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dimanche, 02 mai 2010

Euro-America o Eurasia?

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Archives de Synergies Européennes - 2003

 

 

Euro-america o Eurasia?

Intervento di Fausto Sorini svolto al seminario internazionale PCdoB di Brasilia del 25-26 Settembre 2003, dedicato all'analisi del quadro mondiale (tratto da http://www.resistenze.org)

 

1) Con l’occupazione militare dell’Iraq si è espressa in modo organico una volontà di dominio globale da parte dei settori più aggressivi dell’imperialismo americano. Controllare il Medio Oriente, maggiore riserva petrolifera mondiale, significa condizionare tutte le dinamiche economiche del pianeta, ed in particolare quelle di Unione europea e Cina, che dal petrolio di questa regione sono ancora oggi largamente dipendenti. Non a caso Russia e Cina, nel primo incontro al vertice tra Putin e Hu Jintao, hanno deciso di intensificare la cooperazione in campo energetico.

 

2) Lo scenario è quello di una competizione per l’egemonia mondiale nel 21° secolo. Gli Stati Uniti, di fronte alle proprie difficoltà economiche, a un debito estero che è il maggiore del mondo, all’emergere di nuove aree economiche, geo-politiche e valutarie che ne minacciano il primato mondiale, scelgono la guerra “permanente” e “preventiva” per tentare di vincere la competizione globale sul terreno militare, dove sono ancora i più forti. E dove si propongono di raggiungere una superiorità schiacciante sul resto del mondo, per cercare di invertire una tendenza crescente al declino del loro primato economico.

Nel 1945 gli Usa esprimevano il 50% del PIB del mondo; oggi sono al 25% (come l’Unione europea). Con le attuali tendenze dell’economia mondiale, i centri studi dei Paesi più industrializzati prevedono un ulteriore dimezzamento della % Usa nei prossimi 20 anni. Sarebbe la fine dell’egemonia mondiale dell’imperialismo americano, l’ascesa di nuovi centri di potere, capitalistici e non, un’autentica rivoluzione negli equilibri planetari. Si sono fatte guerre mondiali per molto meno.

 

3) Unione europea, Russia, Cina, India sono le principali potenze economiche e geo-politiche emergenti dotate anche di forza militare. L’Eurasia è il principale ostacolo al dominio Usa sul mondo. Chi avesse ancora dei dubbi, si rilegga Paul Wolfowitz, ideologo dell’amministrazione Bush : “Gli Stati Uniti devono appoggiarsi sulla loro schiacciante superiorità militare e utilizzarla preventivamente e unilateralmente…Il nostro primo obiettivo è di impedire l’emergere ancora una volta (dopo l’Urss - ndr) di un rivale…Ciò richiede ogni sforzo per impedire ad ogni potenza ostile di dominare una regione il cui controllo potrebbe consegnarle una potenza globale. Tali regioni comprendono l’Europa occidentale, l’Asia orientale (la Cina - ndr), il territorio dell’ex Unione Sovietica e l’Asia sud-occidentale (l’India - ndr)”. 

 

4) Non si tratta di una linea congiunturale, facilmente reversibile con un cambio di presidenza, ma di un orientamento che viene dal profondo dei settori più aggressivi e oggi dominanti dell’imperialismo americano. Un orientamento strategico che guarda alle grandi sfide del 21° secolo, non una breve parentesi. Vi sono differenze nei gruppi dominanti Usa e nell’opinione pubblica, nella stessa amministrazione Bush. Ma le posizioni meno oltranziste oggi sono minoranza e prevedibilmente lo saranno per molto tempo, fino a quando la linea attuale non andrà incontro a sconfitte economiche o militari (tipo Vietnam).

 

5) Gli Usa aspirano, come ha ben sintetizzato Fidel Castro, ad una “dittatura militare planetaria”. E’ una minaccia “diversa”, ma per certi aspetti più grande di quella rappresentata dal nazi-fascismo nel secolo scorso. Gli Usa dispongono oggi di una superiorità militare sul resto del mondo assai maggiore di quella che Germania, Giappone e Italia avevano all’inizio della seconda guerra mondiale. Nemmeno il Terzo Reich pensava al dominio globale del pianeta, così come esso viene teorizzato da alcuni esponenti dell’amministrazione Bush. Ciò spiega perché la linea della “guerra preventiva” suscita una opposizione tanto vasta, che coinvolge la grande maggioranza dei Paesi del mondo. E’ significativo che gli Usa, con la scelta di fare la guerra all’Iraq, siano rimasti in forte minoranza nell’Assemblea generale dell’Onu e nel Consiglio di Sicurezza, dove non solo hanno avuto l’opposizione dei paesi maggiori (Francia, Germania, Russia, Cina), ma dove non sono riusciti – pur esercitando pressioni fortissime – a “comprare” il voto di paesi come Messico, Cile, Angola, Camerun, da cui non si attendevano tante resistenze. Con la guerra in Iraq gli Usa hanno scontato un isolamento politico senza precedenti. Si calcola che solo il 5% dell’opinione mondiale abbia sostenuto la guerra. Una nuova generazione che, con il crollo dell’Urss e la crisi dell’ideale comunista, era cresciuta in tanta parte del mondo col mito del modello americano, oggi comincia ad aprire gli occhi e a maturare una coscienza critica potenzialmente antimperialista, come non si vedeva dai tempi del Vietnam. E’ un grande patrimonio, che peserà nel futuro del mondo.

 

6) La spinta verso un mondo multipolare è inarrestabile, anche se essa procederà con gradualità, perché nessuno oggi ha la volontà e la forza di sfidare apertamente gli Usa. Cresce in ogni continente la tendenza alla formazione di “poli regionali”, volti a rafforzare la cooperazione economica, politica, militare dei paesi dell’area per essere presenti sulla scena mondiale con maggiore potere contrattuale. Tutti ritengono di avere bisogno di tempo per rafforzarsi. Questo può spiegare la prudenza della Cina (e per altri versi della Russia) nei rapporti con gli Usa: vogliono rinviare ad altri tempi una possibile frattura, che in particolare la Cina mette nel conto. Mentre Francia e Germania, con diversa collocazione, non considerano matura la fine del legame transatlantico. Tali disponibilità al compromesso si sono espresse nel voto unanime (con la non partecipazione della Siria) a favore della risoluzione 1483 (22 maggio 2003) del CdS dell’Onu, che in qualche misura legittima a posteriori l’occupazione militare dell’Iraq e “riconosce” i vincitori. La questione si ripropone nella trattativa in corso in questi giorni, in cui si tratta di definire natura, ruolo e comando di un eventuale coinvolgimento dell’Onu in un Iraq tutt’altro che normalizzato, dove gli Usa sono impantanati, costretti a spendere cifre astronomiche, militarmente sotto il tiro di una resistenza irakena che si rivela più tenace e radicata del previsto. Le maggiori potenze che pure si sono opposte alla guerra, nella logica della più classica realpolitik - puntano anche a non farsi escludere da ogni influenza sul nuovo Iraq e dai giganteschi interessi legati alla ricostruzione del paese; e a tutelare i propri interessi in campo, dalle concessioni petrolifere al recupero dei debiti contratti dal vecchio regime di Saddam Hussein. Cercano di costringere gli Usa, oggi in difficoltà, ad accettare quei vincoli Onu ai quali nei mesi scorsi si erano sottratti. Il rischio è quello di contribuire a sostenere e legittimare l’occupazione militare e il comando degli Usa in Iraq, offrendo loro un salvagente senza significative correzioni della loro politica aggressiva. Vedremo su quali basi avverrà il compromesso.

 

7) Questa guerra ha fatto nascere un forte movimento popolare, che ha coinvolto centinaia di milioni di persone, in ogni continente. Il 15 febbraio 2003 più di cento milioni di persone hanno manifestato contemporaneamente in ogni parte del mondo. Era dalla fine degli anni ’40, dai tempi del Movimento dei partigiani della pace, che non si vedeva una mobilitazione così estesa a tutte le latitudini. Si tratta di una delle novità più importanti del quadro internazionale dopo il 1989. Anche se tale movimento non ha avuto la forza per fermare la guerra e oggi vive una fase di delusione e di riflusso, si sono poste importanti premesse per le lotte future e per la ricostruzione di un movimento mondiale contro la logica imperialista della guerra, che non si fermerà. Vi è qui un terreno fondamentale di lavoro per i comunisti e le forze rivoluzionarie di ogni parte del mondo. Purtroppo mancano forme anche minime di coordinamento internazionale di tale lavoro; e questo limite, che dura ormai da molti anni, non vede ancora in campo ipotesi di soluzione ed iniziative adeguate da parte dei maggiori partiti comunisti che avrebbero la forza e la credibilità per prenderle. Ciò rende tutto più difficile, ed espone il movimento contro la guerra, soprattutto in alcune regioni del mondo, all’influenza prevalente delle socialdemocrazie, delle Chiese o di alcuni raggruppamenti trotzkisti (come è stato finora, in buona misura, nel movimento di Porto Alegre). L’appuntamento del prossimo Forum Sociale Mondiale in India, potrebbe vedere in proposito alcune novità, ed un suo ampliamento unitario: in senso geo-politico, con il coinvolgimento dell’Asia, oltre l’asse originario imperniato su Europa occidentale, Stati Uniti e America Latina (poi si dovrà guardare all’Africa, all’Europa dell’Est, alla Russia); e in senso politico, con l’auspicabile superamento di una persistente pregiudiziale antipartitica, che si è finora risolta in sorda ostilità soprattutto nei confronti dei partiti comunisti. Se sarà così, il movimento non potrà che trarne vantaggio, consolidamento e maggiori legami coi movimenti operai dei rispettivi paesi, con generale beneficio del movimento mondiale contro la guerra e la crescita in esso di una più matura coscienza antimperialista.

 

8) L’opposizione alla “guerra preventiva” viene non solo dalle tradizionali forze di pace, ma anche da parte di potenze imperialiste come Francia e Germania, che fanno parte del nuovo ordine mondiale dominante. Potenze non “pacifiste”, come si è visto in Africa (ad es. in Congo, dove la competizione interimperialistica tra Francia e Stati Uniti, per il controllo delle immense risorse minerarie della regione è costata la vita in pochi anni a 4 milioni di persone…); o nella guerra della Nato contro la Jugoslavia, che ha visto Francia e Germania pienamente coinvolte. Questi paesi sono gli assi portanti dell’Unione europea, un progetto autonomo di costruzione di un polo imperialista (con la sua moneta : l’ euro) che vuole giocare le sue carte nella competizione globale. E che in prospettiva punta a dotarsi di una forza militare autonoma dagli Usa. Questi paesi non accettano di sottomettersi al dominio Usa, ma procedono con prudenza in questo processo di autonomizzazione : non hanno oggi la forza di sfidare apertamente gli Usa, non hanno un sufficiente consenso degli altri Paesi dell’Unione europea per mettere apertamente in discussione l’equilibrio “transatlantico”.

 

9) Le contraddizioni che oppongono la grande maggioranza dei Paesi del mondo al progetto militarista e unipolare Usa, sono di natura diversa: -vi sono contrasti tra imperialismo e Paesi in via di sviluppo, che aspirano alla pace e a un ordine mondiale più giusto nella ripartizione delle ricchezze del pianeta; - vi sono contrasti tra imperialismi, per la ripartizione delle risorse mondiali e delle rispettive sfere di influenza; - vi sono contrasti tra imperialismo e paesi di orientamento progressista (Cina, Vietnam, Laos, Corea del Nord, Cuba, Venezuela, Brasile, Libia, Siria, Palestina, Sudafrica, Bielorussia, Moldavia…) che in vario modo aspirano ad un modello di società diverso dal capitalismo dominante. Si evidenzia qui in particolare il contrasto con la Cina, grande potenza socialista (economica e nucleare), diretta dal più grande partito comunista al mondo, che sta emergendo come la grande antagonista degli Usa nel 21° secolo. Questo dichiarano apertamente vari esponenti Usa, che valutano che nei prossimi 20 anni, con gli attuali tassi di sviluppo, il PIB della Cina potrebbe eguagliare quello degli Usa, il divario di potenza militare potrebbe ridursi, e quindi “bisogna pensarci prima che sia tardi”, se non si vuole che la Cina divenga per gli Stati Uniti, nel 21° secolo, quello che l’Urss è stata nel secolo scorso; - vi sono contrasti con grandi paesi come la Russia e l’India (potenze nucleari), che pur non avendo oggi una coerente collocazione progressista in campo internazionale, non fanno parte del sistema imperialistico dominante, e hanno interessi nazionali e una collocazione geo-politica che contraddicono le aspirazioni egemoniche degli Usa. La Casa Bianca, nel suo documento sulla Sicurezza nazionale del settembre 2002, li definisce paesi dalla “transizione incerta”, che potrebbero evolvere verso una crescente omologazione agli interessi Usa e al suo modello sociale e politico (distruzione di ogni statalismo in campo economico, democrazia liberale in campo politico-istituzionale, rinuncia al potenziamento del proprio potenziale militare e nucleare e ad ogni “non allineamento” in politica estera…); ma che potrebbero evolvere in senso opposto e quindi rappresentare una “minaccia” per l’egemonia Usa e per l’attuale ordine mondiale dominante.

 

10) Vi è una spinta, nei vari continenti, alla formazione di entità regionali più autonome dagli Usa e con un proprio protagonismo sulla scena mondiale: -in Europa, con l’Ue e il rapporto Ue-Russia; -nell’area ex-sovietica, con la Csi; -in America Latina, con il Mercosur e la convergenza progressista di Brasile, Cuba, Venezuela…; -in Africa, con l’Unione africana e il Coordinamento per la cooperazione e lo sviluppo dei paesi dell’Africa australe (SADC), imperniato sul nuovo Sudafrica e sui governi progressisti della regione (Angola, Mozambico, Namibia, Zimbabwe, Congo, Tanzania…); -in Asia, con lo sviluppo del rapporto Cina-Asean/Cina-Vietnam. Nel 2010 i dieci paesi dell’Asean e la Cina formeranno il più grande mercato comune del pianeta; con le spinte verso una riunificazione della Corea su basi di neutralità, denuclearizzazione e allontanamento di tutte le basi militari straniere; con il rafforzamento del ruolo del “Gruppo di Shangai” (Russia, Cina, Kazachistan, Kirghisia, Uzbekistan, Tagikistan) : imperniato sull’asse russo-cinese, con la recente significativa richiesta di Putin all’India di entrare a farne parte. Il processo di avvicinamento tra Cina e India pesa enormemente sugli equilibri mondiali.

 

11) Gli Usa osteggiano il formarsi di questi “poli regionali” e cercano di favorirne la “disaggregazione”, oppure di sostenere all’interno di essi l’egemonia delle forze che sono sotto la loro influenza. Ne derivano contrasti di natura diversa nei principali organismi internazionali (Onu, FMI, G7, Wto, Unione Europea, nella stessa Nato). Ultimo in ordine di tempo il fallimento del vertice WTO a Cancun, dove è emerso uno schieramento “Sud-Sud”, imperniato su Cina, India, Brasile, Sudafrica (e con la significativa presenza di paesi come Cuba e Venezuela) che si è fatto interprete degli interessi dei Paesi in via di sviluppo, contro le pretese egemoniche dei maggiori centri dell’imperialismo. Le contraddizioni tendono continuamente a ripresentarsi : basti pensare alle tensioni e alle minacce che investono Iran, Siria, Arabia Saudita, crisi palestinese, Corea del Nord, Venezuela, Cuba; ad una situazione interna all’Iraq non normalizzata; alla permanente competizione economica e valutaria Usa-Ue / dollaro-euro... Ma c’è diversità di interessi in campo, di progetti politici e di modello sociale, anche tra le forze che si oppongono all’unilateralismo Usa. Ad esempio : la Cina, il Vietnam, Cuba, il Venezuela…non hanno la stessa collocazione strategica, della Germania di Schroeder o della Francia di Chirac, che invece difendono un certo modello economico e un ordine mondiale fondato sul predominio delle grandi potenze capitalistiche. Emblematica la vicenda di Cuba che è sostenuta dai Paesi socialisti e progressisti, ma osteggiata dall’Unione europea che si è vergognosamente avvicinata agli Usa nel rilancio di una campagna ostile. La lotta di classe non è scomparsa, così come non scomparve negli anni ’40 quando forze tra loro assai diverse per riferimenti sociali e politici trovarono una comune convergenza contro il nazi-fascismo, per poi tornare a dividersi negli anni della guerra fredda, perché portatori di interessi e di modelli di società tra loro alternativi.

 

12) Il fatto che l’opposizione alla guerra di grandi paesi come Russia, Cina, Francia, Germania non abbia superato una certa soglia di asprezza (oltre la quale il contrasto tende a spostarsi sul terreno dello scontro aperto, anche militare); il fatto che momenti di forti divergenze si alternino a situazioni in cui prevale la ricerca di una mediazione e di un compromesso, sorge non già – come sostengono le teorie di Toni Negri sul nuovo impero - dall’esistenza di interesse omogenei di un presunto “capitale globale” e di un presunto “direttorio mondiale” in cui esso troverebbe espressione politica organica e unitaria, ma da rapporti di forza internazionali che, sul piano militare, non consentono oggi a nessun paese o gruppo di paesi di portare una sfida aperta, oltre certi limiti, alla superpotenza Usa.

 

13) Come ricostruire internazionalmente un contrappeso capace di condizionare la politica estera degli Stati Uniti? Questo è il problema n°1 per tutte le forze che non vogliono una nuova tirannia globale. E’ necessaria la convergenza di più forze, tra loro assai diverse: -innanzitutto la resistenza del popolo irakeno e delle forze che in Medio Oriente la sostengono (Siria, Iran, resistenza palestinese…) per mantenere aperto il “fronte interno”, contro l’occupazione militare, e scoraggiare nuove avventure. E’ necessario un sostegno internazionale a questa resistenza, oggi pressochè inesistente al di fuori del mondo arabo; sostegno non separabile da quello alla causa palestinese, in grave difficoltà dentro una dinamica politico-diplomatica sempre più condizionata dagli Usa, che con Israele vogliono il controllo pieno del Medio Oriente; -la ripresa del movimento per la pace negli Usa e su scala mondiale, riorganizzando le sue componenti più dinamiche e determinate, per impedirne la dispersione e il riflusso; -il consolidamento delle più larghe convergenze politico-diplomatiche tra Stati, contro l’unilateralismo Usa, senza di che è impensabile una ripresa di ruolo dell’Onu (obiettivo che non va abbandonato, in assenza di alternative più avanzate che oggi non esistono). Si impone un maggior ruolo dell’Assemblea generale rispetto al Consiglio di Sicurezza e una composizione più rappresentativa del Consiglio stesso; -lo sviluppo, negli Stati Uniti, di una opposizione alla politica di Bush e in Gran Bretagna a quella di Blair, oggi entrambi in crisi di consenso. La difesa intransigente del diritto di Cuba, della Siria, dell’Iran, della Corea del Nord e di ogni altro paese minacciato a proteggere la propria sovranità da ogni ingerenza esterna, è parte integrante della lotta contro il sistema di guerra, indipendentemente dal giudizio che ognuno può avere sulla situazione interna di questo o quel paese.

 

14) Come evolverà l’Europa? Sono emerse divisioni non facilmente superabili tra Usa e Unione europea, all’interno dell’Unione europea e della Nato (cioè tra alleati del tradizionale blocco atlantico), come mai era accaduto nel dopoguerra. Nell’Unione europea (e nella Nato) continuerà il contrasto tra filo-americani e sostenitori di un’Europa più autonoma dagli Usa, imperniata sul rapporto preferenziale tra Francia - Germania - Russia. Anche per questo gli Usa vorrebbero l’ingresso nell’Ue di Turchia e Israele, loro alleati di fiducia (soprattutto Israele, perché anche in Turchia, come si è visto in relazione al conflitto irakeno, sta emergendo una dialettica nuova). Una sconfitta elettorale (possibile) dei governi di centro-destra in Italia e in Spagna, favorirebbe una collocazione europea più autonoma.

 

15) E’ vero che gli Usa sono oggi orientati ad agire anche militarmente in modo unilaterale, senza farsi condizionare né dall’Onu nè dalla Nato, ma essi non rinunceranno alla Nato, che continua ad essere per loro uno strumento prezioso per controllare l’Europa e le strutture politico-militari, di sicurezza, di intelligence, nonché l’industria e la tecnologia militare dei Paesi europei integrati nell’Alleanza. E per disporre di basi militari sul continente, poste sotto il loro controllo, magari spostandole o creandone di nuove nei paesi europei più fedeli e sottomessi, come alcuni paesi dell’Est. Gli Usa dispongono di una presenza militare in 140 Stati su 189 (con altri 36 vi sono accordi di cooperazione militare), con 800 basi militari e 200.000 soldati dislocati all’estero in permanenza (esclusi quelli presenti in Iraq). Ciò rende attualissima e non rituale la ripresa di una iniziativa del movimento per la pace per la chiusura delle basi militari Usa nei rispettivi Paesi. Per il ritiro di tutti i militari impegnati all’estero a supporto di azioni di guerra e di occupazione militare. Per attivare iniziative e dinamiche di disarmo in campo internazionale.

 

16) Un intellettuale britannico vicino a Tony Blair, ha scritto dopo la guerra in Iraq che in Europa il bivio è “tra euroasiatici, che vogliono creare un’alternativa agli Usa (lungo l’asse Parigi – Berlino – Mosca – Delhi – Pechino) ed euroatlantici, che vogliono mantenere un rapporto privilegiato con gli Usa”. Tony Blair ha espresso con chiarezza la sua linea euroatlantica in una intervista al Financial Times (28.05.2003), affermando: “Alcuni auspicano un mondo multipolare con diversi centri di potere che si trasformerebbero presto in poteri rivali. Altri pensano, e io sono tra questi, che abbiamo bisogno di una potenza unipolare fondata sulla partnership strategica tra Europa e America”. Dunque: “Euro-america” o “Eurasia”?

 

17) Chi vuole un’ Europa davvero autonoma dagli Usa e dal suo modello di società, deve avere un progetto alternativo, che vada oltre l’attuale Unione europea e le basi su cui essa è venuta formandosi e che comprenda tutti i paesi del continente (anche Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia…). Un progetto che: -sul piano economico, contrasti la linea delle privatizzazioni e prospetti la formazione di poli pubblici sovranazionali (interessante la proposta, in altro contesto, che il presidente venezuelano Hugo Chavez ha sottoposto a Lula, per la formazione di un polo pubblico continentale per la gestione delle risorse energetiche, collegato ad una banca pubblica regionale che serva a finanziare progetti di sviluppo e con finalità sociali); -sul piano politico-istituzionale, contrasti ipotesi federaliste volte a svuotare la sovranità dei Parlamenti nazionali e sostenga un’ipotesi di Europa fondata sulla cooperazione tra Stati sovrani, non subalterna ai poteri forti delle maggiori potenze imperialistiche che dominano l’attuale Unione europea; -sul piano militare, preveda un sistema di sicurezza e di difesa pan-europeo, alternativo alla Nato, comprensivo della Russia (una sorta di Onu europea), che già oggi – considerando il potenziale nucleare di Francia e Russia – disporrebbe di una forza difensiva sufficiente a dissuadere chiunque da un’aggressione militare all’Europa. Dunque, un progetto opposto a quello di un riarmo dell’Unione europea, di una sua militarizzazione e vocazione imperialistica, volte a rincorrere gli Usa sul loro terreno. E’ vero che oggi l’imperialismo franco-tedesco è assai meno pericoloso per la pace mondiale di quello americano e può fungere a volte da contrappeso. Ma guai a trarne una linea di incoraggiamento al riarmo dell’Ue: i movimenti operai e i popoli europei, e qualsivoglia progetto di Europa sociale e democratica, verrebbe colpiti al cuore da una politica di militarizzazione del continente su basi neo-imperialistiche. Essa stimolerebbe la corsa al riarmo a livello internazionale, e il costo di una crescita esponenziale delle spese militari, in un’Europa neo-liberale dove già oggi vengono colpite duramente le spese sociali, distruggerebbe quel poco che rimane dell’Europa del Welfare.

 

18) L’Unione europea non può fare da sola. Se vuole reggere il confronto con gli Usa ed uscire dalla subalternità atlantica, deve essere aperta ad accordi di cooperazione e di sicurezza con la Russia (che è parte dell’Europa), con la Cina, l’India; e con le forze più avanzate e non allineate che si muovono in Africa, in Medio Oriente, in America Latina. Solo una rete di unioni regionali, non subalterne agli Usa (di cui l’Europa sia parte) può modificare i rapporti di forza globali e condizionare la politica Usa. Gli Usa non possono fare la guerra a tutto il mondo.

 

19) In paesi come Russia, Cina, India – potenze nucleari in cui vive la metà della popolazione del pianeta, che potrebbero esprimere tra 20 anni un terzo della ricchezza mondiale (e che la stessa amministrazione Bush definisce “paesi dalla transizione incerta”) – le forze comuniste, di sinistra, antimperialiste, non subalterne al modello neo-liberista e agli Usa, costituiscono già oggi una forza maggioritaria (in Cina) o che potrebbe diventarlo (Russia, India) nell’arco di un decennio.

Un’alleanza elettorale in India tra Congresso e Fronte delle sinistre (animato dai comunisti) potrebbe vincere le prossime elezioni (previste per il 2005), su un programma che recuperi le istanze progressive del non-allineamento. Un’avanzata dei comunisti e dei loro alleati alle prossime elezioni politiche in Russia può creare le condizioni per un compromesso con Putin (con una parte almeno delle forze che sostengono Putin) e collocare la Russia su posizioni più avanzate. Sono possibilità, non certezze. Per questo parlo di un processo che potrebbe maturare “nell'arco di un decennio”. Ma che dispone delle potenzialità per affermarsi e su cui forze importanti in questi Paesi stanno lavorando.

 

20) Come ha sintetizzato Samir Amin, “un avvicinamento autentico fra l’Europa, la Russia, la Cina, l’Asia costituirà la base sulla quale costruire un mondo pluricentrico, democratico e pacifico”. Un’ Eurasianon allineata può rappresentare un interlocutore fondamentale anche per le forze progressiste in America Latina e in Africa. Non sarebbe il socialismo mondiale, ma certamente un avanzamento strategico nella direzione giusta. E con il clima politico che caratterizza il mondo di oggi, non sarebbe poco.

 

jeudi, 29 avril 2010

Après Katyn: vers un axe Berlin-Varsovie-Moscou?

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Après Katyn : vers un axe Berlin-Varsovie-Moscou ?

Entretien avec Michel Drac par Jean-Michel Vernochet

Ex: http://www.geopolintel.fr/

Jean-Michel Vernochet - Quelles conséquences le tragique accident aérien de Katyn qui a couté la vie à l’élite polonaise d’obédience atlantiste, auront-elles sur les relations russo-polonaises ?

Michel Drac – À mon humble avis, ce n’est qu’une péripétie. L’évolution géopolitique de la Pologne, comme celle de n’importe quel État, est prédéterminée, en amont par des décisions gouvernementales relatives à un ensemble de contraintes économiques et stratégiques. Disons que le renouvellement forcé des élites polonaises va probablement accélérer les mutations futures du positionnement polonais, mais l’évolution de fond sera peu affectée. Ce n’est qu’une question de tempo.

JMV - Dans quel contexte faut-il interpréter l’amorce de rapprochement russo-polonais perceptible à Katyn ?

M.D - Depuis la chute de l’URSS, la stratégie atlantiste vise à encercler la Russie. Pour l’Alliance euratlantique il n’y a qu’un seul rival économique potentiel, la Chine, et une seule puissance géopolitique capable, en s’alliant avec Pékin, de définir un pôle de puissance rival de la puissance anglo-américaine au sein de la future gouvernance globale : la Russie. Il est donc essentiel, pour les élites de Washington (et de Londres) d’empêcher la Russie d’occuper une position centrale au sein d’une future économie continentale eurasiatique. Le point coaxial de cette grande stratégie atlantiste se trouve en Asie centrale (d’où la priorité accordée par Obama à l’Afghanistan), mais il existe une multitude de terrains secondaires (jusqu’au face-à-face Colombie – Venezuela). Une nouvelle guerre « très froide » oppose ainsi l’Organisation de Coopération de Shanghai (OCS) à l’OTAN, l’un des champs de bataille secondaires de cette nouvelle « guerre froide » étant bien entendu l’ancien glacis soviétique.

Là, il faut empêcher la Russie de reconstituer, sous des formes nouvelles, la zone d’influence moscovite (Ukraine, Biélorussie, Pays Baltes, Pologne, Balkans et Europe danubienne). Depuis la « libération » de l’Europe de l’Est, cette stratégie s’est développée suivant trois axes principaux : instrumentaliser un nouveau « Drang nach Osten » allemand vers l’Europe danubienne ; susciter des conflits dans les Balkans en réveillant des antagonismes ancestraux et ce afin de justifier une présence militaire OTAN désormais permanente ; mettre sous contrôle les ex-républiques soviétiques, soit par une colonisation économique et une mise en endettement systématique (Pays Baltes), soit par des « révolutions colorées » fabriquées par les réseaux Soros comme en Ukraine. Tout cela n’a d’ailleurs rien de vraiment original : c’est écrit en toutes lettres dans le Grand Échiquier (1997) de Zbigniew Brzezinski, tout comme dans les travaux du Project for a New American Century (1)…

Le centre de gravité de ce dispositif est-européen était jusqu’à présent la Pologne, allié des É-U. Varsovie, à la chute du mur de Berlin en 1989, a hérité d’un impressionnant passif historique. La Russie puis l’Union soviétique ont en effet mis la Pologne sous leur talon de fer. L’alliance russe, pour Varsovie, était à ce titre impensable jusqu’à présent. Symétriquement, l’entente avec Berlin est tout aussi difficile. Même si le parti des expulsés n’existe plus depuis longtemps au Bundestag (2), il reste le souvenir de l’épouvantable occupation 1939-1944. Varsovie a donc joué, sans aucun complexe et jusqu’à présent, depuis l’effondrement soviétique de 1991, la carte américaine : intégration dans l’OTAN, bouclier anti-missiles, et cætera…

En somme, deux histoires se superposent. Il y a d’un côté l’histoire contemporaine, celle où se livre une nouvelle guerre froide, structurée par les concepts-clefs de « guerre de quatrième génération » (guerre de l’information) et de « soft power », la méthode Soros. Une guerre froide qui oppose un empire en déclin, mais agressif (l’anglosphère), à une nouvelle nation, la Russie post-soviétique encore très fragile et dont le destin reste à écrire. Et il y a d’un autre côté le souvenir d’une histoire passée, celle de la Pologne, un pays martyr. Il semble qu’en allant à Katyn, Poutine ait voulu faire passer un message aux Polonais. Ce message, c’était : la nouvelle histoire n’est pas l’ancienne histoire, la nouvelle Moscou n’est pas l’ancienne Moscou, n’ayez pas une lutte anti-impérialiste de retard. À en juger par les réactions polonaises, le message a été reçu. Varsovie vient de comprendre que dans cette « nouvelle histoire » Moscou ne sera plus forcément le prédateur, notamment parce que l’influence au sens fort (le soft power, le pouvoir invisible), a remplacé la domination comme instrument prioritaire dans le cadre de la grande stratégie hégémonique des États-Unis.

JMV - Vous faites le lien à propos de l’évolution des rapports russo-polonais avec l’intensification des relations Berlin - Moscou…

M.D - L’Allemagne pratique, depuis sa défaite en 1945, une habile politique de « suivisme » : entre 1946 et 1962, elle devient l’usine modèle du Plan Marshall. Entre 1962 et 1968, elle joue la bascule entre De Gaulle et les Américains, avec le conflit soigneusement agencé, au sein même de la droite d’affaires, entre Ludwig Erhard et Franz-Josef Strauss. Après 68, elle prend acte de l’échec gaulliste et se transforme en poste avancé de la stratégie de détente initiée par les États-Unis pour piéger l’URSS. Après 1989, Berlin se laisse encore une fois instrumenter par les É-U en se faisant déléguer – sous-traiter dirait-on aujourd’hui – par son protecteur américain, la tâche de coloniser économiquement l’Europe centrale et danubienne. Mais à partir du « sacre » de Poutine à Moscou, une nouvelle ère commence. Pendant qu’en façade, Berlin reste le protectorat soumis de la puissance anglo-saxonne, dans les coulisses, le patronat allemand s’active. Tandis que l’économie ultra-financiarisée anglo-saxonne implose, un « groupe de travail stratégique germano-russe » lancé par Vladimir Poutine et Gerhard Schröder, accompagne le travail logistique de l’industrie allemande. Là encore, il s’agit de résumer des informations disponibles par ailleurs : les statistiques du commerce et de l’investissement allemand en Russie et dans les zone d’influence russe sont éloquentes, en Biélorussie, en Asie Centrale et ailleurs. L’arrivée au pouvoir de la très atlantiste Angela Merkel n’y a pas sur le fond changé grand-chose. Pour l’instant, le développement des liens germano-russes se poursuit dans l’ambiguïté et la pénombre médiatique. Difficile à dire jusqu’à quel point ce mariage morganatique sera toléré par les Atlantistes, lesquels comptent en profiter pour introduire le cheval de Troie allemand dans une économie russe bien verrouillée par le Kremlin, ou si, tout simplement, les intérêts économiques bien compris du patronat allemand, autrement dit un pur pragmatisme, l’emportent sur toutes autres considérations. Il faut observer ce mouvement avec attention, sachant qu’il peut avoir deux significations opposées, et que le Diable sera dans les détails… ou n’y sera pas. De ce point de vue, il n’est pas surprenant que Berlin laisse Moscou pousser ses pions en Pologne. Moscou, de son côté, a laissé le patronat allemand s’implanter largement en Biélorussie. L’Allemagne, dont l’économie a été reconfigurée depuis dix ans pour s’intégrer dans celle des pays émergents, est en train de s’intégrer structurellement au projet eurasiatique. L’économie mène ici la géopolitique… La péripétie polonaise n’est de fait qu’un épisode dans un mouvement d’ensemble. L’Eurasie s’organise pour pouvoir se passer outre les exigences de la thalassocratie anglo-américaine. C’est dans cette tendance lourde que Poutine a voulu inscrire les Polonais, dissipant les fantômes d’une autre histoire, dont les enseignements sont désormais caducs. En arrière-plan, la question du gazoduc baltique, bien sûr.

JMV -Pour nous Français, il s’agit d’une bonne ou d’une mauvaise nouvelle ?

M.D - Les deux. Bonne nouvelle, parce qu’avec un axe Berlin – Moscou, via Varsovie, en construction, l’étau où l’alliance germano-américaine nous avait enfermés depuis vingt ans se desserre. En tout cas une position d’atlantisme inconditionnel sera de plus en plus difficile à tenir pour Berlin, il lui faudra tôt ou tard faire des choix. Mauvaise nouvelle, parce que l’Allemagne se met en situation de renégocier à son avantage les rapports de force au sein de l’Union Européenne. Mais le bon l’emporte tout de même. Si le rééquilibrage allemand entre atlantisme et eurasisme doit se confirmer, une fois Merkel passée de mode, nos dirigeants retrouveront sans doute une marge de manœuvre. Reste à savoir s’ils l’utiliseront. Les électeurs français feraient bien d’y réfléchir, dans l’hypothèse où les élections présidentielles opposeraient Strauss-Kahn à Villepin, en 2012.

(1) Le Project for a New American Century (PNAC) était un think-tank néoconservateur, actif dans les années 90-2000, financé pour l’essentiel par les industries américaines de l’armement et qui regroupa, sous la présidence William Clinton, les hommes qui devaient constituer l’épine dorsale de la future Administration Bush. Le PNAC recommandait en particulier le renforcement de la présence militaire étatsunienne en Europe de l’Est et du Sud-Est, à la charnière de deux théâtres d’opération : face à la Russie (préoccupation des mondialistes) et face au monde musulman (préoccupation des pro-israéliens). (2) Le parti des expulsés a représenté, jusque dans les années 60, la dizaine de millions d’Allemands chassés de Prusse, Poméranie, Silésie et Sudètes, lors de la gigantesque épuration ethnique – aujourd’hui totalement oubliée - planifiée par les soviétiques avec la collaboration du 10 Downing street dans la foulée de leur victoire en 1945.

Michel Drac est économiste, auteur de « Crise ou coup d’Etat ? » et « Crise économique ou crise du sens ? », deux ouvrages qui analysent la dépression contemporaine comme le contrecoup de l’implosion occidentale.

Jean Michel Vernochet pour Geopolintel

mercredi, 28 avril 2010

Gli altri segreti di ECHELON e i misteri del Patto UK/USA

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

GLI ALTRI SEGRETI DI ECHELON E I MISTERI DEL PATTO UK/USA

 

Del dossier "Echelon" se ne è parlato diffusamente, anche se spesso confusamente, da quando il Mondo del 20 e 27/3/98 pubblicò stralci del rapporto dello Scientific and Technological Options Assessment (STOA), Direzione generale ricerca del Parlamento Europeo. Lo STOA fa capo al Direttorato Generale della Ricerca che risiede a Strasburgo. Nel documento in questione venivano affermate cose molto gravi e cioè che tutti i fax, i messaggi di posta elettronica, anche quelli criptati, le nostre azioni quotidiane più banali come l’uso del telefono, di internet, il passaggio ai caselli autostradali, la spesa, ecc., sono, in buona parte, intercettati e inseriti in una sofisticatissima e potente banca dati computerizzata. Il tutto sarebbe possibile grazie ad una speciale capillare rete di satelliti spia e a delle basi a terra di intercettazione.

 

Le comunicazioni intercettate indiscriminatamente, qualsiasi mezzo o linea di trasmissione utilizzino, sono quantitativamente non immaginabili. Il tutto è aggravato dal fatto che, diversamente da quanto avviene con altri sistemi sofisticati di spionaggio elettronico, il sistema "Echelon" è operativo, quasi esclusivamente, nei confronti di obiettivi non militari. Tutto quanto viene intercettato è dirottato al centro strategico di Menwith Hill, nel North York Moors, Regno Unito che, in un secondo tempo, invia tutto ciò che reputa di interesse a Fort Meade nel Maryland, al National Security Agency (NSA), il servizio segreto USA di spionaggio elettronico.

 

Dal documento "Una valutazione delle tecnologie di controllo politico", tradotto da T.H.E. Walrus e consultabile al sito web http://www.tmcrew.org/privacy/STOA.htm, apprendiamo che "Il sistema fu scoperto la prima volta alla fine degli anni ’70 da un gruppo di ricercatori in UK (Campbell, 1981). Un recente lavoro di Nicky Hager, ("Decret Power", Hager, 1996) fornisce i dettagli attualmente più comprensivi su un progetto conosciuto come ECHELON. Hager ha intervistato più di 50 persone coinvolte nei servizi segreti, mettendo alla luce l’esistenza di apparecchiature di ascolto e sorveglianza diffuse attraverso tutto il globo per formare un sistema puntato su tutti i satelliti chiave Intelsat utilizzati come infrastruttura di trasmissione satellitare per comunicazioni telefoniche, Internet, posta elettronica, fax e telex. I siti di questo sistema sono di stanza a Sugar Grove e Yakima negli USA, a Waihopai in Nuova Zelanda, a Geraldton in Australia, a Hong Kong e a Morwenstow UK". Per altri interessanti ragguagli consiglio di vistare il sito web http://www.wif.net, dove vi sono, tra l’altro, ampi ed interessanti approfondimenti forniti dal super esperto di Signal e Business Intelligence ing. Giuseppe Muratori, Intelligence Head Master del W.I.F. (World Intelligence Foundation).

 

Il documento "Una valutazione delle tecnologie di controllo politico" continua spiegando che sono due i sistemi di sorveglianza: "Il Sistema UK/USA che comprende le attività di agenzie di intelligence militare come la NSA-CIA negli USA che incorpora GCHQ e M16 in UK, che operano congiuntamente un sistema conosciuto come ECHELON" l'altro è "il Sistema EU-FBI che concatena assieme varie agenzie di ordine pubblico come FBI, polizie di stato, dogane, immigrazione e sicurezza interna". Echelon opera sotto la giurisdizione del patto UK/USA, che ha una data di nascita, il 1947. UK/USA riunì Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e più recentemente Giappone, Corea e paesi NATO. Il progetto conosciuto come ECHELON si origina da questo patto segreto che all’inizio costituiva solo un formale accordo tra agenzie inglesi e americane COMINT (Communications Intelligence). Questo concordato era denominato BR/USA.

La ricercatrice freelance e giornalista investigativa Susan Bryce, ha scritto anche che: " UK/USA è un accordo ‘a gradini’, la NSA (National Security Agency) è chiamata ‘Primo Partito’… rispetto all’accordo UK/USA… si assume l’impegno di numerose operazioni clandestine. …fu allestita senza alcuna legislazione ufficiale, non c’è nulla, legalmente, che non possa fare. …la National Security Agency può essere descritta solo come il più grande di tutti i fratelli. Lanciata segretamente dall’Amministrazione Truman il 4 Novembre 1954, oggi la NSA controlla oltre 2.000 stazioni di intercettazione elettronica, dispone di un budget di oltre 10 miliardi di dollari l’anno ed impiega più di 130.000 persone in tutto il mondo, il che la rende anche più grande della CIA (Ball, 1980, p. 33)" (Nexus. New Times Magazine, Ottobre-Novembre 1995).

Il patto UK/USA nasconde altri segreti incredibili e decisamente inaccessibili. Il progetto ECHELON, in fondo, per quanto grave possa essere, è solo una delle emanazioni di UK/USA. Basti pensare che importantissime e strategiche basi Top Secret come Nurrungar, Menwith Hill, Pine Gap, ecc. e la stessa agenzia NSA sono coordinate direttamente secondo direttive UK/USA. C’è anche da dire che lo stesso segretissimo progetto di "Guerre Stellari" fu sotto la giurisdizione dell’accordo UK/USA. La General Electric e la Marconi, veri e propri leader nel settore, sono stati fornitori di alta e vitale tecnologia a diverse iniziative targate UK/USA. Attorno al progetto "Guerre Stellari", noto anche come Strategic Defense Initiative (SDI), si verificarono strane morti di scienziati. Incredibili suicidi iniziati nel 1982 e continuati sino al 1990. Gli scienziati coinvolti lavoravano per la General Electric Company di Londra ed erano insediati in due grandi ditte: la Plessey e la Marconi. Venticinque di questi sono deceduti in circostanze alquanto misteriose, molti di loro "suicidi" nel modo più strano e grottesco.

Un oceano di misteri, insomma, che si infittiscono sempre di più. Stranissime morti, sistemi di spionaggio satellitare e armi segrete e spaventose, congiure del silenzio e molto altro ancora sono la parte profonda dell’iceberg che affiora, solo impercettibilmente, da un mare di segreti. Invenzioni da apprendisti stregoni ci vengono tenute nascoste assieme ad altre micidiali scoperte. La ricercatrice Susan Bryce scrive, al riguardo, cose sconvolgenti. Ci informa di una riunione particolare e molto importante dove, tra l’altro, si discusse: "l’uso di infrasuoni per distruggere navi, tramite la creazione di campi acustici sul mare, e lo scagliare nel mare un grosso pezzo di roccia usando un economico dispositivo nucleare (il maremoto che ne risulterebbe potrebbe demolire la linea costiera di un paese). Altri maremoti potrebbero ottenersi detonando armi nucleari ai poli ghiacciati. Alluvioni controllate, uragani, terremoti e siccità indirizzate verso bersagli specifici e città, sono pure stati argomento di discussione. Ci sono speculazioni sul fatto che le basi statunitensi siano pesantemente implicate in ricerche concernenti molte di queste ‘nuove idee per la guerra’, come pure esperimenti con la griglia mondiale" (Nexus. New Times Magazine, cit.). Uno scenario da brivido insomma. Quali terribili e inconfessabili segreti cela il patto UK/USA?

 

Giuseppe Cosco

linus.tre@iol.it

dimanche, 25 avril 2010

Akute Kriegsgefahr im Libanon?

LIBAN-30-07-08.jpgAkute Kriegsgefahr im Libanon?

Niki Vogt

 

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Der US-Kongressabgeordnete Adam Schiff war am Mittwoch, den 14. April, Gastgeber einer kleinen, aber feinen Runde. Einer der Gäste im Kreis des Ausschusses der »Freunde Jordaniens im Kongress« im »US-House of Representatives«, war niemand Geringerer als König Abdullah II. von Jordanien. Seine Ansprache dort war nach Auskunft eines der Anwesenden »höchst ernüchternd«.

König Abdullah zeigt sich äußerst besorgt, dass ein bewaffneter Konflikt zwischen Israel und der Hisbollah im Libanon bevorstehe. Der König benutzte das englische Wort »imminent«, was »unmittelbar bevorstehend« bedeutet.

Die Hisbollah hat seit der Wahl im letzten November Sitz und Stimme im libanesischen Parlament. Sie unterhält seitdem offizielle Kontakte und Beziehungen zu Regierungen anderer Staaten wie beispielsweise Frankreich. Ein Krieg zwischen dem Libanon und Israel würde alle Bemühungen um Normalisierung und Einrichtung von diplomatischen Beziehungen wie zwischen USA und dem direkt daneben liegenden Syrien zunichte machen.

Die Kriegsgerüchte sind nicht neu. Schon am 4. Februar veröffentlichte der Christian Science Monitor unter der Überschrift »Was steckt hinter den erneuten Kriegsängsten in Israel und Libanon?« die säbelrasselnden Kriegstreibersprüche des israelischen Außenministers Liebermann gegen den Libanon – und Syrien. Öffentlich drohte Liebermann dem syrischen Präsidenten Bashar Assad, dass dieser in einem Krieg mit Israel nicht nur der Verlierer sein werde, sondern mit ihm auch seine ganze Familie entmachtet werde.

Grund für die Wut der Israelis ist das offensichtliche Erstarken der Hisbollah, ihr unaufhaltsamer militärischer Aufbau und die Tatsache, dass sich die ehemaligen Underdogs mit dem Terroristen-Image nun als ernstzunehmende politische Gegenspieler auf dem Parkett der Weltpolitik zu etablieren beginnen.

Die Bedrohungslage fühle sich im Libanon genauso an, wie in den Monaten vor der Israelischen Invasion 1982. Jeder wusste, dass sie kommen würde, sagte Ghazi Aridi, der Verkehrsminister des Libanon. Das Land hat sich seitdem stabilisiert, hat eine Periode relativer Stabilität genossen und erstmals 1,9 Millionen Touristen in der schönen Landschaft am Mittelmeer willkommen geheißen. Langsam verblassen die Bilder der zerschossenen Altstadt Beiruts im kollektiven Gedächtnis der Europäer, man hofft auf noch bessere Touristenzahlen in diesem Jahr.

Die Nachrichtenagentur AFP meldete am 15. April, die US-Regierung habe zufällig ebenfalls am Mittwoch, als der jordanische König zu Gast war, eine Warnmeldung herausgegeben, es seien möglicherweise Scud-Raketen an libanesische Hisbollah-Milizen verkauft worden. Dies stelle ein »erhebliches Risiko« für den Libanon dar. Man werde diesem Verdacht nachgehen, hieß es.

Die kuwaitische Zeitung Al-Rai Al-Alam hatte vor ein paar Wochen Informationen erhalten, die behaupteten, die Israelis hätten Scud-D-Raketen an der syrisch-libanesischen Grenze gesichtet und wurden nur durch die Amerikaner davon abgehalten, dort alles in Grund und Boden zu bombardieren.

Israels Präsident Shimon Peres hatte am vergangenen Dienstag Syrien vorgeworfen, es versorge die Hisbollah mit Scud-Raketen. Ein nicht genannter höherer US-Regierungsbeamter sagte gegenüber AFP, es sei ganz im Gegenteil überhaupt nicht klar, ob eine solche Lieferung bisher stattgefunden habe.

Währenddessen verbreitete Präsident Peres über die Sender: »Syrien gibt vor, den Frieden zu wollen, liefert aber gleichzeitig Scud-Raketen an die Hisbollah, deren einziges Ziel die Bedrohung Israels ist.« – Sprach’s und flog direkt darauf nach Frankreich, um mit Präsident Sarkozy dieses Thema zu erörtern. Eine probate Strategie.

Warum also das alles?

Eine Erklärung könnte sein, dass die Obama-Regierung mühevoll und vorsichtig Beziehungen zu Syrien aufgebaut hatte, um das Land als Vermittler in die festgefahrene Pattsituation der Friedensgespräche im Nahen Osten einzubeziehen. Es sollten in den nächsten Tagen Diplomaten ausgetauscht werden. Obama hatte bereits Robert Ford als ersten Botschafter für Damaskus ernannt.

Das musste nun erst einmal vertagt werden.

Ein herber Rückschlag für Obama, der seiner von Israel ausgebremsten Vorzeige-Friedensinitiative im Nahen Osten neuen Schub verleihen wollte.

Shlomo Brom, der ehemalige Leiter des Planungsstabes der israelischen Armee, formulierte es vor zwei Woche deutlicher: »Das strategische Planziel im nächsten Krieg ist es, zu verstehen, dass man das Problem nicht in einem Schritt lösen kann. Der einzige Weg, es zu lösen, ist, den Libanon zu besetzen und Hisbollah rauszukicken. Das ist nicht einfach, und Israel will den Preis dafür nicht bezahlen.«

»Beim nächsten Mal wird vielleicht die UN uns bitten, aus Nordisrael wieder abzuziehen – anstelle Israel, den Südlibanon wieder zu räumen«, meinte Abu Khalil, ein 22-jähriger Hisbollah-Kämpfer.

»Ich glaube nicht, dass Israel jetzt einen Krieg brauchen kann, und der Hisbollah juckt auch nicht das Fell vor lauter Übermut«, meint Timur Goksel, ein ehemaliger UNIFIL-Funktionär. »Natürlich kann Israel den Libanon aufmischen, aber das wird Israel teuer zu stehen kommen. Die Hisbollah wird aus jeder Ecke feuern, und es wird viel mehr Tote auf israelischer Seite geben als 2006.«

Die Lunte am Pulverfass Nahost glimmt.

 

__________

Quellen:

http://www.thewashingtonnote.com/archives/2010/04/jordans_king_sa/

http://www.politico.com/blogs/laurarozen/0410/The_Scud_through_his_Syria_nomination.html?showall

http://thecable.foreignpolicy.com/posts/2010/04/09/congress_wants_to_know_is_syria_rearming_hezbollah

http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5gNU1tGuyPXPQO9mnAHavQp-eZ0UQ

http://www.csmonitor.com/World/Middle-East/2010/0204/What-s-behind-renewed-war-jitters-in-Israel-Lebanon/(page)/2

 

Mittwoch, 21.04.2010

Kategorie: Politik, Terrorismus, Allgemeines

© Das Copyright dieser Seite liegt, wenn nicht anders vermerkt, beim Kopp Verlag, Rottenburg


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vendredi, 23 avril 2010

Kirgisistan: eine "umgekehrte" Farbenrevolution?

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Kirgisistan: eine »umgekehrte« Farbenrevolution?

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Das entlegene zentralasiatische Land Kirgisistan wird von einem anscheinend sehr gut geplanten Aufstand gegen den post-sowjetischen Diktator, Präsident Kurmanbek Bakijew, erschüttert. Einiges deutet darauf hin, dass Moskau mehr als ein beiläufiges Interesse an einem Regimewechsel hegt und versucht, nach dem Muster der von Washington betriebenen Rosen-Revolution 2003 in Georgien oder der Orangenen Revolution 2004 in der Ukraine eine eigene Version einer »Farben-Revolution« zu inszenieren. Zumindest ist die Entwicklung von erheblicher strategischer Bedeutung für die militärische Sicherheit im Herzland, d.h. für China, Russland und andere Länder.

Die meisten Berichte über die Ereignisse der vergangenen Tage stammen von russischen Medien, die vermelden, der Premierminister habe gegenüber der von der Opposition ernannten Führerin der Übergangsregierung, Rosa Otunbajewa, seinen Rücktritt erklärt. Laut RIA Novosti hat die Opposition »die Lage im Griff«, Bakijew sei – so hieß es unmittelbar danach – an Bord seines Dienstflugzeugs mit unbekanntem Ziel aus der Hauptstadt geflohen.

Vordergründig war der Anlass für die Proteste die Entscheidung der bisherigen Regierung, die Tarife für Energie und Telekommunikation drastisch anzuheben; die Opposition warf der von den USA unterstützten autoritären Regierung Bakijew darüber hinaus zügellose Korruption vor.

Die vereinigten kirgisischen Oppositionsparteien verlangen jetzt den offiziellen Rücktritt des bisherigen Präsidenten Kurmanbek Bakijew und die Entlassung aller seiner entfernten Verwandten und Spießgesellen aus Regierungsämtern.

Das US-Außenministerium versucht verzweifelt, den Status Quo aufrecht zu erhalten und ruft die Opposition zur »Verhandlung« und zum »Dialog« mit der von den USA finanzierten Präsidentschaft Bakijew auf. Entgegen anderslautenden Meldungen erklärte das State Department, die Regierung von Präsident Kurmanbek Bakijew sei noch im Amt.

 

Geopolitische Bedeutung

Für Washington ist das winzige zentralasiatische und fünf Millionen Einwohner zählende Binnenland an der Grenze zu der politisch heiklen chinesischen Provinz Xinjiang von großer geopolitischer Bedeutung. Seit den Anschlägen vom 11. September 2001 unterhält Washington einen großen Luftwaffenstützpunkt in Kirgisistan, offiziell zur Unterstützung der Streitkräfte in Afghanistan. Militärisch gesehen verschafft dieser Militärstützpunkt mitten in Zentralasien dem Pentagon eine wichtige Ausgangsposition, denn von dort aus könnten Angriffe gegen China, Russland und andere Ziele geführt werden, einschließlich gegen Kasachstan, das sich zu einem zunehmend wichtigeren Energielieferanten für China entwickelt.

Bakijew war 2005 auf einer Welle von US-finanzierten Demonstrationen, denen man den Namen »Tulpen-Revolution« gab, an die Macht gekommen. Wie die Orangene Revolution von Washingtons handverlesenem Kandidaten Wiktor Juschtschenko in der Ukraine, der versprach, sein Land in die NATO zu führen, oder wie die Rosen-Revolution von Washingtons Zögling Michail Saakaschwili, war Bakijews Tulpen-Revolution von 2005 vom State Department finanziert und bis ins Detail inszeniert worden. Das Ganze ging so weit, dass die »Oppositions«-Zeitungen in einer mit amerikanischem Geld aufgebauten Druckerei gedruckt wurden.

Das Ziel der USA bestand darin, auch das Schlüsselland Kirgisistan in den eisernen Ring von US- und NATO-Stützpunkten zu integrieren, mithilfe dessen Washington die wirtschaftliche und politische Zukunft sowohl Chinas wie auch Russlands hätte diktieren können.

Der Rückschlag für die Orangene Revolution in der Ukraine bei den jüngsten Wahlen und die Wahl eines neutralen Präsidenten Wiktor Janukowitsch – der versichert hat, die Ukraine werde der NATO nicht beitreten – scheint nur der erste von vielen, im Stillen von Moskau unterstützten Schritten zu sein, um an der Peripherie zumindest wieder den Anschein von Stabilität zu erwecken.

Es ist nicht klar, in welchem Maß und ob überhaupt Washington in der Lage ist, den »eigenen« Mann, Bakijew, zu stützen. Gegenwärtig sieht es nach einer großen geopolitischen Niederlage für Washington in Eurasien aus. Wir werden die Lage weiter beobachten und darüber berichten.

 

Mittwoch, 14.04.2010

Kategorie: Geostrategie, Politik

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mercredi, 21 avril 2010

La Russia chiave di volta del sistema multipolare

La Russia chiave di volta del sistema multipolare

di Tiberio Graziani

Fonte: eurasia [scheda fonte]

http://www.ilfaromag.com/sport/wp-content/uploads/2009/10/russia2.jpg


Il nuovo sistema multipolare è in fase di consolidamento. I principali attori sono gli USA, la Cina, l’India e la Russia. Mentre l’Unione Europea è completamente assente ed appiattita nel quadro delle indicazioni-diktat provenienti da Washington e Londra, alcuni paesi dell’America meridionale, in particolare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay manifestano la loro ferma volontà di partecipazione attiva alla costruzione del nuovo ordine mondiale. La Russia, per la sua posizione centrale nella massa eurasiatica, per la sua vasta estensione e per l’attuale orientamento impresso alla politica estera dal tandem Putin-Medvedev, sarà, verosimilmente, la chiave di volta della nuova struttura planetaria. Ma, per adempiere a questa funzione epocale, essa dovrà superare alcuni problemi interni: primi fra tutti, quelli riguardanti la questione demografica e la modernizzazione del Paese, mentre, sul piano internazionale, dovrà consolidare i rapporti con la Cina e l’India, instaurare al più presto una intesa strategica con la Turchia e il Giappone. Soprattutto, dovrà chiarire la propria posizione nel Vicino e Medio Oriente.

Considerazioni sullo scenario attuale

Ai fini di una veloce disamina dell’attuale scenario mondiale e per meglio comprendere le dinamiche in essere che lo configurano, proponiamo una classificazione degli attori in gioco, considerandoli sia per la funzione che svolgono nel proprio spazio geopolitico o sfera d’influenza, sia come entità suscettibili di profonde evoluzioni in base a specifiche variabili.

Il presente quadro internazionale ci mostra almeno tre classi principali di attori. Gli attori egemoni, gli attori emergenti e infine il gruppo degli inseguitori e dei subordinati. A queste tre categorie occorre, per ragioni analitiche, aggiungerne una quarta, costituita da quelle nazioni che, escluse, per motivi diversi, dal gioco della politica mondiale, sono in cerca di un ruolo.

Gli attori egemoni

Al primo gruppo appartengono quei paesi che per la particolare postura geopolitica, che li identifica come aree pivot, o per la proiezione della forza militare o di quella economica determinano le scelte e i rapporti internazionali delle restanti nazioni. Gli attori egemoni inoltre influenzano direttamente anche alcune organizzazioni globali, fra cui il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Tra le nazioni che presentano tali caratteristiche, pur con sfumature diverse, possiamo annoverare gli USA, la Cina, l’India e la Russia.

La funzione geopolitica attualmente esercitata dagli USA è quella di costituire il centro fisico e la guida del sistema occidentale nato alla fine del secondo conflitto mondiale. La caratteristica principale della nazione nordamericana, in rapporto al resto del pianeta, è data dal suo espansionismo, attuato con una particolare aggressività e la messa in campo di dispositivi militari su scala globale. Il carattere imperialista dovuto alla sua specifica condizione di potenza marittima le impone comportamenti colonialisti verso vaste porzioni di quello che considera impropriamente il suo spazio geopolitico (1). Le variabili che potrebbero determinare un cambio di ruolo degli USA sono essenzialmente tre: a) la crisi strutturale dell’economia neoliberista; b) l’elefantiasi imperialista; c) le potenziali tensioni con il Giappone, l’Europa e alcuni Paesi dell’America centromeridionale.

La Cina, l’India e la Russia, in quanto nazioni-continente a vocazione terrestre, ambiscono a svolgere le loro rispettive funzioni macroregionali nell’ambito eurasiatico sulla base di un comune orientamento geopolitico, peraltro in fase avanzata di strutturazione. Tali funzioni, tuttavia, vengono condizionate da alcune variabili, tra le quali evidenziamo:

  1. le politiche di modernizzazione;

  2. le tensioni dovute alle disomogeneità sociali, culturali ed etniche all’interno dei propri spazi;

  3. la questione demografica che impone adeguate e diversificate soluzioni per i tre paesi.

Per quanto riguarda la variabile relativa alle politiche di modernizzazione, osserviamo che essendo queste troppo interrelate per gli aspetti economico-finanziari con il sistema occidentale, in particolare modo con gli USA, tolgono alle nazioni eurasiatiche sovente l’iniziativa nell’agone internazionale, le espongono alle pressioni del sistema internazionale, costituito principalmente dalla triade ONU, FMI e BM (2) e, soprattutto, impongono loro il principio dell’interdipendenza economica, storico fulcro della espansione economica degli USA. In rapporto alla seconda variabile, notiamo che la scarsa attenzione che Mosca, Beijing e Nuova Delhi prestano verso il contenimento o la soluzione delle rispettive tensioni endogene offre al loro antagonista principale, gli USA, occasioni per indebolire il prestigio dei governi ed ostacolare la strutturazione dello spazio eurasiatico. Infine, considerando la terza variabile, riteniamo che politiche demografiche non coordinate tra le tre potenze eurasiatiche, in particolare quelle tra la Russia e la Cina, potrebbero, nel lungo periodo creare contrasti per la realizzazione di un sistema continentale equilibrato.

I rapporti tra i membri di questa classe decidono le regole principali della politica mondiale.

In considerazione della presenza di ben 4 nazioni-continente (tre nazioni eurasiatiche ed una nordamericana) è possibile definire l’ attuale sistema geopolitico come multipolare.

Gli attori emergenti

La categoria degli attori emergenti raggruppa, invece, quelle nazioni che, valorizzando particolari atout geopolitici o geostrategici, cercano di smarcarsi dalle decisioni imposte loro da uno o da più membri del ristretto club del primo tipo. Mentre lo scopo immediato degli emergenti consiste nella ricerca di una autonomia regionale e, dunque, nell’uscita dalla sfera d’influenza della potenza egemone, da attuarsi principalmente mediante articolate intese ed alleanze regionali, transregionali ed extra-continentali, quello strategico è costituto dalla partecipazione attiva al gioco delle decisioni regionali e persino mondiali. Fra i paesi che assumono sempre più la connotazione di attori emergenti, possiamo enumerare il Venezuela, il Brasile, la Bolivia, l’Argentina e l’Uruguay, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, il Giappone di Yukio Hatoyama e, seppur con qualche limitazione, il Pakistan. Tutti questi paesi appartengono di fatto al sistema geopolitico cosiddetto “occidentale”, guidato da Washington. Il fatto che molte nazioni di quello che nel periodo bipolare era considerato un sistema coeso possano essere considerate emergenti e quindi entità suscettibili di concorrere alla costituzione di nuovi poli di aggregazione geopolitica induce a pensare che l’edifico messo a punto dagli USA e dalla Gran Bretagna, così come lo conosciamo, sia di fatto in via di estinzione oppure in una fase di profonda evoluzione. La crescente “militarizzazione” che la nazione guida impone ai rapporti bilaterali con questi paesi sembra sostanziare la seconda ipotesi. La comune visione continentale degli emergenti sudamericani e la realizzazione di importanti accordi economici, commerciali e militari costituiscono gli elementi base per configurare lo spazio sudamericano quale futuro polo del nuovo ordine mondiale (3).

Gli attori emergenti aumentano i loro gradi di libertà in relazione alle alleanze ed alle frizioni tra i membri del club degli egemoni ed alla coscienza geopolitica delle proprie classi dirigenti.

Il numero degli attori emergenti e la loro collocazione nei due emisferi settentrionale (Turchia e Giappone) e meridionale (paesi latinoamericani) oltre ad accelerare il consolidamento del nuovo sistema multipolare ne delineano i due assi principali: l’Eurasia e l’America indiolatina.

Gli inseguitori-subordinati e i subordinati

La designazione di attori inseguitori e subordinati, qui proposta, intende sottolineare le potenzialità geopolitiche degli appartenenti a questa classe in rapporto al loro passaggio alle altre. Sono da considerare inseguitori-subordinati quegli attori che ritengono utile, per affinità, interessi vari o particolari condizioni storiche, far parte della sfera d’influenza di una delle nazioni egemoni. Gli inseguitori-subordinati riconoscono all’egemone il ruolo di nazione guida. Tra questi possiamo menzionare ad esempio la Repubblica sudafricana, l’Arabia saudita, la Giordania, l’Egitto, la Corea del Sud. I subordinati di questo tipo, giacché “seguono” gli USA quale nazione guida, a meno di rivolgimenti provocati o gestiti da altri, ne condivideranno il destino geopolitico. Il rapporto che intercorre tra questi attori e il paese egemone è di tipo, mutatis mutandis, vassallatico.

Sono invece subordinati tout court quegli attori che, esterni al naturale spazio geopolitico dell’egemone, ne subiscono il dominio. La classe dei paesi subordinati è contraddistinta dall’assenza di una coscienza geopolitica autonoma o, meglio ancora, dalla incapacità delle classi dirigenti di valorizzare gli elementi minimi e sufficienti per proporre e dunque elaborare una propria dottrina geopolitica. Le ragioni di questa assenza sono molteplici e varie, fra di esse possiamo menzionare la frammentazione dello spazio geopolitico in troppe entità statali, la colonizzazione culturale, politica e militare esercitata dall’egemone, la dipendenza economica verso il paese dominante, le particolari e strette relazioni che intercorrono tra l’attore egemone globale e i ceti dirigenti nazionali i quali, configurandosi come vere e proprie oligarchie, sono preoccupati più della propria sopravvivenza piuttosto che degli interessi popolari e nazionali che dovrebbero rappresentare e sostenere. Le nazioni che costituiscono l’Unione Europea rientrano in questa categoria, ad eccezione della Gran Bretagna per la nota special relationship che intrattiene con gli USA (4).

L’appartenenza dell’Unione Europea a questa classe di attori è dovuta alla sua situazione geopolitica e geostrategica. Nell’ambito delle dottrine geopolitiche statunitensi, l’Europa è sempre stata considerata, fin dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, una testa di ponte protesa verso il centro della massa eurasiatica (5). Tale ruolo condiziona i rapporti tra l’Unione Europea e i Paesi esterni al sistema occidentale, in primo luogo la Russia e i Paesi del Vicino e Medio Oriente. Oltre a determinare, inoltre, il sistema di difesa della UE e le sue alleanze militari, questo particolare ruolo influenza, spesso anche profondamente, la politica interna e le strategie economiche dei suoi membri, in particolare quelle concernenti l’approvvigionamento di risorse energetiche (6) e di materiali strategici, nonché le scelte in materia di ricerca e sviluppo tecnologico. La situazione geopolitica dell’Unione Europea pare essersi ulteriormente aggravata con il nuovo corso impresso da Sarkozy e dalla Merkel alle rispettive politiche estere, volte più alla costituzione di un mercato transatlantico che al rafforzamento di quello europeo.

Le variabili che potrebbero permettere, nell’attuale momento, ai paesi membri dell’Unione Europea di passare alla categoria degli emergenti concernono la qualità ed il grado di intensificazione delle loro relazioni con Mosca in rapporto alla questione dell’approvvigionamento energetico (North e South Stream), alla questione sulla sicurezza (NATO) ed alla politica vicino e mediorientale (Iràn, Israele). Che quanto appena scritto sia possibile è fornito dal caso della Turchia. Nonostante l’ipoteca NATO che la vincola al sistema occidentale, Ankara, facendo leva proprio sui rapporti con Mosca per quanto concerne la questione energetica, ed assumendo, rispetto alle direttive di Washington, una posizione eccentrica sulla questione israelo-palestinese, è sulla via dell’emancipazione dalla tutela nordamericana (7).

Gli inseguitori e i subordinati, a causa della loro debolezza, rappresentano il possibile terreno di scontro sul quale potrebbero confrontarsi i poli del nuovo ordine mondiale.

Gli esclusi

Nella categoria degli esclusi rientrano logicamente tutti gli altri stati. Da un punto di vista geostrategico, gli esclusi costituiscono un ostacolo alle mire di uno o più attori degli attori egemoni. Tra gli appartenenti a questo gruppo un particolare rilievo assumono, in rapporto agli USA ed al nuovo sistema multipolare, la Siria, l’Iràn, il Myanmar e la Corea del Nord. Nel quadro della strategia statunitense per l’accerchiamento della massa eurasiatica, infatti, il controllo delle aree attualmente presidiate da queste nazioni rappresenta un obiettivo prioritario da raggiungere nel breve medio periodo. La Siria e l’Iràn si frappongono alla realizzazione del progetto nordamericano del Nuovo grande medio Oriente, cioè del controllo totale sulla lunga e larga fascia che dal Marocco arriva fino alle repubbliche centroasiatiche, vero soft underbelly dell’Eurasia; il Myanmar costituisce una potenziale via d’accesso nello spazio sino-indiano a partire dall’Oceano Indiano e una postazione strategica per il controllo del Golfo del Bengala e del Mar delle Andamane; la Corea del Nord, oltre ad essere una via d’accesso verso la Cina e la Russia, insieme al resto della penisola coreana (Corea del Sud) costituisce una base strategica per il controllo del Mar Giallo e del Mar del Giappone.

Gli esclusi sopra citati, in base alle relazioni che coltivano con i nuovi attori egemoni (Cina, India, Russia) e con alcuni emergenti potrebbero rientrare nel gioco della politica mondiale ed assumere, pertanto, un importante ruolo funzionale nel quadro del nuovo sistema multipolare. È questo il caso dell’Iràn. L’Iràn gode dello status di paese osservatore nell’ambito dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC), da molti analisti considerata la risposta russa alla NATO, ed è candidato all’ingresso nell’ Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (OCS), tra i cui membri figurano la Russia, la Cina e le repubbliche centroasiatiche, inoltre ha solide relazioni economico-commerciali con i maggiori paesi dell’America indiolatina.

La riscrittura delle nuove regole

I paesi che appartengono alla classe degli attori egemoni sopra delineata mirano a proiettare, per la prima volta dopo la lunga stagione bipolare e la breve fase unipolare, la propria influenza sull’intero pianeta con lo scopo di concorrere, con percorsi e finalità specifiche, alla realizzazione del nuovo assetto geopolitico globale. Alla fine del primo decennio del XXI secolo si assiste dunque al ritorno della politica mondiale, articolata, questa volta, su base continentale (8). La posta in gioco è costituita, non solo dall’accaparramento delle risorse energetiche e delle materie prime, dal presidio di importanti snodi geostrategici, ma soprattutto, stante il numero degli attori e la complessità dello scenario mondiale, dalla riscrittura di nuove regole. Queste regole, risultanti dalla delimitazione di nuove sfere d’influenza, definiranno, verosimilmente per un lungo periodo, le relazioni fra gli attori continentali e quindi anche un nuovo diritto. Non più un diritto inter-nazionale esclusivamente costruito sulle ideologie occidentali, sostanzialmente basato sul diritto di cittadinanza quale si è sviluppato a partire dalla Rivoluzione francese e sul concetto di stato-nazione, bensì un diritto che tenga conto delle sovranità politiche così come concretamente si manifestano e strutturano nei diversi ambiti culturali dell’intero pianeta.

Gli USA, benché tuttora versino in uno stato di profonda prostrazione causato da una complessa crisi economico-finanziaria (che ha evidenziato, peraltro, carenze e debolezze strutturali della potenza bioceanica e dell’intero sistema occidentale), dalla perdurante impasse militare nel teatro afgano e dalla perdita del controllo di vaste porzioni dell’America meridionale, proseguono tuttavia, in continuità con le dottrine geopolitiche degli ultimi anni, nell’azione di pressione nei confronti della Russia. Nell’attuale momento, la destrutturazione della Russia, o perlomeno il suo indebolimento, rappresenterebbe per gli Stati Uniti, non solo un obiettivo che insegue almeno dal 1945, ma anche un’occasione per guadagnare tempo e porre rimedi efficaci per la soluzione della propria crisi interna e la riformulazione del sistema occidentale.

È proprio tenendo ben presente tale obiettivo che risulta più agevole interpretare la politica estera adottata recentemente dall’amministrazione Obama nei confronti di Beijing e Nuova Delhi. Una politica che, ancorché tesa a ricreare un clima di fiducia tra le due potenze eurasiatiche e gli Stati Uniti, non pare affatto dare i risultati sperati, a ragione dell’eccessivo pragmatismo e dell’esagerata spregiudicatezza che sembrano caratterizzare sia il presidente Barack Obama, sia il suo Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton. Un esempio della spregiudicatezza e del pragmatismo, nonché della scarsa diplomazia, tra i tanti, è quello relativo ai rapporti contrastanti che Washington ha intrattenuto recentemente col Dalai Lama e con Beijing.

Tali comportamenti, date le condizioni di debolezza in cui versa l’ex hyperpuissance, sono un tratto della stanchezza e del nervosismo con cui l’attuale leadership statunitense cerca di affrontare e tamponare la progressiva ascesa delle maggiori nazioni eurasiatiche e la riaffermazione della Russia quale potenza mondiale. Le relazioni che Washington coltiva con Beijing e Nuova Delhi corrono su due binari. Da una parte gli USA cercano, sulla base del principio di interdipendenza economica e tramite la messa in campo di specifiche politiche finanziarie e monetarie di inserire la Cina e l’India nell’ambito di quello che essi designano il sistema globale. Questo sistema in realtà è la proiezione di quello occidentale su scala planetaria, giacché le regole su cui si baserebbe sono proprio quelle di quest’ultimo. D’altra parte, attraverso una continua e pressante campagna denigratoria, la potenza statunitense tenta di screditare i governi delle due nazioni eurasiatiche e di destabilizzarle, facendo leva sulle contraddizioni e sulle tensioni interne. La strategia attuale è sostanzialmente la versione aggiornata della politica detta del congagement (containment, engagement), applicata, questa volta, non solo alla Cina ma anche, parzialmente, all’India.

Tuttavia, va sottolineato che il dato certo di questa amministrazione democratica, insediatasi a Washington nel gennaio del 2009, è la crescente militarizzazione con cui tende a condizionare i rapporti con Mosca. Al di là della retorica pacifista, il premio Nobel Obama segue infatti, ai fini del raggiungimento dell’egemonia globale, le linee-guida tracciate dalle precedenti amministrazioni, che si riducono, in estrema sintesi a due: a) potenziamento ed estensione dei presidi militari; b) balcanizzazione dell’intero pianeta lungo linee etniche, religiose e culturali.

A fronte della chiara e manifesta tendenza degli USA al dominio mondiale – negli ultimi tempi marcatamente sorretta dal corpus ideologico-religioso veterotestamentario (9), piuttosto che da una accurata analisi dell’attuale momento improntata alla Realpolitik – Cina, India e Russia, al contrario, paiono essere ben consapevoli delle condizioni odierne che li chiamano ad una assunzione di responsabilità sia a livello continentale che globale. Tale assunzione pare esplicarsi per il tramite delle azioni tese alla realizzazione di una maggiore e meglio articolata integrazione eurasiatica, nonché al sostegno delle politiche procontinentali dei paesi sudamericani.

La centralità della Russia

La ritrovata statura mondiale della Russia quale protagonista dello scenario globale impone alcune riflessioni d’ordine analitico per comprenderne il posizionamento nei distinti ambiti continentale e globale, nonché le variabili che potrebbero modificarlo nel breve e medio periodo.

Mentre in relazione alla massa euroafroasiatica il ruolo centrale della Russia quale suo heartland, così come venne sostanzialmente formulato da Mackinder, viene riconfermato dall’attuale quadro internazionale, più problematica e più complessa risulta essere invece la sua funzione nel processo di consolidamento del nuovo sistema multipolare.

Spina dorsale dell’Eurasia e ponte eurasiatico tra Giappone e Europa

Gli elementi che hanno permesso alla Russia di riaffermare la sua importanza nel contesto eurasiatico, molto schematicamente, sono:

  1. riappropriazione da parte dello Stato di alcune industrie strategiche;

  2. contenimento delle spinte secessionistiche;

  3. uso “geopolitico” delle risorse energetiche;

  4. politica volta al recupero dell’ “estero vicino”;

  5. costituzione del partenariato Russia-NATO, quale tavolo di discussione volto a contenere il processo di allargamento del dispositivo militare atlantico;

  6. tessitura di relazioni su scala continentale, volte ad una integrazione con le repubbliche centroasiatiche, la Cina e l’India;

  7. costituzione e qualificazione di apparati di sicurezza collettiva (OTSC e OCS).

Se la gestione prima di Putin ed ora di Medvedev dell’aggregato di elementi sopra considerati ha mostrato, nelle presenti condizioni storiche, il ruolo della Russia quale spina dorsale dell’Eurasia, e dunque quale area gravitazionale di qualunque processo volto all’integrazione continentale, tuttavia non ne ha messo in evidenza un carattere strutturale, importante per i rapporti russo-europei e russo-giapponesi, quello di essere il ponte eurasiatico tra la penisola europea e l’arco insulare costituito dal Giappone.

La Russia considerata come ponte eurasiatico tra l’Europa e il Giappone obbliga il Cremlino ad una scelta strategica decisiva per gli sviluppi del futuro scenario mondiale, quella della destrutturazione del sistema occidentale. Mosca può conseguire tale obiettivo con successo, nel medio e lungo periodo, intensificando le relazioni che coltiva con Ankara per quanto concerne le grandi infrastrutture (South Stream) e avviandone di nuove in rapporto alla sicurezza collettiva. Accordi di questo tipo provocherebbero di certo un terremoto nell’intera Unione Europea, costringendo i governi europei a prendere una posizione netta tra l’accettazione di una maggiore subordinazione agli interessi statunitensi o la prospettiva di un partenariato euro-russo (in pratica eurasiatico, considerando i rapporti tra Mosca, Pechino e Nuova Delhi), più rispondente agli interessi delle nazioni e dei popoli europei (10). Una iniziativa analoga Mosca dovrebbe prenderla con il Giappone, inserendosi quale partner strategico nel contesto delle nuove relazioni tra Pechino e Tokyo e, soprattutto, avviando, sempre insieme alla Cina, un appropriato processo di integrazione del Giappone nel sistema di sicurezza eurasiatico nell’ambito dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (11).

Chiave di volta del nuovo ordine mondiale

In rapporto al nuovo ordine multipolare, la Russia sembra possedere gli elementi base per adempiere a una funzione epocale, quella di chiave di volta dell’intero sistema. Uno degli elementi è costituito proprio dalla sua centralità in ambito eurasiatico come più sopra è stato esposto, altri dipendono dai suoi rapporti con i paesi dell’America meridionale, dalla sua politica vicino e mediorientale e dal suo rinnovato interesse per la zona artica. Questi quattro fattori diventano problematici, giacché strettamente collegati all’evoluzione delle relazioni che intercorrono tra Mosca e Pechino. La Cina, come noto, ha stretto, al pari della Russia, solide alleanze economico-commerciali con i paesi emergenti dell’America indiolatina, conduce nel Vicino e Medio Oriente una politica di pieno sostegno all’Iràn, manifesta inoltre una grande attenzione verso i territori siberiani ed artici (12). Considerando quanto appena ricordato, se le relazioni tra Pechino e Mosca si sviluppano in senso ancora più accentuatamente eurasiatico, prefigurando una sorta di alleanza strategica tra i due colossi, il consolidamento del nuovo sistema multipolare beneficerà di una accelerazione, in caso contrario, esso subirà un rallentamento o entrerà in una situazione di stallo. Il rallentamento o la situazione di stallo fornirebbe il tempo necessario al sistema occidentale per riconfigurarsi e per rientrare, quindi, in gioco alla pari con gli altri attori.

Il nodo di Gordio del Vicino e Medio Oriente – l’obbligo di una scelta di campo

Tra gli elementi sopra considerati, relativi al ruolo globale che la Russia potrebbe svolgere, la politica vicino e mediorientale del Cremlino sembra essere quella più problematica. Ciò a causa dell’importanza che questo scacchiere rappresenta nel quadro generale del grande gioco mondiale e per il significato particolare che ha assunto, a partire dalla crisi di Suez del 1956, in seno alle dottrine geopolitiche statunitensi. Come si ricorderà, la politica russa o meglio sovietica nel Vicino Oriente, dopo un primo orientamento pro-sionista degli anni 1947 – 48, peraltro trascinatasi fino al febbraio del 1953, quando si consumò la rottura formale tra Mosca e Tel Aviv, si volse decisamente verso il mondo arabo. Nel sistema di alleanze dell’epoca, l’Egitto di Nasser divenne il paese fulcro di questa nuova direzione del Cremlino, mentre il neostato sionista rappresentò lo special partner di Washington. Tra alti e bassi la Russia, dopo la liquefazione dell’URSS, mantenne questo orientamento filoarabo, seppur con qualche difficoltà. Nel mutato quadro regionale, determinato da tre eventi principali: a) inserimento dell’Egitto nella sfera d’influenza statunitense; b) eliminazione dell’Iraq; c) perturbazione dell’area afgana che testimoniano l’arretramento dell’influenza russa nella regione e il contestuale avanzamento, anche militare, degli USA, il paese fulcro della politica vicino e mediorientale russa è rappresentato logicamente dalla Repubblica islamica dell’Iràn.

Mentre ciò è stato ampiamente compreso da Pechino, nel quadro della strategia volta al suo rafforzamento nella massa continentale euroafroasiatica, lo stesso non si può dire di Mosca. Se il Cremlino non si affretta a dichiarare apertamente la sua scelta di campo a favore di Teheran, adoperandosi in tal modo a tagliare quel nodo di Gordio che è costituito dalla relazione tra Washington e Tel Aviv, correrà il rischio di vanificare il suo potenziale ruolo nel nuovo ordine mondiale.

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1. Il sistema occidentale, così come si è affermato dal 1945 ai nostri giorni, è strutturalmente composto da due principali e distinti spazi geopolitici, quello angloamericano e quello dell’America indiolatina, cui si aggiungono porzioni di quello eurasiatico. Quest’ultime sono costituite dall’Europa (penisola eurasiatica o cerniera euroafroasiatica) e dal Giappone (arco insulare eurasiatico). L’America indiolatina, l’Europa e il Giappone sono pertanto da considerarsi, in rapporto al sistema “occidentale”, più propriamente, sfere d’influenza della potenza d’oltreoceano.

2. L’ONU, il FMI e la BM, nell’ambito del confronto tra il sistema occidentale a guida statunitense e le potenze eurasiatiche, svolgono di fatto la funzione di dispositivi geopolitici per conto di Washington.

3. Per quanto riguarda la riscoperta della vocazione continentale dell’America centromeridionale nell’ambito del dibattito geopolitico, maturato in relazione all’ondata globalizzatrice degli ultimi venti anni, si rimanda, tra gli altri, ai lavori di Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; si segnala, inoltre, la recente pubblicazione, Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (direzione editoriale a cura di Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.

4. Luca Bellocchio, L’eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milano 2006.

5. Per analoghe motivazioni geostrategiche, sempre relative all’accerchiamento della massa eurasiatica, gli USA considerano anche il Giappone una loro testa di ponte, speculare a quella europea.

6. Nello specifico settore del gas e del petrolio, l’influenza statunitense e, in parte, britannica determinano la scelta dei membri dell’UE riguardo ai partner extraeuropei, alle rotte per il trasporto delle risorse energetiche ed alla progettazione delle relative infrastrutture.

7. Un approccio teorico relativo ai processi di transizione di uno Stato da una posizione di subordinazione ad una di autonomia rispetto alla sfera di influenza in cui è incardinato è stato trattato recentemente dall’argentino Marcelo Gullo, nel saggio La insurbodinación fundante. Breve historia de la costrucción del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.

8. Significativi, a tal proposito, i richiami costanti di Caracas, Buenos Aires e Brasilia all’unità continentale. Nell’appassionato discorso di insediamento alla presidenza dell’Uruguay, tenuto all’Assemblea generale del parlamento nazionale il 1 marzo del 2010, il neoeletto José Mujica Cordano, ex tupamaro, ha sottolineato con vigore che “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.

9. Ciò anche in considerazione della politica “prosionista” che Washington porta avanti nel Vicino e Medio Oriente. Si veda a tal proposito il lungo saggio di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milano, 2007.

10. Una ipotesi di partenariato euro-russo, basato sull’asse Parigi-Berlino-Mosca, venne proposta, in un contesto diverso da quello attuale, nel brillante saggio di Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausanne 2002.

11. L’allargamento delle strutture continentali (globali nel caso della NATO) di sicurezza e difesa sembra essere un indice del grado di consolidamento del sistema multipolare. Oltre la NATO, la OTSC e le iniziative in ambito OCS, occorre ricordare anche il Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).

12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 March 2010.


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Quelles alliances dans le monde islamique?

Archives de Synergies Européennes - 1997

 

Quelles alliances dans le monde islamique?

 

eu-islam.pngSur le plan religieux, au sens étymologique du terme, c'est-à-dire dans le sens latin de re-ligere, soit de lier les membres d'une communauté politique par des valeurs et un héritage culturel communs, notre position est claire: l'Europe est une pluralité de peuples et de paysages, de climats et de végétations, qui impliquent qu'entre les hommes s'instaurent des modalités de vivre-en-commun chaque fois différentes selon les paramètres. Modalités et variations révèlent de la sorte un polythéisme des valeurs, qu'il s'agit d'harmoniser. Les religions monothéistes sont issues, dans leur quintessence, du désert, avec son uniformité sublime qui force à penser l'absolu, le Tout-Autre. En disant cela, nous n'entendons pas dénigrer les spiritualités du désert ni ceux qui en sont les porteurs: avec Ludwig-Ferdinand Clauss qui a pensé simultanément l'esprit de la forêt (nord-européenne) et l'esprit du désert chez les Bédouins, qui est considéré comme un Juste par les Juifs, nous constatons deux modalités du spirituel qui ne se sont pas nécessairement opposées dans l'histoire (cf. les figures de Parsifal et de Feirefiz) mais qui impliquent néanmoins que l'on manie des jeux d'institutions politiques différents, pour être en symbiose avec notre environnement immédiat.

 

La vie dans le désert implique des codes rigoureux, la vie dans les forêts ou dans les lisières défrichées implique des codifications plus souples. Chez le Bédouin ou l'Arabe, la douceur de l'oasis lève souvent la rigueur des codes, et il rejoint là la souplesse des terres à jardins. En Europe, le jardin, d'abord potager puis floral, l'orangerie, la douceur des potagers et des fruits méditerranéens ou la sérénité des vergers centre-européens ou nord-européens, le vieux culte européens des fruits impliquent au fond une moindre rigueur, en dépit des jansénismes ou des puritanismes. Les libres-penseurs ne nous contrediront pas: Voltaire n'a-t-il pas dit et répété, «Cultivons notre jardin», signifiant par là que la variété des essences que nous y cultivons nous procure la sérénité et nous conduit au chemin de la tolérance (mais, hélas, aujourd'hui, la tolérance, dans la bouche des vitupérateurs médiatiques, n'est plus cette sérénité, mais, au contraire, le prétexte à édifier des codes rigides, plus rigides que tous les codes religieux du passé, parce qu'abstraits et désincarnés).

 

Aujourd'hui, la revendication religieuse la plus véhémente est sans conteste celle de l'islamisme radical. Mais quel islamisme? Celui du FIS, de la République Islamique d'Iran, du Soudan, des Frères musulmans, des Talibans de Kaboul, des extrémistes égyptiens qui prennent les cars de touristes pour cibles, d'Erbakan en Turquie? Dans ces multiples facettes de l'islamisme radical d'aujourd'hui, il s'agit pour nous de faire le tri. Non pas en vue d'une conversion qui serait insolite ou marginale. Mais parce qu'en dépit du processus qui s'opère actuellement, c'est-à-dire le regroupement des peuples dans des sphères civilisationnelles axées sur les options religieuses (cf. le recension du livre de Samuel Huntington par W. Strauss dans ce n°30 de NdSE), le dialogue inter-civilisationnel ne s'arrêtera pas pour autant. Si ces regroupements impliquent un certain repli sur soi,  —pour que les peuples revoient enfin clair et se dégagent des philosophades simplistes de l'occidentisme—  les périphéries continueront néanmoins à dialoguer entre elles pour gérer des zones géographiques contigües ou même pour vider des conflits par les armes (car la guerre, en dépit de ce que racontent les irénistes, est une forme de dialogue).

 

Guido A. Del Valle, lors de notre université d'été de 1996 en Lombardie, avait démontré que les principales puissances musulmanes d'aujourd'hui étaient de fidèles alliées des Etats-Unis et, qu'à ce titre, elles étaient instrumentalisées contre l'Europe. Ce constat est juste, hélas, et nous l'acceptons, même si nous aurions préféré un dialogue inter-civilisationnel sur le mode que nous avait préconisé le Juste Ludwig-Ferdinand Clauss, dont Julius Evola admirait tant les œuvres. En effet, l'Egypte, clef du canal de Suez, de la Mer Rouge et de la Méditerranée orientale, est une alliée des Etats-Unis. La Turquie, formidable puissance militaire classique à la charnière de l'Europe et de l'Asie, entre la Mer Noire russo-ukrainienne et la Méditerrannée orientale, est le principal atout américain dans la région. Très nettement, cette puissance joue contre l'Europe et contre la Russie dans les Balkans, en Mer Noire, dans le Caucase, en Asie centrale, à Chypre et dans les vallées du Tigre et de l'Euphrate. Enfin, l'Arabie Saoudite, formidable puissance financière et pétrolière, est entièrement sous la coupe de Washington. En Algérie, la guerre civile empêche une réorganisation du pays, qui pourrait devenir un complément agricole pour l'Europe surpeuplée. La Libye de Khadafi, Etat plus laïc que religieux dans sa structure, est condamnée à faire du sur-place à cause du blocus imposé par Washington. Le Pakistan sert de base arrière aux Talibans qui font la guerre aux Russes et aux Tadjiks, pour empêcher que la plus grande puissance slave ne s'installe par gouvernements locaux interposés sur les rives de l'Océan Indien et n'opère une jonction avec l'Inde, ne réalise un axe Moscou-Dehli. Seul l'Iran, puissance impériale sur la masse continentale eurasiatique, à côté des impérialités euro-germanique, russe, chinoise, japonaise et ottomane (défunte), a une politique anti-américaine et anti-impérialiste cohérente. L'Islam chiite à la mode iranienne est donc un allié potentiel de l'Europe et de la Russie sur la scène internationale. Washington tente de nous le faire oublier, par une propagande remarquablement bien orchestrée, que gobent tous les politiciens à la petite semaine qui peuplent nos ministères des affaires étrangères.

 

Washington a admirablement joué sa carte musulmane. Tous ces coups ont été des coups de maître. S'il existait en Europe des diplomates et des services spéciaux aussi efficaces que ceux qui agissent à Washington, que feraient-ils?

- Ils dénonceraient le blocus anti-libyen, aideraient Khadafi (ou ses successeurs) à réaliser les plans germano-italiens de 1940-43 de fertilisation du désert de Tripolitaine et de Cyrénaïque afin d'avoir une réserve de céréales et d'agrumes aux portes de l'Europe.

- Ils tableraient sur des mouvements néo-nassériens en Egypte, afin d'obtenir le contrôle du Canal de Suez et de la Mer Rouge.

- Ils soutiendraient la politique néo-musulmane et néo-ottomane d'Erbakan en Turquie contre le laïcisme des militaires à la solde de l'Occident libéral. Ils forceraient Serbes et Croates à affronter de concert la menace turque dans les Balkans. Ils aideraient Roumains, Bulgares, Ukrainiens, Russes, Géorgiens et Arméniens à faire de la Mer Noire un lac exclusivement européen, de façon à organiser en synergie fleuves ukrainiens et bassin du Danube, afin d'avoir une voie fluviale non contrôlée par la VIième flotte US et d'y échanger les produits finis centre-européens et les matières premières (blé, pétrole) d'Ukraine et du Caucase. Ils se poseraient en protecteurs de la Syrie et de l'Irak contre la politique des barrages turcs qui assèchent la région en monopolisant dès la source les eaux du Tigre et de l'Euphrate. Ils imposeraient à Washington et à Ankara le tracé russe des oléoducs venant du Caucase, qu'ils coupleraient ensuite au complexe danubien. Ils vieilleraient à la bonne exécution de ces politique en intégrant Chypre à l'UE et en faisant de cette belle île une base aéronavale inexpugnable, où l'armée et la marine grecques auraient un rôle primordial à jouer. Ils réserveraient à Ankara un rôle de premier plan, un rôle impérial, au Proche-Orient, de Mossoul à Aden. La Turquie actuelle n'a de toute façon par de moyens propres suffisants pour faire une autre politique.

- Ils soutiendraient les partis russophiles en Afghanistan, de façon à contrôler, de concert avec l'Iran, toute la côte de l'Océan Indien, d'Aden aux frontières de l'Inde, prélude au grand axe Berlin-Vienne-Moscou-Téhéran-Dehli-Tokyo, résurrection de cinq des grandes impérialités eurasiennes, auxquelles se joindrait rapidement la Chine.

 

Dans le jeu subtil et intéressé de la diabolisation globale de l'“extrémisme islamique”, il s'agit surtout de garder la tête froide, de ne pas raisonner avec passion, mais avec froideur, en toute vraie logique politique. Car les zones incluses aujourd'hui dans la “civilisation musulmane” sont les zones-clefs de l'histoire: ceux qui les contrôlent sont maîtres du monde; ceux qui les ignorent sont condamnés à mariner misérablement dans le jus de leur égocentrisme stérile. Je me permets de rappeler aux isolationnistes étriqués qui veulent édifier des murs entre l'Europe et le monde musulman, que ces murs n'ont jamais existé (ni au temps antiques de l'élan des peuples indo-européens vers la Cappadoce, les hauts plateaux iraniens et l'Inde ni aux temps des croisades et de Marco Polo). Pour employer une métaphore agricole, dans l'esprit des jardins de Voltaire: les isolationnistes sont des consommateurs de fruits confits et de confitures, sans doute faute de mieux; les “dialoguistes inter-civilisationnels”, les héritiers de Frédéric II de Hohenstaufen, mordent dans les fruits frais gorgés de soleil, à pleines dents!

 

Revenons au concret et à l'actualité: dans le monde islamique, nous avons des alliés et des ennemis. Nos alliés sont les adversaires de Washington, parce que Washington veut torpiller toute véritable unification européenne. Nos ennemis sont tous les extrémistes qui agissent pour le compte des Etats-Unis. Tout le reste est littérature, boniments et propagande médiatique. Washington ne fait pas la fine bouche quand il s'agit de choisir ses hommes de main dans les montagnes afghanes, dans les Balkans, le Caucase ou le bled algérien. Pourquoi l'Europe resterait-elle paralysé devant les discours tenus par des ignorants (ou de faux ignorants dûment stipendiés) dans les gazettes bien-pensantes ou sur les ondes de télévisions commerciales? Un synergétiste averti en vaut deux.

 

Gilbert SINCYR.

 

dimanche, 18 avril 2010

Tsarigrad ou le rêve brisé

 

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

Trouvé sur : http://www.polemia.com/campagne.php?cat_id=31&iddoc=664
[Visitez souvent le site de l’association “Polemia” de Jean-Yves Le Gallou!!]

Fabien de STENAY :

Tsarigrad ou le rêve brisé

"Je me répète lentement, pour bien m'en pénétrer, cette phrase mélancolique d'un vieux prince Bibesco : « La chute de Constantinople est un malheur personnel qui nous est arrivé la semaine dernière »." Com­me le montre la fin amère du fameux roman de Jean Raspail « Le Camp des Saints », la chute de Constan­tinople reste dans l'imaginaire européen symbole de fatalité, de perte irréversible et d'autant plus dou­loureuse. Pourtant, avec le reflux de l'Empire ottoman à partir du XVIIIe siècle, il s'en fallut de peu pour que la Seconde Rome revînt aux mains des Européens. Mais, comme souvent, ce fut la division de ceux-ci qui ruina tous les espoirs.

 

Dans l'Europe restaurée du Congrès de Vienne et de la Sainte Alliance, la Russie s'était assignée la mission de garantir l'ordre sur le continent.

 

Dès le début de son règne, le tsar Nicolas Ier (1825-1855) fit du contrôle des détroits - « les clefs de la maison » - le second objectif de sa diplomatie pour des raisons au moins autant mystiques que straté­gi­ques. La politique de grande fermeté qui suivit vis-à-vis de la Sublime Porte déboucha en 1828 sur une guerre. L'armée russe fut victorieuse, et l'avantageux traité d'Andrinople fut conclu le 14 septembre 1829 : la Russie obtenait les bouches du Danube, des territoires caucasiens, ainsi que le libre passage à travers les détroits pour ses navires marchands. Enfin, les provinces de Moldavie et de Valachie obte­naient leur autonomie et leur placement sous protectorat russe (tout en restant officiellement rattachées à l'Empire ottoman). Les armées du tsar approchaient des Balkans.

 

Toutefois, les principes arrêtés par Alexandre Ier restaient de vigueur : on se contentait d'affaiblir l'Em­pire ottoman, tout en maintenant son intégrité territoriale. Dès le début des années 1830, cette politi­que relativement modérée porta ses fruits : le sultan demanda en 1833 l'aide russe contre le soulèvement du pacha d'Egypte Mehmet Ali. En retour, un traité d'assistance mutuelle fut signé entre les deux Empi­res; une clause secrète interdisait à l'Empire ottoman d'ouvrir les Dardanelles aux bâtiments de guerre étrangers.

 

Les grandes puissances européennes, en premier lieu l'Angleterre, contestèrent le privilège accordé aux Russes, et un nouveau conflit turco-égyptien donna l'occasion d'un nouveau traité : la convention des Dé­troits, entre l'Autriche, la France, la Grande-Bretagne, la Prusse et la Russie, par laquelle les Britanniques obtinrent que les détroits soient interdits, en temps de paix, à tout navire autre que turc.

 

La Russie conservait toutefois des droits sur les populations chrétiennes de l'Empire ottoman, en parti­culier dans les Balkans.

 

Aussi, quand, en 1852, Napoléon III obtint la restitution de douze lieux saints de Palestine à l'Eglise ca­tholique qui les avait perdus en 1808 au profit de l'Eglise orthodoxe, la diplomatie russe perçut le succès français comme une menace. Au début de l'année suivante, le tsar proposa donc au gouvernement bri­tannique un plan de partage de l'Empire ottoman excluant Napoléon III : l'Egypte reviendrait à l'Angleterre tandis que la Russie obtiendrait les Principautés roumaines, la Serbie, la Bulgarie ainsi que le contrôle des détroits. Mais le projet ne pouvait qu'échouer : le tsar négligeait la force des ambitions françaises, et surtout l'hostilité des Anglais comme des Autrichiens à l'avancée russe dans les Balkans. Après une nouvelle guerre russo-turque et la destruction de la flotte ottomane le 30 novembre 1853 à Sinope, la France et l'Angleterre entrèrent en guerre contre le tsar. La guerre de Crimée se poursuivit pendant plus de deux ans et aboutit à une débâcle russe. Le nouveau tsar Alexandre II, à la tête d'une Russie en net recul, con­sacra alors une bonne partie de son énergie à réformer son Empire, et renonça pour le moment à son expansion balkanique.

 

Le climat des années 1870 renoua en partie avec celui qui suivit le Congrès de Vienne : en 1873, une al­liance des trois empereurs (Allemagne, Autriche-Hongrie, Russie) ayant pour but de préserver l'équilibre européen semblait rejouer la Sainte-Alliance.

 

Mais pour le tsar, cette place qui lui était donnée devait servir de tremplin à une nouvelle politique bal­kanique conforme à la poussée du nationalisme et du panslavisme dans l'opinion russe. Celle-ci avait en ef­fet commencé à s'engager passionnément dans la « question d'Orient » au nom de la cause panslave. Mos­cou, « troisième Rome », devait non seulement défendre les intérêts des minorités slaves et orthodoxes de l'Empire ottoman, mais aussi libérer ceux-ci du joug turc et reprendre pied à Constantinople. De plus en plus, la cité du Bosphore était désignée dans la langue russe sous le nom fortement connoté de Tsarigrad, « la ville des empereurs ». Des comités panslaves se formèrent dans les grandes villes (Mos­cou, Saint-Pétersbourg, Kiev, Odessa…), et nourrissaient leur idéologie par les écrits de plumes presti­gieuses, comme Danilevski ou Dostoïevski. Ce dernier écrivait par exemple dans le « Journal d'un écri­vain » : « Le chemin du salut exige que la Russie, et pour son propre compte, s'empare de Constantinople, car la Russie seule a le droit de dire qu'elle est à la hauteur de la tâche ». Certes, le gouvernement russe se méfiait de cette surenchère, mais elle contribua néanmoins au renforcement de l'engagement russe dans les Balkans, au moment même où les minorités orthodoxes de l'Empire ottoman se révoltèrent.

 

Le mouvement lancé en juillet 1875 par les paysans orthodoxes de Bosnie contre leurs seigneurs musul­mans se généralisa en effet à l'ensemble des Balkans.

 

Devant la féroce répression turque et l'entrée en guerre de la Serbie et du Monténégro, la Russie tint na­turellement à intervenir. Prudente, elle attendit la garantie de la neutralité autrichienne pour déclarer la guerre aux Ottomans, en avril 1877. L'engagement russe fut massif et, malgré la vive résistance tur­que, les troupes du Tsar entrèrent dans Andrinople, à 200 Km de Constantinople, en janvier 1878. Le 3 mars suivant, le traité de San Stefano entérinait la victoire de la Russie, qui obtenait de plus des terri­toires arméniens et roumains. L'Empire ottoman dut reconnaître formellement l'indépendance de la Ser­bie, du Monténégro, de la Roumanie, et accepter l'autonomie d'une grande Bulgarie englobant la Ma­cédoine.

 

Toutefois, ce traité bilatéral russo-turc, bien qu'il témoignât du dynamisme retrouvé de la politique bal­kanique russe, se heurta à l'hostilité des diplomaties autrichienne et anglaise qui voyaient d'un mauvais œil cette grande Bulgarie, vaste Etat slave client de la Russie. Les autorités russes durent bientôt ac­cepter le principe d'une conférence internationale; celle-ci se déroula à Berlin en juin et juillet 1878, sous l'égide du chancelier Bismarck et en présence des dirigeants européens de tout premier plan. La Russie dut renoncer à l'autonomie de la Grande Bulgarie et accepter que la Bosnie-Herzégovine fût occupée par l'Autriche-Hongrie. Malgré le dynamisme de la politique balkanique d'Alexandre II, la fin de son règne fut donc marquée par l'opposition virulente des Autrichiens et des Anglais, bientôt rejoints par l'Allemagne : en 1879, une nouvelle alliance, la Duplice, réunissait les Empires autrichien et allemand face à la Russie.

 

Le combat pour Tsarigrad restait toutefois une préoccupation au moins inconsciente de l'impérialisme russe. « Ce damné mirage de Constantinople », comme fait dire Soljénitsyne à l'un des personnages de «Novembre Seize», allait jouer un rôle dans les négociations qui menèrent à la Première Guerre Mon­diale et qui la rythmèrent.

 

En 1912, lors des guerres menées contre la Turquie par les Etats balkaniques, la Russie soutint ces der­niers en faisant bien comprendre à tous que la question constantinopolitaine était un domaine réservé du Tsar. Mais surtout, la mise en place de la Triple Entente impliquait un accord entre Saint-Pétersbourg et Londres : en 1905, la France avait en effet refusé de suivre les cousins Guillaume II et Nicolas II dans leur projet de grande alliance continentale, concocté à Björkö. Après cet échec, le réarmement naval de l'Allemagne inquiéta la Russie, qui, en 1907, n'eut d'autre choix que de suivre la France dans son alliance avec l'Angleterre, bien que cette dernière eût soutenu le Japon dans la guerre de 1904-1905. Mais malgré l'accord tacite de ses alliés à l'enlèvement de Constantinople aux Turcs, la Russie savait qu'elle ne pourrait faire admettre celui-ci aux Autrichiens qu'à la faveur d'une guerre victorieuse.

 

C'est donc après le déclenchement du conflit européen en août 1914 (la Russie ne déclara la guerre à la Turquie qu'en novembre) que commencèrent les manœuvres, militaires comme diplomatiques, autour de la Ville de Constantin.

 

En 1915, Anglais et Français montèrent l'opération des Dardanelles, en vue d'occuper Constantinople et de négocier sa remise à la Russie. Mais devant la résistance menée par Mustafa Kemal et le général allemand Liman von Sanders, l'offensive fut abandonnée après plusieurs mois meurtriers, et ce malgré l'épuisement imminent de l'armement turc: le retrait de l'amiral anglais De Robeck, commandant en chef de l'opéra­tion, stupéfia les Turcs qui ne pensaient pas pouvoir tenir plus longtemps ; il n'est pas impossible que la victoire ait été délibérément évitée. Mais ce n'est pas la dernière occasion manquée dans cette affaire.

 

À partir de la fin de 1916, des négociations secrètes furent ouvertes entre Vienne et Paris, par l'in­termédiaire des princes de Bourbon-Parme, frères de l'impératrice Zita et officiers dans l'armée belge. En février 1917, Charles Ier d'Autriche fit savoir qu'il était prêt à accepter, non seulement la restitution à la France de l'Alsace-Moselle (et même des places enlevées au second traité de Paris en 1815), au sujet de laquelle il fallait encore convaincre Guillaume II, ignorant tout de ces tractations, mais aussi la souve­raineté russe sur Constantinople : sans le soutien autrichien dans les Balkans, il était impossible aux Turcs de résister à une offensive de la Russie et de ses alliés. Le 24 mars, Charles Ier mit ses propo­sitions par écrit, celles-ci restant toutefois encore secrètes.

 

Mais le 31 mars 1917, Clemenceau convainquit le nouveau ministre des Affaires étrangères Ribot de rom­pre les pourparlers engagés par son prédécesseur Briand. Entre-temps, la révolution avait éclaté en Rus­sie, et celle-ci allait bientôt se retirer du conflit ; pendant que Lénine et Trotsky s'activaient en secret, Ribot trahissait les engagements de la France en révélant, aux Italiens d'abord, puis à tous, les propo­sitions autrichiennes. Les révolutionnaires de Petrograd et les radicaux de Paris mettaient fin à un vieux rêve en passe de s'accomplir.

 

Seuls de rares rêveurs espèrent encore que la Seconde Rome et Sainte-Sophie seront un jour libérées. En­core cet espoir n'est-il souvent guère plus qu'une illusion romantique.

 

Toutefois, il n'est pas exclu qu'un jour, peut-être plus proche qu'on ne l'imagine, l'Europe enfin unie ou tout du moins solidaire puisse récupérer l'antique cité fondée au VIIe siècle A.C. par les Grecs de Mégare, élevée au rang de capitale impériale par Constantin le Grand et phare de l'Europe orientale pendant un millénaire. Car si Nietzsche nous apprend que la volonté de puissance est un moteur de l'histoire, n'oublions pas pour autant combien peut être grande la puissance de la volonté.

 

Fabien de STENAY,

(10/10/2003 - © POLEMIA).

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vendredi, 09 avril 2010

Pas d'Europe unie sans la Russie!

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Pas d'Europe unie sans la Russie

 

Article de Vladimir Simonov,

commentateur politique de RIA-Novosti, 24 février 2004.

 

Les ultimatums posés à la Russie dans l'histoire contemporaine n'ont jamais aidé leurs auteurs à atteindre leurs objectifs.

 

La déclaration conjointe adoptée lundi à Bruxelles à la rencontre des chefs des diplomaties des pays membres de l'Union européenne rappelle beaucoup un ultimatum. L'Union européenne évoque devant la Russie les "graves conséquences" qu'entraînerait son refus d'étendre l'Accord de partenariat et de coopération conclu en 1997 aux nouveaux pays qui adhéreront à l'UE le 1er mai.

 

Moscou souhaite revoir cet accord, car la Russie a des échanges commerciaux avec les pays d'Europe de l'Est, nouveaux membres de l'Union européenne en vertu de traités dont les délais n'expireront pas vers mai prochain, loin s'en faut.

 

L'UE s'y oppose catégoriquement. Selon la déclaration adoptée à Bruxelles, l'Accord de partenariat et de coopération doit s'étendre automatiquement aux nouveaux membres du club européen. Bruxelles laisse entendre par là que l'élargissement de l'Union européenne est une affaire intérieure de l'organisation et qu'elle le restera même si cela ne plaît pas à Moscou. Mais le problème est ailleurs: les belles formules de la "Stratégie générale de l'UE à l'égard de la Russie", document fondamental adopté en juin 1999 par le Conseil de l'Europe à Cologne, garderont-elles leur sens après l'élargissement de l'UE? Ce document mentionne maintes fois des objectifs stratégiques de l'UE comme "l'intensification de la coopération avec la Russie", la création d'une "Russie prospère", d'une "économie de marché florissante dans l'intérêt de tous les peuples de la Russie", etc.

 

Cependant, Bruxelles ne peut pas ne pas comprendre que l'extension automatique des normes de l'Accord de partenariat et de coopération à 10 nouveaux membres de l'UE portera un coup dur aux intérêts économiques de la Russie. Les dizaines de traités et d'accords commerciaux et économiques qui sont aujourd'hui en vigueur seront résiliés. L'exportation d'aluminium, de céréales, d'engrais chimiques et de combustibles nucléaires vers l'Europe centrale et en Europe de l'Est se heurtera à une multitude de facteurs négatifs.

 

Bref, selon les estimations des experts russes et occidentaux, l'élargissement d'après la variante que Bruxelles essaie d'imposer à Moscou causera à l'économie russe un préjudice d'au moins 300 millions d'euros, ce qui permet de juger des propos sur le souci de créer une "Russie prospère".

 

Il est à remarquer qu'en refusant à Moscou le droit de défendre ses intérêts contre les conséquences négatives de l'élargissement de l'UE, ses membres n'ont pas l'intention de sacrifier leurs propres droits à l'autodéfense.

 

Ainsi, 14 des 15 membres de l'Union européenne adoptent en hâte, ces derniers mois, toutes sortes de lois et de normes qui leur permettraient de réduire considérablement l'arrivée d'immigrés des pays qui adhéreront au club européen le 1er mai. La Belgique introduit des restrictions sur l'octroi des permis de travail qui seront en vigueur pendant les deux années suivant l'élargissement de l'UE, sans donner d'éclaircissements à ce sujet. L'Allemagne prévoit de prolonger ces restrictions jusqu'à 7 ans. Les Pays-Bas établissent le quota de 22 000 ouvriers immigrés par an pour ceux qui arrivent des pays d'Europe de l'Est. La Grande-Bretagne les prive de la plupart des allocations sociales.

 

Personne n'a l'intention d'étendre automatiquement aux nouveaux membres de l'Union européenne les règles conformes à la situation précédant le 1er mai 2004.

 

Se rendant compte de l'absence de logique des exigences présentées à Moscou d'étendre l'Accord de partenariat et de coopération à 25 pays (aujourd'hui, il concerne 15 pays), Bruxelles veut noyer cette iniquité dans son mécontentement face à la politique intérieure des autorités russes.

 

Dans la même déclaration conjointe, les ministres des Affaires étrangères de l'UE rappellent la violation des droits de l'homme en Tchétchénie, "l'imperfection du système électoral russe", ils proposent à Moscou de ratifier dans les plus brefs délais le protocole de Kyoto sur le réchauffement du climat global et de récupérer les immigrés illégaux russes expulsés par les pays de l'UE.

 

Moscou connaît ses côtés faibles mieux que n'importe quel critique. La Russie est prête à accepter graduellement les valeurs européennes, mais, pour l'instant, elle déploie ses efforts principaux en vue de remplacer l'économie centralisée par l'économie de marché. La Russie traverse une période transitoire dramatique et voudrait compter sur la compréhension, la coopération et le partenariat de l'UE, et pas seulement sur les observations critiques formulées sur un ton sans appel à son adresse.

 

Pour l'instant, Moscou soupçonne de plus en plus que l'élargissement de l'Union européenne dans sa variante actuelle représente probablement une tentative de créer un espace européen sans la participation de la Russie, ou bien une zone géopolitique où le rôle réservé à la Russie serait secondaire, celui de pays de seconde zone.

 

Multipliant les prétentions et les exigences adressées à Moscou, Bruxelles méprise en même temps les intérêts nationaux de la Russie. L'exigence d'étendre automatiquement l'Accord de partenariat et de coopération aux nouveaux membres de l'UE ne fait que mettre en lumière un problème plus important. Le mémorandum du ministère russe des Affaires étrangères envoyé fin janvier à la Commission européenne en parle de manière plus détaillée. L'élargissement de l'Union européenne serait moins douloureux, laisse entendre ce document, si les milieux dirigeants de Bruxelles comprenaient mieux ce que la Russie veut obtenir de l'UE.

 

Elle ne veut rien d'extraordinaire et, d'autant moins, rien d'injustifié du point de vue des intérêts nationaux réels de la grande puissance européenne qui assure 36 % des livraisons de gaz et 10 % de celles de pétrole aux pays de l'UE.

 

La Russie voudrait participer plus dignement à l'adoption de décisions au sein de l'Union européenne, à plus forte raison après l'adhésion à cette organisation des pays d'Europe centrale et d'Europe de l'Est, ses partenaires économiques traditionnels. Moscou saluerait les tarifs commerciaux plus équitables de l'UE pour l'acier, les produits pharmaceutiques, le matériel aéronautique et les technologies nucléaires russes.

 

La Russie ne comprend pas non plus pourquoi l'Union européenne hésite à inviter l'Estonie, surtout la Lettonie, c'est-à-dire ses nouveaux membres, à garantir l'accès aux valeurs européennes pour la minorité russophone de ces pays, notamment la liberté d'étudier et de développer sa culture en langue maternelle.

Moscou compte sur une attitude moins indifférente de Bruxelles vis-à-vis du problème du transit de Kaliningrad et, dans un avenir prévisible, envers les voyages sans visas entre la Russie et l'UE.

 

Le problème principal se profile derrière cette avalanche de souhaits, de prétentions et de remarques critiques qui s'accroît dans les rapports entre la Russie et l'Union européenne: dans quelle mesure Bruxelles est-il prêt au partenariat stratégique réel, et non déclaratif, avec Moscou, partenariat décrit d'une manière si attrayante dans l'Accord de 1997 ? D'ailleurs, il ne faut pas oublier un axiome: il est impossible de créer la communauté paneuropéenne sans la présence de la Russie.

 

Vladimir SIMONOV.

mercredi, 07 avril 2010

La geopolitica di Karl Haushofer ha ancora qualcosa da insegnare al mondo attuale?

La geopolitica di Karl Haushofer ha ancora qualcosa da insegnare al mondo attuale?
di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]


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È giusto buttare via il bambino insieme all’acqua sporca?
Dal momento che la geopolitica ha un’origine in gran parte tedesca, e poiché è servita a razionalizzare, in parte, gli obiettivi di guerra della Germania nelle due guerre mondiali, la cultura liberaldemocratica oggi dominante l’ha sdegnosamente rigettata, insieme ai vecchi e lugubri armamentari del nazismo.
Tuttavia, a parte il fatto che le potenze liberaldemocratiche - Stati Uniti e Gran Bretagna in testa - perseguono, con altri nomi e sotto alte maschere, un obiettivo strategico globale molto simile a quello che la geopolitica, tedesca e  non, indicava come proprio oggetto di studi, ci sembra che molta confusione ipocrita e molta voluta ambiguità siano alla radice di questa operazione di rifiuto e di radicale rimozione dal salotto buono della cultura odierna.
Fra parentesi, osserviamo che si tratta della stessa confusione ipocrita e della stessa voluta ambiguità che hanno presieduto all’abbandono degli studi geopolitici in Italia, dopo che essi avevano ricevuto un impulso originale fra il 1939 e il 1942, ad opera della omonima rivista e degli studiosi Giorgio Roletto ed Ernesto Massi dell’Università di Trieste. Caduto il fascismo, anche la geopolitica italiana è stata gettata nel cestino della storia, come un lontano cugino impresentabile, di cui doversi vergognare tra la gente “per bene”.
Dunque: in primo luogo, la geopolitica non è solo di origine tedesca, ma anche inglese e americana; anzi, a fondarla è stato uno studioso svedese, Rudolf Kjellen,  nel 1904. E la sua idea fondamentale, ossia la contesa naturale ed incessante fra le potenze marittime o talassocratiche e quelle continentali, deriva dal libro di uno studioso inglese, Sir Halford Mackinder, «The Geographical Pivot of History».
In secondo luogo, anche la geopolitica tedesca non è affatto un prodotto del nazismo e la si può benissimo immaginare anche senza Hitler. Il terreno è stato preparato dalla geografia politica di Friedrich Ratzel (1844-1904) e il suo massimo esponente è stato Karl Haushofer (1869-1946) che non era nazista, anzi che ebbe un figlio giustiziati dai nazisti, ma era piuttosto un militare conservatore della vecchia scuola, le cui idee fondamentali si concretizzarono fra due eventi che precedettero entrambi l’avvento del nazismo: da un lato il “Drang nach Osten”, la “marcia verso Oriente” della Germania guglielmina, che sembrò concretizzarsi con la costruzione della ferrovia Berlino-Baghdad; dall’altro la sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale e il fortissimo sentimento di frustrazione nazionale che si impadronì allora della Germania, sotto il peso del punitivo trattato di Versailles.
La Germania è una potenza continentale e sempre i suoi governi hanno ragionato in termini di politica continentale. La corsa all’accaparramento delle colonie, nel 1884, fu una eccezione alla regola, concessa da Bismarck per dare un contentino agli ambienti della Marina e a taluni settori industriali e finanziari; ma la rivendicazione delle colonie perdute non sarebbe stato che un elemento del tutto secondario nel disegno rivendicazionista di Hitler.
Viceversa, la Gran Bretagna è sempre stata una potenza marittima il cui obiettivo è quello di impedire che, sul continente europeo, si affermi una potenza egemone, ciò che metterebbe in forse i suoi interessi commerciali e strategici; per questo essa ha sempre profuso grandi somme di denaro per armare delle coalizioni contro la potenza egemone del momento, che fosse la Francia di Luigi XIV o di Napoleone, oppure la Germania di Guglielmo II e, poi, di Hitler.
Altrettanto evidente che, per Mackinder, il potere talassocratico fosse di segno positivo, mentre per Haushofer era quello continentale a rappresentare il “bene”: ciascuno vede la verità secondo il proprio specifico angolo visuale. Le potenze marittime sono isole e arcipelaghi (Gran Bretagna, Giappone) o penisole (Italia); quelle continentali sono al centro dei continenti (Germania) o, spingendosi da una costa all’altra, appaiono in grado di unificarli (Russia, poi Unione Sovietica; Stati Uniti; e, oggi, anche la Cina).
Per questo la Gran Bretagna non voleva né poteva rinunciare a Gibilterra, a Suez, ad Aden, a Singapore e Hong Kong, a Città del Capo e alle Isole Falkland: perché solo per mezzo di quelle basi strategiche avrebbe potuto stringere in una morsa le potenze continentali. E per questo la Germania, in entrambe le guerre mondiali, ha puntato a est, al grano dell’Ucraina, al petrolio della Romania e poi del Caucaso, al ferro della Svezia, alle immense steppe dell’Asia centrale: perché solo così avrebbe potuto spezzare l’accerchiamento marittimo e l’inevitabile strangolamento economico cui, con il dominio inglese dei mari, era inevitabilmente esposta.
Ma una cosa è certa: che, mentre per la Gran Bretagna la posta in gioco era la conservazione dell’impero coloniale e, quindi, del benessere legato allo sfruttamento di immense risorse mondiali e alla penetrazione commerciale nei più lontani mercati, per la Germania invece (o, prima di essa, per la Francia e, dopo di essa, per l’Unione Sovietica) la posta in gioco era, in un certo senso, la pura e semplice sopravvivenza. Perciò, a dispetto di tutte la apparenze, le guerre di Napoleone contro le varie coalizioni finanziate dall’Inghilterra erano essenzialmente difensive, come lo furono quelle di Hitler, ivi compreso l’attacco all’Unione Sovietica, spada continentale dei banchieri della City Londinese (e di Wall Street); mentre le guerre condotte e soprattutto finanziate dalla Gran Bretagna, nel corso di oltre due secoli, contro la potenza continentale di turno, a partire dalla Guerra dei Sette anni (1756-63), furono guerre prettamente offensive.
Entrambe le guerre mondiali possono essere considerate come un gigantesco scontro geopolitico fra le potenze talassocratiche e quelle continentali.
Nella prima, la potenza marittima egemone (Gran Bretagna), alleata con due potenze continentali marginali dell’area euroasiatica (Francia e Russia) e con due potenze extraeuropee, una continentale ed una marittima (Stati Uniti e Giappone), nonché con una potenza marittima europea (Italia), ha avuto la meglio sulle due potenze continentali europee (Germania e Austria-Ungheria) e su una potenza continentale marginale (Impero Ottomano).
Nella seconda, una potenza continentale e due potenze marittime dell’area euroasiatica (Germania, Italia e Giappone) hanno tentato, fallendo, di spezzare l’accerchiamento del maggiore potenziale integrato, marittimo e terrestre, che esistesse a livello mondiale (Gran Bretagna e Stati Uniti), alleato - per l’occasione - con l’altra potenza continentale (Unione Sovietica; la Francia essendo stata eliminata già nelle primissime fasi del conflitto).
Insomma, si arriva sempre alla medesima conclusione: che il dominio dei mari, alla lunga, assicura la vittoria, perché consente lo sfruttamento delle maggiori fonti di ricchezza mondiali; ma che le potenze marittime, per strappare la decisione finale, devono o allearsi con delle potenze terrestri, di cui si servono come di altrettante spade continentali, oppure devono trasformarsi esse stesse anche in potenze continentali: come è stato il caso della Gran Bretagna, che, attraverso colonie-continenti come l’Australia, ha decentrato i propri gangli vitali; tanto che è stato osservato come neppure l’invasione tedesca dell’Inghilterra, nel 1940, l’avrebbe costretta alla resa, poiché essa avrebbe potuto benissimo continuare la lotta trasferendo il proprio governo nel Canada e potendo contare sull’appoggio sempre più deciso degli Stati Uniti.
Infine potremmo dire che, negli ultimi decenni, la superpotenza americana (continentale, ma divenuta anche marittima per le necessità della sua politica imperiale), dopo aver avuto la meglio sulla superpotenza sovietica (anch’essa continentale, e anzi bicontinentale, improvvisatasi marittima per ragioni strategiche globali), deve ora fronteggiare l’ascesa irresistibile di una potenza squisitamente continentale, la Cina - e, in prospettiva, anche l’India - divenuta erede dello slogan panasiatico lanciato dai Giapponesi durante la guerra del Pacifico.
Ma sarà bene delineare, adesso, un rapido profilo della figura e dell’opera del controverso “padre” della geopolitica, Karl Haushofer, servendoci della penna di un valente studioso italiano.
Ha scritto Alessandro Corneli, esperto di relazioni internazionali e strategia, nel suo volume «Geopolitica è. Leggere il mondo per disegnare scenari futuri» (Fondazione Achille e Giulia Boroli, 2006, pp. 123-27):

«Karl Haushofer (1869-1946) è il pensatore geopolitico tedesco per eccellenza, ma il suo nome è Anche legato alla parabola nazista. Ufficiale di carriera senza particolari meriti, in missione diplomatica in Estremo Oriente Giappone e Manciuria, scrive le sue impressioni, restando particolarmente colpito dalla corsa alla modernizzazione dell’Impero del Sol Levante. Durante la partecipazione alla prima guerra mondiale legge “Lo Stato come organismo” dello svedese Kjellén e apprende il significato della geopolitica: scienza dello Stato in quanto organismo geografico, così come si manifesta nello spazio; lo Stato inteso come Paese, come territorio, e come impero. Convinto che la guerra in corso sia una guerra di annientamento della Germania, vuole che il suo paese sia una potenza mondiale. Così, all’indomani della sconfitta, ormai cinquantenne, fa il professore , il conferenziere, e dà vita alla “Rivista di geopolitica”, imponendosi come un’autorità intellettuale.
Nel 1919 aveva conosciuto il giovane Rudolf Hess (1894-1987). Hess, volontario nella prima guerra mondiale, si era arruolato nel reggimento List, in cui combatteva anche un ancora oscuro caporale di origine austriaca, Adolf Hitler, che lo convinse a entrare in politica, nel 1920, abbandonando l’università di Monaco dove stava per laurearsi in filosofia.  Stretta amicizia con Hermann Göring (1893-1946, che durante la guerra aveva acquistato fama di grande aviatore e fu poi il creatore della’armata aerea tedesca, anche se fallì l’impresa contro la Royal Air Force inglese nella Battaglia d’Inghilterra), Hess partecipò al fallito putsch nazista di Monaco nel 1923, e fu arrestato insieme a Hitler. In carcere, Hess aiutò il futuro Führer a scrivere il “Mein Kampf” (“La mia battaglia”), opera destinata a diventare il testo sacro del nazismo. Da quel momento egli divenne uno dei più stretti collaboratori di Hitler, tanto da esserne considerato il suo delfino (che in gergo politico indica il successore alla guida di un partito). Hess, ma non era il solo, coltivava studi esoterici. Per il tramite di Hess,  Haushofer incontrò Hitler almeno una dozzina di volte tra il 1922 e il 1938, ma non ne resta traccia documentaria. E soprattutto nasce il suo rapporto ambiguo con il nazismo. Dapprima, almeno fino al 1939, lo studioso riconosce al Führer il merito di avere ristabilito l’ordine, di avere unificato tutti i tedeschi in un solo Stato (Reich), di avere rimediato alle ingiustizie che il trattato di Versailles aveva imposto alla Germania vinta, considerata anche colpevole di avere scatenato la guerra. Ma la sua natura d’intellettuale un po’ distaccato dalla realtà, in difficoltà a capire i politici e i loro giochi tortuosi, di strenuo difensore della coerenza delle sue teorie,  non gli permise di integrarsi nel sistema, tanto è vero che non ebbe mai la tessera del partito. In fiondo, egli era rimasto un nazionalista conservatore, un esponente della società tedesca guglielmina, aristocratica e gerarchica, , di cui erano espressione le alte cariche dell’esercito, diffidente nei confronti dei “parvenus” un po’ plebei che affollavano il mondo nazista.  Nel 1939 ci fu anche uno screzio profondo: nel libro “Le frontiere “ aveva sollevato la questione della popolazione tedesca del Tirolo meridionale, annesso all’Italia nel 1919, e la cosa doveva turbare i rapporti tra Hitler e il suo principale alleato, Benito Mussolini,.
L’inizio della guerra fece registrare un progressivo isolamento di Haushofer.  La moglie, di discendenza non ariana, era stata salvata per amicizia politica; uno dei figli, Albrecht, si trovò implicato, nell’aprile 1941q, in un complotto per arrivare a una pace separata; il 10 maggio dello stesso anno, il suo amico e protettore, Hess,  compì il misterioso volo in Inghilterra e venne catturato dagli inglesi; la “Rivista di geopolitica” si dibatteva tra molte difficoltà, tra la necessità di giustificare la politica hitleriana e il pensiero del suo fondatore, che nell’ottobre 1945 dichiarerà che dopo il 1933, cioè dopo l’ascesa di Hitler al potere, la rivista stessa era sempre stata “sotto pressione”. Dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, Haushofer venne sospettato e incarcerato: il figlio Albrecht era stato già giustiziato in aprile. Arrestato dagli americani dopo la resa della Germania (8 maggio 1945), Haushofer fu ascoltato come testimone durante il processo di Norimberga: messo a confronto con Hess, questi dichiarò di non conoscerlo. Il 10 maggio 1946 Haushofer e la moglie si suicidarono.
Affrontiamo adesso gli elementi fondamentali del suo pensiero geopolitico, dicendo anzitutto che è figlio della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale: il problema era a quel punto di andare oltre la conoscenza di sé, chiesta da Ratzel, e di fondare un progetto politico ricavandolo dalla geopolitici, perché la geopolitica, come affermava Haushofer, rappresenta il ponte tra il sapere e il potere, una specie di autocoscienza che conduce alla decisione.
Il lavoro dei precedenti studiosi viene utilizzato a fondo. Anzitutto la nozione di spazio vitale aggravato dalle ingiustizie del trattato di Versailles. In secondo luogo, e questo è un suo contributo originale, l’insistenza sulle idee globali o “pan-idee”, come il pangermanesimo, il panslavismo o il panasiatismo.  Sono queste idee in grado di costruire vasti consensi, al di là di quelli che si possono costruire intorno a un piccolo stato, e anzi sono, rispetto ai confini statali, transfrontaliere, disegnando grandi complessi continentali. L’Impero Britannico, secondo Haushofer, è destinato a essere stritolato da queste pan-idee: l’India, per esempio, non si riconoscerà in un pan-britannismo.  L’Unione Sovietica, invece, potrà far leva, data la sua estensione su due continenti, sulle idee panasiatica ed euroasiatica; gli Stati Uniti, a loro volta, sulle idee panamericana e pan pacifica.
Bisogna riconoscere a Haushofer una fantasia non priva d’illuminazioni anticipatrici, , anche se egli generalizza l’dea di alcuni fatti concreti, quali l’idea di “sfera di coprosperità asiatica” con cui il Giappone giustificava il proprio espansionismo o addirittura l’idea  di una Comunità Economica Europea lanciata, tra il 1940 e il 1944, dal ministero dell’economia e presidente della Reichsbank e sostenuta dal mondo industriale tedesco: una comunità, beninteso, di cui la Germania sarebbe stata il fulcro. Ma non è ciò che sta accadendo adesso per via pacifica?
Ciò che i geopolitici tedeschi aborrivano sopra ogni altra cosa  era il modello imperiale britannico e, accanto a coloro che sostenevano la possibilità di distruggerlo con una guerra vittoriosa,  c’erano altri che pensavano di aggirarlo e in qualche modo disgregarlo.  La seconda strada, per esempio, era alla base del progetto della ferrovia  che, iniziata nel 1903, avrebbe dovuto collegare Berlino con Baghdad  passando per Istanbul e che doveva coronare il sogno orientale di Guglielmo II, protagonista di un celebre viaggio a Gerusalemme e di un incontro con il gran muftì., al quale l’imperatore aveva promesso tutto il suo appoggio contro il sionismo, considerato lo strumento di penetrazione della Gran Bretagna in Medio oriente. Se il disegno fosse riuscito, analogamente alla spedizione di Napoleone in Egitto, , sarebbe stato spezzato l’accerchiamento britannico che andava dall’Africa (Gibilterra) all’Asia del sud-est (Singapore, Hong Kong).
Molte di queste idee sono proliferate dopo la seconda guerra mondiale. A patte la linea antisionista, antiamericana e antiamericana ben radicata in tutto il mondo islamico, specie nel Medio Oriente, idee come “l’Asia agli asiatici” o “l’Africa agli africani”, e lo stesso movimento dei “non allineati” o terzomondisti, e recentemente l’opposizione alla globalizzazione, considerata il nuovo strumento di dominio mondiale da parte degli anglo-americani, trovano molti spunti nell’opera dei geopolitici tedeschi e in particolare di Haushofer.
Quando la Germania di Hitler e l’Unione Sovietica di Stalin firmarono il patto Molotov Ribbentrop (23 agosto 1939), che prevedeva la spartizione della Polonia e quindi l’inizio della guerra tedesca per la conquista a est della spazio vitale, Hashofer vide che l’incubo di Mackinder, cioè la concentrazione dell’Heartland a spese delle potenze marittime, si era realizzato e definì quel’evento il più grande e importante cambiamento nella politica mondiale. Entusiasmo prematuro, non solo perché il Giappone non condivideva l’alleanza russo-tedesca, mirando a erodere la presenza russa in Asia, ma soprattutto perché a meno di due anni da quella firma la Germania attaccò l’Unione Sovietica.
Un Paese inoltre Haushofer sottovalutò, come del resto Hitler: gli Stati Uniti, , considerati come una potenza che si era chiusa nell’isolazionismo, gelosa del proprio benessere (nonostante la crisi devastante del 1929), soprattutto una società così impregnata di individualismo che non sarebbe stata in gradi di esprimere una forte volontà. Secondo Hitler una plutocrazia giudeizzata, concentrata sugli affari, priva di virtù guerriere, non era portata per la guerra.  Un abbaglio reso possibile dai pregiudizi, come spesso accade.  Eppure, proprio gli Stati Uniti avevano a loro vantaggio, a guerra scoppiata,  fattori determinanti: la sicurezza del loro territorio,  una straordinaria capacità industriale, produttiva e organizzativa, e poi due alleati all’interno dello stesso Heartland che la Germania aveva pensato di avere posto sotto il proprio controllo: la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica.»

L’obiezione più forte che i moderni studiosi di tendenza  liberaldemocratica muovono all’idea stessa della geopolitica è che, nelle condizioni proprie seguite alla seconda guerra mondiale e alla fine della “guerra fredda”, è anacronistico pensare ancora la politica come lotta per l’espansione territoriale, dato che i sistemi democratici non punterebbero all’ingrandimento del proprio territorio, ma all’espansione di pacifiche relazioni commerciali e alla libertà dei mari.
Tutte queste buone intenzioni sono state compendiate nella cosiddetta Carta Atlantica, sottoscritta dal capo del governo inglese Churchill e dal presidente statunitense Roosevelt nel 1941 (quando, si noti, gli Stati Uniti d’America e i governi dell’Asse non erano ancora formalmente in stato di guerra gli uni contro gli altri).
Tuttavia, vi sono pochi dubbi sul fatto che dietro quelle formule si celava, da un lato, la tenace, rancorosa volontà di Churchill di punire la Germania e l’Italia e di conservare a ogni costo l’Impero britannico, l’India specialmente (anche se, poi, le cose sono andate altrimenti); e, dall’altro lato, la determinazione americana di rilanciare la propria economia - mai uscita dalla crisi del 1929, nonostante l’apparato propagandistico del New Deal - ed anche il proprio ruolo politico mondiale,  mediante la colonizzazione finanziaria del mondo intero.
C’è, poi, bisogno di notare che molte idee, e persino molti uomini, della geopolitica nazista, sono passati, quatti quatti, proprio nei meccanismi strategici del Pentagono dopo il 1945, tanto che si può parlare di una autentica ripresa di quei temi e di quelle concezioni in chiave liberaldemocratica? Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, su questo stesso sito (intitolato «Da Hitler a Bush, ovvero come si passa dal Terzo al Quarto Reich», pubblicato in data 01/02/2008), per cui rimandiamo il lettore  a quelle riflessioni.
È davvero insopportabile l’ipocrisia del totalitarismo democratico: il quale, mentre respinge con orrore tutto ciò che la cultura politica tedesca (e italiana) ha prodotto negli anni del fascismo, contemporaneamente si serve di gran parte del suo armamentario ideologico, rivisto e riverniciato, per perseguire sempre più spregiudicatamente i propri disegni di dominio mondiale.



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mardi, 06 avril 2010

South Stream: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

»South Stream«: Russlands Pipeline-Strategie gegenüber der Türkei

F. William Engdahl - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Während Moskau inzwischen zahlreiche politische Hindernisse beim Bau der »Nord Stream«-Gaspipeline nach Greifswald in Deutschland überwinden konnte, konzentriert Washington seine geopolitische Strategie auf den Aufbau einer zweiten Front im russisch-amerikanischen »Pipelinekrieg«: eine durch die Türkei verlaufende südosteuropäische Konkurrenz-Pipeline namens »Nabucco«. Der Name ist von der berühmten Verdi-Oper entlehnt, die vom erzwungenen Exil des hebräischen Volkes unter dem babylonischen König Nebukadnezar handelt. Washington setzt sich ganz offen für das Projekt »Nabucco«-Pipeline ein. Moskau dagegen wirbt für das eigene Projekt, die »South Stream«, eine südeurasische Schwesterpipeline zur »Nord Stream« im nördlichen Teil Europas. Für beide Seiten steht enorm viel auf dem Spiel.

South_Stream_map.pngAm 12. Dezember 2009 gab die Regierung von Bulgarien – ehemaliges Mitgliedsland des Warschauer Pakts und heute NATO- und EU-Mitglied – bekannt, man werde sich ungeachtet erheblichen Drucks vonseiten Washingtons an Moskaus South-Stream-Projekt beteiligen.

Im Juni 2007 haben Gazprom und der italienische Energiekonzern ENI eine Absichtserklärung über Planung, Finanzierung, Bau und Betrieb der South Stream unterzeichnet. ENI, der größte italienische Industriekonzern, der in den 1950er-Jahren vom legendären Enrico Mattei gegründet worden ist, befindet sich teilweise in Staatsbesitz und ist seit Anfang der 1970er-Jahre in Gasgeschäften mit Russland tätig.

Der Offshore-Abschnitt der South Stream wird in einer Länge von ca. 550 Kilometern von der russischen zur bulgarischen Küste in einer Tiefe von bis zu zwei Kilometern durch das Schwarze Meer verlaufen; die volle Kapazität der Pipeline wird 63 Milliarden Kubikmeter, also mehr als die der Nord Stream, betragen.

In Bulgarien wird sich die South Stream in zwei Stränge teilen, der nördliche Strang verläuft über Rumänien, Ungarn und die Tschechische Republik nach Österreich, der südliche durch Bulgarien nach Süditalien. Die neue Gaspipeline soll 2013 in Betrieb genommen werden.

Gazprom hat vertraglich zugesichert, Italien bis 2035 mit Gas zu versorgen, South Stream ist dabei die wichtigste Lieferroute. Das Unternehmen South Stream AG, ein Joint Venture zu gleichen Teilen zwischen Gazprom und ENI, ist in der Schweiz eingetragen. Bisher hat Gazprom Transitabkommen für die Pipeline mit Serbien, Griechenland und Ungarn geschlossen. (1) Darüber hinaus hat das Unternehmen im Januar 2008 51 Prozent der Anteile des serbischen staatlichen Energiemonopolisten NIS aufgekauft, um sich die Präsenz in diesem Land zu sichern.

Welchen Druck Washington bezüglich der Beteiligung an der russischen South Stream auf Bulgarien ausübt, wurde daran deutlich, dass Bulgarien sich im Dezember 2009 auch zur Beteiligung an dem Nabucco-Projekt verpflichtet hat. Gegenüber der Presse kommentierte der bulgarische Regierungschef Boyko Borisov die doppelte Unterschrift: »Nabucco bedeutet für die Europäische Union eine Priorität, gleichzeitig kommt die russische South Stream sehr schnell vorankommt; fast täglich beteiligen sich weitere europäische Länder daran.« (2) 

Am 3. März 2010 hat die neue kroatische Regierung von Ministerpräsidentin Jadranka Kosor eine Vereinbarung mit dem russischen Ministerpräsidenten Wladimir Putin unterzeichnet, nach der die Pipeline über kroatisches Gebiet geführt werden darf. Ein neu gegründetes Joint Venture zu gleichen Anteilen wird den Bau ausführen.

Laut Kosor liefert die Vereinbarung »Über Bau und Nutzung einer Gaspipeline auf kroatischem Territorium« den rechtlichen Rahmen für die Beteiligung Kroatiens an South Stream und ermöglicht den beteiligten Parteien die Bildung eines Joint Ventures zu gleichen Teilen. Zwei Tage später schien der Zuspruch zu dem Gazprom-Projekt bereits lawinenartig gewachsen: die bosnische Republika Srpska kündigte an, auch sie werde sich an der South-Stream-Gaspipeline beteiligen. Sie schlägt den Bau einer 480 Kilometer langen Pipeline in Nord-Bosnien vor, die an die South Stream angeschlossen werden soll. Damit ist die Zahl der Länder, die entsprechende Verträge mit Gazprom unterzeichnet haben, auf sieben angewachsen. (3)

Zusätzlich zur bosnischen Republika Srpska sind mittlerweile Bulgarien, Ungarn, Griechenland, Serbien, Kroatien und Slowenien Partner von Gazprom. Das entspricht praktisch derselben Route über den Balkan wie bei der umstrittenen Bagdad-Bahn, die in den britischen Machenschaften, die letztendlich nach der Ermordung des österreich-ungarischen Thronfolgers Erzherzog Franz Ferdinand zum Ersten Weltkrieg führten, eine äußerst wichtige Rolle spielte. (4)

Die zentrale Frage der beiden konkurrierenden Pipelineprojekte South Stream und Nabucco ist nicht, wer das transportierte Gas kaufen wird. Wie bereits erwähnt, geht man allgemein davon aus, dass die Nachfrage nach Erdgas in Europa in den kommenden Jahren dramatisch steigen wird. Wichtiger ist die Frage, woher das Gas stammen wird, das die Pipeline füllt. Hier hat Moskau jetzt offensichtlich alle Trümpfe in der Hand.

Zusätzlich zu dem Gas, das direkt von den russischen Gasfeldern stammt, wird ein erheblicher Teil des durch die South Stream transportierten Gases aus Turkmenistan und Aserbaidschan kommen, ein weiterer Teil möglicherweise aus dem Iran. Im Dezember 2009 reiste der russische Präsident Dmitri Medwedew zur Unterzeichnung umfangreicher Vereinbarungen über eine Kooperation im Bereich Energie nach Turkmenistan.

Bis zum Zerfall der Sowjetunion im Jahr 1991 zählte Turkmenistan als Turkmenische Sozialistische Sowjetrepublik oder TuSSR zu den Teilrepubliken der Sowjetunion. Das Land grenzt im Südosten an Afghanistan, im Süden und Südwesten an den Iran, im Osten und Nordosten an Usbekistan, im Norden und Nordwesten an Kasachstan und im Westen an das Kaspische Meer. Bisher war die russische Gazprom der dominierende Wirtschaftspartner des Landes, in dem erst kürzlich neue Gasvorkommen bestätigt worden sind. Das Gas aus Turkmenistan ist für die Lieferkette von Gazprom sehr bedeutsam, und das bereits seit der Zeit, als Turkmenistan noch zur Sowjetunion gehörte und Teil der sowjetischen Wirtschaftsinfrastruktur war.

Als der »auf Lebenszeit gewählte Präsident« Saparmyat Nyasov, der auch als »Türkmenbaşy« oder »Führer der Turkmenen« bekannt war, im Dezember 2006 unerwartet verstarb, weckte dies in Washington die Hoffnung, den neuen Präsidenten Gurbanguly Berdimuhamedow von Russland lösen und unter amerikanischen Einfluss bringen zu können. Bislang allerdings ohne großen Erfolg.

Das Abkommen zwischen Medwedew und Berdimuhamedow vom Dezember umfasste neue Vereinbarungen über langfristige Lieferung von turkmenischem Gas an Gazprom, mit dem entweder die South-Stream-Pipeline direkt gefüllt werden oder die entsprechende Menge russischen Gases ersetzt werden soll – was bedeutet: Nabucco zieht den kürzeren.

 

Nabucco auf dem Trockenen …

Mit ihrer aktiven Pipeline-Diplomatie der vergangenen Monate setzen Russland und die Gazprom dem Nabucco-Projekt, der von Washington favorisierten Alternative, schwer zu. Mit der geplanten Nabucco-Pipeline soll die Region um das Kaspische Meer und der Nahe Osten über die Türkei, Bulgarien, Rumänien, Ungarn mit Österreich verbunden werden, und von dort aus sollen die Gasmärkte in Zentral- und Westeuropa beliefert werden. Bei einer Länge von ca. 3300 Kilometern würde sie von der georgisch-türkischen und/oder iranisch-türkischen Grenze nach Baumgarten in Österreich führen. Sie soll parallel zu der bereits bestehenden, von den USA unterstützten Ölpipeline Baku-Tiflis-Erzurum verlaufen und jährlich 20 Milliarden Kubikmeter Gas transportieren. Zwei Drittel der geplanten Pipeline würden über türkisches Gebiet verlaufen.

Nach seinem zweitägigen Ankara-Besuch im April 2009 sah es zunächst so aus, als habe US-Präsident Obama einen Sieg für Nabucco errungen, denn der türkische Ministerpräsident Erdogan willigte ein, das Projekt nach mehrjähriger Verzögerung im Juli 2009 mit seiner Unterschrift abzusegnen. Nabucco ist Teil der amerikanischen Strategie, die vollständige Kontrolle über die Energieversorgung nicht nur der EU-Länder, sondern ganz Eurasiens zu übernehmen. Die Pipeline wurde explizit so geplant, dass sie nicht über russisches Territorium führt; die Kooperation zwischen Russland und Westeuropa im Bereich Energie soll dadurch geschwächt werden. Diese bisherige Kooperation war ihrerseits ein maßgeblicher Beweggrund für die deutsche und französische Regierung, dem Druck aus Washington für die Aufnahme Georgiens und der Ukraine in die NATO nicht nachzugeben.

Heute steht die Zukunft von Nabucco in den Sternen, denn die russische Gazprom hat sich langfristige Verträge mit praktisch allen potenziellen Gaslieferanten für Nabucco gesichert. Nabucco sitzt also auf dem Trockenen. Deshalb werden jetzt Aserbaidschan, Usbekistan, Turkmenistan, Iran und Irak als potenzielle Lieferanten für Nabucco umworben.

Bisher war Aserbaidschan als Hauptgaslieferant für Nabucco vorgesehen. Die großen aserbaidschanischen Ölvorkommen hat sich ein anglo-amerikanisches Konsortium unter Führung der BP bereits gesichert, das unabhängig von Moskau Öl aus Baku am Kaspischen Meer nach Westen transportiert. Die Ölpipeline Baku-Tiflis-Ceyhan war ein wichtiges Motiv für Washington, 2004 die »Rosen-Revolution« in Georgien zu unterstützen, die den Diktator Micheil Saakaschwili an die Macht brachte.

Im Juli 2009 reisten Russlands Präsident Medwedew und Gazprom-Chef Alexei Miller gemeinsam nach Baku und unterzeichneten dort einen langfristigen Vertrag über den Kauf der gesamten Erdgasproduktion auf dem dortigen Offshore-Gasfeld Shah Denzi II, auf das auch die Planer von Nabucco spekuliert hatten. Aserbaidschans Präsident Alijew spielt anscheinend ein Katz-und-Maus-Spiel mit Russland auf der einen und mit der EU und Washington auf der anderen Seite. In der Hoffnung, dabei den höchstmöglichen Preis herauszuschlagen, versucht er, beide gegeneinander auszuspielen. Gazprom hat eingewilligt, den ungewöhnlich hohen Preis von 350 Dollar für 1.000 Kubikmeter Shah-Deniz-Gas zu bezahlen – eine offensichtlich politisch, nicht wirtschaftlich motivierte Entscheidung der Regierung in Moskau, die die Mehrheitsbeteiligung an Gazprom hält. (5) Anfang Januar 2010 gab die Regierung von Aserbaischan auch den Verkauf von einem Teil ihres Gases an den benachbarten Iran bekannt, ein weiterer Rückschlag für die Belieferung für Nabucco. (6)

Selbst wenn Aserbaidschan einwilligen sollte, Gas zu verkaufen und selbst wenn Nabucco dieses zu vergleichbaren Bedingungen wie Gazprom kaufen würde, so reichte das aserbaidschanische Gas alleine nach Auskunft von Branchenkennern nicht aus, die Pipeline zu füllen. Woher könnte das verbleibende Volumen kommen? Eine Möglichkeit wäre der Irak, die andere der Iran. Doch beides würde Washington, vorsichtig formuliert, gewaltige geopolitische Probleme bereiten.

Zurzeit ist nicht einmal ein Minimal-Abkommen zwischen der Türkei und Aserbaidschan über die Lieferung von aserbaidschanischem Öl in Sicht. Trotz der 2009 mit großer Fanfare bekannt gegebenen Entscheidung der türkischen Regierung, dem Nabucco-Projekt beizutreten, befinden sich die Gespräche zwischen der türkischen und aserbaidschanischen Regierung in der Sackgasse. Trotz wiederholter Interventionen vonseiten des amerikanischen Sondergesandten für eurasische Energiefragen, Richard Morningstar, ein Abkommen zustande zu bringen, sind die Gespräche derzeit noch immer blockiert. Washingtons Nabucco-Träume wurden zusätzlich getrübt, als die österreichische OMV, ein weiterer wichtiger Nabucco-Partner, Ende Januar gegenüber der Nachrichtenagentur Dow Jones erklärte, Nabucco werde nicht gebaut, wenn es keine ausreichende Nachfrage gebe. (7)

Auch andere in Washington ins Spiel gebrachte Optionen wären problematisch. Um beispielsweise irakisches Gas in die Nabucco-Pipeline einzuspeisen, müsste dieses auf irakischer und türkischer Seite über kurdisches Gebiet transportiert werden, was der jeweiligen kurdischen Minderheit eine willkommene neue Einkommensquelle bescheren würde – und das kommt in Istanbul gar nicht gut an. Den Iran hat Washington gegenwärtig als Gaslieferanten wegen der Spannungen über das iranische Atomprogramm nicht auf der Rechnung; wichtiger ist allerdings noch der enorme iranische Einfluss auf die Zukunft des Irak mit seiner mehrheitlich schiitischen Bevölkerung.

Usbekistan und Turkmenistan verfügen zwar beide über erhebliche Erdgasvorkommen, kommen jedoch politisch und geografisch schwerlich als Gaslieferanten für ein im Kern anti-russisches Projekt infrage. Ihre entfernte Lage bedeutet darüber hinaus enorme Kosten, denn dieses Gas wäre erheblich teurer als das vom Konkurrenten Gazprom über die South-Stream-Pipeline transportierte.

In klassischer Manier byzantinischer Diplomatie hat der türkische Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan sowohl Russland als auch den Iran eingeladen, sich an dem Nabucco-Projekt zu beteiligen. Laut RIA Novosti erklärte Erdogan: »Wir möchten, dass sich der Iran an dem Projekt beteiligt, wenn es die Bedingungen erlauben, und hoffen ebenfalls auf die Beteiligung Russlands.« Während Putins Besuch in Ankara im August 2009, also nur wenige Wochen nach der formellen Unterzeichnung des Nabucco-Vertrags mit den USA, gewährte die Türkei dem staatlichen russischen Erdgasmonopolisten Gazprom die Nutzung der territorialen Gewässer im Schwarzen Meer. Russland will die South-Stream-Pipeline nach West- und Südeuropa durch das Schwarze Meer führen. Im Gegenzug sagte Gazprom den Bau einer Pipeline vom Schwarzen Meer zum Mittelmeer über türkisches Gebiet zu. (8)

Anfang Januar 2010 bestärkte die türkische Regierung während eines zweitägigen Moskau-Besuchs von Ministerpräsident Erdogan, bei dem über Energie und die Süd-Kaukasus-Region gesprochen wurde, die entstehenden Bindungen an Russland. Washingtons Radio Liberty spricht von einer »neuen strategischen Allianz« zwischen den früheren erbitterten Gegnern im Kalten Krieg. Die Türkei ist schließlich auch Mitglied der NATO. (9)

Diese Entwicklung ist keine vorübergehende Modeerscheinung. In den Medien beider Länder ist von einer russisch-türkischen »strategischen Partnerschaft« die Rede. (10) Heute bildet die Türkei den größten Markt für den Export von russischem Öl und Gas. Beide Länder beraten auch über russische Pläne für den Bau des ersten Kernkraftwerks in der Türkei zur Deckung des dortigen Energiebedarfs. Der Handel zwischen beiden Ländern erreichte im vergangenen Jahr ein Volumen von 38 Milliarden Dollar; damit war Russland der größte Handelspartner der Türkei. Für die nächsten fünf Jahre wird eine Steigerung um etwa 300 Prozent erwartet, dementsprechend bildet sich in der Türkei eine solide und wachsende pro-russische Handelslobby. Die beiden Länder verhandeln derzeit konkret über weitere Handelsabkommen in Höhe von ca. 30 Milliarden Dollar, einschließlich des geplanten Kernkraftwerks in der Türkei sowie der Gaspipelines South Stream und Blue Stream zwischen Russland und der Türkei sowie einer Ölpipeline Samsun–Ceyhan von Russland an die türkische Mittelmeerküste. (11)

Doch den Nabucco-Befürwortern, besonders denen in Washington, droht noch manch anderer politische Sprengsatz: So verabschiedete das türkische Parlament zwar am 4. März 2010 ein Gesetz zum Bau der Nabucco-Pipeline, doch am selben Tag stimmte der Auswärtige Ausschuss des US-Repräsentantenhauses für eine nicht-bindende Resolution, in der die Morde an den Armeniern in der Zeit des Ersten Weltkriegs als Völkermord bezeichnet werden.

Sofort nach diesem Votum wurde der türkische Botschafter aus Washington zurückgerufen. Immerhin kann genau dieses Votum zu einer engeren Zusammenarbeit zwischen Moskau und Ankara in Fragen von beiderseitigem Interesse führen, South Stream eingeschlossen.

Die Europäische Union hat gerade ein drei Milliarden Dollar schweres Konjunkturpaket bewilligt, das auch 273 Millionen Dollar für Nabucco beinhaltet. Angesichts erwarteter Gesamtkosten von elf Milliarden Dollar bedeutet dieser Betrag nicht gerade eine überwältigende Unterstützung für Nabucco. Außerdem liegt das Geld bis zum endgültigen Start von Nabucco auf Eis, was darauf hindeutet, dass die EU-Länder weit weniger darauf erpicht sind als Washington, bei der riskanten Gegenstrategie Nabucco zu Moskaus South Stream mitzumachen. Die EU hat erklärt, das Geld werde für andere Zwecke verwendet, falls es zwischen den Nabucco-Befürwortern und Turkmenistan nicht innerhalb von sechs Monaten zu einer Einigung über die Gaslieferung käme.

Das zeitliche Zusammentreffen der Neutralisierung eines NATO-Beitritts der Ukraine mit dem Beginn des Baus der strategisch wichtigen Nord-Stream-Pipeline von Russland nach Deutschland sowie Russlands Pläne für die South-Stream-Gaspipeline hat die Nabucco-Pipeline, Washingtons Gegenmaßnahme, praktisch wertlos gemacht. Durch diese Entwicklungen ist gewährleistet, dass Russland wichtigster Energielieferant für Europa bleibt. In den vergangenen Jahren ist der Anteil russischer Energielieferungen nach Europa auf fast 30 Prozent aller Energieimporte gestiegen, beim Erdgas ist Russland sogar der wichtigste Lieferant. (12) Das Ganze hat weitreichende strategische und geopolitische Bedeutung, was Washington sicher nicht entgangen sein dürfte.

 

 

__________

(1) Gazprom, »Major Projects: South Stream«, unter http://old.gazprom.ru/eng/articles/article27150.shtml

(2) Trend, »Bulgaria ready to participate in both South Stream and Nabucco«, Baku, Aserbaidschan, 5. Dezember 2009, unter http://en.trend.az

(3) Olja Stanic, »Bosnian Serbs to join Russia-led gas pipeline«, Reuters, 5. März  2005, Banja Luka, Bosnien, unter http://in.reuters.com/article/oilRpt/idINLDE6241B920100305

(4) Mehr über diese faszinierende und fast vergessene Geschichte der deutsch-britischen imperialen Rivalität in Bezug auf die Bagdad-Bahn im Vorfeld des Ersten Weltkriegs siehe: F. William Engdahl, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung,  Kopp Verlag, Rottenburg, 3. Auflage 2008, S. 42ff. (Englische Originalausgabe: A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order, Pluto Press, London 2004, pp. 22–28)

(5) Mahir Zeynalov, »Azerbaijan-Gazprom agreement puts Nabucco in jeopardy, Today’s Zaman« 16. Juli 2009, unter http://www.todayszaman.com/tz-web/sabit.do?sf=aboutus

(6) Saban Kardas, »Delays in Turkish-Azeri Gas Deal Raises Uncertainty Over Nabucco«, Eurasia Daily Monitor, Jhrg. 7, Heft 39, 26. Februar 2010

(7) Ebenda

(8) Rian Whitmore, »Moscow Visit by Turkish PM Underscores New Strategic Alliance«, Radio Liberty/Radio Free Europe, 13. Januar 2010, unter http://www.rferl.org/content/Moscow_Visit_By_Turkish_PM_Underscores_New_Strategic_Alliance/1927504.html

(9) Ebenda

(10) Faruk Akkan, »Turkey and Russia move closer to building strategic partnership«, RIA Novosti, 15. Januar 2010, unter http://en.rian.ru/valdai_foreign_media/20100115/157554880.html

(11) RIA Novosti, »Russian delegation to discuss Turkey nuclear power plant plan«, Ankara, 18. Februar 2010, unter http://en.rian.ru/world/20100218/157927131.html

(12) Kommersant, »Nabucco's future depends on Turkmenistan«, Moscow, 9. März 2010, unter http://en.rian.ru/papers/20100309/158135872.html

 

Mittwoch, 31.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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lundi, 05 avril 2010

Brzezinski sta per finire nella pattumeria della storia?

Brzezinski sta per finire nella pattumiera della Storia ?

di Alessandro Lattanzio

Fonte: saigon2k [scheda fonte]



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zbigniew_brzezinski.jpgIl 23 Febbraio 2010, l’intelligence iraniana assestava un duro colpo alla strategia neo-mackinderiana dell’amministrazione Obama, catturando Abdolmalek Rigi, il capo del gruppo terroristico Jundallah, responsabile di stragi, rapina a mano armata, sequestro di persona, atti di sabotaggio, attentati e operazioni terroristiche contro i civili, esponenti del governo e militari dell’Iran, assassinando in 6 anni oltre 150 persone in Iran, per la maggior parte civili.

Nell’ultimo attentato compiuto dal Jundullah, il 18 ottobre 2009, nella regione di Pishin, nel Sistan-Baluchistan (sud-est dell’Iran, al confine col Pakistan), rimasero uccise più di 40 persone, tra cui 15 componenti e alti ufficiali del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (Pasdaran), e diversi capi tribali dell’area. Rigi era su un aereo di linea, in un volo notturno, proveniente da Dubai e diretto in Kirghizistan, ma l’aereo è stato intercettato dai caccia dell’aeronautica iraniana e costretto ad atterrare nell’aeroporto di Bandar Abbas, in territorio iraniano. Rigi viaggiava con passaporto afgano, e infatti, probabilmente nell’aprile 2008, aveva incontrato proprio in Afghanistan l’allora segretario generale della NATO, dopo esser stato ospitato presso una base statunitense non precisata. Il fratello di Abdolmalek, Abdulhamid Rigi, che era stato arrestato in precedenza, ha affermato che suo fratello aveva stabilito dei contatti con l’amministrazione statunitense, tramite un certo Amanollah-Khan, il cui nome completo è Amanollah-Khan Rigi, sostenitore del regime dello Shah. Dopo la Rivoluzione del ‘79, Rigi lasciò il paese chiedendo asilo politico negli Stati Uniti. Secondo Abdulhamid gli statunitensi avrebbero arruolato Amanollah-Khan per stabilire un collegamento tra gli USA e il gruppo terroristico Jundallah, e nell’ambito di queste operazioni, Abdolhamid Rigi avrebbe incontrato l’ambasciatore statunitense in Pakistan che gli aveva promesso finanziamenti e un sicuro rifugio in Pakistan. E difatti, sempre secondo Abdolhamid, il governo pakistano è perfettamente al corrente di queste manovre e dove operi il gruppo terroristico Jundallah.

Abdolmalek Rigi ha poi completato le dichiarazioni del fratello:

“Dopo che Obama venne eletto, gli americani ci contattarono e mi incontrarono in Pakistan. Lui mi disse che gli americani chiedevano un colloquio. Io all’inizio non accettai ma lui promise a noi grande cooperazione. Disse che ci avrebbe dato armi, mitragliatrici ed equipaggiamenti militari; loro ci promisero pure una base militare in Afghanistan, a ridosso del confine con l’Iran. Il nostro meeting avvenne a Dubai, e anche lì ripeterono che avrebbero dato a noi la base in Afghanistan e che avrebbero garantito la mia sicurezza in tutti i paesi limitrofi dell’Iran, in modo che io possa mettere in atto le mie operazioni”.

Rigi era diretto a Bishkek, in Afghanistan perché:

“Mi dissero che un alto esponente americano mi voleva vedere e che lui mi aspettava nella base militare di Manas, vicino Bishkek, in Kirghizistan. Mi dissero che se questo alto esponente viaggiava negli Emirati, poteva essere riconosciuto e perciò dovevo andare io da lui. Nei nostri meeting gli americani dicevano che l’Iran aveva preso la sua strada e che al momento il loro problema era proprio l’Iran e non al-Qaida e nemmeno i taliban; solo e solamente l’Iran. Dicevano di non avere un piano militare adatto per attaccare l’Iran. Questo, dicevano, è molto difficile per noi. Ma dicevano che la CIA conta su di me, perché crede che la mia organizzazione è in grado di destabilizzare il paese. Un ufficiale della CIA mi disse che era molto difficile per loro attaccare l’Iran e che, perciò, il governo americano aveva deciso di dare supporto a tutti i gruppi anti-iraniani capaci di creare difficoltà al governo islamico. Per questo mi dissero che erano pronti a darci ogni sorta di addestramento, aiuti, soldi quanti ne volevamo e la base per poter mettere in atto le nostre azioni”.

Il personaggio statunitense che Rigi avrebbe dovuto incontrare, nella base aera dell’USAF di Manas, assieme a un alto funzionario dell’intelligence USA, sarebbe stato Richard Holbrooke, inviato speciale statunitense per l’Afghanistan e il Pakistan, che quel giorno si trovava proprio in Kirghizistan. Ma a un certo punto, le cose, per Rigi, si mettono male: i servizi segreti di Afghanistan e Pakistan, dopo averlo sostenuto per anni nella sua attività terroristica, avrebbero deciso di abbandonarlo all’indomani dell’attentato di Pishin. I servizi segreti pakistani gli dissero, rimanendo però inascoltati, di sparire dalla circolazione, di lasciare la città di Quetta e di rifugiarsi nelle zone montuose del Pakistan. Il 18 Marzo, membri di Jundallah, armati e a bordo di jeep, tentavano di oltrepassare il confine tra Pakistan e Iran, ma appena entrati in territorio iraniano, i terroristi sono caduti in una trappola tesa dalle unità d’élite dei Pasdaran, causando l’eliminazione di numerosi terroristi. Così le forze di sicurezza iraniane infliggevano un altro colpo devastante al Jundullah.

In parallelo con lo smantellamento del Jundullah, l’intelligence iraniana metteva a segno un altro colpo: il 14 Marzo 2010 venivano arrestate trenta persone coinvolte in una cyber-guerra contro la sicurezza nazionale iraniana. La rete clandestina avrebbe ricevuto aiuti dagli Stati Uniti e avrebbe cooperato con gruppi controrivoluzionari monarchici e con l’organizzazione terroristica dei Mujaheddin e-Khalq. Tra i compiti della rete ci sarebbe stata la raccolta di informazioni sugli scienziati coinvolti nel programma nucleare iraniano. In effetti, il giornalista del New Yorker Seymour Hersh rivelò che nel 2006 il Congresso statunitense aveva acconsentito alla richiesta dell’ex presidente George W. Bush di finanziare operazioni coperte in Iran. Hersh, citando Robert Baer, un ex agente della CIA in Medio Oriente, affermò che così vennero stanziati 400 milioni di dollari per le operazioni condotte da al-Qaida, Jundallah e Mujaheddin-e Khalq, con lo scopo di creare il caos in Iran e di screditarne il governo. Inoltre, anche la manipolazione dell’informazione rientrava nel piano di Bush, mentre la CIA stanziava oltre 50 milioni di dollari per attivare un comitato anti-iraniano, denominato IBB, presso il Dipartimento di Stato USA.

Il 17 Marzo 2010, a suggellare il mutamento del quadro strategico regionale, segnalato dalla suddetta svolta nella lotta al terrorismo alimentato dagli apparati d’intelligence e militari statunitensi, Iran e Pakistan hanno firmato l’accordo finale della costruzione del gasdotto TAPI, con cui si trasporterà il gas iraniano in Pakistan, Turchia, e forse India o Cina. Si tratta di un progetto, da completare entro il 2014, che consentirà all’Iran di esportare, per 25 anni, 750 milioni di metri cubi di gas al giorno.

Difatti, il percorso di collaborazione e sovranismo economico-strategico, percorso da Turchia, Iran e Pakistan, non fa altro che cementare e rafforzare la stabilità, già sufficientemente precaria, della regione. Un obiettivo perseguito da Washington, non solo contro Tehran e Islamabad, ma anche contro Ankara. E in effetti, il 22 febbraio 2010, il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan annunciava che la magistratura turca aveva sventato un tentato golpe militare, arrestando in tutto il paese 51 militari (17 tra generali e ufficiali in pensione, quattro ammiragli e almeno altri 28 ufficiali in servizio) accusati di tentato colpo di stato e di associazione per delinquere. Si trattava dell’operazione ‘Bayloz’ (Martello), volta a rovesciare il governo del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) del premier Erdogan. Ai vertici del complotto vi erano Ibrahim Firtina, ex-capo di stato maggiore dell’aeronautica militare turca ed i suoi omologhi Ozden Ornek, della marina e Ergin Saygun, dell’esercito, che nel 2007 accompagnò a Washington il premier Erdogan, nella sua visita al presidente degli USA George W. Bush, l’ex capo delle forze speciali, il generale Engin Alan, e l’ex comandante del primo corpo d’armata, il generale Cetin Dogan. Inoltre almeno altri sette ufficiali in congedo e sette in servizio sono stati fermati. Lo smantellamento dell’organizzazione ‘Bayloz’ è un effetto collaterale dell’inchiesta su un altro golpe, dell’organizzazione clandestina ‘Ergenekon’ che coinvolse più di 300 persone, ora sotto processo e sorvegliate dalle autorità turche, che venne sventata nel 2003 e che prevedeva attentati terroristici contro due moschee di Istanbul, attacchi con ordigni incendiari a dei musei, oltre all’omicidio del premio nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, e dello stesso Erdogan. Tutte azioni volte ad alimentare la ‘strategia della tensione’. Infine era previsto anche l’abbattimento di un aereo di linea turco nel Mar Egeo da attribuire a un caccia greco, con ciò richiamandosi espressamente all’operazione di provocazione ‘Northwood’, stilata dagli Stati Maggiori Riuniti degli Stati Uniti, all’epoca della crisi con la Cuba rivoluzionaria. Tutti aspetti che mostrano chiaramente l’origine di queste organizzazioni eversive turche. Infatti ‘Ergenekon’ era un’organizzazione simile a ‘Gladio’, funzionale quindi alla strategia del piano ‘Stay Behind’ della NATO, con una struttura orizzontale che aveva aderenti in tutti i campo: civili, accademici e militari.

Tali eventi avvengono mentre il Pakistan compie la svolta politica decisiva, attuata a seguito della scoperta e denuncia di una rete clandestina, collegata all’intelligence statunitense, che operava nel suo territorio. Si trattava di un’organizzazione costituita da mercenari, terroristi e squadroni della morte che spargevano terrore presso la popolazione ed effettuavano raid contro svariati obiettivi, pretestuosamente indicati come terroristi o fiancheggiatori dei taliban. Non va escluso che tale rete sia coinvolta nell’ondata dei devastanti attentati che ha colpito il Pakistan negli ultimi anni. Infatti un funzionario del dipartimento alla Difesa USA, Michael Furlong, con la copertura di un programma per la raccolta di informazioni, aveva creato degli squadroni della morte utilizzando una rete di contractor di agenzie paramilitari private, segnatamente un reparto d’elite della Xe Service (ex Blackwater), composta soprattutto da ex membri della CIA e delle forze speciali. Come detto, l’obiettivo era scovare e uccidere presunti taliban e militanti di al-Qaida, sia in Afghanistan che in Pakistan. Furlong aveva assunto i mercenari allo scopo, apparente, di effettuare operazioni di intelligence contro i combattenti e i campi di addestramento taliban, con cui sostenere i militari e i servizi segreti nell’effettuare azioni d’attacco in Afghanistan e in Pakistan (in questo caso aggirando il divieto di operare in territorio pakistano, imposto da Islamabad agli USA), rimanendo al di fuori dalla catena di comando della NATO. In realtà la rete era “al centro di un programma segreto in cui si pianificavano assassinii mirati, azioni mordi e fuggi contro obiettivi importanti ed altre azioni segrete all’interno ed all’esterno del Pakistan”. Probabilmente, la rete occulta di Furlong era controllata dalle gerarchie militari e politiche di Washington, e finanziata sia con fondi distolti dal programma per la raccolta di informazioni, sia probabilmente con lo sfruttamento del narco-traffico della regione. In Germania, in effetti, un servizio trasmesso a febbraio dalla Norddeutsche Rundfunk, la TV pubblica tedesca, ha rivelato che la NATO e il ministero della Difesa tedesco starebbero investigando sulle attività della Ecolog, una multinazionale di proprietà della famiglia albano-macedone Destani, di Tetovo, che con un contratto della NATO, dal 2003, opera in Afghanistan fornendo servizi logistici alle basi dell’ISAF e all’aeroporto militare di Kabul. La Ecolog sarebbe coinvolta nel contrabbando internazionale di eroina dall’Afghanistan. “C’è il rischio che sia stata contrabbandata droga, quindi valuteremo se la Ecolog è ancora un partner affidabile per noi“, ha dichiarato alla Tv tedesca il generale Egon Ramms del NATO Joint Force Command di Brussum, in Olanda. “Siamo al corrente della questione e stiamo investigando con le autorità competenti“, ha confermato un portavoce del ministero della difesa tedesco. Nel 2006 e nel 2008 la Ecolog era stata indagata, in Germania, per traffico di eroina dall’Afghanistan e riciclaggio di denaro sporco. Nel 2002, quando la Ecolog operava in Kosovo per conto del contingente tedesco della KFOR, i servizi segreti di Berlino informarono i vertici della Nato che il clan Destani, collegato all’UCK, controllava il traffico di droga, armi e esseri umani al confine macedone-kosovaro. Il 90 per cento dei quattromila dipendenti della Ecolog sono albano-macedoni.

Non è un caso che rotte del narcotraffico e linee di frattura conflittuali si dispieghino, in modo parallelo, dalle propaggini dell’Himalaya all’Europa balcanica. I fatti su riportati, sono collegati alla politica internazionale enunciata da Obama fin da quando si era candidato alla carica presidenziale degli Stati Uniti d’America, e non a caso Obama è un allievo del neomackinderiano polacco-americano Zbignew Brzezinsky. Brzezinsky ha indicato come obiettivo centrale della politica globale statunitense, impedire che si formi un blocco economico-strategico eurasiatico, intervenendo in quello che Brzezinsky ritiene il ventre molle dell’Eurasia, la macro-regione Balcani-Medio Oriente-Pashtunistan.

Memore del suo successo con i ‘Freedom fighters’, ovvero con i mujahidin afgani che armò e finanziò per combattere la presenza sovietica e il Partito Democratico Popolare in Afghanistan, Bzrezinsky, tramite il suo seguace Barack Obama, ha voluto riprendere la sua vecchia strategia, convinto che la debolezza della Russia e le divisioni fra Iran, Pakistan, India e Cina potessero aiutare gli USA ad approfondire e allargare l’arco delle crisi artificiali che si dipana sulla regione balcanico-mediorientale. Ma l’usura subita dalla forza, vera e immaginaria, degli USA, avutasi grazie alle politiche dell’amministrazione di Bush junior, coniugata all’avanzata economica-strategica di New Delhi e Beijing, alla politica di decisa tutela della propria sovranità da parte di Tehran e alla ripresa, da parte di Mosca, di una politica internazionale di ampio respiro, tesa a creare stretti rapporti di collaborazione e buon vicinato con il suo estero vicino e le altre potenze eurasiatiche, stanno mettendo sotto scacco tutte le mosse di Washington, ideate appunto dal gruppo di Brzezinsky, volte a impedire la realizzazione del peggior incubo per un mackinderiano: la formazione di un blocco economico-strategico in Eurasia. Se, in tale quadro, s’inserisce la crisi con Tel Aviv, conseguenza del riorientamento geostrategico e geopoltico brezinskiano, ossessivamente puntato verso l’Heartland, si può prevedere che il programma neomackinderiano di Washington sia entrato in un vicolo cieco che potrebbe procurare una grave crisi all’amministrazione Obama, che magari potrebbe portare all’abbandono di tale strategia quasi fallimentare. E forse, l’ostinata ricerca di un consenso sul piano interno, procacciato con il varo di una riforma (in realtà demolitoria) per l’estensione della sanità a tutta la popolazione statunitense, rientra nella previsione di questa possibile prossima crisi acuta.



Les Etats-Unis et l'Eurasie: fin de partie pour l'ère industrielle

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2003

 

Les Etats-Unis et l'Eurasie :

fin de partie pour l'ère industrielle

 

Avec l’aube du 21ème siècle, le monde est entré dans une nouvelle phase du combat géopolitique. La première moitié du 20ème siècle peut être comprise comme une longue guerre entre la Grande-Bretagne (et des alliés variables) et l’Allemagne (et des alliés variables) pour la suprématie européenne. La seconde moitié du siècle fut dominée par une Guerre Froide entre les Etats-Unis, qui émergèrent comme la principale puissance militaro-industrielle du monde après la 2ème Guerre Mondiale, et l’Union Soviétique et son bloc de protectorats. Les guerres américaines en Afghanistan (en 2001-2002) et en Irak (qui, en comptant les sanctions économiques et les bombardements périodiques, s’est poursuivie de 1990 jusqu’au moment présent) ont inauguré la dernière phase, qui promet d’être le combat géopolitique final de la période industrielle – un combat pour le contrôle de l’Eurasie et de ses ressources d’énergie.

 

Mon but est ici de tracer les contours généraux de ce chapitre culminant de l’histoire tel qu’il est actuellement en train de s’écrire. D’abord, il est nécessaire de discuter de géopolitique en général et depuis une perspective historique, en relation avec les ressources, la géographie, la technologie militaire, les monnaies nationales, et la psychologie de ses praticiens.

 

Les fins et les moyens de la géopolitique

 

Il n’est jamais suffisant de dire que la géopolitique concerne le « pouvoir », le « contrôle », ou l’« hégémonie » dans l’abstrait. Ces mots n’ont un sens qu’en relation avec des objectifs et des moyens spécifiques : pouvoir sur quoi ou sur qui, exercé par quelles méthodes ? Les réponses différeront quelque peu dans chaque situation ; cependant, la plupart des objectifs et des moyens stratégiques tend à avoir certaines caractéristiques en commun.

 

Comme les autres organismes, les humains sont sujets aux perpétuelles contraintes écologiques de l’accroissement de la population et de l’appauvrissement des ressources. S’il est peut-être simpliste de dire que tous les conflits entre sociétés sont motivés par le désir de surmonter des contraintes écologiques, la plupart le sont certainement. Les guerres sont généralement menées pour des ressources – terre, forêts, voies maritimes, minerais, et (durant le siècle passé) pétrole. Les gens combattent occasionnellement pour des idéologies et des religions. Mais même alors les rivalités pour les ressources sont rarement loin de la surface. Ainsi les tentatives d’expliquer la géopolitique sans référence aux ressources (un récent exemple est Le choc des civilisations de Samuel Huntington) sont soit erronées soit délibérément trompeuses.

 

L’ère industrielle diffère des périodes précédentes de l’histoire humaine par l’exploitation à grande échelle des ressources en énergie (charbon, pétrole, gaz naturel, et uranium) pour les objectifs de production et de transport – et pour l’objectif plus profond d’accroître la capacité de notre environ­nement terrestre à supporter les humains. La totalité des réalisations scientifiques, des consolidations politiques, et des immenses accroissements de population des deux derniers siècles sont des effets prévisibles de l’utilisation croissante et coordonnée des ressources en énergie. Dans les premières dé­cennies du vingtième siècle, le pétrole a émergé comme la plus importante ressource en énergie à cause de son faible coût et de sa facilité d’utilisation. Le monde industriel dépend maintenant d’une manière écrasante du pétrole pour l’agriculture et le transport.

 

La géopolitique mondiale moderne, parce qu’elle implique des systèmes de transport et de communication à l’échelle mondiale basés sur les ressources en énergie fossile, est par conséquent un phénomène unique de l’ère industrielle. Le contrôle des ressources est largement une question de géographie, et secondairement une question de technologie militaire et de contrôle sur les monnaies d’échange. Les Etats-Unis et la Russie étaient tous deux géographiquement bénis, étant auto-suffisants en ressources énergétiques durant la première moitié du siècle. L’Allemagne et le Japon ne parvinrent pas à atteindre l’hégémonie régionale en grande partie parce qu’ils manquaient de ressources énergétiques domestiques suffisantes et parce qu’ils ne parvinrent pas à gagner et à conserver l’accès à des ressources à un autre endroit (en URSS pour l’une et dans les Indes Néerlandaises pour l’autre).

 

Néanmoins si les Etats-Unis et la Russie furent tous deux bien dotés par la nature, tous deux ont dépassé leurs pics de production pétrolière (qui furent atteints en 1970 et 1987, respectivement). La Russie reste un exportateur net de pétrole parce que son niveau de consommation est faible, mais les Etats-Unis sont de plus en plus dépendants des importations de pétrole tout comme de gaz naturel.

 

Les deux nations ont commencé depuis longtemps à investir une grande partie de leur richesse basée sur l’énergie dans la production de systèmes d’armes fonctionnant avec du carburant pour accroître et défendre leur intérêts en ressources à l’échelle mondiale. En d’autres mots, tous deux ont décidé il y a des décennies d’être des joueurs géopolitiques, ou des concurrents pour l’hégémonie mondiale.

 

A peu près les trois-quarts des réserves pétrolières cruciales restantes du monde se trouvent à l’intérieur des frontières des nations à prédominance musulmane du Moyen-Orient et d’Asie Centrale – des nations qui, pour des raisons historiques, géographiques et politiques, furent incapables de développer des économies militaro-industrielles indépendantes à grande échelle et qui ont, au long du dernier siècle, surtout servi de pions des Grandes Puissances (Grande-Bretagne, Etats-Unis, et l’ex-URSS). Dans les récentes décennies, ces nations riches en pétrole à prédominance musulmane ont rassemblé leurs intérêts dans un cartel, l’Organisation des Pays Exportateurs de Pétrole (OPEP).

 

Si les ressources, la géographie et la technologie militaire sont essentielles à la géopolitique, elles ne sont pas suffisantes sans un moyen financier de dominer les termes du commerce international. L’hégémonie a eu une composante financière aussi bien que militaire déjà depuis l’adoption de l’argent par les empires agricoles de l’Age de Bronze ; l’argent, après tout, est une revendication sur les ressources, et la capacité à contrôler la monnaie d’échange peut affecter un subtil transfert en cours de richesse réelle. Celui qui émet une monnaie – particulièrement une monnaie fiduciaire, c’est-à-dire une monnaie qui n’est pas soutenue par des métaux précieux – a un pouvoir sur elle : chaque transaction devient une prime pour celui qui frappe ou imprime l’argent.

 

Durant l’ère coloniale, les rivalités entre le real espagnol, le franc français et la livre britannique furent aussi décisives que des batailles militaires pour déterminer la puissance hégémonique. Pendant le dernier demi-siècle, le dollar US a été la monnaie internationale de référence pour presque toutes les nations, et c’est la monnaie avec laquelle toutes les nations importatrices de pétrole doivent payer leur carburant. C’est un arrangement qui a fonctionné à l’avantage de l’OPEP, qui conserve un consommateur stable avec les Etats-Unis (le plus grand consommateur de pétrole du monde et une puissance militaire capable de défendre les royaumes pétroliers arabes), et aussi des Etats-Unis eux-mêmes, qui perçoivent une subtile dîme financière pour chaque baril de pétrole consommé par toutes les autres nations importatrices. Ce sont quelques-uns des faits essentiels à garder à l’esprit lorsqu’on examine le paysage géopolitique actuel.

 

La psychologie et la sociologie de la géopolitique

 

Les objectifs géopolitiques sont poursuivis dans des environnements spécifiques, et ils sont poursuivis par des acteurs spécifiques – par des êtres humains particuliers avec des caractéristiques sociales, culturelles et psychologiques identifiables. Ces acteurs sont, dans une certaine mesure, les incarnations de leur société dans son ensemble, recherchant des bénéfices pour cette société en compétition ou en coopération avec d’autres sociétés. Cependant, de tels individus puissants sont inévitablement tirés d’une classe sociale particulière à l’intérieur de leur société – généralement, la classe riche, possédante – et tendent à agir d’une manière telle qu’elle bénéficie de préférence à cette classe, même si agir ainsi signifie ignorer les intérêts du reste de la société. De plus, les acteurs géopolitiques individuels sont aussi des êtres humains uniques, avec des connaissances, des préjugés et des obsessions religieuses qui peuvent occasionnellement les conduire à agir en représentants non seulement de leur société, mais aussi de leur classe.

 

Du point de vue de la société, la géopolitique est un combat darwinien collectif pour une capacité de support accrue ; mais du point de vue du géostratège individuel, c’est un jeu. En effet, la géopolitique pourrait être considérée comme le jeu humain absolu – un jeu avec d’immenses conséquences, et un jeu qui ne peut être joué qu’à l’intérieur d’un petit club d’élites.

 

Depuis qu’il y a eu des civilisations et des empires, les rois et les empereurs ont joué une certaine version de ce jeu. Le jeu attire un type particulier de personnalités, et il favorise une certaine manière de pensée et de perception concernant le monde et les autres êtres humains. L’acte de participer au jeu confère un sentiment d’immense supériorité, de distance, de pouvoir, et d’importance. On peut commencer à apprécier la drogue suprêmement excitante que constitue le fait de participer au jeu géopolitique en lisant les documents rédigés par les principaux géostratèges – des textes sur la sécurité nationale signés par des gens comme George Kennan et Richard Perle, ou les livres d’Henry Kissinger et de Zbigniew Brzezinski. Prenons, par exemple, ce passage de l’Etude de Planification Politique N° 23 du Département d’Etat, par Kennan en 1948 : “Nous avons 50 pour cent de la richesse mondiale, mais seulement 6,3 pour cent de sa population. Dans cette situation, notre véritable travail pour la période à venir est de concevoir un modèle de relations qui nous permette de maintenir cette position de disparité. Pour ce faire, nous devons nous dispenser de toute sentimentalité … nous devons cesser de penser aux droits de l’homme, à l’élévation des niveaux de vie et à la démocratisation”.

 

Une prose aussi sèche et fonctionnelle est à sa place dans un monde de services, de téléphones et de limousines, mais c’est un monde totalement coupé des millions – peut-être des centaines de millions ou des milliards – de gens dont les vies subiront l’impact écrasant d’une phrase par-ci, d’un mot par là. A un niveau, le géostratège est simplement un homme (après tout, le club est presque entièrement un club d’hommes) faisant son travail, et tentant de la faire de manière compétente aux yeux des spectateurs. Mais quel travail ! – déterminer le cours de l’histoire, décider du sort des nations. Le géostratège est un Surhomme, un Olympien déguisé en mortel, un Titan en tenue de travail. Un bon poste, si vous pouvez l’obtenir.

 

L’Eurasie – le Grand Prix du Grand Jeu

 

En regardant leur cartes et leurs globes terrestres, les géostratèges britanniques des 18ème et 19ème siècles ne pouvaient pas manquer de noter que les masses de terre du globe sont hautement asymétriques ; l’Eurasie est de loin le plus grand des continents. Il est clair que s’ils voulaient eux-mêmes bâtir et maintenir un empire vraiment mondial, il serait d’abord essentiel pour les Britanniques d’établir et de défendre des positions stratégiques dans tout ce continent riche en minerais, densément peuplé, et chargé d’histoire.

 

Mais les géostratèges britanniques savaient parfaitement bien que la Grande-Bretagne elle-même est seulement une île au large du nord-ouest de l’Eurasie. Sur ce plus grand des continents, la nation la plus étendue était de loin la Russie, qui dominait géographiquement l’Eurasie ainsi que l’Eurasie dominait le globe. Ainsi les Britanniques savaient que leurs tentatives pour contrôler l’Eurasie se heurteraient inévitablement aux instincts d’auto-préservation de l’Empire Russe. Durant tout le 19ème siècle et au début du 20ème, des conflits russo-britanniques éclatèrent à maintes reprises sur la frontière indienne, notamment en Afghanistan. Un fonctionnaire impérial nommé Sir John Kaye appela cela le « Grand Jeu », une expression immortalisée par Kipling dans Kim.

 

Deux guerres mondiales coûteuses et un siècle de soulèvements anti-coloniaux ont largement guéri la Grande-Bretagne de ses obsessions impériales, mais l’Eurasie ne pouvait pas manquer de rester centrale pour tout plan sérieux de domination mondiale.

 

Ainsi en 1997, dans son livre The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives [Le grand échiquier : la primauté américaine et ses impératifs géostratégiques] , Zbigniew Brzezinski, ancien conseiller à la Sécurité Nationale du président américain Jimmy Carter et géostratège par excellence, soulignait que l’Eurasie devait être au centre des futurs efforts des Etats-Unis pour projeter leur propre puissance à l’échelle mondiale. « Pour l’Amérique », écrivait-il,  “le grand prix géopolitique est l’Eurasie. Pendant un demi-millénaire, les affaires mondiales ont été dominées par des puissances et des peuples eurasiens qui se combattaient les uns les autres pour la domination régionale et qui aspiraient à la puissance mondiale. Maintenant une puissance non-eurasienne est prééminente en Eurasie – et la primauté mondiale de l’Amérique dépend directement de la durée et de l’efficacité avec lesquelles sa prépondérance sera soutenue” [1].

 

L’Eurasie a un rôle de pivot, d’après Brzezinski, parce qu’elle « compte pour 60 pour cent du PNB mondial et environ les trois-quarts des ressources énergétiques connues du monde ». De plus, elle contient les trois-quarts de la population mondiale, « toutes les puissances nucléaires déclarées sauf une et toutes les [puissances nucléaires] secrètes sauf une » [2].

 

Dans la vision de Brzezinski, de même que les Etats-Unis ont besoin du reste du monde pour les marchés et les ressources, l’Eurasie a besoin de la domination américaine pour sa stabilité. Malheureusement, cependant, les Américains ne sont pas accoutumés aux responsabilités impériales : « La recherche de la puissance n’est pas un but qui soulève la passion populaire, sauf dans des conditions d’une menace ou d’un défi soudain pour le sens public du bien-être domestique » [3].

 

Quelque chose de fondamental a basculé dans le monde de la géopolitique avec les attaques terroristes du 11 septembre 2001 – qui a clairement présenté « une menace soudaine … pour le sens public du bien-être do­mestique». Ce basculement a été de nouveau perçu avec la détermination de la nouvelle administration américaine – exprimée avec une insistance croissante en 2002 et pendant les premières semaines de 2003 – d’envahir l’Irak. Ces changements géostratégiques semblent s’être centrés dans une nouvelle attitude américaine envers l’Eurasie.

 

A la fin de la 2ème G.M., quand les Etats-Unis et l’URSS émergèrent comme les puissances dominantes du monde, les Etats-Unis avaient établi des bases permanentes en Allemagne, au Japon, et en Corée du Sud, toutes pour encercler l’Union Soviétique. L’Amérique mena même une guerre manquée et extrêmement coûteuse en Asie du Sud-Est pour acquérir encore un autre vecteur d’encerclement de l’Eurasie.

 

Quand l’URSS s’écroula à la fin des années 80, les Etats-Unis semblèrent libres de dominer l’Eurasie, et donc le monde, plus complètement que toute autre nation dans l’histoire mondiale. La décennie qui suivit fut surtout caractérisée par la mondialisation – la consolidation de la puissance économique collective largement centrée aux Etats-Unis. Il sembla que l’hégémonie US serait maintenue économiquement plutôt que militairement. Le livre de Brzezinski reflète l’esprit de ces temps, recommandant le maintien et la consolidation des liens de l’Amérique avec les alliés de longue date (Europe de l’Ouest, Japon et Corée du Sud) et la protection ou la cooptation des nouveaux Etats indépendants de l’ancienne Union Soviétique.

 

Contrairement avec cette prescription, la nouvelle administration de George W. Bush sembla prendre un virage plus brutal – un virage qui tenait pour acquis les vieux alliés dans son unilatéralisme sans complexes. Par son viol des accords internationaux pour l’environnement, les droits de l’homme, et le contrôle des armes ; par sa poursuite d’une doctrine d’action militaire préventive ; et particulièrement par son obsession apparemment inexplicable de l’invasion de l’Irak, Bush dépensa un énorme capital politique et diplomatique, se créant inutilement des ennemis même parmi les alliés éprouvés. Son motif de guerre – l’élimination des armes de destruction massive de l’Irak – était manifestement ridicule, puisque les Etats-Unis avaient fourni beaucoup de ces armes et que l’Irak ne constituait alors une menace pour personne ; de plus, une nouvelle guerre du Golfe risquait de déstabiliser tout le Moyen-Orient [4]. Qu’est-ce qui pouvait bien justifier un tel risque ? Quelle était la motivation de ce bizarre nouveau changement de stratégie ? A nouveau, une discussion d’arrière-plan est nécessaire avant de pouvoir répondre à cette question.

 

Les Etats-Unis : un colosse à cheval sur le globe

 

A l’aube du nouveau millénaire, les Etats-Unis avaient la technologie militaire la plus avancée du monde et la monnaie la plus forte du monde. Tout au long du vingtième siècle, l’Amérique avait patiemment bâti son empire, d’abord en Amérique Centrale et en Amérique du Sud, à Hawaï, à Puerto Rico, et aux Philippines, et ensuite (après la 2ème G.M.) par des alliances et des protectorats en Europe, au Japon, en Corée, et au Moyen-Orient. Son armée et son agence de renseignement étaient actives dans presque tous les pays du monde alors que son immense puissance semblait tempérée par sa défense ostensible de la démocratie et des droits de l’homme.

 

Dans les années 80, le gouvernement US tomba sous le contrôle d’un groupe de stratèges néo-conservateurs entourant Ronald Reagan et George Herbert Walker Bush. Pendant des années, ces stratèges travaillèrent à détruire l’URSS (ce qu’ils réussirent à faire en minant l’économie soviétique) et à consolider leur puissance en Amérique Centrale et au Moyen-Orient. Ce dernier projet culmina avec la première guerre USA-Irak en 1990-91. Leur but ouvertement déclaré n’était rien moins que la domination mondiale.

 

Alors que l’administration Clinton-Gore insistait sur la coopération multilatérale, son effort pour la mondialisation commerciale – qui transférait impitoyablement la richesse des nations pauvres aux nations riches – était essentiellement une prolongation des politiques Reagan-Bush. Pourtant, les néo-conservateurs enrageaient d’être exclus des reines du pouvoir. Ils se considéraient comme le leadership légitime du pays, et regardaient Clinton et ses partisans comme des usurpateurs. Quand la Cour Suprême nomma George W. Bush Président en 2000, les néo-conservateurs eurent leur revanche. Avec l’assistance des médias serviles, Bush – le fils choyé d’une famille de la côte Est, riche et avec de puissants liens politiques qui avait fait sa fortune dans la banque, les armes, et le pétrole – réussit à se présenter comme un pur Texan « homme du peuple ». Il s’entoura immédiatement du groupe des stratèges géopolitiques - Donald Rumsfeld, Dick Cheney, Paul Wolfowitz, et Richard Perle – qui avaient développé la politique internationale de la première administration Bush.

 

Dans son récent article « La poussée pour la guerre », l’analyste des affaires internationales Anatol Lieven fait remonter les racines du programme stratégique d’extrême-droite à une mentalité persistante de guerre froide, au fondamentalisme chrétien, à des politiques intérieures de plus en plus diviseuse, et à un soutien inconditionnel à Israël. Le but basique de domination militaire totale du globe, écrivait Lieven, “était partagé par Colin Powell et le reste de l’establishment de sécurité. Ce fut, après tout, Powell qui, en tant que Président du Conseil des Chefs d’Etat-Major, déclara en 1992 que les Etats-Unis avaient besoin d’une puissance suffisante « pour dissuader n’importe quel rival de simplement rêver à nous défier sur la scène mondiale ». Cependant, l’idée de défense préventive, à présent doctrine officielle, pousse cela un pas plus loin, beaucoup plus loin que Powell aurait souhaité aller. En principe, elle peut être utilisée pour justifier la destruction de tout autre Etat s’il semble même que cet Etat puisse être capable de défier les  Etats-Unis dans le futur. Quand ces idées furent émises pour la première fois par Paul Wolfowitz et d’autres après la fin de la Guerre Froide, elles se heurtèrent à une critique générale, même de la part des conservateurs. Aujourd’hui, grâce à l’ascendance des nationalistes radicaux dans l’Administration et à l’effet des attaques du 11 septembre sur la psyché américaine, elles ont une influence majeure sur la politique US” [5].

 

Que l’administration ait orchestré d’une certaine manière les événements du 11 septembre – comme cela fut suggéré par les commentateurs Michael Ruppert et Michel Chossudovsky – ou pas, elle était clairement prête à en tirer avantage [6]. Bush proclama immédiatement au monde que « soit vous êtes avec nous, soit vous êtes avec les terroristes ».

 

Avec un budget militaire gonflé, un établissement médiatique craintif et obéissant, et un public effrayé au point d’abandonner volontairement les protections constitutionnelles de base, les néo-conservateurs semblaient avoir gagné le plein contrôle de la nation et être devenus les maîtres de son empire mondial. Mais même alors que leur victoire semblait complète, des rumeurs de dissidence commençaient à se répandre.

 

Insubordination dans les rangs

 

La résistance populaire à la mondialisation commerciale commença à se matérialiser à la fin des années 90, s’unissant pour la première fois dans la manifestation massive anti-OMC à Seattle en novembre 1998. Dès lors, le mouvement anti-mondialisation sembla grandir avec chaque année qui passait, se transformant en un mouvement anti-guerre mondial en réponse aux plans US d’envahir d’abord l’Afghanistan et ensuite l’Irak.

 

Mais le mécontentement vis-à-vis de la domination US du globe ne se limita pas à des gauchistes brandissant des marionnettes géantes dans des manifestations. Alors que les bases militaires américaines s’installaient dans les Balkans dans les années 90, et en Asie Centrale après la campagne d’Afghanistan, les géostratèges en Russie, en Chine, au Japon et en Europe de l’Ouest commencèrent à examiner leurs options. Seule la Grande-Bretagne semblait rester ferme dans son alliance avec le colosse américain.

 

Une réponse apparemment inoffensive à l’hégémonie US mondiale fut l’effort de onze nations européennes pour établir une monnaie commune – l’Euro. Quand l’Euro fut lancé au tournant du millénaire, beaucoup prédirent qu’il serait incapable de rivaliser avec le dollar. En effet, pendant des mois la valeur comparative de l’Euro se fit attendre. Cependant, elle se stabilisa bientôt et commença à monter.

 

Un développement plus inquiétant, du point de vue de Washington, fut la tendance croissante de nations de second ou de troisième rang à abandonner ouvertement les politiques économiques néo-libérales au cœur du projet de mondialisation, puisque les nouveaux gouvernements du Venezuela, du Brésil et de l’Equateur rompirent publiquement avec la Banque Mondiale et déclarèrent leur désir d’indépendance vis-à-vis du contrôle financier américain.

 

En même temps, en Russie le théoricien politique Alexandre Douguine gagnait une influence croissante avec ses écrits géostratégiques anti-américains. En 1997, la même année où parut le livre de Brzezinski Le grand échiquier, Douguine publia son propre manifeste, Les fondements de la géopolitique, recommandant un Empire Russe reconstitué, composé d’un bloc continental d’Etats alliés pour nettoyer la masse terrestre eurasienne de l’influence US. Au centre de ce bloc, Douguine plaçait un « axe eurasien » avec la Russie, l’Allemagne, l’Iran, et le Japon.

 

Alors que les idées de Douguine avaient été bannies à l’époque soviétique à cause de leurs échos de fantaisies pan-eurasiennes nazies, elles gagnaient graduellement de l’influence parmi les officiels russes post-soviétiques. Par exemple, le ministère russe des Affaires Etrangères a récemment décrié la « tendance croissante vers la formation d’un monde unipolaire sous la domination financière et militaire des Etats-Unis » et a appelé à un « ordre mondial multipolaire », tout en soulignant la « position géopolitique [de la Russie] en tant que plus grand Etat eurasien ». Le parti communiste russe a adopté les idées de Douguine dans sa plate-forme ; Gennady Zyouganov, président du parti communiste, a même publié son premier ouvrage de géopolitique, intitulé La géographie de la victoire. Bien que Douguine reste une figure marginale sur le plan international, ses idées ne peuvent qu’avoir une résonance dans un pays et un continent de plus en plus cernés et manipulés par une nation hégémonique puissante et arrogante de l’autre coté du globe.

 

Extérieurement, la Russie – comme l’Allemagne, la France, le Japon, et la Chine – est encore déférente avec les Etats-Unis. Même la dissidence vis-à-vis du montage de Bush pour la guerre en Irak est restée assez modérée. Mais en privé, les dirigeants de tous ces pays sont sans aucun doute en train de faire de nouveaux plans. Peu iraient cependant jusqu’à approuver l’idée d’Alexandre Douguine que l’Eurasie finira par dominer les Etats-Unis, ni l’idée inverse. Néanmoins, en seulement trois ans, l’attitude de nombreux dirigeants eurasiens envers l’hégémonie américaine est passée de l’acceptation tranquille à une critique mordante associée à un examen sérieux des alternatives.

 

Le dilemme américain

 

Douguine et d’autres critiques eurasiens de la puissance américaine commencent par une prémisse qui semblerait ridicule pour la plupart des Américains. Pour Douguine, les Etats-Unis agissent non par force, mais par faiblesse.

 

Pendant de longues années, l’Amérique a supporté une balance commerciale très fortement négative – qu’elle pouvait se permettre seulement à cause du dollar fort, permis à son tour par la coopération de l’OPEP dans la facturation des exportations pétrolières en dollars. La balance commerciale de l’Amérique est négative en partie parce que sa production intérieure de pétrole et de gaz naturel a atteint son point culminant et que la nation dépend maintenant de plus en plus des importations. De même, la plupart des sociétés américaines ont transféré leurs opérations de fabrication outre-mer. Une autre faiblesse systémique vient de la corruption largement répandue dans les sociétés – révélée de façon aveuglante par l’effondrement de Enron – et des liens étroits entre les sociétés et l’establishment politique américain. Bulle après bulle – haute technologie, télécommunications, dérivés, immobilier – ont déjà éclaté ou sont sur le point de le faire.

 

Après le dollar fort, l’autre pilier de la force géopolitique US est son pilier militaire. Mais même dans ce cas il y a des fissures dans la façade. Personne ne doute que l’Amérique possède des armes de destruction massive suffisantes pour détruire le monde plusieurs fois. Mais les Etats-Unis utilisent en fait leur armement de plus en plus à des fins de ce que l’historien français Emmanuel Todd a appelé du « militarisme théâtral ». Dans un essai intitulé « Les Etats-Unis et l’Eurasie : militarisme théâtral », le journaliste Pepe Escobar note que cette stratégie implique que Washington … ne doit jamais apporter une solution définitive à un problème géopolitique, parce que l’instabilité est la seule chose qui peut justifier des actions militaires à l’infini de la part de l’unique superpuissance, n’importe quand, n’importe où … Washington sait qu’elle est incapable de se mesurer aux véritables joueurs dans le monde – Europe, Russie, Japon, Chine. Elle cherche donc à rester politiquement au sommet en brutalisant des joueurs mineurs comme l’Axe du Mal, ou des joueurs encore plus mineurs comme Cuba [7].

 

Ainsi les attaques américaines contre l’Afghanistan et l’Irak révèlent simultanément la sophistication de la technologie militaire US et les fragilités inhérentes de la position géopolitique US. Le militarisme théâtral a le double but de projeter l’image de l’invincibilité et de la puissance américaines tout en maintenant ou en accroissant la domination militaire US sur les nations du tiers-monde riches en ressources. Cela explique largement la récente invasion de l’Afghanistan et l’attaque imminente contre Bagdad. Cette stratégie implique que les actions terroristes contre les Etats-Unis doivent être secrètement encouragées comme justification pour davantage de répression intérieure et d’aventures militaires à l’étranger.

 

Néanmoins nous n’avons pas pleinement répondu à la question posée précédemment – pourquoi la présente administration veut-elle dépenser un si grand capital politique intérieur et international pour mener la guerre imminente en Irak ? Les critiques de l’administration soulignent que c’est une guerre pour le pétrole, mais la situation est en fait plus compliquée et ne peut être comprise qu’à la lumière de deux facteurs cruciaux non pleinement reconnus.

 

La puissance du dollar est remise en question

 

Le premier est que le maintien de la puissance du dollar est en question. En novembre 2000, l’Irak annonça qu’il cesserait d’accepter des dollars en échange de son pétrole, et n’accepterait plus que des Euros. A l’époque, les analystes financiers suggérèrent que l’Irak perdrait des dizaines de millions de dollars à cause de ce changement de monnaie ; en fait, dans les deux années suivantes, l’Irak gagna des millions. D’autres nations exportatrices de pétrole, incluant l’Iran et le Venezuela, ont déclaré qu’elles prévoyaient un changement similaire. Si toute l’OPEP passait des dollars aux Euros, les conséquences pour l’économie US seraient catastrophiques. Les investissements fuiraient le pays, les valeurs immobilières plongeraient, et les Américains se retrouveraient rapidement dans des conditions de vie du Tiers-Monde [8].

 

Actuellement, si un pays souhaite obtenir des dollars pour acheter du pétrole, il ne peut le faire qu’en vendant ses ressources aux Etats-Unis, en souscrivant un emprunt à une banque américaine (ou à la Banque Mondiale – en pratique la même chose), ou en échangeant sa monnaie sur le marché libre et ainsi en la dévaluant. Les Etats-Unis importent en effet des biens et des services pour presque rien, son déficit commercial massif représentant un énorme emprunt sans intérêts au reste du monde. Si le dollar devait cesser d’être la devise de réserve mondiale, tout cela changerait du jour au lendemain.

Un article du New York Times daté du 31 janvier 2003, intitulé « Pour les indicateurs russes, l’Euro dépasse le dollar », notait que « les Russes semblent avoir accumulé jusqu’à 50 milliards de dollars américains en paquets de café et sous leurs matelas, la plus grande réserve parmi toutes les nations ». Mais les Russes échangent tranquillement leurs dollars contre des Euros, et des articles de luxe comme les voitures affichent maintenant des prix en Euros. Plus loin, « La banque centrale de Russie a dit aujourd’hui qu’elle a accru ses avoirs en Euros durant l’année passée jusqu’à 10 pour cent de ses réserves [en devises] étrangères, partant de 5 pour cent, alors que la part de dollars a chuté de 90 à 75 pour cent, reflétant le faible retour d’investissements en dollars » [9].

 

Ironiquement, même l’Union Européenne est préoccupée par cette tendance, parce que si le dollar chute trop bas alors les firmes européennes verront leurs investissements aux Etats-Unis perdre de la valeur. Néanmoins, à mesure que l’UE grandit (elle a programmé l’entrée de dix nouveaux membres en 2004), sa puissance économique est de plus en plus perçue comme dépassant inévitablement celle des Etats-Unis.

Pour les géostratèges US, la prévention d’un passage de l’OPEP des dollars aux Euros doit donc sembler capitale. Une invasion et une occupation de l’Irak donnerait effectivement aux Etats-Unis une voix dans l’OPEP tout en plaçant de nouvelles bases américaines à bonne distance de frappe de l’Arabie Saoudite, de l’Iran, et de plusieurs autres pays-clés de l’OPEP.

 

Le second facteur pesant probablement sur la décision de Bush d’envahir l’Irak est l’appauvrissement des ressources énergétiques US et donc la dépendance américaine croissante vis-à-vis de ses importations pétrolières. La production pétrolière de tous les pays non-membres de l’OPEP, pris ensemble, a probablement culminé en 2002. A partir de maintenant, l’OPEP aura toujours plus de pouvoir économique dans le monde. De plus, la production pétrolière mondiale culminera probablement dans quelques années. Comme je l’ai expliqué ailleurs, les alternatives aux carburants fossiles n’ont pas été suffisamment développés pour permettre un processus coordonné de substitution dès que le pétrole et le gaz naturel se feront plus rares. Les implications – particulièrement pour les principales nations consommatrices comme les Etats-Unis – seront finalement ruineuses [10].

 

Les deux problèmes sont d’une urgence écrasante. La stratégie de Bush en Irak est apparemment une stratégie offensive pour élargir l’empire américain, mais en réalité elle est principalement d’un caractère défensif puisque son but profond est de devancer un cataclysme économique.

 

Ce sont les deux facteurs de l’hégémonie du dollar et de l’épuisement du pétrole – encore plus que l’arrogance des stratèges néo-conservateurs à Washington – qui incitent à un total mépris des alliances de longue date avec l’Europe, le Japon et la Corée du Sud, et au déploiement croissant de troupes US au Moyen-Orient et en Asie Centrale.

 

Même si personne n’en parle ouvertement, les échelons supérieurs dans les gouvernements de la Russie, de la Chine, de la Grande-Bretagne, de l’Allemagne, de la France, de l’Arabie Saoudite et d’autres pays sont pleinement conscients de ces facteurs – d’où les changements d’alliance, les menaces de veto, et les négociations d’arrière-salle conduisant à l’inévitable invasion US de l’Irak.

 

Mais la guerre, bien que devenue inévitable, reste un coup hautement risqué. Même s’il se termine en quelques jours ou en quelques semaines par une victoire américaine décisive, nous ne saurons pas immédiatement si ce coup a payé.

 

Qui contrôlera l’Eurasie ?

 

Alors que j’écris ces lignes, les Etats-Unis préparent des plans pour bombarder Bagdad, une ville de cinq millions d’habitants, et pour déverser pendant les deux premiers jours de l’attaque deux fois plus de missiles de croisière qu’il n’en fut utilisé dans toute la première guerre du Golfe. Les obus et les balles à uranium appauvri seront à nouveau employés, transformant une grande partie de l’Irak en désert radioactif et condamnant les futures générations d’Irakiens (et les soldats américains et leurs familles) à des malformations de naissance, à des maladies et à des morts prématurées. Il est difficile d’imaginer que le spectacle de tant de mort et de destruction non-provoquées ne puisse manquer d’inspirer des pensées de vengeance dans les cœurs de millions d’Arabes et de musulmans.

 

Les stratèges géopolitiques américains diront que l’attaque est un succès si la guerre se termine rapidement, si la production des champs pétrolifères irakiens remonte rapidement, et si les nations de l’OPEP sont contraintes de conserver le dollar comme monnaie courante. Mais cette opération (on ne peut pas réellement l’appeler une guerre), entreprise comme un acte de désespoir économique, ne peut que temporairement endiguer une marée montante.

 

Quelles sont les conséquences à long terme pour les Etats-Unis et l’Eurasie ? Beaucoup sont imprévisibles. Les forces qui sont en train d’être libérées pourraient être difficiles à contenir. Les tendances à long terme les mieux prévisibles ne sont pas favorables. Epuisement des ressources et pression démographique ont toujours été annonciateurs de guerre. La Chine, avec une population de 1,2 milliards, sera bientôt le plus grand consommateur de ressources dans le monde. Dans une époque d’abondance, cette nation peut être vue comme un immense marché ouvert : il y a déjà plus de réfrigérateurs, de téléphones mobiles et de télévisions en Chine qu’aux Etats-Unis. La Chine ne souhaite pas défier les Etats-Unis militairement et a récemment obtenu des privilèges commerciaux en soutenant tranquillement les opérations militaires américaines en Asie Centrale. Mais alors que le pétrole – la base de tout le système industriel – se fait de plus en plus rare et que ses réserves sont plus chaudement disputées, on ne peut pas s’attendre à ce que la Chine reste docile.

 

La Corée du Nord, un quasi-allié de la Chine, était tranquillement neutralisée au moyen de négociations pendant l’ère Clinton, mais s’irrite maintenant d’être classée par Bush dans « l’axe du mal » et de voir un embargo US imposé à ses importations en ressources énergétiques cruciales. Par désespoir, elle tente d’attirer l’attention de Washington en réactivant son programme d’armes nucléaires. En même temps, le nouveau gouvernement sud-coréen est totalement opposé à l’unilatéralisme US et veut négocier avec le Nord. Les Etats-Unis menacent de détruire les installations nucléaires de la Corée du Nord par des frappes aériennes, mais cela provoquerait la formation d’un nuage nucléaire mortel sur toute l’Asie du nord-est.

 

Dans le même temps, l’Inde et le Pakistan ont aussi des intérêts qui finiront probablement par diverger de ceux des Etats-Unis. Ces nations voisines sont, bien sûr, des puissances nucléaires et des ennemis jurés avec des querelles frontalières de longue date. Le Pakistan, actuellement un allié des Etats-Unis, est aussi un fournisseur important de matières nucléaires pour la Corée du Nord, et a apporté une aide aux Talibans et à Al-Qaïda – des faits qui soulignent bien à quel point la stratégie de Washington est devenue tortueuse et contre-productive ces derniers temps.

 

Pour les Etats-Unis, le danger est clair : une hypothétique alliance entre l’Europe, la Russie, la Chine et l’OPEP

 

Le pire cauchemar des Américains serait une alliance stratégique et économique entre l’Europe, la Russie, la Chine, et l’OPEP. Une telle alliance possède une logique inhérente du point de vue de chacun des participants potentiels. Si les Etats-Unis devaient tenter d’empêcher une telle alliance en jouant la seule bonne carte encore dans leurs mains – leur armement de destruction massive – alors le Grand Jeu pourrait se terminer par une tragédie finale.

 

Même dans le meilleur cas, les ressources en pétrole sont limitées et, puisqu’elles vont progressivement diminuer pendant les prochaines décennies, elles seront incapables de supporter l’industrialisation prochaine de la Chine ou le maintien de l’infrastructure industrielle en Europe, en Russie, au Japon, en Corée, ou aux Etats-Unis.

 

Qui dominera l’Eurasie ? Finalement, aucune puissance isolée ne sera capable de le faire, parce que la base de ressources énergétiques sera insuffisante pour supporter un système de transport, de communication et de contrôle à l’échelle du continent. Ainsi les fantaisies géopolitiques russes sont tout aussi vaines que celles des Etats-Unis. Pour le prochain demi-siècle il restera juste assez de ressources énergétiques pour permettre soit un combat horrible et futile pour les parts restantes, soit un effort héroïque de coopération pour une conservation radicale et une transition vers un régime d’énergie post-carburant fossile.

 

Le prochain siècle verra la fin de la géopolitique mondiale, d’une manière ou d’une autre. Si nos descendants ont de la chance, le résultat final sera un monde formé de petites communautés, bio-régionalement organisées, vivant de l’énergie solaire. Les rivalités locales continueront, comme elles l’ont fait tout au long de l’histoire humaine, mais l’arrogance des stratèges géopolitiques ne menacera jamais plus des milliards d’humains d’extinction.

 

C’est-à-dire si tout se passe bien et si tout le monde agit rationnellement.

 

NEW DAWN MAGAZINE, Melbourne, Australia.

 

Notes:

 

[1] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard : American Primacy and its Geopolitical Imperatives (Basic Books, 1997), p. 30.

[2] Ibid., p. 31.

[3] Ibid., p. 36.

[4] Voir Richard Heinberg, "Behold Caesar," MuseLetter N° 128, octobre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com.

[5] Anatol Lieven, "The Push for War," London Review of Books, 30 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.lrb.co.uk/v24/n19/liev01_.html.

[6] Voir les sites web de Michael Ruppert, From the Wilderness www.fromthewilderness.com ; et de Michel Chossudovsky, Centre for Research on Globalisation,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.globalresearch.ca/articles/CHO206A.html.

[7] Pepe Escobar, "Us and Eurasia: Theatrical Militarism," Asia Times Online, 4 décembre 2002,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.atimes.com/atimes/archive/12_4_2002.html.

[8] W. Clark, "The Real but Unspoken Reasons for the Upcoming Iraq War,"

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.indymedia.org/front.php3?article_id=231238&group=webcast

[9] Voir Michael Wines, "For Flashier Russians, Euro Outshines the Dollar," New York Times, 31 janvier 2003.

[10] Richard Heinberg, The Party’s Over : Oil, War and the Fate of Industrial Societies (New Society, 2003).

Richard Heinberg, journaliste et enseignant, est membre de la faculté du New College de Californie à Santa Rosa, où il enseigne un programme sur la culture, l’écologie, et la communauté viable. Il rédige et publie la « MuseLetter » mensuelle : http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.museletter.com. Cet article est une adaptation de son livre à paraître, The Party’s Over: Oil, War, and the Fate of Industrial Societies [La partie est finie : pétrole, guerre, et le sort des sociétés industrielles] (New Society Publishers,

http://www.newdawnmagazine.com/articles/www.newsociety.com).

 

[Cet article a été publié dans New Dawn N° 77 (mars-avril 2003)].

dimanche, 04 avril 2010

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

Stärkung der eurasischen Energiekooperation zwischen Russland und Asien

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

Russlands Position als wichtigster Energielieferant für Deutschland und die EU scheint gefestigt, die Orangene Revolution ist de facto rückgängig gemacht. Jetzt richtet sich die russische Politik vermehrt ostwärts auf den Energiebedarf des dortigen Kooperationspartners China, des ehemaligen Feindes in der Zeit des Kalten Krieges. Diese Entwicklung sorgt im Pentagon für Kopfschmerzen und schlaflose Nächte, denn hier wird Halford Mackinders schlimmster Albtraum wahr – die friedliche wirtschaftliche Vereinigung der Region, die er das Herzland der Weltinsel nannte.

Moskau orientiert sich gen Osten

gaz-russe-via-ukraine.jpgEnde 2009 hat Moskau genau zum geplanten Zeitpunkt und zur großen Überraschung Washingtons nach vierjähriger Bauzeit die Ostsibirien-Pazifik-Pipeline (East Sibiria Pacific Ocean, ESPO) in Betrieb genommen. Der Bau der Ölpipeline hat etwa 14 Milliarden Dollar gekostet. Sie ermöglicht Russland nun den direkten Export von Öl aus den ostsibirischen Feldern nach China sowie nach Südkorea und Japan – ein großer Schritt zu einer engeren wirtschaftlichen Integration zwischen Russland und China. Die Pipeline verläuft zum etwas nördlich der chinesischen Grenze gelegenen Ort Skoworodino am Fluss Bolschoi Newer. Dort wird das Öl für den Transport zum Pazifikhafen Kozmino in der Nähe von Wladiwostok zurzeit noch auf Eisenbahntankwagen umgeladen. Allein der Bau dieser Station hat zwei Milliarden Dollar gekostet. Dort können täglich bis zu 300.000 Barrel Rohöl verladen werden. Das Öl, das von vergleichbarer Qualität ist wie die im Nahen Osten geförderten Sorten, dominiert mittlerweile den Markt in der Region. Der russische staatliche Pipelinemonopolist Transneft hat noch einmal zwölf Milliarden Dollar in die 2.700 Kilometer lange Pipeline durch die ostsibirische Wildnis investiert, die eine Verbindung zu den verschiedenen, von den russischen Großunternehmen Rosneft, TNK-BP und Surgutneftegaz erschlossenen Ölfelder in der Region herstellt.

Der Anschluss zum Endhafen Kozmino soll 2014 fertiggestellt sein, der Bau verschlingt noch einmal zehn Milliarden Dollar. Die Gesamtpipeline hat dann eine Länge von 4.800 Kilometern, das ist mehr als die Strecke von Los Angeles nach New York. Darüber hinaus haben sich Moskau und Peking auf den Bau eines Abzweigs von Skoworodino nach Daqing in der nordostchinesischen Provinz Heilongjiang geeinigt. Die Provinz ist das Zentrum der chinesischen petrochemischen Industrie, dort findet sich auch das größte Erdölfeld in China. Nach der Fertigstellung werden pro Jahr etwa 80 Milliarden Tonnen sibirisches Öl über die Pipeline transportiert und 15 Milliarden Tonnen über einen weiteren Abzweig aus China.

Welche Wichtigkeit man im energiehungrigen China dem russischen Öl beimisst, zeigt sich daran, dass China Russland ein Darlehen über 25 Milliarden Dollar gewährt hat, als Gegenleistung für Öllieferungen in den nächsten zwei Jahrzehnten. Im Februar 2009, als der Ölpreis von seinem vorherigen Höchststand von 147 Dollar pro Barrel innerhalb weniger Monate auf 25 Dollar pro Barrel gefallen war, standen der russische Rosneft-Konzern und der Pipeline-Betreiber Transneft kurz vor dem Zusammenbruch. Peking reagierte damals sehr schnell und sicherte sich die künftige Lieferung von Öl aus den sibirischen Feldern: Die staatliche Chinesische Entwicklungsbank bot Rosneft und Transneft Darlehen in Höhe von zehn bzw. 15 Milliarden Dollar an, insgesamt also eine Investition über 25 Milliarden Dollar für den beschleunigten Bau der Pazifik-Pipeline. Russland versprach seinerseits die Erschließung weiterer neuer Felder sowie den Bau des ESPO-Abschnitts nach Daqing von Skorowodino bis zur chinesischen Grenze, eine Entfernung von knapp 70 Kilometern. Außerdem werden mindestens 300.000 Barrel Öl der sehr gefragten schwefelarmen Sorte Sweet Crude an China geliefert. (1)

Jenseits der russischen Grenze, auf der chinesischen Seite, will Peking eine eigene knapp 1.000 Kilometer lange Pipeline nach Daqing bauen. Das chinesische Darlehen wurde mit sechs Prozent Zinsen vergeben, das russische Öl müsste also für 22 Dollar pro Barrel an China verkauft werden. Heute liegt der Ölpreis international wieder bei durchschnittlich 80 Dollar pro Barrel – China macht also wirklich ein sehr gutes Geschäft. Anstatt nun über den vereinbarten Preis neu zu verhandeln, ist man in Moskau offensichtlich zu der Erkenntnis gekommen, dass der strategische Vorteil der Verbindung mit China den möglichen Einnahmeverlust wettmacht. Man behält sich die Preisfestsetzung für das restliche Öl vor, das durch die ESPO-Pipeline bis zum Pazifik zu anderen asiatischen Märkten fließt.

Während die Energiemärkte in Westeuropa die Aussicht auf relativ stabile Nachfrage bieten, boomen die Märkte in China und ganz Asien. Deshalb orientiert sich Moskau deutlich gen Osten. Ende 2009 hat die russische Regierung einen umfassenden Energiebericht mit dem Titel Energy Blueprint for 2030 (zu Deutsch: Energieplan für 2030) herausgegeben. Darin werden umfangreiche inländische Investitionen in die ostsibirischen Ölfelder gefordert, es ist die Rede von einer Verschiebung der Ölexporte nach Nordostasien. Der Anteil der russischen Exporte in die Asien-Pazifik-Region soll von acht Prozent im Jahr 2008 im Verlauf der nächsten Jahre auf 25 Prozent steigen. (2) Das hat sowohl für Russland als auch für Asien, besonders für China, bedeutende Konsequenzen.

China hat Japan bereits vor einigen Jahren als zweitgrößter Öl-Importeur nach den Vereinigten Staaten überholt. China misst der Frage der Energiesicherheit große Bedeutung bei, deshalb ist Ministerpräsident Wen Jiabao soeben zum Leiter eines ressortübergreifenden Nationalen Energierats ernannt worden, der Chinas Energiepolitik koordinieren soll. (3)

 

Russland beginnt mit der Lieferung von LNG-Gas nach Asien

Wenige Monate vor Fertigstellung der ESPO-Ölpipeline zum Pazifik hat Russland mit der Lieferung von Flüssig-Erdgas (Liquified Natural Gas, LNG) innerhalb des Projektes Sachalin-II begonnen, einem Joint Venture unter Führung von Gazprom, an dem auch die japanischen Konzerne Mitsui und Mitsubishi sowie die britisch-niederländische Shell beteiligt sind. Russland sammelt mit dem Projekt unschätzbar wichtige Erfahrungen auf dem sehr schnell wachsenden LNG-Markt, d.h. einem Markt, der nicht auf den Bau langfristig festgelegter Pipelines angewiesen ist.

China macht auch anderen Ländern der ehemaligen Sowjetunion Offerten, um sich künftige Energielieferungen zu sichern. Ende 2009 wurde der erste Abschnitt der Zentralasien-China-Pipeline, die auch als Turkmenistan-China-Pipeline bekannt ist, fertiggestellt. Sie befördert Erdgas aus Turkmenistan über Usbekistan nach Südkasachstan und verläuft parallel zu der bereits bestehenden Pipeline Buchara–Taschkent–Bischkek–Almaty. (4)

In China schließt die Pipeline an die bestehende West-Ost-Gaspipeline an, die quer durch das Land verläuft und weit entfernt gelegene Städte wie Schanghai und Hongkong versorgt. Etwa 13 Milliarden Kubikmeter sollen 2010 über diese Pipeline transportiert werden, die Menge soll bis 2013 auf über 40 Milliarden Kubikmeter steigen. Später soll über diese Pipeline mehr als die Hälfte des chinesischen Erdgasverbrauchs gedeckt werden.

Es war die erste Pipeline, über die Gas aus Zentralasien nach China gebracht wurde. Die Pipeline aus Turkmenistan, die 2011 in Betrieb genommen werden soll, wird mit einem aus Westkasachstan kommenden Strang verbunden. Sie wird Erdgas von mehreren kasachischen Feldern nach Alashankou in der chinesischen Provinz Xingjiang befördern. (5) Kein Wunder, dass die chinesischen Behörden alarmiert waren, als im Juli 2009 Unruhen unter den dort lebenden ethnischen Uighuren ausbrachen. Die chinesische Regierung beschuldigte den in Washington ansässigen Weltkongress der Uighuren und dessen Vorsitzende Rebiya Kadeer, den Aufstand angezettelt zu haben. Der Weltkongress unterhält angeblich enge Verbindungen zu der vom US-Kongress unterstützten und mit Regimewechseln erfahrenen Nicht-Regierungs-Organisation National Endowment for Democracy. (6) Xinjiang wird für den künftigen Energiefluss in China immer wichtiger.

Entgegen den Behauptungen einiger westlicher Kommentatoren stellt die Turkmenistan-China-Pipeline keineswegs eine Bedrohung für Russlands Energiestrategie dar. Sie festigt vielmehr die wirtschaftlichen Verbindungen zu den Mitgliedsländern der Shanghai Cooperation Organization (SCO). Gleichzeitig wird darüber ein erheblicher Teil des Gases aus Turkmenistan nach China transportiert, der sonst über die von Washington favorisierte Nabucco-Pipeline geflossen wäre. Aus geopolitischer Sicht kann dies für Russland nur von Vorteil sein, denn ein Erfolg von Nabucco würde für Russland erhebliche Einbußen an wirtschaftlichem Einfluss bedeuten.

Die 2001 von den Staatschefs Chinas, Kasachstans, Kirgisistans, Russlands, Tadschikistans und Usbekistans in Shanghai gegründete SCO hat sich mittlerweile zu Mackinders schlimmsten Albraum entwickelt – in ein Instrument enger wirtschaftlicher und politischer Kooperation zwischen den Schlüsselländern Eurasiens, unabhängig von den Vereinigten Staaten. In seinem 1997 erschienenen Buch The Grand Chessboard (deutscher Titel: Die einzige Weltmacht: Amerikas Strategie der Vorherrschaft) hat Brzezinski unverblümt erklärt: »… lautet das Gebot, keinen eurasischen Herausforderer aufkommen zu lassen, der den eurasischen Kontinent unter seine Herrschaft bringen könnte und damit auch für Amerika eine Bedrohung darstellen könnte. Ziel dieses Buches ist es deshalb, im Hinblick auf Eurasien eine umfassende und in sich geschlossene Geostrategie zu entwerfen.« (7) Später schreibt er warnend: »Von nun an steht Amerika vor der Frage, wie es mit regionalen Koalitionen fertig wird, die es aus Eurasien herauswerfen wollen und damit seinen Status als Weltmacht bedrohen.« (8)

Nach den Ereignissen vom September 2001, die viele russische Geheimdienstexperten nicht für das Werk einer Gruppe von bunt zusammengewürfelten muslimischen Al-Qaeda-Fanatikern halten wollten, hat die SCO genau die Gestalt einer ernsten Bedrohung angenommen, vor der der Mackinder-Schüler Brzezinski gewarnt hat. Bei einem Interview mit The Real News bemängelte Brzezinski jüngst auch das Fehlen einer kohärenten Eurasien-Strategie bei der Regierung Obama, vor allem in Afghanistan und Pakistan.

 

__________

(1) Greg Shtraks, »The Start of a Beautiful Friendship? Russia begins exporting oil through the Pacific port of  Kozmino«, Jamestown Foundation Blog, Washington D.C., 11. Dezember 2009, unter http://jamestownfoundation.blogspot.com/2009/12/start-of-beautiful-friendship-russia.html

(2) Ebenda

(3) Moscow Times, »Putin Launches Pacific Oil Terminal«, 29. Dezember 2009, unter http://www.themoscowtimes.com

(4) Zhang Guobao, »Chinese Energy Sector Turns Crisis into Opportunities«, 28. Januar 2010, unter www.chinadaily.com.cn

(5) Isabel Gorst, Geoff Dyer, »Pipeline brings Asian gas to China«, Financial Times, London, 14. Dezember 2009

(6) Reuters, »China calls Xinjiang riot a plot against its rule«, 5. Juli 2009, unter http://www.reuters.com/article/idUSTRE56500R20090706

(7) Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and It's Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1998 (Paperback), p. xiv. Deutsche Ausgabe: Die einzige Weltmacht – Amerikas Strategie der Vorherrschaft, Beltz Quadriga Verlag, Weinheim und Berlin 1997, S. 16

(8) Ebenda, S. 86f.

 

Donnerstag, 01.04.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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samedi, 03 avril 2010

Le Corridor 8: Où est passé le huitième corridor?

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

Le CORRIDOR 8 : Où est passé le huitième corridor ?

7 juin 1999

corridor8_350.gifJe vous le donne en mille : le huitième corridor passe par Skopje, en Macédoine, à quelques kilomètres du Kosovo. Pourquoi n'en n'avons-nous jamais entendu parler, puisque nous vivons en démocratie, que nous nous permettons de bombarder des télévisions et des radios, de tuer des journalistes (coupables de faire de la propagande, et nous de l'information), pourquoi n'avons-nous jamais entendu parler des corridors VIII, X, IV et "dalmatien" ? Pourquoi ces projets, qui sont au cœur des politiques de tous les pays des Balkans, qui concernent directement le développement économique de l'Europe, nous ont-ils été cachés ? Pourquoi cet élément vital, dans la décision des peuples à entrer en guerre, a-t-il été occulté ?

 

Le corridor VIII relie le port albanais de Durres à Varna (Bulgarie) via Tirana, Kaftan, Skopje, Deve Bair, Sofia, Plovdiv et Burgas. Le corridor IV joint Dresde (Allemagne) à Istanbul (Turquie) en passant par Prague, Bratislava, Gjor, Budapest, Arad, Krajova, Sofia et Plovdiv. Des embranchements relient Nuremberg, Vienne, Bucarest et Constantza au tronçon principal.

 

Le corridor X traverse Salzbourg (Autriche), Ljubljana, Zagreb, Belgrade, Nis, Skopje, Veles et Thessalonique (Grèce). Des embranchements relient Graz, Maribor, Sofia, Bitola, Florina, Igoumenitza au tronçon principal.

 

Ces trois corridors de transport pan-européen (Pan-European Transport Corridors) font partie d'un projet plus global visant au développement des anciens pays du bloc soviétique, et à leur intégration à l'économie euro­péenne. Au total, ce projet représente 18.000 kilomètres de routes, 20.000 kilomètres de lignes ferro­viaires, 38 aéroports, 13 ports maritimes, 49 ports fluviaux. Le budget estimé, d'ici l'année 2015, est de 90 milliards d'euros La seule partie concernant les Balkans est estimée à 10,5 milliards d'euros. (Il s'agit ici d'estimations basses : les projets de développement à l'est sont répartis, au niveau européen, en de nombreux chapitres, et il est difficile d'en tirer rapidement vue globale ; de plus, cela concerne uniquement la partie financée par l'Union européenne, sans compter les Américains, très impliqués, les Turcs, ainsi que divers fonds privés ; ces chiffres sont donc certainement sous-évalués de beaucoup.) Ces chiffres sont éloquents : on parle ici de travaux pharaoniques à l'échelle d'un continent. En termes politiques, sociaux, économiques, il s'agit d'un des principaux projets de développement en Europe.

 

Evoquons, de plus, le projet grec de corridor "dalmatien", reliant le port italien de Trieste à la ville d'Igou­menista (Grèce), longeant la côte via l'Albanie, la Yougoslavie, la Bosnie et la Croatie, projet proposé à la mi-98, estimé à 3 milliards de dollars.

 

Pour finir, il faut parler d'un autre projet similaire aux corridors pan-européens, cette fois dans le Caucase et en Asie centrale, le programme TRACECA, lui aussi à l'échelle d'un continent. Son intérêt repose, pour l'économie occidentale, sur la jonction entre ce projet et l'Europe ("It had been recognised that one the weak­nesses of the TRACECA route, in the context of the EU Tacis programme, was the lack of linkage between the western end and the European market", remarque formulé à Helsinky en 1997); ce lien repose donc sur les corridors IV et VIII, via le port de Varna. Ainsi les projets de développement des vingt prochaines années du continent européen reposent sur la réalisation de corridors traversant les Balkans. Sur le plan, vous remar­querez que le nœud central reliant les corridors VIII, X et IV est un triangle formé par Nis, Skopje et Sofia, dont le centre géographique se situe en plein Kosovo. Une instabilité persistante du Kosovo, de la Serbie et, de fait, de l'Albanie et de la Macédoine, serait fatale à l'un des plus importants projets humains en cours. Ah oui, j'oubliais : les débuts des travaux sont prévus pour... maintenant (les financements du corridor VIII sont quasiment bouclés, les études européennes représentent déjà des dizaines de millions d'euros, de nombreux tronçons sont en cours de réalisation).

 

Alors pourquoi avoir totalement occulté l'importance économique de ce conflit ? Les démocraties sont-elles si faibles qu'il faille un alibi purement humanitaire, l'argument du développement humain de tout un continent serait-il apparu, à nos yeux, moins légitime ? Pourquoi présenter les travaux qui commencent en ce moment en Albanie comme une "reconstruction" et un soutien pour "bons et loyaux services", alors qu'il ne s'agit que du début du corridor VIII, conçu et financé de longue date ? Pourquoi dire : "si les Serbes veulent des crédits pour leur reconstruction, ils doivent se débarrasser de Milosevic", alors qu'en réalité, "nous avons besoin, pour notre propre développement, de construire des infrastructures en Serbie et, pour en assurer la viabilité, nous devons nous débarrasser de Milosevic" (c'est le problème exactement inverse) ?

 

J'insiste : pourquoi nous a-t-on expliqué que cette région n'avait aucun intérêt économique (on nous a bien dit qu'il n'y avait pas de pétrole, preuve que nos intentions étaient plus pures qu'en Irak), pourquoi ne nous a-t-on jamais parlé du huitième corridor (que la presse albanaise qualifie de "célèbre corridor 8"), pourquoi avoir totalement occulté le projet de transport pan-européen (que tous les gouvernements de la région placent au centre de leurs décisions économiques) ? Est-ce qu'on ne nous prendrait pas un peu pour des cons ?

(Source : http://www.scarabee.com/EDITO2/index.shtml ?070699 )

 

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vendredi, 02 avril 2010

La nouvelle doctrine de l'OTAN: l'immixtion globale

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

La nouvelle doctrine de l’OTAN : l’immixtion globale

 

Que l’on ne se fasse pas d’illusions : la guerre dans les Balkans n’est qu’un début. Les « interven­tions huma­ni­tai­res », comme celle qui vient d’avoir lieu en Yougoslavie seront monnaie courante dans l’avenir. Ces inter­ven­tions tous azimuts constituent vraisemblablement la nouvelle doctrine de l’OTAN, qui fête ainsi son cin­quan­tième anniversaire. Pourtant, il y a un demi siècle, l’Alliance At­lan­tique se voulait exclusivement un pacte de défense, fondé pour contrer la menace communiste. Aujourd’hui ce principe de défense est caduc, faute de com­munisme. Les nuées de chars d’assaut de l’Est, prompts, disait-on, à foncer vers l’Atlantique en 48 heures, n’exis­tent plus. Que fait l’OTAN, devant cette nouvelle donne ? Elle se mue en gendarme du monde !

 

Le glas sonne pour l’ONU

 

Le principe de défense n’est plus qu’une référence marginale dans la nouvelle doctrine de l’OTAN. Les stratè­ges de Bruxelles et du Pentagone pensent désormais en de nouvelles catégories et élaborent de nouveaux scé­na­rii. Pour l’avenir, il suffira de constater des « actes de terreur », des « sabotages », une « interruption dans le trafic de ressources vitales » ou des « mouvements in­con­trôlés de grands nombres de personnes, surtout s’ils sont la conséquence de conflits armés », pour mobiliser l’Alliance. Dans le futur, l’OTAN entend entrer en ac­tion pour « éviter » et « apaiser » des situations de crise. Mieux : la simple « stabilisation et la sécurité de l’es­pa­ce euro-atlantique » suf­fisent comme motifs d’intervention. C’est un blanc-seing pour intervenir dans tous les coins du glo­be. Rien de plus, rien de moins.

 

Jusqu’ici, il fallait, du moins formellement, un mandat des Nations-Unies pour autoriser l’interven­tion de l’Al­lian­ce. Cette restriction est désormais également caduque. Dans le texte fondant la nouvelle stratégie de l’OTAN, présenté à Washington en avril, les interventions de l’Alliance doivent simplement se référer aux prin­ci­pes de bases de la Charte de l’ONU et être en accord avec ceux-ci. Mais cette stipulation n’est pas con­trai­gnante. L’ONU ou l’OSCE ne doivent plus servir que comme « baldaquin » à des opérations communes, selon les cas qui se présentent. L’important, c’est que tous les pays membres de l’OTAN marquent leur accord. En con­sé­quence de quoi, l’Alliance, en pratique, peut frapper à tout moment n’importe quel pays-cible. A juste titre, l’iré­nologue de Hambourg, Hans J. Giessmann, écrit dans le quotidien berlinois taz, que « le glas a sonné pour l’ONU » et avertit ses lecteurs : «Ceux qui affaiblissent le baldaquin juridique qu’est l’ONU, sont co-respon­sables des conséquences. L’OTAN (…) pourra certainement empêcher certains Etat de faire ce qu’elle se réser­ve, elle, le droit de faire. Si la naissance de la nouvelle OTAN signifie l’enterrement de l’ONU, la conséquence, pour le monde, c’est qu’il n’y aura pas davantage de sécurité au niveau global, mais moins ».

 

On peut en conclure que l’objectif actuel de l’OTAN n’est pas d’augmenter la sécurité sur la surface de la pla­nè­te. Partout où l’OTAN est intervenue ces dix dernières années sous l’impulsion dé­ter­mi­nan­te des Etats-Unis, nous n’avons pas un bonus en matière de sécurité, mais un malus ; la stabilité est en recul, l’insécurité en crois­sance. Quant aux « droits de l’homme », prétextes de la guerre en Yougoslavie, il vaut mieux ne pas en par­ler.

 

Terreur contre les populations civiles

 

Prenons l’exemple de l’Irak : ce pays était l’un des plus progressistes du monde arabe ; il possédait un excellent système d’enseignement et une bonne organisation de la santé ; le régime baathiste était laïc et le régime de Saddam Hussein accordait davantage de libertés citoyennes que les autres pays arabes. Depuis que le pays est sous curatelle de l’ONU et est bombardé chaque semaine par l’aviation américaine (sans que l’opinion publique mondiale y prête encore attention), rien de ces acquis positifs n’a subsisté. Cette ancienne puissance régionale est tombée au niveau d’un pays en voie de développement, où règnent le marché noir, la corruption et l’état d’exception. Vous avez dit « droits de l’homme » ? Vous avez dit « stabilité » ?

 

Prenons l’exemple de la Yougoslavie : lors de son intervention dans ce pays, l’OTAN, appliquant sans retard sa nouvelle doctrine, a renoncé dès le départ à tout mandat de l’ONU et a bombardé pendant des mois un pays européen souverain, faisant ainsi reculer son niveau de développement de plusieurs décennies. Ici aussi apparaît l’ectoplasme des « droits de l’homme », que l’on défend soi-disant. On nous transmet des images de ponts détruits, de fabriques, de chemins de fer, de stations de radio et d’innombrables bâtiments civils bom­bardés, pulvérisés par les bombes ou les missiles de l’OTAN. Même CNN n’est plus en mesure de « retoucher » les photos ou les films. Début mai 98, à l’aide de nouvelles bombes au graphite, les pylônes de haute tension et les usines d’électricité de Belgrade et des environs ont été détruits, coupant l’électricité et l’eau à de larges portions du territoire serbe. A Bruxelles, les porte-paroles de l’Alliance annonçaient avec un effroyable cynisme que l’OTAN était en mesure d’allumer et d’éteindre la lumière en Yougoslavie. On peut se de­man­der quels ont été les objectifs militaires poursuivis par l’Alliance dans ces coupures d’électricité ? Les porte-paroles de l’OTAN ne répondent à cette question que par le silence. L’armée yougoslave, elle, dispose de ses propres générateurs qui, à l’instar des carburants militaires, sont profondément enterrés dans le sol, comme en Suisse. Seule la population civile subit des dommages.

 

Jamais plus la Yougoslavie ne sera la même après la guerre du Kosovo. Son appareil militaire sera affaibli (ce qui réjouira sans nul doute deux pays voisins : la Croatie et la Hongrie), mais aussi son économie et ses infra­struc­tures. On évalue d’ores et déjà que la Yougoslavie a été ramenée au ni­veau qu’elle avait immédia­tement après la seconde guerre mondiale. Les planificateurs de l’OTAN songent déjà à haute voix à détacher le Kosovo de la Serbie et à occuper cette province, à installer là-bas un pro­tec­torat avec la présence d’une armée inter­nationale. Or la République fédérative de You­­go­slavie est un Etat souverain…

 

L’enjeu réel de l’intervention dans les Balkans

 

Dans les Balkans, après l’intervention de l’OTAN, la paix ne reviendra pas et la stabilité politique sera pro­fon­dé­ment ébranlée. Répétons-le : il ne nous semble pas que la stabilité et la paix soient dans l’intérêt des stra­tè­ges de l’OTAN. Quel est alors l’enjeu réel ?

 

On aperçoit les premiers contours de l’ordre politique qui devra régner dans les Balkans sous la férule de l’OTAN. Parallèlement à l’élimination de la puissance régionale qu’était la Serbie, les Etats-Unis reviennent en Europe par le Sud-Est. Cette démarche est impérative pour les Etats-Unis, car sur la côte pacifique du bloc con­tinental eurasien, les Américains reculent. Des penseurs stra­tégiques comme Henry Kissinger et Pat Bu­chanan ont constaté que la Chine, renforcée, sera le futur concurrent de Washington dans cette région. Les per­tes en Asie doivent dès lors être compensées par une avancée stratégique en Europe.

 

Ensuite : les nouveaux partenaires junior des Etats-Unis sont (outre les satrapies européennes ha­bi­tuel­les, dont l’Allemagne), les Turcs. Un contingent turc est présent au sein de la force inter­na­tio­na­le de « paix » au Kosovo. En ayant mis hors jeu la puissance orthodoxe serbe, l’Islam se voit ren­forcé dans le Sud-Est de l’Europe. Wa­shington joue à ce niveau un jeu clair : si l’Europe réussi son in­tégration, si l’espace économique européen s’a­vè­re viable, elle acquerra, bon gré mal gré, une puis­sance géostratégique qui portera ombrage aux Etats-Unis. Si­tuation inacceptable pour le Pen­ta­go­ne. Dans les tréfonds du subconscient européen, la menace islamique-ot­to­mane dans le Sud-Est du continent n’est pas vraiment oubliée. Délibérément, les Américains la réinstallent en Europe pour déstabiliser le processus d’unification européen : ironie et cynisme de l’histoire.

 

L’élargissement de l’OTAN a une odeur de poudre

 

La carte turque est un atout majeur des stratèges américains, également dans le domaine des ap­provision­nements énergétiques. Dans la partie de poker qui se joue en Asie centrale, l’enjeu est le pétrole, entre autres matières premières. Les futures zones d’exploitation se situent sur les rives de la Mer Caspienne et dans les ex-républiques soviétiques de l’Asie centrale musulmane et turco­phone. Dans un tel contexte, on ne s’étonnera pas que l’OTAN, depuis quelques années, s’intéresse à toute coopération militaire et économique avec les Etats de la CEI dans le Sud de l’ex-URSS. L’an dernier, les troupes de l’OTAN ont participé pour la première fois à des manœuvres au Tadjikistan. Ce n’est plus qu’une question de temps, mais, si le processus actuel se poursuit, les anciennes ré­pu­bli­ques musulmanes et turcophones du « ventre mou » de l’ex-URSS appartiendront en bloc à la sphè­re d’influence atlantiste, tout comme les anciens pays du Pacte de Varsovie et l’Ukraine.

 

On le voit clairement : l’Alliance atlantique s’est fixé de nouveaux objectifs planétaires. L’ancienne doctrine pu­rement défensive (en théorie…) est un boulet au pied de l’Alliance actuelle. En consé­quen­ce, l’Alliance se trans­forme en un système interventionniste global.

 

Quoi qu’il en soit : la sécurité ne sera pas de la partie au début du XXIième siècle. Les prochains conflits sont dé­jà programmés : avec la Chine, avec la Russie (complètement désavouée), avec tou­te une série de « méchants Etats » régionaux, que la propagande américaine dénoncera quand cela s’a­vèrera opportun et oubliera tout aussi vite. Hier, c’était l’Afghanistan et le Soudan, aujour­d’hui, c’est la Yougoslavie. Et demain ?

 

D’autres cibles possibles en Europe

 

Peut-être sera-ce le Sud de la France ou les nouveaux Länder de l’Est de l’Allemagne. Je ne blague pas. Com­me l’écrivait l’hebdomadaire d’information américain Time, il y a quelques mois, dans un numéro spécial, les stra­tèges de l’OTAN se soucient déjà de futurs « foyers de crise » en Europe. L’ancienne RDA et quelques villes du Sud de la France sont des cibles potentielles, car elles sont soupçonnées d’être d’ « extrême-droite ». Au Ko­sovo, l’OTAN bombarde parce que les « droits de l’homme » y seraient bafoués. Mais en Turquie, en Israël, à Ti­mor-est, en Indonésie, les droits de l’hom­me sont bafoués depuis des décennies, sans que l’Alliance n’in­ter­vient. Qui décide où tom­be­ront les prochaines bombes ?

 

La réponse est simple. Pendant cinquante ans, l’Alliance a été un instrument destiné à sécuriser les intérêts stratégiques des Etats-Unis. Rien ne changera dans l’avenir. En revanche, ce qui est nou­veau, c’est que le Grand Frère d’Outre-Atlantique définit ses intérêts au niveau global sans ver­go­gne depuis la disparition de l’en­nemi soviétique. Cela continuera tant que le monde acceptera ses ma­nières de cow-boy.

 

Organiser la résistance à l’hégémonisme US

 

Pourtant la résistance à la nouvelle doctrine de l’OTAN s’organise. Le Président de l’Académie russe des scien­ces militaires, le Professeur Machmoud Gareïev exprime ses réserves de manière succincte et concise : « Un nouvel ordre mondial apparaît : une petite communauté d’Etats occidentaux sous l’égide américaine entend dominer et dicter le cours des événements. Le message que cette com­mu­nauté nous lance est clair : ne dérangez pas notre cercle ». Le député socialiste allemand (SPD), Hermann Scheer, manifeste son scepticisme face aux ambitions globales de l’Alliance oc­cidentale. Il écrit à propos des zones de conflit qui se dessinent en Asie : « Les Etats-Unis tentent de contrôler politiquement cette région riche en ressources ; l’Alliance doit dès lors devenir l’escorte militaire des consortiums pétroliers et gaziers (…). L’élargissement de l’OTAN en Asie a une odeur de poudre. Nous devrions ne pas nous en mêler ».

 

Conclusion : la force des uns repose toujours sur la faiblesse des autres. L’hégémonie mondiale que concocte l’OTAN est possible parce que le reste du monde ne s’en est pas soucié. Pour cette raison, il nous apparaît urgent de forger des alternatives à la domination américaine et de leur donner une assise politique. Avec les élites établies, infectées par les virus de la banque et de l’idéologie mon­dialiste, un tel projet ne sera pas possible. En revanche, si des hommes et des femmes à la pen­sée claire, capables de tirer les conclusions qui s’imposent, agissant de Madrid à Vladivostok, l’al­ter­native sera parfaitement possible. L’Internationale des peuples libres : voilà le projet qu’il fau­dra élaborer pour le XXIième siècle.

 

Karl RICHTER.

(Nation-Europa, 6/1999).

mercredi, 31 mars 2010

Die geopolitische Bedeutung der Ukraine heute

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Die geopolitische Bedeutung der Ukraine heute

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Am 14. Februar 2010 hatte die Wahlkommission der Ukraine Viktor Janukowytsch in der heiß umkämpften Stichwahl für das Amt des Staatspräsidenten zum Sieger erklärt. Seine unterlegene Gegnerin ist Julija Tymoschenko, die ehemalige Premierministerin und Galionsfigur der Orangenen Revolution. So sehr sich Washington jetzt auch bemüht, den Ereignissen etwas Positives abzugewinnen, sie bedeuten definitiv das Ende der einst umjubelten »Orangenen Revolution«. – Nun fragt sich, was dieses Scheitern der Orangenen Revolution in der Ukraine zum jetzigen Zeitpunkt für die Zukunft des Eurasischen Herzlandes – so bezeichnete der britische Geopolitiker Halford Mackinder einst diese Region – bedeutet. Noch wichtiger ist die Frage, was es für das Pentagon bedeutet, das seit 20 Jahren unentwegt versucht, gemäß dem gefährlichen und überehrgeizigen Plan der sogenanntenFull Spectrum Dominance Russland als Militärmacht zu schwächen, letztendlich sogar auszuschalten.

Um die langfristige Bedeutung der Wahl in der Ukraine für die globale geopolitische Balance zu verstehen, sollten wir die Orangene Revolution von 2004 noch einmal Revue passieren lassen. Damals war Viktor Juschtschenko der handverlesene Kandidat Washingtons, insbesondere der Neokonservativen im Umfeld der Bush-Regierung, die bemüht waren, die historischen und wirtschaftlichen Verbindungen der Ukraine zu Russland zu kappen und das Land gemeinsam mit dem Nachbarland Georgien in die NATO aufzunehmen.

 

Die wirtschaftliche und politische Geografie der Ukraine

Ein Blick auf die Landkarte zeigt die strategische Wichtigkeit der Ukraine, und zwar sowohl für die NATO als auch für Russland. Im Osten grenzt das Land direkt an Russland, außerdem verlaufen russische Gaspipelines nach Westeuropa über ukrainisches Gebiet. Über diese Pipelines werden rund 80 Prozent des exportierten russischen Gases transportiert, die Russland lebenswichtige Einnahmen – in Dollar – bringen.

Um eine wirksame Verteidigung gegen die wachsende Einkreisung des russischen Territoriums durch die NATO aufrechterhalten zu können, ist Russland ebenso dringend auf die Nutzungsrechte für den ukrainischen Schwarzmeerhafen Sevastopol angewiesen, den Heimathafen der russischen Schwarzmeerflotte. Gemäß einem russisch-ukrainischen Abkommen nutzt die Flotte außerdem noch den Hafen Odessa. Dieser wichtige bilaterale Vertrag über die Nutzungsrechte der Schwarzmeerflotte läuft, sofern er nicht verlängert wird, 2017 aus. Nach dem russisch-georgischen Konflikt im August 2008 hatte der ukrainische Präsident Juschtschenko laut über eine vorzeitige Beendigung des Vertrages nachgedacht, was Moskau seiner strategisch wichtigsten Marinebasis beraubt hätte. Die russische Marine nutzt Sevastopol, seit Russland 1783 die gesamte Region annektiert hat.

In der an Russland grenzenden Ost-Ukraine leben über 15 Millionen Russen, dieses Gebiet ist dank seiner äußerst fruchtbaren Böden noch immer buchstäblich der Brotkorb für Osteuropa. 2009 war die Ukraine nach den USA und der EU noch vor Russland und Kanada der drittgrößte Getreideexporteur der Welt. (1) Die berühmte schwarze Erde der Ukraine, Chernozem, gilt als fruchtbarster Boden der Welt, man findet sie auf zwei Dritteln der Fläche des Landes. (2) Die Region in der Umgebung der Flüsse Dnjepr und Dnjestr ist das einzige Gebiet auf der Welt, in dem die sogenannte »süße« schwarze Erde eine Breite von 500 Kilometern erreicht. Der Boden gehört zu den größten Reichtümern des Landes, weil er sehr gute Ernten garantiert. Westliche Agrobusiness-Unternehmen wie Monsanto, Cargill, AMD und Kraft Foods lecken sich angeblich angesichts der Aussichten auf ein Ende der internen politischen Pattsituation in der Ukraine in der Hoffnung auf satte Gewinne aus dieser Region bereits die Finger. (3)

Das Gebiet Donetzk im östlichen Donezbecken oder Donbass ist die politische Basis des neu gewählten Präsidenten Janukowytsch. Es ist die bevölkerungsreichste Region der Ukraine und das Zentrum der Kohle-, Stahl- und Metallindustrie, ferner gibt es Wissenschaftszentren und Universitäten. Die Kohle-, Gas- und Ölvorkommen im ukrainischen Donbass-Becken werden auf 109 Milliarden Tonnen geschätzt.

Insgesamt zählt die Ukraine zu den Gebieten mit den reichsten Rohstoffvorkommen in ganz Europa. Die großen Granit-, Graphit- und Salzvorkommen bilden eine reiche Quelle für die Metall-, Porzellan- und chemische Industrie, die Keramikwaren und Baumaterialien herstellen. (4)

Kurz: die Eroberung der Ukraine im Jahr 2004 bedeutete für Washington einen Gewinn von höchster strategischer Bedeutung auf dem Weg zur »Full Spectrum Dominance« – so die Bezeichnung des Pentagon für die Kontrolle über den gesamten Planeten: Boden, Luftraum, Ozeane und Weltraum. Schon 1919 schrieb der britische Vater der Geopolitik in seinem einflussreichen Buch Democratic Ideals and Reality (zu Deutsch: Demokratische Ideale und Wirklichkeit):

Wer Osteuropa regiert, der beherrscht das Herzland – Wer das Herzland regiert, der beherrscht die Weltinsel – Wer die Weltinsel regiert, der beherrscht die ganze Welt. (5)

Mackinder rechnete die Ukraine und Russland zum Herzland. Als Washington mit dem de facto von den USA organisierten Putsch namens Orangene Revolution die Ukraine von Russland absprengte, kam man damit dem Ziel der vollständigen Beherrschung nicht nur Russlands und des Herzlands, sondern ganz Eurasiens, einschließlich eines dadurch eingekreisten China, einen gewaltigen Schritt näher. Kein Wunder, dass die Regierung Bush-Cheney so viel Energie darauf verwendete, ihren Mann, Juschtschenko, als Präsident und De-facto-Diktator an die Macht zu bringen. Er sollte die Ukraine in die NATO führen. Was er für seine Landsleute tat, das bekümmerte die Planer von Bushs Politik herzlich wenig.

Hätte der ebenfalls handverlesene Präsident von Georgien, der per Rosen-Revolution ins Amt gekommene Michail Saakaschwili, im August 2008, also wenige Wochen vor der Abstimmung der NATO-Minister über eine Mitgliedschaft Georgiens und der Ukraine, nicht Truppen losgeschickt, um die abtrünnigen Regionen Süd-Ossetien und Abchasien Georgien wieder einzukassieren, dann hätte Juschtschenko mit den entsprechenden Plänen vielleicht sogar Erfolg gehabt. Nach der schnellen militärischen Antwort Russlands, durch die der georgische Vorstoß gestoppt und Saakaschwilis zusammengewürfelten Truppen eine vernichtende Niederlage beigebracht wurde, bestand auch keine Aussicht mehr, dass Deutschland oder andere Mitgliedsländer einer NATO-Mitgliedschaft zustimmen und sich damit dazu verpflichten würden, Georgien oder der Ukraine in einem Krieg gegen Russland beizustehen. (6)

 

Die Bedeutung der Orangenen Revolution

Die »Revolution«, die Viktor Juschtschenko auf einer Welle von amerikanischen Dollars und mit Unterstützung amerikafreundlicher »Nicht-Regierungs-Organisationen« (NGOs) ins Amt gebracht hat, war ursprünglich bei der von Washington finanzierten RAND Corporation ausgeheckt worden. RAND hat die Bewegungsmuster von Bienenschwärmen und ähnliche Phänomene studiert und die Ergebnisse auf moderne mobile Kommunikation, Textübertragung und zivile Proteste als Taktik für Regimewechsel und verdeckte Kriegsführung angewendet. (7)

Die Transformation der Ukraine von einer früheren unabhängigen Sowjetrepublik zu einem pro-amerikanischen Satellitenstaat gelang im Jahr 2004 mithilfe der sogenannten »Orangenen Revolution«. Die Aufsicht führte damals John Herbst, der im Mai 2003 zum amerikanischen Botschafter in der Ukraine ernannt worden war, nur wenige Monate vor Beginn der Unruhen. Beschönigend beschrieb das US State Department die Aktivitäten des Botschafters:

»Während seiner Amtszeit war er bemüht, die amerikanisch-ukrainischen Beziehungen zu verbessern und zum fairen Ablauf der Präsidentschaftswahl in der Ukraine beizutragen. In Kiew war er Zeuge der Orangenen Revolution. Botschafter John Herbst hatte zuvor als US-Botschafter in Usbekistan eine entscheidende Rolle dabei gespielt, einen amerikanischen Stützpunkt aufzubauen, mit dessen Hilfe die Operation Enduring Freedom in Afghanistan durchgeführt werden konnte.« (8)

Washington entschied sich dann für Viktor Juschtschenko als den richtigen Mann für den inszentierten Regimewechsel. Der damals 50-Jährige war zuvor Gouverneur der Zentralbank der Ukraine gewesen und hatte in dieser Position in den 1990er-Jahren im Rahmen der brutalen »Schocktherapie« des IWF die Deindustrialisierung des Landes betrieben. Juschtschenkos IWF-Programm hatte für seine Landsleute verheerende Folgen. Die Ukraine wurde 1994 gezwungen, die Devisenkontrollen aufzuheben und die Währung abstürzen zu lassen. Als Zentralbankchef führte Juschtschenko die Aufsicht über die geforderten Abwertungsmaßnahmen, die innerhalb weniger Tage zu einem Anstieg der Preise für Brot um 300 Prozent, für Strom um 600 Prozent und beim öffentlichen Transport um 900 Prozent führte. Bis 1998 waren die Reallöhne in der Ukraine im Vergleich zu 1991, als die Ukraine ihre Unabhängigkeit erklärte, um 75 Prozent gesunken. Ohne Zweifel war Juschtschenko der richtige Mann, um Washingtons Pläne in der Ukraine umzusetzen. (9)

Juschtschenkos in Chicago geborene Frau Kateryna, eine amerikanische Staatsbürgerin, hatte während der Regierungszeit von Reagan und H.W. Bush für die US-Regierung und das State Department gearbeitet. Sie war als Vertreterin der US-Ukraine Foundation in die Ukraine gekommen. Im Vorstand dieser Stiftung saß Grover Norquist, der zu den einflussreichsten Republikanern in Washington zählte. Norquist wurde damals allgemein »Geschäftsführer des rechten harten Kerns« genannt, er war der entscheidende Mann, der rechtsgerichtete Organisationen für die Unterstützung der Präsidentschaft George W. Bush gewann. (10)

Kernpunkt von Juschtschenkos geschickter Präsidentschaftskampagne war sein Eintreten für den Beitritt der Ukraine zur NATO und zur Europäischen Union. Bei seiner Kampagne kamen massenweise orangefarbene Fahnen, Banner, Poster, Ballons und andere Requisiten zum Einsatz, was unweigerlich zur Folge hatte, dass die Medien fortan von einer »Orangenen Revolution« sprachen. Washington finanzierte »demokratische« Jugendgruppen, die eine wichtige Rolle bei der Organisation gewaltiger Massendemonstrationen spielten. Diese Demonstrationen trugen wesentlich zu Juschtschenkos Erfolg bei der Wiederholung der angefochtenen Wahl bei.

In der Ukraine trat Juschtschenkos Bewegung mit dem Motto »Pora« (»Es ist Zeit«) an. Dabei mischten Leute mit, die aus der »Rosen-Revolution« in Georgien bekannt waren, wie beispielsweise Givi Targamadse, Vorsitzender des georgischen Parlamentsausschusses für Sicherheit und Verteidigung, ein ehemaliges Mitglied des georgischen Liberty Institute oder die Jugendgruppe Kmara. Die ukrainischen Oppositionsführer zogen die Georgier über Techniken der gewaltlosen Auseinandersetzung zu Rate. Die georgischen Rockbands Zumba, Soft Eject und Green Room, die die Rosen-Revolution unterstützt hatten, organisierten 2004 ein Solidaritätskonzert in Kiew zur Unterstützung von Juschtschenkos Kampagne. (11)

Auch die PR-Firma Rock Creek Creative aus Washington spielte eine bedeutende Rolle bei der Orangenen Revolution, sie entwickelte eine Website mit dem orangefarbenen Logo und zum sorgfältig gewählten Farbenthema. (12)

Juschtschenko unterlag 2004 bei der Wahl zunächst gegen Janukoytsch. Verschiedene Elemente trugen zu dem Eindruck bei, die Ergebnisse seien gefälscht, die Öffentlichkeit verlangte daraufhin die Wiederholung der Stichwahl. Mit der Hilfe von Pora und anderen Jugendgruppen sowie speziellen Wahlbeobachtern und in enger Koordination mit wichtigen westlichen Medien wie CNN und BBC wurde die Wahl im Januar 2005 wiederholt. Juschtschenko gewann mit knapper Mehrheit und erklärte sich zum Präsidenten. Dem Vernehmen nach hat das US State Department etwa 20 Millionen Dollar ausgegeben, um in der Ukraine ein Amerika genehmes Wahlergebnis zu gewährleisten. (13)

Dieselben von den USA unterstützten NGOs, die in Georgien aktiv gewesen waren, waren auch für das Ergebnis in der Ukraine verantwortlich: das Open Society Institute von George Soros, Freedom House (dem damals der ehemalige CIA-Direktor James Woolsey vorstand), das National Endowment for Democracy und seine Ableger, das National Republican Institute und das National Democratic Institute. Berichten aus der Ukraine zufolge waren die amerikanischen NGOs gemeinsam mit der konservativen US-Ukraine Foundation im ganzen Land aktiv, sie halfen der Protestbewegung von Pora und Znayu und schulten wichtige Wahlbeobachter. (14)

Präsident Viktor Juschtschenko, Washingtons Mann in Kiew, machte sich sofort daran, die wirtschaftlichen Verbindungen mit Russland zu kappen, unter anderem wurde die Lieferung von russischem Erdgas nach Westeuropa über ukrainische Transit-Pipelines unterbrochen. Mit diesem Schritt versuchte Washington, die EU-Länder, besonders Deutschland, davon zu überzeugen, Russland wäre ein »unzuverlässiger Partner«. Etwa 80 Prozent des russischen Erdgases wurde über Pipelines exportiert, die in der Ära der Sowjetunion gebaut worden waren, als die beiden Länder noch eine politische und wirtschaftliche Einheit bildeten. (15) Juschtschenko arbeitete auch eng Präsident Michail Saakaschwili zusammen, Washingtons Mann im Nachbarland Georgien.

Das Endergebnis der Wahl in der Ukraine Anfang 2010 zeigt, dass die Wähler Juschtschenko, den »Helden« der Orangenen Revolution, mit überwältigender Mehrheit ablehnen: er erhielt kaum fünf Prozent der abgegebenen Stimmen. Nach fünf Jahren des wirtschaftlichen und politischen Chaos wünschen sich die Menschen in der Ukraine offensichtlich zumindest etwas Stabilität. Meinungsumfragen in der Ukraine haben ergeben, dass die Mehrheit den Beitritt zur NATO ablehnt.

In westlichen Medien wird der neue ukrainische Präsident Viktor Janukowytsch als eine Art Marionette Moskaus dargestellt, doch das scheint völlig falsch. Die meisten seiner Unterstützer aus der Industrie wünschen sich harmonische Wirtschaftsbeziehungen mit der Europäischen Union und mit Russland gleichermaßen.

Janukowytsch hat bekannt gegeben, dass ihn seine erste Auslandsreise nicht nach Moskau, sondern zu Gesprächen mit führenden Vertretern der EU nach Brüssel führen wird. Danach wird er sofort nach Moskau fliegen, wo Präsident Medwedew bereits jetzt eine verbesserte Zusammenarbeit signalisiert hat, als er Russlands Botschafter in die Ukraine entsandte, dessen Ernennung nach Monaten politischer Spannungen zwischen Juschtschenko und Moskau zunächst auf Eis gelegt worden war.

Das Wichtigste ist jedoch, dass Janukowytsch entgegen den unablässigen Versuchen seines Vorgängers, die Ukraine auf Drängen Washingtons in die NATO zu bringen, angekündigt hat, er werde sich in Brüssel nicht mit NATO-Vertretern treffen. In Interviews mit ukrainischen Medien erklärte Janukowytsch unmissverständlich, er beabsichtige nicht, die Ukraine in die EU oder – was für Moskau noch wichtiger ist – in die NATO zu führen.

Janukowytsch hat versprochen, seine Aufmerksamkeit stattdessen auf die Wirtschaftskrise und die Korruption in der Ukraine zu konzentrieren. An die Adresse Moskaus gerichtet versichert er, Russland sei in einem Konsortium willkommen, das gemeinsam für die Betreuung des Gaspipeline-Netzes in der Ukraine zuständig sein soll. Damit erhält Moskau den Einfluss zurück, den Juschtschenko und dessen ehrgeizige Premierministerin Julija Tymoschenko unterbinden wollten. Ein anderes wichtiges Signal, das in NATO-Kreisen nicht gerade für Begeisterung sorgt, ist Janukowytschs Ankündigung, er werde den für Russland strategisch wichtigen Nutzungsvertrag für den ukrainischen Schwarzmeerhafen Sevastopol verlängern, der 2017 ausläuft. (16)

 

Russlands neues geopolitisches Kalkül

Es ist offensichtlich, dass sich Janukowytschs erbitterte Gegnerin im Wahlkampf, die Veteranin der Orangenen Revolution und ehemalige Premierministerin Julija Tymoschenko, nachdrücklich dessen Politik widersetzt, weil sie ihre eigenen politischen Ambitionen verfolgt und als schlechte Verliererin bekannt ist. Nachdem sie mit der Anfechtung des Wahlergebnisses vom Februar vor ukrainischen Gerichten gescheitert ist, erklärte sie, sie werde Janukowytsch mit ihrer Parlamentskoalition blockieren. Normalerweise hätte sie als Premierministerin zurücktreten müssen, als Janukowytschs Wahlsieg (mit einer Mehrheit von einer Million Stimmen) bestätigt wurde, was dieser nach seiner Wahl am 10. Februar auch verlangt hat. Sie weigerte sich jedoch. Als Präsidentschaftskandidatin war sie von Bundeskanzlerin Angela Merkel und anderen führenden Politikern in der EU bevorzugt worden. (17)

Der Sieg von Janukowytsch wurde von einigen der mächtigsten Unternehmer-Oligarchen des Landes unterstützt, darunter Rinak Akhmetow, der der reichste Mann der Ukraine und Fußballmilliardär ist. Wie Janukowytsch stammt er aus der Stahlregion im Osten der Ukraine. Auch Dmitry Firtash, ein Gashändler und Milliardär, der gemeinsam mit dem russischen Konzern Gazprom das Gasunternehmen RosUkrEnergo betreibt; Premierministerin Tymoschenko hatte im vergangenen Jahr seine Handelsgeschäfte untersagt.

Das Parlament der Ukraine sprach sich am 3. März bei einem Misstrauensvotum mit 243 von 450 Stimmen mehrheitlich gegen die amtierende Regierung von Premierministerin Tymoschenko aus. Für Tymoschenkos Fraktion der Orangenen Revolution von 2004 bedeutete das den Todesstoß. Jetzt bietet sich die Chance, die seit der Orangenen Revolution von 2004 bestehende politische Pattsituation unter den politischen Fraktionen der Ukraine zu durchbrechen. Janukowytsch ist am Zug. (18)

Bevor sie eine führende Rolle bei der Orangenen Revolution übernahm, war Julija Tymoschenko Anfang der 1990er-Jahre Präsidentin der ukrainischen Firma United Energy Systems gewesen, einem privaten Importeur von russischem Erdgas in die Ukraine. In Moskau warf man ihr vor, sie habe Ende der 1990er-Jahre große Mengen gestohlenen russischen Erdgases weiterverkauft und Steuern hinterzogen. Deswegen verpasste man ihr in der Ukraine den Spitznamen »Gasprinzessin«.

Darüber hinaus wurde ihr vorgeworfen, sie habe ihrem politischen Mentor, dem ehemaligen Premierminister Pavlo Lazarenko, Schmiergelder dafür gezahlt, dass ihre Firma die Gasversorgung des Landes in der Hand behielt. (19) Lazarenko wurde in Kalifornien wegen Erpressung, Geldwäsche, Betrug und Verschwörung zu einer Haftstrafe verurteilt, in der Ukraine wird ihm ein Mord zur Last gelegt. (20)

Wenn man davon ausgeht, dass Janukowytsch jetzt in der Lage ist, das Land nach der Niederlage der Regierung Tymoschenko wie angekündigt zu stabilisieren, dann bedeutet das für Moskau eine deutliche Verschiebung der tektonischen Platten des Eurasischen Herzlands, selbst bei einer strikt neutralen Ukraine.

Zunächst ist die strategische militärische Einkreisung Russlands – über die versuchte Rekrutierung Georgiens und der Ukraine in die NATO – eindeutig blockiert und damit vom Tisch. Der russische Zugang zum Schwarzen Meer über die ukrainische Krim scheint ebenfalls gesichert.

Tatsächlich bedeutet die Neutralisierung der Ukraine einen gewaltigen Rückschlag für Washingtons Strategie der völligen Einkreisung Russlands. Der Bogen von aktuellen oder künftigen NATO-Mitgliedsländern an der Peripherie Russlands und dem noch immer engen Verbündeten Belarus – von Polen bis zur Ukraine und nach Georgien – ist durchbrochen. Der weißrussische Präsident Alexander Lukaschenko hat einer Rosen-Revolution à la Ukraine erfolgreich widerstanden, indem er der Finanzierung von Lukaschenko-feindlichen NGOs durch das State Department einen Riegel vorgeschoben hat. Belarus verfolgt noch immer weitgehend eine zentrale Planwirtschaft, sehr zum Missfallen der freimarktwirtschaftlich orientierten westlichen Regierungen, ganz besonders der in Washington. Weißrussland unterhält enge wirtschaftliche Verbindungen zu Russland, die Hälfte des Außenhandels wird mit Russland abgewickelt, ein Beitritt zur NATO oder zur EU ist nicht geplant. (21)

Diese veränderte geopolitische Konfiguration in Zentraleuropa nach der Niederlage der Orangenen Revolution bedeutet einen großen Schub für Russlands langfristige Energie-strategie – eine Strategie, die man auch als »Russlands Nord-Süd-Ost-West-Strategie« bezeichnen könnte.

 

__________

(1) Press Trust of India, 2009: »Ukraine Becomes World’s Third Largest Grain Exporte«, unter http://blog.kievukraine.info/2009_12_01_archive.html.

(2) Stepan P. Poznyak, »Ukrainian Chornozem: Past, Present, Future«, Beitrag zum 18. World Congress of Soil Science, 9.–15. Juli 2006, unter http://www.ldd.go.th/18wcss/techprogram/P12419.HTM.

(3) Amerikanische Handelskammer in der Ukraine, Chamber Members, unter http://www.chamber.ua/.

(4) KosivArt, »Ukraine Natural Resources«, unter http://www.kosivart.com/eng/index.cfm/do/ukraine.natural-resources.

(5) Halford J. Mackinder, Democratic Ideals and Reality, 1919, Nachdruck 1942, Henry Holz and Company, S. 150.

(6) F. William Engdahl, »Entry into NATO Put Off Indefinitely«, unter http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=11277. Deutsche Version »NATO-Beitritt Georgiens und der Ukraine auf unbestimmte Zeit vom Tisch«, 4. Dezember 2008, unter: http://info.kopp-verlag.de/redakteure/f-william-engdahl/browse/12.html.

(7) John Arquilla, David Ronfeldt, Swarming and the Future of Conflict, Santa Monica, RAND, 2000.

(8) US Department of State, John E. Herbst Biography, unter http://state.gov/r/pa/ei/biog/67065.htm.

(9) Michel Chossudovsky, »IMF Sponsored ›Democracy‹ in the Ukraine«, 28. November 2004, unter http://www.globalresearch.ca/articles/CH0411D.htm.

(10) Kateryna Yushchenko, Biographie, auf My Ukraine: Persönliche Website von Viktor Juschtschenko, 31. März 2005, unter http://www.yuschenko.com.ua/eng/Private/Family/2822/

(11) Wikipedia, Orange Revolution, unter http://en.wikipedia.org/wiki/Orange_Revolution, deutsch unter http://de.wikipedia.org/wiki/Pr%C3%A4sidentschaftswahlen_in_der_Ukraine_2004 

(12) Andrew Osborn, »We Treated Poisoned Yushchenko, Admit Americans«, The Independent, Großbritannien, 12. März 2005, unter http://www.truthout.org/article/us-played-big-role-ukraines-orange-revolution.

(13) Dmitry Sudakov, »USA Assigns $20 million for Elections in Ukraine, Moldova«, Pravda.ru, 11. März 2005.

(14) Nicolas, »Forces Behind the Orange Revolution«, Kiev Ukraine News Blog, 10. Januar 2005, unter http://blog.kievukraine.info/2005/01/forces-behind-orange-revolution.html.

(15) Jim Nichol u.a., »Russia’s Cutoff of Natural Gas to Ukraine: Context and Implications«, US Congressional Research Service Report for Congress, Washington, D.C., 15. Februar 2006.

(16) Yuras Karmanau, »Half-empty chamber greets Ukraine’s new president«, Associated Press, 25. Februar 2010, unter http://news.yahoo.com/s/ap/20100225/ap_on_re_eu/eu_ukraine_president.

(17) Inform: Bloc of Yulia Tymoshenko Release #134, »EPP Throws Weight Behind Tymoshenko«, 16. Dezember 2009, unter http://www.ibyut.com/index_files/792.html.

(18) Stefan Wagstyl und Roman Oleachyk, »Ukraine Election Divides Oligarchs«, London, Financial Times, 15. Januar 2010.

(19) TraCCC, Pavlo Lazarenko: »Is the Former Ukrainian Prime Minister a Political Refugee or a Financial Criminal?«, Organized Crime and Corruption Watch, Bd. 2, Nr. 2, Sommer 2000, Washington, D.C., American University Transnational Crime and Corruption Center.

(20) Ian Traynor, »Ukrainian Leader Appoints Billionaire as his PM«, The Guardian, 24. Januar 2005.

(21) Botschaft der Vereinigten Staaten in Minsk, US Government Assistance FY 97 Annual Report, United States Embassy in Minsk, Weißrussland, 1998, unter: http://belarus.usembassy.gov/assistance1997.html.

 

Donnerstag, 25.03.2010

Kategorie: Allgemeines, Geostrategie, Enthüllungen, Wirtschaft & Finanzen, Politik

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mardi, 30 mars 2010

Rusia, clave de boveda del sistema multipolar

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RUSIA, CLAVE DE BÓVEDA DEL SISTEMA MULTIPOLAR

 de Tiberio Graziani *

 

El nuevo sistema multipolar está en fase de consolidación. Los principales actores son los EE.UU., China, India y Rusia. Mientras la Unión Europea está completamente ausente y nivelada en el marco de las indicaciones-diktat procedentes de Washington y Londres, algunos países de la América meridional, en particular Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay manifiestan su firme voluntad de participación activa en la construcción del nuevo orden mundial. Rusia, por su posición central en la masa eurasiática, por su vasta extensión y por la actual orientación imprimida a la política exterior por el tándem Putin-Medvedev, será, muy probablemente, la clave de bóveda de la nueva estructura planetaria. Pero, para cumplir con tal función epocal, tendrá que superar algunos problemas internos: entre los primeros, los referentes a la cuestión demográfica y la modernización del país, mientras, en el plano internacional, tendrá que consolidar las relaciones con China e India, instaurar lo más pronto posible un acuerdo estratégico con Turquía y Japón y, sobre todo, tendrá que aclarar su posición en Oriente Medio y en Oriente Próximo.

 

               Consideraciones sobre el escenario actual

 

Con el fin de presentar un rápido examen del actual escenario mundial y para comprender mejor las dinámicas en marcha que lo configuran, proponemos una clasificación de los actores en juego, considerándolos ya sea por la función que desempeñan en su propio espacio geopolítico o esfera de influencia, ya sea como entidades susceptibles de profundas evoluciones  en base a variables específicas.

El presente marco internacional nos muestra al menos tres clases principales de actores. Los actores hegemónicos, los actores emergentes y, finalmente, el grupo de los seguidores y de los subordinados. Por razones analíticas, hay que añadir a estas tres categorías una cuarta, constituida por las naciones que, excluidas, por diversos motivos, del juego de la política mundial, están buscando su función.

 

                        Los actores hegemónicos

 

Al primer grupo pertenecen los países que, por su particular postura geopolítica, que los identifica como áreas pivote, o por la proyección de su fuerza militar o económica, determinan las elecciones y las relaciones internacionales de las restantes naciones. Además, los actores hegemónicos influyen directamente también sobre algunas organizaciones globales, entre las cuales se encuentran el Fondo Monetario Internacional (FMI), el Banco Mundial (BM), y la Organización de las Naciones Unidas (ONU). Entre las naciones que presentan tales características, aunque con matices diversos, podemos contar a los Estados Unidos, China, India y Rusia.

La función geopolítica que actualmente ejercen los EE.UU. es la de constituir el centro físico y el mando del sistema occidental nacido al final de la Segunda Guerra Mundial. La característica principal de la nación norteamericana, con respecto al resto del planeta, está representada por su expansionismo, llevado a cabo con una particular agresividad y mediante la extensión de dispositivos militares a escala global. El carácter imperialista debido a su específica condición de potencia marítima le impone comportamientos colonialistas hacia amplias porciones de lo que considera impropiamente su espacio geopolítico (1). Las variables que podrían determinar un cambio de función de los EE.UU. son esencialmente tres: a) la crisis estructural de la economía neoliberal; b) la elefantiasis imperialista; c) las potenciales tensiones con Japón, Europa y algunos países de la América centro-meridional.

China, India y Rusia, en cuanto naciones-continente de vocación terrestre, ambicionan desempeñar sus respectivas funciones macro-regionales en el ámbito eurasiático sobre la base de una común orientación, por otra parte, en fase de avanzada estructuración. Tales funciones, sin embargo, están condicionadas por algunas variables entre las cuales destacamos:

 

a) las políticas de modernización;

b) las tensiones debidas a las deshomogeneidades sociales, culturales y étnicas dentro de sus propios espacios;

c) la cuestión demográfica que impone adecuadas y diversificadas soluciones para los tres países.

 

Por cuanto respecta a la variable referente a las políticas de modernización, observamos que, al estar estas demasiado interrelacionadas en los aspectos económico-financieros con el sistema occidental, de modo particular con los Estados Unidos, a menudo quitan a las naciones eurasiáticas la iniciativa en la arena internacional, las exponen a las presiones del sistema internacional, constituido principalmente por la triada ONU, FMI y BM (2) y, sobre todo, les imponen el principio de la interdependencia económica, histórico eje de la expansión económica de los EE.UU. En relación a la segunda variable, observamos que la escasa atención que Moscú, Pekín y Nueva Delhi prestan a la contención o solución de las respectivas tensiones endógenas ofrece a su antagonista principal, los Estados Unidos, la ocasión de debilitar el prestigio de los gobiernos y obstaculizar la estructuración del espacio eurasiático. Finalmente, considerando la tercera variable, apreciamos que políticas demográficas no coordinadas entre las tres potencias eurasiáticas, en particular entre Rusia y China, podrían a la larga crear choques para la realización de un sistema continental equilibrado.

Las relaciones entre los miembros de esta clase deciden las reglas principales de la política mundial.

En consideración de la presencia de hasta 4 naciones-continente (tres naciones eurasiáticas y una norteamericana) es posible definir el actual sistema geopolítico como multipolar.

 

                        Los actores emergentes

 

La categoría de los actores emergentes reagrupa, en cambio, a las naciones que, valorando particulares bazas geopolíticas o geoestratégicas, tratan de desmarcarse de las decisiones que les imponen uno o más miembros del restringido club del primer tipo. Mientras la finalidad inmediata de los emergentes consiste en la búsqueda de una autonomía regional y, por tanto, en la salida de la esfera de influencia de la potencia hegemónica, que ha de llevarse a cabo mediante articulados acuerdos y alianzas regionales, transregionales y extracontinentales, la finalidad estratégica está constituida por la participación activa en el juego de las decisiones regionales e incluso mundiales. Entre los países que asumen cada vez más la connotación de actores emergentes, podemos enumerar a Venezuela, Brasil, Bolivia, Argentina y Uruguay, la Turquía de Recep Tayyip Erdoğan, el Japón de Yukio Hatoyama y, aunque con alguna limitación, Pakistán. Todos estos países pertenecen, de hecho, al sistema geopolítico llamado “occidental”, guiado por Washington. El hecho de que muchas naciones de lo que, en el periodo bipolar, se consideraba un sistema cohesionado puedan ser hoy señaladas como emergentes y, por tanto, entidades susceptibles de contribuir a la constitución de nuevos polos de agregación geopolítica induce a pensar que el edificio puesto a punto por los EE.UU. y por Gran Bretaña, tal y como lo conocemos, está, de hecho, en vías de extinción o en una fase de profunda evolución. La creciente “militarización” que la nación guía impone a las relaciones bilaterales con estos países parece sustanciar la segunda hipótesis. La común visión continental de los emergentes sudamericanos  y la realización de importantes acuerdos económicos, comerciales y militares constituyen los elementos base para configurar el espacio sudamericano como futuro polo del nuevo orden mundial (3).

Los actores emergentes aumentan sus grados de libertad en virtud de las alianzas y de las fricciones entre los miembros del club de los hegemónicos así como de la conciencia geopolítica de sus clases dirigentes.

El número de los actores emergentes y su colocación en los dos hemisferios septentrionales (Turquía y Japón) y meridional (países latinoamericanos) además de acelerar la consolidación del nuevo sistema multipolar, trazan sus dos ejes principales: Eurasia y América indiolatina.

 

                        Los seguidores-subordinados y los subordinados

 

La designación de actores seguidores y subordinados, aquí propuesta, pretende subrayar las potencialidades geopolíticas de los pertenecientes a esta clase con respecto a su transición a las otras. Hay que calificar como seguidores-subordinados a los actores que consideran útil, por afinidad, intereses varios o por condiciones históricas particulares,  formar parte de la esfera de influencia  de una de las naciones hegemónicas. Los seguidores-subordinados reconocen al país hegemónico la función de nación-guía. Entre estos podemos mencionar, por ejemplo, la República Sudafricana, Arabia Saudí, Jordania, Egipto, Corea del Sur. Los subordinados de este tipo, dado que siguen a los EE.UU. como nación guía, a menos que surjan convulsiones provocadas o gestionadas por otros, compartirán su destino geopolítico. La relación que mantienen estos actores y el país hegemónico es de tipo, mutatis mutandis, vasallático.

En cambio, se pueden considerar completamente subordinados los actores que, exteriores al espacio geopolítico natural del país hegemónico, padecen su dominio. La clase de los países subordinados está marcada por la ausencia de una conciencia geopolítica autónoma o, mejor todavía, por la incapacidad de sus clases dirigentes de valorar los elementos mínimos y suficientes para proponer y, por tanto, elaborar una doctrina geopolítica propia. Las razones de esta ausencia son múltiples y variadas, entre estas podemos mencionar la fragmentación del espacio geopolítico en demasiadas entidades estatales, la colonización cultural, política y militar ejercida por la nación hegemónica, la dependencia económica hacia el país dominante, las estrechas y particulares relaciones que mantienen el actor hegemónico y las clases dirigentes nacionales, que, configurándose como auténticas oligarquías, están preocupadas más de su supervivencia que de los intereses populares nacionales que deberían representar y sostener. Las naciones que constituyen la Unión Europea entran en esta categoría, con excepción de Gran Bretaña por la conocida special relationship que mantiene con los EE.UU. (4).

La pertenencia de la Unión Europea a esta clase de actores se debe a su situación geopolítica y geoestratégica. En el ámbito de las doctrinas geopolíticas estadounidenses, Europa siempre ha sido considerada, desde el estallido de la Segunda Guerra Mundial, una cabeza de puente tendida hacia el centro de la masa eurasiática (5). Tal papel condiciona las relaciones entre la Unión Europea y los países exteriores al sistema occidental, en primer lugar, Rusia y los países de Oriente Próximo y de Oriente Medio. Además de determinar el sistema de defensa de la UE y sus alianzas militares, este particular papel influye, a menudo incluso profundamente, en la política interior y las estrategias económicas de sus miembros, en concreto, las referentes al aprovisionamiento de recursos energéticos (6) y de materiales estratégicos, así como las elecciones en materia de investigación y desarrollo tecnológico. La situación geopolítica de la Unión Europea parece haberse agravado ulteriormente con el nuevo curso que Sarkozy y Merkel han imprimido a las respectivas políticas exteriores, dirigidas más a la constitución de un mercado trasatlántico que al reforzamiento del europeo.

Las variables que, en el momento actual, podrían permitir a los países miembros de la Unión Europea pasar a la categoría de los emergentes tienen que ver con la calidad y el grado de intensificación de sus relaciones con Moscú en referencia a la cuestión del aprovisionamiento energético (North y South Stream), a la cuestión de la seguridad (OTAN) y a la política próximo y medio-oriental (Irán e Israel). Que lo que acabamos de escribir es algo posible lo demuestra el caso de Turquía. A pesar de la hipoteca de la OTAN que la vincula al sistema occidental, Ankara, apelando precisamente a las relaciones con Moscú en lo referente a la cuestión energética, y asumiendo, respecto a las directivas de Washington, una posición excéntrica sobre la cuestión israelo-palestina, está en el camino hacia la emancipación de la tutela americana (7).

Los seguidores y subordinados, debido a su debilidad, representan el posible terreno de choque sobre el que podrían confrontarse los polos del nuevo orden mundial.

 

Los excluidos

 

En la categoría de los excluidos entran lógicamente todos los otros estados. Desde un punto de vista geoestratégico, los excluidos constituyen un obstáculo a las miras de uno o más actores de los actores hegemónicos. Entre los pertenecientes a este grupo, asumen un particular relieve, con respecto a los EE.UU. y el nuevo sistema multipolar, Siria, Irán, Myanmar y Corea del Norte. En el marco de la estrategia estadounidense para cercar la masa eurasiática, de hecho, el control de las áreas que actualmente se encuentran bajo la soberanía de esas naciones representa un objetivo prioritario que ha de ser alcanzado a corto-medio plazo. Siria e Irán se interponen a la realización del proyecto norteamericano del Nuevo Gran Oriente Medio, es decir, al control total sobre la larga y amplia franja que desde Marruecos llega a las repúblicas centroasiáticas, auténtico soft underbelly de Eurasia; Myanmar constituye una potencial vía de acceso en el espacio chino-indio a partir del Océano Índico y un emplazamiento estratégico para el control del Golfo de Bengala y del Mar de Andamán; Corea del Norte, además de ser una vía de acceso hacia China y Rusia, junto al resto de la península coreana (Corea del Sur) constituye una base estratégica para el control del Mar Amarillo y del Mar del Japón.

Los excluidos más arriba citados, en base a las relaciones que cultivan con los nuevos actores hegemónicos (China, India, Rusia) y con algunos emergentes podrían entrar nuevamente en el juego de la política mundial y asumir, por tanto, un importante papel funcional en el ámbito del nuevo sistema multipolar. Este es el caso de Irán. Irán goza del status de país observador en el ámbito de la OTSC, la Organización del Tratado de Seguridad Colectiva, considerada por muchos analistas la respuesta rusa a la OTAN, y es candidato al ingreso en la Organización para la Cooperación de Shangai, entre cuyos miembros figuran Rusia, China y las repúblicas centroasiáticas. Además, tiene sólidas relaciones económico-comerciales con los mayores países de la América indiolatina.

 

                

                

               La reescritura de las nuevas reglas

 

Los países que pertenecen a la clase de los actores hegemónicos anteriormente descrita tratan de proyectar, por primera vez después de la larga fase bipolar y la breve unipolar, su influencia sobre todo el planeta con la finalidad de contribuir, con recorridos y metas específicas, a la realización de la nueva configuración geopolítica global. A finales de la primera década del siglo XXI se asiste, por tanto, al retorno de la política mundial, articulada esta vez en términos continentales (8). La puesta en juego está constituida, no sólo por el acaparamiento de los recursos energéticos y de las materias primas, por el dominio de importantes nudos estratégicos, sino, sobre todo, considerando el número de actores y la complejidad del escenario mundial, por la reescritura de nuevas reglas. Estas reglas, resultantes de la delimitación de nuevas esferas de influencia, definirán, con toda probabilidad durante un largo periodo, las relaciones entre los actores continentales y, por tanto, también un nuevo derecho. No ya un derecho internacional exclusivamente construido sobre las ideologías occidentales, sustancialmente basado en el derecho de ciudadanía como se ha desarrollado a partir de la Revolución Francesa y en el concepto de estado-nación, sino un derecho que tenga en cuenta las soberanías políticas tal y como se manifiestan y se estructuran concretamente en los diversos ámbitos culturales de todo el planeta.

Los Estados Unidos, aunque actualmente se encuentren en un estado de profunda postración causado por una compleja crisis económico-financiera (que ha evidenciado, por otra parte, las carencias y debilidades estructurales de la potencia bioceánica y de todo el sistema occidental), por el duradero impasse militar en el teatro afgano y por la pérdida del control de vastas porciones de la América meridional,  prosiguen, sin embargo, en continuidad con las doctrinas geopolíticas de los últimos años, con la acción de presión hacia Rusia, área geopolítica que constituye su verdadero objetivo estratégico con  vistas a la hegemonía planetaria. En el momento actual, la desestructuración de Rusia, o, por lo menos, su debilitamiento, representaría para los Estados Unidos, no sólo un objetivo que persigue al menos desde 1945, sino también una ocasión para ganar tiempo y poner remedios eficaces para la solución de su propia crisis interna y para reformular el sistema occidental.

Precisamente, teniendo bien presente tal objetivo, resulta más fácil interpretar la política exterior adoptada recientemente por la administración Obama con respecto a Pekín y Nueva Delhi. Una política que, aunque tendente a recrear un clima de confianza entre las dos potencias euroasiáticas y los Estados Unidos, no parece dar en absoluto los resultados esperados, a causa del excesivo pragmatismo y de la exagerada ausencia de escrúpulos que parecen caracterizar tanto al presidente Barack Obama como a su Secretaria de Estado, Hillary Rodham Clinton. Un ejemplo de esa ausencia de escrúpulos y del pragmatismo, así como de la escasa diplomacia, entre otros muchos, es el referente a las relaciones contrastantes que Washington ha mantenido recientemente con el Dalai Lama y con Pekín.

Tales comportamientos, dadas las condiciones de debilidad en que se encuentra la ex hyperpuissance, son un rasgo del cansancio y del nerviosismo con que el actual liderazgo estadounidense trata de enfrentarse y taponar el progresivo ascenso de las mayores naciones eurasiáticas y la reafirmación de Rusia como potencia mundial. Las relaciones que Washington cultiva con Pekín y Nueva Delhi trascurren por dos vías. Por un lado, sobre la base del principio de interdependencia económica y mediante la ejecución de específicas políticas financieras y monetarias, los EE.UU. tratan de insertar a China e India en el ámbito del que denominan como sistema global. Este sistema, en realidad, es la proyección del occidental a escala planetaria, ya que las reglas en las que se basaría son precisamente las de este último. Por otro lado, a través de una continua y apremiante campaña denigratoria, la potencia estadounidense trata de desacreditar a los gobiernos de las dos naciones eurasiáticas y de desestabilizarlas, sirviéndose de sus  contradicciones y de sus tensiones internas. La estrategia actual es sustancialmente la versión actualizada de la política llamada de congagement (containment, engagement), aplicada, esta vez, no sólo a China sino también, parcialmente, a India.

Sin embargo, hay que subrayar que el dato cierto de esta administración demócrata, que tomó posesión en Washington en enero de 2009, es la creciente militarización con la que tiende a condicionar las relaciones con Moscú. Más allá de la retórica pacifista, el premio Nobel Obama, de hecho, sigue, con la finalidad de alcanzar la hegemonía global, las líneas-guía trazadas por las precedentes administraciones, que se reducen, de forma sumamente sintética, a dos: a) potenciación y extensión de las guarniciones militares; b) balcanización de todo el planeta según parámetros  étnicos, religiosos y culturales.

rusland_retreat.jpgAnte la clara y manifiesta tendencia de los EE.UU. hacia el dominio global –en los últimos tiempos marcadamente sustentada por el corpus ideológico-religioso veterotestamentario (9) más que por un cuidadoso análisis del momento actual que llevase la impronta de la Realpolitik –China, India y Rusia, al contrario, parecen ser bien  conscientes de las condiciones actuales que les llaman a una asunción de responsabilidades tanto a nivel continental como global. Tal asunción parece desarrollarse mediante acciones tendentes a la realización de una mayor y mejor articulada integración eurasiática así como mediante el apoyo de las políticas pro-continentales de los países sudamericanos.

 

                        La centralidad de Rusia

 

La reencontrada estatura mundial de Rusia como protagonista del escenario global impone algunas reflexiones de orden analítico para comprender su posicionamiento tanto en el ámbito continental como global, así como también las variables que podrían modificarlo a corto y medio plazo.

Mientras en relación a la masa euroafroasiática, la función central de Rusia como su heartland, tal y como fue sustancialmente formulada por Mackinder, es nuevamente confirmada por el actual marco internacional, más problemática y más compleja resulta, en cambio, su función en el proceso de consolidación del nuevo sistema multipolar.

 

Espina dorsal de Eurasia y puente eurasiático entre Japón y Europa

 

Los elementos que han permitido a Rusia reafirmar su importancia en el contexto eurasiático, muy esquemáticamente, son:

a)      reapropiación por parte del Estado de algunas industrias estratégicas;

b)      contención de los impulsos secesionistas;

c)      uso “geopolítico” de los recursos energéticos;

d)     política dirigida a la recuperación del “exterior próximo”;

e)      constitución del partenariado Rusia-OTAN, como mesa de discusión destinada a contener el proceso de ampliación del dispositivo militar atlántico;

f)       tejido de relaciones a escala continental, orientadas a una integración con las repúblicas centroasiáticas, China e India;

g)      constitución y cualificación de aparatos de seguridad colectiva (OTCS y OCS).

 

Si la gestión, antes de Putin y ahora de Medvedev, del agregado de elementos más arriba considerados ha mostrado, en las presentes condiciones históricas, la función de Rusia como espina dorsal de Eurasia, y, por tanto, como área gravitacional de cualquier proceso orientado a la integración continental, sin embargo, no ha puesto en evidencia su carácter estructural, importante para las relaciones ruso-europeas y ruso-japonesas, es decir, el de ser el puente eurasiático entre la península europea y el arco insular constituido por Japón.

Rusia, considerada como puente eurasiático entre Europa y Japón, obliga al Kremlin a una elección estratégica decisiva para los desarrollos del futuro escenario mundial: la desestructuración del sistema occidental. Moscú puede conseguir tal objetivo con éxito, a medio y largo plazo, intensificando las relaciones que cultiva con Ankara por cuanto respecta a las grandes infraestructuras (South Stream) y poniendo en marcha otras nuevas con respecto a la seguridad colectiva. Acuerdos de este tipo provocarían ciertamente un terremoto en toda la Unión Europea, obligando a los gobiernos europeos a tomar una posición neta entre la aceptación de una mayor subordinación a los intereses estadounidenses o la perspectiva de un partenariado euro-ruso (en la práctica, eurasiático, considerando las relaciones entre Moscú, Pekín y Nueva Delhi), que respondiera en mayor medida a los intereses de las naciones y de los pueblos europeos (10). Una iniciativa análoga debería ser tomada por Moscú con respecto a Japón, incluyéndose como socio estratégico en el contexto de las nuevas relaciones entre Pekín y Tokio y, sobre todo, poniendo en marcha, siempre junto a China, un proceso apropiado de integración de Japón en el sistema de seguridad eurasiático en el ámbito de la Organización para la Cooperación de Shangai (11).

 

Clave de bóveda del nuevo orden mundial

 

Con respecto al nuevo orden mundial, Rusia parece poseer los elementos base para cumplir una función epocal, la de clave de bóveda de todo el sistema. Uno de los elementos está constituido precisamente por su centralidad en el ámbito eurasiático como hemos expuesto anteriormente, otros dependen de sus relaciones con los países de la América meridional, de su política en Oriente Próximo y en Oriente Medio y de su renovado interés por la zona ártica. Estos cuatro factores resultan problemáticos ya que están estrechamente ligados a la evolución de las relaciones existentes entre Moscú y Pekín. China, como se sabe, ha estrechado, al igual que Rusia, sólidas alianzas económico-comerciales con los países emergentes de la América indiolatina, lleva en Oriente Medio y en Oriente Próximo una política de pleno apoyo a Irán y, además, manifiesta una gran atención por los territorios siberianos y árticos (12). Considerando lo que acabamos de recordar, si las relaciones entre Pekín y Moscú se desarrollan en sentido todavía más acentuadamente eurasiático, prefigurando una especie de alianza estratégica entre los dos colosos, la consolidación del nuevo sistema multipolar se beneficiará de una aceleración, en caso contrario, sufrirá una ralentización o entrará en una situación de estancamiento. La ralentización o el estancamiento proporcionarían el tiempo necesario para que el sistema occidental pudiera reconfigurarse y volviera a entrar, por tanto, en el juego en las mismas condiciones que los otros actores.

 

El nudo gordiano de Oriente Próximo y de Oriente Medio – la obligación de una elección de campo

 

Entre los elementos más arriba considerados, referentes a la función global que Rusia podría desempeñar, la política próximo y medio-oriental del Kremlin parece ser la más problemática. Esto es así a causa de la importancia que este tablero representa en el marco general del gran juego mundial y por el significado particular que ha asumido, a partir de la crisis de Suez de 1956, en el interior de las doctrinas geopolíticas estadounidenses. Como se recordará, la política rusa, o mejor, soviética, en Oriente Próximo, después de una primera orientación pro-sionista de los años 1947-48, que, por otra parte, se extendió hasta febrero de 1953, cuando se consumó la ruptura formal entre Moscú y Tel Aviv, se dirigió decididamente hacia el mundo árabe. En el sistema de alianzas de la época, el Egipto de Nasser se convirtió en el país central de esta nueva dirección del Kremlin, mientras el neo-estado sionista representó el special partner de Washington. Entre altibajos, Rusia, tras la licuefacción de la URSS, mantuvo esta orientación filo-árabe, aunque con algunas dificultades. En el cambiado marco regional, determinado por tres acontecimientos principales: a) inserción de Egipto en la esfera de influencia estadounidense; b) eliminación de Irak; c) perturbación del área afgana que atestiguan el retroceso de la influencia rusa en la región y el contextual avance, también militar, de los Estados Unidos, el país central de la política próximo y medio-oriental rusa está lógicamente representado por la República Islámica de Irán.

Mientras esto ha sido ampliamente comprendido por Pekín, en el marco de la estrategia orientada a su reforzamiento en la masa continental euroafroasiática, no se puede decir lo mismo de Moscú. Si el Kremlin no se da prisa y declara abiertamente su elección de campo a favor de Teherán, disponiéndose de esa manera a cortar el nudo gordiano que constituye la relación entre Washington y Tel Aviv, correrá el riesgo de anular su potencial función en el nuevo orden mundial.

 

* Director de Eurasia. Rivista di studi geopolitici – www.eurasia-rivista.org - direzione@eurasia-rivista.org

 

(Traducido por Javier Estrada)

 

 

1. El sistema occidental, tal y como se ha afirmado desde 1945 hasta nuestros días, está estructuralmente compuesto por dos principales espacios geopolíticos distintos, el angloamericano y el de la América indiolatina, a los que se añaden porciones del espacio eurasiático. Estas últimas están constituidas por Europa (península eurasiática y cremallera euroafroasiática) y por Japón (arco insular eurasiático). La América indiolatina, Europa y Japón han de ser considerados, por tanto, en relación al sistema « occidental », más propiamente, como esferas de influencia de la potencia del otro lado del Océano.

2. La ONU, el FMI y el BM, en el ámbito de la confrontación entre el  sistema occidental guiado por los EE.UU. y las potencias eurasiáticas, de hecho, desempeñan la función de dispositivos geopolíticos por cuenta de Washington.

3. Por cuanto respecta al redescubrimietno de la vocación continental de la América centromeridional en el ámbito del debate geopolítico, madurado en relación a la oleada globalizadora de los últimos veinte años, nos remitimos, entre otros, a los trabajos de Luiz A. Moniz Bandeira, Alberto Buela, Marcelo Gullo, Helio Jaguaribe, Carlos Pereyra Mele, Samuel Pinheiro Guimares, Bernardo Quagliotti De Bellis; señalamos, además, la reciente publicación de Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolitíca (dirección editorial a cargo de Miguel Ángel Barrios), Buenos Aires 2009.

4. Luca Bellocchio, L'eterna alleanza? La special relationship angloamericana tra continuità e mutamento, Milán 2006.

5. Por motivaciones geoestratégicas análogas, siempre referentes al cerco de la masa eurasiática, los EE.UU. consideran Japón una de sus cabezas de puente, muy semejante a la europea.

6. En el específico sector del gas y del petróleo, la influencia estadounidense y, en parte, británica determinan la elección de los miembros de la UE respecto a sus socios extra-europeos, a las rutas para el transporte de los recursos energéticos y la proyección de las consiguientes infraestructuras.

7. Un enfoque teórico referente a los procesos de transición de un Estado de una posición de subordinación a una de autonomía respecto a la esfera de influencia en que se inscribe, ha sido recientemente tratado por el argentino Marcelo Gullo en el ensayo La insubordinación fundante. Breve historia de la construcción  del poder de las naciones, Buenos Aires 2008.

8. A tal respecto, son significativos los llamamientos constantes de Caracas, Buenos Aires y Brasilia a la unidad continental. En el apasionado discurso de toma de posesión de la presidencia de Uruguay, que tuvo lugar en la Asamblea general del parlamento nacional el 1 de marzo de 2010, el recién elegido José Mujica Cordano, ex tupamaro, subrayó con vigor que “Somos una familia balcanizada, que quiere juntarse, pero no puede. Hicimos, tal vez, muchos hermosos países, pero seguimos fracasando en hacer la Patria Grande. Por lo menos hasta ahora. No perdemos la esperanza, porque aún están vivos los sentimientos: desde el Río Bravo a las Malvinas vive una sola nación, la nación latino-americana”.

9. Eso también en consideración de la  política “prosionista” que Washington lleva en Oriente Próximo y en Oriente Medio. Véase a tal propósito el largo ensayo de J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milán, 2007 (Hay versión española, El lobby israelí, Taurus, 2007).

10. Una hipótesis de partenariado euro-ruso, basado en el eje París-Berlín-Moscú, fue propuesto en un contexto diverso del actual en el brillante ensayo de Henri De Grossouvre, Paris, Berlin, Moscou. La voie de la paix et de l’independénce, Lausana 2002.

11. La ampliación de las estructuras continentales (globales en el caso de la OTAN) de seguridad y defensa parece ser el índice del grado de consolidación del sistema multipolar. Además de la OTAN, la OTSC y las iniciativas en el ámbito de la OCS, hay que recordar también el Consejo de Defensa Suramericano (CDS) de  la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR).

12. Linda Jakobson, China prepares for an ice-free Arctic, Sipri Insights on Peace and Securiry, no. 2010/2 Marzo 2010.

 

Afghanistan, narcotrafficanti sotto contratto Nato?

Afghanistan, narcotrafficanti sotto contratto Nato?

di Enrico Piovesana

Fonte: Peace Reporter [scheda fonte]



us_opium.jpgImpresa privata tedesco-albanese che da anni fornisce servizi logistici alle basi Isaf in Afghanistan, sospettata di traffico internazionale di eroina

In Germania è scoppiato uno scandalo - subito silenziato - che rafforza i sempre più diffusi sospetti sul coinvolgimento delle forze d'occupazione occidentali in Afghanistan nel traffico internazionale di eroina - di cui questo paese è diventato, dopo l'invasione del 2001, il principale produttore globale.

Ecolog, servizi alle basi Nato e traffico di eroina. Un servizio mandato in onda a fine febbraio dalla radio-televisione pubblica tedesca Norddeutsche Rundfunk (Ndr) ha rivelato che la Nato e il ministero della Difesa di Berlino stanno investigando sulle presunte attività illecite della Ecolog: multinazionale tedesca di proprietà di una potente famiglia albanese macedone - i Destani, di Tetovo - che dal 2003 opera in Afghanistan sotto contratto Nato, fornendo servizi logistici alle basi militari Isaf dei diversi contingenti nazionali (compreso quello italiano) e all'aeroporto militare di Kabul. E che, secondo recenti informative segrete e rapporti confidenziali ricevuti dalla stessa Nato, sarebbe coinvolta nel contrabbando internazionale di eroina dall'Afghanistan.
"C'è il rischio che sia stata contrabbandata droga, quindi valuteremo se la Ecolog è ancora un partner affidabile per noi", ha dichiarato alla Ndr il generale tedesco Egon Ramms, a capo della Nato Joint Force Command di Brussum, in Olanda.
"Siamo al corrente della questione e stiamo investigando con le autorità competenti", ha confermato un portavoce della Difesa tedesca ai microfoni dell'emittente pubblica.

Dietro l'impresa, il clan albanese-macedone dei Destani. Il servizio della Ndr spiega che già nel 2006 e poi nel 2008, dipendenti della la Ecolog sono finiti sotto inchiesta in Germania con l'accusa di traffico di eroina - centinaia di chili - dall'Afghanistan e di riciclaggio di denaro sporco. E che nel 2002, quando la Ecolog operava in Kosovo al servizio delle basi del contingente tedesco della Kfor, i servizi segreti di Berlino avevano informato i vertici Nato che il clan Destani, strettamente legato ai gruppi armati indipendentisti albanesi (Uck e Kla), controllava ogni sorta di attività e traffico illegale attraverso il confine macedone-kosovaro: dalla droga, alle armi, al traffico di esseri umani.
La Ecolog, che ha la sua sede principale a Düsseldorf (con filiali in Macedonia, Turchia, Emirati Arabi, Kuwait, Stati Uniti e Cina) è stata fondata nel 1998, ed è oggi amministrata, dal giovane Nazif Destani, figlio del capofamiglia Lazim, già condannato a Monaco di Baviera nel 1994 per dettenzione illegali di armi e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il 90 per cento dei quasi quattromila dipendenti della Ecolog sono albanesi macedoni.

La Ecolog smentisce e fa rimuovere il servizio giornalistico. L'esplosivo servizio della Ndr è stato subito ripreso e amplificato dai mass media tedeschi: dall'emittente nazionale Deutsche Welle al settimanale Der Spiegel.
La reazione della Ecolog è stata immediata e durissima. Thomas Wachowitz, braccio destro di Nafiz Destani, ha bollato come "assurde" e "completamente infondate" le accuse contenute nel servizio, in quanto basate su una "confusione di nomi", e ha chiesto l'intervento della magistratura.
Il 4 marzo, il tribunale federale di Amburgo ha accolto l'esposto della Ecolog, emettendo un'ingiunzione che, senza entrare nel merito del contenuto del servizio giornalistico, impedisce all'emittente Ndr di "sollevare ulteriori sospetti" sull'azienda. La Ndr, dal canto suo, ha dichiarato di ritenere false le argomentazioni della Ecolog e ha annunciato un ricorso contro l'ingiunzione.

 


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lundi, 29 mars 2010

L'Afrique Réelle n°3 / Afrique du Sud

L’Afrique Réelle n°3 – Mars 2010

L’Afrique du Sud n’est pas LA « Nation arc en ciel » dans laquelle les déterminismes raciaux ont disparu par un coup de baguette magique, mais l’assemblage de plusieurs peuples réunis par le colonisateur britannique à la suite de nombreuses guerres.
Ces peuples, qu’il s’agisse des Zulu, des Xhosa, des Sotho, des Venda, des Pedi, des Ndebele, des Indiens ou des Afrikaners, etc., ont des langues différentes et des références historico-culturelles irréductibles les unes aux autres.
Après 1910, les Blancs, Britanniques d’abord, Afrikaners ensuite, constituèrent le ciment de cette mosaïque raciale. Après les élections de 1948, les seconds commirent l’erreur d’accepter l’héritage colonial britannique avec ses frontières et ils devinrent de ce fait des colonisateurs intérieurs. Maîtres de tout le pays, ils découvrirent alors qu’ils risquaient la submersion démographique. Pour tenter de l’éviter, ils s’engagèrent alors dans la politique d’apartheid ou « développement séparé », avec comme corollaire la création de foyers nationaux noirs, les « bantustan ».
A la fin de la décennie 1980 les Afrikaners se trouvèrent dans une impasse politique :
- à l’intérieur, les Noirs étaient sur le point de se soulever,
- à l’extérieur les sanctions internationales transformaient l’Afrique du Sud en pays paria.

Comme le président P.W Botha incarnait l’immobilisme, sa mise à l’écart fut alors décidée par la génération montante des responsables afrikaners et le 14 août 1989, ils le remplacèrent par F.W De Klerk qui remit le pouvoir à l’ANC.

A partir de 1994, l’ANC devenu parti-Etat eut la charge de maintenir la mosaïque sud-africaine. En 2008, ce mouvement a connu une scission à l’occasion de laquelle a ressurgi l’ethno régionalisme, tendance lourde niée depuis 1994 par l’idéologie officielle.
Toutes les réalités du pays sont en effet fédérales, or, le pari politique du gouvernement ANC repose sur un postulat qui est la constitution d’une « nation arc-en-ciel » dans laquelle les déterminismes raciaux, ethniques et régionaux auront été effacés.
L’ANC pourra donc difficilement éviter le débat entre la vieille garde marxisto-jacobine cramponnée au dogme de l’Etat unitaire et les tenants des réalités confédérales.

Au mois de mai 2009, succédant à Thabo Mbeki, Jacob Zuma fut élu président de la République. Après 15 années de pouvoir xhosa, un leader populiste zulu arrivait aux affaires dans un contexte économique et social plus que morose.
Loin de la vision idyllique présentée par les médias, la réalité sud africaine est en effet tragique. Près de deux décennies après l’accession au pouvoir d’une « majorité noire » le pays cesse en effet peu à peu d’être une excroissance de l’Europe à l’extrémité australe du continent africain pour devenir un Etat du « tiers-monde » avec, certes, un secteur encore ultraperformant, mais de plus en plus réduit, surnageant dans un océan de pénuries, de corruption, de misère sociale et de violence.

Bernard Lugan

Source : Blog Officiel de Bernard Lugan [1]

La géopolitique brésilienne

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1989

La géopolitique brésilienne

 

Bertil HAGGMAN

 

L'évolution de la géopolitique au Brésil remonte à une date déjà très ancienne: dès le moment où les autorités du pays ont décidé d'amorcer une expansion au-delà de la Ligne Tordesillas, fixée par le Pape en 1494, pour délimiter les possessions portugaises et espagnoles. Cette expansion est la troisième en ordre d'importance depuis l'âge des découvertes, après celles des Etats-Unis et de la Russie. Le Brésil a fini par devenir le plus vaste Etat de l'Amérique du Sud. Aujourd'hui, les Etats voisins du Brésil lusophone, tous hispanophones, craignent quelque peu sa politique étrangère. Le développement du Brésil lusophone a suscité une sorte de réaction instinctuelle chez les géopolitologues latino-américains d'expression castillane: tous ont craint ou craignent un leadership brésilien, attitude patente dans les années de 1930 à 1970. La pensée géopolitique brésilienne repose essentiellement sur les expériences acquises au cours de l'histoire. Il semble que la géopolitique brésilienne s'oriente selon trois axes majeurs:

 

- elle met l'accent sur la sécurité nationale et cherche à se donner une position de force dans la région et sur le continent.

- les géopolitologues brésiliens ont souvent mis l'accent sur l'industrialisation, la colonisation et le développement des régions excentrées du pays.

- l'objectif majeur de ces géopolitologues a été d'atteindre le statut de grande puissance au moins pour l'horizon 2000.

 

La géopolitique en Amérique du Sud repose surtout sur la dimension physique du continent: les Andes et les chaînes de montagne, les plateaux et les bassins des trois grands fleuves (l'Orénoque dans le Nord, l'Amazone au centre et le Rio de la Plata dans le Sud). Le Plateau bolivien a été considéré par quelques géopolitologues sud-américains comme le heartland de leur continent, selon la terminologie de Mackinder. Un géopolitologue, ambassadeur des Etats-Unis, Lewis A. Tambs (1) a un jour paraphrasé Mackinder comme suit, à propos de la Bolivie: «Celui qui tient Santa Cruz, contrôle Charcas. Qui tient Charcas, tient le heartland. Qui tient le heartland, contrôle l'Amérique du Sud».

 

L'ambassadeur Tambs concluait ses raisonnements par une question: «Pourquoi la Bolivie ne contrôle-t-elle pas le continent?». La raison de ce non-contrôle, c'était, bien sûr, que la Bolivie ne contrôlait pas les ressources, au contraire de la Russie en Eurasie, et ne pouvait dès lors pas dominer. Donc, il semble plus pertinent aujourd'hui d'émettre l'hypothèse que le Plateau Brésilien détient une importance capitale dans la région et devrait plutôt être, lui, considéré comme le heartland  du continent. On le considère aussi souvent comme le “centre de gravité” du Brésil.

 

Les travaux d'Everardo Backheuser

 

Quand la géopolitique brésilienne a commencé à prendre forme dans les années 20, elle s'est inspirée de son homologue allemande. Le géopolitologue qui introduisit la géopolitique au Brésil, Everardo Backheuser, était un élève du géopolitologue suédois Rudolf Kjellén, tout comme Karl Haushofer lui-même. Les quatre thématiques majeures de la géopolitique brésilienne ont été:

- la location stratégique du Brésil;

- un souci constant de maintenir et de défendre l'intégrité territoriale et les frontières nationales;

- un désir constant d'accéder au Pacifique (la dite “Projection continentale”);

- le développement du pays et l'intégration nationale comme bases pour accéder au statut de grande puissance.

 

Backheuser était un civil, un professeur. Il fut le premier à étudier les théories géopolitiques européennes et à les interpréter au service de la géopolitique brésilienne. Son premier ouvrage s'intitulait A Estrutura politica do Brasil - Notas Previas (1925). Avec ce livre, le Brésil peut être considéré comme un pays pionnier dans l'interprétation des thèses de Rudolf Kjellén. En 1933, il poursuit son œuvre avec Problemas do Brasil. Dans les années 40, Backheuser avait atteint son but: la géopolitique était devenue un sujet d'interrogation commun dans tout le Brésil. En 1944-45, il enseigne à l'Institut Etranger. En 1947-48, à l'Institut Culturel Brésilien. En 1948, l'Université Catholique Pontificia crée pour lui une “chaire de géopolitique”. En 1952, son ouvrage le plus connu sort de presse. Il s'intitule Curso de Geopolitica geral e do Brasil, et résume l'ensemble de ses idées.

 

Frontières vivantes et mortes

 

Pour Backheuser, le Brésil affronte trois problèmes majeurs d'ordre géopolitique: celui posé par la qualité de l'espace brésilien, celui posé par le site de la capitale, celui posé par la division territoriale du pays. Pour ce qui concerne les frontières, Backheuser considérait qu'elles étaient toujours marquées par l'instabilité dans le monde moderne. Cette instabilité était la résultante de la force et de la volonté. Il a inventé un “quotient de pression”: P = VF (où P = la pression géopolitique latente qui s'exerce sur une frontière, V = le taux de vitalité d'une nation et F = la force matérielle que peut déployer l'Etat pour rompre la barrière constituée par une frontière). La population ne constitue qu'un des facteurs dans l'index V. Backheuser énonça également trois hypothèses sur les frontières “vivantes” et les frontières “mortes”:

- Hypothèse n°1: là où deux zones frontalières “mortes” se joignent, il est peu probable qu'une pression s'exercera. La frontière restera donc stable.

- Hypothèse n°2: là où deux zones frontalières “vivantes” se touchent, il est probable que survienne une friction. La nation la plus forte sur le plan militaire l'emportera, du moins si elle est capable de se défendre aussi sur le plan diplomatique.

- Hypothèse n°3: là où une frontière “vivante” rencontre une frontière “morte”, l'Etat dont dépend la frontière “morte” risque d'être envahi par son voisin, dont la frontière est “vivante”, donc dynamique et expansive.

 

Une frontière “vivante” est une frontière occupée par une population vivante, en pleine expansion démographique, jeune et agressive. Une frontière “morte” ne l'est pas. Sur base de cette distinction, Backheuser a élaboré des lois géopolitiques, proches des notions mises au point par Friedrich Ratzel:

- La “loi de la volonté” repose sur le présupposé que le tracé de la frontière découle d'un acte de volonté, posé par des Etats en compétition les uns avec les autres.

- La “loi de l'équilibre dynamique” signifie qu'une frontière n'est stable que parce qu'elle est l'expression d'un équilibre dynamique.

- La “loi de friction” démontre qu'une zone frontalière est toujours par définition une zone de friction; et finalement:

- La “loi de pression” tend à prouver que la pression exercée sur les frontières est une fonction combinant la vitalité relative des adversaires et les éléments de force disponibles (P=VF).

 

Revitalisation des frontières

 

Historiquement parlant, les frontières brésiliennes se sont étendues considérablement à l'époque coloniale. Pendant la monarchie, elles ont été régularisées; plus tard, elles ont été juridiquement fixées et ont servi de fait à démarquer des territoires. Finalement, pendant les années 50, on a assisté à un processus de revitalisation des frontières brésiliennes. Les conclusions du Prof. Backheuser ont été les suivantes: le Brésil doit revitaliser ses frontières afin de préserver le territoire de la nation. Cela signifier peupler les campagnes, explorer les zones inhabitées et industrialiser. En bref, cela implique une “marche vers l'Ouest”, finalement peu différente de celle qui a marqué l'histoire des Etats-Unis au XIXième siècle.

 

La géopolitique de Mario Travassos

 

Autre pionnier de la géopolitique au Brésil: Mario Travassos. Ses idées ont marqué l'“Escola de Estado Maior do Exercito” (L'école de l'état-major de l'armée), jusqu'en 1950. Dans son premier ouvrage important, Projeção Continental do Brasil,  Travassos affirme que le Brésil doit se développer selon un axe Est-Ouest et pas seulement le long de la côte atlantique. La seconde édition de son livre date de 1935. Comme Tambs, il reconnaît l'importance d'une domination du Plateau Bolivien. Il a plaidé pour que la Bolivie obtienne un accès à l'Atlantique via le Brésil, mais, à titre de réciprocité, il espérait que le Brésil reçoive un accès aux ports du Pacifique détenus par le Chili et le Pérou. L'influence de Travassos dans les milieux militaires démontre clairement le lien entre la pensée géopolitique brésilienne et l'éducation des officiers de l'armée. Ce lien allait devenir encore plus évident dans les années 60.

 

La géopolitique de Golbery do Couto e Silva

 

Le géopolitologue qui a eu la plus grande influence au Brésil après la seconde guerre mondiale a sans doute été Golbery do Couto e Silva. C'était un officier servant dans l'état-major du Collège National de Guerre. Plus tard, après la révolution de 1964, il a fait partie de tous les gouvernements, sauf un. Ses théories ont dès lors pu être mises à l'épreuve du réel, surtout dans le domaine du développement économique du Brésil.

 

Son premier ouvrage, Aspectos geopoliticos do Brasil (1952), a été réédité ultérieurement, accompagné de plusieurs essais complémentaires, tels Geopolitica do Brasil. En 1955, il publie Planejamento estrategico. Ses travaux étaient souvent un mixte de théories pragmatiques et de visions mystiques. Il a défini la science géopolitique comme suit: «La géopolitique est avant toutes choses un art, un art lié à celui de la politique et, en particulier, à la stratégie et à la politique de la sécurité nationale. Elle cherche à orienter tous ces arts, à la lumière des faits géographiques propres aux espaces organisés politiquement et divergeant par l'action des hommes. Les fondements de la géopolitique s'enracinent dans la géographie politique, mais la géopolitique consiste surtout en propositions et projections, qui induisent une dynamique tournée vers l'avenir. Les perspectives offertes par la géopolitique étant très nombreuses, elle se manifeste sous des formes très différentes, elle englobe tous les faits de la politique, de l'économie et de la culture qui touchent l'Etat, elle déborde inévitablement dans d'autres domaines du savoir, comme l'histoire, la psychologie, la sociologie et, bien sûr, la stratégie militaire...» (2).

 

Les principales thématiques des travaux de Golbery traduisent véritablement les théories de la géopolitique en plans d'action gouvernementaux concrets, visant le développement du territoire brésilien. Golbery s'était fait évidemment l'avocat de l'intégration du Brésil occidental dans le reste du pays (la façade atlantique). Il visait surtout le développement de la vaste aire amazonienne. Les analyses de Golbery débouchent sur des projets nationaux concrets visant à bien situer le Brésil dans le cadre du continent sud-américain et dans le monde. Le Brésil, écrit Golbery, fait partie de la civilisation occidentale et doit contribuer à la défense de l'hémisphère occidental. Pour garantir la sécurité de cet hémisphère occidental contre ce que Golbery appelle l'“hémicycle extérieur”, soit l'URSS, il faut contrôler les continents africain et antarctique, de même que les îles du Pacifique, car l'Afrique occidentale, l'Amérique du Sud et l'Antarctique étaient, selon Golbery, des objectifs de l'expansionisme soviétique.

 

La géopolitique du Général Carlos de Meira Mattos

 

Bon nombre d'experts estiment que le Général Carlos de Meira Mattos a été le successeur de Golbery; c'est lui qui est devenu le principal des géopolitologues brésiliens. Meira Mattos s'intéresse lui aussi au développement du pays. Dans son premier livre, Projeção mundial do Brasil (1960), il exprime son souhait: le Brésil, avec son vaste espace, sa nationalité et sa position stratégique détient tous les atouts pour devenir une puissance mondiale. Il était important, aux yeux de Meira Mattos, de rester fidèle à l'Occident. Le Brésil contrôle d'importantes routes maritimes, mais avait besoin de construire à grande échelle des liaisons terrestres, notamment des routes. La mission de l'élite brésilienne était la suivante: faire du pays une puissance mondiale en l'espace d'une génération.

 

Dans Brasil - Geopolitica e Destino (1975), Meira Mattos résume ses idées. Il commence par une analyse des différentes écoles et théories de la géopolitique. Ses faveurs vont aux notions élaborées par le Français Vidal de la Blache: «la géographie est le destin». C'est donc la géographie qui fournit des solutions à la destinée des peuples. Les pays dont les formes sont compactes, à l'instar du Brésil et de la France, dégagent une supériorité en matière géopolitique. De telles formes facilitent la centralisation de l'administration politique, le commerce intérieur et la défense militaire. Le Brésil, selon Meira Mattos, détient les cinq attributs de la puissance: dimension géographique, population, possession de ressources naturelles, capacités scientifiques et technologiques et cohésion interne. Meira Mattos cite comme exemple le “Plan de Développement National” de 1975-79, qui prouve que le Brésil est bien décidé à devenir une nation développée en l'espace d'une seule génération.

 

Avec A Geopolitica e as projeções do poder (1977), il développe ses idées relatives aux efforts brésiliens pour atteindre le statut de puissance mondiale. A cette époque, il était le directeur de l'“Inter-American Defence College”. Il pensait que la modernisation était le moyen d'atteindre l'objectif, c'est-à-dire le développement. En pratique, il faut créer sur le territoire brésilien sept “zones intérieures d'échanges frontaliers”. Ces sept zones doivent être reliées par des voies routières de transport et par des réseaux de communication à toutes les autres régions du pays. Ces zones se situent entre les Guyanes au Nord et le Bassin de la Plata au Sud.

 

La théorie du “stimulus maritime”

 

Pour le Brésil, le “stimulus maritime” est également important. Pendant des siècles, la mer a été le lien vital qui reliait le Brésil au reste du monde. Meira Mattos appelle de ses vœux une “Communauté de Défense du Cône Sud”, incluant le Brésil, l'Argentine, le Paraguay, l'Uruguay et le Chili, afin de protéger la route du Cap empruntée par les pétroliers et par les navires des pays sud-américains. Ultérieurement, cette communauté devra s'étendre aux pays du Sud de l'Afrique, à l'Australie, la Nouvelle-Zélande et l'Indonésie. Le concept central de sa géopolitique est la notion de “puissance nationale”. Il cite la définition qu'en donne le Collège National de Guerre: “La puissance nationale est l'expression de tous les moyens à la disposition des nations à un moment donné afin qu'elles puissent promouvoir à l'intérieur comme à l'extérieur leurs objectifs nationaux, en dépit des oppositions» (3).

 

Dans sa conclusion, il écrit: «Nous voulons sauver le pays du marais du sous-développement et l'élever au niveau d'une société stable et avancée». Cet objectif doit être atteint pour l'an 2000, avec une amélioration du niveau de l'enseignement, avec des progrès substantiels aux niveaux de la société et de la technologie, avec un accroissement du PNB, avec des réformes sociales et une stimulation de l'esprit national au départ de la sphère culturelle.

 

La géopolitique panamazonienne

 

Uma geopolitica pan-amazonica, livre publié en 1980, est une étude géopolitique visant le développement intégré de la grande sous-région amazonienne, selon les stipulations du Pacte Amazonien de 1978. Si la partie brésilienne du Bassin amazonien réussit son développement, l'entièreté du Bassin pourra ultérieurement être développé. 69% de la zone, soit deux cinquièmes du continent, appartiennent au Brésil. Le reste appartient aux Guyanes, à la Bolivie, à la Colombie, à l'Equateur, au Pérou et au Vénézuela.

 

Therezina de Castro et l'orientation antarctique

 

Therezina de Castro, géographe et historienne, présente en 1956 sa théorie de la defrontação. Elle repose sur la revendication pour le Brésil et les autres pays sud-américains de certaines portions du continent antarctique, faisant face au continent sud-américain. Ces territoires antarctiques devraient appartenir à ces pays. Dans cette optique, le Brésil devrait recevoir une zone antarctique située entre le 28° et le 53° degrés de longitude ouest. En 1975, le Brésil a adhéré au Traité de l'Antarctique afin de se garantir une présence sur ce continent de glaces. Dans son livre Rumo a Antàrtica (1976), Therezina de Castro propose une “orientation antarctique” pour le Brésil. D'un point de vue géostratégique, la défense de l'Amérique du Sud est surtout maritime, explique-t-elle. Le Brésil possède le plus long littoral atlantique de tous les Etats sud-américains. L'Antarctique est une base naturelle pour la défense de l'Atlantique Sud.

 

Parmi les objectifs des géopolitologues brésiliens, il y avait l'éducation des élites du pays. Les universités brésiliennes ont donc proposé divers cours de géopolitique. En 1949, l'“Institut Brésilien de Géopolitique” est mis sur pied. De même, depuis 1949, l'“Escola Supérior de Guerra” (ESG/Ecole Supérieure de Guerre) a formé ses élèves aux matières géopolitiques. Cette école est dirigée par l'Etat-major général des armées. Elle offre trois niveaux de formation. Elle prépare les citoyens et le personnel militaire à l'art du commandement, à la manière de donner des conseils en tous domaines et en toutes organisations. Elle forme également les officiers de l'armée à remplir des missions de haut niveau, dans un cours organisé par l'Etat-major. Enfin, un cours par correspondance permet aux diplômés de suivre les dernières mises à jour des matières qui leur ont été enseignées. L'ESG semble être l'équivalent brésilien de la Försvarshögskola  suédoise et des écoles de guerre des autres pays, mais, en plus, elle constitue un véritable think tank et développe un réseau d'information à l'usage de ses “anciens”.

 

Il existe également une association regroupant les diplômés de l'ESG, l'Associação dos Diplomados da Escola Superior de Guerra (ADESG). Cette organisation véhicule le message géopolitique de l'ESG, de même que les enseignements que cette école donne dans d'autres disciplines; elle s'adresse à plus de 25.000 membres dans les couches dirigeantes du Brésil, qui ont demandé à suivre les cours de l'ESG mais n'ont pas pu y accéder, vu le nombre réduit de places dans les classes de l'école. Parmi les instruments de l'ADESG, citons la revue Segurança e desenvolvimento (Sécurité et développement). On enseignait toujours la géopolitique à l'ESG dans les années 80, mais on lui accordait moins d'importance que dans les années 50, 60 et 70.

 

La géopolitique dans les écoles militaires

 

D'autres institutions prodiguent également des cours de géopolitique: les écoles militaires, l'“Institut Rio Branco” (Service étranger) et quelques universités. Pourtant l'âge d'or de l'enseignement de la géopolitique et de la bonne vulgarisation de cette discipline à l'intention du grand public est passé: c'était dans les années 50 et 60 (la période culminante a été 1958-64). Depuis la révolution de 1964, la géopolitique semble avoir été institutionalisée, mais, en même temps, elle a perdu de son aura. Publication importante dans la diffusion des thèses géopolitiques: A defesa nacional, revue de l'“Escola de Comando e Estado-Maior” (ECEME).

 

Depuis 1964, la sécurité et le développement ont constitué les deux principaux objectifs des gouvernements brésiliens. Quand les gouvernements civils ont pris le relais à partir des années 80, la dimension “sécurité” a perdu du terrain. Néanmoins, elle demeure présente, signifiant simultanément organisation militaire et sécurité intérieure; elle vise la défense des frontières du pays et la défense de l'ordre intérieur afin d'assurer un développement harmonieux. Le développement à pour but d'accroître la puissance du pays et donc d'augmenter le degré de sécurité nationale. Depuis 1972, le Brésil publie régulièrement des Plans pour le développement national. Ces plans recèlent des objectifs d'ordre géopolitique et constituent une application concrète des théories de la géopolitique mais ne font pas directement usage d'une terminologie géopolitique. En revanche, d'autres plans de développement y font plus directement référence, comme, par exemple, les plans du Transport national ou les politiques énergétiques.

 

Des accords bilatéraux à la lumière de la géopolitique

 

Dans le domaine de la politique étrangère, les idées géopolitiques se retrouvent en filigrane dans les accords bilatéraux signés avec la Bolivie, le Paraguay et l'Uruguay. Les idées de Golbery ont eu une postérité. De vastes zones de l'Ouest du pays ont été intégrées à la nation brésilienne. Le pays travaille à intégrer sur une vaste échelle le Bassin de l'Amazonie. Des connections ferroviaires, des grandes routes et des réseaux de communication ont contribué à réaliser cette “projection continentale”. Des projets de développement communs à plusieurs nations font partie de ce vaste projet: par exemple, le projet hydroélectrique Itaipu avec le Paraguay et le projet de développement Lagoa Mirim avec l'Uruguay, accompagné d'un réseau routier.

 

Le Brésil est probablement le pays d'Amérique du Sud (et du monde!) où les liens entre les théories et la pratique de la géopolitique sont les plus évidents. Entre 1949 et 1964, la géopolitique a bénéficié du statut de théorie officielle nationale de sécurité et de développement au Brésil. Même si l'âge d'or de la géopolitique au Brésil est passé, ces théories influencent encore et toujours la politique du pays et continueront à le faire au 21ième siècle.

 

Bertil HAGGMAN.

(trad. fr. de: «Geopolitics in South America, Part II, Brazil», Paper no. 5, Helsingborg 1989).

samedi, 27 mars 2010

Young Turks - The Ally That Isn't

Srdja Trifkovic:

Young Turks

The Ally That Isn't

Ex: http://www.alternativeright.com/

erdogan%20gul.jpgInside the Beltway, the fact that Turkey is no longer an "ally" of the United States in any meaningful sense is still strenuously denied. We were reminded of the true score on March 9, however, when Saudi King Abdullah presented Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdogan with the Wahhabist kingdom's most prestigious prize for his "services to Islam." Erdogan earned the King Faisal Prize for having "rendered outstanding service to Islam by defending the causes of the Islamic nation, particularly the Palestinian cause," said Abd Allah al-Uthaimin of the prize-awarding group.

Services to the Ummah

Turkey under Erdogan's neo-Islamist AKP has rendered a host of other services to "the Islamic nation." In August 2008 Ankara welcomed Mahmoud Ahmadinejad for a formal state visit, and last year it announced that it would not join any sanctions aimed at preventing Iran from acquiring nuclear weapons. In the same spirit the AKP government repeatedly played host to Sudan's President Omer Hassan al-Bashir -- a nasty piece of jihadist work if there ever was one -- who stands accused of genocide against non-Muslims. Erdogan has barred Israel from annual military exercises on Turkey's soil, but his government signed a military pact with Syria last October and is conducting joint military exercise with the regime of Bashir al-Assad. Turkey's strident apologia of Hamas is more vehement than anything coming out of Cairo or Amman. (Talking of terrorists, Erdogan has stated, repeatedly, "I do not want to see the word 'Islam' or 'Islamist' in connection with the word 'terrorism'!")

Simultaneous pressure to conform to Islam at home has gathered pace over the past seven years, and is now relentless. Turkish businessmen will tell you privately that sipping a glass of raki in public may hurt their chances of landing government contracts; but it helps if their wives and daughters wear the hijab.

Ankara's continuing bid to join the European Union is running parallel with its openly neo-Ottoman policy of re-establishing an autonomous sphere of influence in the Balkans and in the former Soviet Central Asian republics. Turkey's EU candidacy is still on the agenda, but the character of the issue has evolved since Erdogan's AKP came to power in 2002.

When the government in Ankara started the process by signing an Association agreement with the EEC (as it was then) in 1963, its goal was to make Turkey more "European." This had been the objective of subsequent attempts at Euro-integration by other neo-Kemalist governments prior to Erdogan's election victory eight years ago, notably those of Turgut Ozal and Tansu Ciller in the 1990s. The secularists hoped to present Turkey's "European vocation" as an attractive domestic alternative to the growing influence of political Islam, and at the same time to use the threat of Islamism as a means of obtaining political and economic concessions and specific timetables from Brussels.

Erdogan and his personal friend and political ally Abdullah Gul, Turkey's president, still want the membership, but their motives are vastly different. Far from seeking to make Turkey more European, they want to make Europe more Turkish -- many German cities are well on the way -- and more Islamic, thus reversing the setback of 1683 without firing a shot.

The neo-Ottoman strategy was clearly indicated by the appointment of Ahmet Davutoglu as foreign minister almost a year ago. As Erdogan's long-term foreign policy advisor, he advocated diversifying Turkey's geopolitical options by creating exclusively Turkish zones of influence in the Balkans, the Caucasus, Central Asia, and the Middle East... including links with Khaled al-Mashal of Hamas. On the day of his appointment in May Davutoglu asserted that Turkey's influence in "its region" will continue to grow: Turkey had an "order-instituting role" in the Middle East, the Balkans and the Caucasus, he declared, quite apart from its links with the West. In his words, Turkish foreign policy has evolved from being "crisis-oriented" to being based on "vision": "Turkey is no longer a country which only reacts to crises, but notices the crises before their emergence and intervenes in the crises effectively, and gives shape to the order of its surrounding region." He openly asserted that Turkey had a "responsibility to help stability towards the countries and peoples of the regions which once had links with Turkey" -- thus explicitly referring to the Ottoman era, in a manner unimaginable only a decade ago: "Beyond representing the 70 million people of Turkey, we have a historic debt to those lands where there are Turks or which was related to our land in the past. We have to repay this debt in the best way."

This strategy is based on the assumption that growing Turkish clout in the old Ottoman lands -- a region in which the EU has vital energy and political interests -- may prompt President Sarkozy and Chancellor Merkel to drop their objections to Turkey's EU membership. If on the other hand the EU insists on Turkey's fulfillment of all 35 chapters of the acquis communautaire -- which Turkey cannot and does not want to complete -- then its huge autonomous sphere of influence in the old Ottoman domain can be developed into a major and potentially hostile counter-bloc to Brussels. Obama approved this strategy when he visited Ankara in April of last year, shortly after that notorious address to the Muslim world in Cairo.

Erdogan is no longer eager to minimize or deny his Islamic roots, but his old assurances to the contrary -- long belied by his actions -- are still being recycled in Washington, and treated as reality. This reflects the propensity of this administration, just like its predecessors, to cherish illusions about the nature and ambitions of our regional "allies," such as Saudi Arabia and Pakistan.

The implicit assumption in Washington -- that Turkey would remain "secular" and "pro-Western," come what may -- should have been reassessed already after the Army intervened to remove the previous pro-Islamic government in 1997. Since then the Army has been neutered, confirming the top brass old warning that "democratization" would mean Islamization. Dozens of generals and other senior ranks -- traditionally the guardians of Ataturk's legacy -- are being called one by one for questioning in a government-instigated political trial. To the dismay of its small Westernized secular elite, Turkey has reasserted its Asian and Muslim character with a vengeance.

Neo-Ottomanism

Washington's stubborn denial of Turkey's political, cultural and social reality goes hand in hand with an ongoing Western attempt to rehabilitate the Ottoman Empire, and to present it as almost a precursor of Europe's contemporary multiethnic, multicultural tolerance, diversity, etc, etc.

In reality, four salient features of the Ottoman state were institutionalized discrimination against non-Muslims, total personal insecurity of all its subjects, an unfriendly coexistence of its many races and creeds, and the absence of unifying state ideology. It was a sordid Hobbesian borderland with mosques.

An "Ottoman culture," defined by Constantinople and largely limited to its walls, did eventually emerge through the reluctant mixing of Turkish, Greek, Slavic, Jewish and other Levantine lifestyles and practices, each at its worst. The mix was impermanent, unattractive, and unable to forge identities or to command loyalties.

The Roman Empire could survive a string of cruel, inept or insane emperors because its bureaucratic and military machines were well developed and capable of functioning even when there was confusion at the core. The Ottoman state lacked such mechanisms. Devoid of administrative flair, the Turks used the services of educated Greeks and Jews and awarded them certain privileges. Their safety and long-term status were nevertheless not guaranteed, as witnessed by the hanging of the Greek Orthodox Patriarch on Easter Day 1822.

The Ottoman Empire gave up the ghost right after World War I, but long before that it had little interesting to say, or do, at least measured against the enormous cultural melting pot it had inherited and the splendid opportunities of sitting between the East and West. Not even a prime location at the crossroads of the world could prompt creativity. The degeneracy of the ruling class, blended with Islam's inherent tendency to the closing of the mind, proved insurmountable.

A century later the Turkish Republic is a populous, self-assertive nation-state of over 70 million. Ataturk hoped to impose a strictly secular concept of nationhood, but political Islam has reasserted itself. In any event the Kemalist dream of secularism had never penetrated beyond the military and a narrow stratum of the urban elite.

The near-impossible task facing Turkey's Westernized intelligentsia before Erdogan had been to break away from the lure of irredentism abroad, and at home to reform Islam into a matter of personal choice separated from the State and distinct from the society. Now we know that it could not be done. The Kemalist edifice, uneasily perched atop the simmering Islamic volcano, is by now an empty shell.

* * *

A new "Turkish" policy is long overdue in Washington. Turkey is not an "indispensable ally," as Paul Wolfowitz called her shortly before the war in Iraq, and as Obama repeated last April. It is no longer an ally at all. It may have been an ally in the darkest Cold War days, when it accommodated U.S. missiles aimed at Russia's heartland. Today it is just another Islamic country, a regional power of considerable importance to be sure, with interests and aspirations that no longer coincide with those of the United States.

Both Turkey and the rest of the Middle East matter far less to American interests than we are led to believe, and it is high time to demythologize America's special relationships throughout the region. Accepting that Mustafa Kemal's legacy is undone is the long-overdue first step.

Srdja Trifkovic

Srdja Trifkovic

Srdja (Serge) Trifkovic, historian and foreign affairs analyst, is the author of seven books -- including a best-seller, "The Sword of the Prophet" -- and former foreign affairs editor of "Chronicles" (1998-2009). He is a regular contributor to print and broadcast media outlets in Europe and all over the English-speaking world.

Il male atlantista

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Il male atlantista

di Fabio Falchi

Fonte: fabiofalchicultura

 

L'egemonia americana è conquistata in ambito culturale: è per questo che oltre alla critica socioeconomica, c'è bisogno di una "battaglia culturale".



Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

anti_nato_tshirt.jpgE' noto che il filosofo tedesco Carl Schmitt, interpretando la famosa tesi di von Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ritiene che la politica sia, in un certo senso, la continuazione della guerra con altri mezzi. Categorie decisive per comprendere il Politico sarebbero pertanto due: amico o nemico. Una visione del Politico certamente realistica, che forse ha il difetto di fondarsi, in parte, su una antropologia tutt'altro che convincente come quella di Hobbes, poiché Schmitt condivide l'idea del filosofo inglese secondo cui "auctoritas non veritas facit legem". Il che implica che "auctoritas" sia contrapposta, e non solo distinta, da "veritas"; ossia un'idea che pare trascurare il nesso tra "cosmo" ("veritas") ed agire rettamente orientato ("auctoritas", diversa dalla mera potenza, dalla "potestas" che è la facoltà di imporre la propria volontà mediante la legge), che rende ragione del fatto che Roma (della cui efficienza politica e militare nessuno può seriamente dubitare) fosse sempre attenta a seguire una linea politica conforme alla propria "tradizione" ed a ciò che, ad esempio, gli stoici (non a caso, perlopiù, difensori della concezione imperiale romana) consideravano l'ordine divino del mondo.


Ciononostante, la dicotomia amico vs nemico ha il pregio di farci comprendere sia la dimensione conflittuale che di necessità contraddistingue il Politico, sia che lo Stato è essenzialmente un "campo di forze", il cui equilibrio dipende in ultima analisi dalla capacità di una classe dirigente di usare "misure e proporzioni" largamente condivise e (senza che sia esclusa la possibilità di un ricambio dei membri della élite, né di una partecipazione del popolo alla gestione degli affari pubblici, secondo forme e gradi differenziati) tali da impedire, da un lato, il formarsi tra i "governati" di gruppi così forti da poter mutare l'equilibrio (inteso come la "forma attuale" dello Stato) a loro favore; e, dall'altro, che questo equilibrio venga mutato da entità politiche "esterne", che possono essere Stati, ma anche potentati economici. Anzi, oggi pare siano proprio questi ultimi, con tutte le loro "diramazioni" (fondazioni, think tanks etc.) ad esercitare la maggiore pressione sui singoli Stati nazionali , in modo da determinarne o condizionarne gravemente la politica. Sì che la funzione dei partiti sembra essere quella di non consentire, proprio con il meccanismo delle elezioni "democratiche", ai governati di partecipare effettivamente alla vita politica ed economica del proprio Paese e, riguardo ai popoli europei, in particolare, di prendere coscienza dell'alienazione allo "straniero" della propria "sovranità". Tuttavia, è impossibile trascurare il ruolo fondamenatle che l'America, in quanto Stato, svolge non solo in Occidente ma su scala planetaria , nonostante la crisi del modello unipolare che gli americani hanno cercato di realizzare dopo il crollo dell'Urss (con il pressoché totale e servile consenso dell'Europa). Una crisi dovuta soprattutto all'emergere di nuove potenze quali la Cina e l'India, alla "nuova" Russia di Putin e alla resistenza coraggiosa di altri Paesi, come, ad esempio, l'Iran e il Venezuela (e adesso, per fortuna, anche la Turchia di Erdogan).


E' essenziale quindi comprendere il rapporto tra i "poteri forti" e la politica statunitense, essendo evidente che, comunque sia, vi è ancora necessità di un apparato statale (per motivi militari, ma anche socali, giuridici, di cultura politica, di comunicazione etc.) per occupare "posizioni dominanti" sul piano politico ed economico a livello mondiale. Senza un "potere statale forte", che avalli, sostenga, promuova l'azione dei "privati", nessun "potere forte" sarebbe possibile. Se ciò spiega la lotta tra le varie e più potenti lobbies per assicurarsi il controllo della macchina statale americana, non pregiudica però in alcun modo, piuttosto la rafforza, la "logica di sistema" che caratterizza tanto la politica interna (governo/lobbies vs popolo/cittadini) quanto la politica estera (Usa/lobbies vs altri Paesi, divisi in "amici o nemici"), sia pure con tutti i doverosi distinguo. E' alla luce di questo schema che si può capire, a mio avviso, la rilevanza della lobby ebraica internazionale (si badi, "non" gli ebrei in generale, altrimenti si confonde il tutto con la parte, con conseguenze deleterie, facilmente immaginabili) e la "copertura" quasi assoluta di cui gode ormai Israele, che si può perfino permettere di ricattare gli Usa; tanto che non è esagerato affermare che talvolta "la coda può muovere il cane". Certo gli Usa non sono un'appendice di Israele, né vi è una sola lobby che conti in America. Ma la lobby ebraica, grazie alle sue "ramificazioni multinazionali", è di fatto l'unica che può garantire l'unità di azione a "livello sistemico" dell'imperialismo economico americano e del "mercato globale" (che altro non sono che due facce della stessa medaglia), vuoi perché "attiva"nei gangli vitali di ogni Paese occidentale , vuoi perché è riuscita ad ottenere una vera e propria egemonia culturale, che consente all'atlantismo di presentarsi come la sola espressione dell'humanitas, come unico veicolo di civiltà contro ogni forma di barbarie, nonché come vero erede della cultura europea. Una egemonia culturale che si è imposta facilmente in Europa dopo la definitiva sconfitta del comunismo, considerato anch'esso, come il nazismo, il fascismo ed ora pure l'islamismo, il nemico del genere umano, il "male".
Il fatto è che troppo spesso i crtiici dell'imperialismo americano tendono a sottovalutare gli aspetti propriamente culturali, per concentrarsi esclusivamente su quelli economici e/o politici. Ed è invece questa egemonia culturale, estremamente articolata e "pervasiva", che può "legittimare" la subalternità delle classi dirigenti europee alle direttive atlantiste agli occhi delle masse e perfino agli occhi degli "scettici". In questi ultimi decenni si è addirittura assistito alla nascita di una sorta di nuova "religione", superiore a tutte le altre, la cosiddetta "religio holocaustica", fondata sull'assoluto divieto di studiare anche la persecuzione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale secondo una metotologia scientifica . Chi infrange questo divieto o perfino chi si limita a criticarlo pubblicamente rischia il carcere (in Germania, Austria e Svizzera) oppure, se vive in Francia, una sanzione economica, ma viene comunque sempre "messo al bando"( si viene espulsi dall'Università, licenziati, messi alla gogna, denigrati dai mass media senza avere la possibilità di difendersi etc.). Una "religio" che ha i suoi dogmi, i suoi riti, i suoi sacerdoti, i suoi zelanti servitori e i suoi, più o meno in malafede, fedeli. E che è l'altra faccia dell'atlantismo: simul stabunt simul cadent.
Infatti, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo si può "rappresentarla" come la lotta tra il bene e il male, tra la Grande Israele e gli Imperi del male o gli Stati canaglia, solo se la si interpreta mediante uno schema a priori, che fornisca la "regola" per "ordinare e sistemare" gli eventi, in modo da invalidare ogni critica al "sistema" in quanto tale. Democrazia liberale di tipo angloamericano, liberismo, "culto" del mercato, "fede" nella tecno-scienza, diritti universali "ricalcati "su quelli made in Usa, american way of living devono essere esportati in tutto il mondo anche con la forza, non perché si ha la possibilità di farlo, ma perché è "giusto" farlo e se non vi è ancora la capacità di farlo ovunque, ci se ne dovrebbe rammaricare. Insomma, il "sistema" non funziona o non funziona "bene" senza il consenso delle masse (poco importa che sia un consenso passivo). Perciò occorrono "persuasori" (ma non "occulti", sebbene ci siano, ovviamente, anche questi ) e "cultura" che persuada, che "formi" (si pensi alla scuola , all'Università ed ai mass media) ed in-formi, che orienti e che (questa sì!) soprattutto "occulti". Il vero potere lo si detiene quando si può fare a meno di usare il bastone (che pur si deve avere e meglio se è un "grosso bastone"). Per questo motivo è necessaria l'egemonia culturale. Anche se, o meglio proprio perché non è la nostra "cultura", ma la "cultura" del mercante occidentale, del suo denaro e delle sue banche che ci viene imposta, in quanto il giudeo-cristianesimo sarebbe la "radice"dell'Europa (tesi che è ben differente dal riconoscere che il cristianesimo - nelle sue molteplici e contraddittorie "voci" - è stato la lingua spirituale - "sincretistica", per così dire - dell'Europa durante il Medioevo). Da ciò, tra l'altro, consegue che la civiltà classica, greca e romana, non la si debba "vedere" se non attraverso il prisma del giudeo-cristianesimo e che vi sia netta separazione ed opposizione tra Oriente (la "Terra") e Occidente (il "Mare"). Si vuole così ignorare non solo che Occidente è una parola che da (relativamente ) poco tempo designa la civiltà europea, ma che l'Europa è la "Terra di Mezzo", la "congiunzione fra Terra e Mare". Una congiunzione, una "e", che invece ci indica , contrariamente a quanto ritengono gli atlantisti, da dove proveniamo e dove dovremmo far ritorno, "risalendo" al nostro autentico "inizio", ora che il "Mare" minaccia di sommergerci.
Nulla di più "incapacitante" allora di una critica del capitalismo che prescinda dai "fattori culturali" o che, fraintendendo radicalmente il "senso" del legame sociale, li intenda come "semplice" sovrastruttura della struttura economica. Il capitalismo è un "ismo", un modo di agire e pensare che "fa si-stema", in cui, appunto, "tutto si tiene". Ma si "tiene" secondo la logica dello "sradicamento", della negazione delle "differenze", per veicolare l'ideologia della "merce", dell'equivalenza universale delle "cose" e delle persone ( la "cosificazione" o mercificazione che dir si voglia), dell'astrazione quantitativa che dissolve ogni "esperienza"del tempo qualitativo, non lineare ed uniforme, e dello spazio gerarchicamente orientato. Il che spiega perché tanto più emerge la consapevolezza che la "secolarizzazione" del giudaismo (di cui lo stesso sionismo è un effetto) e del cristianesimo, al di là di ogni considerazione sugli aspetti "sapienziali e tradizionali" certamente presenti in entrambe le religioni, è a fondamento della modernità, vale a dire delle condizioni sociali e culturali per la nascita del capitalismo, nel senso stretto del termine, tanto più diventa evidente il ruolo preponderante, sotto qualsisi profilo, della "forma mentis" dell'homo oeconomicus ed il progressivo adeguarsi della cultura occidentale agli "schemi concettuali" propri del "mercante errante", senza "oikos" ed "abitatore" del tempo.
Se vi è dunque la necessità di decifrare, di volta in volta, l'azione delle lobbies atlantitste (non necessariamente americane) per smascherare i reali obiettivi della politica degli Usa, mostrandone le mistificazioni e le "incongruenze" sempre più gravi (al punto che si impiegano termini per denotare realtà esattamente opposte rispetto a quelle che dovrebbero denotare), vi è ancor più la necessità di una battaglia culturale, un "Kulturkampf", per non ripetere l'errore di privilegiare un'analisi di tipo socio-economica (ripeto, a scanso di equivoci, indubbiamente necessaria), che non può cogliere la specificità dell' "anima capitalistica", il suo carattere proteiforme, che le consente di rimanere sé medesima mutando continuamente "maschera". Una "lacuna" che, in qualche modo, è causa o, se si preferisce, una delle cause della crisi fallimentare del comunismo e del "collasso" delle politiche di stampo socialdemocratico, dal momento che non soltanto ha impedito una comprensione dei "presupposti culturali" del capitalismo, che non fosse basata su una "ingenua " e sovente "volgare" concezione progressista, ma ha addirittura favorito l'affermarsi della "cultura" dell'homo oeconomicus, che è la "conditio sine qua non" del capitalismo occidentale (sotto questo aspetto, di gran lunga più coerente dei suoi "nemici"; per usare un "linguaggio schietto", il peggiore difetto della sinistra si potrebbe designare così: volere l'arancio ma non le arance!).
Vero è che si deve pure tener conto che occidentalizzazione ed atlantismo non sono necessariamente sinonimi, ma è innegabile che attualmente siano i circoli atlantisti che perseguono il disegno di occidentalizzare l'intero pianeta, annientando "identità", lingue, costumi e qualunque complessa "iconografia" - altro termine caro a Schmitt - che non sia quella (israelo)angloamericana. Si tratta di un processo di livellamento e massificazione che può essere contrastato solo dal sorgere di un nuovo equilibrio mondiale policentrico, premessa anche per costruire un'alternativa, "razionale" e credibile, ad ogni forma di occidentalizzazione. Purtuttavia, è lecito pensare che, fino a quando l'Europa non saprà orientare il proprio "asse" geo-politico e geo-filosofico in senso eurasiatista, difficilmente l'atlantismo conoscerà una crisi irreversibile: l'illimitato "Wille zur Macht" dell'Occidente può, come il "Mare", arretrare temporaneamente, per poi ritornare con ancor maggiore forza e impeto. Non dovrebbe destare meraviglia dunque che il sistema capitalistico occidentale più "si occulta" ed "occulta" e più, brandendo la spada vendicatrice del "dio" veterotestamentario per far trionfare il "bene" sulla Terra, lasci venire allo scoperto la sua volontà di potenza. E' questo non il segno accidentale della sua "sostanza", bensì il segno più chiaro della sua vera "natura".

 

 

Géopolitiques de l'Argentine et du Chili

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1989

Géopolitiques de l'Argentine et du Chili

 

Bertil HAGGMAN

 

conesud.pngSi le Canal de Panama est bloqué, le trafic maritime n'a d'autre alternative que d'emprunter la route qui passe par le Cap Horn. C'est pourquoi tant l'Argentine que le Chili ont une très grande importance géopolitique. A l'époque de la guerre froide, ces deux pays étaient des cibles privilégiées des tentatives de pénétration soviétique. Le long littoral de la côte argentine face à l'Atlantique Sud (1700 miles) fait de ce pays une puissance atlantique. De l'autre côté du cône austral de l'Amérique du Sud se trouve le Chili, dont la côte pacifique est longue de 2600 miles. Le territoire chilien s'étend sur une centaine de miles plus au Sud. Le Détroit de Drake entre la Péninsule Antarctique et le Cap Horn constitue une connexion vitale entre les Océans Pacifique et Atlantique. Il nous apparaît dès lors fort important de procéder à une étude de la géopolitique chilienne et argentine en Europe, afin que nous nous rendions bien compte de l'importance géostratégique et géopolitique vitale de cette région du monde.

 

La géopolitique argentine

 

En Argentine, on s'intéresse très fort à la géopolitique et on y consacre toutes sortes de recherches. La pensée géopolitique s'y est développée en deux étapes depuis 1940. La première étape a commencé vers 1940 et s'est poursuivie jusqu'au début des années 50. La première théorie géopolitique moderne d'Argentine semble être celle mise en œuvre par Emilo R. Isolas et Angel Carlos Buerras. En 1950, ils publient tous deux Introduccion a la geopolitica argentina. Nos deux auteurs y affirmaient que les doctrines géopolitiques conçues à l'étranger n'étaient pas toujours pertinentes pour l'Argentine. Ce sont eux également qui ont introduit la méthode d'inverser les cartes. Celles-ci, dans leurs travaux, étaient centrées sur l'Argentine et sur le “pivot de l'Antarctique”. Cette manière de jeter un regard sur le monde rappelle des tentatives similaires, réalisées au Canada et aux Etats-Unis, quand on cherchait, là-bas, à souligner l'importance de l'Arctique. L'importance de l'Antarctique a acquis progressivement une signification cardinale dans les théories géopolitiques argentines. Isolas et Buerras plaidaient pour le renforcement des liens entre l'Argentine et le Chili et pour le retour des Iles Malouines/Falklands à l'Argentine.

 

Plus d'une décennie s'est écoulée, avant que de nouvelles idées géopolitiques voient le jour, mais les thèses de Buerras et Isolas continuaient néanmoins à être étudiées et approfondies dans les universités, les écoles et les académies militaires. En 1966, Justo P. Briano, un Colonel qui avait enseigné au Collège Militaire en 1940-41 publie un ouvrage de très grand intérêt. Entre 1960 et 1964, il était devenu professeur de géopolitique à l'Institut de Science Politique de la Salvador University. Dans Geopolitica y geostrategia americana, il affirme que la géopolitique est une science. Elle est, affirme-t-il, un instrument inestimable pour les hommes politiques qui guident effectivement la nation. Briano militait pour l'unification du continent sud-américain. Il voulait ce que l'on appelait l'“intégration”, autour de l'Argentine et du Brésil, alliés des Etats-Unis dans un “groupe américain”.

 

Jorge Atencio, également Colonel et Professeur de géopolitique à l'Université Nationale de Cuyo (Mendoza) fut le successeur immédiat de Briano, en soumettant à ses élèves et ses collègues un nouvel ouvrage majeur de géopolitique, intitulé Que es geopolitica? Ce livre constitue une interprétation claire de la pensée géopolitique et en adapte les thèses d'un point de vue argentin. L'Argentine, explique Atencio, n'a nul besoin d'étendre son territoire mais doit le développer. Atencio inclut dans le territoire argentin les Iles Malouines et l'immense secteur argentin de l'Antarctique. Il affirme également que la mer est importante. Les Amériques du Nord et du Sud disposent d'énormes réserves territoriales et sont les dépositaires de larges territoires, en deuxième position par rapport à l'Asie. Atencio réclame de ses compatriotes qu'ils s'intéressent davantage à la mer et qu'ils déployent un maximum d'efforts pour développer les zones “vierges” de l'Argentine.

 

Fernando A. Milia, Amiral en retraite, était lié à l'Institut des Etudes stratégiques. Son livre Estrategia e poder militar  (1965) est une tentative de créer une doctrine stratégique argentine. L'Amiral Milia prétend que la stratégie se limite aux exigences de la politique étrangère, de la politique intérieure et de l'économie. Le développement économique est nécessaire pour accroître le potentiel militaire. La théorie de Milia cherche à intégrer dans son concept stratégique l'entièreté ou des parties des territoires voisins. Cette volonté a été dénommée “intégrationniste”.

 

La pensée géopolitique contemporaine en Argentine est surtout liée à deux thématiques. La première est orientée vers la restauration du pouvoir et de l'influence de l'Argentine par le biais d'une forme ou une autre de politique “intégrationniste”, parfois d'inspiration nationaliste. L'autre thématique se retrouve dans des travaux dont l'orientation générale opte pour la coopération ou pour l'intégration économique et militaire (c'est l'intégrationnisme non nationaliste). Le schéma ci-dessous montre bien quels sont les objectifs de chacune des deux écoles:

 

XXXX

 

En 1975, Osiris Guillermo Villegas, Général à la retraite, publie Tiempo geopolitico argentino.  Il y explique que l'Argentine a besoin d'un nouveau modèle national qui lui permette d'accélérer son développement. Les atouts qui lui permettraient de réaliser un tel programme sont: l'autonomie de décision, la rentabilisation économique de la région et la création d'une société développée, originale et créative. L'intégration nationale doit tout à la fois tabler sur les efforts du peuple et sur les forces armées, recommande le Général Villegas. Dans une annexe de son livre, Villegas donne 160 recommandations politiques originales, afin de réaliser ce nouveau modèle de société.

 

Le géopolitologue le plus péroniste des années 70 reste sans conteste Gustavo Cirigliano. Dans son livre Argentina triangular: geopolitica y projecto nacional  (1975), , il affirme que l'Argentine est une puissance “triangulaire” et non pas circulaire. Elle s'est developpée selon deux axes: l'axe andéen et l'axe de la Plata et a ainsi englobé la Patagonie, les Malouines et le secteur argentin de l'Antarctique. Cirigliano a également suggéré un projet d'intégration continental, devant s'achever en 1990, incorporant le Canada en 1994 et l'Espagne en 1995. Le livre de Cirigliano a été critiqué, on l'a jugé trop utopique, mais on l'a également loué parce qu'il mettait l'accent sur l'intégration continentale.

 

Gomez Rueda, Professeur à l'Université de Cuyo, est proche de Villegas dans sa pensée. Son ouvrage Teoria y doctrina de la geopolitica  (1977) démontre que la géopolitique est liée à la politique, la géographie et l'histoire et est fortement connectée à la stratégie. Rueda a forgé une nouvelle théorie géopolitique, la théorie relativiste. Rueda vise l'intégration continentale des dix pays de l'Amérique du Sud, afin de ne plus former qu'un seul pays. Il affirme aussi que l'Argentine est le centre géopolitique du Ters-Monde. Dans son livre, il subdivise l'Amérique du Sud en cinq régions géopolitiques; parmi celles-ci, la région biocénanique, comprenant le cône austral de l'Amérique du Sud, soit le Chili et l'Argentine.

 

José Felipe Marini est également un Colonel en retraite de l'Armée de Terre; il enseigne la géopolitique au Collège national de guerre et à l'Institut des Services étrangers. En 1980, il a publié trois ouvrages de géopolitique, dont certains avec un co-auteur. L'ouvrage principal de Marini date de 1978 et s'intitule Geopolitica argentina: Bases para su formulacion. Il y perçoit l'Argentine comme une île, séparée par de longues distances océaniques de l'Europe, de l'Afrique et de l'Australie. Il se fait l'avocat d'une étroite coopération avec le Chili, pays dont la position est similaire. L'Argentine doit peupler et développer les espaces vacants de son territoire et formuler des objectifs politiques sur le long termes (des périodes de 20 à 25 ans) afin d'assurer son développement.

 

Dans un livre intitulé El poder del Pan,  Rodriguez Zia plaide pouru ne intégration complète de l'Argentine, de la Bolivie, du Paraguay et de l'Uruguay, afin d'amorcer une politique qui favorise à outrance la production de denrées alimentaires. Il affirme que cette région appelée à s'intégrer est la plus habitable de tout l'hémisphère sud. Le bassin de la Plata pourrait constituer une formidable réserve de production alimentaire. La théorie du Heartland de Mackinder ne survivra pas, prophétise Zia, car le véritable problème de l'avenir sera la faim. Le vrai pouvoir sera le “pouvoir du pain”.

 

L'Argentine a développé un véritable programme d'enseignement de la géopolitique dans ses collèges militaires et dans ses universités civiles. Même dans les écoles secondaires, la géopolitique est enseignée d'une manière relativement intensive. Après le retour d'un pouvoir civil dans les années 80, l'influence de la géopolitique s'est peut-être un peu amoindrie mais reste importante et ne cesse d'exprimer les intentions stratégiques et politiques du pays, sur le plan des politiques intérieure et extérieure.

 

La géopolitique en Argentine s'est étoffée au départ de l'“Instituto do Estudios geopoliticos” (IDEG) et de sa revue Geopolitica. Il y a également eu un “Instituto Argentino de Estudios Estratégicos y de las Relaciones Internacionales” (INSAR), à la tête duquel se trouvait le Général Guglialmelli. Cet institut publiait la revue Estrategia, qui a cessé de paraître. L'INSAR peut être considéré comme plus nationaliste, tandis que l'IDEG est plus intégrationniste.

 

La tradition géopolitique en Argentine remonte bien avant 1940, mais j'ai surtout voulu attirer l'attention de mes lecteurs sur la géopolitique moderne. Il me faut toutefois citer un ouvrage ancien, Interesa argentinos en el mar  (1916), rédigé par l'Amiral Segundo R. Storni. L'intention de l'Amiral Storni était de réveiller l'intérêt des Argentins pour la mer. Storni combinait les concepts de Ratzel et de Mahan. Il estimait que l'Argentine devait se doter d'une vaste flotte marchande, de même que d'une flotte de pêche. Les forces navales étaient nécessaires pour protéger les navires civils. On considère aujourd'hui que Storni est le fondateur d'une géopolitique argentine orientée vers la mer.

 

La géopolitique chilienne

 

Le Chili a produit moins de textes géopolitiques que l'Argentine, toutefois, ce pays a la caractéristique d'avoir été gouverné à partir de 1973 par un Président géopolitologue et auteur d'un traité de géopolitique, Geopolitica. Ce Président, c'était Augusto Pinochet. Le Chili est une puissance navale dans l'Océan Pacifique, position qui a influencé toute sa conception de la stratégie et de la géopolitique. Comme en Argentine, les Chiliens s'intéressent énormément au continent Antarctique. Les débuts de la géopolitique moderne au Chili remonte aux années 40 et sont marqués par des livres aussi importants que Chile o une loca geografia (1940) et Tierra de Oceano (1946, tous deux de Benjamin Subercaseaux. En 1944, Oscar Pinochet de la Barra avait publié La Antartica chilena.

 

L'un des principaux géopolitologues chilien dans les années 30 et 40 a été le Général Ramon Canas Montalva. Ce militaire a avancé de nombreuses théories, parmi lesquelles nous retiendrons surtout la revendication chilienne d'une part du continent antarctique. Un décret présidentiel avait jadis délimité les revendications chiliennes dans cette aire: de 53° à 90° de longitude ouest. La première base chilienne sur ce continent a été établie en 1947. Dans un article paru en 1948, le Général Canas Montalva lance quatre nouveaux concepts géopolitiques:

1. L'ère du Pacifique commence, signalant que les ères méditerranéenne et atlantique viennent de prendre fin.

2. L'importance du lieu géographique dans toute géopolitique.

3. Le Chili détient une responsabilité d'ordre géopolitique dans la défense continentale et a un destin propre.

4. Le Chili est une puissance du Pacifique-Sud.

Les Amériques doivent dès lors devenir les continents de l'ère nouvelle. Par sa position géographique, le Chili doit être en mesure de contrôler les voies aériennes et maritimes dans la région. Dans un article ultérieur, intitulé Reflexiones geopoliticas  (1), le Général Canas Montalva jette les bases de ses théories géopolitiques. Un an plus tard, il propose la fondation d'une “Confédération du Pacifique”, étape vers l'unification du continent.

 

Dans les années 50, Pablo Ihl a développé ces idées. Il plaide en faveur d'une solution “tiers-mondiste” pour le Chili, en association avec d'autres puissances du Pacifique et du continent sud-américain.

1. Le Chili doit proposer une union économique et commerciale entre le Chili, l'Argentine, le Brésil, la Bolivie, le Pérou, l'Equateur, le Paraguay, l'Uruguay, l'Australie, la Nouvelle-Zélande et les îles du Pacifique.

2. Le Chili doit travailler à l'avènement d'une grande nation sud-américaine, comprenant tous les pays de ce continent, ainsi que le Mexique et les Etats centre-américains.

 

Ihl voulait l'intégration d'autres nations sud-américaines. Comme le Général Canas Montalva dans les années 50, il réagit contre une menace argentine. Il réclame un “bloc pacifique” pour contrer les pressions de Buenos Aires. Vers 1960, Canas Montalva avait également attiré l'attention de ses compatriotes sur l'importance géostratégique du Canal de Beagle.

 

En 1968, Julio Cesar von Chrismar Escuti publie Geopolitica: Leyes que se deducen del estudio de la expansion de los Estados. Von Chrismar affirmait qu'il existe une série de “lois géopolitiques”. Il en a identifié 35 et les a analysées brièvement. Il met l'acent sur la sécurité et le développement, dans des termes que l'on retrouve dans les écrits géopolitiques d'Argentine et du Brésil. Ses vues reflètent surtout l'option de l'Académie de guerre, où le Général Augusto Pinochet Ugarte était professeur de géopolitique. C'est d'ailleurs lui qui écrira la préface du livre de von Chrismar. Ce dernier enseigne la géopolitique à l'Academia Superior de Seguridad Nacional.

 

La même année, Pinochet publie son livre Geopolitica, résultat de quinze années d'enseignement de cette discipline et de stratégie. Le point de départ de Pinochet est la théorie de Ratzel sur l'Etat comme organisme vivant. La croissance de l'Etat est l'étape la plus importante dans le cycle de vie d'une nation. Pinochet récapitule l'histoire de la pensée géopolitique depuis l'antiquité et le moyen-âge. Pinochet explique que pour comprendre la naissance, la croissance et le dépérissement des Etats, il faut être conscient du rôle qu'ont eu les réactions aux défis d'ordre spatial, ainsi que d'un nombre d'autres facteurs tels la géostratégie.

 

Augusto Pinochet et von Chrismar forment en quelque sorte une école distincte de la géopolitique chilienne. Ils présentent les lois et les concepts de la géopolitique de façon telle que les gouvernements sont appelés à les appliquer pour le bien de l'organisme Etat. Plus tard, dans les années 70, une géopolitique plus nationaliste voit le jour. Ainsi, Federico Manuel Bermudez se fait l'avocat d'une “mer chilienne” dans le Pacifique et veut étendre les eaux territoriales jusqu'à 200 miles. Cette “mer chilienne” devait avoir les limites suivantes: à partir de la frontière nord du Chili, les géopolitologues nationalistes tracent une ligne jusqu'à l'Ile de Pâques, puis la font descendre vers le Sud-Est jusqu'à la limite des revendications chiliennes dans l'Antarctique, soit 90° de longitude Ouest, pour revenir au territoire continental du pays. A l'Est, ils tracent une ligne à partir du Canal de Beagle, la prolongent vers l'Est, à travers l'Arc des Antilles australes jusqu'à la limite orientale des revendications chiliennes dans l'Antarctique. Cette délimitation de la “mer chilienne” aurait donné au Chili le cinquième de l'Océan Pacifique. Notons que le Chili n'a pas revendiqué une extension de sa souverainté sur toute cette zone.

 

Dans les années 80, le Chili a produit énormément de textes géopolitiques. Après 1973, émerge une “nouvelle géopolitique”. Elle prend des aspects à la fois nationalistes et intégrationnistes, mais ce sont nettement les formes nationalistes qui dominent. La “nouvelle géopolitique” a l'ambition politique de souligner le rôle du Chili en tant que puissance pacifique. En 1981, l'“Instituto Geopolitico de Chile” (IGC) est fondé. Son directeur est le Prof. Hernan Santis Arena (2). L'IGC produit toute une série de publications, ainsi qu'une revue, la Revista Chilena de Geopolitica. L'institut impulse d'importants débats en matières de géopolitique et promeut le développement de la science géopolitique dans cet important pays du cône austral de l'Amérique du Sud.

 

Bertil HAGGMAN.

(Paper no. 4, Geopolitics in South America, Part 1, The Cone: Argentina and Chile, 1989, Center for Research on Geopolitics, Helsingborg, Suède).

vendredi, 26 mars 2010

Le "Plan Bernard Lewis"

Mansur KHAN (*) :

Le « Plan Bernard Lewis »

 

Bernard_Lewis.jpgL’orientaliste Bernard Lewis (photo) a la réputation, en Occident, d’être un expert des questions islamiques. Lewis a été jadis un agent de ce département des services  secrets britanniques que l’on appelle le « Bureau arabe ». Plus tard, on l’a muté aux Etats-Unis où il a reçu des chaires de professeur au « Princetown Center for Islamic Studies » et au CSIS de l’Université de Georgetown, un institut avec lequel Henry Kissinger entretenait des contacts très étroits. Mais ses principales couronnes de laurier, Lewis les a gagnées au service d’un institut de grande notoriété, l’ « Aspen Institute ». C’est de cette instance-là que notre célèbre expert en questions islamiques a reçu la mission officielle d’élaborer un plan permettant à terme de remodeler tout le Moyen Orient pour qu’il convienne enfin aux intentions de l’élite au pouvoir aux Etats-Unis. C’est ainsi qu’est né le fameux « Plan Bernard Lewis ». Il contient des propositions détaillées pour éliminer les Etats musulmans du Proche Orient et de les remplacer par une mosaïque de petits Etats gouvernés par des régimes dictatoriaux.

 

Ce plan, toutefois, ne se limitait pas au seul Proche Orient. Il proposait également, et dans le détail, de diviser et de balkaniser toute la région s’étendant du Proche Orient au sous-continent indien. Dans les coulisses du ministère britannique des affaires étrangères, le Plan Lewis circulait allègrement et était considéré comme un programme “officieux” du gouvernement. Ce Plan recevait l’appui de l’élite au pouvoir dans le Royaume-Uni et représentée dans la Haute Chambre, autour de personnalités comme Lord Cayser, Lord Victor Rothschild et d’autres figures en vue de la maçonnerie britannique de rite écossais, sans compter le Duc de Kent. On a commencé à le traduire dans la réalité en favorisant l’implosion du Liban en 1975, sous l’impulsion du ministre américain des affaires étrangères Henry Kissinger. La mise en place du régime de Khomeiny à Téhéran fait partie intégrante de ce plan diabolique: l’Aspen Institute a constitué l’instance principale qui agissait dans le sens de ce projet, ayant notamment favorisé le prise du pouvoir par Khomeiny en Iran (1). La décision de se débarrasser du Shah est tombée lors du “Sommet de la Guadeloupe” en janvier 1979. Le Plan devait favoriser une escalade dans les tensions déjà existantes entre l’Iran et l’Irak et préparer une guerre entre les deux pays. On espérait du régime de Khomeiny qu’il accélèrerait le processus général de dissolution dans la région, comme le préconisait le Plan Lewis. Dans un document significatif, on pouvait lire ce qui suit : « Les Chiites se dresseraient contre les Sunnites et les musulmans modérés contre les groupes fondamentalistes ; des mouvements séparatistes et des entités régionales propres comme le Kurdistan ou le Baloutchistan verraient le jour » (2).

 

Khan---Geheime-Geschic.gifLors d’une conférence ultérieure du Groupe des Bilderberger, qui eut lieu en mai 1979 en Autriche, le Plan Lewis a été adopté de manière plus ou moins officielle. Il poursuivait l’objectif de « balkaniser » l’ensemble du Moyen Orient par le truchement du fondamentalisme islamique et de le fragmenter en de nombreuses petites entités étatiques. Lewis proposait à l’Occident d’encourager tous les groupes ethniques ou minorités autonomes comme les Kurdes, les Arméniens, les Maronites libanais et les peuples de souche turque à se dresser contre leurs gouvernements. Le chaos, qui en résulterait, créerait automatiquement un « arc de crise », dont les Etats-Unis pourraient profiter car la déstabilisation s’étendrait rapidement aux régions mahométanes du flanc sud de l’URSS (3). Un expert soviétique de la CIA, occupant un rang élevé dans la hiérarchie, a déclaré à l’époque et sans circonlocutions diplomatiques que la déstabilisation de l’Union Soviétique était devenue l’un des objectifs majeurs de la politique étrangère américaine et « que l’islam était le grand géant endormi de l’Union Soviétique qui attendait son heure pour se réveiller… et Khomeiny se sentait obligé de prêcher l’islam à ses frères au-delà de ses frontières ». Et Khomeiny, de fait, a apporté son soutien aux moudjahiddins afghans, en leur livrant des armes et en leur fournissant protection contre les Russes ; il a mis ensuite des émetteurs puissants en œuvre pour exporter la révolution islamique dans les régions musulmanes de l’URSS » (4).

 

Le Plan Lewis s’accommodait parfaitement avec les calculs sur le long terme du lobby pétrolier américain. Depuis longtemps, ce lobby cherchait à s’approprier les ressources pétrolières de l’Union Soviétique. Une déstabilisation de l’URSS permettrait aux consortiums pétroliers d’atteindre enfin les gisements de gaz et de pétrole, tant convoités, qui se trouvaient alors dans les régions méridionales de l’ « Empire du Mal ».  C’est dans cette perspective qu’il faut aussi analyser la première guerre d’Afghanistan (5). L’un de ceux qui fomentèrent cette guerre, Zbigniew Brzezinski, qui fut pendant quelques décennies l’un des principaux conseillers à la sécurité aux Etats-Unis, l’avouera expressis verbis de très longues années après son déclenchement et au moins dix ans après son épilogue : le conflit dans les montagnes de Hindou Kouch avait été prévu et fomenté par les Etats-Unis pour amorcer le déclin de l’Union Soviétique.

 

Le Plan Lewis constituait un instrument génial entre les mains de l’élite occulte anglo-américaine car sa mise en œuvre entrainait toute une série de conséquences avantageuses. Le conflit de longue durée qu’il fallait escompter pour tout le Moyen Orient se laissait instrumentaliser sans difficulté et permettait de gagner du terrain et de faire avancer les intérêts américains. La mise en place de Khomeiny en Iran porte tout spécialement la marque de ce plan car il était de notoriété publique que Khomeiny entendait exporter par tous les moyens sa révolution islamiste au-delà des frontières iraniennes (6). De cette façon, d’autres conflits dans l’ensemble de la région pouvaient être préprogrammés. Y compris une guerre entre l’Iran et l’Irak car avec la prise du pouvoir par Khomeiny à Téhéran, une telle conflagration s’avérait plus envisageable que du temps du Shah ; Washington verrait ce conflit comme la solution idéale, vu qu’il mettrait hors combat deux puissances régionales qui contrecarraient, par leur existence même, les visées des Américains. L’Iran se verrait ainsi éliminé car la révolution islamique s’opposait de plus en plus clairement aux intérêts bancaires et pétroliers américains, de même que l’Irak, dont l’industrie pétrolière avait été étatisée dès 1972. Aucun des deux pays ne permettait plus aux consortiums américains de faire des bénéfices. Dans les bureaux de Washington, où l’on planifiait le sort du Proche et du Moyen Orient, on élaborait déjà des scénarios sur le plus long terme, prévoyant un nouveau renversement de pouvoir en Iran, car Khomeiny menaçait de plus en plus dangereusement les intérêts monétaires des Etats-Unis (7).

 

Ce qui s’ensuivit se déroula selon le schéma habituel. Washington réarma en secret les deux camps et à grande échelle pour permettre aux deux belligérants de se doter d’un potentiel militaire suffisant pour une offensive. L’industrie américaine de l’armement en profita largement, avant même que le premier coup ne fut tiré.

 

Mansur KHAN.

(extrait du livre de l’auteur « Das Irak-Komplott mit drei Golfkriegen zur US-Weltherrschaft », pp. 54-56, Grabert Verlag, Tübingen, 2004, ISBN 3-87847-213-7 ; traduction française : Robert Steuckers).

 

Notes :

(*) Mansur U. Khan est né en 1965 à Kaiserslautern. Dès ses plus jeunes années, il s’est vivement intéressé à l’histoire. Il a fréquenté l’Université de Maryland, où il a obtenu un diplôme de sciences politiques et d’économie politique, puis l’Université de Boston, où il a obtenu MA en relations internationales. Il a ensuite travaillé à une thèse de doctorat sur la seconde guerre du Golfe. Il a publié Das geheime Geschichte der amerikanischen Kriege (1998 & 2003, 3ième éd.) et Das Kosovo-Komplott (2001).

 

(1)     Peter BLACKWOOD, Das ABC der Insider, Diagnosen, Leonberg, 1992, p. 378 & ss, p. 293.

(2)     Ibidem, p. 303 & ss.

(3)     William F. ENGDAHL, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung, Böttiger, Wiesbaden, 1997 (3ième éd.), pp. 265 & ss.

(4)     Peter BLACKWOOD, Die Netzwerke der Insider – Ein Nachslagewerk über die Arbeit, die Pläne und die Ziele der Internationalisten, Diagnosen, Leonberg, 1986, p. 183.

(5)     Rainer RUPP, Burchard BRENTJES u. Siegwart-Horst GÜNTHER, Vor dem Dritten Golfkrieg – Geschichte der Region und ihrer Konflikte. Ursachen und Folgen der Auseinandersetzungen am Golf, Edition Ost, Berlin, 2002, p. 133.

(6)     Klaus-Dieter SCHULZ-VORBACH, Mohammeds Erben – Die Fundamentalisten auf dem Weg zum Gottesstaat, Goldmann, München, 1994, p. 53.

(7)     Rainer RUPP (et alii), op. cit., p. 128.

Khan, Mansur
Die geheime Geschichte der amerikanischen Kriege
[100 103]

 


 

Verschwörung und Krieg in der US-Außenpolitik



3. Auflage
624 Seiten
17x24cm
Lexikonformat
Leinen
80 Abbildungen
Register
ISBN-10: 3-87847-208-0
ISBN-13: 978-3-87847-208-7

Euro: 29,80

Kurztext:

Amerikas Kriegspolitik: 200 Jahre blutiger Imperialismus! Obwohl die USA noch nie von einem Gegner direkt bedroht waren und niemals einen äußeren Feind im eigenen Lande hatten, waren sie weltweit an allen größeren Händeln dieses Jahrhunderts beteiligt und gaben meist den Ausschlag. Mansur Khan gibt einen ausführlichen und mit mehr als 1100 Anmerkungen abgestützten Überblick über die US-Kriegspolitik.


Langtext:

In rund 200 Jahren stiegen die USA von einer englischen Kolonie an der Ostküste Nordamerikas zur Weltmacht Nummer ein auf, die heute an allen Stellen der Erde eingreift. Wie das durch dauernde Kriege gegen Nachbarn und dann entfernte Staaten geschah, schildert dieses Buch. Dabei waren die USA – wie insbesondere im Ersten und Zweiten Weltkrieg, in Korea, Vietnam oder am Golf – nie unmittelbar selbst bedroht, sondern es standen stets große wirtschaftliche Interessen hinter Washingtons Drang zum Krieg, der teilweise erst durch klassische Provokationen – z.B. ›Lusitania‹-Versenkung, Pearl Harbor-Angriff, Tonkin-Zwischenfall – für die zunächst kriegsunwillige US-Bevölkerung annehmbar gemacht werden mußte. Besonders in Zeiten ausbrechender wirtschaftlicher Rezession griffen US-Präsidenten zu kriegerischen Auseinandersetzungen, um ihrer Wirtschaft durch Rüstungsaufträge neuen Auftrieb zu geben. Besonders die Motive und Hintergründe der einflußreichen US-Machtelite werden untersucht.

Klappentext:

Seit dem Zusammenbruch des Sowjetimperiums sind die Vereinigten Staaten von Amerika unbestritten die Weltmacht Nummer eins, und sie sind in der Lage, überall auf der Erde ihre Interessen durchzusetzen. Daß sie dazu auch gewillt sind, haben sie im letzten Jahrzehnt durch mehrmaliges militärisches Eingreifen auf den verschiedenen Kontinenten bewiesen. Dabei haben sie stets vorgegeben, für die Stärkung der Demokratie und die Sicherung der Freiheit eingetreten zu sein, obwohl es in Wahrheit eher um harte wirtschaftliche und materielle Vorteile ging.

Wie ein roter Faden zieht sich durch die Geschichte der USA die rücksichtslose Durchsetzung eigener Macht. Aus einer Kolonie wurde in rund zweihundert Jahren durch fast pausenlose Kriege und weiträumige Eroberungen eine imperiale Macht, die heute die ganze Erde kontrolliert und andere Völker wirtschaftlich ausbeutet, die mit dem von ihr geschaffenen Instrument der Vereinten Nationen (UNO) Strafexpeditionen in den verscheidenen Teilen der Welt unternimmt und mit der NATO auch in Europa entscheidenden Einfluß ausüben kann.

Dieses Buch gibt einen Überblick über die Kriegsgeschiche der USA von den Anfängen bis zur Gegenwart und hellt die Hintergründe dieser Entwicklung auf. Es beschreibt die Landnahme, die mit dem Völkermord an den Indianern und der Ausbeutung von Millionen schwarzer Sklaven verbunden war, die Eroberung des riesigen Landes bis zum Pazifik, den amerikanischen Bürgerkrieg und die Auseinandersetzungen mit Mexiko um die großen Territorien im Südwesten. Ausführlich wird das imperiale Ausgreifen seit Ende des vorigen Jahrhunderts behandelt, werden die Kriege um Kuba und die Philippinen, das Eingreifen in Mittelamerika wie in Europa im Ersten und Zweiten Weltkrieg geschildert. Die dann folgenden Kriege in Korea, Vietnam, am Persischen Golf, in Afghanistan oder Somalia setzen diese militärische Linie über kleinere Einsätze in Haiti, Grenada oder Nicaragua bis zur Gegenwart fort.

Dabei stehen vor allem die Motive und Hintergründe der US-Politik im Vordergrund. Ist es Zufall, daß fast jeder größere Krieg der letzten hundert Jahre gerade dann in Washington vom Zaun gebrochen wurde, wenn eine wirtschaftliche Rezession die Vereinigten Staaten heimsuchte, die dann erfolgreich durch die neuen Aufträge für die Rüstungsindustrie behoben werden konnte? Hat die US-Regierung nicht stets den kommenden Gegner über längere Zeit zu beabsichtigten Reaktionen provoziert, um selbst als der Angegriffene zu erscheinen und die kriegsunwillige eigene Bevölkerung zur Befürwortung eines Krieges zu treiben? Wie kam es, daß die USA im Ersten Weltkrieg von einer tief verschuldeten Nation zum Gläubigerstaat wurden und im Zweiten Weltkrieg das britische Empire beerbten, indem sie beide Male einen möglichen früheren Verständigungsfrieden in Europa durch ihr Eingreifen verhinderten?

Die These des Buches ist, daß eine ›Machtelite‹ in den USA das Sagen hat und die jeweiligen Präsidenten als Ausführungsgehilfen benutzt. Wenn diese das Gewünschte nicht ausführen wollen, wie Lincoln oder Kennedy, schreckt man auch nicht vor Mord zurück, um sie zu beseitigen. Kriege dienen dem Profit dieser Machtelite, werden teilweise künstlich verlängert, um zum einen viel Kriegsmaterial zu verbrauchen und zum anderen große Zerstörungen zu verursachen, an deren Beseitigung anschließend noch einmal verdient werden kann. Die von Präsident Theodore Roosevelt kultivierte ›Politik des großen Knüppels‹ ist durch Männer wie Kissinger und Reagan nun auf die ganze Welt erweitert worden, und Washington sieht seine unmittelbaren Interessen heute in fast allen Ländern der Erde berührt.

Wer die Politik unseres Jahrhunderts verstehen will, muß diese Zusammenhänge kennen, muß wissen, wo die Drahtzieher des wirklichen Geschehens sitzen, und sich nicht mit der üblichen oberflächlichen Darstellung nach dem Geschichtsbild der Sieger – und das ist eben die US-Machtelite – zufriedengeben. In diesem Sinne ist dieses Werk ein Aufklärungsbuch und dient dem historischen Revisionismus.

Inhaltsverzeichnis:

Vorwort 9

Einleitung 11

Kapitel 1
Die formenden Jahre der US-Außenpolitik 17
Die Ausrottung der Indianer und die Versklavung der Schwarzen: ›Manifest Destiny‹ bis zum bitteren Ende (ca. 1692-1890) 17
Expansionsdrang und Eroberungskriege: vom richtigen Umgang mit den Nachbarstaaten (1775-1818) 22
Der Befreiungskrieg 1776-1783: Krieg gegen das Mutterland 22
Inoffizieller Kaperkrieg mit Frankreich (1798-1800) 29
Der erste Berberkrieg gegen Tripolis (1801-1805) 31
Die Besitzergreifung von Louisiana und Florida (1803-1819) 32
Der Krieg von 1812 mit Großbritannien 36
Imperialismus in Vollendung oder: die Eroberung von Texas und der Krieg gegen Mexiko (1819-1848) 39
Der amerikanisch-mexikanische Krieg (1846-1848) 44

Kapitel 2
Krieg gegen das eigene Volk: der Amerikanische Bürgerkrieg (1861-1865) 52
Die scheinheilige Demokratie oder die Machtergreifung auf amerikanisch 69
Die Ermordung amerikanischer Präsidenten oder Staatsputsch auf amerikanisch (Lincoln und Kennedy) 74

Kapitel 3
Der Aufstieg zur Weltmacht 90
Pax Americana: Das amerikanische Jahrhundert und seine Kanonenboot Diplomatie 90
»Liefern Sie Bildmaterial, ich liefere den Krieg« - der spanisch-amerikanische Krieg (1898) 91
Erneuter Eingriff in Mexiko oder: wie der lateinamerikanische Hinterhof entdeckt wurde 105

Kapitel 4
Wirtschaftskriege auf amerikanisch 112
Der ›Große Krieg‹ und das große Geld: der Erste Weltkrieg und die USA 113
Der Erste Weltkrieg schuf die Voraussetzungen für den Zweiten Weltkrieg. 132
Wer finanzierte Hitler? 149

Kapitel 5
Die Provokation Japans oder: wie man in einen Weltkrieg eintritt 166
Der manipulierte Angriff auf Pearl Habor 194
Und Deutschlands Schicksal 226

Kapitel 6
Vom Kalten Krieg zum Koreakrieg 237

Kapitel 7
Vietnam, das zweite Gewaltopfer, und andere Eskapaden 264
Kambodscha: Dominostein im Kreuzzug gegen Vietnam 289
Laos: ein weiteres Opfer des Kreuzzuges 295

Kapitel 8
Kleinere Kriege 298
Grenada 1983: Ein Inselstaat bedroht die USA! 298
Libyen 1980-1986: Reagan sieht rot 308 Invasion Panamas 1989 oder: Wie Bush seinen ›Krieg gegen die Drogen‹ gewann 312
Die afghanische Tragödie: eine russische Aggression? 1979-1988 319

Kapitel 9
Der erste Golfkrieg oder: wessen Stellvertreterkrieg war er? 333
Ein Plan für den Mittleren Osten? 335
Amerikanisch-israelische Geheimverbindungen im ersten Golfkrieg 345
Saddam war siegessicher 348
Die Lage in Europa 1989 und die US-Außenpolitik 350

Kapitel 10
Die Vorbereitung der Golfkrise 352
Die Beziehungen USA-Irak nach dem ersten Golfkrieg 352
Irakisch-kuwaitische Beziehungen nach dem ersten Golfkrieg 356
Vorbereitungen der USA auf die Krise am Golf 359
Die Beziehungen zwischen den USA und Kuwait vor dem Golfkrieg 362
Die Wirtschaftslage in den USA 365

Kapitel 11
Die Inszenierung der Golfkrise und die Golfkriegsversehwörung der Bush-Regierung 369
Katastrophen-Diplomatie 383
Warum griff der Irak Kuwait an? 392

Kapitel 12
Der Weg in den Krieg 396
Warum waren die USA am Golfkrieg interessiert? 399
Die Vorbereitungen der Bush-Regierung auf den Golfkrieg 403
Die Zeitabstimmung für den US-Angriff auf den Irak 410
Der Propagandafeldzug der Bush-Regierung: die Medien in den USA und ihr Einfluß auf den Golfkrieg 411
Der Sprachenmord des Pentagons und der Medien 415
Die Ausschaltung der Opposition in den USA 417
Die Brutkasten-Lüge 417

Kapitel 13
Die Gründe der Bush-Regierung für den Golfkrieg 420
Saddam Husseins Machtergreifung mit freundlicher Unterstützung des CIA 420
Die Lüge über das Atomprogramm des Iraks 425
Der Mythos des unterbrochenen Ölflusses 429
Die Bush-Regierung behauptete, der Irak werde Saudi-Arabien angreifen 431
Der Krieg am Golf: Völkermord im Namen der UNO 438
Washingtons verdeckter nuklearer Krieg 442

Kapitel 14
Somalia: Ein bißchen humanitäre Intervention ›The American Way‹ (1993-1994) 445

Kapitel 15
Jugoslawien: Humanitäre Intervention Teil II oder: die verheimlichte Rolle der USA bei der Zerstückelung eines Staates 452
Die USA beherrschen die Region durch Wirtschaftssanktionen 467

Kapitel 16
Irak Teil 11 oder: Wer besitzt Waffen der Massenvernichtung? 470

Nachwort
Ziel erreicht, globale Weltherrschaft der USA? 486

Nachtrag
Der Kosovo-Krieg als Komplott. Humanistische Hegemonie? 498
Das Racak-Massaker - eine bewußte Eskalation zum richtigen Zeitpunkt 500
Das Diktat von Rambouillet 506
Ziele der Machtelite vor und nach dem Kosvovo-Krieg 508
Nachwirkungen des Kosovo-Krieges 510

Anhang I
Amerikanische militärische Interventionen und Kriege seit Gründung der USA 514
Amerikanische Kriege, militärische Interventionen und CIA-Operationen seit 1945 528

Anhang II
Attentatskomplotte der US-Regierung 539

Anhang III
US-Atomwaffenpolitik 545

Anmerkungen 548

Kommentiertes Literaturverzeichnis 582

Personenverzeichnis 611

Über den Autor:

MANSUR U. KHAN, geboren 1965 in Kaiserslautern, interessierte sich schon sehr früh für Geschichte. Besuch der University of Maryland (Diplom in Politikwissenschaften und Volkswirtschaftslehre) und der Boston University (MA im Fach ›Internationale Beziehungen‹). Zur Zeit arbeitet er an einer Dissertation über den Zweiten Golfkrieg. Veröffentlichungen: Das Kosovo-Komplott, 2001; Das Irak-Komplott.