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jeudi, 13 mai 2010

Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

di Alessio Stilo - 09/05/2010

Fonte: eurasia [scheda fonte]


Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

La peculiare posizione strategica rende il Pakistan un “perno geografico”, per dirla alla Mackinder, di assoluto valore nella contesa afghana, dove gli Stati Uniti e i loro alleati si giocano il tutto per tutto rischiando di trasformare la quasi-decennale operazione bellica in un nuovo Vietnam. Peraltro le analogie con la celeberrima disfatta costituiscono un oscuro monito per il Pentagono: anche allora il duo Nixon-Kissinger dispose l’incremento delle truppe con l’obiettivo di recuperare posizioni di forza per trattare con il nemico, lo stesso cui ambiscono i guerriglieri dopo aver dimostrato sul campo di non poter essere battuti.

A detta di analisti autorevoli, la nuova ricetta afghana dell’amministrazione Obama sarebbe riassumibile in tre parole: surge, bribe and run – aumenta le truppe, compra il nemico e scappa. In sostanza, i vertici del Pentagono starebbero allestendo “un’onorevole ritirata” mascherata dall’incremento degli effettivi, non prima di aver convinto il resto del mondo della vittoria degli Alleati sulla frastagliata schiera dei fondamentalisti.

Il ruolo geostrategico

E’ bene tener presente che, nell’ambito della scontro contro i ribelli, Islamabad è ritenuto il paese maggiormente in grado di fornire un aiuto concreto agli Stati Uniti, vuoi per la posizione strategica, vuoi per l’appoggio nemmeno troppo velato di parte dei suoi servizi segreti a taluni gruppi islamici radicali, vuoi perché in Pakistan è operativo il Ttp (Tehrik-e-taliban Pakistan) – gruppo taliban locale, il quale gode di un consolidato sostegno da parte della popolazione.

L’alleato pakistano, nel siffatto contesto, ha ribadito ai vertici della Difesa Usa di voler offrire il suo aiuto volto a sconfiggere i taliban in cambio di poter avere un “ruolo costruttivo nel Kashmir”. Inoltre Islamabad non intende precludersi l’opportunità, una volta cessate le ostilità, di esercitare la sua longa manus sul vicino Paese martoriato dall’instabilità: in considerazione della mai sopita ostilità con l’India, l’obiettivo primario del Pakistan risulta quello di poter fare affidamento su un governo afghano alleato, in maniera tale da potersi avvalere dei territori confinanti nell’eventualità di un scontro con il colosso indiano.

Islamabad brama altresì di concorrere con New Delhi sotto il profilo dell’accaparramento delle risorse energetiche, avendo preso atto degli investimenti indiani – un miliardo e 200 mila dollari – in Afghanistan. L’India ha interesse a proteggere i propri investimenti a Kabul e servirsi dell’Afghanistan come corridoio verso l’Asia centrale, e in una simile congiuntura va inserita la recente visita del primo ministro Manmohan Singh in Arabia Saudita, ufficialmente per stipulare accordi relativamente alle materie prime. In realtà, New Delhi sta tentando di scovare qualche rete che consenta il contatto diretto con i taliban nella prospettiva di poter svolgere il proprio ruolo in Afghanistan all’indomani della ritirata americana; tuttavia nelle cancellerie del potente paese asiatico ignorano che i sauditi hanno ormai poca influenza sul movimento talebano. L’unica via per raggiungere i taliban passa dal Pakistan e, anche a detta degli statunitensi, per gli indiani la strada verso Kabul non può prescindere dal Kashmir.

Alla stregua di quanto accennato, gli interessi nazionali perseguiti dal governo pakistano gli impediscono di collocarsi in maniera netta nella lotta contro i ribelli jihadisti, motivo per il quale la potente Inter-Sevices Intelligence (ISI) si era spinta sino all’appoggiare l’ascesa dei taliban al governo di Kabul.

Benché negli ultimi anni i servizi segreti pakistani, persuasi dai cospicui assegni a stelle e strisce, si siano impegnati al fianco di Washington in alcune operazioni tese a minare le basi organizzative del gruppo estremista islamico, permangono i sospetti di presunti appoggi dell’ISI – o di parte di esso – alla causa talebana, senza contare la crescente ribellione interna originata sia dal malcontento per le politiche dei vari governi, sia dagli attacchi indiscriminati dei droni americani che colpiscono i civili.

Le relazioni tra pashtun afghani e pakistani

Nell’analizzare le relazioni di Islamabad con Kabul è necessario rimembrare la questione del confine tra i due paesi, segnato dalla cosiddetta “Linea Durand”, una frontiera – rimasta inalterata – tracciata dagli allora dominatori britannici che tagliò in due le realtà tribali preesistenti senza tener conto della demografia.

La linea Durand demarca un’area abitata da popolazioni di etnia pashtun, maggioritaria sia in Afghanistan che nella vasta fascia di territorio pakistano sotto la giurisdizione della Provincia della Frontiera del Nord-Ovest (Sarhad) e delle Federally Administred Tribal Areas (Aree tribali di Amministrazione Federale: Khyber, Kurram, Bajaur, Mohmand, Orakzai, Nord e Sud Waziristan), senza contare che tribù appartenenti alla suddetta stirpe si sono stanziate anche nel Belucistan e nella zona di Karachi. Secondo fonti recenti, in totale i pashtun ammonterebbero a 42 milioni di persone – il 42% della popolazione dell’Afghanistan e il 15% di quella pakistana.

Storicamente la massima aspirazione dei pashtun è stata la costituzione di un’unica entità statale che comprendesse le diverse zone ove essi risiedono – grosso modo l’attuale Afghanistan e parte del Pakistan -, detta Pashtunistan. A causa delle diatribe, il confine rappresentato dalla linea Durand ha continuato ad essere una fonte di tensione tra i due paesi confinanti e attualmente i leader pashtun di entrambi gli Stati non riconoscono la legittimità della linea Durand.

La saldatura degli interessi dei pashtun pakistani con quelli dei vicini afghani trae origine, dunque, non solo dal malcontento per le politiche dei governi, ma anche dall’affinità ideologica nonché dal comune obiettivo di istituire un’entità statuale governata dalla Shari’a.

Sebbene il governo pakistano giudichi il confine definitivamente stabilito, tanto da essersi formalmente impegnato – agli occhi degli Stati Uniti – a renderlo più sicuro, il presidente afghano Karzai ha più volte dichiarato di ritenere doverosa una “grande assemblea” per la ridefinizione della frontiera. Altro quesito, consequenziale a quanto esposto circa la linea di demarcazione, è quello che concerne i profughi afghani in fuga dal conflitto e rifugiatisi nel territorio limitrofo: costoro costituiscono la manovalanza per i reclutatori di guerriglieri, i quali li addestrano nei campi profughi situati al confine per inviarli successivamente sul campo di battaglia.

Influenze esterne

A seguito del ruolo centrale riconosciutogli dall’amministrazione Obama nel presentare la “AfPak Strategy”, il Pakistan ha rimpinguato i propri forzieri e ricevuto ulteriori aiuti al suo esercito, ovvero un miglioramento delle capacità anti-terroristiche delle milizie, senza tralasciare l’istituzione di programmi di ricostruzione e sviluppo che vertono su una sorta di “nation building” tale da (ri)avvicinare la popolazione alla causa atlantica.

Nonostante l’evoluzione della strategia atlantista, il Pakistan rimane lontano dall’esimersi dall’intrattenere rapporti con i taliban afghani, i quali permetterebbero ad Islamabad di riconquistare il ruolo di potenza egemone nel momento in cui gli Alleati dovessero abdicare.

La “reinventata partnership strategica Usa-Pakistan” – secondo la definizione degli analisti del South Asia Analysis Group – promette ben poco, considerato che l’esercito pakistano, pur avendo la capacità di raggiungere obiettivi/aspettative statunitensi, non ha interesse a ottemperare in maniera totale ai dettami dell’alleato. I taliban che allignano nelle aree tribali del confine sono, infatti, considerati una vera e propria “risorsa” dall’esercito pakistano; tramite l’intermediazione dell’ISI, taluni generali mantengono contatti diretti con determinati elementi dell’insorgenza, e ciò malgrado recentemente siano stati arrestati schiere di dirigenti talebani.

La cattura di leader del calibro del mullah Abdul Ghani Baradar, del precedente governatore della provincia afghana del Nangarhar, Moulvi Abdul Kabeer, del mullah Abdul Salam – governatore-ombra di Kunduz – e di Mir Muhammad, anche lui un governatore-ombra nell’Afghanistan settentrionale, rischia tuttavia di mutare lo scenario in corso. A detta di un militante qaedista, come conseguenza degli arresti effettuati negli ultimi mesi, i talebani hanno reciso ogni possibilità di dialogo – che sia con l’Afghanistan, col Pakistan o con gli Usa – e adesso potrebbero lavorare più strettamente con Al-Qaeda.

In conclusione bisogna rimarcare il ruolo della Cina nella partita AfPak, che potrebbe palesarsi quale fiancheggiatore indiretto degli Stati Uniti per via del suo coinvolgimento nel contrastare i gruppi taliban, ritenuti da Pechino essere i fomentatori del focolare interno – leggi Xinjiang – sempre pronto a riaccendersi. Il dragone dagli occhi a mandorla è il maggior socio commerciale di Islamabad (nel 2006 i due paesi hanno siglato un accordo sul libero scambio, entrato in vigore nel 2007), oltreché il suo più rilevante alleato nell’area asiatica. La Cina potrebbe, in ultima analisi, puntare sul suo rapporto privilegiato col Pakistan per esortare il governo di Zardari ad un maggiore impegno nella lotta contro il movimento talebano.

* Alessio Stilo è dottore in Scienze politiche (Università di Messina)
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L'Afrique en manque destratégie face à l'arrivée massive des Chinois

L'Afrique en manque de stratégie face à l'arrivée massive des Chinois

L’arrivée en force des opérateurs chinois sur le continent africain oblige les pays du Nord et d’Afrique à se remettre en question.

« Lorsque je veux construire une autoroute, il me faut cinq ans pour conclure avec la Banque mondiale. Avec la Chine, c’est réglé en quelques jours : je dis oui ou non, et je signe. »

C’est en ces termes que le président sénégalais, Abdoulaye Wade, résumait, lors du sommet Union européenne-Chine de 2007, la nouvelle alliance entre l’Empire du Milieu et les pays africains.

Ces dernières années, les investissements directs chinois en Afrique se sont taillés la part du lion, passant de 327 millions d’euros en 2003 à 5,2 milliards en 2008. Leurs échanges commerciaux, qui se montaient à 12 milliards de dollars en 2002, ont quasi décuplé pour passer aujourd’hui à 107 milliards de dollars. La Chine est devenue, après les USA, la deuxième partenaire de l’Afrique.

Ruée vers le pétrole au Soudan, déferlement des constructions routières et autres infrastructures en Algérie ou en République démocratique du Congo, exploitation tous azimuts des industries minières en Zambie ou en RDC… Les exemples se multiplient à l’infini : la Chine a fait de l’Afrique son « Far West, » selon l’expression de Michel Beuret et de Serge Michel dans leur trépident recueil de reportages intitulé « Chinafrique, Pékin à la conquête du continent noir » (éd. Grasset).

Prises de court, les anciennes puissances coloniales critiquent cette montée en puissance que rien ne semble arrêter, invoquant notamment l’absence d’exigence en matière de respect des droits de l’homme et de lutte contre la corruption chez le partenaire asiatique.

Mais sur quels intérêts reposent cette alliance ? Après la Françafrique, la Chinafrique ? Ces questions brûlantes ont fait l’objet, fin avril, d’un débat animé lors du Salon africain du livre à Genève.

Opacité et pillage

Pour l’économiste congolais Fweley Diangitukwa, auteur de « Les grandes puissances et le pétrole africain » (éd. L’Harmattan), si les Chinois sont aujourd’hui en Afrique c’est parce que les anciens colonisateurs n’ont pas fait correctement leur travail.

Cette vision, quelque peu victimisante à l’égard des pays africains, est nuancée par le journaliste suisse Michel Beuret. C’est en se posant comme exemple enviable pour l’Afrique que la Chine a pu s’imposer comme partenaire, affirme-t-il.

« Une chose que les Chinois ne comprennent pas, c’est bien la vision colonisatrice. Les Africains sont fascinés par ces hommes jaunes qui débarquent et triment jour et nuit dans les mêmes conditions qu’eux, et dorment aussi dans la rue. Cela force le respect. En ce sens, ils ne voient pas forcément les Chinois comme arrogants. »

Une différence de taille avec leur perception du colon occidental.

Exemple à suivre, certes, mais Jean-Claude Péclet, journaliste au quotidien suisse Le Temps et modérateur du débat, a également rappelé que la Chine c’est aussi l’opacité, la corruption, les promesses non tenues, le pillage des ressources naturelles… Ce qui permet à Thierry Bangui, consultant en développement, originaire de la République centrafricaine, d’ironiser :

« Quand les Occidentaux accusent la Chine de piller les matières premières en Afrique, cela fait ricaner les Africains. »

Contrepartie concrète

Pour Thierry Bangui, les critiques des Occidentaux sont démontables. Et de rappeler la masse d’argent africain blanchi en Occident. Un point de vue partagé par Fweley Diangitukwa, qui rappelle que seuls les Occidentaux s’inquiètent de la présence chinoise en Afrique, alors que 90% des armes revendues en Afrique le sont par les pays membres du Conseil de sécurité.

Michel Beuret souscrit :

« La contrepartie proposée par les Chinois consiste en des réalisations très concrètes. Ceux-ci irriguent le continent noir et proposent de le raccrocher à la locomotive de la mondialisation. Mais pour cela, il faut des infrastructures de base. On ne peut pas congeler de la viande sans réfrigérateurs. Les Chinois construisent les barrages, les routes, les ponts, les réseaux électroniques. »

Une façon concrète de proposer de l’aide au développement sans contrepartie visible, avec effet immédiat.

Un réel pouvoir

Mais peut-on pour autant parler d’un partenariat win-win (gagnant-gagnant) ? Thierry Bangui s’interroge :

« Les Chinois ont une stratégie vis-à-vis de l’Afrique. Mais qu’en est-il de la stratégie africaine ? »

Pour l’économiste centrafricain, la relation win-win [gagnant-gagnant] n’existe pas. En exportant sa main-d’oeuvre, la Chine a cherché à résoudre son chômage interne. Maintenant, les Chinois occupent le petit commerce qui était assuré par les Africains.

Les trois intervenants s’accordent pourtant à reconnaître un réel pouvoir de négociation aux pays africains.

« Les Africains peuvent faire valoir leurs intérêts dans les contrats avec leurs partenaires chinois. Mais pour cela, ils doivent se responsabiliser et jouer d’égal à égal non seulement économiquement mais aussi politiquement. »

Rue 89

Sur le même sujet, revoir le documentaire « Drapeau rouge sur continent noir ».

Djihad et Reconquista en France méridionale

Djihad et Reconquista en France méridionale

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

Pour éviter toute repentance inutile et afin de faire face aux multiples problèmes que soulève l’immigration, il convient de revenir à la mémoire de nos premiers contacts avec l’islam qui se déroulèrent précisément dans le Midi.

715 : Après avoir opéré la conquête de l’Espagne, à l’exception des monts Cantabriques d’où partira la Reconquista, les Arabo-Berbères franchissent les Pyrénées orientales et prennent en 719 Narbonne dont ils feront leur place-forte pour une quarantaine d’années. Leur offensive contre Toulouse échoue en 721, ce qui ne les empêche pas de prendre Carcassonne.

En 732 une deuxième invasion par l’ouest des Pyrénées aboutit à la prise de Bordeaux, puis monte vers le nord, appâtée par les trésors de l’abbaye de St-Martin. Vaincus par Charles Martel à Moussais-la-Bataille à 20 km de Poitiers, les Sarrasins battent en retraite, sans pour autant évacuer totalement le Périgord et le Quercy qu’ils continuent à ravager. Il faudra attendre 808 pour que Charlemagne, vainqueur à la bataille de Taillebourg, purge la Charente, la Saintonge et le Poitou de leurs envahisseurs. Le portail roman de la cathédrale d’Angoulême fixe dans la pierre le souvenir des combats libérateurs de la chevalerie franque. En 737 la campagne de Charles Martel, descendu vers la Septimanie par la vallée du Rhône, aboutit à la reprise de Maguelonne, Agde et Béziers mais échoue devant Narbonne qui ne sera reprise, ainsi que Carcassonne, qu’en 759 par Pépin le Bref.

A partir de la seconde moitié du VIIIe siècle le Languedoc et l’Aquitaine se trouvent à l’abri des incursions sarrasines, étant protégés par les avancées de la Reconquista, elle-même secondée par les expéditions en Catalogne de Charlemagne et de son fils Louis le Pieux qui prennent Barcelone en 801.

Le long martyre de la Provence

Les malheurs de la Provence, en revanche, ne font alors que commencer.

A la suite de l’accord conclu en 734 entre le patrice Mauronte, Wisigoth de Marseille, et les Sarrasins de Narbonne, Arles, St-Rémy, Tarascon, Avignon, Cavaillon, Apt et Aix s’effondrent devant les cavaliers d’Allah qui ravagent les côtes jusqu’à Nice (le Cimiez d’autrefois). Cependant ces villes seront libérées en 737 par la campagne de Charles Martel qui, avec l’aide du roi des Lombards Liutprand, écrase les Sarrasins devant Marseille deux années plus tard. Néanmoins ces envahisseurs, réfugiés dans les montagnes et les îles proches de la côte, continuent d’affliger la Provence de leur pression. Des raids fondent sur Marseille en 838 et 842, sur Arles en 842 et 850. Enfin, last but not the least, les Sarrasins installent en 885, entre Hyères et la rivière Argens, au cœur du massif « des Maures » – nom qui perpétue aujourd’hui encore la mémoire de leur occupation séculaire – une forteresse appelée La Garde-Freinet (le Fraxinetum des chroniqueurs), d’où leurs expéditions répétées, fondant sur les habitants d’alentour et les voyageurs, plongent la vallée du Rhône, les cols alpins et la côte voisine dans une dramatique insécurité. Le moine Odilon nous livre à ce sujet un précieux témoignage en 1031 : « A cette époque, la très cruelle et bouillonnante multitude des Sarrasins gagne par mer l’Italie et la Provence, massacrant hommes et femmes. L’abbé de Cluny Mayeul, revenant de Rome et priant pour le salut de tous, tomba en embuscade et ne fut libéré que contre une énorme rançon. » L’événement, qui se situe en 972, provoque le soulèvement de toute une population fortement imprégnée de catholicisme, ce qui permit au roi de Provence Hugues de prendre la Garde-Freinet, laquelle ne sera définitivement détruite qu’en 983, et l’ensemble de la région définitivement purgée des Sarrasins en 990 par les hauts faits d’armes du comte de Provence Guillaume. Mais l’ensemble des côtes françaises de Méditerranée continuera de vivre jusqu’au XIIIe siècle sous la menace d’expéditions marines à partir des nids de pirates fixés dans les îles proches : en Corse, Sardaigne et Sicile jusqu’à leur reconquête par Gênes, Pise et les Normands. Les îles de Lérins sont ravagées en 1047, 1107, 1197, Toulon en 1178 et 1197 avec, à chaque fois, extermination de la population par le massacre ou la réduction en esclavage et la déportation à Almeria (jusqu’à ce qu’elle soit libérée par la Reconquista), Tunis, Tripoli et Alger.

Notre mémoire collective a perdu le souvenir de ces exactions dont ne témoigne, outre l’onomastique, que le site des villages anciens, perchés au sommet des collines pour assurer le guet et servir de refuge en cas d’attaque. Comme le remarque M. Laurent Lagartempe dans son ouvrage Les Barbaresques, « L’insécurité qui régna sur la Provence du fait des rezzous des Sarrasins, cruina durablement, au cours du Moyen Age, les plaines côtières fertiles qui avaient fait la prospérité de l’antique Provincia Romana en raison du retrait de l’habitat vers les régions montagneuses.

Les chansons de geste

A ces témoins muets du passé provençal il faut ajouter le témoignage littéraire des chansons de geste, en particulier le cycle dit de Garin de Monglane composé d’environ 25 chants dont les plus célèbres sont : Le Couronnement de Louis, Le Charroi de Nîmes, La Prise d’Orange, Les Aliscamps, La Mort d’Aymeri de Narbonne, Le Moniage de Guillaume. Le héros central de ces divers poèmes épiques est un personnage mythique dans lequel Gaston Pâris a reconnu un comte de Toulouse nommé Guillaume, qui empêcha les Sarrasins d’envahir la France en leur livrant bataille sur les rives de l’Orbieu en 793. Par la suite, il combattit en Catalogne au côté de Charlemagne, avant de mourir en odeur de sainteté au monastère de St-Guilhelm-du-Désert où il s’était retiré après la mort de son neveu Vivien, tué au combat contre les Infidèles. Les historiens plus récents de la littérature lui associent plus vraisemblablement encore le fameux comte de Provence qui prit La Garde-Freinet et délivra sa province. Guillaume d’Orange apparaît donc comme le héros méridional par excellence qui ravit à l’envahisseur les villes de Nîmes, Orange, Arles, Narbonne, mais sa renommée s’étendit bien au-delà. En effet, une légende le fait apparaître sous les murs de Paris assiégé par des barbares qu’on peut identifier aux Vikings. Guillaume affronte alors victorieusement, en combat singulier, le géant Isoré qui terrorisait la population. La tombe de ce nouvel avatar de Goliath a donné son nom à la rue de la Tombe–Issoire dans le XIVe arrondissement de Paris.

Comme La Chanson de Roland, le cycle de Garin de Monglane, qui tire son nom de celui du père de Guillaume d’Orange, associe la lutte contre l’Infidèle au combat pour l’indépendance nationale : face à l’envahisseur, c’est la foi qui assure la victoire aux chrétiens. Les chansons de geste, qui relatent en les mythifiant des faits historiques attestés du VIIe au Xe siècle, ont été composées aux XIe et XIIe siècles, c’est-à-dire au temps des Croisades. La lutte contre l’islam et l’épopée nationale sont alors les grands thèmes qui mobilisent les chevaliers français : le souvenir des périls affrontés en terre de France par leurs valeureux ancêtres justifient la guerre en Terre sainte contre l’ennemi séculaire de la chrétienté.

La postérité des chansons de geste

Alors que les chansons de geste n’apparaissent plus aujourd’hui que comme des monuments littéraires appartenant au passé, les Romans bretons, légèrement plus tardifs, ont traversé les siècles en servant presque constamment de source d’inspiration aux artistes ; ils sont de ce fait restés beaucoup plus populaires. Pourquoi ? Sans doute parce que les passions amoureuses, les sortilèges plus ou moins païens s’y mêlent plus largement aux exploits chevaleresques. Alors que le cycle de Garin de Monglane est plus étroitement localisé sur la Provence et la France, le cycle arthurien, par contre, appartient aux traditions européennes, de la France celtique à la Grande-Bretagne et à l’Allemagne ; entre autres, il eut la chance d’inspirer les génies de Purcell puis de Wagner qui subjugua les musiciens français du XIXe siècle : bien loin de mettre en musique nos chansons de geste, Ernest Chausson composa le Roi Arthus et Viviane. Vincent d’Indy fait cependant exception à la règle avec Fervaal. Le compositeur ardéchois situe en effet l’intrigue de cet opéra dans une région soumise à la domination d’un émir sarrasin ; son héros s’éprend de la fille de celui-ci, à l’exemple de Guillaume d’Orange qui épousa Orane l’orientale, laquelle fut baptisée sous le nom de Guibourg.

Une autre raison qui nous éloigne d’une pleine compréhension des chansons de geste est notre tradition d’islamophilie qui remonte à François Ier, allié du Grand Turc. Les Lumières allèrent jusqu’à préférer la religion musulmane à la religion chrétienne ; au XIXe siècle, Lamartine rédigea une hagiographie de Mahomet, tandis que le positiviste Auguste Comte jugeait l’islam plus progressiste que le christianisme. Le XXe siècle fait mieux encore, cependant. Inspirés par les écrits de l’orientaliste œcuménique Massignon, des ecclésiastiques inaugurent des mosquées aux côtés des imams, mais des politiciens les surclassent.

La Révolution française nous a forgé une mentalité étrangère à l’idéal qui se dégage de nos chansons de geste : la foi chrétienne, la loyauté envers le chef de l’Etat ont fait place à la religion de la République laÏque, évoluant aujourd’hui vers un vague humanitarisme progressiste, imprégné de la notion de Droits de l’homme universel, indifférent aux intérêts nationaux, aux traditions et à l’indépendance de la Mère patrie. D’où notre passivité et même notre complicité devant les phénomènes d’immigration-invasion et d’islamisation qui menacent notre pays. Notre réveil national devra puiser aux sources de notre patrimoine et à la totalité de notre histoire, dégagée des a-priori du politiquement correct. Qui sait si les chansons de geste n’y retrouveront pas alors une nouvelle actualité ?

Odilon Le Franc

Source : Polémia.

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L'Ecole de la régulation: une hétérodoxie féconde?

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1993

 

L'Ecole de la régulation: une hétérodoxie féconde?

 

par Guillaume d'EREBE

 

«La finalité de l'étude de l'économie n'est pas d'acquérir un ensemble de réponses toutes faites aux questions économiques, mais d'apprendre à ne pas se laisser duper par les économistes»

Joan Robinson.

 

Crise économique,

crise de la théorie économique

 

Années 60, le temps est à l'agitation, au grand cham­bardement, à la critique qui se veut radi­ca­le (cf. Althusser, Foucault,…); les discours aca­dé­miques sont menacés et les quiets terri­toires de la science économique commencent à être enva­his par les «Enfants de Mai». Années 70, la crise frappe les économies industrielles avachies dans le confort de la croissance. Mais cette crise éco­nomique est avant tout une crise de la théorie éco­nomique qui exhibe son impuis­sance à expliquer le phénomène et surtout à l'endiguer. Le marxis­me est en capilotade et toute logodiarrhée conclut à la mort du prophète Marx. Grande débâcle chez les économistes «de gauche»; à l'exception de quel­ques irréductibles croyants tel P. Boccara (1), les économistes or­phelins du «socialisme scien­tifique» se réfu­gient promptement dans un post-keynésianisme; certains audacieux com­men­cent à pactiser avec l'adversaire et s'en­ga­gent dans les bataillons li­béraux. Après le cau­chemar soviétique vient l'éphialte californien. Années 80, les politiques keynésiennes de re­lance ont lamentablement échoué; le bon peuple, électeur/consommateur, menacé par le chômage, commence à douter du sérieux des économistes, ces médicastres qui dé­sespérément s'échinent à trouver une nouvelle politique économique. L'i­ma­gination n'étant pas au pouvoir, il faut res­sor­tir quelques naufra­gés disparus de la théorie éco­nomique. Par une grande opération résurrec­tion­nelle, F. von Hayek, celui-là même que Key­nes avait magis­tralement défait, fait un foutral retour; M. Friedman et ses Chicago Boys  consti­tuent une puissante secte où vont communier en un même credo les Reagan, Pinochet, Thatcher… Mitterand. Le libéralisme, qu'il soit conserva­teur ou social, triomphe avec insolence, faute d'ad­versaire. La mode est aux cavillations d'un J.B. Say ou aux courbes d'un A. Laffer. Certes, dans les pays «développés», la pauvreté s'accroît mais qu'importe; les gouvernements «de droite», bien inspirés par un darwinisme-social de cir­constance, considérant que tout chômeur est un feignant, attendent que le marché fasse son œu­vre: éliminer les faibles; les gouvernements «de gauche», ceux dont la mauvaise conscience obli­ge à la charité, octroient dans un geste large, un RMI (Revenu Minimum d'Indignité). Certes, le Tiers Monde agonise, étouffé par la dette, tor­turé par les politiques du FMI, pillé par les firmes transnationales. Qu'importe ces «dys­fonc­tion­ne­ments» pourvu que triomphe l'Occident libéral et son nouvel ordre.

 

Après les échecs: quitter

les chemins de l'orthodoxie

 

Au-delà de ces simulacres, les analyses tradi­tionnelles, néo-classiques mais aussi keyné­sien­nes et marxistes, sont incapables d'expli­quer le pourquoi et le comment de la crise. Sans dia­gnostic, les iatres économistes font sem­blant de soigner et les taux d'intérêt deviennent l'ul­ti­me cacoergète. Rien ne vaut une bonne sai­gnée pour une économie apoplectique. Les ques­tions de­meurant sans réponses, certains écono­mistes curieux, dont les régulationnistes, quit­tent les che­mins de l'orthodoxie et tentent de ré­pondre à certaines questions essentielles. Pourquoi les éco­nomies capitalistes sont-elles passées d'une croissance forte et régulière à une quasi-sta­gna­tion? La théorie néo-classique ne développant qu'une analyse intemporelle (exit Clio) où le mar­ché assure une prétendue auto-ré­gulation, n'offre aucune place à la crise. Et si crise il y a, elle ne peut s'expliquer que par un malheureux hasard (un choc pétrolier) ou par une cause exo­gène (cf. l'Etat). A l'inverse, affirmer l'iné­luc­ta­bilité des crises et invoquer un épuise­ment du capitalisme, un stade ultime préfigurant le «grand soir», n'est guère plus satisfaisant. Car comment expliquer la croissance sans pré­cédent qu'ont connu les vieux pays industriali­sés après la deuxième guerre mondiale. D'autre part, com­ment expliquer qu'à une même époque histo­ri­que, la crise adopte des formes nationales signi­fiantes? Les économies industrielles réa­gissent diversement; certaines, stimulées par la «ma­la­die», connaissent la prospérité alors que d'autres voient leurs déséquilibres s'aggraver. Enfin pour­quoi, au-delà de certains invariants géné­raux (salariat, production marchande, …), les cri­­ses varient au cours du temps. La crise ac­tuelle n'est pas la petite sœur de celle de 1929, l'é­chec des politiques de relance par la demande le prouvant amplement. Certes, il existe cer­taines ca­ractéristiques communes (baisse de la ren­ta­bi­lité, chômage élevé, forts taux d'intérêts,…) mais aussi de grandes dissem­blances. Si la Grande Crise se singularise par une brutale déflation et une dépression (contraction) cumulative, la crise présente con­naît une inflation permanente et une croissance, certes ralentie, de la production et des échanges. Dans ces conditions, la crise qui poin­te dans les années 70, rend indispensable un re­nou­velle­ment de la théorie économique, la ques­tion cen­trale devenant «celle de la variabilité dans le temps et dans l'espace des dynamiques éco­no­miques» (2). L'analyse des crises oblige à se si­tuer dans la dynamique du capitalisme (3); l'économiste doit retrouver l'histoire que les li­béraux ont évacuée en postulant l'invariance des comportements économiques et que les marxistes ont travestie en édictant, au nom du matéria­lis­me historique, des lois dites «tendancielles». Autrement dit, la science économique redécou­vrant l'histoire et la sociologie, se constitue en science sociale. Les régulationnistes participent à ce renouveau de la théorie économique, propo­sant une alternative au libéralisme et ouvrant cer­tains chemins sur lesquels nous pouvons, non sans prudence, nous engager.

 

Le concept de régulation

 

A la fin des années 70, des économistes vont se réunir autour d'un concept original, celui de ré­gulation. Le terme de «régulation» étant polysé­mique, il convient de se garder contre toute con­fusion sémantique. Dans un premier sens, la ré­gulation est un concept transversal de la théorie des systèmes ou de la théorie du contrôle qui s'ap­pli­que à divers systèmes (biologiques, ther­mody­na­miques, économiques, sociaux) et qui rend pos­sible une théorie de l'auto-organisation. Dans un second sens, le terme de régulation dé­signe une intervention active de la part de l'Etat; ma­cro-économiquement, c'est une politique con­for­me aux dogmes keynésiens (par exemple, le New Deal) se caractérisant par une multiplica­tion des réglementations. Dans l'univers anglo-saxon, «re­gulation» signifie réglementation; ainsi la dé­régulation exigée par les néo-libéraux n'est qu'une déréglementation de la vie écono­mique, une version moderne du «laissez-faire, laissez-passer». Ces deux sens sont rejetés par les régu­lationnistes. Ceux-ci fournissent de nombreuses définitions marquant certaines di­vergences (par exemple, certains admettent des lois tendanciel­les telles la chute des taux de profit ou leur éga­li­sation, d'autres les refusent) mais un accord se dégage sur certains points. La régu­lation peut être définie comme «la conjonction des méca­nis­mes concourant à la reproduction d'ensemble, compte tenu des structures écono­miques et des for­mes sociales en vigueur» (4). Les économistes s'assemblant autour de ce con­cept (M. Aglietta, Ch. André, M.  Basle, H. Bertrand,  R. Boyer, A. Brender, B. Coriat, R. Delorme, A. Lipietz, J. Ma­zier, J. Mistral, J.F. Vidal,…) forment l'école de la régulation qui, à ses débuts, est purement française mais qui rapi­dement, va connaître une renommée internatio­nale malgré une cer­taine résistance du monde anglo-saxon (5).

 

A l'origine, les régulationnistes tentent d'effec­tuer une rénovation critique de l'analyse mar­xis­te, reliant Marx et Keynes; il est vrai que nom­bre de ces économistes travaillent sur mo­dèles macro-économiques (FIFI, DMS, …) (6) dont l'inspiration est nettement keynésienne (cf. J. Robinson, N. Kaldor, M. Kalecki). L'apport de Marx est fondamental même si la lecture qui en est faite est très hétérodoxe. Rejetant toute une vul­gate marxiste, les régulationnistes gardent du marxisme sa méthode holiste (analyse des rap­ports sociaux), sa vision historique des modes de production et l'idée de la périodicité des crises dans une économie capitaliste. Précisons que la référence à Marx est variable selon les auteurs. Ainsi la théorie de la valeur est clairement mar­xiste chez A. Lipietz, elle est implicite chez M. Aglietta mais elle n'est pas spécifiée chez R. Bo­yer et J. Mistral. En outre, certains régula­tion­nistes ont progressivement rejeté la réfé­rence mar­xiste, tel M. Aglietta. Dans sa thèse, Accu­mu­lation et régulation du capitalisme en longue période. Exemple des Etats-Unis (1870-1970) (7), Aglietta part du marxisme mais il en est très éloigné dans Les métamorphoses de la so­ciété salariale (8) où il renonce à la lutte des classes comme moteur de l'histoire, le salariat et le ca­pital étant associés dans un même mouve­ment.

 

Keynes est aussi présent dans la théorie de la ré­gulation, le maître de Cambridge ayant eu de for­tes intuitions. De la théorie macro-écono­mique keynésienne (et plus exactement kale­ckienne), les régulationnistes retiennent le principe de la demande effective, de la monnaie comme insti­tu­tion (9), la possibilité d'un sous-emploi comme équilibre, le rôle de la négociation collective et des syndicats,… Néanmoins le key­nésianisme pré­sente nombre d'insuffisances; ainsi, il situe ses analyses dans le court terme et ne rend pas compte du fondement des régularités qu'il dé­ga­ge.

 

L'institutionnalisme

 

Après Marx et Keynes, la troisième source d'ins­piration des régulationnistes est l'institution­na­lisme même s'ils ne mentionnent pas les pères fondateurs de cette école (Veblen, Commons, Mit­chell,…); nous retrouvons cette même distance avec l'école historique alle­mande (Schmoller, Wagner,…). Il est vrai que l'institutionnalisme fut incapable de constituer un paradigme alter­na­tif, impuissant à présenter un modèle théo­ri­que d'ensemble, se réduisant à décrire le monde.

 

Néo-marxisme, post-keynésianisme, néo-ricar­disme, néo-institutionnalisme… aucune de ces éti­quettes ne semblent convenir à la théorie de la ré­gulation qui est d'autant plus inclassable qu'il existe un éclatement des références théoriques (Marx, Keynes, Kalecki, les institutionnalistes, Girard,…); références multiples aussi en ce qui concerne les analyses et les propositions. Ainsi, en matière de relations internationales, A. Li­pietz est favorable à un certain protection­nisme alors que J. Mistral considère le libre-échange comme un moindre mal. Face à ce manque appa­rent d'unité, certains se sont inter­rogés sur l'exis­tence d'une école de la régula­tion. Nul ne peut nier qu'il existe une opposition sur certains concepts, généralement les plus abstraits (par exemple, la valeur) mais force est de constater qu'il existe un «noyau dur» de con­cepts com­muns à tous les régulationnistes. Dès lors, la théo­rie de la régulation, avant même de consti­tuer une école, est un véritable «programme de recherche» (au sens de Thomas S. Kuhn), un pa­radigme et un ensemble de propo­sitions parta­gées par un groupe de chercheurs et organisant la façon d'aborder le monde réel.

 

Les concepts fondamentaux

 

La théorie de la régulation recèle au moins trois concepts fondamentaux: régime d'accumu­la­tion, forme institutionnelle et mode de régu­la­tion.

 

L'idée de régime d'accumulation est empruntée à à l'analyse marxiste selon laquelle «les forces qui gèrent la croissance sont liées à la reproduc­tion élargie du capital à la fois comme un en­semble de biens de production à mettre en œuvre, comme un rapport entre les classes sociales et comme une quantité monétaire à valoriser» (10). Cette notion permet de résoudre un problème sim­ple: comment un processus contradictoire voire conflictuel peut-il durer sur une longue pé­riode c'est-à-dire pourquoi la crise est-elle l'exception et non la règle? L'analyse historique tend à mon­trer que les contradictions peuvent être surmon­tées, qu'il existe des régularités éco­nomiques et so­ciales rendant possibles l'accumulation, à long terme. Le régime d'accumulation peut se dé­finir comme «l'ensemble des régularités as­su­rant une pro­gression générale et relativement cohérente de l'accumulation du capital, c'est-à-di­re permet­tant de résorber ou d'étaler dans le temps les dis­torsions et déséquilibres qui nais­sent en perma­nence du processus lui-même» (11). Autrement dit, un régime d'accumulation est l'ensemble des régularités économiques et so­ciales permet­tant à l'accumula­tion/­in­vestis­se­ment de perdu­rer, rendant compatibles entre el­les l'évolution des capacités de production et de la demande so­ciale. Sur ce point précis, trois élé­ments sont dé­terminants: le type d'évolution de l'organisation de la production, notamment le rapport des sala­riés aux moyens de production; le partage de la valeur entre les groupes sociaux; une demande sociale validant l'évolution ten­dan­cielle des ca­pacités de production, et plus pré­cisément une norme de consommation (des pra­tiques de con­sommation tendant à s'imposer à l'ensemble de la population).

 

Accumulation extensive et accumulation inten­sive

 

Deux grands régimes d'accumulation peuvent être distingués: extensive et intensive. Le ré­gime d'accumulation extensive (XIXième siècle, début du XXième siècle) se caractérise par une croissance fondée sur une augmentation des fac­teurs de production; la production s'accroît mais les gains de productivité sont faibles. Le partage de la valeur et la valorisation du capital reposent, pour reprendre des termes marxistes, sur la plus-value absolue des profits (12) et ce, par une com­pression des salaires et une augmenta­tion de la durée et de l'intensité du travail. La norme de consommation est fort peu dynamique, la con­som­mation populaire se composant, pour l'es­sen­tiel, de produits en provenance de secteurs non capitalistes (agriculture, artisanat). Il existe une grande diversité entre l'industrie lourde, con­cen­trée et productive, et l'industrie de con­som­ma­tion, parcellisée et peu productive, très peu de relations se nouant entre les deux. Enfin, la con­cur­rence est très forte, le marché régulateur en­gendrant d'importantes fluctuations. Le ré­gime d'accumulation intensive (qui se développe dans les années 20 aux Etats-Unis et connaît son apo­gée dans les années 60) se caractérise par une croissance fondée sur d'importants gains de pro­ductivité dus à des techniques améliorant les mé­thodes de production. La valorisation du capi­tal et le partage de la valeur reposent sur l'extraction de la plus-value relative. Afin de ré­soudre une crise due à une faiblesse des débou­chés (cf. sa­lai­res trop faibles), on assiste à une hausse simulta­née des salaires et des profits. Cette augmen­ta­tion conjointe résulte d'une double indexation des salaires réels sur les gains de productivité et des prix sur les coûts de production. La norme de consommation est dy­namique (cf. la «société de con­sommation»), portant sur les produits issus de branches où pré­valent les nouvelles méthodes de production.

 

Pour fonctionner, ces régimes d'accumulation ont besoin d'un environnement socio-institu­tion­nel permettant le développement des trans­formations économiques et sociales sans qu'il y ait trop de tensions, de conflits. C'est là la fonc­tion du mode de régulation. Le mode de régula­tion peut se définir comme «l'ensemble des for­mes institutionnelles, des réseaux de normes ex­pli­cites ou implicites assurant la compatibilité des comportements dans le cadre d'un régime d'ac­cumulation conformément à l'état des rap­ports sociaux et par-delà leur rapport conflictuel» (13). Autrement dit, un mode de régulation est un ensemble de procédures et de comportements re­produisant les rapports sociaux fondamentaux, sou­tenant le régime d'accumulation, rendant com­patible un ensemble de décisions décentrali­sées (14).

 

Régulation concurrentielle et régulation mono­polistique

 

Pour conceptualiser les mécanismes de régula­tion, cinq formes institutionnelles sont retenues: les formes de la contrainte monétaire (organi­sa­tion de la création monétaire, contrôle de la mas­se…), les formes de la concurrence, les formes de l'Etat (les modes d'intervention de l'Etat,…), les for­mes du régime international (DIT, hiérar­chi­sation de l'économie internatio­nale,…) et, enfin, le rapport salarial qui est l'élément central (15). Ces éléments permettent de définir deux grands modes de régulation (concurrentielle et mono­po­listique), chacun pou­vant correspondre à un régi­me d'accumulation (extensive et intensive). Dans la régulation con­currentielle, les mécanis­mes du marché domi­nent, l'ajustement de la pro­duction et de la de­mande sociale se faisant par les prix. Le rapport salarial a une codification précise, par nature individuelle et limitée dans le temps du contrat de travail. La concurrence en­tre les capitalistes repose sur les prix, même si la structure de pro­duction n'est pas atomistique. L'Etat intervient peu (cf. l'«Etat-gendarme»). Au niveau interne, l'Etat veille au respect des droits acquis par la révolution bourgeoise de 1789 (liberté de circula­tion des biens et des personnes, liberté d'entreprendre,…). Dans le domaine éco­no­­mique et social, son intervention interfère peu avec le jeu du marché; il n'intervient pas sur le fonctionnement des marchés mais sur leurs struc­­tures (par exemple, en développant le sys­tè­me bancaire). Dans la régulation monopolis­ti­que, des formes institutionnelles donnent lieu à des procédures originales de formation des prix et des salaires. Parmi ces formes institution­nel­les, l'extension et la codification des négocia­tions collectives qui modifient le caractère indi­vi­duel du contrat de travail; la multiplication des interventions de l'Etat permet la conclusion d'accords de branches et de conventions natio­na­les. Ainsi, passe-t-on d'un Etat circonscrit à un Etat inséré, celui-ci quittant son rôle arbitral pour participer activement au jeu économique et social (16). Dans la régulation monopolistique, les prix sont «administrés» c'est-à-dire relati­ve­ment déconnectés vis-à-vis des déséquilibres du marché. Cela nécessite des procédures so­ciales de validation de la production et du re­venu.

 

Précisons que l'opposition théorique entre ces deux régulations-types recouvre un processus his­torique long et contradictoire. Les régula­tion­nistes n'ont pas une vision déterministe et li­néai­re de l'histoire; on ne passe pas de façon dé­finitive de la concurrence au monopole, bien au contraire. Certains auteurs (R. Boyer, M. Agliet­ta,…) constatent actuellement un retour en force de la concurrence. Des formes de concur­rence «sau­vage» réapparaissent notamment avec le dé­veloppement de certaines PME. Les cinq NPI de l'Asie du Sud-Est (17) développent des straté­gies «agressives» de conquête des mar­chés exté­rieurs; les Japonais pratiquent des kil­ler's stra­tegies  (18). Dès lors, l'oligopole stabi­lisé est de plus en plus menacé et les dominations devien­nent très temporaires.

 

Le régime d'accumulation et le mode de régula­tion constituent donc un mode de développement du capitalisme. Reste à examiner la cause de l'exis­tence des crises dans les économies capita­listes. Comme nous l'avons déjà évoqué, le mo­dèle néo-classique n'accorde aucun statut théo­rique à la notion de crise, celle-ci étant, au mieux, un choc, un événement dû à une im­per­fec­tion passagère des mécanismes d'ajustement. A l'opposé, les marxistes, déterministes et réduc­teurs, affirment que les économies capitalistes sont, par nature, porteuses d'une crise structu­rel­le qui, à terme, provoquera l'effondrement du mo­de de production. Entre ces deux «extrêmes», la théorie de la régulation présente une analyse réaliste.

 

Les crises

 

Elaborant une typologie, certains animateurs de l'école de la régulation distinguent quatre types de crise. Le premier type regroupe les crises qui sont dues à des facteurs extérieurs au mode de développement (cf. guerre, catastrophes natu­rel­les ou climatiques,…). Le mode de développe­ment intervient en ce que sa forme conditionne le dé­roulement de la crise. Le deuxième type en­globe les crises de régulation. Une crise de régu­lation est provoquée par des facteurs internes au mode de développement; ce type de crise totale­ment en­dogène, fait partie de la régulation. C'est une «pha­se d'apuration des tensions et déséqui­libres accumulés lors de l'expansion» (19). Ces crises sont cycliques comme le montre toute étude du XIXième siècle. Périodiquement, le mode de dé­ve­loppement en vigueur connait des problèmes de surproduction; les capacités excédentaires doi­vent s'ajuster à de nouveaux débouchés sous pei­ne d'une baisse des profits. La crise a alors le mé­rite d'éliminer certains producteurs, d'en in­tro­duire d'autres, de déplacer les investisse­ments, etc. Les efforts de productivité et la pres­sion sur les salaires permettent une reprise de l'ac­cumulation.

 

A côté de ces «petites» crises, on peut constater l'existence de crises plus profondes: les «gran­des» crises ou crises structurelles c'est-à-dire des périodes au cours desquelles «la dyna­mique économique et sociale entre en contradic­tion a­vec le mode de développement qui l'impulse, c'est-à-dire où ressort le caractère contradictoire de la reproduction à long terme du système» (20). Par exemple, la «Grande Dépression» de la fin du XIXième siècle. Ces crises structurelles qui touchent à la régulation et au régime d'accu­mu­lation, sont de deux types: les crises de la régu­la­tion et les crises du régime d'accumulation. Une crise de la régulation cor­respond à une période où les mécanismes de la régulation sont incapables de renverser des en­chaînements conjoncturels dé­favorables alors qu'initialement le régime d'accumulation était viable. Trois circonstances conduisent à ce di­vorce entre la structure éco­no­mique et la régula­tion: des luttes socio-politi­ques, des perturbations externes ou internes d'un type nouveau, l'approfondissement de la logique de régulation, celle-ci étant parvenue à sa pleine maturité. Par exemple, la crise de 1929. Une cri­se du régime d'accumulation est une crise du mo­­de de déve­loppement, celle qui met en cause les formes ins­titutionnelles les plus essentielles, celles qui conditionnent le régime d'accu­mu­la­tion. Ce dernier a atteint ses limites et cesse de fonc­tion­ner. Ce type de crise ressemble à la crise orga­nique dans l'orthodoxie marxiste (la crise finale du mode de production capitaliste) mais la crise de régime d'accumulation, aussi grave soit-elle, ne renverse pas le capitalisme. En ou­tre, cette crise est difficile à distinguer de la précédente car dans les deux cas, il y a une crise de la régu­lation. Actuellement, nous connais­sons une crise du régime d'accumulation.

 

La crise actuelle

 

Après la deuxième guerre mondiale, les écono­mies industrielles connaissent une croissance é­quilibrée et rapide, celle-ci étant permise par un régime d'accumulation intensif et une régula­tion monopoliste. Alors que les libéraux font de la concurrence pure et parfaite un idéal où l'op­ti­mum économique serait atteint, il est inté­ressant de constater que les économies occiden­tales ont connu une croissance sans précédent au moment même où l'on assistait à une dominance des oli­gopoles, à une intervention accrue de l'Etat et à une régulation monopolistique. Ce mode de déve­lop­pement qui peut être ainsi quali­fié de fordiste a atteint aujourd'hui ses limites. Ainsi la crise actuelle est due principalement à un épuisement du fordisme c'est-à-dire  qu'elle est d'abord une crise du rapport salarial.

 

La croissance des «Trente Glorieuses» repose glo­balement sur de forts gains de productivité liés à des transformations de l'organisation de la production, marquées par le recours massif aux formes d'organisation du travail tayloro-for­diste (OST). La modernisation des processus productifs (nouveau régime d'accumulation) fait l'objet d'une très large acceptation d'un com­pro­mis implicite entre les employeurs et les sala­riés. Les patrons ont toute liberté pour organiser la production et accroître la productivité. Par la négociation collective, par des compromis insti­tutionnels, les syndicats récoltent les fruits de la croissance en obtenant des augmentations de sa­laires. Ainsi ce régime d'accumulation s'ac­com­­pagne d'un nouveau rapport salarial; les tra­vailleurs acceptent de nouvelles conditions de tra­vail en échange de hausse du pouvoir d'achat et d'un développement de salaire indirect (cf. la Sé­curité Sociale); désormais, les luttes se con­cen­­trent sur le pouvoir d'achat (salaire nomi­nal). La hausse des salaires réels permet d'ac­croître les débouchés du secteur de la consom­ma­tion où le fordisme triomphe (cf. les biens du­rables asso­ciés au logement, automobile). Une vé­riable con­sommation de masse s'instaure, ce qui stimule les investissements; en permanence, les capaci­tés de production s'adaptent à la de­mande sociale et ce, en incorporant le progrès technique. Globalement, on a «un processus cu­mulatif dans lequel une croissance rapide repose sur des règles stables de partage salaires/profits et con­sommation/investissement» (21). La con­cur­­rence par les prix est faible de par l'im­por­tance des oligopoles stabilisés. Les firmes ayant ac­quis «une certaine maîtrise des micro-fluctua­tions», les prix ne sont plus des données de la concurrence mais le reflet d'une stratégie. Dé­sor­mais, la «guerre» ne se fait plus par les prix mais par la publicité, la différentiation (objective et subjective) des produits. La concur­rence mono­polistique suppose une action directe de la de­mande sociale (cf. la «filière inversée» de J.K. Galbraith) et ce, par diverses pratiques permet­tant la fabrication de différents statuts de sala­riés pour des différents revenus et positions so­ciales (l'OST repose sur une hiérarchisation du travail). Autrement dit, ce type de concur­rence im­plique une différenciation accrue des salaires et donc des inégalités.

 

La régulation monopoliste triomphe, un «cercle  ver­tueux» (R. Boyer) s'instaurant: augmenta­tion de la productivité – croissance (hausse des sa­laires et des profits) – nouveaux débouchés – in­vestissements – hausse de la productivité. La cri­se naît quand ces différentes formes institu­tionnelles de la régulation monopoliste ne fonc­tionnent plus. D'abord il existe une remise en cau­se du rapport salarial fordiste et ce, par la re­cherche d'une plus grande flexibilité de l'emploi, de nouvelles formes d'organisation du travail (cf. la participation), d'individualisation des sa­laires. Depuis la fin des années 60, l'orga­nisa­tion du travail tayloro-fordiste est l'objet d'atta­que de la part des syndicats qui dé­noncent la pei­nibilité du travail. Dans le même temps, on as­siste à un ralentissement des gains de pro­ducti­vité. Dès lors, les mécanismes de la négociation collective fonctionnent de plus en plus mal. Les hausses de salaires tendent à dé­passer les gains de productivité, l'accumulation étant très sérieu­sement remise en cause. Autrement dit, les em­ployeurs ne peuvent oc­troyer des augmentations de salaires. En outre, les entreprises supportent de plus en plus mal le coût du salaire indirect (cf. la protection sociale). Les multiples interven­tions de l'Etat (l'«Etat-Providence») sont aussi en crise (les limites des politiques keynésiennes ne signifient pas qu'il faille se jeter dans les bras du libéralisme). Les formes de la concur­ren­ce se modifient, une cer­taine concurrence «sau­vage» réapparaissant. Les banques natio­na­les contrôlent de plus en plus difficilement la masse monétaire (cf. inflation, développement et prolifération de nouveaux ins­truments finan­ciers,…). Enfin, la crise perma­nente du SMI, depuis la fin des années 60, marque une remise en cause (partielle) de la domination améri­cai­ne, l'économie américaine connaissant un per­pé­tuel déclin. La régulation nationale devient im­possible dans un monde qui tend à l'interna­tio­na­lisation; pis, le régime in­ternational est lui-même en crise.

 

La crise de la régulation renvoie à une crise du régime d'accumulation intensif. C'est ce que ré­vèle la crise du rapport salarial. Le régime in­tensif repose sur les gains de productivité liés à l'OST. Or cette OST connaît actuellement ses li­mites tant sociales (le travail à la chaîne n'est guè­re enthousiasmant) que technique et écono­mi­que (les gains de productivité nécessitent de plus en plus d'investissements et la parcellisa­tion génère de nombreux effets pervers). En ou­tre, seule une croissance continue de la produc­tion (cf. les économies d'échelle) permet des gains de productivité; mais cette croissance se heurte à une certaine saturation des besoins des ménages (cf. les taux d'équipement des ménages en biens durables); la norme de consommation for­diste, autre pilier du régime d'accumulation intensif, s'épuise aussi.

 

Le cercle vicieux stagnationniste

 

Crise du rapport salarial, crise de la norme de con­sommation… tout cela marque une crise glo­ba­le du régime d'accumulation. Au cercle ver­tueux de la croissance fordiste se substitue, fin des années 60, un cercle vicieux stagnationniste. L'OST s'épuisant, les entrepreneurs réagissent en substituant de plus en plus du capital au tra­vail afin de maintenir des gains de productivité. Désormais, plus de machines et moins d'hom­mes (cf. sous-emploi). Mais la producti­vité appa­rente du capital baisse et pèse sur la rentabilité (il y a plus de capital à valoriser mais les profits n'augmentent pas en conséquence); d'où un ra­lentissement des gains de productivité (variables selon les pays). Pourtant, les em­ployeurs vont con­tinuer à augmenter les sa­laires, ce qui grè­vent cruellement leurs profits. Ces hausses de salaires sont, dans un premier temps, compen­sées par des hausses de prix; d'où une poussée des tensions inflationnistes. L'inflation est aussi sou­tenue par le développe­ment de l'endettement des entreprises qui doi­vent financer leurs in­vestis­sements. La crise pétrolière accentue des tensions et fait baisser les investissements. Dès lors, le cercle stagnation­niste qui se met en place est le suivant: faibles gains de productivité – baisse des profits – baisse de l'investissement – fai­ble croissance du pou­voir d'achat – ralentis­sement de la croissance – faibles gains de pro­ductivité.

 

La théorie de la régulation est la cible de nom­breuses critiques, tant des économistes «de gauche» que «de droite» (22). C'est un signe en­cou­rageant. Certes, certaines de ses critiques sont fondées. Ainsi il est reproché aux régula­tionnistes leur incapacité à construire un mo­dèle, de formuler des lois, d'être trop descriptif, de formuler des lois, de ne pas offrir de solutions pour sortir de la crise… Néanmoins, cette école propose une analyse fructueuse de la crise. Mieux, en appréhendant le système économique comme une totalité intégrée dans une histoire et une réalité sociale, rejetant l'individualisme méthodologique, cette école assigne de nouveaux fondements à l'analyse macro-économique, cons­ti­tuant ainsi une alternative à la théorie néo-classique. Dès lors, il appartient à tous ceux qui recherchent de nouveaux outils/armes con­ceptuels de puiser dans l'arsenal régulation­niste. L'heure est désormais aux hérésies.

 

Guillaume d'EREBE.

Notes

 

(1) P. Boccara a développé des thèses sur la suraccumula­tion-dévaluation du capital. Il est un des théoriciens du Capitalisme Monopoliste d'Etat, théorie marxo-léniniste réactualisant la fameuse baisse tendancielle du taux de pro­fit. Cette théorie fut développée en URSS (cf. V. Tche­prakof) et devint, dans les années 70, le credo du Parti Com­muniste Français dont P. Boccara est membre.

(2) Boyer (Robert), La théorie de la régulation: une analyse critique, Paris, La Découverte, coll. Algama, 1987, p. 39.

(3) Cf. la perspective de Karl Polanyi, ce remarquable anti-Hayek, constitue une tentative intéressante.

(4) Boyer (R.), op. cit., p. 30. Il est à noter que G. Des­tan­ne de Bernis, responsable du Groupe de Recherche sur la Régulation de l'Economie Capitaliste (GRREC) est un des premiers à avoir introduit le terme de régulation dans les sciences sociales, utilisant certains éléments de la systémi­que pour réactualiser l'analyse marxiste.

(5) Il est relativement délicat de préciser les frontières de l'école de la régulation. Stricto sensu, cette école se consti­tue autour de Boyer, Aglietta et Coriat, autour du CEPREMAP. On peut y rattacher l'école néo-marxienne de Grenoble (GRREC) animée par Destanne de Bernis. L'é­cole de la régulation entretient certains rapports avec d'au­tres économistes ou courants: l'Allemand J. Hirsch, les ra­dicaux américains Gordon, Bowles, Weiss, Kopf, Piore, Sabel et la Social Structure of Accumulation, certains te­nants de l'école de la dépendance tels R. Haussman (cf. State Landed Property oil Rent and Accumulation in Vene­zuela; an Analysis in Terms of Social Relations;   thèse, Cornell University, août 1981) et C. Minami (cf. Crois­sance et stagnation au Chili: élément pour l'étude de la régu­lation dans une économie sous-développée, thèse, Pa­ris X-Nanterre, 1980; Le Tiers-Monde dans la crise, Paris, La Découverte, 1986).

(6) FIFI, STAR, DMS, METRIC… sont des modèles de prévision. Ainsi DMS est un modèle dynamique multisec­toriel utilisé pour les travaux de planification; FIFI (mo­dèle physico-financier) est un modèle de prévision pour le moyen terme (ZOGOL étant pour le court terme), etc…

(7) Thèse, Paris I, octobre 1974.

(8) Paris, Calman-Levy, 1984.

(9) Cf. Aglietta (M.) et Orlean (A.), La violence de la monnaie, Paris, PUF, 1982.

(10) Mazier (J.), Basle (M.), Vidal (J.F.), Quand les crises durent…; Paris, Economica, 1984, p. 9.

(11) Boyer (R.), op. cit., p. 46.

(12) Karl Marx distingue la plus-value absolue et la plus-value relative. Pour obtenir un surtravail accru de la part du salarié, deux façons sont possibles: d'une part en aug­mentant soit la durée, soit l'intensité du travail (ce qui re­vient au même), c'est la plus-value absolue; d'autre part en diminuant le «temps de travail nécessaire» qui correspond à la valeur des consommations nécessaires au salarié, c'est la plus-value relative. Cette dernière est la résultante d'une liai­son spécifique entre productivité et profit: produire à moindre coût les consommations ouvrières, c'est réduire le coût en travail de la reproduction de la force de travail, c'est donc dégager, sur chaque journée effectuée, davantage de surtravail donc davantage de plus-value.

(13) Lipietz (A.), «Accumulation et sortie de crise: quel­ques réflexions méthodologiques autour de la notion de ré­gu­lation», in Cahiers  du CEPREMAP, n° 8409, p. 2.

(14) Cette noion de mode de régulation est intéressante en ce qu'elle peut se substituer à la théorie des choix indivi­duels (cf. individualisme) et au concept d'équilibre général qui sont actuellement les fondements de l'étude des phé­no­mènes macro-économiques.

(15) Le rapport salarial est la manière dont s'organisent les relations entre l'organisation du travail et le mode de vie des salariés. On y trouve la division sociale et technique du travail, les méthodes utilisées pour attacher les salariés à leur entreprise et obtenir d'eux une mobilisation dans le travail, les règles qui régissent le niveau et l'évolution des salaires (directs et indirects), le mode de vie des salariés. Cf. Boyer (R.), La flexibilité du travail en Europe, Paris, La Découverte, 1986; Coriat (B.), L'atelier et le chrono­mètre, Paris, Bourgois, 1982.

(16) Cf. André (C.) et Delorme (R.), L'Etat et l'économie, Paris, Seuil, 1983.

(17) Corée du Sud, Taiwan, Hong-Kong, Malaisie, Singa­pour.

(18) Les killer's strategies consistent à vendre certains biens incorporant de l'innovation, directement sur de vastes mar­chés sans passer par une phase de hauts prix et ce, afin d'étouffer les concurrents.

(19) Boyer (R.), op. cit., p. 62.

(20) Boyer (R.), op. cit., p. 63.

(21) Boyer (R.), La flexibilité du travail en Europe, Paris, La Découverte, 1986, p. 15.

(22) Cf. Kolm (S.C.), Philosophie de l'économie, Paris, Seuil, 1986.

 

 

mercredi, 12 mai 2010

Les Grecs, un peuple qui a décidé de ne pas se laisser faire...

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Les Grecs, un peuple qui a décidé de ne pas se laisser faire...

Le billet de Patrick Parment

 

Ex: http://synthesenationale.hautetfort.com/

 

Les avis sont partagés concernant le soi-disant sauvetage de la Grèce. Tout porte à croire qu'il y a une arnaque derrière tout cela. La dette publique grecque est de 112 % du PIB, c'est un peu excessif, certes, mais l'ensemble des pays européens sont également endettés jusqu'au cou. Même l'Allemagne n'y échappe pas.

 

La bonne question à se poser est : d'où vient cette attaque contre l'euro avec la Grèce comme prétexte ? Des agences de notation qui sont au nombre de trois. Deux sont américaines (tiens, tiens !) Standard & Boss, Moody's et la troisième, curieusement, est française, Fitch, appartenant au groupe Fimalac de Marc Ladreit de Lacharrière. A elles trois, elles contrôlent 90 % du marché. Or, qui rémunère ces agences ? Les émetteurs de dettes eux-mêmes ! Autrement dit, c'est le serpent qui se mord la queue. Ces mêmes agences de notation ont, par ailleurs, largement contribué à la montée en puissance des produits financiers ultra-complexes issus de la titrisation de créances douteuses. Champion de cette roulette russe financière, Goldman Sachs ! Comme par hasard.

 

Il n'en reste pas moins vrai que depuis la Grèce des "colonels", ce pays a été dirigé par deux familles d'escrocs : les Papandréou (gauche) et les Karamanlis (droite) qui ont confondus leurs intérêts personnels avec ceux du pays.

 

La question qui se pose donc est : faut-il vraiment sauver la Grèce ? Et le terme de sauver est-il exact quand on sait qu'il s'agit de la faire entrer dans le moule anglo-saxon ? Je n'en suis pas si sûr. Car une chose est certaine, c'est que le système a repris ses mauvaises habitudes. Ce qui va se traduire par de nouvelles fermetures d'usines et du chômage, en France comme en Europe de l'ouest. Va-t-on continuer de se faire déplumer sans réagir ? Cette Europe-là et ces tristes sires qui nous gouvernent continuent de faire preuve d'irresponsabilité en demeurant attachés au modèle financier anglo-saxon.

 

La révolte des Grecs est salutaire et leur sortie de la zone euro serait peut-être un premier pas vers autre chose. En tout cas, voilà un peuple qui n'est pas avachi et qui descend dans la rue pour manifester sa colère, promettant de tout casser. Quant à sa classe politique, la voilà prévenue, le peuple en a assez de la corruption. Et, sublime réjouissance, ce ne sont pas les ouvriers qui manifestent, mais le peuple. Car c'est bien le peuple qu'il faut toujours défendre. Ce qu'a compris un homme comme Poutine. Et certainement pas Sarkozy !

Problema greco, affare europeo

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Problema Greco, affare europeo

di Roberto Zavaglia - 10/05/2010

Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

Non bisognava essere dei veggenti per indovinare che le draconiane "misure di austerità" imposte dal governo greco in cambio del prestito elargito dalla Ue e dal Fmi avrebbero causato imponenti proteste, con il rischio di violenze più o meno diffuse. E' noto che, ad Atene, la battaglia politica è sempre molto "vivace" e le organizzazioni sindacali piuttosto combattive. Il sangue che è già scorso è stato, probabilmente, causato da quelle frange di estrema sinistra, che in Grecia si riuniscono per lo più sotto le bandiere anarchiche, la cui presenza non va sopravvalutata. Si tratta di poche migliaia di persone che nella capitale stazionano nel quartiere di Exarchia, dove vivono in scalcagnate comunità all'interno di case occupate. Pur essendo un mito per gli "antagonisti" di tutta Europa, dal punto di vista politico questi gruppi radicali, anche se sono in grado di produrre danni, contano poco.


  Sarebbe diverso se una parte della popolazione più indebolita dai piani governativi abbandonasse le forme pacifiche di contestazione. Nel giudicare le mosse del premier Papandreou, gli europei dovranno dunque tenere conto della sua esigenza di mantenere la pace sociale nella nazione. Le misure decise sono così pesanti che avrebbero provocato una reazione non solo nell'esuberante Grecia, ma in qualsiasi altro Paese europeo. Per rientrare dal debito fuori controllo, sono previsti il blocco degli stipendi dei lavoratori pubblici fino al 2014, l'abolizione di tredicesima e di quattordicesima per gli impiegati statali che guadagnano oltre 3.000 euri al mese, la cancellazioni di bonus che sono parte rilevante dello stipendio, l'aumento di altri due punti dell'Iva, con un incremento del 10% delle tasse su benzine, sigarette e alcolici, l'innalzamento dell'età pensionabile.  


  Va detto che quelle che sono state definite le cicale greche non se la passavano poi così bene nemmeno prima. I salari sono già bassi: quello minimo è pari al 60% dei corrispettivi olandese, belga, francese e al 50% dell'irlandese. La divisione della ricchezza, poi, è maggiormente sperequata rispetto agli altri Paesi dell'Eurozona. Il sistema economico greco ha molte colpe per l'attuale crisi. Il settore pubblico è ipertrofico ed inefficiente, essendo stato gonfiato con massicce assunzioni di carattere clientelare, l'evasione fiscale è immensa -perfino per un Paese come il nostro dove, al momento del conto, la domanda rituale è "con o senza fattura?"- la corruzione è ampiamente diffusa a tutti i livelli. Per l'economia greca, però, l'entrata nell'euro, tanto desiderata e poi raggiunta nel 2001, non è stato probabilmente un grande affare. Pur essendo i suoi prodotti  poco competitivi, Atene non può più attuare svalutazioni competitive della moneta al fine di   abbassare i prezzi delle sue merci, ma per rimettere in ordine i conti ha a disposizione solo lo strumento, doloroso, dei tagli e dell'innalzamento delle tasse. 


  Sono state comunque le esitazioni dell'Unione Europea ad aggravare la crisi, incoraggiando la speculazione finanziaria. La cancelliera Merkel, in particolare, ha a lungo tentennato, dando l'impressione di volere abbandonare la Grecia al proprio destino. Se è vero che la Germania non può essere il bancomat dei Paesi in difficoltà, bisogna però aggiungere che sono i tedeschi ad avere maggiormente guadagnato dall'entrata in vigore dell'euro, pur avendo abbandonato l'amato marco, vero e proprio simbolo identitario della nazione nel dopoguerra. Grazie alla parità monetaria, l'industria tedesca, infatti, ha potuto inondare con i suoi prodotti di alta qualità soprattutto i Paesi più deboli dell'area euro.
  Giova inoltre ricordare che una parte consistente del debito greco è detenuto, oltre che da quelle francesi, dalle banche tedesche che, in caso di default, si potrebbero trovare nella condizione di chiedere sussidi governativi. Gli aiuti ad Atene sono dei prestiti al gravoso tasso del 5% che, se rimborsati, produrranno cospicui profitti per i Paesi che li hanno concessi i quali si indebitano a tassi minori. Si calcola che la stessa Germania guadagnerebbe, solo con la prima tranche di prestiti, 622 milioni di euri, la Francia 465 milioni e l'Italia 356 milioni. Comunque, la crisi greca, più di ogni altra cosa, ci ha mostrato che la solidarietà europea è un concetto aleatorio. Le settimane passate nell'incertezza, i toni "nazionalistici", con i quali i vari governi hanno voluto far mostra di difendere i risparmi dei propri cittadini, hanno evidenziato quanto l'Europa sia debole anche rispetto a quella moneta comune che riteneva il suo capolavoro e il suo gioiello.


  Finalmente, la Merkel, mercoledì scorso, in un discorso al parlamento, che la stampa tedesca ha giudicato storico, ha dato l'impressione di assumersi le responsabilità che competono a un Paese così importante. Dopo avere dichiarato che "è in gioco il futuro dell'Europa e della Germania in Europa", la cancelliera ha aggiunto perentoriamente che "l'Europa oggi guarda alla Germania. Senza di noi o contro di noi non si può prendere alcuna decisione". Sembrerebbe la prima rivendicazione del ruolo di guida di Berlino in Europa, dopo decenni in cui la Germania ha messo ogni impegno per diluire la sua forza economica in un europeismo consensuale, negando di volere primeggiare anche politicamente. Ferma da tempo in stazione la locomotiva franco-tedesca, non sarebbe una brutta notizia che la sola Germania si decidesse a fare da traino per l'integrazione europea, abbandonando scrupoli e paure suscitati dal suo passato.


  Sarebbe davvero eccessivo, però, trarre da un discorso parlamentare conclusioni politiche certe.  L'Europa attuale, anche dal punto di vista economico, ha bisogno di rilevanti riforme che metteranno in luce se c'è davvero chi ambisce a fare da sprone agli altri. Oggi, si capisce che è stato sbagliato dotare della stessa moneta Paesi con divari economici troppo marcati. Probabilmente, si pensava di valersi ancora una volta del metodo funzionalista, compiendo un passo importante sul piano economico, nella convinzione che la coesione sociale scaturitane favorisse il rafforzamento delle istituzioni politiche. E' vero che l'integrazione continentale è nata con la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca), ma adesso ci si è spinti a un punto in cui l'iniziativa politica deve precedere ogni altra istanza.


  Anche nel governo dell'economia, senza una politica fiscale comune e senza un coordinamento delle finanze dei vari Paesi, l'euro rappresenterà più una gabbia che un'opportunità, lasciando i  Paesi più deboli nelle grinfie degli avvoltoi alla Soros. In fin dei conti, mentre l'Europa trema per la crisi della Grecia che rappresenta solo lo 0,3% del pil mondiale, gli Usa non sembrano avere le stesse difficoltà per la quasi bancarotta della ben più sostanziosa (economicamente) California. Vale a dire che, senza la politica e senza un governo responsabile, le potenze economiche sono solo tigri di carta.

 

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Lateinamerika-Strategie

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Lateinamerika-Strategie

Rede von Andreas Mölzer im Plenum am 20. April 2010 zur Strategie der EU für die Beziehungen zu Lateinamerika

Ex: http://www.andreas-moelzer.at/

Herr Präsident!

Nachdem über 300 Jahre Kolonialherrschaft Lateinamerika geprägt haben, nachdem der Kontinent zu einem Schauplatz des Kalten Krieges geworden war, hat sich Lateinamerika nunmehr zu einer aufstrebenden Weltregion entwickelt. Dass etwa Russlands Präsident Medwedjew Mittel- und Südamerika bereist hat, beweist, dass er versucht, die Wirtschaftsbeziehungen zu Südamerika zu stärken. Und es zeigt auch, wie richtig die EU mit ihrem Kurs liegt, die Beziehungen zu diesem Kontinent, der ja mehr Einwohner hat als die EU 27, zu stärken.

Dabei gilt es nicht nur, Verhandlungen mit dem wirtschaftspolitischen Block Mercosur aufzunehmen, sondern auch an all jene kleineren Staaten zu denken, die nicht dieser Wirtschaftsregion oder der Andengemeinschaft angehören. Die EU ist ja nicht nur Hauptinvestor oder wichtigster bzw. zweitwichtigster Handelspartner, sondern auch der wichtigste Geber von Entwicklungshilfe. Wir sind bereits aus finanzieller Sicht ein wichtiger Faktor, und es gilt meines Erachtens, diese Poleposition im europäisch-lateinamerikanischen Sinne zu nutzen.

Crise: "le déni de réalité ne pourra se prolonger longtemps"

Crise : « le déni de réalité ne pourra se prolonger longtemps »

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Jean-Luc Gréau n’est pas vraiment un agité altermondialiste. Cadre au CNPF puis au Medef pendant trente-cinq ans, c’est un économiste iconoclaste qui nourrit sa réflexion aux meilleures sources : Smith, Schumpeter et Keynes. A la différence de bon nombre de ses pairs, il a vu venir la crise, comme il la voit aujourd’hui se poursuivre. Un économiste avisé. L’espèce est rare.

Le Choc du mois : Quelles sont selon vous les nouveautés radicales qui caractérisent la globalisation économique mise en place dans les années 1980-1990, et dont vous dites qu’elles ont changé la nature même du libéralisme économique ?

Jean-Luc Gréau : Nous percevons maintenant avec netteté les deux orientations cruciales qui ont ouvert la voie à la transformation économique et financière de ces trente dernières années.

Une première orientation est donnée par la subordination de l’entreprise aux volontés expresses de ces actionnaires puissants que sont les fonds de placement. La personne morale « entreprise » a été instrumentalisée et abaissée au rang de machine à faire du profit (money maker).

Le phénomène est manifeste pour les sociétés cotées qui ne sont pas protégées par un capital familial ou par des actionnaires de référence, mais il affecte aussi beaucoup de sociétés non cotées, contrôlées par des fonds dits de « private equity » qui ont les mêmes exigences que les actionnaires boursiers.

Une deuxième orientation est représentée par le libre-échange mondial qui concerne surtout l’Europe, espace le plus ouvert au monde, et à un moindre degré, les Etats-Unis.

Cette ouverture des marchés des pays riches revêt une importance cruciale du fait que, contrairement au double postulat de suprématie technique et managériale des Occidentaux d’une part, et de spécialisation internationale du travail d’autre part, les pays émergents ont démontré leur capacité à rattraper nos économies et à s’emparer de parts de marché croissantes, y compris dans les secteurs à fort contenu technologique. Sait-on que les Etats-Unis subissent, depuis 2003, un déficit croissant de leurs échanges dans ces secteurs ?

La grande transformation s’est produite quand ces deux orientations ont conjugué leurs effets pour entraîner les économies développées dans une spirale de déflation rampante des salaires qui a été longtemps masquée par l’endettement des particuliers. C’est cela que signifie au premier chef la crise des marchés du crédit déclenchée en 2007 : l’incapacité pour de nombreux ménages occidentaux de rembourser une dette disproportionnée.

Estimez-vous que nous allons vers une sortie de crise comme le prétendent les chefs d’Etat du G-20 ?

Non, la crise du crédit privé n’est pas résorbée, en dépit de ce qu’affirme la communication tendancieuse de la corporation bancaire : elle couve discrètement dans les comptes de nombreux organismes.

Aujourd’hui, nous devons faire face de surcroît à une montée des périls sur la dette publique de la plupart des pays occidentaux, pour ne pas dire tous. L’affaissement des recettes fiscales, le subventionnement des banques en faillite et les mesures de relance ont sapé les fondements de l’équilibre des comptes publics.

Pour conjurer les nouveaux périls, il faudrait que se manifeste une providentielle reprise économique forte et durable redonnant aux Etats les moyens de faire face à leurs obligations financières. Mais les orientations qui ont conduit au séisme sont toujours à l’œuvre et l’on peut craindre au contraire leur renforcement.

Comment interprétez-vous la crise suscitée par l’explosion de la dette publique grecque ?

La faillite virtuelle de la Grèce, qui devrait précéder de peu celle d’autres pays européens, nous enseigne deux choses.

La première est que le choix d’une monnaie unique impliquait le choix corrélatif d’une union douanière. Or, nous avons fait, immédiatement après Maastricht, le choix inverse de l’expérience, en forme d’aventure, du libre-échange mondial et de la localisation opportuniste d’activités et d’emplois dans les sites les moins chers.

Ce choix a fragilisé par étapes les économies les moins compétitives, de la périphérie européenne, mais aussi des économies dignes de considération comme la française et l’italienne. Il a en outre conduit l’Allemagne, puissance centrale, à réduire ses coûts du travail, pour se maintenir à flot grâce à un courant d’exportation croissant, mais au prix d’une consommation chroniquement en berne, qui pèse sur les exportations des partenaires européens vers le marché allemand. L’Europe, s’il n’est pas trop tard, ne sera sauvée que par une remise en cause du dogme libre-échangiste.

Entretien extrait du Choc du mois n° 37, mai 2010

La deuxième est probablement que la monnaie unique a joué, à l’inverse de ce qu’imaginaient ses concepteurs, un rôle d’inhibiteur des faiblesses et des déséquilibres. Avant la crise, tous les pays de la zone euro bénéficiaient de conditions d’emprunt favorables. Les écarts de taux entre l’Allemagne et les pays aujourd’hui directement menacés étaient tout à fait négligeables. C’était là la grande réussite apparente de l’euro.

Mais ce faisant, et avec l’apport complémentaire des fonds dits de cohésion structurels, les pays membres de la zone euro n’ont, en dehors de l’Allemagne et des Pays-Bas, pas pensé leur modèle économique.

Des déficits extérieurs structurels sont apparus partout où l’on n’avait pas les moyens de relever le double défi du libre-échange et de la monnaie forte. Ces déficits structurels n’ont aucune chance de se résorber, sauf dans deux hypothèses : la sortie de l’euro par les pays concernés ou l’entrée en violente dépression de la demande interne. On conviendra que chacune de ces hypothèses renferme la probabilité de la fin de l’Europe, telle que nous l’avons vue vivre depuis les commencements du projet. […]

D’après vous, la crise économique que doit affronter le monde depuis trois ans a-t-elle ébranlé la solidité des dogmes libre-échangistes ?

Hélas, à l’instant présent, les dogmes, les tabous et les interdits qui définissent l’expérience néo-libérale restent en place. On se réjouit officiellement de ce que le libre-échange ait survécu, malgré la gravité de la crise dont il constitue pourtant une cause majeure. On exhorte maintenant les pays sinistrés ou en difficulté à de nouveaux sacrifices, sans prendre en considération le risque de retour en force de la crise de la demande et de rechute consécutive de l’ensemble des marchés financiers.

L’aveuglement persiste et s’aggrave, en dehors de petits cercles de personnes placées en prise directe avec les entreprises ou les territoires sinistrés. Une chape de plomb s’est à nouveau refermée sur les consciences sincèrement ouvertes au débat. Mais le déni de réalité ne pourra se prolonger longtemps. Patience !

A lire : Jean-Luc Gréau, La Trahison des économistes, « Le Débat », Gallimard, 250 p., 15,50 €

Novopress

Les déesses du Panthéon scandinave

freya.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

Les déesses du Panthéon scandinave

 

Origines historiques des divinités féminines

 

Si la religion des Scandinaves de l'Age du bronze et celle de l'Age du fer sont à peu près connues, désormais, la filiation histo­rique des déesses est difficile à préciser. Comme nous l'avions men­tionné par ail­leurs, peu de divinités ont eu une caractère individualisé, jusqu'à la fin de l'Age du fer. La majorité des fonctions féminines se concentrait autour du concept de TERRA-MA­TER. Cependant, dans le cas d'un certain nom­bre de déesses, il est malgré tout possible de repérer les déités archaïques dont elles des­cen­dent et auxquelles elles ont pris leurs attribu­tions.


A l'origine, dans l'Europe du Nord et l'Europe Centrale, la TERRE-MERE se nom­me APIA. Il s'agirait en même temps d'une déesse de l'Eau; les deux archétypes de la femme, l'eau et la terre, qui représentent, chacun, une partie de la ma­trice y sont regroupés alors que l'air et le feu sont les archétypes masculins. Par la suite, cette divi­nité disparaît complètement du culte et de la my­thologie de l'Europe du Nord, du moins, sous le nom d'APIA, et se voit remplacée par plu­sieurs déesses qui se partagent ses fonctions:

 

- JORD représente la terre primitive, incul­te;

- FYORGYN, souvent confondue avec JORD, est la montagne couverte de chênes;

- SIF est la terre productive, déesse de la fertilité dont la chevelure dorée représente la corne d'abondance;

- TAVITI est la terre, lieu d'habitation et de vie sociale, gardienne des lois et de la reli­gion (elle sera remplacée par la suite, d'une part par VOR, personnification des ser­ments, et par SYN, l'allégorie de la justice);

- FRIGG est la mère et l'épouse;

- FREYJA, l'abondance; cette déesse a conservé l'Eau comme archétype alors que les autres sont avant tout des déesses tellu­riques.

 

FRIGG appartient au vieux fond mythique indo-européen car elle est connue sous ce nom ou tout au moins des variantes de ce nom (FRIA, FRU…) dans toute l'aire d'ex­pansion germa­nique. Il est particulièrement frappant de voir que les Anglais, au moment de la colonisation de la Grande-Bretagne par les Vikings, écrivaient le nom de la déesse non pas sous la forme du vieil anglais, FRIGE, mais sous la forme anglicisée du nom danois FRICG ou FRYCG. De nom­breuses sources anciennes la connaissent comme la grande déesse primitive formant avec ODINN le couple archétypal Terre-Ciel. Descendant direc­tement d'une Déesse Mère, elle est sans doute de conception antérieure à celle de son époux qui n'a pris la place qu'il occupe dans la mythologie nordique que tardivement.

 

FULLA, la servante de FRIGG semble être, elle aussi, relativement ancienne; elle serait la sœur VOLLA d'une certaine FRIIA men­tionnée dans une incantation du «Char­me de MERSEBURG»:

 

«…Alors SINTHGUNT et sa sœur SUNNA

Prononcèrent sur lui des incantations;

De même FRIIA et sa sœur VOLLA,

De même WOTAN, avec tout l'art qu'il possédait…».

(in «les Conjurations de MERSEBURG»).

 

Parmi les déités proches de la TERRE-MERE, il faut aussi considérer les DISES, fort an­ciennes en tant que groupe de divinités représentant les es­prits de la maison et de la famille. De même, la déesse Gete THIUTH, disparaît de la mythologie nordique, en tant que déesse de la famille, de la tribu, de la nation, pour être simplement rem­placée par un personnage allégorique, SJOFN, qui n'est qu'une facette de la déesse SIF.

 

Parmi les divinités indo-européennes de la ferti­lité, nous retrouvons l'origine historique du mythe d'IDUNN (fig.4), avec celui des pommes de l'immortelle jeunesse, de la plupart des tradi­tions européennes. Tou­tefois, les pommes sont un ajout tardif au mythe d'IDUNN: l'introduction des pom­mes en Scandinavie ne s'est faite que vers la fin du Moyen-âge, et le terme «epli» signi­fie non seulement «pomme» mais aussi, tous les fruits ronds. TJOTHOLF de HVIN dans son poème «Haustlong», rédigé vers 900, décrit d'ailleurs IDUNN comme pratiquant la vieille médecine des dieux et non comme gardienne de la jeunesse divine.

 

Par la suite, ce rôle de médecin sera repris par la déesse EIDR dont le nom signifie «cure» et qui n'appartient pas au vieux fond mythologique.

 

L'origine de FREYJA est très mal connue et il existe plusieurs théories. Boyer (1973) pense que, par ses attributions guerrières, FREYJA est, avec ODINN, l'une des divinités les plus proches du monde indo-européen. Ce n'est pas l'avis de Re­naud-Krantz (1972) qui constate que cette déesse est inconnue en dehors de la zone d'expansion de la Civilisation Viking; dans le reste du monde germanique, elle se confond avec FRIGG. Il pen­se qu'il pourrait s'agir d'une divinité d'ori­gi­ne pré-indo-européenne. Appar­te­nant à la race des VANES qui sont des dieux de la Ferti­lité et de la Fécondité, elle aurait acquis les as­pects d'une di­vinité indo-européenne par son rôle de déesse de la guerre et de la mort.


Chez les Scythes, comme chez les Gètes, la déesse de la Lune (Skalmoskis chez les Gètes) est à la fois une déesse de la Production, de la Famille  et de la Fécondité, et une divinité de la Destruc­tion et de la Mort. Les morts étaient censés sé­journer sur la Lune.


A cette déesse se substitueront, plus tard, chez les Scandinaves, trois personnages, un dieu MANI qui devient le dieu lunaire, FREYJA qui ac­capare les fonctions de production mais qui de­vient, en même temps, déesse de la mort, fonc­tion qu'elle partage avec HALIA qui se trans­forme alors en HEL.

 

Les WALKYRIES semblent avoir été à l'origine, non pas les belles jeunes filles décrites dans les textes du XIème-XIIème siècles et surtout dans les opéras de Wag­ner, au XIXème siècle, mais de redoutables génies de la mort, voire même des prê­tresses de quelques cultes sanglants, pro­gres­­sivement divinisées,  qui connais­saient le destin et que l'on appelait les ALHI-RUNES. Lorsque, au IIIème siècle P.C., ODINN prend la place de TYR en tant que seigneur de la guerre et de SKAL­MOSKIS dans ses attributions de divinité des tré­passés, il prend à son service les WAL­KYRIES calquées sur les ALHI-RUNES, prê­tresses au ser­vice du dieu de la guerre. C'est à cette occasion qu'elles prennent leurs aspects de belles jeunes filles blondes, servant au WALHALLA, les EIN­JEHARS (morts au combat) qu'elles sont allées choisir sur les champs de bataille. Le terme WALKYRIES signifie d'ailleurs étymologi­que­­ment «celles qui choisissent ceux qui vont tom­ber». Les Germains païens des pre­miers temps croyaient à des esprits féminins féroces, appli­quant les ordres du dieu de la guerre, ranimant les discordes, prenant part à la bataille et dévorant les cadavres.

 

La prophétie et l'art divinatoire, donc la magie étaient réservées aux femmes et plus particuliè­rement aux vierges. De ce fait, comme les WAL­KYRIES, les NORNES, maîtresses de la destinées, ont été calquées sur des personnages historiques, en parti­culier, les prophétesses telles que VE­LEDA chez les Bructères. Dès lors, elles sont de­venues, dans la tradition, le type et l'idéal des de­vineresses norroises.

 

La notion de NORNE d'après Boyer (1981, pp 217) est concentrée sur URDR qui serait la seule des trois à être vraiment ancienne. «Le nom pro­vient du verbe verda (arriver, se passer) qui ren­voie à l'idée indo-européenne pour laquelle des­tin et temps se confondent.»

 

Le terme de norn paraît remonter à la notion indo-européenne traduite par le préfixe ner- qui signifie tordre… ce qui serait corroboré dans la strophe 3 du «Hel­gakvida Hundingsbana I»

 

«…tressèrent à force

Les fils du destin…» (fig.15)

 

Le personnage de la déesse SKADI est à isoler. En effet, les Scandinaves songeant à associer au dieu des Eaux et de la Pêche, une déesse de la Chasse et ne la trouvant pas dans leur propre mythologie, l'emprun­tèrent aux Finnes et la nommèrent SKADI, qui, à l'origine, était un nom épithétique de FREYJA. Elle est considérée comme hé­ritière de l'ancienne VAITU SKURA (la chas­se) ou de VINDRUS et présente les as­pects d'une déesse lunaire souhaitant épou­ser un dieu solaire (BALDER).

 

Il s'agit, en fait, d'une déesse éponyme (3), pu­rement terrienne, de la Scandinavie.

 

Pour être complète, cette recherche de l'origine historique des déesses, ne saurait ignorer diffé­rents textes, qui font appel à l'évhémérisme, entre autres, ceux de Snorri (Prologue de l'«Edda prosaïque», sagas…) ou encore, ceux de Saxo Grammaticus («Gesta Danorum»).

 

Le mythe de la séduction de RIND par ODINN en est un exemple: Saxo Gramma­ticus la dit prin­cesse slave. Il en est de même pour le mythe de la mort de BAL­DER, fils de FRIGG et d'ODINN, et de son épouse NANNA.

 

récit mythologique: BALDER protégé par tous sauf par le gui, à qui il n'a pas demandé de prêter serment, est tué par son frère HODR (dieu aveugle) sur l'instigation de LOKI. Lors de la crémation du corps de son mari, fils de FRIGG, NANNA le cœur brisé, se jette sur le bûcher.
Explication évhémériste: HOTHERUS (HODR) est un héros qui se bat contre BALDR, demi dieu pour les beaux yeux de NANNA.

 

Cette tentation de transposer les mythes dans le réel n'aboutit pas à grand chose. Quelques per­sonnages (héros…) ont cer­tainement été divini­sés (les WALKYRIES, ou BRAGI, dieu de la poé­sie et ancien scalde), mais il est fort peu pro­bable que les grandes divinités du Panthéon nor­dique aient été des personnages historiques. Il s'agit plutôt de figurations des grandes forces na­turelles. Ils restent, toutefois, très proches du monde des humains. C'est ce que nous allons es­sayer de démontrer en comparant le rôle des déesses dans la religion et la vie quotidienne des Scandinaves du Xème s., après les avoir repla­cées dans la mythologie.

 

mardi, 11 mai 2010

Il bombarolo di Times Square legato a terroristi controllati dalla CIA

Il bombarolo di Times Square legato a terroristi controllati dalla CIA

di Paul Joseph Watson - 09/05/2010

Fonte: megachip [scheda fonte]


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Time%20Square.jpgUn uomo arrestato in Pakistan in relazione al fallito attentato dell'autobomba di Times Square (che aveva viaggiato con l'accusato dell'attentato, Faisal Shahzad), è membro di un'organizzazione terroristica controllata dall'Agenzia di intelligence britannica MI6 e dalla CIA.  Lo riferisce il «Los Angeles Times»:

 Sheik Mohammed Rehan, che è stato arrestato martedì a Karachi, «presumibilmente viaggiava con Shahzad da Karachi a Peshawar il 7 luglio 2009, su un pickup, hanno detto le autorità. I due rientrarono a Karachi il 22 luglio. Non si sa perché sono andati a Peshawar né se lì abbiano incontrato qualcuno».

Rehan è un membro del gruppo militante Jaish-e-Muhammad, un'organizzazione terroristica venuta alla ribalta a metà degli anni Novanta, ed è stato coinvolto in attacchi nella regione di confine del Kashmir contesa tra India e Pakistan. Il gruppo ha inoltre contribuito a realizzare, a dicembre del 2001, l'attacco contro il Parlamento indiano che ha portato l'India e il Pakistan sull'orlo della guerra nucleare, tensione che si è rivelata molto redditizia per i produttori di armi inglesi e americani che hanno venduto armi a entrambe le parti.

«Gli attacchi terroristici del dicembre 2001 al parlamento indiano - che hanno contribuito a spingere l'India e il Pakistan sull'orlo della guerra - sono stati condotti da due gruppi di ribelli con sede in Pakistan: Lashkar-e-Taiba e Jaish-e-Muhammad, entrambi segretamente sostenuti dall'ISI (Inter-Services Intelligence) pakistano» scrive Michel Chossudovsky. «Inutile dire che questi attacchi terroristici supportati dall'ISI servono agli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Non solo contribuiscono a indebolire e a spaccare l'Unione Indiana, ma anche a creare le condizioni che favoriscono lo scoppio di una guerra regionale tra Pakistan e India».

Jaish-e-Muhammad, il gruppo emerso ora in merito alla vicenda di Times Square, è stato fondato da Ahmed Omar Saeed Sheikh, “l'uomo con la valigetta dell'11/9” che consegnò 100mila dollari dagli Emirati Arabi Uniti a Mohammed Atta per volere del generale Mahmud Ahmed, allora capo dell'ISI. Mahmud Ahmed, l'uomo che ordinò ad Ahmed Omar Saeed Sheikh di finanziare gli attacchi al Pentagono e al World Trade Center, incontrò il parlamentare repubblicano Porter Goss e il senatore democratico Bob Graham a Washington DC la mattina del'11/9. Nei giorni prima e dopo l'attacco, Ahmed incontrò anche il capo della Cia George Tenet, nonché l'attuale vice-presidente Joe Biden, allora presidente della Commissione Esteri del Senato.

In un rapporto sul coinvolgimentodel gruppo Jaish-e-Muhammad nell'omicidio di Daniel Pearl, che stava indagando sull'ISI, il «Pittsburgh Tribune-Review» ha riferito che il governo pakistano, «ritiene che il potere di Saeed Sheikh provenga non dall'ISI, bensì dai suoi legami con la CIA».

L'ex Presidente del Pakistan Pervez Musharraf ha inoltre dichiarato che Sheikh fu assoldato dal MI6 mentre studiava a Londra per il tentativo di destabilizzare la Bosnia. Durante il conflitto in Bosnia del 1992-1995, la CIA ha aiutato Osama Bin Laden e Al-Qa‛ida ad addestrare e armare i musulmani bosniaci

Nel 2002, il «Times» di Londra ha riferito che Sheikh «non è un terrorista comune, ma un uomo che ha connessioni che arrivano in alto nelle élites militari e dell'intelligence del Pakistan e negli ambienti più vicini a Osama Bin Laden e all'organizzazione di al-Qaeda».

Nonostante il coinvolgimento intimo di Sheikh in numerosi atti di terrorismo e in sequestri politici, compreso il massacro di Mumbai del 2008, è stato sempre protetto sia dalla CIA sia dall’intelligence britannica.

Insomma, questo è l'uomo che ha fondato il gruppo che ora emerge in relazione con il pasticciato attentato di Times Square: una risorsa della CIA e del MI6.

«Gli esperti ritengono che il gruppo Jaish-e-Muhammad benefici tuttora dei legami con la potente cerchia dell'intelligence del governo del Pakistan. Alcuni esperti reputano che l'Inter-Services Intelligence (ISI) del Pakistan abbia facilitato la formazione del gruppo» afferma l’articolo del «Los Angeles Times» del 5 maggio 2010.

La maggior parte degli analisti geopolitici concorda sul fatto che l'ISI pakistano non è in realtà nient'altro che un avamposto della CIA. L'ISI non fa nulla che la CIA non abbia approvato. Sin dall'11/9 la CIA ha versato milioni di dollari all'ISI, pari a non meno di un terzo dell'intero bilancio dell'ISI, a dispetto della nota storia dell'agenzia di spionaggio straniera che finanzia e arma gruppi terroristici come Jaish-e-Muhammad e a dispetto del fatto che finanziò i dirottatori dell'11/9.

Dal momento che le impronte digitali della CIA si trovano ovunque in quasi tutti i gruppi terroristici mediorientali, non sorprende che ora venga a galla un legame fra la CIA e l'attentatore di Times Square. Non ci siamo ancora imbattuti in un terrorista che non sia stato addestrato, equipaggiato, radicalizzato, incastrato o provocato da una agenzia di intelligence occidentale o di un gruppo terroristico controllato da un agenzia di intelligence occidentale.

 

Traduzione per Megachip a cura di Manlio Caciopo.

 

Russie et Danemark: coopération énergétique

DANEMARK.gifAndrea PERRONE:

Russie et Danemark: coopération énergétique

 

Medevedev en visite officielle à Copenhague: renforcement du partenariat stratégique et énergétique entre la Russie et le Danemark

 

Le Président russe Dmitri Medvedev a entamé un voyage en Europe du Nord dans le but de souder un partenariat énergétique, de renforcer les relations bilatérales et multilatérales dans la zone arctique et la coopération en matières de haute technologie et d’énergies renouvelables.

 

Mercredi 28 avril 2010, Medvedev se trouvait au Danemark. Le chef du Kremlin y a atterri et y a été accueilli par la Reine Margarete II et par le Premier Ministre Lars Lokke Rasmussen. Le thème privilégié de cette rencontre au sommet, qui doit sceller la coopération russo-danoise, a été l’énergie, plus particulièrement la construction du gazoduc North Stream.

 

Le Président russe, en participant à un sommet d’affaires russo-danois, a souligné qu’il s’avère surtout nécessaire “de créer un critère général et des réglementations pour la coopération énergétique du futur”. Ensuite: “Il s’avère nécessaire de mettre à l’ordre du jour des normes et des réglementations internationales pour la coopération énergétique”, a poursuivi le chef du Kremlin, “parmi lesquelles une nouvelle version de la Charte de l’énergie”. La Russie a déjà présenté à ses interlocuteurs un document de ce type, dans l’espoir que les Danois feront de même, de leur côté. Medvedev a ensuite rappelé que le secteur énergétique représente un secteur clef de la coopération entre la Russie et le Danemark. Moscou et Copenhague, a souligné le Président russe, ont désormais visibilisé leur contribution à la sécurité énergétique en Europe et leur souhait de voir se diversifier les routes d’acheminement du gaz, dont le gazoduc North Stream. Il a ensuite adressé ses meilleurs compliments au Danemark, premier pays à avoir participé à la construction du gazoduc et à avoir permis son passage à travers sa propre zone économique. La réalisation du gazoduc North Stream, a poursuivi Medvedev, rendra possible, non seulement la satisfaction des besoins en gaz du Danemark, mais aussi son rôle d’exportateur de gaz vers les autres pays européens, tandis que les contrats à long terme dans les secteurs du pétrole et du gaz naturel pourront garantir le partenariat énergétique russo-danois pour les trente prochaines années. Medvedev a également mis en exergue la participation des entreprises danoises dans les programmes de mise à jour et de rentabilisation des implantations énergétiques dans diverses régions de Russie. Le premier ministre danois et le chef du Kremlin ont ensuite signé, au terme de la rencontre, une série d’accords portant pour titre “partenariat au nom de la modernisation” et visant la coopération dans le secteur de la haute technologie et le développement de l’économie russe dans certaines régions de la Fédération de Russie, comme le Tatarstan.

 

Andrea PERRONE,

a.perrone@rinascita.eu

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 29 avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers; http://www.rinascita.eu ).

Medvedev à Buenos Aires - Nucléaire et multiculturalisme

medvedev-argentina-2.jpgAlessia LAI:

Medvedev à Buenos Aires

 

Nucléaire et multilatéralisme

 

Revenant du sommet sur la sécurité nucléaire qui s’était tenu à Washington, le président russe Dmitri Medvedev s’est rendu le 14 avril 2010 à Buenos Aires, capitale de l’Argentine. Son objectif? Renforcer les relations entre la Russie et ce pays d’Amérique latine. Il est ainsi le premier chef d’Etat russe à rendre visite à l’Argentine depuis les 125 ans que les deux pays entretiennent des relations bilatérales. Medvedev a offert à l’Argentine “l’occasion de coopérer dans le secteur énergétique”. Outre la signature d’accords portant sur la coopération culturelle ou sur les domaines de la recherche spatiale, de l’exploitation forestière, du sport, des hydrocarbures et des transports, les pourparlers russo-argentins ont surtout mis l’accent sur la coopération nucléaire à des fins pacifiques.

 

Le directeur général du consortium d’Etat russe pour l’énergie atomique “Rosatom”, Sergueï Kirienko, au cours d’une rencontre entre Medvedev, d’autres représentants du gouvernement russe et des entrepreneurs argentins, a eu l’occasion d’annoncer l’offre russe à l’Argentine de construire “une troisième centrale nucléaire”, tout en ajoutant que le gouvernement de Cristina Fernandez “décidera l’année prochaine comment répondre” à cette offre. Il faut savoir que déjà “un quart de l’énergie argentine est générée à l’aide de turbines russes”, a rappelé Medvedev. Russes et Argentins ont profité de l’occasion pour renforcer quelques liens politiques et stratégiques, ce qui a certes troublé le sommeil des anciens patrons du pays, liés aux Etats-Unis. Cristina Fernandez a souligné, pour sa part, que “le monde a changé, que la tension Est-Ouest appartient désormais au passé; outre de nouveaux acteurs globaux, nous avons de nouveaux dirigeants en Amérique du Sud qui sont animés par une vision différente de ce que doivent être les relations internationales, c’est-à-dire être axées justement sur ce multilatéralisme que cherche à promouvoir l’actuel gouvernement argentin”.  

 

Nous avons donc affaire à un nouvel élément clef dans la construction du futur monde multipolaire: le processus d’intégration latino-américain qui a généré des institutions comme l’UNASUR, l’ALBA, Pétrocaribe, qui agissent et interagissent pour mener à l’union de toutes les nations latino-américaines, lesquelles veulent devenir actrices à part entière sur la scène internationale et non plus être exclues des décisions qui affectent le sort de la planète ou reléguées au rang d’actrices de seconde zone.

 

“Nous ne sommes l’arrière-cour de personne, nous voulons des relations sérieuses et normales avec tous les pays du monde”, a souligné la Présidente d’Argentine.

 

Alessia LAI,

a.lai@rinascita.eu

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 16  avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers; http://www.rinascita.eu/ ).

Presseschau Mai 2010/02

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Presseschau

Mai 2010 / 02

Einige Links. Bei Interesse anklicken...

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Die Behauptung, daß es während der Kämpfe in der Normandie mehr deutsche als alliierte Kriegsverbrechen gab, darf man getrost bezweifeln …

Schreie in der Kraterlandschaft
Der D-Day war die größte Landungsaktion der Geschichte, nun sind neue, blutige Details der Aktion bekanntgeworden: Ein britischer Autor hat die Invasion in der Normandie von 1944 rekonstruiert und ist dabei auf zahlreiche Kriegsverbrechen gestoßen – auch durch die Alliierten Von Klaus Wiegrefe
http://einestages.spiegel.de/external/ShowTopicAlbumBackground/a7901/l8/l0/F.html#featuredEntry

Passend zu obenstehender Artikelempfehlung von letzter Woche ein etwas längerer Auszug aus Teil 2 der Lebenserinnerungen von Wolfgang Venohr über die Kampfverhältnisse an der Invasionsfront im Juni und Juli 1944:

Am 15. Juni [1944] melden Lindenhahn und ich uns in Caen auf dem Divisionsgefechtsstand der HJ-Division bei Panzermeyer, unserem alten Abteilungskommandeur. Er ist inzwischen Standartenführer (Oberst) und hat am Tag zuvor die HJ-Division übernommen, anstelle von Brigadeführer Witt, der gefallen ist. Wir treffen ihn in einem gefleckten Kampfanzug, aus dem oben das Ritterkreuz mit Eichenlaub herausschaut, wie er gerade Hauptsturmführer Olboetter etwas zuruft, der in einem Schwimmwagen durch wahnsinniges Feuer feindlicher Schiffsartillerie am Gefechtsstand vorbeijagt. Wir fühlen uns sofort heimisch.
Die HJ-Division, so erfahren wir, steht schon seit zehn Tagen in schwersten Abwehrkämpfen gegen Briten, Polen und Kanadier. Obersturmführer Meitzel, Ordonnanzoffizier bei der HJ-Division, erzählt Lindenhahn, daß sie schon zwanzig Prozent der Gefechtsstärke an Toten und Verwundeten abbuchen müssen. Die Angloamerikaner werden bei der HJ-Division sehr negativ beurteilt. Gleich am 6. Juni haben amerikanische Luftlandetruppen dreihundert deutsche Kriegsgefangene ermordet. Das hat sich mit Windeseile von den Franzosen zu unseren Leuten herumgesprochen. Auch die Melder des Divisionsstabes sprechen verbittert über die britischen und kanadischen Gegner: „Die haben schon mehrere unserer Jungens, Verwundete und Gefangene, massakriert! Darin sind sie groß.“ Ich muß an Panzermeyers Ansprache vor einem Jahr in Charkow denken, über den angeblich so ritterlichen Gegner im Westen.
Wir richten uns direkt neben dem Divisonsgefechtsstand ein. Merkwürdig ist, daß meine Gedanken oft nach Osten in die Ukraine wandern. Es ist erst ein Jahr her, daß wir uns zur großen Panzerschlacht bei Kursk bereitstellten, daß wir am Donez entlangfuhren, daß wir in Stalino glaubten, es ginge wieder Richtung Stalingrad. Und nun stehen wir dreitausend Kilometer westlich in der Hauptstadt der Normandie! Ja, wir bewegen uns auf einem riesigen Bogen rund um das Reich; mal im Osten, mal im Süden, mal im Westen. Es gilt, die Heimat nach allen Seiten zu schirmen.
In den nächsten vier Wochen sind Lindenhahn, sein Fahrer Wessel und ich mit unserem Schwimmwagen im Einsatzraum der „Hitlerjugend“-Division wie auch der 21. Panzerdivision des Heeres unterwegs. Und zwar Tag und Nacht: zur Verbindungsaufnahme, zur Koordination, zur Befehlsübermittlung, zur Aufklärung, Erkundung und Berichterstattung. Wir bekommen einen tiefen Einblick in die Kampfverhältnisse an der Invasionsfront. Schon nach wenigen Tagen ist uns unbegreiflich, wie die deutsche Abwehrfront angesichts der verheerenden feindlichen Luftüberlegenheit überhaupt existieren kann. Über sämtlichen Gefechtsabschnitten kreisen von morgens bis abends feindliche Jabos und stürzen sich mit vernichtender Wirkung auf jedes Fahrzeug, auf jeden Mann, eben auf jedes „Objekt“, das sich am Tage außerhalb einer Deckung bewegt. Tausende feindlicher Flugzeuge beherrschen den Luftraum. Von deutscher Seite sehen wir in diesen Tagen zwei Jäger vom Typ Me 109, die im Tiefflug über die Hecken der Normandie springen.
Am Tage ist das Gelände wie ausgestorben; größere taktische Bewegungen, Verstärkungen, Ablösungen und Nachschubzuführungen finden nur nachts statt. Unser Fahrzeug allerdings ist auch am Tage ständig unterwegs, und ich entwickle mich notgedrungen zu einem perfekten Luftbeobachter. Nicht ein einziges Mal erwischen uns die feindlichen Jabos. Sobald ich „Anflug“ schreie, ist unser Fahrer schon mit dem Schwimmer in der nächsten Hecke, und zwei Sekunden später liegen wir zu dritt bereits „in voller Deckung“.
Zum pausenlosen Luftterror der Jabos kommt das Vernichtungsfeuer schwerster feindlicher Schiffsartillerie. Aber daran gewöhnen wir uns schnell. Hat man ein Panzerdeckungsloch erreicht, ist es einem ziemlich egal, welche Kaliber rundherum in den Boden wuchten, läßt man sich selbst von 38-cm-Granaten wenig beeindrucken. Auch ein Großangriff feindlicher Viermot-Bomber auf den Raum Caen, bei dem die Erde zu bersten scheint, bewirkt nichts. Ich hocke in meinem Panzerdeckungsloch, blinzle zum Himmel hoch und versuche die „silbernen Vögel“ zu zählen. (Später heißt es, es seien etwa 1.200 Bomber gewesen.) Mein 1,50 Meter tiefes Loch schaukelt bei den serienweisen Bombenabwürfen wie die Koje eines Schiffes, das sich auf hoher See in einem Sturmtief befindet. Ich habe aber nie das Gefühl, daß es mich „erwischen“ könnte. Die Jabos mit ihren Bordwaffen bleiben unsere Hauptsorge. Sie jagen selbst einzelne Meldegänger, die von Hecke zu Hecke springen.
Unter solchen Bedingungen erscheint der verbissene Abwehrkampf der 18jährigen HJ-Grenadiere wie ein Wunder. Diese jungen Soldaten, gegen die ich mir mit meinen 19 Jahren wie ein Veteran vorkomme, übertreffen alles an Verteidigungswillen, was es je gegeben hat. Hier bei Caen kämpfen sie für die Heimat, für Deutschland. Niemals hört man von ihnen ein Meckern oder Mosern über die aussichtslosen Kampfbedingungen. Obwohl sie alle blasse, schmale Gesichter mit tiefschwarzen Augenrändern haben und der Erschöpfung nahe sind, brennen sie vor Kampf- und Einsatzwillen. Alles hier erinnert mich an meine Zeit in der Hitlerjugend, im Deutschen Jungvolk, und auf unseren Erkundungsfahrten treffen wir immer wieder Offiziere des Heeres, die sich als ehemalige HJ-Führer zur 12. SS-Panzerdivision „Hitlerjugend“ versetzen ließen und nun mit ihren Jungens die Trümmer der normannischen Dörfer buchstäblich bis zur letzten Patrone verteidigen.

(Wolfgang Venohr: Die Abwehrschlacht. Jugenderinnerungen 1940–1955, Berlin 2002, S. 127–130)

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Neue Machtzentren
Ohne die Türkei versinkt die EU im Mittelmaß
Nur mit vereinten Kräften wird die EU neben den Machtzentren USA und China bestehen können. Deshalb muß sie die Türkei aufnehmen und Rußland assoziieren, schreibt Altkanzler Gerhard Schröder auf WELT ONLINE. Geschehe das nicht, würde sich die EU langfristig in eine fatale Abhängigkeit begeben.
http://www.welt.de/debatte/kommentare/article7436815/Ohne-die-Tuerkei-versinkt-die-EU-im-Mittelmass.html

Chef des OIC warnt den Westen
Der Generalsekretär der Organisation der Islamischen Konferenz (OIC), Ekmeleddin Ihsanoglu (Foto), hat den Westen vor einer Konfrontation mit den dort lebenden Moslems gewarnt. Jede Kritik ist eine Form von Islamfeindlichkeit und treibe die trotzdem hier ausharrenden Moslems auf „Kollisionskurs“. Wie friedlich das klingt!
http://www.pi-news.net/2010/05/chef-des-oic-warnt-den-westen/#more-134526

Times-Square-Bombe
Festnahme nach Anschlagsversuch in New York
Drei Tage nach dem vereitelten Autobombenanschlag am New Yorker Times Square haben die US-Behörden einen Verdächtigen festgenommen. Nach Informationen aus Sicherheitskreisen sei der gesuchte Mann gefaßt worden, als er das Land verlassen wollte. Es soll sich um einen US-Bürger pakistanischer Abstammung handeln.
http://www.welt.de/politik/ausland/article7462108/Festnahme-nach-Anschlagsversuch-in-New-York.html

New York: Attentäter festgenommen
http://www.hintergrund.de/20100506876/globales/terrorismus/new-york-attentaeter-festgenommen.html

UN-Konferenz
Ahmadinedschad provoziert Eklat mit Haßrede
Dieser Auftritt war offenbar wohlkalkuliert: Mahmud Ahmadinedschad hat auf der UN-Konferenz zum Atomwaffensperrvertrag gegen die USA und Israel gehetzt. Mehrere Delegierte verließen daraufhin den Sitzungssaal. Der iranische Präsident versicherte gleichzeitig, daß sein Land Atomenergie nur zu friedlichen Zwecken nutzen wolle.
http://www.welt.de/politik/ausland/article7456294/Ahmadinedschad-provoziert-Eklat-mit-Hass-Rede.html

Eklat auf Abrüstungskonferenz
Ahmadinedschad brüskiert USA mit Atom-Tirade
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,692801,00.html

Schlammschlacht
Erdogan wehrt sich gegen Hitler-Vergleiche
Von Boris Kálnoky
In der Türkei haben die Beratungen über weitreichende Verfassungsänderungen begonnen. Der Streit zwischen der Erdogan-Regierung und der Opposition hat mittlerweile den Charakter einer politischen Schlammschlacht. Das beliebteste Stilmittel: Vergleiche mit Hitler und Nazi-Deutschland.
http://www.welt.de/politik/ausland/article7451945/Erdogan-wehrt-sich-gegen-Hitler-Vergleiche.html

Solidarität mit unseren Soldaten und ihren Familien
http://www.solidaritaet-mit-soldaten.de/

Geheime Kriegspropaganda der CIA
http://www.spiegel.de/video/video-1062154.html

„Originaldokument“ auf WikiLeaks:
http://file.wikileaks.org/file/cia-afghanistan.pdf

Taxi-Streit in Johannesburg
Verhaßte Busse
Wenige Wochen vor dem Anpfiff der Fußball-WM in Südafrika eskaliert der Streit zwischen Taxifahrern und städtischen Bussen in Johannesburg. Acht Menschen wurden angeschossen.
http://www.sueddeutsche.de/panorama/892/510017/text/

Griechenland-Hilfen
Bundestag segnet Merkels Milliarden-Nothilfe ab
Mit deutlicher Mehrheit hat der Bundestag den deutschen Griechenland-Hilfen zugestimmt. Damit können in den kommenden drei Jahren Kredite in Höhe von mehr als 22 Milliarden Euro nach Athen fließen. Die SPD enthielt sich allerdings mehrheitlich. Beim Verfassungsgericht ging eine Klage gegen das Gesetz ein.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,693507,00.html

Bundesverfassungsgericht
Euro-Skeptiker wollen Griechenland-Hilfe stoppen
Von Dorothea Siems
Die Gegner der Hellas-Hilfe hoffen auf Karlsruhe. Am Freitag wollen der berühmte Euro-Skeptiker Joachim Starbatty und weitere Professoren die Griechenland-Hilfe gerichtlich stoppen. Sie verstoße gegen das EU-Recht und das deutsche Grundgesetz. „Deutschlands Finanzen werden unkalkulierbar“, warnt der Ökonom.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article7455070/Euro-Skeptiker-wollen-Griechenland-Hilfe-stoppen.html

Koch-Mehrin liegt voll daneben
Die Steuersenkungspartei FDP hat offensichtlich Probleme mit dem wahren Ausmaß der Schulden im Lande. In der ARD-Sendung „hart aber fair“ zum Thema Steuern antwortete die FDP-Politikerin Silvana Koch-Mehrin auf die Frage, um wieviel die Schulden des Landes während der Sendung wohl gestiegen sind: „Ich würde jetzt mal tippen: 6000 Euro.“ Moderator Frank Plasberg riet der Vizepräsidentin des Europäischen Parlaments und Vertreterin der Partei mit der angeblich höchsten Wirtschaftskompetenz daraufhin dringend vom Amt einer Finanzministerin ab: „Sie liegen dramatisch daneben.“ Tatsächlich ist die Staatsverschuldung während der 75minütigen Sendung um rund 20 Millionen Euro gestiegen. Dpa
http://www.morgenweb.de/nachrichten/politik/20100507_srv0000005791576.html

Spanien: Besonders bei den Jungen ist der Frust groß
http://www.welt.de/die-welt/politik/article7428963/.html

Enttäuschte Liebe
Warum uns Griechenlands Absturz so schmerzt
Von Berthold Seewald
Die Deutschen sind wütend auf die griechischen Demonstranten. Denn anders als wir kommen sie noch in den Genuß des ausufernden Sozialstaats. Die Wut resultiert aber auch aus dem Gefühl der enttäuschten Liebe. Denn eigentlich wollten wir immer so sein wie sie: Geistes-Heroen und Gründer der Demokratie.
http://www.welt.de/debatte/kommentare/article7451334/Warum-uns-Griechenlands-Absturz-so-schmerzt.html

„Wir müssen uns hart schinden“
Von Dieter Stein
BERLIN: Von der jüngst beschlossenen Griechenland-Hilfe sind die Deutschen wenig begeistert. Wie sieht man dies im Empfänger-Land? Ein Gespräch von JF-Chefredakteur Dieter Stein mit Panajotis Doumas von der nationalkonservativen Wochenzeitung „Eleutheros Kosmos“.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M576e5f9fb7e.0.html

Jürgen Elsässer: Der Angriff des angloamerikanischen Finanzkapitals
http://archiv.rummelsdorf.org/cgi-bin/full.cgi?key=flv&page=0&id=86694bffb9ab55f73c95232be57b8c8f

Interne Wall-Street-E-Mails
„Jetzt wird’s schmutzig“
Interne Mails belegen das zynische Geschäftsgebaren der Finanzmanager.
http://www.spiegel.de/wirtschaft/unternehmen/0,1518,692247,00.html
http://www.spiegel.de/flash/flash-23270.html

Geldanlage nach ethischen Gesichtspunkten
http://www.ethische-geld-anlage.de/

Patt-Situation
Die Linke könnte über NRW-Wahl entscheiden
Die CDU/FDP-Koalition und die SPD/Grünen-Opposition liefern sich eine Woche vor der NRW-Wahl ein Kopf-an-Kopf-Rennen. Sie kommen jeweils auf 45 Prozent. Somit könnte die Linke mit 5,5 Prozent über den Wahlausgang entscheiden. Auch die möglichen Regierungschefs, Hannelore Kraft und Jürgen Rüttgers, liegen gleichauf.
http://www.welt.de/politik/nrw-wahl/article7405429/Die-Linke-koennte-ueber-NRW-Wahl-entscheiden.html

Dany gibt den Experten ...
Cohn-Bendit über das Krisenmanagement
„Sonst ist alles futsch, tschüß Euro“
Erst im letzten Moment haben die Euro-Staaten Griechenland mit Milliarden gerettet. Ein Debakel, wettert Daniel Cohn-Bendit im SPIEGEL-ONLINE-Interview – und warnt Merkel, Sarkozy und Co. vor „ökonomischem Nationalismus“. Sonst sei der gesamte Euro-Raum in akuter Gefahr.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,693585,00.html

Anti-Neonazi-Protest
Thierse drohen Sanktionen wegen Sitzblockade
Als die Neonazis kamen, setzte er sich auf die Straße – jetzt drohen Bundestagsvizepräsident Wolfgang Thierse rechtliche Konsequenzen wegen seiner Blockadeaktion am Maifeiertag. Die Polizeigewerkschaft empört sich, sogar Berlins Innensenator Körting greift seinen SPD-Parteifreund an.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,692543,00.html

,,Würdelos‘‘: Thierse brach laut Polizeigewerkschaft das Gesetz
Die Gewerkschaft der Polizei (GdP) hat Bundestagsvizepräsident Wolfgang Thierse (SPD) für seinen Protest gegen eine Demonstration von Rechtsextremen in Berlin scharf kritisiert. Das Verhalten Thierses sei „würdelos“, erklärte die Gewerkschaft.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article7434421/Thierse-brach-laut-Polizeigewerkschaft-das-Gesetz.html#vote_7430251

Nach Sitzblockade am 1. Mai
Polizeigewerkschaft verlangt Thierses Rücktritt
Daß er am 1. Mai an einer Sitzblockade gegen rechtsextreme Demonstranten teilnahm, bringt Bundestagsvizepräsident Thierse immer mehr Ärger ein. Jetzt fordert die Deutsche Polizeigewerkschaft seinen Rücktritt. Der SPD-Politiker sei „die personifizierte Ansehensschädigung des deutschen Parlaments“.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article7445634/Polizeigewerkschaft-verlangt-Thierses-Ruecktritt.html

Thierse verteidigt Sitzblockade
http://www.zeit.de/newsticker/2010/5/6/iptc-hfk-20100506-86-24753690xml

Wowereit verteidigt Thierse
http://www.sueddeutsche.de/95N38c/3340946/Wowereit-verteidigt-Thierse.html

Thierse immun gegen Kritik
http://www.ostpreussen.de/zeitung/nachrichten/artikel/thierse-immun-gegen-kritik.html

Wolfgang Thierse: Der Bundestagspräsident und der Feuerwehrmann
Von Martin Lichtmesz
Am letzten Wochenende nahmen zwei Mitglieder der SPD an Demonstrationen zum 1. Mai teil. Der eine von beiden ist der Bundestagspräsident Wolfgang Thierse, der sich in Berlin in eine Demonstrations-Blockade „gegen Nazis“ einreihte. Laut einem Bericht der „Süddeutschen Zeitung“ stellten sich 10.000 (!) Zivilcouragierte, darunter eine erkleckliche Anzahl von Autonomen und Linksextremisten, einem Bataillon (SZ: „Aufmarsch“) von 500 (!) rechtsextremen Demonstranten entgegen.
http://www.sezession.de/14526/der-bundestagspraesident-und-der-feuerwehrmann.html


Im aktuellen Spiegel (nicht frei zugänglich) ...
ZEITGESCHICHTE – Brüder im Geiste: Ende 1989 trafen sich Gregor Gysi und François Mitterrand. Einem neuen Dokument zufolge bedauerte Mitterrand den Niedergang der DDR, Gysi haderte mit dem Mauerfall.
http://www.spiegel.de/spiegel/print/index-2010-18.html

Berlin
„Topographie des Terrors“ eröffnet
Ein grauer Palast der Erinnerung
http://www.faz.net/s/Rub117C535CDF414415BB243B181B8B60AE/Doc~EFBF270F30E27452983006553217C5AE4~ATpl~Ecommon~Scontent.html

Neu-Isenburg
Gunter Demnig verlegt eine Stolperschwelle vor der Gedenkstätte.
Als Mahnung für die Lebenden
http://www.op-online.de/nachrichten/neu-isenburg/mahnung-lebenden-750797.html

Rödermark
Steinerner Stern der Erinnerung
Gedenkstätte für ermordete und vertriebene Juden ist jetzt fertig / „Sie haben einfach dazugehört“
http://www.op-online.de/nachrichten/roedermark/steinener-stern-erinnerung-750592.html

Britische Verhältnisse ...
Wenn Kinder zu Mördern werden
Von Thomas Kielinger
Ende März wurde der 15jährige Schüler Sofyen Belamouadden an der Londoner Victoria Station von anderen Jugendlichen überfallen und erstochen. Der Vorfall ist in Großbritannien zu einem zentralen Wahlkampfthema geworden: Wieviel Gewalt kann eine Gesellschaft aushalten?
http://www.welt.de/die-welt/vermischtes/article7442530/Wenn-Kinder-zu-Moerdern-werden.html

Video-Lektion: Der alltägliche Straßen-Jihad
Im folgenden Video wird ein BNP-Kandidat mit ein paar Mann Unterstützung angegriffen. Das Video gibt einige Grundlektionen für eine solche Situation her, deshalb hier eine kurze Besprechung. (...)
http://www.pi-news.net/2010/05/video-lektion-der-alltaegliche-strassen-jihad/#more-134577

Massenproteste in USA gegen Einwanderungsgesetz in Arizona
Aus Protest gegen die Verschärfung des Einwanderungsrechts im US-Bundesstaat Arizona sind in den USA Zehntausende Menschen auf die Straße gegangen. Nach Angaben der Feuerwehr forderten allein in Los Angeles rund 60.000 Menschen die Abschaffung des umstrittenen neuen Gesetzes. Zu den Protesten in insgesamt mehr als 70 US-Städten hatten vor allem hispanische Organisationen aufgerufen.
http://de.news.yahoo.com/2/20100502/twl-massenproteste-in-usa-gegen-einwande-4bdc673.html
http://www.welt.de/politik/ausland/article7433001/Massenprotest-gegen-Arizonas-Illegalen-Gesetz.html

Gesellschaftliche Stabilität dürfte wohl wichtiger sein als dem Kurzzeitdenken folgende ökonomische Partikularinteressen ...
Zuwanderung
Australien entwickelt neue Hürden für Ausländer
Von Barbara Bierach
Seit mehr als 200 Jahren lebt Australien von und mit seinen Zuwanderern. Doch jetzt steigt der Widerstand der Einheimischen – und die Regierung knickt ein. Wer einwandern möchte, stößt neuerdings auf kaum überwindbare bürokratische Hürden. Die wirtschaftlichen Folgen für das Land könnten dramatisch sein. [Was für ein Blödsinn ...]
http://www.welt.de/wirtschaft/article7431030/Australien-entwickelt-neue-Huerden-fuer-Auslaender.html

BNP will Rückkehrprämie für Zuwanderer einführen
LONDON. Die rechtsradikale British National Party (BNP) hat angekündigt, bei einem Wahlsieg am Donnerstag eine Rückkehrprämie von 50.000 Pfund für Zuwanderer auszuloben. Das Geld sei für rund 180.000 Personen pro Jahr gedacht, „die zurückkehren und dabei helfen könnten, ihr eigenes Land aufzubauen“, sagte BNP-Chef Nick Griffin in einem Gespräch mit BBC Radio 4.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5a54199b6cd.0.html

Integration
Berlin will Migranten per Gesetz bevorzugen
Von Joachim Fahrun
Die rot-rote Regierung in Berlin plant ein „Integrations- und Partizipationsgesetz", das Migranten bei der Einstellung im öffentlichen Dienst bevorzugen soll. Auf diese Weise will Berlin seine „Rolle als Schrittmacher in der Integrationspolitik unterstreichen“. Rechtliche Hürden will die Stadt umgehen.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article7464856/Berlin-will-Migranten-per-Gesetz-bevorzugen.html

Cloppenburg
Betrunkener [Litauer] rast in Gruppe von Mai-Wanderern
Ihn störten die Feiernden auf der Straße, also trat er aufs Gaspedal: Im Landkreis Cloppenburg hat ein junger Mann seinen Wagen mutwillig in eine Gruppe gelenkt, die auf dem Weg zu einem Volksfest war. Mehrere Menschen wurden teils schwer verletzt.
http://www.spiegel.de/panorama/justiz/0,1518,692492,00.html

Frankfurt
Bahnhofsviertel
Streitschlichter mit Messer erstochen
Frankfurt/Main. Ein 21 Jahre alter Mann ist am frühen Sonntag morgen bei einem Streit im Frankfurter Bahnhofsviertel erstochen worden.
Nach Mitteilung der Polizei starb der Mann in einem Krankenhaus, nachdem er gegen 6.40 Uhr in der Münchener Straße einen Streit zwischen zwei Frauen und zwei Männern zu schlichten versucht hatte. Einer der Männer stach dabei mit einem Messer auf seinen Oberkörper ein.
Der Täter und sein Kompagnon flüchteten in Richtung Moselstraße. Sie sollen ostafrikanischer Herkunft, zwischen 30 und 40 Jahre alt und 1,75 bis 1,80 Meter groß sein. Die Mordkommission der Polizei ermittelt. (ddp)
http://www.fr-online.de/frankfurt_und_hessen/nachrichten/frankfurt/2605108_Streitschlichter-mit-Messer-erstochen.html
http://www.welt.de/die-welt/regionales/article7442344/21-Jaehriger-erstochen.html

Hamburg-Horn
17jähriger läuft nach Messerstecherei vor Auto
n der Horner Rennbahn waren zwei Gruppen in der Nacht aneinandergeraten. Zwei Männer wurden verletzt. Jetzt ermittelt die Mordkommission.
http://www.abendblatt.de/hamburg/polizeimeldungen/article1475480/17-Jaehriger-laeuft-nach-Messerstecherei-vor-Auto.html

Hier erfährt man mehr ...
Selbstjustiz nach Messerattacke auf 34jährigen
Im Streit sticht ein Jugendlicher einen 34 Jahre alten Mann nieder. Anscheinend ohne Grund. Dessen Freund nimmt anschließend Rache.
Hamburg. Mit einem Schädelbruch liegt Jalal H. derzeit auf der Intensivstation eines Hamburger Krankenhauses, versorgt von Ärzten und bewacht von Polizisten. Die Polizei befürchtet, der 17jährige könnte sich aus dem Staub machen, sobald er dazu gesundheitlich in der Lage sein wird. Jalal H. hatte gestern am späten Abend einen 34jährigen in Horn niedergestochen und lebensgefährlich verletzt. Anscheinend ohne Grund. Mindestens dreimal und ohne Ankündigung hatte der Heranwachsende nach einem einfachen Wortgefecht zwischen ihm und seinem Opfer das Messer erhoben und zugestochen.
Womit der 17jährige wohl nicht gerechnet hatte: Nach der Tat nimmt ein Begleiter des Opfers die Verfolgung auf. Er stellt Jalal H. und verletzt ihn mit einer Holzlatte schwer. Die Mordkommission des Landeskriminalamts (LKA) hat die Ermittlungen aufgenommen. Kurz vor 23 Uhr begegnen sich beide Männer, die in kleinen Gruppen unterwegs sind, nahe der Kreuzung Rennbahnstraße/Hermannstal am U-Bahnhof Horner Rennbahn.
Böse Blicke werden ausgetauscht. Sie machen Witze. Provokante Sprüche fliegen hin und her. Unvermittelt zieht Jalal, der Deutsche mit türkischen Wurzeln (sic!), der bereits wegen Raubes polizeibekannt ist, ein breites Klappmesser. Sein türkisches Gegenüber trifft er am Bein, am Bauch und am Kopf. Die Klinge durchstößt auch den Schädelknochen von Volkan K., der auf der Straße zusammenbricht. Jalal H. flüchtet.
Abrahim D., 26, ein Freund des Opfers, sprintet hinter ihm her. Auf dem Weg sammelt er eine robuste Holzlatte auf. Am Pagenfelder Platz, knapp einen halben Kilometer vom Tatort entfernt, kann er den Messerstecher stellen.
Jalal H., völlig außer Atem, ahnt wohl schon, was ihn erwartet. Mit letzter Kraft versucht er ein Auto anzuhalten, das an ihm vorbeifährt. Als der Fahrer nicht hält, klammert er sich ans Heck. Er kann sich nicht halten, rutscht ab und stürzt auf die Straße.
In diesem Moment kommt der 26jährige auf ihn zu und holt aus. Immer wieder trifft die lange schwere Holzlatte auf Jalal H., der sich auf dem Boden krümmt. Wenige Minuten später werden beide Männer festgenommen. Wie sein Opfer erleidet der 17jährige lebensgefährliche Verletzungen. Ob sie ausschließlich von den Schlägen mit der Holzlatte stammen oder ob sich Jalal H. bereits beim Sturz vom Auto schwer verletzte, untersuchen derzeit die Ermittler.
Mit Rettungswagen werden der 17jährige und sein 34 Jahre altes Opfer in die Asklepios-Kliniken Wandsbek und Barmbek gebracht. Volkan K. muß aufgrund seiner massiven inneren Blutungen sofort notoperiert werden.
Die Ermittler der Mordkommission suchen jetzt nach Zeugen der Auseinandersetzung. Wer die beiden Taten beobachtet hat, möge sich bitte unter Telefon 428 65 67 89 bei der Polizei melden. Erst vor einem Monat waren zwei 17 und 19 Jahre alte Heranwachsende durch Messerstiche lebensgefährlich verletzt worden, als zwei Gruppen vor einem Tanzlokal an der Wilstorfer Straße in Harburg aneinandergerieten. Die Täter waren zwei Männer, 29 und 30 Jahre alt.
http://www.abendblatt.de/hamburg/polizeimeldungen/article1476805/Selbstjustiz-nach-Messerattacke-auf-34-Jaehrigen.html

Berliner Schloß
Lesehilfe für ein Ding ohne Namen
Das Berliner Schloß befindet sich in der Krise: Der Bundesbauminister will die Barockfassaden nicht finanzieren, der Schloßverein kann es nicht. Wird hier ein steinernes Zeichen des Scheiterns gesetzt?
http://www.faz.net/s/RubEBED639C476B407798B1CE808F1F6632/Doc~E7AD0CB0FA58347EAA3E103C56A013D2F~ATpl~Ecommon~Scontent.html

Hebammen für Deutschland
Eine Initiative zum Erhalt des Berufsstandes
http://www.hebammenfuerdeutschland.de/

Gesundheit
An der Unfruchtbarkeit ist oft Mutti schuld
Von Jörg Zittlau
In Deutschland gibt es immer weniger Kinder. Etwa 600.000 Paare bleiben ungewollt kinderlos. Früher hat die Medizin die Ursachen dafür vor allem bei den Frauen vermutet, doch inzwischen richtet sich ihr Blick zunehmend auf den Mann. Forscher glauben jetzt, den Grund für die Unfruchtbarkeit gefunden zu haben.
http://www.welt.de/wissenschaft/medizin/article7443997/An-der-Unfruchtbarkeit-ist-oft-Mutti-schuld.html

Erbgut entschlüsselt
Wir sind alle ein bißchen Neandertaler
Von Cinthia Briseño
Ein zentrales Rätsel in der Evolution des Menschen ist gelüftet: Im Erbgut des modernen Menschen finden sich Spuren des Neandertalers – die beiden Arten haben sich vor Jahrtausenden tatsächlich gepaart. Anthropologen erhoffen sich von der nun veröffentlichten Genomsequenz neue Erkenntnisse.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,692855,00.html

Sachsen
Archäologen finden älteste Holznägel der Welt
Heimwerker gab es schon in der Jungsteinzeit. Archäologen haben nahe Leipzig die bisher ältesten Holznägel der Welt ausgegraben. Sie waren Teil einer rund 7000 Jahre alten Brunnenkonstruktion, die noch weitere spannende Funde verbarg.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,693600,00.html

US-Ölkatastrophe
Mit Gift gegen Gift
Aus New Orleans berichtet Marc Pitzke
Bisher gibt es nur eine Waffe im Kampf gegen die Ölpest im Golf von Mexiko: eine Chemikalie namens Corexit, die das Öl zersetzt. Rund eine Million Liter wurden bereits ins Meer gekippt. Doch Experten befürchten, daß die Flüssigkeit für die Umwelt schlimmer sein könnte als das Öl selbst.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,693566,00.html

Satellitenbild der Woche
Eyjafjallajökull ist wieder heiß wie ein Vulkan
Islands Vulkan Eyjafjallajökull findet zu alter Explosivität zurück: Nach einer Phase relativer Ruhe strömt wieder mehr Gletscherwasser in den Krater und führt zu heftigen Eruptionen. Ein Satellitenbild zeigt, wie die Aschewolke erneut zu riesiger Größe anschwillt.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,693563,00.html

„Survival“-Nahrung für Hartgesottene. Bear Grylls in Aktion ... ;-)
Man vs. Wild –Eating Giant Larva
http://www.youtube.com/watch?v=QuB3kr3ckYE

Neue Plattenbauten
http://www.sezession.de/14155/neue-plattenbauten.html

Griechisches Faß ohne Boden
http://www.sezession.de/14441/griechisches-fass-ohne-boden.html

Best of Netz gegen Nazis (Fundstücke 10)
http://www.sezession.de/14383/best-of-netz-gegen-nazis-fundstuecke-10.html

Michail Bulgakow: Hundeherz
http://www.sezession.de/13943/michail-bulgakow-hundeherz.html

Troisième guerre de l'opium

Troisième Guerre de l’opium

Certains critiques, particulièrement sarcastiques, affirment que la guerre en Afghani­stan est certes sans espoir, mais qu’elle protège pour le moins la culture du pavot [sur] l’Hindou Kouch. C’est ne voir cette culture que comme une conséquence de la guerre, alors qu’il apparaît clairement qu’il s’agit d’un des objectifs de guerre des Etats-Unis.

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Carte par provinces, combinant risques pour la sécurité (plus la couleur est foncée, plus le risque est élevé) et culture du pavot à opium (en hectares). Source : ONU

93% de l’opium cultivé dans le monde, servant à la production de morphine et d’héroïne, viennent d’Afghanistan.

En 2007, il s’agissait de 8.200 tonnes, l’année suivante on en était à 8.300 ; la récolte de l’année dernière fut moindre, du fait d’une mauvaise récolte, il n’existe pas encore de données chiffrées.

Selon les Nations Unies, 95% de l’opium afghan sont transformés en héroïne, donnant ainsi 80 tonnes d’héroïne pure. Près de la moitié, soit plus de 35 tonnes, fut introduite en 2009 en Russie (selon des sources convergentes de l’ONU et de la police des stupéfiants russe). On peut supposer – car il n’existe pas de données concrètes – qu’une bonne partie est transportée plus loin, notamment dans les centres urbains de la Répu­blique populaire de Chine.

Il est donc déposé, rien qu’en Russie, trois fois autant d’héroïne qu’aux Etats-Unis, au Canada et en Europe. Victor Ivanov, directeur du Service fédéral de contrôle de la drogue (en russe : FSKN) déclara au Conseil OTAN-Russie (COR), le 23 mars à Bru­xelles, que le déferlement de drogue venant d’Afghanistan dépasse tout ce qu’on peut imaginer.

Un million de personnes auraient succombé depuis 2001 (lorsque la guerre fut déclenchée et l’Afghanistan occupé par les troupes des Etats-Unis et de l’OTAN) du fait des produits opiacés venant de l’Hindou Kouch. Selon Ivanov : «Toutes les familles sont touchées directement ou indirectement.» 21% de l’héroïne répandue dans le monde, venant d’Afghanistan, ont été déposés sur les marchés noirs de Russie, et malgré tous les efforts entrepris par Moscou, la tendance est croissante.

Si l’on ajoute à ces 21% les données concrètes de l’ONU (production mondiale de 86 tonnes d’héroïne), on peut estimer que les consommateurs russes auraient con­sommé 18 tonnes de drogue, venues de l’héro­ïne – que 17 autres tonnes de l’héroïne pure déversée en Russie auraient été transportées en Chine.

On comprend pourquoi Moscou et Pékin conclurent, il y a trois ans, un accord de coopération transfrontalière dans la lutte contre le déferlement de drogue. Le com­merce de la drogue menace la santé publique, de même que la stabilité économique et de politique intérieure des deux Etats.

Le directeur du service de la santé russe, Dr Gennadij Onichtchenko, a déclaré qu’en Russie mouraient chaque année, du fait de la consommation de surdoses d’héroïne, entre 30.000 et 40.000 jeunes gens. A cela il fallait ajouter 70.000 décès dus aux mala­dies collatérales provoquées par une surcon­sommation de drogue (Sida, septicémie, etc.). On estime à 2 millions, voire 2 millions et demi, d’individus des jeunes générations entre 18 et 39 ans étant accrochés à la drogue, 550.000 sont enregistrés officiellement. Chaque année, 75.000 nouveaux toxicomanes apparaissent, essentiellement des étudiants et de jeunes diplômés.

Peut-on déjà parler d’une décapitation de l’élite intellectuelle de la Russie ? Les toxicomanes russes dépensent chaque année l’équivalent de 17 milliards de dollars pour se procurer de l’héroïne, selon l’agence de presse RIA Novosti. La police a démantelé, rien qu’en mars de cette année, 200 laboratoires servant à préparer l’héroïne pour la vente à ciel ouvert.

Les républiques d’Asie centrale et le Pakistan ont à souffrir des mêmes maux que la Russie. Dans ces pays, on assiste à une connexion entre la contrebande de drogue et la dissémination du sida, comme c’est le cas en Iran depuis des décennies.

L’héroïne destinée à la Russie, venant d’Afghanistan, passe par le Tadjikistan ou par l’Ouzbekhistan (les deux pays se trouvant sous l’influence des Etats-Unis).

On se permet de supposer que les services secrets américains organisent eux-mêmes ce trafic. Il est vrai qu’Ivanov avait proposé au Conseil OTAN-Russie, à Bruxelles, de faire détruire au moins 25% des surfaces afghanes de cul­ture de l’opium. Cependant, l’OTAN, dominée par les Etats-Unis, refusa. James Appathurai, porte-parole de l’OTAN, s’exprima cyniquement envers les journalistes: «Nous ne pouvons pas anéantir la seule source de revenus pour des gens qui vivent dans le deu­xième pays le plus pauvre du monde, alors que nous n’avons pas d’alternative à leur offrir.»

Un mensonge effronté. Les Etats-Unis et leurs vassaux, non seulement mènent une «guerre contre le terrorisme» dans l’Hindou Kouch (dans un intérêt géostratégique et en vue de matières premières et de transfert d’énergie), mais en plus, ils soutiennent ouvertement les bases de revenus des paysans afghans cultivant le pavot.

Avant la guerre, sous le régime des Talibans, la culture du pavot en Afghanistan était étroitement contrôlée. Le pavot n’était autorisé que comme aliment. Qui le transformait en drogue, et diffusait celle-ci, risquait la peine de mort. La part de vente d’héroïne sur le marché mondial ne dépassait pas les 5%. Cela étant, les paysans afghans n’étaient pas plus pauvres qu’aujourd’hui.

Il en alla de même lors de l’attaque soviétique et du gouvernement communiste en Afghanistan, la production de drogue étant réduite à sa plus simple expression. Elle ne prit son élan que lors de la subversion causée par les Etats-Unis (soutien et armement des Moudjahidin du peuple, ce qui donna plus tard les Talibans).

Le marché afghan vendit, l’année der­nière, du pavot pour 3,4 milliards de dollars US (source : J. Mercille de l’Université de Dublin). Les paysans n’en gardèrent que 21% ; les 75% restant furent encaissés par les alliés corrompus des Etats-Unis et par l’OTAN : des fonctionnaires gouvernementaux, la police locale, des marchands régionaux et des transitaires. 4% revinrent, comme de bien entendu, aux Talibans, sous l’œil bienveillant de l’OTAN. Car l’ennemi doit être maintenu en vie – dans l’intérêt d’une présence sans faille des Etats-Unis. Comprenne qui pourra !

La Russie en appelle en vain aux décisions de l’ONU, qui contraignent tous les Etats de s’engager contre le marché noir de la drogue. On comprend alors la colère d’Ivanov envers le secrétaire général de l’OTAN, Anders Fogh Rasmussen, à Bruxelles, l’OTAN s’étant tout simplement refusé d’entreprendre quoi que ce fût contre la culture du pavot en Afghanistan.

Cela rappelle, en plus moderne (menée cette fois-ci par les Etats-Unis), la «Guerre de l’opium», menée dans les mêmes buts que ceux des Anglais lors des première et deuxième Guerres de l’opium (1839–1842 et 1856–1860) contre l’empire chinois de la dynastie des Qing. L’imposition de l’opium à l’Empire du Milieu provoqua, comme on le sait, la désintégration totale de la société chinoise et une instabilité politique à l’intérieur du pays, dont le résultat fut la Révolte des Boxers en 1900 – la révolte souhaitée par les Européens, leur donnant le prétexte pour l’invasion.

Les Nations Unies pourraient maintenant mettre en route leur mandat FIAS, par lequel ils ont légitimé, après coup, l’intervention de l’OTAN en Afghanistan, afin de renforcer la lutte contre la culture du pavot et d’offrir une véritable alternative, par des cultures dans le sens d’une vraie aide dans la reconstruction. Cela contraindrait les forces d’occupation des Etats-Unis et de l’OTAN à faire cesser la production d’opium. Jusqu’à présent, on n’a pas vu une telle résolution. Ce qui laisse aussi rêveur.

L’opium, et son dérivé l’héroïne, attaquent les êtres humains jusque dans leurs tréfonds génétiques. Comme à l’époque dans l’empire de Chine, cela se passe aujourd’hui en Russie, dans la République populaire de Chine et chez leurs voisins. Washington et l’OTAN utilisent l’arme de la drogue, un poison qui a fait ses preuves, contre leurs deux principaux concurrents, Moscou et Pékin. C’est un combat fondamental dans la guerre d’Afghanistan, mais dont on ne parle pour ainsi dire pas ouvertement.

Horizons et débats

Léon Daudet ou "le libre réactionnaire"

Leon-Daudet.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

 

Un livre d'Eric Vatré: Léon Daudet ou  "le libre réactionnaire"

 

par Jacques d'ARRIBEHAUDE

 

Eric Vatré est en train de se faire une spécialité dans la biographie, art difficile et ingrat où les Français pa-raissent souvent légers devant les gigantesques tra-vaux d'érudition des chercheurs anglo-saxons. La personnalité de Léon Daudet est ici bien évoquée. Une des plumes les plus alertes, les plus vives, les plus cinglantes de la critique littéraire de ce premier demi-siècle. Un grand et passionné remueur d'idées et d'opinions, d'une liberté de ton absolue au service d'une pensée résolument hostile à ce qu'on a appelé depuis "l'idéologie dominante".

 

D'où le titre choisi par Vatré, à mon avis un pléonasme, car on imagine mal un réactionnaire qui ne choisirait pas librement d'être à contre-courant de ce qu'il aurait tout avantage à courtiser à longueur de colonnes, à l'exemple de l'ordinaire racaille journalistique contemporaine.

 

Vatré constate, sans vraiment l'expliquer, l'énigme d'une "Action Française" où cohabitent Maurras, apôtre farouche et sourd de la France seule et de sa prétendue supériorité intellectuelle, et Daudet, autre-ment ouvert, féru de Shakespeare, enthousiaste de Proust et de Céline, sensible à la peinture, à la musique, aux souffles poétiques venus d'ailleurs, là où Maurras, fossilisé dans ses plâtres académiques, sonne éperdument le clairon des grandeurs mortes dans le saint pré-carré du monarque introuvable.

 

Au total, Daudet, l'un des hommes au monde les moins doués pour l'action, et, en ce sens, une belle figure de cette IIIème République qu'il haïssait, et dont les ténors parlementaires ventripotents, crasseux et barbichus, si ridicules qu'ils fussent, sem-blent des aigles prodigieux comparés à nos politiciens actuels.

 

A lire et à relire avec le plus grand profit, pour plus de renseignements sur cette époque sans pareille, Les Décombres  de Lucien Rebatet.

 

Jacques d'ARRIBEHAUDE.

 

Eric VATRE, Léon Daudet ou le "libre réaction-nai-re",  Editions France-Empire, 1987, 350 pages, 110 FF.

 

 

lundi, 10 mai 2010

L'EUROMILLION grec

L'EUROMILLION GREC
Chronique hebdomadaire de Philippe Randa

greek_riots.jpgLes experts, du haut de leurs brillants diplômes obtenus à la sueur de très coûteuses études, appréhendent parfaitement la grave crise économique qui frappe la Grèce. Ils la commentent, d’ailleurs et comme toujours, fort savamment. Avec des mots, des comparaisons, des réflexions et des prévisions dont ils ont seuls le secret. Et qu’importe s’ils disent aujourd’hui le contraire de ce qu’ils affirmaient il y a peu et que les faits démentent demain leurs certitudes actuelles. Ils sauront tout aussi excellement démontrer qu’ils l’avaient annoncé et que le commun des mortels ne les a pas bien compris.
C’est que le commun des mortels n’est pas un expert, lui. Rare est celui qui partage avec eux les secrets économiques du monde. Est-ce bien d’ailleurs de sa faute puisqu’on le repaît plus facilement avec ceux des d’alcôves des princes qui nous gouvernent ?
Mais, tout de même, le commun des mortels finit par s’interroger. Comment la France dont le Premier ministre François Fillon révélait en avril 2008 que “les caisses sont vides depuis trente-trois ans”(1), qui prévoyait – ce qui ne mange jamais de pain, surtout noir – un retour à l’équilibre budgétaire en… 2012 – et dont rien ne laisse à penser qu’elles ont été remplies depuis lors – peut-elle “prêter”, sur trois ans, quelques 16,8 milliards d’euros ?
Comment ? En empruntant, bien sûr, mais des emprunts qui “ne creuseront pas les déficits publics (État, comptes sociaux, collectivités locales) déjà très lourds de la France”…
C’est peut-être vrai, mais en la circonstance, il aurait été plus honnête de reconnaître qu’on allait surtout “s’enrichir en s’endettant” contrairement aux solennelles déclarations des États qui entendent “aider” la Grèce au nom de la solidarité européenne !
Cette opération sera en effet bénéfique à la France qui empruntera à environ 3 % et prêtera à 5 % à nos bons amis hellènes. Soit un gain de quelques 150 millions d’euros !
Au Parlement européen, Daniel Cohn-Bendit a mis les pieds dans le plat en fustigeant une telle hypocrisie : “On fait de l’argent sur le dos de la Grèce. C’est intolérable”.
Intolérable sans doute… On savait déjà qu’“impossible n’est pas français”, on apprend désormais que c’est encore moins européen !
Reconnaissons alors que le plan d’aide financière à la Grèce, approuvé par l’Union européenne et le Fonds monétaire international (FMI), n’est rien d’autre qu’un plan de business financier… et on comprendra peut-être mieux pourquoi les Grecs, malgré la douteuse réputation qu’on leur prête, goûtent fort peu les derniers outrages économiques qu’on entend leur faire subir.

NOTE
(1) Interview de François Fillon, Premier ministre, à France Inter le 1er avril 2008, sur la situation financière de la France.

Morsen met de Grondwet en met internationale vergelijkingen

 

Morsen met de Grondwet en met internationale vergelijkingen

In een bijdrage vol schimpscheuten en halve waarheden verwijt Luc Huyse ('Morsen met het democratisch gedachtegoed', (1)) aan de "flaminganten" die de splitsing van de kieskring Brussel-Halle-Vilvoorde met een gewone meerderheid willen goedkeuren in het federale parlement dat zij het democratische meerderheidsprincipe "vervalsen". Volgens deze auteur zou een meerderheidsregel wel gehanteerd mogen worden in een land met een tweepartijenstelsel maar niet in België omdat diens samenleving nu eenmaal niet politiek maar etnisch verdeeld zou zijn. Daar zouden wij gedoemd zijn tot wat hij een consensudemocratie noemt en bovendien zou in zo'n model de verzorgingsstaat zelfs beter scoren dan in een democratie met een meerderheidsregel.

Op de eerste plaats kunnen we vaststellen dat in het hele stuk van Huyse de woorden 'grondwet' of 'constitutie' niet eenmaal voorkomen. Aan het bestaande, historisch gegroeide constitutioneel bestel wordt geen woord vuil gemaakt, en in plaats daarvan geeft Huyse een wel heel eigen selectieve interpretatie van de Belgische constitutie.

Het wezen van een constitutionele democratie is immers dat men onderscheidt tussen (minstens) twee niveau's van regels, nl. de grondwet (en als variante daarop de 'bijzondere wet') en de gewone wet. De grondwet omvat de regels die fundamenteel worden geacht, de gewone wet de andere (2). Een wijziging van de grondwet of bijzondere wet veronderstelt een bijzondere meerderheid (vereenvoudigd gezegd een tweederde meerderheid én een gewone meerderheid in elk van beide taalgroepen in het parlement), een gewone wet een gewone meerderheid. Wat Huyse impliciet doet is voor élke wet die dubbele meerderheid vereisen, voor elke wet aan de kleinste taalgroep een vetorecht toekennen. Dit ondanks het feit dat beide taalgroepen juist overeengekomen zijn welke regels fundamenteel zijn en zo'n bijzondere meerderheid vereisen en welke niet. Huyse beloont daarmee de kwade trouw van de Franse taalgroep die in het verleden reeds meermaals ruim betaald is geworden voor de wijzigingen van de grondwet die door de Vlamingen werden gevraagd (althans ten dele) en nog eens wil betaald worden voor de uitvoering ervan.

Nog erger is het negationisme van Huyse ten aanzien van de specifieke achtergrond van het BHV-probleem. Die houdt namelijk in dat een éénzijdig taalgrensoverschrijdende kieskring, een regeling die dus niét op reciprociteit is gebaseerd maar eenzijdig daarvan afwijkt in het voordeel van een van beide taalgroepen, het grondwettelijk discriminatieverbod schendt (3). Dit is niet mijn particuliere opvatting, maar een rechterlijke beslissing genomen door een paritair samengesteld Grondwettelijk Hof (de helft franstaligen dus). Zowel de bij consensus opgestelde Grondwet als een paritair Hof stellen dus dat de huidge regeling eenzijdig discriminerend is. In beginsel zou er in een rechtsstaat zelfs geen meerderheid nodig moeten zijn om zoiets recht te zetten. Niet voor Huyse: daar moet nogmaals over onderhandeld, lees: betaald worden.

Wil dat zeggen dat alles met een gewone meerderheid moet kunnen gewijzigd worden ? Dat was de opvatting van de Franse Revolutie. Art. 28 van de Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen van 1793 bepaalde: ‘Un peuple a toujours le droit de revoir, de réformer et de changer sa Constitution. Une génération ne peut assujettir à ses lois les générations futures’. Maar er is inderdaad alle reden om fundamentele beslissingen te onttrekken aan de meerderheid en de waan van de dag, met name de bescherming van de fundamentele vrijheden. Die bescherming blijft echter niet beperkt tot 'minderheden' als belangrijke groepen, maar geldt voor iedereen, ook een minderheid van slechts één persoon. Dat wegmoffelen is pas democratievervuiling.

Dat er daarnaast ook reden kan zijn om minderheidsgroepen die op eenzelfde territorium leven bijkomend te beschermen, waarvoor Huyse verwijst naar Noord-Ierland en Rwanda, is mogelijk. Maar die stelling gaat met een reeks andere onjuistheden gepaard.

Op de eerste plaats gaat de verwijzing naar Zwitserland in het geheel niet op. Weliswaar kent dat land de laatste halve eeuw grotendeels erg brede coalities in de regering, maar tegelijk is Zwitserland het land waar 1° de bevoegdheden van de deelstaten enorm zijn 2° het territorialiteitsbeginsel strikt wordt toegepast 3° de directe democratie een overwegende rol speelt en 4° de onafhankelijkheid van het parlement jegens de regering groter is dan waar ook in Europa (te vergelijken met de VS). In Zwitserland kan de regering niet dreigen met ontslag of nieuwe verkiezingen om het parlement in het gareel te doen lopen; in Zwitserland volstaat voor de wet een gewone meerderheid, zonder enig vetorecht van bv. de franstalige minderheid.

Ten tweede zijn de zgn. consensusdemocratieën die volgens de aangehaalde studie van Lijphart (
Patterns of Democracy) beter scoren als meerderheidsdemocratieën juist allemaal landen die niét etnisch verdeeld zijn zoals België, die niet uit twee grotendeels territoriaal gescheiden volksgroepen bestaan. En het is precies om die reden dat de verzorgingsstaat daar een groter draagvlak heeft en dat er over de politieke (niet: taalkundige) tegenstellingen heen aan consensus wordt gewerkt. Het is niet Peter De Roover die de meerderheidsregel "vervalst" om vast te stellen dat democratie niet kan functioneren in België (5), het is Huyse die vergelijkingen vervalst om het voortbestaan van het belgische veto-federalisme of contrafederalisme, waarin de minderheid het voor het zeggen heeft, te verdedigen. In dat model smelt het draagvalk voor de verzorgingsstaat juist weg.

Ten derde blijkt uit een internationale vergelijking dat de mechanismen om een "consensusdemocratie" te organiseren over verschillende taalgroepen heen, maar zin hebben en maar werken wanneer een veel eenvoudiger en bevredigender oplossing niet mogelijk is, nl. territoriale autonomie (zo in bv. Zwitserland, Canada, Spanje, enz.; ook Noord-Ierland is maar een restprobleem nadat Ierland zich afgescheiden heeft van het VK, dus enkel met Brussel te vergelijken en niet met België). Het probleem in België is dat de Franstaligen de consensusdemocratie verwerpen waar ze nodig en billijk is, namelijk in tweetalig gebied (Brussel) en ze revindiceren als middel om te blijven inbreken in het eentalig Nederlands taalgebied. Uit een ernstige internationale vergelijking volgt maar één oplossing: territoriale devolutie voor Vlaanderen en Wallonië, en een poging tot consensudemocratie in Brussel.

Matthias E. Storme
is buitengewoon hoogleraar aan de KU Leuven en de UA en doceert onder meer europees recht, rechtsvergelijking en vergelijkende levensbeschouwing.

(1) L. HUYSE, "Morsen met het democratisch gedachtegoed", dS 23 april 2010,
http://www.standaard.be/krant/tekst/artikel.aspx?artikelid=F42P7FDH. Zie ook de reactie van peter de Graeve, "Opiumdemocratie. België is geen consensusdemocratie", de Standaard 28 april 2010, http://www.standaard.be/artikel/detail.aspx?artikelid=582PHJLN
(2) Over de functie van een grondwet en de kenmerken van een goede grondwet, zie mijn bijdrage "Pleidooi voor een functionele (niet te bevlogen) Grondwet voor Vlaanderen", verschenen in Johan SANCTORUM e.a., De Vlaamse Republiek: van utopie tot project, Van Halewyck 2009, p. 165-187 en in in CDPK (Chroniques de droit public - publiekrechtelijke kroniekenn) 2009 nr. 2, p. 382-389 ; ook op http://vlaamseconservatieven.blogspot.com/2009/01/pleidooi-voor-een-functionele-niet-te.html
(3) Zie voor nadere analyse mijn "De kern van de zaak: BHV discrimineert in strijd met het belgisch evenwicht", hhttp://vlaamseconservatieven.blogspot.com/2007/10/de-kern-van-de-zaak-bhv-discrimineert.html, verkort in De Juristenkrant nr. 156, 25 oktober 2007.
(4) Zijn mijn syllabus rechtsvergelijking, sub Zwitserland, op
http://storme.be/Rechtsvergelijking6a.pdf p. 283-285.
(5). Zie P. De Roover, "Meerderheid tegen minderheid is geen extremisme",
http://www.standaard.be/krant/tekst/artikel.aspx?artikelid=JV2P7C68 en 'België of de democratische weg', De Morgen 4 april 2010, zie http://www.vvb.org/actueel/141/27987

L'hégémonie de l'OTAN: l'UE doit se soumettre!

Bernhard TOMASCHITZ:

L’hégémonie de l’OTAN: l’UE doit se soumettre!

 

ue_otan_2003-e1d8b.jpgDébut avril 2010: on vient de former une brigade franco-italienne de chasseurs alpins. Le ministre italien des affaires étrangères, Franco Frattini considère que l’événement est un “premier pas” vers la constitution d’une éventuelle armée européenne et invite d’autres Etats  de l’UE à participer à cette brigade. Car, ajoute-t-il, pour être “crédible” dans la lutte contre le terrorisme et pour pouvor restabiliser des régions en crise, l’UE aurait besoin d’un moyen approprié car elle ne devrait pas toujours se fier aux Etats-Unis.

 

Les plans pour forger une armée européenne ne datent pas d’hier: déjà en octobre 1950, le premier ministre français René Pleven avait proposé de créer une armée européenne sous  la houlette d’un ministre européen de la défense. Les négociations qui s’ensuivirent et qui avaient pour but de mettre sur pied une CED (“Communauté Européenne de Défense”) ont échoué parce que l’Assemblée nationale française avait retiré de l’ordre du jour le Traité instituant cette CED. Les Français craignaient trop, à l’époque, le réarmement allemand. Il a fallu attendre les années 80 pour que l’on recommence à réfléchir et à agir pour reconstituer une armée européenne: c’est alors que l’Allemagne et la France se sont mises à développer une politique de défense commune; ensuite, en 1997, avec le traité d’Amsterdam, on a commencé à travailler sur le projet d’une “politique de sécurité et de défense européenne” (PSDE). L’Eurocorps procède, lui aussi, d’une initiative commune à la République fédérale d’Allemagne et à la France: il est devenu, pour l’essentiel, une “troupe d’intervention rapide” multinationale relevant de l’UE.

 

Mais jusqu’ici aucune clarté n’a pu être dégagée pour définir avec suffisamment de précision les rapports entre l’UE  et le projet PSDE, d’une part, et entre l’UE et l’OTAN, d’autre part. Toutefois, on peut repérer une série d’indices qui nous amènent à penser que les capacités de défense européennes devront touters être mises au service de l’OTAN et donc des Etats-Unis. Dans un rapport rédigé en janvier 2009 pour le compte de la Commission “affaires étrangères” du Parlement Européen par le député français Ari Vatanen (de nationalité finlandaise), et consacré au “rôle de l’OTAN dans  le cadre de l’architecture de la sécurité européenne”, on peut lire que “l’OTAN forme le noyau de la sécurité européenne et que l’UE dispose d’un potentiel suffisant pour soutenir ses activités, si bien qu’un renforcement des  capacités de défense européennes et qu’un approfondissement de la coopération entre les deux organisations s’avèreraient fructueuses”. Dans cette optique, la Turquie continue à être perçue comme “un allié de longue date de l’OTAN” et un pays “candidat à l’adhésion à l’UE”. Par conséquent, toute fusion de l’OTAN et de l’UE accélèrerait l’adhésion définitive d’Ankara à l’Europe.

 

Sur le plan concret, on prévoit que l’UE interviendra de plus en plus souvent, dans l’avenir, “out of area”, en dehors de la zone prévue initialement par l’OTAN, c’est-à-dire l’Europe. Dans l’article 43 du Traité de Lisbonne, on évoque notamment d’éventuelles missions “pour lutter contre le terrorisme”, missions qui se dérouleraient dans des pays tiers, donc sur le territoire où s’exerce la souveraineté de ceux-ci. Le blanc seing accordé à d’éventuelles interventions hors zone se justifie à l’aide d’arguments “humanitaires”: finalement, il s’agit “d’empêcher de manière active des actes de cruauté commis à grande échelle et des conflits régionaux dans lesquels les populations souffrent terriblement comme auparavant, ou de prendre toutes mesures équivalentes”. Or les conflits régionaux et les actes de cruauté qui les accompagnent généralement sont particulièrement nombreux dans les pays évoqués, où l’on trouve des matières premières ou des minerais importants qui attirent les convoitises, comme au Soudan ou au Congo, ou dans des régions importantes pour assurer le transport de matières premières comme le Caucase.

 

En prévoyant ainsi d’organiser les armées européennes pour jouer le rôle de policier mondial, l’eurocratie bruxelloise va à l’encontre des exigences de Washington qui souhaite que l’UE s’engage davantage sur le plan militaire; ensuite, ces projets correspondent aux plans américains qui veulent faire de l’OTAN une alliance active dans le monde entier et non plus seulement dans l’espace de l’Atlantique Nord. L’engagement en Afghanistan, auquel participent bon nombre de pays membres de l’UE, nous donne un avant-goût de ce qui nous attend. En fin de compte, rien ne nous permet d’imaginer que le Proche et le Moyen Orient trouveront la paix dans un délai prévisible. En Afrique et en Asie centrale, nous trouvons toute une série de pays politiquement instables, qui, du jour au lendemain, pourront rendre “impérative” une “intervention humanitaire”.

 

La militarisation prévue coûtera fort cher au contribuable. Enfin, le Traité de Lisbonne oblige les Etats membres de l’UE “d’améliorer progressivement leurs capacités militaires”, donc de réarmer. C’est grosso modo la même chose que prévoit le rapport Vatanen du Parlement européen, dans lequel on évoque “les investissements plus élevés à consentir pour la défense au niveau de chaque Etat membre de l’UE” et on réclame la création “d’un quartier général opératoire de l’UE”.

 

Le projet, qui équivaut à une soumission pure et simple aux intérêts géopolitiques américains, est accueilli avec bienveillance à Washington. Pourtant, les projets de défense européens n’avaient pas toujours reçu un tel accueil. Petit rappel: lorsque l’Europe se sentait démunie et désemparée dans les années 90 du 20ème siècle, au moment où les conflits inter-yougoslaves faisaient rage dans la péninsule balkanique, elle avait évoqué la possibilité d’améliorer ses capacités militaires et de renforcer les assises de sa propre sécurité. A Washington, à l’époque, on avait tiré la sonnette d’alarme! Strobe Talbott, qui était alors vice-ministre des affaires étrangères aux Etats-Unis, avait exprimé ses craintes: une armée de l’UE “pourrait commencer à exister au sein de l’OTAN puis devenir une concurrente de celle-ci”.

 

Quoi qu’il en soit, si l’Europe venait un jour à s’émanciper des Etats-Unis sur les plans de la défense et de la sécurité, Washington aurait beaucoup à perdre. Car, comme l’a avoué Zbigniew Brzezinski, conseiller national en matières de sécurité auprès de l’ex-Président américain Jimmy Carter, “l’OTAN lie les Etats les plus productifs et les plus influents à l’Amérique et procure aux Etats-Unis une voix de poids dans les affaires intérieures de l’Europe”.

 

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°17/2010; trad. franç.: Robert Steuckers). 

 

After the Reich...

after.jpgEx: http://www.italiasociale.org/

After the Reich: The Brutal History of the Allied Occupation

di Giles MacDonogh, edito da Basic Books nel 2007, ristampato nel febbraio 2009, pagine 656, lingua inglese, ISBN: 978-0465003389

Recensione pubblicata nel numero di Primavera 2009 dal “The Journal of Social, Political and Economic Studies”, pagine 95-110.

 

 

L’indomani della “Guerra buona”: una revisione. La verità che riaffiora dall’oceano del mito. (1)

di Dwight D. Murphey, già docente di diritto commerciale alla Wichita State University dal 1967 al 2003 (2)

Chi narra con onestà gli eventi umani, odierni o remoti, appartiene ad una stipe tanto rara quanto onorabile. Dovremmo senz’altro elevarli nel pantheon degli dei terreni. Allo stesso modo, indubbiamente, vi dovremmo annoverare anche coloro che, non già per disaffezione verso l’Occidente o gli Stati Uniti o il suo popolo, bensì per sete di verità, portano alla luce gli spaventosi avvenimenti che furono conseguenza della Seconda Guerra mondiale (così come le enormità commesse come parte del modo in cui la guerra fu combattuta contro le popolazioni civili, sebbene questo non sia argomento che vogliamo investigare in questa sede). Quella Guerra gli americani la conoscono come “the good war” (3) e coloro che la combatterono sono noti come “the greatest generation” (4). Ma adesso, lentamente, veniamo colpiti da realtà così banali rispetto alla complessa esistenza umana: tanto vi fu che non era affatto “buono” e, insieme all’abnegazione ed agli intenti elevati, ci furono molta venalità e brutalità. Queste realtà vengono a galla perché esistono degli studiosi che, quantomeno, sono consapevoli che un oceano di propaganda bellica genera un mito che resta per vari decenni, e che hanno una dedizione per la verità che travolge le molte lusinghe di conformità al mito. Questo articolo inizia come una semplice recensione del libro di Giles MacDonogh(5), libro che appartiene per larga parte al genere di trasgressione al mito che ho appena elogiato. Tuttavia, poiché esiste materiale supplementare di grande valore di cui non posso non far parola, l’ho ampliato per comprendervi altre informazioni ed autori, benché esso rimanga soprattutto una recensione di After the Reich. Quello di MacDonogh è un libro sconcertante, al tempo stesso coraggioso e vile, per lo più (ma non del tutto) meritevole del grande elogio che si deve agli studiosi incorruttibili. Come già abbiamo osservato, il pubblico americano ha pensato a lungo allo sforzo bellico alleato nella Seconda Guerra mondiale come ad una “grande crociata” che opponeva il bene e la giustizia al male nazionalsocialista (6). Perfino dopo tutti questi anni è probabile che l’ultima cosa che il pubblico vuole è di apprendere che, sia gli alleati occidentali, che l’Unione Sovietica commisero enormi e indicibili torti durante la guerra e dopo. Sfida questa riluttanza MacDonogh che racconta la “storia brutale” per esteso. Questa propensione è encomiabile per il coraggio intellettuale che dimostra. Alla luce di ciò sconcerta che, nel momento stesso in cui lo fa, maschera la storia, proseguendo in parte, nella sostanza, nell’insabbiamento di pezzi di storia instaurato dall’incombere della propaganda bellica, per quasi due terzi del secolo. Perciò il grande valore del suo libro non è da ricercare nella sua completezza o nella rigorosa imparzialità, bensì nel fatto che fornisce una sorta di passaggio – quasi esauriente – che può avviare dei lettori scrupolosi verso una ulteriore ricerca su un argomento d’immensa importanza. Per questo articolo, sarà intanto significativo iniziare riassumendo la storia narrata da MacDonogh, aggiungendoci parecchio. Soltanto dopo averlo fatto esamineremo quanto MacDonogh occulta. Tutto ciò ci condurrà quindi ad alcune riflessioni conclusive. Nella sua prefazione, MacDonogh dichiara che il suo proposito è di “mostrare come gli alleati vittoriosi trattarono il nemico al momento della pace, in quanto nella maggior parte dei casi non si trattò di criminali che furono stuprati, affamati, torturati o bastonati a morte ma di donne, bambini e vecchi”. Sebbene ciò lasci intendere che il tono del libro è sdegnato, la narrazione è nel complesso informativa piuttosto che polemica. La produzione accademica di MacDonogh comprende vari libri di storia tedesca e francese e delle biografie (oltre a quattro testi sul vino). (7)

Le espulsioni (oggi definite "pulizia etnica").

MacDonogh ci racconta che, al termine della guerra “sedici milioni e mezzo di tedeschi furono cacciati dalle proprie case”. Nove milioni e trecentomila vennero espulsi dalla parte orientale della Germania, diventata Polonia. (Sia il confine orientale che quello occidentale della Polonia furono drasticamente spostati verso ovest per accordo fra gli alleati, con la Polonia che si prendeva una fetta importante della Germania e l’Unione Sovietica che afferrava la Polonia orientale). Gli altri sette milioni e duecentomila furono strappati dalle proprie terre ancestrali dell’Europa Centrale dove vivevano da generazioni. Questa espulsione di massa fu stabilita nell’accordo di Potsdam di metà 1945(8), anche se tale accordo prevedeva esplicitamente che la pulizia etnica avesse luogo “nel modo più umano possibile”. Churchill fu fra quelli che lo sostennero, in quanto avrebbe condotto “ad una pace durevole”. In realtà, questa operazione fu talmente inumana da equivalere ad una delle più grandi atrocità della storia. MacDonogh riferisce che “circa due milioni e duecentocinquantamila persone sarebbero morte durante le espulsioni”. Questa è la stima minima, in un intervallo che va da due milioni e centomila a sei milioni, se prendiamo in considerazione soltanto gli espulsi. Konrad Adenauer, troppo amico dell’occidente, riuscì a dire che fra gli espulsi “sono morti, spacciati, sei milioni di tedeschi”.(9) Vedremo il racconto di MacDonogh della fame e dell’esposizione al freddo estremo cui fu soggetta la popolazione della Germania nel dopoguerra, ed a questo punto vale la pena di menzionare (anche se va al di là dell’argomento espulsioni) ciò che dice lo storico James Bacque (10): “il confronto fra i censimenti ci rivela che fra l’ottobre del 1946 [un anno e mezzo dopo la fine della guerra] e il settembre del 1950 sono scomparse in Germania circa 5 milioni e settecentomila persone”.(11) Ciò che MacDonogh chiama “la più grande tragedia marittima di tutti i tempi” accadde quando la nave Wilhelm Gustloff (12), che trasportava i tedeschi da Danzica nel gennaio del 1945, fu affondata con “oltre 9.000 persone, fra cui molti bambini”. A metà del 1946 “delle foto mostrano alcuni dei 586.000 tedeschi di Boemia pigiati in delle auto come sardine”. In un altro passaggio MacDonogh ci racconta come “i rifugiati erano spesso così ammucchiati da non potersi muovere per defecare e così spuntavano dai veicoli coperti di escrementi. Molti, all’arrivo, erano morti”. [Questo ci richiama alla mente le scene descritte così vivacemente da Solzenicyn nel primo volume di “Arcipelago Gulag” (13)]. In Slesia, “fiumane di civili furono strappati dalle proprie case sotto la minaccia delle armi da fuoco”. Un sacerdote stimò che un quarto della popolazione tedesca di una città della Bassa Slesia si uccise, dato che intere famiglie si suicidarono insieme.

La condizione della popolazione tedesca: fame e freddo estremo.

I tedeschi parlano del 1947 come dell’Hungerjahr, l’ “anno della fame”, ma MacDonogh afferma che “perfino nel 1948 non si era posto rimedio al problema”. La gente mangiò cani, gatti, topi, rane, serpenti, ortica, ghiande, radici dei denti di leone (14) e funghi non ancora maturi in un frenetico tentativo di sopravvivere. Nel 1946 le calorie fornite nella “U.S. Zone” (15) in Germania calarono a 1.313 del 18 marzo dalle già scarse 1.550 precedenti. Victor Gollancz (16), uno scrittore ed editore inglese, ebreo, obiettava “stiamo affamando i tedeschi”.(17) Ciò concorda con la dichiarazione del senatore dell’Indiana Homer Capehart (18) in un discorso al Senato statunitense del 5 febbraio 1946: “Finora, per nove mesi, questa amministrazione ha portato deliberatamente avanti una politica per ridurre le masse alla fame”. (19) MacDonogh ci narra che la Croce Rossa, i Quaccheri, i Mennoniti ed altri volevano far entrare del cibo ma “nell’inverno del 1945 le donazioni furono respinte con la raccomandazione di utilizzarle in altre zone d’Europa straziate dalla guerra”. Nella zona americana (20) di Berlino “la politica statunitense era che nulla dovesse essere distribuito e tutto, al contrario, gettato via. Così le donne tedesche che lavoravano per gli americani erano fantasticamente ben nutrite ma non potevano portar nulla alle proprie famiglie ed ai bambini”. Bacque afferma che “alle agenzie di soccorso straniere fu impedito di inviare cibo dall’estero; i treni coi viveri della Croce Rossa vennero rimandati in Svizzera; a tutti i governi stranieri fu negata l’autorizzazione di mandare alimenti ai civili tedeschi; la produzione di fertilizzanti fu bruscamente ridotta. La flotta da pesca fu tenuta nei porti mentre la gente moriva di fame”. (21) Sotto l’occupazione russa della Prussica orientale, MacDonogh ravvisa “impressionanti analogie” con la “deliberata riduzione alla fame dei kulaki ucraini nei primi anni ‘30” ad opera di Stalin. Come era accaduto in Ucraina “furono riferiti casi di cannibalismo, con la gente che mangiava la carne dei propri figli morti”. La sofferenza per il freddo gelido unita alla fame per creare strazio e un elevato numero di morti. Anche se l’inverno 1945-’46 fu nella norma “la terribile penuria di carbone e di cibo furono sentiti intensamente”. Si abbatterono poi due inverni freddi in maniera anomala , nel 1946-’47 “forse il più freddo a memoria d’uomo” (22) e quello del 1948-’49. Nella sola Berlino si stima siano morte 60.000 persone nei primi dieci mesi dopo la fine della guerra e “l’inverno successivo si calcola ne abbia sterminate altre 12.000”. La gente viveva nelle buche fra le rovine e “alcuni tedeschi –in particolare rifugiati dall’Est- praticamente nudi”. Nel suo libro “Gruesome Harvest: The Allies' Postwar War Against The German People” (23) Ralph Franklin Keeling menziona una affermazione di un “famoso pastore tedesco”: “Migliaia di corpi sono appesi agli alberi nei boschi intorno a Berlino e nessuno si prende la briga di tirarli giù. Migliaia di corpi li portano nel mare l’Oder e l’Elba, non li si nota nemmeno più. Migliaia e migliaia muoiono di fame sulle strade. Bambini vagano da soli per le strade”. (24) Alfred-Maurice de Zayas (25), nel suo “The German Expellees: Victims in War and Peace” (26) raccontava come, in Yugoslavia, il maresciallo Tito usasse i campi come centri di sterminio per far morire di fame i tedeschi.(27)

Stupri di massa, cui si deve aggiungere il “sesso spontaneo” ottenuto dalle donne affamate.

Gli stupri furiosi delle truppe d’invasione russe sono, ovviamente, infami. In Austra, nella zona russa, “lo stupro fece parte della vita quotidiana fino al 1947 e molte donne contrassero delle malattie veneree e non ebbero i mezzi per curarsi”. MacDonogh scrive che “stime prudenziali collocano il numero delle donne violentate a Berlino a 20.000”. Quando gli inglesi arrivarono a Berlino, “gli ufficiali, in seguito, rievocavano la violenta emozione provata nel vedere i laghi della prospera zona occidentale pieni di corpi di donne che si erano suicidate dopo esser state violentate”. L’età delle vittime non faceva alcuna differenza: le donne stuprate avevano da 12 a 75 anni. Fra queste, infermiere e suore (alcune violentate anche cinquanta volte). “I russi erano particolarmente crudeli coi nobili, incendiavano le loro ville e violentavano o ammazzavano gli abitanti”. Benché “la maggior parte degli indesiderati figli dei russi venissero abortiti”, MacDonogh scrive che “si stima che da 150.000 a 200.000 ‘neonati russi’ siano comunque sopravvissuti”. I russi violentavano ovunque andassero, tanto che non furono soltanto le tedesche ad essere stuprate, ma anche donne ungheresi, bulgare, ucraine ed anche jugoslave, sebbene quest’ultime fossero dalla stessa parte. Esisteva una linea di condotta ufficiale contro la violenza carnale, ma era, solitamente, a tal punto ignorata che “fu solo nel 1949 che furono realizzate concrete azioni dissuasive nei confronti dei soldati russi”. Fino ad allora “furono incitati da [Ilya] Ehrenburg (28) e da altri propagandisti sovietici che vedevano lo stupro come espressione dell’odio”. Sebbene vi fosse una “incidenza molto estesa di stupri commessi da soldati americani”, esisteva anche una politica militare coercitiva contro di essi, con “diversi soldati americani giustiziati” per questo. I capi d’imputazione per stupro “salirono costantemente” durante gli ultimi mesi di guerra, ma calarono nettamente in seguito. Ciò che invece continuò fu probabilmente quasi peggiore: lo sfruttamento sessuale di donne affamate le quali vendevano “volontariamente” i propri corpi in cambio di cibo. In “Gruesome Harvest”, Keeling cita da un articolo apparso sul Christian Century (29) del 5 dicembre 1945: “Il comandante della Polizia Militare americana ha dichiarato che la violenza carnale non rappresenta un problema per loro in quanto ‘un po’ di cibo, una barretta di cioccolata o un pezzo di sapone rendono inutile lo stupro’ “. (30) Le dimensioni del fenomeno sono dimostrate dalla cifra che MacDonogh fornisce, di “94.000 Besatzungskinder (31) o ‘bambini dell’occupazione’, stimati, [che] nacquero nella zona americana”. Egli scrive che nel 1945-’46 “molte ragazzine ricorsero alla prostituzione per sopravvivere. Ed anche i ragazzi assolsero lo stesso compito per i soldati alleati”. Keeling, scrivendo nel 1947 per la pubblicazione del proprio libro [in tal modo si spiega l’uso del presente nella frase], diceva che c’era “una impennata di malattie veneree tale da raggiungere proporzioni epidemiche” e proseguiva scrivendo che “una larga parte dell’infezione è stata originata dalle truppe americane di colore che noi abbiamo collocato in gran numero in Germania e fra le quali la percentuale di infezioni veneree è molte volte più alta che non fra le truppe bianche”. Nel luglio del 1946, aggiunge, la percentuale annua per i soldati bianchi ammonta al 19%, per i neri sale al 77,1%. Ripete quindi ciò che noi stiamo qui dimostrando, quando mette in evidenza “lo stretto legame fra il tasso di malattie veneree e la disponibilità di cibo”. (32) Se MacDonogh menziona stupri commessi da soldati britannici, a me è sfuggito. Egli però racconta di violenze carnali di polacchi, francesi, partigiani di Tito e profughi. A Danzica “i polacchi si comportarono tanto duramente quanto i russi. Furono i polacchi a liberare (33) la città di Teschen (34), nel nord [della Cecoslovacchia] il 10 di maggio. Per cinque giorni essi stuprarono, saccheggiarono, incendiarono e uccisero”. Scrive del “comportamento dei soldati francesi a Stoccarda, dove forse 3.700 donne ed otto uomini furono violentati” ed aggiunge che “altre 500 donne [furono] stuprate a Vahingen(35) e riferisce dei “tre giorni di uccisioni, saccheggi, incendi e stupri” avvenuti a Freundenstadt.(36) Sui fuggiaschi dice che “c’erano circa due milioni di prigionieri di guerra e lavoratori coatti provenienti dalla Russia che avevano costituito delle bande che rubavano e violentavano in tutta l’Europa centrale”.

Trattamento dei prigionieri di guerra.

In tutto, ci furono approssimativamente undici milioni di pionieri di guerra tedeschi. Un milione e mezzo non tornarono mai a casa. Qui MacDonogh esprime il proprio giusto sdegno: “Fu scandaloso trattarli con così scarsa cura che un milione e mezzo di loro morirono”. La Croce Rossa non ebbe alcun incontro faccia a faccia con quelli che erano detenuti dai russi, in quanto l’Unione Sovietica non aveva firmato la Convenzione di Ginevra. MacDonogh afferma che i russi non facevano alcuna distinzione fra civili e prigionieri di guerra tedeschi, anche se sappiamo che un rapporto del KGB li selezionava per mandarli a morte o per altri scopi. Alla fine della guerra, i russi ne detenevano da quattro a cinque milioni in Russia (e qui, di nuovo, gli archivi del KGB vale la pena di consultarli, come ha fatto lo storico James Bacque; essi registrano la cifra di 2.389.560 prigionieri). Un gran numero fu detenuto per oltre dieci anni, e furono rimandati in Germania soltanto dopo la la visita di Konrad Adenauer a Mosca nel 1956.(37) Ciononostante, nel 1979 –34 anni dopo la fine della guerra!- “si riteneva ci fossero 72.000 prigionieri ancora in vita, principalmente in Russia”. A Stalingrado furono catturati circa 90.000 soldati tedeschi, ma soltanto 5.000 fecero ritorno a casa. Gli americani fecero una distinzione fra i quattro milioni e duecentomila soldati catturati durante la guerra, cui le Convenzioni de L’Aia e di Ginevra davano diritto alla protezione ed ai mezzi di sussistenza, ed i tre milioni e quattrocentomila catturati in Occidente alla fine della guerra. MacDonogh dice che questi ultimi furono classificati come “Surrendered Enemy Persons" (SEP) o come "Disarmed Enemy Persons" (DEP), (38) cui furono negate le tutele delle due Convenzioni. Non fornisce la cifra totale di quelli che morirono mentre erano in custodia americana, dicendo “non è chiaro quanti soldati tedeschi morirono di fame”. Rivela, comunque, varie situazioni: “I più famigerati campi americani per prigionieri di guerra erano i cosiddetti Rheinwiesenlager”. (39) Qui gli americani, lasciarono che “oltre 40.000 soldati tedeschi morissero di fame abbandonati nei fangosi pantani del Reno”. Scrive che “qualsiasi tentativo della popolazione civile tedesca di dar da mangiare ai prigionieri era punito con la morte”. Sebbene la Croce Rossa fosse autorizzata alle ispezioni, “il filo spinato che circondava i campi dei SEP e dei DEP era impenetrabile”. Altrove, alle “caserme del Genio di Worms c’erano 30-40.000 prigionieri seduti nel cortile, che si spingevano per farsi spazio, senza alcuna protezione dalla pioggia che li gelava”. I prigionieri morivano di fame a Langwasser (40) e nel “famigerato campo” di Zuffenhausen (41) dove “per mesi il pranzo consisté in zuppa di rape, con mezza patata per cena”. Sarebbe un errore ritenere che una carenza mondiale di cibo fosse all’origine dell’impossibilità statunitense di dar da mangiare ai prigionieri. Bacque scrive che “il capitano Lee Berwick del 424° Fanteria, che comandava le sentinelle del campo di Bretzenheim (42), mi disse che ‘il cibo era accatastato tutto intorno alla recinzione del campo’. I prigionieri vedevano le casse impilate ‘alte come case’ ”. (43) Uno dei 19 campi di concentramento americani sul Reno, l’A2 di Remagen in Renania-Palatinato, a fine aprile 1945. Si nota bene l’assenza di baracche o altri ricoveri (che la democrazia non ne conosca l’uso?). Ciò che ci dice MacDonogh sul trattamento dei prigionieri di guerra da parte degli inglesi appare discordante. In Gran Bretagna c’erano 391.880 prigionieri al lavoro nel 1946 ed un totale di 600 campi nel 1948. Egli scrive che “il regime non era così duro e in termini percentuali il numero di uomini che morirono mentre erano in prigionia britannica è sorprendemente basso rispetto a quello degli altri alleati”. Tuttavia altrove racconta come “gli inglesi riuscirono ad eludere [le clausole della Convenzione di Ginevra] che prevedeva di fornire da 2.000 a 3.000 calorie al giorno”, così che “per la maggior parte del tempo il livello scese sotto le 1.500 calorie”. Gli inglesi avevano un campo di prigionia in Belgio che “era noto per essere particolarmente massacrante”. Laggiù “si riferisce che le condizioni dei 130.000 prigionieri non fossero ‘molto meglio di quelle di Belsen’. (44) Quando il campo fu ispezionato nell’aprile del 1947 si trovarono appena quattro lampadine funzionanti; non c’era combustibile, né pagliericci e neppure cibo, a parte la ‘minestra d’acqua’”. Un servizio della Reuters del dicembre 2005 aggiunge una significativa dimensione: “Secondo il Guardian, gli inglesi gestirono un carcere segreto in Germania per due anni dopo la fine della Seconda Guerra mondiale dove i reclusi, compresi membri del Partito Naz(ionalsocial)ista, furono torturati e fatti morire di fame.(45) Citando dei dossier del Foreign Office, resi pubblici in seguito ad una richiesta ai sensi del Freedom of Information Act (46), il quotidiano scrive che la Gran Bretagna ha detenuto uomini e donne [sic] in una prigione di Bad Nenndorf fino al luglio del 1947. Il giornale riferisce di ‘Minacce di giustiziare i prigionieri, oppure di arrestare, torturare e uccidere le loro mogli e i loro figli erano considerate “del tutto appropriate” in quanto mai furono attuate’”. (47) I francesi pretesero lavoratori tedeschi per ricostruire il paese, ed a questo scopo inglesi ed americani cedettero loro circa un milione di soldati tedeschi. MacDonogh dice che “il loro trattamento fu particolarmente brutale”. Non molto tempo dopo la fine della guerra, secondo la Croce Rossa, 200.000 prigionieri morivano di fame. Siamo informati di un campo “nella Sarthe [dove] i prigionieri dovevano sopravvivere con 900 calorie al giorno”. (48)

Il saccheggio dell’economia tedesca (49).

I capi alleati non erano d’accordo fra loro sul Piano Morghentau (50) per spogliare la Germania del suo patrimonio industriale e trasformarla in un paese agricolo. L’opposizione di alcuni e l’esitazione di altri, tuttavia, non impedì che de facto il piano venisse attuato. Quando la confisca fu conclusa, la Germania era in larga misura priva di mezzi produttivi. MacDonogh afferma che sotto i russi “Berlino perdette circa l’85% della propria capacità industriale”. Da Vienna venne portata via ogni macchina. Dal Danubio fu sottratto il naviglio e “una delle priorità sovietiche fu la confisca di qualsiasi importante opera d’arte trovata nella capitale [Vienna]. Questa fu un’operazione totalmente pianificata”. Però “peggiore del completo trasferimento della base industriale fu il rapimento di uomini e donne per sviluppare l’industria in Unione Sovietica”. Sotto gli americani, lo smantellamento dei siti industriali proseguì finché il generale Lucius Clay (51) non lo fermò un anno dopo la fine della guerra. Fino all’azione di Clay, il Piano Morghentau era incarnato dalla Disposizione n. 6 dell’Ordine 1067 (529 del Joint Chiefs of Staff (53). MacDonogh dice che dove “il furto degli ufficiali americani fu perpetrato su scala massiccia” fu nel “sequestrare scienziati ed impadronirsi di attrezzature scientifiche”. Gli inglesi presero molto per se e passarono altro patrimonio industriale agli “stati clienti” come la Grecia e la Jugoslavia. La famiglia reale britannica ricevette lo yacht di Goering (54) e la zona britannica della Germania fu spogliata degli “stabilimenti che potevano in seguito entrare in competizione con le industrie britanniche”. MacDonogh scrive che “gli inglesi ebbero la propria tipologia di furto organizzato con la [cosiddetta] T-Force, che cercava di racimolare qualsiasi ingegno industriale”. (55) Da parte loro i francesi sostennero “il diritto alla razzia”. “La Francia non esitò ad appropriarsi di un’azienda di clorati a Rheinfelden, una di viscosa a Rottweil, delle miniere Preussag e dei gruppi chimici Rhodia”, e di molto altro ancora. (56) Se il Piano fosse stato realizzato del tutto per un lungo periodo di tempo, gli effetti sarebbero equivalsi ad una calamità. Keeling, in “Gruesome Harvest”, scrive che tentare “la distruzione permanente del cuore industriale tedesco” avrebbe avuto come “conseguenza ineluttabile la morte per fame e malattia di milioni, decine di milioni di tedeschi”. (57)

Il rimpatrio forzato dei russi per Stalin.(58)

Il libro di MacDonogh si limita all’occupazione alleata, però ci sono, naturalmente, molti altri aspetti del dopoguerra che meritano d’esser menzionati, anche se qui ci limiteremo ad uno solo di questi. (Anche MacDonogh ne fornisce alcuni dettagli). Riguarda il rimpatrio alleato in Unione Sovietica dei Russi catturati. Nel suo “The Secret Betrayal” (59) Nikolai Tolstoy racconta come, fra il 1943 ed il 1947, furono “restituiti” un totale di 2.272.000 Russi. I sovietici ne raccolsero altri 2.946.000 in varie parti d’Europa conquistate dall’Armata Rossa. Quelli mandati in Unione Sovietica dalle democrazie occidentali comprendevano migliaia di zaristi (60) emigrati che non avevano mai vissuto sotto il regime sovietico. (61) Tolstoy scrive che, anche se erano in molti quelli che volevano davvero tornare in Russia (mentre molti altri si opponevano disperatamente e ci furono mandati, in effetti, fra le violenze e le grida), tutti, senza distinzione, vennero trattati brutalmente, giustiziati, violentati o resi schiavi. Alcuni dei rimpatriati erano russi che avevano combattuto per la Germania da volontari contro l’Unione Sovietica, comandati dal generale Vlasov.(62) Il Generale Vlasov nel 1943 Alcuni erano Cosacchi, molti dei quali non erano neppure cittadini sovietici. (63) Il violento rimpatrio ebbe inizio nell’agosto 1945. Tolstoy narra come, per obbligarli al trasferimento, siano stati impiegati l’inganno, le bastonate, le baionette e perfino la minaccia di usare un carro lanciafiamme. (64)

La giustizia dei vincitori.

Quando la guerra terminò c’era unanimità fra i capi alleati sul fatto che i capi Naz(ionalsocial)isti fossero messi a morte. Alcuni volevano una esecuzione immediata, altri “una corte marziale straordinaria”. Ci fu un inaspettato vantaggio nell’insistenza degli inglesi a seguire le “formalità legali”, come fu poi deciso. Il risultato fu una serie di processi coi trabocchetti dei normali procedimenti giudiziari, che però furono di fatto una parodia dal punto di vista del “principio della legalità”, mancando sia dello spirito che dei particolari del “giusto processo”. In due capitoli, MacDonogh fornisce un resoconto del principale processo di Norimberga e della serie di processi che si ebbero in seguito, per anni. Fra questi, gli americani celebrarono vari processi a Norimberga, dopo il principale; davanti ai “tribunali per la denazificazione” (65) furono giudicate migliaia di cause; dopo la loro entrata in funzione i tribunali tedeschi continuarono i processi e, naturalmente, sappiamo del processo in Israele e dell’eseczione di Eichmann. (66) Vi sono molti motivi per chiamarla “giustizia dei vincitori”. Perché se fosse stato altrimenti, un tribunale veramente imparziale avrebbe dovuto essere convocato in qualche parte del mondo (ammesso che una cosa simile fosse stata possibile subito dopo una guerra mondiale) ed avrebbe dovuto procedere contro i crimini di guerra commessi da tutte le parti combattenti. Ma ovviamente sappiamo che una forma di giustizia tanto imparziale non era neppure contemplata. Nell’atto d’incriminazione di Norimberga i Naz(ionalsocial)isti erano accusati del massacro del corpo ufficiali polacchi della foresta di Katyn, imputazione che fu discretamente (e con grande disonestà intellettuale e “giudiziaria”) tralasciata nel giudizio finale, dopo che era divenuto chiaro a tutti che erano i sovietici ad aver commesso la strage. (67) Un altro dei molti altri esempi possibili sarebbe quello relativo alle deportazioni Naz(ionalsocial)iste addebitate a Norimberga sia come crimine di guerra che come crimine contro l’umanità. Per converso, nessuno fu mai “assicurato alla giustizia” per l’espulsione alleata dei milioni di tedeschi dalle loro terre ancestrali dell’Europa centrale.

Una fonte che i lettori troveranno istruttiva.

Per la credibilità della fonte, il resoconto dell’ex-maggiore dell’aeronautica militare statunitense Arthur D. Jacobs nel suo libro “The Prison Called Hohenasperg” (68) sarà utile ai lettori quanto lo è assimilare (e valutare) le informazioni contenute nel libro di MacDonogh e quelle degli altri autori cui abbiamo qui rinviato. E’ prezioso sia come storia della brutalità che della compassione americane. Jacobs prestò servizio in aeronautica per ventidue anni, si congedò nel 1973 ed in seguito insegnò alla Arizona State University per altri vent’anni. (69) Il libro racconta la sua storia personale: i suoi genitori, tedeschi, emigrarono negli Stati Uniti nel 1928 e nel 1929. Ebbero due figli, nati a Brooklyn (perciò cittadini statunitensi) e uno di loro era Arthur Jacobs. I ragazzi vissero i loro primi anni a Brooklyn, dove frequentarono la scuola elementare. La famiglia fu presa e trattenuta ad Ellis Island (70) verso la fine della guerra e fu quindi detenuta per sette mesi nel campo d’internamento di Crystal City, in Texas (71), dove fu trattata bene. Poi furono “rimpatriati volontariamente” in Germania (dopo esser stati minacciati di deportazione) nell’ottobre del 1945, vari mesi dopo la resa tedesca. Quando arrivarono in Germania la madre di Jacobs fu inviata in un campo, il padre ed i due figli in un altro. Questi ultimi raggiunsero un campo d’internamento a Hohenasperg (72), dopo un viaggio di 92 ore rinchiusi in un carro merci con un freddo glaciale, insieme a donne e bambini e, soprattutto, a pane e acqua e “senza calore, senza coperte e senza gabinetti a parte un fetido bugliolo all’aperto”. Jacobs stesso aveva dodici anni e compì il tredicesimo nella settimana in cui era a Hohenasperg, prima di essere mandato in un altro campo a Ludwigsburg. (73) Nel carcere di Hohenasperg fu sottoposto ad una severa disciplina come un qualunque prigioniero e le guardie lo minacciarono ripetutamente di impiccarlo se avesse disobbedito. Il campo di Ludwigsburg in effetti era un centro di detenzione in attesa del rilascio. E’ istruttivo quanto Jacobs ci racconta della misera dieta: “A colazione ci davano un bicchiere di latte ‘grigio’ e una fetta di pane scuro. A mezzogiorno non c’era pasto”. A cena “ognuno riceveva una scodella di minestra…, per lo più acqua aromatizzata col dado. Nessuna seconda porzione. Sentivo sempre i morsi della fame”. Mentre erano internati a Ludwigsburg, lui ed i suoi fratelli erano costretti a guardare dei film sui “campi di sterminio” (74) tedeschi. La madre, il padre ed i fratelli furono rilasciati dai rispettivi campi a metà marzo del 1946 ed andarono a vivere coi nonni di Jacobs nella zona sotto controllo britannico. Non erano i benvenuti fra i tedeschi che incontravano, in quanto “eravamo altre quattro bocche da sfamare”. Jacobs vide che “la Germania era logorata dalla guerra e affamata”. Fu aiutato da un soldato americano che gli trovò un lavoro al “Graves Registration” (75). Perse il lavoro quando quel soldato fu trasferito ed iniziò una lotta per “vivere nel periodo in cui si moriva di fame, l’inverno del 1946-1947”. Dopo molto girare, ebbe un altro lavoro con l’Esercito americano, stavolta nella flotta militare. A lui si interessò una donna americana che conosceva una coppia in una fattoria del Kansas sud-occidentale che li avrebbe condotti in America a vivere con loro. Pertanto, Jacobs e suo fratello partirono per gli Stati Uniti nell’ottobre del 1947. Erano stati in Germania per 21 mesi. Trascorsero undici anni prima che Jacobs potesse rivedere i genitori. Tirò avanti e, come abbiamo detto, riuscì a diventare ufficiale di carriera nell’aeronautica militare statunitense. Dopo aver conseguito l’MBA (76) all’Università Statale dell’Arizona, divenne ingegnere industriale e più tardi docente della stessa Università.

Se MacDonogh ha scritto tutto ciò che abbiamo riferito (ed altro ancora) del suo libro, come si può sostenere che egli prosegue in modo significativo nell’occultamento di tali orrori, un occultamento che dal 1945 li ha consegnati al dimenticatoio? Questa domanda ci conduce ai difetti del libro, che sono di una natura tale da dare ai lettori una comprensione ridotta delle dimensioni delle atrocità e dei loro responsabili. Ciò che passa di più il segno è il trattamento che MacDonogh riserva al lavoro dello storico canadese James Bacque, autore di “Other Losses” (77) e “Crimes and Mercies”. Quando rimanda al primo di questi libri, dice che Bacque “asseriva che i francesi e gli americani avessero ucciso un milione di prigionieri di guerra”, una affermazione che “fu definita un lavoro di ‘mostruosa speculazione’ e fu rigettata da uno storico americano come una ‘tesi assurda’”. Secondo MacDonogh “da allora è stato provato che Bacque fraintese, nei documenti alleati, le parole ‘other losses’ e ne intese avessero il significato di ‘deaths’”. (78) Perciò parla di “falsa pista di Bacque”. Egli respinge tanto decisamente la tesi di Bacque che nella pagina sulle ulteriori letture consigliate, alla fine del libro, MacDonogh apparentemente si scorda del tutto di Bacque, dicendo che “sul trattamento dei prigionieri di guerra non esiste niente in inglese e il principale esperto americano –Arthur L. Smith- pubblica in tedesco”. (79) Pensavo fosse giusto chiedere a Bacque cosa rispondeva al rigetto di MacDonogh. Bacque mi ha risposto che “la speculazione sulle parole rappresenta bene i miei critici, perché loro non sono stati in tutti i maggiori archivi e non hanno intervistato le migliaia di sopravvissuti che hanno scritto ai giornali, ai giornalisti televisivi e ad altri scrittori sulle loro esperienze vicine alla morte nei campi degli americani, dei francesi e dei russi”. Lungi dall’ammettere di aver mal interpretato la categoria delle “other losses”, Bacque afferma che “il significato del termine mi fu chiarito dal colonnello Philip S. Lauben, dell’esercito degli Stati Uniti, responsabile dei movimenti dei prigionieri per lo SHAEF nel 1945. (80) Ho l’intervista su nastro e la firma di Lauben su una lettera di conferma. Lauben non ha mai negato ciò che mi riferì”. In seguito Lauben dichiarò alla BBC che “si era sbagliato”, però la probabilità di un errore è esile dal momento che era l’ufficiale responsabile fin dall’inizio e vide sia i campi che i documenti. La differenza fra il trattamento che riservano MacDonogh e Bacque alla questione dei prigionieri di guerra tedeschi in mani americane è solo apparente, non appena si confronta l’interesse che ognuno riserva alla limitazione del cibo. MacDonogh riferisce in un passaggio che “qualsiasi tentativo della popolazione civile tedesca di dar da mangiare ai prigionieri era punito con la morte”. Ciò è sbalorditivo di per se e certamente non ha bisogno di spiegazioni. Bacque ci racconta parecchio di più: “Il generale Eisenhower inviò un ‘corriere urgente’ per tutta la vasta area ai suoi ordini dichiarando che per i civili tedeschi era un reato punibile con la morte dar da mangiare ai prigionieri. Ed era un reato da pena di morte anche accumulare del cibo in qualche luogo per portarlo ai prigionieri”. Scrive che “l’ordine fu inviato in Germania ai governi provinciali, con l’ordine di trasmetterlo immediatamente alle amministrazioni locali. Copie dell’ordine sono state recentemente scoperte in vari villaggi nei pressi del Reno”. (81) Alle pagine 42-43 di “Crimes and Mercies” Bacque pubblica una copia in tedesco e in inglese di una lettera datata 9 maggio 1945, in cui viene notificata tale proibizione agli ufficiali del distretto. Bacque fornisce prove come quella del professor Martin Brech di Mahopac, all’estrema periferia di New York, che fu guardiano del campo americano di Aldernach in Germania (82). Brech racconta che “passò alcune fette di pane attraverso il filo spinato, ma l’ufficiale suo superiore gli disse ‘Non dargli da mangiare. La nostra politica è che questi uomini non mangino’”. “Dopo, la notte, Brech portò di nascosto un altro po’ di cibo nel campo e l’ufficiale gli disse ‘Se lo fai ancora, ti faccio fucilare’”. Così troviamo in Bacque una descrizione più nitida e una maggiore attribuzione di responsabilità che non in MacDonogh. Alla luce dell’enorme quantità di dettagli forniti dal libro di MacDonogh, ciò sarebbe perdonabile se non fosse per il suo tentativo di cancellare il lavoro di uno studioso di grande importanza che ha analizzato l’argomento in maniera esauriente. Una soppressione del genere riduce la comprensione del lettore di altri importanti argomenti che MacDonogh tratta con tale brevità che il lettore può a stento farsi un’idea completa. Per esempio, MacDonogh racconta di come, durante l’esecuzione di Joachim von Ribbentrop a Norimberga (83) “il boia pasticciò l’esecuzione e la corda strangolò l’ex-ministro degli esteri per venti lunghi venti minuti prima che spirasse”. Nel suo libro “Nuremberg: The Last Battle” (84), lo storico David Irving racconta parecchio di più, compreso il fatto che la forca era stata progettata in modo da permettere alla botola di ruotare all’indietro e spezzare “qualsiasi osso” dei visi di Keitel, Jodl e Frick. Dice ancora che il corpo di Goering (dopo che si era suicidato assumendo del veleno) “fu trascinato nella stanza dell’esecuzione [dove] i medici militari [fecero] frenetici tentativi di rianimarlo perché lo si potesse impiccare”. Ci sono un gran numero di punti in cui MacDonogh dice la metà di qualcosa d’importante, solo per lasciare l’argomento incompleto. Abbiamo già rilevato il suo accenno ai “30-40.000 prigionieri seduti nel cortile [alle caserme del Genio di Worms], che si spingevano per farsi spazio, senza alcuna protezione dalla pioggia che li gelava”. Ci lascia solo indovinare le conseguenze del congelamento. In un altro punto, riferisce che “gli americani mantennero in piedi campi per oltre un milione e mezzo di Naz(ionalsocialisti)isti o membri della SS”. Questa è la sua unica menzione in merito a questi campi, che si può supporre fossero perfino maggiormente punitivi degli altri. MacDonogh era troppo oberato da altri dettagli per proseguire ulteriormente su tale argomento? Non è che si astiene deliberatamente dall’esplorare certe cose? O forse l’omissione è dovuta a come i dettagli venivano fuori, frammentari come la scarica di un fucile a pallettoni? Al lettore occorrerà valutare fino a che punto “After the Reich” sia il lavoro di uno studioso eminente oppure un racconto di narrativa popolare. (85) Il libro di MacDonogh annovera molte pagine di note finali e cita un gran numero di fonti. Di rado si esprime criticamente su una data fonte. Ma nella maggior parte dei casi accoglie qualsiasi cosa una certa fonte abbia da dire. Al libro avrebbe giovato molto un saggio bibliografico in cui l’autore valutasse le fonti principali, condividendo col lettore una analisi accurata della base probatoria per la sua narrazione. Un esempio in cui è essenziale una valutazione critica è nel suo rimando a quel che ha da dire Ilse Koch (86) sui “paralumi e i trofei realizzati con pelle e organi umani”: MacDonogh dice che lo psicologo Saul Padover afferma gli sono stati mostrati. (87) Vorremmo sapere cosa concluderebbe MacDonogh se dovesse valutare la contro-prova che proclama la collezione di paralumi una “leggenda”. Altrettanto dicasi per le molte citazioni di MacDonogh del libro di Raul Hilberg “The Destruction of the European Jews”. (88) Esiste una vasta letteratura accademica che contesta ogni aspetto dell’“Olocausto”. (89) Leggendo MacDonogh non si verrebbe mai a sapere che esiste quella letteratura, o perché lui non la conosce oppure perché trova più prudente, come molti fanno, non menzionarla. Nonostante le sue limitazioni, “After the Reich” realizza molto, laddove fornisce un ulteriore collegamento nella catena delle rivelazioni che, nel tempo, consentono ai lettori scrupolosi una comprensione più completa della storia moderna. Il fatto che, all’epoca dei fatti e per così tanti decenni successivi, mostruosità della più grande importanza siano state lavate via dalla propaganda suggerisce che vi siano delle implicazioni molto al di là degli eventi stessi. Il primo ministro britannico Benjamin Disraeli (90) osservava che “tutti i grandi eventi sono stati distorti, la maggior parte delle cause importanti occultate” e proseguiva dicendo che “Se la storia d’Inghilterra sarà mai scritta da qualcuno che abbia consapevolezza e coraggio, il mondo ne rimarrà sbalordito”(91). Le implicazioni suggeriscono domande profonde di cui sarebbe negligenza non far menzione: Com’è che una certa versione della realtà può, su così tante materie, avere un dominio quasi totale, mentre le voci di milioni di persone e di un buon numero di studiosi seri vengono emarginate nel nulla? (Fortunatamente, per quanto interessa il lavoro di Bacque, esso è reperibile in dodici lingue e in tredici paesi, sebbene a lungo non sia stato disponibile negli Stati Uniti). Sappiamo davvero la verità su molte cose? Oppure sono innumerevoli gli argomenti celati in un miasma di omissioni e travisamenti? Dove sono i nostri storici accademici? Alla maggior parte di loro piace fornirci miti gradevoli, che è ciò che ci aspetta da loro, e per questo essi sono ricompensati con medaglie, premi e vendite elevate dei loro libri. Quanto è pervasiva una viltà che pone pressoché tutto avanti alla ricerca della verità? Al genere umano importa davvero profondamente della verità? Fino a che punto una società o un’epoca sono “democratiche” se le menti dei propri cittadini sono piene di fantasmi, cosicché la maggior parte dei loro giudizi sono o sciocchi o manovrati? E fino a che punto sono “democratiche” se quei cittadini non hanno neppure voce in capitolo nelle decisioni della più grave importanza? (92) E’ significativo ciò che scrive Keeling: “nella storia moderna nessun popolo di nessuna nazione, noi compresi, ha mai avuto una voce rilevante nel prendere le grandi decisioni, e sull’andare in guerra, e sul comporre gli accordi di pace”(93).

Traduzione a cura di Fabrizio Rinaldini.

Sull'argomento della "liberazione" tedesca ricordo questi testi fondamentali:

- Hans Deichelmann "Ho visto morire Königsberg. 1945-1948: memorie di un medico tedesco" Edizioni Mursia, 2010

- Gianantonio Valli, "Il prezzo della disfatta. Massacri e saccheggi nell'Europa 'liberata' ", Effepi, Genova 2008

- Ernesto Zucconi "Il rovescio della medaglia. I crimini dei vincitori" Novantico, Pinerolo, 2004

- John Sack "Occhio per occhio" Baldini e Castoldi, Milano, 1995

- Marco Picone Chiodo "E malediranno l'ora in cui partorirono. L'odissea tedesca tra il 1944 e il 1949" Mursia, Milano, 1988

- James Bacque "Gli altri lager I prigionieri tedeschi nei campi alleati in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale" Mursia, Milano 1993

- James Bacque Crimes and Mercies: The Fate Of German Civilians Under Allied Occupation, 1944-1950, Little Brown & Company, Boston, 2003

- Sito dello storico  http://www.jamesbacque.com/

- Opere a carattere storico (Deutsche als Opfer/I tedeschi come vittime) del pittore Smagon http://www.art-smagon.com/

- David Irving "Il piano Morgenthau. 19944-45 un genocidio mancato" Settimo Sigillo, Roma 2003

- J. Robert Lilly "Stupri di guerra – Le violenze commesse dai soldati americani in Gran Bretagna, Francia e Germania 1942-1945" Mursia, Milano, 2004.

 

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1 (NdT) Link alla recensione: http://www.gnosticliberationfront.com/book_review_article.htm

2 (NdT) Per maggiori informazioni sul professor Dwight D. Murphey, autore della recensione, vedi:

http://www.dwightmurphey-collectedwritings.info/InfoReDDM.htm

3 (NdT) “La Guerra Buona”. Col libro "The Good War: An Oral History of World War Two" lo scrittore ed attore ebreo americano Louis "Studs" Terkel (1912 – 2008) ha vinto il Premio Pulitzer nel 1985.

4 (NdT) “La generazione più grande”.

5 (NdT) Per maggiori informazioni sull’autore di “After the Reich”, Giles MacDonogh, vedi:

http://www.macdonogh.co.uk/experience.htm

6 (NdT) “Nazi” nell’originale. Il traduttore – per principio - non usa la parola “nazista”.

7 (NdT) Vedi: http://www.macdonogh.co.uk/experience-books.htm...

8 (NdT) L'accordo (Potsdam Agreement) fra Gran Bretagna, Stati Uniti ed Unione Sovietica fu stipulato durante la Conferenza di Potsdam del 17 luglio-2 agosto 1945 e fu firmato dai "soliti" Winston Churchill, Harry Truman e Josef Stalin. Chi lo desidera può consultare il bestiale diktat in lingua inglese al sito: http://www.pbs.org/wgbh/amex/truman/psources/ps_potsdam.h... 

9 Adenauer è citato in James Bacque, "Crimes and Mercies: The Fate of German Civilians Under Allied Occupation, 1944-1950" (Boston, Little, Brown and Company (Canada) Limited, 1997), pag. 119. I lettori possono consultare anche Theodore Schieder (a cura di), "The Expulsion of the German Population from the Territories East of the Oder-Neisse-Line" (Bonn, Ministero Federale degli Espulsi, Rifugiati e Vittime di Guerra

Prof. Dachitchev: Réponse à la "Lettre ouverte" des intellectuels occidentaux contre Poutine

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Prof. Dr. Viatcheslav DACHITCHEV:

Réponse à la “Lettre ouverte” des intellectuels occidentaux contre Poutine

 

Daschitschew.jpgLe Professeur Viatcheslav Dachitchev, historien et expert ès questions allemandes, a été l’un des principaux conseillers de Gorbatchev et l’avocat au Kremlin de la réunification allemande. Nous avons déjà eu l’occasion de publier des entretiens avec lui ou des extraits de ces meilleurs essais [ http://www.harrymagazine.com/200407/turquia.htm ; http://ch.altermedia.info/index.php?p=641#more-641 ; tous deux sur la question de l’adhésion turque à l’UE; “Gorbatchev et la réunification allemande” & “Le combat de Poutine contre les oligarques”, in “Au fil de l’épée”, recueil n°48, août 2003].

 

Aujourd’hui, le Prof. Dachitchev réagit à la “Lettre ouverte” des intellectuels occidentaux, dirigée contre le Président Vladimir Poutine, accusé de détruire la démocratie en Russie. Sans hésiter, le Prof. Dachitchev a pris la plume pour présenter des contre-arguments dans les colonnes de l’hebdomadaire nationaliste allemand, la “National-Zeitung”, qui paraît à Munich. L’objectif du professeur : réfuter les arguments fallacieux avancés par les politiciens américains et les intellectuels qui leur sont inféodés, dans cette “Lettre ouverte”, dont l’objectif est de déstabiliser Poutine et la Russie. Dachitchev part du principe que “déclencher une guerre terroriste en bonne et due forme contre la Russie” coïncide avec les élections américaines. La guerre de Tchétchénie, en effet, apporte à Washington plusieurs avantages stratégiques importants. La  machine propagandiste US peut ainsi détourner l’attention de l’opinion publique internationale de l’expansionnisme américain en acte et accuser les seuls dirigeants russes d’enfreindre les droits de l’homme. La situation actuelle de la Russie est peu enviable, parce qu’elle sort à grand peine du marasme dans lequel la politique américaine l’a plongée, en pariant systématiquement sur le clan d’Eltsine. Voici la première partie de la réfutation rédigée par le Prof. Dachitchev :

 

Prélude à une nouvelle “Guerre Froide”?

 

L’élite dirigeante aux Etats-Unis a besoin d’une Russie faible, qui, comme beaucoup d’autres pays européens, puisse être maintenue à la remorque de Washington. Elle craint aussi de perdre sa “cinquième colonne” en Russie. Le 29 septembre dernier, 115 “intellectuels” et politiciens américains et européens ont publié une “Lettre ouverte” aux chefs d’Etat et de gouvernement de l’UE  et de l’OTAN (pourquoi pas aux Nations Unies?) qui constitue de facto une attaque agressive contre le gouvernement du Président Poutine. Comment faut-il interpréter cette lettre? Quels sont les objectifs poursuivis par sa diffusion?

 

Avant toute chose, cette lettre témoigne que la politique américaine vise encore et toujours à affaiblir la Russie. La façon dont la “Lettre” décrit la politique du Président Poutine, surtout après les événements de Beslan en Ossétie, n’est rien d’autre qu’une démolition en règle. Pour washington, ce qui importe, c’est d’organiser une campagne propagandiste visant à refaire de la Russie un ennemi pour l’opinion publique américaine et européenne, afin de pouvoir exercer une pression constante sur les plans politique, économique et militaire et de pouvoir la justifier.  Ou bien est-ce carrément le début d’une nouvelle “Guerre Froide” contre le “Super-Etat voyou”?

 

Les néo-conservateurs tirent les ficelles

 

Personne, et encore moins Poutine, ne conteste le fait qu’une véritable démocratie serait un bien pour la Russie. Cependant, les signataires de cette “Lettre ouverte” devraient surtout penser à l’essentiel; et cet essentiel n’est-il  pas, aujourd’hui, pour la communauté internationale, d’éviter une nouvelle guerre mondiale, qui pourrait se déclencher à la suite de la politique américaine qui vise à établir une hégémonie globale? Mais il serait naïf de croire que les signataires veulent vraiment éviter cette conflagration universelle. Car, parmi ceux qui ont initié et signé cette “Lettre”, on trouve les tireurs de ficelles néo-conservateurs  comme William Kristol et Robert Kagan, tous deux fondateurs du “Projet pour un nouveau siècle américain”, expression de leur lobby idéologique.

 

En Russie aussi, une campagne  hystérique contre Poutine est menée tambour battant, justement par les mêmes cercles et cénacles qui, sous Eltsine, avaient ruiné et pillé le pays et le peuple. Ils craignent aujourd’hui de perdre tout pouvoir et toute influence. Ils se sont rassemblés au sein de  “Comité 2008” et d’une “Fédération des forces justes”. Leur objectif consiste à renverser Poutine. Ils font dans la pure démagogie et rendent le Président responsable indirectement du massacre effroyable de Beslan. Ils posent ses réformes du système politique russe comme une volonté de réduire les droits de l’homme à rien. Pourtant, malgré leurs cris, ils oublient de se soucier du problème majeur de la Russie d’aujourd’hui : 41% de la population russe végètent sous le seuil de la pauvreté ou l’avoisinnent dangereusement. Pour Alexandre Lifschitz  —l’ancien ministre des finances d’Elstsine—  ces millions de pauvres gens sont des “alluvions sociaux”. Pour Andreï Piontkovski  —un russophobe bien connu—  le Président Poutine est le “problème majeur” de la Russie. Le politologue Satarov, qui appartient lui aussi à l’entourage d’Eltsine et dont le nom sert à désigner le péché actuel de l’intelligentsia russe (on parle de “saratovisme”), prétend avoir trouvé les moyens de “freiner Poutine”. Ainsi, la tragédie de Beslan a contribué à faire reconnaître ceux qui sont en faveur et ceux qui sont en défaveur des intérêts nationaux de la Russie.

 

Les dangers pour la Russie

 

C’est quelque part exact : l’action terroriste abominable qui a été perpétrée à Beslan en Ossétie a épouvanté le monde entier et a permis à la caste dirigeante russe, rassemblée autour de Poutine, de procéder à une appréciation nouvelle des dangers et des défis qui menacent la Russie. Il est exact de dire aussi que l’affaire de Beslan provoquera une transformation essentielle dans la politique russe, sur les plans de la politique intérieure, de la politique extérieure et de la politique militaire.

 

Après la fin officielle et formelle de la “Guerre Froide”, la Russie avait réduit ses budgets militaires de manière spectaculaire : le chiffre était passé de 200 milliards à 12 milliards de dollars. Les budgets américains, en revanche, avaient gonflé pour atteindre  des dimensions gigantesques et dépasser les chiffres du temps de la “Guerre Froide”. Vu la pression américaine, la Russie a dû tripler son budget militaire au cours de ces cinq dernières années. Les plans soumis en août dernier pour les dépenses militaires de 2005 prévoient une augmentation de 28% pour atteindre le chiffre de 573 milliards de roubles. Après l’action terroriste tchétchène de Beslan, ces budgets seront encore augmentés. Selon des déclarations officielles, une bonne part de ce budget devra assurer la parité avec les Etats-Unis en matière de fusées nucléaires.

 

Pourquoi ? Parce que le facteur qui pèse le plus sur la Russie depuis la fin de la Guerre Froide, sur les plans géopolitique, géostratégique et géo-économique est indubitablement la politique américaine. Après le démontage du système totalitaire soviétique, après que Gorbatchev ait renoncé définitivement au messianisme communiste et à sa politique hégémoniste, après l’effondrement de l’Union Soviétique, on a pu croire que les tensions entre les Etats-Unis et la Russie disparaîtraient et qu’une situation nouvelle naîtrait, apportant dans son sillage les conditions d’une paix durable et d’une vision constructive de la politique internationale. En réalité, rien de tout cela n’est advenu, bien au contraire !

 

Le programme : bétonner l’hégémonie définitive des Etats-Unis  sur le globe

 

La Doctrine Bush a pour assises les programmes géopolitiques visant à bétonner l’hégémonie définitive des Etats-Unis sur le globe. Ces programmes dérivent du “Project for a New American Century” (PNAC), élaboré au printemps de l’année 1997, et d’autres projets émanant des centres de réflexion néo-conservateurs.

 

Quelques mois après l’élaboration de ce PNAC, est paru un article dans la revue “Foreign Affairs”, qui s’intitulait : “Pour une géostratégie eurasiatique”. Il était dû à la plume de Zbigniew Brzezinski et révélait ouvertement et sans vergogne les  plans américains. C’est-à-dire les suivants:

è    Les Etats-Unis doivent devenir la seule et unique puissance dirigeante en Eurasie. Car qui possède l’Eurasie possède aussi l’Afrique.

è    La tâche principale de cette politique globale des Etats-Unis consiste à élargir leur principale “tremplin” géostratégique en Europe, en poussant les pions, que sont l’OTAN et l’UE, aussi loin que possible vers l’Est, y compris aux Pays baltes et à l’Ukraine.

è    Il faut empêcher toute bonne intégration au sein même de l’UE, de manière à ce que celle-ci ne  puisse pas devenir une puissance mondiale à part entière.

è    L’Allemagne  —qui sert de base à l’hégémonie américaine en Europe—  ne pourra jamais devenir une puissance mondiale; son rôle doit être limité à des dimensions strictement régionales.

è    La Chine  —soit l’”ancrage asiatique” de la stratégie euro-asiatique des Etats-Unis, doit, elle aussi, demeurer une simple puissance régionale.

è    La Russie doit être éliminée en tant que grande puissance eurasienne; à sa place, il faut créer une confédération d’Etats mineurs, qui seront la république de Russie d’Europe, la république sibérienne et la république d’Extrême Orient.

 

On le constate : les objectifs géopolitiques des Etats-Unis mènent tout droit à un télescopage pur et simple entre les intérêts russe et ceux de Washington.

 

Viatcheslav DACHITCHEV,

Moscou.

[article paru dans la “National-Zeitung”, n°42, 8 octobre 2004].

dimanche, 09 mai 2010

Die Euro-Festung wird sturmreif geschossen!

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Die Euro-Festung wird sturmreif geschossen!

Niki Vogt / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Am gestrigen Dienstag-Nachmittag meldete die israelische Website »Globes«, dass Spanien einen Hilfskredit von 280 Milliarden Euro fordere. Deutschland sei weder fähig noch willens, Spanien bei einer solchen Summe noch Rückhalt zu bieten. Daher sei das Schicksal des Euro besiegelt. Das Gerücht verbreitete sich wie ein Lauffeuer an den Börsen.

Nur weil in Griechenland die Aufstände alles Augenmerk auf sich zögen, sei das immense Schuldenproblem Spaniens irgendwie aus dem Fokus der Analysten geraten. Neben dem Schuldenproblem sei auch eine Arbeitslosigkeit von über 20 Prozent ein unlösbares Problem für das Land, schreibt Globes. Im Gegensatz zu Griechenland sei Spanien europäisches Herzland und seine riesigen Schulden eine ungeheure Gefahr für die ganze Eurozone. Wenn Deutschland schon so gezögert habe, Griechenland zu helfen, sei es bei Spanien vollkommen ausgeschlossen, meint die israelische Website.

Um 12.30 Uhr gaben die Ratingagenturen Moody’s und Fitch ein Statement heraus, dass sie Spaniens Kreditrating nicht herabstufen würden, was anschließend ebenfalls von S&P bestätigt wurde. Der Euro war zu diesem Zeitpunkt bereits auf einen Dollarkurs von 1,3085 gefallen.

Um 13.45 Uhr zeigten die Börsenticker schon einen Kurs von 1,3045, ein deutlicher Rutsch unter die Unterstützunglinie von 1,3080 Dollar. Das nächste Kursziel heißt nach Einschätzung von Börsenexperten 1,2886 Dollar. Nach einem kurzen Abtauchen auf unter 1,3000 stand das Euro-Dollar-Verhältnis um kurz nach 18.00 Uhr MEZ wieder bei 1,3044.

Reuters veröffentlichte sofort das Dementi des spanischen Premierministers José Luis Rodriguez Zapatero, der diese Gerüchte als kompletten Unsinn bezeichnete. Zapatero begab sich sofort zu einer Presseerklärung nach Brüssel und stellte klar, dass die Behauptung vollkommen aus der Luft gegriffen sei und Spanien ernsthaft schaden könne. Er kündigte vehemente Gegenaktionen an, da der spanische Markt als Reaktion auf diese Gerüchte sofort eingebrochen war.

Zapatero betonte, Spanien sei absolut solvent, auch wenn sein Land seinen Finanzsektor so schnell wie möglich restrukturieren müsse.

Dax und Dow Jones sowie andere Börsenindizes und die Edelmetallpreise brachen als Reaktion sofort drastisch ein.

Auch wenn sich das Gerücht, Spanien habe eine Hilfe in Höhe von 280 Milliarden Euro gefordert, als falsch herausstellen sollte, ist es fraglich, ob der neue Angriff auf die Eurozone ohne bleibenden schweren Schaden abgewehrt werden kann. So ein Gerücht wird nicht aus Versehen lanciert. Hier geht es ganz offenbar um das gezielte Zersprengen der Währungsunion. Die Raubtiere lassen nicht ab von der angeschlagenen Beute.

Falls den Regierungen Europas nicht ganz, ganz schnell etwas deutlich Besseres zur Lösung des Riesenproblems einfallen sollte, als erneut Deutschland mit vorgehaltener Pistole und der Drohung des gemeinsamen Untergangs auszuschlachten, geht in allerkürzester Zeit das Licht aus in Europa.

 

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Quellen:

http://www.globes.co.il/news/article.aspx?did=1000556900&fid=1225

http://www.forexcrunch.com/rumor-spain-will-ask-for-280-billion-of-aid/

http://www.reuters.com/article/idUSTRE6433K620100504

 

Mittwoch, 05.05.2010

Kategorie: Allgemeines, Gastbeiträge, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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Nieuwe stap in hervorming van grondwet in Turkije

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Nieuwe stap in hervorming van grondwet in Turkije        

 

 

ANKARA 07/05 (AFP) = Het Turkse parlement heeft vrijdag een hervorming van de grondwet goedgekeurd die de weg opent naar een referendum over een pakket amendementen op de grondwet. Volgens de oppositie kan de islamgezinde regering meer macht verwerven met de amendementen.

De hervorming werd met 336 van de 550 stemmen goedgekeurd, meer dan de 330 stemmen die vereist waren, maar minder dan de tweederdemeerderheid die tot een definitieve goedkeuring zonder referendum had geleid.

De amendementen willen vooral de macht van de gerechtelijke hiërarchie en het leger inperken, twee instellingen die de regering vijandig gezind zijn. Ze zullen nu aan de president van de republiek worden voorgelegd, die wellicht spoedig een referendum zal aankondigen. De Turkse premier Recep Tayyip Erdogan had donderdag verklaard dat over de grondwetshervorming een volksraadpleging gehouden zou worden als ze geen tweederdemeerderheid in het parlement zou halen.
   

Roberto de Mattei: "Le rêve de Soliman s'accomplit!"

mattei.jpgWolfgang PHILIPP:

Roberto de Mattei: “Le rêve de Soliman s’accomplit”

 

Professeur d’histoire à Rome, Roberto de Mattei s’est penché sur les effets qu’aurait une adhésion turque à l’UE

 

“La Turquie en Europe: bénéfice ou catastrophe?”: tel est le titre d’ouvrage récent de Roberto  de Mattei, professeur d’histoire à Rome, qui mériterait bien de devenr lecture obligatoire pour tout Européen digne de ce nom.

 

La Turquie est liée indissolublement à l’islam, qui la domine entièrement. Venus d’Asie centrale, les Turcs se sont fixés jadis en Anatolie et ont étendu le territoire de leur souveraineté en menant beaucoup de guerres. Tous ces actes de belligérance ont été motivés par la religion: la soumission d’autres peuples participe de la “guerre sainte”. Aux 16ème et 17ème siècles, les Turcs  ont conquis de vastes régions d’Europe du Sud-Est et soumis la Hongrie et Belgrade. L’Empire ottoman, finalement, étendait son territoire sur six millions de km2. Dans le texte d’une déclaration de guerre à l’Empereur d’Allemagne, Léopold, on a pu lire cet ordre: “Attends-nous dans ta ville de résidence, Vienne, pour que nous puissions venir t’y décapiter... et faire disparaître de la Terre jusqu’à la dernière créature de Dieu, pourvu qu’elle soit incroyante”.

 

Les Turcs n’ont pas pu donner suite à cette menace: ils ont été battus, si bien que le déclin de l’Empire ottoman a commencé. Mais il est demeuré en place jusqu’en 1924 au titre de califat. Mustafa Kemal l’a supprimé et a transformé la Turquie en une “république laïque” mais une république laïque où la liberté de culte n’était accordée qu’aux seuls citoyens de confession  musulmane. Atatürk a développé un programme systématique d’éradication du christianisme. On se rappelle surtout de l’expulsion et du massacre des Arméniens chrétiens et de l’expulsion des Grecs de la région égéenne de Smyrne entre 1916 et 1923. Le nombre des morts et des disparus est estimé entre 200.000 et un million. La Turquie a été pratiquement purgée de toutes ses populations chrétiennes, alors que l’Anatolie avait été auparavant un pays  entièrement chrétien.

 

Récemment, la Turquie s’est détournée des réformes préconisées par Atatürk pour infléchir le pays vers la laïcité. Dans tous les domaines de la vie, l’islamisation progresse en Turquie  aujourd’hui. Le “Diyanet”, l’office mis en place par Atatürk pour s’occuper des questions religieuses a pour fonction  d’asseoir la domination de l’Etat. Il occupe 90.000 imams payés  par l’Etat et fait fonctionner 85.000 mosquées actives. Des “fraternités” s’affairent à répandre la sharia dans le monde. La volonté de domination de l’islam est à mettre en parallèle avec l’ancienne volonté “socialiste” de promouvoir la révolution partout dans le monde. 

 

Ce fait, fondamental et observable, nous permet de déduire que, pour les Turcs islamistes, tous les autres peuples de la Terre sont des ennemis qui devront un jour être soumis par la ruse, par la tromperie ou par la guerre. Le premier ministre Erdogan avait un jour cité le poète Ciya Gökalp: “Les minarets sont nos baïonnettes, les dômes sont nos casques, les mosquées sont nos casernes et les croyants sont nos soldats”. Le même Erdogan avait décrit en 2008, lors de son fameux discours tenu à Cologne en Allemagne, l’assimilation des Turcs  comme “un crime contre l’humanité”. Le concept de “crime contre l’humanité” avait été forgé en 1946, lors du procès de Nuremberg. Il servait de base à l’argumentaire de l’accusation qui se focalisait sur l’élimination des juifs par les nationaux-socialistes. Inouïe était l’impudence qu’il y avait à utiliser justement ce concept-là en Allemagne aujourd’hui et à accuser cette dernière d’adopter, par sa politique volontariste d’assimiler les immigrés turcs, une attitude qui corresponde à ce concept de “crime contre l’humanité”; et aucun homme politique allemand n’a osé fustiger comme il se devait cette impudence du chef du gouvernement turc.

 

Pour Roberto de Mattei, il n’y a aucun doute: l’islam turc n’a pas d’autre intention que de soumettre tous les peuples d’Europe jusqu’à ce qu’advienne un califat européen. Les autorités turques rejette les politiques d’assimilation proposées par les Etats européens et contribuent ainsi à faire émerger partout des sociétés parallèles, en marge de la société hôte. A Berlin, par exemple, ces sociétés parallèles font en sorte que les élèves des premières classes dans  les écoles parlent à peine allemand. Pour répondre à la question qui forme le titre de son livre, l’auteur, qui est vice-président du “Conseil National de la Recherche” depuis 2004, équivalent italien du prestigieux Institut Max Planck d’Allemagne, estime, après investigation, qu’une adhésion de la Turquie à l’UE serait bel et bien une catastrophe. Roberto de Mattei cite ainsi Oral Öger, un député européen allemand d’origine turque, qui avait déclaré ce qui suit en 2004: “Ce que le Sultan Süleyman avait commencé en 1683 par le siège de Vienne, nous l’achèverons par la vigueur de nos hommes et la santé de nos femmes en triomphant des habitants autochtones”. L’AKP, parti d’Erdogan, n’a pas pour but d’ “européaniser” la Turquie mais de désoccidentaliser et de “turquifier” l’Europe. Cet dessein ne constitue pas simplement l’un des objectifs du gouvernement turc actuel, et serait dès lors passager, mais résulte d’un processus long et dangereux qui s’étend depuis plus de mille ans. Notre auteur, historien, rappelle qu’en islam religion et politique sont indissolublement lié. Si l’on part du principe des Etats démocratiques, qui séparent la religion et la politique, on se méprend totalement. 

 

Malheureusement Roberto de Mattei ne nous livre aucune réflexion quant au fait que les politiciens européens ignorent délibérément les dangers et les évidences ou, pire, travaillent à favoriser la conquête islamo-turque de notre propre continent. Dans certains quartiers de Berlin, la langue turque est devenu la deuxième langue officielle. On observe des phénomènes semblables dans tous les pays européens, mais surtout en Allemagne. La manière dont les politiciens allemands se montrent insouciants envers ce qu’il faut bien appeler la conquête turco-islamique s’assimile à la trahison. Les politiciens allemands, tous partis confondus, estiment que leur tâche principale consiste à faire bonne figure sur les podiums internationaux, tout en ignorant les intérêts de leur propre peuple. Le livre de Roberto de Mattei peut nous aider à extirper cette attitude de félonie, en en répandant les arguments au sein de la population.

 

Wolfgang PHILIPP.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°18/2010).

 

Source:

Roberto de MATTEI, Die Türkei in Europa – Gewinn oder Katastrophe?, Resch Verlag, Gräfelding, 2010, 152 p., 13,90 euro. 

Propaganda y construccion del consenso: Walt Disney y la Segunda Guerra

Propaganda y construcción del consenso: Walt Disney y la Segunda Guerra

Por Giovanni B. Krähe

Ex: http://geviert.wordpress.com/

Entre los clásicos de la propaganda americana para el público infantil durante la Segunda Guerra Mundial tenemos las producciones de Walt Disney Der Fürher´s Faces (1943, premiada con un Oscar), la disdascálica Education for Death (1943) o la ilustrativa On the Front Lines-Victory through Air Power (1943). Todo este interesante material, histórico ahora (disponible online, ver links), tenía entonces precisos objetivos políticos-militares de mantenimiento del consenso en el frente civil interno durante la Segunda Guerra Mundial (salvo los SNAFU, ver más adelante). Es necesario considerar también los programas de apoyo fiscal al ejercito, los denominados Income Tax Propaganda. Luego de la Guerra, todo este material fue mantenido archivado y censurado por un considerable periodo, hasta su difusión relativamente reciente como material documental, de “historia” de la misma Disney. Publicamos algunos apuntes sueltos sobre el primer material, Der Führer’s Faces.

Der Führer´s Faces: Estrategia y lenguaje icónico

La estrategia principal de la propaganda americana en esta interesante producción es neutralizar y despolitizar, a través de la descontextualización por asociación, símbolos y contenidos mitopoiéticos utilizados hábilmente por la propaganda alemana para sus propios objetivos de consenso. El lenguaje de descontextualización es la ironía, a la cual se añade una representación icónica simple y una narración-guía en off de fácil interpretación para su rápida decodificación por el espectador. Entre cada momento de descontextualización (cada situación que el personaje Donald tiene que soportar) es posible notar una musicalización, un jingle digamos, que prepara el inicio y el final de cada breve situación. La música tiene la función de crear una “pausa mental”, para que el espectador pueda distinguir cada segmento del mensaje sin arrastrar las emociones de un segmento al otro.

Dado que el mensaje del grupo Disney se dirige al espectador americano medio (infantil y adulto) con finalidades de consenso, la representación icónica de la ironía es asociada en el mensaje de forma simple, breve y eficaz. La técnica es la asociación por diferencia-distinción entre un contenido americano y uno alemán, codificado a través de estereotipos, representaciones, bias, prejuicios, lugares comunes de fácil y rápido reconocimiento para el espectador.  Tenemos, por ejemplo, por un lado, contenidos pertenecientes a la cotidianidad, al espacio privado (ver imagen abajo), a la persona (dimensión psicológica) o individual (dimensión social). A esto se añaden símbolos colectivos o contenidos semánticos reconocidos como típicos por el espectador americano (“la estatua de la libertad”, ver al final del video). Por el otro lado tenemos los contenidos alemanes, objetivo de la neutralización. Estos contenidos alemanes deben ser también reconocibles y distinguibles por el espectador  americano medio para que el mensaje sea icónicamente eficaz. Observemos por ejemplo que el material inicia con una sobretematización (primer plano) del preußischer Paradeschrittel, el paso marcial prusiano (ver imagen arriba y abajo). Todos los contenidos alemanes van asociados, como ya mencionado, a estereotipos, prejuicios o lugares comunes del mismo espectador americano, para facilitar su decodificación y comprensión inmediata.

El público o target de los contenidos de Walt Disney durante la Guerra fueron siempre niños y adultos, hubieron, sin embargo, producciones especiales para uso interno, es decir, sólo para los soldados en el frente (cfr. los SNAFU). En términos de análisis mediológico (aislando el medium icónico por un lado y los símbolos por el otro) es posible, entonces, reconstruir tanto el contenido propagandístico (el objeto del mensaje) como el perfil de su espectador (el receptor del mensaje). En este sentido, la propaganda de Disney es muy interesante porque nos permite comprender también el perfil psicológico del público americano que se expone a estos contenidos con finalidades de consenso.

Ejercicio de análisis

Las situaciones-eje del plano narrativo en The Führer´s Faces son:

(jingle, preparación del interés)

1) inicio: contraposición entre espacio público/espacio privado. Donald duerme, la banda de música nazi irrumpe.

(jingle, pausa mental)

2) vida cotidiana: desayuno, etc.

(música)

3) mundo del trabajo (producción)

(música)

4) conciencia individual, identidad

(música)

6) identidad colectiva (nacional).

Algunas rápidas reflexiones y notas sueltas de un borrador sobre este material. Es interesante notar,  por ejemplo,  que la  estrategia de Walt Disney es asociar principalmente el código del mensaje a dos contenidos mediáticos del Nacionalsocialismo (NS) reconocibles rápidamente por el espectador americano de la época: el saludo NS y la Hakenkreuz, la esvástica. Para el periodo que estamos tratando, la esvástica, a la par de los demás símbolos nacionales, tenía una difusión mediática en América como reconocimiento del país, objeto de la propaganda. Esta estrategia de asociación se realiza icónicamente a través de la máxima generalización de la esvástica en la dimensión social y privada de Donald, sin distinciones, para representar el anulamiento violento de ambas dimensiones: la historia inicia  con el progresivo  anulamiento de la dimensión privada, cuotidiana (dimensión individual, psicológica) y  luego pública (espacio público, político) representado por los exteriores del dormitorio de Donald. El espacio público (la banda de música al inicio) irrumpe arbitrariamente en el espacio privado-individual (Donald duerme y es molestado). Se observe al inicio el fondo del paisaje, detrás de la banda de música, las nubes y los árboles. Esta “totalidad” del símbolo NS  anulará luego la distinción entre público y privado de Donald (ver imagen arriba) a través de la irrupción de la banda de música. Otro detalle interesante se da durante el desayuno de Donald: este debe ocultar su desayuno (dimensión privada) y modificar su conducta, puesto que no es le es permitido por el imperativo político: el café con un aroma artificial, el pan duro, son el resultado como efectos negativos. Es interesante notar cómo el director de Disney escoge la contextualización de momentos típicamente cotidianos para  hacer converger el lenguaje icónico, cromático y sonoro.  En efecto, se puede notar que el desayuno “normal” del personaje Donald  (café, periódico, tranquilidad) se debe esconder detrás de un retrato de Hitler (dimesión política, pública). Finalmente el periódico matutino es remplazado arbitrariamente por el “Mein Kampf”. (continuará).


L'installation en Europe septentrionale et occidentale des peuples carpatho-danubiens à l'ère protohistorique

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L’installation en Europe septentrionale et occidentale des peuples carpatho-danubiens à l’ère proto-historique

 

 

Trouvé en version anglaise sur : http://www.dacia.org/history/conq-ew.html

 

Dans l’espace carpatho-danubien, à l’ère proto-historique, un peuple s’est formé: celui que les Roumains d’aujourd’hui considèrent comme le premier ensemble cohérent de leurs ancêtres lointains mais directs. Ce peuple a commencé à émigrer hors de son aire d’origine vers des terres fertiles plus au nord et à l’ouest. L’étendue de ses terres augmentait, vu la fonte de la calotte glaciaire, et le climat devenait plus clément. Personne ne peut encore établir avec certitude le temps, en milliers d’années, que cela a pris pour que les collines peu élevées en altitude  se couvrent de forêts. Personne non plus ne peut affirmer avec certitude quel fut le processus biologique de formation de ces forêts, ni quand il a commencé, ni quand ces zones forestières ont pu devenir l’habitat privilégié de nombreux insectes, oiseaux et autres animaux. Ni dire avec une égale certitude quand l’homme, poussé par sa curiosité, a commencé à s’installer et à habiter dans ces forêts, à la recherche de nourriture.  L’archéologie ne nous fournit encore aucune réponse précise.

 

Commençons par jeter un oeil sur une carte de l’Europe. Nous voyons la chaîne carpatho-hercynienne se poursuivre vers les Monts Beskides et Tatra. De part et d’autres de ces régions montagneuses coulent des fleuves et rivières: certains coulent vers le nord, d’autres vers le sud. Au Nord, nous constatons la présence de bassins hydro-géographiques comprenant: l’Elbe, l’Oder, la Vistule et le Niémen, tandis que le bassin du Danube (que les Grecs appelaient l’Ister) se trouve au sud (rappelons aussi que “Danu” est la déesse védique de la pluie et des prairies grasses). Le bassin du Danube rassemble presque toutes les rivières et les fleuves prenant leur source sur le flanc méridional des chaînes montagneuses que nous avons mentionnées.

 

Quand le climat s’est réchauffé, les Pélasges carpatho-danubiens ont quitté leur foyer originel pour conquérir le monde environnant:

 

1. Une première vague, nordique, que l’on peut appeler la branche balto-mazurienne, s’est divisée plus tard en deux groupes de peuples: les peuples germaniques et les peuples slaves.

 

2. Une seconde vague, qui devient dès lors la branche méridionale du peuple carpatho-danubien, a donné ultérieurement naissance à deux autres groupes:

a) La branche du Sud-Est, comprenant les Sumériens, les Ramantes de Troie, les Hittites et les Garamantes d’Afrique du Nord.

b) La branche du Sud-Ouest, qui formera plus tard la race européenne dite “latine”: les Daco-Gètes, les Thraces, les Illyriens, les Latins (futurs porteurs de l’empire romain), les Italiques, les Ibères, que l’on retrouvera sur les territoires actuels de l’Espagne, du Portugal et de la France.

c) La branche orientale, qui a donné naissance à la spiritualité védique et qui partira à la conquête de l’Asie, plus précisément du Sud de la Chine, du Bassin du Tarim (les Tokhariens), de l’Inde (les Aryens védiques), du Japon (la population aïnoue étant un résidu lointain de ces migrations), etc.

 

Ces conclusions sont déduites de la logique, car les preuves archéologiques sont très peu nombreuses aujourd’hui. Le problème qu’il convient de résoudre: quels éléments de preuves peut-on ajouter aux quelques rares références que nous possédons déjà?

 

La zone comprise entre l’Océan Atlantique et la “mer aux couleurs du ciel” (la Mer Noire) a abrité une vie culturelle préhistorique intense: que l’on songe à la fresque de la “danse du bison” découverte dans la grotte sanctuaire d’Altamira en Espagne, à celle, similaire, que l’on a retrouvée à Font-de-Gaume en France, du “félin d’ivoire” de Pavlov en Bohème à la fresque de la “panthère, des chevaux et du chevalier tué”, découverte dans la grotte sanctuaire de Cuciulat (et qui date d’une période entre –15.000 et –12.000 avant notre ère), des dessins rupestres de la grotte de Gaura Chindiei (-10.000 à –8.000 avant notre ère), deux sites de Roumanie, jusqu’aux formes étranges et cosmiques, apparemment étrangères à la terre voire “extra-terrestres”, d’un bas-relief trouvé dans la  grotte roumaine de Sinca Veche. Je voudrais rappeler, ici, les notes daces-roumaines de Ion Pachia Tatomirescu, qui évoquait une unité de culture préhistorique/proto-historique propre à toute l’Europe, et qu’il qualifiait de “pélagique”. Elle aurait existé entre –30.000 et –8.175 avant notre ère. Après cette période, cette culture originelle de l’Europe se serait fragmentée en trois groupes distincts. Ceux-ci se seraient ensuite développés lors de ce que l’on appelle l’”acmé de l’âge néolithique”, avec une branche “ouest-pélagienne” (de l’Océan Atlantique aux Alpes), une branche “pélagienne -centrale” (des Alpes orientales  à la Sardaigne jusqu’au Dniepr et à la “Mer des Gètes” (soit la Mer Noire), et des Carpathes septentrionales à la Mer Baltique, entre l’Oder et le Niémen, s’étendant jusqu’à la Sicile et la Crète. La Mer de Thrace (ou de Marmara) s’étant formée bien plus tard, lorsque la bande de terre reliant l’Asie Mineure à la péninsule balkanique a été submergée par la Méditerrannée, il y a environ 4000 ans, ce qui a formé, avec des résidus d’îles et l’émergence de nouvelles îles, la Mer de Thrace, que les Grecs appelèrent ultérieurement la Mer Egée

 

La troisième branche est la branche pélagienne orientale, dont le territoire initial s’étendait entre la Mer de Thrace (Mer Egée), la Mer des Gètes (Mer Noire) et le Dniepr. Son territoire s’est ensuite étendu jusqu’au Don et aux montagnes du Caucase. Des éléments de ce groupe ont traversé l’Anatolie et se sont installés à Chypre.

 

Tandis qu’il étudiait les cultures et les religions préhistoriques au départ de l’art rupestre des grottes d’Europe et d’Asie, André Leroi-Gournan fut l’un des premiers à démontrer “l’extraordinaire unité de l’art figuratif” de la  préhistoire européenne, ainsi que la permanence, la persistance et la continuité de ces représentations, tant dans le temps que dans l’espace, depuis les Asturies jusqu’au Don. Cette unité culturelle et démographique a permis aux Européens, les Pélages proto-historiques, de marquer l’histoire de leur présence. Cette unité a conduit à l’émergence d’une langue commune –la langue pélagienne archaïque—  que parlaient les peuples européennes du paléolithique et du mésolithique. Au départ, son vocabulaire, ne comprenait que les mots nécessaires à la vie quotidienne, mais ils’est enrichi et diversifié au fil des millénaires. Les modifications linguistiques, qui sont survenues au cours des deux derniers millénaires, fournissent beaucoup d’explications sur les événements qui se sont déroulés dans les ères les plus anciennes de la préhistoire européenne, lorsque la langue archaïque des peuples carpatho-danubiens a donné naissance, en Inde, au sanskrit, tandis que dans le sud de l’Europe, le latin vulgaire dominait pour se développer plus tard en un latin de culture (qui n’a disparu qu’au bout de deux mille ans). 

 

Les Carpatho-Danubiens du Sud-Ouest ont diffusé leur langue partout, ce qui explique que la même langue de base, ou langue-souche, ait donné naissance à la langue dace-romaine (le valaque de Roumanie), l’italique, le rhéto-romanche et la langue parlée en Sardaigne.

 

La langue de la branche orientale des Carpatho-Danubiens sera parlée dans le bassin du Dniepr, en Crimée, dans le bassin du Don, au Caucase, par ceux qui formeront la première et la seconde vagues du peuple des Kourgans (-4.400 et –3.400 avant notre ère) et par leurs descendants qui sont restés sédentaires. Aujourd’hui, les restes épars de cette langue sont appelés des “îlots de latinitié”: on les trouve notamment dans la région de Cherson en Crimée ou sur la côte orientale ou nord-orientale de la Mer Caspienne, comme à Vatchi, Khoutchni et Kourakh, dans le Daghestan, une république de l’actuelle Fédération de Russie.On  retrouve des résidus de cette langue dans la péninsule de Bouzatchi et même au Kazakhstan. On demeure surpris en constatant que la langue parlée par ces peuples à l’est, et même fort à l’est, présente des similitudes avec le Valaque. De même, les Tokhariens, un peuple de la branche aryenne, atteindront la Chine, les Aryens s’installeront en Inde tandis que les ancêtres des Aïnous actuels s’établiront au Japon.

 

La branche du Sud-Ouest des peuples issus de la matrice territoriale carpatho-danubienne font jeter les fondements de ce que l’on appelle aujourd’hui “la civilisation européenne archaïque”. Les institutions de cette civilisation sont donc issues, au départ, de l’espace carpatho-danubien, sacré et primordial.  Ce concept de “civilisation européenne  archaïque” a été forgé par Marija Gimbutas, qui fut professeur d’archéologie et de linguistique à l’Université de Los Angeles en Californie. Ce concept est né, chez Marija Gimbutas, en 1971, lors du 8ième Congrès international des sciences préhistoriques et proto-historiques, tenu à Belgrade (soit à Singidunum, son nom celto-latin). Cette civilisation européenne archaïque s’est d’abord étendue à des territoires aujourd’hui ukrainiens, moldaves, roumains, bulgares, serbes, macédoniens, monténégrins, bosniaques, croates, slovènes, albanais, grecs, turcs, hongrois, suisses, italiens, avec une extrémité septentrionale en Autriche, en Bohème, en Slovaquie, en Pologne et en Lithuanie, puis avec une pointe avancée méridionale dans les grandes îles de la Méditerranée: Sardaigne, Sicile, Crète, Chypre.

 

La branche carpatho-danubienne du Sud-Ouest a été incroyablement florissante  au néolithique, donnant naissance au plus ancien système  d’écriture du monde (Tartarie, Roumanie) et à une architecture fascinante, surtout pour la construction de temples, dont on retrouve des restes à Cascioarele en Roumanie, à Cranon en Grèce, à Porodin en Macédoine, à Gradesnita en Bulgarie, à Parta en Roumanie, à Sarmi-Seget-Usa, également en Roumanie. Sur ce site, précisément, on retrouve des traces du panthéon pélagien, aryen, carpatho-danubien; on sait que ces peuples vénéraient le soleil; le nom du Mont Surya dérive du mot “Surya”, le nom du soleil dans les Védas. Dans la nécropole de Cernavoda en Roumanie, deux statues de céramique ont été découvertes; on estime qu’elles datent  de 4530 avant notre ère et représentent le “couple primordial”, avec le père-ciel (Samasua) et la terre-mère (Dakia), que l’on appelle aussi, parfois, le “penseur pontique-danubien et sa femme”. N’oublions pas que les conditions géographiques et climatiques, voire tectoniques, ont empêché le peuple initial carpatho-danubien de se déplacer entre –7540 et –5500. Donc, au cours de cette période, après un cataclysme sismique, où la plaque tectonique de la Mer Noire s’est élevée de 40 à 180 m, inondant la  plaine du Danube inférieur et créant les détroits du Bosphore, tandis que la bande de terre reliant les Blakans à l’Asie Mineure s’est effondrée dans la Méditerranée, formant du même coup la péninsule balkanique et la Mer de Thrace (ou l’Egée). Toujours au cours de cette période, le centre sacré de Koga-Ion, s’est déplacé des Montagnes de Bucegi (le point focal sismique de Vrancea) vers le Mont Surya à Sarmi-Seget-Usa (dans la vieille langue sanskrite, cela signifie “Je suis pressé de fuir”).

 

Entre –4400 et –4200 avant notre ère, la première vague orientale de migration revient dans la zone pélagienne originelle: il s’agit d’une population “kourgane” qui s’était établie dans les bassins du Don et de la Volga; elle atteint d’abord les steppes du Nord-Ouest de la zone pontique puis déboule dans la vallée du Danube. Cette première vague migratoire de guerriers cavaliers  va s’arrêter juste devant le confluent de la Save et de la Drave avec le Danube, ce qui amènera des éléments du peuple carpatho-danubien au-delà des Alpes, notamment dans la péninsule italique.

 

Les Pélages carpatho-danubiens seront contraints de se doter d’une meilleures organisation administrative, militaire et religieuse pour faire face aux migrations. La vie religieuse connaît alors un “revival” au nom des divinités sacrées traditionnelles, telles le dieu de la guerre, “Sol-Ares”, soit le “Jeune Soleil” ou le “fils du Père-Ciel”, qui s’appelle, dans cette mythologie, “Sama-Sua”, ou Salmos, Zalmos, Zalmoxis.

 

Les Carpatho-Danubiens amélioreront sans cesse leurs systèmes de défense, leurs armements, dont la production sera continuellement perfectionnée. Le site d’Ardeal (Terra Aruteliensis) devint ainsi l’un des centres métallurgiques les plus importants de l’Europe à l’époque.

 

Par la suite, la population issue de la migration kourgane a été assimilée à l’indigénat carpatho-danubien, harcelé,  désormais, et de façon constante, par des peuples migrants, venus de l’Est. La fusion d’éléments kourgans et de l’indigénat carpatho-danubien donna naissance à un peuple belliqueux, les “Guerriers du Soleil”, connus entre –4400 et –3900 sous le nom de Daces (“Dax” signifiant tout à la fois “saint”, “chevalier” et “guerrier”). Hérodote, dans ses “Histoires” (IV, 93) parle d’eux comme “les  plus  braves, les plus honnêtes et les plus justes d’entre les peuples pélagiens”.

 

Les Carpatho-Danubiens ont donc inventé, à cette époque, les techniques et artefacts suivants :

 

1. La faucille (dont on retrouve des traces archéologiques dans les établissements de Gumelnita-Karanoco et de Cucuteni).

2. Le couteau de silex courbé, de 30 cm de long, qui devint, à l’âge des  métaux, l’épée dace courbée, utilisée tout à la fois pour les moissons et pour affronter l’ennemi.

3. La charrue en bois de cerf ou en silex, qui sera en bronze ou en fer plus tard.

4. Le joug, utilisé pour la traction de charettes à boeufs.

5. La hache de silex à deux tranchants, plus tard en bronze puis en fer, fondue dans un moule en argile cuit; cet instrument sera typique des populations carpatho-danubiennes.

6. La roue du potier puis la roue de char, deux inventions attribuées aux Daces de Cucuteni.

7. Les chars ou chariots à deux, trois ou quatre roues.

 

Nos ancêtres ont donc inventé tous ces outils indispensables au développement d’une culture historique. Or n’importe quel peuple non européen serait fier aujourd’hui d’avoir été à la base de ces inventions. Ce n’est plus le cas de nos jours en Europe et en Roumanie. Il paraît que nous sommes devenus “modestes”. Ce n’est jamais qu’un manque navrant de fierté. En Roumanie, on continue à parler d’une origine latine et romaine, en négligeant délibérément l’héritage dace  et carpatho-danubien.

 

Les vagues migratoires venues de l’Est ne se sont pas arrêtées à celles des premiers Kourganes; une seconde vague (de –3400 à –3200) et une troisième (de –3000 à –2800), toutes deux moins nombreuses, n’ont pas eu un impact important sur la démographie indigène.

 

Dans les premières années de ce 35ième siècle avant notre ère, le “pôle” démographique de la planète se situait donc dans l’aire carpatho-danubienne et pontique. Ce qui explique pourquoi une bonne moitié des populations nomades des steppes comprises entre le Dniepr et les Monts Ourals se sentait attirée par le niveau élevé de culture et par la richesse de leurs voisins vivant sur la rive occidentale du Dniepr. L’histoire évoque des “éleveurs de chevaux” qui apparaissent au sein de la population indigène de l’espace carpatho-danubien, puis disparaissent. Ces populations nomades, comme celles des deuxième et troisième vagues de Kourgans) ont atteint l’Europe occidentale, certains se portant même jusqu’à la péninsule ibérique.

 

Les Daces ont donc protégé l’Europe contre les assauts des barbares de la steppe, comme le feront leurs descendants en des périodes ultérieures de l’histoire. Quelles impulsions ont amené ces populations migrantes à nos frontières: l’attrait pour une culture supérieure, plus raffinée? La faim? La volonté de piller? Le mépris qu’ils éprouvaient pour le travail de l’honnête homme sédentaire? Les hypothèses peuvent se juxtaposer, se télescoper. Le débat est ouvert.

 

A l’âge du bronze émerge la culture dace de Cotofeni, dominée par des idées religieuses, des symboles et des motifs sacrés: la double spirale, le culte des pins (avec les motifs correspondants, symbolisant le pin ou le sapin). Gebeizis, ou le “dragon des nuages”, semble être devenu, à cette époque, le dieu principal, avec, à ses côtés, Bendis, la grande déesse des forêts, de la lune et des divinations). Le peuple carpatho-danubien s’est donc répandu dans le monde entier et en a conquis de vastes espaces, en étant parfois vaincu. Ainsi, la civilisation qu’il a créée, et qui porte les noms de pélagienne, de thrace, de mycénienne, de pélagienne-thraco-mycénienne, ou de pélagienne-thraco-troyenne, a été détruite et conquise par d’autres vagues migratoires barbares, au nombre de quatre, venues de l’Est de la Caspienne entre –1900 et –1400: les Achéens, les Ioniens, les Doriens et les Eoliens, qui deviendront les Grecs.

 

Ces peuples se sont fixés dans le sud de la péninsule balkanique et en Asie Mineure. Ils ont chassé les Carpatho-Danubiens des îles de l’Egée. Ainsi  en atteste la figure de l’Achéen Thémistocle, chef du groupe qui conquerra plus tard Lemnos et en expulsera les Thraces de Sinthion en –500. Ce sont ces peuples-là qui ont changé le nom de la Mer de Thrace pour l’appeler “Egée”. Ils prendront et détruiront Troie. Ces conquérants, toutefois, ont été absorbés et inclus dans la culture carpatho-danubienne. Ils en hériteront le panthéon et la mythologie: Gebeleizis devint Zeus; Bendis, la déesse, devint Aphrodite ou Vénus, tandis qu’Orphée et Bacchus ont été assimilés sans trop d’altérations. L’origine thraco-dace de ces dieux et déesses étant souvent reconnue comme telle.

 

Le transport du fer, de l’or et du bétail n’était pas sûr à l’époque sur les routes et pistes de Dacie. Les Daces ont décidé d’imposer au peuple un ordre héroïco-religieux et chevaleresque, ayant aussi pour tâche de dire le droit et de rendre la justice selon les coutumes daces et d’imposer les fameuses lois pélagiennes (ou pélasges ou “bellagiennes” ou “valachiennes”). L’imposition de ce code avait pour but de mettre fin aux pillages locaux et aux vols et larcins de toutes natures. Les “chevaliers” de cet ordre  —dénommés les “chevaliers du Soleil”— étaient équipés d’armes de fer et parvenaient à avoir systématiquement le dessus sur leurs ennemis.

 

Comme nous l’avons  déjà mentionné, les populations  pélagiennes carpatho-danubiennes se sont divisées en deux groupes: ceux du sud, qui donneront la civilisation védique, que l’on connaît bien, et ceux du nord, plus anciens, qui ont donné par la suite naissance à deux grands groupes de peuples en Europe: les Germains et les Slaves.

 

L’un des documents les plus importants qui nous parlent des Daces, de leurs origines et de leurs descendants, est le “Chronicle Roll” ou le “Moseley Roll”, une chronique historique, dont l’original a été perdu mais dont des copies manuscrites du 15ième siècle attestent l’existence; ces copies datent du règne du roi d’Angleterre Henri VI et se trouvent dans les bibliothèques de l’University College de Londres et du “Corpus Christi College” de Cambridge. On en trouve également une copie à la  “Bibliothèque Nationale” de Paris. Ces documents affirment être une généalogie des peuples germaniques. Dans cette chronique, Styeph, Steldius ou Boerinus, une même figure pour trois noms différents, est considérée comme le père fondateur des peuples germaniques, qui a eu neuf descendants, soit les pères des neuf peuples germaniques de l’antiquité: Geate, Dacus, Suethedus, Fresus, Gethius, Wandalus, Iutus, Gothus et Ciurinicius.

 

Je remercie ici le Dr. Alexandru Badin, mon collègue de New Jersey, pour ses descriptions minutieuses et complètes des liens existant entre la Dacie orientale et la Dacie occidentale. Dans son livre “Western Europe Dacia” (New York, The Geryon Press, 1998), le Prof. Badin met en lumière l’histoire légendaire de la Dacie, jamais auparavant décryptée et révélée, et récapitule les étapes qui ont marqué les origines de la Dacie d’Europe occidentale, en leur donnant une solide base historique et scientifique. Nos théories et opinions ont varié parfois, mais je ne cesserai jamais de lui rendre hommage.

 

Revenons aux neuf descendants de Boerinus (“boier” signifiant “homme noble” en roumain): il apparait évident que ces neuf personnages légendaires ne représentent pas des personnes mais des peuples. La science du préhistorien devient ainsi pareille à l’intrigue d’un roman policier: comment se fait-il que les Allemands ou les peuples germaniques actuels ont des ancêtres mythiques dont les noms sont “Geate” et “Dacus”? Est-ce dû à l’arrivée sur le territoire allemand actuel d’une tribu carpatho-danubienne, immédiatement après la disparition de la calotte glaciaire, quand le climat s’est réchauffé? Ou est-ce une simple coïncidence? Le héros anglo-saxon et scandinave, Beowulf, était, dit le texte, le chef d’un peuple appelé “Geate”, “Geatas”, “Guata” ou “Guatar”. Dans son célèbre ouvrage “The Medieval Word/World” (New York, New American Library, 1961), Friedrich  Heer décrit la personnalité de trois professeurs célèbres de l’Université de Paris au 13ième siècle, tous venus d’Europe du Nord. L’un d’eux est “Boetius”, venu de Dacie. Il avait énoncé la théorie, fort débattue, de la “double réalité”, affirmant que le savoir et la religion étaient deux principes différents, chacun valable et juste en soi. Ses idées hérétiques ont été réduites au silence en 1277, à la suite d’un décret pontifical.  Le site géographique de la Dacie, pays de Boetius, est contesté. Selon les Prof. Jensen S. Skovgaard, le terme “Dacie”, au moyen-âge, possède deux significations:la première de ces significations fait référence à l’Ordre des Dominicains ou des Franciscains; ensuite, deuxième signification, il suggère que la personne,dont on parle, est originaire d’une  province de “Dacie”, dont le territoire recouvre le Danemark, la Norvège, la Suède et la Finlande. Il fait référence à l’ancienne “Dacie” des textes médiévaux, synonyme de “Dania” , soit le Danemark.

 

De ce fait, nous avons affaire àdeux populations différentes, vivant sur des territoires européens différents, qui partagent une même appelation de “Dacie”.  L’un de ces groupes appartenait à l’Europe orientale, c’est-à-dire au foyer originel de l’Europe proto-historique, tandis que l’autre appartenait au territoire du Nord-Ouest du sous-continent européen, sur le territoire scandinave recouvrant aujourd’hui le Danemark (appelé, lui aussi, “Dacia” dans les anciens textes latins où le terme désigne une province ou une région), la Suède, la Norvège et la Finlande. Il est curieux de constater que la Dacie d’Europe orientale est mention née dans les sources historiques écrites dès le 2ième siècle avant J.C., tandis que la “Dacie” d’Europe occidentale n’est mentionnée que beaucoup plus tard, soit, grosso modo, au 4ième siècle après J.C.

 

Personnellement, je ne pense pas que le débat sur la descendance de Boetius de Dacie est un problème qui doit être résolu par les Suédois ou les Danois seuls. Je pense plutôt que la clef, nous permettant de comprendre l’ensemble de la problématique de la préhistoire et de la proto-histoire européenne, se situe ailleurs, notamment en Dacie orientale. La question est dès lors la suivante : est-il possible que ces deux provinces d’Europe et ces deux peuples, ayant des noms similaires et partageant bon nombre de coutumes issues d’une culture, d’une religion et d’une langue communes, possèdent un dénominateur commun historique, une histoire et un passé communs ou une origine similaire?

 

Les Pélages carpatho-danubiens ont transporté leurs symboles dans toutes les régions qu’ils ont conquises. Cela explique pourquoi nous trouvons la croix pélagienne nonseulement sur le sommet de Torocello près de Venise, mais aussi sur le Müncheberg en Allemagne. Cette croix, en effet, se retrouve partout, des Balkans à l’Asie Mineure et, de là, jusqu’en Inde, en Corée et en Indonésie (dans l’Ile de Bali). La plus ancienne croix pélagienne, vieille de plus de 7000 ans, a été découverte au sud du Danube, sur le territoire actuellement bulgare. L’oiseau héraldique de la Roumanie, soit le corbeau pélagien, est aussi l’oiseau sacré du dieu Mithra (le dieu solaire, appartenant au plus ancien panthéon védique). Cet oiseau était fort vénéré dans les provinces daces (cf. N. Densusianu, “Dacia preistorica, p. 426, Meridiane Publishing House, 1986). Il porte en son bec une croix pélagienne, parfois  simple dans sa forme, parfois double. Dans le “Livre des Psaumes Slaves”, imprimé en 1575, la partie supérieure de cette croix prend la forme de la vieille svastika pélagienne, que l’on reconnaît comme un symbole de renaissance, plus exactement du soleil renaissant ou du soleil du printemps.  On retrouve cette même croix dans le livre des psaumes slavo-roumains de 1577 (Branu & Hodos, Bibliographie roumaine, tome 1, 61-1576, 67-1577). La tombe du Negru Voda a été découverte le 31 juillet 1920. Sous la pierre tombale, il y avait un sarcophage où gisait le corps parfaitement conservé de ce grand seigneur et prêtre du 13ième siècle. Son linceul également était recouvert de croix pélagiennes.

 

Le texte intitulé “The Little Chronicle of the Leire Kings”, écrit au 12ième siècle de notre ère, évoque Dan, roi de Dacie, qui règna sur le pays pendant trois ans (“Erat ergo Dan Rex in Dacia per triennum”). R. W. Chambers nous ajoute une note infra-paginale fort intéressante : “Dacia = Den-mark”. Si l’on réexamine le document “Moseley Roll”, on découvre qu’il n’y a aucune référence à un roi Dan ou à un peuple dénommé les “Dani”. La première mention historique de ce roi et de ce peuple est beaucoup plus récente. “Dani”, “Dania”, “Denmark” sont des noms récents, qui ont remplacé le nom ancien et traditionnel de “Dacia”.

 

L’arrivée des “Danes”  ou “Dani”, venus de cette Scandinavie septentrionale, fit qu’une partie de la population anciennement dace occupât les Pays-Bas actuels dont les citoyens s’appellent les “Dietsch” ou “Deutsche”. Cette dénomination se prononce presque comme le terme romain/latin de “Daci” (phonétiquement : “Datchi”). Malheureusement, le peuple roumain aujourd’hui est davantage préoccupé par sa survie physique que par une recherche de ses véritables origines et de sa vraie identité. Une longue série d’événements anormaux et dramatiques ont fait que ce peuple a oublié ou ignoré ses racines. En effet, les efforts déployés tout au long de l’histoire pour que notre peuple oublie ou ignore son histoire nationale et son identité ont été couronnés de succès. N’oublions jamais qu’un mensonge répété à satiété acquiert le statut de “vérité”, tandis qu’une vérité bien établie, que l’on a négligée de répéter, peut finir par être prise pour une hallucination ou une élucubration. Quand cet état d’hypnose du peuple dace-roumain finira-t-il? Qu’est-ce qui empêche aujourd’hui les Daces-Roumains de renouer avec leur véritable histoire, avec leurs vraies origines?

 

A  l’évidence, retrouver la vérité postule deux choses : quelqu’un qui s’en fasse le porte-voix et quelqu’un qui accepte d’écouter cette voix. Le premier pas a été fait!