasian continent. Sea powers could dominate land powers by enclosing them in. The American geopolitician Nicholas Spykman developed the concepts of MacKinder and Mahan but put the emphasis on the control of Eurasian coastal regions which he called the Rimland or Inner Ring. He maintained that the United States could assert control over the Heartland by controlling the Rimland. The Rimland can be seen as an America controlled buffer zone or a huge Cordon Sanitaire, including the NATO countries, Scandinavia, China, India and Indochina. In spite of prolonged wars—the Korean War, the occupation of Taiwan, the war in Vietnam—, the United States has never been able to fully dominate the countries of the Rimland and thus to globalize her Grossraum. The theory and practice of containment born of the Cold War—United States creating NATO, SEATO (Southeast Asia Treaty Organization) and CENTO (Central Treaty Organization), putting bases surrounding the Soviet Union, maintaining puppet regimes around the world, are derived from MacKinder’s, Mahan's and Spykman’s geopolitical ideas. If Soviet Union was a fortress, «then to deal with a fortress is to surround it and seal it...This is known as containment»(36) Heartland theory stands as the first premise of the United States geopolitical doctrine and military though during the Cold War. American containment policy «represented a validation of MacKinder«(37) and acceptance of the necessity of destruction of the Hartland. NSC-68 was a statement of this primary objective of the American postwar foreign policy: world domination through destruction of the fortress Hartland— the Soviet Union—and imposition of preponderance of American power in Eurasia. Also U.S. primary foreign policy objective in the New World Order —the conquest of Eastern Europe through «inclusion» of the former Warsaw Pact countries in the military instrument of the global Monroe Doctrine— NATO, is derived from both MacKinders ideas and identical objectives in NSC-68.

One can see the similarities between MacKinder’s and Frederick Jackson Turner’s geopolitical ideas,(38) between the MacKinder’s assertion that the geopolitical dynamics inevitable will lead to a creation of one World Empire (an Anglo-Saxon) and Turner’s «frontier thesis» , defining the essence of the United States as perpetual expansionism. The merger of the Monroe Doctrine, the «Open Door» imperialism and geopolitics in the frontier-expansionist Weltanschaung which has defined the U.S. foreign policy during this century, led after the end of the W.W.II to the grand design of an American Century and an American World Empire enbracing the globe.(39) NSC 68 was a statement of strategy and tactics to achieve those objectives.

However the contraposition between the Atlantic Grossraum and the Eurasian Grossraum does have, according to Dugin, even a wider and more profound context that transcends the geopolitical power competition. In this conjunction one can recall de Gaulle objections in the past to Britain’s entry into the Common Market based on his perception of England as a type of civilization different from that of Europe . The English, as he saw it, were lacking cultural and historical identity with the Continent and were not interested in building a Europe distinct from America. «England is, in effect, insular, maritime, linked through its trade, markets and food supply to very diverse and often very distant countries. Its activities are essentially industrial and commercial, and only slightly agricultural... In short, the nature, structure and economic context of England differ profoundly from those of other States on the Continent.»(40) For Dugin the Atlantic Grossraum and the Atlanticism versus the Eurasian Grossraum and the Eurasianism represent two different paradigms of societal organization that can not be reconciled. Halford Mackinders geopolitical theories as well as Carl Schmitt’s work “Land und Meer” and to a lesser extend Oswald Spengler’s “Prussentum und Socialismus” and Werner Sombart’s “Haendler und Helden”, form here the theoretical framework. Dugin distinguishes two types of civilization: sea-oriented Atlantian and land-oriented Continental or Eurasian and sees the future rapprochement between Russia and Western European countries on the basis of the principle called Continentalism or Eurasianism, which he opposes to English and American Atlanticism. The antagonism between Atlanticism and Continentalism/Eurasianism, between a seagoing civilization and land civilization, goes back to ancient times, constituting the major tension of world history.(41) Atlanticism, exemplified by the legendary Atlantis, by ancient Carthage and by contemporary England and the United States, is characterized by the spirit of trade and profit and it values mercantilism and cosmopolitanism. Continentalism, best represented by legendary Hyperborea, and by historical Roman, German and Russian Empires, emphasizes the organic unity of people in their spiritual bonds with the earth and their fidelity to national tradition. Thus the very form of the landmass supporting a people influence the substance or their culture and national character. «In ancient history a sea power that become a symbol for sea civilization was Phoenicia-Garthage. The land civilization in opposition to Carthage was then the Roman Empire. The Punic wars reflected the irreconcilable differences between the sea-oriented and land-oriented civilizations. In modern history the Queen of Seas - Great Britain - raised as the sea pole of world politics, later to be overtaken by the United States. In the same way as Phoenicia and Carthage in the past , Great Britain used in the first place commerce, trade and colonialism as instrument for her hegemony. The geopolitical paradigm of Anglo Saxon sea orientation created a particular ‘commercial-capitalist-market’ oriented civilization, based primarily on economic and material interests and on the principles of economic liberalism. In spite of historical variation, the most common type of ‘sea civilization’ has always expressed the fundamental idea of the ‘primacy of economics over politics’. Mackinder clearly shows, that during the period of modern history ‘sea orientation’ meant Atlanticism, and today sea powers are United States and England, also the Anglo Saxon countries. In opposition to the Atlanticism stands the Eurasianism, the land based civilization. In modern history the Eurasian orientation is above all characteristic for Germany and Russia. Therefore the historical tradition of those countries has been and would be in opposition to the ideology and the geopolitical interests of the Atlanticist- the United States. Whereas Atlanticism can be equated with capitalist individualism, economic liberalism and commercial notion of imperialism, Eurasianism means communitarianism, social welfare, economic democracy , the precedence of general welfare over self-interest, of the societal ‘whole’ over the parts, and the primacy of politics over economics.»(42) Referring to the fundamental differences between the two paradigms of societal organization, Dugin projects that the world will one day witness a war between Eurasian continentalism, championed by Russia, and the global Atlanticism—the New World Order—, upheld by the United States, or, as Alain de Benoist writes: « Eurasia against America would be the decisive battle of the future. The United States is the enemy of humankind-hostis humani generis-, the Carthage that must be destroyed.»(43)


THE NEW WORLD ORDER

The essence of the New World Order proclaimed by President Bush , and terminologically and conceptually borrowed from the lexicon of Nazi Germany, as well as Woodrow Wilson’s expansionist ideas of a Monroe Doctrine for the whole world, is a new geopolitical project to transform the world into a single Grossraum- in Carl Scmitt’s thought a new Nomos of the Earth—, dominated, controlled and orchestrated by the United States with the corollary of subversion of international law, the United Nations and the sovereignty of other countries except the United States. United Nations is bound to loose all significance, becoming a disciplined puppet and instrument of American expansionism and assertion of global jurisdiction and system of interventionism, a sort of pseudo legitimizing facade through which U.S. will unilaterally act to further her expansionist interests. What seems to be in the future is a global Latin-Americanization of the world with the United Nations reduced to a sort of OAS (Organization of American States ) , i.e. a well-behaved puppet in American hands. «It is obvious that the American concept of Atlantic Grossraum - the American New World Order - totally excludes any form of real state’s and political sovereignty on part of any other country and people. The preexisting bipolar world prior to 1991 gave incomparably more freedom and sovereignty to countries that were included in the sphere of influence of the then existing Superpowers and competing Grossr?ume. The emerging Atlantic Grossraum of the American architects of the New World Order will lead to disintegration of the very principle of state sovereignty because power suppression - by military and economic means- will become the only instrument of control.

The new situation in the world puts other countries, and in particular the countries that previously were members of the geopolitical block opposing the Atlantic Alliance, before the following alternatives: either a forced integration in the U.S. dominated New World Order— the Atlantic Grossraum— with subsequent renunciation of their sovereignty, or a creation of a new Grossraum which will be able to oppose the United States and thus will give them chance to preserve their sovereignty and cultural autonomy».(44)

History in general and U.S. behavior in particular show us that predatory countries abhor power vacuum. It is certain, and it is happened, that the United States would hasten to exploit the withdrawal of Soviet Union from the word arena and impose unilateral advantage over other countries until now protected by the balance of power and the U.S. -Soviet competition. In retrospect one may say that the end of the Warsaw Pact and the dissolution of the Soviet Union have gone a long way toward decreasing stability in Europe and elsewhere.

A substantial part of Alexander Dugin’s geopolitical analysis is focused on the Pentagon’s Defense Planning Guidance , drafted under supervision of Paul D. Wolfowitz, the Pentagon’s Under Secretary for Policy, and provided to the New York Times in February of 1992,(45) and which in all respects could be called a blueprint for total domination of the world. In the 46-page classified document the Defense Department asserts America’s political and military will be to insure that no rival superpower is allowed to emerge in Western Europe , Asia or the territory of the former Soviet Union. American mission and strategy is summarized in the document as follow: «Our first objective is to prevent the reemergence of a new rival, either on the territory of the former Soviet Union or elsewhere, that poses a threat on the order of that posed formerly by the Soviet Union. This is a dominant consideration underlying the new regional defense strategy and requires that we endeavor to prevent any hostile power from dominating a region whose resources would, under consolidated control , be sufficient to generate global power. These regions include Western Europe , East Asia, the territory of the former Soviet Union, and Southwest Asia. There are three additional aspects to this objective: First , the U.S. must show the leadership necessary to establish and protect a new order that holds the promise of convincing potential competitors that they need not aspire to a greater role or pursue a more aggressive posture to protect their legitimate interests. Second, in the non-defensive areas, we must account sufficiently for the interests of the advanced industrial nations to discourage them from challenging our leadership or seeking to overturn the established political and economic order. Finally we must maintain the mechanisms for deterring potential competitors from even aspiring to a larger regional or global role...

... NATO is the primary instrument of Western defense and security, as well as the channel for U.S. influence and participation in European security affairs. While the United States supports the goal of European integration, we must seek to prevent the emergency of European only security arrangements which will undermine NATO».(46)
The document further outlines strategies to subvert the United Nations by substituting it in reality with the United States dominated and controlled NATO and also postulates the right of the U.S. to sidestep United Nations in acting independently and unilaterally.(47) The political development since 1991 can only be described as determined implementation of the American master plan for world domination, outlined in the Pentagon’s Defense Planning Guidance which is a mirror image of identical objectives stated in NSC-68. The document is interesting, as Dugin points out, because it allows for the obvious conclusion that the future enemies of the United States could be her former allies and that the threat that U.S. poses against the Russia now may become a threat against France, Germany and Japan tomorrow. And it is just a matter of time before the antagonism between Western European countries and U.S. will surface and articulate itself as opposition between different national interests. Despite the political transformation in Europe United States has resolved that NATO and the U.S. military presence on the continent should be a permanent geopolitical fixtures. Disbanding of the Warsaw Pact in July 1991 was not followed by the disbanding of NATO . The American alarm concerning the prospect of creation of a Franco-German joint force is understandable since such force will not only inevitably lead to assertion of sovereignty on part of European countries (48) but also to articulation of European identity and collective national interest different from that of the United States. The difference in national interest’s is emphasized by general H.J. von Lochhausen who in his article “The War in Iraq is a War Against Europe” writes: «U.S. has understood that in order to maintain its worldwide domination she must position herself against her enemies of tomorrow i.e. Japan and united Europe. U.S. has chosen to take a firm control of those oil resources on which Japan and Germany will depend in the future ...The war in Iraq was such positioning and it was made possible only because the Soviet Union was eliminated as a player on the world arena and thus also as a deterrent to American aggression. One must remember that the country that controls the oil in the Persian Gulf controls also Western Europe and Japan...And it is deeply disturbing that U.S. forced Germany and Japan to finance the war which ultimately was aimed to their weakening and control in the future».(49) To a similar conclusion comes Samir Amin who points out that »I believe that the decision to go to war in the Gulf was taken deliberately by Washington as a method of preventing the formation of ‘European bloc’ :by weakening Europe (the supply of oil now being unilaterally controlled by the United States; by revealing the essentially fragile political union of Europe...and by neutralizing Moscow».(50)



THE NEW WORLD ORDER AND INTERNATIONAL LAW

I would like to examine in more detail two issues that are central to Alexander Dugin’s criticism of the New World Order namely the framework of new international law it creates and its consequences for Russia and Europe as exemplified by the war in Yugoslavia. The issue of international law can be seen in the light of Dean Acheson’s statement concerning the American concept of sources of and obligations under international law. »Much of what is called international law is a body of ethical distillation, and one must take care not to confuse this distillation with law...Further, the law trough its long history has been respectful of power, especially that power which is close to the sanctions of law...the law simply does not deal with such questions of ultimate power- power that comes close to the sources of sovereignty»(51) , and the tendency on the part of the U.S. to assert her will as the sole source of international law. In this conjunction it is interesting to recall that already de Gaulle saw at the end of the World War II in President Roosevelt’s grand design for United Nations not only America’s bid for world hegemony through creation of international body subservient to and controlled by the United States but also «a permanent system of intervention that he (Roosevelt) intended to institute by international law»(52) , a design that re-emerged and came to realization in the New Word Order. The war in Yugoslavia on the other hand is of particular importance since it has been perceived in Russia not only as a contemporary analogy to the Spanish Civil War with the U.S. assuming the role of the former fascist powers but also as a general rehearsal to what may happen to Russia in the event U.S. gains a strategic nuclear superiority. And as before during the 30-ties in Spain a number of Russians has volunteered to serve in the Serbian forces.(53) A particular alarm in Russia has caused the so called Presidential Directive 13 which outlines American plans for massive cover operations as well as outright military intervention in Russia under the familiar disguise of so called peace keeping operations in former Soviet republics and formulated with the objective to prevent any recognition of a Russian Monroe Doctrine in the former Soviet Union.(54) A starting point for the analysis of the transformation of the concept of international law must be a discussion on the nature and development of the unilaterally proclaimed Monroe Doctrine which from its very inception has been the ideological basis of American imperialism and assertion of an ever increasing extra-territorial jurisdiction. The Monroe Doctrine designated an area far exceeding the territory of the United States- The Western Hemisphere- as a Grossraum with the U.S. assuming the role of imperial power vested with absolute sovereignty in the region while depriving other countries in the same region of rights to sovereignty and self-determination.(55) U.S. unilaterally reserved for herself the right of intervention in the Western Hemisphere creating a qualitatively new form of colonialism with the right of intervention as a cornerstone for political control and domination. The essence of the Monroe Doctrine and its subsequent codification in the Rio Treaty, is the repudiation of the main principle of the United Nations Charter namely the principle of equality and sovereignty of nations on which the body of international law rests. And already Hegel knew that international law-jus gentium-presupposes and is based on sovereignty of states. In a situation where only one state in the international community is a possessor of absolute sovereignty, the international law as such can not exist- it will be the application of the domestic law of the dominating state disguised into an universal principle.(56) After the conclusion of the W.W.I, at the Paris Peace Conference, which resulted in the signing of the Treaty of Versailles and creation of the League of Nations , president Woodrow Wilson presented his Fourteen Points which proclaimed a new universalism as well as , employing what later will be called a Orwellian New Talk, the right of self-determination as a foundation for the postwar world order. At the same time his Secretary of State, Robert Lansing, wrote a memorandum explaining the meaning of the Monroe Doctrine : «In its advocacy of the Monroe Doctrine the United States considers its own interests. The integrity of other American nations is an incident, not an end. While this may seem based on selfishness alone, the author of the Doctrine had no higher or more generous motive in its declaration.»(57) United States refused to enter the League of Nations unless its "Charter incorporated the Monroe Doctrine - a demand less concerned with the right of self-determination than with American domination in the Western Hemisphere. As it turned out, even though Art. 21 of the Chapter did incorporate the Monroe Doctrine, the U.S. did not join the League. In Schmitt’s view, Art. 21 symbolized the triumph of the Western Hemisphere over Europe.»(58) the grand design of President Wilson was to transform the Treaty of Versailles and its creation, the League of Nations , into a instrument of American imperialism and dominance of Europe.(59)

Of particular interest are United States fifteen reservations which did not provide for ratification but, rather, for the nullification of the Treaty. Some of those reservations form a distinct doctrinaire body concerned with the nature of U.S. obligations under international law.
1. The United States so understands and construes article 1 that in case of notice or withdrawal from the League of Nations...the United States shall be the sole judge as to whether all its international obligations and all its obligations under the said covenant have been fulfilled...

4. The United States reserves to itself exclusively the right to decide what questions are within its domestic jurisdiction and declares that all domestic and political questions relating wholly or in part to its internal affairs ...are solely within the jurisdiction of the United States and are not under this treaty to be submitted in any way either to arbitration or to the consideration of the council or of the assembly of the League of Nations, or any agency thereof, or to the decision or recommendation of any other power.

5. The United States will not submit to arbitration or to inquire by the assembly or by the council of the League of Nations, provided for in said treaty of peace, any questions which in the judgment of the United States depend upon or relate to its long-established policy, commonly known as the Monroe Doctrine; said doctrine is to be interpreted by the United States alone and is hereby declared to be wholly outside the jurisdiction of said League of Nations...

14. ..The United States assumes no obligation to be bound by any decision, report, or finding of the council or assembly arising out of any dispute between the United States and any member of the league.(60)

Those reservations express the specific American dualistic position in respect to international treaties: treaties are to be used as a vehicle for other countries to assume obligations while the U.S. does not assume any obligations.(61) Treaties were to be so designed solely to promote United States interests by securing action by foreign governments in a way deemed advantageous by the U.S. and not for the U.S. to undertake any international obligations. The purpose of this dualistic doctrine has historically been to solidify and promote American hegemonical claims. Recognizing the true nature of the pseudo-universalism of the international law created after the W.W.I which appeared not to rest on respect for existing sovereignties but was merely a pretext for complete political and economic domination by the United States, Carl Schmitt wrote that «Behind the facade of general norms of international law lies, in reality, the system of Anglo-Saxon world imperialism»(62) After the W.W.II United States needed a further disguise to unilaterally assert U.S. power and to underscore Washington’s hemispheric hegemony. It resulted in a creation and signing of the Interamerican Treaty of Reciprocal Assistance, signed in Rio de Janeiro in September of 1947, and a subsequent pact concluded in Bogota in April of 1948, which established the Charter of the Organization of American States (OAS). The significance of the Rio Treaty goes beyond the formal codification of the Monroe Doctrine. First, in view of the fundamental professed principle of the Charter of the United Nation namely the principle of sovereignty and equality of member states , a regional treaty which in substance repudiates the very principle of sovereignty save for the sole sovereignty of the United States , must be seen as incompatible with the U.N. Charter. Secondly OAS became a prototype of a pseudo-international organization with a pseudo-universal ideological facade, an instrument for American interventionism in the region. And finally it must be seen as a paradigm of American concept of organization of a Grossraum in particular and World Order in general the globalization of which is the very essence of the New World Order. Or as Noam Chomsky points out « For the U.S. , the Cold War has primarily been a history of worldwide subversion, aggression and state-run international terrorism, with examples to numerous to mention. Secondarily , it has served to maintain U.S. influence over the industrial allies, and to suppress independent politics and popular activism.»(63) An additional aspect of the New World Order seems to be the U.S. repudiation of one of the most fundamental rules of international law namely that treaties must be performed in good faith; the rule of “pacta sunt servanda”. The massive cover operations undertaken by the United States in Poland during the 80-ties after President Reagan signed a secret national-security-decision (NSDD 32)(64) that authorized a wide range of subversive measures by the CIA to destabilize the country , were motivated by the U.S. resolve to nullify the Yalta Agreement.(65)

The U.S. invasion of Panama in December of 1990 was based on the Washington design to prevent the effect of the treaty that would transfer the control over Panama canal to Panama. I can certainly agree with Noam Chomsky’s conclusion that the Panama war which resulted in more than 20.000 civil casualties «is a historic event in one respect. It is the first U.S. act of international violence in the post-World War II era that was not justified by the pretext of a Soviet threat.»(66) And finally the war in Yugoslavia and the subsequent partition of the country which, historically seen, is almost analogous to Hitler’s partition of the country: a Croatian puppet state has been established by the neo-Ustachi. The general perception in Russia is that the so called Bosnian forces, promoted by the U.S. , are no more than the equivalent of the so called Contras in Nicaragua and the war is the first example of Latin-Americanization of Europe. But the partition of Yugoslavia, which in not so distant past was one of the leaders on the non-aligned countries, is seen as a flagrant violation of the Helsinki Accord of 1975 which essence was inviolability of frontiers and territorial integrities of states as well as guaranties of sovereign equality of nations and respect for the rights inherent in sovereignty(67) and on which all security arraignments in Europe were based. In pertinent part the Helsinki Accord states that:

The participating States will respect each other’s sovereign equality and individuality as well as the rights inherent in and encompassed by its sovereignty, including in particular the right of every State to judicial equality, to territorial integrity and to freedom and political independence...The participating States regard as inviolable all one another’s frontiers as well as the frontiers of all States in Europe and therefore they will refrain now and in the future from assaulting these frontiers...
The participating States will respect the territorial integrity of each of the participating States. Accordingly, they will refrain from any action inconsistent with the purposes and principles of the Charter of the United Nations against the territorial integrity, political independence or the unity of any participating State, and in particular from any such action constituting a threat or use of force.

While the partition of Yugoslavia must be seen as violation of the Helsinki Accord, the issuing war and the U.S. outright military intervention and occupation of part of Yugoslavia—Bosnia—,do have wider implications since those measures involve and articulate the relationship between the U.S. and the United Nations. Summarizing the intentions of Washington William Safire in an article in the New York Times(68) writes concerning the prospective air-strikes against Serbian forces that the Clinton Administration has adopted a new resolute policy vis-?-vis the United Nations- «Don’t ask, tell Policy...Coercive diplomacy would become the order of the day» A State Department spokesman, Michael McCurry, asserted that « The United States would be ready to carry out an air campaign against advancing Serbian forces whether or not it received the approval of European allies at a NATO meeting in Brussels on August 2, 1993.»(69) He further omitted all references to any necessary authorization by the United Nations.

Although the Clinton Administration was rebuffed by the U.S. Secretary General who rightfully asserted that the U.S. does not have jurisdiction over U.N. forces and that furthermore, any decision in respect to air-strikes must be sanctioned by the United Nations(70) , United States has persisted in claiming that U.S. alone can decide whether or not to strike. Or as the former State Department official John Bolton correctly pointed out:

«We are the central multilateralists. The idea that there is some collective international will out there is just fairly land stuff. The true measure of America’s diplomatic clout will always be the military resources we are willing to commit.»(71) After a meeting in Washington with Alija Izetbegovic, the U.S.’s man in Bosnia, and a former officer of the Waffen SS (72) , President Clinton stated on September 8, 1993, that any military intervention in Yugoslavia must be undertaken «by a peacekeeping force from NATO — not the United Nations but NATO». The French reaction was understandable. Richard Duque, a spokesman for the Foreign Ministry, said France believed that any such operation should be «under the authority of the United Nations».(73) The French reaction must be seen also in light of the Defense Secretary Les Aspin’s assertion that any peacekeeping forces should be under NATO command, that is, under the ultimate direction of the Supreme Allied Commander, a post always held by an American officer. France however does not belong to the NATO’s integrated command and apparently sees the American statements as an attempt to infringe upon her sovereignty. The American objectives in Yugoslavia were fully realized. For all practical purposes NATO tog over all the essential functions of the United Nations, in fact replacing the United Nation. The Daytona «agreement» seen by many as a Second Munich , embodied not only the essence of the diplomacy of ultimatums but also the American attempts to subvert the of international law. In fact the Daytona Agreement is a nullity according the international law(74) . The agreement, modeled after the Platt Amendment in regard to Cuba, created a virtual American protectorate in Bosnia. The French geopolitician General Pierre-Marie Gallois, one of the leaders of the Resistance movement during the WWII, the creator of the military doctrine of France and one of the closest advisers of General de Gaulle sees the war and the partition of Yugoslavia as an integral part of the American design for world domination, embodied in the concept of the New World Order. And thus it serves the geopolitical strategy of the ultimate extension of American Lebensraum—the Monroe Doctrine for the whole world. In his words one can hear the voice of General De Gaulle: «The pursuit of truth and justice made me involved in a resolute struggle against the greatest absurd and evil which flow out of the totalitarian idea of the New World Order. The partition and destruction of Yugoslavia , the aggression against Iraq , the murder of hundred of thousands of innocent civilians in Iraq, all those abominable acts are all but pages of the same scenario: the imposition of the evil will of one over all who are perceived as obstacles for the imposition of American Weltherrschaft over humankind...It is rather obvious that the partition of countries in Europe has not ended yet.
Our participation in NATO and the occupation of Yugoslavia is a threat to the independence of France, a betrayal of our national interests. The Balkan crisis is an expedient device to justify the unjustifiable: the expansion of the American military presence in Europe. And at the same time UN, rather than being an institution for promotion of international understanding and peace, has been transformed into an instrument for collective aggression. NATO is not on a peace mission in Yugoslavia. NATO’s forces in Yugoslavia are an act of aggression, an act of outright occupation.»(75) At the same time, points and emphasizes Galouas , the war in Yugoslavia, serves an important geopolitical purpose, designed to imperil the desire for geopolitical independence of Europe: «Germany will grow stronger and soon she would no longer tolerate the presence of American military forces on her soil. Therefore a reserve position for the American NATO forces is necessary, the addition of an ideal geopolitical region for stationing and regrouping of the military instrument of American foreign policy. Albania, Bosnia and Macedonia form that region...The world according to American recipes is an absolute and total negation of the old tradition of respect for rights and freedoms. After the genocidal bombing of civilian Serbian targets and the economic embargo serving the same purpose—weakening of the Serbs—, United States created Bosnia as her protectorate...That is abominable. But those atrocities serve the overriding geopolitical goal of the United States: to remain in Europe at any cost...Dayton Agreement is the latest embodiment of the new American diplomacy, aggressive and uncompromising , confident in its power, the diplomacy that knows and uses only the language of ultimatums...

U.S. literally bombed to pieces Iraq, poisoned the nature and the ecological environment , with unparalleled barbarity killed hundreds of thousands of civilians, only in order to control the supply of oil and dictate its price as it pleases Washington...As a result of the embargo against Iraq 570.000 civilians were murdered....And this is a crime against humanity par excellence.
And again and again decisions are made in Washington which will result in murder of innocent elderly, sick and poor. And then Washington dears to teach the world morality...Or take the so called War Tribunal in Hague, allegedly set up to represent moral and truth but in reality an instrument of war (war with other judicial means) and continuous aggression against the Serbs.(76) What better evidence of the absurdity of this tribunal than the fact that there were no war crime tribunals for all war crimes and crimes against humanity committed during the bombing of Dresden and Hamburg, the nuclear annihilation of Hiroshima and Nagasaki, for the massive war crimes committed in Vietnam, an for the war crimes committed in Iraq during the operation Desert Storm. It is as if all those massive war crimes did not happen or were insignificant compared to the Serbs resistance against the conquest of their country...I can not accept such perverted American logic, and I am very sorry that my country is forced to participate in those American atrocities.(77)

The obvious conclusion is that the partition of Yugoslavia, and the subsequent war, serve several purposes:
a. Expansion of the American Grossraum with the establishment of a Bosnian puppet state controlled by the U.S., as well as, in all probability, establishment of U.S. permanent military bases on the Adriatic;
b. Prevention of the emergence of any independent European foreign policy initiatives and thereby the emergence of Europe as an unified new Grossraum;
c. Consolidation of the control over the Rimland;
d. Abrogation, in fact, of the Helsinki Accord;
e. Subversion and factual demise of the United Nations as an international body and finally
f. A rehearsal for, as it is perceived in Russia, an impending war of aggression against Russia. In any event, it is quite obvious, that substitution of United Nations with NATO will render the veto power of the permanent members of the U.N. Security Council inoperative, which will effect the interests of not only Russia but also France and China. If the incorporation of the Monroe Doctrine in Article 21 of the Chapter of the League of Nations signified the subversion of the universality of international law and Europe’s defeat by the U.S. , the war in Yugoslavia and air-strikes against Serbian forces signifies even more important historical event namely the subversion of the United Nations and its transformation in the future , if U.S. is not resolutely opposed , to a functional equivalent of the OAS i.e. to a pseudo-international body serving as a rubber stamp for American hegemony and wars of aggression disguised as so called peace keeping operations in countries that, prior to the peace keeping initiatives, have already been destabilized by the U.S. covert and overt subversion. The partition of Yugoslavia can very well became a second Munich for Europe. It is obvious that Washington is seeking to impose its absolute authority over the rest of the world. To achieve this aim United States will have to effect the complete subversion and forcible destruction of the machinery of government and structure of society in , above all, former socialist countries and their replacement by an apparatus and structure subservient to and controlled from Washington.

Hitler left the League of Nations preparing for aggressive wars; United States strategy on the other hand is much more dangerous - the subversion of the United Nations to further the same end . Recognizing the changing nature of the United Nations in the post 1991 era and the issuing crisis of legitimacy, one of the founders of the National Salvation Front in Russia and the former editor of the Military-Historical Journal general B. Filatov wrote that
«When the National Salvation Front comes to power and that will happen very soon, we will leave the United Nations which has become a fascist punitive organization, an instrument of CIA. We will put our rockets on alert. Then we will see who will dare to attack Serbia.»(78) The necessary strategy for Russia and other European countries, Germany and France above all, must be a geopolitical project to create a new Grossraum - Pax Eurasiatica- in opposition to Pax Americana and its corollary , the New World Order, because only in opposition to the United States can Europe begin an independent geopolitical life and reach a genuine emancipation, writes Dugin. The purpose of a new Kulturkampf is to problematize the American hegemony as a threat to Europe as a historical formation in general and to its culture in particular. Finding the authenticity of European destiny and political life implies by necessity a rejection of any false claims of universalism advanced by the U.S., which to its substance is both an ideological facade and concealment of American particular national interests. European revival is conditioned upon the dissolution of NATO which today is solely an instrument of American control over its alleged allies and a pretext to maintain U.S. occupation forces in Europe /for more than one hundred years» as President Bush asserted. The strategical objectives of the U.S. controlled NATO have been defined by Wolfram Hanrieder in his book Germany, America, Europe(79) as a strategy of «double containment»: containment of the Soviet Union in the past on one side and of American allies on the other. «The logic of this strategy was put bluntly by Lord Ismay in his famous dictum about NATO’s purpose in Europe (which could have described the U.S. policies toward the Japanese) ‘Keep the Americans in, the Russians out, and the Germans down.’»(80) Europe as a collective entity must enter the famous hermeneutical circle and walking there must find the truth about its separate and unique collective existence which during the Cold War years has been concealed. As Heidegger has pointed out , the attempt to achieve national authenticity is always expressed in resoluteness and resoluteness is the true substance of Kulturkampf.

Dugin proposes the revival of the concept of Mitteleuropa, originally formulated by Friedrich Naumann, as an ideological platform for a new geopolitical orientation opposing Pax Americana and creating a competing Grossraum—Pax Eurasiatica— which will exclude and oppose the United States. Closely associated with the concept of Mitteleuropa is the specific political extrapolation of the Kultur/Zivilization dichotomy as formulated by Thomas Mann in his book “Reflections of a Nonpolitical Man”(81) in which he counterpoises German «culture» against largely Anglo-Saxon «civilization». Dugin elaborates on that dichotomy reaching the conclusion that not only Europe’s national interest differs from that of the United States but that also its cultural tradition is the antithesis of the hollow shell of «civilization» in the U.S. Whereas «culture» in European countries is expression of national identities and of organic historical tradition, the American «civilization» is the bearer of an all-embracing commercialism and consumerism whose penetration dissolves all national identities. A rather paradoxical conclusion emerges from the revival of the concept of Mitteleuropa namely an anti-West oriented Europe. Dugin sees the term West as largely an American ideological construct, an Atlanticist mold thrown over Europe, and regards de Gaulle’s decision in 1966 to withdraw from NATO’s integrated command, which, as de Gaulle emphasized, deprived France of her sovereignty, not only as the first assertion of European identity separate and different from that of the United States, but also as the first anti-West manifestation by an European country in the U.S.’s sphere of influence. De Gaulle emphasized that the American design has always been to transform a cohesive European community into a larger and looser Atlantic community under American control.(82) Recognizing that Atlanticism was virulently aggressive as ever, he was compelled to look for ways of resisting American hegemony in Europe. »There were two options: he could either take unilateral measures to challenge American hegemony or he could seek alternative partners with a common interest in breaking down hegemonic control.»(83) France’s withdrawal from the NATO’s integrated command become de Gaulle’s ultimate gesture of anti-hegemonism.

The failure of the Soviet Union, due to defeatist and de facto anti-national foreign policy of the Gorbachev administration, to condition the unification of Germany on her withdrawal from NATO, was a major self-inflicted political defeat affecting not only Russia but also Germany in the future. For Russia it means a weakening of its strategic potential and for Germany a lost chance to gain full sovereignty by not having foreign occupation forces stationed on her territory. And for Europe as a whole it signifies a lost momentum to replace NATO, i.e. American power projection and an instrument of containment against U.S.’s former allies, with a pan-European security system. In this perspective one must se the alternatives for Europe as envisioned by the Maastricht treaty which may lead to gradual unification: either a Federated Europe as a power projecting Grossraum or as an even more divided and weakened Europe under the oppressive and leveling effect of the American pseudo-universalism, which in substance will amount to an Atlanticist police state with the NATO’s strategy of containment directed toward the U.S.’s former allies. In the latter case the Maastrich treaty will lead to deligitimization of national sovereignties and to weakening and dissolution of national identities of member states. Instead of a new European self-identity, the result will be the creation of an amorphous space with obliterated national and cultural identities and functionally integrated into the American Grossraum. Already de Gaulle foresaw that possibility when he stated that if the United States is not opposed «at the end there would appear a colossal Atlantic community under American dependence and leadership which would completely swallow up the European community.»(84) Against the anti-European concept of Atlantic community, devised as an ideological vehicle for subjugation of independent European geopilitical existence, stands the concept of a Monroe doctrine for Europe, claims Alain de Benoist : «What bothers me is that I do not see the Maastricht Treaty leading to an autonomous, politically sovereign Europe determined to acquire the equivalent of what the Monroe doctrine was for the United States, but rather a phantom of Europe, a Europe a unemployment, absent and impotent, a free trade zone governed on the theoretical level by ultra-liberal monetary principles and, on the practical level , by administrators and bankers who neither have a political project nor democratic legitimacy...Nietzsche said: «Europe will create itself on the edge of a tomb». For my part, I believe it will create itself over and against the United States, or it will not create itself.»(85) In historical perspective the Anglophone powers , Great Britain in the past, United States now, have always been an obstacle to consolidation of Europe and thus a true geopolitical adversary. «The urge to evict the Americans, and before us , the British from the Continent has deep roots in reaction to the role of the English-speaking countries in foiling every attempt to unify Europe since the Renaissance. With the exception of the more misguided members of the House of Stuart , every English-speaking head of state from Elizabeth Tudor to Harry Truman opposed the consolidation of the Continent. Elizabeth I fought Spain; from the time of Marlborough to the time of Wellington the English fought France; from Asquith to Churchill and Roosevelt the «Anglo-Saxon» fought Germany. Even when American policy shifted under Truman to support the peaceful integration of Western Europe , it was out of desire to fend off the greater menace of the Soviets...The positive contribution to European civilization of the old «divide and rule» policy cannot, however, disguise its essentially negative goal. The British sought to keep the Continent embroiled in quarrels while they assembled a global empire and grew rich. The United States relied on Britain to maintain a European balance that kept the Europeans from interfering in the New World while we, like our British cousins, traded freely with all quarters of the globe...In the twentieth century the Elizabethan realpolitik of the Anglophone powers acquired a Wilsonian overlay...The Elizabethan and the Wilsonian policies remain at the core of American interests today. As good Elizabethans, we understand that it is not in America’s interests...for European integration to take place under the hegemonic leadership of a single power, whether this power is based in Moscow or Berlin. Nor would it be in America’s interests for European integration to proceed in such a way as to create a single hegemonic power center in Brussels»(86). The grand design of the United States, particularly now, when Washington is aggressively advancing the plans to globalize NATO, and thus its Monroe doctrine, is the Latin-Americanization first of the former socialist countries, including Russia and second, of her former West European allies. And as long as United States is not displaced from her position of hegemony in Europe and ultimately driven out of Eurasia, European countries will never acquire that which is necessary for independent geopolitical existence. A federated Europe with American military forces on its soil is no more than an obedient satellite. During the 60-ties de Gaulle warned against a supranational Europe of the Common market which he then considered a divided Europe under the mentorship and hegemonial design of the United States. Reading Dugin one may paraphrase Bismarck and say that if the power of Russia is ever broken , it will be difficult for the former members of the socialist block to avoid the fate of Poland in the past that is the destiny of divided and contested area to be claimed by the United States as «glacis and perimeter of battle». By the same token a weak Russia may spell weakness also for other European countries. But does it mean that Dugin envisions a sort of a new Rapallo treaty(87) as a political foundation for a new geopolitical orientation? I can agree with Rudolf Barho’s assertion that »A new Rappalo would break Western Europe from North America«.(88) However, a new Rapallo can only be used as a metaphor for diplomatic and political initiatives that may lead to a possible alliance between Germany, France, Russia and China as central powers. A new equivalent of Rapallo treaty is a geopolitical and existential imperative for Europe, a fundament for future continental unity and continental defense against American expansionism, against the pseudo universalism and totalitarian claims of the American Imperium Monde. Dugin’s concept of a new European geopolitical orientation resembles de Gaulle’s visions during the ‘60s. Rejecting American hegemony de Gaulle conjured an alliance, an European coalition, which, without infringing on the sovereignty of the member states would constitute an alternative European Grossraum. He recognized that the ideology of Atlantic unity is in fact the ideology of American domination and counterpoised his concept of European unity which today only can be seen as America free Europe. However de Gaulle recognized that a genuine European alliance could not be created without there being in Europe today a federator with sufficient power, authority and skills.(89) At that time there was no such strong federator. In his memoirs de Gaulle noted that «The American President’s (F.D. Roosevelt) remarks ultimately proved to me that, in foreign affairs, logic and sentiment do not weight heavily in comparison with the realities of power; that what matters is what one takes and what one can hold on to; that to regain her place, France must count only on herself».(90) United States believed that the Frenchmen «in a grip of sort of neurasthenia would gradually relax into the status of an American protectorate...The alternative, as de Gaulle constantly proposed it, was for Frenchmen to continue the arduous struggle for national self renewal until they again became masters of their own fate.»(91) In his advocacy of a new continental geopolitical orientation and in his definition of Pax Eurasiatica, Alexander Dugin criticizes and rejects the old ideology of Panslavism. The difference between the Panslavism and Eurasianism is summarized by him as a difference between two principles — «the principle of blood» and «the principle of soil (realm)». For the Panslavism the emphasis is on the concept of ethnic identity—in other words the primacy of blood over the soil. For the traditional Eurasianism on the other hand, the land takes precedence: as ideology it expresses the primacy of the soil over the blood. «It presupposes the ideological choice of continental, Eurasian values over narrow ethnic or racial values.»(92) A further differentiation of the concept of Eurasianism can be made by distinguishing between two sub directions of the Eurasian ideology.

The first one is centered on the notion of a specific Eurasian identity—the concept of polyphonic ethos of Russia—defined in terms of ethos and land.(93) The second one defines Eurasianism in terms of geopolitical realities and necessary geopolitical strategy, also in terms of realm and Grossraum. The emphasis here is on the land power status of Russia as opposed to the atlanticist sea power status of the United States. Alexander Dugin is a proponent of this definition of Eurasianism. From a geopolitical point of view the past observation of Halford MacKinder that the greatest danger to Anglo Saxon hegemony would be a political union and a geopolitical block of Russia and Germany, bears particular relevance. The concept of Eurasian resistance against the dictates of the American New World Order and the global American hegemony articulates the geopolitical and the national meta— existential necessity to create such geopolitical block able to stop the steamroller of the New World Order.

An additional aspect of Dugin’s analyses of geopolitical orientations and strategies concerns the future relationship between Russia and Islam. The starting point is Robert Steuckers view that Russia must make a common cause with Iran against American interests.(94) Continental, Islamic — revolutionary Iran is contrasted with the Atlanticist secular Turkey and the Arabic theocratic variant of Islam of Saudi Arabia. Turkey is the primary agent of American influence in the region and a virtual colony of the U.S., an Asian forpost of American geopolitical interests which serves as a cordon sanitaire between the Asian East of Russia and the Arab world. A conflict between Russia and Islam countries is the main purpose of the U.S. foreign policy, a main conduit for which is Turkey.

A similar roll serves also Saudia Arabia, a country which in fact must also be seen as an American colony. The interests of Saudy dynasty and of the American Atlanticism coincide, forming a bullwark against creation of an Arabic Great Area. Through the control of Saudi Arabia U.S. controls the supply of oil. And the U.S. controlls the economy of Europe through control of the oil in the Gulf region. Therefore, to counterbalance American hegemony in the region, Russian foreign policy must be oriented toward Iran, asserts Dugin.

In today perspective the events of 1991 are of paramount importance because, as Dugin points out, 1991 is the year of destruction of the Eurasian Grossraum, the only one that possessed resources to withstand American expansionism and which consisted of all countries belonging to the socialist block. Central Europe in general and Germany in particular, as geopolitical entity are only a pure potential at present time. Central Europe can constitute itself in the future only in alliance with Russia which occupies a unique position as a centrum of the Eurasian continent, as a Heartland. Russia occupies also a key strategical and geographical position in the world with its huge landmass and human potential. A new geopolitical orientation must take into account the so called Atlantic factor which Dugin in length discusses.

The Atlantic factor is the United States strategy to impose her will on former Soviet republic and socialist countries and to transform those into satellite countries in the American orbit, linking them into a Cordon Sanitaire around Russia. Certainly one can already see the shadow of the Atlantic masters over the Baltic republics. As the Russian jurist Vladimir Ovzinski asserts the «CIA already works totally in the open in Lithuania , not only through American Embassy in Vilnius but also through American advisers to the Supreme Council of the Republic. And the situation is similar in both Latvia and Estonia».(95) The Atlantic factor is a geopolitical consequence of what William Appleman Willams has called the American «frontier thesis» —the perpetual expansionism in pursuit of new western frontiers.

United States has a perspective for real world hegemony only if no competing Grossraum is allowed to arise. Therefore both NSC-68 after the end of the WWII and its mirror image—the Pentagon Planning Guidance after the «end» of the Cold War, envision control or destruction not only of any competing Grossraum but also any geopolitical area which can consolidate itself in the future into power projecting Grossraum. The conclusion is that the primary objectives of the American geopolitics are to destroy any potential geopolitical alliance as well as to prevent its building. To paraphrase Clemenceau the American politics of peace vis-?-vis Russia are nothing else but continuation of war with other means. The Cold War has been replaced by Military Peace. Therefore creation of Cordon Sanitaire around Russia, which by necessity mandates the conquest of the second Europe—Eastern Europe—under the guise of enlargement of NATO, is the most important objective of the American foreign polic

Cordon Sanitaire consists of territory of countries and people situated between two geopolitical blocks. It is created by virtue of hegemonic control or, as in the American creation of a puppet Bosnian state in the failed attempt to create a Georgian state under Schevernadze, and in the war in Chechnya, with outright force and subversion. The countries that potentially will be included in the Cordon Sanitaire are those countries whose unity or membership in a competing Grossraum would constitute a geopolitical disadvantage to the United States.

United States is actively pursuing her double-edged foreign policy objective of further expansion of her extra-territorial jurisdiction and transformation of former socialist countries into a Cordon Sanitaire through plans outlined by the Secretary of Defense Les Aspin at the NATO meeting in Travem?nde on October 21, 1993 to expand the North Atlantic Treaty Organization by inclusion of former members of the Warsaw Pact.

Cordon Sanitaire in the beginning of this century consisted of countries situated between Russia and Germany and were controlled by England. Those countries, being an agent and tool of the Anglo-Saxon West, were breaking the Grossraum of Mitteleurope and the Grossraum of Russia. In present days the perfidious Albion has been replaced by the perfidious Washington and the American objectives can be summarized as assertion of hegemonic control and transformation of former Soviet republics into virtual American colonies in which, with employment of coercive measures: subversion, terror, aggression, economic warfare, United States will install marionette rulers without any trace of political independence. Or as Noam Chomsky puts it «One consequence of the collapse of the Soviet block is that much of it may undergo a kind of ‘Latin-Americanization’ , reverting to the service role, with the ex-Nomenclatura perhaps taking the role of the Third World elites linked to international business and financial interests»(97)

In conjunction with this it is important to bear in mind that American attempts to partition Russia and gain control of her huge natural resources predate the Cold War period and NSC-68. In October of 1918 the American government drafted secret commentaries to President Wilson’s 14 points which outlined U.S. plans to partition Russia into small regions in order for the United States to assert her hegemony and gain control over Russian territories and natural resources in Siberia and Caucasus. On the map prepared by the Department of State titled «Proposed Borders of Russia» and presented by President Wilson at the Paris Peace Conference, all that is left of Russia is her central part , the Mid-Russian Plateau. In an appendix to the map it was stated that «All Russia must be divided into large natural regions, each with its own economy. However none of those regions should be sufficiently independent to build a strong state».(98) Those long-standing American plans make it even more urgent for Russia to make a decisive geopolitical orientation. Of course, if President Yeltsin turns out to be a Russian Quisling,(99) and his September 21,1993 coup with subsequent destruction of the Russian Parliament most certainly suggests this possibility(100) , then the prospects for a new geopolitical orientation will become more difficult to realize. In his 1938 study “Ueber das Verhaeltnis der Begriffe Krieg und Feind”, Carl Schmitt, anticipating the future of the Cold War, described the world as moving toward an ‘intermediary situation between war and peace’, a kind of a bellicose peace which is neither war nor peace, which Carl Schmitt called military peace, i.e. a world condition of global confrontation which tends to take the form of a total war. In “Totaler Feind, Totaler Krieg, Totaler Staat”, published in 1937, Carl Schmitt related the idea of total war to the idea of total State, a war that «will be total for two reasons. First because it would not be localized in the sense that it would enfold in on a battle field, but it would be spread across the entire planet including sidereal space. Next, because it would not only be military, given that all the activities -scientific, technological, economic-and all of the material and ideal aspects of existence will be directly implicated in this gigantic conflict. Protected zones will no longer exist since both the military and the non-military will be engaged in this conflict. Politically speaking, there will no longer be a distinction between those who fight and those who do not».(101) During the Cold War two kind of Grossraum confronted each other- the existential categories of friend and enemy applied also to the concept of Grossraum- and out of that confrontation a world order build on plurality of Grossr?ume was maintained. However the end of the Cold War did not lead to revival of the concept of state sovereignty but to renewed attempt to universalize the ordering principles of the American Grossraum and establishment of a Monroe Doctrine for the whole world- an overriding objective of American foreign policy since the time of President Willson- under the slogan of a New World Order. Alexander Dugin equates the New World Order with American world wide hegemony, which, in order to be established, requires the totalization of the ‘intermediary situation between war and peace’, i.e. a new Cold War with different ideological justification but with the same aim: total American world domination. «The total war, previously localized in the Cold War confrontation between U.S. and the Soviet Union, is the essence of American universalism. Military peace is the present substance of the New World Order with which Russia and other countries are confronted now and the American implementation of this New World Order can only lead to a new total war.»(102) As a paradigmatic figure of Russian resistance to the New World Order, of what he calls the Endkampf, Alexander Dugin takes the symbol of the Russian partisan. The phenomenon of partisan is for Carl Schmitt «a paradigmatic figure for the decomposition of the classical Nomos and for the appearance of bellicose peace. The figure is remarkable because it still has a landlocked reality-described by Schmitt as its ‘telluric character’»(103) The partisan embodies the concept of Resistance, his physical existence is overshadowed by his political existence- Existenze des Wiederstand- and he takes his law from hostility, i.e. from his sense of supreme distinction between friend and enemy. His struggle is against the New World Order, its dictates and its total claim of annihilation of Russian future. For Dugin the American New World Order is a triumph of global totalitarianism. The Partisan is the answer to the illegitimate legality of the New World Order. «In the condition of the state of emergency, in the intensifying atmosphere of ‘military peace’ or ‘peaceful war’, the defense of national soil, history, people and nation are the sources of his legitimacy. He heralds the beginning of a total war with the total enemy...In Russian history his prototype is the partisan during the war against Napoleon, the partisan of the World War II, the resister to the Nazi German New World Order. Now he is the resister of a new New World Order- the American. The partisan is the harbinger of the healing power of national soil and historical national space of the Russian people. In the post-Cold War period of intensifying ‘military peace’ only the Russian partisan can show the way to a Russian historical future». (104) However the only viable alternative to the totalitarian globality of the New World Order is the reconstitution or creation of a new Grossraum opposing American world empire and the emancipation of the principles of international pluralism. The pseudo-legality of the New World Order must be confronted by a new alternative legality. Against the all-embracing American pseudo-universalism must stand the will-formation of national particularism and mobilization of geopolitical resistance. Against the steamroller of the American New World Order and the American invasion in the geopolitical vacuum of Eurasia after the destruction of the Soviet Union a new continental geopolitical unity must be consolidated resulting in proclamation of a Monroe doctrine for Europe. Therefore, referring to the Pentagon’s Defense Planning Guidance, Alexander Dugin writes: «The overriding objective of the United States is to prevent the creation of any real geopolitical alternative. Therefore our main objective must be the creation of any new geopolitical alternative.» This is a good point of departure because it presupposes the concept of the political. And after all, to paraphrase Heidegger, the political is the house of Being.




ENDNOTES

(1) Gyorgy Lukacs -The Destruction of Reason (Humanities Press, Atlantic Highlands, 1981 at pp.765,770.
(2) Martin Heidegger -Being and Time (Harper and Row, New York, 1962) at p. 347.
(3) Carl Schmitt - The Concept of the Political (Rutgers University Press, New Brunswick, 1976) at p.p.19, 26.
(4) Nikolaj Zagladin -Pochemu zavershilas ‘holodnaja vojna’ - Kentavr, January/February 1992, Moscow, pp. 45-60
(5) Zbignief Brzezinski -The Gold War and Its Aftermath -Foreign Affairs, Fall 1992 (Council on Foreign Relations, New York) - at p. 32
(6) Zbigniew Brzezinski - ibid. at p. 34
(7) George F. Kennan-The Failure in Our Success -New York Times, March 14, 1992, p. A17
(8) The Treaty of Brest-Litovsk , signed March 3, 1918, ended the war between Soviet Russia and Germany. As a result of the treaty Soviet Russia was partitioned and lost 34 percent of the population and 54 percent of the industrial production. According to the terms of the treaty Germany, enlarging her Lebensraum, was to occupy Ukraine , Byelorussia, Caucasus , the Baltic provinces etc. With the defeat of Germany the treaty was repudiated.
(9) Thomas H. Etzold and John Lewis Gaddis Containment. Documents on American policy and Stategy, 1945—1950 (Columbia University Press, New York, 1978) p. 196. NSC 20/1 was subsequently incorporated in the infamous NSC 68. On this subject in Russian debate see Nikolaj von Kreitor Geopolitika holodnoj vojny , Juridicheskaja gazeta No. 26, 1996, Moscow.
(10) Wolfram Henrieder -Germany, America, Europe (Yale University Press, New Haven, 1989) - at p. 17
(11) Here quoted after Ronald Steel -Pax Americana (The Viking Press, New York, 1967)- at p.p. 79-80.
(12) Lenin Collected works, vol. 41, p.p. 353-354
(13) Voprosy sotsiologij , nr 1, 1992 (Moscow )
(14) Alexander Dugin -Carl Schmitt –piat’ urokov Rossii (Nash Sovremmennik, nr. 8.1992, Moskow)
(15) Alexander Dugin - ibid , at p.p. 129, 130,135
(16) Agnes Heller has analyzed the problem of a meta-existential choice of a nation in a context of friendfoe dichotomy in the essay The Concept of Political Revisited , published in Political Theory Today , edited by David Held (Stanford University Press, Stanford, 1991).
(17) Carl Schmitt -Verfassungslehre (Duncker&Humblot, Berlin 1970) - at p. 50. Schmitt writes further that «because every being is a particularly-constituted being, every concrete political existence has some sort of constitution. But not every politically existing force decides in a conscious act concerning the form of this political existence and succeeds in consciously determining the concrete type of its political existence as did the American states with their Declaration of Independence and the French nation in 1789. ibid. p.23 .See also G.L.Ulman -Anthropological Theology, Theological Anthropology (Telos, Nr.93, Fall 1992, New York) at p. 71.
(18) G.L. Ulmen Anthropological Theology...ibid p.71,72; Carl Schmitt Verfassungslehre -ibid.p.372.
(19) Carl Schmitt Verfassungslehre ibid. p. 22
(20) Carl Schmitt The Concept of the Political
(21) Alexander Dugin- Carl Schmitt, pjat’ urokov Rossii- ibid. p. 131, 132
(22) Herbert Marcuse «Contribution to the Phenomenology of Historical Materialism» (Telos, Number 4, 1969), here quoted from Richard Wolin «Introduction to Marcuse and Heidegger» (New German Critique, Number 53, 1991, New York) p. 23
(23) For a discussion on Heidegger’s concept of hermeneutics in Being and Time se Richard Palmer Hermeneutics ( Northwestern University Press, Evanston, 1969)
(24) Aaron L. Friedberg-The Future of American Power (Political Science Quarterly, Vol.109, Spring 1994) at p. 17.
(25) Colonel Victor Alsknis’ father general Jacov Alsknis has been a close friend of marshal Mikhail Tukhachevski; in 1937 general Alsknis participated in the military commission investigating the treason charges against Tuchachevski.The transcript of the commission’s proceedings, classified secret, has never been released. First in 1990, after the intervention of the then Chairman of the KGB Krutchkov, colonel Alsknis gained access to the transcripts and after reading them came to the conclusion that during the 30-ties there was a pro-German conspiracy in the Red Army in which marshal Tukhachevski participated. Alexander Dugin claims that marshal Tukhachevski was a member of Nordlich Light- Elementy -at p.p.10,11.
(26) Zbigniew Brzezinski A Plan for Europe (Foreign Affairs, January/February 1995) p. 26
(27) Joseph W. Bendersky -Carl Schmitt (Princeton University Press, Princeton, 1983), at p.253.
(28) G.L. Ulmen - American Imperialism and International Law: Carl Schmitt on the US in World Affairs- Telos, Nr. 72, Summer 1987; se also Carl Schmitt- Voelkerrechtliche Grossraumordnung, op.cit., p.20.
(29) Rudolf Kjellen Der Staat als Lebensform (Berlin, 1924) p. 139. Kjellen writes that the autarchic principle envisions the geopolitical space of the state as «People’s Home». The principle of autarchy «is a reaction against the industrialist type of the nineteenth century. The latter was fundamentally cosmopolitan; in the name of free trade it exposed national households to competition on the world market where the strong always succeeded in swallowing the weak. Its first setback occurred with the adoption of the protectionist system during the second half of the century. Here the state acts in defense of the household (People’s Home). It blocks the road to foreign conquerors by tariff walls behind which national economy can prosper like a true nursery protected from the storm of the sea...The autarchic principle ... replaces «open doors» with «closed spheres of interest» Ibid. p.p. 139, 140. In contemporary perspective the autarchic principle and concept of protected geopolitical space conceived as «People’s Home» is the antagonistic opposite of the American «open door» imperialism.
(30) The concept of Grossraum is discussed in Nikolaj von Kreitor Problemy bol’shich prostranstv i buduschee Rossii Nash Sovremennik, No 3 , 1996, Moscow and Nikolaj von Kreitor Stoletie novogo mira. Universalizm protiv pljuralizma, Kentavr, No. 6, 1995, Moscow.
(31) The National Security Council Memorandum 68 (NSC-68 ) promulgated in 1950 called for a roll-back strategy aiming to hasten the decay of the Soviet system from within and to foster the seeds of destruction within the Soviet system by a variety of covert and other means that would enable the U.S. to negotiate a settlement with the Soviet Union or a successor state or states. The memorandum further called , adopting the objectives of Hitler, to dismantle the Soviet Union into smaller states-se also Noam Chomsky -On Power and Ideology (South End Press , Boston, 1987) at p. 15. In different articles published during 1991 and 1992 in the Moscow newspaper Denj (DAY) have surfaced assertions that during the years of the so called. Perestrojka United States has invested more than 50 billion dollars for covert subversion in the Soviet Union.
(32) Elementy , Number 4, 1993, p. 33
(33) Halford McKinder Democratic Ideals and Reality (W.W. Norton & Company, N.Y. 1962) p. 150
(34) Se Gerald Chaliand, Jean-Pierre Rageau-Strategic Atlas-(Harper Perennial, N.Y. 1992)- at p. 30
(35) Halford MacKinder The Round World and theWinning of the Peace , Foreign Affairs, 21 , New York, 1943. p.p. 595-605. The article is included in the book Democratic Ideals and Reality. See also W.G. Fast How Strong is the Heartland, Foreign Affairs, 29, New York, 1950 p.p. 78-93 and D.J. M. Hooson A New Soviet Heartland , Geographical Journal , 128 (1962) p.p. 19-29.
(36) Peter J. Taylor Political Geography (Longman, London, 1985) p. 42
(37) Richard Muir Modern Political Geography (John Wiley & Sons, New York, 1975) p. 195. For geopolitical analysis in Russia see E. A. Pozdnjakov Geopolitika (Progress-Kuljtura, Mpscow, 1995. Nikolaj von Kreitor Ot doktriny Monro do Novogo Mirovogo Porjadka , Molodaja Gvardija No 9, 1995, Moscow and Nikolaj von Kreitor Amerikano-fascistkaja geopolitika na sluzhbe zavoevania mira, Molodaja Gvardija No. 8, 1996, Moscow.
(38) See James C. Malin The Turner-MacKinder Space Concept of History in Eassays on Historiography (Lawrence, Kansas, 1946) p.p. 1-45; Per Sveaas Andersen Westward in the Course of Empires. A Study of the Shaping of an American Idea: Frederick Jackson Turner’s Frontier (Oslo University Press, Oslo, 1956).
(39) See William Appleman Williams The Contours of American History (W.W. Norton & Company, New York, 1988) p. 17.
(40) David P. Calleo Europe’s Future. The Grand Alternatives (W.W. Norton & Co, New York, 1967) p.p. 89,90.
(41) Carl Schmitt claimed in his book Land und Meer that world history is the history of perpetual conflict between land powers and sea powers.
(42) Alexander Dugin Konspirologia (Arktogej, Moscow, 1993) p.p. 92, 93
(43) Alain de Benoist , Den’ No 1(29) , Moscow, 1992
(44) Elementy nr 3, 1993 - at p. 18
(45) Patrick E. Tyler- U.S. Strategy Plan Calls for Insuring No Rivals Develop - New York Times, March 8, 1992, p. 14
(46) Excerpts from the document published in New York Times , March 8, 1992
(47) Patrick E. Tyler - US Strategy Plan...
(48) President Bush stated after the November 7-8, 1991 NATO summit in Europe that security interests of the United States and Europe were indivisible and, therefore , the Atlantic alliance could not be replaced even in the long run and also that the United States presence in Europe would be needed for a century of so. see Ted Carpenter-- In Search for Enemies-(CATO Institute, Washington D.C. 1992, at p.p. 11-12; also White House, Office of Press Secretary, Press Conference by the President, November 8, 1991, transcript, p.1.
(49) H. J. von Lochhausen - The War in Iraq - a War Against Europe - Elements p.p. 34,35,36. von Lochhausen asserts also that the war against Iraq, i.e. a war for the control of the oil , was planned a long time in advance and its blueprint was worked out by Henry Kissinger and published in 1975 in the magazine Commentary and later in Harper’s Magazine.
von Lochhausen writes points out that studies of American relations with her allies show that U.S. is prone to take advantage against them i.e. using the war as a vehicle to transform her allies into vassals. In both W.W.I and W.W.II the American participation was largely parasitic. While the allies made the decisive efforts the United States reaped the fruits of the victory . See Elementy - ibid p.p. 35, 36. It is interesting to note that both right-wing and left-wing interpretations of the Gulf War coincide in their condemnation of American expansionism. For a left-wing parallel to von Lochhausen see Dario Da Re, Rosanna Munghiello and Dario Padovan Intellettuali, sinistra e conflitto del Golfo: un’interpretazione retrospettiva del dibattito (Altreragioni, No. 2,1993) p.p. 151-174.
(50) Samir Amin -U.S. Militarism in the New World Order-Polygraph, 5/1992 (Durham, NC) -at p.23
(51) 1963 Proceedings of the American Society of International Law 13. Discussing further the legal justification of the Cuban quarantine in 1962, Dean Acheson emphasized that « I must conclude that the propriety of the Cuban quarantine is not a legal issue. The power, position and prestige of the United States has been challenged by another state; the law simply does not deal with such questions of ultimate power., se also Noyes Leech, Covey Oliver,Joseph Sweeney-The International Legal System- at p. 105.
(52) Charles de Gaulle -Unity, Documents (Simon & Schuster, New York 1960) -at p. 269. Se also David Calleo- Europe’s Future. The Grand Alternatives (W.W. Norton & Company , New York,1967) - at p.112.
(53) The memory of the American intervention in Soviet Union in 1918 in Archangelsk and Vladivostok in the Far East prompted by the U.S. interest to gain control of the natural resources of Siberia as well as by senator Lodge plan to divide Soviet Union into smaller states in order for the United States to gain control over Ukraine has resurfaced and the issue have been debated in the mass media. See on this subject A. Nevins-Nenry White: Thirty Years of American Diplomacy, N.Y. 1930, p.354; Ljudmila Gviashvili-Sovietskaja Rossija i Soedinennije Schtaty 1917-1920 -(Foreign Relations Publishing House, Moscow,1970.)
In the Russian debate it has been pointed out that the objectives of the U.S. foreign policy will be to achieve strategic superiority in the field of nuclear armaments and through aggressive and adventurous foreign policy initiatives to force Russia to further unilateral disarmament and even to attempt to gain control over the nuclear potential of Russia which is the only deterrent that prevents an outright intervention.
(54) U.S. Peacekeeping Policy Debate Angers Russians-N.Y.Times, August 29, 1993. An editorial in Krasnaja Zvezda or Red Star, the magazine of the Russian army called Directive 13 ‘outrageously cynical and a direct and unceremonious interference in the domestic affairs of Russia.’ Although U.S. opposes a Russian Monroe Doctrine it is in a process of unilaterally extend its Monroe Doctrine to include former members of the Warsaw Pact as well as Baltic countries, which in the new American doctrinal thinking are to form a Cordon Sanitaire surrounding Russia- se N.Y. Times, February 17, 1992.
(55) What the Monroe Doctrine meant for other Latin American countries was the freedom of U.S. to rob and exploit those countries.- Noam Chomsky - ibid. op. cit. p. 7.
(56) Hegel -The Philosophy of Right Oxford University Press, London,1967) p.p. 208-216.
(57) Noam Chomsky - ibid. at p. 14
(58) G.L. Ulmen - ibid. at p. 59, 60
(59) Y. Semenov- Fashistkaja geopolitika na sluzhbe amerikanskogo imperializma (Gospolitizdat, Moscow,1952)-at p.32.
(60) Ferdinand Czernin -Versailles 1919 (Capricorn Books, N.Y. 1964) at. pp.404-406
(61) «Treaties should be designed to promote United States interests by securing action by foreign governments in the way deemed advantageous to the United States. Treaties are not to be used as a devise for the purpose of effecting internal social changes... in relation to what are essentially matters of domestic concern» and the United States being the sole judge of what constitutes domestic matters - see Department of State Circular No. 175, (December 13, 1955), reprinted in 50 Am. J. Intl. L. 784(1956).
(62) Carl Schmitt -V?lkerrechtliche Grossraumordnung... p. 43.
(63) Noam Chomsky - Terrorizing the Neighborhood. American Foreign Policy in the Post-Cold War Era (AK Press, Stirling and San Francisco , 1991) - at p. 24.
(64) se The Holy Alliance - Time magazine, February 24, 1992- at p.32
(65) Times- ibid. - at p. 29
(66) Noam Chomsky -Terrorizing the Neighborhood - at p. 19.
(67) Helsinki Accord, Declaration on Principles Guiding Relations between Participating States. The full text is published in Thomas Buergenthal (ed) -Human Rights, International Law and the Helsinki Accord-(Allanheld, Osmun/Universe Books, New York, 1979) at pp.161-165
(68) William Safire -Bosnia vs. the United Nations - N.Y.Times. , August 9, 1993
(69) N.Y.Times , August 2, 1993 - at p. A3
(70) N.Y.Times. , Aug. 5, 1993 - p.1.
(71) Newsweek, August 28, 1993
(72) See Pravda, March 30, 1995
(73) N.Y.Times, September 12, 1993
(74) Article 52 (Coercion of a State by the threat or use of force) of the Vienna Convention of the Law of Treaties of May 22, 1969 states «A treaty is void if its conclusion has been procured by the threat or use of force in violation of the principles of international law embodied in the Charter of the United Nations.»
(75) Pravda 5, No. 24, 1996, p. 10-11. Interview of General Galuas by Jole Stanischic.
(76) In Russian debate the Haag War tribunal has been described as an instrument of continuous aggression, to paraphrase Clausewitz, as war with other, judicial means, a tribunal set up by the war criminals in Washington to justify the American territorial conquests under the guise of establishment of a New World Order—a Monroe Doctrine for the whole world—, and persecution Serbs— the partisans of the Resistance against dictates of the New World Order. A historical equivalent of Hague Tribunal would have been a tribunal set up by Nazi Germany to persecute the partisans of the Resistance during an earlier version of the New World Order- Hitler’s. General Gallois , one of the organizers of the Resistance movement in France, fully realizes the absurdity of Hague Tribunal.
(77) Pravda 5, ibid.
(78) See Novoe Russkoe Slovo , March 23, 1993- at p. 9.
(79) Wolfram Henrieder -Germany, America, Europe (Yale University Press,New Haven,1989
(80) Hans W. Maull -Germany and Japan: The New Civilian Powers (Foreign Affairs, Wintern 1990/91, Council of Foreign Relations, N.Y. 1991) - at p. 93.
(81) Referring to Goethe Thomas Mann defines culture as « intellectualization of the political» and expression of the identity and self-realization of a nation: »The nation is not only a social being; the nation, not the human race as the sum of individuals, is the bearer of the individual, of the human quality; and the value of the intellectual-artistic-religious product that one calls national culture...that develops out of the organic depth of national life-the value, dignity and charm of all national culture therefore definitely lies in what distinguishes it from others, for only this distinctive element is culture, in contrast to what all nations have in common, which is only civilization. Here we have the difference between individual and personality, civilization and culture, social and metaphysical live». Thomas Mann Reflections of a Nonpolitical Man (Frederick Ungar Publishing Co, N.Y. 1983)- at p. 179.
(82) Andrew Shennan -De Gaulle (Longman, New York, 1993)- at p. 118.
(83) Andrew Shennan - ibid , p.118.
(84) David P. Calleo Europe’s future. The Grand Alternatives (W.W. Norton & Company, New York, 1967) p. 90
(85) Interview with Alain de Benoist , Le Monde, 15 Mai, 1992 (Paris)
(86) Walter Russel Mead The United States and the New Europe (World Policy Journal, New York), Winter 1989-90 p.p. 53,55,56
(87) The Rapallo Treaty was concluded on April 16, 1922 between Germany and the Soviet Union. It allowed the Soviet Union to break the monolithic capitalist encirclement by the Versailles powers while for Germany it signified the road to revision of what was perceived as the Versailles dictate. Discussing the possible political orientation of Russia in the future , Dugin elaborates on the issues of a Russian-German Sonderweg as a historical background to a common political union.
(88) Rudolf Bahro -Rapallo-Why Not- (Telos, No. 51, Spring 1982, N.Y.) - at p. 125.It is interesting to note that the German Foreign Minister Klaus Kinkel stated during his a meeting in Bavaria with his Russian counterpart Andrej Kozyrev that «Creation of a partnership axis Bonn-Moscow is an objective for German foreign policy»—Izvestija, Moscow, August 24, 1993.
(89) David Calleo -Europe’s Future -ibid. p.89; se also de Gaulle-Unity- ibid. pp.176-177.
(90) Charles de Gaulle Unity ibid. p. 271
(91) David Calleo Europe’s Future ibid. p. 124
(92) Alexander Dugin Konspirologija ibid. 96 . Dugin refers to the works of Konstantin Leontief in which the primacy of the principle of land over the principle of blood was first articulated.
(93) In contemporary Russian political discourse the main proponent of this notion has been Lev Gumilev.
(94) Robert Steuckers The Asian Challenge, Elementy , nr 3, p. 24
(95) Vladimir Ovzinski -Konterperestrojka -Nash Sovremennik -5-1992, Moscow, at p.128.The author who has made interviews with a large number of former KGB operatives from Lithuania, claims on the basis of those interviews that U.S pursues four different objectives:1.Assertion of American hegemonical interests in Lithuania in opposition to German interests. 2. Subversion of what CIA perceives to be a Communist opposition as well as organizations defending the interests of the Russian minority in the country. 3. Collection of materials concerning former Lithuanian KGB operatives in order to either persecute or recruit them. 4. Sending of recruited agents to other former Soviet republics.
(96) See Elaine Sciolino- U.S. to Offer Plan on a Role in NATO for Ex-Soviet Block -N.Y. Times, October 21, 1993; Stephen Kinzer- NATO Favors U.S. Plan for Ties With the East, but Timing is Vague-N.Y.Times, October 22, 1993. President Clinton made a formal proposal for the expansion of NATO at the NATO’s summit meeting in January of 1994.
(97) Noam Chomsky -A View from Below in Michael Hogan -The End of the Cold War (Cambridge University Press, New York 1992) at p.142.
(98) Y.Semenov -Fascistkaja geopolitika -ibid. p. 29
(99) General Victor Filatov compares Yeltsin with the W.W.II traitor general Vlasov-see Denj, Nr 25, 1993, Moscow, June 27, 1993. Stephen Cohen points out that since 1991 the U.S. policy has been characterized by a steadily escalating interventionism in the Russian domestic matters which has created the impression among patriotic movements that Yeltsin’s government is a U.S. sponsored ‘occupation regime’. United States interventionism resulted in a resolution passed on March 21, 1993 by the Russian Parliament condemning the American interference in the internal affairs of Russia. «The Clinton Administration has steadily escalated this kind of interventionism-by contriving the April Vancouver summit as an attempt to ‘help Yeltsin’ in his ongoing conflict with the Parliament, by supporting the Russian President’s threats to disband the legislature , by endorsing Yeltsin’s effort to seize dictatorial or special powers from virtually all of Russia’s other democratic institutions and even by suggesting that Clinton might go instead to Moscow for a solidarity summit with Yeltsin. The result has been to put U.S. government in very bad institutional company. Opposed to Yeltsin’s power grab was not only Russia’s Parliament but also its Constitutional Court, Attorney General, Justice Minister and Vice President.»- see The Nation, April 12, 1993 , at p.p.477,478.
(100) The events surrounding the September 21, 1993 coup allow for the impression that Yeltsin undertook the coup in collusion with the United States and, not unthinkable, on instigation of the United States.
(101) Julien Freund-The Central Themes in Carl Schmitt’s Political Thought ,Telos, nr 102, New York 1994, at p. 31
(102) Alexander Dugin- Carl Schmitt. Pjat’ urokov Rossii-ibid. at p. 134
(103) Julien Freund - ibid. p. 31
(104) Alexander Dugin- ibid. p. 134

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New York 1994-96
This article was initially published in abreviated form in the American political journal "Telos" and in different version has been published in other journals.
The full version was published in German: "Rusland, Europa und Washingtons Neue Welt-Ordnung. Das geopolitische Project einen Pax eurasiatica" ETAPPE, Heft 12/Juni 1996

jeudi, 27 mai 2010

USA: Das Phantom "Wirtschaftsaufschwung" und die reale Depression

saupload_20080401_p1_big.jpgUSA: Das Phantom »Wirtschaftsaufschwung« und die reale Depression

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Neu veröffentlichte Berichte der US-Regierung werden als Beweis dafür bejubelt, dass sich die USA – im Gegensatz zur EU – in einer Phase des »Aufschwungs« befände. Man nährt die Illusion, in der größten Volkswirtschaft der Welt zeichne sich eine »Rückkehr zur Normalität« ab. Doch die Wirklichkeit hinter den getürkten Daten der US-Regierung sieht anders aus: Nur in den Computern des Arbeitsministeriums entstehen neue Arbeitsplätze – reine Phantomjobs.

Finanzmärkte und Fondsmanager von der Wall Street erzählen uns, in den USA seien schon sehr bald steigende Beschäftigungszahlen zu erwarten, da die Unternehmen wieder vermehrt einstellten. Diese Prognose lässt sich anhand realwirtschaftlicher Daten leider nicht erhärten. Es wird nur deshalb kurzfristig zu einem Anstieg der Zahl der Beschäftigten kommen, weil für die persönlichen Befragungen im Rahmen der alle zehn Jahre fälligen Volkszählung in den USA Hunderttausende schlecht bezahlte Teilzeitjobs angeboten werden. Diesen einmaligen Anstieg wird man als Zeichen eines allgemeinen Aufschwungs feiern.

Ein völliger Absturz in eine Wirtschaftsdepression wie in den 1930er-Jahren ist in den USA bislang nur deshalb verhindert worden, weil Regierung und Zentralbank seit drei Jahren in beispielloser Weise Geld in die Finanzmärkte und die Wirtschaft pumpen. Das Ergebnis ist eine nie dagewesene, untragbar hohe Staatsverschuldung. Was wir erleben, ist kein »typischer« Aufschwung. Zieht man die Auswirkungen des künstlich von der Regierung finanzierten Booms am Aktienmarkt seit März 2009 ab, gibt es keinen Aufschwung in der Realwirtschaft. Es kursiert das Märchen, wonach die Finanzmärkte die Entwicklungen der Realwirtschaft vorwegnähmen. Unsinn! Betrachten wir nur einige Fakten.

Der Aufschwung am Aktienmarkt an der Wall Street wird von Erwartung, Annahmen, vor allem aber von Liquidität beflügelt. In diesem Fall haben die Federal Reserve und das US-Finanzministerium die Märkte beflügelt, nicht die Realwirtschaft.

 

Schlüsselwert: das persönliche Einkommen

Zu über 70 Prozent hängt das BIP der USA vom privaten Verbrauch ab. In den Jahren der Immobilienblase von 2000 bis 2007 wurde der Konsum mit Schulden finanziert – viele nahmen Kredite zur Finanzierung des täglichen Verbrauchs, für den Kauf eines Autos, für das College-Studium ihrer Kinder usw. auf und setzten ihre Häuser als Sicherheit dafür ein. Der Prozess wurde durch niedrige Zinssätze der Fed aufrechterhalten, die Höhe der Schulden im Verhältnis zum persönlichen Einkommen erreichte auf dem Höhepunkt im Jahr 2007 den astronomischen Wert von 360 Prozent.

Als 2007 die Eigenheimpreise zu fallen begannen – zunächst für den riskantesten Sektor der Niedrigverdiener oder »Sub-prime«-Hypotheken – geriet die gesamte Schuldenpyramide ins Wanken. Millionen amerikanischer Familien, die sich zumeist vorher eines soliden Mittelklasse-Lebensstandards erfreut hatten, sahen den einzigen Ausweg darin, die Zahlungen für ihren wertvollsten Besitz – ihre Häuser – einzustellen. Sie waren nicht mehr in der Lage, die monatlichen Hypothekenraten aufzubringen und gleichzeitig die Familie zu ernähren, also ging das Haus zurück an die Bank. Seit 2007 häufen sich diese Fälle von Zahlungsunfähigkeit bei Hypotheken, und nach Einschätzung der American Mortgage Association (US-Hypothekenverband) wird dies noch mindestens drei Jahre so bleiben.

Der Nettoanstieg des persönlichen Einkommens ist das einzig echte Maß für neues Wirtschaftswachstum. Hier sieht es düster aus. Nach Angaben der Federal Reserve war der Abbau der Schulden [das so genannte de-leveraging] der privaten Haushalte im letzten Quartal höher als je zuvor in der Geschichte der Fed. Dieser verlangsamt sich nicht etwa, sondern beschleunigt sich vielmehr. Es gibt dabei zwei Möglichkeiten: Entweder werden Kreditkarten- und sonstigen Schulden aus dem verfügbaren Einkommen bezahlt, oder die Rückzahlung für Kreditkartenschulden, Auto und Haus wird eingestellt – der Privatkonkurs. Letzterer ist seit 2007 die vorherrschende Form, durch die sich amerikanische Familien von ihrer Schuldenlast befreien, ein sehr ungesunder Trend, der unsere Einschätzung bestätigt, wonach es sich gegenwärtig nicht um eine normale »Rezession« wie in der Nachkriegszeit handelt, sondern vielmehr um eine Große Depression von ähnlichen Ausmaßen wie der in Deutschland 1930/1931 und in den USA 1930 bis 1938. Es gibt keine neuen Wachstumsimpulse für die Wirtschaft aufgrund steigender persönlicher Einkommen, ganz im Gegenteil.

Betrachtet man das persönliche Einkommen abzüglich der staatlichen Versorgungsleistungen, dann ist der Fall eindeutig. Im Vergleich zum Vorjahr hat sich das Einkommen weniger verändert als je zuvor, ausgenommen die schwere Rezession nach dem »Ölschock« der 1970er-Jahre. Dass neun Monate nach dem offiziellen Ende einer Rezession das persönliche Einkommen (ohne staatliche Transferleistungen für die Sozialversicherung und ähnliches) zurückging, hatte es zuvor in der US-Wirtschaft noch nie gegeben. Nur staatliche Leistungen haben seit 2007 die Einkommen überhaupt steigen lassen. Der höchste Stand der persönlichen Einkommen in den USA wurde im September 2007 erreicht, als die Sub-Prime-Krise begann. Heute, im Mai 2010, also beinahe drei Jahre danach, liegt das persönliche Einkommen noch immer 700 Milliarden Dollar unter dem Niveau vom September 2007. So etwas war noch nie vorgekommen. Deshalb sah sich die Regierung gezwungen, zum wiederholten Male die Verlängerung von Arbeitslosenunterstützung für Millionen zu beschließen.

Seit dem dritten Quartal 2007 ist der Staat der einzige zumindest teilweise stabilisierende Faktor bei den Haushalts-Einkommen in den USA. In dieser Zeit sind die direkten staatlichen Transferleistungen auf fast 500 Milliarden Dollar gestiegen, was jedoch bedeutet, dass gegenüber 2007 insgesamt noch eine Lücke von etwa 200 Milliarden Dollar möglicher Ausgaben klafft. Das Staatsdefizit der USA nähert sich derweil im Ausmaß dem griechischen. Ausländische Käufer amerikanischer Staatsanleihen zögern, noch weitere Papiere aufzukaufen, das gilt besonders für Japan und China. Seit Dezember ist das US-Finanzministerium nur deshalb in der Lage, das rapide wachsende Defizit zu finanzieren, weil die Wall Street und die amerikanischen Rating-Agenturen die Erwartung schüren, der Euro stünde am Rande des Zusammenbruchs.

 

»Phantom«-Wachstum des BIP

Zu den stärksten Argumenten für einen Aufschwung in den USA zählt der Verweis auf die offiziellen BIP-Zahlen. Doch dieser Aufschwung ist ein reines Phantom. Der gemeldete, auf das Jahr berechnete inflationsbereinigte BIP-Zuwachs im ersten Quartal ist fast vollständig auf steigende Lagerbestände zurückzuführen, was den Wert kurzfristig in die Höhe trieb. Die zugrundeliegenden Daten erlauben keinen Rückschluss auf einen Anstieg in der wichtigen Kategorie des persönlichen Konsums.

Mein amerikanischer Freund, der Ökonom John Williams, betont: »Ein nachhaltiger Anstieg des persönlichen Verbrauchs erfordert einen nachhaltige Anstieg des persönlichen verfügbaren Einkommens …, eine kurzfristige Zunahme des Konsums kann man durch einen Vorgriff auf die Zukunft erreichen, indem man sich stärker verschuldet oder Ersparnisse liquidiert, aber diese alternative Finanzierung ist eben nur kurzfristig möglich und nicht nachhaltig. Die Monatsberichte für Januar und Februar 2010 zeigten im Vergleich zum vierten Quartal ein rückläufiges verfügbares Einkommen … Der reale Verbraucherkredit, über den nur Angaben für Januar und Februar vorliegen, lag im ersten Quartal unter dem Niveau des vierten. Insgesamt erlauben diese Zahlen keinen Rückschluss auf einen nachhaltigen Anstieg beim persönlichen Konsum, sie stellen vielmehr die Glaubwürdigkeit der von der Regierung veröffentlichten Berichte über den Konsum im ersten Quartal infrage.«

Ansonsten produzieren Unternehmen, einschließlich der wenigen, die von der Autoindustrie noch übriggeblieben sind, auf Halde, im Vertrauen auf den von der Regierung beteuerten bevorstehenden Aufschwung. Wenn sich dieser nun in den nächsten Monaten als illusorisch erweist, werden die Lagerbestände wieder abgebaut und Firmen geschlossen.

Darüber hinaus verfügen die Bundesstaaten und Kommunen anders als die Regierung in Washington nicht über den Luxus, Geld drucken zu können. Sie sind gesetzlich dazu verpflichtet, Ausgaben und Einnahmen »in der Waage zu halten«. Zum Ausgleich des Defizits kürzen Bundesstaaten und Kommunen die Ausgaben, Kalifornien ist dafür das schlimmste Beispiel. Auf Ebene der Bundesstaaten und Kommunen lag der Ausgabenrückgang von Januar bis März 2010 auf das Jahr umgerechnet bei 15 Prozent.

Das US-Arbeitsministerium hat gerade die Beschäftigungszahlen für April bekannt gegeben, sie zeigen einen starken Anstieg, der sich jedoch bei genauerer Betrachtung als Phantom erweist. Der Zuwachs an neuen Arbeitsplätzen geht auf überoptimistische Annahmen und auf Einstellungen für die Volkszählung zurück und weist zudem saisonale Verschiebungen auf. Auch mehrere unabhängige, politisch neutrale Daten sprechen gegen die offiziellen Daten, wie die vom Forschungsinstitut Conference Board ermittelte Zahl der Zeitungsanzeigen »Aushilfe gesucht« für März, die zum ersten Mal seit sechs Monaten rückläufig war und damit wieder das Rekordtief des Vorjahrs erreichte. Auch die von Conference Board mitgeteilte Zahl der Anzeigen »Aushilfe gesucht« im Internet ging erstmals seit fünf Monaten zurück. Der Einkaufsmanager-Schätzung für das produzierende Gewerbe zeigte für April eine Zunahme der Beschäftigung, der breiter gefasste Index hingegen abnehmende Beschäftigtenzahlen. Das Problem liegt in der Zuverlässigkeit der von der US-Regierung mitgeteilten Wirtschaftsdaten.

Nur wenigen ist bewusst, dass die US-Regierung »Annahmen« darüber anstellt, wie viele Unternehmen gegründet oder geschlossen werden, anstatt sich auf harte Daten zu stützen. Sie nennen es ihr »birth/death«-Unternehmensmodell. Ist der Wert positiv – mehr Neugründungen (»birth«) als Schließungen (»death«) von Unternehmen wie beispielsweise Kleinbetrieben, dann nehmen die US-Daten automatisch an, dass dadurch neue Arbeitsplätze mit einem bestimmten Einkommen geschaffen werden. Dieses »birth/death«-Konzept und die daraus entstehenden monatlichen Verfälschungen sind nichts anderes als pure Raterei, politisch motivierte Annahmen der Regierung. Die Regierung Obama hat Wirtschaftsdaten dahingehend verändert, dass sie ihren positiven Erwartungen entsprechen – laut Williams sogar in stärkerem Ausmaß als unter der Regierung Bush. Doch im April 2010 wurde vom US-Arbeitsministerium willkürlich angenommen, dass in dem Monat 188.000 Arbeitsplätze geschaffen worden wären, gegenüber 126.000 im April 2009. Diese Veränderung beruht auf reiner Annahme. Die US-Regierung hat für April 2010 62.000 Arbeitsplätze aus dem Nichts erschaffen.

Bis zum April 2010 betrug die Zahl der Einstellungen für die Volkszählung in den USA insgesamt 154.000, davon allein 66.000 im Monat April. Das war der stärkste kurzfristige Anstieg, allein aufgrund der zusätzlich eingestellten Zeit- und Gelegenheitsmitarbeiter für die Volkszählung. Dieser Anstieg wird im Mai erfasst. Welche »Annahmen« sonst noch Eingang in die laufenden Zahlen der Regierung gefunden haben, lässt sich nicht feststellen. Die Daten sind reine politisch motivierte Manipulation, aber mit politischer Manipulation können Familien weder Autos noch Häuser kaufen. Früher oder später reckt die Wirklichkeit ihr hässliches Haupt empor.

Was immer in den letzten drei Jahren durch die Sondermaßnahmen der Federal Reserve und des US-Finanzministeriums bewirkt worden ist, war möglich durch die kurzfristige Stabilisierung des Dollar-Systems und den daraus resultierenden Zeitgewinn; es diente nicht der langfristigen Stabilisierung und Gesundung des Finanzsystems oder der Wirtschaft. In meinem neuesten Buch Der Untergang des Dollar-Imperiums erkläre ich die Gründe dafür und auch, warum es unter den gegebenen Bedingungen nur bei einem neuen Weltkrieg einen Aufschwung in den USA geben kann. Würde das amerikanische Bankensystem normal arbeiten können, würde es in steigendem Maße Kredite vergeben und nicht zu einer langsamen Abwärtsspirale bei Konsumenten- und Unternehmenskrediten beitragen.

Die fiskalische Instabilität der USA, nicht der Eurozone, stellt das wichtigste globale Systemrisiko dar. Die derzeitige europäische Krise über Griechenland und Portugal nützt kurzfristig dem Dollar als »sicherem Hafen«. Das wird jedoch schon bald enden – oder es ist wahrscheinlich bereits beendet, denn die Aufmerksamkeit richtet sich schon wieder mehr auf die britische Staatsverschuldung und eine neue Pfund-Krise. Die sich verschlechternden wirtschaftlichen und fiskalischen Bedingungen in den Vereinigten Staaten werden in Kürze voll auf die heimischen und globalen Märkte durchschlagen. In dem Maße, wie die Große Depression in den USA mehr und mehr zutage tritt, werden gut informierte Investoren in Gold, Silber und ausländische sichere Häfen gehen, also wieder weit weg vom Dollar.

 

Mittwoch, 19.05.2010

Kategorie: Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Terrorismus

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jeudi, 20 mai 2010

US-Kongress beugt sich (erneut) den Göttern der Wall Street

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US-Kongress beugt sich (erneut) den Göttern der Wall Street

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Wer noch immer der Illusion nachhängt, der US-Kongress sei eine unabhängige gesetzgeberische Volksvertretung, die zum Wohle der gesamten Nation handele, der sollte diese nach der jüngsten Abstimmung über eine geplante Finanz-»Reform« endgültig aufgeben. Mit einer mehr als deutlichen Mehrheit von 61 zu 33 Stimmen hat der US-Senat den Vorschlag, die sechs größten Banken des Landes zu zerschlagen, abgelehnt. Eine vorgesehene Sonderabgabe für die Wall-Street-Banken in Höhe von 50 Milliarden Dollar für den Fall des Zusammenbruchs einer größeren Bank fand ebenfalls keine Mehrheit.

Die beiden vorgeschlagenen Änderungen waren Teil des Entwurfs für das Gesetz »Safe Banking Act of 2010«. Mit ihrem Votum über die geplante Verordnung zur Zerschlagung der Banken haben die 61 Senatoren dafür gestimmt, genau das System am Leben zu erhalten, das ursächlich für den Crash von 2007 verantwortlich war. Die sechs größten US-Banken – Goldman Sachs, Citigroup, JP MorganChase, Bank of America, Wells Fargo und Morgan Stanley – beherrschen weltweit auch den Derivatehandel, besser Finanzwetten genannt.

In meinem Buch Der Untergang des Dollar-Imperiums zeige ich im Detail, wie diese Wall-Street-Banken die Macht erobert haben, und zwar auf Kosten des Wohlergehens des Landes und letztlich der gesamten Weltwirtschaft. Den Vorläufern dieser Banken gelang 1913 ein regelrechter Putsch, als Präsident Woodrow Wilson das Federal-Reserve-Gesetz unterzeichnete, durch das der Kongress seines von der Verfassung garantierten Rechts auf die Kontrolle über das Geld des Landes beraubt wurde. Die Federal Reserve wurde als private Institution im Besitz privater Interessen und unter Kontrolle der Wall Street gegründet. Die Einrichtung der Federal Reserve ermöglichte den Eintritt der USA in den Ersten Weltkrieg gegen Deutschland, um die Finanzen der Bank J.P. Morgan zu retten, die (unter Missachtung der amerikanischen Neutralität) Gläubiger Frankreichs und Englands war.

Tim Geithner, der heute als Obamas Finanzminister fungiert und angeblich die Finanzkrise beilegen soll, hat zusammen mit Larry Summers zwei wichtige Gesetzentwürfe formuliert – die Außerkraftsetzung des Glass-Steagall-Gesetzes von 1933 und das Gesetz zur »Modernisierung des Warenterminhandels«, den sogenannten »Commodity Futures (d.h. Derivate) Modernization Act« – und damit die Schaffung jener Mammut-Finanzkonglomerate ermöglicht, die dann »zu groß, um unterzugehen« wurden. Durch das Commodity-Futures-Gesetz wurde der Handel mit Finanzderivaten und Energiederivaten jeglicher staatlichen Aufsicht entzogen.

Mit dem Votum gegen die Verordnung zur Zerschlagung der Banken und gegen die vorgesehene Sonderabgabe hat der Senat deutlich zu erkennen gegeben, dass ihn die Wall Street fest im Griff hat: die Doktrin vom »zu groß, um unterzugehen« wird beibehalten. Bislang sieht es so aus, als werde die Wall Street aus dem Großen Finanzkrach von 2008 mit noch weit größerer politischer Macht hervorgehen, als sie sie während der Regierungszeit George W. Bushs besessen hatte.

27 Demokraten stimmten gemeinsam mit fast allen Republikanern – lediglich drei waren nicht mit von der Partie – gegen die Zerschlagung der Banken. Präsident Barack Obama war gegen die Sonderabgabe und die Maßnahmen zur Zerschlagung; während der Debatte über die Abstimmung empfing er Jamie Dimon, den Chef von J.P. Mogan, zum Abendessen im Weißen Haus. J.P. Morgan ist die größte amerikanische Bank, sie hat 2009 mehr Geld für Lobbyarbeit ausgegeben, als irgendeine andere Bank.

Wirtschaftlich gesehen gibt es keine Bestätigung dafür, dass Megabanken irgendetwas zur Stützung der Wirtschaft beitrügen, das kleinere Institute nicht genauso leisten könnten. Tatsächlich hat sich im Verlauf der Jahrhunderte gezeigt, dass Großbanken zerstörerisch wirken. Adam Smith hat bereits im 18. Jahrhundert vor den Gefahren der Megabanken gewarnt, die derzeitige Krise in der EU über Griechenland und Portugal stellt diese erneut unter Beweis. Goldman Sachs und JP MorganChase haben mithilfe von Derivaten die Finanzen Griechenlands so manipuliert, dass sich das Land 2002 unter falschen Voraussetzungen in den Euro schleichen konnte. Im Verein mit den amerikanischen Rating-Agenturen stecken sie heute hinter der Finanzkriegsführung, durch welche die Griechenland-Krise auf die gesamte EU ausgedehnt wird, um den Euro als mögliche alternative Reservewährung zum US-Dollar auszuschalten.

Kaum zu glauben ist indessen, dass es die (private) Federal Reserve wiederholt abgelehnt hat, ihre geheimen Vereinbarungen mit den Großbanken in der Finanzkrise offenzulegen. Obwohl die allgemeine Aufmerksamkeit dem Finanzministerium und dem US-Konjunkturprogramm Troubled Asset Relief Program galt, war die Fed die treibende Kraft hinter den Bailouts durch die US-Regierung: 4,3 Billionen Dollar wurden praktisch unter Ausschluss der Öffentlichkeit in das Bankensystem gepumpt. Außerhalb der Fed weiß niemand, wer zu welchen Bedingungen Geld erhalten hat, noch wer die Transaktion genehmigt hat. Das einflussreichste Mitglied der Fed, der Präsident der New York Federal Reserve Bank William Dudley, war zuvor geschäftsführender Direktor bei Goldman Sachs. Er übernahm den Posten von Tim Geithner, dem Mann der Wall Street, als dieser 2009 nach Washington wechselte.

 

Mittwoch, 12.05.2010

Kategorie: Allgemeines, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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US-Kongress beugt sich (erneut) den Göttern der Wall Street

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US-Kongress beugt sich (erneut) den Göttern der Wall Street

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Wer noch immer der Illusion nachhängt, der US-Kongress sei eine unabhängige gesetzgeberische Volksvertretung, die zum Wohle der gesamten Nation handele, der sollte diese nach der jüngsten Abstimmung über eine geplante Finanz-»Reform« endgültig aufgeben. Mit einer mehr als deutlichen Mehrheit von 61 zu 33 Stimmen hat der US-Senat den Vorschlag, die sechs größten Banken des Landes zu zerschlagen, abgelehnt. Eine vorgesehene Sonderabgabe für die Wall-Street-Banken in Höhe von 50 Milliarden Dollar für den Fall des Zusammenbruchs einer größeren Bank fand ebenfalls keine Mehrheit.

Die beiden vorgeschlagenen Änderungen waren Teil des Entwurfs für das Gesetz »Safe Banking Act of 2010«. Mit ihrem Votum über die geplante Verordnung zur Zerschlagung der Banken haben die 61 Senatoren dafür gestimmt, genau das System am Leben zu erhalten, das ursächlich für den Crash von 2007 verantwortlich war. Die sechs größten US-Banken – Goldman Sachs, Citigroup, JP MorganChase, Bank of America, Wells Fargo und Morgan Stanley – beherrschen weltweit auch den Derivatehandel, besser Finanzwetten genannt.

In meinem Buch Der Untergang des Dollar-Imperiums zeige ich im Detail, wie diese Wall-Street-Banken die Macht erobert haben, und zwar auf Kosten des Wohlergehens des Landes und letztlich der gesamten Weltwirtschaft. Den Vorläufern dieser Banken gelang 1913 ein regelrechter Putsch, als Präsident Woodrow Wilson das Federal-Reserve-Gesetz unterzeichnete, durch das der Kongress seines von der Verfassung garantierten Rechts auf die Kontrolle über das Geld des Landes beraubt wurde. Die Federal Reserve wurde als private Institution im Besitz privater Interessen und unter Kontrolle der Wall Street gegründet. Die Einrichtung der Federal Reserve ermöglichte den Eintritt der USA in den Ersten Weltkrieg gegen Deutschland, um die Finanzen der Bank J.P. Morgan zu retten, die (unter Missachtung der amerikanischen Neutralität) Gläubiger Frankreichs und Englands war.

Tim Geithner, der heute als Obamas Finanzminister fungiert und angeblich die Finanzkrise beilegen soll, hat zusammen mit Larry Summers zwei wichtige Gesetzentwürfe formuliert – die Außerkraftsetzung des Glass-Steagall-Gesetzes von 1933 und das Gesetz zur »Modernisierung des Warenterminhandels«, den sogenannten »Commodity Futures (d.h. Derivate) Modernization Act« – und damit die Schaffung jener Mammut-Finanzkonglomerate ermöglicht, die dann »zu groß, um unterzugehen« wurden. Durch das Commodity-Futures-Gesetz wurde der Handel mit Finanzderivaten und Energiederivaten jeglicher staatlichen Aufsicht entzogen.

Mit dem Votum gegen die Verordnung zur Zerschlagung der Banken und gegen die vorgesehene Sonderabgabe hat der Senat deutlich zu erkennen gegeben, dass ihn die Wall Street fest im Griff hat: die Doktrin vom »zu groß, um unterzugehen« wird beibehalten. Bislang sieht es so aus, als werde die Wall Street aus dem Großen Finanzkrach von 2008 mit noch weit größerer politischer Macht hervorgehen, als sie sie während der Regierungszeit George W. Bushs besessen hatte.

27 Demokraten stimmten gemeinsam mit fast allen Republikanern – lediglich drei waren nicht mit von der Partie – gegen die Zerschlagung der Banken. Präsident Barack Obama war gegen die Sonderabgabe und die Maßnahmen zur Zerschlagung; während der Debatte über die Abstimmung empfing er Jamie Dimon, den Chef von J.P. Mogan, zum Abendessen im Weißen Haus. J.P. Morgan ist die größte amerikanische Bank, sie hat 2009 mehr Geld für Lobbyarbeit ausgegeben, als irgendeine andere Bank.

Wirtschaftlich gesehen gibt es keine Bestätigung dafür, dass Megabanken irgendetwas zur Stützung der Wirtschaft beitrügen, das kleinere Institute nicht genauso leisten könnten. Tatsächlich hat sich im Verlauf der Jahrhunderte gezeigt, dass Großbanken zerstörerisch wirken. Adam Smith hat bereits im 18. Jahrhundert vor den Gefahren der Megabanken gewarnt, die derzeitige Krise in der EU über Griechenland und Portugal stellt diese erneut unter Beweis. Goldman Sachs und JP MorganChase haben mithilfe von Derivaten die Finanzen Griechenlands so manipuliert, dass sich das Land 2002 unter falschen Voraussetzungen in den Euro schleichen konnte. Im Verein mit den amerikanischen Rating-Agenturen stecken sie heute hinter der Finanzkriegsführung, durch welche die Griechenland-Krise auf die gesamte EU ausgedehnt wird, um den Euro als mögliche alternative Reservewährung zum US-Dollar auszuschalten.

Kaum zu glauben ist indessen, dass es die (private) Federal Reserve wiederholt abgelehnt hat, ihre geheimen Vereinbarungen mit den Großbanken in der Finanzkrise offenzulegen. Obwohl die allgemeine Aufmerksamkeit dem Finanzministerium und dem US-Konjunkturprogramm Troubled Asset Relief Program galt, war die Fed die treibende Kraft hinter den Bailouts durch die US-Regierung: 4,3 Billionen Dollar wurden praktisch unter Ausschluss der Öffentlichkeit in das Bankensystem gepumpt. Außerhalb der Fed weiß niemand, wer zu welchen Bedingungen Geld erhalten hat, noch wer die Transaktion genehmigt hat. Das einflussreichste Mitglied der Fed, der Präsident der New York Federal Reserve Bank William Dudley, war zuvor geschäftsführender Direktor bei Goldman Sachs. Er übernahm den Posten von Tim Geithner, dem Mann der Wall Street, als dieser 2009 nach Washington wechselte.

 

Mittwoch, 12.05.2010

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Alfred Thayer Mahan (1840-1914)

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1992

Alfred Thayer MAHAN (1840-1914)

 

Mahan.jpgAmiral, historien et professeur à l'US Naval Academy, Alfred Thayer Mahan est né le 27 septembre 1840 à West Point, où son père enseignait à l'Académie militaire. Il fréquente l'US Naval Academy d'Annapolis, sert l'Union pendant la Guerre de Sécession et entame une carrière de professeur d'histoire et de stratégie navales. De 1886 à 1889, il préside le Naval War College. De 1893 à 1895, il commande le croiseur Chicago dans les eaux européennes. Il sert à l'état-major de la marine pendant la guerre hispano-américaine de 1898. En 1902, il est nommé Président de l'American Historical Association.  Il meurt à Quogue, dans l'Etat de New York, le 1 décembre 1914. L'œuvre de Mahan démontre l'importance stratégique vitale des mers et des océans. Leur domination permet d'accèder à tous les pays de la planète, parce que la mer est res nullius, espace libre ouvert à tous, donc surtout à la flotte la plus puissante et la plus nombreuse. Le Sea Power,  tel que le définit Mahan, n'est pas exclusivement le résultat d'une politique et d'une stratégie militaires mais aussi du commerce international qui s'insinue dans tous les pays du monde. Guerre et commerce constituent, aux yeux de Mahan, deux moyens d'obtenir ce que l'on désire: soit la puissance et toutes sortes d'autres avantages. Ses travaux ont eu un impact de premier ordre sur la politique navale de l'empereur allemand Guillaume II, qui affirmait «dévorer ses ouvrages».

 

The Influence of Sea Power upon History 1660-1783  (L'influence de la puissance maritime sur l'histoire 1660-1783),  1890

 

Examen général de l'histoire européenne et américaine, dans la perspective de la puissance maritime et de ses influences sur le cours de l'histoire. Pour Mahan, les historiens n'ont jamais approfondi cette perspective maritime car ils n'ont pas les connaissances navales pratiques nécessaires pour l'étayer assez solidement. La maîtrise de la mer décide du sort de la guerre: telle est la thèse principale de l'ouvrage. Les Romains contrôlaient la mer: ils ont battu Hannibal. L'Angleterre contrôlait la mer: elle a vaincu Napoléon. L'examen de Mahan porte sur la période qui va de 1660 à 1783, ère de la marine à voile. Outre son analyse historique extrêmement fouillée, Mahan nous énumère les éléments à garder à l'esprit quand on analyse le rapport entre la puissance politique et la puissance maritime. Ces éléments sont les suivants: 1) la mer est à la fois res nullius  et territoire commun à toute l'humanité; 2) le transport par mer est plus rapide et moins onéreux que le transport par terre; 3) les marines protègent le commerce; 4) le commerce dépend de ports maritimes sûrs; 5) les colonies sont des postes avancés qui doivent être protégés par la flotte; 6) la puissance maritime implique une production suffisante pour financer des chantiers navals et pour organiser des colonies; 7) les conditions générales qui déterminent la puissance maritime sont la position géographique du territoire métropolitain, la géographie physique de ce territoire, l'étendue du territoire, le nombre de la population, le caractère national, le caractère du gouvernement et la politique qu'il suit (politiques qui, dans l'histoire, ont été fort différentes en Angleterre, en Hollande et en France). Après avoir passé en revue l'histoire maritimes des pays européens, Mahan constate la faiblesse des Etats-Unis sur mer. Une faiblesse qui est due à la priorité que les gouvernements américains successifs ont accordé au développement intérieur du pays. Les Etats-Unis, faibles sur les océans, risquent de subir un blocus. C'est la raison pour laquelle il faut développer une flotte. Telle a été l'ambition de Mahan quand il militait dans les cercles navals américains.

 

The Influence of Sea Power upon the French Revolution and Empire, 1793-1812 (L'influence de la puissance maritime sur la Révolution française et l'Empire français, 1793-1812),  2 vol.,  1892

 

Ce livre d'histoire maritime est la succession du précédent. Il montre comment l'Angleterre, en armant sa marine, a fini par triompher de la France. En 1792, l'Angleterre n'est pas du tout prête à faire la guerre ni sur terre ni sur mer. En France, les révolutionnaires souhaitent s'allier à l'Angleterre qu'ils jugent démocratique et éclairée. Mais, explique Mahan, cet engouement des révolutionnaires français ne trouvait pas d'écho auprès des Anglais, car la conception que se faisaient ces derniers de la liberté était radicalement différente. Pour Mahan, conservateur de tradition anglo-saxonne, l'Angleterre respecte ses traditions et pratique la politique avec calme. Les révolutionnaires français, eux, détruisent toutes les traditions et se livrent à tous les excès. La rupture, explique le stratège Mahan, survient quand la République annexe les Pays-Bas autrichiens, s'emparent d'Anvers et réouvrent l'Escaut. La France révolutionnaire a touché aux intérêts de l'Angleterre aux Pays-Bas.

Le blocus continental, décrété plus tard par Napoléon, ne ruine pas le commerce anglais. Car en 1795, la France avait abandonné toute tentative de contrôler les océans. Dans son ouvrage, Mahan analyse minutieusement la politique de Pitt, premier impulseur génial des pratiques et stratégies de la thalassocratie britannique.

(Robert Steuckers).

- Bibliographie: The Gulf and Inland Waters, 1885; The Influence of Sea Power upon History, 1660-1783, 1890; The Influence of Sea Power upon French Revolution and Empire, 1783-1812,  1892; «Blockade in Relation to Naval Strategy», in U.S. Naval Inst. Proc., XXI, novembre 1895, pp. 851-866; The Life of Nelson. The Embodiment of the Sea Power of Great-Britain, 1897; The Life of Admiral Farragut, 1892; The Interest of America in Sea Power, present and future, 1897; «Current Fallacies upon Naval Subjects», in Harper's New Monthly Magazine, XCVII, juin 1898, pp. 44-45; Lessons of the War with Spain and Other Articles, 1899; The Problem of Asia and its Effect upon International Politics, 1900; The Story of War in South Africa, 1900; Types of Naval Officers, 1901; «The Growth of our National Feeling», in World's Work,  février 1902, III, pp. 1763-1764; «Considerations Governing the Disposition of Navies», in The National Review,  XXXIX, juillet 1902, pp. 701, 709-711; Sea Power and its Relations to the War of 1812, 1905; Some Neglected Aspects of War, 1907; From Sail to Steam: Recollections of Naval Life, 1907; The Harvest Within, 1907 (expression des sentiments religieux de Mahan); The Interest of America to International Conditions, 1910; Naval Strategy, compared and contrasted with the Principles of Military Operations on Land,  1911; The Major Operations of the Navies in the War of American Independance,  1913; «The Panama Canal and Distribution of the Fleet», in North American Review,  CC, sept. 1914, pp. 407 suiv.

- Traductions françaises: L'influence de la puissance maritime dans l'histoire, 1660-1783,  Paris, Société française d'Edition d'Art, 1900; La guerre hispano-américaine, 1898. La guerre sur mer et ses leçons,  Paris, Berger-Levrault, 1900; Stratégie Navale,  Paris, Fournier, 1923; Le salut de la race blanche et l'empire des mers, Paris, Flammarion, 1905 (traduction par J. Izoulet de The Interest of America in Sea Power).

- Correspondance: la plupart des lettres de Mahan sont restées propriété de sa famille; cf. «Letters of Alfred Thayer Mahan to Samuel A'Court Ashe (1858-59)» in Duke Univ. Lib. Bulletin, n°4, juillet 1931.

- Sur Mahan:  U.S. Naval Institute Proc., Janvier-février 1915; Army and Navy Journal,  5 décembre 1914; New York Times, 2 décembre 1914; Allan Westcott, Mahan on Naval Warfare, 1918 (anthologie de textes avec introduction et notes); C.C. Taylor, The Life of Admiral Mahan, 1920 (avec liste complète des articles rédigés par Mahan); C.S. Alden & Ralph Earle, Makers of Naval Tradition, 1925, pp. 228-246; G.K. Kirkham, The Books and Articles of Rear Admiral A. T. Mahan, U.S.N., 1929; Allan Westcott, «Alfred Thayer Mahan», in Dictionary of American Biography,  Dumas Malone (ed.), vol. XII, Humphrey Milford/OUP, London, 1933; Captain W.D. Puleston, The Life and Work of Captain Alfred Thayer Mahan,  New Haven, 1939; H. Rosinski, «Mahan and the Present War», Brassey's Naval Annual,  1941, pp. 9-11; Margaret Tuttle Sprout, «Mahan: Evangelist of Sea Power», in Edward Mead Earle, Makers of Modern Strategy. Military Thought from Machiavelli to Hitler,  Princeton, 1944 (éd. franç.: E. M. Earle, Les maîtres de la stratégie,  Paris, Berger-Levrault, 1980, Flammarion, 1987); W. Livezey, Mahan on Sea Power,  1947; Pierre Naville, Mahan et la maîtrise des mers,  Paris, Berger-Levrault, 1981 (avec textes choisis de Mahan).

- Autres références: H. Hallman, Der Weg zum deutschen Schlachtflottenbau,  Stuttgart, 1933, p. 128; Martin Wight, Power Politics,  Royal Institute of International Affairs, 1978; Hellmut Diwald, Der Kampf um die Weltmeere,  Droemer/Knaur, Munich, 1980; Hervé Coutau-Bégarie, La puissance maritime. Castex et la stratégie navale,  Paris, Fayard, 1985.