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lundi, 21 novembre 2016

Un nazionalismo internazionale per una geopolitica multipolare

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Un nazionalismo internazionale per una geopolitica multipolare

Di Camilla Scarpa
Ex: http://www.omniasuntcommunia.eu
 
Questo saggio mira ad analizzare gli elementi che favoriscono l’ascesa di una grande potenza e le relazioni di quest’ultima con i cambiamenti in atto sullo scacchiere internazionale, cambiamenti che assecondano il programma politico ed economico della potenza egemone per gli altri stati. D’altro canto, mira anche a comprendere se il gruppo di stati definiti BRICS, e soprattutto il Brasile, ha qualche chance di cambiare, seppur parzialmente, il nucleo dinamico del sistema politico e dell’economia, tenendo conto della crisi internazionale che ha colpito gli stati industrializzati. In conclusione, ammettendo l’esistenza di questa possibilità, il saggio mira a comprendere quali strumenti possano contribuire alla suddetta trasformazione sistemica, e a controbilanciare la tradizionale supremazia dell’emisfero settentrionale.

Introduzione: teoria e prassi della nuova geopolitica multipolare

Benché la concreta, razionale possibilità di un equilibrio geopolitico differente da quello unipolare (risultante dalla vittoria del blocco Occidentale su quello Orientale, o viceversa) e da quello bipolare (basato sull’equilibrio tra il blocco Orientale e quello Occidentale, che si è poi in qualche modo concretizzato nella fase della guerra fredda) sia stata già tratteggiata da Carl Schmitt ne “Il nuovo nomos della terra”1, e perfino accennata da Kant alla fine del ‘7002 in chiave cosmopolitica, solo negli ultimi anni, in seguito al crollo del muro di Berlino e alla fine della fase “bipolare”, assistiamo al germogliare, seppur spesso faticoso, di quelli che sono le prime, embrionali manifestazioni della geopolitica multipolare.

Una parentesi economica: il liberismo come motore di una nuova geopolitica

Significativamente, ma anche un po’ paradossalmente, uno dei fattori che ha incoraggiato e accelerato l’emersione di autonomi blocchi geopolitici è stato il liberismo economico di matrice occidentale e soprattutto nordamericana: infatti, dando per scontati quei blocchi la cui omogeneità storica, filosofica, culturale e politica è secolare se non millenaria, quali l’Europa, il Nord-America e il blocco sovietico, la cui omogeneità peraltro ha storie e vicissitudini diverse (l’omogeneità culturale americana, ad esempio, è “indotta”, e storicamente recente, quella europea è culturalmente antica ma politicamente sempre più fragile, quella sovietica è al tempo stesso storica e rafforzata dalla federazione politica che era l’URSS, poi soggetta a uno sbandamento momentaneo e ora in pieno “rinascimento”), i “nuovi blocchi” frequentemente coincidono con i cd. “paesi in via di sviluppo”, in crescita economica pressoché verticale: l’America centro-meridionale (riunita nel 2008 nell’UNASUR e, commercialmente, nel MERCOSUR), il blocco che gravita intorno all’India, il Giappone, quello africano (riunito nell’Unione Africana dal 2002, che tra l’altro si è espressa di recente in modo giustificatamente negativo rispetto ai sistemi di giustizia penale internazionale sostanzialmente filo-occidentali), e il polo cinese, se, come pare ragionevole, lo si considera autonomo rispetto alla Russia in seguito alle divergenze del periodo post-staliniano, e nonostante le fasi di normalizzazione degli anni ’80 e dei nostri giorni.

Schmitt e D’Ors: grandi spazi, geopolitica e geodieretica

I requisiti che Carl Schmitt individuava per i “grandi spazi indipendenti” erano – e tuttora sono, nell’esperienza pratica – la loro delimitazione razionale e la loro omogeneità interna.

L’aspetto del pensiero schmittiano incentrato sulla teoria dei “Grandi spazi” (peraltro considerata da alcuni alla base della teoria nazista del Lebensraum) sarà poi sviluppato, con una certa creatività e seppur con una fondamentale dicotomia interpretativa riguardante il ruolo da attribuire allo Stato, da uno dei suoi discepoli, Alvaro d’Ors, in un’opera significativamente intitolata “Diritto e senso comune”3. D’Ors ha addirittura coniato il termine “geodieretica” per indicare la semplice ripartizione della terra tra comunità, contrapposta alla geopolitica, che presuppone l’esistenza dell’istituzione-stato. Per D’Ors “la separazione di territori è alcunché di naturale, mentre non lo è il progetto di un ordine mondiale come se tutta la terra fosse un unico territorio sotto il dominio di un solo popolo. […] Questi “grandi spazi”, tra i quali può dividersi il mondo, sono determinati da ragioni geografiche e geopolitiche, e costituiscono raggruppamenti i quali non sono comunità propriamente dette né gruppi di natura societaria, in quanto non dipendono da una volontà contrattuale, ma da condizionamenti fattuali difficilmente eludibili.”.

I grandi spazi, secondo lo stesso autore, possono accordarsi per il mantenimento della pace, ma sono per loro natura avversari, perché hanno l’intrinseca tendenza ad espandersi, a danno gli uni degli altri. Al contrario, tra le comunità che compongono i larghi spazi sono possibili scambi di relazioni sociali.

Profili giuridici dei rapporti reciproci tra grandi spazi: l’annessione

Questa naturale tendenza ad espandersi, peraltro già propria dei tradizionali stati nazionali, ha come sua altrettanto naturale conseguenza l’annessione di territori appartenenti ad altri stati (nel passato e ancora oggi) e ad altri blocchi (nel futuro?).

L’annessione, nel diritto internazionale, è uno dei modi d’acquisto della sovranità territoriale, che peraltro risponde al principio di effettività “ex facto oritur jus”, quindi ribadisce la priorità cronologica e logica del fatto della conquista di un territorio e della conseguente espressione piena del potere di governo sul territorio conquistato rispetto alla sua disciplina giuridica, con buona pace dei giuristi che pensano di prescindere totalmente dalla dimensione fattuale politico-militare. Ne è un esempio paradigmatico il caso dell’Alsazia-Lorena, territorio storicamente conteso tra Germania e Francia che G. K. Chesterton4 erige ad esempio di una politica di indiscriminate annessioni che ha preso piede a cavallo tra ‘800 e ‘900, e che avrebbe dovuto essere repressa in modo esemplare, sì da costituire un monito per tutti gli attori internazionali.

Tale politica, propria non solo della Germania ma di tutte le grandi potenze, ispirate da un “nuovo” imperialismo non solo politico ma anche e soprattutto culturale, è tanto più perniciosa, secondo l’autore, quanto più cerca giustificazioni ex post per le sue conquiste, nel caso specifico attraverso la presenza di una nutrita – e opportunamente gonfiata e ingigantita – minoranza di tedescofoni sui territori in questione.

G. K. Chesterton e una nuova forma di imperialismo…

Poco importa che l’auspicio concreto di Chesterton, ossia la pronta restituzione dei territori alla Francia (pretesa con forza da Clemenceau) si sia poi realizzato, dal momento che le grandi potenze in questione non hanno affatto colto l’occasione per imparare la lezione, e un’altra questione di minoranze etnico-linguistiche, quella dei Sudeti, ha acceso la miccia della II guerra mondiale.

Questo imperialismo, che era un sintomo “nuovo” secondo Chesterton all’epoca della I guerra mondiale, per i contemporanei è assai “vecchio”, e non ha fatto che peggiorare nell’ultimo secolo, facendosi sempre più onnicomprensivo e totale.

L’obiettivo di questo mio intervento è, quindi, quello di segnalare alcuni spunti di riflessione alquanto moderni nell’opera di Chesterton, che precedono di quasi un secolo un certo approccio politico-ideologico neo-nazionalista che oggi pare rivoluzionario almeno quanto un secolo fa lo sembrava l’approccio internazionalistico, non fosse altro che perché è in controtendenza rispetto all’approccio degli ultimi decenni.

Il punto più significativo, a parer mio, è quello che riguarda l’imperialismo culturale e la differenza tra multipolarismo e globalizzazione. Chesterton, nel suo primo romanzo, “Il Napoleone di Notting Hill”5, fa dire al fiero ex primo ministro del Nicaragua, in esilio a Londra:

«E’ questo che denuncio del vostro cosmopolitismo. Quando dite di volere l’unione di tutti i popoli, in realtà volete che tutti i popoli si uniscano per apprendere ciò che il vostro popolo sa fare”. A questa sintesi perfetta del concetto di imperialismo culturale, l’inglese indottrinato, ma non privo di intelletto, Barker, risponde che l’Inghilterra si è disfatta delle superstizioni, e che “La superstizione della grande nazionalità è negativa, ma la superstizione della piccola nazionalità è peggiore. La superstizione di venerare il proprio paese è negativa, ma la superstizione di riverire il paese di qualcun altro è peggiore. […]

La superstizione della monarchia è negativa, ma la superstizione della democrazia è la peggiore di tutte.»6

riaffermando così la superiorità della propria nazione sulle altre. E un simile atteggiamento, che probabilmente si ispira agli avvenimenti della guerra anglo-boera, non può non ricordarci oggi la pretesa statunitense di “Esportare la libertà”, per usare una formula di Luciano Canfora, e le conseguenti, disastrose imprese in Medio-Oriente e in Somalia degli anni ’90 e 2000.

L’atteggiamento direttamente speculare a quello di Barker è però altrettanto condannabile: in “L’irritante internazionale” Chesterton condanna recisamente il “buonismo” sotteso a certe posizioni umanitaristiche pacifiste, che tendono a passare sotto silenzio “i peccati” tanto delle grandi potenze quanto di quelli che, di volta in volta, sono “gli stranieri”, piuttosto che ad essere trasparenti sugli errori di tutti gli stati. E anche questo tipo di posizioni, che paiono inneggiare al “mito del buon selvaggio”, non manca di corrispondenze nella politica contemporanea, soprattutto di sinistra, degli ultimi vent’anni.

La conclusione, solo apparentemente paradossale, è che sostanzialmente l’imperialismo culturale ha arrecato più danni del nazionalismo più ottuso alle relazioni internazionali pacifiche: lo straniero, nella nostra prospettiva distorta, ha diritto di escluderci dalla sua universalità, ma non ha diritto di includerci nelle sue generalizzazioni, non più di quanto abbia diritto di invaderci o di conquistarci, e anzi, la manifestazione del pensiero che si concretizza in un’invasione è, qui davvero paradossalmente, quella che trova più facilmente giustificazione, ideologica e politica, se non addirittura giuridica.

A una certa parte politica risulta infatti quasi più facile giustificare “lo zelota” (nel senso biblico ma anche in quello di Toynbee7), l’ultraortodosso di qualsiasi fede o partito, che muore per difendere il proprio ideale, piuttosto che “il fariseo” che media, giunge a un compromesso, apre la mente all’altro. La fazione opposta, al contrario, inneggia a colui che dimentica completamente le proprie radici, aderendo di volta in volta a quelle dell’altro senza spirito critico e discernimento.

… e la reazione al nuovo imperialismo: un nazionalismo internazionale

La prospettiva suggerita da Chesterton per superare questo impasse è quindi quella di un “nazionalismo internazionale”, piuttosto che quella di un internazionalismo nazionale fallito negli anni ’20 del ‘900 così com’è “neutralizzato” nella sostanza oggi, nonostante il proliferare delle ONG e delle teorie sul loro ruolo nella formazione di una presunta “società civile internazionale” di alcuni filosofi e giuristi (pur blasonati e per altri versi interessanti)8.

Fermo restando che una simile formula, prima di essere ratificata, va riempita di contenuti “costruttivi”, oltre che “distruttivi” – nel senso dialettico socratico dei termini, s’intende -, pare che questa prospettiva possa anticipare quella, contemporanea, condivisa da un vasto movimento d’opinione che va dalle opere recenti di Aleksandr Dugin a quelle di una certa “Nuova destra” francese quale quella di Alain de Benoist9, ma non dovrebbe esser poi troppo distante nemmeno da una certa scuola della sinistra (neo)gramsciana, com’è reinterpretata e divulgata in Italia da Diego Fusaro10.

Il nazionalismo internazionale e un suo corollario, la teoria delle piccole patrie

E anche quello che è uno dei fili rossi del “Napoleone” chestertoniano, nonché una sorta di corollario della suddetta riflessione critica sull’internazionalismo “coatto” (cioè su quella che oggi chiamiamo globalizzazione), merita qualche considerazione proprio in quanto costituisce, negli ultimi vent’anni, un argomento di studio politicamente trasversale: mi riferisco alla cosiddetta “teoria delle piccole patrie”, cara ad Hilaire Belloc, l’amico di Chesterton a cui, non a caso, è dedicato il “Napoleone”.

A questo filone – che talora sconfina nel localismo più particolaristico, malgrado o per volontà degli stessi autori – si rifanno infatti espressamente tanto autori di scuole neomarxiste (soprattutto quella barese), come Franco Cassano11 , quanto intellettuali a vario titolo di destra, quali Marcello Veneziani12 e Pietrangelo Buttafuoco13.

Questo sentimento, non dissimile da quello dell’Europa medievale e soprattutto dell’Italia comunale, si è rinfocolato dopo l’ondata di globalizzazione degli ultimi decenni, e trova un suo spazio anche nell’ordinamento giuridico: nel suo risvolto “unitario”, con il principio di sussidiarietà14, soprattutto verticale (codificato nella nostra Costituzione all’art. 118, oltre che nei trattati europei), e in quello “disgregante” con il rinnovarsi delle pretese secessionistiche, che vorrebbero spesso elevarsi a diritti, non solo in Italia ma anche all’estero (p.e. Catalogna, Scozia, Quebec…).

Non a caso, si noti, Gianfranco Miglio, nel lontano 1972 curava un’edizione delle “Categorie del politico” di Schmitt15, seppur giungendo a conclusioni diverse riguardo al destino dello Stato moderno: Miglio, infatti, riteneva che lo Stato nazionale tradizionalmente inteso fosse al capolinea, e con il crollo del muro di Berlino e la fine dello jus publicum europaeum si entrasse in una fase di transizione al termine della quale si sarebbero realizzati equilibri politici diversi, incentrati su forme diverse di comunità “neofederali”.

A prescindere dall’assetto finale delle comunità di Miglio, simile a quello medievale, e soprattutto a prescindere dalle interpretazioni e dalle derive banalizzanti che ne hanno dato alcune forze politiche, ciò che qui preme sottolineare è, ancora una volta, il nesso tra “l’infinitamente piccolo” (le piccole patrie), e “l’infinitamente grande” (il nazionalismo).

Conclusione: multipolarismo vs. globalizzazione, ritorno al futuro?

Il multipolarismo, comunque lo declinino i suoi fautori, in questo dovrebbe quindi differire dalla globalizzazione che lo ha preceduto: non pretendere che il singolo recida le sue radici per diventare immediatamente “cittadino del mondo”, ma piuttosto suggerire che lo sia solo mediatamente, attraverso la cittadinanza – o meglio, l’appartenenza – della sua nazione o del suo blocco, e la valorizzazione di tradizioni culturali anche regionali e locali.

In questo senso, e solo in questo senso, possono definirsi “conservatrici” o, più esattamente, “tradizionaliste”, le posizioni di autori come Dugin16; e non è un caso, nemmeno questa volta, che negli ultimi trent’anni sia ricomparsa qui e là, tanto come argomento di studi storici17 quanto come ideale politico di riferimento, la formula, solo apparentemente ossimorica e provocatoria, della “rivoluzione conservatrice”.

1 “Der neue Nomos der Erde”, è un (pas)saggio che si ritrova in “Staat, Grossraum, Nomos”, raccolta dei lavori di un cinquantennio di Carl Schmitt, Duncker & Humblot, Berlin, 1995.

2 In “Per la pace perpetua”, Feltrinelli, 2013 (prima ed. 1795).

3 Alvaro d’Ors, “Derecho y sentido comun”, Madrid, 2001.

4 “Germania e Alsazia-Lorena: come evitare l’annessione”, G. K. Chesterton, 1918, da “The North American Review”.

5 “Il Napoleone di Notting Hill”, G. K. Chesterton, 1904, ora pubblicato da Lindau.

6 Nell’Inghilterra quasi distopica del romanzo, infatti, il re è scelto a caso, perché un regime dispotico privo di illusioni “non è la degenerazione ma il compimento più perfetto della democrazia”.

7 Per Arnold J. Toynbee lo zelotismo (contrapposto all’erodianesimo) è l’atteggiamento di colui che, di fronte a un rapporto (culturale) sfavorevole, temendo di uscire sconfitto e umiliato da un tentativo di imitazione, rifluisce su una difesa arcaica e chiusa della propria identità.

8 Mi riferisco a Toni Negri e Michael Hardt, nel loro ormai celebre “Impero”, Rizzoli, 2002: le ONG avrebbero un ruolo nella formazione di un’universale comunità di tipo etico, che costituirebbe la base, il livello più basso della struttura imperiale teorizzata dagli autori.

9 cfr. ad esempio “Verso un nuovo Nomos della terra”, qui: http://www.centrostudilaruna.it/verso-unnuovo-nomos-della-terra.html

10 Diego Fusaro, “Antonio Gramsci”, Feltrinelli, 2015: (p. 126) “Il marxismo eterodosso di Gramsci valorizza, con lo stato, anche la dimensione nazionale. Come è stato suggerito, i Quaderni si reggono sull’idea che si debba partire dal nazionale per giungere al sovranazionale.

L’emancipazione universale del genere umano deve essere l’esito di un processo che trova nella realtà nazionale il proprio punto di avvio e che, da lì, gradualmente si espande fino a farsi cosmopolitico: “Lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è “nazionale”, ed è da questo punto di partenza che occorre prendere le mosse.” (Q. XIV, 68, 1729).

E, citando Gide: (p.127) “Si serve meglio l’interesse generale quanto più si è particolari: il modo per essere cosmopoliti, in concreto, consiste nel prendersi cura della massa nazionale-popolare di cui si è parte.”.

11 Franco Cassano, “Il pensiero meridiano”, Laterza, 2007: (p. VIII) “[…] Il sud non è un non-ancora, non esiste solo nella prospettiva di diventare altro, di fuggire inorridito da sé per imitare il nord venti o cent’anni dopo, e quindi probabilmente mai.”, e ancora: (p. 7) “Un pensiero del Sud […] significa non pensare più il sud o i sud come periferia sperduta e anonima dell’impero, luoghi dove ancora non è successo niente e dove si replica tardi e male ciò che celebra le sue prime altrove.”

12 Marcello Veneziani, “Sud”, Mondadori, 2007, che però, quasi facendo autocritica, chiosa: “Un conto è amare il genus loci, un conto è servire le pro loco, a costo della verità”.

13 Pietrangelo Buttafuoco affronta il tema con la consueta ironia in “Buttanissima Sicilia”, Bompiani, 2014, ma già lo adombrava nel romanzo “Le uova del drago”, Mondadori, 2005.

14 Il principio di sussidiarietà nasce nella dottrina sociale della Chiesa cattolica, anche se le sue radici possono risalire ad Althusius. La sua prima menzione viene segnalata nell’enciclica “Rerum novarum”, e poi il concetto trova consacrazione definitiva nella “Quadragesimo anno”, cfr. ex multis F. Pizzolato, “Sussidiarietà, autonomia, federalismo”, in “Come pensare il federalismo?”, Polimetrica, 2010, e F. Viola, “Luci ed ombre del principio di sussidiarietà”, il Mulino, 2009.

15 “Le categorie del politico: saggi di teoria politica”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, 1972.

16 In “The fourth political theory”, Dugin opera un’analisi particolareggiata su ciò che è tradizionalismo e ciò che è conservatorismo.

17 De Benoist, ad esempio, scrisse su Moeller Van den Bruck.

dimanche, 20 novembre 2016

Pascal Junod: fédéralisme suisse, UDC, Oskar Freysinger, démocratie directe

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Le fédéralisme suisse, exemple pour l'Europe (Pascal Junod)

Maître Pascal Junod, avocat au barreau de Genève, bien connu en France, nous donne une courte analyse des bienfaits du système fédéral suisse qu'il faut se garder de confondre avec ce que l'on appelle ailleurs le fédéralisme.

Oskar Freysinger, l'UDC et la démocratie directe (Pascal Junod)

Maître Pascal Junod, avocat au barreau de Genève, bien connu en France, nous parle de son ami Oskar Freysinger, de l'UDC, et de la démocratie directe telle qu'elle fonctionne en suisse. Il nous dit aussi pourquoi l'Europe Unie explose.

samedi, 19 novembre 2016

Trump Poutine: ne rêvons pas

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Trump Poutine: ne rêvons pas

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

On considère généralement, en tenant compte des intentions affichées par le candidat Trump, que son élection à la Maison Blanche signifiera une diminution des tensions militaires entre lui et Poutine. Peut-être même pourrait-on assister à l'établissement de relations diplomatiques normales entre les deux puissances. Poutine pour sa part n'a rien fait pour décourager l'idée. Ceci dit, l'on sent bien qu'il attend d'en savoir davantage sur les intentions de Trump avant d'envisager ce que l'on pourrait nommer un désarmement bilatéral.
 
En fait, on peut craindre que Trump ne puisse en rien changer la politique agressive des Etats-Unis à l'égard de la Russie. Elle est trop ancienne et s'exerce dans de trop nombreux champs stratégiques pour pouvoir être modifiée ne fut-ce que dans un seul de ceux-ci – sauf peut-être dans le cas d'un allégement des « sanctions » imposées par Washington à la suite du conflit en Ukraine. Celui-ci, rappelons le, a été entièrement le résultat de manœuvres américaines discrètes et moins discrètes visant à déstabiliser la Russie à travers une opération de « regime change » à Kiev.

Les Etats-Unis ont basé l'essentiel de leur course à la suprématie mondiale, dès 1950, par une volonté de dominer la Russie, qui avait le grand tort à leur yeux de disposer d'une arme nucléaire du niveau de la leur. Cette domination devait être assurée sur le plan géographique, mais tout autant sur le plan scientifique et industriel. La plupart des grandes avancées qui distingue par exemple la science américaine de celle des autres nations ont été des conséquences du développement d'armes de plus en plus performantes, ceci y compris dans le spatial. Renoncer à la course aux armements serait couper les principaux ressorts du succès américain dans ces domaines. Or pour s'armer, il faut le faire contre un ennemi présenté comme la plus grande menace existentielle. La Chine aujourd'hui est aussi dénommée telle par le gouvernement américain, mais la Russie restera toujours la première.

Corrélativement, le complexe militaro-industriel russe, bien que moins puissant que son homologue américain, a lui aussi besoin de la préparation, au moins virtuelle, de conflits entre les deux pays. Les progrès spectaculaires en matière d'armement, notamment dans le domaine des missiles intelligents, réalisés par l'industrie russe récemment, n'auraient pas pu se produire sans une perspective belliqueuse. Poutine sait qu'il dépend en grande partie au plan intérieur du soutien de ce complexe, et ne fera rien qui puisse contribuer à le démobiliser.

D'une façon générale, on peut considérer que Donald Trump, le voudrait-il, ne pourra jamais imposer à l'état-major du Pentagone, comme au puissant complexe militaro industriel (CMI) qui vit aujourd'hui essentiellement de commandes militaires américaines, d'accepter des diminutions substantielles de l'effort dit de défense, dont la Russie, bien avant la Chine, est aujourd'hui la principale cible.

Rappelons que le budget militaire américain s'élevait en 2015 à 598 milliards de dollars, dont une grande partie certes difficile à chiffrer, est relative aux opérations militaires en cours ou en projet contre la Russie. On imagine les pertes d'influence, de profits et d'emplois que subiraient le Pentagone et le CMI en cas d'une diminution, même marginale et progressive, de ces crédits.

Aussi bien Donald Trump ne s'y est-il pas risqué. Il a annoncé, dans son programme, qu'il supprimerait les réductions budgétaires forfaitaires précédentes, (séquestrations) qu'il a imputé à l'incapacité d'Obama et de Hillary Clinton, secrétaire d'Etat, à prendre la juste mesure des besoins budgétaires de la défense. Il a promis que les futurs budgets militaires ne descendraient pas au dessous du seuil minimum de 550 milliard. Pour les Russes, ceci ne peut qu'être interprété que comme la volonté de poursuivre les déploiements militaires à leurs frontières, comme dans tous les pays où ils peuvent exercer encore une influence.

Dès avant son élection, le 27 avril 2016, le candidat Trump avait prévenu, dans les bureaux de la revue conservatrice The National Interest, (voir http://nationalinterest.org/feature/trump-foreign-policy-... ) qu'il n'envisageait pas de nier les différents géopolitiques profonds entre les Etats-Unis et la Russie, nécessitant selon lui que l'Amérique ne baisse pas la garde, y compris et surtout sur le plan militaire. Aussi bien depuis son élection, dans diverses interventions, les buts annoncés par lui ne diffèrent guère de ceux de Barack Obama : restaurer la confiance des alliés traditionnels des Etats-Unis (Israël, Arabie Saoudite), contrer des pays présentés comme militairement menaçants, (Iran, Corée du Nord), reconstruire partout les capacités militaires des Etats-Unis.

Ceci, concrètement, signifie, contrairement à ce que certains observateurs avaient pu penser pas, que Trump ne laissera pas le champ libre à la Russie en Ukraine, dans la Baltique et dans le Caucase. De même, il ne renoncera pas à une forte présence militaire au Moyen-Orient, même si par ailleurs il avait annoncé sa volonté de déléguer en partie à la Russie la lutte contre l'Etat islamique en Syrie.

Un "reset" très limité

Le projet de nouveau départ avec la Russie (reset) c'est-à-dire une réconciliation, annoncé par Trump à la satisfaction d'électeurs populaires lassés par 20 ans de guerre visant directement ou indirectement les intérêts russes, risque de rester un élément de langage. La réalité est que les Etats-Unis ont des réseaux d'alliance solides qui excluent la Russie ou qui, plus exactement, sont dirigés contre elle.

Ainsi, concernant l'Otan, Trump n'a jamais annoncé qu'il renoncerait à faire de celle-ci l'instrument d'un « containment » toujours plus ambitieux de la Russie. Il n'a jamais indiqué par ailleurs qu'il cesserait de participer à la défense de l'Europe, face à une pourtant bien hypothétique agression militaire russe. Il a seulement indiqué qu'il exigerait une meilleure répartition du coût financier de l'Otan, en demandant aux membres de celle-ci de prendre désormais en charge l'essentiel de l'effort militaire américain en Europe. Pour cela il considère implicitement que les Etats européens doivent porter à 2% du PIB leurs budgets nationaux de défense.

Quant aux batteries de missiles (défensifs ou offensifs, à la demande) installées en Roumanie, en Tchéquie et en Pologne, le candidat Trump les avait revendiqué comme essentielles à la défense des intérêts américains. Chacun sait, Vladimir Poutine le premier, que sous couvert d'une défense contre une très improbable attaque iranienne, il s'agit d'éléments essentiels d'éventuelles attaques, éventuellement avec des armes nucléaires tactiques, contre les dispositifs russes.

Les cris d'alarme que poussent à qui mieux mieux actuellement les pays européens, notamment en Allemagne et ceux de l'Europe de l'est plus impliqués dans l'Otan, face à un éventuel abandon américain, relèvent seulement de l'intoxication anti-russe. Certes, Dmitry Peskov, porte-parole de Poutine, avait récemment déclaré que pour reconstruire les relations Washington-Kremlin, Trump devrait demander à l'Otan de cesser d'accumuler des forces militaires à la frontière russe. Durant sa campagne, Trump avait pu laisser penser qu'il partageait ce point de vue. Mais pour le moment, il ne dit plus rien de semblable. ( voir http://www.zerohedge.com/news/2016-11-12/nato-panics-puti...)

Quant au Moyen-Orient, le rapprochement espéré entre les Etats-Unis de Trump et la Russie de Poutine pourra-t-il se réaliser au nom de la lutte contre l'Etat islamique (EI) et le terrorisme ? Les annonces avaient en effet été très remarquées. le candidat Trump ayant déclaré disposer d'un plan pour éradiquer l'EI et souligné la communauté d'intérêts avec la Russie dans ce domaine. Mais on ne voit pas comment le président Trump pourrait renoncer à soutenir les appuis traditionnels des intérêts américains dans la région, notamment l'Arabie Saoudite et la kyrielle de pétro-monarchies que celle-ci a rassemblé derrière elle.

Comment pourra-t-il leur faire accepter qu'il cesse de rechercher la chute de Bashar al Assad, en tolérant de facto un front chiite dans la région, comprenant outre la Syrie, le Hezbollah et surtout l'Iran? Comment pourra-t-il renoncer à présenter les bases militaires russes en Syrie comme un danger majeur, tant pour les alliés de l'Amérique que pour celle-ci.

Il ne faut pas être grand expert pour penser que derrière de bonnes paroles de part et d'autre, que pourrait conforter rapidement une réunion de travail avec Poutine, rien de sérieux ne se produira pour pacifier en profondeur et durablement les relations entre l'Amérique et la Russie.

Il faut certes attendre pour juger. Mais il serait très imprudent de trop en espérer.

vendredi, 18 novembre 2016

Recomposition médiatique en vue

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Recomposition médiatique en vue

Stéphane Montabert
Suisse naturalisé, Conseiller communal UDC, Renens
Ex: http://www.lesobservateurs.ch
 

L'élection de Donald Trump pourrait bien avoir un effet inattendu sur la composition du paysage médiatique, de ce côté de l'Atlantique.

Aux États-Unis, les médias mainstream n'en finissent pas de s'excuser de ne pas avoir vu venir la victoire du milliardaire républicain. Si une image vaut mille mots, une petite vidéo vaut un album photo entier.

Malgré tout, leurs excuses sonnent faux: aucun journaliste n'a démissionné ou été licencié suite aux résultats électoraux. Les éditorialistes en place continuent de vomir sur le Président Trump alors qu'il n'est même pas encore entré en fonction. Nous assistons à la même dérive sur le Vieux Continent, qui, à sa décharge, se contente souvent de reprendre les reportages tournés par les collègues. Le suivisme est tel que c'en est à se demander à quoi servent tous ces "envoyés spéciaux" sillonnant le pays à grands frais.

Les reportages mettent donc l'accent sur la déception des Démocrates, les émeutes - largement artificielles - de ceux qui rejettent les résultats de l'élection, les dangers du programme de Trump pour la survie de l'humanité, et allouent le reste de leur temps d'antenne à la tournée d'adieu que s'offre le Président Obama avec l'argent du contribuable. On a déjà vu remise en cause plus sincère.

Il n'y a donc pas vraiment de changement de cap à attendre de la part de ces médias, ce qui ne surprendra personne. Mais le paysage médiatique lui-même change. Comme l'avait décelé Charles Gave, "le système de l’information aux USA, le fameux quatrième pouvoir est en train de se scinder en deux groupes violemment hostiles." Côté Clinton, la presse officielle ; côté Trump, les nouveaux acteurs comme Zero Hedge, Breitbart ou des réseaux comme Reddit. "Et nous assistons à une véritable guerre à mort entre les deux systèmes, qui continuera bien après que l’élection présidentielle ait eu lieu."

La guerre continue mais pourrait bien s'achever tantôt avec la victoire de Trump, infligeant une grave blessure de crédibilité aux médias périmés. Leur incapacité à se remettre en question ne fera que hâter leur disparition. Aux États-Unis, c'est un fait. Mais désormais, les nouveaux médias se tournent vers l'Europe, et les vieux médias du Vieux Continent glapissent de terreur.

zero-hedge-dot-com-red.pngQue peuvent faire les médias habituels, sachant que toute remise en cause est exclue? La même tactique que d'habitude, essayer de salir les nouveaux venus de façon préventive. L'idée est que le grand public soit préparé à les haïr dès leur arrivée, afin qu'ils soient plus méprisés que regardés.

Reconnaissons que la tactique avait bien fonctionné depuis une dizaine d'années avec Fox News. La première chaîne d'information américaine de Rupert Murdoch avait gagné des parts de marché en proposant des nouvelles "équilibrées" au grand public, en demandant par exemple leurs commentaires tant à des invités démocrates que républicains sur un point de l'actualité. Le slogan de la chaîne - fair and balanced - impliquait un équilibre loin du parti-pris ouvertement démocrate adopté par ses concurrentes. Quelle nouveauté dans le paysage télévisuel! Cela n'empêcha pas Fox News d'être anti-Trump dans sa couverture des élections présidentielles 2016, notamment par le biais de sa présentatrice vedette Megyn Kelly. Et cela n'empêcha pas les journalistes européens de continuer à la présenter comme "conservatrice", voire "ultra-conservatrice"...

Aujourd'hui encore, l'opinion d'un individu sur la chaîne est un puissant marqueur de connaissance sur les médias américains. L'épithète "conservateur" accolé à Fox News est révélateur de quelqu'un qui ne fait que répéter ce qu'on lui a mis dans la tête.

Mais ces péripéties dans la désinformation amènent les journalistes à un autre problème, la surenchère. Si une chaîne neutre voire consensuelle comme Fox News leur paraît déjà "ultra-conservatrice", comment qualifier un site corrosif comme Breitbart News? Méga-conservateur? Ultra-ultra-conservateur? Les rédactions travaillent d'arrache-pied sur cette épineuse question de vocabulaire. En attendant qu'un nouvel adjectif émerge, on présente Breitbart comme "le bras médiatique de Trump", "un site réac et raciste", "la machine de propagande de Trump"...

Certes Breitbart News a un style tabloïd et l'assume complètement, mais c'est aussi un site extrêmement populaire. L'Express est bien obligé de l'admettre:

Depuis son lancement, Breitbart News réussit à plusieurs reprises à embarrasser les démocrates: lorsque le site dévoile, en 2009, la vidéo d'une fonctionnaire noire, Shirley Sherrod, dans laquelle elle tient des propos anti-blanc. Quand, en 2011, Andrew Breitbart, un an avant sa mort, joue un rôle majeur dans la publication des sextos d'Anthony Weiner, démocrate élu à la chambre des représentants et pressenti pour devenir maire de New York.

Des coups d'éclat qui lui ont permis d'acquérir un véritable succès d'audience: avec ses 37 millions de visiteurs uniques par mois, Breitbart News a aujourd'hui les moyens de ses ambitions. Bannon se vante, lors d'une interview donnée à Bloomberg, de pouvoir laisser ses journalistes enquêter durant plusieurs mois, tandis que les autres rédactions traditionnelles ne le peuvent plus.

breitbart_logo-e1457981085344-300x197.jpgSteve Bannon, le directeur exécutif de Breitbart News, a été récemment nommé directeur de la stratégie et conseiller du Président Trump par ce dernier. Pas possible donc de défausser le site comme le travail de ploucs illuminés sortis de nulle part.

Breitbart News a bien l'intention de partir à la conquête de l'Europe. Une version anglaise a servi à plaider pour le Brexit, et une version française est à l'étude, présageant notamment d'une collaboration avec Marion Maréchal-Le Pen.

Ce n'est pas la première fois que des médias venus d'outre-Atlantique s'implantent en Europe ; pensons au Huffington Post ou au très gauchiste Slate. Les sites de Réinformation ont aussi le vent en poupe, qu'ils soient qualifiés de "droite pamphlétaire", de "réacosphère" voire de "fachosphère". Mais c'est la première fois que des acteurs majeurs à la fois politiquement incorrects et dotés d'une réelle force de frappe financière s'apprêtent à entrer sur le marché médiatique européen.

Le succès sera-t-il au rendez-vous? On peut imaginer que oui. Ces gens n'ont rien de philanthropes. S'ils veulent désormais tant s'implanter en Europe, c'est parce qu'il y a une demande. Environ la moitié de l'électorat est méprisée, dénigrée et tancée par les médias traditionnels à force de ne pas comprendre comme il faut, de ne pas voter comme il faut.

C'est un énorme marché.

Sur ce dossier, la Suisse est à la croisée des chemins ; tant que dure la redevance obligatoire, la RTS et ses affidés sont à l'abri de toute remise en question. Mais il n'en sera pas de même de la presse régionale et, naturellement, les médias en ligne. On peut donc s'attendre à de gros changements de ton dans les publications qui veulent survivre ; à défaut, les Suisses continueront à se tourner, toujours plus nombreux, vers les sites de Réinformation.

Stéphane Montabert - Sur le Web et sur Lesobservateurs.ch, le 16 novembre 2016

Raqa: Trump contre Obama ?

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Raqa: Trump contre Obama ?

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Dans un article daté du 8/11, c'est-à-dire avant l'annonce du succès de Donald Trump face au duo Clinton-Obama, nous indiquions que les Etats-Unis voulaient participer directement à la prise de Raqa afin de contrer l'alliance entre Damas et la Russie en évitant qu'elle intervienne à Raqa comme elle l'a fait avec succès dans la reconquête d'Alep. 1)

Nous écrivions  "Dans le cas très probable d'une victoire à Raqa, ... une partie du territoire syrien tomberait sous le contrôle de forces rebelles soutenues par les Etats-Unis. Sans doute aussi s'y joindraient des troupes au sol américaines, comme en Irak mais sur une plus grande échelle. Les Etats-Unis auraient donc repris pied en Syrie où ils contesteraient aux Russes le monopole militaire. Le silence du gouvernement russe devant cette éventualité s'explique sans doute par le fait que Moscou la considère inévitable, sauf à s'engager dans des opérations pouvant déboucher sur un affrontement militaire direct avec les Etats-Unis".

Or manifestement, bien des choses sont en train de changer avec la victoire de Trump. D'après la source israélite DEBKA file, généralement bien informée, Trump n'aurait pas attendu d'être officiellement intronisé à la Maison Blanche pour envoyer en Syrie des émissaires issus de l'Armée américaine et favorables à sa cause. 2)

L'objectif en serait double: obtenir des Turcs qu'ils ne laissent pas l'armée irakienne et les milices kurdes ralliées aux Etats-Unis prendre Raqa sans intervenir eux-mêmes avec leurs forces - concrétiser la volonté affichée de Trump de se rapprocher de la Russie dans la lutte contre l'Etat islamique. La perspective du futur accord américano-russe sur ce terrain pousserait aujourd'hui les Russes à sortir de leur réserve prudente à Raqa. Le trio Donald Trump, Vladimir Putin et Recep Tayyip Erdogan serait ainsi décidé à ne plus laisser les Américains d'Obama prendre sans eux sinon contre eux la ville de Raqa.

L'engagement des Russes iraient jusqu'à bombarder les convois d'armes qu'Obama fait envoyer actuellement de Bagdad au profit des milices kurdes syriennes du Parti de l'union démocratique PYD dont d'ailleurs d'autres leaders kurdes indiquent qu'il ne représente pas la totalité du « peuple kurde ».

Dans ces conditions, Raqa serait repris à l'Etat islamique par les forces turques soutenues par l'aviation russe, ceci dans le cadre de la nouvelle alliance américano-russe contre le terrorisme au Moyen-Orient. Par ailleurs, Alep serait aussi complètement conquis par les Syriens, avec l'appui là encore des Russes. Ceci d'ailleurs alors que la prise de Mossoul par les Irakiens soutenus par Obama semble s'éterniser, face aux résistances islamistes.

Conclusions provisoires

Plusieurs conclusions, avec la prudence qui s'impose, pourraient être tirées de ces évènements:

- Au moins dans la question du Moyen-Orient, Trump bénéficierait de l'appui de l'armée américaine, ou d'une partie de celle-ci, dans son projet de négocier des accords avec Poutine. Comme nous l'avions indiqué dans un autre article 3) ce ne sera sans doute pas le cas dans des perspectives plus globales. Mais qui sait, si Trump décide de s'engager à fond dans ce sens? Son intervention actuelle dans la question de Raqa serait de bonne augure.

- L'accord stratégique entre la Turquie de Erdogan et la Russie, qui ne semblait pas jusqu'à ce jour complètement acquis, serait ainsi confirmé - avec le consentement la encore de Trump du côté américain.

- Indirectement, la nouvelle politique diplomatique américaine, initialisée par Donald Trump, se traduirait par un revirement américian vis-à-vis de la Turquie. L'Amérique cesserait notamment de soutenir le prêcheur islamiste Fethullah Gülen, proche des plus radicaux des Frères musulmans, qu'elle abrite encore sur son territoire.

-  Le ton relativement favorable des Israéliens à l'égard de Donald Trump, qui transparait dans l'article cité ici de DEKFAfile, laisser penser que Tel Aviv craint moins qu'auparavant le rôle de Moscou en Syrie, lequel avait été suspecté de vouloir renforcer l'influence des Iraniens et du Hezbollah au Moyen-Orient. Ceci dans la mesure où Trump pourrait jouer dans cette partie du monde un rôle de médiateur entre les Israéliens, les Russes et les autres acteurs.

- Obama va rencontrer prochainement, dans sa tournée d'adieu en Europe, les dirigeants allemands et français. Ceux-ci devraient, en bonne logique, lui demander de cesser d'intervenir pendant les deux prochains mois pour contrer la volonté de Trump de se rapprocher de la Russie.

- Restera à voir enfin si la volonté de Trump de se rapprocher des Russes dans la lutte contre le terrorisme ne sera pas rapidement bloquée par le complexe militaro-industriel américain, dont la préparation d'une guerre contre la Russie est depuis 50 ans la raison d'être.

Notes

1) Les Américains à Raqa http://www.europesolidaire.eu/article.php?article_id=2359...


2) Obama hits Trump tie with Putin, Erdogan on Syria http://www.debka.com/article/25776/Obama-hits-Trump-tie-w...

3) http://www.europesolidaire.eu/article.php?article_id=2365...

4) Voir dans le même sens l'article de Dedefensa http://www.dedefensa.org/article/trump-deja-actif-en-syri...

jeudi, 17 novembre 2016

Préparation d'un «coup d'Etat» contre Donald Trump

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Préparation d'un «coup d'Etat» contre Donald Trump

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Nous mettons des guillemets au terme, car il est peut-être un peu prématuré de parler d'un coup d'Etat. Néanmoins ce qui se prépare contre Trump y ressemble beaucoup.
L'objectif visé par les comploteurs, venus essentiellement des soutiens de Hillary Clinton au sein du Parti Démocrate et plus généralement au sein de l'oligarchie politico-économique qui l'avait promue, est dans un premier temps d'obtenir l'invalidation de l'élection de Trump. On a parlé d'une procédure de destitution (impeachment) qui serait enclenchée par les forces anti-Trump au motif que celui-ci tiendrait des propos non politiquement corrects ou prendrait des décisions anti-constitutionnelles. Mais la procédure est trop lourde pour pouvoir être engagée rapidement.

La formule la plus rapide et la plus immédiate consisterait à obtenir un vote anti-Trump des Grands Electeurs en charge de valider définitivement le président élu. Dans le système électoral américain, à peu près incompréhensible en Europe, ce n'est pas le nombre total des voix obtenues par les candidats au plan national qui compte, mais dans chaque Etat celui des voix obtenues par les représentants des deux candidats, dits Grands électeurs, lesquels élisent ensuite définitivement, quelques semaines après, le président.

Une pétition visant à obtenir des Grands Electeurs qu'ils ne valident pas l'élection de Trump a été lancée. Elle pourrait recueillir des millions de voix. Le prétexte en est que Trump a obtenu moins de votes populaires que Clinton. C'est actuellement vrai mais le décompte n'est pas fini, et il reste à peu près 7 millions de votes, dont ceux des militaires estimés à 80% en faveur de Trump. Par ailleurs la présomption de fraudes multiples concernant le vote et le décompte des voix, en provenance du camp Clinton, paraît tout à fait fondée.

Ces millions de voix qui contestent l'élection de Trump proviennent de milieux sociaux favorisés, tenant à garder leurs privilèges. Pour eux Trump représente l'électorat pauvre, qui n'est d'ailleurs pas seulement blanc ou masculin, provenant des zones industrielles en déshérence du fait de la mondialisation (le « Rust Belt »). Dans le vocabulaire français, ces électeurs pauvres seraient considérés comme représentant la gauche, et les électeurs favorisés la droite. Autrement dit, la pétition et plus généralement les efforts du parti Clinton pour faire invalider l'élection de Trump seraient considérés comme l'amorce d'un coup d'Etat de la droite et de l'extrême droite contre un Trump se situant, qu'il le veuille ou non, à gauche.

Mais l'establishment a réussi, à coup de campagnes d'opinions largement financées par les riches entrepreneurs, notamment à travers la fondation dite Democracy Alliance du milliardaire Soros, à faire passer Hillary Clinton comme la candidate des pauvres, des noirs, des femmes, tandis que Donald Trump est renvoyé du côté des fascistes, sinon des nazis. Depuis quelques jours, des manifestations de rues importantes, comprenant des jeunes, des femmes, des noirs et des hispaniques, tous provenant de milieux sociaux favorisés (comme cela est facile à voir sur les photographies de presse), sont organisées pour protester contre l'arrivée de Trump à la Maison Blanche. Elles sont largement applaudies en Europe et notamment en France, où les médias ont toujours été les défenseurs aveugles d'une Hillary Clinton corrompue, belliciste et anti-russe.

Nul évidemment ne fait valoir que si le même argent avait été employé pour organiser des manifestations pro-Trump, notamment dans le Rust Belt, les manifestants auraient été probablement plus nombreux et plus convaincants., même si moins bien vêtus et s'exprimant moins aisément.

Une guerre de classe

La parti Clinton, s'il ne réussit pas à faire invalider l'élection de Trump, s'efforcera d'encourager les mouvements sécessionnistes dans les Etats, tels la Californie, où l'establishment local a toujours été acquis au système. Ceci pourrait susciter des difficultés pour le président Trump, qui sera accusé d'avoir provoqué de nouvelles guerres de sécession aux Etats-Unis. Nul ne fera remarquer que sous Obama, c'étaient dans les Etats pauvres, victimes du système, que des mouvements sécessionnistes avaient commencé à prendre de l'importance.

Tout ceci montre bien qu'une véritable guerre de classe, comme auraient dit les marxistes des années 50, est engagée entre les favorisés et les non favorisés, entre l'aristocratie sociale et le prolétariat. Ceci à propos de l'élection du milliardaire Trump, qui s'est inscrit par une sorte de prescience politique à la tête du prolétariat.

Cette guerre ne fait que commencer. Trump ne la gagnera peut-être pas, compte tenu de l'importance des forces financières, économiques et politiques qui se mobilisent contre lui. Peut-être sera-t-il assassiné, peut-être sera- t-il victime d'une « sale affaire » l'impliquant, montée de toutes pièces par l'establishment. Celui-ci sait y faire en matière de « regime change » provoqué dans les pays dont les gouvernements lui déplaisent. Il doit maintenant considérer que le temps est venu pour qu'il déploie ce savoir faire en Amérique même.

 

Guillaume Durocher - Trump Victory: Impact on America & Europe

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Guillaume Durocher - Trump Victory: Impact on America & Europe

Guillaume Durocher is a French political writer and historian. He has lived in many European countries and worked in politics and journalism. He writes for several Alt-Right publications, including The Occidental Observer, Counter-Currents, and Radix.

We begin by discussing the results of the recent election. Guillaume compares Trump’s victory to Brexit, for the mainstream media – through its polls and pundits – failed to accurately predict either. We discuss what this means for not only America, but the West as a whole. Guillaume explains that the American nation-state is now run by a wildcard, and that if Trump drastically alters the course of America, Europe will follow suit. We then discuss Guillaume’s background, including how he became a nationalist. We learn that he was originally an anti-war liberal; questioning the EU, however, led him to then realize the importance of having homogeneous nation-states. The first hour also explores the ongoing culture war in the West, the Jewish community’s response to the Trump phenomenon, and the origins of our current plight.

The members’ hour begins with a consideration of technology. We discuss how the internet has allowed for alternative media to loosen the mainstream media’s control over culture and information. Guillaume correctly points out that Trump, through his condemnation of the mainstream media, has furthered this effect. We then switch gears to consider the big picture. Guillaume argues that it’s okay for those of us in the Alt-Right to disagree about the ideal form of government; what matters, though, is that whichever system we adopt exist solely for the benefit of our people. Guillaume then makes a case for the inclusion of genetics into policymaking decisions, which leads to a discussion on the massive population boom now underway in the third world. The members’ hour also covers the need for willpower and determination, the vulgarization of Western culture, and the tribal nature of fascism.



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WWIII: The Balkan Stage for a Turkey-EU War

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WWIII: The Balkan Stage for a Turkey-EU War

Ex: http://www.katehon.com

The End Of the War Against ISIS

ISIS, which was artificially created to redraw the borders of Middle East, is about to be defeated in Iraq and Syria by the ongoing military operations in Mosul and Raqqa, the center of ISIS. After ISIS’s end, there can be a sort of temporary break in military clashes in the Middle East. Thanks to the military intervention of Russia in support of the Syrian government and the military involvement of Turkey, with the undeclared consent of Russia, to prevent a YPG-led Kurdish corridor in the North Syria and to fight against ISIS, the US’ aim of dissolving the territorial unity of Syria has failed.

The US will have two options: either deepening its efforts to provoke new clashes between Turkey and Iraq, Turkey and Iran, or Turkey and Syria (thanks be to God that US plans to start a war between Russia and Turkey already failed) or changing its focus to another part of Eurasia to spread instability and incite clashes between the regional actors of Eurasia.

The US may select the second option thanks to the balancing and mediating Russian efforts to prevent any direct clashes among the Middle Eastern countries. The Balkans may be the most appropriate candidate for the US due to its geopolitical structure, historical conflicts, and ethnic and religious diversity. The word “Balkan” is a Turkish word which means steep and forested mountains. On the other hand “Bal” means honey and “Kan” means blood in Turkish. Therefore peace and conflict have always coexisted in the Balkans, as the name of the peninsula points out.

An Overview Of Geopolitics In The Balkans

Lying in the east of Europe, the Balkans is inhabited by mostly Slavic and Orthodox nations. With 19 million residents, Romania is the most populated country in the region, but the other countries are all below 10 million and diversified into small countries and ethnicities. In the west the Germans, in the north the Russians, and in the east the Turks surround the peninsula as great nations.

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The recent history of Balkans also confirms the geopolitical truth that the potential actors that can clash or cooperate in the upcoming crisis are the Germans (EU), the Russians, and the Turks. After six centuries of Ottoman rule, the Balkan nations became separated countries. Then Nazi Germany invaded the entire peninsula. After the Second World War, with the exception of Greece, all the Balkan countries were under the influence of the USSR or communism. After the collapse of the iron curtain, by either joining the EU or NATO, most of the Balkan countries fell under the influence of the EU and US.

Greece, Romania, Bulgaria, Croatia and Slovenia are EU members; Turkey, Albania, Serbia, Montenegro, Macedonia and Bosnia-Herzegovina are candidates. On the other hand, Turkey, Greece, Romania, Bulgaria, Albania, Croatia, Slovenia are already NATO members, while Montenegro, Macedonia, and Bosnia-Herzegovina are candidates for NATO membership. Therefore at first glance, the current political situation might seems very united and stable in the region. All the countries are members of NATO and the EU or candidates. But as explained below, the reality on the ground is very different than it appears, and the EU- and US-oriented countries may go to war with each other.

Diversified Ethnicity and the Problems of Religion and Minorities

The US always uses ethnic and religious differences as a tool for provoking instability. Unfortunately ethnicity and religion is a very sophisticated complexity in the Balkans. Bulgarians and all the ex-Yugoslavian nations (Serbs, Montenegrins, Croats, Slovenes, Bosnians, and Macedonians) are Slavic, while Romanians, Greeks, and Albanians have distinct nationalities. The Romanians are Latin origin, the Greeks have Hellenic roots, and the Albanians have genetic ties to Italians. Bulgarians, Serbs, Montenegrins, Macedonians, Romanians, and Greeks are Orthodox, while Croatians and Slovenes are Catholic. Bosnians and two thirds of Albanians are Muslim, the rest being Orthodox.

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Although all the nations in Balkans have independent states, almost all of the countries have internal minority problems. Hungarians living in the west (Transylvania) of Romania constitute 7% (1,4 million) of Romania’s population. Bulgaria also has a 10% Muslim-Turkish (900 thousand) minority. In Greece, there are 250 thousand Macedonians, 370 thousand Albanians, and 200 thousand Muslim Turks. Albanians with a population of 500 thousand constitute 25% of Macedonia’s population and 1.8 million Albanians are living in Kosovo. Montenegro’s population consists of 45% Montenegrins, 29% Serbs, %12 Bosnians, and %5 Albanians. 250 thousand Hungarians live in Serbia. Bosnia and Herzegovina is a loose Bosnian, Croatian, and Serbian confederation. On the Bosnian-Croatian side, 70% of the population is Bosnian and the rest is Croatian, while on the Serbian side 80% is Serbian and the rest is Bosnian.

Historical, Religious, and Ethnic Ties with Turkey and Russia

When the Balkan nations achieved their independence from the Ottoman Empire, starting from the late 19th century and lasting up to 1989, many Turks, Muslim Albanians, and Bosnians immigrated to Turkey. Currently, 12 million people of Balkan origin are living in Turkey. Among immigrants, 7 million are of Turkish origin who immigrated from Bulgaria, Greece, Albania, Macedonia, Kosovo, and Bosnia. Although 2.2 million Bosnians live in Bosnia-Herzegovina, 2 million Bosnians also live in Turkey as a kind of second motherland. Moreover 3.2 million Albanians live in Albania, while as a second motherland 2 million Albanians live in Turkey. Therefore, in Turkey, the Balkan-originated community has a strong lobby and in the government and business cycles is very influential. Moreover, most of them still have strong ties with their relatives in The Balkans.

On the other hand, the Slavic nations have historic, religious, and ethnic ties with Russia. Besides Romanians, Greeks, and Albanians, the rest of the Balkan nations are Slavic in origin. Moreover, besides Croatians, Slovenians, Albanians and Bosnians, the others are of the Orthodox belief. During these peoples’ independence struggle, Russia gave strong support and came to represent an elder brother.

Turkey’s Increasing Potential to Surpass the Balkans

Compared to Turkey, the Balkan countries’ populations are decreasing dramatically. Not only low fertility rates but also migration to developed EU countries have caused the population to decrease. In 1990, the population of Turkey (53 million) was 75% of all the Balkan countries’, while Turkey’s present population (80 million) exceeds all of the Balkan nations combined (63 million) and has reached 125% of the whole Balkans’ population. Economic growth rates are also in favor of Turkey. In 2000, Turkey’s GDP was 107% of that of all the Balkans, and presently the figure has reached 123%, and this despite the fact that the EU member Balkan countries attract EU direct investment and EU funds to restructure national economies. For the top three economies of the Balkans (Greece, Romania, and Bulgaria), Turkey is an important export destination.

Souring Relations between Turkey and the EU

Turkey has souring relations with EU. Although Turkey chose Westernization as a type of modernization at its founding in 1923 and has been a NATO member since 1952, its application for full membership in the EU is still on stand-by. In recent years, Turkish President Recep Tayyip Erdoğan has faced an opposition campaign by the Western media. He is accused of being a dictator even though he won 11 democratic elections in 14 years including municipal, parliamentary, and presidential ones.

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Moreover, even though the Kurdish Workers Party (PKK) is declared a terrorist organization by the EU, their obvious support for Kurdish separatists in Turkey increases anti-EU sentiments among Turks. The PKK cavalierly propagates its views, organizes demonstrations, and is provided financial resources in Europe. The recent arrest of the leader and ten parliamentarians of the PKK-affiliated political party HDP may deteriorate the EU-Turkish relations to an irreparable extent.

Moreover, nine columnists and directors of the pro-Western newspaper Cumhuriyet were also arrested last week under accusations of cooperating with the terrorist organization FETÖ, a US proxy that attempted the coup d’état on July 15th in Turkey. The editor of the newspaper, Can Dündar, has fled to Germany and receives support from Germany.

EU representatives and the foreign minister of Luxembourg have announced their concern over the recent arrests and have even proposed to impose economic sanctions like the ones they have against Russia, arguing that 60% of the foreign investment in Turkey is of EU origin. The Italian prime minister said that Turkey cannot be a member of theEU under these circumstances. Additionally Moody’s and Standard & Poor’s, Western rating companies, lowered Turkey’s rating after the coup d’état, asserting that political instability is on the rise.

On the other hand Turkish President Erdoğan accuses the EU of supporting terrorism in Turkey and the Middle East (PKK, FETÖ and ISIS), attempting to divide Turkey by supporting Kurdish separatists, attempting to overthrow the democratically elected government and president, and spreading Islamophobia and Turkophobia. He has declared that the EU’s attitude is akin to the second phase of World War 1 when Turkey, Syria, and Iraq were divided on the basis of ethnicity and sect.

Turkish Stream

Germany, Turkey and Italy are the top three importers of Russian natural gas. The South Stream project was canceled due to the EU’s blocking two years ago. The new Turkish Stream pipeline for transporting Russian natural gas directly to Turkey, bypassing Ukraine, strengthens Russian-Turkish cooperation and both of their positions against the EU, despite the opposition of US. The possible extension of the Turkish Stream from Greece to Germany and Italy via the Balkans could provide strategic advantage to Turkey and Russia. Therefore, while Russia and Turkey want stability in order to guarantee the route of pipeline, the US might provoke instability and clashes in the Balkans in order to prevent Russia’s increasingly position and block the possible extension of the Turkish Stream pipeline.

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Russia and Turkey’s new military approach

Russia, seeing the encirclement policy of the US, has begun to use hard power as a “preemptive” strategy as seen in Georgia and Ukraine. The military intervention of Russia in Syria is a “policy making” strategy and a clear offer to regional actors to cooperate against the US. On the other hand, Turkey, like Russia, has begun to use hard power, such as in Syria and to some extent in Iraq. Turkey reaped the fruits of the use of hard power through the Turkish-Russian alliance in Syria. Therefore, in order to break encirclement, Turkey, knowing that Russia can offer support against US, would be much more eager to militarily intervene in any conflict in Balkans.

Potential Conflicts

The first potential unrest could be in Bosnia-Herzegovina. Composed of Bosnian-Croatian and Serbian Republics and as a weak confederation founded after the Dayton Peace Agreement, Bosnia’s future mainly depends on the support of the EU. Any change in Serbian politics away from the pro-EU approach could motivate the Serbian side to strive for independence. It is no doubt that an anti-EU movement in Serbia would also affect Montenegro, which has a considerable Serbian population. But the Bosnian-Serbian-Croatian dispute is far away from inciting military clashes due to the artificial creation of the confederation and the lack of a Bosnian army.

Another problem is posed by the Albanians. The desire to establish “Greater Albania” has historic roots among Albanians. Attempts to unite Albania, Kosovo, and the Albanian-populated areas of Macedonia could directly pull Macedonia, Greece, and Serbia into a conflict. On the other hand, Bulgaria will not be silent if Macedonia falls into unrest. It is worth remembering that Macedonia was the cause of the Second Balkan War. The US military base in Kosovo can be the center for US provoking of the Albanians in the region. Moreover, radical Islamic ties dating back to the Yugoslav Civil War and the Kosovo uprising are a perfect starting point for the US to exploit the situation with the use of terrorist attacks.

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Moreover, Turkey has countless disputes with Greece. The Cyprus issue, the Turkish minority in the Western Thrace, and the 12 islands and sea mile disputes in the Aegean Sea are all alarming conflicts that could provoke a military clash between Turkey and Greece. When the US and EU’s pressure on Turkey increased, Erdoğan put the existing conflicts with Greece on the agenda and clearly declared that if the US and EU try to redraw the boundaries in the Middle East, then Turkey will turn to the Balkans and question the boundaries with Greece, and use hard power to solve the disputes if needed. Therefore, if Greece militarily intervenes in any clash arising from the Albanians, Turkey will not be silent.

Concluding Thoughts

Turkey and Russia face political, military, and economic attacks from the US and EU. Both countries are regarded as two great obstacles preventing the West’s domination in Eurasia. The US-backed coup attempt in Turkey, the toppling of the democratically elected government in Ukraine, Russia’s and Turkey’s military intervention in Syria, and Turkey’s military alliance with Russia in Syria have changed the attitudes of Turkey and Russia from using soft power to hard power, from defensive strategies to a preemptive one. In order to set up a new confrontation between Russia and Turkey by exploiting ethnic and religious contradictions and preventing the extension of the Turkish Stream pipeline to Europe in order to block Russia, the Balkans is a very suitable region for the US. Moreover, as seen in the Ukraine case, provoking unrest in the Balkans by attracting Turkish and/or Russian military intervention is a very convenient justification for increasing the US’ military presence and political domination in Europe. Albanians’ desires for unification or the Turkey-Greece border disputes are the most attractive tools for flaring up unrest in the Balkans. If Turkey, as in Syria, can cooperate with Russia in order to preserve stability and peace in the Balkans, then the result of the US’ incitements will not be those intended. Turkey and Russia could not only break the the US’ encirclement, but almost the entire Balkans could be consolidated into a great Eurasian block. 

mercredi, 16 novembre 2016

XAVIER MOREAU: “L’AMÉRIQUE EST UN PEU LA RUSSIE DE 1999-2000”

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XAVIER MOREAU: “L’AMÉRIQUE EST UN PEU LA RUSSIE DE 1999-2000”

Homme d’affaires, cofondateur du site Stratpol et expert en géopolitique, Xavier Moreau s’exprime régulièrement pour TV Libertés. Lors de son passage à Paris, Xavier Moreau a accepté de répondre aux questions de Martial Bild. Il a apporté un regard original et pointue sur l’élection du président Trump et sur l’attitude de la Russie à son égard. Pour ce spécialiste en géostratégie, l’Amérique est un peu la Russie de 1999-2000, il y a la rencontre d’un peuple avec son chef. Dans un second temps, Xavier Moreau consacre une large part de son entretien à l’évocation de la primaire de la droite où les candidats ont, sur la question des relations internationales avec la Russie, des points de vues différents pour ne pas dire antinomiques. Pour l’expert, la ligne de fracture entre souverainisme et libéralisme traverse la primaire de la droite avec d’un côté Poisson-Fillon et dans une moindre mesure Sarkozy et d’un autre côté, Juppé, Le Maire et NKM.

 

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mardi, 15 novembre 2016

Coup de tonnerre dans le ciel européen: le tournant pro-russe?

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Bob Woodward

Ex: http://www.decryptonewsonline.com

La Bulgarie entre en territoire inconnu lundi après la démission de son premier ministre, l'europhile Boïko Borissov, et l'élection dimanche d'un président novice, au discours conciliant vis-à-vis de la Russie.

Le premier ministre conservateur bulgare Boïko Borissov, admirateur déclaré de la chancelière allemande Angela Merkel, a remis sa démission ce lundi au Parlement, deux ans avant la fin de son mandat et au lendemain de l'élection présidentielle. Le vainqueur du scrutin de dimanche, Roumen Radev, 53 ans, n'entrera lui en fonction que le 22 janvier. Mais son programme s'annonce déjà chargé, et des élections législatives semblent inévitables.

radev.jpgLa confortable victoire de Radev - ancien chef de l'armée de l'air soutenu par les socialistes (PSB, ex-communiste) - par près de 60% des suffrages, a sonné comme un désaveu cinglant pour le premier ministre au pouvoir depuis fin 2014, qui soutenait pour sa part la candidature de la présidente du Parlement, Tsetska Tsatcheva. Roumen Radev a notamment bénéficié du mécontentement suscité par le gouvernement de centre-droit dont les efforts en matière de lutte anti-corruption et de réorganisation du secteur public auront été jugés trop lents. Cette victoire traduit également un «contexte international qui encourage la volonté de changement», selon Parvan Simeonov, directeur de l'institut Gallup, qui cite «l'écroulement des autorités traditionnelles en Europe occidentale» et l'élection de Donald Trump, aux États-Unis.

Les premiers pas de Roumen Radev sont attendus sur la scène européenne après la volonté de dialogue avec la Russie manifestée durant sa campagne. Son message anti-immigration et favorable à l'abandon des sanctions européennes contre Moscou a rencontré un écho inattendu parmi les Bulgares à l'heure où l'Union européenne doit composer avec le Brexit et la montée des partis nationalistes. Dès dimanche soir, Roumen Radev a confirmé son engagement à «travailler en vue d'une levée des sanctions» contre la Russie. «L'appartenance de la Bulgarie à l'UE et à l'Otan n'a pas d'alternative, ça ne signifie pas que nous devons nous déclarer ennemis de la Russie», avait-il affirmé durant la campagne.

Dans le système parlementaire bulgare, c'est bien le gouvernement qui définit la politique générale, sur le plan intérieur comme en matière de relations internationales. Le président est quant à lui chef des armées et représente le pays à l'étranger. Cette répartition des compétences fait douter le politologue Antoniy Todorov d'un quelconque tournant prorusse de la Bulgarie, membre de l'Union européenne et de l'Otan: «Il n'y aura pas de revirement en matière de politique étrangère» car «le président n'a pas de tels pouvoirs». Pour Evgueni Daynov, analyste et directeur du Centre de pratiques sociales, «les déclarations du général Radev ont été surinterprétées», et le nouveau président a «un raisonnement européen et pro-atlantique», affirme-t-il.

Sans être antieuropéen, le parti socialiste bulgare, qui a porté la candidature de Roumen Radev, est une formation russophile. Mais il n'est pas donné favori pour les législatives anticipées. Ces élections devraient être organisées à partir de mars 2017. Le parti Gerb de Boïko Borissov est crédité des meilleures chances de victoire.

Igor-Dodon.jpgLa victoire annoncée d’Igor Dodon, candidat ouvertement prorusse à l’élection présidentielle moldave, a bien eu lieu. Dimanche soir 13 novembre, les premiers résultats donnaient au dirigeant du Parti des socialistes moldaves un score de 56,5 %, contre 43,5 % à sa rivale pro-européenne, Maia Sandu. Celle-ci a pu espérer un miracle avec une participation en forte hausse chez les jeunes, mais elle n’améliore que peu son résultat de 38 % obtenu lors du premier tour le 30 octobre. M. Dodon, lui, avait rassemblé 47 % des suffrages.

Signe de la polarisation extrême du scrutin, les deux candidats ont dénoncé, en début de soirée, des fraudes, et le manque de bulletins disponibles pour les nombreux électeurs de la diaspora, réputés plus favorables à l’intégration européenne du pays et donc à Mme Sandu.

Ancien ministre de l’économie et du commerce qui a commencé sa carrière en soutenant le rapprochement de la Moldavie avec l’Union européenne, M. Dodon, 41 ans, entend convoquer « rapidement » un référendum consultatif sur « l’orientation géopolitique » de la Moldavie, qui pourrait menacer l’accord d’association signé entre Bruxelles et Chisinau à la fin de 2013. Cet homme à poigne, président de la fédération nationale d’échecs, voit en Vladimir Poutine un modèle, veut « ramener l’ordre » dans son pays et y défendre les « valeurs traditionnelles », expliquait-il au Monde avant le premier tour, depuis son quartier général de campagne tapissé de clichés le montrant en compagnie du président russe ou du patriarche orthodoxe de Moscou.

« C’est dans l’intérêt de la Moldavie d’avoir des relations proches avec la Russie, mais surtout avec son marché », expliquait-il, alors que le Kremlin a largement fermé la porte aux importations moldaves depuis la signature de l’accord. Moscou est aussi le principal soutien de la République de Transnistrie, amputée au territoire moldave depuis 1991.

Hormis cette menace de référendum, les pouvoirs du président sont limités. Mais le nouvel élu bénéficiera d’une légitimité populaire immense, cette élection étant la première au suffrage universel depuis vingt ans. « Face à une classe politique à bout de souffle, Dodon dispose de des leviers pour faire dérailler le processus d’intégration européenne », estime le politologue Dionis Cenusa. Reste toutefois une incertitude : la volonté russe de s’impliquer en Moldavie. « Moscou veut évidemment conserver de l’influence en Moldavie, estime un diplomate occidental, mais le pays n’a toujours été qu’une pièce rapportée dans l’empire, pour laquelle les Russes ne veulent pas trop investir. Ils en ont déjà assez de devoir financer la Transnistrie. »

Devant l’importance de l’enjeu, plusieurs candidats proeuropéens s’étaient retirés de la course avant même le premier tour, laissant le champ libre à Maia Sandu, figure de la contestation antigouvernementale de 2015 et ancienne ministre de l’éducation formée à Harvard et passée par la Banque mondiale. Sa probité unanimement reconnue – une incongruité dans le paysage politique moldave – n’a pas suffi à combler le déficit de notoriété dont elle souffrait. Mais surtout, le soutien très mou dont elle a bénéficié de la part du gouvernement proeuropéen a soulevé des doutes quant à la réalité de ce ralliement. Pour nombre d’observateurs, l’élite proeuropéenne au pouvoir s’accommoderait mieux d’un président certes prorusse, mais avant tout populiste et en bons termes avec l’oligarchie, que de cette candidate résolument opposée aux pratiques opaques de la classe dirigeante.

Quoi qu’il en soit, la victoire de M. Dodon, en même temps que celle d’un autre candidat prorusse en Bulgarie, sonne comme un coup de tonnerre dans le ciel européen et constitue, s’il en fallait, un nouvel avertissement pour Bruxelles. La désillusion est d’autant plus forte qu’au fil des ans, l’ancienne république soviétique de Moldavie s’était imposée comme le « meilleur élève » du partenariat oriental, et un modèle régional. Le pays a aussi largement bénéficié des fonds européens, Bruxelles lui octroyant plus de 800 millions d’euros pour la seule période 2010-2015. Cela n’a pas empêché le soutien de l’opinion à l’Union européenne, supérieur à 70 % il y a quelques années, de devenir minoritaire.

Les ingrédients de la méfiance moldave sont en partie les mêmes que pour le reste du continent. Après un voyage de Mme Sandu à Berlin, la presse tabloïde avait par exemple assuré que la candidate avait accepté la demande insistante de la chancelière allemande, Angela Merkel, d’accueillir 30 000 réfugiés syriens. A cela s’ajoutent la présence d’une importante minorité russophone (plus de 20 %) et la diffusion importante des télévisions russes, populaires au-delà de cette seule minorité.

Mais l’explication principale du désamour est ailleurs. Elle tient à la faillite des partis politiques proeuropéens, au pouvoir depuis 2009. L’épisode le plus saillant de cette faillite fut la découverte, à la fin de 2014, de la disparition des caisses de trois banques du pays de 1 milliard d’euros, soit 15 % du PIB, qui vont durablement plomber le budget national. Le « casse du siècle » a profondément choqué un pays où 40 % de la population vit avec moins de 5 dollars par jour.

Plus généralement, le champ politique « pro-européen » a été monopolisé par des oligarques corrompus qui ont profité de leur accès au pouvoir pour faire main basse sur de larges pans de l’économie nationale et prendre le contrôle des institutions de l’Etat, en premier lieu la justice. L’un d’eux, Vladimir Plahotniuc, dont le Parti démocrate dirige les différentes coalitions gouvernementales depuis 2009, a focalisé l’essentiel des attaques durant la campagne présidentielle, jusqu’à son vrai-faux ralliement à MmeSandu.

« Ce sont ces gens qui ont décrédibilisé l’idée européenne, tempête un diplomate occidental. L’Europe est devenue ici synonyme de cette prédation organisée. Et les Européens eux-mêmes ont une part de responsabilité, pour les avoir laissé faire leurs affaires au nom de la sacro-sainte stabilité, et parce qu’ils brandissaient un drapeau européen. »

Alexei Tulbure, ancien représentant de la Moldavie à l’Organisation des Nations unies et au Conseil de l’Europe, qui fut un temps dans le parti de M. Plahotniuc, partage cette vision, et évoque même « l’épouvantail » de la menace russe : « Cette opposition géopolitique a été gonflée pour éviter que les sujets délicats soient abordés. Plahotniuc et ses gens vont continuer à jouer de cette menace en tentant de se présenter en uniques recours face aux prorusses. »

Trump, très bien. Mais les Européens doivent se défendre

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Trump, très bien. Mais les Européens doivent se défendre

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Un certain nombre de citoyens et d'homme politiques européens se réjouissent de l'accession de Donald Trump à la Maison Blanche. Ceux qui, en nombre bien plus grand et d'une façon irresponsable, souhaitaient le succès de Hillary Clinton, finissent par se résigner. Mais au lieu de seulement réagir aux péripéties de la vie politique américaine, ils devraient se poser la question de savoir comme les Etats européens feront face à l'Amérique plus agressive économiquement qui devrait résulter de l'application du programme de Trump.

Rappelons que les grandes lignes de ce programme 1), si elles sont appliquées, consistent en un retour à un Etat protectionniste dans le domaine économique, un Etat investisseur en matière notamment de grands travaux, un Etat refusant l'entrée illégale de travailleurs étrangers clandestins. Le tout devrait bénéficier à une diminution des inégalités sociales, avec promotion des classes populaires face aux 1% de dominants.

Rappelons aussi que face à ce programme, les grands intérêts financiers et politiques qui font le coeur de l'Etat profond américain ont décidé de réagir, non pas dans un premier temps en s'opposant à Trump sur le territoire américain, mais en renforçant les processus d'exploitation et de domination qu'ils ont toujours imposés aux Etats Européens, notamment dans le cadre de l'Union européenne (UE).

Ceci veut dire qu'ils tenteront, plus encore qu'actuellement, de supprimer les velléités de protectionnisme face à la concurrence extérieure que ces Etats pourraient avoir pour réagir à une crise qui ne cessera de s'aggraver. Ils combattront parallèlement les tentations de retour à un Etat investisseur et social tel que celui ayant fait le succès de la France après la Libération. Plus que jamais enfin, ils profiteront de leur emprise sur l'UE et sur la zone euro pour faire en Europe ce qui leur sera plus difficile dans l'Amérique de Trump. Ils le feront en s'appuyant sur les « oligarchies» européennes qui ont toujours par intérêt joué leur jeu.

Redéfinir les programmes politiques européens

Les forces politiques européennes, trop rares encore, qui refuseront de voir notre continent faire les frais de la réforme sociétale proposée par Trump à l'Amérique, devront transposer en ce qui concerne l'Europe les solutions découlant du programme de Trump. Ceci voudra dire notamment en revenir au protectionnisme dans les secteurs où celui-ci est devenu indispensable. Il en résultera, sans doute une course aux renforcement des barrières douanières comme aux dévaluations des unités monétaires. Mais s'inscrire dans cette course sera préférable que supporter unilatéralement les mesures protectionnistes qu'adoptera de toutes façons l'Amérique.

Concernant les Etats, résister aux effets du programme de Trump voudra dire en revenir à un Etat capable, directement ou par fonds d'investissement interposés, de recréer une industrie et des services dévastés par le refus d'investissement des conseils d'administrations privés. Il faudra aussi renoncer définitivement à honorer les dettes publiques, le poids de la dette empêchant tout effort d'investissement public. Rappelons que cette répudiation des dettes a toujours fait la force de l'Etat américain, s'appuyant sur la banque fédérale et la suprématie du dollar pour en faire payer le prix aux préteurs étrangers.

Les Européens enfin devront, quels qu'en soient les coûts, relancer les diverses politiques sociales ayant fait la force des Etats dits Providence qui avaient jusqu'ici évité la création d'inégalités excessives entre possédants et non-possédants. Or sous la pression des intérêts financiers internationaux, la plupart de ces politiques sont actuellement dégradées, y compris en Scandinavie.

Se posera alors pour les Européens la question de savoir si l'UE sous sa forme actuelle, pourra être suffisamment réformée pour se débarrasser du poids des intérêts américains et adopter les différentes politiques de protection aux frontières, d'investissements et de transferts sociaux résumées ci-dessus. Ce ne pourra évidemment pas être possible dans le cadre des institutions européennes actuelles. Il faudra que les gouvernements européens s'accordent pour faire de l'UE, à tous les niveaux, la grande puissance diplomatique, politique et économique qu'elle pourrait être dans le cadre d'institutions réformées de type fédéral.

Mais si ceci se révèle impossible, du fait de l'opposition d'Etats comme l'Allemagne ou de ceux de l'Europe de l'Est, qui risqueront longtemps d'être soumis à l'impérialisme américain, il faudra que les forces politiques européennes, principalement celles qui se situent actuellement dans l'opposition, et les gouvernements qu'elles se donneront, acceptent de sortir de l'UE et d'appliquer seuls les réformes que nous évoquons dans cet article.

Ceci bien évidemment voudra pas dire refuser les coopérations sur mesure avec d'autres gouvernements, tant européens qu'appartenant à la zone Brics, dans les nombreux secteurs, tels que le transport, l'espace, la santé ou la recherche scientifique dans lesquels la coopération internationale est préférable à l'isolationnisme.2)

1) Voir "Donald Trump. Espoirs à Main Street, assurance tranquille à Wall Street"
http://www.europesolidaire.eu/article.php?article_id=2362...

2) Sur le sujet des rapports futurs USA-Europe, lire un excellent article du politologue Alexandre del Valle
"Les conséquences géopolitiques de l'élection de Donald Trump : du souhaitable au plus probable" http://www.lasyntheseonline.fr/idees/gouvernance_mondiale/les_consequences_geopolitiques_de_lelection_de_donald_trump_du_souhaitable_au_plus_probable,31,5690.html

Voir son site http://www.alexandredelvalle.com/

 

Extraits choisis de la revue de presse de Pierre Bérard - Novembre 2016 (2)

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Extraits choisis de la revue de presse de Pierre Bérard

Novembre 2016 (2)

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Au sommaire :

Succès de Donald Trump. Slobodan Despot qui a la dent dure et l'humour féroce décrypte. C'est dans L'Antipresse du 13 novembre 2016. Lettre dominicale à laquelle il est possible de s'abonner gratuitement:
 
 
Avec l'élection de Donald Trump sonne l'heure de la revanche pour les ploucs émissaires trop longtemps raillés par les médias de propagande. Elisabeth Lévy rhabille pour l'hiver le monde de l'entre-soi journalistique. Il a certes en ce moment la gueule de bois mais cette douche écossaise ne saurait venir à bout de la servilité des média vis à vis de l'oligarchie. Il est déjà de retours avec ces certitudes en béton, ses experts calibrés, son ton péremptoire et sa moraline dégoulinante :
 
 
Alain-Finkielkraut.jpgAlain Finkielkraut se méfie d'une éventuelle "trumpisation" de l'esprit français. La colère et l'exaspération de ceux qui rejette à juste titre un monde politico-médiatique qui pratique un antiracisme devenu hystérique  ne doit pas les pousser à adopter des porte-paroles aussi ostensiblement incultes et aussi pulsionnels que peut l'être Donald Trump. Certes il faut se réjouir du camouflet administré à la caste qui communie avec arrogance dans le gauchisme culturel, mais faut-il pour autant se fier à un Trump, produit labellisé de la télé-réalité, des jeux vidéo, et des réseaux sociaux.  Sommes-nous condamnés à l'alternative misérables de la "pensée Trump" et de la pensée "Terra-nova" ? Le besoin se fait sentir chez Finkielkraut d'une contre-élite sachant manier les codes de la logosphère tout en étant émancipée de la rhétorique convenue du politiquement correct :
 
 
Pascal Bruckner : "la victoire de Trump, c'est la vengeance du réel" (vidéo) :  
 
 
Dans l'émission I-Media Jean-Yves Le Gallou se livre à une salutaire critique du traitement médiatique des élections américaines. Il ne fut pas seulement partisan mais éhonté et calomnieux. Un véritable naufrage. sur LCI  Christine Ockrent affirme que Trump est antisémite alors que son élection a été saluée par des manifestations de liesse en Israël tandis que BFM assure que Trump dépasse Hitler sur l'échelle de la psychopathie et que France Info insiste sur le fait qu'il est soutenu par le Ku Klux Klan. Les exemples de ces dérives de l'information sont innombrables au point que l'on se demande si les journalistes ne sont pas coiffés de cagoules plus épaisses que celle qu'arborent les chevaliers du Klan. Notre accablement est grand de s'apercevoir que les médias de grand chemin ne parviennent plus même à faire la distinction entre un mensonge crédible et une propagande effrénée. Comme l'écrivait l'éditorialiste du New York Times entamant son mea culpa "Si les médias d'information n'ont pas réussi à présenter un scénario politique basé sur la réalité, alors ils ont échoué dans l'exercice le plus fondamental de leur fonction". "Pour dire les choses crûment, les médias ont raté l'actu. Les journalistes, éduqués à l'université, citadins et pour la plupart progressistes, vivent et travaillent plus que jamais à New York et Washington ou sur la côte Ouest. Ils se sont posés dans la Rust Belt pour quelques jours pour interviewer quelques mineurs de fond ou ouvriers de l'automobile au chômage mais il ne les ont pas pris au sérieux", résume Margaret Sullivan du Washington Post  :
 
http://www.tvlibertes.com/2016/11/11/11279/i-media-s03e39...
 
Brisant les élans de ceux qui se réjouissent trop vite de la victoire de Donald Trump, Gil Mihaely directeur de la publication de Causeur soutient que le nouveau président des États-Unis n'est sans doute pas l'antithèse du système américain mais en représente la dernière chance de survie : 
 
 
Pour Eric Zemmour le facteur sonne toujours deux fois, d'abord le Brexit, puis Trump enfin, au cœur de l'économie-monde qui sert de modèle à toute la planète. Une chronique pleine de sel :
 
 
Jared_Taylor.jpgJared Taylor, responsable du think-tank conservateur American Renaissance montre devant les cameras de Tv-Libertés un visage avenant et des idées judicieuses. Il est interrogé, en octobre, sur l'enjeu des élections présidentielles américaines : 
 
 
Hilary Clinton exige que Trump retire cette vidéo, et l'on comprend pourquoi... Trump y dévoile je jeu d'un système de pouvoir allié à la corruption des médias qui étend son influence sur l'ensemble du monde occidental. Bien entendu cela n'a pas été montré à la télévision française qui a préféré dauber "l'islamophobie", le "sexisme" et la "xénophobie" du personnage ainsi cadenassé dans la cage aux phobes. Pourtant cela aurait sans doute permis de comprendre pourquoi la moitié des électeurs américains ont rallié sa candidature. Mais comprendre et faire comprendre ne fait pas partie de l'agenda médiatique qui préfère s'en tenir à ses stéréotypes et à sa "trumpophobie" :
 
 
Grand entretien à la Revue des deux mondes de Mathieu Bock-Côté, à propos de la victoire de Trump :
 
 
Une caricature du Midi Libre ? Pas tant que ça puisque ce quotidien de la presse régionale illustre au plus haut point, comme les autres, la bienpensance pudibonde, ses interdits et ses opinions recommandées. Les Brigandes l'illustrent avec un talent iconoclaste dans leur dernier clip : 
 
 

lundi, 14 novembre 2016

Trump vainqueur du globalisme coalisé

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Trump vainqueur du globalisme coalisé

par Thomas Ferrier

Ex: http://www.thomasferrier.hautetfort.com

He made it. Donald Trump est devenu le 45ème président des Etats-Unis d’Amérique. Il s'est imposé avec 306 grands électeurs contre 232 seulement pour son adversaire Hillary Clinton, remportant 32 Etats dont certains avec une marge très conséquente (65% dans l’Oklahoma, 63% dans l’Alabama, 59% dans l’Idaho, et 69% en Virginie occidentale), même si son score est inférieur de 0,2% à son adversaire au niveau national, ce qui n’a pas beaucoup de sens aux USA, où certains électeurs républicains ne votent pas dans des États où ils savent que les démocrates sont imbattables (New York, Californie).

Victime d’une campagne de diffamation comme jamais on n’a pu connaître dans l’histoire des USA, une telle attitude ayant été limitée à des candidats très à droite, comme Buchanan ou Duke, alors que Trump est une figure très connue et un entrepreneur respecté, le candidat républicain s’est néanmoins imposé. Il a vaincu non seulement le clan Clinton, qui pensait gagner sans combattre, mais toute l’hyper-classe occidentale qui ne lui donnait aucune chance. François Hollande n’avait même pas prévu de discours au cas où. Et le magazine Newsweek avait préparé à l’avance une couverture et un dossier à la gloire de la future présidente, « Madam President », dont tous les exemplaires ont dû atterrir dans une déchetterie.

Il a obtenu 58% des voix chez les blancs, dont 53% chez les femmes blanches, même si 42% seulement des femmes (toutes origines confondues) ont voté pour lui, même si son score est plus faible chez les jeunes et dans l'électorat des grandes métropoles. C’est un vote identitaire, masculin comme féminin, d’une Amérique qui ne veut pas mourir ni se faire remplacer sur son propre sol. Et Donald Trump incarnait remarquablement le rêve américain, celui d’un homme qui s’est bâti par lui-même et a vaincu tous les obstacles. C’est cette opiniâtreté qui a fait de lui un président. Il n’a jamais renoncé, jamais cessé de croire en son étoile. Les électeurs américains ont rêvé d’une Amérique qu’ils pensaient disparue. Et le temps d’un instant, en votant pour Trump, ils ont eu le sentiment de retrouver leur patrie.

Les minorités ethniques et sexuelles ont bien sûr rejeté Trump. 88% des Noirs, 65% des Asiatiques et des Latinos, 78% des Homosexuels et 71% des Juifs ont voté Clinton. C’était prévu. Même si Trump était le plus favorable à Israël et a été chaudement félicité en conséquence pour son succès par Benyamin Netanyahu, Naftali Bennett et Ayelet Shaked, beaucoup de Juifs américains restent « de gauche ». Mais la perspective de voter Clinton n’a pas enchanté ces électeurs, et beaucoup sont restés chez eux. Leur manque de motivation pour une candidate qu’Obama avait vaincue il y a huit ans aux primaires explique pour partie la victoire de Trump.

Si Trump a été accusé de populisme par son adversaire et par les media du monde entier, alors que seule la Russie semblait s’enthousiasmer pour sa victoire, faisant preuve d’un style percutant, Trump ne s’est jamais aventuré sur des terrains glissants. Il n’a jamais fait preuve de mépris à l’égard de minorités pour lesquelles il savait ne pas pouvoir compter sur le vote. Rien ne permettait objectivement de le qualifier de raciste ou d’extrémiste de droite. La manipulation médiatique a été totale.

Il était prévu qu’une femme devienne président après un noir. Clinton était convaincue qu’elle serait élue. Son seul argument de campagne ? « Je suis une femme. » Comme si cette caractéristique la rendait nécessairement compétente. En revanche le procès en incompétence de Trump fut constamment répété, y compris par le président en exercice Barack Obama. Mais la politique n’est pas un métier. C’est un art. Et à ce jeu Trump a été le meilleur. Il a su séduire et incarner l’Amérique profonde, l’Amérique désespérée qui attendait un sauveur. Il est difficile de savoir s’il sera à la hauteur de cette confiance et s’il ne décevra pas rapidement.

ClintEastwoodSept10TIFF.jpgFace à Clinton donc, mais face aussi aux caciques du parti républicain qui l’ont attaqué à chaque prétendu dérapage, Paul Ryan et John McCain en tête, alors qu’il était désavoué par les Bush et combattu par les néo-conservateurs, et que même Schwarzenegger s’est dégonflé, ne bénéficiant dès lors que du soutien explicite de Clint Eastwood et de Steven Seagal, et du soutien implicite des Stallone, Willis, Norris et autres acteurs des films d’action, il a vaincu. Il a remporté les primaires, humiliant les Kasich et les Jeb Bush. Il a su obtenir le ralliement de Ted Cruz, son adversaire le plus déterminé mais qui, une fois vaincu, s’est montré ensuite d’un soutien sans faille. Il a su conserver le soutien aussi de Priebus, le président du parti républicain, face aux manœuvres des Romney et Ryan qui voulaient au mépris du vote des citoyens le renverser.

Personne ne le pensait capable de gagner les primaires. Personne ne le pensait capable de mener une campagne tambour battant. Personne ne l’imaginait à la Maison Blanche. Sa réussite est un démenti cinglant à tous ces prétendus analystes. Et encore, sans la candidature parasite du libertarien Gary Johnson, la victoire était encore plus humiliante pour Clinton. En effet, six états de plus (Colorado, Maine, Minnesota, Nevada, New Hampshire et Nouveau-Mexique) dont certains démocrates de longue date, n’ont pas été gagnés par Trump de justesse en raison du vote Johnson, que certains républicains appelaient à soutenir. La vague Trump a donc été particulièrement puissante malgré tout. A part les grandes villes comme New York, Washington ou Los Angeles qui se refusèrent nettement à lui, l’Amérique a choisi explicitement Trump.

Les manifestations extrémistes de gauchistes et alter-mondialistes qui refusent de considérer Trump comme leur président, au mépris des traditions américaines et des règles fondamentales de la démocratie, et qui défilent en exigeant son retrait, agacent au plus haut point une Amérique qui a fait son choix. Un choix contre Soros. Un choix contre le globalisme qui détruit les emplois et encourage l’immigration clandestine mexicaine. Pour le meilleur ou pour le pire, l’Amérique a choisi Trump. Et tous doivent l’accepter.

La victoire de Trump que les élites « européennes » décrépies fustigent est pourtant un signe fondamental, un arrêt du globalisme là où il se croyait le plus fort et implanté. C’est une occasion historique, et Poutine ne s’y est pas trompé, de mettre fin à ce projet totalitaire. L’Europe devrait en profiter pour assumer son destin, rompre avec des politiques qui la mènent à un sort funeste, se réconcilier avec la Russie et engager une politique de renaissance de sa civilisation. L’isolationnisme de Trump est un moyen de mettre fin à l’OTAN, qui a perdu toute légitimité d’existence depuis 1991, de calmer les ardeurs manipulées d’une partie de l’Europe de l’Est contre les Russes. Même Le Monde écrit un éditorial intitulé « Europe 1st ». Prenons le au mot.

Thomas FERRIER (Le Parti des Européens).

De quelques solutions à des problèmes actuels…

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De quelques solutions à des problèmes actuels…

Dominique Baettig
Médecin, Ancien Conseiller national
Ex: http://www.lesobservateurs.ch
 

Le Conseil fédéral veut sortir progressivement du nucléaire et sa stratégie énergétique 2050 prévoit le non remplacement des centrales en « fin de vie ». C’est un choix, raisonnable, compte tenu des risques d’accident avec lourdes conséquences, mais aussi hasardeux puisque personne ne connait l’évolution de la croissance économique et démographique imposée par l’Economie. L’hydraulique n’est pas extensible à l’infini et il est fort douteux que les autres énergies renouvelables (éolien, photovoltaïque, hydrogène) puissent boucher les trous des besoins croissants. Et de la migration imposée.

Donner du temps au temps pour ne pas se fragiliser

L’efficacité énergétique, la gestion économe responsable, une meilleure isolation des bâtiments sont sympathiques mais les bons sentiments ne suffiront pas. Les nouvelles technologies du green-business, subventionnées et coûteuses créent de nouveaux besoins en expansion potentielle, sources de profits. Alors l’austérité imposée par l’idéologie globaliste et ses contrôles, la redistribution solidaire par repentance, les arnaques des certificats et taxes carbones ? Non merci. Tant que la croissance infinie et globale restera le modèle obligatoire, il n’y a pas d’issue rapide et le nucléaire doit être utilisé, avec le maximum de garanties de sécurité certes, mais il n’y a pas de vrai choix. Le modèle du Conseil fédéral (qui sera encore là en 2050 pour vérifier ?) est un choix idéologique démagogique de bons sentiments qui n’engage personne en repoussant les délais et faisant des promesses non tenables. L’initiative des Verts qui veut activer encore plus  le rythme, les échéances et fermer déjà trois centrales en 2017 accélère dramatiquement le processus et la transition est juste illusoire à ce tempo. Les risques de pénurie, de dépendance accrue de l’étranger sont trop lourds pour les prendre sans estimation réaliste des risques et des coûts. Il faut exploiter les moyens à disposition jusqu’à ce que des alternatives crédibles fonctionnent. Il faudra sortir un jour du nucléaire, mais tout ceci a un coût et expose à des risques. Il n’y a pas le feu au lac. NON  à la sortie programmée de l’énergie nucléaire des globalistes et idéologues verts.

Relocaliser le choix de l’écologie

La victoire de Trump, soucieux de la Nation américaine et de la classe moyenne sacrifiée par l’idéologie de la gauche moraliste, pleurnicharde et hostile à la liberté de pensée et d’expression, est un excellent signe. L’environnement, la croissance, la migration doivent être gérés localement, dans l’intérêt général, avec l’accord de la population autochtone, selon les principes de la souveraineté « charbonnier est maître chez soi » et ne pas être délégué à des fonctionnaires internationaux ou des multinationales. L’écologie est d’abord un choix de comportement personnel, de respect du cadre de vie dans lequel une communauté vit. La survie de la communauté et son fonctionnement économique sont prioritaires à l’idéologie globale d’uniformisation contrainte.

Le vieillissement de la population et les coûts de placement en milieu médicalisé ou protégé

Les Romands privilégient les offres de soins à domicile, disent les sondages. Tant mieux. Car, nous dit le magazine Bilan, un placement en EMS peut coûter en moyenne dans les 8500 francs mensuels (dans le Jura ça démarre à 5000 frs).80% des résidents des homes ne disposent pas des moyens financiers pour couvrir les frais et se font aider par les pouvoirs publics. Ceux qui ont les moyens les voient  fondre comme neige au soleil. Le résident paie de ses rentes (AVS, AI, 2 ème pilier) et est tenu d’entamer sa fortune si celle-ci dépasse 37500. Il est évident que le vieillissement de la population, l’éclatement des familles traditionnelles va faire exploser les coûts et  rendre le siphonage des économies méthodique. Vente contrainte de maison, d’appartement, disparition des économies de toute une vie, pompage d’héritages, diminution de capitaux mis à la disposition de la formation de la nouvelle génération. Dépendance accrue de l’aide de l’Etat. Il est urgent d’agir pour favoriser vraiment le maintien à domicile, aussi à la campagne, de celles et ceux dont la santé se détériore, l’autonomie se restreint. Soutenir surtout ceux qui font le choix de s’occuper des proches malades et âgés qui restent dans leur cadre de vie. Attention de ne pas laisser siphonner les économies de toute une vie dans des établissements qui vont opportunément offrir de chères prestations indispensables, dans un partenariat public/privé incontrôlable, comme le fait actuellement l’assurance maladie. Avant de vendre des terrains à des établissements qui escomptent  un développement irrésistible de la demande de ce genre de prestations, les autorités devraient d’abord faire des évaluations financières au long terme. NON à la demande, par prudence et besoin de clarification, de la mise à disposition de parcelles communales pour le développement à Delémont de structures destinées à l’accueil des aînés, qui pourraient s’avérer devenir de véritables aspirateurs à finances.

Liberté totale de réunion et d’expression

L’actualité a été marquée par des opérations policières préventives visant à empêcher des rassemblements politiques, conférences et concerts, suspects de ne pas plaire à la gauche moraliste. Trump doit aussi sa victoire au ras le bol du politiquement correct de la gauche qui criminalise, psychiatrise, disqualifie les idées qui ne lui plaisent pas et transforme  ses militants en policiers de la pensée, en dénonciateurs, en justice préventive, en inquisiteurs. La séparation des pouvoirs, c’est dès à présent et toute parole doit pouvoir s’exprimer librement, en démocratie pluraliste, surtout si elle est différente  de l’opinion imposée par l’élite et la classe politique. L’empêcher c’est finalement prendre le risque de faire élire des populistes…Pourquoi pas, après tout. La pensée unique devra  laisser la place à la diversité et à la critique, sous peine de surprises et de ras-le-bol électoraux.

Dominique Baettig,  ancien Conseiller national, militant souverainiste

dimanche, 13 novembre 2016

Trump: vers une révolution de couleur?

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Trump: vers une révolution de couleur?

par Antonin Campana

Ex: http://www.autochtonisme.com

Que se passe-t-il aux Etats-Unis ?  On manifeste à New York, Chicago, Los Angeles, Portland ou Philadelphie. Des routes et des autoroutes sont bloquées. Les forces de l’ordre sont agressées, des biens sont détruits, des effigies de Trump sont brûlées. En Californie, où 61% des électeurs ont voté Clinton, les manifestants font campagne pour que l’Etat devienne un pays indépendant (Califrexit). Bien sûr, il serait présomptueux d’en tirer une conclusion pour le moment, mais certains indices peuvent nous laisser penser qu’on pourrait, peut-être, assister aux premiers balbutiements d’une tentative de révolution de couleur.

Le « soulèvement » auquel nous assistons se déroule en effet selon les techniques qui ont déjà été mises en œuvre en Yougoslavie, Géorgie ou Ukraine : manifestations non violentes (veillées aux bougies…) associées à des actions coup de poing plus ou moins agressives, implication de « stars » faisant office d’autorités morales (ici Whoopie Goldberg, Madonna ou Cher qui incitent ouvertement les manifestants « à se battre »), diabolisation du Président à déchoir ( dénonciation du racisme, du sexisme, de l’homophobie, de la  xénophobie supposés de Trump), utilisation de slogans simplistes (« Not my President », hashtag tweeter #Notmypresident#), refus hypocrite du résultat des élections (sous prétexte que Clinton a recueilli plus de voix que Trump) ,  etc.

Pour Donald Trump, d’ailleurs, ces manifestations sont un « coup monté » par les médias. Mais un coup pour faire quoi ? Trump a été élu, Clinton elle-même l’a reconnu !

Ce n’est pas si simple, car ce n’est pas Trump qui a été élu mais un collège électoral qui doit à son tour nommé le Président. Si sur le papier les délégués de Trump sont majoritaires la Constitution ne leur interdit pas de voter pour Clinton (en 1836, Richard Johnson a ainsi subi la désaffection de 23 électeurs de Virginie). Une pétition appelle d’ailleurs les grands électeurs à voter Clinton le 19 décembre. Elle a déjà reçu plus de deux millions de signatures !

Le Système cherchera à démettre Trump s’il ne se soumet pas. Certaines voix appellent sans complexe à son élimination physique (ainsi de Monisha Rajesh, journaliste au Guardian, qui tweet : « il est temps de tuer le président »), mais le Système n’écartera sans doute pas un processus « démocratique », si celui-ci est possible.

Ainsi, des pressions efficaces sur les grands électeurs, associées à la pression de la rue, pourraient complètement inverser les résultats. Les semaines qui viennent vont être cruciales. Il ne faut surtout pas que les manifestations s’amplifient et dégénèrent. Certains délégués de Trump pourraient y trouver prétexte, au nom de l’unité du pays, à un vote en faveur de Clinton. On assisterait alors à un coup d’Etat, mais gageons que ni Pujadas ni Le Monde n’y trouveront à redire.

Antonin Campana

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Mise à jour 12 novembre

On sait que Trump a dénoncé la participation de « professionnels » dans les manifestations contre sa présidence. De fait, il est facile de trouver sur le site Craigslist (un site américain d’offres d’emplois)  des annonces pour l’embauche d’activistes anti-Trump à la semaine, à temps partiel ou à temps pleins, payés de 15 à 20 dollars l’heure (images ci-dessous, un lien ici à titre d’exemple) ! Les annonceurs comme Working America (cf. notre lien) ou Washington CAN (cf  photo ci-dessous) sont financés par Georges Soros. Washington CAN fait partie du réseau USAction dont Soros est le maître d’œuvre.  

Autre grand organisateur des manifestations, le groupe de pression MoveOn.org qui appelle à la résistance anti-Trump. MoveOrg.org est lui-aussi financé par Soros. Selon David Rhodes, de Fox News, MoveOn.org « possède » le parti démocrate et Georges Soros possède MoveOrg.org.

Tout cela en dit long sur la « spontanéité » des manifestations et sur la bienveillance des médias à leur égard. A suivre…

Combattre Trump : embauche d'activistes à plein temps

Combattre Trump : embauche d'activistes à plein temps

Fight The Trump agenda

Fight The Trump agenda

The Anti-Trump Protesters Are Tools of the Oligarchy

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The Anti-Trump Protesters Are Tools of the Oligarchy

I think I know who they are. They are thugs for hire and are paid by the Oligarchy to delegitimize Trump’s presidency in the way that Washington and the German Marshall Fund paid students in Kiev to protest the democratically elected Ukrainian government in order to prepare the way for a coup.

The organization, change.org, which claims to be a progressive group, but might be a front, along with other progressive groups, for the Oligarchy, is destroying the reputation of all progressives by circulating a petition that directs the electors of the Electoral College to annul the election by casting their votes for Hillary. Remember how upset progressives were when Trump said he might not accept the election result if there was evidence that the vote was rigged? Now progressives are doing what they damned Trump for saying he might do under certain conditions. 

The Western presstitutes used the protests in Kiev to delegitimize a democratically elected government and to set it up for a coup. The protest pay was good enough that non-Ukrainians came from nearby countries to participate in the protest in order to collect the money. At the time I posted the amounts paid daily to protesters. Reports came into me from Eastern and Western Europe from people who were not Ukrainian but were paid to protest as if they were Ukrainians.

The same thing is going on with the Trump protests. CNN reports that “for many Americans across the country, Donald Trump’s victory is an outcome they simply refuse to accept. Tens of thousands filled the streets in at least 25 US cities overnight.” This is the exact reporting that the Oligarchy desired from its presstitutes and got.

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I hope no one thinks that simultaneous protests in 25 cities were a spontaneous event. How did 25 independent protests manage to come up with the same slogans and the same signs on the same night following the election?

What is the point of the protests, and what interest is served by them? As the Romans always asked, “who benefits?”

There is only one answer: The Oligarchy and only the Oligarchy benefits.

Trump is a threat to the Oligarchy because he intends to stop the giveaway of American jobs to foreigners. The jobs giveaway, sanctified by the neoliberal junk economists as “free trade,” is one of the main reasons for the 21st century worsening of the US income distribution. Money that was formerly paid in middle-class wages and salaries to American manufacturing employees and college graduates has been re-routed to the pockets of the One Percent.

When US corporations move their production of goods and services sold to Americans offshore to Asian countries, such as China and India, their wage bill falls. The money formerly paid in middle-class incomes goes instead into executive bonuses and dividends and capital gains to shareholders. The ladders of upward mobility that had made America the land of opportunity were dismantled for the sole purpose of making a handful of people multi-billionaires.

Trump is a threat to the Oligarchy because he intends peaceful relations with Russia. In order to replace the profitable Soviet Threat, the Oligarchy and their neoconservative agents worked overtime to recreate the “Russian Threat” by demonizing Russia.

Accustomed to many decades of excess profits from the profitable Cold War, the military/security complex was angry when President Reagan brought the Cold War to an end. Before these leeches on American taxpayers could get the Cold War going again, the Soviet Union collapsed as a result of a right-wing coup against Soviet President Mikhail Gorbachev.

The military/security complex and their zionist neoconservative agents cooked up “the war on terror” to keep the money flowing to the One Percent. But as hard as the presstitute media worked to create fear of “the Muslim threat,” even insouciant Americans knew that the Muslims did not have thousands of ICBMs carrying powerful thermonuclear weapons capable of destroying the entirety of the United States in a few minutes. Neither did the Muslims have the Red Army capable of overrunning all of Europe in a couple of days. Indeed, the Muslims haven’t needed an army. Refugees from Washington’s wars enabled by Europeans are overrunning Europe. 

The excuse for the annual trillion dollar ($1,000 billion ) military/security budget was missing. So the Oligarchy created “the New Hitler” in Russia. Hillary was the Oligarchy’s principle agent for heating up the new Cold War.

trumpnope.jpgHillary is the tool, enriched by the Oligarchy, whose job as President was to protect and to increase the trillion dollar budget of the military/security complex. With Hillary in the White House, the looting of the American taxpayers in behalf of the wealth of the One Percent could go forward unimpeded. But if Trump resolves “the Russian threat,” the Oligarchy takes an income hit.

Hillary’s job as President was also to privatize Social Security in order that her Wall Street benefactors can rip off Americans the way that Americans have been ripped off by the insurance companies under Obamacare.

Those Americans who do not pay attention think, mistakenly, that the FBI cleared Hillary of violating National Security protocols with her email practices. The FBI said that Hillary did violate National Security, but that it was a result of carelessness or ignorance. She got off from the indictment because the FBI concluded that she did not intentionally violate National Security protocols. The investigation of the Clinton Foundation continues.

In other words, in order to protect Hillary the FBI fell back on the ancient common law rule that “there can be no crime without intent.” (See PCR and Lawrence Stratton, The Tyranny of Good Intentions.)

One would think that protesters if they were legitimate, would be celebrating Trump’s victory. He, unlike Hillary, promises to reduce tensions with powerful Russia, and we hope also with China. Unlike Hillary, Trump says he is concerned with the absence of careers for those very people protesting in the streets of 25 cities against him.

In other words, the protests against the American people for electing Trump as their president are pointless. The protests are happening for one reason only. The Oligarchy intends to delegitimize the Trump Presidency. Once President Trump is delegitimized, it will be easier for the Oligarchy to assassinate him. Unless the Oligarchy can appoint and control Trump’s government, Trump is a prime candidate for assassination.

The protests against Trump are suspicious for another reason. Unlike Hillary, Obama, and George W. Bush, Donald Trump has not slaughtered and dislocated millions of peoples in seven countries, sending millions of refugees from the Oligarchy’s wars to overrun Europe.  

Trump earned his fortune, and if by hook or crook, not by selling US government influence to foreign agents as Bill and Hillary did.

So what are the protesters protesting?

There is no answer except that they are hired to protest. Just as the Maidan protesters in Kiev were hired to protest by US and German-financed NGOs.

The protests in Kiev were equally pointless because presidential elections were only months away. If Ukrainians really believed that their president was conspiring with Russia to keep Ukraine from becoming a Western puppet state and wished to become a puppet state regardless of the costs, the opportunity to vote the government out was at hand. The only reason for the protests was to orchestrate a coup. The US did succeed in putting their agent in control of the new Ukrainian government as Victoria Nuland and the US ambassador in Kiev confirmed in their telephone conversation that is available on the Internet.

The Maidan protests were pointless except for making a coup possible. The protests were without any doubt arranged by Washington through Assistant Secretary of State Victoria Nuland, a neoconservative brought into the State Department by Hillary Clinton for the purpose of creating conflict with Russia.

Trump is being protested in order to make him vulnerable in the event he proves to be the threat to the Oligarchy that he is thought to be.

Trump won the presidency, but the Oligarchy is still in power, which makes any real reforms difficult to achieve. Symbolic reforms can be the product of the contest between President Trump and the oligarchs.

Karl Marx learned from historical experience, and Lenin, Stalin, and Pol Pott learned from Karl Marx, that change cannot occur if the displaced ruling class is left intact after a revolution against them. We have proof of this throughout South America. Every revolution by the indigenous people has left unmolested the Spanish ruling class, and every revolution has been overthrown by collusion between the ruling class and Washington.

Washington has conspired with traditional elites to remove the elected presidents of Honduras on a number of occasions. Recently, Washington helped elites evict the female presidents of Argentina and Brazil. The presidents of Venezuela, Ecuador, and Bolivia are in the crosshairs and are unlikely to survive. Washington is determined to get its hands on Julian Assange. To achieve this Washington intends to overthrow the Ecuadoran government that, in defiance of Washington, gave Julian Assange political asylum.

Hugo Chavez had the power to exile or to exterminate the Spanish ruling class in Venezuela when the ruling class participated in a CIA coup against Chavez. But before the CIA could kill Chavez, the people, and the military forced his release. Instead of punishing the criminals who would have murdered him, Chavez let them go.

According to Marx, Lenin, and Stalin, this is the classic mistake of the revolutionary. To rely on good will from the overthrown ruling class is the certain road to the defeat of the revolution.

Latin American has proved itself unable to learn this lesson: Revolutions cannot be conciliatory.

Trump is a dealmaker. The Oligarchy can permit him the sheen of success in exchange for no real change.

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Trump is not perfect. He might fail on his own. But we should back him on the two most important elements in his program: to reduce tensions between the major nuclear powers, and to halt Washington’s policy of permitting globalism to destroy Americans’ economic prospects.

If tensions between nuclear powers worsen, we won’t be here to worry about other problems. The combination of the economy hollowed out by globalism and immigration is an economic nightmare. That Trump understands this is a reason to support him.

Note: Some believe that Trump is a ruse conducted by the Oligarchy. However, as Hillary is the bought-and-paid-for representative of the Oligarchy, such an elaborate ruse is unnecessary. It is preferable for the Oligarchy to win on its own platform than to install a president on the opposite platform and then change him around. Another sellout increases the anger of the people. If Hillary had won, the Oligarchy would have had the voters’ mandate for their platform.

The Best of Paul Craig Roberts

Paul Craig Roberts, a former Assistant Secretary of the US Treasury and former associate editor of the Wall Street Journal, has been reporting shocking cases of prosecutorial abuse for two decades. A new edition of his book, The Tyranny of Good Intentions, co-authored with Lawrence Stratton, a documented account of how americans lost the protection of law, has been released by Random House. Visit his website.

The Clintons and Soros launch America’s Purple Revolution

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The Clintons and Soros launch America’s Purple Revolution

By Wayne Madsen

Ex: http://www.strategic-culture.org

Defeated Democratic presidential candidate Hillary Rodham Clinton is not about to «go quietly into that good night». On the morning after her surprising and unanticipated defeat at the hands of Republican Party upstart Donald Trump, Mrs. Clinton and her husband, former President Bill Clinton, entered the ball room of the art-deco New Yorker hotel in midtown Manhattan and were both adorned in purple attire. The press immediately noticed the color and asked what it represented. Clinton spokespeople claimed it was to represent the coming together of Democratic «Blue America» and Republican «Red America» into a united purple blend. This statement was a complete ruse as is known by citizens of countries targeted in the past by the vile political operations of international hedge fund tycoon George Soros. 

The Clintons, who both have received millions of dollars in campaign contributions and Clinton Foundation donations from Soros, were, in fact, helping to launch Soros’s «Purple Revolution» in America. The Purple Revolution will resist all efforts by the Trump administration to push back against the globalist policies of the Clintons and soon-to-be ex-President Barack Obama. The Purple Revolution will also seek to make the Trump administration a short one through Soros-style street protests and political disruption.

It is doubtful that President Trump’s aides will advise the new president to carry out a diversionary criminal investigation of Mrs. Clinton’s private email servers and other issues related to the activities of the Clinton Foundation, especially when the nation faces so many other pressing issues, including jobs, immigration, and health care. However, House Oversight and Government Reform Committee Chairman Jason Chaffetz said he will continue hearings in the Republican-controlled Congress on Hillary Clinton, the Clinton Foundation, and Mrs. Clinton’s aide Huma Abedin. President Trump should not allow himself to be distracted by these efforts. Chaffetz was not one of Trump’s most loyal supporters.

America’s globalists and interventionists are already pushing the meme that because so many establishment and entrenched national security and military «experts» opposed Trump’s candidacy, Trump is «required» to call on them to join his administration because there are not enough such «experts» among Trump’s inner circle of advisers. Discredited neo-conservatives from George W. Bush’s White House, such as Iraq war co-conspirator Stephen Hadley, are being mentioned as someone Trump should have join his National Security Council and other senior positions. George H. W. Bush’s Secretary of State James Baker, a die-hard Bush loyalist, is also being proffered as a member of Trump’s White House team. There is absolutely no reason for Trump to seek the advice from old Republican fossils like Baker, Hadley, former Secretaries of State Rice and Powell, the lunatic former U.S. ambassador to the United Nations John Bolton, and others. There are plenty of Trump supporters who have a wealth of experience in foreign and national security matters, including those of African, Haitian, Hispanic, and Arab descent and who are not neocons, who can fill Trump’s senior- and middle-level positions.

Trump must distance himself from sudden well-wishing neocons, adventurists, militarists, and interventionists and not permit them to infest his administration. If Mrs. Clinton had won the presidency, an article on the incoming administration would have read as follows:

«Based on the militarism and foreign adventurism of her term as Secretary of State and her husband Bill Clinton’s two terms as president, the world is in store for major American military aggression on multiple fronts around the world. President-elect Hillary Clinton has made no secret of her desire to confront Russia militarily, diplomatically, and economically in the Middle East, on Russia’s very doorstep in eastern Europe, and even within the borders of the Russian Federation. Mrs. Clinton has dusted off the long-discredited ‘containment’ policy ushered into effect by Professor George F. Kennan in the aftermath of World War. Mrs. Clinton’s administration will likely promote the most strident neo-Cold Warriors of the Barack Obama administration, including Assistant Secretary of State for European and Eurasian Affairs Victoria Nuland, a personal favorite of Clinton».

President-elect Trump cannot afford to permit those who are in the same web as Nuland, Hadley, Bolton, and others to join his administration where they would metastasize like an aggressive form of cancer. These individuals would not carry out Trump’s policies but seek to continue to damage America’s relations with Russia, China, Iran, Cuba, and other nations.

Not only must Trump have to deal with Republican neocons trying to worm their way into his administration, but he must deal with the attempt by Soros to disrupt his presidency and the United States with a Purple Revolution

No sooner had Trump been declared the 45th president of the United States, Soros-funded political operations launched their activities to disrupt Trump during Obama’s lame-duck period and thereafter. The swiftness of the Purple Revolution is reminiscent of the speed at which protesters hit the streets of Kiev, the Ukrainian capital, in two Orange Revolutions sponsored by Soros, one in 2004 and the other, ten years later, in 2014.

As the Clintons were embracing purple in New York, street demonstrations, some violent, all coordinated by the Soros-funded Moveon.org and «Black Lives Matter», broke out in New York, Los Angeles, Chicago, Oakland, Nashville, Cleveland, Washington, Austin, Seattle, Philadelphia, Richmond, St. Paul, Kansas City, Omaha, San Francisco, and some 200 other cities across the United States. 

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The Soros-financed Russian singing group «Pussy Riot» released on YouTube an anti-Trump music video titled «Make America Great Again». The video went «viral» on the Internet. The video, which is profane and filled with violent acts, portrays a dystopian Trump presidency. Following the George Soros/Gene Sharp script to a tee, Pussy Riot member Nadya Tolokonnikova called for anti-Trump Americans to turn their anger into art, particularly music and visual art. The use of political graffiti is a popular Sharp tactic. The street protests and anti-Trump music and art were the first phase of Soros’s Purple Revolution in America.

President-elect Trump is facing a two-pronged attack by his opponents. One, led by entrenched neo-con bureaucrats, including former Central Intelligence Agency and National Security Agency director Michael Hayden, former Homeland Security Secretary Michael Chertoff, and Bush family loyalists are seeking to call the shots on who Trump appoints to senior national security, intelligence, foreign policy, and defense positions in his administration. These neo-Cold Warriors are trying to convince Trump that he must maintain the Obama aggressiveness and militancy toward Russia, China, Iran, Venezuela, Cuba, and other countries. The second front arrayed against Trump is from Soros-funded political groups and media. This second line of attack is a propaganda war, utilizing hundreds of anti-Trump newspapers, web sites, and broadcasters, that will seek to undermine public confidence in the Trump administration from its outset.

One of Trump’s political advertisements, released just prior to Election Day, stated that George Soros, Federal Reserve chair Janet Yellen, and Goldman Sachs chief executive officer Lloyd Blankfein, are all part of «a global power structure that is responsible for the economic decisions that have robbed our working class, stripped our country of its wealth and put that money into the pockets of a handful of large corporations and political entities». Soros and his minions immediately and ridiculously attacked the ad as «anti-Semitic». President Trump should be on guard against those who his campaign called out in the ad and their colleagues. Soros’s son, Alexander Soros, called on Trump’s daughter, Ivanka, and her husband Jared Kushner, to publicly disavow Trump. Soros’s tactics not only seek to split apart nations but also families. Trump must be on guard against the current and future machinations of George Soros, including his Purple Revolution.

samedi, 12 novembre 2016

Pierre Manent et Natacha Polony: La France post-Charlie

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Pierre Manent et Natacha Polony: La France post-Charlie

Ex: http://lenouveaucenacle.fr

Réflexions sur la France post-Charlie après lecture des essais de Pierre Manent, Situation de la France, Desclée de Brouwer, septembre 2015, et de Natacha Polony, Nous sommes la France, Plon, octobre 2015.

 « Sous le nom de marché mondial, nous avons construit un système d’action que l’on ne peut mieux décrire que comme une Providence artificielle : à la fois la seule chose que nous puissions faire, et le mieux que nous puissions faire, c’est de répondre avec docilité aux indications du marché mondial, chacune d’elles ayant pour elle la force surhumaine du Tout et son autorité. » – Pierre Manent, op. cit.

« Refonder l’école pour revivifier la République.Et revivifier la République pour éviter que la Nation ne se délite. Tel est aujourd’hui le défi qui s’impose à nous. D’abord parce que la remise en cause progressive du pacte républicain à travers la destruction de l’école, le creusement des inégalités, l’éradication de toute forme de méritocratie au profit de la pétrification d’élites oublieuses de leurs devoirs, tout cela ressemble à un nuage de grêle flottant au-dessus du pays et annonçant la catastrophe. » – Natacha Polony, op. cit.

Manent, partant du constat que les attentats de janvier ont été perpétrés pour « venger le prophète » et analysant les réactions consécutives (notamment celles, diverses, des musulmans, divers eux aussi), propose un contrat au groupe social musulman.

Cet automne 2015 ont paru deux essais de qualité sur la France post-Charlie, avec analyses pertinentes et propositions iconoclastes à la clé. Intellectuel majuscule, loin des élucubrations outrées d’une grande partie des intellos médiatiques, Pierre Manent redonne ses lettres de noblesse à la figure décriée, dans notre démocratie de marché, de l’intellectuel, ce frein au business is everything. Manent constate, analyse, propose, questionne, doute. Il n’impose pas de pensée pré-mâchée, au contraire : la lecture de Manent dérange, interroge les certitudes, incite à réfléchir, oblige à l’introspection et à la remise en question… Situation de la France est un essai de haut vol, écrit pour être lu – entendez par là que Pierre Manent ne jargonise pas pour « faire intellectuel », il s’adresse à tous. Le propos de cet essai est fondamental dans le débat public qui nous occupe aujourd’hui. Les attentats de janvier 2015 ont cruellement révélé le délitement de la Nation et mis en avant la problématique de la place de l’islam en France : personne ne peut nier qu’un fossé s’est creusé entre une large partie du groupe social musulman et le reste de la population française ; personne ne peut nier que depuis 1945, rarement la Nation a été aussi divisée, malmenée de l’intérieur, soumise aux feux croisés de ceux qui – communautaristes, mondialistes alter ou non, européïstes[1], libéraux-libertaires… – veulent l’amoindrir à défaut de ne pouvoir la liquider purement et simplement. Manent, partant du constat que les attentats de janvier ont été perpétrés pour « venger le prophète » et analysant les réactions consécutives (notamment celles, diverses, des musulmans, divers eux aussi), propose un contrat au groupe social musulman (qu’il ne baptise pas communauté), leur concédant de conserver l’essentiel de leurs mœurs en échange d’un investissement réel dans la vie de la Nation et du respect des principes fondamentaux de la République.

La question de l’école

Dans un genre différent, la journaliste Natacha Polony revient sur les attentats des 7 et 9 janvier 2015, en recherche les causes profondes, analyse la manifestation du 11 janvier… Après avoir constaté et démontré le déni de réalité de la part de nos élites, à commencer par nos dirigeants, elle propose un état des lieux, une généalogie de ce qui a conduit la France dans cette situation dégradée, et esquisse des solutions fondées sur le retour à la Nation, entendue comme un legs riche du passé et un présent commun, partageant des valeurs et une volonté de progresser ensemble. C’est le seul cadre de la démocratie réelle. Polony se base sur la revalorisation de l’école républicaine pour transmettre cet héritage nécessaire à tout un chacun, au-delà de son origine, pour se sentir Français. Moins iconoclaste et plus attendu de la part d’une journaliste ayant quasi-quotidiennement la parole dans de grands médias nationaux, Nous sommes la France n’en est pas moins un essai intéressant en ce qu’il propose de se baser sur ce qui fait rêver de la France pour restaurer son identité, sa Nation, sa démocratie. On est loin du retour en arrière que ne manqueront pas de dénoncer les professionnels des « heures sombres de notre histoire » sans même avoir lu l’ouvrage.

Chacun à sa manière, Polony et Manent constatent cet abandon de l’État par les élites politiques, économiques, médiatiques.

Autant l’annoncer d’emblée, si la lecture de Pierre Manent a été stimulante et passionnante, nous sommes plus sensibles au propos de Natacha Polony. Manent constate que l’Etat souverain a atteint ses limites, abandonné le spirituel et l’éducation. Il est devenu incapable de comprendre le fait religieux, se bornant à invoquer une laïcité brandie comme un totem, devenue caduque par son impossibilité selon l’essayiste. L’abandon de la transcendance (la Nation pour Polony, le spirituel pour Manent) et de l’éducation sont flagrants. De fait, l’État en France est décrié, délégitimé, par les actes de ses représentants mêmes, ceux qui depuis quarante ans se sont attachés avec autant d’hypocrisie que de zèle à le vider de son sens : soumission au marché via l’Union européenne au lieu de l’Europe des Nations voulue par de Gaulle, abaissement volontaire du niveau scolaire pour faire de parfaits consommateurs-producteurs stupides et manipulables, destruction de l’histoire, de la géographie et de la Nation pour obtenir des êtres parfaitement interchangeables et déracinés, n’étant plus en mesure de se défendre contre les voraces sans visage inféodés au Saint-Fric mondialisé, seul maître de nos dirigeants de gauche comme de droite aujourd’hui. Bien entendu, tout cela s’est fait en tenant le discours exactement inverse.

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Chacun à sa manière, Polony et Manent constatent cet abandon de l’État par les élites politiques, économiques, médiatiques. En revanche, si nous partageons le constat que l’État est devenu incapable de comprendre le fait religieux, la religion ayant été remplacée par le marché et la course sans fin aux droits individuels, il nous semble, avec Polony, que la laïcité est la solution, et non comme le pense Manent, qu’elle devenue illusoire, voire impossible.

La fin d’une communauté de destin

Pour nous, le problème ne se situe pas essentiellement dans la différence de culture entre l’islam et la France, mais dans l’abandon de l’assimilation républicaine et dans le rejet idéologique de la Nation telle que l’entendait Renan. Cette communauté de destin fondée sur des valeurs partagées, un héritage commun et la volonté de construire ensemble a été sacrifiée au nom des droits de l’homme et de la concurrence libre et non-faussée. La traduction dans les faits, nous l’avons évoquée plus haut et dans d’autres articles : abandon de l’exigence, du mérite, de l’éducation, substitution de l’égalité par l’égalitarisme, adoption en douce du modèle communautariste anglo-saxon au nom des droits de l’homme et en prônant l’unité indivisible de la France… La somme de ces abandons, de ces mensonges et de ces lâchetés est, bien plus que le souvenir de la colonisation ou de l’esclavage exploité à des fins idéologiques, la raison réelle de la difficulté de certains de nos compatriotes musulmans à trouver leur place.

La démocratie se fondant sur la distinction entre vie privée et vie publique, chacun est libre de conserver ses traditions et ses rites dans son cadre intime.

Sauf à considérer que le musulman est ontologiquement incompatible avec la France, ce qui est pour le moins réducteur. La France est un pays multi-ethnique, mais ce n’est pas un pays multiculturel. La République est laïque, la France est chrétienne, pour reprendre les mots du Général de Gaulle ; ce qui n’a jamais empêché la France d’accueillir des Juifs, des athées, des musulmans… Le principe qui doit nous guider est celui de l’hospitalité pour les immigrés légaux (à Rome, fais comme les Romains) et celui de l’assimilation républicaine pour les Français d’origine étrangère (seul principe qui leur évitera d’être renvoyés en permanence à leurs origines et qui permet de préserver la cohésion nationale). La démocratie se fondant sur la distinction entre vie privée et vie publique, chacun est libre de conserver ses traditions et ses rites dans son cadre intime. En revanche, la discrétion est de mise en public. Raciste me diront Médiapart, Libération, l’Obs et tutti quanti ? Alors quid de l’Arabie saoudite ? Des États-Unis ? De la Chine ? Du Japon ? Natacha Polony le montre dans son essai, l’assimilation républicaine ne détruit en rien les identités propres de chacun, elle les respecte et les laisse s’exprimer dans la mesure du respect de la loi (qui, rappelons-le, n’est pas en France l’imposition par la force d’une volonté dictatoriale à des populations faibles, mais le fruit du vote démocratique, c’est-à-dire de la volonté du peuple souverain – ou de ce qu’il en reste aujourd’hui). Cela implique effectivement que dans l’espace public, on s’empêche, comme dirait Camus (Albert, pas Renaud). Cela étant, personne – pas même les sectateurs de la liberté des femmes de porter niqab – ne se choque de cette concession faite à la société en ce qui concerne les naturistes…

Pierre Manent face à la République

C’est pourquoi lorsque Pierre Manent propose d’autoriser franchement les mœurs musulmanes, à l’exception sine qua non du voile intégral et de la polygamie, nous ne pouvons pas être en accord. Cela signerait la fin de la République une et indivisible, démocratique, sociale et laïque telle que définie par la constitution. La proposition de Manent est-elle pour autant scandaleuse ? Elle le serait si elle était le fruit d’une lâcheté ou d’une soumission, or tel n’est pas le propos de l’essayiste. Partant du constat que « c’est la réalité même qui s’est déjà rendue largement indépendante de l’ordre politique légitime – de la République ou de la laïcité », il établit que « l’institution politique légitime, telle que nous la comprenons, n’est pas en état d’opérer ce que nous attendons d’elle. Cela ne signifie pas que l’on renonce à la République, moins encore que l’on souhaite l’abolir, cela signifie plutôt que l’on cherche les moyens de ranimer l’intention du projet républicain dans ce que celui-ci a de plus essentiel, de la ranimer dans des circonstances où la forme qu’il a prise depuis deux siècles a épuisé ses vertus »[2].

C’est, depuis Giscard, la trahison des politocards qui est en marche.

Compte-tenu de cela, il serait irresponsable de ne pas réfléchir à une solution. Cependant, il nous semble que ce n’est pas le cadre politique légitime qui est en crise. C’est jeter le bébé avec l’eau du bain. Ce n’est pas le verre qui est sale, mais bien le pastis qui est frelaté. Le problème est le personnel politique dont les qualités intellectuelles, morales, patriotiques, démocratiques ne cessent de se dégrader depuis le décès de Pompidou. C’est, depuis Giscard, la trahison des politocards qui est en marche. Depuis lors, les « élites » politiciennes de gauche comme de droite et dans leur majorité ont décidé que la France était un petit pays et qu’il fallait se fondre dans la globalisation, se soumettre au marché, se renier pour survivre. La classe politicienne est le problème, pas la République ou la laïcité. Ses intérêts n’épousent ni l’intérêt général, ni le respect des choix démocratiques du peuple. Preuve en est la frilosité incroyable manifestée par les parlementaires quand il s’agit de connaître leurs sources de revenus (i. e. pour prévenir les conflits d’intérêts) : c’est la ruée contre ce populisme qui voudrait savoir pour qui roulent réellement les élus ! Si les politiciens servaient la France au lieu de se servir de la France, cette question n’intéresserait personne.

accommodements-raisonnables.jpgManent se garde bien de postuler une ontologie du musulman, comme il l’écrit : « il ne s’agit pas de postuler une essence immuable de l’islam, seulement de reconnaître son existence et pour ainsi dire sa consistance (…). Notre régime politique et nos mœurs nous incitent à ramener les masses spirituelles aux individus qui les composent, mais enfin, aussi désireux que nous soyons de ne voir partout que des sujets titulaires de droits et des individus cherchant leur intérêt, nous nous heurtons à quelques grands faits collectifs qui sont déterminants pour la vie du monde. Nous nous y heurtons chaque jour davantage. Qui a peur du scandale trébuchera sur la pierre du scandale »[3]. Par ailleurs, il constate avec raison la négligence des gouvernants quant aux masses spirituelles, aveuglés qu’ils sont par l’individualisme libéral-libertaire du toujours plus de droits. Toutefois, sa réponse ne nous paraît pas souhaitable. Si nous sommes d’accord pour dire que les humiliations sont vexatoires et inutiles, autoriser les menus confessionnels, les horaires réservés et autres « accommodements raisonnables » comme on dit dans la Belle Province revient à rompre de fait l’égalité républicaine (rien à voir avec l’égalitarisme socialiste). Le groupe social musulman est composé de citoyens égaux en dignité et en droits aux autres. Il n’a pas a bénéficier de règlements spécifiques. D’une part, la population musulmane en métropole n’en a jamais eu besoin avant la lâcheté de Jospin en 1989, quand ce dernier s’est défaussé devant l’entrisme intégriste à Creil, et d’autre part, étant de peuplement récent en France (majoritairement arrivée à partir du regroupement familial dans les années 1970), elle doit s’adapter au pays qui l’accueille et dont elle a choisi de prendre la nationalité.

Le peuple français est un peuple hospitalier pourvu qu’on le respecte dans son identité et ses choix démocratiques.

Cela implique la liberté complète d’expression, que Manent invite à rétablir, et notamment la liberté de caricaturer Mahomet et de critiquer l’islam ; cela implique l’égalité homme/femme ; cela implique l’acceptation de l’apostasie et des mariages exogènes. Comme le disait le Général de Gaulle, « Si une communauté n’est pas acceptée, c’est qu’elle ne donne pas de bons produits, sinon elle est admise sans problème. Si elle se plaint de racisme à son égard, c’est qu’elle est porteuse de désordre. Quand elle ne fournit que du bien, tout le monde lui ouvre les bras ». Le peuple français est un peuple hospitalier pourvu qu’on le respecte dans son identité et ses choix démocratiques. Cela n’en fait pas un peuple raciste, xénophobe, racialiste ou que sais-je encore… C’est juste un peuple qui a une identité, une histoire, une géographie communes et qui entend être respecté pour ce qu’il est, comme n’importe quel peuple. La proposition de Manent ne nous semble pas souhaitable pour toutes ces raisons. En revanche, il serait bon d’entendre Pierre Manent pour restaurer la République et la laïcité. Son analyse de la situation est très pertinente, et même nécessaire pour comprendre les problèmes, préalable à toute solution. Manent a raison quand il écrit que « l’affaiblissement politique et spirituel de la nation en Europe est sans doute le fait majeur de notre temps » (p.123). De même, il a raison sur le fait que « si l’islam s’étend et se consolide dans un espace dépourvu de forme politique, ou dans lequel toutes les formes du commun sont livrées à la critique rongeuse des droits individuels devenus la source exclusive de toute légitimité, alors il n’y a guère plus d’autre avenir pour l’Europe qu’une islamisation par défaut » (p.124).

La faute à l’État ?

Si la vigueur de l’islam dans le monde et l’intrusion d’un certain islam en France expliquent en partie les difficultés que peuvent éprouver un certain nombre de musulmans en France, il faut reconnaître que depuis la loi Haby, les gouvernements successifs ont tout fait pour que ni eux ni personne ne puisse se sentir Français. Natacha Polony le montre bien : l’abandon de la langue, de l’histoire, de la géographie, les perpétuels renvois idéologiques à l’esclavage, la colonisation, aux « heures les plus sombres de notre histoire » interdisent l’assimilation républicaine. La France en perte d’identité est faible du fait de l’abandon de ce qu’elle est imposé par ses dirigeants au nom des droits de l’homme et du cours de la bourse. On ne s’intègre pas à un pays ou à une culture faibles, on ne s’y assimile pas. Au mieux, on y cohabite, chaque communauté scrutant l’autre en chiens de faïence ; au pire on l’efface.

L’abandon de l’État-Nation comme cadre naturel de l’exercice démocratique et l’abandon de l’éducation au profit du mondialisme et du pédagogogisme ont conduit in fine à la situation dans laquelle nous sommes.

Sans identité, pas d’âme, pas de projet, pas de fierté à vivre ensemble dans une même Nation, pas d’intégration, pas d’assimilation, pas d’hospitalité. L’abandon de l’État-Nation comme cadre naturel de l’exercice démocratique et l’abandon de l’éducation au profit du mondialisme et du pédagogogisme ont conduit in fine à la situation dans laquelle nous sommes. Il est à craindre que les attentats se multiplient, renforçant la méfiance entre le groupe social musulman et le reste de la population, suscitant les haines et attisant les peurs. C’est le résultat de 40 années d’abandon de la France et de son peuple par ses élites. La solution, Natacha Polony la propose : retrouver ce qui fait la fierté de la France en se basant sur ce qui l’a fait envier dans le monde. À partir de là, restaurer l’État-Nation démocratique et légitime, et restaurer l’éducation. Les perspectives pour 2017 nous laissent pessimiste sur une résolution démocratique et pacifique de cette crise majeure d’identité.

Le Librairtaire

[1]Nous entendons par le barbarisme européïstes les sectateurs de l’Union européenne telle qu’elle s’exprime dans ses dérives anti-démocratique, ultra-libérale, anti-historique, dont Junker, avec son fameux « il ne peut y avoir de choix démocratique contre les traités européens ».

[2]Pierre Manent, op. cit., p. 58.

[3]Pierre Manent, op. cit., pp. 62-63.

Battle for the ages: Protectionist Trumponomics vs. Neoliberalism

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Battle for the ages: Protectionist Trumponomics vs. Neoliberalism

by Pepe Escobar

Ex: http://thesaker.is

Donald Trump’s red wave on Election Day was an unprecedented body blow against neoliberalism. The stupid early-1990s prediction about the ‘end of history’ turned into a – possible – shock of the new.

The new global nativism? Perhaps a new push towards democratic socialism? Too early to tell.

Once again. A body blow, not a death blow. Like the cast of The Walking Dead, the zombie neoliberal elite simply won’t quit. For the Powers That Be/Deep State/Wall Street axis, there’s only one game in town, and that is to win, at all costs. Failing that, to knock over the whole chessboard, as in hot war.

Hot war has been postponed, at least for a few years. Meanwhile, it’s enlightening to observe the collective American and Eurocrat despair about a world they can’t understand anymore; Brexit, Trumpquake, the rise of the far-right across the West. For the insulated financial/tech/think-tank elites of liquid modernity, criticism of neoliberalism – with is inbuilt deregulation, privatization a-go-go, austerity obsession – is anathema.

The angry, white, blue collar Western uprising is the ultimate backlash against neoliberalism – an instinctive reaction against the rigged economic casino capitalism game and its subservient political arms. That’s at the core of Trump winning non-college white voters in Wisconsin by 28 points. Blaming “whitelash”, racism, WikiLeaks or Russia is no more than childish diversionary tactics.

The key question is whether the backlash may engender a new Western drive towards democratic socialism – read David Harvey’s books for the road map – or just nostalgic nationalism raging against the neoliberal Washington/EU/NAFTA/ globalization machine.

Read my lips: much lower taxes

Trump is proposing to turn the tables on the neoliberal game. Throughout his campaign he criminalized free trade – the essence of globalization – for decimating the American working class, even as US businesses blamed free trade for forcing them to squeeze workers’ wages.

So let’s see how Trump will be able to impose his priorities. In parallel to addressing the appalling structural decline in US manufacturing, he wants to pull a China: a massive $1 trillion infrastructure project over 10 years via public-private partnerships and private investments encouraged by lower taxes. That’s supposed to create a wealth of jobs.

Lower corporate taxes in this case translate into a whopping $3 trillion over 10 years, something like 1.6 percent of GDP. That would be the way to incite huge multinationals to repatriate the hundreds of billions of dollars in profits stashed abroad. This fiscal shock would create 25 million jobs in the US over the next 10 years, and propel a 4 percent growth rate.

And then there’s the protectionist drive that will renegotiate NAFTA and kill TPP for good. Not to mention raising import tariffs over manufactured products (many by de-localized US multinationals) imported from China and Mexico.

It’s open to fierce debate how Trumponomics will manage to square the circle; with more economic growth fueled by less taxes, imports will rise to satisfy internal demand. But if these products are subjected to stiffer tariffs, they will become more expensive, and inflation will inevitably rise.

Anyway, the bottom line of protectionist Trumponomics would be a huge blow against global trade. Deglobalization, anyone?

Asia braces for impact

Predictably, the heart of deglobalization will be the Trump-China relationship. Throughout the campaign, Trump blamed China for currency manipulation and proposed a 45 percent tariff on Chinese imports.

In Hong Kong banking circles, no one believes in it. Key argument: the already strapped basket of “deplorables” simply won’t have the means to pay more for these Chinese imports.

Another thing entirely would be for Trumponomics to find mechanisms to hurt US companies that de-localize in Asia. That would translate into serious problems for outsourcing Meccas such as India and the Philippines. Outsourcing in the Philippines, for instance, serves mostly US companies and attracts revenue as crucial to the nation as total Filipino worker remittances from abroad, something like 9 percent of GDP.

It’s quite enlightening in this context to consider what Narayana Murthy – founder of Indian IT major Infosys – told the CNBC TV-18 network; “What is in the best interest of America is for its corporations to succeed, for its corporations to create more jobs… to export more… so I’m very positive.”

Some months ago Nomura Holdings Inc. issued a report titled “Trumping Asia”. No less than 77 percent of respondents expected Trump to brand China a currency manipulator; and 75 percent predicted he will impose tariffs on exports from China, South Korea and Japan.

So no wonder all across Asia the next months will be nerve-wracking. Asia – and not only China – is the factory of the world. Any Trump trade restriction over China will reverberate all across Asia.

Brace for impact: deglobalized Trumponomics vs. Neoliberalism will be a battle for the ages.

Trump président – les risques et les chances

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Trump président – les risques et les chances

 
 
 
 
 
C’est donc arrivé : Hillary n’a pas gagné ! Je dis cela au lieu de dire que «Trump a gagné», parce que je considère cet aspect même plus important que le premier. Pourquoi ? Parce que je n’ai aucune idée de ce que Trump fera ensuite. J’ai cependant une excellente idée de ce que Hillary aurait fait : la guerre avec la Russie. Trump ne la fera très probablement pas. En fait, il l’a dit expressément dans son discours d’acceptation :

"Je veux dire à la communauté mondiale que même si nous mettrons toujours en avant les intérêts de l’Amérique, nous allons traiter équitablement avec tout le monde – tous les peuples et toutes les nations. Nous chercherons un terrain commun, pas l’hostilité ; le partenariat, pas le conflit".

La réponse de Poutine a été immédiate :

"Nous avons entendu ses déclarations alors qu’il était candidat à la présidence, visant le rétablissement des relations entre nos pays. Nous nous rendons compte et nous comprenons que ce ne sera pas une voie facile, compte tenu du niveau de dégradation qu’ont atteint nos relations aujourd’hui, malheureusement. Mais comme je l’ai déjà dit, ce n’est pas notre faute si nos relations avec les États-Unis se trouvent dans cet état.

La Russie est prête et cherche à revenir à des relations pleines et entières avec les États-Unis. Permettez-moi de le dire encore une fois, nous savons que ce ne sera pas facile, mais nous sommes prêts à nous engager sur cette voie, à prendre des mesures de notre côté et à faire tout ce que nous pouvons pour remettre les relations russo-étasuniennes sur une trajectoire de développement stable.

Ce serait bénéfique tant pour les peuples russe qu’américain et aurait un effet positif sur le climat général des affaires internationales, étant donnée la responsabilité particulière que partagent la Russie et les États-Unis pour le maintien de la stabilité et de la sécurité mondiales".

Cet échange est une raison suffisante pour que la planète entière se réjouisse de la défaite de Hillary et de la victoire de Trump.

Trump aura-t-il maintenant le courage, la volonté et l’intelligence de purger l’exécutif étasunien de la cabale néocon qui l’a infiltré depuis des décennies ? Aura-t-il la force d’affronter un Congrès et des médias extrêmement hostiles ? Ou essayera-t-il de les rencontrer à mi-chemin et espérera-t-il naïvement qu’ils n’utiliseront pas leur pouvoir, leur argent et leur influence pour saboter sa présidence ?

Je ne sais pas. Personne ne sait.

L’un des premiers signes à observer sera les noms et les origines des gens qu’il nommera dans sa nouvelle administration. En particulier son chef d’état-major et son secrétaire d’État.

J’ai toujours dit que le choix du moindre mal est moralement faux et pragmatiquement erroné. Je le crois encore. Dans ce cas, cependant, le plus grand mal était la guerre thermonucléaire avec la Russie et le moindre mal pourrait bien se révéler être que l’Empire cède progressivement pour sauver les États-Unis, plutôt que de les sacrifier aux besoins de l’Empire. Dans le cas de Hillary contre Trump, le choix était simple : la guerre ou la paix.

trumpivanka16280638357.jpgTrump peut déjà être crédité d’un immense succès : sa campagne a contraint les médias dominants étasuniens à montrer leur vrai visage – le visage d’une machine de propagande mauvaise, menteuse et moralement corrompue. Par son vote, le peuple américain a récompensé ses médias avec un gigantesque «Allez vous faire foutre !», un vote de défiance et de rejet total, qui détruira à jamais la crédibilité de la machine de propagande de l’Empire.

Je ne suis pas naïf au point de ne pas comprendre que le milliardaire Donald Trump fait aussi partie du 1%, un pur produit de l’oligarchie étasunienne. Mais je ne suis pas non plus si ignorant de l’Histoire pour oublier que les élites se dressent les unes contre les autres, en particulier lorsque leur régime est menacé. Ai-je besoin de rappeler à tout le monde que Poutine est aussi venu des élites soviétiques ?

Idéalement, la prochaine étape serait que Trump et Poutine se rencontrent, avec tous leurs ministres importants, pour une longue semaine de négociations dans le style de Camp David, au cours de laquelle tout, tous les différends en cours, pourrait être mis sur la table et un compromis recherché dans chaque cas. Paradoxalement, cela pourrait être assez facile : la crise en Europe est totalement artificielle, la guerre en Syrie a une solution absolument évidente et l’ordre international peut facilement s’accommoder d’États-Unis qui «traiteraient équitablement avec tout le monde – tous les peuples et toutes les autres nations» et «chercheraient un terrain commun, pas l’hostilité, le partenariat, pas le conflit». La vérité est que les États-Unis et la Russie n’ont pas de raisons objectives de conflit – seulement des problèmes idéologiques résultant directement de l’idéologie insensée de l’impérialisme messianique de ceux qui croient, ou prétendent croire, que les États-Unis sont une «nation indispensable». Ce que le monde veut – ce dont il a besoin – ce sont des États-Unis comme pays normal.

Le pire des cas ? Trump pourrait se révéler une tromperie totale. J’en doute personnellement beaucoup, mais j’admets que c’est possible. Il est plus probable qu’il n’aura pas la clairvoyance et le courage d’écraser les néocons et qu’il essayera de les apaiser. S’il fait comme ça, c’est eux qui l’écraseront. C’est un fait que, tandis que les administrations ont changé tous les 4 ou 8 ans, le régime au pouvoir ne l’a pas fait, et que les politiques intérieure et extérieure des États-Unis ont été étonnamment constantes depuis la fin de la Deuxième Guerre Mondiale. Trump amènera-t-il finalement non seulement une nouvelle administration mais un véritable «changement de régime» ? Je ne sais pas.

Ne vous méprenez pas – même si Trump finit par décevoir ceux qui ont cru en lui, ce qui est arrivé aujourd’hui a porté un coup mortel à l’Empire. Le mouvement Occupy Wall Street n’a pas réussi à réaliser quelque chose de tangible, mais la notion de «gouvernement du 1%» est issue de ce mouvement et elle est restée. C’est un coup direct à la crédibilité et à la légitimité de tout l’ordre socio-politique des États-Unis : loin d’être une démocratie, c’est une ploutocratie/oligarchie, presque tout le monde l’admet plus ou moins aujourd’hui. De même, l’élection de Trump a déjà prouvé que la presse américaine est une prostituée et que la majorité des Américains haïssent leur classe dirigeante. Là encore, c’est un coup direct à la crédibilité et à la légitimité de l’ordre socio-politique tout entier. L’un après l’autre, les mythes fondateurs de l’Empire américain s’écroulent et ce qui reste, c’est un système qui ne peut gouverner que par la force.

Alexandre Soljenitsyne disait que les régimes pouvaient être mesurés sur un spectre allant des régimes dont l’autorité est leur pouvoir, aux régimes dont le pouvoir réside dans leur autorité. Dans le cas des États-Unis, nous pouvons maintenant voir clairement que le régime n’a pas d’autre autorité que son pouvoir et cela le rend à la fois illégitime et non viable.

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Finalement, que les élites étasuniennes puissent l’accepter ou non, l’Empire américain touche à sa fin. Avec Hillary, nous aurions eu un déni du genre Titanic jusqu’au dernier moment, qui pourrait bien être arrivé sous la forme d’un champignon thermonucléaire au-dessus de Washington DC. Trump, cependant, pourrait utiliser ce qui reste de puissance aux États-Unis pour négocier leur retrait mondial dans les meilleures conditions possibles pour son pays. Franchement, je suis quasiment sûr que les dirigeants mondiaux importants comprennent que c’est dans leur intérêt de faire des concessions (raisonnables) à Trump et de travailler avec lui, plutôt que de traiter avec les gens qu’il vient d’évincer du pouvoir.

Si Trump peut tenir ses promesses de campagne, il trouvera des partenaires solides et fiables dans Vladimir Poutine et Xi Jinping.  Ni la Russie, ni la Chine n’ont quoi que ce soit à gagner à une confrontation ou, moins encore, à un conflit avec les États-Unis. Trump aura-t-il la sagesse de le comprendre et d’en faire usage au bénéfice des États-Unis ? Ou continuera-t-il avec sa rhétorique anti-chinoise et anti-iranienne ?

Seul le temps le dira.

Traduit par Diane, vérifié par Wayan, relu par Cath pour le Saker francophone

vendredi, 11 novembre 2016

Patrick Buisson: "Il est temps de refermer le cycle des Lumières"

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"Il est temps de refermer le cycle des Lumières"

Entretien exclusif avec Patrick Buisson

Propos recueillis par Philippe Maxence

Ex: http://www.hommenouveau.fr

Si nous n’avions écouté que les grands médias et ceux qui les répercutent, nous n’aurions pas lu le livre de Patrick Buisson, La Cause du peuple (Perrin). La critique des années Sarkozy et le portrait sur le vif de celui-ci ne nous intéressent pas plus que ceux concernant François Hollande, sinon à titre d’études des symptômes révélant la maladie. Mais, comme souvent, au lieu de regarder ce que désigne le doigt, les médias, dans un réflexe pavlovien se sont arrêtés au doigt lui-même.

En lisant La Cause du peuple, nous avons été au contraire surpris d’y voir d’abord une analyse fondée sur les grands principes de notre civilisation et non simplement sur les dernières transes d’une actualité en mal de sensation. Nous y avons découvert un auteur se décrivant comme un « objecteur de modernité », ce qui, au-delà du bonheur de la formule, semble pointer du doigt la racine même des maux profonds auxquels nous sommes confrontés.

À L’Homme Nouveau, nous essayons de nous imposer une ascèse, généralement mal comprise de nos propres amis. Nous tentons d’étudier les causes des faits plutôt que de réagir impulsivement à ces derniers et d’en dépendre sans cesse. Nous préférons la perspective du temps long au rétrécissement de l’immédiateté et de l’éphémère. Nous voulons souligner les permanences plutôt que le fugitif. En un mot, nous souhaitons tracer des itinéraires de civilisation plutôt que de nous laisser envahir par le culte de l’évanescent. Ce but est à la fois exigeant et implique une forme de pauvreté ascétique dans le travail. Elle vise pourtant à la vraie liberté de l’intelligence, même au regard des réflexes qui guident les personnes et les milieux dont nous sommes proches.

Nous remercions Patrick Buisson pour le temps qu’il nous a accordé, à la fois au moment de notre rencontre, où nous l’avons assailli de nos questions, et lors de la relecture et de la réécriture de cet entretien. Nous aurions souhaité aller encore plus loin, avec lui, notamment sur deux points : sur la nature profonde du système, qui ne se limite pas selon nous aux institutions de la Ve République, mais incarne les objectifs de la modernité et ensuite sur les moyens de refermer définitivement le cycle des Lumières sans être réduits au rôle d’éternels supplétifs de ceux qui finissent toujours par ramasser la mise à leur profit.

Cet entretien unique en son genre sera disponible gratuitement pendant une durée limitée sur notre site (sauf pour nos abonnés) avant d’être proposé à l’achat. Nous demandons à ceux qui le citent de respecter le droit de la presse en ne le reproduisant pas dans son intégralité et en citant clairement les sources, notamment en renvoyant vers le site de L’Homme Nouveau. Nous mettons cet entretien à disposition de tous dans le cadre de la bataille des idées. Mais cela n’enlève rien au fait qu’un vrai travail de presse implique un coût et que pour continuer cette bataille, plus que jamais nécessaire, il est important que tous ceux qui en profitent y participent financièrement. En attendant, bonne lecture !

Philippe Maxence

buisson-1_5707629.jpgN’y a-t-il pas maldonne sur ce qu’est votre livre, présenté généralement comme un livre de vengeance alors qu’il apparaît à sa lecture comme un livre d’idées ou du moins, d’analyse ?

Patrick Buisson : La télé-démocratie a besoin de scandales comme autant de combustibles. Elle fonctionne à l’émotion ou à l’indignation et dans une ingénierie des affects d’où la réflexion est proscrite. La règle d’or des médiagogues, c’est l’hégémonie des sentiments. À partir du moment où vous avez été acteur de la tragi-comédie du pouvoir même en coulisses – je dirai surtout en coulisses car l’ombre agite les fantasmes – cela fait de vous le dépositaire d’un certain nombre de choses plus ou moins secrètes qui suscitent l’intérêt et la curiosité, souvent malsaine d’ailleurs, des médias centraux. Mon livre ne les a intéressés qu’en tant que supposé règlement de comptes envers l’ancien président de la République. Ils l’ont donc investi d’une dimension polémique largement surfaite. Or je n’ai rien rapporté dans ce livre qui ne serve d’illustration à un propos politique, c’est-à-dire à une démarche d’analyse, de réflexion, autour de l’exercice du pouvoir en France et de la déliquescence de l’appareil d’État dans son fonctionnement comme dans son incarnation au plus haut sommet. Il ne me reste plus à espérer que les lecteurs qui auront acheté ce livre pour de mauvaises raisons finissent par le lire pour de bonnes.

Ce qui frappe d’abord dans la lecture de votre ouvrage, c’est votre réflexion sur le pouvoir et la crise des institutions de la Ve République. Est-on arrivé au terme d’un processus ?

La critique que je fais de la présidence de Sarkozy vaut pour celle de Hollande. Le principe fondateur de la Ve République a été de rompre avec cette volonté d’abstraction qui remonte à la révolution de 1789, et de renouer avec une tradition plus longue, plus ancienne et plus profondément enracinée, selon laquelle en France, pays latin de culture chrétienne, le pouvoir suprême s’exerce non par délégation, mais par incarnation. Ce que Marcel Gauchet résume excellemment quand il décrit ledit pouvoir comme un « concentré de religion à visage humain ». Or aussi bien Sarkozy que Hollande n’auront eu de cesse de s’inscrire par leurs actes dans une logique d’abaissement et de trivialisation de la fonction présidentielle. L’un au nom de la « modernité », l’autre au nom de la « normalité » ont conclu à l’impérieuse nécessité d’une sécularisation du pouvoir, au dépouillement de son armature symbolique, protocolaire et rituelle. Ils ont, pour reprendre la terminologie de la théologie politique venue du Moyen Âge, dépouillé le corps mystique du roi tout en profanant son corps physique. Nul plus que les deux derniers titulaires de la charge n’auront sapé les fondements de la fonction présidentielle en transposant au sommet de l’État le processus d’individuation et d’infantilisation qui affecte la société française. Avec eux c’est l’esprit de 68 qui a investi l’Élysée : désormais c’est l’individu qui l’emporte sur la fonction et qui à travers un jubilé permanent de sa propre personne, se montre moins préoccupé de l’intérêt général que de « jouir sans entraves ».

N’est-ce pas la légitimité du pouvoir qui se trouve dès lors remise en cause ?

Si et en profondeur. L’idée que l’autorité politique ne constitue pas un dominium, un droit de propriété rapporté à un individu mais un ministerium, c’est-à-dire un office exercé au nom de tous est au cœur de la pensée occidentale. Elle est au cœur de la doctrine de la chrétienté médiévale récapitulée par saint Thomas d’Aquin quand celui-ci stipule que « le bien commun est toujours plus divin que le bien de l’individu ». Et l’Aquinate d’ajouter : « Le pouvoir est un sacrifice, seul le service rendu fonde la légitimité ». À l’aune de ce critère, les présidences de Sarkozy et de Hollande livrées à la toute-jouissance du pouvoir, se trouvent frappées d’illégitimité et comme telles n’ont eu le droit ni au respect ni à l’obéissance des Français. L’erreur profonde de nos dirigeants est de croire que la proximité et non la grandeur est source de popularité. Aujourd’hui le souci du politique est de gommer tout ce qui le distingue du commun. En premier lieu l’altitudo qui, chez les anciens monarques, désignait à la fois l’élévation et la profondeur. Autrement dit, leur but est de s’offrir non plus en exemple ou en modèle comme le faisaient autrefois les hommes d’État mais en support.

La dégradation de la fonction présidentielle ne serait à vous lire que la transposition au sommet de l’État d’une évolution en profondeur, le passage, dites-vous, de la société gouvernée à la société gouvernante…

En effet : dans une société où ni la force de caractère ni la force d’âme ne sont plus portées au crédit de ceux qui en font montre, mais assimilées aux vertus les plus archaïques, le politique se croit tenu de s’abaisser pour s’humaniser et de s’étaler pour se signaler. Il se fait une obligation de montrer sa faiblesse pour tenter de remuer le cœur des foules sentimentales. Le pouvoir, faute d’une autorité qui le légitime, est devenu pour reprendre la formule d’Hannah Arendt, un « pouvoir qui ne vaut rien », un lieu vide, sans tête, de moins en moins incarné mais de plus en plus narcissique. En dernière analyse, c’est la postmodernité qui a eu raison de la fonction présidentielle comme elle a emporté tous les « grands signifiants despotiques » de l’autorité. Soit ce vaste processus qui vise à délégitimer, décrédibiliser et finalement destituer tout rapport à la transcendance et à l’immatériel. Le défi de l’homme postmoderne est de vouloir affronter le monde sans la protection du roi, du prêtre, du soldat et autres figures à l’ombre tutélaire desquelles les générations précédentes s’étaient, durant des siècles, abritées. De Giscard à Hollande en passant par Sarkozy, la crise de la fonction présidentielle n’aura eu en définitive qu’une seule origine : le refus des présidents successifs d’incarner la place du sacré dans la société.

Charles-de-Gaulle-president-de-la-Republique-francaise_large.jpgAu-delà des défaillances des personnes, le système partisan n’a-t-il pas également une part de responsabilité ?

En faisant ratifier par les Français le principe de l’élection du président de la République au suffrage universel, De Gaulle a voulu parachever l’œuvre qui consistait à conjurer le spectre du régime des partis. Depuis, la partitocratie n’a eu de cesse que de chercher à récupérer à son profit le monopole du processus de sélection des candidats à la magistrature suprême. Elle y est si bien parvenue qu’elle a surtout apporté la preuve éclatante de son inaptitude profonde à sélectionner des hommes capables de se hisser à la hauteur de la charge. Les candidats à la primaire de la droite sont tous, à une exception près, des produits de l’endogamie partisane. De ce mode de reproduction des pseudo-élites ne peut sortir qu’un personnel estampillé d’un même brevet de conformité à l’idéologie dominante, gouverné par l’anthropologie dérisoire de l’économisme qui prétend réduire les hommes à la seule poursuite de leur intérêt, dépourvu de toute vision autre que l’horizon indépassable de la matière et des chiffres. Et pour finir aussi inaccessible à la dimension symbolique du pouvoir qu’imperméable au legs de la tradition et de l’histoire nationale. Pour reconstituer le corps politique du chef de l’État, lui redonner la faculté d’incarner la communauté et opérer à travers sa personne la symbiose entre la nation et la fonction, il faut mettre fin à ce que Jacques Julliard appelle la « mise en propriété privée des moyens de gouvernement » que le système des partis a réalisée à son profit.

Pour en revenir au contresens volontaire des médias au sujet de votre livre, n’est-ce pas révélateur aussi d’un rapport au temps qui nous place d’emblée dans l’accélération permanente, créant de facto cette dictature de l’éphémère qui exclut inévitablement la question des idées ?

Cette accélération permanente, cette tyrannie de l’immédiat et de l’éphémère, ce bougisme invertébré et décervelé que vous évoquez n’est pas seulement la maladie de Parkinson de la sphère médiatique où se recrutent en priorité les agités du global. Ces pathologies ont gagné la politique. C’est ainsi que Sarkozy aura été l’inventeur et le promoteur d’une téléprésidence instantanée. Il y a eu d’emblée quelque chose de circulaire entre la frénésie épiphanique d’un président cathodique et l’insatiable voyeurisme des chaînes d’information continue. La question que pose la politique aujourd’hui n’est plus « que faire ? » mais « que dire ? ». Pour l’actuelle classe dirigeante, l’urgence de dire dispense, en quelque sorte, de l’obligation de faire. L’administration des choses et le gouvernement des hommes ont cédé la place à un exercice de narratologie. Le laboratoire en aura été l’Amérique du début des années soixante où la construction du mythe Kennedy a donné naissance à ce qu’il convient d’appeler le storytelling. Soit l’élaboration d’un grand récit médiatique destiné à créer au bénéfice des dirigeants politiques une identité narrative qui recouvre leur identité réelle. Au terme de l’opération, le faux doit apparaître plus vrai que le vrai. L’importance ainsi accordée à la fabrication de cet artéfact rend compte du fait que la communication et ses techniques a peu à peu supplanté la politique.

En a-t-on mesuré toutes les conséquences ?

Les Français en ont, en tout cas, perçu quelques-uns des effets pervers à travers les deux derniers présidents qui en ont fait un usage inconsidéré. En fait, ce qui apparaît de plus en plus, c’est que bien communiquer et bien gouverner sont deux exercices totalement antinomiques. Communiquer c’est chercher à séduire, gouverner c’est privilégier le bien commun au risque de déplaire et d’être impopulaire. Communiquer c’est établir le primat des apparences, gouverner c’est prendre à bras-le-corps le réel. Communiquer c’est obéir au temps court de la tyrannie médiatique ; gouverner c’est s’inscrire dans la durée et le temps long de l’histoire. Communiquer c’est produire de l’émotion, gouverner c’est développer une réflexion qui embraye sur l’action.

Vous avez été conseiller politique d’un candidat puis d’un président de la République. Pensiez-vous alors que le système était réformable de l’intérieur et qu’il valait la peine de le tenter ?

Je n’ai jamais nourri l’idée chimérique de vouloir réformer le système de l’intérieur. Je pensai et je pense toujours que la politique, c’est d’abord l’art de gérer les symboles. En période de crise, ces rétributions symboliques sont d’autant plus importantes qu’un certain nombre d’engagements programmatiques deviennent difficiles voire impossibles à tenir. Face à l’offensive massive de dénigrement du passé national, il m’est apparu très vite que je pouvais contribuer à la nécessaire œuvre de réarmement en faisant en sorte que le président puisse proposer aux Français des sujets de fierté légitime, des pages et des figures héroïques tirés de ce qu’il est convenu d’appeler, depuis Michelet, le « roman national ». J’ai tenté de convaincre Nicolas Sarkozy de l’urgence qu’il y avait, pour reprendre la formule de Victor Hugo, à faire la « guerre aux démolisseurs », c’est-à-dire à nous défendre contre toutes les entreprises de dissolution de la sociabilité nationale. Et à préserver ce prodigieux capital immatériel que représentent une mémoire profonde, des mœurs communes, un imaginaire historique. Je n’ai pas toujours été suivi. On a préféré Guy Môquet à Honoré d’Estienne d’Orves, Camus à Péguy.

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Vous l’avez été au moins sur la reconnaissance publique par le candidat puis par le chef de l’État des racines chrétiennes de la France. Ce que son prédécesseur s’était obstinément refusé à faire…

C’est sans doute la raison pour laquelle, je n’éprouve pas avec le recul le sentiment d’un complet gâchis, d’une expérience humainement coûteuse et politiquement inutile. Jamais un président de la République française n’aura aussi pleinement assumé l’héritage chrétien de la France, un héritage de civilisation et de culture. Dans la basilique du Latran comme au Puy-en-Velay en passant par la Lorraine à Domrémy et Vaucouleurs pour le 600e anniversaire de la naissance de Jeanne d’Arc. Peu importe la part d’insincérité et de calcul électoral qui entra alors dans le propos présidentiel. L’essentiel est bien que ces paroles aient été prononcées et que même en partie à son insu le sixième président de la Ve République ait renoué avec la Gesta Dei per Francos, la geste de Dieu pour les Francs. Plus que la célébration du catholicisme comme composante majeure de l’identité nationale et en tant que culte « historial » de la France, le grand mérite, peut-être le seul, de Sarkozy, aura été de comprendre que l’étymologie du mot « religion » – religare et relegere, c’est-à-dire relier et rassembler – définissait l’essence même du politique. Ce fut le sens du discours du Latran sur la « laïcité positive » et de la redécouverte du fait que la religion n’était pas une affaire purement privée qui fondait le rapport de l’individu à l’au-delà mais ce qui reliait les individus entre eux, un élément important et même comme le pensait Tocqueville, le fondement du lien social. Bref, qu’il y avait là une ressource de socialité immédiatement disponible là où l’intégrisme laïque échouait à produire du sens et du partage faute d’être adossé à une espérance. Il est d’ailleurs paradoxal que certains aillent chercher dans les religions séculières un modèle de sociabilité alors que l’Église a été à travers l’histoire et singulièrement celle de la France la grande pourvoyeuse de lien social quand notre modernité technologique ne sait fabriquer qu’une socialité de synthèse, des relations humaines aussi virtuelles qu’artificielles dont facebook et twitter sont les paradigmes les plus en vogue.

À vous entendre, la déchristianisation de la France aurait eu des conséquences politiques ?

C’est l’évidence même. Le retrait du sacré n’est pas qu’une malédiction spirituelle. Il est aussi synonyme de déréliction sociale. On pense au mot d’Heidegger : « L’homme dépourvu de transcendance erre sans but sur la terre dévastée ». De techno-parade en rave-party, d’Halloween en marches blanches : autant d’ersatz rituels qui tous consacrent la perte de sens dans les deux acceptions du terme ; à la fois perte de signification et absence d’orientation. On pense aussi à ce mot de Nietzsche à propos de celui qu’il appelle « le dernier homme », l’homme qui a « inventé le bonheur » : « Malheur ! Viendra le temps où aucun homme ne saura plus enfanter une étoile ! C’est le temps du plus méprisable qui ne sait plus se mépriser lui-même ».

Vous appelez de vos vœux ce que vous nommez une « politique de civilisation ». Quelle place le christianisme peut-il tenir dans celle-ci ?

Le phénomène de déchristianisation propre à notre modernité et au développement du mythe du progrès n’a été rien d’autre, à bien l’examiner, qu’un christianisme inversé. Il a correspondu à ce moment de l’histoire – la sécularisation – où les grands thèmes théologiques ont été non pas abandonnés mais retranscrits sous une forme profane. De ce point de vue, il est parfaitement exact de dire que capitalisme et communisme qui se disputent le monopole de l’idéologie du progrès depuis le XIXe siècle, relèvent d’idées chrétiennes ramenées sur terre, de ces « idées chrétiennes devenues folles » dont parlait Chesterton. D’un côté, la prédestination protestante. De l’autre, le déterminisme marxiste. D’une part, l’obéissance à la volonté divine jusqu’à la négation de la liberté humaine. D’autre part, l’amour de l’homme jusqu’à la mort de Dieu. La ruine de ces deux idéologies à la fois rivales et jumelles laisse le champ libre à une politique de l’espérance. Le grand mystère chrétien laïcisé, désormais libéré de ces derniers avatars, se trouve disponible pour une autre incarnation, une autre aventure. Régis Debray notait que le fait majeur de la fin du XXe siècle aura été « la fin de la politique comme religion et le retour de la religion comme politique ». C’est vrai pour l’islam et nous ne le savons que trop. En France comme dans les pays qui formaient jadis la chrétienté, un État théologico-politique n’est nullement souhaitable. Mais nous disposons en revanche d’un patrimoine historique et spirituel dont peuvent renaître les déterminants directs de l’établissement. En d’autres termes, une politique de civilisation répondant à la volonté, de plus en plus manifeste, du peuple français, de retrouver en partage un monde commun de valeurs, de signes et de symboles qui ne demande qu’à resurgir à la faveur des épreuves présentes et des épreuves à venir.

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Vous citez dans l’épilogue de votre ouvrage cette phrase de Péguy : « Il faut que France, il faut que chrétienté continue ». Est-ce pour vous un programme politique ?

Métapolitique plutôt que politique. Par chrétienté Péguy entendait non pas tant une adhésion confessionnelle que cette amitié supérieure, cet assemblage unique au monde qui lie les Français entre eux, une fraternité authentique qui a façonné notre sociabilité nationale. L’invocation incantatoire et répétitive par la classe dirigeante des « valeurs républicaines » depuis que la vague terroriste s’est abattue sur la France, a eu au moins pour vertu de réveiller des pans entiers de la mémoire nationale. Lorsque François Hollande s’écrie « tuer un prêtre, c’est profaner la République » au lendemain de la décapitation du Père Hamel dans l’église de Saint-Étienne du Rouvray, au-delà d’une tentative dérisoire pour sacraliser la République – on ne peut profaner que ce qui est sacré – il profère un mensonge historique puisqu’aussi bien chacun sait que la République s’est fondée sur la persécution, la déportation et le massacre des prêtres. Plus que d’être restaurée, la République a besoin d’être réorientée et de retrouver son cours plus originel que l’absolu commencement qu’elle prétend être. Car ses « valeurs », qu’on le veuille ou non, procèdent d’une inspiration chrétienne, dénaturée et dévoyée certes, mais essentiellement chrétienne. On oublie trop aisément la dernière partie de sa devise initiale : « Liberté, égalité, fraternité ou la mort ». L’Évangile, par opposition, inaugure une fraternité vraie parce que gratuite, ni une fraternité d’extermination (« Sois mon frère où je te tue »), ni une fraternité d’inversion (« Sois mon frère et que je t’utilise »). On n’y est pas frère contre, on y est frère avec. C’est ce trésor inestimable que nous avons reçu en dépôt et qu’il nous faut maintenant défendre contre des mystiques venues d’ailleurs. Des mystiques qui sont la négation de notre esprit, de notre manière d’être et de vivre.

Vous dites que la réponse ne viendra pas de la politique ordinaire, mais d’une réforme intellectuelle et morale qui finira par surgir. En voyez-vous les prémisses ?

L’économiste américain Hirschman oppose les périodes où prédominent les intérêts à celles où excellent les valeurs. Au lendemain la présidence Sarkozy qui est apparue aux yeux de beaucoup comme la consécration d’une droite strictement identifiée à l’argent, d’une droite qui, au fil de l’histoire, avait subi une reductio ad pecuniam, une inflexion singulière s’est produite avec « La Manif pour tous ». Au-delà d’une protestation contre une réforme sociétale, ce mouvement s’est distingué par une profonde remise en cause de notre société exclusivement marchande et matérialiste. Ce qui était visé à travers la dénonciation du « mariage » homosexuel, c’était la complémentarité dialectique du capitalisme consumériste et du progressisme hédoniste. Ce fut d’abord et contre toute attente une insurrection contre le nouveau Mammon libéral-libertaire dont la loi Taubira n’aura été que l’un des multiples produits dérivés. Le fait politique majeur est là : pour la première fois depuis des lustres, une droite a défilé pour affirmer le primat du sacré sur le marché en se réappropriant la garde de l’être contre la société de l’avoir.

Ce n’est pas le cas de la droite de gouvernement qui, à en croire le débat des primaires, est sur une tout autre ligne que celle-là. Vous êtes très sévère avec cette droite que vous qualifiez de « droite situationnelle ».

La méprise dure depuis plus de deux siècles. Il ne suffit pas d’être classé à droite pour être de droite. C’est ce qui est arrivé au libéralisme qui n’était pourtant que l’une des déclinaisons de la philosophie des Lumières. On assiste, aujourd’hui, à un repositionnement des idéologies sur le spectre politique. Un temps fixé à droite, le libéralisme retourne à sa source originelle au terme de la trajectoire inverse de celle qu’il avait empruntée entre le XVIIIe et le XXe siècle. Longtemps, on a voulu distinguer comme pour le cholestérol entre un bon libéralisme (le libéralisme économique) et un mauvais (le libéralisme culturel ou sociétal). Ce distinguo n’a plus été possible dès lors que la financiarisation de l’économie a mis en évidence l’unité philosophique du libéralisme à travers ces deux faces complémentaires qui conduisent, dans une totalité dialectique, à étendre la logique de la marchandise à la sphère non marchande des activités humaines.

lequilibre-et-lharmonie-gustave-thibon.jpgGustave Thibon auquel vous avez consacré un film, met en évidence dans Diagnostics l’artificialité des notions de droite et de gauche dont il dit qu’elles « mutilent l’homme ». Quelle analyse portez-vous à la fois sur les propos de Thibon et sur la permanence malgré tout d’un système reposant sur le couple droite-gauche ?

Le diagnostic de Thibon porte sur la droite attachée à l’argent-chiffre, à l’argent-signe. Celle qui n’a jamais été, à travers l’histoire, autre chose qu’une force de conservation des privilèges des classes dominantes. Cette droite-là est, par définition, incapable de comprendre qu’avec l’avènement de l’économisme comme réenchantement du monde, quelque chose d’humain a pris fin selon le beau mot de Pasolini. Le fait marquant de ces dernières années réside dans l’apparition, au sein de ce qu’il est convenu d’appeler la droite, d’un mouvement antimoderne récusant le présupposé du libéralisme qui fait de la société une collection d’individus n’obéissant qu’aux lois mécaniques de la rationalité et de la poursuite de leur seul intérêt. Ce mouvement est en train de renouer, dans une fidélité inventive aux racines d’une droite plus originelle, avec l’idée qu’une société ne peut reposer exclusivement sur le contrat c’est-à-dire sur le calcul, mais sur l’adhésion à un projet qui fait d’elle une communauté. Le cycle ouvert par les Lumières est en train de se refermer. Nous ne sommes qu’à l’aurore d’une nouvelle ère et nous voudrions déjà cueillir les fruits de la maturité. En fait, nous ne supportons pas l’idée que ces grandes questions de civilisation ne reçoivent pas de réponse dans la temporalité qui est celle de nos vies humaines. Toutes les raisons d’espérer sont pourtant réunies. À commencer par celle qu’exposait le vers fameux d’Hölderlin : « Là où croît le péril, croît aussi ce qui sauve ».

Patrick Buisson, La cause du peuple, Perrin, 464 p., 21,90 €.

jeudi, 10 novembre 2016

Une nouvelle révolution atlantique?

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Une nouvelle révolution atlantique?

Ex: http://cerclenonconforme.hautetfort.com

La victoire de Trump s'inscrit dans une dynamique d'ensemble de l'Occident que nous allons tenter de décrypter.

Les « révolutions atlantiques »

A la suite de Jacques Godechot auteur de La Grande Nation en 1956, de Robert R. Palmer avec The Age of Democratic Revolution en 1959 et 1964 puis des Atlantic Studies s'affirme le concept de « révolutions atlantiques ». Il s'agit d'une approche globale des mouvements d'idées et des révolutions de la deuxième moitié du XVIIIeme siècle qui permet d'appréhender les bouleversements aux Amériques et en Europe comme un phénomène commun.

En effet, outre les Lumières, véritable phénomène européen qui s'exporte aux Etats-Unis notamment via Jefferson (ambassadeur en France sous Louis XVI), le monde occidental subit de nombreux bouleversements autour de 1780/1790. Les deux principales révolutions, américaine (1774-1783) et française (1789-1799) auxquelles on peut ajouter celle des Caraïbes dès 1791 puis d'autres révolutions, inachevées, en Belgique (1786-1791) ou en Pologne (1791-1794) ou même l'échec aux Provinces-Unies de la révolte contre le Stadhouter (1783 – 1787).

Aux Etats-Unis et en France, les deux révolutions ont une certaine proximité. Elles mobilisent toutes les deux une symbolique et des préoccupations issues de l'Antiquité gréco-romaine comme l'affirmation du citoyen, idéal du propriétaire terrien (1) qui doit être un soldat et un acteur de la vie publique. Toutes deux excluent les femmes de la citoyenneté. Le député montagnard Amar proclamera même devant la Convention le 30 octobre 1793 : « En général, les femmes sont peu capables de conceptions sérieuses. [...] Nous croyons donc qu'une femme ne doit pas sortir de sa famille pour s'immiscer dans les affaires du gouvernement. ». Plus tard, Bonaparte, dans le Code Civil, placera le père au centre du foyer et les femmes seront considérées comme mineures. Les Noirs aux Etats-Unis et les étrangers en France, terre d'invention de la « nation », sont aussi exclus de la citoyenneté.

Si, dans le monde protestant, les révolutions sont plutôt lockienne (de John Locke) ou hobbesienne (de Hobbes) et centrées sur les libertés individuelles, en France celle-ci sera plutôt rousseauiste et centrée sur les libertés collectives. De là le fédéralisme d'un côté et le jacobinisme de l'autre.

On le comprend, depuis les Grandes Découvertes initiées par les Portugais puis par les Espagnols, l'Europe a basculé vers l'Atlantique et cette « mer occidentale » est le théâtre sur lequel s'est joué une partie de notre histoire comme l'atteste l'exemple des « révolutions atlantiques ».

Du 9 novembre au 9 novembre

Le 9 novembre 1989, les habitants de Berlin-est font une brèche puis franchissent le mur de Berlin. C'est alors un vent de liberté qui souffle en Occident et, avec la fin de l'URSS en 1991, c'est la fin du bloc de l'est et du communisme dont il subsiste toutefois quelques scories comme en Corée du Nord ou quelques nostalgies comme en Russie. Fukuyama publie en 1992 La fin de l'histoire ou le dernier homme. L'idée d'un monde en paix, unifié et uniformisé par le libre-échange sous le regard paternaliste des Etats-Unis fait alors son chemin.

Oui mais voilà, la mondialisation heureuse est en réalité depuis 25 ans un cauchemar qui n'a profité qu'aux 1% les plus riches et à une caste d'oligarques et d'apparatchiks qui a su s'entendre avec ces 1%. Le reste ? Ils n'ont plus que la consommation et la société du spectacle pour seul horizon. Endettement, chômage, délocalisation, précarisation, violence, communautarisme, terrorisme, sans oublier le basculement vers le Pacifique, le quotidien des sociétés occidentales s'est profondément dégradé depuis 1991 et l'influence des puissances occidentales a progressivement diminué. Le chaos multiethnique sous fond d'économies arasées par la finance et les pays asiatiques.

A l'international, si quelques puissances émergentes tirent leur épingle du jeu c'est au détriment des conditions de travail, de l'environnement ou des populations autochtones comme les nombreuses populations amérindiennes menacées en Amérique du sud ou les minorités ethno-confessionnelles décimées au Moyen-orient (Chrétiens, Yezidis). Les conflits pour les ressources n'ont fait que s'accroître pour nourrir la bête de la consommation et enrichir quelques privilégiés occasionnant des guerres à répétition en particulier au Moyen-Orient mais aussi en Afrique. Aujourd'hui, la mer de Chine est un territoire explosif du fait des prétentions chinoises.

L'idéologie mondialiste s'est diffusée partout via les médias, le cinéma et la terreur politique : aux Etats-Unis, un propos jugé offensif peut vous valoir une diffusion publique sur Youtube par un.e cinglé.e qui prétend défendre les « minorités » ethniques et sexuelles. Le politiquement correct est omniprésent, les grosses entreprises pratiquent la discrimination positive, vous pouvez être traqué chez vous ou sur votre lieu de travail si vous refusez l'utopie multiculturelle de la mondialisation heureuse.

Voila ce que le peuple des Etats-Unis a envoyé valser le 9 novembre 2016.

Une nouvelle révolution atlantique ?

Après la constitution du groupe de Visegrad, la victoire volée au FPÖ en Autriche, les hauts scores du Front National, le Brexit, voilà que les Etats-Unis portent Trump à la plus haute fonction sur un programme assez clair : rendre l'Amérique grande à nouveau. Comment ? Et bien en s'attaquant à la finance, à l'immigration illégale ou au terrorisme islamiste. Le fera-t-il ? Difficile à dire. Mais ce n'est pas important, comme au XVIIIème siècle, car malgré les différences évidentes entre l'Europe et l'Amérique, l'Occident bat en rythme autour des mêmes préoccupations. Cocus de la mondialisation, menacés dans leur identité, les classes moyennes et populaires blanches, pour la plupart, ont entamé un processus de reprise en main du pouvoir, de rejet de l'oligarchie, de la défense de leurs pays d'un même pas. Le FPÖ, le FN, le Brexit ou Trump sont autant un symptôme qu'un baromètre, à l'instar de ce que fut le « printemps-arabe » dans l'ère civilisationnelle arabo-islamique.

Si Christophe Guilluy parlait de « France périphérique », on pourrait désormais parler « d'Occident périphérique » tant les cartes électorales se ressemblent. Les grandes métropoles multiethniques et les territoires gagnants de la mondialisation soutiennent systématiquement les candidats du Système (Vienne, Paris, Londres, New-York, Los Angeles, etc...) là où les territoires des périphéries et des marges voient leur électorat soutenir massivement les candidats « anti-Système » ou anti-establishment. Même un milliardaire comme Trump car il représente le capitalisme entrepreneurial national et non le capitalisme financier international. Si ce phénomène était isolé à la seule France, on pourrait en tirer des conclusions nationales, mais aujourd'hui, ce n'est plus possible. La victoire de Trump, c'est la victoire des « petits blancs » de l'Amérique oubliée. La victoire de ceux qui en ont marre de subir la culpabilisation en plus du déclassement et de la criminalité.

Dans les années 60 les Occidentaux battaient en rythme autour de la libération des mœurs, du rock n' roll ou des revendications politiques contre la guerre du Vietnam, désormais ils ont des inquiétudes en lien avec les différentes formes d’insécurités : économique, sociale, culturelle ou identitaire. N'en déplaise aux anti-occidentalistes et aux anti-américains primaires, l'Occident fonctionne comme un organisme. Aujourd'hui c'est un organisme qui se défend. La victoire de Trump est donc bien plus significative pour nous que la main mise de Poutine sur la Russie. Pourquoi ? Car Poutine est dans la tradition russe de l'impérialisme tsariste d'origine eurasiatique là où Trump porte une contestation de la mondialisation dans son cœur, les Etats-Unis. La Russie a une histoire très différente de l'Occident sur le plan politique et son rythme lui est propre. L'Angleterre, les Etats-Unis ou la France sont des piliers de la civilisation occidentale (telle que déterminée par Huntington). La victoire de Trump valide donc au moins symboliquement nos orientations récentes sur la Russie et l'Occident.

L'imprévu dans l'histoire ?

Dominique Venner était un passionné de l'histoire des Etats-Unis et il avait bien vu qu'il existait deux Amériques. Mais peut-on pour autant affirmer que l'imprévu dans l'histoire vient de l'élection de Trump ?

Le développement du numérique a beaucoup contribué à ce phénomène, au même titre que l'imprimerie avait pu favoriser le développement de la Réforme au XVIeme siècle qui était un mouvement d'émancipation de Rome assez classique chez les populations germano-nordiques. Perçu comme un moyen de connecter l'humanité, internet a au contraire accentué le phénomène de tribalisation en regroupant les utilisateurs par groupes d'intérêts. Les mouvements patriotes, identitaires et populistes ont su tirer profit d'internet qui permet de contourner la presse officielle, acquise à la mondialisation, par le biais des medias de réinformation. L'imprévu dans l'histoire porte peut-être un nom : Julian Assange. Les révélations de Wikileaks ont grandement aidé Trump, bien qu'évidemment aucun média traditionnel n'en ait parlé. Cela vient en tout cas appuyer une idée que j'ai depuis longtemps et qui déplaira à une partie de notre lectorat, les hackers sont plus utiles que des bataillons de militants impuissants. La victoire de Trump scellera par exemple probablement le sort du TAFTA, ce que n'aurait permis aucun collage d'affiche et aucune manifestation.

La victoire de Trump illustre un phénomène assez récurent : l'homme qui porte les aspirations de son époque et bénéficie des nouvelles méthodes de communication. Même si cela pourra paraître caricatural, reconnaissons que l'excommunication de Luther ne l'a jamais empêché d'impulser la Réforme, car il pouvait s'appuyer sur la création de l'imprimerie dans des territoires qui lui étaient favorables. De la même façon, les mandats d'arrêts contre Julian Assange n'ont pas pu empêcher l’œuvre de Wikileaks. La « nouvelle opinion publique occidentale » est désormais une réalité et elle a peut-être conquis la première puissance mondiale. Il ne s'agit pas ici de voir Trump comme le héraut d'une révolution quelconque, mais d'analyser le phénomène comme un événement de l'histoire immédiate dans le temps long historique.

Une question se pose désormais : la France sera-t-elle à la hauteur de son histoire dès 2017 ?

Jean / C.N.C.

Note du C.N.C.: Toute reproduction éventuelle de ce contenu doit mentionner la source.

Relire notre article : Trump sans l'aimer ?

Notes :

1 Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen, article 2 : « le but de toute association politique est la conservation des droits naturels et imprescriptibles de l'homme. Ces droits sont la liberté, la propriété, la sûreté et la résistance à l'oppression. »

Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen, article 17 : « la propriété étant un droit inviolable et sacré, nul ne peut en être privé [...]»

mercredi, 09 novembre 2016

Le chaos s’éclaircit: voici pourquoi les USA utilisent l’ISIS pour conquérir l’Eurasie

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Le chaos s’éclaircit: voici pourquoi les USA utilisent l’ISIS pour conquérir l’Eurasie

 
omme tout document exceptionnel, le texte qu’Arrêt sur Info reproduit ci-dessous, rédigé en 2014, demeure d’actualité.

L’auteur développe là une analyse unique en son genre, comparant les pratiques de premières frappes préventives des USA et de leurs associés à celles des guerres de course menées par les corsaires et les pirates… il y a seulement quelques siècles. Il y aborde notamment les risques d’une troisième guerre mondiale, le Pape, ISIS, les Baptistes, l’Ukraine, la question kurde…


mort-1c26a45.pngAu XVIe siècle, les pirates et les corsaires semaient la terreur sur les mers

Les corsaires étaient des particuliers (souvent des armateurs), qui engageaient des capitaines habiles dans la navigation, pour poursuivre leurs propres intérêts, en collaboration avec les intérêts politiques d’une puissance, qui leur fournissait, justement, une « lettre de course ». Cette lettre les habilitait à attaquer et à piller les vaisseaux d’autres puissances, sous certaines conditions (en général une guerre).

Les activités des pirates et celles des corsaires étaient pratiquement les mêmes. Seules changeaient les couvertures politiques officielles. Certains corsaires finissaient leur carrière comme pirates, parfois pendus par les mêmes gouvernements qui les avaient engagés.

De fait, les corsaires pouvaient se permettre de faire les choses qu’un État considérait comme politiquement ou économiquement imprudent de faire lui-même.

Les Compagnies commerciales constituaient une variante à bien plus grande échelle, et bien plus organisée. Elles étaient dotées de privilèges, comme la célèbre Compagnie anglaise des Indes orientales, qui, quoique totalement privée (la Couronne anglaise ne possédait pas même une action des Compagnies anglaises), jouissait du nihil obstat [1] [l’autorisation donnée par l’autorité compétente, NdT] pour conduire des guerres et des activités de gouvernement.

« Corsaires » et pirates ont suscité les fantaisies romantiques et libertaires de générations de gens qui, par contre, fronçaient le nez devant les entreprises de leurs mandants.

Aujourd’hui, l’histoire se répète, en pire

Depuis plus de 30 ans, les groupes armés des soi-disant fondamentalistes islamiques constituent une forme encore plus perverse de ces grandes compagnies d’aventuriers, au service de l’Empire étatsunien. Les bases de cette alliance-service furent jetées pendant la Première Guerre mondiale par des gens comme St. John Philby [2] et Gertrude Bell [3], brillants agents anglais parfaitement préparés, qui travaillaient en contact étroit avec les princes saoudiens.

On a vu cette alliance à l’œuvre en Afghanistan dans les années 80, sous la savante conduite criminelle de Zbigniew Brzezinski [4], puis en Bosnie, au Kosovo, en Tchétchénie, en Libye, en Syrie et maintenant en Irak. Il est vraisemblable que son bras long s’étendra jusqu’en Inde, via le Pakistan, et jusqu’au Xinjiang ouighour, en Chine.

L’ISIS, c’est-à-dire l’État Islamique de l’Irak et du Levant (Syrie), est la forme la plus sophistiquée de cette stratégie corsaire. Plus encore qu’Israël [5], l’ISIS est la quadrature du cercle : un État-non-État qui, étant par définition une entité terroriste, a le « droit » d’être en dehors de quelque légalité que ce soit. Les USA ont raison, de leur point de vue, de l’appeler « organisation terroriste » : le soutien politique direct, le soutien organisationnel via l’Arabie saoudite, et, justement, cette définition elle-même, constituent la « lettre de course » que la Superpuissance leur fournit. En d’autres termes, ils ont le droit-devoir d’être des terroristes.

Exactement comme c’était le cas des corsaires jadis, sous le déguisement de « combattants de la liberté » (anti-Assad), ils ont suscité les fantaisies romantiques d’humanistes ingénus (parfois, hélas, ils sont même tombés dans la mortelle toile d’araignée) et de soi-disant internationalistes, dont Jupiter avait décidé la perte. Nous pouvons supposer qu’à présent ils se sentent un peu perdus. Nous, au contraire, nous commençons à voir plus clairement les contours d’un dessin assez précis.

La stratégie des premières attaques, analogue à celle des corsaires avec leurs Guerres de course

Dans les années 80 déjà, la Rand Corporation [6] avait « prévu » que les guerres futures seraient un mixte de conflits stellaires et de conflits prémodernes menés par des entités infra-étatiques. Prévision aisée à faire, puisque la Rand faisait partie du complexe qui était en train de préparer ce scénario.

Cette stratégie s’appuie sur une parfaite logique. En fait, les « guerres des étoiles », menées jusqu’à leurs dernières conséquences, ne peuvent que se transformer en conflits nucléaires. Par contre, la guerre de course, par l’intermédiaire d’entités infra-étatiques, conduite par les USA, après les premiers coups « orthodoxes » portés par l’engeance des Bush et Clinton, a permis à la Superpuissance de lancer cette série de premières attaques (first strikes), qui auraient été très risqués, et donc impossibles, sous forme de guerres orthodoxes entre États, même si la nouvelle attitude nucléaire (New Nuclear Posture [7]) élaborée par les néo-cons sous Bush Jr. ne les excluait pas.

La débandade initiale des rivaux stratégiques démontre qu’il y avait là un coup de génie, évidemment criminel. On a même l’impression que ces rivaux préfèrent courir le risque de guerres terroristes infra-étatiques plutôt que celui d’un conflit ouvert avec un adversaire sans scrupules, et de plus en plus agressif, parce que de plus en plus en difficulté. Une difficulté toutefois relative, que nous chercherons à préciser.

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Un État-non-État à l’abri de son drapeau noir de pirate

Qu’y a-t-il de mieux pour les USA que d’installer dans le centre névralgique de l’Eurasie (déjà objet des cauchemars et des désirs du conseiller de Carter pour la sécurité, le « prophétique » Zbigniew Brzezinski) un État-non- État, un État-zombie, un être-non-être, une organisation territoriale qui, à l’abri de son drapeau noir de pirate, peut menacer d’actions effroyables tous les États voisins, depuis la Syrie, la Russie, l’Iran, la Chine, les républiques centre-asiatiques, puis, tout au long du corridor qui, à travers du Pakistan, pénètre en Inde et qui, à travers le Xinjiang ouighour, prend la Chine à revers ? Difficile d’imaginer meilleure arme non conventionnelle. Très difficile. C’est un terrible pieu planté au beau milieu de l’Organisation de coopération de Shanghaï.

Mais ce n’est pas tout : même l’Europe peut être menacée (cela n’a-t-il pas déjà été fait ?). Cela peut être utile, si elle se montrait trop récalcitrante face au projet néo-impérialiste états-unien, avec des annexes et des connexions du type du criminel Traité transatlantique de libre-échange (TTIP).

La difficulté où se trouveraient, disions-nous, les USA, ne réside pas dans un éventuel déclin inexorable du pays, selon on ne sait quelles lois géopolitiques ou économiques. En réalité, la difficulté réside dans le système capitaliste même, qui est aujourd’hui encore centré sur les USA, ce qu’on ne peut contester que si l’on pense que le système capitaliste est mesurable en termes de profits, Produit intérieur brut, échanges commerciaux et réserves de devises. Cela compte aussi, mais pas uniquement, parce que le système capitaliste est un système de pouvoir.

De plus, les puissances émergentes ont émergé, pour ainsi dire, « en retard » (il ne pouvait en être autrement), c’est-à-dire que les capacités destructrices militaires, industrielles, écologiques et financières mondiales ont déjà été massivement hypothéquées par un État-continent appelé États-Unis d’Amérique et par ses vassaux. Il est vrai que nous, pays capitalistes occidentaux à capitalisme mûr, ne comptons que pour 1/7e de la population mondiale, mais c’est justement ce qui donne l’inquiétante mesure du problème, puisque nous comptons immensément plus pour ce qui est de la capacité destructrice.

Une totale absence de scrupules

Le réalisateur Oliver Stone et l’historien Peter Kuznick ont fait remarquer, avec beaucoup d’acuité, qu’avec Hiroshima et Nagasaki, les USA ne voulaient pas seulement démontrer qu’ils étaient surpuissants, mais aussi (ce qui encore plus préoccupant) qu’ils n’auraient aucun scrupule dans la défense de leurs intérêts propres : ils étaient prêts à réduire massivement en cendres hommes, femmes et enfants.

Les populations libyennes, syriennes et irakiennes, martyrisées par les corsaires fondamentalistes, sont l’effroyable démonstration de cette absence de scrupules : ces épisodes de génocides par étapes sont accomplis en lieu et place de l’unique extermination nucléaire, jugée trop risquée. Dans ce sens précis, l’ISIS est utilisée comme une arme de destruction massive échelonnée.

En Occident, cette stratégie reste incompréhensible pour la plupart des gens

Il est vrai qu’elle est complexe, parce qu’elle se fonde sur un jeu complexe d’intérêts différenciés, depuis des intérêts purement idéologiques jusqu’à des intérêts purement maffieux. Cela n’en reste pas moins surprenant, parce que, outre que cette stratégie est désormais claire dans ses objectifs (évidemment parce que les USA eux-mêmes les ont éclaircis), elle est, comme on l’a vu, la réédition d’une stratégie connue et bien connue.

Sa perception pouvait être confuse pendant le conflit afghan des années 80. Il pouvait alors être difficile de comprendre la connexion entre choc des cultures, invasion soviétique et naissance de la guérilla islamiste, soutenue et organisée par les USA. Pourtant, certains chercheurs, en petit nombre, il est vrai, et traités comme des excentriques, avaient déjà fait remarquer les connexions entre crise systémique, reaganomics [8], financiarisation, conflits géopolitiques, et la reprise d’initiative néo-impériale des USA après la défaite au Vietnam (combien de fois a-t-on présenté les USA comme fichus !). Je veux parler des chercheurs regroupés dans l’école du « système-monde ».

Il est en tout cas curieux qu’une gauche aussi déterminée dans les années 60 et 70 à lutter pour la défense du prosoviétique Vietnam se soit retrouvée, très peu d’années après, à faire des clins d’œil aux fondamentalistes soutenus par les USA contre une Union soviétique maintenant considérée comme l’Empire à détruire à tout prix.

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Les ex-militants de gauche sont devenus des supporters de la nouvelle politique impériale

Avec les Tours jumelles, début de la Troisième Guerre Mondiale par zones dont parle même aujourd’hui le Pape (a-t-il vraiment fallu 13 ans au Vatican pour le comprendre ?), la dérive totale de la gauche était pré-annoncée par un spectaculaire chant du cygne : les énormes manifestations contre les guerres de Bush Jr. et les politiques néo-libérales globalisées. On était sur la bonne voie, car c’étaient là exactement les deux aspects complémentaires du mariage entre argent et pouvoir, mis à nu par la crise systémique. Et pourtant, il a suffi de l’approfondissement de cette crise et de son irruption dans les centres capitalistes occidentaux, puis de l’élection sanctifiée de Barack Hussein Obama, pour faire dérailler tout raisonnement : et des centaines de milliers d’ex-militants ont été transformés en supporters actifs, passifs ou inconscients de la nouvelle politique impériale. Ce n’est pas une exagération : il suffit de comparer les 3 millions de personnes dans la rue à Rome en 2003 contre la guerre contre l’Irak et les 300 (trois cents !) personnes dans la rue à Rome en 2011 contre la guerre contre la Libye.

Mais le pire, c’est que ce n’est pas le résultat d’un programme de conditionnement sophistiqué ! C’est le succès des stratégies de communication introduites en leur temps par le Nazi Goebbels, redistribuées à travers les vieux et les nouveaux médias, avec une variante décisive : non seulement des mensonges gros comme des maisons répétés partout à l’unisson et par tous les médias, mais, en plus, assaisonnés avec les termes et les concepts qui plaisent le plus à la gauche. Si lancer des bombes fait froncer le nez, il suffit de dire qu’elles sont intelligentes ou même humanitaires, voire qu’elles constituent tout bonnement des aides humanitaires.

L’Empire parle alors un langage d’un registre étendu, depuis le registre réactionnaire, jusqu’au registre du progrès technique, social et politique. Ce n’est pas vraiment une nouveauté, mais sa cible est une société en voie de désarticulation, à cause de la crise toujours plus féroce, abandonnée et même trahie par les intellectuels et les politiciens auxquels elle s’était confiée, et où, hélas, même dans les quelques bastions de résistance qui restent, les effets mutagènes du langage impérial exercent leurs ravages.

Comme le commenta alors [2011] une vignette d’Altan [Dessinateur humoriste italien, NdT], il y a un truc, cela se voit parfaitement, mais tout le monde s’en fiche. Les raisons devraient en être étudiées de façon beaucoup plus approfondie que dans les rapides propositions qui précèdent, pour comprendre comment on peut sortir de ces limbes suspendus au-dessus du gouffre.

De toute façon, la « guerre contre le terrorisme » n’a abattu aucun terrorisme, parce qu’il n’y avait aucun terrorisme à abattre. En revanche, elle a détruit des États, d’abord l’Afghanistan, puis l’Irak.

Entre temps, le terrorisme est entré en sommeil, et n’est réapparu que pour donner quelques nécessaires preuves de vie, à Madrid et Londres, au cœur de l’Europe. En réalité, il était en phase de réorganisation, dans le sens où on était en train de le réorganiser pour les nouveaux théâtres d’opérations, peut-être, au début, pas encore très clairs dans l’esprit des stratèges états-uniens parce que, dans les crises systémiques, même celui qui génère et utilise le chaos en ressent les conséquences.

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La gauche a déployé une stupéfiante capacité à ne rien comprendre

Avec Obama, les objectifs et la stratégie s’éclaircissent progressivement. Une fois la nouvelle armée corsaire réorganisée et montée en puissance, éclate la nouvelle offensive, moyennant deux préludes : le discours d’Obama à l’Université du Caire en 2009 et les « printemps arabes » commencés l’année suivante.

Dans les deux cas, la gauche a déployé une stupéfiante capacité à ne rien comprendre. Ayant désormais complètement séparé l’anticapitalisme de l’antiimpérialisme, la plus grande partie du « peuple de gauche » s’est laissé envelopper dans la mélasse du couple « bonnes intentions-droits humanitaires » [… ], élevant n’importe quel bla-bla au rang de concept, puis de Verbe. Il suffit qu’Obama parle, et on s’écrie en chœur : que c’est beau ! Quelle différence entre Obama et ce belliciste antimusulman de Bush ! Vous avez entendu ce qu’il a dit au Caire ?

Pas le plus léger soupçon que l’Empire est en train d’exposer sa nouvelle doctrine d’alliance avec l’Islam politique (alliance qui a son centre logistique, financier et organisationnel en Arabie saoudite, le partisan le plus fidèle et le plus ancien des USA au Moyen-Orient).

C’est encore pire avec les « printemps arabes »

Même alors que les bombardements sur la Libye ont commencé, la gauche n’a pas le bon sens de réviser son enthousiasme pour ces « révoltes ». Paradigmatique fut le démentiel et déplaisant appel de Rossana Rossanda [9] à s’enrôler dans les rangs des égorgeurs de Benghazi (dont le chef venait directement de Guantanamo, avec couverture de l’Otan), « comme les antifascistes l’avaient fait en Espagne ». Cet appel était le signe de la corruption aristotélicienne, non pas d’un cerveau de vieillard, mais de plusieurs générations de rêveurs ayant grandi sous le ciel de l’empire américain, naturel comme le firmament, et invisible comme le temps, donc non perceptible. Sous cette coupole étoilée et globalisée, le capitalisme devenait non plus un rapport social vivant dans une société et des lieux géographiques matériels, mais un simple concept qui s’opposait à un autre concept, celui du capital à celui du travail. Rien de moins matérialiste depuis les temps des discussions sur le sexe des anges.

Désaccoupler le capitalisme de l’impérialisme c’est comme prétendre dissocier l’hydrogène de l’oxygène, tout en voulant en même temps conserver l’eau. Pour un chrétien, c’est comme dissocier le Christ du Saint-Esprit : il en reste quelque chose, qui hésite entre l’érudition livresque et les bons sentiments instinctifs, livré comme une proie à tout démon fourbe et déterminé.

On est arrivé au point qu’un chef d’état-major étatsunien, le général Wesley Clark, révèle que la Libye et la Syrie étaient déjà en 2001 sur une liste d’objectifs sélectionné par le Pentagone, et que de soi-disant marxistes continuent, tranquillement, à croire à des « révoltes populaires », ces révoltes populaires qu’eux-mêmes n’ont pas été et ne sont pas capables de susciter dans leur propre pays. Bref, ce sont là les effets de crises d’abstinence.

Le Mouvement 5 étoiles et Sinistra Ecologia Libertà, apportent un peu de lucidité en Italie

Mais ce sont là désormais des détails résiduels, qui concernent des résidus historiques, privés de valeur politique. Ils servent tout au plus à illustrer le bien plus grave phénomène de toute une gauche confrontée à la Troisième Guerre Mondiale, et qui y arrive dans un état d’impréparation totale, sur les plans théorique, politique et idéologique. Elle est plus désarmée que le « peuple de droite », et souvent se range ouvertement dans le camp des bellicistes.

Ah ! Pasolini, comme tu avais raison de tonner contre les « irresponsables intellectuels de gauche » ! Jusqu’où sommes-nous arrivés !

Il n’y a qu’un petit rayon dans cet été si nuageux. On ne peut qu’être d’accord avec le Mouvement 5 étoiles [10] et le Sinistra Ecologia Libertà [11] sur leur opposition à l’envoi d’armes aux Kurdes (d’ailleurs à quels Kurdes ?). Divers raisonnements s’unissent ici, comme l’indécence d’exporter des armes et l’inutilité de la chose pour résoudre le conflit. Mais la vraie inutilité et l’indécence résident dans le fait que ce conflit est un jeu à somme nulle, dans lequel se trouveront prises des milliers de personnes, à 90 % des civils, comme c’est le cas dans tous les conflits modernes, et comme nous en avertissent des organisations comme Emergency.

Les preuves de ces forfaitures sont là, il suffit de les regarder

Le sénateur John McCain, en apparence franc-tireur, mais en réalité agent plénipotentiaire de la politique de chaos terroriste d’Obama, s’est mis d’accord aussi bien avec les leaders du Gouvernement régional kurde en Irak qu’avec le Calife de l’ISIS, Abu Bakr al- Baghdadi, ex Abu Du’a, ex Ibrahim al-Badri, un des cinq terroristes les plus recherchés par les USA, avec une récompense de 10 millions de dollars.

Il y a des témoignages et des preuves photographiques. Et c’est sur ces photos que se fonde la dénonciation devant l’autorité judiciaire, présentée par leurs familles, du sénateur McCain comme complice de l’enlèvement au Liban, par l’ISIS, de plusieurs personnes.

De même que Mussolini avait besoin d’un millier de morts à jeter sur la table des négociations de paix, les USA, l’ISIS et les dirigeants kurdo-irakiens ont besoin de quelques milliers de morts (civils) à jeter sur la scène de la tragédie moyen-orientale, afin de mener à bien la tripartition de l’Irak et le vol de zones du nord-est de la Syrie (ce qui est le contraire d’une union contre les terroristes de la Syrie et des USA, comme l’écrivent des voyous frivoles dont la plume est vendue au régime). Le tout au bénéfice du réalisme du spectacle.

[…]

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En 1979, Zbigniew Brzezinski avait compris et écrit que le futur problème des USA était l’Eurasie et qu’il fallait donc la balkaniser, en particulier la Russie et la Chine.

Au début du siècle passé, en pleine hégémonie mondiale de l’Empire britannique, le géographe anglais Halford Mackinder [12] écrivait « Qui contrôle l’est de l’Europe commande le Heartland, qui contrôle le Heartland commande l’Ile-Monde, qui contrôle L’Ile-Monde commande le monde ».

Les infatigables déambulations de McCain entre Ukraine et Moyen-Orient ne sont donc pas un hasard. La pensée dominante est toujours la même. Ce qui a changé, c’est que les USA ont compris qu’il n’est pas nécessaire que ce soit ses propres troupes qui fassent tout le sale boulot.

Piotr | 25 Août 2014

[1] Nihil obstat est une locution latine signifiant proprement « rien ne s’oppose ».

[2] Harry St. John Bridger Philby (né le 3 avril 1885 à Badulla, Ceylan – mort le 30 septembre 1960 à Beyrouth, Liban), également connu sous les noms de Jack Philby ou Sheikh Abdullah (الشيخ عبدالله), fut espion britannique, explorateur, écrivain, et ornithologue (wikipedia, français).

[3] Gertrude Margaret Lowthian Bell, née le 14 juillet 1868 à Washington Hall dans le comté de Durham en Angleterre et décédée le 12 juillet 1926 à Bagdad, était une femme de lettres, analyste politique, archéologue, alpiniste, espionne et fonctionnaire britannique (wikipedia, français).

[4] Zbigniew Kazimierz Brzeziński (né le 28 mars 1928 à Varsovie en Pologne) est un politologue américain d’origine polonaise. Il a été conseiller à la sécurité nationale du Président des États-Unis Jimmy Carter, de 1977 à 1981 (wikipedia, français). Il est l’auteur du fameux livre Le grand échiquier (les-crises.fr, français).

[5] Étant formellement un État internationalement reconnu, Israël doit se soumettre à la légalité internationale, même s’il ne le fait pratiquement jamais (il se prévaut de larges dérogations), et il a une organisation politico-institutionnelle complexe (mais celle-ci compte de moins en moins, comme chez nous [en Europe, NdT]).

[6] La RAND Corporation, fondée en 1945, est une institution américaine à but non lucratif qui a pour objectif d’améliorer la politique et le processus décisionnel par la recherche et l’analyse (wikipedia, français).

[7] A New Nuclear Posture (armscontrol.org, anglais, 05-2010)

[8] Le terme de Reaganomics, mot-valise de « Reagan » et « economics » se réfère aux politiques en matière d’économie du président américain Ronald Reagan. Ses quatre piliers furent d’augmenter les dépenses du gouvernement, notamment militaires, de réduire les impôts sur le revenu du travail et du capital, de réduire la régulation, et de contrôler l’argent utilisé pour réduire l’inflation (wikipedia, français).

[9] Rossana Rossanda (Pola, aujourd’hui en Croatie, 23 avril 1924), est une journaliste et une femme politique italienne, dirigeante du Parti communiste italien dans les années 1950 et 1960 (wikipedia, français).

[10] Le Mouvement 5 étoiles (en italien, Movimento 5 Stelle ou Cinque Stelle, M5S) est un mouvement politique italien qui se qualifie d’« association libre de citoyens » (wikipedia, français).

[11] Gauche, écologie et liberté, un des petits partis à gauche de la gauche (wikipedia, français).

[12] Halford John Mackinder (15 février 1861 – 6 mars 1947) est un géographe et géopoliticien britannique. D’après sa théorie du Heartland, on observerait ainsi la planète comme une totalité sur laquelle se distinguerait d’une « île mondiale », Heartland (pour 2/12e de la Terre, composée des continents eurasiatique et africain), des « îles périphériques », les Outlyings Islands (pour 1/12e, l’Amérique, l’Australie), au sein d’un « océan mondial » (pour 9/12e). Il estime que pour dominer le monde, il faut tenir ce heartland, principalement la plaine s’étendant de l’Europe centrale à la Sibérie occidentale, qui rayonne sur la mer Méditerranée, le Moyen-Orient, l’Asie du Sud et la Chine (wikipedia, français).

Note du traducteur : Nous avons supprimé deux courts passages concernant la politique intérieure italienne, qui nous paraissent trop spécifiques pour le public francophone. Nous les avons signalés par la mention […].

Original : Perché gli USA usano l’ISIS per conquistare l’Eurasia

Traduit par Rosa Llorens 

Source:https://blogs.mediapart.fr/danyves/blog/030914/le-chaos-s... 

mardi, 08 novembre 2016

Historiker: Deutschland droht Staatszerfall

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Historiker: Deutschland droht Staatszerfall

Ex: http://www.mmnews.de

Das Wertesystem der Kanzlerin, die Folgen der Flüchtlingspolitik, die Erosion des staatlichen Gewaltmonopols - wie geht es weiter in Deutschland? Historiker Prof. Baberowski im Gespräch mit Joachim Steinhöfel.

„Herr Professor Baberowski, wenn man sie fragt: ‚Für welche drei Dinge steht Angela Merkel als Politikerin ohne Wenn und Aber ein?‘ Was fällt Ihnen dazu ein?“ Die Antwort sollte jeder gehört haben!

Joachim Steinhöfel im Gespräch mit dem Historiker Prof. Dr. Jörg Baberowski über Merkel, die Folgen der Flüchtlingspolitik und die Erosion des staatlichen Gewaltmonopols.

Baberowski glaubt nicht, das sich an der Flüchtlimgspolitik der Regierung etwas ändert. Wenn jedoch in den nächsten Jahren nichts passiert, dann wird es laut Baberowski nicht nur zu einer Staatskrise sondern zu einem Staatszerfall kommen.

 

 

Le Bug !...

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Le Bug !...

Nous reproduisons ci-dessous l'éditorial du dernier numéro de Centurie News (n°9, 4 novembre 2016) qui est consacré aux élections américaines et à ce qu'elles révèlent...

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Le Bug

 

Les élections aux Etats-Unis se terminent le 8 novembre au soir. A moins d’une semaine de ces élections, les sondages semblent encore donner une avance en terme de nombre de sièges de grands électeurs à Clinton, tandis que Trump s’approche et dépasse parfois cette dernière en pourcentage d'intentions de vote. Le résultat est incertain et à cette heure, rien ne permet d'anticiper les résultats. Mais quoi qu’il en soit, cette élection marquera un tournant de l’histoire du monde et ce, pour plusieurs raisons.

 

D’une part, au cœur de la puissance politique, économique et militaire de notre époque, une véritable opposition s’est manifestée. Les élections, qui étaient depuis 30 ans l’occasion d’une opposition factice entre membres modérés d’une élite globalement solidaire, ont laissé la place à un affrontement direct, dur et sous l’œil de l’opinion publique internationale, entre deux candidats que presque tout oppose (Voir Centurie News n°2). Cette opposition fixe la ligne de fracture entre deux destins devenus irréconciliables pour l’Amérique : redevenir une nation ou rester le bras armé d’un empire financier transnational.

 

Cette campagne a mis en lumière les gouffres d’intérêts entre deux camps qui s’appuient sur des populations bien distinctes : d’un côté, une élite aux pratiques mafieuses (chaque nouvelle publication de Wikileaks permet d’en mesurer l’étendue) appuyée sur des bourgeoisies libérales, des minorités sexuelles ou des minorités ethniques qu’elle manipule, alimente et promeut grâce à une politique sociale structurellement déficitaire. Le remboursement des intérêts de ces déficits alimente d’ailleurs un cœur financier resté pour l’essentiel dans l’ombre. De l’autre, une classe moyenne blanche sinistrée par la mondialisation soutenue par des bourgeoisies conservatrices, rejointe par des travailleurs, artisans, employés et entrepreneurs encore insérés économiquement et socialement mais inquiets des effets visibles de la mise en oeuvre de l'agendade la société ouverte : immigration, chômage, pauvreté, déstructuration des normes, marchandisation, violence, destruction de la nature, etc.

 

sad_mac.jpgSur le plan médiatique, cette campagne fut tout aussi marquée. D’un coté, les médias de masse occidentaux, renforcés par le géant Google (Facebook et Twitter étant globalement restés plutôt neutres) et une armada d’ONG, de spécialistes rémunérés, de publicitaires, de people et de journalistes. De l’autre, une population sans médias ou presque, partageant son stress, son enthousiasme, ses informations et ses colères sur les réseaux et les courriers des lecteurs avec une myriade de petites ONG et de médias alternatifs, et une contribution qui restera historique, celle de la communauté informatique alternative mondiale qui, sous la houlette de Wikileaks, a joué un rôle clé dans cette titanesque confrontation.

 

On ne peut évidemment pas ignorer les possibles contributions financières, technologiques ou autres, d’Etats étrangers à cette campagne dont il reste difficile de mesurer l’importance exacte. Le rôle d’une partie des cadres de l’Administration  américaine, qui ne veulent pas se résoudre à ce que leur pays poursuive sa course vers la société ouverte, reste lui aussi à déterminer. En effet, l’intervention du FBI à une grosse semaine de l’échéance et les soutiens militaires dont bénéficie Trump ne laissent aucun doute sur le rôle discret de ces acteurs du jeu. 

 

Autre effet de cette campagne, l’incroyable amateurisme du clan Clinton a dévoilé au monde entier, et dans le détail, une part significative de ses connexions, ses accointances, ses faiblesses et ses orientations stratégiques. La divulgation de dizaines de milliers d’emails du cœur organisationnel d’Hillary Clinton, connecté à celui de la Maison Blanche et à des réseaux financiers, médiatiques et fédéraux, rendra probablement très compliqué l’exercice de son mandat, au moins dans un premier temps. A cela s’ajoutent les risques réels pesant sur elle et son mari d’inculpations dans un grand nombre d’affaires graves dans les mois à venir.

 

Les Français eux, se sont une nouvelle fois regardés dans le miroir de leurs politiques et de leurs médias. Sur ce point, comme sur presque tous les autres, les médias français n’ont pu, à aucun moment, restituer les enjeux réels de cette élection. Dans le protectorat qu’est devenue la France, la colère gronde aussi car les fossés révélés aux Etats-Unis y sont parfaitement transposables : l’élection encore possible de Donald Trump grâce à Julien Assange et sa communauté, aurait un effet d’accélérateur sur le processus de renouvèlement des élites de toute l’Europe occidentale dans les prochaines années. Le bug approche.

 

Centurie News n°9, 4 novembre 2016