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vendredi, 02 juillet 2010

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un'invasione coordinata

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

di Hugo Rodríguez

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

Il presente articolo espone uno sguardo più comprensivo del coordinamento militare degli USA e del Regno Unito nella regione sudamericana. Negli ultimi due anni gli analisti locali hanno molto insistito sulla presenza americana senza mai menzionare una delle basi militari più grandi del mondo appartenente agli USA (Comando Sud) e, men che meno, senza riconoscere il ruolo e la complementarità che le stesse hanno da un punto di vista storico e fattuale nei riguardi della presenza militare del Regno Unito nella nostra terra e nelle nostre acque.

In questo primo lavoro che vi presentiamo, vogliamo solo evidenziare la localizzazione di tutte le basi (attuali e storiche); lasciando per successive illustrazioni la specifica analisi del Consiglio di Sicurezza dell’UNASUR, le analisi dei Ministeri della Difesa della regione, i loro principali successi e insuccessi.

Prendendo come spunto la ricerca effettuata dall’équipe giornalistica di TeleSur e con l’informazione ufficiale del Regno Unito e del Comando Sud degli Stati Uniti, ho sviluppato il seguente schema che evidenzia tutte le basi militari della NATO attualmente presenti in Sudamerica.


 

Base Militare

Localizzazione

Invasore

Organo Militare Superiore

Malvine

Argentina

GB

NATO

George

Argentina

GB

NATO

Sandwich

Argentina

GB

NATO

Tristán de Cuña

Oceano Atlantico

GB

NATO

Santa Helena

Oceano Atlantico

GB

NATO

Ascensión

Oceano Atlantico

GB

NATO

Estigarribia

Paraguay

USA

NATO

Iquitos e Nanay

Perù

USA

NATO

Tres Esquinas Colombia

USA

NATO

Larandia

Colombia

USA

NATO

Aplay

Colombia

USA

NATO

Arauca

Colombia

USA

NATO

Tolemaida

Colombia

USA

NATO

Palanquero

Colombia

USA

NATO

Malambo

Colombia

USA

NATO

Aruba

Antillas

USA

NATO

Curaçao

Antillas

USA

NATO

Roosevelt

Puerto Rico

USA

NATO

Liberia

Costa Rica

USA

NATO

Guantánamo

Cuba

USA

NATO

Comalapa

El Salvador

USA

NATO

Soto Cano

Honduras

USA

NATO

IV flotta

Oceano Atlantico y Pacifico

USA

NATO


 

La NATO è un trattato degli armamenti per la protezione e la cooperazione bellico-politico-economico tra gli stati membri. Fu costituito nel clima della Guerra Fredda e il suo omologo orientale è il trattato di Varsavia. La NATO è integrata dai paesi dell’Ovest europeo e dagli Stati Uniti e Canada. Questa organizzazione militare multilaterale negli ultimi anni si è dedicata a effettuare incursioni militari nei paesi che non sono membri della stessa. Ricordiamo che l’appoggio americano al Regno Unito, nel 1982, si articolò da qui.

È importante osservare con attenzione lo schema sulle basi della NATO, perché la sua parziale visione taglia di sbieco l’analisi, il fuoco dell’attenzione e anche, poiché costituisce la cosa più importante, taglia nella direzione non corretta le raccomandazioni sulle politiche di difesa regionale. Ad esempio, coloro che mettono a fuoco le nuove basi americane in Colombia, osservano a chiare lettere che, insieme alla politica mediatica dell’America del Nord, quelle basi hanno come obiettivo il Venezuela. Altri, cioè coloro che complementano questa analisi con la localizzazione della IV flotta, osservano, invece, che il centro è il Brasile. In ogni caso, tanto la dirigenza venezuelana quanto quella brasiliana si stanno dando da fare per incrementare e aggiornare il loro equipaggiamento, navi e spesa militare per essere all’altezza delle circostanze e delle basi che li circondano. Ma gli altri paesi della regione non dovrebbero cullarsi con questa analisi, in particolare, la nostra repubblica Argentina, pensando che solo quelli citati costituiscono il bersaglio di un eventuale attacco. Come osserva Lacolla (Dall’Afganistan alle Malvine), loro vengono per sfruttare le nostre risorse, principalmente il petrolio, successivamente punteranno la mira sull’acqua. Ma attualmente, la maggioranza delle analisi geopolitiche, comprese quelle del Consiglio di Difesa dell’UNASUR, hanno ignorato nei loro studi sulla regione le basi militari del Regno Unito.

Il tipo di configurazione che questo fatto impone non serve solo per prenderle in considerazione, ma anche per conoscere quale è il coordinamento storico e fattuale delle basi del Regno Unito insieme a quelle degli Stati Uniti. Per questa regione, un’analisi corretta non si deve soffermare alle sole basi stanziate in Colombia, bensì procedere e osservare con gli stessi occhi tutte le basi militari della NATO che, evidentemente, hanno un bersaglio, il quale non è così piccolo come lo possono essere due paesi e alcune isole con petrolio. L’obiettivo è il Sudamerica (e le sue risorse) ; tuttavia, la miopia di quei dirigenti o settori presuntamente rappresentativi della nostra società che ignorano e persino deridono gli avvertimenti che gli sono rivolti, potrà diventare molto dispendiosa nel breve termine.

Dal canto suo, il Comando Sud, meglio conosciuto come IV flotta, complementa le precedenti enclave imperialiste ed è una sorta di mega base militare mobile, è congiuntamente un complesso di portaerei e navi da guerra che circondano il Sudamerica. Nella cartina concernente le basi, si trova sovrapposta un’altra cartina con la dicitura « Souther Command. Area Focus », quella è la cartina ufficiale del Senato degli Stati Uniti, è il luogo dove navigano (in acque internazionali, ma non sempre), le imbarcazioni belliche del paese di Obama. La IV flotta ebbe la sua origine durante la Guerra Fredda per arrestare l’ideologia antimperialista che fiorisce come l’eritrina nelle nostre terre, in quanto naturale reazione di autodifesa da parte di qualsiasi società aggredita. Vale a dire che, stando al margine da ogni presentazione diplomatica, quelle navi compiono la funzione di reprimere ogni manifestazione antimperialista nella regione.

Ciò che deve rimanerci ben chiaro è che sono pochi i paesi dell’America latina che stanno adottando misure per salvaguardare non solo le proprie risorse ma anche per proteggere sé stessi. La nostra amata Argentina non appartiene a quella compagine.


 

Fonti :

Comando Sur : http://www.southcom.mil

TeleSur : http://www.telesurtv.net

Foreign and Commonwealth Office : http://www.fco.gov.uk/en


 

 

(trad. Vincenzo Paglione)

 

 

* Hugo Rodríguez è direttore del Grupo de Estudios Estratégicos Argentinos.

Fonte : http://geopoliticaargentina.wordpress.com/2010/06/21/la-otan-en-suramerica/


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

samedi, 26 juin 2010

Les méfaits de la globalisation

GlobalGrenade.jpg

Archives de Synergies Européennes - 2003

Louis VINTEUIL :

Les méfaits de la globalisation

De nos jours l’Europe, sous le masque de cette pâle caricature qu’est l’Union Européenne, est soumise à un processus d’homogénéisation dont les vecteurs et principes capitalistes et militaires sont ceux du « manu-militarisme » et du « manu-monétarisme ». En ce sens, l’Union Européenne constitue un mécanisme régional  politico-économique, un maillon dans la chaîne du globalisme qui assoit sa primauté planétaire par le biais d’une cartellisation régionale du monde. Dans cette même direction, les régimes capitalistes ultralibéraux ainsi que les sociales démocraties qui sont en oeuvre dans la plupart des pays européens ne constituent que des mécanismes régulateurs des intérêts du grand capital financier regroupés dans le groupe G7. Les fondements de l’actuelle construction européenne reposent sur un système de valeurs hérité de la Renaissance : anthropocentrisme, conception technicienne et scientiste de la vie, économicisme exacerbé, obsidionalité et biosidionalité technologique qui considèrent la nature humaine comme un produit de consommation illimité. Derrière le bien être matériel universel et la prospérité globale, se cache une stratégie de développement qui n’est en fait qu’une stratégie de violence dont les pivots sont l’égocentrisme, l’anthropocentrisme et la conception de l’existence fondée sur une croissance continue indifférenciée et dont les armes sont l’exploitation illimitée des ressources naturelles et humaines à l’échelle planétaire. Cette stratégie de la croissance continue —et dont le père spirituel est Joseph Retinger—  n’est au fond qu’une stratégie de la tension qui aboutit à l’utilisation entropique des hommes et de la nature et devient la forme contemporaine de l’évolutionnisme global high-tech. La première ébauche de cette Europe capitaliste, entamée à Bilderberg dans les années 50 et qui fut teintée d’un certain type de Macartysme américain, sera parachevée par la doctrine de la trilatérale qui fera de l’Europe une corporation, une chasse gardée des oligarchies financières transnationales. L’Europe transformée en un immense supermarché , grande ferme soumise au jeu du marché spéculateur.

L’idéologie globale est par essence totalitaire, affectée d’un évolutionnisme pathogène car, par la voie du manu-militarisme et du manu-monétarisme, elle entend effacer et niveler toutes les diversités, les réalités naturelles et plurielles afin de soumettre les peuples aux sacerdoces des lois du monothéisme du marché. Ce manu-militarisme et ce manu-monétarisme ne sont  que les moyens pour créer une zone globale de libre échange, dominée par les cartels financiers anglo-saxons. La globalisation ne s’est jamais fixée pour but philanthropique de créer une utopie d’une communauté mondiale pacifique et fraternelle. Elle n’est qu’un processus avancé de libéralisation des marchés, de délocalisation et de dérégulation des économies ainsi qu’un instrument de conquête capitaliste dans la marche au plus grand profit. En voulant contrôler l’évolution de toute forme d’existence, le globalisme engendre une communication socio-culturelle destructive, dont l’uniformisation et le nivellement viennent détruire la communication naturelle génétique.

La manipulation mentale généralisée

Ce qui caractérise  la société globale, c’est indéniablement la manipulation mentale généralisée. En effet la société globale est un vaste laboratoire où l’on s’ingénie à créer par le contrôle des esprits une société psycho-civilisée qui, grâce à la génétique, expérimente le clonage d’êtres humains, décervelés et domestiquées. C’est en quelque sorte le remake du « procédé Bokanosky » imaginé par Aldous Huxley dans le « Meilleur des mondes ». Le but est, dans l’esprit d’un Francis Fukuyama , par l’intermédiaire des biotechnologies, d’abolir le temps et les concrétudes naturelles, pour mettre un terme à l’histoire et abolir les êtres humains en tant qu’êtres concrets, pour aller au-delà de l’humain. Par les procédés de manipulation mentale on aboutit dans cette société globale à une nouvelle forme d’esclavagisme moderne. En effet, dans le passage au XXIème siècle, les nouvelles technologies, informatiques et images, bouleversent toutes les données de la vie quotidienne tout comme le champ de toutes les investigations scientifiques. L’écran devient fatal et omniprésent, comme du reste le règne du spectacle et du simulacre. C’est de l’intérieur du monde envahissant des images que peut se voir la manipulation vidéographique, se déployer le règne des artifices et des simulations, se mettre en place une sacralisation nouvelle de l’image et de sa présence. La manipulation mentale dont je parle s’apparente à celle qu’exercerait une secte globale. En effet, il y a une parenté flagrante entre la secte, exigeant le consentement intime à un groupe donné et l’adhésion au marché universel , société à la fois globale et fragmentée en cellules consuméristes rendues narcissiques. La société-bulle des cultes sectaires n’est que le plagiat microsociologique de la secte globale planétaire sommant chacun de devenir un « gentil et docile membre de l’humanité » .

Comme dans les sectes, la société globale qui se propose d’abolir le temps et l’histoire, sécrète en elle une volonté de suicide collectif refoulée, l’autodestruction étant vécue de manière indolore tel un voyage spirituel vers une autre incarnation. Il s’agit bien d’une nouvelle forme de « Karma »moderne. La révolution technologique, le règne du cyberspace, la révolution numérique, le développement des réseaux électroniques d’information provoquent un syndrome de saturation cognitive. Assommés par un flux continus d’informations et d’images, les individus sont de moins en moins en mesure de penser et de décider, donc finalement de travailler ; étant de plus en plus accablés et abrutis.

La cyber-crétinisation

Nous sommes au coeur de la cyber-crétinisation. La manipulation mentale aboutit de même à la colonisation de l’inconscient et de l’imagination, en tant qu’espace intime onirique, symbolique et archétypale. Le capitalisme traditionnel, qui se contentait jadis de la publicité, s’attaque aujourd’hui aux domaines du rêve, de l’imagination, dans les visions du monde les plus intimes. Cette colonisation de l’imagination s’opère par la diffusion de supplétifs telle la science fiction, prêt-à-porter de l’imaginaire s’adressant aux « étages intérieurs » de l’inconscient, un imaginaire standardisé, pauvre, qui se réduit le plus souvent à des formes bâtardes de vulgarisation, nulles aussi bien sur le plan littéraire qu’intellectuel. Le loisir imaginaire contemporain qui vise à instaurer une société de joie permanente se réduit à une incitation collective à l’achat. La production symbolique, autrefois ajustée à l’évolution des siècles, est devenue frénétique. Le but est ici d’aboutir à une perte d’identité et des capacité réactives. Ainsi la société globale est une vaste techno-utopie à propos de laquelle Armand Mattelart écrit « qu’elle se révèle une arme idéologique de premier plan dans les trafics d’influence, en vue de naturaliser la vision libre-échangiste de l’ordre mondial, la théocratie libérale ».

Une nouvelle forme de “racisme global”

 L’Egoité, l’anthropocentrisme et le scientisme, qui font les fondements évolutionnistes du globalisme, sont les matrices d’une nouvelle forme de « racisme global ». En effet, de part sa politique ultralibérale et les discriminations culturelles et économiques qu’il implique, le globalisme tend à accroître le fossé entre le développement psychologique et social des hommes, lequel ne correspond plus à l’évolution de sa dynamique biologique. Les types classiques de cette nouvelle forme de racisme et d’eugénisme global résultent des nouvelles formes de manipulations génétiques et de clonage qui bouleversent le cours naturel et biologique des hommes alors qu’elles augmentent les disparités culturelles et économiques. Une nouvelle forme de darwinisme social postmoderne apparaît  sous les traits de l’ultralibéralisme global qui ne laisse aucune chance aux peuples et aux individus. Une nouvelle forme d’hominisation globale de l’être humain apparaît avec le globalisme par la création et la promotion d’un génotype générique, docile consommateur entièrement conditionné par l’idéologie dominante.

Cette nouvelle hominisation est à l’opposé de la bio-pluralité des peuples et de la terre qui tend de plus en plus à disparaître. Le globalisme véhicule une conception anthropocentrique de la science alors que la science devrait être biocentrique. D’autre part, le globalisme n’est que l’expression de l’américanisation unilatérale du monde entier, l’américanisme comme universalisme, l’américanisme comme mondialisme, l’américanisme comme néocolonialisme moderne. Au lendemain de la révolution d’octobre, Lénine écrivait « l’impérialisme stade suprême du capitalisme ». Au seuil du troisième millénaire, le capital international fait monter la donne : le globalisme américain devient le stade suprême de l’impérialisme moderne. Avec ce globalisme sensé apporter la prospérité à l’échelon planétaire, on a vu émerger des « villes globales », des « cités globales », lesquelles ont généré un processus de paupérisation croissante qu’on peut qualifier de « bidonvillisation » accélérée à l’échelle du globe.

La formule des “3D”

Autrement dit , la fondation du village planétaire creuse davantage l’incommensurable fossé entre riches et pauvres. Nouvelle division internationale du travail, nouveaux conflits sociaux, capital spéculatif à 90%, voilà le nouveau visage de l’exploitation capitaliste des grands groupes multinationaux. En réalité ce qu’on entend par “mondialisation”, c’est la généralisation du système capitaliste à tous les Etats de la planète. Le « laisser faire, laisser passer », cher à A. Smith, s’est mué en un nouveau slogan qui charrie le démantèlement des barrières douanières, la suppression de toutes sortes de contraintes au libre déplacement des capitaux tout en exigeant la « non ingérence » des Etats dans la régulation des économies. « Tout ce que l’Etat peut faire, c’est ne rien faire », claironnent les mondialistes. D’où la formule des  3 D  qui se trouve consacrée de plus en plus : désintermédiation, déréglementation et décloisonnement. La mondialisation a créé un vaste horizon économique qui reste à peu près vide sur le plan symbolique et qui s’offre dès lors à l’imagination utopique. Néanmoins on assiste paradoxalement au déclin de l’américanité comme utopie, espace de rêve et de remplacement. Plusieurs données supportent un constat d’échecs des grandes utopies américaines : la démocratie radicale, le melting pot, les mythes latino-américains indigénistes de l’hybridation ou du métissage biologique d’où devait résulter une race supérieure, sont tous autant d’utopies qui n’ont pas trouvé de traduction dans le domaine social et économique et auxquelles se sont substitués les modèles  de ghettoïsation raciale et ethnique. L’idéologie globaliste est en fait un processus de falsification négative et perfide du monde.

mardi, 22 juin 2010

L'US Army à la chasse au trésor afghan

L’US Army à la chasse au trésor afghan

Le Pentagone a découvert un nouveau « Klondike » en Afghanistan. Près de 1 000 milliards de dollars seraient enfouis dans le sous-sol du pays, ce qui en ferait un géant minier d’une taille comparable à celle de l’Australie.

 

Minéraux en Afghanistan (cliquez sur la carte pour l'agrandir)

 

 

 

Depuis longtemps, les géologues russes et américains avaient identifié d’importantes richesses minières en Afghanistan. Dans ses rapports annuels sur les pays, l’US Geological Survey (USGS) avait listé les minerais présents en abondance dans ce pays : cuivre, or, minerai de fer, marbre, nickel, soufre, talc… Toutefois, Chin S. Kuo, le responsable de l’étude, notait que l’absence d’infrastructures, de main-d’œuvre qualifiée, sans oublier les problèmes non résolus de sécurité, interdisaient pour le moment l’exploitation de ces richesses.

 

 

 

Selon l’étude de l’USGS, les réserves cuprifères (prouvées et possible) du pays atteindraient 60 millions de tonnes (Mt). Une fraction des 3 milliards de tonnes possible, probable et vérifiée estimées par l’USGS, dans le monde. Celles, prouvées de minerai de fer s’établiraient à 2,2 milliards de tonnes. Une quantité respectable, mais limitée en comparaison des 160 milliards de tonnes estimées par l’organisme américain ou des 20 milliards de tonnes détenues par l’Australie. Les réserves du pays avaient également été examinées dans une enquête du Mining Journal publiée en 2006.

 

Activité « artisanale », le secteur primaire afghan ne produit annuellement pas plus de 150 000 tonnes de charbon, 50 000 tonnes de ciment, 7 000 tonnes de chromite, 20 000 barils de pétrole brut et 50 millions de mètres cubes de gaz naturel. Seul gisement de grande taille, la mine de cuivre d’Aynak dans la province de Logar a été attribuée en 2007 à l’entreprise chinoise China Metallurgical Group, pour une durée de 30 ans. Pour obtenir ce contrat, MGC a dû verser plus de 3 milliards de dollars, un milliard de plus que n’étaient prêts à verser les grands mineurs internationaux.

 

Outre les métaux ferreux et les métaux de base, l’Afghanistan dispose également d’importantes réserves de métaux mineurs dit stratégiques : tantale, niobium, béryllium, ainsi que de lithium sous plusieurs formes.

 

Malgré leur richesse, ces gisements n’étaient jusqu’à présent pas identifiés à hauteur de 908 milliards de dollars, comme le décrit un mémo du Pentagone cité par le New York Times. « Il y a là un extraordinaire » potentiel, a surenchéri le général David Petraeus, commandant en chef des troupes des Etats-Unis en Afghanistan. Affirmant avoir utilisé des documents datant de l’occupation soviétique, l’Etat-major n’hésite pas à reprendre les superlatifs, recyclant l’expression « Arabie Saoudite du lithium », pour en affubler l’Afghanistan.

 

 

Interrogée par le Washington Post, Stephanie Sanok, qui travaille sur ce type de question pour l’Ambassade des Etats-Unis en Irak, a rappelé que si « tout le monde est au courant », de la richesse minière du pays, « il n’y a aucun moyen de l’atteindre ». Pour Craig Sainsbury, un analyste de Citigroup qui a récemment effectué une évaluation des plus grandes mines du monde, l’estimation du Pentagone, qui mettrait l’Afghanistan au niveau de l’Australie, est bien trop élevée. De plus, évaluer la valeur d’un gisement sans poser la question des coûts de production n’a pas de sens. Particulièrement énergivore, l’extraction minière serait extrêmement difficile dans un pays dont la production d’électricité est au niveau des Iles Féroé.

 

La richesse minière potentielle de l’Afghanistan pourrait aussi bien l’aider à stabiliser son économie, qu’accentuer la guerre civile en cours. « Nous pouvons aussi bien devenir un nouveau Congo, qu’un Botswana ou un Chili », a commenté un ancien ministre des Finances afghan, Ashraf Ghani.

 

En janvier dernier, le Wall Street Journal expliquait que « le ministère des Mines est considéré comme l’un des départements les plus corrompus du gouvernement ». Les concessions sont attribuées en fonction des pots-de-vin et non des intérêts du pays, souligne le quotidien de Wall Street, mettant en cause l’attribution d’Aymak. Reconnaissant la difficulté à réunir les capitaux nécessaires à l’exploitation du cuivre ou du minerai de fer, l’USGS et le Département de la Défense tentent d’identifier les projets qui ne nécessitent pas autant de capitaux.

 

L’usine nouvelle

 

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D’autres articles sur le sujet :

 

L’Afghanistan disposerait de gigantesques réserves de minerais, dont du lithium

 

Des géologues américains ont découvert en Afghanistan de gigantesques réserves de minerais, dont du cuivre et du lithium, évaluées à plusieurs milliards de dollars, a rapporté lundi le New York Times.

 

Ces gisements, qui comprendraient également du fer, de l’or, du niobium et du cobalt, seraient suffisants pour faire de ce pays ravagé par la guerre un des premiers exportateurs mondiaux de minerais, ont estimé des responsables de l’administration américaine cités par le journal.

 

Les seules réserves de lithium de l’Afghanistan seraient ainsi comparables à celles de la Bolivie, détenteur des premières réserves mondiales, selon le New York Times.

 

Le lithium est un composant indispensable des batteries rechargeables, utilisé pour les téléphones et les ordinateurs portables ainsi que pour les automobiles électriques.

 

L’Afghanistan pourrait ainsi devenir « l’Arabie saoudite du lithium« , selon une note interne du Pentagone citée par le journal.

 

De même, les réserves de fer et de cuivre seraient susceptibles de faire de l’Afghanistan un des principaux producteurs mondiaux, selon les responsables cités par le journal

 

« Il y a là-bas un potentiel stupéfiant« , a déclaré au journal le général David Petraeus, chef d’Etat-major général, selon qui toutefois « il y a bien sûr beaucoup de ’si’ « . « Mais je pense que, potentiellement, c’est d’une immense portée« , a-t-il ajouté.

 

« Cela deviendra l’ossature de l’économie afghane« , a estimé pour sa part Jalil Jumriany, conseiller du ministère afghan des Mines, cité par le journal.

 

La découverte a été faite par une petite équipe de géologues et responsables du Pentagone, en s’appuyant sur les cartes et les données collectées par les experts miniers soviétiques durant l’occupation par l’URSS de ce pays durant les années 1980.

 

Les géologues afghans avaient caché chez eux pour les mettre à l’abri ces documents après le retrait de l’URSS, avant de les ressortir en 2001 après la chute des talibans.

 

« On avait les cartes, mais il n’y eu pas de suite, parce qu’on a eu 30 à 35 ans de guerre« , a déclaré Ahmad Hujabre, un ingénieur afghan qui travaillait au ministère des Mines dans les années 1970.

 

Selon le journal, le président Hamid Karzaï a été récemment informé de ces découvertes par un responsable américain.

 

Les Echos

 

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Du lithium pour les batteries en Afghanistan

 

Depuis 2001, les Américains cherchent désespérément Oussama Ben Laden dans les montagnes afghanes mais voilà que leurs efforts pourraient être récompensés. Si le riche Saoudien est toujours introuvable, en revanche, des géologues travaillant pour l’armée US viennent de découvrir que le sous-sol d’Afghanistan regorgeait de richesse en tous genres.

 

Outre le cuivre, le colbat, l’aluminium et l’or, ils auraient trouvé un important gisement de lithium, équivalent à celui de la Bolivie, actuellement premier fournisseur de ce métal.

 

Les esprits chagrins se demandent sans doute ce que viennent faire ces considérations minières au coeur d’un site consacré à l’actualité des télécoms. Les plus aguerris d’entre vous auront cependant fait le rapprochement : le lithium est un des principaux composants des batteries modernes, celles-là même qui alimentent les terminaux les plus performants du type iPhone.

 

On se souvient d’ailleurs qu’en 2008, d’inquiétants cas d’auto-combustion d’iPod nano s’étaient déclarés et qu’en août 2009 un iPod Touch avait explosé dans un jardin anglais. Dans chacun de ces cas, la batterie lithium-ion des appareils avait été incriminée. On imagine alors ce que les Talibans pourraient faire avec de telles quantités de lithium sous leurs pieds.

 

DegroupNews

 

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Les réserves minières, une vaste opération de com’

 

Le 14 juin, The New York Times annonçait en une que les Etats-Unis avaient découvert de vastes gisements miniers en Afghanistan. En fait, cette information, connue depuis longtemps, apparaît pour l’armée américaine comme un moyen de justifier sa présence sur le terrain.

 

S’il n’était pas signé James Risen – ce grand reporter du New York Times est actuellement en conflit avec l’administration Obama, qui exige qu’il divulgue l’identité de ses sources -, l’article paru le lundi 14 juin à la une du quotidien : « U.S. Identifies Vast Riches of Minerals in Afghanistan » [Les Etats-Unis découvrent de vastes richesses minières en Afghanistan] aurait suscité une bonne dose de scepticisme. D’autant qu’une simple recherche sur Google fait apparaître un certain nombre d’articles plus anciens contenant des informations identiques.

 

L’administration Bush avait conclu en 2007 que l’Afghanistan était potentiellement assis sur de vastes réserves de minerais et que cet élément devait être pris en compte dans la politique américaine de soutien au gouvernement de Kaboul. Les Soviétiques étaient déjà au courant en 1985, comme le montre une histoire économique de la région depuis 2002 sur le site de l’Institut de technologie de l’Illinois : « L’Afghanistan possède des réserves d’une grande variété de minerais, notamment du fer, du chrome, du cuivre, de l’argent, de l’or, du talc, du magnésium, du mica, du marbre et du lapis-lazuli. Dès 1985, des études soviétiques signalaient également la présence de réserves potentiellement intéressantes d’amiante, de nickel, de mercure, de plomb, de zinc, de bauxite, de lithium et de rubis. Au milieu des années 1980, le gouvernement afghan s’apprêtait à exploiter à grande échelle certaines de ces ressources avec le soutien technique des Soviétiques. La priorité était donnée aux vastes réserves de fer et de cuivre du pays.« 

 

Selon un ancien haut responsable du département d’Etat américain, des discussions sur la meilleure façon d’exploiter ces ressources à l’avenir étaient déjà en cours entre Washington et le gouvernement Karzaï dès 2006. Et, en 2009, le gouvernement afghan a commencé à lancer des appels d’offres pour divers projets d’exploitation minière.

 

La façon dont l’information a été présentée – avec des citations du général David Petraeus en personne, commandant des forces américaines en Afghanistan et en Irak, et de Paul Brinkley, promu pour l’occasion au poste de vice-ministre de la Défense – laisse penser à une vaste opération de communication visant à influencer l’opinion publique à propos de la guerre. En effet, comme le savent ceux qui ont lu les travaux du géographe américain Jared Diamond sur le déterminisme géographique, un pays possédant de vastes ressources en minerai tend vers la stabilité, pourvu qu’il soit doté d’un gouvernement central fort et stable.

 

Dans son article, Risen souligne que la découverte de ces réserves tombe à pic. Il parle notamment des réserves de lithium, un métal essentiel dans l’industrie électronique. Un haut fonctionnaire, lui, dit que l’Afghanistan pourrait devenir « l’Arabie Saoudite du lithium« , en référence à l’or noir qui a fait la richesse du royaume.

 

Le sentiment général qui prévaut aux Etats-Unis et ailleurs dans le monde à propos de la guerre est que la stratégie américaine de contre-insurrection n’a pas réussi à asseoir le gouvernement Karzaï dans les régions hostiles. Et que cette stratégie est vouée à l’échec. Pour les théoriciens et les stratèges du Pentagone, ce n’est pas ainsi que les choses devaient tourner.

 

Quel meilleur moyen de rappeler aux gens – par « gens », je veux dire les Chinois, les Russes, les Pakistanais et les Américains – que le pays est promis à un avenir radieux que de diffuser ou rediffuser des informations valables mais déjà connues sur la richesse potentielle de la région ?

 

L’administration Obama et les militaires américains savent parfaitement qu’un article en une du New York Times attirera instantanément l’attention du monde. L’information est exacte, mais elle n’est pas si nouvelle que cela. Il faut s’interroger sur le contexte dans lequel intervient une telle révélation.

 

La « découverte » américaine fait sourire les Russes et saliver les Afghans

 

« Les cartes soviétiques ont aidé le Pentagone à trouver beaucoup de choses utiles en Afghanistan« , souligne le quotidien gouvernemental russe Rossiskaïa Gazeta à propos de la découverte de gisements miniers par des géologues américains dont fait état l’article du New York Times.

 

Il ne restait « plus qu’à se rendre sur place et à vérifier les données » collectées par les géologues soviétiques et archivées à la bibliothèque de Kaboul, écrit la presse russe. « Mille milliards de dollars en perspective« , titre le journal, en référence au montant auquel sont évaluées les réserves en minerai, notant que, comme en Irak avec le pétrole, c’est l’appât du gain qui motive les Américains en Afghanistan.

 

« Le mythe de l’Eldorado sert souvent à justifier l’expansion impériale. Les grandes puissances se persuadent souvent qu’il faut qu’elles contrôlent tel ou tel territoire éloigné parce qu’il est censé regorger d’or, de diamants, de pétrole, etc., et qu’un contrôle physique s’avère essentiel pour préserver l’accès à ces richesses« , rappelle le professeur de relations internationales Stephen Walt sur le site Internet du bimestriel américain Foreign Policy, qui a amplement commenté la « découverte » américaine.

 

En Afghanistan, le webzine Afghan Paper se réjouit de cette découverte, mais redoute un pillage des ressources, notamment en lithium, par les pays étrangers. « L’Etat afghan n’a pas les moyens financiers ni la stabilité politique nécessaires pour gérer au mieux l’exploitation d’un tel gisement. Il est possible que des pays tels que l’Inde, la Chine ou la Russie essaient de s’implanter davantage dans notre pays pour tirer profit de nos ressources en lithium. Quelles sont les chances que notre peuple profite un jour des retombées économiques de cette découverte ? Si les dirigeants de notre pays ne bradent pas entièrement le sol aux pays étrangers en ne pensant qu’à leur profit personnel, alors ce gisement sera notre chance pour ne plus dépendre des aides extérieures et affirmer une véritable indépendance.« 

 

 

 

 

 

 

- Article original en anglais : The Atlantic

 

- Traduction française et encadré : Courrier International

 

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Afghanistan : le président Karzaï appelle le Japon à investir dans les minerais

 

Le président afghan Hamid Karzaï a appelé vendredi le Japon à investir dans les réserves colossales de minerais découvertes en Afghanistan, qui pourraient faire de ce pays ravagé par la guerre un des premiers exportateurs mondiaux.

 

Le gouvernement afghan a estimé jeudi à trois mille milliards de dollars la valeur de ces gisements, soit trois [fois] plus que les estimations des géologues américains révélées en début de semaine.

 

 

Selon un responsable du Pentagone, l’Afghanistan disposerait de réserves énormes de lithium, de fer, de cuivre, d’or, de niobium et de cobalt.

 

« Les perspectives de l’Afghanistan sont donc très bonnes« , a dit le président Karzaï. « L’Arabie saoudite est la capitale mondiale du pétrole et l’Afghanistan va devenir la capitale mondiale du lithium.« 

 

Le lithium est un composant indispensable des batteries rechargeables, utilisé pour les téléphones et les ordinateurs portables ainsi que pour les automobiles électriques.

 

Les seules réserves de lithium de l’Afghanistan seraient comparables à celles de la Bolivie, qui jouit des premières réserves mondiales, selon les experts américains.

 

« Le Japon est le bienvenu pour participer à l’exploration de lithium« , a souligné le président afghan.

 

« L’Afghanistan doit donner en priorité l’accès aux pays qui l’ont aidé massivement au cours des dernières années« , a-t-il ajouté à l’adresse du deuxième pourvoyeur d’aide à son pays après les Etats-Unis.

 

Le Japon a promis l’an dernier de verser d’ici 2013 jusqu’à cinq milliards de dollars pour la reconstruction de l’Afghanistan.

 

Le président afghan a remercié jeudi le nouveau Premier ministre japonais Naoto Kan pour le soutien solide du Japon. Mais Tokyo a insisté sur la nécessité d’une meilleure gouvernance de l’Afghanistan miné par la corruption.

 

AFP (via Le Point)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

lundi, 21 juin 2010

I processi di integrazione nell'America Indiolatina

I processi di integrazione nell’America Indiolatina

di Sergio Barone

Fonte: eurasia [scheda fonte] 
 

I processi di integrazione nell’America Indiolatina

In America Latina dalla fine della Guerra Fredda sono in corso processi di integrazione regionale che vanno nel senso dell’autodeterminazione economica e politica, lontani dall’influenza del modello neoliberale e dal dollaro.

Il Mercosur stesso, che ha le sue fondamenta nella Dichiarazione di Foz Iguazù del 1985  (integrazione tra Brasile e Argentina), ha parzialmente cambiato nel corso del tempo la sua impostazione iniziale, dando maggiore importanza ai temi del lavoro, oltre che del commercio.

Il progetto di integrazione più originale e significativo dal punto di vista geopolitico è l’Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América – Tratado de Comercio de los Pueblos (ALBA-TCP), che si contrappone ai progetti neoliberisti nordamaricani dell’ALCA nell’area, per uno sviluppo ed un’integrazione che parta da principi antagonisti rispetto a quelli liberisti: ovvero sovranità, autodeterminazione, cooperazione, solidarietà.

L’ALBA mostra così di essere, oltre che uno strumento di integrazione fra Paesi della stessa area, un altro modello di società e sviluppo possibile rispetto al capitalismo globalizzato dai cui binari non sembra possibile staccarsi.

MERCOSUR

L’embrione di quello che oggi conosciamo come MERCOSUR (Mercato Comune del Sud) fu il Trattato di Asunción, firmato il 26 luglio 1991 da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay.

Gli organismi decisionali del Mercosur sono:

Il Consiglio del Mercato Comune, organo supremo (Decisioni);

il Gruppo del Mercato Comune, che si occupa delle questioni socio-lavorative (Risoluzioni);

la Commissione del Commercio del Mercosur (Direttive).

Esiste anche un Parlamento che non ha poteri decisionali, ma emette un parere per ogni direttiva, decisione o risoluzione degli organi decisionali e ha il compito di presentare un documento annuale circa la situazione dei diritti umani nei Paesi membri, oltre ad avere il ruolo di interlocutore privilegiato per ogni organo dell’Organizzazione.

I propositi iniziali del Mercosur erano: raggiungere

la libera circolazione di merci, servizi e fattori produttivi entro i Paesi membri;

l’adozione di una tassa comune con l’esterno  e di una politica commerciale comune;

la coordinazione tra le politiche macroeconomiche degli Stati membri;

l’armonizzazione delle legislazioni interne per avanzare nell’integrazione regionale;

Attualmente il raggiungimento di questi obiettivi soffre le molte eccezioni che ogni Paese applica alla lista di prodotti a cui non vuole applicare l’imposta comune e per questi motivi sono in molti a ritenere il MERCOSUR una unione doganiera incompleta o parziale.

Quello che è da rilevare invece è che, nonostante il Trattato di Asunción non prevedesse nessuno spazio  per i temi del lavoro, fin da subito i sindacati rappresentati nella Coordinadora de Centrales Sindicales del Cono del Sur (CCSCS), assieme ai Ministeri del Lavoro dei vari Paesi hanno spinto per discutere e prendere le adeguate misure a riguardo dell’impatto che l’integrazione avrebbe avuto sulle condizioni socio-lavorative nei Paesi membri.

Così, a un anno dalla nascita del Mercosur, nacque il Sotto Gruppo sulle Questioni socio-lavorative, dipendente dal GMC (Gruppo del Mercato Comune) e organizzato come un vertice tripartito tra sindacati, imprenditori e Ministeri del Lavoro, che ha generato un fruttuoso dialogo interregionale a partire dal quale il Mercato Comune si è dotato di organismi e strumenti per affrontare le tematiche del lavoro.

Nel 1997 si firmò la prima norma di contenuto socio-lavorativo del Mercosur (Acuerdo Multilateral de Seguridad Social del Mercado Común del Sur, ratificato solo dopo anni) e l’anno seguente con la Dichiarazione Sociolavorativa del Mercosur si stabilirono le basi per l’emanazione di risoluzioni di diretta applicazione (senza necessità di ratifica) nei Paesi membri, sempre con lo schema delle riunioni tripartitiche, che riuniscono gli interessi del mondo del lavoro, dell’impresa e i Ministeri del lavoro.

Dopo le associazioni nel Mercosur da parte del Cile e della Bolivia nel 1996, del Perù nel 2004 e di Colombia ed Ecuador nel 2006, si aspetta la ratifica dell’adesione venezuelana da parte del Paraguay.

Il Venezuela firmò gli accordi pre-adesione assieme alla Colombia ed all’Ecuador, ma ancora il Congresso paraguayense non ha dato il suo nullaosta per l’opposizione ideologica al presidente venezuelano Chavez.

Tuttavia le cose si dovrebbero sbloccare presto visto che lo stesso Presidente del Paraguay, Lugo, ha esortato di recente il proprio Congresso affinchè acceleri il processo di ratifica, in quanto l’ingresso venezuelano e’ considerato importante per gli interessi di integrazione di tutti i Paesi della regione.

ALBA

L’ALBA, nata il 14 dicembre 2004 a l’Havana su iniziativa del Presidente venezuelano Hugo Chavez, è oggi composta da otto Paesi (dopo l’espulsione dell’Honduras a seguito del golpe del giugno 2009), Venezuela, Cuba, Ecuador, Bolivia, Nicaragua, Rep.Dominicana, Granada, Antigua e Barbuda.

Se il Mercosur è la gamba economico-commerciale dell’integrazione dell’america indiolatina (non per niente i due Paesi cardine nella sua costruzione furono Brasile e Argentina, storicamente i più floridi della zona), l’ALBA è la sua gamba politica.

L’iniziativa per la nascita di questo nuovo organismo di integrazione regionale è portata avanti principalmente da Cuba e Venezuela e pretende di abbracciare tutte le nazioni che si trovano tra il Rio Bravo e la Patagonia, realizzando così l’ideale panamericano di Bolìvar.

L’obiettivo è quello di superare i nazionalismi egoistici di ogni Paese al fine di integrarsi secondo i principi di solidarietà e cooperazione, in modo da contrastare il modello neoliberale imposto dagli Stati Uniti tramite l’Accordo di Libero Commercio delle Americhe (ALCA).

La massima autorità è il Consiglio dei Presidenti dell’ALBA, allo stesso livello si trova il Consiglio dei Movimenti Sociali, che si propone di rappresentare appunto i movimenti sociali e i popoli dei Paesi membri, ma che è ancora in via di definizione.

Le principali forme di integrazione dell’ALBA sono i Trattati di Commercio dei Popoli, i cosiddetti progetti “Gran Nazionali” e le imprese Gran Nazionali, che si oppongono per struttura e obiettivi alle note imprese Trans-nazionali.

Queste forme di integrazione hanno come caratteristica primaria il rigetto di qualsiasi principio neoliberista, visto solo come uno strumento di colonizzazione del Nord America.

I Trattati di Commercio dei Popoli sono accordi di interscambio di beni e servizi per soddisfare le esigenze delle persone, al di là della logica del mero profitto.

Si sostentano sui principi di solidarietà, reciprocità, trasferimento tecnologico, utilizzo dei vantaggi che offre ogni Paese per il bene collettivo, risparmio di risorse e includono anche facilitazioni creditizie per facilitare i pagamenti.

Essi nascono per opporsi ai Trattati di Libero Commercio proposti dagli Stati Uniti, che portano verso la distruzione delle economie nazionali, incapaci di competere, senza l’adeguata protezione, con il grande capitale privato straniero.

I progetti Gran Nazionali danno concretezza ai principi solidaristici e antiliberisti espressi dall’ALBA, nonchè ai processi economici e sociali dell’integrazione americana.

Tali progetti sono a differenti stati di sviluppo e quelli che fino ad ora hanno avuto più successo sono il progetto della Banca dell’ALBA e quello di Alfabetizzazione e Post-alfabetizzazione (che ha fatto della zona dell’ALBA il primo spazio regionale libero da analfabetismo), ma esistono progetti Gran Nazionali in ogni settore, dalla scienza all’alimentazione, passando per salute e commercio.

Le imprese Gran Nacional nascono sempre da un progetto e possono essere composte dalla collaborazione fra due o più Stati aderenti all’ALBA.

Il concetto che le muove si oppone allo strapotere dei grandi gruppi privati (Corporations Transnazionali) e del mercato, a favore di una partecipazione dello Stato nell’economia affinchè si ottenga una produzione ed un’allocazione di risorse più razionale, che tenga conto innanzitutto dei reali bisogni della popolazione, a spese della logica del profitto, come fine ultimo dell’impresa.

Esistono imprese Gran Nazionali in molti settori: pesca (Transalba), trasporti, agricoltura e telecomunicazioni (Albatel), settore petrolifero (Albanisa, società mista venezuelo-nicaraguense) , costruzione di porti (Puertos de Alba, nata dalla collaborazione tra Cuba e Venezuela).

Il progetto forse più ambizioso dell’ALBA è la creazione di una moneta comune (SUCRE) da usare negli scambi commerciali fra Paesi dell’area  per sostituire il dollaro, che è già in piena fase di realizzazione.

Dapprima si è utilizzato esclusivamente come unità di misura comune (Sistema Unitario de Compensaciòn Regional, SUCRE), mentre il 27 gennaio è entrata in funzione come moneta commerciale a tutti gli effetti e il 4 febbraio vi è stata la prima transazione commerciale in SUCRE, con l’esportazione di diverse tonnellate di riso venezuelano verso Cuba.

Conclusioni

Oggi in America Latina ci sono degli attori che, dopo due secoli di subalternità alla dottrina Monroe, vogliono giocare il proprio ruolo nello scacchiere internazionale e nello scegliere il proprio modello economico.

Vi è una potenza regionale, il Brasile, che proprio di recente ha dimostrato come sia capace di giocare un ruolo indipendente nel mondo delle relazioni internazionali (si veda l’accordo con la Turchia e Iran sul nucleare) e che è la locomotiva economica trainante del Mercosur.

Proprio il Brasile si è espresso a più riprese per l’ingresso del Venezuela nel MERcado COmune del SUR, poichè, anche per le sue risorse energetiche, è un Paese fondamentale per l’integrazione sudamericana e ormai la ratifica da parte del Paraguay dovrebbe avvenire presto.

Il Venezuela è anche il motore dell’ALBA (organizzazione composta oggi da otto Paesi, ma con l’obiettivo di aumentarne il numero), organizzazione di ispirazione socialista e pan-americana che si propone di disegnare un altro modello di società, antagonista al modello neoliberale americano. Difatti la pressione statunitense nella regione è cresciuta parecchio negli ultimi anni, con la costruzione di sette nuove basi militari in Colombia, la riattivazione della IV Flotta (ottobre 2008) destinata a operare nel Sud Atlantico (inattiva da 52 anni) e attraverso il colpo di Stato contro il Presidente dell’Honduras Zelaya, che ha portato il Paese centroamericano fuori dall’organizzazione Bolivariana.

Il successo di queste iniziative di integrazione regionale dipenderà molto dai concreti risultati che si otterranno nel migliorare le condizioni materiali delle popolazioni sudamericane, poichè, specialmente nel caso dell’ALBA, un cambio nelle preferenze politiche da parte dei cittadini potrebbe interrompere o azzoppare tutto il processo, facendo ritornare preponderante l’influenza statunitense nel decidere le politiche economiche nell’area.

Nonostante i Paesi dell’area siano differenti fra loro (come composizione etnica, popolazione, estensione, sviluppo industriale) e dunque abbiano in parte interessi differenti, finora ha prevalso il rispetto per l’autonomia di ogni Paese e la consapevolezza che una maggiore integrazione può portare solo vantaggi ai Paesi dell’area, al di là delle loro priorità specifiche.

* Sergio Barone è dottore in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)


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samedi, 19 juin 2010

Israël s'inscruste en Irak

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Israël s’incruste en Irak
par Gilles Munier
(Afrique Asie – juin 2010)

Israël s’est vite rendu compte que les Etats-Unis perdraient la guerre d’Irak, et que les projets d’établissement de relations diplomatiques et de réouverture du pipeline Kirkouk- Haïfa promis par Ahmed Chalabi, étaient illusoires. Ariel Sharon a alors décidé, selon le journaliste d’investigation Seymour Hersh, de renforcer la présence israélienne au Kurdistan irakien afin que le Mossad puisse mettre en place des réseaux qui perdureraient dans le reste du pays et le Kurdistan des pays voisins, quelle que soit l’issue des combats.

Programme d’assassinats

   La participation israélienne à la coalition occidentale ayant envahi l’Irak est loin d’être négligeable, mais demeure quasiment secrète. Les Etats-Unis ne tiennent pas à ce que les médias en parlent, de peur de gêner leurs alliés arabes et de crédibiliser leurs opposants qui dénoncent le "complot américano-sioniste" au Proche-Orient.

   Des Israéliens ne sont pas seulement présents sous uniforme étasunien, sous couvert de double nationalité, ils interviennent dès 2003 comme spécialistes de la guérilla urbaine à Fort Bragg, en Caroline du Nord, centre des Forces spéciales. C’est là que fut mise sur pied la fameuse Task Force 121 qui, avec des peshmergas de l’UPK (Talabani), arrêta le Président Saddam Hussein. Son chef, le général Boykin se voyait en croisé combattant contre l’islam, « religion satanique ». C’était l’époque où Benyamin Netanyahou se réunissait à l’hôtel King David à Jérusalem avec des fanatiques chrétiens sionistes pour déclarer l’Irak : « Terre de mission »... En décembre 2003, un agent de renseignement américain, cité par The Guardian, craignait que la "coopération approfondie" avec Israël dérape, notamment avec le " programme d’assassinats en voie de conceptualisation ", autrement dit la formation de commandos de la mort. Il ne fallut d’ailleurs pas attendre longtemps pour que le premier scandale éclate. En mars 2004, le bruit courut que des Israéliens torturaient les prisonniers d’Abou Ghraib, y mettant en pratique leur expérience du retournement de résistants acquise en Palestine. Sur la BBC, le général Janis Karpinski, directrice de la prison révoquée, coupa court aux dénégations officielles en confirmant leur présence dans l’établissement pénitentiaire.

   La coopération israélo-américaine ne se développa pas seulement sur le terrain extra-judiciaire avec la liquidation de 310 scientifiques irakiens entre avril 2003 et octobre 2004, mais également en Israël où, tirant les leçons des batailles de Fallujah, le Corps des ingénieurs de l’armée étasunienne a construit, dans le Néguev, un centre d’entraînement pour les Marines en partance pour l’Irak et l’Afghanistan. Ce camp, appelé Baladia City, situé près de la base secrète de Tze’elim, est la réplique grandeur nature d’une ville proche-orientale, avec des soldats israéliens parlant arabe jouant les civils et les combattants ennemis. D’après Marines Corps Time, elle ressemble à Beit Jbeil, haut lieu de la résistance du Hezbollah à l’armée israélienne en 2006…

Les « hommes d’affaire » du Mossad

   En août 2003, l’Institut israélien pour l’exportation a organisé, à Tel-Aviv, une conférence pour conseiller aux hommes d’affaires d’intervenir comme sous-traitants de sociétés jordaniennes ou turques ayant l’aval du Conseil de gouvernement irakien. Très rapidement sont apparus en Irak des produits sous de faux labels d’origine. L’attaque par Ansar al-Islam, en mars 2004, de la société d’import-export Al-Rafidayn, couverture du Mossad à Kirkouk, a convaincu les « hommes d’affaires » israéliens qu’il valait mieux recruter de nouveaux agents sans sortir du Kurdistan, mais elle n’a pas empêché les échanges économiques israélo-irakiens de progresser. En juin 2004, le quotidien économique israélien Globes évaluait à 2 millions de dollars les exportations vers l’Irak cette année là. En 2008, le site Internet Roads to Iraq décomptait 210 entreprises israéliennes intervenant masquées sur le marché irakien. Leur nombre s’est accru en 2009 après la suppression, par le gouvernement de Nouri al-Maliki, du document de boycott d’Israël exigé des entreprises étrangères commerçant en Irak, véritable aubaine pour les agents recruteurs du Mossad.

 

Equilibri multipolari

Equilibri Multipolari

di Lorenzo Salimbeni

Fonte: cpeurasia

Resoconto della tavola rotonda

Fuoco Edizioni ha scelto coraggiosamente di specializzarsi in un genere di nicchia come quello dell’analisi geopolitica, concedendosi pure qualche sconfinamento in ambito storico. L’editore Luca Donadei ha quindi organizzato assieme ad Eurasia. Rivista di studi geopolitici il 10 giugno la serata Equilibri multipolari. Politiche e strategie per il nuovo secolo per presentare alcune delle sue ultime opere ed i loro autori presso la Biblioteca Comunale Enzo Tortora di Roma, grazie alla collaborazione del dott. Emanuele Merlino.

Donadei ha ben evidenziato come, finita la contrapposizione della Guerra Fredda e con l’inizio della crisi del consequenziale unipolarismo statunitense, oggi lo scenario internazionale si in continuo sussulto, con potenze emergenti come quelle del BRIC (acronimo che indica Brasile, Russia, India e Cina) che chiedono maggiore capacità decisionale, laddove la potenza statunitense accusa colpi a vuoto in ambito militare, economico e diplomatico. In questa situazione è preziosa la guida rappresentata da La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali, opera prima di Daniele Scalea, redattore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, con prefazione del Generale Fabio Mini. Apre quest’agile volumetto una disamina sulle principali scuole e dottrine geopolitiche, comun denominatore delle quali è la strategia per il controllo del cosiddetto Heartland, zona nevralgica del globo per la sua posizione e per le sue risorse energetiche che grosso modo corrisponde all’attuale Russia, per cui gran parte di guerre e contrasti erano dovuti proprio al possesso ovvero alla possibilità di influenzare quest’area. Venendo all’attualità, vengono approcciate le principali tematiche d’attualità, a partire dal risveglio dell’orso russo: smaltita la botta della dissoluzione dell’URSS (“l’evento geopolitico più importante della nostra epoca” l’ha definita Vladimir Putin), il Cremlino oggi attraverso alleanze, sistemi di mercato comune e consorzi energetici, sta riallacciando le fila con quei Paesi che ricadono nel suo “estero vicino” (sostanzialmente le ex repubbliche sovietiche), i quali però sono pure al centro dell’interesse statunitense, che, a suon di rivoluzioni colorate e di avveniristici progetti di scudo spaziale, va stringendo sempre più la morsa attorno alla rinascente Federazione russa. Nella massa eurasiatica si trovano anche altre due potenze emergenti a spron battuto, vale a dire la Cina e l’India, entrambe con problemi ancora irrisolti in termini di approvvigionamento energetico, di unificazione nazionale (Formosa e altre isole del Mar Cinese per Pechino, Pakistan e Bangladesh per Nuova Delhi) e di separatismi interni ai quali rispondono in maniera diametralmente opposta. Rispetto al federalismo indiano, ben più efficace sembra l’accentramento cinese, grazie al quale “il Drago” può affrontare le sfide poste dallo sfruttamento delle risorse africane e cimentarsi quasi alla pari con gli USA nella contesa per le rotte del petrolio che dal Medio Oriente deve irrorare il colosso cinese. Offre chiavi di lettura preziosissime per interpretare le notizie di maggiore attualità il capitolo dedicato alla contrapposizione fra Iran e Israele, con quest’ultimo Paese che è rimasto l’ultimo bastione sicuro della politica statunitense in Medio Oriente, anche se, come hanno ben documentato Wall e Mearsheimer, gran parte dell’agenda di politica estera di Washington è in effetti dettata da Tel Aviv. Sintomo più evidente della crisi statunitense è per giunta la perdita di controllo del “cortile di casa”, vale a dire quell’America “indiolatina” (così definita dalla redazione di Eurasia per evidenziare il ruolo fondamentale svolto dai vessilliferi degli abitanti originari nelle più recenti svolte politiche) che sull’onda dei successi elettorali dei movimenti neobolivariani ha posto (forse) finalmente fine all’epoca dei colpi di stato e delle ingerenze a stelle e strisce.

 

Ingerenze a stelle e strisce che sono invece ancora vive e vegete in Italia, come ha ben argomentato Fabrizio Di Ernesto, giornalista professionista e autore di Portaerei Italia. Sessant’anni di NATO nel nostro Paese, basti pensare a come il movimento No Dal Molin venga ostacolato in tutti i modi nella sua battaglia civile finalizzata a scongiurare l’allargamento della base americana sita a Vicenza, ovvero alla strage del Cermis rimasta di fatto impunita in base ad un codicillo sottoscritto dal governo di Roma e che garantisce la non processabilità all’estero per quei soldati statunitensi che commettano reati in Italia. In giorni in cui in Giappone il governo Atoyama dà le dimissioni perché non è stato capace di far chiudere la base di Okinawa, in Italia non possiamo neppure dire quante siano con precisione le installazioni a disposizione in un modo o nell’altro degli Stati Uniti (in ogni caso, un centinaio almeno). Risulta, infatti, che Gaeta e La Maddalena non facciano più parte del novero, eppure vi sono ancora soldati americani di presidio… Tant’è, queste basi, la cui collocazione geografica è oltremodo significativa (a nord-est in prospettiva balcanici, in Sardegna per surrogare l’ondivago appoggio francese, in Sicilia per proiettarsi verso l’Africa ed in Puglia per agire verso il Vicino e Medio Oriente), sono una garanzia per gli USA di poter proseguire l’asservimento della colonia italiana conseguente agli esiti della Seconda Guerra Mondiale: quei politici come Mattei, Moro e Craxi, i quali hanno cercato di riconquistare fette di sovranità, sappiamo tutti come sono “casualmente” finiti.

In questo scenario un Paese cardine per l’accesso ai Balcani è la Romania, facente parte di quella “Nuova Europa” che, sfuggita al controllo moscovita, ora si presta a garantire appoggio diplomatico e non solo all’avventurismo della politica estera atlantista. Antonio Grego, collaboratore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, nel suo Figlie della stessa lupa ha ripercorso la politica diplomatica intercorsa fra Roma e Bucarest fra le due guerre mondiali. A prescindere dalla ricostruzione storica che spiega i tentennamenti rumeni fra l’allineamento alle potenze democratiche occidentali, cui miravano i governi liberalnazionali e conservatori dell’epoca, ed il richiamo delle comuni radici culturali e linguistiche che esercitava l’Italia fascista, si tratta di un testo importante per approfondire la conoscenza di questo Paese. Oggi si parla dei romeni soprattutto con riferimento ad incresciosi fatti di cronaca, però deve essere ben chiaro che etimologicamente “Romania” non ha niente a che fare con il ceppo “rom” degli zingari, altresì è la testimonianza più lampante di come l’antica Dacia si senta legata a quella Roma imperiale che la conquistò e vi lasciò la sua impronta.

Ha tirato le somme della tavola rotonda il prof. Antonio Caracciolo, docente all’Università la Sapienza di Roma, il quale, da buon filosofo del diritto e fresco di un corso monografico su Carl Schmitt, un giusfilosofo col pallino per la geopolitica appunto, ha evidenziato come gli USA oggi abbiano ben presente la lezione hobbesiana che nel bellum omnium contra omnes che intercorre fra Stati sovrani una delle prime armi è quella di creare disordine in casa del nemico e inoltre non rispettino il diritto internazionale, salvo poi in certe circostanze pretendere che certi Paesi lo facciano, per cui viene a cadere l’universalità della norma. Se questi sono gli effetti dell’unipolarismo in prospettiva dell’utopistico Stato unico che dovrebbe affratellarci tutti, ben venga un mondo multipolare in cui le varie potenze regionali avranno modo di mettere in atto un sistema di scambi e compensazioni che sicuramente peggiore di quanto oggi abbiamo non potrà essere.


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US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

US Strategy in Eurasia and Drug Production in Afghanistan

 

Tiberio Graziani

Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici

(Eurasia. Journal of Geopolitical Studies - Italy)

www.eurasia-rivista.org  - direzione@eurasia-rivista.org

 

 

51faLsPf7yL__SS500_.jpgA geopolitical approach aimed at understanding the relationship between the worldwide US strategy and the presence of North American forces in Afghanistan is given. The US penetration in the Eurasian landmass is stressed particularly with regard to the Central Asian area, considered as the underbelly of Eurasia in the context of the US geopolitics. In order to determine the real players in the Afghan theatre, a critics is moved to some general concepts used in geopolitical and international relations studies. The main characteristics  of potential candidates able to overcome the Afghan drug question are discussed. Among these a particular role  is due to Iran, Russia ad China. Anyway, due to the interrelations between the US strategy in Eurasia and the stabilization of Afghanistan, this latter can be fully accomplished only in view of the Eurasian integration process.

 

Key words: Afghanistan, geopolitical, Eurasian, Eurasia, drug

 

 

presentation

 

In order to address properly, without any ideological prejudice, but with intellectual honesty, the question about the drug production in Afghanistan and the related international problems, it is necessary and useful to define (even if schematically) the geopolitical framework and to further clarify some concepts, usually assumed as well known and commonly shared.

 

the geopolitical framework

 

Considering the main global actors nowadays, namely US, Russia, China and India, their geographic position in the two distinct areas of America and Eurasia, and, above all, their relations in terms of power and world geo-strategy, Afghanistan constitutes, together with Caucasus and the Central Asian Republics, a large area (fig. 1), whose destabilization offers an advantage to US, i.e. to the geopolitical player exterior to the Eurasian context. In particular, the destabilization of this large zone assures the US at least three geopolitical and geo-strategic opportunities: a) its progressive penetration in the Eurasian landmass; b) the containment of Russia; c) the creation of a vulnus in Eurasian landmass.

 

 

US penetration in Eurasia – US encirclement of Eurasia

As stated by Henry Kissinger, the bi-oceanic nation of US is an island outside of Eurasian Continent. From the geopolitical point of view, this particular position has determined the main vectors of the expansion of US over the Planet. The first was the control of the entire Western hemisphere (North and South America), the second one has been the race for the hegemony on the Euroafroasian landmass, that is to say the Eastern hemisphere.

Regarding the penetrating process of US in the Eurasian landmass, starting from the European peninsula, it is worthy to remind that it began , in the course of the I WW with the interference of Washington in the internal quarrels among the European Nations and Empires. The penetration continued during the II WW. In April 1945, the supposed “Liberators” occupied the Western side of Europe up to East Berlin. Starting from this date, Washington and the Pentagon have considered Europe, i.e. the Western side of Eurasia, just as a US bridgehead dropped on the Eurasian landmass. US imposed a similar role  to the other occupied nation, Japan, representing the Eastern insular arc of Eurasia. From an Eurasian point of view, the north American “pincer” was the true result of the II WW.

With the creation of some particular military “devices” like NATO (North Atlantic Treaty Organization) (1949), the security treaty among Australia, New Zealand, United States (ANZUS, 1951), the Baghdad Pact, that afterwards evolved in CENTO Pact (Central Treaty Organisation, 1959), the Manila Pact – SEATO (South East Asia Treaty Organization, 1954), the military encirclement of the whole Eurasian landmass was accomplished in less than one decade.

The third step of the US long march towards the heart of Eurasia, starting from its Western side, was carried out in 1956, during the Suez crisis, with the progressive removal of France and, under some aspects, also of Great Britain as geopolitical actors in Mediterranean sea. On the basis of the “special relationship” between Tel-Aviv and Washington, US became an important player of the Near Eastern area in a time lapse  shorter than 10 years. Following the new role assumed in the Near and Middle East, US was able either to consolidate its hegemonic leadership within the Western system or to consider the Mediterranean sea as the initial portion of the long path that, eventually, could permit to the US troops to reach the Central Asian region. The infiltration of US in the large Eurasian area proceeded also in other geopolitical sectors, particularly in the South-Eastern one (Korea, 1950-1953; Vietnam, 1960-1975).

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Coherently with the strategy aimed at dominating the eastern hemisphere, Washington worked also on the diplomatic side, focusing its attention towards Beijing. With the creation of the axis Washington – Beijing, conceived by the tandem Kissinger - Nixon (1971-1972), US contributed to increase the fracture inside the so-called socialist field, constituted by China and URSS and, thus, to block any potential “welding” between the two “lungs” of Eurasia, China and Russia.

During the seventies, two main geopolitical axis faced each other within the Eurasian landmass: the Washington-Islamabad-Beijing axis and the Moscow-New Delhi one.

1979, the destabilization’s year and its legacy in the today’s Afghanistan

Among the many events in international relations occurred in 1979, two are of pivotal importance for their contribution to the upsetting of the geopolitical asset, based at the time on the equilibrium between the United States and the URSS.

We are speaking of the Islamic revolution in Iran and of the Russian military involvement in Afghanistan.

Following the takeover of Iran by the Ayatollah Khomeyni, one of the essential pillars of the western geopolitical architecture, with the US as a leader, was destroyed.

The Pahlavi monarchy could easily be used as a pawn in the fight between the US and the URSS, and when it disappeared both Washington and the Pentagon were forced to conceive a new role for the US in the world politics. A new Iran, now autonomous and out of control, introduced a variation in the regional geopolitical chessboard, possibly able to induce a profound crisis within the “steady” bipolar system. Moreover, the new Iran, established as a regional power against the US and Israel, possessed such characteristics (especially the geographic extent and centrality, and the political-religious homogeneity) as to compete for the hegemony on at least part of the Middle-East, in open contrast to similar interests of Ankara and Tel-Aviv, faithful allies of Washington, Islamabad, Baghdad and Riyadh. For such reasons, the Washington strategists, in agreement with their bicentennial “geopolitics of chaos”, persuaded the Iraq under Saddam Hussein to start a war against Iran. The destabilization of the whole area allowed Washington and the Western Countries enough time to plan a long-lasting strategy and in the meantime to wear down the soviet bear.

In an interview released to the French  weekly newspaper Le Nouvel Observateur (January 15-21, 1998, p. 76), Zbigniew Brzezinski, President Jimmy Carter's national security adviser, revealed that CIA secretly operated in Afghanistan to undermine the power of the regime in Kabul since July, 1979,  that is to say, five months before the Soviet invasion. Indeed, it was July 3, 1979, that President Carter signed the first directive for secret aid to the opponents of the pro-Soviet regime in Kabul. And that very day the US strategist of Polish origin wrote a note to President Carter in which he explained that this aid was going to induce a Soviet military intervention. And this was precisely what happened on the following December. In the same interview, Brzezinski remembers that, when the Soviets invaded Afghanistan, he wrote another note to President Carter in which he expressed his opinion that at that point the USA had the opportunity of giving to the USSR its Vietnam War.

In Brezinski’s opinion, this intervention was unsustainable for Moscow and in time would have led to the Soviet Empire collapse. In fact, the long war of the Soviets in support of the communist regime in Kabul further contributed to weaken the Soviet Union, already engaged in a severe internal crisis, concerning both political- bureaucratic and socio-economic aspects. As we now well know, the Soviet withdrawal from the afghan theatre left behind an exhausted country, whose politics, economy and geo-strategic asset were extremely weak. As a matter of fact, after less than 10 years from the Teheran revolution, the entire region had been completely destabilized only to the advantage of the western system. The parallel and unrestrained decline of the Soviet Union, accelerated by the afghan adventure, and, afterwards in the nineties, the dismemberment of the Yugoslavian Federation (a sort of buffer state between the western and soviet blocks) changed the balance of power to favour the US expansionism in the Eurasia region.

After the bipolar system, a new geopolitical era began, that of the “unipolar moment”, in which the USA were the “hyperpuissance” (according to the definition of the French minister Hubert Védrin).

However, the new unipolar system was going to have a short life and indeed it ended at the beginning of the XXI century, when Russia re-emerged as a strategic challenger in global affairs and, at the same time, China and India, the two Asian giants, emerged as economic and strategic powers. On the global level, we have to consider also the growing wheight of some countries of Indiolatin America, such as Brazil, Venezuela. The very important relations among these countries with China, Russia and Iran seem to assume a strategic value and prefigure a new multipolar system, whose two main pillars coul be constituted by Eurasia an Indiolatin America.

Afghanistan, due to its geographical characteristics,  to its location  as respect to the Soviet State (its neighbouring nations Turkmenistan, Uzbekistan and Tajikistan were, at that time, Soviet Republics), and to the wide  variety of ethnic groups forming its population, different either in culture or in religion, represented for Washington an important portion of the so-called “arc of crisis”, namely that geographical region linking the southern boundaries of the USSR and the Arabian Sea. The Afghanistan trap for the URSS was therefore chosen for evident geopolitical and geo-strategic reasons.

From the geopolitical point of view, Afghanistan is clearly representative of a crisis zone, being from time immemorial the scene for the conflicts among the Great Powers.

The area is now “ruled” by the governmental entity established by US forces and named Islamic Republic of Afghanistan, but traditionally the Pashtun tribes have dominated over the other ethnic groups (Tajiks, Hazaras, Uzbeks, Turkmens, Balochs). Its history was spent as part of larger events concerning the interaction and the prolonged fighting among the three neighbouring great geopolitical entities: the Moghul Empire, the Uzbek Khanate and the Persian Empire. In the XVIII and XIX centuries, when the Country was under the rule of the Kingdom of Afghanistan, the area became strategic in the rivalry and conflict between the British Empire and the Russian Empire for supremacy in Central Asia, termed "The Great Game". The Russian land empire, in its efforts to secure access to the Indian Ocean, to India and to China, collided with the interests of the British maritime empire, that, for its part, sought to extend in the Eurasian landmass, using India as staging post, towards the East, to Burma, China, Tibet and the basin of the Yangtze river, and towards the West, to the present-day Pakistan, to Afghanistan and Iran, as far as the Caucasus, the Black Sea, to Mesopotamia and the Persian Gulf.

Towards the end of the XX century, in the framework of the bipolar system, Afghanistan became the battlefield where, once again, a maritime Power, the USA, confronted a land Power, the URSS.

The actors that confronted each other in this battlefield were basically: URSS troops, Afghan tribes and the so-called mujahideen, these latter supported by US, Pakistan and Saudi Arabia.

After the leaving of the Soviet troops from the afghan chessboard, the taliban movement assumed a growing important role in the region, on the basis of at least three main factors: a) ambiguous relations with some components of Pakistan secret services; b) ambiguous relations with US (a sort of “legacy” relied on the previous contacts between US and some components of the “mujahideen” movement, occurred during the Soviet - afghan war); c) the wahhabism as an ideological-religious platform directly useful to the interests of Saudi Arabia in its projection towards some zones as Bosnia, the Middle East area and the Caucasus (namely Chechnya and Dagestan).

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The three elements mentioned above allowed the taliban movement, for one hand, to insert and root itself in the afghan zone, gaining a growing weight on the military (with the creation and consolidation of the so-called sanctuaries) and economic (namely control of the drug traffic) levels, for other hand, impeded it to become an autonomous organization. Actually, because of the infiltration of US, Pakistan and Saudi Arabia, the taliban movement has to be considered a local organization directed by external players. These kind of considerations allows us to better understand and explain the choice of Obama and Karzai to open a dialogue with the Talibans, even to include some of them in local governments. Moreover, the apparent contradiction of the US (and Karzai) behaviours in Afghanistan, that could be explained according the theory and praxis for which the involvement of the enemy in institutional responsibilities aims to weaken it, follows the classic rule of the US geopolitical praxis, that is to maintain in a state of crisis a region considered strategic.

As we well know now, the drug production in Afghanistan has gone up more or less 40 times since the country’s occupation by NATO.

If we consider the solutions adopted so far by US forces and aimed at containing and overcoming the drug trafficking question in the more general context of the US geopolitical praxis, we can observe that US forces and  NATO seem “wasting” their time: drug production and diffusion in the southern part of the country are still going on. As we well know, the large-scale drug production is impossible in this area, because of the non-stop fighting. On the contrary, US and NATO forces focus their strategic interest in the northern side of the country. Here, they have built roads and bridges linking Afghanistan to Tajikistan), the road to Russia via Uzbekistan, Kyrgyzstan and Azerbaijan (see A. Barentsev, Afghan Heroine flow channelled to Russia, FONDSK). This modus operandi reveals openly the real intentions of Pentagon and Washington: opening a road towards Russia, starting from Afghanistan and the Central Asian republics. Actually NATO and other western forces do not conduct an effective fight against drug production and trafficking.

In such context, the supposed US/NATO fight against drug production and trafficking in Afghanistan seem to belong to the field of the western rhetoric more than to be a concrete fact (Fig. 2).

Similarly, the fight against taliban movement seem clearly subordinated to (and thus depending on) the general US strategy in the Eurasian landmass. Nowadays, this strategy consists in the setting up of military garrisons of US and its Western allies in the long strip that, starting from Morocco, crosses the Mediterranean sea and arrives as far as the Central Asian republics. The main aims of this garrisons are: a) the separation of Europe from North Africa; b) the control of north Africa and Near East (particularly the zone constituted by Turkey, Syria and Iran – using the Camp Bondsteel base, located in Kosovo ); b) the containment of Russia, and, under some aspects, of China too; c) an attempt of cutting the Eurasian landmass in two parts; d) the enlargement of the “arc of crisis” in the Central Asian area [Brzezinski defines this area the “Balkans of Eurasia” (the definition of the former advisor of president Carter sounds more as programmatic than as an objective description of the area)].

Creating a geopolitical chasm in Central Asia, i.d. a vulnus in Eurasia landmass, could lead to hostility and enmity among the main players in Asia, Russia, India and China (fig. 3). The only beneficiary of this game would be the US.

Other than the attempt “to knife” Eurasia along the illustrated path (from Mediterranean sea up to the Central Asia), we observe that US disposes (since 2008) of AFRICOM and, of course, of the related cooperative security locations in Africa: a useful “ military “device” which projection is also directed to Middle East and part of Central Asia (fig. 4).

 

 

In order to understand the importance of  the Central Asian zone for the US strategy aimed at its hegemony on the Eurasian landmass, it is enough to give a glance at the following picture (fig. 5) illustrating the US Commanders’ areas of responsibilities. The picture is representative of what we can name – paraphrasing the expression “the white man’s burden” formulated by the bard of the British imperialism, Rudyard Kipling, 1899 – the US’ burden.

 

general remarks on “accepted and shared” concepts

 

With the goal to reach a larger understanding of the complex dynamics acting presently at global level, it is useful criticizing some general concepts we consider accepted and shared. As we know, in the frame of the geopolitical analyses, the correct use of terms and concepts is at least as important as, those ones related to the description of the reality through maps and diagrams. For instance, the so-called “globalization” is only an euphemistic expression for economic expansionism of the US and the its capitalistic western allies (see Jacques Sapir, Le nouveau XXI siécle, Paris, 2008, p. 63-64). Even the rhetoric call to fight for the supposed “human rights”, or similar democratic values, spread by some think thanks, governments or simple civil activists, emphasizes the colonialist aspect of the US on the mass media and culture, without any consideration to other ways of life, like those expressed by no-western civilisations, i.e. more than three quarts of the world population. Among these concepts, we have to consider the most important one from the geopolitical (and international relations) point of view, that is the supposed International Community. The expression “International Community” does not mean anything in geopolitical terms. Actually, the International Community is not a real entity; its related concept sounds, simultaneously, like an aspiration of some utopian activists and a specific falsification of the history.

As in the worldwide real life we know State, Nations, People, International organisations [generally on the basis of (hegemonic) “alliances”] and, of course the relations among these entities, speaking of International Community means to mis-describe the real powers nowadays acting at global and local scales.

Considering now the focus of the present meeting, aimed at finding “shared solutions” for the afghan drug question in the context of the “International Community” (I.C.), honestly we have to underline, as analysts, that instead of I.C. it is more practical speaking of real players involved (and that could be involved) in the Afghan zone.

 

 the real players in the afghan theatre

 

For analytical reasons is useful to aggregate the players concerning the Afghan theatre in the following three categories: external players; local players; players who potentially could be involved in the afghan context. Afterwards we can easily define some conditions in order to delineate the characters of those partners who could be able to stabilize - effectively - the entire geopolitical area.

External players: US and NATO-ISAF (except Turkey) forces are to be considered external players because of their full strangeness to the specific geopolitical area, even if conceived in a broad sense;

Local players: among the local players we can enumerate the bordering countries (Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, China, Pakistan), the tribes, the insurgent forces, the  Talibans and the “governmental” entity led by Karzai.

Regarding the players belonging to the third category as defined above, we can include the Collective Security Treaty Organisation  (CSTO), the Shanghai Cooperation Organisation (SCO), i.e. the main Eurasian organisations with a large experience in managing questions related to the border control and drug trafficking of Central Asian area, and the Eurasian Economic Community (EURASEC). Moreover we have to mention also ONU, in particularly the United Nations Office on Drugs and Crime (UNODOC).

The potential partners able to overcome the drug question in Afghanistan have to present at least the following characteristics: a) the knowledge of the local dynamics related to the ethnic, cultural, religious an economic aspects; b) the acknowledgement by the local population as part of the same cultural context (obviously in a large meaning); c) the will to coordinate collectively the actions without any prejudice or mental reserve within a Eurasian program.

The partners presenting the features synthetically described above are those included in the second and third categories. As matter of fact US and NATO – ISAF forces are perceived from the local population as what they really are: occupying forces. Moreover, considering the NATO role as hegemonic alliance led by Washington and acting within the framework of the US global strategy, its presence in Afghanistan should be considered a serious obstacle to the stabilization of the entire area. The Talibans and even the governmental entity, do not appear, due to the ambiguous relations that they seem to have with the occupying US forces, to be candidate partners in a collaborative effort to triumph over the drug question in Afghanistan.

The real players able to stabilize the area are - without any doubt - the Afghanistan bordering countries and the Eurasian organizations. Among the bordering countries, a special role could be carried on by Iran. Teheran is the only country that has demonstrated to assure the security of Afghan-Iranian border, specially for drug trafficking. Also Moscow and Beijing  assume an important function in the stabilization of the area and in the fight to drug trafficking, because Russia and China, it is worth to remind it, are the main powers of the Eurasian organizations above mentioned. A strategic axis between the two “lungs” of Eurasia, balanced by the Central Asian republics and India, could constitute the lasting solution for the stabilization of the area and hence the drug question. Only in the frame of a shared Eurasian plan aimed at stabilizing the area – conceived and carried on by Eurasian players –, it is possible to dialogue with local tribes and with those insurgent movements which are clearly not directed by external players.

 

 

conclusions

 

The stabilization of the afghan area is an essential requirement for any plan aimed to face the drug production and trafficking.

However, because of the pivotal role of Afghanistan in the Middle East and in the Central Asian regions,  the strategy to stabilize the area has to be conceived in the context of the integration of the Eurasian landmass.  Candidates particularly interested to halt the drug production and traffic are the Afghanistan bordering Countries.

US and NATO forces, because of their clear geopolitical praxis aimed at hegemonizing the Eurasian landmass, are not plausible candidate.

Israele impietantata in Iraq

Israele impiantata in Iraq

di Gilles Munier

Fonte: eurasia [scheda fonte]


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Israele impiantata in Iraq

Israele ha capito subito che gli Stati Uniti avrebbero perso la guerra in Iraq, e che i progetti di stabilire relazioni diplomatiche e la promessa della riapertura dell’oleodotto Kirkuk-Haifa fatte da Ahmed Chalabi, erano illusori. Ariel Sharon ha deciso, secondo il giornalista investigativo Seymour Hersh, di rafforzare la presenza israeliana nel Kurdistan iracheno affinché il Mossad stabilisca reti che si estendono per tutto il resto del paese e tra i curdi dei paesi vicini, a prescindere dal risultato del conflitto.
Programma di assassinii

La partecipazione di Israele alla coalizione occidentale che ha invaso l’Iraq è tutt’altro che trascurabile, ma rimane quasi un segreto. Gli Stati Uniti non tengono conto a ciò di cui i media parlano, per paura di interferire con i loro alleati arabi e di dare credibilità a loro avversari che denunciano il “complotto sionista-americano” in Medio Oriente.

Gli israeliani non sono presenti solo con l’uniforme degli Stati Uniti con cui, sotto la copertura della doppia cittadinanza, intervengono dal 2003 come specialisti nella guerra urbana a Fort Bragg, Carolina del Nord; il centro delle Forze Speciali. Qui è stata istituita la famosa task force 121 che, con i peshmerga del PUK (Talabani), catturò il presidente Saddam Hussein. Il suo leader, il generale Boykin, si vedeva un crociato contro l’Islam, “religione satanica”. Fu allora che Benjamin Netanyahu incontrò al King David Hotel di Gerusalemme, i fanatici cristiano-sionisti per dichiarare l’Iraq “Terra di Missione” … Nel dicembre 2003, un ufficiale dell’intelligence statunitense, citato da The Guardian temeva che la “cooperazione su vasta scala” con Israele deragliasse, in particolare con il “programma di omicidi in via di concettualizzazione“, cioè la formazione di squadroni della morte. Non bisognò neppure attendere molto perché il primo scandalo scoppiasse. Nel marzo 2004, si diffuse la voce che gli israeliani torturavano i prigionieri di Abu Graib, anche mettendo in pratica l’esperienza acquisita per piegare la resistenza in Palestina. Sulla BBC, il generale Janis Karpinski, la dimessa direttrice del carcere tagliò corto con le smentite ufficiali, confermando la loro presenza nella prigione.

La cooperazione israelo-statunitense non si sviluppò solo sul terreno della liquidazione extragiudiziale di 310 scienziati iracheni, tra aprile 2003 e ottobre 2004, ma anche in Israele, imparando dalle battaglie di Falluja, il Corpo dei genieri dell’Esercito USA costruì, nel Negev, un centro di addestramento per i marines diretti in Iraq e in Afghanistan. Il campo, chiamato Baladia City, è situato vicino alla base segreta di Tze’elim, che è la replica a grandezza naturale di una città mediorientale, con i soldati israeliani di lingua araba che giocano il ruolo di civili e combattenti nemici. … Secondo il Marines Corps Time, assomiglia a Beit Jbeil, il centro della resistenza di Hezbollah all’esercito israeliano, nel 2006…
Gli “uomini d’affari” del Mossad

Nell’agosto 2003, l’Istituto israeliano per l’esportazione organizzò a Tel Aviv una conferenza per consigliare agli imprenditori d’agire come subappaltatori di imprese giordane o turche, ottenendo l’approvazione del Consiglio di governo iracheno. Molto rapidamente emersero in Iraq dei prodotti sotto false etichette. L’attacco da parte di Ansar al-Islam, nel marzo 2004, alla società di import-export Al-Rafidayn, copertura del Mossad a Kirkuk, ha convinto gli “imprenditori” israeliani che era meglio reclutare nuovi agenti senza allontanarsi dal Kurdistan, ma ciò non ha impedito il progredire degli scambi economici israelo-iracheni. Nel giugno 2004, il quotidiano economico israeliano Globes stimava in due milioni di dollari le esportazioni in Iraq, per quell’anno. Nel 2008, il sito web Roads to Iraq contava 210 imprese israeliane che partecipavano, occultate, al mercato iracheno. Il loro numero è aumentato nel 2009, dopo la soppressione, da parte del governo di Nouri al-Maliki, del documento di boicottaggio d’Israele, richiesto dalle aziende straniere che operano in Iraq, una vera manna per gli agenti reclutatori del Mossad.

Fonte: Afrique Asie Giugno 2010

Traduzione di Alessandro Lattanzio

vendredi, 11 juin 2010

La sfida totale

LA SFIDA TOTALE

INTERVISTA A DANIELE SCALEA

 

Stefano Grazioli

Ex: http://www.italiasociale.net/

 

sfida-totale.jpgTanti parlano e scrivono di geopolitica, pochi ne capiscono davvero qualcosa. Daniele Scalea è uno di questi. Giovane, 25 anni e una laurea in Scienze storiche alla Statale di Milano, Daniele Scalea - che già da qualche anno é nella redazione di Eurasia -  ha esordito con un opera di grande spessore (un assaggio sul sito), dimostrando che le sponde del Lago Maggiore (vive a Cannobio) possono diventare un osservatorio privilegiato per capire e spiegare le vicende del Mondo che ci circonda. A confermarlo non sono tanto io, quanto chi ha scritto la prefazione del nuovo libro di Daniele, “La sfida totale – Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali” (Fuoco Edizioni), e cioè il generale Fabio Mini, uno che ne capisce: “Si potrebbe tranquillamente dire che Daniele Scalea ha scritto un trattato di alta Geopolitica. Ha descritto il mondo attuale cercando di interpretarlo alla luce delle teorie classiche della Geopolitica confermandone, e ce n’era bisogno, la validità metodologica. Ha preso in esame tutti i grandi attori mondiali e dopo una panoramica appassionata, non c’è nient’altro da dire”.

Ecco, non aggiungo altro nemmeno io. Consiglio solo di correre in libreria o ordinare il libro via internet direttamente dall’editore. E di leggere con attenzione la lunga  intervista che gentilmente che l’autore ci ha concesso.

 

Rovesciamo la bottiglia e partiamo dal fondo. Lei conclude il suo libro scrivendo che la nascita del Nuovo Mondo, o perlomeno la ristrutturazione geopolitica di quello vecchio, potrebbe essere oltremodo complicata: in sostanza il passaggio da un sistema semi-unipolare a uno multipolare rischia di produrre dolorose frizioni dovute al fatto che la potenza egemone – gli Stati Uniti – opporrà resistenza alla perdita del proprio potere. La “sfida totale” ha già vincitori e vinti?

La tendenza storica del post-Guerra Fredda marcia contro gli USA. Negli anni ’90 la geopolitica mondiale ha vissuto il suo “momento unipolare”, e tutto sembrava girare per il verso giusto, dalla prospettiva di Washington. Ma già si covava quanto sarebbe venuto. L’ultimo decennio ha visto l’emergere a livello economico, strategico ed infine anche politico di veri e propri competitori della “unica superpotenza rimasta”: il riferimento è prima di tutto a Cina e Russia, ma una menzione la meritano pure India, Brasile, Giappone. Il sogno della “fine della storia” è svanito. Gli USA hanno tentato, sotto Bush, un ultimo brutale tentativo di mantenere la propria supremazia incontrastata: il progetto di “guerra infinita”, che avrebbe dovuto annichilire come un rullo compressore tutti i possibili nemici e competitori, ma che si è arenato già sui primi due scogli incontrati, ossia Afghanistan e Iràq. L’ordine mondiale odierno è “semi-unipolare”, con Washington ancora potenza egemone, ma più per la cautela dei suoi rivali che per la propria forza ed autorità. La crisi finanziaria del 2008 è partita dagli USA ed ha mandato parzialmente in frantumi quell’ordine economico su cui si fonda gran parte del potere di Washington. Tutto lascia supporre che si concretizzerà il ritorno ad un vero e proprio ordine “multipolare”, e questa è anche la mia previsione.

Però …come spesso accade c’è un “però”. Uno degli errori più comuni del nostro tempo è quello di percepire le tendenze come fattori fissi ed immutabili, quando in realtà sono contingenti. Come sosteneva Hume, l’uomo è portato a credere in ciò che è abituato a vedere, ossia ad assolutizzare il contingente. Ma le inversioni di tendenza sono sempre possibili. Gli Stati Uniti non hanno accettato e difficilmente accetteranno il ruolo di ex egemone in declino. A meno d’implosioni interne del tipo pronosticato da Igor Panarin, riusciranno ad opporre resistenza, ed hanno molto frecce al loro arco se non per bloccare, quanto meno per rallentare la transizione al mondo multipolare: ricordiamo, tra i principali, il poderoso strumento militare (che spesso fa cilecca, ma per capacità di proiezione globale non ha pari), la “egemonia del dollaro” (Henry Liu), la centralità nel sistema finanziario, l’influenza culturale. Già il secolo scorso la supremazia delle talassocrazie anglosassoni fu sfidata, prima dal Reich tedesco e poi dall’Unione Sovietica, e sappiamo bene tutti come andò a finire. Meglio non vendere la pelle dell’orso (o le penne dell’aquila, se vogliamo esser più precisi nell’allegoria zoologica) prima d’averlo ucciso. Certo però che questi USA d’inizio XXI secolo paiono solo la copia sbiadita della superpotenza del ventesimo: molta della loro grandezza deriva dall’eredità delle generazioni passate, e quando sono chiamati a difenderla non sembrano all’altezza del proprio rango senza pari.

E ora dall’inizio, tuffandoci un po’ nel passato. L’attacco al cuore della Terra, all’Heartland, che gli Stati Uniti hanno attuato su quattro direttrici (sovversione politica, espansione militare, risorse energetiche, supremazia nucleare): può sintetizzare?

La strategia statunitense, quanto meno dagli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale in poi (e forse anche da prima), è fortemente ispirata ai princìpi della geopolitica. L’Heartland (H. Mackinder) è una delle categorie basilari di questa disciplina: è la Terra-cuore, il centro del continente eurasiatico, storicamente impermeabile alla potenza marittima – quest’ultima incarnata prima dall’Impero britannico e poi dal “imperialismo informale” statunitense. L’Heartland è occupato dalla Russia, che rappresenta perciò stesso il principale ostacolo e minaccia potenziale all’egemonia della potenza talassocratica, ossia marittima, degli USA. Dalla fine della Guerra Fredda ad oggi, Washington e Mosca hanno più volte tentato approcci amichevoli, ma tutti sono finiti male. All’arrendevolezza di El’cin si rispose con lo smembramento della Jugoslavia, ed i Russi reagirono portando al Cremlino un certo Vladimir Putin. Le sue aperture dopo l’11 settembre sono state ripagate con la penetrazione statunitense in Asia Centrale, nel “cortile di casa” russo. Anche l’attuale recentissimo idillio tra Obama e Medvedev durerà poco. Nessuno vuole sfociare nel determinismo, ma la geografia è un fattore importante nella vicenda umana, ed in questo caso la geografia condanna Russia e USA ad essere, almeno nello scenario attuale, quasi sempre nemici.

Dagli anni ’90 ad oggi gli Statunitensi, sulla scia di teorizzazioni come quelle di Zbigniew Brzezinski, lungi dall’allentare la morsa su Mosca hanno cercato di sfruttare il crollo dell’URSS per neutralizzare definitivamente la minaccia russa. Le “direttrici d’attacco”, come da lei sottolineato, sono state quattro:

a) la sovversione politica: tramite la CIA, enti pubblici o semi-pubblici come il National Endowment for Democracy o U.S. Aid, e finte ONG gli USA hanno orchestrato una serie di colpi di Stato in giro per l’ex area d’influenza moscovita, allo scopo d’insediare quanti più governi filo-atlantici e russofobi fosse possibile. I casi più celebri: Serbia, Georgia, Ucraìna, Kirghizistan. Ci hanno provato persino in Bielorussia e in Russia (leggi Kaspàrov), ma non è andata bene. I governanti locali si sono fatti furbi ed hanno iniziato a porre una serie di restrizioni alle attività d’organizzazioni straniere nei propri paesi. Gli ultimi eventi in Ucraìna e Kirghizistan fanno pensare che l’ondata di “rivoluzioni colorate” sia ormai in fase di risacca;

b) l’espansione militare: la NATO si potrebbe definire come l’alleanza che lega l’egemone statunitense ai paesi ad esso subordinati. Non è qualitativamente diversa dalla Lega Delio-Attica capeggiata da Atene, o dalle varie alleanze italiche di Roma. Un’alleanza non certo tra pari. Nata in funzione anti-sovietica, scioltasi l’URSS non solo non ha chiuso i battenti ma si è allargata verso est, fino ai confini della Russia. La nuova dottrina militare russa cita espressamente la NATO tra le minacce per il paese;

c) le risorse energetiche: una potente leva strategica per la Russia è costituita dalla sua centralità nel commercio energetico intra-eurasiatico. Gli USA hanno cercato di sminuirla facendo dell’Asia Centrale un competitore di Mosca, tramite gasdotti e oledotti alternativi che scavalcassero il territorio russo. L’impossibilità di costruire la condotta trans-afghana, il ridotto impatto del BTC ed il fallimento annunciato del Nabucco chiariscono che il progetto, almeno per ora, non ha avuto successo;

d) la supremazia nucleare: è un punto sovente ignorato dai commentatori occidentali. Si definisce “supremazia nucleare” la capacità d’uno Stato di vincere una guerra atomica senza subire danni eccessivi, ossia di sferrare un “primo colpo” (first strike) parando la successiva rappresaglia. Quando si dispone di migliaia di testate e missili nucleari, come gli USA, è facile annientare un rivale con una guerra atomica: il grosso problema è riuscire ad evitare d’essere annientati a propria volta se il nemico, come la Russia, ha a sua volta migliaia di armi nucleari con cui rispondere. Ecco dunque l’idea dello scudo ABM (anti-missili balistici), il sogno di Reagan riesumato da Bush e per niente accantonato da Obama. Resterà ancora a lungo una delle principali pietre della discordia tra Mosca e Washington. Infatti, il Cremlino non si beve la storia che lo scudo ABM sia rivolto contro l’Iràn e la Corea del Nord, e nel mio libro spiego dettagliatamente il perché.

Lei si sofferma sulla politica estera statunitense dell’ultimo decennio sviscerando le differenze tra idealisti e realisti alla Casa Bianca. Cosa ha cambiato l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca?

Ha cambiato molto, ma probabilmente meno di quello che avrebbe potuto se non ci fosse stata la crisi finanziaria del 2008. Obama era portatore d’una geostrategia alternativa a quella neoconservatrice, meno fissata sul Vicino e Medio Oriente e più attenta agli equilibri globali nel loro complesso. Essa comprendeva anche una non dichiarata strategia anti-russa di tipo brzezinskiana. La stessa distensione con l’Iràn era ed è mirata soprattutto a rivolgere la potenza persiana contro Mosca in funzione di contenimento sul fianco meridionale.

Inutile dire che la crisi ha scompaginato i piani. Gli USA si sono ritrovati con l’acqua alla gola, ed Obama s’è accontentato di cercare di salvarne la supremazia mondiale. L’ideologismo di Bush è stato sostituito con un po’ di sana Realpolitik, e la minaccia ed uso della forza militare sono oggi stemperate dal ricorso alla diplomazia come via prediletta. Ma ciò non è sufficiente. Washington, capendo di non farcela più da sola, sta cercando di cooptare qualche grande potenza come stampella della propria egemonia. All’inizio Obama ha cercato di formare il famoso “G-2” con la Cina, ma ben presto la tensione ha preso a montare ed oggi Washington e Pechino si guardano in cagnesco come non succedeva da decenni. Così Obama ha messo nel mirino la Cina, ed ha pensato bene di corteggiare la Russia. Il “leviatano” talassocratico ed il “behemoth” tellurocratico si sono già trovati fianco a fianco contro una potenza del Rimland, ossia del margine continentale dell’Eurasia (mi riferisco alla Germania nel secolo scorso), ma non credo che ciò si ripeterà oggi. Gli USA superpotenza avrebbero potuto cooptare la Russia di El’cin e del primo Putin, ma si sono rivelati troppo avidi di potere ed hanno finito con l’allontanarla. Oggi sono ancora la potenza egemone, e perciò suscitano invidia ed ostilità, ma sono un egemone zoppo,  e dunque appoggiarlo non dà più gli stessi vantaggi d’un tempo. Allearsi con qualcuno che ti vorrebbe come stampella del suo potere traballante non è una prospettiva così allettante. Il Cremlino prenderà altre strade. Solo quando gli USA si saranno ridimensionati al rango di grande potenza inter pares, allora si potrà ridiscutere d’alleanze strategiche.

L’8 dicembre 1991 i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, riuniti a Brest, proclamarono la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che Gorbačev fu costretto ad accettare suo malgrado. L’ex presidente russo Vladimir Putin, ora primo ministro, ha affermato che la dissoluzione dell’Urss è la stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo. È d’accordo?

Il termine “catastrofe” sottintende un giudizio di valore, e dunque è soggettivo. Restando sul merito, è indubbio che il crollo dell’URSS, ossia della potenza terrestre dell’Heartland che conteneva la superpotenza marittima, è stato un evento epocale. E dal punto di vista dei Russi, non si può che considerare catastrofico. Ma non solo dal loro. Il crollo della diga sovietica – una diga criticabile e controversa fin quanto si vuole – ha aperto la strada al tentativo egemonico degli USA, col suo contorno di prevaricazione e guerre. Per gli Statunitensi la disgregazione dell’URSS è stata un successo, per i Polacchi una benedizione, per i Cubani, i Siriani o i Palestinesi una disgrazia.

Vladimir Putin è stato, tra luci ed ombre, il simbolo della ritorno della Russia sulla Grande Scacchiera. Lei scrive che la “Dottrina Putin” può essere interpretata come un realismo in salsa russa, fondato sull’accorta tessitura d’alleanze intra-continentali con la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia e l’Europa Occidentale. Cioè?

Ho ripreso la definizione che cita da Tiberio Graziani, direttore della rivista “Eurasia”. In Russia, dopo la fine del comunismo sono emerse due visioni ideologiche: quella eurasiatica, che vede negli USA il nemico storico da combattere ad ogni costo, e quella occidentalista, che vede nell’Ovest il beniamino da emulare e compiacere ad ogni costo. La Dottrina Putin esula da questi schemi e si pone nel mezzo degli “opposti estremismi”. Putin ha adottato linguaggi e formalità cari agli occidentali, ed ha a lungo considerato prioritari i rapporti con l’Europa e gli USA. Ma non è mai stato arrendevole e rinunciatario, non ha mai rinunciato a difendere il ruolo della Russia nel mondo ed il suo “spazio vitale” nell’Heartland. Quando ha verificato che con Washington non c’erano spazi di dialogo, si è rivolto altrove. Le alleanze intra-continentali da lei citate servono a creare un “secondo anello di sicurezza” (il primo dovrebbe essere il “estero vicino”) attorno alla Russia. L’obiettivo finale è estromettere la talassocrazia, ossia gli USA, dall’intera massa continentale eurasiatica, per mettere definitivamente in sicurezza la Russia.

Secondo Parag Khanna i “tre imperi” del nuovo mondo multipolare sarebbero Usa, Cina e Unione Europea, mentre la Russia farebbe parte del “secondo mondo”. Lei non è d’accordo. Perché?

Perché la visione di Parag Khanna si fonda sostanzialmente su valutazioni di tipo economico e sulle sue simpatie personali. L’economia è importante ma non rivela tutto. Ad esempio, l’Unione Europea, si sa, è un gigante economico ma un nano politico. Non è neppure uno Stato, bensì un’accozzaglia di Stati nazionali che, come stanno dimostrando gli eventi attuali, in mezzo alla tempesta preferiscono pensare ognuno per sé. La Russia ha un ingente patrimonio geopolitico, in termini geografici, militari ed energetici, che può giocare efficacemente sulla grande scacchiera mondiale. Mosca è ancora al centro della politica internazionale, considerarla parte del “secondo mondo” è ingiustificato.

La Cina è e sarà comunque uno dei protagonisti di questo secolo e intorno al ruolo di Pechino si gioca ovviamente il futuro di Washington. Riprendo allora le sue parole: «Per gli Usa il contenimento della Cina dovrebbe avvenire attraverso due “cani da guardia” posti al suo fianco: l’India e il Giappone. Davvero Nuova Delhi e Tokio sono disposti a ricoprire il ruolo che Washington vorrebbe affibbiare loro, oppure preferiranno unirsi a Pechino per creare una “sfera di co-prosperità” asiatica?»

È un dilemma che non ha ancora trovato risposta. L’India sembrava più vicina alla Cina qualche anno fa, quando entrò nel gergo comune degli addetti ai lavori il termine “Cindia”. Al contrario, il Giappone che qualche anno fa pareva nemico irriducibile di Pechino oggi gli si sta riavvicinando. La situazione è fluida e difficile da decifrare, ma la sensazione è che Nuova Delhi e Tokio cercheranno la vincita sicura: aspetteranno di capire con certezza chi avrà la meglio tra Cina e USA, e solo allora punteranno tutto sul cavallo vincente.

Spostiamoci infine Oltreoceano, dove comunque i grandi attori sono sempre gli stessi. Nel libro scrive che Obama sembra deciso a recuperare l’influenza sul “cortile di casa”, e con qualsiasi mezzo. Russia e Cina, invece, offrono una sponda diplomatica alle nuove potenze emergenti come Brasile e Venezuela. I prossimi conflitti sono programmati?

Il Sudamerica è storicamente un’area molto pacifica. Ma ciò è dovuto anche alla sua storia di marginalità nel quadro geopolitico, ed all’egemonia a lungo incontrastata degli USA. Oggi questi due fattori stanno venendo meno. In Sudamerica sta emergendo una grande potenza mondiale – il Brasile – mentre il controllo degli USA sul “cortile di casa” è stato seriamente intaccato. Cina e Russia si fanno beffe della Dottrina Monroe, punto fermo della strategia statunitense da un paio di secoli. Washington passerà all’azione, o meglio alla reazione, e non sappiamo ancora quali strumenti sceglierà.

Maggiore integrazione economica? L’ALCA è stato bocciato da quasi tutti i paesi sudamericani.

Legami militari? In Sudamerica la Russia ha superato gli USA nell’esportazione di armi.

Influenza culturale? I sentimenti anti-statunitensi, tradizionalmente radicati nell’area, appaiono al massimo storico, ed il risveglio della comunità indigena porta ad una riscoperta del proprio retaggio più arcaico, piuttosto che all’adozione della way of life nordamericana.

Colpi di Stato? In Venezuela ci hanno provato ma fu un fallimento; un pesce molto più piccolo come l’Honduras è caduto nella rete, ma si ritrova quasi completamente isolato nella regione.

Guerre per procura? I paesi sudamericani sono molto restî a scendere in guerra tra loro, se non altro perché sono tutti instabili al loro interno e temono gravi contraccolpi domestici. Attorno alla Colombia la tensione sta montando, e molto decideranno le imminenti elezioni presidenziali. Santos ricorda per certi versi Saakašvili: è una testa calda, con lui tutto sarebbe possibile. Mockus, al contrario, cercherebbe la distensione coi vicini ed allenterebbe i legami con gli USA. In ogni caso, per Bogotà sarebbe una mossa come minimo azzardata andare in guerra coi vicini, quando non controlla neppure il proprio territorio nazionale.

Guerre in prima persona? Sono da escludersi almeno finché le truppe nordamericane rimangono impantanate in Iràq e Afghanistan. Anche dopo aver evacuato i due paesi mediorientali, l’esperienza inciderà negativamente sulla propensione alla guerra nei prossimi anni. Certo, non sono eventi traumatici come il Vietnam – avendovi preso parte soldati professionisti e non cittadini coscritti – ma il paese è comunque demoralizzato e le casse vuote. Inoltre i paesi sudamericani si stanno integrando: attaccarne uno significherebbe rovinare i rapporti con tutti.

Per tali ragioni, ritengo che nei prossimi anni Washington si limiterà a sovvenzionare e “pompare” a livello mediatico i propri campioni in loco: lo sta già facendo in Brasile, anche se difficilmente il Partito dei Lavoratori di Lula sarà scalzato dal potere. In qualche “repubblica delle banane” centroamericana potranno pure organizzare dei golpe, ma l’arma tradizionale dell’influenza nordamericana sui vicini meridionali appare sempre più spuntata.

La perdita dell’egemonia sul continente americano rappresenterà una svolta epocale per gli USA e la geopolitica mondiale. Gli Stati Uniti d’America, potenza continentale, hanno potuto inventarsi potenza marittima contando sull’isolamento conferito dall’assenza di nemici sulla terraferma: dal Novecento hanno perciò potuto proiettarsi con sicurezza sugli oceani e al di là degli stessi. Con l’emergere di forti rivali nelle Americhe, gli USA perderebbero uno dei loro storici vantaggi strategici: smetterebbero di essere “un’isola” geopolitica e ritornerebbero una potenza continentale.

Quali sono questi “rivali” che gli USA potranno trovare nel continente? Facile rispondere il Brasile, su tutti, che ha dimensioni e demografia adatte a sfidare la supremazia di Washington nell’emisfero occidentale. Facilissimo citare il “blocco bolivariano”, paesi che presi singolarmente sono deboli, ma che se dovessero riuscire ad unirsi, resi più forti dalla veemenza ideologica, creerebbero non pochi problemi ai gringos, come li chiamano loro. E non scordiamoci il Messico. Il Messico è una nazione molto grande, direttamente confinante con gli USA, e coltiva – anche se silenziosamente – storiche rivendicazioni territoriali sul sud degli Stati Uniti. La sua economia è in forte crescita: fra pochi anni sarà considerata una grande potenza, almeno in quest’ambito. Fatica a tenere sotto controllo la parte settentrionale del paese, ma è quella meno popolata e più povera. In compenso ha un’arma atipica. Samuel Huntington, poco prima di morire, lanciò un avvertimento ai propri connazionali: di guardarsi dall’enorme aumento numerico dei Latinos – per lo più messicani – negli USA. I Latinos sono concentrati in pochi Stati: California, Texas, Arizona, New Mexico ed anche Florida (qui si tratta di cubani e portoricani). Giungono in massa e tendono a conservare la propria lingua, la propria religione ed il proprio modo di vivere. Hanno già acquisito un ingente peso elettorale, ma in massima parte non sono integrati nella società statunitense. Nel Sud, i cartelli criminali del narcotraffico hanno costituito veri e propri “Stati nello Stato”, che spadroneggiano nei quartieri latini, sanno autofinanziarsi illecitamente tramite il traffico di droga e la prostituzione, hanno veri e propri eserciti armati fino ai denti. Un soggetto ideale per condurre una guerra asimmetrica, se se ne creassero le condizioni. Questi cartelli del narcotraffico hanno eguale potere al di là del confine, nel settentrione del Messico, e forti collusioni con le autorità di Città del Messico. Non è un caso che negli USA da alcuni anni stiano cercando d’arginare l’immigrazione e d’integrare i Latinos nella società, mentre in Messico non fanno nulla per dissuadere i propri cittadini dall’espatriare nelle terre che gli Statunitensi rubarono al Messico centocinquant’anni fa. La situazione è esplosiva, e qualche analista – come George Friedman – se n’è accorto.

 

22/05/2010

jeudi, 10 juin 2010

La Turquie s'éloigne de l'Occident, comme le reste du monde

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La Turquie s’éloigne de l’Occident, comme le reste du monde

La Turquie et toutes les nations émergentes, rendues confiantes par leurs succès économiques, s’émancipent d’une tutelle occidentale moralisatrice de plus en plus mal supportée, écrit l’éditorialiste Semih Idiz, dans le quotidien turc Hürriyet.

 

Le best-seller de Fareed Zakaria titré « Le monde post-américain et l’essor du reste du monde » est une lecture fascinante, un livre prémonitoire. La question de l’Iran s’inscrit parfaitement dans cette perspective. Le problème va bien au delà des actuelles ambitions nucléaires de Téhéran. Cette affaire est en train de se transformer en une impasse qui dessine une nouvelle division du monde.

Cette division peut être caractérisée ainsi : « L’Occident et le Reste du monde », pour reprendre l’expression de Zakaria. Le développement de pays comme l’Inde, la Chine, le Brésil et la Russie – en d’autres termes « le Reste » – dessine un nouveau paysage mondial qui ne répond pas aux vœux de l’Occident.

La Turquie, qui connait également une croissance rapide, montre des tendances plus en plus marquées en direction du « Reste », et moins vers « l’Occident ». Ceci est interprété comme par certains, en Europe et aux États-Unis, comme une « islamisation de la politique étrangère turque », mais cette évolution pointe vers quelque chose de bien plus significatif.

L’émergence de ce nouvel ordre mondial ne constitue bien évidemment pas une surprise. Il était prévu par ceux qui sont suffisamment compétents pour en déceler les signes avant-coureurs. Nombre d’historiens occidentaux, d’économistes, et des chercheurs en sciences humaines ont décrit ce processus depuis un certain temps.

Quelques noms viennent immédiatement à l’esprit, notamment ceux de Walter Laqueur (« Les derniers jours de l’Europe : une épitaphe pour le vieux continent »), Joseph E. Stiglitz (« La Grande Désillusion »), et Zakaria, mentionné ci-dessus.

Même un Timothy Garton Ash, apparemment optimiste dans « Monde Libre : l’Amérique, l’Europe et le futur inattendu de l’Occident », décrit ce qui se adviendra si le lien de transatlantique n’est pas renforcé dans toutes ses dimensions, ce qui est bien sûr plus facile à dire qu’à faire, comme l’admet l’auteur.

Dans le même temps, l’anti-occidentalisme en général et particulièrement l’anti-américanisme deviennent de plus en plus palpable chez les Turcs. Rester partisan de l’orientation occidentale de la Turquie dans ce climat devient un défi pour une élite minoritaire. Mais l’éloignement de la Turquie des États-Unis et de l’Europe n’est pas quelque chose qui inquiète les Turcs dans leur majorité.

Cette attitude à l’égard de l’Occident n’est à l’évidence pas spécifique aux Turcs. De la Russie à l’Inde, de la Chine à l’Afrique, on assiste à une réaction croissante et forte contre l’Occident. Certains parlent d’un retour de bâton « post-colonial. »

Roberto Fao, un doctorant à l’Université d’Harvard qui a écrit pour le Financial Times, a travaillé à la Banque Mondiale et été consultant pour des projets gouvernementaux, propose des vues intéressantes sur la question.

Dans une tribune publiée par EUobserver.com le 25 mai, M. Fao affirme que les Européens doivent aujourd’hui « se demander pourquoi ils provoquent si peu de respect dans le monde. » Il cite Kishore Mahbubani, le doyen de la Lee Kwan Yew School of International Affairs de Singapour, qui soutient que l’Europe ne comprend pas à « quel point elle devient peu pertinente pour le reste du monde. »

M. Fao rappelle également que Richard Haas, le président du Council on Foreign Relations, a déclaré publiquement « adieu à l’Europe en tant que puissance de haut rang. » M. Fao ne croit cependant pas que l’on puisse négliger cette situation, en n’y voyant qu’une simple « jalousie » de la part des non-européens.

« Au contraire », écrit-il, « j’y discerne une vérité plus dérangeante. Les pays du monde entier ne supportent plus depuis longtemps l’ingérence et les leçons de morale de l’Occident, et ont acquis assez de confiance pour parler haut face à une Europe dont l’influence mondiale n’est plus considérée comme assurée ».

Dans son livre, Zakaria parle de la même « confiance » que des nations ont gagnée face aux États-Unis, avec quelques raisons pour ce faire.

« Les plus grandes tours, les plus grands barrages, les films à succès, et les téléphones mobiles les plus sophistiqués sont tous réalisés désormais à l’extérieur de l’Europe et les États-Unis », note-t-il, en ajoutant que « les pays qui manquaient par le passé de confiance politique et de fierté nationale les acquièrent. »

A la suite du monde bipolaire, le monde unipolaire semble lui aussi en train de s’effondrer, donnant naissance à un monde multipolaire où les possibilités de « l’Occident » sont en déclin, tandis que celles du « Reste » augmentent progressivement.

De fait, si l’Iran doit bien sûr être empêché d’obtenir une arme nucléaire – tout comme Israël et tous les autres devraient être obligés de mettre fin à leurs programmes et d’abandonner leurs stocks d’armes nucléaires existants – l’enjeu va bien au-delà.

Il s’agit d’un nouvel ordre qui va exiger des réponses très différentes à ce que nous connaissons aujourd’hui, si l’on veut que les problèmes brûlants ne mènent pas à des affrontements dont personne ne sortira gagnant au bout du compte.

Article original en anglais : Hürriyet (Turquie)

Traduction française : ContreInfo

mardi, 08 juin 2010

Un général américain annonce de nouvelles guerres

Un général américain annonce de nouvelles guerres pour les « dix années qui viennent »

Lors de la visite du président fantoche de l’Afghanistan, Hamid Karzaï, qui s’est déroulée du 10 au 14 mai dernier à Washington, des attachés militaires français ont rapporté une surprenante déclaration du général James Cartwright, l’adjoint du patron des armées US :  les forces armées américaines vont s’engager dans de nouvelles guerres.

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Depuis plusieurs semaines, en prévision de l’accueil réservé à Karzaï au Département d’État, au Pentagone et à la Maison-Blanche, Obama avait interdit à ses ministres, à ses chefs militaires et à ses diplomates de se livrer à la moindre critique de son hôte. Oubliées, les incartades de Karzaï, qui avait accusé l’ambassadeur américain à Kaboul d’avoir voulu le faire battre à l’élection présidentielle. Passées par pertes et profits, les déclarations publique du chef afghan, qui récemment encore menaçait de « rejoindre les talibans» si les Américains continuaient à se comportent en « occupant ». Et surtout, plus question de voir, dans la presse, un commentaire sur la corruption du clan Karzaï et ses relations avec les trafiquants d’opium.

Cela n’aura néanmoins pas suffit à réduire au silence certains membres du Pentagone. Passionnés de statistiques, ces bavards ont sélectionnés, pour leurs chefs, plusieurs chiffres déprimants sur cette guerre lointaine.

Recrudescence des opérations de la résistance afghane

Selon le dernier numéro du Canard Enchainé, dont les sources seraient des attachés militaires français, en mars dernier les services américains ont recensé 40 attaques de la résistance par jour, et , mieux encore, il faudra s’attendre à enregistrer, au total, 21′000 agressions de ce genre à la fin 2010.

Autre information révélée par l’hebdomadaire : l’offensive dirigée par le général McChrystal dans le Helmand serait loin d’être un « franc succès » : les talibans continuent de contrôler cette zone proche du Pakistan. Voilà qui n’augure rien de bon à quelques semaines de la « grande offensive » dans la région de Kandahar, ou des commandos américains ont déjà détecté la présence de jeunes insurgés, qui ont rasé leur barbe et sont porteur d’armes modernes.

Des guerres pour les dix prochaines années

Le Canard Enchainé, rapporte surtout une surprenante déclaration du général James Cartwright, l’adjoint du patron des armées US. Le 13 mai, au Centre des études stratégiques, il s’est autorisé à prédire l’avenir devant un auditoire médusé : « Pendant les dix années qui viennent, les forces armés américaines resteront engagées dans le même genre de conflit qu’elles ont connu en Irak et en Afghanistan »

Faudra-t-il que Sarkozy, ou son successeur, accepte d’envoyer des Français participer à de nouvelles guerres américaines ? Les nombreux candidats à la future élection présidentielle de 2012 devraient y réfléchir. Les électeurs aussi.

Agata Kovacs, pour Mecanopolis

vendredi, 04 juin 2010

Le pentecôtisme, bras armé de l'impérialisme américain en Afrique subsaharienne?

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Le pentecôtisme, bras armé de l'impérialisme américain en Afrique subsaharienne ?

Le pentecôtisme, courant de l’évangélisme issu des États-Unis et connu pour ses manifestations liturgiques de masse très démonstratives, mais également ses méthodes fortement matérialistes, connaît un fort développement en Afrique Noire, comme dans le reste du monde.

Associé à l’image de Simone Gbagbo ou à une certaine extrême droite américaine (proche de l’ancien président George W. Bush), il est souvent vu comme un instrument de l’impérialisme US, chargé de propager à coup de prosélytisme leurs valeurs et leur vision du monde. Cependant, sur le terrain, le pentecôtisme africain obéit à des dynamiques un peu plus complexes que cette vue manichéenne ne pourrait le laisser penser.

Une implantation centenaire

Le pentecôtisme naît au début du XXe siècle aux États-Unis (en 1901 dans une église blanche du Kansas et en 1906 dans une église noire de Los Angeles) et au Royaume-Uni, d’une dissidence au sein d’églises réformées. Son dogme est fondé sur une interprétation littérale de la Bible, mais ce qui le différencie des autres mouvements protestants est l’importance accordée au « baptême par le Saint-Esprit », manifesté par les charismes (ou dons de Dieu aux croyants) et le lien direct et intime entre Dieu et le croyant.

Très vite, des missionnaires pentecôtistes arrivent en Afrique anglophone, par le biais de la colonisation britannique, notamment en Afrique du Sud, au Liberia et au Burkina Faso. Ceci est facilité par la création, dès 1914, des Assemblées de Dieu, fédération de communautés pentecôtistes américaines, disposant d’une puissante branche missionnaire qui fait de l’Afrique de l’Ouest son terrain privilégié d’évangélisation. Des Assemblées équivalentes apparaissent en Europe de l’Ouest et du Nord au milieu du XXe et vont envoyer des missions en Afrique Centrale. Ceci va résulter en la création d’églises nationales africaines autonomes, qui elles mêmes vont évangéliser les pays voisins. En parallèle, vont apparaître des églises totalement indépendantes et de taille très variable, comptant parfois quelques fidèles autour d’un pasteur.

Après une période d’ « institutionnalisation », un renouveau pentecôtiste est perceptible dès les années 1970, suivant celui observé en Amérique du Sud, d’abord marqué au sein des pays anglophones (Nigeria, Ghana) puis francophones (les deux Congo). Enfin, plus récemment, et avec moins de succès, le pentecôtisme tente de pénétrer les pays musulmans comme le Sénégal et le Maghreb.

Aujourd’hui répandu à travers tout le continent, principalement dans les zones urbaines, il n’est cependant majoritaire nulle part, et sa répartition reste très inégale. Malgré la difficulté à obtenir des chiffres, de par la disparité même du mouvement, sa porosité avec les autres croyances évangéliques et protestantes et l’absence d’autorité centrale, certains estiment qu’il y a plus de 100 millions de pentecôtistes en Afrique Noire. Le Nigeria étant, derrière le Brésil, la Corée du Sud et les États-Unis, le pays comptant le plus d’adeptes. Au niveau mondial, il s’agit de la branche de la chrétienté connaissant aujourd’hui la plus forte croissance (prosélytisme oblige), et en serait, derrière le catholicisme, la seconde plus grande dénomination.

Une certaine adéquation au moule anglo-saxon

Dans nombre de ses caractéristiques, le pentecôtisme promeut des valeurs en rupture avec la tradition africaine et compatibles avec la vision anglo-saxonne du monde.

L’image la plus connue est celle de manifestations de masse dans des mega-churches ou des stades remplis de fidèles en transe, galvanisés par un prêcheur « télévangéliste », qui pratique en direct des guérisons miraculeuses, véritables batailles contre le Malin. De vrais «shows à l’américaine » dans lesquels la « machine narrative » tourne à plein. Ces « délivrances », extrêmement spectaculaires et violentes, consistent à extraire du corps du pauvre sujet les forces diaboliques, sources de tous ses problèmes. La puissance de conviction de tels actes fait que de plus en plus d’églises pentecôtistes, même initialement réticentes, l’intègrent à leurs rituels… Il ne s’agit là qu’un des exemples de la forte dimension « marketing » du mouvement, par ailleurs passé maître dans l’utilisation des médias, marqué également par des dérives mercantiles de la part de nombreux pasteurs, plus hommes d’affaires qu’hommes de Dieu, qui confondent le denier du culte et leur compte en banque, qui roulent en 4x4, portent des montres en or et collectionnent les costumes sur mesure.

Plus fondamentalement, le pentecôtisme (ou du moins une grande partie des églises s’en réclamant) promeut la réussite financière et matérielle et l’initiative personnelle. C’est ce que l’on appelle la « théologie de la prospérité » teintée de libéralisme et issue, sans surprise, des États-Unis. La situation favorable d’un individu y est vue comme résultant des grâces divines, ce qui rencontre à la fois un écho favorable auprès des populations pauvres aspirant à une vie meilleure et des plus riches, qui y trouvent là une justification bien pratique de l’ordre social établi, voire de l’augmentation des inégalités. En poussant plus loin, cela justifie également l’enrichissement personnel du pasteur que nous évoquions il y a quelques lignes. Certains en concluent que le pentecôtisme est un « supermarché de la foi ».

Elisabeth Dorie-Aprill et Robert Ziavoula, dans leur article « La diffusion de la culture évangélique en Afrique Centrale », citent ainsi un pasteur aux accents néo-wébériens :

  • Dieu ne parle que de vous enrichir, c’est ce qu’il a dit à Abraham : “enrichissez-vous!” Mais comment on peut s’enrichir en restant comme ça là ? (…) Quand vous lisez la Bible de A à Z ce n’est que l’idée de la construction.[...] D’ailleurs les pays anglo-saxons qui sont protestants, ils ont mis l’accent sur le travail.

Cette promotion des valeurs entrepreneuriales est finalement très en accord avec les messages que des institutions comme la Banque Mondiale ou le FMI peuvent véhiculer. D’ailleurs, les Assemblées de Dieu font directement référence, dans leurs brochures, à la mauvaise santé économique de l’Afrique, dont les causes sont bien connues :

  • guerres fratricides…, mauvaise gestion de certains dirigeants…, aspects négatifs du colonialisme et du marxisme, dette extérieure toujours croissante à cause des importations de produits manufacturés, agriculture souvent rudimentaire.

Au niveau social et sociétal, en promouvant un lien intime entre Dieu et le croyant, le pentecôtisme met en avant l’individualisation et l’individualisme au détriment des traditions locales. Sont introduites de nouvelles logiques de solidarités entre les individus, détachées descontraintes familiales et de la communauté existante. La famille, quant à elle, est resserrée à son acception nucléaire. En ce sens, le pentecôtisme (finalement comme toute religion prosélyte) implique une acculturation du croyant qui rejoint ses rangs, en l’enjoignant de rompre avec le passé pour conjurer les maux qui le rongent.

Une montée en puissance politique

Jusqu’à très récemment, les églises pentecôtistes africaines ne se souciaient pas de politique. Cependant, souvent par intérêt (pour convertir, moraliser ou pour assouvir une ambition personnelle du pasteur), cet état de fait a changé dès les années 1990. Ainsi le pentecôtisme s’est rapproché des cercles du pouvoir. L’exemple de la Côte d’Ivoire est particulièrement parlant. Il a longuement été commenté dans la presse francophone, notamment pour l’impact supposé que les conseillers religieux du couple présidentiel auraient eu dans la relation avec la France.

La conclusion du dernier discours sur l’état de la nation de l’ancien président béninois, Mathieu Kérékou, en décembre 2005, est particulièrement éloquente :

  • En ce moment crucial où la tendance est aux invectives, aux provocations, aux  appels à peinvoilés à la violence, j’exhorte tous nos compatriotes a plus de retenue, car ceux qui pactisent avec le diable ne seront sûrement pas capables d’éteindre le feu de la haine qu’ils auront inconsciemment allumé. Quant à mon Gouvernement, les générations montantes et futures retiendront que la mission est accomplie et bien accomplie. C’est sur ces mots de foi et d’espérance en l’avenir radieux pour notre cher et beau pays, le Bénin, que je termine mon message sur l’état de la Nation devant la Représentation Nationale. Que Dieu bénisse le Peuple béninois et ses Dirigeants !

L’action dans le champ politique se fait, comme l’explique Cédric Mayrargue (Les dynamiques paradoxales du pentecôtisme en Afrique subsaharienne), à la fois :

  • par le haut : conversion des élites (à titre d’exemple, Thomas Yayi Boni, successeur de Kérékou, est un pentecôtiste converti d’origine musulmane), fidèles nommés à des postes clés, postes de conseillers pour les pasteurs, etc;
  •  par le bas : ouverture d’écoles, de cliniques, de centres sociaux, création d’ONG, autant de nouveaux outils de prosélytisme.

Cet investissement, sans surprise, permet de peser sur les politiques publiques. Cédric Mayrargue donne l’exemple de l’abandon de la campagne « Abstain, Be Faithful, Use Condoms » en Ouganda grâce à l’appui de l’épouse « born again » du président, Janet Museveni. On peut également citer la stigmatisation des « non-chrétiens » et des « nordistes » en Côte d’Ivoire. Ou la participation de l’ancien président de Zambie, Frederick Chiluba, à des « croisades » et conventions pentecôtistes.

Des influences extérieures

La diffusion des valeurs pentecôtistes, au-delà de la période initiale décrite plus haut, est accompagnée de l’extérieur. Ainsi les Assemblées de Dieu américaines, ainsi que d’autres, fournissent des moyens financiers à certaines églises locales. De même, elles alimentent les pasteurs en matériel : brochures, vidéos…Les best-sellers des télévangélistes américains sont disponibles dans toutes les « bonnes » librairies, tout comme des programmes TV made in USA tournent en boucle sur certaines chaînes de télévision. Certains prêcheurs américains, tels des stars du rock, effectuent de véritables tournées en Afrique, remplissant les stades et écoulant leurs produits dérivés.

Les Assemblées de Dieu comptent, comme d’autres institutions évangéliques et pentecôtistes, aujourd’hui encore plusieurs centaines de missionnaires qui font en permanence le tour du monde dans le but d’apporter la bonne parole. De même, les églises anglo-saxonnes ont mis sur pied de nombreuses ONG à vocation humanitaire, comme Samaritan’s Purse, qui travaillent sur le terrain africain avec les pentecôtistes locaux.

Origine américaine, promotion de valeurs anglo-saxonnes, intégration du politique, investissement du champ social, soutiens extérieurs, évangélisme offensif, prosélytisme auprès de populations musulmanes (et parfois conflits interconfessionnels ouverts, comme au Nigéria) : il n’en faut pas plus pour que surgisse le spectre d’infiltration à des fins géopolitiques. Et cela va plus loin qu’une simple « américanisation » de la chrétienté africaine.

Il faut dire que les évangélistes américains, associés aux néo-conservateurs, promeuvent un christianisme radical, ultraconservateur et très offensif allant de pair avec une vision simpliste du « bien » et du « mal », et n’ont pas hésité à parler de « croisade » dans le cadre de la guerre d’Irak. Il convient également de rajouter que, notamment en Afrique du Sud, le pentecôtisme a frayé avec l’extrême-droite, qui a alimenté son fond théologique (voir Paul Gifford, The Complex Provenance of Some Elements of African Pentecostal Theology). Et si l’on inclut les Églises sionistes (présentes en Afrique du Sud depuis la fin du XIXème) à l’équation, on a de quoi alimenter le feu conspirationniste pendant des décennies.

D’autant que certaines rumeurs concernant des opérations montées par les services secrets américains vont bon train. Même s’il est avéré que des initiatives de recensement d’églises dans plusieurs pays africains sont lancées et financées depuis les États-Unis, il n’y a cependant pas, comme pour l’Amérique du Sud, de théories très structurées relatives à l’appui direct de sectes évangéliques visant à contrer des influences néfastes, communistes ou autres. On se souvient que, dans les années 1980, Ronald Reagan avait très peur de l’infiltration marxiste et de la théologie de la libération au sein de l’Eglise catholique en Amérique Latine. Et donc, naturellement, Washington voyait d’un bon œil le développement de concurrents moins rouges. Cependant, comme le montrent David Stoll (Is Latin America Turning Protestant? The Politics of Evangelical Growth) et David Martin (Tongues of Fire: The Explosion of Protestantism in Latin America), il n’y a pas eu de soutien direct de la part des États-Unis.

Nous allons le voir, il faut relativiser l’influence nord-américaine dans la propagation du pentecôtisme africain, largement marqué par des dynamiques propres au Continent Noir.

Le pentecôtisme autochtone, entre culture populaire et mondialisation

Nous l’avons déjà évoqué, il y a en Afrique un nombre incalculable d’églises pentecôtistes. Certaines rassemblant des millions de fidèles, d’autres quelques uns à peine. Certaines sont issues des missions occidentales, mais de plus en plus sont celles qui ont éclos de façon locale. Certaines existent depuis près de cent ans, d’autres apparaissent et disparaissent en un clin d’œil. Et dans leur immense majorité, elles sont indépendantes, à la fois les unes des autres, mais également de leurs homologues nord-américaines, brésiliennes ou européennes, même si des liens (surtout moraux et confessionnels) peuvent exister. L’absence d’autorité centrale renforce la mobilité théologique des différents mouvements.

La mobilité concerne également l’allégeance des fidèles. La fragilité de la plupart des églises, l’absence d’exclusivisme (contrairement à d’autres sectes) et la porosité entre les mouvements y sont pour beaucoup. De même que la très forte concurrence qui existe en Afrique subsaharienne : le paysage religieux y est marqué par une extrême complexité, entre le catholicisme, les nombreuses sectes protestantes (évangéliques ou non), l’islam et les cultes locaux toujours actifs, sans oublier les syncrétismes occidentalo-africains, comme le kimbanguisme au Congo, qui compte entre 3 et 4 millions de fidèles. Cette double mobilité est un sérieux frein à toute tentative de mainmise extérieure globale. Le développement actuel du pentecôtisme en Afrique est dû, plus qu’aux influences extérieures, au terreau propice (difficultés économiques, aspiration au développement) et à l’établissement de ce que l’on peut appeler une culture populaire. Où quand l’expérience et la pratique passent avant le fond théologique.

Comme le souligne Cédric Mayrargue, les églises pentecôtistes les plus dynamiques aujourd’hui sont autochtones et sont menées par des pasteurs locaux, comme la Redeemed Christian Church of God (dont le pasteur, Enoch Adejare Adeboye, a été nommé homme le plus puissant d’Afrique par Newsweek) ou la Deeper Life Bible Church nigérianes, le Christian Action Faith Ministries ou l’International Central Gospel Church ghanéens, la Family of God zimbabwéenne. Ces églises ont su traverser les frontières et se doter d’une ambition universelle, drainant chaque semaine des milliers de fidèles lors de « croisades » dans des stades ou sur des places publiques.

Leur présence dépasse aujourd’hui les frontières africaines. La Church of Pentecost ghanéenne est ainsi implantée au Royaume-Uni, en France, aux États-Unis, en Ukraine et en Inde. Les flux ne sont plus simplement dirigés dans le sens Nord-Sud mais s’orientent désormais selon un axe Sud-Sud et même Sud-Nord, notamment grâce aux diasporas. Cela ne concerne pas uniquement les transferts d’argent, mais aussi et surtout le fond théologique : l’Afrique participe activement à la production idéologique et théologique du pentecôtisme. Où le Continent Noir n’est plus seulement importateur mais aussi exportateur d’influence, une marque de plus de son intégration à la mondialisation actuelle.

JGP

Alliance géostratégique

mercredi, 02 juin 2010

Lula: "Abandonner le dollar dans les échanges bilatéraux!"

21242_399px-Lula_-_foto_oficial05012007.jpgLula: “Abandonner le dollar dans les échanges bilatéraux!”

 

“Nous ne pouvons pas faire des affaires avec une monnaie que nous ne contrôlons pas et que nous n’émettons pas”: voilà ce qu’a déclaré le Président du Brésil, Luiz Inacio Lula da Silva lors d’un entretien avec son homologue russe Dmitri Medvedev à Moscou. Lula da Silva a ensuite défendu sa position: le Brésil et la Russie devraient abandonner le dollar et utiliser leurs propres monnaies pour leurs échanges bilatéraux. “C’est là un défi pour le Brésil et pour la Russie, pour le BRIC (= Brésil, Inde, Russie et Chine) et pour la nouvelle logique commerciale du 21ème siècle”, a-t-il ajouté.

 

(information parue dans “Rinascita”, Rome, 15/16 mai 2010 – http://www.rinascita.eu/ )

Aux sources de la crise du Golfe

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Article paru dans « Nationalisme et République », 1991.

Aux sources de la crise du Golfe: la volonté britannique d'exercer un contrôle absolu du Proche-Orient

 

par Robert Steuckers

 

La crise du Golfe a fait couler beaucoup de sang irakien mais aussi beaucoup d'encre. Très souvent inutilement. Inutilement parce presque personne, exceptés quelques très rares spécialistes, n'a cru bon d'interroger les textes anciens, de recourir aux sources de la pensée géopolitique. La géopolitique, comme on commence à le savoir dans l'espace linguistique francophone, est l'art d'examiner et de prophétiser les événements historiques à la lumière de la géographie. Cette démarche a eu des précurseurs allemands (Ratzel et Haushofer que l'on vient de traduire en France chez Fayard; Dix, Maull, Obst, Oesterheld qui demeurent toujours d'illustres inconnus dans nos milieux diplomatiques et intellectuels), suédois (Kjellen) et britanniques (Mackinder, Lea). Pour ce qui concerne les rapports entre l'Europe et le Proche-Orient, c'est le Suédois Kjellen qui, en 1916, en pleine guerre, a émis les théories les plus fines, qui gardent toute leur pertinence aujourd'hui et qui, malheureusement, ne sont plus guère lues et méditées dans nos chancelleries. S'appuyant sur les thèses de Dix, Kjellen, dans son petit ouvrage concis de 1916 (Die politischen Probleme des Weltkrieges; = les problèmes politiques de la guerre mondiale), rappelle que l'Angleterre poursuivait au début du siècle deux objectifs majeurs, visant à souder ses possessions éparpillées en Afrique et en Asie. Albion souhaitait d'abord dominer sans discontinuité l'espace sis entre Le Caire et Le Cap. Pour cela, elle avait éliminé avec la rigueur que l'on sait les deux petites républiques boers libres et massacrés les mahdistes soudanais. L'un de ses buts de guerre, en 1914, était de s'emparer du Tanganyka allemand (la future Tanzanie) par les forces belges du Congo interposées: ce qui fut fait. Le Général belge Tombeur expulse les vaillantes troupes d'askaris allemands de von Lettow-Vorbeck l'Invaincu vers le Mozambique, mais l'Angleterre acquiert le Tanganyka en 1918, laissant à la Belgique le Ruanda et la Burundi, deux bandes territoriales de l'ouest de la colonie allemande. A cette politique impérialiste africaine, l'Angleterre voulait ajouter une domination sans discontinuité territoriale du Caire à Calcutta, ce qui impliquait de prendre sous sa tutelle les provinces arabes de l'Empire ottoman (Palestine, Jordanie, Irak, Bassorah) et de mettre la Perse à genoux, afin qu'elle lui cède le Kouzistan arabe et le Baloutchistan, voisin du Pakistan. Pour parfaire ce projet grandiose, l'Angleterre devait contrôler seule tous les moyens de communication: elle s'était ainsi opposée à la réalisation d'un chemin de fer Berlin-Bagdad, financé non seulement par l'Allemagne de Guillaume II mais aussi par la France et la Suisse; elle s'était opposée aussi  —et les Français l'oublient trop souvent depuis 1918—  à la présence française en Egypte et au contrôle français des actions du Canal de Suez. En 1875, l'Angleterre achète massivement des actions, éliminant les actionnaires français; en 1882, ses troupes débarquent en Egypte. L'Egypte était aussi vitale pour l'Angleterre d'il y a 80 ans qu'elle l'est aujourd'hui pour Bush. Lors du Traité de paix avec la Turquie, l'Angleterre confine la France en Syrie et au Liban, l'expulsant de Mossoul, zone pétrolifère, qui pourtant lui avait été attribuée.

 

L'histoire du chemin de fer Berlin-Bagdad est très instructive. En 1896, les ingénieurs allemands et turcs avaient déjà atteint Konya en Anatolie. L'étape suivante: le Golfe Persique. Ce projet de souder un espace économique étranger à la City londonienne et s'étendant de la Mer du Nord au Golfe contrariait le projet anglais de tracer une ligne de chemin de fer du Caire au Golfe, avant de la poursuivre, à travers la Perse, vers Calcutta. Albion met tout en œuvre pour torpiller cette première coopération euro-turco-arabe non colonialiste, où le respect de l'indépendance de tous est en vigueur. L'Angleterre veut que la ligne de chemin de fer germano-franco-helvético-turque s'arrête à Bassorah, ce qui lui ôte toute valeur puisqu'elle est ainsi privée d'ouverture sur le trafic transocéanique. La zone entre Bassorah et la côte, autrement dit le futur Koweit, acquiert ainsi son importance stratégique pour les Britanniques seuls et non pour les peuples de la région. Dès 1880 les Anglais avaient déjà joué les vassaux côtiers, accessoirement pirates et hostiles aux autochtones bédouins, contre la Turquie. Puisque le terminus du chemin de fer ne pouvait aboutir à Koweit, que les Anglais avait détaché de l'Empire Ottoman, les Turcs proposent de le faire aboutir à Kor Abdallah: les Anglais prétendent que cette zone appartient au Koweit (comme par hasard!). Deuxième proposition turque: faire aboutir la ligne à Mohammera en Perse: les Anglais font pression sur la Perse. Les prolégomènes à l'entêtement de Bush...! Le 21 mars 1911, Allemands et Turcs proposent l'internationalisation de la zone sise entre Bassorah et Koweit, avec une participation de 40% pour la Turquie, de 20% pour la France, 20% pour l'Allemagne, 20% pour l'Angleterre. Proposition on ne peut plus équitable. L'Angleterre la refuse, voulant rester absolument seule entre Bassorah et la côte.

 

Ce blocage irrationnel  —malgré sa puissance, l'Angleterre était incapable de réaliser le projet de dominer tout l'espace entre Le Caire et Le Cap—  a conduit à la fraternité d'armes germano-turque pendant la Grande Guerre. A la dispersion territoriale tous azimuts de l'Empire britannique, Allemands, Austro-Hongrois, Bulgares et Turcs proposent un axe diagonal Elbe-Euphrate, Anvers-Koweit, reliant les ports atlantiques de la Mer du Nord, bloqués par la Home Fleet pendant les hostilités, à l'Insulinde (Indonésie) néerlandaise. Cet espace devait être organisé selon des critères nouveaux, englobant et dépassant ceux de l'Etat national fermé, né sous la double impulsion de 1789 et de la pensée de Fichte. Ces critères nouveaux respectaient les identités culturelles mais fédéraient leurs énergies auparavant éparses pour bâtir des systèmes politiques nouveaux, répondant aux logiques expansives du temps.

 

Les buts de guerre de l'Angleterre ont donc été de fragmenter à l'extrême le tracé de cette diagonale partant des rives de la Mer du Nord pour aboutir au Golfe Persique voire à l'Insulinde néerlandaise. L'alliance entre la France et l'Angleterre s'explique parce que la France n'avait pas de politique pouvant porter ombrage à Londres dans l'Océan Indien. L'alliance, plus étonnante, entre la Russie tsariste et l'Angleterre vient du fait que la Russie avait, elle, intérêt à couper la diagonale Elbe-Euphrate à hauteur du Bosphore et des Dardannelles. C'est ce qui explique la tentative désespérée de Churchill de lancer des troupes contre Gallipoli, avant que les Russes ne s'y présentent. Avec les Russes à Constantinople, la diagonale germano-turque était certes brisée, mais la Russie aurait été présente en Serbie et en Grèce, puis en Crète et à Chypre, ce qui aurait menacé la ligne de communication transméditerranéenne, partant de Gibraltar pour aboutir à Suez en passant par Malte. La révolution bolchévique est venue à temps pour éliminer la Russie de la course. L'entrée en guerre de la Roumanie et la balkanisation de l'Europe centrale et orientale procèdent de la même logique: fragmenter la diagonale.

 

Revenons à l'actualité. La disparition du rideau de fer et l'ouverture prochaine de la navigation fluviale entre Rotterdam et la Mer Noire par le creusement d'un canal entre le Main et le Danube reconstitue le tracé de la diagonale de 1914, du moins jusqu'à Andrinople (Edirne en turc). Les volontés de balkanisation de l'Europe, imposées à Versailles et à Yalta sont réduites à néant. L'intervention des Etats-Unis au Koweit, nous l'avons déjà dit, avait pour objectif premier de restaurer le statu quo et de remettre en selle la famille Al-Sabah qui investit toutes les plus-values de son pétrole dans les circuits bancaires anglais et américains, évitant de la sorte l'effondrement total des économies anglo-saxonnes, basées sur le gaspillage, le vagabondage financier et secouées par l'aventurisme thatchéro-reaganien. Mais les Etats-Unis, héritiers de la politique thalassocratique anglaise, ont en même temps des objectifs à plus long terme. Des objectifs qui obéissent à la même logique de fragmentation de la diagonale Mer du Nord/Golfe Persique.

 

Les stratèges de Washington se sont dit: «si l'Europe est reconstituée dans son axe central Rhin-Main-Danube, elle aura très bientôt la possibilité de reprendre pied en Turquie, où la présence américaine s'avèrera de moins en moins nécessaire vu la déliquescence du bloc soviétique et les troubles qui secouent le Caucase; si l'Europe reprend pied en Turquie, elle reprendra pied en Mésopotamie. Elle organisera l'Irak laïque et bénéficiera de son pétrole. Si l'Irak s'empare du Koweit et le garde, c'est l'Europe qui finira par en tirer profit. La diagonale sera reconstituée non plus seulement de Rotterdam à Edirne mais d'Edirne à Koweit-City. La Turquie, avec l'appui européen, redeviendra avec l'Irak, pôle arabe, la gardienne du bon ordre au Proche-Orient. Les Etats-Unis, en phase de récession, seront exclus de cette synergie, qui débordera rapidement en URSS, surtout en Ukraine, pays capable de revenir, avec un petit coup de pouce, un grenier à blé européen auto-suffisant (adieu les achats de blé aux USA!), puis aux Indes, en Indonésie (un marché de 120 millions d'âmes!), en Australie et en Nouvelle-Zélande. Un grand mouvement d'unification eurasien verrait le jour, faisant du même coup déchoir les Etats-Unis au rang d'une puissance subalterne qui ne ferait plus que décliner. Les Etats-Unis ne seraient plus un pôle d'attraction pour les cerveaux du monde et on risquerait bien de voir s'effectuer une migration en sens inverse: les Asiatiques d'Amérique retourneraient au Japon ou en Chine; les Euro-Américains s'en iraient faire carrière en Allemagne ou en Italie du Nord ou en Suède. Comment éviter cela? En reprenant à notre compte la vieille stratégie britannique de fragmentation de la diagonale!».

 

En effet, les troubles en Yougoslavie ne surviennent-ils pas au bon moment? Rupture de la diagonale à hauteur de Belgrade sur le Danube. Le maître-atout des Etats-Unis dans ce jeu est la Turquie. Le verrou turc bloque tout aujourd'hui. N'oublions pas que c'est dans le cadre de l'OTAN que le Général Evren renverse la démocratie au début de la décennie 80 et que ce putsch permet, après une solide épuration du personnel politique turc, de hisser Özal au pouvoir. Un pouvoir qui n'est démocratique qu'en son vernis. Özal proclame qu'il est «européen» et qu'il veut adhérer à la CEE, malgré les impossibilités pratiques d'une telle adhésion. Les porte-paroles d'Özal en Europe de l'Ouest, notamment en RFA, affirment que la Turquie moderne renonce à tout projet «ottoman», c'est-à-dire à tout projet de réorganisation de l'espace proche-oriental, de concert avec les autres peuples de la région. Pire: Özal coupe les cours du Tigre et de l'Euphrate par un jeu de barrages gigantesques, destinés, dit-on à Ankara, à verdir les plateaux anatoliens. Mais le résultat immédiat de ces constructions ubuesques est de couper l'eau aux Syriens et aux Irakiens et d'assécher la Mésopotamie, rendant la restauration de la diagonale Elbe-Euphrate inutile ou, au moins, extrêmement problématique.

 

L'Europe n'a donc pas intérêt à ce que la guerre civile yougoslave s'étende; elle n'a pas intérêt à ce qu'Özal reste au pouvoir. Les alliés turcs de l'Europe sont ceux qui veulent, avec elle, reconstituer l'axe Berlin-Constantinople-Bagdad et ceux qui refusent l'assèchement et la ruine de la Mésopotamie (déjà les Anglais avaient négligé de reconstituer les canaux d'irrigation). Ensuite, l'Europe doit dialoguer avec un régime européophile à Bagdad et soutenir le développement de l'agriculture irakienne. Ensuite, l'Europe a intérêt à ce que la paix se rétablisse entre la Syrie et l'Irak. Après l'effondrement de l'armée de Saddam Hussein et le déclenchement d'une guerre civile en Irak, elle doit mobiliser tous ses efforts pour éviter la balkanisation de l'espace irakien et l'assèchement de la Mésopotamie. Celui qui tient la Mésopotamie tient à moyen ou long terme l'Océan Indien et en chasse les Américains: un principe géostratégique à méditer. Si l'Europe avait soutenu l'Irak, elle aurait eu une fenêtre sur l'Océan Indien. En resserrant ses liens avec l'Afrique du Sud et avec l'Inde non alignée, elle aurait pu contrôler cet «océan du milieu» et souder l'Eurasie en un bloc cohérant, libéré des mirages du libéralisme délétère.

 

Souder l'Eurasie passe 1) par la reconstitution de la diagonale Mer du Nord/Golfe Persique; 2) par la création d'un transsibérien gros porteur, à écartement large et à grande vitesse, reliant Vladivostock à Hambourg via un système de ferries à travers la Baltique, entre Kiel et Klaipeda en Lituanie (autre point chaud; un hasard?); 3) par une liaison ferroviaire de même type reliant Novosibirsk à Téhéran et Téhéran à Bagdad; 4) par une exploitation japonaise des voies maritimes Tokyo/Singapour, Singapour/Bombay, Bombay/Koweit, cette dernière en coopération avec l'Europe; 5) par une liaison maritime Koweit/Le Cap, exploitée par un consortium euro-turco-irakien. Le rôle de la France dans ce projet: 1) protéger la façade maritime atlantique de l'Europe, en revalorisant sa marine; 2) participer, à hauteur des Comores et de la Réunion, à l'exploitation de la ligne maritime Koweit/Le Cap; 3) jouer de tous les atouts dont elle dispose en Afrique francophone.

 

Un tel projet permet à chaque peuple de la masse continentale eurasiatique de jouer dans ce scénario futuriste un rôle bien déterminé et valorisant, tout en conservant son indépendance culturelle et économique. C'est parce que ce projet était tou d'un coup réalisable que les forces cosmopolites au service de l'Amérique ont mis tout en œuvre pour le torpiller. Peine perdue. Ce qui est inscrit dans la géographie demeure. Et finira par se réaliser. Il suffit de prendre conscience de quelques idées simples. Qui se résument en un mot: diagonale. Diagonale Rotterdam/Koweit. Diagonale Hambourg/Vladivostock. Diagonale Novosibirsk/Téhéran.

 

Robert STEUCKERS.  

 

mardi, 01 juin 2010

Les idées géopolitiques affichées par Jirinovski

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 Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1994

 

 

Les idées géopolitiques affichées par Jirinovski

 

L'irruption de Jirinovski sur la scène politique russe, son score électoral im­pressionnant, obtenu lors du scrutin du 12 décembre 1993, ses foucades hau­tes en couleur commises à tour de bras, ses liens avec le Dr. Gerhard Frey, chef de la DVU nationaliste allemande, sont autant d'énigmes, de nouveau­tés qui n'ont pas manqué d'étonner, d'irriter, d'agacer.

 

Qui est Jirinovski? Un nationaliste russe authentique ou un provocateur à la solde des adversaires de toute forme de nationalisme? Un militant natio­naliste courageux qui fait du tapage pour attirer l'attention des médias friands de scandales? Ou un énergumène qui cherche à couvrir le nationa­lisme russe de ridicule? Ces questions, tous se les sont posées: les nationa­lis­tes, russes et allemands, les observateurs neutres et les libéraux occiden­taux, hostiles et inquiets face à la montée des nationalismes dans le monde ex-communiste. L'objet de notre article n'est pas d'entrer dans cette polémique. Mais d'analyser les conceptions géopolitiques que Jirinovski a énoncé au cours de ces derniers mois, notamment dans une revue non partisane, de haute tenue scientifique: Limes, Rivista italiana di geopolitica  (n°1/1994; adresse: via di Ripetta 142, I-00.186 Roma).

 

Limes  est une revue de géopolitique, proche, à certains égards, de sa con­sœur française Hérodote,  mais sans les relents germanophobes, à la limite de l'hystérie, qu'on y perçoit et qui ne sont pas sans rappeler les délires de Maurras et de toute l'extrême-droite parisienne. Le numéro qu'Hérodote  a consacré à la «Question allemande» (n°68) est très éloquent à ce sujet: l'ex­trême-gauche, qui croit que l'Allemagne est encore «fasciste» (!), et l'extrê­me-droite germanophobe y trouvent de quoi alimenter leurs fantasmes que les uns et les autres croient différents mais qui, en pratique, débouchent sur le même irréalisme. Depuis la réunification allemande, la France n'est plus le centre de cette demie-Europe occidentale, qu'est la CEE, et ce changement de donne trouble la quiétude des observateurs parisiens, qui ont aussitôt voulu revenir à la vieille stratégie de l'encerclement de l'Allemagne, no­tamment en appuyant les Serbes (cf. Hérodote  n°67, «La Question serbe»).

 

La presse flamande, notamment Trends,  sous la dynamique impulsion de Frans Crols, a tiré la sonnette d'alarme: Paris semble désormais raisonner comme suit: la RFA a pu absorber la RDA, en compensation, la France doit pouvoir absorber la Belgique ou au moins la Wallonie, voire attirer l'en­semble du Bénélux dans son orbite, comme semble le démontrer le projet inutile de TGV reliant les trois capitales, Amsterdam-Bruxelles-Paris. Nous n'avons nulle envie de nous retrouver dans un Hexagone élargi, ou d'être la cerise bénéluxienne coiffant le babaorum jacobin, ni de croupir sous un régime archaïque, vétuste, inefficace de facture centralisatrice et jacobine, ni de servir d'ersatz aux tirailleurs sénégalais dans une armée qui envoie ses soldats dans tous les coins perdus d'Afrique ou sur les confettis d'empire dans l'Atlantique ou le Pacifique. Notre destin, nous ne le concevons qu'en Euro­pe et cette chimère qu'est la francophonie nous laisse de glace. Si nous a­vons incontestablement des atomes crochus avec les Lorrains ou les Pi­cards, nous en avons d'aussi crochus avec les Néerlandais ou les Rhénans. Et, par­ce que nous ne sommes pas omniscients, comme Dieu ou comme cette hy­pothétique homme parfait, «universel», que veulent fabriquer les sans-culottes, à coups de baïonnettes, et les intellectuels parisiens, à coups de syllo­gismes boîteux ou d'invectives hystériques, nous ne comprenons pas grand'chose aux subtilités du folklore des populations “francophones” du Togo ou du Congo-Brazza, et le fait que les Kanaks de Nouvelle-Calédonie veulent recouvrir une forme d'indépendance ne nous apparaît pas forcé­ment incongru.

 

Les tentatives annexionnistes de Paris nous obligent à trouver des alliés pour faire pièce à ce projet qui réduirait nos identités en bouillie, que nous soyons Flamands ou Wallons. Mais, à l'heure actuelle, Paris n'a que des ad­versaires de pacotille. Parce que plus personne ne raisonne en termes de géopolitique ou ne perçoit l'enjeu continental du projet d'absorption de la Belgique entière ou de la Wallonie seule. La réponse à l'offensive idéologi­que et géopolitique du jacobinisme doit reposer sur plusieurs principes. Les voici:

- Le principe «impérial», impliquant l'auto-centrage des régions et la subsi­diarité, qui rapproche les gouvernants des gouvernés (selon les modèles ouest-allemand et helvétique).

- L'ancrage économique national ou régional contre les OPA et les transferts de parts. C'est la contre-attaque que suggèrent en Flandre Frans Crols, Hans Brockmans et le Davidsfonds (cf. Vlaanderen, een Franse kolonie?,  Lou­vain, 1993).

- La défense absolue de l'espace qui fut jadis celui du «Saint-Empire»: aucu­ne terre ayant appartenu à ce Saint-Empire ne peut être cédée à un Etat ex­térieur, surtout si sa structure administrative repose sur des principes dia­métralement opposés à ceux de la “subsidiarité”, et toutes les terres ayant ap­partenu à ce Saint-Empire doivent au moins acquérir à court ou moyen ter­me leur autonomie régionale, selon ce même principe de subsidiarité énon­cé dans l'article 3b du Traité de Maastricht. En ce sens, nous saluons le tra­vail des Ligues lombardes, piémontaises et vénétiennes qui ont su réclamer l'autonomie voire la sécession, contre une République qui tirait ses princi­pes de gouvernement d'un républicanisme archaïque et aberrant, de mou­ture française, et calquait ses pratiques sur les réseaux mafieux. Jacobinisme et mafia ont donné la preuve qu'elles étaient les deux facettes d'une même médaille, criminalité politique et criminalité de droit commun fusionnant en règle générale dans ce type de système en Italie ou en France (l'assassinat de Yann Piat étant un exemple récent et fort éloquent). Les Etats héritiers du Saint-Empire sont aujourd'hui: la Belgique, l'Allemagne, l'Autriche, la Suisse, la Slovénie, la République Tchèque et, en tant qu'associée étroite, la Hongrie. Dans tous ces Etats, les lois régissant les minorités doivent être les mêmes qu'en Belgique et en Allemagne (Germanophones d'Eupen et de Saint-Vith, Danois du Slesvig, Sorabes de Lusace), parce que les principes, que les Allemands et nous-mêmes appliquons, correspondent à la lettre et à l'esprit des accords de la CSCE. Tous ceux qui ne s'y conforment pas, après les avoir signés, sont en tort. 

- L'espace impérial, seul espace libre d'Europe, doit avoir accès à la Méditer­ranée, au moins dans la zone adriatique (Istrie).

- Cet espace ne peut survivre et s'épanouir que s'il y a un accord avec la Russie, comme du temps des accords de Tauroggen avec la Prusse ou du temps des “consultations réciproques” entre Berlin et Saint-Pétersbourg (Bismarck).

 

Maintenant que le communisme a cessé de sévir, cette nécessité d'aplanir nos différends avec la Russie, de concert avec tous les pays qui sont les héri­tiers partiels du Saint-Empire ou de l'Empire austro-hongrois,  nous amène à étudier le «cas Jirinovski» ou, du moins, les propositions de réaménage­ment géopolitique qu'il suggère pour notre continent. Si ces propositions n'avaient été formulées que dans des feuilles extrémistes ou si elle n'éma­naient pas d'un homme qui a fait 25% aux élections et conserve toutes ses chances de devenir le Président de la Russie, nous ne les aurions pas rele­vées. Mais si Limes  les reproduit à Rome, nous devons leur accorder toute notre attention.

 

Répondant aux questions du journaliste suédois Rolf Gauffin, Jirinovski rappelle son option “eurasienne” et les critiques qu'il formule à l'égard de Gorbatchev. Ses critiques ne sont pas les mêmes que celles du camp natio­nal-patriotique, qui reproche à l'initiateur de la perestroïka d'avoir lâché les glacis est-européens et centre-asiatiques de l'Empire russe et d'avoir amorcé un processus de réformes qui ne pouvaient conduire qu'à l'anarchie. Jiri­novski admet qu'il fallait entamer des réformes mais qu'il fallait y aller plus graduellement et avec l'aide des structures existantes, un peu à la façon de Deng en Chine.

 

Ensuite, deuxième point de divergence entre Jirinovski et les nationaux-pa­triotes: ces derniers entendent ramener tous les territoires de l'ancienne URSS dans le giron de Moscou. Jirinovski adopte une position médiane. Dans le Caucase et en Asie centrale, dit-il, les guerres civiles font rage et elles sont interminables, basées sur des clivages ethno-religieux auxquels les Rus­ses ne comprennent pas grand'chose. La Russie ne peut s'offrir le luxe de dépenser des milliards pour rétablir l'ordre dans ces régions qui sont sous la coupe de mafias puissantes et dont l'économie est défaillante.

 

Jirinovski suggère le partage suivant: la Russie ne reprend que la région de Tiflis (Géorgie), la Turquie annexe le reste de la Géorgie et l'Arménie, l'Iran peut prendre l'Azerbaïdjan, ce qui est surprenant car, avec son pétrole, la République azérie était en boni dans l'ex-URSS. En Asie centrale, selon Jiri­novski, le Turkestan doit revenir à la Russie, l'Afghanistan peut prendre le Tadjikistan et la partie de l'Ouzbekistan peuplé de Tadjiks iranophones (in­do-européens). Le reste de cet Ouzbekistan revient à la Russie. Le Turkme­nistan revient soit à l'Iran soit à la Russie, après négociations. Le Kirghizi­stan, lui, revient entièrement à la Russie.

 

En Europe, la Russie de Jirinovski entend reprendre les Pays Baltes, sauf l'Ouest de l'Estonie et la région lithuanienne de Kaunas/Vilnius. Raisons invoquées par Jirinovski: la présence de fortes minorités russes dans cette région, et la nécessité d'avoir une «fenêtre» donnant sur la Mer Baltique. La Prusse orientale reviendrait à l'Allemagne.  Jirinovski ne revendique pas la Finlande.

Notre réponse: nous tenons aux Pays Baltes, nous souhaitons, comme l'a­vaient d'ailleurs souhaité bon nombre de tsars, que l'identité et les langues de ces pays soient préservées, nous souhaitons le développement d'un «marché baltique» ou «hanséatique», où participeraient Scandinaves, Fin­landais, Allemands et Polonais. Ce marché ne serait pas hostile à la Russie, mais ne pourrait fonctionner que si les Pays Baltes bénéficient d'une large autonomie ou s'ils sont indépendants. En droit, évidemment, il me semble difficile de nier à 100% le bien fondé des revendications russes, puisque la région a été gouvernée par les Tsars pendant longtemps. Mais les «gouver­nements» baltes de l'ère tsariste, que Jirinovski imagine pouvoir restaurer, doivent au moins retrouver le statut spécial qu'ils avaient avant 1892, et qui respectait leur identité baltique composite, leurs langues régionales et avait l'allemand comme langue universitaire à Dorpat jusqu'à la fin du 19°siècle. La présence russe n'a été que militaire dans cette région. Culturellement, l'espace des Pays Baltes est un espace de transition entre les grandes cultures européennes, comme nos Pays-Bas le sont à l'Ouest entre la France, l'Alle­magne et l'Angleterre. C'est d'ailleurs pour défendre chez nous ce statut na­turel, dicté par la géographie et l'hydrographie des grands fleuves, que nous nous insurgeons contre les menées françaises d'aujourd'hui, contre les complots ourdis par un certain Jeantet, dit «Philippe de Saint-Robert» et contre les stratégies financières visant à nous asservir. Donc, les Pays Baltes doivent recouvrir leur identité, sous la «protection» militaire russe ou dans l'indépendance. Ils doivent être cette espace de transition, sans être fermé à l'Ouest balto-scandinave ou allemand ni à l'Est russo-sibérien.

 

Jirinovski propose de redonner à l'Allemagne et à la Pologne leurs frontiè­res de 1937. La Pologne bénéficierait d'un corridor jusqu'à la Baltique. Elle rendrait à l'Allemagne la Poméranie, la Silésie et la Prusse orientale mazu­rienne. En compensation, elle recevrait la région actuellement ukrainienne de Lemberg (Lvov/Lviv), qui lui appartenait avant 1939 et qui est peuplée d'«Uniates», obéissant à Rome et au Primat de Pologne, tout en conservant un rite proche de celui des Orthodoxes. Cette proposition de Jirinovski reste dans le cadre du droit et vise à “normaliser” les relations avec l'Allemagne et la Pologne. Dans ce cas, la Russie n'aurait plus aucun contentieux avec l'Allemagne et pourrait amorcer une politique germanophile, ou agir en tandem avec l'Allemagne, dans le cas où celle-ci recevrait un siège au con­seil de sécurité de l'ONU.

 

Jirinovski envisage un partage de la Tchécoslovaquie, où la République tchèque rejoindrait le giron allemand et la Slovaquie irait à la Russie. Si la Bohème (qui correspond au territoire de la République tchèque) a effective­ment été une composante majeure du Saint-Empire, la Slovaquie, elle, n'a jamais été dans l'orbite des Tsars. Cette république carpathique, au contraire, relevait de l'Empire austro-hongrois des Habsbourg.

 

Pour la Yougoslavie, Jirinovski souhaite le départ de toutes les troupes é­trangères, de façon à ce que les peuples concernés puissent résoudre seuls leurs problèmes. Il reconnaît l'indépendance de la Slovénie et son apparte­nance à la «sphère du Saint-Empire». Chose plus importante: le trio Autri­che-Allemagne-Slovénie doit avoir un accès à l'Adriatique, de façon à deve­nir une puissance méditeranéenne et à contribuer au rétablissement de l'ordre dans cette zone perturbée. Le tandem germano-autrichien revien­drait ainsi en Méditérranée, d'où il avait été chassé deux fois: d'abord par Napoléon, qui avait inventé les «départements illyriens» pour couper la route de l'Adriatique à l'Autriche qu'il avait vaincue; ensuite, par Clémen­ceau, qui avait donné à la Serbie et à l'Italie toute la côte adriatique, pour chasser le principe impérial des rivages méditerranéens et faire triompher à l'Ouest l'aberration républicaine-jacobine, pour le plus grand bénéfice des thalassocraties britannique et américaine.

 

Ensuite, très curieusement, Jirinovski entend réduire à néant certaines clau­ses des Traités de Versailles et du Trianon, annoncées anticipativement dans un livre de 1917, que l'on peut sans hésiter qualifier de prémonitoire, dû à la plume d'André Chéradame, Le Plan pangermaniste démasqué  (Plon, 1916). Cet ouvrage a servi à Versailles et au Trianon pour démanteler l'Autriche-Hongrie. Chéradame plaidait pour la destruction de la Hongrie et de la Bulgarie et pour la création d'une Grande Serbie (qui deviendra la Yougoslavie) et d'une Grande Roumanie. Jirinovski, lui, propose de rétablir la Bulgarie exactement dans les frontières que lui contestait Chéradame! Pour le géopoliticien français de la première guerre mondiale, la Bulgarie ne pouvait s'étendre ni en Thrace (en direction du Bosphore), ni avoir accès à la Méditerranée (port d'Alexandroupolis), ni récupérer la Macédoine. Ce Chéradame d'extrême-droite et antisémite préconisait donc une politique qui allait très curieusement dans le sens des intérêts britanniques et améri­cains, tout comme d'éminents braillards philosémites proposent aujour­d'hui la même politique pour contrer la «grosse Allemagne». Comme quoi, les discours ineptes de facture antisémite ou philosémite sont purement instrumentaux et servent à créer de faux sentiments, et à promouvoir des politiques irréalistes, contraires aux faits géographiques. Jirinovski souhaite que cette Bulgarie agrandie, pays qui est de tradition à la fois russophile et germanophile, puisse accéder à l'Egée, récupérer la Macédoine et avancer vers le Bosphore (en compensation, la Turquie recevrait l'Arménie et la Géorgie, moins Tiflis). Quant à la Hongrie, elle pourrait, selon Jirinovski re­prendre ses provinces transylvaniennes, voire la partie hungarophone de la Slovaquie. Les résultats de l'arbitrage de Vienne entre Ribbentrop, Ciano, Horthy et Antonescu seraient rétablis, en dépit de la longue parenthèse communiste. La Roumanie retrouverait ses frontières de 1917.

 

Enfin, comme le fondateur de la revue allemande de géopolitique, Karl Ernst Haushofer, dans son dernier article de 1943, repris très récemment par la revue Elementy  d'Alexandre Douguine (n°1, 1992), Jirinovski estime que les expansions politiques et/ou économiques doivent se déployer du Nord vers le Sud et non d'Ouest en Est ou d'Est en Ouest. L'hémisphère occiden­tal américain peut être dominé par les Etats-Unis, la France doit n'avoir qu'un destin africain et atlantique, la Russie doit s'allier avec l'Iran et l'Inde (Jirinovski met beaucoup d'espoir dans un axe Berlin/Moscou/New Dehli), le Japon doit travailler avec les Philippines et l'Indonésie, etc. En revanche, les Etats-Unis ne doivent pas tenter de transformer les océans Pacifique et Atlantique en lacs américains, la France doit cesser de vouloir dominer le Bénélux ou la Rhénanie, de semer la zizanie contre l'Allemagne, la Hongrie et la Bulgarie en Europe centrale, la Russie de vouloir dominer la plaine da­nubienne, le Brandebourg ou la Thuringe, le Japon de menacer Vladivo­stok. Si le monde entier adopte ces axes Nord-Sud, il vivra dans la paix et la prospérité.

 

Dans une optique «impériale» purement pragmatique et géopolitique, ces remaniements sont raisonnables et permettraient effectivement de forger un axe Berlin-Moscou de longue durée. Mais, même si Jirinovski parle de réaliser ce plan en l'espace de 20 ou 30 ans, plus exactement pour l'année 2017 (100 ans après la Révolution d'Octobre!) et selon les critères du droit (sans doute celui de la CSCE?) ou des rationalités économiques, nous ne trouvons, jusqu'ici, dans ses assertions, aucune référence tangible et précise à ce droit. Ensuite, son plan géopolitique ne fait jamais mention des struc­tu­res hydrographiques et des réseaux de canaux ou de chemin de fer (sujets sur lesquels Chéradame se montrait fort prolixe). En effet, le nouvel axe cen­tral de l'Europe, n'en déplaise aux archaïques qui font aujourd'hui la politi­que à Paris, c'est le tracé du Rhin, du Main et du Danube, ainsi que du petit canal qui les relie. C'est la raison pour laquelle nos bassins fluviaux, scal­dien, mosan et rhénan, ne peuvent nullement être coupés de leur hinter­land centre-européen, ni distraits de leur vocation continentale pour servir les desseins d'une politique parisienne purement mécanique, artificielle, schématique et géométrique, ne tenant pas compte des facteurs ethniques, historiques, naturels, géographiques et hydrographiques. Le projet de restau­rer une Grande Hongrie va dans le sens d'une consolidation de l'espace rhé­nan-danubien, mais qu'en serait-il en pratique si la Serbie et la Roumanie, territorialement mutilées, demeurent hostiles à cet ensemble et court-circui­tent le trafic danubien, reliant la Mer du Nord à la Mer Noire? Ensuite, quel rôle Jirinovski et les siens assignent-ils à la Turquie, dont ils ruinent les plans pantouraniens dans le Kazakstan? La condamnent-ils à rester l'alliée privilégiée des thalassocraties anglo-saxonnes ou lui offrent-ils un «destin mésopotamien» autonome, de concert avec l'Irak de Saddam Hussein? Et l'Iran, quel rôle jouera-t-il dans cette synergie? Sera-t-il allié de Moscou comme semble le suggérer l'ambassadeur d'Iran auprès du Vatican, Mo­hammad Machid Djameï, dans les colonnes du Teheran Times  (12 et 15 septembre 1993), en préconisant un rapprochement entre les deux religions les plus traditionnelles de l'Eurasie, l'orthodoxie slave et le chiisme iranien, contre un sunnisme intégriste saoudien, manipulé par Washington? Posi­tion qui est partagée par Djemal Haïdar, un Azéri qui anime dans la CEI un «Parti de la Renaissance islamique», réclamant une «désarabisation» de l'Is­lam sunnite en faveur de son «indo-européisation» (iranienne, azérie, af­ghane, tadjik et slave), ce qui conduira à une approche plus mystique et moins littérale du message coranique? Ces facteurs complémentaires méri­teraient d'être explicités par Jirinovski, de façon à ce que le monde puisse y voir plus clair.

 

Le plan de Jirinovski comporte encore beaucoup d'inconnues. Pour nous, le scepticisme reste donc de rigueur. Tout simplement parce que nous ne som­mes pas encore sûrs de la nature du rôle qu'il joue: dit-il tout haut, sur le mode du clown ou du fou du roi, ce que d'autres, plus influents ou bien pla­cés dans les arcanes du pouvoir, pensent tout bas? Jirinovski sert-il de test, de brise-glace? Annonce-t-il, comme d'aucuns le prétendent déjà, l'avène­ment de Routskoï, sorti de prison par la volonté du nouveau parlement? D'un Routskoï modéré, qui remplacerait un Eltsine usé, et batterait, pour calmer le monde, un Jirinovski maximaliste aux élections présidentielles, tout en infléchissant, doucement mais sûrement, la politique russe vers une optique germanophile et eurasiste? Un bouillonnement passionnant à sui­vre.

 

Robert Steuckers.

 

 

lundi, 31 mai 2010

I veri nemici dell'Europa

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I veri nemici dell’Europa

di Ernesto Galli Della Loggia


Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]

Le sagge proposte contenute nel rapporto presentato qualche giorno fa da Mario Monti — miranti da un lato ad accrescere la coesione sociale dei Paesi dell’Unione europea, dall’altro a promuovere il loro sviluppo — sono il massimo che oggi il progetto europeistico può chiedere alle capacità di un intellettuale di valore ed al suo sapere specialistico, il massimo che quel progetto può chiedere all’economia. Per tutto il resto, ed è il più, dovrebbe essere la politica a farsene carico. Ma è proprio qui, invece, che le classi dirigenti del continente continuano a manifestare la latitanza più completa e rovinosa


È una latitanza ormai congenita. Se ne è avuta la prova più evidente, a mio giudizio, in tutti gli anni scorsi con la disinvolta superficialità che ha fatto sì che in nessun Paese si alzasse una voce — una sola voce politica autorevole e significativa — per gettare l’allarme e avvertire di quanto andava inevitabilmente preparandosi. Che l’euro non avrebbe avuto vita facile, ed anzi prima o poi difficilissima, non ci voleva molto a prevederlo, infatti. Come poteva resistere a lungo sugli oceani tempestosi della globalizzazione finanziaria una moneta priva dello scudo della statualità, affidata unicamente alla gestione tecnica di una banca, ma per il resto in balia delle politiche economiche di un gran numero di governi, preoccupati come è ovvio solo del proprio consenso elettorale? Eppure non c’è stato alcun importante esponente politico di destra o di sinistra, che io ricordi, il quale abbia richiamato l’attenzione delle opinioni pubbliche sul pericolo imminente e per molti versi inevitabile.

L’Italia non ha fatto certo eccezione, anzi semmai è stata un esempio della superficialità di cui dicevo. Qui da noi, infatti, non solo nell’ambiente politico propriamente detto ma più in generale in quello giornalistico, accademico e culturale, è sembrato che si facesse a gara da parte di tutti (o quasi) nel chiudere gli occhi, nell’ostentare un vacuo quanto volenteroso ottimismo, e naturalmente nel bollare sprezzantemente di «euroscettico» quanti esprimevano un punto di vista diverso. Adesso sì che finalmente si vede dove conduceva invece la lungimiranza degli europeisti di professione!

In realtà, nulla come il discorso sull’Europa ha mostrato, in Italia e fuori, la pochezza che caratterizza ormai da almeno due decenni le classi politiche e i governanti del continente. Una pochezza che non solo in questo caso ha preso due forme. Da un lato l’incapacità di andare controcorrente, di affrontare magari una temporanea impopolarità pur di testimoniare un valore di verità politica e ideale. Non credo, infatti, che l’eurottimismo fosse davvero così condiviso e generale come esso sembrava. Generale è stata però la volontà di non rischiare, di non apparire isolati. Come se la routine e il conformismo intellettuale fossero ormai il solo orizzonte possibile. La seconda forma della pochezza delle classi dirigenti europee è apparsa in tutto questo tempo la perdita da parte loro precisamente del significato della politica, del valore della decisione politica nel senso più alto e più pieno del termine. Della sua inevitabile necessità quando le cose sono giunte al punto in cui erano (e sono) giunte nel processo di costruzione europea. Chi oggi ancora non lo capisce, o non ha il coraggio di dirlo, o magari dice che le priorità sono altre, è in realtà il vero nemico dell’Europa.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Kan Europa zonder Rusland?

Kan Europa zonder Rusland?

Ex: http://www.n-sa.be/

De term geopolitiek kan op verschillende wijzen gedefinieerd worden. Van Dale definieert Geopolitiek als “de wetenschap van de invloed van de aardrijkskundige gesteldheid op staatkundige vraagstukken”. De Zweed Rudolf Kjellén stelde in 1924 dat Geopolitiek "de leer was van de staat als geografisch organisme of als ruimtelijk fenomeen". De Belgische historicus Jan A. Van Houtte definieerde Geopolitiek in 1945 als “deze tak van de aardrijkskunde en van de politieke wetenschap die de werking van het milieu op de politieke bedrijvigheid van den mensch, en van den mensch op de politieke gesteltenis van het milieu bestudeert.” In 2005 definieerde de Belgische politicoloog David Criekemans Geopolitiek als “het wetenschappelijk studieveld behorende tot zowel de Politieke Geografie als de Internationale Betrekkingen, die de wisselwerking wil onderzoeken tussen de politiek handelende mens en zijn omgevende territorialiteit (in haar drie dimensies; fysisch-geografisch, menselijk-geografisch en ruimtelijk)".

PrimaryOGPipestoEur06.gifWe mogen in geen geval uit het oog verliezen dat geopolitiek een middel is om binnenlandse doelstellingen te bereiken. Daarom kunnen we het begrip Geopolitiek definiëren als “ het benaderen van het streven om politieke binnenlandse doelen te bereiken op basis van geografisch gefundeerde argumenten".  De Britse geopolitieker Peter J. Taylor stelt duidelijk dat geopolitieke analyses altijd een nationale inslag hebben. “In het geval van geopolitiek is het steeds makkelijk geweest om de nationaliteit van een auteur aan de inhoud van zijn teksten te identificeren.” De Franse geopolitieker Aymeric Chauprade wijkt van de meeste van zijn collega’s af door weliswaar de staat belangrijk te vinden maar door geopolitiek het vakgebied “Internationale Betrekkingen” van elkaar los te koppelen. Hij zegt : “Zeggen dat de Nationale staten het centrum van geopolitieke ambities zijn, betekent niet dat de nationale staten de enige spelers in de wereld zijn. Het verschil met het vakgebied internationale betrekkingen is dat de geopolitieke wetenschap andere acteurs en andere geopolitieke realiteiten toestaat.”

In dit kader kan ik duidelijk het volgende stellen: ja, ik pleit in het belang van mijn volk voor een Europese as met Rusland als alternatief voor de Europese Unie. Ik kan me goed inbeelden dat sommigen hier zich bij zullen afvragen waar Rusland ons kan helpen en waar Rusland ons een oplossing kan aanrijken voor het feit dat sommigen onder jullie werkloos zijn. Kortom: als men werkloos is – in tijden van crisis zoals nu meer regel dan wens – dan is het begrijpelijk dat men opmerkt : “Wat kan Rusland me schelen, ik wil een job”. Vandaag krijgen jullie een antwoord hoe een geopolitieke as tot in Vladivostok ons kan helpen daarbij.

Nu een eerste principe. Een volk dat begenadigd is met een goede leiding, heeft als ambitie om het leven van haar leden zo goed mogelijk te organiseren. Een goede leiding ambieert naar een steeds hogere levenskwaliteit. Een belangrijk facet van wat men noemt “de levensstandaard” is de economie. Via arbeid en handel bouwt een volk een bepaalde levensstandaard op. Een goede regering zal er over waken dat deze economie de normen van de rechtvaardigheid niet overschrijdt. Een goede regering zal er over waken dat één sociale groep de andere niet uitbuit en/of tot slavernij brengt. In een solidaristische maatschappij geniet men van goede beloning voor geleverde arbeid en de garantie dat de hongersnood niet aan de deur komt kloppen in geval van economische tegenslag. Het is dus begrijpelijk dat sommige economische kasten – de kasten van de rijken, van zij die “hebben” – deze visie totaal zullen verwerpen. Zij willen meer en steeds meer “hebben”. Deze liberale kasten – sommigen bevinden zich op wereldniveau, anderen op het Europese, nog anderen op het Belgische en het Vlaamse niveau – hebben er alle belang bij dat men arbeid zo weinig mogelijk beloont en dat men diegene die de pech heeft over geen arbeidsmogelijkheden te beschikken, zich kosteloos van kan ontdoen. De economie van de Verenigde Staten is daar een schoolvoorbeeld van. Obama wil daar nu sociale zekerheid invoeren en botst op enorme weerstand. De “haves” willen niet delen met de “not haves”. Hiermee komen we aan een ander punt: sociale bescherming ligt zeer moeilijk in etnisch verdeelde naties. We stellen wereldwijd vast dat zowat elke groep van mensen die iets hebben opgebouwd, met klem benadrukt “dat zij voor die andere niet gaan opdraaien”. Bijvoorbeeld, men kan op straat letterlijk uit de mond van een blanke horen : “Ik betaal niet voor die zwarte”. Andere reële variant is een zwarte Amerikaan die zegt: “Ik betaal niet voor die Chinees”. Enzovoort. Bij geopolitiek moet absoluut etnopolitiek worden ingecalculeerd. Anders maakt men onvermijdelijk zware fouten bij het analyseren van de problemen waarmee onze maatschappij vandaag te kampen heeft. Geopolitiek zonder etnopolitiek heeft geen enkele zin. Ik wens daarbij wel te benadrukken dat etnopolitiek niets te maken heeft met het begrip “racisme”, door onze vrijheidsbeperkende wetgeving een nogal vaag omschreven begrip. Het gaat hier om een vanuit de evolutie ingegeven basisreactie.

Een tweede principe. Om als volk onafhankelijk te overleven moet het beschikken over een aantal onafhankelijke materies. Belangrijk zijn het zelf beschikken over voedsel en energie. We kunnen dus stellen dat een volk enkel kan overleven indien het beschikt over een voor haar geschikt levensgebied. Volgend op dit principe een volgende stelling: een volk is het aan zichzelf verplicht om de levensnoodzakelijke elementen waarover het niet beschikt veilig te stellen. Voor velen lijkt dit eenvoudig en logisch. Maar dit is niet eenvoudig. Neem het voorbeeld van Leningrad in de periode 1941-45. Tijdens deze periode werd Leningrad door middel van een Duitse blokkade tijdelijk van een megastad in het Sovjet-Rijk naar een stadstaat herleid. Deze stad kon onmogelijk aan de levensnoodzakelijke noden van het volk voorzien. De stad heeft geen voor landbouw voorzien territorium, de enkele kleine stadsmoestuintjes niet meegerekend. Het verhaal eindigde triest met bijna een miljoen hongerdoden en kannibalisme. In de Middeleeuwen werden stadsstaten tijdens oorlogen na een blokkade meer dan eens tot de overgave gedwongen.

Om als volk te overleven moet men ervoor zorgen dat, in functie van de beschikbaarheid van voedsel en energie, er niet teveel inwoners per vierkante kilometer wonen. In dit kader is het duidelijk dat een massale immigratiestroom onherroepelijk tot het einde van de integriteit en belangenbehartiging van dat volk leidt. De immigratiestroom verandert de samenstelling van een volk in die mate dat de etnische eigenschappen veranderen. Een andere etnische samenstelling verandert de geopolitieke visie van de “bevolking”. Zo zal een volk met stijgend aantal Noord-Afrikaanse immigranten mettertijd veel belang hechten aan een geopolitieke band met de landen van herkomst. De Turkse gemeenschap verblijvend in de Europese Unie zal het wel leuk vinden mocht Turkije er vrolijk bij komen om die reden.

Hoe meer voedsel en energie men moet importeren, hoe meer afhankelijk men van anderen wordt. Zijn die anderen vriendelijke bondgenoten, dan valt de balans nog mee. Wordt het territorium van waaruit men voedsel en/of energie importeert geregeerd door keiharde zakenmensen of plots door vijanden (na een machtswissel), dan staat het eigen volk voor een zwaar probleem dat ze niet in de hand heeft. Nog een punt is daarbij dat een vijand steeds de alimentaire en grondstoffelijke aanvoerlijnen kan saboteren.

In dit kader moeten de Lage Landen zich bezinnen over wie de beste bondgenoten zijn en wie niet. Uiteindelijk moet de geopolitiek van de Lage Landen dienen om binnenlands een compleet soeverein programma uit te voeren: het herinvoeren van echte grenzen, het herinvoeren van een eigen munt, het nationaliseren van banken, het begrenzen van persoonlijk bezit, remigratie van arbeidsproductieve overschotten, het solidariseren van nationale kernsectoren, het invoeren van een solidaristische maatschappelijke orde, het sociaal welvaartsmodel herdefiniëren op basis van volkseenheid.

Daarom moet Vlaanderen na het ontbinden van de Belgische economische kaste – en daardoor de Belgische staat – een eigen munt creëren met economisch compatibele landen zoals Nederland, Wallonië, Luxemburg, Noord-Frankrijk (Zuid-Vlaanderen). Na een “Vlaamse revolutie”, zoals het afstoten van België zal genoemd worden, moeten de Lage Landen vanuit gemeenschappelijk belang overgaan tot nieuwe staatsverbanden.

Internationaal is samenwerking met bepaalde landen wenselijk. Niet met de VSA maar wel met sommige tegenstanders van de VSA, zoals Rusland, Wit-Rusland, Syrië en Iran. Er zijn genoeg kandidaten.

In de veranderende wereld zullen China, India en de VS hoofdrolspelers zijn. Dit is nieuw want gedurende eeuwen was de Middelandse Zee zowat het centrum van de wereld. Vanaf het ogenblik dat men internationale betrekkingen op wereldschaal begon te ontwikkelen, dat is 500 jaar geleden, tot 1945 bevond het heersende wereldrijk (Rome, China, Mongolen, Griekenland, Frankrijk, Portugal, Spanje, de Nederlanden enzovoorts) zich steeds op het Euraziatisch continent. In 1945 ontstond er voor het eerst een wereldmacht die buiten het Euraziatisch continent ligt. Op zich is dit een verandering die men kan vergelijken met een tektonische verschuiving. Ondanks deze verschuiving van macht naar het Amerikaans continent blijft het geopolitiek belang van het Euraziatisch continent centraal.

Eurazië is het enige terrein waar een eventuele rivaal van de VS zou kunnen verschijnen. Daar bevindt zich de sleutel van de Amerikaanse geopolitiek.

Mackinder stelt in 1904 al in zijn eerste werk “De geografische spil van de geschiedenis” : “Wie Oost-Europa beheerst, beveelt het hart van de wereld. Wie het hart van de wereld beheerst, beveelt het eiland van de wereld. Wie het eiland van de wereld beheerst, beveelt de wereld.” Mackinder was een Brit en ging ervan uit dat het Britse Rijk – toen op een hoogtepunt – haar macht moest kunnen behouden. Jarenlang heerste Groot-Brittannië over de wereldzeeën dankzij een superieure vloot. Echter, ook de technologische ontwikkeling nam haar vlucht en zo kwamen er nieuwe technieken die ertoe leidden dat het over het land voortbewegen door middel van bijvoorbeeld stoomtreinen, steeds gemakkelijker en vlugger ging. Mackinder ging ervan uit dat in de nabije toekomst de politieke macht van Groot-Brittannië wel eens geringer zou kunnen worden. In een wereld waar deze opgedane politieke macht te danken was aan een maritieme vloot, en verbindingen over land een sterkere positie zouden gaan innemen, zouden continentale landen als Rusland meer politieke macht vergaren. Groot-Brittannië zou geen grip kunnen krijgen op deze continentale gebieden en zo haar politieke macht zien afnemen. Mackinder wees erop dat al vaker beschavingen vanuit dit continentaal gebied erin slaagden anderen te overheersen.

Een andere geograaf uit deze tijd, maar dan behorende bij het 'vijandige' Duitse kamp was sterk onder de indruk van Mackinder's werk: Karl Haushofer (1869-1946). Hetgeen Mackinder vreesde, dat was voor Haushofer een wensdroom. Haushofer zag het als volgt: wanneer Duitsland heerschappij over het 'Heartland' zou hebben, zouden zij heersen over het 'World Island' wat zou betekenen dat Duitsland een hegemoniale macht zou zijn. In de geopolitieke ideeën van Haushofer neemt het begrip ‘Lebensraum’ een centrale plaats in. Dat begrip ontleende hij aan Friedrich Ratzel (1844-1904) en aan Rudolf Kjellen (1864-1922) die Ratzels ideeën in geopolitieke zin had verscherpt. Ratzel beschouwde staten als organismen. In feite voegde Ratzel aan Darwins concept van de the struggle for life een ruimtelijke dimensie toe. Het gaat niet alleen om een strijd om het bestaan, maar elke strijd om het bestaan was een strijd om de ruimte waarin dat bestaan zich moest afspelen. Vandaar het begrip ‘Lebensraum’. Dat laatste moet gezien worden als het totale gebied dat voor het bestaan van een volk nodig is. Haushofer bezorgde het begrip daarbij een etnische inslag. Hieruit kunnen we stellen dat indien de Lage Landen leefbaar willen blijven, we heden ofwel aan gebiedsuitbreiding moeten doen of aan bevolkingsvermindering. Annexatie of remigratie. Annexatie is heden onmogelijk dus rest er maar één oplossing: remigratie.

Willen de Lage Landen een belangrijke rol spelen, dan is een goede verstandhouding met het “heartland” geen overbodige luxe. In een Europees samenwerkingsverband, als alternatief voor de EU, is het mogelijk om de economische afzetmarkt te vergroten. Door een samenwerking met Oost-Europa en Rusland te stimuleren, verzekeren we onze aanvoer van energie en voedsel. Het moet wel de bedoeling zijn dat we zoveel mogelijk zelf ons voedsel produceren, maar door middel van een verbond van Europese landen en volkeren kunnen de Lage Landen hun toekomst integraal veilig stellen.

Heerschappij over Eurazië, constante in de Angelsaksische geopolitiek

Een sterke aanwezigheid op het Euro-Aziatisch continent garandeert de VSA wereldheerschappij. Zeker dankzij de daar aanwezige grondstoffen. De VS zijn een supermacht dankzij de aanwezigheid in de drie randzones van het continent. Eurazië is het enige terrein waar een eventuele rivaal van de VS zou kunnen verschijnen. Opnieuw, hier bevindt zich de sleutel van de Amerikaanse geopolitiek. De gedachtengang van Brzezinski wordt al jaren door de Engelsen uitgevoerd.

“De NAVO is het middel om te verhinderen dat het Euraziatisch blok ooit één wordt,” zegt generaal Gallois. Volgens geopolitieker Halford John Mackinder (1861-1947) is “het ergste wat er kan gebeuren een continentale alliantie van Duitsland met Rusland”. Deze kunnen de wereldsuprematie van de Angelsaxen beëindigen. Daarom pleit Mackinder voor een gordel van staten tussen Duitsland en Rusland om het militair-sterke Duitsland te absorberen.

De Britse geopolitieker Homer Lea pleit in zijn boek “The Day of the Saxons”  voor het indijken van Rusland. De Russen mogen zelfs niet onrechtstreeks de Bosporus en de Dardanellen beheersen. Tijdens de Krimoorlog werd zijn theorie toegepast. Engeland en Frankrijk steunden de Turken tegen de Russen. Het doel van de orthodoxe tsaar was om het Heilige Land te bevrijden en Constantinopel opnieuw in te nemen. Vandaar konden de Russen doorstoten naar de Indische Oceaan. De Westerse mogendheden schrokken van de gedachte dat de Russische hoofdstad Sint-Petersburg kon verhuisd worden naar de Middellandse Zee. Mocht de tsaar zijn wil hebben kunnen doorvoeren, dan sprak men heden niet over “Istanboel” maar nog steeds over Constantinopel.

Een ander voorbeeld van Britse steun aan de vijanden van Rusland vindt men terug tijdens de Russo-Japanse oorlog. Zowel Groot-Brittannië als Japan maakten zich zorgen over de groeiende macht van Rusland in Mantsjoerije. Op 30 januari 1902 sloten zij een bondgenootschap. Hierin werd overeengekomen dat indien één van beide landen in een oorlog werd meegesleept ter verdediging van haar regionale belangen, de andere natie niet alleen neutraal zou blijven maar er alles aan zou doen om te vermijden dat het conflict zich zou uitbreiden.

Henri Kissinger zei dat “men Rusland moet aanmoedigen zich enkel op haar eigen grondgebied bezig te houden. Een land dat zich uitstrekt over 11 tijdszones, van Sint-Petersburg tot Vladivostok, heeft niet veel last van claustrofobie.” Een rapport van de Amerikaanse Landsverdediging van 1992 verdedigt dat er Amerikaanse nucleaire wapens op Rusland gericht blijven “want Rusland is de enige macht ter wereld die in staat is de Amerikaanse wereldheerschappij te doorbreken”. Dit document van 1992 houdt het plan in om alle landen van het voormalige Warschaupact op te zetten tegen Rusland. U begrijpt nu waar het raketschild in Polen en Tsjechië toe dienen.

Brzezinski (CFR) zei dat “de NAVO moet uitgebreid worden naar het Oosten om elke dreiging van Rusland in Oost-Europa tegen te gaan”. Ook daarom eisen de Amerikanen dat Turkije bij de EU komt. Dan is Rusland zowel economisch als militair omsingeld. Turkije bij de EU is slecht voor Europa maar goed voor de geopolitieke belangen van de VSA. Om de Amerikaanse omsingelingen tegen te gaan rekent Rusland dan weer op Servië, Griekenland, Iran en Armenië.

Kissinger schreef: “Indien we falen bij het uitbreiden van de NAVO richting Oost-Europa, dan kan dit leiden tot gevaarlijke geheime akkoorden tussen Rusland en Duitsland”. Het  Molotov-Von Ribbentroppact had als doel de VS buiten het Europese continent te houden. Volgens rassoloog Vladimir Avdeev, die bepaalde KGB-documenten kon inkijken, hield het pact ook een etnisch aspect in. “Beide partners zouden Europa Indo-Europees houden”, stelt hij. Vandaar dat Lazar Kaganovitsj, opperrabbijn in de officiëel atheïstische Sovjet-Unie, het gastland waar hij verbleef via politieke druk aanspoorde tot een agressievere houding tegenover Duitsland, met miljoenen onnodige Europese doden tot gevolg en alsook het einde van de macht van de Europese landen.

De rivaliteit tussen de VSA en de Sovjet-Unie beheersten de volgende 5 decennia na het einde van de voor Europa zeer nefaste Tweede Wereldoorlog. De geopolitici zijn in hun nopjes. De bipolaire competitie bevestigt hun theorieën. Tegenover elkaar staat enerzijds de grootste maritieme macht, die over de gehele Atlantische en Stille (Grote) Oceaan heerst, en anderzijds de grootste continentale macht, die heerst over een aanzienlijk deel van het Euraziatische continent. Het Russo-Chinees blok heerst over een territorium dat bijna overeenkomt met het gebied waar de Mongolen ooit heer en meester van waren. De strijd was niets meer dan Noord-Amerika tegen Eurazië, met de gehele wereld als inzet. De overwinnaar overheerst de gehele wereld. Tijdens deze armworsteling kon geen enkele andere macht iets zinnigs inbrengen. Beide kampen beloofden een hemel op aarde.

Er was hier een groot verschil met de Europese Rijken (Imperia). De Britten, Fransen, Duitsers, Portugezen, Nederlanders en Spanjaarden heersten wel over een deel van de wereld, maar geen enkele Europese macht heerste ooit over geheel Europa. Nog een verschil met vorige Imperia ligt in het nieuwe militaire arsenaal en de komst van een nieuw wapen: de atoombom. Dit hield in dat een clash tussen beide grootmachten zo goed als uitgesloten was. Het gebruik ervan zou leiden tot de vernietiging van beiden en daarmee het verdwijnen van een belangrijk deel van de mensheid. Dit verklaart waarom vele conflicten aan de rand van het Euraziatische continent uitgevochten werden (en worden). Het Russo-Chinese blok is er nooit in geslaagd om de randen van het continent te beheersen. De VSA waren er wel in geslaagd daar ankerpunten te leggen. De blokkade van Berlijn en de Koreaanse Oorlog waren testmatchen. Toen de Sovjet-Unie Afghanistan binnenviel, reageerden de VSA dubbel. Ze steunden openlijk de Afghaanse weerstand met enorme wapenleveringen, en vermeerderden hun aanwezigheid in de Perzische Golf. De VSA wilden vermijden dat de Sovjet-Unie de handen zou uitsteken naar de Euraziatische randgebieden en zo totale controle over het gehele continent zou verkrijgen. Dit noemen zij de politiek van containment, of het terugdringen.

Een belangrijk gegeven waarom het Russo-Chinese blok er niet in geslaagd is geheel Eurazië te beheersen, ligt in de splitsing van dat blok, terwijl de VSA hun coalitie wel kon samen houden. De Amerikaanse coalitie injecteerde haar cultuur in de landen en volkeren die aan haar zijde stonden. In het Amerikaanse kamp ontstond een soort Amerikaanse eenheidsworst. De Amerikaanse propaganda overtuigt de vazallen van dat de VSA “de Toekomst” is: “Wil men dit ook bereiken, dan moet men de gehele VS-cultuur overnemen”. De VS verstonden het om tegenover de vazallen soms ook eens soepelheid te vertonen. Dit gebrek aan soepelheid leidde bij de vazallen van het Euraziatische blok tot afschuw voor de Sovjet-Unie. Deze nu achterhaalde afschuw wordt door de VSA politiek misbruikt om voormalige Sovjet-bondgenoten tegen het huidige Rusland op te zetten.

De implosie van de Sovjet-Unie plaatse de VSA in een unieke positie. Ze werden het machtigste land ter wereld, zonder concurrentie. De vergelijking met het Romeinse Rijk gaat goed op. Het Romeinse Rijk, dat op zijn hoogtepunt stond in het jaar 211, beschikte over een leger van 300.000 soldaten om de grenzen van het Rijk te verdedigen, dit zijn 300.000 soldaten buiten Rome. Het VS-leger bevat 296.000 beroepssoldaten, gelegen buiten de VS, om de grenzen van haar domein te verdedigen. In Rome had men het civis romanum sum of ik ben  een Romeins burger en het bekende Pax Romana. De VSA passen dezelfde principes toe, het Pax Americana.

Vandaag heerst een macht afkomstig van buiten het Euraziatisch continent over Eurazië. Deze macht tracht Rusland in te dammen in het Westen (de EU en het tandem Polen-Oekraïne); in het Zuiden (Turkije, Oezbekistan, Kirgizië) en in het Zuid-Oosten (Japan, Zuid-Korea).

Een kijk op de wereldkaart maakt ons duidelijk waarom het continent zo belangrijk is. Eurazië geeft zo goed als onmiddellijke toegang tot Afrika. Vanuit Oost-Siberië kan men makkelijk naar het Amerikaanse continent en naar Oceanië. In Eurazië  woont 75% van de mensheid. Hier bevinden zich het grootste deel van de grondstoffen en fysieke rijkdom zoals kapitaalsgoederen en arbeidskrachten. Hier bevindt zich 75% van de energievoorraad. Hier bevinden zich het grootst aantal dynamische en talentvolle staten en volkeren, die nog in staat zijn iets zinnigs op te bouwen. Na de VSA komen de zes volgende landen op de lijst van grootste budgetten en grootste legers uit Eurazië. Hier bevindt zich het grootste aantal nucleaire wapens. In Eurazië  bevinden zich de twee meest bevolkte landen ter wereld (China en India). Het Euraziatische continent steekt in geval van unie met kop en schouders in alle domeinen boven de VSA uit. Dit is zelfs al het geval als er toch een Europese as Parijs-Berlijn-Moskou zou bestaan of een Europese samenwerking van Gibraltar tot Vladivostok zou komen.

Men kan het gespeelde spel in Eurazië  beschouwen als een schaakspel, met Eurazië  als schaakbord. De VSA zullen de belangrijkste rol blijven spelen zolang Centraal-Europa aansluiting zoekt bij West-Europa (EU & NAVO), het zuiden van Rusland verdeeld blijft en het Oosten geen eenheid vindt. Het komt eigenlijk hier op neer: zolang de VSA hun miliitaire basissen in de Euraziatische randgebieden kunnen behouden, blijven ze de numero uno. Indien West- en Centraal-Europa aansluiting vinden bij Rusland, het zuiden de VSA beu worden een het Oosten van Azië wel overeenkomen, dan is het gedaan met de overmacht van de VSA. Eén van de pogingen van het Zuiden (Midden-Oosten) om met de VS-overheersing te breken, is het idee om olie met de euro te betalen en niet langer met de opgedrongen papieren dollartijger. Saddam Hoessein bekocht deze plannen met zijn leven. Iran heeft ook al geopperd dat het beter zou zijn om de grondstoffen met de euro te betalen. We kennen nu al het dreigend vervolg: Wereldoorlog III.

Vraag aan eender welke burger wat hij van de Duitse bezetting van dit land vindt, en hij zal terecht antwoorden: “Zij hadden hier niets te zoeken”. Vraag aan diezelfde burger wat hij ervan vindt indien bijvoorbeeld de Russen in dit land 1.300 manschappen permanent zouden stationeren. Hij zou deze idee erg vinden en misschien in de weerstand gaan. De feiten zijn wel dat de VSA in België 1.297 manschappen permanent stationeert, waaronder een deel om het binnenlandse doen en laten via Echelon (grote installatie te Gooik) te registreren. De VSA hebben in totaal 84.500 manschappen ingezet om Europa blijvend bezet te houden. Iedereen vindt dit blijkbaar normaal. In 2010 was het budget voor het Amerikaanse leger alles bij elkaar 607 miljard dollar. Tweede op de lijst is China met 85 miljard dollar. Hier moet men aan toevoegen dat de budgetten voor defensie van de NAVO-landen als aanvulling van de Amerikaanse belangen dienen. De NAVO wordt ingezet daar waar Amerika, en dus Wallstreet, belangen heeft. Daar en nergens anders.

Op het Euraziatische continent bevinden er zich 5 belangrijke hoofdspelers: Frankrijk, Duitsland, Rusland, China en India. Groot-Brittannië, Japan en Indonesië zijn belangrijk maar hebben deze status van hoofdspeler niet. Groot-Brittanië heeft enkel maar een kleine betekenis als vazal, we mogen zelfs stellen: als Paard van Troje voor de VSA in Europa. De VSA hebben Groot-Brittannië nooit ingefluisterd haar sabotage van de Europese eenheid te stoppen. Maar verder dan geostrategisch gepensioneerde reikt de Britse rol niet meer. Oekraïne, Azerbeidzjan, Korea, Turkije en Iran vervullen de rol van belangrijk draaipunt.

Maar we pleiten natuurlijk niet voor het verenigen van geheel Eurazië tot één blok of tot één land. Daarvoor zijn de etnische tegenstellingen bovendien te groot. Vandaag zijn China en Rusland nog objectieve bondgenoten. Doordat Europa keer op keer de uitgestoken hand van Rusland weigerde, doen de Russen nu wat Amerikaanse geopolitici wensen: Rusland keert zich meer en meer weg van Europa en richt zich in de plaats meer en meer tot Azië. Rusland behoort tot de BRIC-landen en is bondgenoot van China door hun gezamenlijk lidmaatschap van de Shanghai Samenwerkingsorganisatie.

Dit komt omdat beide landen geen zin hebben in een aanhoudende VS-hegemonie over de wereld. Maar op zeker ogenlik zullen zij concurrenten worden, wat nu al op een paar domeinen het geval is. Beide strijden voor een monopolie in Centraal-Aziatische landen zoals Kazachstan, Oezbekistan en Kirgizië. De Chinese economie heeft veel energie nodig. Langs één kant werken ze samen met de Russen, langs de andere kant proberen ze hen de loef af te steken. De Russische grondstoffen, hoeveel er ook mogen zijn, kunnen maar éénmaal boven gehaald worden. Elke liter olie kan men maar éénmaal bovenhalen en verbruiken. Dankzij de sadomasochistische rol van Europa, door gratis de vazal van de VS te spelen, verkopen de Russen meer en meer olie en gas aan China. Hierdoor maken de Russen een potentiële tegenstander groot. Heel Zuid-Siberië wordt nu al ingepalmd door Chinese illegalen. Men schat hun aantallen daar nu al op 5 miljoen. Moskou wordt de laatste jaren overspoeld door etnische Aziaten die aan spotprijzen in bepaalde sectoren tewerk gesteld worden, zoals de bouwnijverheid. China zelf verwacht dat het de macht van de VS overneemt tegen maximaal 2020. China heeft daar zelfs een nucleaire oorlog voor over.

 

Sommige wetenschappers hebben de Oeral plechtig tot grens tussen Europa en Azië verheven. De Russische autochtonen denken daar iets anders over. Rusland beschikte tot de 17de eeuw niet over natuurlijke grenzen. De Steppen verschaften de Turko-Mongoolse nomaden onbeperkt toegang tot het hart van het Rijk. Na twee eeuwen juk hebben de Russen zich eindelijk kunnen bevrijden. En op hun ééntje. Daarom werden ze verplicht de grenzen zo ver mogelijk te leggen met als resultaat de verovering van Siberië. Het verschil met Westerse kolonisatie ligt in de defensieve motieven voor de Siberische veroveringen.

Vandaag bevindt de kracht en het belang van Siberië zich in de grondstoffen, in de houtproductie, in haar ligging tot de Noordpool, waardoor Rusland in 2007 op 4.000 meter diepte haar vlag kon planten. Dank zij Siberië is Rusland de tweede grootste steenkoolproducent van de wereld. In de grond bevinden zich massa’s uranium, zilver, titanium, lood, zink en zelfs diamant. Het ontdooien van de permafrost biedt enorme perspectieven. Dit is zeer vruchtbare Siberische grond die heel lang bevroren is geweest, waardoor de mens deze niet kon mishandelen of ontginnen. Jaarlijks komen er talloze vierkante kilometers vruchtbare grond bij. In het kader van de noodzakelijke voedselproductie is dit een meevaller. Door het smelten van delen van de Noordpool komen er waterwegen vrij die vanaf Noord-Siberië kunnen bevaren worden.  Het enige zwakke punt van Siberië is het lage bevolkingsaantal, ongeveer 43 miljoen mensen. Om economische redenen trekken veel daarvan bovendien naar de rijkere regio Moskou-Sint-Petersburg, waardoor de nataliteitsbalans negatief is (denken we nu ook weer aan de tegelijk daarmee lopende immigratie vanuit China).

De noodzaak van ruimte

Iedereen kan het beland van levensruimte inzien. Deze ruimte geeft ons de mogelijkheid te overleven, om ons te ontwikkelen. Hoe groter de ruimte waarover men beschikt, hoe meer lucht, hoe meer brood, hoe meer bossen en rivieren, des te groter de afstand tussen de mensen waardoor de leefbaarheid vergroot en er meer mogelijkheden zijn om de drukte van de stad te ontlopen. Wie enkel maar techniek heeft om te verhandelen, wordt benadeeld. Genoodzaakt worden levensmiddelen in te voeren maakt een land en volk zwak. Nu al kunnen we stellen dat Japan ooit de vazal van China wordt door een gebrek aan ruimte. Zich afkeren van de ruimtelijke idee staat gelijk aan het zich afkeren van het leven.

Ruimtelijk gezien stellen we vast dat Moskou zich op twee uur verschil – twee tijdzones –  van Brussel of Antwerpen bevindt. Aan de andere kant zien we dat Brussel en Antwerpen zich op zes uren verschil – zes tijdzones – van Washington bevindt. Met Moskou is er direct continentaal contact. We kunnen er bij wijze van spreken tevoet, met de ezel of met de fiets naartoe. Anders is het met Washington. Daar ligt een enorme oceaan tussen. Een enorme natturlijke grens en barrière. Geografisch kan iedereen met een beetje goede wil vaststellen dat we meer gemeen hebben met Rusland dan met de VSA.

Na de implosie van de Sovjet-Unie verloor het enorme Rijk een belangrijk deel van haar territorium. Het daalde van 22 miljoen vierkante kilometer tot 17 miljoen vierkante kilometer. Rusland blijft ondanks dit verlies het grootste land ter wereld.

Rusland is ongeveer tweemaal zo groot als de VSA of China. Het bestrijkt een totale ruimte van 11 tijdzones. De Europese volkeren hebben recht op een woonplaats van Gibraltar tot Vladivostok.

De globalisatie en het protectionistische antwoord

We moeten ons bewust worden van de ernst van de globalisatie. Deze opgedrongen globalisatie leidt ons meer en meer naar de armoede. De Vlaming voelt het heden meer dan ooit aan den lijve. Er is steeds meer werkloosheid, er zijn meer gezinnen die hun schulden niet meer kunnen afbetalen, meer immigranten die aan spotlonen het werk overnemen, meer onveiligheid, minder sociale zekerheid, onze pensioenen worden bedreigd enzovoort. De Europese Unie wordt geacht ons normaliter te beschermen tegen deze kwalen maar doet net het tegenovergestelde. De EU haalt het ene na het andere Paard van Troje binnen. Het is aldus geen toeval dat de Fransen en de Nederlanders in 2006 tegen de EU hebben gestemd. In andere landen hielden de democraten bewust geen opiniepeilingen of vervalsten deze in het belang van de globalisten. Voor de Europese landen is globalisatie een nachtmerrie. Voor de Chinezen en de Indiërs een zegen. Ieder jaar komen er in China 25 miljoen banen bij. Deze komen er voor een belangrijk deel als vervanging van Europese en dus ook Vlaamse banen. China heeft de VS vervangen als voornaamste exporteur naar de EU. De eonomisten vertellen ons, net als indertijd met Japan, dat de ontwikkeling van dat land ons banen zal opleveren. Wie gelooft dit nog ? Het verschil is dat het Europese banenverlies dankzij China een veelvoud in het kwadraat zal zijn van het banenverlies door Japan. Ooit maakten ze ons wijs dat de Chinezen enkel maar goedkope rommel produceerden. China staat op nummer één van de wereldranglijst, na de VSA (!), wat betreft het fabriceren van “high tech”. China heeft 1.731 universiteiten en levert jaarlijks vele duizenden ingenieurs af.

Dankzij het mondialisme verliezen de Europese landen jaarlijks honderdduizenden banen. Eerst verloor men de minst gekwalificeerde banen. Tot dan kon onze economische kaste zich nog in de handen wrijven. De goedkope immigrant en goedkope invoer leverde enorme winsten op. Vandaag verliezen de Europese landen hoogtechnologische banen aan o.a. China. Onze middenstand heeft het niet veel beter. Het zogenaamde proletariaat bevindt zich niet meer bij de arbeidersklasse, maar groeit stilaan uit naar alle economische klassen van ons volk. Het enige wat men in onze schapenmaatschappij doet is afwachten. Toen de Britse Eerste Minister Brown in China vertoefde, kon hij geen enkel groot contract loswrikken. Hij kon enkel brabbelen over “de voorname rol van het Engels op de beurs in Londen”. En langs de andere kant is zijn land, het belangrijkste industrieland van de 19de eeuw, een onthaalland geworden voor Chinese producten.

Men vertelde ons dat de globalisering wereldwijd de lonen omhoog zou trekken. Niets is daarvan terecht gekomen. Integendeel. Het mondiaal reserveleger aan arbeidskrachten bevat in China alleen al 750 miljoen mensen. Zij zijn in staat om in de VSA en in Europa iedereen in de werkloosheid te trekken. 300 miljoen van hen leven met minder dan een euro per dag. De economische delokalisering is niet meer marginaal – zoals de media ons willen doen geloven –  maar structureel. Het internationale grootkapitaal kan eenieder van ons doen werken voor bijvoorbeeld twee euro per dag. Eerst schaft men de sociale zekerheid af. Dan voert men hongersnood in. Dan stelt men : “Als jij niet werkt voor twee euro per dag dan doet die Chinees het wel, en dan gaan jij en je kinderen dood”. De tijden van priester Daens komen in het kwadraat terug.

In Davos heeft Stephen Roach (economist en big boss van de bank Morgan Stanley) duidelijk gesteld : “Men heeft de mensen uitgelegd dat globalisering een proces is dat enkel maar winnaars zou kennen, zowel voor de gesalarieerden in het Noorden als voor die in het zuiden. We ontdekken echter dat in het Noorden in de eerste plaats de bezitters van kapitaal de grote winnaars zijn.” We stellen vast dat in Europa het aandeel van de lonen daalt en het aandeel van de winsten heel sterk stijgt.

De grote boosdoener van heel wat Europese armoede ligt in de gedwongen invoering van het liberaal-globalistisch economisch model. Daar zijn we nu van overtuigd. Het antwoord ligt dan ook in het tegenovergestelde. We moeten onze markt afschermen. Grenzen kunnen wegvallen tussen staten die economisch met elkaar verwant zijn, zoals tussen Vlaanderen, Nederland, Wallonië en Luxemburg, dergelijke clustering is welkom. In een ruimere context kan dit ook op Europese schaal gebeuren, maar dan wel op voorwaarde dat de economische situatie eerst compatibel is met die van de Lage Landen.

We zouden het zo kunnen regelen dat van elk basisproduct of korf van basisproducten een minimaal percentage uit eigen regio moet komen. Volgens Maurice Allais, een Frans econoom, schommelt dit percentage best rond de 80%. Met 80% eigen productie en de mogelijkheid te gaan tot 20% import vermijdt men dat een bepaalde sector in eigen land verdwijnt. Met dit systeem zou onze textielnijverheid zelfs terug kunnen komen. Allais gaat er van uit dat men voor een belangrijke sector als de landbouw de eigen productie wettelijk opvoert tot 90%.

Op protectionistisch vlak moet het beleid zich gedragen als een goede huisvrouw. De ramen en deuren worden ofwel hermetisch gesloten, ofwel half geopend, of in geval van goede temperaturen meer geopend. Tijdens de huidige economische mondiale storm kan men enkel maar alle ramen deuren zo goed mogelijk sluiten. De toepassing van sociale BTW en douane-importtaxen schermt de eigen markt en aldus de eigen loontrekkenden af. Het is beter om de import extra te belasten dan het loon uit arbeid.

We moeten ons niet enkel beschermen tegen import, maar ook tegen overnames  door vreemde investeerders. Overal ter wereld schermt men de eigen markt af: de VSA, China, Duitsland en Rusland zijn maar een paar voorbeelden. Enkel de EU beschermt de vreemde investeerdersin de plaats van het eigen volk. De Europese ruimte moet volledig op zichzelf staan. Binnen dit gebied zou import bijna uitzonderlijk moeten zijn.

Op dit ogenblik bevinden de meeste economische sectoren binnen de Europese ruimte zich in directe concurrentie met voormalige Derde Wereldlanden. Inderdaad, er was een tijd dat we van hen geen concurrentie ondervonden. Deze periode is nu voltooid verleden tijd. Gezien de lage lonen die men ginder betaald, zullen al onze bedrijven in een niet-afgeschermde binnenlandse marktruimte het onderspit delven.

Besluit

De as Washington-Brussel-Tel Aviv is nefast voor de Europese landen en dus ook voor de Lage Landen. Deze as maakt onze cultuur kapot! Deze as neemt onze vrijheid af. Dit is de as van de burgeroorlog, van de chaos, van de chip-implant, van Big Brother.

De as Washington-Brussel-Tel Aviv wordt tot mijn grote verbazing gesteund door betaalde heerschappen en groepen die “Eigen Volk Eerst” roepen. Ik heb niets tegen andere volkeren en andere etnische groepen... in hun eigen land. Maar de massa-immigratie gebruiken om onze maatschappij te terroriseren, dat kan niet.

Na tientallen jaren bezetting van Europa - West-Europa door de Amerikanen en Oost-Europa door de Sovjet-Unie - zien we dat de “American Way of Life” bij ons zowat alles heeft aangetast. In Oost-Europa kennen de mensen hun tradities en hun cultuur nog, men is er meer patriottisch of nationalistisch.

Er mag geen as standhouden van Washington over Brussel naar Tel Aviv. Ook geen as van Portugal tot de Oeral. Maar er moet een as komen van Gibraltar tot Vladivostok, omdat dit laatste één geografisch geheel is.

Enkel deze laatste as betekent de overlevingskans voor Europa. Enkel deze laatste as kan Europa, en daardoor de hele wereld, behoeden voor toestanden neergeschreven door Georges Orwell’s 1984. De EU vervormdt zich geleidelijk aan tot één grote gevangenis. De “War on Terror” met zijn anti-terreurwetten geven de slaafse overheden carte blanche om iedereen zonder vorm van proces en zonder recht op verdediging uit te schakelen.

De mengeling van wetten die onze vrije meningsuiting dagdagelijks doen afnemen, het wegrukken van onze wortels, het opdringen van massa-immigratie, het toelaten van de meest gruwelijke vormen van decadentie, het overdreven materiële welzijn, het uit ons leven verdwijnen van het spirituele spectrum enzovoorts... Deze leiden naar een zekere ondergang van de Indo-Europese beschaving. Als solidaristen stellen we dat dit alles is wat we niet willen.

 

Wie “Eigen Volk Eerst” zegt  – en wij doen dat zeker, wij zijn deze slogan niet vergeten omwille van de salonfähigkeit –  moet er ook akkoord mee gaan dat andere volkeren dit in hun landen ook zeggen. “Eigen Volk Eerst” geldt voor de Vlamingen. Maar “Eigen Volk Eerst” geldt eveneens voor de    Iraniërs, de Irakezen, de Palestijnen, de Duitsers, de Russen en wat dat betreft voor de Eskimo’s. “Eigen Volk Eerst” schreeuwen in Vlaanderen maar dit niet toelaten voor bijvoorbeeld de Irakezen en er tegelijkertijd de Amerikaanse bezetting goedkeuren, is ofwel hypocriet ofwel een politieke lijn gedicteerd door de internationale bankiers met hun Amerikaans-Britse regeringen. Men kan geen enkele logica vinden in het “Eigen Volk Eerst” schreeuwen en het akkoord gaan met de bombardementen van volkeren die in eigen land wonen.

Dit alles doet ons vragen stellen: is dit gepland ? Wie heeft dit gepland ? Wie heeft er belang bij? Wie werkt er mee aan dit plan? Wie speelt er Rattenvanger van Hamelen door kiezers te lokken en te kanaliseren op de kap van de huidige slechte immigratiepolitiek en een vals anti-immigratiediscours te verkopen? Men kan niet tegen immigratie zijn en tegelijkertijd de hielen likken van de joodse lobbies. Men kan niet tegen moslimscholen zijn – in dit systeem hebben onze kinderen geen last van cultuurconflicten – maar wel toestaan dat er Joodse scholen bestaan. Men kan niet zeggen : “Geen islam, Noord-Afrikaanse immigranten zijn geen Vlamingen” terwijl men wel stelt : “Joden vormen een deel van ons Vlaams volk”.

Laat u niet vangen door een vals remigratiediscours, nu plots herondekt nadat het N-SA vanaf de stichting dit in het programma had staan. Men kan niet “de islam bekampen” en in de VSA emotioneel staan roepen “America we fight for you !”. Het is net de VSA die de immigratie in Europa steunt, die Kosovo heeft opgericht en nu Turkije bij Europa wil sleuren. Remigratie is enkel mogelijk binnen een Euro-Russische As.

De belangrijkste vraag luidt: wat kunnen we eraan doen? Hierop kunnen we ten minste al één antwoord geven: informeren. Kennis is macht. En zeker niet meelopen met de internationale bankiers en hun Rattenvangers. De Rattenvangers zullen bij hun eigen ondergang geen hulp van het hun geliefde Israël en de omnipresente joodse lobbies krijgen. Dat zien we nu al.

Zo stemmen de Rattenvangers in onze parlementen, samen met het hele internationale systeem, resoluties mee die Iran verbieden kernwapens te ontwikkelen. De Rattenvangers hebben nooit een resolutie voorgesteld die Israël verbiedt kernwapens te bezittten. Het is toch logisch dat ofwel in principe iedereen kernwapens mag bezitten, ofwel niemand, zelfs zij niet die ze ooit al gebruikten! Zij die ze ooit gebruikten – de VSA - zouden trouwens de eersten moeten zij om in te zien hoe gemeen, vuil en laf een kernwapen is en ze bij hun thuis ontmantelen als voorbeeld.

Integendeel. Nu willen ze raketten plaatsen om zogezegd Iraanse en Koreaanse raketten tegen te houden. Deze raketten zouden, bij het beschikken over genoeg vermogen, Europa kunnen bereiken via Turkije en Griekenland. Kijk maar eens naar de kaart. Iran heeft nu geen raketten die meer dan 2.000 mijl afleggen. Om Europa te bereiken hebben ze raketten met een actieradius van bijna 4.000 mijl nodig. Dit zou volgens de Amerikaanse geheime diensten nog vele jaren duren. Maar om ons te beschermen, plaatsen ze zelf wel raketten ver ten noorden van Griekenland:  in Tsjechië  en Polen! Amerika bereidt de omsingeling van Rusland voor. Ik vermoed inderdaad dat er ooit een Amerikaanse aanval op Rusland komt.

De internationale bankiers willen dat er overal chaos heerst. De chaos in het huidige Irak is bewust veroorzaakt. De voorwaarde om enige mogelijke vorm van verzet een kans te geven is het scheppen van orde. De internationale bankiers kunnen enkel maar gedijen daar waar er chaos heerst. Zij willen dat we elkaar wantrouwen, verraden en bekampen.

We staat voor de keuze: ofwel met de internationale bankiers en geglobaliseerde slavernij, ofwel met Rusland en de solidaristische vrijheid. Ik heb al gekozen. Ik rebelleer tegen het kapitalistisch systeem en kies voor de Euro-Russische as. Omdat Rusland het enige land is dat ons kan bevrijden van de Amerikaanse bezetting, zonder ons zelf te bezetten, omdat een gezond bondgenootschap de meeste garantie kan geven voor de opbouw van een solidaristisch politiek systeem in onze eigenste Lage Landen.

We hebben niet veel tijd meer. Door gebrek aan geloof, aan kinderen, aan moed en offervaardigheid beleeft het huidige Europa een eindtijd. Als jullie niet willen dat de Afrikanen en de Aziaten ooit naar de film “De laatste der Indo-Europeanen” zullen kijken, verwerp dan Amerikaanse as. Kies dan voor een Europa met Rusland als bondgenoot. Laat Europa signalen geven aan Rusland dat we met hen willen samenwerken. Anders zullen ze zich ontgoocheld met hun rug naar ons keren en kiezen voor bondgenootschap met Aziatische landen. Wij hebben hen nodig en zij ons. Geloof de leugenachtige Amerikaanse propaganda over Rusland niet. In Oost-Europa hebben wij een vriend. Laten wij vriendschappelijk zijn voor hem.

Ik ben voor een grootse samenwerking van alle Europese landen en volkeren, van Gibraltar tot Vladivostok.

dimanche, 30 mai 2010

Drang nach? La scelta geopolitica di Berlino

Drang nach? La scelta geopolitica di Berlino

di Ernst Sultanov

Fonte: eurasia [scheda fonte]

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Drang nach? La scelta geopolitica di Berlino

Il “si” di Berlino al fondo (che ammonta in complessivo a 750 bilioni di Euro) creato per salvare le economie europee è tentativo di guadagnare tempo. Tutti guardano la Germania in quanto paese più forte e più ricco dell’Europa. Però la decisione che verrà presa, pur nascendo nell’ambito economico, avrà impatto fondamentale anche sulla strategia geopolitica del governo federale.

L’elite tedesca ha sostanzialmente due opzioni. La prima prevede come obiettivo la rianimazione di una specie di Sacro Romano Impero Germanico. Cioè Berlino dovrà di nuovo prendere la responsabilità dell’Europa. Questo significherebbe anche che la Germania dovrà prendere le redini del potere che con la fine della seconda guerra mondiale sono sempre state nelle mani francesi.

La seconda può essere definita “Drang nach Osten” in quanto prevede una sorta di espansione “soft” verso l’Oriente o in altri termini rianimazione di vecchia alleanza con la Russia. La logica di questa strategia è molto chiara: c’è perfetta simbiosi geoeconomica che permette di mollare facilmente il fardello “europeo”.  Rispetto alla maggior parte dei paesi europei (puri parassiti dal punto di vista dello scambio commerciale) la Russia produce anche le materie prime, di cui ha bisogno la Germania. A sua volta la Russia è un mercato rilevante per l’industria tedesca. Questo spiega perché il rapporto tra Berlino e Mosca è rimasto stabile nonostante variazioni di governi sia da una che dall’altra parte perfino negli anni più turbolenti. La Germania ha dato il suo appoggio ai progetti di gasdotti lanciati da Mosca e nella stessa Gasprom c’è la partecipazione tedesca.

La difficoltà di portare avanti il progetto di “Pax Germanica” è dovuta a vari fattori, fra questi anche l’eredità del dopoguerra. I tedeschi sono stati considerati e istruiti come i semplici lavoratori che oltre tutto devono  portare la colpa di qunto accaduto sotto il governo di Hitler. Infatti le proteste in Grecia puntavano molto sul parallelo tra la politica del Terzo Reich e l’approccio molto rigido dell’attuale governo della Repubblica Federale. Dietro questa campagna c’è una forte resistenza da parte della Francia che cerca di spiegare la crisi puntando il dito contro gli speculatori – gli autentici colpevoli  della crisi. Intorno a Parigi si sono riuniti gli alleati di nuova “Entente” che già hanno bloccato il modesto tentativo tedesco di mettere in ordine le finanze europee.

Senza superare il Rubicone in una o in altra direzione Berlino rischia di essere trascinata dal degrado dell’attuale UE. Oltre agli “speculatori” esiste problema dei paesi che non producano. Però la tentazione di lasciare le cose come sono è molto forte soprattutto se dietro ci sono gli interessi e le pressioni finanziarie e politiche. La stessa Germania è molto esposta verso il sistema globale: dai fondi pensionistici che investivano in debito greco alla Deutsche bank che dal punto di vista operativo è più rappresentata da New York e Londra che da Francoforte.

L’immobilità di Berlino in questo caso potrebbe essere non solo pericolosa, ma addirittura micidiale. Per sostenere il “welfare europeo” ci vuole molto di più rispetto al risanamento della Germania dell’Est, che è stata già un impresa poco facile. In questo caso la Germania rischia di avere la “lieta” fine dell’URSS che fino all’ultimo stava mantenendo i paesi del “Blocco Socialista” diventati oggi i membri del club europeo.

* Ernst Sultanov è redattore di Eurasia

L'Europe face à la globalisation

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2004

Robert Steuckers:

L’Europe face à la globalisation

 

Conférence prononcée à la tribune de la

“Gesellschaft für Freie Publizistik”, avril 2004 (*)

 

unclesamIwantyoudeaed.jpgMon exposé d’aujourd’hui aura bien évidemment une dimension géopolitique, mais aussi une dimension géo-économique, car les grandes voies et les réseaux de communication, sur terre comme sur mer, et la portée des systèmes d’armement les plus modernes, jouent un rôle considérable dans la concurrence ac­tuelle qui oppose l’Europe aux Etats-Unis. L’ampleur de ces voies, de ces réseaux, etc. déterminent les catégories dans lesquelles il convient de penser: soit en termes de peuples, soit en termes d’Empire.

 

Si l’on parle des peuples, on doit savoir de quoi il retourne. A l’époque des soulèvements populaires au 19ième siècle, les peuples se sont dressés contre les empires multiethniques, qu’ils considéraient comme des “camisoles de force”. A partir de 1848, les Polonais et les Finnois en Russie, les Tchèques et les Ita­liens sur le territoire où s’exerçait la souveraineté de la monarchie impériale et royale austro-hongroi­se, les Slaves du Sud et les Grecs au sein de l’Empire ottoman, les Irlandais dans le Royaume-Uni, se sont rebellés ou ont développé un mouvement identitaire qui leur était propre. En France, les mouvements culturels bretons ou provençaux (les “félibriges”) se sont développés dans une perspective anti-centra­liste et anti-jacobine.

 

D’où vient cette révolte générale de type culturel? Elle provient, grosso modo, de la philosophie de l’his­toire de Johann Gottfried Herder, pour qui la langue, la littérature et la mémoire historique consti­tuent, chez chaque peuple, un faisceau de forces, que l’on peut considérer comme étant son identité en acte. L’identité est par conséquent spécifique au peuple, ce qui signifie que chaque peuple a le droit de posséder sa propre forme politique et de constituer un Etat selon sa spécificité, taillé à sa mesure et ré­visable à tout moment. L’avantage de cette perspective, c’est que chaque peuple peut déployer librement ses propres forces et ses propres caractéristiques. Mais cette perspective recèle également un danger: à l’intérieur d’une même communauté de peuples ou d’un espace civilisationnel, la balkanisation menace. Herder en était bien conscient: raison pour laquelle il avait tenté, sous le règne de la Tsarine Catherine II, d’esquisser une synthèse, notamment une forme politique, idéologique et philosophique nouvelle qui devait s’appliquer à l’espace intermédiaire situé entre la Russie et l’Allemagne. Herder rêvait de faire émerger une nouvelle Grèce de facture homérienne entre les Pays Baltes et la Crimée. Les éléments ger­maniques, baltes et slaves auraient tous concourru à un retour à la Grèce la plus ancienne et la plus hé­roïque, qui aurait été en même temps un retour aux sources les plus anciennes et les plus sublimes de l’Europe. Cette idée de Herder peut nous apparaître aujourd’hui bien éthérée et utopique. Mais de cette esquisse et de l’ensemble de l’œuvre de Herder, on peut retenir un élément fondamental pour notre épo­que : une synthèse en Europe n’est possible que si l’on remonte aux sources les plus anciennes, c’est-à-di­re aux premiers fondements de l’humanité européenne, au noyau de notre propre spécificité humaine, que l’on veillera à activer en permanence. Les archétypes sont en effet des moteurs, des forces mouvan­tes, qu’aucun progressisme ne peut éteindre car, alors, la culture se fige, devient un désert, tout de sé­cheresse et d’aridité.

 

La “nation” selon Herder

 

La nation, en tant que concept, était, pour Herder une unité plus ou moins homogène, une unité inalié­nable en tant que telle, faite d’un composé d’ethnicité, de langue, de littérature, d’histoire et de moeurs. Pour les révolutionnaires français, la nation, au contraire, n’était nullement un tel faisceau de faits ob­jectifs et tangibles, mais n’était que la population en armes, quelle que soit la langue que ces masses par­laient, ou, pour être plus précis, n’était jamais que le “demos” en armes, ou encore le “tiers état” mo­bilisé pour étendre à l’infini l’espace de la république universaliste. Tilo Meyer nous a donné une excellen­te définition de la nation. D’après lui, l’ethnos, soit le peuple selon la définition de Herder, ne peut pas être mis purement et simplement à la disposition du démos. Ne sont démocratiques et populaires, au bon sens du terme, que les systèmes politiques qui se basent sur la définition que donne Herder de la nation. Les autres systèmes, qui découlent des idées de la révolution française, sont en revanche égalitaires (dans le sens où ils réduisent tout à une aune unique) et, par là même, totalitaires. Le projet actuel de fabriquer une “multiculture” relève de ce mixte d’égalitarisme équarisseur et de totalitarisme.

 

La  mobilisation des masses au temps de la révolution française avait bien entendu une motivation mili­taire: les armées de la révolution acquéraient de la sorte une puissance de frappe considérable et décisi­ve, pour battre les armées professionnelles de la Prusse et de l’Autriche, bien entraînées mais inférieu­res en nombre. Les batailles de Jemmappes et de Valmy en 1792 l’ont démontré. La révolution introduit un nouveau mode de faire la guerre, qui lui procure des victoires décisives. Clausewitz a étudié les rai­sons des défaites prussiennes et a constaté que la mobilisation totale de toutes les forces masculines au sein d’un Etat constituait la seule réponse possible à la révolution, afin de déborder les masses de cito­yens armés de la France révolutionnaire et ne pas être débordé par elles. L’exemple qu’ont donné les po­pulations rurales espagnoles dans leur guerre contre les troupes napoléoniennes, où le peuple tout entier s’est dressé pour défendre la Tradition contre la Révolution, a prouvé que des masses orientées selon les principes de la Tradition pouvaient battre ou durement étriller des armées de masse inspirées par la ré­volution. La pensée de Jahn, le “Père Gymnastique”, comme on l’appelait en Allemagne, constitue une syn­thèse germanique entre la théorie de Clausewitz et la pratique des paysans insurgés d’Espagne. La mobi­lisation du peuple s’est d’abord réalisée en Espagne avant de se réaliser en Allemagne et a rendu ainsi possible la victoire européenne contre Napoléon, c’est-à-dire contre le principe mécaniste de la révolu­tion française. 

 

Après le Congrès de Vienne de 1815, les forces réactionnaires ont voulu désarmer les peuples. L’Europe de Metternich a voulu rendre caduque, rétroactivement, la liberté politique pourtant promise. Or si le paysan ou l’artisan doit devenir soldat et payer, le cas échéant, l’impôt du sang, il doit recevoir en é­change le droit de vote et de participation à la chose politique. Lorsque chaque citoyen reçoit le droit et la possibilité d’étudier, il reçoit simultanément un droit à participer, d’une manière ou d’une autre, aux débats politiques de son pays; telle était la revendication des corporations étudiantes nationalistes et dé­mocratiques de l’époque. Ces étudiants se révoltaient contre une restauration qui conservait le service militaire obligatoire sans vouloir accorder en contrepartie la liberté politique. Ils étayaient intellectuel­lement leur rébellion par un mixte étonnant dérivé du concept herdérien de la nation et d’idéaux mé­canicistes pseudo-nationaux issus du corpus idéologique de la révolution française. A cette époque entre révolution et restauration, la pensée politique oscillait entre une pensée rebelle, qui raisonnait en ter­mes de peuples, et une pensée traditionnelle, qui raisonnait en termes d’empires, ce qui estompait les frontières idéologiques, très floues. Une synthèse nécessairement organique s’avérait impérative. Une telle synthèse n’a jamais émergé, ce qui nous contraint, aujourd’hui, à réfléchir aux concepts nés à l’é­poque.

 

La dialectique “peuples/Empire”

 

Revenons à la dialectique Peuple/Empire ou Peuples/Aires civilisationnelles: à la fin du 18ième siècle et au début du 19ième, nous avions, d’une part, de vastes unités politiques, que la plupart des hommes étaient incapables de concevoir et de visionner, mais, par ailleurs, ces unités politiques de grandes dimensions, mal comprises et rejettées, s’avéraient nécessaires pour affronter la concurrence qu’allait immanquable­ment imposer la grande puissance transatlantique  qui commençait à se déployer. Les colonies espagnoles se sont “libérées”, du moins en apparence, pour tomber rapidement sous la dépendance des Etats-Unis en pleine ascension. Le ministre autrichien de l’époque, Hülsemann, à la suite de la proclamation de la “Doctrine de Monroe”, ainsi que le philosophe français Alexis de Tocqueville,qui venait d’achever un long voyage en Amérique du Nord, lançaient tous deux un avertissement aux Européens, pour leur dire qu’au-delà de l’Atlantique une puissance était en train d’émerger, qui était fondamentalement différente que tout ce que l’on avait connu en Europe auparavant. La politique internationale venait d’acquérir des di­mensions véritablement continentales voire globales. L’avenir appartiendrait dorénavant aux seules puissances disposant de suffisamment d’étendue, de matières premières sur le territoire où elles exer­çaient leur souveraineté, un territoire qui devait être compact, aux frontières bien délimités et “ar­rondies”, et non pas aux empires coloniaux dispersés aux quatre vents.

 

Hülsemann, et après lui Constantin Franz, plaidaient pour une alliance des puissances coloniales dé­pourvues de colonies, ce qui a conduit notamment à la signature de traités comme celui qui instituait “l’alliance des trois empereurs” (Russie, Allemagne, Autriche-Hongrie) ou à l’application de principes com­me celui de “l’assurance mutuelle prusso-russe”. Au début du 20ième siècle, l’alliance qui unissait l’Al­lemagne et l’Autriche-Hongrie a voulu réanimer l’homme malade du Bosphore, c’est-à-dire l’Empire otto­man, dont elles voulaient faire un “territoire complémentaire”, source de matières premières et espace de débouchés. Cette volonté impliquait la construction d’un réseau de communications moderne, en l’oc­currence, à l’époque, d’une ligne de chemin de fer entre Hambourg et Bagdad (et éventuellement de con­tinuer la ligne de chemin de fer jusqu’à la côte du Golfe Persique). Ce projet recèle l’une des causes prin­cipales de la première guerre mondiale. En effet, l’Angleterre ne pouvait tolérer une présence non an­glaise dans cette région du monde; la Russie ne pouvait accepter que les Allemands et les Autrichiens dé­terminassent la politique à Constantinople, que les Russes appellaient parfois “Tsarigrad”.

 

La leçon de Spengler et d’Huntington

 

En Europe, les structures de type impérial sont donc une nécessité, afin de maintenir la cohérence de l’aire civilisationnelle européenne, dont la culture a jailli du sol européen, afin que tous les peuples au sein de cette aire civilisationnelle, organisée selon les principes impériaux, puissent avoir un avenir. Aujour­d’hui, le Professeur américain Samuel Huntington postule que l’on se mette à penser la politique du point de vue des aires civilisationnelles. Il parle, en anglais, de “civilizations”. La langue allemande, elle, fera la différence, avec Oswald Spengler, entre la notion de “Kultur”, qui représente une force organique, et celle de “Zivilisation”, qui résume en elle tous les acquis purement mécaniques et techniques d’une aire civilisationnelle ou culturelle. Ces acquis atteignent leur apex lorsque les forces issues des racines cul­turelles sont presque épuisées. Samuel Huntington, que l’on peut considérer comme une sorte de disciple contemporain de Spengler, pense que ces forces radicales peuvent être réactivées, si on le veut, comme le font les fondamentalistes islamistes ou les rénovateurs de l’hindouisme aujourd’hui. Samuel Huntington évoque une aire civilisationnelle “occidentale”, qui regroupe l’Europe et l’Amérique au sein d’une unité atlantique. Mais, pour nous, comme jadis pour Hülsemann et Tocqueville, l’Europe  —en tant que source dormante de l’humanité européenne primordiale—  et l’Amérique  —en tant que nouveauté sans passé sur la scène internationale et dont l’essence est révolutionnaire et mécaniciste—  constituent deux pôles fondamentalement différents, même si, à la surface des discours politiques américains, conservateurs ou néo-conservateurs, nous observons la présence de fragments effectivement “classiques”, mais ce ne sont là que les fragments d’une culture fabriquée, vendue comme “classique”, mais dont la seule fonction est de servir de simple décorum. Ce décor “classique” est l’objet d’intéressantes discussions idéologiques et philosophiques aux Etats-Unis aujourd’hui. On s’y pose des questions telles: Doit-on considérer ces éléments de “classicisme” comme les simples reliquats d’un passé européen commun, plus ou moins ou­blié, ou doit-on les évacuer définitivement de l’horizon philosophique, les jeter par-dessus bord, ou doit-on les utiliser comme éléments intellectuels pour parfaire des manœuvres d’illusionniste dans le monde des médias, pour faire croire que l’on est toujours attaché aux valeurs européennes classiques? Ce débat, nous devons le suivre attentivement, sans jamais être dupes.

 

L’Europe actuelle, qui a pris la forme de l’eurocratie bruxelloise, n’est évidemment pas un Empire, mais, au contraire, un Super-Etat en devenir. La notion d’ “Etat” n’a rien à voir avec la notion d’ “Empire”, car un “Etat” est “statique” et ne se meut pas, tandis que, par définition, un Empire englobe en son sein toutes les formes organiques de l’aire civilisationnelle qu’il organise, les transforme et les adapte sur les plans spirituel et politique, ce qui implique qu’il est en permanence en effervescence et en mouvement. L’eurocratie bruxelloise conduira, si elle persiste dans ses errements, à une rigidification totale. L’actuelle eurocratie bruxelloise n’a pas de mémoire, refuse d’en avoir une, a perdu toute assise historique, se pose comme sans racines. L’idéologie de cette construction de type “machine” relève du pur bricolage idéologique, d’un bricolage qui refuse de tirer des leçons des expériences du passé. Cela implique que la praxis économique de l’eurocratie bruxelloise se pose comme “ouverte sur le monde” et néo-libérale, ce qui constitue une négation de la dimension historique des systèmes économiques réelle­ment existants, qui ont effectivement émergé et se sont développés sur le sol européen. Le néo-libéra­lisme, qui plus est, ne permet aucune évolution positive dans le sens d’une autarcie continentale. L’euro­cratie de Bruxelles n’est donc plus une instance européenne au sens réel et historique du terme, mais une instance occidentale, car tout néo-libéralisme doctrinaire, en tant que modernisation du vieux libé­ralisme manchesterien anglo-saxon, est la marque idéologique par excellence de l’Occident, comme l’ont remarqué et démontré, de manière convaincante et suffisante, au fil des décennies, des auteurs aussi divers qu’Ernst Niekisch, Arthur Moeller van den Bruck, Guillaume Faye ou Claudio Finzi.

 

Les peuples périssent d’un excès de libéralisme

 

Mais tous les projets d’unir et de concentrer les forces de l’Europe, qui se sont succédé au fil des dé­cennies, ne posaient nullement comme a priori d’avoir une Europe “ouverte sur le monde”, mais au con­traire tous voulaient une Europe autarcique, même si cette autarcie acceptait les principes d’une écono­mie de marché, mais dans le sens d’un ordo-libéralisme, c’est-à-dire d’un libéralisme qui tenait compte des facteurs non économiques. En effet, une économie ne peut pas, sans danger, refuser par principe de tenir compte des autres domaines de l’activité humaine. L’héritage culturel, l’organisation de la méde­cine et de l’enseignement doivent toujours recevoir une priorité par rapport aux facteurs purement économiques, parce qu’ils procurent ordre et stabilité au sein d’une société donnée ou d’une aire civi­lisationnelle, garantissant du même coup l’avenir des peuples qui vivent dans cet espace de civilisation. Sans une telle stabilité, les peuples périssent littéralement d’un excès de libéralisme (ou d’économicisme ou de “commercialite”), comme l’avait très justement constaté Arthur Moeller van den Bruck au début des années 20 du 20ième siècle.

 

Pour ce qui concerne directement le destin de l’Europe, des industriels et économistes autrichiens a­vaient suggéré une politique européenne cohérente dès la fin du 19ième siècle. Par exemple, Alexander von Peez avait remarqué très tôt que les Etats-Unis visaient l’élimination de l’Europe, non seulement dans l’ensemble du Nouveau Monde au nom du panaméricanisme, mais aussi partout ailleurs, y compris en Europe même. La question de survie, pour tous les peuples européens, était donc posée: ou bien on allait assister à une unification grande-européenne au sein d’un système économique autarcique, semblable au Zollverein allemand ou bien on allait assister à une colonisation générale du continent européen par la nouvelle puissance panaméricaine, qui était en train de monter. Alexander von Peez avertissait les Européens du danger d’une “américanisation universelle”. Le théoricien de l’économie Gu­stav Schmoller, figure de proue de l’”école historique allemande”, plaidait, pour sa part, pour un “bloc économique européen”, capable d’apporter une réponse au dynamisme des Etats-Unis. Pour Schmoller, un tel bloc serait “autarcique” et se protègerait par des barrières douanières, exactement le contraire de ce que préconise aujourd’hui l’eurocratie bruxelloise.

 

Julius Wolf, un autre théoricien allemand de l’économie, prévoyait que le gigantesque marché panaméri­cain se fermerait un jour aux marchandises et aux produits européens et qu’une concurrence renforcée entre les produits européens et américains s’instaurerait à l’échelle de la planète. Arthur Dix et Walther Rathenau ont fait leur cette vision. Jäckh et Rohrbach, pour leur part, se faisaient les avocats d’un bloc économique qui s’étendrait de la Mer du Nord au Golfe Persique. C’est ainsi qu’est née la “question d’Orient”, le long de l’Axe Hambourg/Koweit. L’Empereur d’Allemagne, Guillaume II, voulait que les Bal­kans, l’Anatolie et la Mésopotamie devinssent un “espace de complément” (Ergänzungsraum) pour l’in­dustrie allemande en pleine expansion, mais il a invité toutes les autres puissances européennes à par­ticiper à ce grand projet, y compris la France, dans un esprit chevaleresque de conciliation. Gabriel Ha­noteaux a été le seul homme d’Etat français qui a voulu donner une suite positive à ce projet rationnel. En Russie, Sergueï Witte, homme d’Etat de tout premier plan, perçoit également ce projet d’un oeil po­sitif. Malheureusement ces hommes d’Etat clairvoyants ont été mis sur une voie de garage par des obs­curantistes à courtes vues, de toutes colorations idéologiques.

 

Constantinople: pomme de discorde

 

La pomme de discorde, qui a conduit au déclenchement de la première guerre mondiale, était, en fait, la ville de Constantinople. L’objet de cette guerre si meurtrière a été la domination des Détroits et du bas­sin oriental de la Méditerranée. Les Anglais avaient toujours souhaité laisser les Détroits aux mains des Turcs, dont la puissance avait considérablement décliné (“L’homme malade du Bosphore”, disait Bis­marck). Mais, en revanche, ils ne pouvaient accepter une Turquie devenue l’espace complémentaire (l’ “Ergänzungsraum”) d’une Europe centrale, dont l’économie serait organisée de manière cohérente et unitaire, sous direction allemande. Par conséquent, pour éviter ce cauchemar de leurs stratèges, ils ont conçu le plan de “balkaniser” et de morceler encore davantage le reste de l’Empire ottoman, de façon à ce qu’aucune continuité territoriale ne subsiste, surtout dans l’espace situé entre la Mer Méditerranée et le Golfe Persique. La Turquie, la Russie et l’Allemagne devaient toutes les trois se voir exclues de cette région hautement stratégique de la planète, ce qui impliquait de mettre en œuvre une politique de “con­tainment” avant la lettre. Les Russes rêvaient avant 1914 de reconquérir Constantinople et de faire de cette ville magnifique, leur “Tsarigrad”, la ville des Empereurs (byzantins), dont leurs tsars avaient pris le relais. Les Russes se percevaient comme les principaux porteurs de la “Troisième Rome” et enten­daient faire de l’ancienne Byzance le point de convergence central de l’aire culturelle chrétienne-ortho­doxe. Les Français avaient des intérêts au Proche-Orient, en Syrie et au Liban, où ils étaient censé pro­téger les communautés chrétiennes. Le télescopage de ces intérêts divergents et contradictoires a con­duit à la catastrophe de 1914.

 

En 1918, la France et l’Angleterre étaient presque en état de banqueroute. Ces deux puissances occiden­tales avaient contracté des dettes pharamineuses aux Etats-Unis, où elles avaient acheté des quantités énormes de matériels militaires, afin de pouvoir tenir le front. Les Etats-Unis qui, avant 1914, avaient des dettes partout dans le monde, se sont retrouvés dans la position de créanciers en un tourne-main. La France n’avait pas seulement perdu 1,5 million d’hommes, c’est-à-dire sa substance biologique, mais était contrainte de rembourser des dettes à l’infini: le Traité de Versailles a choisi de faire payer les Alle­mands, au titre de réparation.

 

Ce jeu malsain de dettes et de remboursements a ruiné l’Europe et l’a plongée dans une spirale épouvan­table d’inflations et de catastrophes économiques. Pendant les années 20, les Etats-Unis voulaient gagner l’Allemagne comme principal client et débouché, afin de pouvoir “pénétrer”, comme on disait à l’époque, les marchés européens protégés par des barrières douanières. L’économie de la République de Weimar, régulée par les Plans Dawes et Young, était considérée, dans les plus hautes sphères économiques améri­caines, comme une économie “pénétrée”. Cette situation faite à l’Allemagne à l’époque, devait être éten­due à toute l’Europe occidentale après la seconde guerre mondiale. C’est ainsi, qu’étape après étape, l’”américanisation universelle” s’est imposée, via l’idéologie du “One World” de Roosevelt ou via la no­tion de globalisation à la Soros aujourd’hui. Les termes pour la désigner varient, la stratégie reste la même.

 

Le projet d’unifier le continent par l’intérieur

 

La seconde guerre mondiale avait pour objectif principal, selon Roosevelt et Churchill, d’empêcher l’u­nification européenne sous la férule des puissances de l’Axe, afin d’éviter l’émergence d’une économie “impénétrée” et “impénétrable”, capable de s’affirmer sur la scène mondiale. La seconde guerre mon­diale n’avait donc pas pour but de “libérer” l’Europe mais de précipiter définitivement l’économie de no­tre continent dans un état de dépendance et de l’y maintenir. Je n’énonce donc pas un jugement “moral” sur les responsabilités de la guerre, mais je juge son déclenchement au départ de critères matériels et économiques objectifs. Nos médias omettent de citer encore quelques buts de guerre, pourtant claire­ment affirmés à l’époque, ce qui ne doit surtout pas nous induire à penser qu’ils étaient insignifiants. Bien au contraire ! Dans la revue “Géopolitique”, qui paraît aujourd’hui à Paris, et est distribuée dans les cercles les plus officiels, un article nous rappelait la volonté britannique, en 1942, d’empêcher la navigation fluviale sur le Danube et le creusement de la liaison par canal entre le Rhin, le Main et le Da­nube. La revue “Géopolitique”, pour illustrer ce fait, a republié une carte parue dans la presse lon­donienne en 1942, au beau miliau d’articles qui expliquaient que l’Allemagne était “dangereuse”, non pas parce qu’elle possédait telle ou telle forme de gouvernement qui aurait été “anti-démocratique”, mais parce que ce régime, indépendamment de sa forme, se montrait capable de réaliser un vieux plan de Charlemagne ainsi que le Testament politique du roi de Prusse Frédéric II, c’est-à-dire de réaliser une na­vigation fluviale optimale sur tout l’intérieur du continent, soit un réseau de communications contrôlable au départ même des puissances qui constituent, physiquement, ce continent; un contrôle qu’elles exer­ceraient en toute indépendance et sans l’instrument d’une flotte importante, ce qui aurait eu pour co­rollaire immédiat de relativiser totalementle contrôle maritime britannique en Méditerranée et de rui­ner ipso facto la stratégie qui y avait été déployée par le Royaume-Uni depuis la Guerre de Succession d’Espagne et les opérations de Nelson à l’ère napoléonienne. Ainsi, pour atteindre, depuis les côtes de l’Atlantique, les zones à blé de la Crimée et des bassins du Dniestr, du Dniepr et du Don, ou pour at­teindre l’Egypte, l’Europe n’aurait plus nécessairement eu besoin des cargos des armateurs financés par l’Angleterre. La Mer Noire aurait été liée directement à l’Europe centrale et au bassin du Rhin.

 

Une telle symphonie géopolitique, géostratégique et géo-économique, les puissances thalassocratiques l’ont toujours refusée, car elle aurait signifié pour elles un irrémédiable déclin. Les visions géopolitiques du géopolitologue français André Chéradame, très vraisemblablement téléguidé par les services britan­niques, impliquaient le morcellement de la “Mitteleuropa” et du bassin danubien, qu’il avait théorisé pour le Diktat de Versailles. Ses visions visaient également à créer le maximum d’Etats artificiels, à peine viables et antagonistes les uns des autres dans le bassin du Danube, afin que de Vienne à la Mer Noire, il n’y ait plus ni cohérence ni dynamisme économiques, ni espace structuré par un principe im­périal (“reichisch’).

 

L’objectif, qui était d’empêcher toute communication par voie fluviale, sera encore renforcé lors des é­vénements de la Guerre Froide. L’Elbe, soit l’axe Prague/Hambourg, et le Danube, comme artère fluviale de l’Europe, ont été tous deux verrouillés par le Rideau de Fer. La Guerre Froide avait pour objectif de pérenniser cette césure. Le bombardement des ponts sur le Danube près de Belgrade en 1999 ne pour­suivait pas d’autres buts.

 

Etalon-or et étalon-travail

 

La Guerre Froide visait aussi à maintenir la Russie éloignée de la Méditerranée, afin de ne pas procurer à l’Union Soviétique un accès aux mers chaudes, à garder l’Allemagne en état de division, à laisser à la France une autonomie relative. Officiellement, la France appartenait au camp des vainqueurs et cette po­litique de morcellement et de balkanisation lui a été épargnée. Les Américains toléraient cette relative autonomie parce que les grands fleuves français, comme la Seine, la Loire et la Garonne sont des fleuves atlantiques et ne possédaient pas, à l’époque, de liaisons importantes avec l’espace danubien et aussi parce que l’industrie française des biens de consommation était assez faible au lendemain de la seconde guerre mondiale. Ce n’est que dans les années cinquante et soixante qu’une telle industrie a pris son envol en France, avec la production d’automobiles bon marché (comme la légendaire “2CV” de Citroën que les Allemands appelaient la “vilaine cane”, la “Dauphine” ou les modèles “R8” de Renault) ou d’ap­pareils électro-ménagers de Moulinex, etc., ensemble de produits qui demeuraient très en-dessous des standards allemands. La force de la France avait été ses réserves d’or; celle de l’Allemagne, la production d’excellents produits de précision et de mécanique fine, que l’on pouvait échanger contre de l’or ou des devises.

 

Anton Zischka écrivit un jour que le retour d’Amérique des réserves d’or françaises  —pendant le règne de De Gaulle, au cours des années soixante et à l’instigation de l’économiste Rueff—  a été une bonne me­sure mais toutefois insuffisante parce que certaines branches de l’industrie de la consommation n’existaient pas encore en France : ce pays ne produisait pas d’appareils photographiques, de machines à écrire, de produits d’optique comme Zeiss-Ikon, d’automobiles solides destinées à l’exportation.

 

Comme Zischka l’avait théorisé dans son célèbre ouvrage “Sieg der Arbeit” (= “La victoire de l’étalon-travail”), l’or est certes une source de richesse et de puissance nationales, mais cette source demeure statique, tandis que l’étalon-travail constitue un facteur perpétuellement producteur, correspondant à la dynamique de l’époque contemporaine. Les stratèges américains l’avaient bien vu. Ils ont laissé se pro­duire le miracle économique allemand, car ce fut un développement quantitatif, certes spectaculaire, mais trompeur. A un certain moment, au bout de quelques décennies, ce miracle devait trouver sa fin car tout développement complémentaire de l’industrie allemande ne pouvait se produire qu’en direction de l’espace balkanique, du bassin de la Mer Noire et du Proche-Orient.

 

Dans ce contexte si riche en conflits réels ou potentiels, dont les racines si situent à la fin du 19ième siècle, les instruments qui ont servi, depuis plusieurs décennies, à coloniser et à mettre hors jeu l’Al­lemagne et, partant, l’Europe entière, sont les suivants :

 

  • La Mafia et les drogues

 

Pour en arriver à contrôler l’Europe, les services secrets américains ont toujours téléguidés diverses organisations mafieuses. Selon le spécialiste actuel des mafias, le Français Xavier Raufer, le “tropisme mafieux” de la politique américain a déjà une longue histoire derrière lui: tout a commencé en 1943, lorsque les autorités américaines vont chercher en prison le boss de la mafia Lucky Luciano, originaire de Sicile, afin qu’il aide à préparer le débarquement allié dans son île natale et la conquête du Sud de l’I­talie. Depuis lors, on peut effectivement constater un lien étroit entre la mafia et les services spéciaux des Etats-Unis. En 1949, lorsque Mao fait de la Chine une “république populaire”, l’armée nationaliste chi­noise du Kuo-Min-Tang se replie dans le “Triangle d’Or”, une région à cheval sur la frontière birmano-lao­tienne. Les Américains souhaitent que cette armée soit tenue en réserve pour mener ultérieurement d’éventuelles opérations en Chine communiste. Le Congrès se serait cependant opposé à financer une telle armée avec l’argent du contribuable américain et, de surcroît, n’aurait jamais avalisé une opé­ration de ce genre. Par conséquent, la seule solution qui restait était d’assurer son auto-financement par la production et le trafic de drogue. Pendant la guerre du Vietnam, certaines tribus montagnardes, com­me les Hmongs, ont reçu du matériel militaire payé par l’argent de la drogue. Avant la prise du pouvoir par Mao en Chine et avant la guerre du Vietnam, le nombre de toxicomanes était très limité: seuls quel­ques artistes d’avant-garde, des acteurs de cinéma ou des membres de la “jet society” avant la lettre consommaient de l’héroïne ou de la cocaïne : cela faisait tout au plus 5000 personnes pour toute l’Amé­rique du Nord. Les médias téléguidés par les services ont incité à la consommation de drogues et, à la fin de la guerre du Vietnam, l’Amérique comptait déjà 560.000 drogués. Les mafias chinoise et italienne ont pris la logistique en main et ont joué dès lors un rôle important dans le financement des guerres im­populaires.

 

L’alliance entre la Turquie et les Etats-Unis a permis à un troisième réseau mafieux de participer à cette stratégie générale, celui formé par les organisations turques, qui travaillent en étroite collaboration avec des sectes para-religieuses et avec l’armée. Elles ont des liens avec des organisations criminelles similaires en Ouzbékistan voire dans d’autres pays turcophones d’Asie centrale et surtout en Albanie. Les organisations mafieuses albanaises ont pu étendre leurs activités à toute l’Europe à la suite du conflit du Kosovo, ce qui leur a permis de financer les unités de l’UÇK. Celles-ci ont joué le même rôle dans les Balkans que les tribus Hmongs  au Vietnam dans les années 60. Elles ont préparé le pays avant l’offensive des troupes de l’OTAN.

 

Par ailleurs, le soutien médiatique insidieux, apporté à la toxicomanie généralisée chez les jeunes, poursuit un autre objectif stratégique, celui de miner l’enseignement, de façon à ce que l’Europe perde un autre de ses atouts : celui que procuraient les meilleurs établissements d’enseignement et d’éducation du monde, qui, jadis, avaient toujours aidé notre continent à se sauver des pires situations.

 

Dans toute l’Europe, les forces politiques saines doivent lutter contre les organisations mafieuses, non seulement parce qu’elle sont des organisations criminelles, mais aussi parce qu’elles sont les instruments d’un Etat, étranger à l’espace européen, qui cultive une haine viscérale à l’égard de l’identité européen­ne. La lutte contre les organisations mafieuses implique notamment de contrôler et de réguler les flux migratoires en provenance de pays où la présence et l’influence de mafias se fait lourdement sentir (Turquie, Albanie, Ouzbékistan, etc.).

 

  • Les multinationales

 

Depuis les années 60, les multinationales sont un instrument du capitalisme américain, destiné à contraindre les autres Etats à ouvrir leurs frontières. Sur le plan strictement économique, le principe qui consiste à favoriser l’essaimage de multinationales conduit à des stratégies de “délocalisations”, comme on le dit dans le jargon néo-libéral. Ces stratégies de délocalisation sont responsables des taux élevés de chômage. Même dans le cas de produits en apparance peu signifiants ou anodins, tels les jouets ou les bonbons, les multinationales ont détruit des centaines de milliers d’emplois. Exemple: les voitures miniatures étaient, jadis, dans mon enfance, fabriquées généralement en Angleterre, comme les Dinky Toys, les Matchbox et les Corgi Toys. Aujourd’hui, les miniatures de la nouvelle génération, portant parfois la même marque, comme Matchbox, nous viennent de Thaïlande, de Chine ou de Macao. A l’époque de son engouement pour l’espace politique national-révolutionnaire, le sociologue allemand Henning Eichberg, aujourd’hui exilé au Danemark, écrivait, avec beaucoup de pertinence, dans la revue berlinoise “Neue Zeit”, que nous subissions “une subversion totale par les bonbons” (“Eine totale Subvertierung durch Bonbons”). En effet, les douceurs et sucreries pour les enfants ne sont plus produites aux niveaux locaux, ou confectionnées par une grand-mère pleine d’amour, mais vendues en masse, dans des drugstores ou des pompes à essence, des supermarchés ou des distributeurs automatiques, sous le nom de “Mars”, “Milky Way” ou “Snickers”. Ce ne sont plus des grand-mères ou des mamans qui les confectionnent, mais des multinationales sans cœur et tout en chiffres et en bilans, gérés par d’infects technocrates qui les vendent dans tous les coins et les recoins de la planète. A combien de personnes ces stratégies infâmes ont-elles coûté l’emploi, ont-elles ôté le sens à l’existence?

 

Dans l’Europe entière, les forces politiques saines, si elles veulent vraiment lutter contre le chômage de masse, doivent refuser toutes les logiques de délocalisations et protéger efficacement les productions locales.

 

  • Le néo-libéralisme comme idéologie

 

Le néo-libéralisme est l’idéologie économique de la globalisation. L’écrivain et économiste français Michel Albert a constaté, au début des années 90, que le néo-libéralisme, héritage des gouvernements de Thatcher et de Reagan, correspond en pratique à une négation quasi complète de tout investissement local (régional, national, transnational dans un cadre continental semi-autarcique et auto-centré, etc.). Michel Albert réagissait contre cette nouvelle pathologie politique, qui consistait à vouloir imiter à tout prix la gestion thatcherienne et les “reaganomics” et préconisait de remettre à l’ordre du jour les politiques “ordo-libérales”. L’“ordo-libéralisme” ou “modèle rhénan” (dans le vocabulaire de Michel Albert), n’est pas seulement allemand ou “rhénan” mais aussi japonais, suédois, partiellement belge (les structures patrimoniales des vieilles industries de Flandre ou de Wallonie) ou français (les grandes entreprises familiales autour des villes de Lyon ou de Lille ou en Lorraine).

 

Ce “modèle rhénan” privilégie l’investissement plutôt que la spéculation en bourse. L’investissement ne se fait pas qu’en capital-machine dans l’industrie mais aussi, pour Albert, dans les modules de recherche des universités, dans les écoles supérieures professionnelles ou, plus généralement, dans l’enseignement. Conjointement aux idées délétères du mouvement soixante-huitard, l’idéologie néo-libérale a miné les systèmes d’enseignement dans toute l’Europe. En Allemagne, aujourd’hui, la situation est grave. En France, elle est pire, sinon catastrophique. En Angleterre, une initiative citoyenne, baptisée “Campaign for Real Education”, revendique actuellement, auprès des enseignants et des associations de parents, la revalorisation de la discipline à l’école, afin d’améliorer le niveau des études et les capacités linguistiques (en langue maternelle) des enfants. Le géopolitologue Robert Strauss-Hupé, qui œuvrait dans les cénacles intellectuels gravitant jadis autour de Roosevelt, avait planifié la destruction des forces implicites du vieux continent européen, dans un programme destiné à l’Allemagne et à l’Europe, au même moment où Morgenthau concoctait ses plans pour une  pastoralisation générale et définitive de l’espace germanique. Selon ce Strauss-Hupé, il fallait briser à jamais l’homogénéité ethnique des pays européens et ses systèmes d’éducation. Pour réaliser ce projet au bout de quelques décennies, les spéculations anti-autoritaires de pédagogues éthérés, la consommation de drogues et l’idéologie de 68 ont joué un rôle-clef. En évoquant ces faits, quelques voix chuchotent que le philosophe Herbert Marcuse, idole des soixante-huitards, aurait travaillé pour l’ “Office for Strategic Studies” (OSS), l’agence américaine de renseignement qui a précédé la célèbre CIA.

 

Dans  toute l’Europe, les forces politiques saines devraient militer aujourd’hui pour réaffirmer l’existence d’un système ordo-libéral de facture “rhénane” (selon Albert), c’est-à-dire un système économique qui investit au lieu de spéculer et qui apporte son soutien à l’école et aux universités, sans négliger les autres secteurs non marchands, comme les secteurs hospitalier et culturel, car les piliers porteurs non marchands de toute société ne peuvent être mis à disposition ni être sacrifié à la seule économie. Ces secteurs non marchands soudent les communautés populaires, créent une fidélité à l’Etat dans toutes les catégories sociales. Le néo-libéralisme ne soude pas, il dé-soude, il ne génère aucune fidélité et fait régner la loi de la jungle.

 

  • Les médias

 

L’Europe est également tenue sous la coupe d’un système médiatique qui, in fine, est téléguidé par certains services étrangers, qui veillent à susciter les “bonnes” émotions au bon moment. Ces médias façonnent la mentalité contemporaine et visent à exclure du débat tout esprit indépendant et critique, surtout si ces esprits critiques sont effectivement critiques parce qu’ils pensent en termes d’histoire et de tradition. En effet, les esprits détachés du temps et de l’espace, sans feu ni lieu (Jacques Ellul), représentent ce que l’on appelle en Allemagne “die schwebende Intelligenz”, l’intelligentsia virevoltante, qui est justement cette forme d’intelligentsia dont l’américanisation et la globalisation ont besoin. La domination de l’Europe par des instruments médiatiques a commencé immédiatement après la seconde guerre mondiale, notamment quand une revue, apparemment anodine dans sa forme et sa présentation, “Sélection du Reader’s Digest”, a été répandue dans toute l’Europe et dans toutes les langues, quand la France de 1948 fut contrainte de faire jouer dans toutes ses salles de cinéma des films “made in USA”, sinon elle ne recevait pas les fonds du Plan Marshall. Le gouvernement Blum a accepté ce diktat, qui signait l’arrêt de mort du cinéma français.

 

Quand l’ancien créateur cinématographique Claude Autant-Lara, classé à gauche au temps de sa gloire, fut élu au Parlement Européen sur les listes du nationaliste français Jean-Marie le Pen, il reçut le droit de prononcer le discours inaugural de l’assemblée, vu qu’il en était le doyen. Il saisit cette opportunité pour condamner, du haut de la tribune de Strasbourg, la politique américaine qui a toujours consisté à imposer systématiquement les films d’Hollywood, pour torpiller les productions nationales des pays européens. Les chansons, les modes, les drogues, la télévision (avec CNN), l’internet sont autant de canaux qu’utilise la propagande américaine pour effacer la mémoire historique des Européens et d’influencer ainsi les opinions publiques, de façon à ce qu’aucune autre vision du monde autre que celle de l’”American way of Life” ne puisse plus jamais émerger.

 

Dans toute l’Europe, les forces politiques saines doivent viser à faire financer des médias indépendants, locaux et liés au sol, qui soient à même de fournir au public des messages idéologiquement et politiquement différents. Afin d’empêcher que nos peuples soient abrutis et placés sous influence par des systèmes médiatiques hypercentralisés et téléguidés par une super-puissance étrangère à notre espace. Un tel contrôle médiatique s’avère nécessaire dans la perspective des guerres du futur, qui seront des “guerres cognitives”, dont l’objectif sera d’influencer les peuples et de rendre les “audiences étrangères” (“enemy/alien audiences” dans le jargon de la CIA ou de la NSA) perméables au discours voulus par les services spéciaux de Washington, afin qu’aucune autre solution à un problème de politique internationale ne puisse être considérée comme “morale” ou “acceptable”.

 

  • Les moyens militaires

 

On affirme généralement que la puissance des Etats-Unis est essentiellement une puissance maritime. Les puissances mondiales, qui sont simultanément des puissances maritimes (des thalassocraties), sont généralement “bi-océaniques”: on veut dire par là qu’elles ont des “fenêtres” sur deux océans. L’objectif de la guerre que les Etats-Unis ont imposé au Mexique en 1848 était de se tailler une vaste fenêtre donnant sur l’Océan Pacifique, pour pouvoir ensuite accéder, à court ou à moyen terme, aux marchés de Chine et d’Extrême-Orient et d’en faire des marchés exclusivement réservés aux productions américaines. Lorsque l’Amiral américain Alfred Thayer Mahan s’efforce à la fin du 19ième siècle de faire de la “Navy League” un instrument pour promouvoir dans les esprits et dans les actes l’impérialisme américain, il poursuivait simultanément l’objectif de faire de la flotte américaine, qui était alors en train de se développer, un monopole militaire exclusif: seule cette flotte aurait le droit de s’imposer sur la planète sans souffrir la présence de concurrents. Son but politique et stratégique était de donner aux puissances anglo-saxonnes une “arme d’intervention” globale et ubiquitaire, susceptible de donner à la Grande-Bretagne et aux Etats-Unis un instrument capable de développer une vitesse de déplacement  supérieure à tous les autres instruments possibles à l’époque, afin d’assurer le succès de leurs interventions partout dans le monde. Les autres puissances ne pouvant pas  posséder d’instruments aussi rapides ou d’une vitesse encore supérieure. Par conséquent, l’objectif visait aussi à enlever à l’avenir aux autres puissances de la planète la possession d’un armement naval similaire ou comparable. La conquête de l’espace maritime du Pacifique a donc eu lieu après celle des côtes californiennes en 1848, pour être plus exact cinquante ans plus tard, lors de la guerre contre l’Espagne qui a abouti à l’élimination de cette puissance européenne dans les Caraïbes et dans les Philippines. L’Allemagne, à l’époque, a repris à son compte la souveraineté sur la Micronésie et a défendu, dans ce cadre, l’île de Samoa, avec sa marine de guerre, contre les prétentions américaines. Entre 1900 et 1917, les Etats-Unis n’ont posé aucun acte décisif, mais la première guerre mondiale leur a donné l’occasion d’intervenir et de vendre du matériel de guerre en telles quantités aux alliés occidentaux qu’au lendemain de la guerre ils n’étaient plus débiteurs du monde mais ses premiers créanciers.

 

En 1922, les Américains et les Britanniques imposent à l’Allemagne et à leurs propres alliés le Traité de Washington. On ne parle pas assez de ce Traité important, décisif et significatif pour l’Europe toute entière. Il imposait à chaque puissance maritime du monde un tonnage spécifique pour sa flotte de guerre: 550.000 tonnes pour les Etats-Unis et autant pour l’Angleterre; 375.000 tonnes pour le Japon; 175.000 tonnes pour l’Italie et autant pour la France. Versailles avait déjà sonné le glas de la marine de guerre allemande. La France, bien que considérée comme un Etat vainqueur, ne pouvait plus désormais, après le traité de Washington, se donner les moyens de devenir une forte puissance maritime. La réduction à quasi rien du tonnage autorisé de la flotte allemande était en fait, aux yeux de Washington, une vengence pour Samoa et une mesure préventive, pour éliminer la présence du Reich dans le Pacifique. Pourquoi est-il important aujourd’hui de rappeler à tous les clauses du Traité de Washington? Parce qu’avec ce Traité nous avons affaire à un exemple d’école du “modus operandi” américain.

1.       Ce procédé a été systématisé par la suite.

2.       Les peuples lésés ont tenté en vain d’apporter des réponses à ces mesures qui restreignaient considérablement l’exercice de leur souveraineté. Il suffit de penser au développement de l’aviation civile française, aux temps héroïques où se sont distingués des pilotes exceptionnels comme Jean Mermoz et Antoine de Saint-Exupéry, ou au développement des dirigeables Zeppelin en Allemagne, qui a connu un fin tragique en 1937 à New York quand le “Hindenburg” s’est écrasé au sol en proie aux flammes.

 

Du “Mistral” aux “Mirages”

 

Les deux puissances que sont la France et l’Allemagne n’ont pas pu remplacer leurs marines perdues à la suite des clauses du Traité de Washington de 1922 par une “flotte aérienne” adéquate et suffisante. L’objectif général poursuivi  par les Américains était de ne tolérer aucune industrie autonome d’armement de haute technologie chez leurs anciens alliés. Après la seconde guerre mondiale, la France et les petites puissances occidentales ont été contraintes d’acheter le vieux matériel de guerre américain pour leurs armées. L’armée française a ainsi été dotée exclusivement de matériels américains. Mais avec l’aide d’ingénieurs allemands prisonniers de guerre, la France a été rapidement en mesure de fabriquer des avions de combat ultra-modernes, comme par exemple les avions à réaction de type “Mistral”.

 

Après 1945, l’Allemagne n’a plus possédé d’industrie aéronautique digne de ce nom. Fokker, aux Pays-Bas, n’a plus pu qu’essayer de survivre et est finalement resté une entreprise trop modeste pour ses capacités réelles. Sous De Gaulle, les ingénieurs français développent, en coopération avec des collègues allemands, les fameux chasseurs Mirage, concurrents sérieux pour leurs équivalents américains sur le marché mondial. Les chasseurs Mirage III constituaient un développement du “Volksjäger” (“chasseur du peuple”) allemand de la seconde guerre mondiale, le Heinkel 162. En 1975, les Américains forcent les gouvernements des pays scandinaves et bénéluxiens de l’OTAN à acquérir des chasseurs F-16, après avoir convaincu une brochette de politiciens corrompus. Cette décision a eu pour effet que les Français de Bloch-Dassault et les Suédois de SAAB n’ont plus pu opérer de sauts technologiques majeurs, parce que la perte de ce marché intérieur européen ne leur permettait pas de financer des recherches de pointe. Le même scénario s’est déroulé plus récemment, avec la vente de F-16 aux forces aériennes polonaise et hongroise. Depuis ce “marché du siècle”, les avionneurs français et suédois claudiquent à la traîne et ne parviennent plus à se hisser, faute de moyens financiers, aux plus hauts niveaux de la technologie avionique. Si, sur le plan des technologies de l’armement, les Allemands ont eu l’autorisation de construire leurs chars Léopard, c’est parce que l’Amérique est avant tout une puissance maritime et ne s’intéresse pas a priori aux armements destinés aux armées de terre. Les Américains mettent davantage l’accent sur les navires de guerre, les sous-marins, les missiles, les satellites et les forces aériennes.

 

Dans un article paru dans l’hebdomadaire berlinois “Junge Freiheit”, on apprend que les consortiums américains achètent les firmes qui produisent des technologies de pointe, comme Fiat-Avio en Italie, une branche du gigantesque consortium que représente Fiat et produit des moteurs d’avion; ensuite une entreprise d’Allemagne du Nord qui fabrique des sous-marins et le consortium espagnol “Santa Barbara Blindados”, qui fabrique les chars Léopard allemands pour le compte de l’armée espagnole. De cette manière, les tenants de l’industrie de guerre américaine auront accès à tous les secrets de l’industrie allemande des blindés. Ces manœuvres financières ont pour objectif de contraindre l’Europe à la dépendance, avant qu’elle ne se donne les possibilités d’affirmer son indépendance militaire.

 

Les organisations militaires qui sont ou étaient sous la tutelle américaine, comme l’OTAN, le CENTO ou l’OTASE, ne servaient qu’à une chose: créer un marché pour les armes américaines déclassées, notamment les avions, afin d’empêcher, dans les pays “alliés”, toute éclosion ou résurrection d’industries d’armement indépendantes, capables de concurrencer leurs équivalentes américaines. Les progrès technologiques, qui auraient pu résulter de l’indépendance des industries d’armement en Europe ou ailleurs, auraient sans doute permis la production de systèmes d’armement plus performants pour les “alien armies”, les armées étrangères, ce qui aurait aussi eu pour conséquence de tenir en échec, le cas échéant, la super-puissance dominante, devenue entre-temps la seule superpuissance de la planète, voire de la réduire à la dimension d’une puissance de deuxième ou de troisième rang.

 

Le réseau “ECHELON”

 

La crainte de voir des puissances potentiellement hostiles développer des technologies militaires performantes est profondément ancrée dans les têtes du personnel politique dirigeant des Etats-Unis. C’est ce qui explique la nécessité d’espionner les “alliés”. Comme nous l’a très bien expliqué Michael Wiesberg dans les colonnes de l’hebdomadaire berlinois “Junge Freiheit”, le système satellitaire “ECHELON” a été conçu pendant la Guerre Froide en tant que système d’observation militaire, destiné à compléter les moyens de communication existants de l’époque, tels les câbles sous-marins ou les autres satellites utilisés à des fins militaires. Mais sous Clinton, le système “ECHELON” a cessé d’être un instrument purement militaire; très officiellement, il poursuit désormais des missions civiles. Et lorsque des objectifs civils deviennent objets de systèmes d’espionnage de haute technologie, cela signifie que les “alliés” de la super-puissance, hyper-armée, deviennent, eux aussi, à leur tour, les cibles de ces écoutes permanentes. Dans un tel contexte, ces “alliés” ne sont plus des “alliés” au sens conventionnel du terme. La perspective purement politique, telle qu’elle nous fut jadis définie par un Carl Schmitt, change complètement. Il n’existe alors plus d’ennemis au sens “schmittien” du terme, mais plus d’”alliés” non plus, dans le sens où ceux-ci serait théoriquement et juridiquement perçus et traités comme des égaux. Le langage utilisé désormais dans les hautes sphères dirigeantes américaines et dans les services secrets US trahit ce glissement sémantique et pratique: on n’y parle plus d’”ennemis” ou d’”alliés”, mais d’ “alien audiences”, littéralement d’”auditeurs étrangers”, de “destinataires [de messages] étrangers”, qui doivent être la cible des services de propagande américains, qui ont pour mission de les rendre “réceptifs” et dociles.

 

Que signifie ce glissement, cette modification, sémantique, en apparence anodine? Elle signifie qu’après l’effondrement de l’Union Soviétique, les “alliés” européens sont devenus superflus et ne constituent plus qu’un ensemble de résidus, vestiges d’un passé bien révolu, tant et si bien que l’on peut sans vergogne aller pomper des informations chez eux, qu’on peut les placer sous écoute permanente, surtout dans les domaines qui touchent les technologies de pointe. Les Européens ont déjà pu constater, à leurs dépens, que des firmes françaises et allemandes ont été espionnées par voie électronique ou par le truchement des satellites du système ECHELON. Certaines de ces entreprises avaient mis au point un système de purification des eaux. Comme les informations qu’elles envoyaient par courrier électronique avaient préalablement été  pompées, les entreprises concurrentes américaines avaient pu fabriquer les produits à meilleur marché, tout simplement parce qu’elles n’avaient pas investi le moindre cent dans la recherche.

 

L’appareil étatique américain favorise de la sorte ses propres firmes nationales et pille simultanément les entreprises de ses “alliés”. Cette forme d’espionnage industriel recèle un danger mortel pour nos sociétés civiles, car elle génère un chômage au sein d’un personnel hautement qualifié. Duncan Campbell, un courageux journaliste britannique qui a dénoncé le scandale d’ECHELON, donne, dans son rapport, des dizaines d’exemples de pillages similaires, dans tous les domaines des technologies de pointe. Les Etats-Unis, cependant, ne sont pas les seuls à participer au réseau satellitaire d’espionnage ECHELON; la Grande-Bretagne, le Canada, l’Australie et la Nouvelle-Zélande y participent aussi, si bien qu’une question importante se pose à nous: le Royaume-Uni constitue-t-il une puissance européenne loyale? Le Général de Gaulle n’avait-il pas raison quand il disait que la “relation spéciale” (“special relationship”) entre les Etats-Unis et la Grande-Bretagne était derechef hostile au continent européen, et le resterait à jamais?

 

◊ ◊ ◊

 

Lorsque nous évoquons une “Europe des peuples”,

nous devons avoir en tête deux faisceaux de faits, jouant chacun un rôle important :

 

◊ 1. Le premier faisceau de faits est de nature culturelle. La culture est ce que l’on doit maintenir intact, dans la mesure du possible, dans le tourbillon incessant des modèles divergents que nous propose la modernité. Nous en sommes bien évidemment conscients, nous plus que beaucoup d’autres. Mais cette conscience, qui est la nôtre, recèle un grand danger, propre de tout combat culturel : celui de transformer tout héritage culturel en un fatras “muséifié” ou de percevoir toute activité culturelle  comme un simple passe-temps. La défense de nos héritages culturels ne peut en aucun cas être “statique”, dépourvue de dynamisme. Toute culture vivante possède une dimension politique, économique et géopolitique.

 

◊ 2. Second faisceau de faits : le peuple, en tant que substrat ethnique porteur et créateur/fondateur de culture, ne peut jamais, au grand jamais, être mis à disposition par la classe politique dominante. Ce substrat populaire fait émerger, au fil du temps, une culture et une littérature spécifiques et non aliénables, produits d’une histoire particulière. Il génère également un système économique spécifique, qui est tel et non autre. Toute forme économique nait et s’inserre dans un espace particulier, est une émanation d’une époque particulière. Par voie de conséquence, toute économie viable ne peut s’inscrire dans un schéma conceptuel qui se voudrait d’emblée “international” ou “universel”. Perroux, Albertini et Silem, les grands théoriciens français de l’économie et de l’histoire économique, insistent justement sur la dimension historique des systèmes économiques, sans oublier les grands théoriciens des systèmes autarciques. Pour clarifier leurs propos si pertinents, ils ont classés l’ensemble des systèmes en deux catégories didactiques : les “orthodoxes”, d’une part, les “hétérodoxes”, d’autres part.

 

“Orthodoxes” et “hétérodoxes” en théorie économique

 

Les “orthodoxes” sont les libéraux de l’école d’Adam Smith (les “libéraux manchesteriens”) et les marxistes, qui pensent sur base de concepts “universels” et veulent implanter les mêmes modèles et catégories partout dans le monde. Ils sont en fait les ancêtres philosophiques des araseurs globalistes d’aujourd’hui. Les “hétérodoxes” en revanche mettent l’accent sur les particularités de chaque système économique. Ils sont les héritiers de l’”école historique” allemande, et d’économistes tels Rodbertus, Schmoller et de Laveleye. Sous la République de Weimar, le “Tat-Kreis” et la revue “Die Tat”, avec des héritiers de cette école comme Ferdinand Fried et Ernst Wagemann, ont poursuivi cette quête et approfondi cette veine intellectuelle. Comme nous venons de le dire, pour les “hétérodoxes” et les te­nants de l’école historique, chaque espace économique est lié à un lieu et est le fruit d’une histoire par­ticulière, que l’on ne peut pas tout bonnement mettre entre parenthèse et ignorer. L’histoire et l’éco­nomie façonnent les institutions, qui sont liées à un substrat ethnique, à un lieu et à une époque, des institutions qui font fonctionner une économie de manière telle et non autre. Nous percevons très nettement, ici, pourquoi l’UE a connu jusqu’ici l’échec, et le connaîtra encore dans l’avenir: elle n’a ja­mais emprunté cette voie hétérodoxe. Nous, bien évidemment, nous optons pour cette approche hétéro­doxe de l’économie, dans le sens où l’entendent Perroux, Silem et Albertini. L’économie est le “nomos” de l’”oikos”, ce qui signifie qu’elle est la mise en forme d’un lieu de vie spécifique, où j’habite, moi, en tant que “façonneur” potentiel du politique, avec les miens. D’après l’étymologie même du mot éco­nomie, il n’y a pas d’économie sans lieu (**). Une économie universelle n’existe pas par définition.

 

Revenons à la géopolitique. Par définition, la discipline, que constitue la “géopolitique”, traite de l’in­fluence des facteurs géographiques/spatiaux sur les ressorts éternels de la politique, à l’intérieur d’une aire donnée. Les facteurs spatiaux, immédiats et environnants, influencent bien entendu la manière de pratiquer l’économie dans les limites de l’”oikos” lui-même. S’il nous paraît utile et équilibrant de con­server ces modes hérités de pratiquer l’économie, et de ne pas les remplacer par des règles qui seraient soi-disant applicables sans faille à tous les lieux du monde, alors nous pouvons parler d’un principe “au­tarcique”, quand l’économie se donne pour but d’être et de rester auto-suffisante. La notion d’autarcie économique n’implique pas nécessairement que l’on constitue à terme un “Etat commercial fermé” (l’in­terprétation étroite de l’idée conçue par Fichte). A l’heure actuelle, la notion d’autarcie devrait viser un équilibre entre une ouverture raisonnable des frontières commerciales et la pratique tout aussi raison­nable de fermetures ad hoc, afin de protéger, comme il se doit, les productions indigènes. Une notion ac­tualisée d’autarcie vise un “auto-centrage” bien balancé de toute économie nationale ou “grand-spatiale” (“großräumisch”/”reichisch”), ainsi que l’avait théorisé avec brio André Grjébine, un disciple de Fran­çois Perroux.

 

 

 

De Frédéric II à Friedrich List

 

Friedrich List s’était fait l’avocat, au 19ième siècle, des systèmes économiques indépendants. C’est lui qui a forgé, par ses idées et plans, les économies modernes de l’Allemagne, des Etats-Unis, de la France et de la Belgique, et partiellement aussi de la Russie à l’époque du ministre du Tsar Serguëi Witte, l’homme qui, à la veille de la première guerre mondiale, a modernisé l’empire russe. L’idée principale de List était de lancer le processus d’industrialisation dans chaque pays et de développer de bons systèmes et réseaux de communications. A l’époque de List, ces systèmes et réseaux de communications étaient les canaux et les chemins de fer. De son point de vue, et du nôtre, chaque peuple, chaque aire culturelle ou civilisationnelle, chaque fédération de peuples, a le droit de construire son propre réseau de communi­cation, afin de se consolider économiquement. Dans ce sens, List entendait réaliser les voeux concrets contenus dans le Testament politique de Frédéric II de Prusse.

 

Le roi de Prusse écrivit en 1756 que la mission majeure de l’Etat prussien dans l’espace de la grande plaine de l’Allemagne du Nord était de relier entre eux par canaux les grands bassins fluviaux, si bien qu’entre la Vistule et la Mer du Nord les communications s’en trouvent grandement facilitées. Ce projet visait à dépasser l’état de discontinuité et de fragmentation de l’espace nord-allemand, qui avait grevé pendant des siècles le destin historique du Saint-Empire. Le système de canaux envisagés réduisait ensuite la dépendance de cette plaine par rapport à la mer. En son temps, List développa également le projet de relier à l’Atlantique les grands lacs situés au centre du continent nord-américain. Il encouragea les Français à construire un canal entre l’Atlantique et la Méditerranée, afin de relativiser la position de Gibraltar. Il donna aussi le conseil au roi des Belges, Léopold I de Saxe-Cobourg, de relier les bassins de l’Escaut et de la Meuse à celui du Rhin. Ainsi, successivement, l’Etat belge a fait creuser plusieurs canaux, dont le “Canal du Centre”, le Canal Anvers-Charleroi et, beaucoup plus tard seulement, le Canal Albert (en 1928), couronnement de ce projet germano-belge du 19ième siècle. List conseilla à tous de construire des lignes de chemin de fer, afin d’accélérer partout les communications. Ce sont surtout l’Allemagne et les Etats-Unis qui doivent à ce grand ingénieur et économiste d’être devenus de grandes puissances industrielles.

 

Du droit inaliénable à déployer ses propres moyens électroniques

 

Les puissances thalassocratiques ne peuvent en aucun cas tolérer de tels dévelopements dans les pays continentaux. Les Anglais craignaient, aux 19ième et 20ième siècles, que l’élément constitutif de leur puissance, c’est-à-dire leur flotte, perdrait automatiquement de son importance en cas d’amélioration des voies navigables intra-continentales et des chemins de fer. La presse anglaise s’était insurgée contre la construction, par les Français, du grand canal entre l’Atlantique et la Méditerranée. En 1942, cette même presse londonienne publie une carte pour expliciter à son public les dangers que recèlerait la construction d’une liaison entre le Rhin, le Main et le Danube. Dans son ouvrage du plus haut intérêt, intitulé “Präventivschlag”, Max Klüver nous rappelle que les services spéciaux britanniques avaient planifié et commencé à exécuter des missions de sabotage contre les ponts sur le Danube en Hongrie et en Roumanie. La Guerre Froide  —il suffit de lire une carte physique de l’Europe—  avait également pour objectif de couper les communications fluviales sur l’Elbe et le Danube, afin d’empêcher toute dynamique entre la Bohème et l’Allemagne du Nord et entre le complexe bavaro-autrichien et l’espace balkanique. La guerre contre la Serbie en 1999 a servi, entre autres choses, à bloquer tout trafic sur le Danube et à empêcher l’éclosion d’un système de communication à voies multiples entre la région de Belgrade et la Mer Egée. Les idées de List restent tout à fait actuelles et mériteraient bien d’être approfondies et étoffées, notamment en incluant dans leurs réflexions sur l’autarcie et l’indépendance économique la technologie nouvelle que représentent aujourd’hui les systèmes satellitaires. Tout groupe de peuples, toute fédération comme l’UE par exemple, devrait disposer du droit, inaliénable, de déployer ses propres moyens et systèmes électroniques, afin de renforcer sa puissance industrielle et économique.

 

Pour observer de réelles actualisations des théories de List, qui, en Europe, sont refoulées voire “inter­dites” comme presque toutes les doctrines “hétérodoxes”, nous devons tourner nos regards vers l’A­mérique latine. Sur ce continent, travaillent et enseignent des disciples de List et de Perroux. Lorsque ces théoriciens et économistes latino-américains parlent de s’émanciper de la tutelle américaine, ils utilisent le concept de “continentalisme”. Ils désignent par là un mouvement politique présent sur l’en­semble du continent ibéro-américain et capable de rassembler et de fédérer toutes les forces souhaitant se dégager de la dépendance imposée par Washington. L’Argentine, par exemple, a développé des idées et des idéaux autarcistes bien étayés dès l’époque du Général Péron. Avant que les forces transnationales du monde bancaire aient ruiné le pays en utilisant tous les trucs possibles et imaginables, l’Argentine bénéficiait d’une réelle indépendance alimentaire, grâce à sa surproduction de céréales et de viandes, destinées à l’exportation. Cette puissance civile constituait une épine dans le pied de la politique américaine.  L’Argentine avait aussi, notamment grâce à l’aide d’ingénieurs allemands, pu développer une industrie militaire complète et bien diversifiée. En 1982,  les pilotes argentins se servaient d’avions de combat fabriqués en Argentine même, les fameux “Pucaras”, qui détruisirent des navires de guerre britanniques lors de la Guerre des Malouines. Cette politique d’autonomie bien poursuivie fait de l’idéologie péroniste, qui l’articule, l’ennemi numéro un des Etats-Unis en Amérique ibérique, et plus particulièrement dans le “cône sud”, depuis plus de soixante ans. Les nombreuses crises, créées de toutes pièces, qui ont secoué la patrie du Général Péron, ont réduit à néant les pratiques autarciques, pourtant si bien conçues. Une expérience très positive a connu une fin misérable, ce qui est un désastre pour l’humanité entière.

 

Ceux qui veulent aujourd’hui poursuivre une politique européenne d’indépendance, en dehors de tous les conformismes suggérés par les médias aux ordres, doivent articuler les six points suivants pour répon­dre à la politique de globalisation voulue par les Etats-Unis:

 

Point 1 : Abandonner le néo-libéralisme, retrouver l’ordo-libéralisme !

 

L’économie doit à nouveau reposer sur les principes du “modèle rhénan” (Michel Albert) et retrouver sa dimension “patrimoniale”. La démarche principale pour retourner à ce modèle “rhénan” et patrimonial, et réétablir ainsi une économie de marché ordo-libérale, consiste à investir plutôt qu’à spéculer. Lorsque l’on parle d’investissement, cela vaut également pour les établissements d’enseignement, les universités et la recherche. Une telle politique implique également le contrôle des domaines stratégiques les plus importants, comme au Japon ou aux Etats-Unis, ce que pratique désormais le Président Poutine en Russie post-communiste. Poutine, en effet, vient de prier récemment l’oligarque Khodorovski, d’investir “pa­triotiquement” sa fortune dans des projets à développer dans la Fédération de Russie, plutôt que de les “placer” à l’étranger et d’y spéculer sans risque. L’eurocratie bruxelloise, elle, a toujours refusé une telle politique. Récemment, le député du Front National français Bruno Gollnisch a proposé une politique européenne selon trois axes: 1) soutenir Airbus, afin de développer une industrie aéronautique euro­péenne indépendante de l’Amérique; 2) développer “Aérospace” afin de doter l’Europe d’un système sa­tellitaire propre; 3) soutenir toutes les recherches en matières énergétiques afin de délivrer l’Europe de la tutelle des consortia pétrolier dirigés par les Etats-Unis. Un programme aussi clair constitue indu­bitablement un pas dans la bonne direction!

 

Point 2 : Lutter pour soustraire l’Europe à l’emprise et l’influence des grandes agences médiatiques américaines !

 

Pour nous rendre indépendants des grandes agences médiatiques américaines, qui interprètent la réalité ambiante de la scène internationale dans des perspectives qui vont à l’encontre de nos propres intérêts, l’Europe doit donc développer une politique spatiale, ce qui implique une étroite coopération avec la Russie. Sans la Russie, nous accusons un retard considérable en ce domaine. Pendant des décennies, la Russie a rassemblé un savoir-faire considérable en matières spatiales. La Chine et l’Inde sont prêtes, elles aussi, à participer à un projet commun dans ce sens. Mais, pour pouvoir combattre le plus efficacement qui soit le totalitarisme médiacratique que nous imposent les Etats-Unis, nous avons besoin d’une ré­volution intellectuelle et spirituelle, d’une nouvelle métapolitique, qui briserait la fascination dangereuse qu’exerce l’industrie américaine de la cinématographie et des loisirs. Si les productions européennes présentent une qualité et attirent le public, tout en conservant la diversité et la pluralité des cultures européennes au sens où l’entendait Herder, nous serions en mesure de gagner la “guerre cognitive”, comme l’appellent aujourd’hui les stratégistes français. Toute révolution spirituelle a besoin de fantaisie, de créativité, d’un futurisme rédempteur et, surtout, d’une certaine insolence dans la critique, comme le démontre l’histoire d’une feuille satirique allemande d’avant 1914, le “Simplicissimus”. Un esprit d’in­solence, lorsqu’il fait mouche, aide à gagner la “guerre cognitive”.

 

Point 3 : Les principes de politique étrangère

ne devraient pas être ceux qu’induit et prêche l’Amérique sans arrêt

 

L’Europe doit imposer ses propres concepts en politique extérieure, en d’autres termes rejeter l’universalisme de Washington, que celui-ci s’exprime sur le mode du “multilatéralisme”, comme le veut Kerry, ou de l’”unilatéralisme”, tel que Bush le pratique en Irak. Pour une Europe, qui ne serait plus l’expression de l’eurocratie bruxelloise, aucun modèle ne devrait être considéré comme universellement valable ou annoncé comme tel. Que deux faisceaux de principes soient rappelés et cités ici :

◊ Armin Mohler, décédé en juillet 2003, parlait de la nécessité de donner une interprétation et une pratique allemandes au gaullisme, dans la mesure, écrivait-il dans son ouvrage “Von rechts gesehen” (= “Vu de droite”), où l’Europe devrait sans cesse s’intéresser aux  —et protéger— (les) pays que les Américains décrètent “rogue states” (= “Etats voyous”). Lorsqu’Armin Mohler écrivit ses lignes sur le gaullisme, l’Etat-voyou par excellence, dans la terminologie propagandiste américaine, était la Chine. Au même moment, dans le camp “national-européen”, Jean Thiriart et les militants de son mouvement “Jeune Europe” à Bruxelles, disaient exactement la même chose. En Allemagne, Werner Georg Haverbeck, à Vlotho, tentait, dans son “Collegium Humanum” de répandre dans les milieux intellectuels allemands une information plus objective sur la Chine. La reine-mère en Belgique, Elisabeth von Wittelsbach, pour s’opposer ostensiblement à la “Doctrine Hallstein” de l’OTAN, entreprit à l’époque de faire un voyage en Chine. Tous furent affublés de l’épithète disqualifiante de “crypto-communistes”. Or, orienter la politique internationale de l’Europe selon certains modèles chinois n’est nullement une idiotie ou une aberration.

◊ Cette “sinophilie” des années 50 et 60 nous amène tout naturellement à réflechir sur un modèle que l’Europe pourrait parfaitement imiter, au lieu de suivre aveuglément les principes et les pratiques de l’universalisme américain. Ce modèle est celui que la Chine propose aujourd’hui encore, après la parenthèse paléo-communiste:

è      Aucune immixtion d’Etats tiers dans les affaires intérieures d’un autre Etat. Cela signifie que l’idéologie des droits de l’homme ne peut être utilisée pour susciter des conflits au sein d’un Etat tiers. Le Général Löser, qui, immédiatement avant la chute du Mur, militait en Allemagne pour une neutralisation de la zone centre-européenne (Mitteleuropa), défendait des points de vue similaires.

è      Respect de la souveraineté des Etats existants.

è      Ne jamais agir pour ébranler les fondements sur lesquels reposaient les stabilités des Etats.

è      Continuer à travailler à la coexistence pacifique.

è      Garantir à chaque peuple la liberté de façonner à sa guise son propre système  économique.

 

Cette philosophie politique chinoise repose sur les travaux d’auteurs classiques comme Sun Tzu ou Han Fei et sur le Tao Te King. Cette pensée recèle des arguments clairs comme de l’eau de roche, sans rien avoir à faire avec ce moralisme délétère qui caractérise l’articulation dans les médias de l’universalisme américain.

 

Point 4 : S’efforcer d’être indépendant sur le plan militaire

 

La tâche principale d’un mouvement de libération contientale dans toute l’Europe serait de viser la protection sans faille de l’industrie de l’armement et d’éviter que les firmes existantes ne tombent aux mains de consortia américains tels “Carlyle Incorporation”. Fiat Avio en Italie, la dernière firme qui construisait des sous-marins en Allemagne, le consortium espagnol “Santa Barbara Blindados” viennent tout juste de devenir américains par le truchement de spéculations boursières. Autre tâche: privilégier systématiquement l’Eurocorps au lieu de l’OTAN, tout en transformant cet “Eurocorps” en une armée populaire de type helvétique, soit en une milice, comme l’avaient voulu Löser en Allemagne, Spannocchi en Autriche et Brossolet en France. L’OTAN n’a en effet plus aucune raison d’exister depuis que l’Allemagne et l’Europe ont été réunifiées en 1989. Dans la foulée de la disparition du Rideau de Fer, les Européens ont raté une chance historique de façonner un ordre mondial selon leurs intérêts. C’est pourquoi la belle idée d’un “Axe Paris-Berlin-Moscou” vient sans doute trop tard. Troisième tâche : construire une flotte européenne dotée de porte-avions. Quatrième tâche : lancer un système satellitaire européen, afin que l’Europe puisse enfin disposer d’une arme pour mener tout à la fois les guerres militaires et les guerres culturelles/cognitives. Ce qui nous conduit à énoncer le point 5.

 

Point 5 : Combattre le réseau ECHELON

 

En tant que système d’observation et d’espionnage au service de la Grande-Bretagne, de l’Australie, du Canada, de la Nouvelle-Zélande et des Etats-Unis, ECHELON est une arme dirigée contre l’Europe, la Russie, l’Inde, la Chine et le Japon. Il incarne l’idée dangereuse d’une surveillance totale, comme l’avaient prédite Orwell et Foucault. La pratique américaine et anglo-saxonne d’une surveillance aussi ubiquitaire doit être contrée et combattue par toutes les autres puissances du monde qui en font l’objet. Elle ne peut l’être que par la constitution d’un système équivalent, fruit d’une étroite coopération entre la Russie, l’Europe, l’Inde, la Chine et le Japon. Si ECHELON n’est plus le seul et unique système de ce type, les puissances de la grande masse continentale eurasiatique pourront apporter leur réponse culturelle, militaire et économique. En ECHELON, en effet, fusionnent les opérations culturelles, économiques et militaires qui sont menées partout dans le monde aujourd’hui. La réponse à y apporter réside bel et bien dans la constitution d’un “Euro-Space” en liaison avec le savoir-faire russe accumulé depuis le lancement du premier spoutnik à la fin des années 50.

 

Point 6 : Pour une politique énergétique indépendante

 

Pour ce qui concerne la politique énergétique, la voie à suivre est celle de la diversification maximale des sources d’énergie, comme De Gaulle l’avait amorcée en France dans les années 60, lorsqu’il entendait prendre ses distances par rapport à l’Amérique et à l’OTAN. Le Bureau du Plan français voulait à l’époque exploiter toutes les sources d’énergie possibles: éoliennes, solaires, marémotrices, hydrauliques, sans pour autant exclure le pétrole et le nucléaire. La diversification permet de se dégager d’une dépendance trop étroite à l’endroit d’une source d’énergie unique et/ou exclusive. Aujourd’hui, cette politique de diversification reste valable. Ce qui n’exclut pas de participer à un vaste projet de développement des oléoducs et gazoducs eurasiens, de concert avec la Russie, la Chine, les Corées et le Japon. L’objectif majeur est de se dégager de la dépendance à l’égard du pétrole saoudien et, par ricochet, des sources pétrolières contrôlées par les Etats-Unis.

 

Ces six points ne pourront jamais être réalisés par le personnel politique actuel. Ceci n’est pas une conclusion qui m’est personnelle, fruit d’une aigreur à l’endroit de l’établissement politique dominant. L’analyse, qui conclut à cette incompétence générale du personnel politique établi, existe déjà, coulée dans des ouvrages de référence, solidement charpentés. Ils constituent une source inépuisable d’idées politiques nouvelles, de programmes réalisables. Erwin Scheuch, Hans-Herbert von Arnim, Konrad Adam, la tradition anti-partitocratique italienne, l’oeuvre d’un Roberto Michels, critique des oligarchies, l’oeuvre de l’ancien ministre de Franco, Gonzalo Fernandez de la Mora, nous livrent les concepts de combat nécessaires pour déployer une critique offensive et générale des partitocraties et des “cliques” (Scheuch) en place. Cette critique doit contraindre à terme les “élites sans projet” à laisser le terrain à de nouvelles élites, capable d’apporter les vraies réponses aux problèmes contemporains. Pour finir, il me paraît utile de méditer une opinion émise jadis par Arthur Moeller van den Bruck, qui disait que la politique partisane (la partitocratie) était un mal, parce que les partis s’emparent de l’appareil d’Etat, alors que celui-ci devrait en théorie appartenir à tous; ainsi s’instaure, dit Moeller van den Bruck, un “filtre” entre le peuple réel et le monde de la politique, qui détruit toute immédiateté entre gouvernés et gouvernants.

 

Seule cette immédiateté, postulée par Moeller van den Bruck, fonde la véritable démocratie, qui ne peut être que populiste et organique. S’il n’y a ni populisme ni organicité en permanence, l’Etat dégénère en une institution rigide et purement formelle, inorganique et dévitalisée. 

 

Cette grande idée de l’immédiateté dans le politique pur permet de réaliser de véritables projets et de démasquer les messages idéologiques qui nous conduisent sur de fausses routes. C’est à la restauration de cette immédiateté que nous entendons oeuvrer.

 

Robert STEUCKERS,

Forest-Flotzenberg/Friedrichsroda (Thüringen), avril 2004.

 

(*) Original allemand: R. Steuckers, “Europa der Völker statt US-Globalisierung”, in Veröffentlichungen der Gesellschaft für Freie Publizistik, XX. Kongress-Protokoll 2004, Die Neue Achse. Europas Chancen gegen Amerika, Gesellschaft für Freie Publizistik e. V., Oberboihingen, 2004, ISBN 3-9805411-8-5. Ont également participé à ce Congrès, Dr. Rolf Kosiek, Dr. Dr. Volkmar Weiss, Dr. Walter Post, Prof. Dr. Wjatscheslaw Daschitschew [Viatcheslav Dachitchev], Harald Neubauer, Dr. Pierre Krebs, Dr. Gert Sudholt.

 

(**) Le mot grec “oikos” est de même racine indo-européenne que le latin “vicus”, signifiant “village”, soit un site bien circonscrit dans l’espace. Le terme latin “vicus” a donné le néerlandais “wijk” (quartier) et le suffixe onomastique anglais “-wich”, comme dans “Greenwich”, par exemple, qui donnerait “Groenwijk” en néerlandais. Le son “w” ou “v” ayant disparu dans le grec classique et s’étant maintenu dans les langues latines et germaniques, la forme originale est “[w/v]oikos”, où l’on reconnaît les deux consonnes, inamovibles, tandis que les voyelles varient. Le “k” est devenu “tch” en anglais, selon les mêmes règles phonétiques qui ont donné le passage de “castellum” (latin) à “castel’ (vieux français), à “cateau” ou “casteau” (picard), à “château” (français moderne); ou encore le passage de “canis” (latin) à “ki” (picard du Borinage) puis à “chien” (français moderne) et à “tché” (wallon de Liège). De “tché”, on passe ensuite au domaine germanique où bon nombre de “k” latins ont donné un “h” aspiré, en passant par le son intermédiaire écrit “ch” en néerlandais et en allemand (exemple: “canis”/ “hond/Hund”; “cervus”/ “cerf” / “hert”/”Hirsch”, etc.). Les noms de peuples suivent aussi la même règle: les “Chattes” de l’antiquité sont devenus les “Hessois” (“Hessen”) d’aujourd’hui, en tenant compte que le “t” se transforme en double “s”, selon les règles des mutations consonantiques, propres aux langues germaniques continentales.

 

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samedi, 29 mai 2010

Il tramonto del Leviathan statunitense

Il tramonto del Leviathan statunitense

di Antonio Grego - 26/05/2010

Fonte: eurasia [scheda fonte] 

 

Il tramonto del Leviathan statunitense

Premessa sull’espansionismo statunitense

Nel libro Terra e Mare (1) il grande giurista e teorico dello Stato Carl Schmitt interpreta la storia del mondo alla luce della centralità dello scontro geostrategico tra l’elemento tellurico e l’elemento marino, dai quali discendono due diverse concezioni della politica, del diritto e della civiltà. Lo scontro tra questi due elementi ha origine con la storia dell’uomo, basti pensare alla rivalità tra Roma e Cartagine, ma è solo con l’avvento della modernità che l’elemento marino, fino ad allora  sottomesso a quello tellurico sembra essere in grado di fronteggiarlo alla pari e anche di avere la meglio su di esso.

L’Inghilterra, conquistando le terre al di là dell’oceano ed esercitando la supremazia sui mari, si è affermata come potenza marittima mondiale: essa è il Leviathan, che si oppone alla potenza terrestre (Behemoth) rappresentata dagli Stati continentali, fondati sull’identità collettiva della nazione e sulla difesa della patria e dell’integrità territoriale.

Con il tramonto della potenza inglese sono gli Stati Uniti a prenderne il posto, rivendicando non solo l’egemonia sulle Americhe con la ‘dottrina Monroe’, ma anche la supremazia negli oceani, attraverso la forza aeronavale, e tramite quest’ultima il dominio globale. Nell’affermazione di questa egemonia marittima mondiale si nasconde, secondo Schmitt, il germe della rovina, perché conduce alla trasformazione del diritto fra gli Stati in diritto privato internazionale, cioè in diritto commerciale, e introduce una forma di moralismo universalistico, politicamente pericoloso, perché fa appello al concetto discriminatorio di guerra giusta. Sicché il forte radicamento tellurico caratteristico del Vecchio Mondo (Eurasia e Africa) si confronta con il Nuovo Mondo, il luogo dell’universalismo indistinto e delocalizzato, ricettacolo di progetti messianici e mondialisti. Di qua una visione imperiale tellurica, di là una talassocrazia che mira all’egemonia mondiale; di qua il nomos della terra, di là la ‘tirannia dei valori’, il relativismo e il nichilismo assoluto che derivano dallo sradicamento e dal primato dell’economia sulla politica. Si tratta quindi di due concezioni geopolitiche, giuridiche e spirituali radicalmente opposte. Tale percezione di uno scontro fatale tra due opposte visioni del mondo si giustifica anche con il vissuto contingente e le posizioni assunte da Schmitt, basti pensare che alla fine degli anni Trenta questi applaudì al Patto Ribbentrop-Molotov ed al contempo riconobbe nell’Occidente, Gran Bretagna e Stati Uniti, l’avversario irriducibile dell’Europa.

Gli Stati Uniti infatti, fin dalla loro fondazione, si sono basati su un costrutto ideologico che postula la loro unicità come luogo della giustizia e della pace (Occidente) in contrapposizione all’Europa (Vecchio Mondo) luogo dell’oscurantismo e della tirannia. Tale forma di ideologia con venature messianiche trova il suo fondamento nel calvinismo professato dai Padri Pellegrini fuggiti dal Vecchio Continente per approdare sulle coste dell’America con l’intento di costruire la ‘Nuova Gerusalemme’. Riassumendo gli Stati Uniti si possono definire, per dirla con Damiano, «una nazione ideocratica, ‘aiutata’, nel suo ‘tracciato’ espansionista, da una costellazione iniziale di favorevoli circostanze geostoriche, quali, l’immenso spazio a disposizione; l’isolamento geografico; l’assenza di potenti vicini; una forte immigrazione di popolamento; la conflittualità europea, specie nei primi decenni dopo l’indipendenza; il predominio inglese sui mari. A ciò va aggiunta la circostanza storica probabilmente più importante, ossia la “deriva suicidaria dell’Europa”, a partire dalla prima guerra mondiale» (2).

Segnali inequivocabili di decadenza

L’espansionismo statunitense, che ha avuto diverse fasi, arriva al suo culmine nel ventesimo secolo, quando Washington decide di superare la dottrina Monroe di egemonia continentale per passare alla fase ulteriore dell’egemonia globale imponendosi come agente di ‘sovversione’ mondiale (con, a partire dal 1948, Israele quale sub-agente di destabilizzazione regionale nel Mediterraneo e Vicino Oriente). Si badi bene che l’opera di ‘distruzione creativa’ messa in atto dagli Stati Uniti, parte essenziale del suo moto espansionistico, ha agito ed agisce ancora in tutti i campi: economico, culturale, giuridico, spirituale, ma soprattutto a livello politico e geopolitico. A partire dal 1945, l’emisfero occidentale, coincidente fino a quel momento con le Americhe secondo l’originaria formulazione della dottrina Monroe, si espande fino ad includere prima l’Europa occidentale ed il Giappone, sconfitti ed occupati militarmente, poi, con il crollo dell’Unione Sovietica, il mondo intero. La fine del bipolarismo est-ovest ha, difatti, prodotto un vuoto nel continente eurasiatico che, data l’estrema debolezza e mancanza di obiettivi degli Stati europei, gli Stati Uniti, come unica superpotenza rimasta, hanno cercato velocemente di colmare prima che nuovi attori sorgessero a contrastarla. All’interno di questa strategia americana rientra il fenomeno della globalizzazione, esso non rappresenta altro che il tentativo estremo da parte degli Stati Uniti di estendere al mondo la propria Ordnung. Nasce, infatti, proprio in questa fase il Project for the New American Century (PNAC, Progetto per il Nuovo Secolo Americano), un think tank americano, fondato nel 1997, che delineerà la politica americana negli anni successivi. Tra i fondatori del PNAC, in prevalenza ebrei americani, ci sono personaggi che durante i due mandati presidenziali di Bush Jr. assumeranno incarichi di governo, basti pensare a Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz. Il PNAC non è altro che un progetto scaturito dal filone neoconservatore che, preso il sopravvento nella seconda metà degli anni ‘90, fa l’esaltazione fanatica e millenarista dei predetti miti fondatori degli Stati Uniti e del ‘destino manifesto’ quale missione affidata da Dio di civilizzare il mondo, uniti alla crociata ideologica trockista per l’‘esportazione della democrazia’ e la ‘guerra permanente’. Proprio negli anni ‘90 si assiste ad una politica estremamente aggressiva e unilateralista di Washington che tuttavia nel mentre continua attivamente a stimolare negli altri Paesi, specialmente in Europa, il multilateralismo e l’interconnessione finanziaria, da utilizzare come leve per indebolire ulteriormente la loro sovranità. Tuttavia la ‘fine della storia’ pronosticata da Francis Fukuyama e il trionfo definitivo del capitalismo di stampo americano che avrebbe portato la globalizzazione e l’americanizzazione del mondo, non si sono verificati. La fase unipolare dell’espansionismo americano, iniziata approssimativamente nel 1991 e terminata approssimativamente nel 2001, rappresenta non l’inizio del “Nuovo Secolo Americano”, come auspicato dagli americanisti di tutte le risme, ma bensì la sua conclusione, il tentativo estremo da parte degli Stati Uniti di preservare l’egemonia globale e frenare la nuova fase multipolare subentrante. A ben vedere il momento di massimo unipolarismo americano ha coinciso con il culmine della globalizzazione.

Il processo della globalizzazione, le cui origini risalgono al periodo 1944-1947 (Istituzione degli accordi di Bretton Woods, creazione del Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e accordi GATT), rappresenta la proiezione mondiale del sistema statunitense in una logica unipolare egemonica. Si può delimitare la fase ascendente della globalizzazione propriamente detta nel periodo che va dai primi anni ‘80 (1980: elezione di Reagan, 1982: morte di Brezhnev) al 1995, quando raggiunge il suo culmine con la creazione dell’OMC ovvero l’Organizzazione Mondiale del Commercio, attestando l’apparente trionfo dell’ideologia liberista che necessita della libera circolazione di capitali, beni e persone. Non è un caso che proprio in questo breve periodo di trionfo statunitense avviene quella che per Vladimir Putin è stata «la peggior tragedia geopolitica del XX secolo», ovvero il crollo e lo smembramento dell’Unione Sovietica. Un’altra ‘tragedia geopolitica’ avverrà in piena Europa con la dissoluzione della Jugoslavia nel 1991, la conseguenti guerre separatiste e l’apice dell’aggressività anti-europea statunitense raggiunto nel 1999, con i bombardamenti sulla Serbia dietro il paravento della NATO. Tuttavia oggi possiamo affermare che il culmine del ‘momento unipolare’ degli Stati Uniti raggiunto negli anni ‘90 piuttosto che rappresentarne il trionfo ne segna già l’inizio della discesa nel baratro.

Al volgere del Terzo Millennio gli USA erano in forte difficoltà sul piano politico-economico, entrando in una vera e propria recessione dopo circa 10 anni di crescita economica forzata e drogata, sorretta da un fortissimo indebitamento interno, da un grande passivo della bilancia dei pagamenti con forte indebitamento esterno, da una tendenza fortemente al ribasso sulla quota imputabile di commercio internazionale. Anche sul piano internazionale la loro egemonia era messa in discussione dall’emersione del potenziale polo geopolitico e geoeconomico rappresentato dall’Unione Europea. La recessione ed il declino della superpotenza USA, la fine delle forme specifiche della globalizzazione, stavano, infatti, avvenendo da diversi anni prima dell’11 settembre 2001, ed evidenti ne erano i segnali. La situazione interna degli USA, già dagli inizi degli anni ‘90, presentava dei problemi: basti ricordare che nel 1992 il debito nazionale generale era di oltre 4.000 miliardi di dollari (3), l’assistenza sanitaria era carente e una gran parte della popolazione americana si ritrovava a non avere una minima protezione sociale, il livello degli investimenti e dei risparmi  erano inferiori a quelli dei paesi europei, e dal punto di vista produttivo vi era una bassa competitività con minimi tassi di crescita di produttività. La distanza esistente tra ricchi e poveri negli USA è aumentata a dismisura negli ultimi 30 anni; se nel 1969 infatti, l’1% della popolazione possedeva il 25% di ricchezza nazionale, nel 1999 questa percentuale è salita a circa il 40%, mentre l’indebitamento finanziario interno è passato da 12 a 22 trilioni di dollari tra il 1995 e il 2000. Se a ciò si aggiunge l’enorme indebitamento degli USA nei confronti del resto del mondo, coperto da appena il 4% delle riserve di valuta, e il sempre più alto disavanzo commerciale, si comprende quanto diventano forti le debolezze dell’economia americana negli anni ‘90, in piena era della globalizzazione. Inoltre, l’eccedenza degli investimenti  attuati da un esagerato afflusso di capitali esteri e da una politica monetaria troppo espansiva ha portato a valori artificialmente gonfiati in Borsa con la conseguente crisi che ne è seguita; i livelli di  profitto sono scesi, così come i consumi, ed è evidente che gli Stati Uniti erano in una seria fase di difficoltà economica, ben nascosta dai media e dalle istituzioni internazionali compiacenti, fino a giungere alla recessione, molto prima dei tragici eventi dell’11 settembre. Un falso grande boom americano sostenuto da un decennio in cui le famiglie e le imprese hanno speso molto di più di quanto guadagnavano e un indebitamento non più sostenibile che, con la successiva moderazione dei comportamenti economici, porta ad un forte rallentamento dell’economia, fino alla recessione. Ecco quindi che, nella seconda metà degli anni ‘90, attraverso la guerra del dollaro contro l’euro, la crisi petrolifera a guida americana e la gestione della New Economy nel contesto generale della finanziarizzazione dell’economia, gli Stati Uniti hanno cercato di nascondere la loro crisi ed hanno giocato le loro carte per soffocare le mire di affermazione ed espansionistiche innanzitutto del nuovo polo dell’Unione Europea e in misura via via maggiore anche degli altri poli geopolitici mondiali emergenti. Il gioco del caro dollaro e del caro petrolio si accompagna, quindi, alla ‘bolla finanziaria’ sui titoli della “Net Economy”; questo è uno specifico aspetto del modello complessivo neoliberista imposto dalla globalizzazione americana, una speculazione finanziaria che fa sì che società con scarso fatturato, o appena quotate, nel giro di un mese triplichino, quadruplichino il loro valore. Una globalizzazione finanziaria che da una parte crea forti condizioni e aspettative di guadagno facile e dall’altra determina in continuazione paure di disastrosi crolli. Un NASDAQ, il mercato azionario dei titoli tecnologici, continuamente sbalzato fra eccessi rialzisti ed eccessi ribassisti. E questi terremoti del NASDAQ trovano i loro mandanti proprio negli Stati Uniti, capaci di attirare attraverso i titoli della Net Economy enormi capitali europei sottoposti poi al rischio di continui ed improvvisi crolli. Tuttavia nemmeno la guerra contro l’Euro, l’imposizione del neoliberismo globale e la finanziarizzazione dell’economia sono riusciti ad impedire il declino della potenza americana e l’ascesa di poli geopolitici alternativi, già percepibile all’inizio del terzo millennio. A questo punto, persa la partita per imporre ‘con le buone’, attraverso la globalizzazione dei mercati e la finanziarizzazione speculativa, il loro dominio sul mondo e la ‘fine della storia’, gli Stati Uniti sono costretti a ricorrere ‘alle maniere cattive’, alla guerra, ultima risorsa per uscire dalla crisi sistemica. Dal cilindro viene tirato fuori Bin Laden e il terrorismo islamico, diviene vitale per evitare il disastro che sarebbe anche solo il rallentarsi dei movimenti di capitale verso New York, un attacco al cuore dell’Eurasia con il pretesto della “guerra infinita contro il terrorismo”.

Il declino della potenza americana nel mondo

La fase finale e irreversibile del declino americano inizia nel 2001, volendo fare riferimento ad un evento spartiacque si può prendere l’attacco alle torri gemelle avvenuto l’11 settembre del 2001 come simbolo del ‘crollo’ del ‘sogno americano’ e della fine del dominio assoluto della sola superpotenza fino a quel momento.

L’estrema aggressività e l’avventurismo di Washington nel periodo 1995 – 2001 sono stati una disperata reazione alla consapevolezza della fine della fase unipolaristica che ha subito un colpo mortale grazie a due eventi fondamentali: l’adozione dell’Euro nel 1999 e l’elezione di Vladimir Putin alla presidenza russa nel 2000. Come detto in precedenza, tramontato il sogno di egemonia mondiale non restava che la guerra quale extrema ratio per impedire o ritardare l’avvento del multipolarismo.

Il periodo 2001 – 2003 è il colpo di coda dell’unipolarismo morente, nel quale gli USA camuffandosi dietro una riesumata NATO si impadroniscono dell’Afghanistan e mettono piede nel Kirghisistan e dell’Uzbekistan, per poi passare all’occupazione dell’Iraq. Nel frattempo la NATO si espande all’inverosimile e attraverso le ‘rivoluzioni colorate’ finanziate da Soros in Ucraina e Georgia arriva a minacciare i confini della Russia. In questo periodo la dottrina della ‘stabilità’ politico-economica internazionale diventa elemento propagandistico prioritario nel tentativo di aggressione all’Eurasia e di dominio manu militari del mondo, dominio imposto attraverso il nuovo ruolo dell’ONU depotenziato e sostituito in pieno dalla NATO. In questo periodo la situazione interna degli USA si aggrava. La disoccupazione ha registrato un notevole aumento, dall’inizio del 2001 si sono avuti oltre 1 milione e 200.000 di disoccupati in più ed il tasso di disoccupazione nell’agosto di quell’anno è arrivato al 4,9%;  si è registrata una diminuzione nei consumi di oltre lo 0,5% mentre il PIL nel secondo semestre del 2001 cresce solo dello 0,2%, e il terzo trimestre è addirittura negativo (-0,4%) segnalando, anche ufficialmente, la fase recessiva. Negli anni successivi la situazione si aggrava a causa del drammatico legame fra disoccupazione e logiche liberiste di precarizzazione del vivere sociale. Si aggiunga un mercato di capitali ‘pompato’, dove anche i rialzi e le piccole riprese sono imputabili ai giochi a sostegno dei titoli delle imprese meglio proiettate nei nuovi scenari di economia di guerra post-globale. Si decide di marciare secondo i parametri del sostenimento della domanda e della produzione attraverso una sorta di keynesismo militare come tentativo di risolvere, o almeno gestire, la crisi; per questo l’economia di guerra dell’era Bush Jr. aveva carattere strutturale, cioè ampio respiro e lunga durata sostituendo il Warfare al Welfare, con continui tagli al sistema pensionistico, alla sanità e allo Stato sociale.

Dopo l’iniziale apparente successo dell’avventurismo militare americano, nel periodo 2001 – 2003, dovuto all’incertezza internazionale che caratterizzava l’alba della nuova fase multipolare e alla disorganizzazione delle nazioni emergenti, il successivo periodo 2004 – 2009 sancisce la definitiva sconfitta del modello Bush–neocon di attacco al cuore dell’Eurasia quale misura estrema per uscire dall’impasse della crisi. Nel 2006 il PNAC chiude i battenti, attestando il fallimento del progetto di egemonia mondiale.

La guerra russo-georgiana del 2008 o, meglio, la fallita aggressione alla Russia perpetrata per il tramite dell’esercito georgiano armato da Israele e Stati Uniti, ha definitivamente posto la pietra tombale sull’unipolarismo statunitense ed ha sancito e reso effettivo il sistema geopolitico multipolare.

Cause del declino americano

In un saggio del 2007 il giornalista Luca Lauriola afferma che l’attuale crisi dell’egemonia americana va imputata ad una molteplicità di cause quali: il ridimensionamento geopolitico del ruolo USA dovuto alla crescita economica e tecnologica dei poli rivali russo, cinese ed indiano; la crisi economica e finanziaria degli USA dovuta a cause sistemiche e non reversibile perché connaturata alla forma del capitalismo americano; il castello di menzogne su cui si basa la strategia di dominio americana per legittimare il proprio espansionismo ha ormai oltrepassato la soglia di tollerabilità ed è sul punto di crollare; le condizioni di vita di gran parte della popolazione statunitense sono simili a quelle di molti paesi sottosviluppati; il ruolo politico sempre maggiore ricoperto dalla lobby sionista. Per quanto riguarda l’aspetto economico e finanziario, esaminando il periodo 2001 – 2010 praticamente non c’è un solo dato che non indichi una crisi irreversibile del sistema americano. Basti dire tra il 2005 ed il 2010 il numero di disoccupati in USA è praticamente raddoppiato così come, tra questi, è più che quadruplicato il numero di quelli a lungo termine (6 mesi o più) (4). Giova ricordare che gli americani hanno già rischiato la bancarotta e la dissoluzione come entità statale nel 2008 con lo scoppio della ‘bolla immobiliare’ dalla quale si sono salvati in extremis solo grazie all’intervento di Giappone e Cina, timorosi di perdere il mercato di sbocco principale per i loro prodotti. Ma i dati che illustrano in maniera devastante la crisi americana sono quelli del debito pubblico e della bilancia commerciale.

A cominciare dagli anni ‘80 (durante l’amministrazione Reagan) gli Stati Uniti hanno iniziato ad avere sia un grande debito pubblico sia un disavanzo commerciale. Il debito pubblico era intorno ai 50-75 miliardi di dollari alla fine degli anni ‘70 e crebbe a oltre 200 miliardi nel 1983. Il disavanzo della bilancia commerciale era attorno allo zero all’inizio degli anni ‘80 ma superò i 100 miliardi di dollari nel 1985. Oggi analizzando il disavanzo commerciale dei vari Paesi gli USA si situano all’ultimo posto della lista con un disavanzo che è piu’ del doppio rispetto a quello della Cina che è in surplus e si situa al primo posto. Inoltre, il debito pubblico americano ha superato la quota record dei 12 mila miliardi di dollari e non accenna a diminuire risultando essere il più alto al mondo.

Ma come mai gli Stati Uniti dopo un ventennio di apparente prosperità, nel quale hanno guidato il processo di globalizzazione, sono oggi sul punto di collassare? Come mai gli Stati Uniti non sono stati in grado di imporre la propria Ordnung al mondo intero? La risposta, più che nell’economia, va ricercata nella natura e nella geopolitica degli USA: « Gli Stati Uniti d’America – potenza talassocratica mondiale – hanno sempre perseguito, fin dalla loro espansione nel subcontinente sudamericano, una prassi geopolitica che in altra sede abbiamo definita “del caos”, vale a dire la geopolitica della “perturbazione continua” degli spazi territoriali suscettibili di essere posti sotto la propria influenza o il proprio dominio; da qui l’incapacità a realizzare un vero ed articolato ordine internazionale, quale ci si dovrebbe aspettare da chi ambisce alla leadership mondiale» (5).

La natura talassocratica degli USA e l’incapacità di governare e amministrare il territorio sono l’origine del loro declino, perciocché non è dato loro il potere di esercitare una funzione regolatrice ed equilibratrice dei vari popoli ed etnie che vivono in un territorio delimitato e di fornire quel senso di unità spirituale basato sulla coscienza di appartenere ad una medesima ecumene, quali invece sono i tratti caratteristici di un impero propriamente detto.

Dopo l’America

Ricapitolando, l’ultimo ventennio del XX secolo (1980 – 2001), ha visto la potenza degli Stati Uniti raggiungere il suo picco massimo. Quella che oggi viene definita ‘era della globalizzazione’, che ha raggiunto il suo culmine nella metà degli anni ‘90, non è stata altro che il tentativo di egemonizzare il mondo, attraverso gli strumenti della finanza speculativa e del soft power (diffusione dei concetti di ‘esportazione della democrazia’, ‘diritti umani’, liberismo, utilizzando anche Hollywood, la musica pop-rock e i ‘nuovi media’, internet in testa), messo in campo dagli USA nel loro ‘momento unipolare’.

Fallito il tentativo di imporsi come soggetto egemone a livello mondiale attraverso l’esportazione dei propri ‘valori’ gli USA nel periodo 2001 – 2008 hanno deciso di puntare tutto in un attacco disperato all’Heartland con tutto il volume di fuoco di cui sono stati capaci, ma anche questa mossa dopo una iniziale serie di successi viene bloccata dalle potenze continentali emergenti. Sempre più si profila all’orizzonte il conflitto aperto, multipolare, tra la ormai ex superpotenza in declino degli USA e i nuovi poli emergenti costituiti dal BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) con in più l’Iran in crescita strepitosa. Non bisogna però sottovalutare l’attuale potenza degli USA ne la residua capacità di reazione al declino in corso, per due ordini di motivi: come detto all’inizio la natura dell’espansionismo talassocratico americano non si basa sulla sovranità e sul controllo del territorio, perché questo avviene sospinto da forze non-statali, finanziarie ed economiche, che ne costituiscono il vero motore. Sono forze ‘liquide’ come liquido è il mezzo che storicamente hanno prediletto per espandersi, cioè il mare. Questa ‘liquidità’ che contraddistingue l’impalcatura economica e geopolitica degli USA comporta una seria difficoltà a batterli sul loro terreno, che è quello, in senso fisico, dei mari e dei cieli, in senso lato, della finanza e del soft power. In secondo luogo gli USA sono riusciti negli anni addietro ad acquisire posizioni di predominio nel settore finanziario (attraverso il controllo di organismi quali lo SWIFT), in quello della sicurezza mondiale e nel controllo dei ‘nuovi media’, internet in testa. Dal punto di vista militare la NATO, strumento di accerchiamento della massa eurasiatica, è ancora vitale ed in grado di esercitare la sua funzione antieuropea e antieurasiatica, inoltre restano le centinaia di basi militari e avamposti che gli statunitensi sono riusciti a installare in giro per il mondo e attraverso i quali sono in grado di esercitare ancora una capacità di deterrenza e di controllo sugli Stati ‘ospitanti’. In conclusione pur se in una fase di declino gli Stati Uniti sono ancora capaci di esercitare una residua forma di egemonia, soprattutto nelle zone sotto la loro influenza diretta (Europa e Giappone, in quanto ‘colonizzati’ a tutti gli effetti), piuttosto l’attuale fase è da ritenersi potenzialmente più pericolosa della precedente fase unipolare perché è proprio quando l’animale è ferito mortalmente che la sua reazione diventa più sconsiderata e furente come dimostrano l’avventurismo in Georgia e le recenti esplicite minacce di attacco nucleare nei confronti di Iran e Corea del Nord.

Tali minacce saranno scongiurate solo da una decisa azione di concerto tra le potenze del blocco eurasiatico e quelle dell’america indiolatina.

NOTE

1) C. Schmitt, Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Reclam, Leipzig 1942, trad. it. Terra e mare, Adelphi, Milano 2002.

2) G. Damiano, L’espansionismo americano, un «destino manifesto»?, Edizioni di Ar, Padova 2006, pp. 14-15. Il termine ‘ideocrazia’ riferito agli Stati Uniti è stato coniato da Costanzo Preve, cfr. C. Preve, L’ideocrazia imperiale americana, Settimo Sigillo, Roma 2004.

3) Da questo punto in avanti e dove non specificato diversamente si tratta di dati ufficiali del governo americano. Cfr. http://www.whitehouse.gov/ e http://www.cbo.gov/

4) Fonte: Bureau of labor statistics, http://www.bls.gov/

5) T. Graziani, America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare, “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici”, XV, 3/2008, p. 7.

Il presente articolo è stato pubblicato nel numero 3-4 di Italicum


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vendredi, 28 mai 2010

Russia and the New World Order - The Geopolitical Project of Pax Eurasiatica

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Russia and the New World Order - The Geopolitical Project of Pax Eurasiatica

Nikolaj von Kreitor (1996)

For the period after the end of Second World War, the United States gained increasing prominence as the leading power of imperialist reaction, taking Germany’s place in this respect... And its ruling class managed, particularly during the imperialist era, to have the democratic forms so effectively preserved that by democratically legal means, it achieved a dictatorship of monopoly capitalism at least as firm as that which Hitler set up by tyrannical procedures...And this democracy could, in substance, realize everything sought by Hitler.
Gyorgy Lukacs(1)

Resoluteness does not first take cognizance of Situation and put that Situation before itself; it has put itself into that Situation already. As resolute, Dasein is already taking action.
Martin Heidegger(2)
We don’t have enemies in the East.
Bismarck

The concept of the state presupposes the concept of the political. The specific political distinction to which political actions and motives can be reduced is that between friend and foe, wrote Carl Schmitt.(3) The affirmation of the political is a recognition of the reality of the political and thus a recognition and identification of the foe. Only by affirmation of the political in an act of decision, which by necessity is a meta-existential choice, can a nation as a collective entity assert its own sovereignty and thus political future.

In the aftermath of the dissolution of Soviet Union in 1991 which reduced the former Great Power to a state without politics and thus to a landmass in chaos, a sort of a Weimar-republic of the 90-ties, and in the face of the new American expansionism, the ideological discussion and search for viable political orientation within the former Soviet Union has intensified. Professor Nikolaj Zagladin pointed recently that the competition between the Soviet Union and the United States during the period of the Cold War must be characterized as a real war during which actual military power had been used to a very limited extend- mostly in proxy wars. This was so not because of a lack of will but because of the nature of the military technology— the existence of nuclear weapons made the war impossible. The nature of the war between the United States and the Soviet Union, known as the Cold War, was to its essence technology specific. But the Cold War was in fact the Third World War, claims Zagladin.(4) To a similar conclusion comes Zbigniew Brzezinski, the former National Security Advisor to President Carter, and presently one of the major ideologists of the «Expansionists of 1991», who wrote, paraphrasing von Clausewitz, that «the Cold War can be defined as warfare by other (non-lethal) means. Nonetheless, warfare it was. And the stakes were monumental. Geopolitically the struggle, in the first instance, was for control over the Eurasian landmass and, eventually, even for global preponderance».(5) Obviously the Soviet Union gave up much more in the settlement than the United States, agreed to the dissolution of the Warsaw Pact, although the military arm of American domination of Western Europe, NATO, continues to exist and is steadily expanding. Soviet Union unilaterally reduced its engagement in the Third World while the United States escalated her interventionist foreign policies. Soviet Union even supported the war in Iraq, a war that to its essence was a war for the control of the oil in the Persian Gulf and thus a war against the national interest not only the Soviet Union, but also of other European countries; a war that made it less likely that an accommodation between the Soviet Union and Western European countries could be reached. Soviet Union even agreed to withdraw its military forces from Germany while the United States intends to permanent her occupation of Germany, a fact that was clearly stated by President Bush during the November 7-8, 1991 NATO summit meeting in Rome. And that brings us to the post Cold War settlement, its consequences for Russia and for the international order. A critical observer will characterize this settlement as analogous to a Second Treaty of Versailles. Zbigniew Brzezinski point out that as a consequence of the Second Treaty of Versailles, the defeated Russia is passing into American receivership. «This is an outcome historically no less decisive and no less one-sided than the defeat of Napoleonic France in 1815, or of Imperial Germany in 1918. Unlike the Peace of Westphalia, which ended the Thirty Years War in a grand religious compromise, cuius regio, cuius religio , does not apply here. Rather, from a doctrinal point of view, the outcome is more similar to 1815 or 1945; the ideology of the losing side has itself been repudiated. Geopolitically the outcome is also suggestive of 1918, the defeated empire is in a process of dismantlement. As in previous termination of war there was a discernible moment of capitulation, followed by postwar political upheavals in the losing state. That moment came most probably in Paris on November 19, 1990. At a conclave marked by ostentatious displays of amity designed to mask the underlying reality, the erstwhile Soviet leader, Michael Gorbachev, who had led the Soviet Union during the final stages of the Cold War, accepted the conditions of the victors by describing in veiled and elegant language the unification of Germany that had taken place entirely on Western terms as a ‘major event’. This was the functional equivalent of the act of capitulation in the railroad car in Compiegne in 1918 (the capitulation of Germany) or on the U.S.S. Missouri in August 1945 (the capitulation of Japan).»(6) George Kennan remarked that «the collapse of the Soviet system amounted to the unconditional surrender we envisaged-a voluntary one if you will, but surrender nevertheless.»(7) And as a result the United States is attempting to impose on Russia terms of surrender stated in the National Security Council Memorandum 20/1 (NSC 20/1) which already in 1948 defined the American war aims in the Cold War and envisioned a post Cold War settlement tailored after the Brest-Litovsk treaty of 1918(8) , leading to the partition of the Soviet Union, disarmament, destruction of the national economy of Russia and establishment of American protectorate over large parts of the territory of the former Soviet Union: (...)Such terms would have to be harsh ones and distinctly humiliating...They might well be something along the lines of the Brest-Litovsk settlement of 1918...(We) would have to demand:
a. Direct military terms (surrender of equipment, evacuation of key areas, etc) designed to assure military helplessness...
b. Terms designed to produce a considerable economic dependence on the outside world.(9) NSC 20/1 stated further that the unified geopolitical space of the Soviet Union—the «fortress Heartland»—had to be destroyed by partitioning of the country and inclusion of above all the Baltic States and Ukraine into a Shatterbelt of U.S.A controlled territory.

Wolfram Henrieder has pointed out that de Gaulle wanted the German issue solved- the unification of Germany, because it constituted a decisive cause and justification for American continuous military presence in Europe, a cause that would be eliminated with the solution of the German question, leading to the dissolution of the Cold War military alliances and speeding American withdrawal from Europe(10) , creating an emancipated Europe to the Urals. «The creation of unified Europe requires political decision which is tantamount to a will of independence... A united Europe, in this sense, could be build only in opposition to America.»(11) By her dominant position within the alliance America has kept Europe in a straitjacket, has made her fearful of speaking in her own voice. Since Europe has lost its elan and has borrowed an American personality, it must be forced to reassume an identity. As this identity does not exists, it must be created. If Europe can be roused only by instilling an apprehension over American hegemony, then this must be done for the sake of Europe’s survival, claimed de Gaulle for whom a truly emancipated Europe was an America-free Europe.

From this perspective Gorbachev’s foreign policy and the geopolitics of implosion of Perestrojka negatively effected the possibilities for emancipation of Europe. In the ongoing political debate in Russia but also in France, it has been asserted that the defeat of the Soviet Union begins to appear as a defeat for Europe as well.

Lenin once characterized the original Treaty of Versailles in the following words:
“What is the Versailles Treaty? This unheard of, predatory peace, enslaves tens of millions of people, including the most civilized. This is not a treaty but dictates imposed by robbers with a knife in hand on a defenseless Germany. Germany has been deprived from all her colonies by virtue of the Versailles Treaty. Turkey, Persia and China have been enslaved. Seventy percent of the world population live in conditions of enslavement...And that is why this international order, which rests on the Versailles Treaty, rests in reality on a volcano."(12) And while Russia at the moment is in the same predicament as Germany after the W.W.I, the predatory New World Order, proclaimed by President Bush and implemented by the present Clinton administration, also rests on a volcano.
The intensifying confrontation of Russia with the dictates of the New World Order has led to intensive ideological debate about the future of Russia. This debate has resulted in a renewed interest for the writings of the prominent German jurist Carl Schmitt whose book, “The Concept of the Political”, has already been translated into Russian and published in the sociological magazine Voprosy Sotsiologij.(13) The known Russian politician and chief editor of the influential magazine Elementy (Elements) Alexander Dugin must be credited with the first comprehensive introduction of the works of Carl Schmitt in the essay “Carl Schmitt- Five Lessons for Russia”, published in the Journal of Russian Writers ‘Nash Sovremennik’ (Our Contemporary)(14) and with the creative applications of his writing to the contemporary political and ideological chaos in Russia. “For Russia the writing of Schmitt are of special interest and significance because of his brilliant analysis of state of emergency and exceptional situations in contemporary political reality and the necessity of a decision to preserve the national existence of people. ..People exists politically only if they constitute an independent political community/entity and only if they as an entity oppose other political entities in order to preserve its understanding of the cultural specificity of its own community...The theory of exceptional circumstances and with it related theme of decision are of paramount importance for us today, because we are now in such historical juncture of the history of Russian people and Russian state in which the state of emergency has become a natural state of our nation, permeating and constituting the Being of our nation...We Russians must discover and understand our national essence and existence because we live in a time of emergency which demands a act of collective existential choice, an act of supreme decision.”(15) Here one can see a Heideggerian motif- the political identifies the essence and existence of community; it is the empirical Russian nation which in a time of national emergency must become fully political in an act of self-choice and decision and thus choose itself and its own historical destiny.(16) The act of self-choice presupposes a nation that has become political because only the political being of Russia gives existential meaning to the friend-enemy antithesis, what does not politically exist cannot consciously decide(17) , political unity is grounded on political existence. Political sovereignty is an existential question because it concerns the resolution of an existential conflict. Not only does every politically-existing people decide on the question of its own political existence and any possible danger to it; it decides also on whether an existential question actually exists- a question which is political by its very nature. Since for politically-existing people there is always the possibilities of an existential conflict, the question of sovereignty, i.e. the ultimate existential decision, always remains open.(18) «Every existing political unity has its value and existential justification not in the rightness or usefulness of norms but in its existence. Juridically considered, what exists as apolitical force has value because it exists. From this stems its ‘right to self-preservation’, the presupposition of all further considerations; it seeks above all to maintain its existence , it protects its existence, its integrity, its security, and its constitution - all existential values»(19) Carl Schmitt points out that «as long people exists in the political sphere, it must itself make use of the distinction between friend and enemy, at the same time reserving it for extreme conjunctures which it itself judges as such. This is where the essence of its political existence lies. From the moment it lacks the capacity or the will to use this distinction, a people ceases to exist politically...If the people should no longer have the strength or the will to continue in the political sphere, this is not the end of politics in the world. It is only the end of weak people...If the state refuses or is unable to make a decision in an exceptional situation, it inevitable runs the risk that other forces will make one in its place and establish their norms.»(20) Building on this theme Alexander Dugin sees the elements of will, decision and time intertwined in the quest for historical existence of Russia: «Decisionism not only amplifies and focuses on the state of emergency and the exceptional circumstances, but it is also a defense reaction against those circumstances: in the moment of historical decision for authentic national future, the people and the nation actualize their past and decide their future in a dramatic mobilization of the present. The present then becomes the focal point and synthesis of three qualitative characteristics of time: its source, i.e. the past when people entered into a historical existence, the will of the people directed toward the future, and the political self-assertion of the historically existing people in an act of decision which at the same time is an act of authenticity, in the present. In the supreme mobilization of the decision the historically existing Russian people reveals, recaptures and mobilizes its timeless historical uniqueness and identity. Therefore the political and historical future of Russian people is build on understanding and affirmation of its historical past...

If the Russian people can self-assert themselves and their historical choice in this fateful and dramatic juncture, and if the Russian people are able to reveal and designate friends and enemies, recapturing from the flow of history its political self assertion, then the supreme political decision of the Russian people would be an authentic, historical and existential decision , an affirmation of thousand years of history of Russian people and the Russian state. If on the other hand political decisions will be taken by others, i.e. by the United States in the guise of the insidious ideology of pseudo universalism, which the United States is in the process of establishing as the only legitimate ideology in the New World Order, then our future will be un-Russian, i.e. the future will cease to exist for us. The historical Being of Russian people, Russian state and the Russian nation will became a Being without a future and thus a non-Being. Thus also Russian past will loose its meaning, will dissipate into nothingness: the historical drama of Russian history in the post-Gold War period will became a tragedy of submission under the dictates of the American New World Order, a tragedy of annihilation of Russian future».(21)
«Past, present, and future are existential characteristics, and thus render possible fundamental phenomena such as understanding, concern and determination. This opens the way for the demonstration of historicity as a fundamental existential determination.»(22) Alexander Dugin emphasizes that the essence of a nation’s being-in-the world is a hermeneutical process of questioning and problematization of a crisis situation, a state of emergency. The concept of political existence of the Russian nation is actualized in a time of radical disintegration and regression, a time of emergency and outer and inner danger which creates awareness of being situated in a crises which must take on a political form. The understanding of the political roll of Russia in contemporary world after the dissolution of the Soviet Union, is a power to grasp the nation’s possibilities for being, which by necessity not only requires a disclosure of the nation’s concrete potentialities for being, in a sense of preserving itself and maintaining its own authenticity, but also the revealment of the sources for an inauthentic national existence. This revealment presupposes the identification of the foe which in the process of a national self-understanding becomes manifest; the hermeneutical circle thus closes - the reached understanding leads to resoluteness and demands a political decision on the part of the Russian nation;(23) because the potentiality for authentic national Being remains a mere potentiality unless accompanied by political decisionism. It is the decision to choose itself and thereby to oppose the foe and thus become political, which is the supreme political act of the nation. Those are the issues that are entertained in the most recent issues of Elementy (Elements), the ideological organ of the Russian opposition, dedicated to geopolitical discourse and ideological alternatives in the post-Cold War Russia, a period in which in the words of Aaron Friedberg, Professor in political sciences in Princeton, « the United States has emerged as a single, unchallenged ‘Great Satan’, against whom all ideological energies must be mobilized». The magazine is published by the Center for Special Meta-Strategical Studies in Moscow and beside Alexander Dugin, who is the publisher, lists among its co-editors the editor of the most important opposition newspaper Zavtra (formely Den’), Alexander Prochanov, the New European Right’s ideologists Alain de Benoist (editor of the French magazines Neuvelle Ecole, Elements, Krisis), Robert Steuckers (editor of the Belgian magazines Orientations, Synergies Europeennes and Vouloir) the Italian geopolitician Claudio Mutti, the Serbian geopolitician Dragosh Kalajic, as well as the controversial Russian politician and member of the former Parliament, colonel Victor Alsknis.(25) The interesting issues contain a translation of Carl Schmitt’s essay on “Nomos and the principle of Grossraum”, Karl Haushofer’s work on “Continental geopolitical unity” as well as contributions of authors such as Alain de Benoist and the Austrian general Heinrich Jordis von Lochhausen, the foremost theoretician of contemporary geopolitics and advocate of European liberation from American occupation. Alexander Dugin must be credited with both political imagination and ideological creativeness. He introduces a new vocabulary of resistance. In the tradition of a true iconoclast he identifies not only the foe of Russia and, in the future, of Europe— the United States , but also exposes the most pervasive ideological mystification— Der Mythus des 20. Jahrhunderts— namely the Myth of American Democracy and its claim of pseudo-universality. And finally he argues for the establishment of a new Grossraum in Europe, Pax Euroasiatica , opposing Pax Americana, and based on a coalition of Russia with Central European powers such a Germany and France—a new geopolitical continental block. In essence this concept could be described as a Monroe Doctrine for Europe which will exclude every American intervention in European affairs as well as necessitate a dissolution of NATO and withdrawal of all American military forces from European soil. A Monroe Doctrine for Europe is also a radical departure from the established American paradigm of international order- defined by Zbigniew Brzezinski as »American domination of Europe is axiomatic»(26) —,a paradigm that has been transformed into oppressive political theology and exercise of American hegemony. The relevance of Dugin’s writings as well as the magazine Elementy lies in the formulation of the geopolitical doctrine of Eurasian defense against American expansionism. The geopolitical discourse translates itself into a vision of future liberation which, according to Dugin, must become a categorical imperative for Russia’s-being-in the-world.


THE PRINCIPLE OF GROSSRAUM

The most fundamental principle in geopolitics is the principle of Grossraum formulated by Carl Schmitt in his book “Voelkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot fuer raumfremde Maechte” and seen by him as a foundation for the science of international law. A Grossraum is «an area dominated by a power representing a distinct political idea. This idea was always formulated with a specific opponent in mind; in essence, distinctions between friend and enemy would be determined by this particular political idea. As an example Schmitt cited the American Monroe Doctrine and its concept of nonintervention by foreign powers in the American Raum»(27) This is the core of the great original Monroe Doctrine, a genuine Grossraum principle, namely the union of a politically-awakened people, a political idea and, on the basis of this idea , a politically-dominant Grossraum excluding foreign intervention.(28)

According to the concept of Grossraum the national sovereignty of a country depends not only on its military power, technological development and economic base but also on the size and geographical location of its land. The sovereignty of a country depends on its geopolitical independence and self-sufficiency of the geographical region. Countries that strive to achieve sovereignty must resolve the problem of territorial self-sufficiency. The Grossraum is a geopolitically unified and economically autarchic space— a spatial power. It is a «territory with rounded-out production and consumption which, if necessary, may exist by itself within closed doors.»(29) As such it protects itself from intervention by spatially alien states and from any other potential Grossraum,(30) and above all from American «Open Door» imperialism—defined by Isiah Bowman as American version of Nazi-Germany’s Lebensraum—in its geopolitical, economical or military manifestation.
Prior to the dissolution, or as Alexander Dugin claims, subversion of the Soviet Union in 1991(31) , in the bipolar world of two Superpowers , there existed two competing Great Areas (Grossr?ume) or two opposing political blocks, each with its sphere of influence and ideology: the Atlantic Grossraum dominated by the United States and the Eurasian Grossraum dominated by the Soviet Union. The political competition between the two blocks gave a substantial latitude for autonomy and independence for countries included in the sphere of influence of the two blocks. However after 1991 a completely new world system has been created. The bipolar world landscape of two superpowers has been transformed into a mono landscape of one superpower imposing its will on the rest of the world.

«The existence of the socialist block and the Warsaw Pact was a decisively positive factor for the prospective European unity, continental integration and future sovereignty of Eurasia. The end of the bipolar world and the emergence of the unipolar New World Order, is a blow on Eurasia, a blow on the continentalism and on the future of all Eurasian countries. If Russia would not immediately start to reconstruct her Greater Area (confirmed by the Helsinki Agreement) ...she would bring to a catastrophe not only herself, but also all people on the World Island...Today Russia, situated in the heart of the Eurasian continent, represents from a geopolitical point of view Europe as a continental block. Therefore the geopolitical interests of Russia and Europe not only confluence but are identical.»(32) In order to understand the historical background of the conflict between the Atlantic Grossraum and the Eurasian Grossraum as well as Dugin's analysis of the American New World Order as a final attempt by the United States for world domination, — a Monroe Doctrine for the whole world as envisioned already by President Wilson at the end of the WWI—, a short account of geopolitical concepts is necessary.

It was the British author Halford Mackinder who in 1904 proposed the notion that the continental part of Eurasia, by virtue of its land mass and geo-strategical importance, forms the world Heartland. The power that controls the Heartland threatens the sea powers-once Great Britain, now the United States—that control the World Island— that is our planet. In 1919 he claimed the necessity for control of the Eastern Europe by the sea power. After the Versailles settlement the new Eastern European countries, concieved as exclusive sphere of influence of the sea powers, had to form a cordon sanitaire between Germany and Russia preventing the geopolitical consolidation of Eurasia. «Who rules East Europe commands the Heartland. Who rules the Heartland commands the World Island. Who rules the World Island commands the World,»(33) asserted McKinder.

In 1943 MacKinder reformulated his theory— the state that controls the Heartland will dominate the World Island.(34) At the same time McKinder acknowledged that «The Heartland is the greatest natural fortress on earth. For the first time in history it is manned by a garrison sufficient both in number and quality»(35) The American geopolitician Alfred Mahan formulated the idea that world hegemony of sea powers can be maintained by control of series of bases around the Eurasian continent. Sea powers could dominate land powers by enclosing them in. The American geopolitician Nicholas Spykman developed the concepts of MacKinder and Mahan but put the emphasis on the control of Eurasian coastal regions which he called the Rimland or Inner Ring. He maintained that the United States could assert control over the Heartland by controlling the Rimland. The Rimland can be seen as an America controlled buffer zone or a huge Cordon Sanitaire, including the NATO countries, Scandinavia, China, India and Indochina. In spite of prolonged wars—the Korean War, the occupation of Taiwan, the war in Vietnam—, the United States has never been able to fully dominate the countries of the Rimland and thus to globalize her Grossraum. The theory and practice of containment born of the Cold War—United States creating NATO, SEATO (Southeast Asia Treaty Organization) and CENTO (Central Treaty Organization), putting bases surrounding the Soviet Union, maintaining puppet regimes around the world, are derived from MacKinder’s, Mahan's and Spykman’s geopolitical ideas. If Soviet Union was a fortress, «then to deal with a fortress is to surround it and seal it...This is known as containment»(36) Heartland theory stands as the first premise of the United States geopolitical doctrine and military though during the Cold War. American containment policy «represented a validation of MacKinder«(37) and acceptance of the necessity of destruction of the Hartland. NSC-68 was a statement of this primary objective of the American postwar foreign policy: world domination through destruction of the fortress Hartland— the Soviet Union—and imposition of preponderance of American power in Eurasia. Also U.S. primary foreign policy objective in the New World Order —the conquest of Eastern Europe through «inclusion» of the former Warsaw Pact countries in the military instrument of the global Monroe Doctrine— NATO, is derived from both MacKinders ideas and identical objectives in NSC-68.

One can see the similarities between MacKinder’s and Frederick Jackson Turner’s geopolitical ideas,(38) between the MacKinder’s assertion that the geopolitical dynamics inevitable will lead to a creation of one World Empire (an Anglo-Saxon) and Turner’s «frontier thesis» , defining the essence of the United States as perpetual expansionism. The merger of the Monroe Doctrine, the «Open Door» imperialism and geopolitics in the frontier-expansionist Weltanschaung which has defined the U.S. foreign policy during this century, led after the end of the W.W.II to the grand design of an American Century and an American World Empire enbracing the globe.(39) NSC 68 was a statement of strategy and tactics to achieve those objectives.

However the contraposition between the Atlantic Grossraum and the Eurasian Grossraum does have, according to Dugin, even a wider and more profound context that transcends the geopolitical power competition. In this conjunction one can recall de Gaulle objections in the past to Britain’s entry into the Common Market based on his perception of England as a type of civilization different from that of Europe . The English, as he saw it, were lacking cultural and historical identity with the Continent and were not interested in building a Europe distinct from America. «England is, in effect, insular, maritime, linked through its trade, markets and food supply to very diverse and often very distant countries. Its activities are essentially industrial and commercial, and only slightly agricultural... In short, the nature, structure and economic context of England differ profoundly from those of other States on the Continent.»(40) For Dugin the Atlantic Grossraum and the Atlanticism versus the Eurasian Grossraum and the Eurasianism represent two different paradigms of societal organization that can not be reconciled. Halford Mackinders geopolitical theories as well as Carl Schmitt’s work “Land und Meer” and to a lesser extend Oswald Spengler’s “Prussentum und Socialismus” and Werner Sombart’s “Haendler und Helden”, form here the theoretical framework. Dugin distinguishes two types of civilization: sea-oriented Atlantian and land-oriented Continental or Eurasian and sees the future rapprochement between Russia and Western European countries on the basis of the principle called Continentalism or Eurasianism, which he opposes to English and American Atlanticism. The antagonism between Atlanticism and Continentalism/Eurasianism, between a seagoing civilization and land civilization, goes back to ancient times, constituting the major tension of world history.(41) Atlanticism, exemplified by the legendary Atlantis, by ancient Carthage and by contemporary England and the United States, is characterized by the spirit of trade and profit and it values mercantilism and cosmopolitanism. Continentalism, best represented by legendary Hyperborea, and by historical Roman, German and Russian Empires, emphasizes the organic unity of people in their spiritual bonds with the earth and their fidelity to national tradition. Thus the very form of the landmass supporting a people influence the substance or their culture and national character. «In ancient history a sea power that become a symbol for sea civilization was Phoenicia-Garthage. The land civilization in opposition to Carthage was then the Roman Empire. The Punic wars reflected the irreconcilable differences between the sea-oriented and land-oriented civilizations. In modern history the Queen of Seas - Great Britain - raised as the sea pole of world politics, later to be overtaken by the United States. In the same way as Phoenicia and Carthage in the past , Great Britain used in the first place commerce, trade and colonialism as instrument for her hegemony. The geopolitical paradigm of Anglo Saxon sea orientation created a particular ‘commercial-capitalist-market’ oriented civilization, based primarily on economic and material interests and on the principles of economic liberalism. In spite of historical variation, the most common type of ‘sea civilization’ has always expressed the fundamental idea of the ‘primacy of economics over politics’. Mackinder clearly shows, that during the period of modern history ‘sea orientation’ meant Atlanticism, and today sea powers are United States and England, also the Anglo Saxon countries. In opposition to the Atlanticism stands the Eurasianism, the land based civilization. In modern history the Eurasian orientation is above all characteristic for Germany and Russia. Therefore the historical tradition of those countries has been and would be in opposition to the ideology and the geopolitical interests of the Atlanticist- the United States. Whereas Atlanticism can be equated with capitalist individualism, economic liberalism and commercial notion of imperialism, Eurasianism means communitarianism, social welfare, economic democracy , the precedence of general welfare over self-interest, of the societal ‘whole’ over the parts, and the primacy of politics over economics.»(42) Referring to the fundamental differences between the two paradigms of societal organization, Dugin projects that the world will one day witness a war between Eurasian continentalism, championed by Russia, and the global Atlanticism—the New World Order—, upheld by the United States, or, as Alain de Benoist writes: « Eurasia against America would be the decisive battle of the future. The United States is the enemy of humankind-hostis humani generis-, the Carthage that must be destroyed.»(43)


THE NEW WORLD ORDER

The essence of the New World Order proclaimed by President Bush , and terminologically and conceptually borrowed from the lexicon of Nazi Germany, as well as Woodrow Wilson’s expansionist ideas of a Monroe Doctrine for the whole world, is a new geopolitical project to transform the world into a single Grossraum- in Carl Scmitt’s thought a new Nomos of the Earth—, dominated, controlled and orchestrated by the United States with the corollary of subversion of international law, the United Nations and the sovereignty of other countries except the United States. United Nations is bound to loose all significance, becoming a disciplined puppet and instrument of American expansionism and assertion of global jurisdiction and system of interventionism, a sort of pseudo legitimizing facade through which U.S. will unilaterally act to further her expansionist interests. What seems to be in the future is a global Latin-Americanization of the world with the United Nations reduced to a sort of OAS (Organization of American States ) , i.e. a well-behaved puppet in American hands. «It is obvious that the American concept of Atlantic Grossraum - the American New World Order - totally excludes any form of real state’s and political sovereignty on part of any other country and people. The preexisting bipolar world prior to 1991 gave incomparably more freedom and sovereignty to countries that were included in the sphere of influence of the then existing Superpowers and competing Grossr?ume. The emerging Atlantic Grossraum of the American architects of the New World Order will lead to disintegration of the very principle of state sovereignty because power suppression - by military and economic means- will become the only instrument of control.

The new situation in the world puts other countries, and in particular the countries that previously were members of the geopolitical block opposing the Atlantic Alliance, before the following alternatives: either a forced integration in the U.S. dominated New World Order— the Atlantic Grossraum— with subsequent renunciation of their sovereignty, or a creation of a new Grossraum which will be able to oppose the United States and thus will give them chance to preserve their sovereignty and cultural autonomy».(44)

History in general and U.S. behavior in particular show us that predatory countries abhor power vacuum. It is certain, and it is happened, that the United States would hasten to exploit the withdrawal of Soviet Union from the word arena and impose unilateral advantage over other countries until now protected by the balance of power and the U.S. -Soviet competition. In retrospect one may say that the end of the Warsaw Pact and the dissolution of the Soviet Union have gone a long way toward decreasing stability in Europe and elsewhere.

A substantial part of Alexander Dugin’s geopolitical analysis is focused on the Pentagon’s Defense Planning Guidance , drafted under supervision of Paul D. Wolfowitz, the Pentagon’s Under Secretary for Policy, and provided to the New York Times in February of 1992,(45) and which in all respects could be called a blueprint for total domination of the world. In the 46-page classified document the Defense Department asserts America’s political and military will be to insure that no rival superpower is allowed to emerge in Western Europe , Asia or the territory of the former Soviet Union. American mission and strategy is summarized in the document as follow: «Our first objective is to prevent the reemergence of a new rival, either on the territory of the former Soviet Union or elsewhere, that poses a threat on the order of that posed formerly by the Soviet Union. This is a dominant consideration underlying the new regional defense strategy and requires that we endeavor to prevent any hostile power from dominating a region whose resources would, under consolidated control , be sufficient to generate global power. These regions include Western Europe , East Asia, the territory of the former Soviet Union, and Southwest Asia. There are three additional aspects to this objective: First , the U.S. must show the leadership necessary to establish and protect a new order that holds the promise of convincing potential competitors that they need not aspire to a greater role or pursue a more aggressive posture to protect their legitimate interests. Second, in the non-defensive areas, we must account sufficiently for the interests of the advanced industrial nations to discourage them from challenging our leadership or seeking to overturn the established political and economic order. Finally we must maintain the mechanisms for deterring potential competitors from even aspiring to a larger regional or global role...

... NATO is the primary instrument of Western defense and security, as well as the channel for U.S. influence and participation in European security affairs. While the United States supports the goal of European integration, we must seek to prevent the emergency of European only security arrangements which will undermine NATO».(46)
The document further outlines strategies to subvert the United Nations by substituting it in reality with the United States dominated and controlled NATO and also postulates the right of the U.S. to sidestep United Nations in acting independently and unilaterally.(47) The political development since 1991 can only be described as determined implementation of the American master plan for world domination, outlined in the Pentagon’s Defense Planning Guidance which is a mirror image of identical objectives stated in NSC-68. The document is interesting, as Dugin points out, because it allows for the obvious conclusion that the future enemies of the United States could be her former allies and that the threat that U.S. poses against the Russia now may become a threat against France, Germany and Japan tomorrow. And it is just a matter of time before the antagonism between Western European countries and U.S. will surface and articulate itself as opposition between different national interests. Despite the political transformation in Europe United States has resolved that NATO and the U.S. military presence on the continent should be a permanent geopolitical fixtures. Disbanding of the Warsaw Pact in July 1991 was not followed by the disbanding of NATO . The American alarm concerning the prospect of creation of a Franco-German joint force is understandable since such force will not only inevitably lead to assertion of sovereignty on part of European countries (48) but also to articulation of European identity and collective national interest different from that of the United States. The difference in national interest’s is emphasized by general H.J. von Lochhausen who in his article “The War in Iraq is a War Against Europe” writes: «U.S. has understood that in order to maintain its worldwide domination she must position herself against her enemies of tomorrow i.e. Japan and united Europe. U.S. has chosen to take a firm control of those oil resources on which Japan and Germany will depend in the future ...The war in Iraq was such positioning and it was made possible only because the Soviet Union was eliminated as a player on the world arena and thus also as a deterrent to American aggression. One must remember that the country that controls the oil in the Persian Gulf controls also Western Europe and Japan...And it is deeply disturbing that U.S. forced Germany and Japan to finance the war which ultimately was aimed to their weakening and control in the future».(49) To a similar conclusion comes Samir Amin who points out that »I believe that the decision to go to war in the Gulf was taken deliberately by Washington as a method of preventing the formation of ‘European bloc’ :by weakening Europe (the supply of oil now being unilaterally controlled by the United States; by revealing the essentially fragile political union of Europe...and by neutralizing Moscow».(50)



THE NEW WORLD ORDER AND INTERNATIONAL LAW

I would like to examine in more detail two issues that are central to Alexander Dugin’s criticism of the New World Order namely the framework of new international law it creates and its consequences for Russia and Europe as exemplified by the war in Yugoslavia. The issue of international law can be seen in the light of Dean Acheson’s statement concerning the American concept of sources of and obligations under international law. »Much of what is called international law is a body of ethical distillation, and one must take care not to confuse this distillation with law...Further, the law trough its long history has been respectful of power, especially that power which is close to the sanctions of law...the law simply does not deal with such questions of ultimate power- power that comes close to the sources of sovereignty»(51) , and the tendency on the part of the U.S. to assert her will as the sole source of international law. In this conjunction it is interesting to recall that already de Gaulle saw at the end of the World War II in President Roosevelt’s grand design for United Nations not only America’s bid for world hegemony through creation of international body subservient to and controlled by the United States but also «a permanent system of intervention that he (Roosevelt) intended to institute by international law»(52) , a design that re-emerged and came to realization in the New Word Order. The war in Yugoslavia on the other hand is of particular importance since it has been perceived in Russia not only as a contemporary analogy to the Spanish Civil War with the U.S. assuming the role of the former fascist powers but also as a general rehearsal to what may happen to Russia in the event U.S. gains a strategic nuclear superiority. And as before during the 30-ties in Spain a number of Russians has volunteered to serve in the Serbian forces.(53) A particular alarm in Russia has caused the so called Presidential Directive 13 which outlines American plans for massive cover operations as well as outright military intervention in Russia under the familiar disguise of so called peace keeping operations in former Soviet republics and formulated with the objective to prevent any recognition of a Russian Monroe Doctrine in the former Soviet Union.(54) A starting point for the analysis of the transformation of the concept of international law must be a discussion on the nature and development of the unilaterally proclaimed Monroe Doctrine which from its very inception has been the ideological basis of American imperialism and assertion of an ever increasing extra-territorial jurisdiction. The Monroe Doctrine designated an area far exceeding the territory of the United States- The Western Hemisphere- as a Grossraum with the U.S. assuming the role of imperial power vested with absolute sovereignty in the region while depriving other countries in the same region of rights to sovereignty and self-determination.(55) U.S. unilaterally reserved for herself the right of intervention in the Western Hemisphere creating a qualitatively new form of colonialism with the right of intervention as a cornerstone for political control and domination. The essence of the Monroe Doctrine and its subsequent codification in the Rio Treaty, is the repudiation of the main principle of the United Nations Charter namely the principle of equality and sovereignty of nations on which the body of international law rests. And already Hegel knew that international law-jus gentium-presupposes and is based on sovereignty of states. In a situation where only one state in the international community is a possessor of absolute sovereignty, the international law as such can not exist- it will be the application of the domestic law of the dominating state disguised into an universal principle.(56) After the conclusion of the W.W.I, at the Paris Peace Conference, which resulted in the signing of the Treaty of Versailles and creation of the League of Nations , president Woodrow Wilson presented his Fourteen Points which proclaimed a new universalism as well as , employing what later will be called a Orwellian New Talk, the right of self-determination as a foundation for the postwar world order. At the same time his Secretary of State, Robert Lansing, wrote a memorandum explaining the meaning of the Monroe Doctrine : «In its advocacy of the Monroe Doctrine the United States considers its own interests. The integrity of other American nations is an incident, not an end. While this may seem based on selfishness alone, the author of the Doctrine had no higher or more generous motive in its declaration.»(57) United States refused to enter the League of Nations unless its "Charter incorporated the Monroe Doctrine - a demand less concerned with the right of self-determination than with American domination in the Western Hemisphere. As it turned out, even though Art. 21 of the Chapter did incorporate the Monroe Doctrine, the U.S. did not join the League. In Schmitt’s view, Art. 21 symbolized the triumph of the Western Hemisphere over Europe.»(58) the grand design of President Wilson was to transform the Treaty of Versailles and its creation, the League of Nations , into a instrument of American imperialism and dominance of Europe.(59)

Of particular interest are United States fifteen reservations which did not provide for ratification but, rather, for the nullification of the Treaty. Some of those reservations form a distinct doctrinaire body concerned with the nature of U.S. obligations under international law.
1. The United States so understands and construes article 1 that in case of notice or withdrawal from the League of Nations...the United States shall be the sole judge as to whether all its international obligations and all its obligations under the said covenant have been fulfilled...

4. The United States reserves to itself exclusively the right to decide what questions are within its domestic jurisdiction and declares that all domestic and political questions relating wholly or in part to its internal affairs ...are solely within the jurisdiction of the United States and are not under this treaty to be submitted in any way either to arbitration or to the consideration of the council or of the assembly of the League of Nations, or any agency thereof, or to the decision or recommendation of any other power.

5. The United States will not submit to arbitration or to inquire by the assembly or by the council of the League of Nations, provided for in said treaty of peace, any questions which in the judgment of the United States depend upon or relate to its long-established policy, commonly known as the Monroe Doctrine; said doctrine is to be interpreted by the United States alone and is hereby declared to be wholly outside the jurisdiction of said League of Nations...

14. ..The United States assumes no obligation to be bound by any decision, report, or finding of the council or assembly arising out of any dispute between the United States and any member of the league.(60)

Those reservations express the specific American dualistic position in respect to international treaties: treaties are to be used as a vehicle for other countries to assume obligations while the U.S. does not assume any obligations.(61) Treaties were to be so designed solely to promote United States interests by securing action by foreign governments in a way deemed advantageous by the U.S. and not for the U.S. to undertake any international obligations. The purpose of this dualistic doctrine has historically been to solidify and promote American hegemonical claims. Recognizing the true nature of the pseudo-universalism of the international law created after the W.W.I which appeared not to rest on respect for existing sovereignties but was merely a pretext for complete political and economic domination by the United States, Carl Schmitt wrote that «Behind the facade of general norms of international law lies, in reality, the system of Anglo-Saxon world imperialism»(62) After the W.W.II United States needed a further disguise to unilaterally assert U.S. power and to underscore Washington’s hemispheric hegemony. It resulted in a creation and signing of the Interamerican Treaty of Reciprocal Assistance, signed in Rio de Janeiro in September of 1947, and a subsequent pact concluded in Bogota in April of 1948, which established the Charter of the Organization of American States (OAS). The significance of the Rio Treaty goes beyond the formal codification of the Monroe Doctrine. First, in view of the fundamental professed principle of the Charter of the United Nation namely the principle of sovereignty and equality of member states , a regional treaty which in substance repudiates the very principle of sovereignty save for the sole sovereignty of the United States , must be seen as incompatible with the U.N. Charter. Secondly OAS became a prototype of a pseudo-international organization with a pseudo-universal ideological facade, an instrument for American interventionism in the region. And finally it must be seen as a paradigm of American concept of organization of a Grossraum in particular and World Order in general the globalization of which is the very essence of the New World Order. Or as Noam Chomsky points out « For the U.S. , the Cold War has primarily been a history of worldwide subversion, aggression and state-run international terrorism, with examples to numerous to mention. Secondarily , it has served to maintain U.S. influence over the industrial allies, and to suppress independent politics and popular activism.»(63) An additional aspect of the New World Order seems to be the U.S. repudiation of one of the most fundamental rules of international law namely that treaties must be performed in good faith; the rule of “pacta sunt servanda”. The massive cover operations undertaken by the United States in Poland during the 80-ties after President Reagan signed a secret national-security-decision (NSDD 32)(64) that authorized a wide range of subversive measures by the CIA to destabilize the country , were motivated by the U.S. resolve to nullify the Yalta Agreement.(65)

The U.S. invasion of Panama in December of 1990 was based on the Washington design to prevent the effect of the treaty that would transfer the control over Panama canal to Panama. I can certainly agree with Noam Chomsky’s conclusion that the Panama war which resulted in more than 20.000 civil casualties «is a historic event in one respect. It is the first U.S. act of international violence in the post-World War II era that was not justified by the pretext of a Soviet threat.»(66) And finally the war in Yugoslavia and the subsequent partition of the country which, historically seen, is almost analogous to Hitler’s partition of the country: a Croatian puppet state has been established by the neo-Ustachi. The general perception in Russia is that the so called Bosnian forces, promoted by the U.S. , are no more than the equivalent of the so called Contras in Nicaragua and the war is the first example of Latin-Americanization of Europe. But the partition of Yugoslavia, which in not so distant past was one of the leaders on the non-aligned countries, is seen as a flagrant violation of the Helsinki Accord of 1975 which essence was inviolability of frontiers and territorial integrities of states as well as guaranties of sovereign equality of nations and respect for the rights inherent in sovereignty(67) and on which all security arraignments in Europe were based. In pertinent part the Helsinki Accord states that:

The participating States will respect each other’s sovereign equality and individuality as well as the rights inherent in and encompassed by its sovereignty, including in particular the right of every State to judicial equality, to territorial integrity and to freedom and political independence...The participating States regard as inviolable all one another’s frontiers as well as the frontiers of all States in Europe and therefore they will refrain now and in the future from assaulting these frontiers...
The participating States will respect the territorial integrity of each of the participating States. Accordingly, they will refrain from any action inconsistent with the purposes and principles of the Charter of the United Nations against the territorial integrity, political independence or the unity of any participating State, and in particular from any such action constituting a threat or use of force.

While the partition of Yugoslavia must be seen as violation of the Helsinki Accord, the issuing war and the U.S. outright military intervention and occupation of part of Yugoslavia—Bosnia—,do have wider implications since those measures involve and articulate the relationship between the U.S. and the United Nations. Summarizing the intentions of Washington William Safire in an article in the New York Times(68) writes concerning the prospective air-strikes against Serbian forces that the Clinton Administration has adopted a new resolute policy vis-?-vis the United Nations- «Don’t ask, tell Policy...Coercive diplomacy would become the order of the day» A State Department spokesman, Michael McCurry, asserted that « The United States would be ready to carry out an air campaign against advancing Serbian forces whether or not it received the approval of European allies at a NATO meeting in Brussels on August 2, 1993.»(69) He further omitted all references to any necessary authorization by the United Nations.

Although the Clinton Administration was rebuffed by the U.S. Secretary General who rightfully asserted that the U.S. does not have jurisdiction over U.N. forces and that furthermore, any decision in respect to air-strikes must be sanctioned by the United Nations(70) , United States has persisted in claiming that U.S. alone can decide whether or not to strike. Or as the former State Department official John Bolton correctly pointed out:

«We are the central multilateralists. The idea that there is some collective international will out there is just fairly land stuff. The true measure of America’s diplomatic clout will always be the military resources we are willing to commit.»(71) After a meeting in Washington with Alija Izetbegovic, the U.S.’s man in Bosnia, and a former officer of the Waffen SS (72) , President Clinton stated on September 8, 1993, that any military intervention in Yugoslavia must be undertaken «by a peacekeeping force from NATO — not the United Nations but NATO». The French reaction was understandable. Richard Duque, a spokesman for the Foreign Ministry, said France believed that any such operation should be «under the authority of the United Nations».(73) The French reaction must be seen also in light of the Defense Secretary Les Aspin’s assertion that any peacekeeping forces should be under NATO command, that is, under the ultimate direction of the Supreme Allied Commander, a post always held by an American officer. France however does not belong to the NATO’s integrated command and apparently sees the American statements as an attempt to infringe upon her sovereignty. The American objectives in Yugoslavia were fully realized. For all practical purposes NATO tog over all the essential functions of the United Nations, in fact replacing the United Nation. The Daytona «agreement» seen by many as a Second Munich , embodied not only the essence of the diplomacy of ultimatums but also the American attempts to subvert the of international law. In fact the Daytona Agreement is a nullity according the international law(74) . The agreement, modeled after the Platt Amendment in regard to Cuba, created a virtual American protectorate in Bosnia. The French geopolitician General Pierre-Marie Gallois, one of the leaders of the Resistance movement during the WWII, the creator of the military doctrine of France and one of the closest advisers of General de Gaulle sees the war and the partition of Yugoslavia as an integral part of the American design for world domination, embodied in the concept of the New World Order. And thus it serves the geopolitical strategy of the ultimate extension of American Lebensraum—the Monroe Doctrine for the whole world. In his words one can hear the voice of General De Gaulle: «The pursuit of truth and justice made me involved in a resolute struggle against the greatest absurd and evil which flow out of the totalitarian idea of the New World Order. The partition and destruction of Yugoslavia , the aggression against Iraq , the murder of hundred of thousands of innocent civilians in Iraq, all those abominable acts are all but pages of the same scenario: the imposition of the evil will of one over all who are perceived as obstacles for the imposition of American Weltherrschaft over humankind...It is rather obvious that the partition of countries in Europe has not ended yet.
Our participation in NATO and the occupation of Yugoslavia is a threat to the independence of France, a betrayal of our national interests. The Balkan crisis is an expedient device to justify the unjustifiable: the expansion of the American military presence in Europe. And at the same time UN, rather than being an institution for promotion of international understanding and peace, has been transformed into an instrument for collective aggression. NATO is not on a peace mission in Yugoslavia. NATO’s forces in Yugoslavia are an act of aggression, an act of outright occupation.»(75) At the same time, points and emphasizes Galouas , the war in Yugoslavia, serves an important geopolitical purpose, designed to imperil the desire for geopolitical independence of Europe: «Germany will grow stronger and soon she would no longer tolerate the presence of American military forces on her soil. Therefore a reserve position for the American NATO forces is necessary, the addition of an ideal geopolitical region for stationing and regrouping of the military instrument of American foreign policy. Albania, Bosnia and Macedonia form that region...The world according to American recipes is an absolute and total negation of the old tradition of respect for rights and freedoms. After the genocidal bombing of civilian Serbian targets and the economic embargo serving the same purpose—weakening of the Serbs—, United States created Bosnia as her protectorate...That is abominable. But those atrocities serve the overriding geopolitical goal of the United States: to remain in Europe at any cost...Dayton Agreement is the latest embodiment of the new American diplomacy, aggressive and uncompromising , confident in its power, the diplomacy that knows and uses only the language of ultimatums...

U.S. literally bombed to pieces Iraq, poisoned the nature and the ecological environment , with unparalleled barbarity killed hundreds of thousands of civilians, only in order to control the supply of oil and dictate its price as it pleases Washington...As a result of the embargo against Iraq 570.000 civilians were murdered....And this is a crime against humanity par excellence.
And again and again decisions are made in Washington which will result in murder of innocent elderly, sick and poor. And then Washington dears to teach the world morality...Or take the so called War Tribunal in Hague, allegedly set up to represent moral and truth but in reality an instrument of war (war with other judicial means) and continuous aggression against the Serbs.(76) What better evidence of the absurdity of this tribunal than the fact that there were no war crime tribunals for all war crimes and crimes against humanity committed during the bombing of Dresden and Hamburg, the nuclear annihilation of Hiroshima and Nagasaki, for the massive war crimes committed in Vietnam, an for the war crimes committed in Iraq during the operation Desert Storm. It is as if all those massive war crimes did not happen or were insignificant compared to the Serbs resistance against the conquest of their country...I can not accept such perverted American logic, and I am very sorry that my country is forced to participate in those American atrocities.(77)

The obvious conclusion is that the partition of Yugoslavia, and the subsequent war, serve several purposes:
a. Expansion of the American Grossraum with the establishment of a Bosnian puppet state controlled by the U.S., as well as, in all probability, establishment of U.S. permanent military bases on the Adriatic;
b. Prevention of the emergence of any independent European foreign policy initiatives and thereby the emergence of Europe as an unified new Grossraum;
c. Consolidation of the control over the Rimland;
d. Abrogation, in fact, of the Helsinki Accord;
e. Subversion and factual demise of the United Nations as an international body and finally
f. A rehearsal for, as it is perceived in Russia, an impending war of aggression against Russia. In any event, it is quite obvious, that substitution of United Nations with NATO will render the veto power of the permanent members of the U.N. Security Council inoperative, which will effect the interests of not only Russia but also France and China. If the incorporation of the Monroe Doctrine in Article 21 of the Chapter of the League of Nations signified the subversion of the universality of international law and Europe’s defeat by the U.S. , the war in Yugoslavia and air-strikes against Serbian forces signifies even more important historical event namely the subversion of the United Nations and its transformation in the future , if U.S. is not resolutely opposed , to a functional equivalent of the OAS i.e. to a pseudo-international body serving as a rubber stamp for American hegemony and wars of aggression disguised as so called peace keeping operations in countries that, prior to the peace keeping initiatives, have already been destabilized by the U.S. covert and overt subversion. The partition of Yugoslavia can very well became a second Munich for Europe. It is obvious that Washington is seeking to impose its absolute authority over the rest of the world. To achieve this aim United States will have to effect the complete subversion and forcible destruction of the machinery of government and structure of society in , above all, former socialist countries and their replacement by an apparatus and structure subservient to and controlled from Washington.

Hitler left the League of Nations preparing for aggressive wars; United States strategy on the other hand is much more dangerous - the subversion of the United Nations to further the same end . Recognizing the changing nature of the United Nations in the post 1991 era and the issuing crisis of legitimacy, one of the founders of the National Salvation Front in Russia and the former editor of the Military-Historical Journal general B. Filatov wrote that
«When the National Salvation Front comes to power and that will happen very soon, we will leave the United Nations which has become a fascist punitive organization, an instrument of CIA. We will put our rockets on alert. Then we will see who will dare to attack Serbia.»(78) The necessary strategy for Russia and other European countries, Germany and France above all, must be a geopolitical project to create a new Grossraum - Pax Eurasiatica- in opposition to Pax Americana and its corollary , the New World Order, because only in opposition to the United States can Europe begin an independent geopolitical life and reach a genuine emancipation, writes Dugin. The purpose of a new Kulturkampf is to problematize the American hegemony as a threat to Europe as a historical formation in general and to its culture in particular. Finding the authenticity of European destiny and political life implies by necessity a rejection of any false claims of universalism advanced by the U.S., which to its substance is both an ideological facade and concealment of American particular national interests. European revival is conditioned upon the dissolution of NATO which today is solely an instrument of American control over its alleged allies and a pretext to maintain U.S. occupation forces in Europe /for more than one hundred years» as President Bush asserted. The strategical objectives of the U.S. controlled NATO have been defined by Wolfram Hanrieder in his book Germany, America, Europe(79) as a strategy of «double containment»: containment of the Soviet Union in the past on one side and of American allies on the other. «The logic of this strategy was put bluntly by Lord Ismay in his famous dictum about NATO’s purpose in Europe (which could have described the U.S. policies toward the Japanese) ‘Keep the Americans in, the Russians out, and the Germans down.’»(80) Europe as a collective entity must enter the famous hermeneutical circle and walking there must find the truth about its separate and unique collective existence which during the Cold War years has been concealed. As Heidegger has pointed out , the attempt to achieve national authenticity is always expressed in resoluteness and resoluteness is the true substance of Kulturkampf.

Dugin proposes the revival of the concept of Mitteleuropa, originally formulated by Friedrich Naumann, as an ideological platform for a new geopolitical orientation opposing Pax Americana and creating a competing Grossraum—Pax Eurasiatica— which will exclude and oppose the United States. Closely associated with the concept of Mitteleuropa is the specific political extrapolation of the Kultur/Zivilization dichotomy as formulated by Thomas Mann in his book “Reflections of a Nonpolitical Man”(81) in which he counterpoises German «culture» against largely Anglo-Saxon «civilization». Dugin elaborates on that dichotomy reaching the conclusion that not only Europe’s national interest differs from that of the United States but that also its cultural tradition is the antithesis of the hollow shell of «civilization» in the U.S. Whereas «culture» in European countries is expression of national identities and of organic historical tradition, the American «civilization» is the bearer of an all-embracing commercialism and consumerism whose penetration dissolves all national identities. A rather paradoxical conclusion emerges from the revival of the concept of Mitteleuropa namely an anti-West oriented Europe. Dugin sees the term West as largely an American ideological construct, an Atlanticist mold thrown over Europe, and regards de Gaulle’s decision in 1966 to withdraw from NATO’s integrated command, which, as de Gaulle emphasized, deprived France of her sovereignty, not only as the first assertion of European identity separate and different from that of the United States, but also as the first anti-West manifestation by an European country in the U.S.’s sphere of influence. De Gaulle emphasized that the American design has always been to transform a cohesive European community into a larger and looser Atlantic community under American control.(82) Recognizing that Atlanticism was virulently aggressive as ever, he was compelled to look for ways of resisting American hegemony in Europe. »There were two options: he could either take unilateral measures to challenge American hegemony or he could seek alternative partners with a common interest in breaking down hegemonic control.»(83) France’s withdrawal from the NATO’s integrated command become de Gaulle’s ultimate gesture of anti-hegemonism.

The failure of the Soviet Union, due to defeatist and de facto anti-national foreign policy of the Gorbachev administration, to condition the unification of Germany on her withdrawal from NATO, was a major self-inflicted political defeat affecting not only Russia but also Germany in the future. For Russia it means a weakening of its strategic potential and for Germany a lost chance to gain full sovereignty by not having foreign occupation forces stationed on her territory. And for Europe as a whole it signifies a lost momentum to replace NATO, i.e. American power projection and an instrument of containment against U.S.’s former allies, with a pan-European security system. In this perspective one must se the alternatives for Europe as envisioned by the Maastricht treaty which may lead to gradual unification: either a Federated Europe as a power projecting Grossraum or as an even more divided and weakened Europe under the oppressive and leveling effect of the American pseudo-universalism, which in substance will amount to an Atlanticist police state with the NATO’s strategy of containment directed toward the U.S.’s former allies. In the latter case the Maastrich treaty will lead to deligitimization of national sovereignties and to weakening and dissolution of national identities of member states. Instead of a new European self-identity, the result will be the creation of an amorphous space with obliterated national and cultural identities and functionally integrated into the American Grossraum. Already de Gaulle foresaw that possibility when he stated that if the United States is not opposed «at the end there would appear a colossal Atlantic community under American dependence and leadership which would completely swallow up the European community.»(84) Against the anti-European concept of Atlantic community, devised as an ideological vehicle for subjugation of independent European geopilitical existence, stands the concept of a Monroe doctrine for Europe, claims Alain de Benoist : «What bothers me is that I do not see the Maastricht Treaty leading to an autonomous, politically sovereign Europe determined to acquire the equivalent of what the Monroe doctrine was for the United States, but rather a phantom of Europe, a Europe a unemployment, absent and impotent, a free trade zone governed on the theoretical level by ultra-liberal monetary principles and, on the practical level , by administrators and bankers who neither have a political project nor democratic legitimacy...Nietzsche said: «Europe will create itself on the edge of a tomb». For my part, I believe it will create itself over and against the United States, or it will not create itself.»(85) In historical perspective the Anglophone powers , Great Britain in the past, United States now, have always been an obstacle to consolidation of Europe and thus a true geopolitical adversary. «The urge to evict the Americans, and before us , the British from the Continent has deep roots in reaction to the role of the English-speaking countries in foiling every attempt to unify Europe since the Renaissance. With the exception of the more misguided members of the House of Stuart , every English-speaking head of state from Elizabeth Tudor to Harry Truman opposed the consolidation of the Continent. Elizabeth I fought Spain; from the time of Marlborough to the time of Wellington the English fought France; from Asquith to Churchill and Roosevelt the «Anglo-Saxon» fought Germany. Even when American policy shifted under Truman to support the peaceful integration of Western Europe , it was out of desire to fend off the greater menace of the Soviets...The positive contribution to European civilization of the old «divide and rule» policy cannot, however, disguise its essentially negative goal. The British sought to keep the Continent embroiled in quarrels while they assembled a global empire and grew rich. The United States relied on Britain to maintain a European balance that kept the Europeans from interfering in the New World while we, like our British cousins, traded freely with all quarters of the globe...In the twentieth century the Elizabethan realpolitik of the Anglophone powers acquired a Wilsonian overlay...The Elizabethan and the Wilsonian policies remain at the core of American interests today. As good Elizabethans, we understand that it is not in America’s interests...for European integration to take place under the hegemonic leadership of a single power, whether this power is based in Moscow or Berlin. Nor would it be in America’s interests for European integration to proceed in such a way as to create a single hegemonic power center in Brussels»(86). The grand design of the United States, particularly now, when Washington is aggressively advancing the plans to globalize NATO, and thus its Monroe doctrine, is the Latin-Americanization first of the former socialist countries, including Russia and second, of her former West European allies. And as long as United States is not displaced from her position of hegemony in Europe and ultimately driven out of Eurasia, European countries will never acquire that which is necessary for independent geopolitical existence. A federated Europe with American military forces on its soil is no more than an obedient satellite. During the 60-ties de Gaulle warned against a supranational Europe of the Common market which he then considered a divided Europe under the mentorship and hegemonial design of the United States. Reading Dugin one may paraphrase Bismarck and say that if the power of Russia is ever broken , it will be difficult for the former members of the socialist block to avoid the fate of Poland in the past that is the destiny of divided and contested area to be claimed by the United States as «glacis and perimeter of battle». By the same token a weak Russia may spell weakness also for other European countries. But does it mean that Dugin envisions a sort of a new Rapallo treaty(87) as a political foundation for a new geopolitical orientation? I can agree with Rudolf Barho’s assertion that »A new Rappalo would break Western Europe from North America«.(88) However, a new Rapallo can only be used as a metaphor for diplomatic and political initiatives that may lead to a possible alliance between Germany, France, Russia and China as central powers. A new equivalent of Rapallo treaty is a geopolitical and existential imperative for Europe, a fundament for future continental unity and continental defense against American expansionism, against the pseudo universalism and totalitarian claims of the American Imperium Monde. Dugin’s concept of a new European geopolitical orientation resembles de Gaulle’s visions during the ‘60s. Rejecting American hegemony de Gaulle conjured an alliance, an European coalition, which, without infringing on the sovereignty of the member states would constitute an alternative European Grossraum. He recognized that the ideology of Atlantic unity is in fact the ideology of American domination and counterpoised his concept of European unity which today only can be seen as America free Europe. However de Gaulle recognized that a genuine European alliance could not be created without there being in Europe today a federator with sufficient power, authority and skills.(89) At that time there was no such strong federator. In his memoirs de Gaulle noted that «The American President’s (F.D. Roosevelt) remarks ultimately proved to me that, in foreign affairs, logic and sentiment do not weight heavily in comparison with the realities of power; that what matters is what one takes and what one can hold on to; that to regain her place, France must count only on herself».(90) United States believed that the Frenchmen «in a grip of sort of neurasthenia would gradually relax into the status of an American protectorate...The alternative, as de Gaulle constantly proposed it, was for Frenchmen to continue the arduous struggle for national self renewal until they again became masters of their own fate.»(91) In his advocacy of a new continental geopolitical orientation and in his definition of Pax Eurasiatica, Alexander Dugin criticizes and rejects the old ideology of Panslavism. The difference between the Panslavism and Eurasianism is summarized by him as a difference between two principles — «the principle of blood» and «the principle of soil (realm)». For the Panslavism the emphasis is on the concept of ethnic identity—in other words the primacy of blood over the soil. For the traditional Eurasianism on the other hand, the land takes precedence: as ideology it expresses the primacy of the soil over the blood. «It presupposes the ideological choice of continental, Eurasian values over narrow ethnic or racial values.»(92) A further differentiation of the concept of Eurasianism can be made by distinguishing between two sub directions of the Eurasian ideology.

The first one is centered on the notion of a specific Eurasian identity—the concept of polyphonic ethos of Russia—defined in terms of ethos and land.(93) The second one defines Eurasianism in terms of geopolitical realities and necessary geopolitical strategy, also in terms of realm and Grossraum. The emphasis here is on the land power status of Russia as opposed to the atlanticist sea power status of the United States. Alexander Dugin is a proponent of this definition of Eurasianism. From a geopolitical point of view the past observation of Halford MacKinder that the greatest danger to Anglo Saxon hegemony would be a political union and a geopolitical block of Russia and Germany, bears particular relevance. The concept of Eurasian resistance against the dictates of the American New World Order and the global American hegemony articulates the geopolitical and the national meta— existential necessity to create such geopolitical block able to stop the steamroller of the New World Order.

An additional aspect of Dugin’s analyses of geopolitical orientations and strategies concerns the future relationship between Russia and Islam. The starting point is Robert Steuckers view that Russia must make a common cause with Iran against American interests.(94) Continental, Islamic — revolutionary Iran is contrasted with the Atlanticist secular Turkey and the Arabic theocratic variant of Islam of Saudi Arabia. Turkey is the primary agent of American influence in the region and a virtual colony of the U.S., an Asian forpost of American geopolitical interests which serves as a cordon sanitaire between the Asian East of Russia and the Arab world. A conflict between Russia and Islam countries is the main purpose of the U.S. foreign policy, a main conduit for which is Turkey.

A similar roll serves also Saudia Arabia, a country which in fact must also be seen as an American colony. The interests of Saudy dynasty and of the American Atlanticism coincide, forming a bullwark against creation of an Arabic Great Area. Through the control of Saudi Arabia U.S. controls the supply of oil. And the U.S. controlls the economy of Europe through control of the oil in the Gulf region. Therefore, to counterbalance American hegemony in the region, Russian foreign policy must be oriented toward Iran, asserts Dugin.

In today perspective the events of 1991 are of paramount importance because, as Dugin points out, 1991 is the year of destruction of the Eurasian Grossraum, the only one that possessed resources to withstand American expansionism and which consisted of all countries belonging to the socialist block. Central Europe in general and Germany in particular, as geopolitical entity are only a pure potential at present time. Central Europe can constitute itself in the future only in alliance with Russia which occupies a unique position as a centrum of the Eurasian continent, as a Heartland. Russia occupies also a key strategical and geographical position in the world with its huge landmass and human potential. A new geopolitical orientation must take into account the so called Atlantic factor which Dugin in length discusses.

The Atlantic factor is the United States strategy to impose her will on former Soviet republic and socialist countries and to transform those into satellite countries in the American orbit, linking them into a Cordon Sanitaire around Russia. Certainly one can already see the shadow of the Atlantic masters over the Baltic republics. As the Russian jurist Vladimir Ovzinski asserts the «CIA already works totally in the open in Lithuania , not only through American Embassy in Vilnius but also through American advisers to the Supreme Council of the Republic. And the situation is similar in both Latvia and Estonia».(95) The Atlantic factor is a geopolitical consequence of what William Appleman Willams has called the American «frontier thesis» —the perpetual expansionism in pursuit of new western frontiers.

United States has a perspective for real world hegemony only if no competing Grossraum is allowed to arise. Therefore both NSC-68 after the end of the WWII and its mirror image—the Pentagon Planning Guidance after the «end» of the Cold War, envision control or destruction not only of any competing Grossraum but also any geopolitical area which can consolidate itself in the future into power projecting Grossraum. The conclusion is that the primary objectives of the American geopolitics are to destroy any potential geopolitical alliance as well as to prevent its building. To paraphrase Clemenceau the American politics of peace vis-?-vis Russia are nothing else but continuation of war with other means. The Cold War has been replaced by Military Peace. Therefore creation of Cordon Sanitaire around Russia, which by necessity mandates the conquest of the second Europe—Eastern Europe—under the guise of enlargement of NATO, is the most important objective of the American foreign polic

Cordon Sanitaire consists of territory of countries and people situated between two geopolitical blocks. It is created by virtue of hegemonic control or, as in the American creation of a puppet Bosnian state in the failed attempt to create a Georgian state under Schevernadze, and in the war in Chechnya, with outright force and subversion. The countries that potentially will be included in the Cordon Sanitaire are those countries whose unity or membership in a competing Grossraum would constitute a geopolitical disadvantage to the United States.

United States is actively pursuing her double-edged foreign policy objective of further expansion of her extra-territorial jurisdiction and transformation of former socialist countries into a Cordon Sanitaire through plans outlined by the Secretary of Defense Les Aspin at the NATO meeting in Travem?nde on October 21, 1993 to expand the North Atlantic Treaty Organization by inclusion of former members of the Warsaw Pact.

Cordon Sanitaire in the beginning of this century consisted of countries situated between Russia and Germany and were controlled by England. Those countries, being an agent and tool of the Anglo-Saxon West, were breaking the Grossraum of Mitteleurope and the Grossraum of Russia. In present days the perfidious Albion has been replaced by the perfidious Washington and the American objectives can be summarized as assertion of hegemonic control and transformation of former Soviet republics into virtual American colonies in which, with employment of coercive measures: subversion, terror, aggression, economic warfare, United States will install marionette rulers without any trace of political independence. Or as Noam Chomsky puts it «One consequence of the collapse of the Soviet block is that much of it may undergo a kind of ‘Latin-Americanization’ , reverting to the service role, with the ex-Nomenclatura perhaps taking the role of the Third World elites linked to international business and financial interests»(97)

In conjunction with this it is important to bear in mind that American attempts to partition Russia and gain control of her huge natural resources predate the Cold War period and NSC-68. In October of 1918 the American government drafted secret commentaries to President Wilson’s 14 points which outlined U.S. plans to partition Russia into small regions in order for the United States to assert her hegemony and gain control over Russian territories and natural resources in Siberia and Caucasus. On the map prepared by the Department of State titled «Proposed Borders of Russia» and presented by President Wilson at the Paris Peace Conference, all that is left of Russia is her central part , the Mid-Russian Plateau. In an appendix to the map it was stated that «All Russia must be divided into large natural regions, each with its own economy. However none of those regions should be sufficiently independent to build a strong state».(98) Those long-standing American plans make it even more urgent for Russia to make a decisive geopolitical orientation. Of course, if President Yeltsin turns out to be a Russian Quisling,(99) and his September 21,1993 coup with subsequent destruction of the Russian Parliament most certainly suggests this possibility(100) , then the prospects for a new geopolitical orientation will become more difficult to realize. In his 1938 study “Ueber das Verhaeltnis der Begriffe Krieg und Feind”, Carl Schmitt, anticipating the future of the Cold War, described the world as moving toward an ‘intermediary situation between war and peace’, a kind of a bellicose peace which is neither war nor peace, which Carl Schmitt called military peace, i.e. a world condition of global confrontation which tends to take the form of a total war. In “Totaler Feind, Totaler Krieg, Totaler Staat”, published in 1937, Carl Schmitt related the idea of total war to the idea of total State, a war that «will be total for two reasons. First because it would not be localized in the sense that it would enfold in on a battle field, but it would be spread across the entire planet including sidereal space. Next, because it would not only be military, given that all the activities -scientific, technological, economic-and all of the material and ideal aspects of existence will be directly implicated in this gigantic conflict. Protected zones will no longer exist since both the military and the non-military will be engaged in this conflict. Politically speaking, there will no longer be a distinction between those who fight and those who do not».(101) During the Cold War two kind of Grossraum confronted each other- the existential categories of friend and enemy applied also to the concept of Grossraum- and out of that confrontation a world order build on plurality of Grossr?ume was maintained. However the end of the Cold War did not lead to revival of the concept of state sovereignty but to renewed attempt to universalize the ordering principles of the American Grossraum and establishment of a Monroe Doctrine for the whole world- an overriding objective of American foreign policy since the time of President Willson- under the slogan of a New World Order. Alexander Dugin equates the New World Order with American world wide hegemony, which, in order to be established, requires the totalization of the ‘intermediary situation between war and peace’, i.e. a new Cold War with different ideological justification but with the same aim: total American world domination. «The total war, previously localized in the Cold War confrontation between U.S. and the Soviet Union, is the essence of American universalism. Military peace is the present substance of the New World Order with which Russia and other countries are confronted now and the American implementation of this New World Order can only lead to a new total war.»(102) As a paradigmatic figure of Russian resistance to the New World Order, of what he calls the Endkampf, Alexander Dugin takes the symbol of the Russian partisan. The phenomenon of partisan is for Carl Schmitt «a paradigmatic figure for the decomposition of the classical Nomos and for the appearance of bellicose peace. The figure is remarkable because it still has a landlocked reality-described by Schmitt as its ‘telluric character’»(103) The partisan embodies the concept of Resistance, his physical existence is overshadowed by his political existence- Existenze des Wiederstand- and he takes his law from hostility, i.e. from his sense of supreme distinction between friend and enemy. His struggle is against the New World Order, its dictates and its total claim of annihilation of Russian future. For Dugin the American New World Order is a triumph of global totalitarianism. The Partisan is the answer to the illegitimate legality of the New World Order. «In the condition of the state of emergency, in the intensifying atmosphere of ‘military peace’ or ‘peaceful war’, the defense of national soil, history, people and nation are the sources of his legitimacy. He heralds the beginning of a total war with the total enemy...In Russian history his prototype is the partisan during the war against Napoleon, the partisan of the World War II, the resister to the Nazi German New World Order. Now he is the resister of a new New World Order- the American. The partisan is the harbinger of the healing power of national soil and historical national space of the Russian people. In the post-Cold War period of intensifying ‘military peace’ only the Russian partisan can show the way to a Russian historical future». (104) However the only viable alternative to the totalitarian globality of the New World Order is the reconstitution or creation of a new Grossraum opposing American world empire and the emancipation of the principles of international pluralism. The pseudo-legality of the New World Order must be confronted by a new alternative legality. Against the all-embracing American pseudo-universalism must stand the will-formation of national particularism and mobilization of geopolitical resistance. Against the steamroller of the American New World Order and the American invasion in the geopolitical vacuum of Eurasia after the destruction of the Soviet Union a new continental geopolitical unity must be consolidated resulting in proclamation of a Monroe doctrine for Europe. Therefore, referring to the Pentagon’s Defense Planning Guidance, Alexander Dugin writes: «The overriding objective of the United States is to prevent the creation of any real geopolitical alternative. Therefore our main objective must be the creation of any new geopolitical alternative.» This is a good point of departure because it presupposes the concept of the political. And after all, to paraphrase Heidegger, the political is the house of Being.




ENDNOTES

(1) Gyorgy Lukacs -The Destruction of Reason (Humanities Press, Atlantic Highlands, 1981 at pp.765,770.
(2) Martin Heidegger -Being and Time (Harper and Row, New York, 1962) at p. 347.
(3) Carl Schmitt - The Concept of the Political (Rutgers University Press, New Brunswick, 1976) at p.p.19, 26.
(4) Nikolaj Zagladin -Pochemu zavershilas ‘holodnaja vojna’ - Kentavr, January/February 1992, Moscow, pp. 45-60
(5) Zbignief Brzezinski -The Gold War and Its Aftermath -Foreign Affairs, Fall 1992 (Council on Foreign Relations, New York) - at p. 32
(6) Zbigniew Brzezinski - ibid. at p. 34
(7) George F. Kennan-The Failure in Our Success -New York Times, March 14, 1992, p. A17
(8) The Treaty of Brest-Litovsk , signed March 3, 1918, ended the war between Soviet Russia and Germany. As a result of the treaty Soviet Russia was partitioned and lost 34 percent of the population and 54 percent of the industrial production. According to the terms of the treaty Germany, enlarging her Lebensraum, was to occupy Ukraine , Byelorussia, Caucasus , the Baltic provinces etc. With the defeat of Germany the treaty was repudiated.
(9) Thomas H. Etzold and John Lewis Gaddis Containment. Documents on American policy and Stategy, 1945—1950 (Columbia University Press, New York, 1978) p. 196. NSC 20/1 was subsequently incorporated in the infamous NSC 68. On this subject in Russian debate see Nikolaj von Kreitor Geopolitika holodnoj vojny , Juridicheskaja gazeta No. 26, 1996, Moscow.
(10) Wolfram Henrieder -Germany, America, Europe (Yale University Press, New Haven, 1989) - at p. 17
(11) Here quoted after Ronald Steel -Pax Americana (The Viking Press, New York, 1967)- at p.p. 79-80.
(12) Lenin Collected works, vol. 41, p.p. 353-354
(13) Voprosy sotsiologij , nr 1, 1992 (Moscow )
(14) Alexander Dugin -Carl Schmitt –piat’ urokov Rossii (Nash Sovremmennik, nr. 8.1992, Moskow)
(15) Alexander Dugin - ibid , at p.p. 129, 130,135
(16) Agnes Heller has analyzed the problem of a meta-existential choice of a nation in a context of friendfoe dichotomy in the essay The Concept of Political Revisited , published in Political Theory Today , edited by David Held (Stanford University Press, Stanford, 1991).
(17) Carl Schmitt -Verfassungslehre (Duncker&Humblot, Berlin 1970) - at p. 50. Schmitt writes further that «because every being is a particularly-constituted being, every concrete political existence has some sort of constitution. But not every politically existing force decides in a conscious act concerning the form of this political existence and succeeds in consciously determining the concrete type of its political existence as did the American states with their Declaration of Independence and the French nation in 1789. ibid. p.23 .See also G.L.Ulman -Anthropological Theology, Theological Anthropology (Telos, Nr.93, Fall 1992, New York) at p. 71.
(18) G.L. Ulmen Anthropological Theology...ibid p.71,72; Carl Schmitt Verfassungslehre -ibid.p.372.
(19) Carl Schmitt Verfassungslehre ibid. p. 22
(20) Carl Schmitt The Concept of the Political
(21) Alexander Dugin- Carl Schmitt, pjat’ urokov Rossii- ibid. p. 131, 132
(22) Herbert Marcuse «Contribution to the Phenomenology of Historical Materialism» (Telos, Number 4, 1969), here quoted from Richard Wolin «Introduction to Marcuse and Heidegger» (New German Critique, Number 53, 1991, New York) p. 23
(23) For a discussion on Heidegger’s concept of hermeneutics in Being and Time se Richard Palmer Hermeneutics ( Northwestern University Press, Evanston, 1969)
(24) Aaron L. Friedberg-The Future of American Power (Political Science Quarterly, Vol.109, Spring 1994) at p. 17.
(25) Colonel Victor Alsknis’ father general Jacov Alsknis has been a close friend of marshal Mikhail Tukhachevski; in 1937 general Alsknis participated in the military commission investigating the treason charges against Tuchachevski.The transcript of the commission’s proceedings, classified secret, has never been released. First in 1990, after the intervention of the then Chairman of the KGB Krutchkov, colonel Alsknis gained access to the transcripts and after reading them came to the conclusion that during the 30-ties there was a pro-German conspiracy in the Red Army in which marshal Tukhachevski participated. Alexander Dugin claims that marshal Tukhachevski was a member of Nordlich Light- Elementy -at p.p.10,11.
(26) Zbigniew Brzezinski A Plan for Europe (Foreign Affairs, January/February 1995) p. 26
(27) Joseph W. Bendersky -Carl Schmitt (Princeton University Press, Princeton, 1983), at p.253.
(28) G.L. Ulmen - American Imperialism and International Law: Carl Schmitt on the US in World Affairs- Telos, Nr. 72, Summer 1987; se also Carl Schmitt- Voelkerrechtliche Grossraumordnung, op.cit., p.20.
(29) Rudolf Kjellen Der Staat als Lebensform (Berlin, 1924) p. 139. Kjellen writes that the autarchic principle envisions the geopolitical space of the state as «People’s Home». The principle of autarchy «is a reaction against the industrialist type of the nineteenth century. The latter was fundamentally cosmopolitan; in the name of free trade it exposed national households to competition on the world market where the strong always succeeded in swallowing the weak. Its first setback occurred with the adoption of the protectionist system during the second half of the century. Here the state acts in defense of the household (People’s Home). It blocks the road to foreign conquerors by tariff walls behind which national economy can prosper like a true nursery protected from the storm of the sea...The autarchic principle ... replaces «open doors» with «closed spheres of interest» Ibid. p.p. 139, 140. In contemporary perspective the autarchic principle and concept of protected geopolitical space conceived as «People’s Home» is the antagonistic opposite of the American «open door» imperialism.
(30) The concept of Grossraum is discussed in Nikolaj von Kreitor Problemy bol’shich prostranstv i buduschee Rossii Nash Sovremennik, No 3 , 1996, Moscow and Nikolaj von Kreitor Stoletie novogo mira. Universalizm protiv pljuralizma, Kentavr, No. 6, 1995, Moscow.
(31) The National Security Council Memorandum 68 (NSC-68 ) promulgated in 1950 called for a roll-back strategy aiming to hasten the decay of the Soviet system from within and to foster the seeds of destruction within the Soviet system by a variety of covert and other means that would enable the U.S. to negotiate a settlement with the Soviet Union or a successor state or states. The memorandum further called , adopting the objectives of Hitler, to dismantle the Soviet Union into smaller states-se also Noam Chomsky -On Power and Ideology (South End Press , Boston, 1987) at p. 15. In different articles published during 1991 and 1992 in the Moscow newspaper Denj (DAY) have surfaced assertions that during the years of the so called. Perestrojka United States has invested more than 50 billion dollars for covert subversion in the Soviet Union.
(32) Elementy , Number 4, 1993, p. 33
(33) Halford McKinder Democratic Ideals and Reality (W.W. Norton & Company, N.Y. 1962) p. 150
(34) Se Gerald Chaliand, Jean-Pierre Rageau-Strategic Atlas-(Harper Perennial, N.Y. 1992)- at p. 30
(35) Halford MacKinder The Round World and theWinning of the Peace , Foreign Affairs, 21 , New York, 1943. p.p. 595-605. The article is included in the book Democratic Ideals and Reality. See also W.G. Fast How Strong is the Heartland, Foreign Affairs, 29, New York, 1950 p.p. 78-93 and D.J. M. Hooson A New Soviet Heartland , Geographical Journal , 128 (1962) p.p. 19-29.
(36) Peter J. Taylor Political Geography (Longman, London, 1985) p. 42
(37) Richard Muir Modern Political Geography (John Wiley & Sons, New York, 1975) p. 195. For geopolitical analysis in Russia see E. A. Pozdnjakov Geopolitika (Progress-Kuljtura, Mpscow, 1995. Nikolaj von Kreitor Ot doktriny Monro do Novogo Mirovogo Porjadka , Molodaja Gvardija No 9, 1995, Moscow and Nikolaj von Kreitor Amerikano-fascistkaja geopolitika na sluzhbe zavoevania mira, Molodaja Gvardija No. 8, 1996, Moscow.
(38) See James C. Malin The Turner-MacKinder Space Concept of History in Eassays on Historiography (Lawrence, Kansas, 1946) p.p. 1-45; Per Sveaas Andersen Westward in the Course of Empires. A Study of the Shaping of an American Idea: Frederick Jackson Turner’s Frontier (Oslo University Press, Oslo, 1956).
(39) See William Appleman Williams The Contours of American History (W.W. Norton & Company, New York, 1988) p. 17.
(40) David P. Calleo Europe’s Future. The Grand Alternatives (W.W. Norton & Co, New York, 1967) p.p. 89,90.
(41) Carl Schmitt claimed in his book Land und Meer that world history is the history of perpetual conflict between land powers and sea powers.
(42) Alexander Dugin Konspirologia (Arktogej, Moscow, 1993) p.p. 92, 93
(43) Alain de Benoist , Den’ No 1(29) , Moscow, 1992
(44) Elementy nr 3, 1993 - at p. 18
(45) Patrick E. Tyler- U.S. Strategy Plan Calls for Insuring No Rivals Develop - New York Times, March 8, 1992, p. 14
(46) Excerpts from the document published in New York Times , March 8, 1992
(47) Patrick E. Tyler - US Strategy Plan...
(48) President Bush stated after the November 7-8, 1991 NATO summit in Europe that security interests of the United States and Europe were indivisible and, therefore , the Atlantic alliance could not be replaced even in the long run and also that the United States presence in Europe would be needed for a century of so. see Ted Carpenter-- In Search for Enemies-(CATO Institute, Washington D.C. 1992, at p.p. 11-12; also White House, Office of Press Secretary, Press Conference by the President, November 8, 1991, transcript, p.1.
(49) H. J. von Lochhausen - The War in Iraq - a War Against Europe - Elements p.p. 34,35,36. von Lochhausen asserts also that the war against Iraq, i.e. a war for the control of the oil , was planned a long time in advance and its blueprint was worked out by Henry Kissinger and published in 1975 in the magazine Commentary and later in Harper’s Magazine.
von Lochhausen writes points out that studies of American relations with her allies show that U.S. is prone to take advantage against them i.e. using the war as a vehicle to transform her allies into vassals. In both W.W.I and W.W.II the American participation was largely parasitic. While the allies made the decisive efforts the United States reaped the fruits of the victory . See Elementy - ibid p.p. 35, 36. It is interesting to note that both right-wing and left-wing interpretations of the Gulf War coincide in their condemnation of American expansionism. For a left-wing parallel to von Lochhausen see Dario Da Re, Rosanna Munghiello and Dario Padovan Intellettuali, sinistra e conflitto del Golfo: un’interpretazione retrospettiva del dibattito (Altreragioni, No. 2,1993) p.p. 151-174.
(50) Samir Amin -U.S. Militarism in the New World Order-Polygraph, 5/1992 (Durham, NC) -at p.23
(51) 1963 Proceedings of the American Society of International Law 13. Discussing further the legal justification of the Cuban quarantine in 1962, Dean Acheson emphasized that « I must conclude that the propriety of the Cuban quarantine is not a legal issue. The power, position and prestige of the United States has been challenged by another state; the law simply does not deal with such questions of ultimate power., se also Noyes Leech, Covey Oliver,Joseph Sweeney-The International Legal System- at p. 105.
(52) Charles de Gaulle -Unity, Documents (Simon & Schuster, New York 1960) -at p. 269. Se also David Calleo- Europe’s Future. The Grand Alternatives (W.W. Norton & Company , New York,1967) - at p.112.
(53) The memory of the American intervention in Soviet Union in 1918 in Archangelsk and Vladivostok in the Far East prompted by the U.S. interest to gain control of the natural resources of Siberia as well as by senator Lodge plan to divide Soviet Union into smaller states in order for the United States to gain control over Ukraine has resurfaced and the issue have been debated in the mass media. See on this subject A. Nevins-Nenry White: Thirty Years of American Diplomacy, N.Y. 1930, p.354; Ljudmila Gviashvili-Sovietskaja Rossija i Soedinennije Schtaty 1917-1920 -(Foreign Relations Publishing House, Moscow,1970.)
In the Russian debate it has been pointed out that the objectives of the U.S. foreign policy will be to achieve strategic superiority in the field of nuclear armaments and through aggressive and adventurous foreign policy initiatives to force Russia to further unilateral disarmament and even to attempt to gain control over the nuclear potential of Russia which is the only deterrent that prevents an outright intervention.
(54) U.S. Peacekeeping Policy Debate Angers Russians-N.Y.Times, August 29, 1993. An editorial in Krasnaja Zvezda or Red Star, the magazine of the Russian army called Directive 13 ‘outrageously cynical and a direct and unceremonious interference in the domestic affairs of Russia.’ Although U.S. opposes a Russian Monroe Doctrine it is in a process of unilaterally extend its Monroe Doctrine to include former members of the Warsaw Pact as well as Baltic countries, which in the new American doctrinal thinking are to form a Cordon Sanitaire surrounding Russia- se N.Y. Times, February 17, 1992.
(55) What the Monroe Doctrine meant for other Latin American countries was the freedom of U.S. to rob and exploit those countries.- Noam Chomsky - ibid. op. cit. p. 7.
(56) Hegel -The Philosophy of Right Oxford University Press, London,1967) p.p. 208-216.
(57) Noam Chomsky - ibid. at p. 14
(58) G.L. Ulmen - ibid. at p. 59, 60
(59) Y. Semenov- Fashistkaja geopolitika na sluzhbe amerikanskogo imperializma (Gospolitizdat, Moscow,1952)-at p.32.
(60) Ferdinand Czernin -Versailles 1919 (Capricorn Books, N.Y. 1964) at. pp.404-406
(61) «Treaties should be designed to promote United States interests by securing action by foreign governments in the way deemed advantageous to the United States. Treaties are not to be used as a devise for the purpose of effecting internal social changes... in relation to what are essentially matters of domestic concern» and the United States being the sole judge of what constitutes domestic matters - see Department of State Circular No. 175, (December 13, 1955), reprinted in 50 Am. J. Intl. L. 784(1956).
(62) Carl Schmitt -V?lkerrechtliche Grossraumordnung... p. 43.
(63) Noam Chomsky - Terrorizing the Neighborhood. American Foreign Policy in the Post-Cold War Era (AK Press, Stirling and San Francisco , 1991) - at p. 24.
(64) se The Holy Alliance - Time magazine, February 24, 1992- at p.32
(65) Times- ibid. - at p. 29
(66) Noam Chomsky -Terrorizing the Neighborhood - at p. 19.
(67) Helsinki Accord, Declaration on Principles Guiding Relations between Participating States. The full text is published in Thomas Buergenthal (ed) -Human Rights, International Law and the Helsinki Accord-(Allanheld, Osmun/Universe Books, New York, 1979) at pp.161-165
(68) William Safire -Bosnia vs. the United Nations - N.Y.Times. , August 9, 1993
(69) N.Y.Times , August 2, 1993 - at p. A3
(70) N.Y.Times. , Aug. 5, 1993 - p.1.
(71) Newsweek, August 28, 1993
(72) See Pravda, March 30, 1995
(73) N.Y.Times, September 12, 1993
(74) Article 52 (Coercion of a State by the threat or use of force) of the Vienna Convention of the Law of Treaties of May 22, 1969 states «A treaty is void if its conclusion has been procured by the threat or use of force in violation of the principles of international law embodied in the Charter of the United Nations.»
(75) Pravda 5, No. 24, 1996, p. 10-11. Interview of General Galuas by Jole Stanischic.
(76) In Russian debate the Haag War tribunal has been described as an instrument of continuous aggression, to paraphrase Clausewitz, as war with other, judicial means, a tribunal set up by the war criminals in Washington to justify the American territorial conquests under the guise of establishment of a New World Order—a Monroe Doctrine for the whole world—, and persecution Serbs— the partisans of the Resistance against dictates of the New World Order. A historical equivalent of Hague Tribunal would have been a tribunal set up by Nazi Germany to persecute the partisans of the Resistance during an earlier version of the New World Order- Hitler’s. General Gallois , one of the organizers of the Resistance movement in France, fully realizes the absurdity of Hague Tribunal.
(77) Pravda 5, ibid.
(78) See Novoe Russkoe Slovo , March 23, 1993- at p. 9.
(79) Wolfram Henrieder -Germany, America, Europe (Yale University Press,New Haven,1989
(80) Hans W. Maull -Germany and Japan: The New Civilian Powers (Foreign Affairs, Wintern 1990/91, Council of Foreign Relations, N.Y. 1991) - at p. 93.
(81) Referring to Goethe Thomas Mann defines culture as « intellectualization of the political» and expression of the identity and self-realization of a nation: »The nation is not only a social being; the nation, not the human race as the sum of individuals, is the bearer of the individual, of the human quality; and the value of the intellectual-artistic-religious product that one calls national culture...that develops out of the organic depth of national life-the value, dignity and charm of all national culture therefore definitely lies in what distinguishes it from others, for only this distinctive element is culture, in contrast to what all nations have in common, which is only civilization. Here we have the difference between individual and personality, civilization and culture, social and metaphysical live». Thomas Mann Reflections of a Nonpolitical Man (Frederick Ungar Publishing Co, N.Y. 1983)- at p. 179.
(82) Andrew Shennan -De Gaulle (Longman, New York, 1993)- at p. 118.
(83) Andrew Shennan - ibid , p.118.
(84) David P. Calleo Europe’s future. The Grand Alternatives (W.W. Norton & Company, New York, 1967) p. 90
(85) Interview with Alain de Benoist , Le Monde, 15 Mai, 1992 (Paris)
(86) Walter Russel Mead The United States and the New Europe (World Policy Journal, New York), Winter 1989-90 p.p. 53,55,56
(87) The Rapallo Treaty was concluded on April 16, 1922 between Germany and the Soviet Union. It allowed the Soviet Union to break the monolithic capitalist encirclement by the Versailles powers while for Germany it signified the road to revision of what was perceived as the Versailles dictate. Discussing the possible political orientation of Russia in the future , Dugin elaborates on the issues of a Russian-German Sonderweg as a historical background to a common political union.
(88) Rudolf Bahro -Rapallo-Why Not- (Telos, No. 51, Spring 1982, N.Y.) - at p. 125.It is interesting to note that the German Foreign Minister Klaus Kinkel stated during his a meeting in Bavaria with his Russian counterpart Andrej Kozyrev that «Creation of a partnership axis Bonn-Moscow is an objective for German foreign policy»—Izvestija, Moscow, August 24, 1993.
(89) David Calleo -Europe’s Future -ibid. p.89; se also de Gaulle-Unity- ibid. pp.176-177.
(90) Charles de Gaulle Unity ibid. p. 271
(91) David Calleo Europe’s Future ibid. p. 124
(92) Alexander Dugin Konspirologija ibid. 96 . Dugin refers to the works of Konstantin Leontief in which the primacy of the principle of land over the principle of blood was first articulated.
(93) In contemporary Russian political discourse the main proponent of this notion has been Lev Gumilev.
(94) Robert Steuckers The Asian Challenge, Elementy , nr 3, p. 24
(95) Vladimir Ovzinski -Konterperestrojka -Nash Sovremennik -5-1992, Moscow, at p.128.The author who has made interviews with a large number of former KGB operatives from Lithuania, claims on the basis of those interviews that U.S pursues four different objectives:1.Assertion of American hegemonical interests in Lithuania in opposition to German interests. 2. Subversion of what CIA perceives to be a Communist opposition as well as organizations defending the interests of the Russian minority in the country. 3. Collection of materials concerning former Lithuanian KGB operatives in order to either persecute or recruit them. 4. Sending of recruited agents to other former Soviet republics.
(96) See Elaine Sciolino- U.S. to Offer Plan on a Role in NATO for Ex-Soviet Block -N.Y. Times, October 21, 1993; Stephen Kinzer- NATO Favors U.S. Plan for Ties With the East, but Timing is Vague-N.Y.Times, October 22, 1993. President Clinton made a formal proposal for the expansion of NATO at the NATO’s summit meeting in January of 1994.
(97) Noam Chomsky -A View from Below in Michael Hogan -The End of the Cold War (Cambridge University Press, New York 1992) at p.142.
(98) Y.Semenov -Fascistkaja geopolitika -ibid. p. 29
(99) General Victor Filatov compares Yeltsin with the W.W.II traitor general Vlasov-see Denj, Nr 25, 1993, Moscow, June 27, 1993. Stephen Cohen points out that since 1991 the U.S. policy has been characterized by a steadily escalating interventionism in the Russian domestic matters which has created the impression among patriotic movements that Yeltsin’s government is a U.S. sponsored ‘occupation regime’. United States interventionism resulted in a resolution passed on March 21, 1993 by the Russian Parliament condemning the American interference in the internal affairs of Russia. «The Clinton Administration has steadily escalated this kind of interventionism-by contriving the April Vancouver summit as an attempt to ‘help Yeltsin’ in his ongoing conflict with the Parliament, by supporting the Russian President’s threats to disband the legislature , by endorsing Yeltsin’s effort to seize dictatorial or special powers from virtually all of Russia’s other democratic institutions and even by suggesting that Clinton might go instead to Moscow for a solidarity summit with Yeltsin. The result has been to put U.S. government in very bad institutional company. Opposed to Yeltsin’s power grab was not only Russia’s Parliament but also its Constitutional Court, Attorney General, Justice Minister and Vice President.»- see The Nation, April 12, 1993 , at p.p.477,478.
(100) The events surrounding the September 21, 1993 coup allow for the impression that Yeltsin undertook the coup in collusion with the United States and, not unthinkable, on instigation of the United States.
(101) Julien Freund-The Central Themes in Carl Schmitt’s Political Thought ,Telos, nr 102, New York 1994, at p. 31
(102) Alexander Dugin- Carl Schmitt. Pjat’ urokov Rossii-ibid. at p. 134
(103) Julien Freund - ibid. p. 31
(104) Alexander Dugin- ibid. p. 134

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New York 1994-96
This article was initially published in abreviated form in the American political journal "Telos" and in different version has been published in other journals.
The full version was published in German: "Rusland, Europa und Washingtons Neue Welt-Ordnung. Das geopolitische Project einen Pax eurasiatica" ETAPPE, Heft 12/Juni 1996

vendredi, 21 mai 2010

L'Arabia Saudita, l'Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

L’Arabia Saudita, l’Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

di Giovanni Andriolo

Fonte: eurasia [scheda fonte]


 
L’Arabia Saudita, l’Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

Lungo le due sponde del Golfo che alcuni chiamano Arabico altri Persico si fronteggiano due colossi, la cui grandezza si misura non solo con l’estensione territoriale dei due Paesi, ma soprattutto con il peso economico, politico e culturale che entrambi esercitano sulla regione vicino-orientale e, in definitiva, sulla scena mondiale. Si tratta di Arabia Saudita e Iran, due Paesi che, pur presentando vari elementi in comune, sono caratterizzati da una frattura profonda, molto più profonda del Golfo che li separa e la cui ambivalenza nel nome è già di per sé un chiaro segnale della tendenza, da parte di ognuna delle due potenze in questione, di rivendicazione del controllo sull’area a discapito del Paese antagonista.

Analogie e differenze: un punto di partenza

Con la sua estensione di circa 1.700 km² e una popolazione di quasi 70 milioni di abitanti, l’Iran è uno dei Paesi più estesi e popolosi della regione vicino-orientale. L’Arabia Saudita supera l’Iran per estensione, raggiungendo circa i 2.250 km², ma presenta una popolazione inferiore, all’incirca 28 milioni di abitanti. I due Paesi risultano quindi essere tra i maggiori per estensione e, nel caso dell’Iran, popolosità di tutta la regione.

Entrambi i Paesi, poi, occupano un’importantissima area geografica, affiancando entrambi il Golfo Persico/Arabico (a cui, d’ora in poi, ci si riferirà come Golfo), anche se l’Arabia Saudita non si affaccia, come l’Iran, direttamente sull’importantissimo Stretto di Hormuz, passaggio d’ingresso per le navi nel Golfo stesso.

Dal punto di vista economico, i due Paesi basano la loro ricchezza sull’esportazione di materie prime: innanzitutto il petrolio, di cui l’Arabia Saudita detiene le riserve maggiori al mondo, mentre l’Iran si posiziona al terzo posto nella stessa classifica; ma anche gas, acciaio, oro, rame.

Entrambi i Paesi, poi, sono caratterizzati da un sistema politico forte, accentratore, di stampo religioso, che in Arabia Saudita prende le sembianze di un Regno, mentre in Iran si declina in una Repubblica Islamica.

Dal punto di vista culturale, entrambi i Paesi si configurano, per così dire, come Stati-guida della regione, essendo entrambi simbolo di due civiltà e di due culture storicamente importanti e forti.

Proprio su quest’ultimo punto nascono le prime divergenze tra i due Paesi: infatti l’Iran è la culla della civiltà persiana, storicamente affermata e radicata, e per niente disposta a vedersi superata dall’altra grande cultura che caratterizza l’Arabia Saudita, la civiltà araba. A questa prima divergenza culturale si affianca una divergenza religiosa, che vede nell’Iran il Paese-guida della corrente islamica sciita, sia per tradizione storica sia per numero di sciiti presenti nel Paese, mentre dall’altra parte, specularmente, la dinastia dei Saud che regna nell’Arabia Saudita si pone come centro di riferimento della corrente sunnita del mondo islamico.

Infine la posizione internazionale dei due Paesi, che attualmente vede da un lato l’Iran come il nemico più temibile di Israele e Stati Uniti, il primo dei cosiddetti “Stati Canaglia”, il Paese che con il suo piano di sviluppo del nucleare è sospettato di volersi dotare di potenti armi per minacciare la stabilità della regione; mentre dall’altro l’Arabia Saudita è un alleato degli Stati Uniti, un suo fondamentale interlocutore politico e commerciale, una colonna portante del sistema di mantenimento della stabilità nella regione.

Una breve storia dello scontro

La dinastia dei Saud appartiene alla corrente del Wahabismo islamico, una diramazione ultraortodossa del Sunnismo, e fin dalla fondazione del Regno Saudita ha sempre mantenuto un atteggiamento di scetticismo nei confronti dell’Iran sciita e delle sue pretese di espansione militare e controllo della regione. Sia gli Wahabiti sia gli Sciiti continuano da sempre uno scontro ideologico religioso in cui ognuna delle correnti tenta di dimostrare l’infondatezza e l’inconsistenza dell’altra, in entrambi i Paesi. Infatti attualmente in Arabia Saudita circa il 15% della popolazione è di religione musulmana sciita, mentre in Iran circa il 10% della popolazione e sunnita. I rapporti tra i due Paesi si sono tuttavia mantenuti cordiali fino al 1979, anno in cui la Rivoluzione iraniana portò un cambio di regime nel Paese, trasformandolo in una Repubblica Teocratica. Il nuovo leader religioso Ruhollah Khomeini e gli uomini di governo iraniani criticarono aspramente il regime saudita, accusandolo di illegittimità. Dall’altra parte, il nuovo regime rivoluzionario insediatosi in Iran fu visto da parte dell’Arabia Saudita come un ulteriore pericolo per la stabilità della regione e per i propri possedimenti territoriali.

La prime avvisaglie di una guerra fredda tra i due Paesi si ebbero in occasione della Prima guerra del Golfo tra Iran e Iraq, iniziata nel 1980. L’Arabia Saudita, sebbene le sue relazioni con l’Iraq al tempo non fossero particolarmente strette, offrì a Saddam Hussein, sunnita, 25 miliardi di dollari per finanziare la guerra contro l’Iran, e spronò gli altri Stati arabi del Golfo ad aiutare finanziariamente l’Iraq. L’Iran rispose con minacce e con ricognizioni da parte della propria aviazione sul territorio saudita. Malgrado ciò, i due Paesi non interruppero in quel periodo le relazioni diplomatiche.

Prima della fine della guerra, però, accadde un evento che fece deteriorare fortemente le relazioni tra i due Paesi: nel 1987 infatti, durante il tradizionale pellegrinaggio dei fedeli musulmani alla Mecca, in Arabia Saudita, un gruppo di pellegrini sciiti diede vita ad una protesta contro la dinastia saudita, causando una dura reazione da parte delle forze di sicurezza saudite, che uccisero circa 400 dimostranti, di cui più della metà di nazionalità iraniana. Di conseguenza, Khomeini rivolse forti accuse contro l’Arabia Saudita, l’Ambasciata Saudita a Tehran fu attaccata, furono presi in ostaggio alcuni diplomatici sauditi e uno di loro perse la vita. In quell’occasione furono interrotti i rapporti diplomatici tra i due Paesi e l’Arabia Saudita sospese la concessione di visti ai cittadini iraniani, impedendo loro in questo modo di effettuare l’annuale pellegrinaggio alla Mecca.

Dopo la fine della Prima guerra del Golfo, nel 1989, Iran e Arabia Saudita iniziarono lentamente a riavvicinarsi. Un impulso in questo senso fu dato dagli avvenimenti della Seconda guerra del Golfo, iniziata nel 1990, quando Saddam Hussein occupò con il proprio esercito il Kuwait. Iran e Arabia Saudita percepirono l’espansionismo iracheno come un forte pericolo per la propria integrità territoriale e per i propri pozzi petroliferi, per cui criticarono aspramente l’Iraq e in questo si avvicinarono notevolmente, arrivando a ristabilire relazioni diplomatiche nel 1991. In quell’anno le autorità saudite concessero a 115.000 pellegrini iraniani il visto per recarsi in pellegrinaggio alla Mecca.

Negli anni seguenti, i rapporti tra i due Paesi si intensificarono e alla fine degli anni ’90 i capi di stato di entrambi i Paesi scambiarono visite ufficiali nelle rispettive capitali. Iniziò da allora un periodo di cooperazione ufficiale tra i due Paesi con l’intento di diffondere stabilità e sicurezza nella regione.

La situazione attuale

Malgrado il riavvicinamento diplomatico ufficiale tra Iran ed Arabia Saudita negli anni ’90, restano oggi diverse incognite sui rapporti effettivi tra i due Paesi.

Infatti, da un lato l’Arabia Saudita continua a temere un possibile espansionismo iraniano sulla regione del Golfo. In questo senso, alimenta i dubbi sauditi l’atteggiamento del Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, anti-statunitense, anti-israeliano, fautore di un controverso programma di sviluppo di energia nucleare, sospettato di voler dotare l’Iran di armi atomiche, critico verso il Regno Saudita e l’alleanza dei Saud con gli Stati Uniti. D’altra parte per l’Iran di Ahmadinejad continua a risultare incoerente l’atteggiamento saudita, che da un lato deplora la presenza israeliana in Palestina, dall’altro si pone come alleato degli Stati Uniti, principali alleati e protettori di Israele, che nella visione del presidente iraniano costituiscono il nemico per eccellenza.

In definitiva, i due Paesi si fanno ugualmente promotori della creazione di ordine e stabilità nella regione vicino-orientale, proponendo tuttavia due diversi schemi: l’Iran infatti predilige un profilo più indipendente e chiaramente ostile alle potenze che, a suo avviso, portano disordine nella regione, gli Stati Uniti e Israele; l’Arabia Saudita, invece, opta per un atteggiamento più riservato nei confronti delle potenze presenti nell’area, attenta soprattutto a perseguire le proprie politiche in accordo con i meccanismi che garantiscono il suo fiorente sviluppo economico. In questo senso, la posizione dell’Arabia Saudita diventa molto difficile, poiché si trova a dovere gestire rapporti amichevoli con attori che tra loro sono in forte conflitto. L’Arabia Saudita infatti si trova al centro di un complicato intreccio di interessi, per cui dipende per la sua sicurezza dagli Stati Uniti, ma allo stesso tempo deve mantenere buoni rapporti di vicinato con l’Iran, pur temendone le velleità aggressive. In contemporanea l’Arabia Saudita si trova a favorire, in quanto campione della civiltà araba e della religione musulmana, la causa palestinese contro la presenza israeliana, ma allo stesso tempo deve continuamente gestire i propri rapporti con gli Stati Uniti, a loro volta principali alleati di Israele.

Da parte sua, l’Iran nutre forti timori per la propria incolumità: infatti la presenza statunitense nella regione, sia come alleato di Israele, sia tramite il dislocamento di forze militari in territorio saudita e nel bacino del Golfo, spinge il governo di Ahmadinejad ad un atteggiamento aggressivo in chiave difensiva e genera ulteriori critiche verso la condotta della dinastia dei Saud.

Questo delicato equilibrio di forze è messo alla prova e minacciato dagli eventi che nell’ultimo decennio hanno sconvolto la regione vicino-orientale.

Da un lato la presenza di Hamas sulla striscia di Gaza e il fermento di Hezbollah in Libano. L’Iran è accusato dagli Stati Uniti di fornire armi e aiuti ad entrambi i movimenti, ad Hamas in chiave strategica anti-israeliana, ad Hezbollah con la stessa funzione e in quando movimento di matrice sciita. D’altra parte il Dipartimento di Stato statunitense identifica tra i finanziatori di Hamas l’Arabia Saudita stessa, fattore questo che complica ulteriormente l’intricata situazione internazionale del Regno dei Saud.

In secondo luogo l’attacco statunitense in Iraq del 2003 e soprattutto gli eventi che a questo sono seguiti: se da un lato, infatti, l’Arabia Saudita non ha mai avuto rapporti particolarmente stretti con Saddam Hussein, dall’altro il declassamento che il sunnismo ha ricevuto nel Paese a vantaggio della popolazione sciita, in seguito al rovesciamento del regime di Saddam, non può che creare disappunto nel Regno dei Saud. In questo senso la politica dell’amministrazione Bush in Iraq non sembra aver considerato attentamente il fattore sciita. Infatti se in Iraq si dovesse rafforzare il governo dello sciita Nouri al-Maliki, si verrebbe a creare nel Vicino Oriente un blocco sciita che, partendo dall’Iran, proseguirebbe lungo l’Iraq, passando per la Siria (sciita solo nella figura della sua dirigenza, ma vicina politicamente all’Iran) e terminando in Libano (dove la presenza sciita è notevole) e a Gaza (dove Hamas gode del supporto iraniano).

Inoltre l’Iran si sta muovendo parallelamente lungo le vie del cosiddetto soft power, intromettendosi nella politica saudita (ma anche nello Yemen, in Bahrein, in Libia, in Algeria) per rafforzare le popolazioni sciite locali. In Arabia Saudita la già scarsa partecipazione politica diventa nulla per la minoranza sciita, che dal punto di vista sociale ed economico risulta fortemente svantaggiata. Le autorità saudite vietano alla comunità sciita di celebrare le proprie festività e di costruire moschee nel Paese, ad eccezione di alcune aree particolari. In questa situazione l’Iran interviene con aiuti e finanziamenti alla popolazione sciita, che a sua volta sembra accogliere con favore questo supporto. D’altra parte, anche l’Arabia Saudita è impegnata nel finanziamento e nella costruzione di scuole Wahabite in altri Paesi, con il compito di diffondere la dottrina della corrente dei Saud. Questo tipo di politica soft non prevede l’uso della forza, ma può dare origine in alcuni casi a scontri veri e propri.

Un esempio di tali dinamiche si può vedere negli avvenimenti della fine del 2009 tra Yemen e Arabia Saudita. Il governo di Sana’a, infatti, ancora negli anni ’90 aveva armato e finanziato l’imam Yahya al-Houthi, di parte sciita, inviandolo nella regione settentrionale di Sa’adah con il compito di contenere e contrastare il proselitismo Wahabita attivo nella regione. Con il tempo, però, al-Houthi si pose alla guida di un movimento di rivendicazione dell’indipendenza di Sa’adah dallo Yemen. Il governo yemenita, allora, dopo aver accusato l’Iran di finanziare il movimento di al-Houthi, chiamò in aiuto l’Arabia Saudita, il cui esercito ha effettuato tra novembre e dicembre del 2009 diverse incursioni nel nord dello Yemen, fino a schiacciare i guerriglieri di al-Houti. Ahmadinejad, da parte sua, non ha tardato a criticare l’intervento saudita nello Yemen, chiedendo provocatoriamente per quale motivo l’Arabia Saudita non si sia dimostrata altrettanto pronta ad intervenire durante i bombardamenti di Gaza da parte dell’esercito israeliano tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009; l’Arabia Saudita ha risposto accusando l’Iran di intromissione negli affari interni yemeniti.

Alcune conclusioni

Alla luce di quanto appena raccontato emerge chiaramente come gli accordi ufficiali tra Iran e Arabia Saudita, volti allo sviluppo di una politica di stabilità e di cooperazione anche economica, celino in realtà una complessa rete di schermaglie, accuse, disaccordi che, nella migliore tradizione della guerra fredda, si ripercuotono su altri attori internazionali senza sfociare, per ora, in uno scontro diretto. Ne sono esempi concreti il caso dello Yemen appena descritto o l’Iraq post-Saddam, con la guerriglia tra la maggioranza sciita e le comunità sunnite, entrambe supportate rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. E’ un altro valido esempio la diffusione, ad opera del governo di Riad, di scuole di matrice wahabita in diversi Paesi arabi, così come la propaganda sciita e il supporto da parte iraniana alle comunità sciite in diversi Paesi a maggioranza sunnita, tra cui l’Arabia Saudita.

In ultima analisi tutte queste incomprensioni sembrano nascere, oltre che da volontà di autoaffermazione di tipo culturale e religioso (civiltà araba-civiltà persiana, sunnismo-sciismo), soprattutto da un fattore che domina da decenni lo scenario vicino-orientale: la paura.

Da un lato infatti, l’Arabia Saudita teme la continua espansione dell’influenza iraniana nella regione, mentre dall’altro l’Iran teme l’avvicinamento delle monarchie del Golfo agli Stati Uniti.

Inoltre non va dimenticato che entrambi i regimi attivi nei due Paesi si stanno confrontando con una crescente opposizione interna: da un lato i Saud, le cui politiche di avvicinamento agli Stati Uniti contrariano fortemente parte dell’ortodossia religiosa e il movimento al-Qaida, presente nel Paese malgrado gli sforzi delle forze di sicurezza interne per contrastarlo; dall’altra il governo di Ahmadinejad, criticato sempre più apertamente da ampi strati della società, come dimostra l’ondata di proteste levatasi in occasione delle recenti elezioni iraniane.

La paura di aggressioni dall’esterno unita all’instabilità crescente dei due regimi sembra spingere dunque Iran e Arabia Saudita verso posizioni sempre più aggressive e contrastanti. Così, ad esempio, il programma iraniano di sviluppo in campo nucleare sta causando un’analoga corsa al nucleare da parte dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (di cui l’Arabia Saudita è l’elemento più importante), che hanno già chiesto supporto all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) per lo sviluppo di un reattore nucleare.

L’equilibrio mantenuto nella regione dall’interconnessione di interessi strategici ed economici, che vede l’esuberanza iraniana moderata dall’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti, non ha ancora provocato scontri diretti tra i due Paesi. Tuttavia, la costante instabilità dell’intera regione e dei governi delle due potenze vicino-orientali potrebbe portare ad un crescente scontro tra due Paesi dotati di risorse energetiche e di armamenti ingenti e moderni. Finora gli attriti sono sfociati in scontri armati decentrati, coinvolgendo attori diversi, ma non è escluso che una crescente ostilità, alimentata anche dagli avvenimenti bellici che stanno avvenendo in varie zone della regione, possa portare a conseguenze più gravi.

Lo scontro tra Iran ed Arabia Saudita sembra inserirsi, dunque, nel complesso mosaico delle vicende vicino-orientali, interconnettendosi a queste, alimentandole e traendo contemporaneamente da queste alimentazione. Il fatto che due potenze come Iran ed Arabia Saudita si trovino in un tale stato di terrore, dimostra come sia l’autoritarismo interno sia l’aggressività verso l’esterno non sembrino garantire, nel Vicino Oriente, quella stabilità e sicurezza che tutto il mondo auspica, e soprattutto come sia Iran sia Arabia Saudita risultino attualmente inadeguate al ruolo di Paese-guida nella regione del Golfo a cui entrambe ambiscono.

* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)
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jeudi, 20 mai 2010

LEAP: la dislocation géopolitique mondiale accélère son rythme

LEAP : la dislocation géopolitique mondiale accélère son rythme

Communiqué public du Laboratoire Européen d’Anticipation Politique (LEAP), 15 mai 2010

Comme anticipé par le LEAP – Europe 2020 en décembre 2009 et février 2010, le printemps 2010 marque bien un point d’inflexion de la crise systémique globale, caractérisé par son aggravation brutale du fait de l’ampleur insoutenable des déficits publics (voir novembre 2009) et de l’inexistence de la reprise tant annoncée (voir septembre 2009).

Les dramatiques conséquences sociales et politiques de ces évolutions reflètent par ailleurs bien le début du processus de dislocation géopolitique mondiale, comme anticipé en février 2009.

Enfin, les récentes décisions prises par les dirigeants de la zone Euro confirment les anticipations du LEAP, inverses du discours dominant de ces derniers mois, sur le fait que non seulement l’Euro n’«exploserait pas» à cause du problème grec, mais qu’au contraire la zone Euro sortirait renforcée de cette étape de la crise (1).

On peut même estimer que depuis la décision de la zone Euro, sorte de « coup d’Etat de l’Eurozone » soutenu par la Suède et la Pologne, de créer ce vaste dispositif de protection des intérêts de 26 Etats membres de l’UE (2), la donne géopolitique en Europe a radicalement changé. Parce qu’elle va à l’encontre des préjugés qui façonnent leur vision du monde, il va bien entendu falloir quelques mois à la plupart des médias et opérateurs, pour se rendre compte que, derrière l’apparence d’une décision budgétaro-financière purement européenne, il s’agit d’une rupture géopolitique à l’impact mondial.

Accroissement actuel des dettes nationales pour les USA, le Royaume-Uni, l'Euroland et le Japon (en vert : % de la dette par rapport au PIB / en rouge : augmentation prévue de la dette pour 2009 et 2010 / en jaune : données pour l'Allemagne) - Source : Commission Européenne (Cliquez sur l'image pour l'agrandir)

Coup d’Etat de l’Eurozone à Bruxelles : les Etats fondateurs de l’UE en reprennent le contrôle

Nous analysons donc en détail, dans ce [numéro], les nombreuses conséquences pour les Européens et pour le monde de ce qui peut être appelé le « coup d’Etat » de l’Eurozone au sein de l’UE : face à l’aggravation de la crise, les Seize ont effet pris le contrôle des leviers de l’UE, construisant de nouveaux outils qui ne laissent plus d’autre choix aux autres membres que de suivre ou de s’isoler dangereusement. Dix des onze autres Etats membres ont décidé de suivre, à l’image des deux plus importants d’entre eux, la Suède et la Pologne, qui ont choisi de participer activement au dispositif mis en place par l’Eurozone (les huit autres sont actuellement, soit en train de négocier leur entrée dans la zone Euro comme l’Estonie dès 2011 (3), soit assistés directement par la zone Euro comme la Lettonie, la Hongrie, la Roumanie…). C’est une (r)évolution que notre équipe avait bien anticipée depuis plus de trois ans. Récemment, nous avions même précisé qu’il fallait s’attendre à une évolution rapide de la position de la zone Euro, une fois les élections régionales allemandes et l’élection législative britannique passées. Cependant, nous n’avions pas imaginé qu’elle se ferait en quelques heures, ni avec une telle audace quantitative (son montant de 750 milliards d’euros, soit 1.000 milliards de dollars) et qualitative (prise de contrôle de l’UE par l’Eurozone (4) et bond en avant en terme d’intégration économique et financière).

Toujours est-il que, sans le savoir et sans qu’on leur ait demandé leur avis, 440 millions d’Européens environ viennent d’entrer dans un nouveau pays, l’Euroland, dont certains partagent déjà la monnaie, l’Euro, et dont tous partagent désormais l’endettement et les moyens communs de surmonter les problèmes importants qu’il pose, dans le contexte de la crise systémique globale. Les choix budgétaires et financiers effectués lors du Sommet du week-end du 8 mai, en termes de réponse à la crise de l’endettement public européen, peuvent être appréciés différemment selon l’analyse que l’on fait de la crise et de ses causes. Et le LEAP développe ses propres analyses en la matière dans ce [numéro]. Mais, il n’est plus discutable qu’une rupture radicale de la gouvernance de l’Europe vient de prendre place : une gouvernance collective continentale vient d’émerger brutalement, ironiquement, 65 ans exactement après la fin de la Seconde Guerre Mondiale, célébrée d’ailleurs en grande pompe à Moscou le même jour (5) et au moment de la célébration de la fête de la création de la Communauté Européenne du Charbon et de l’Acier, l’ancêtre commun de l’UE et de l’Euroland. Cette simultanéité n’est pas une coïncidence (6) et marque une étape importante dans la dislocation géopolitique mondiale et la reconstitution de nouveaux équilibres globaux. Sous la pression des évènements déclenchés par la crise, l’Eurozone a ainsi entrepris de prendre son indépendance par rapport au monde anglo-saxon, dont les marchés financiers restent encore l’expression. Ces 750 milliards d’euros et cette nouvelle gouvernance européenne (des 26) constituent la mise en place d’un rempart contre les prochaines tempêtes générées par l’endettement insupportable de l’Occident, et qui vont affecter le Royaume-Uni puis les Etats-Unis (cf. numéro d’avril 2010), créant des désordres dont la « crise grecque » n’aura donné qu’un faible aperçu.

Le FME privera à terme le FMI de 50% de sa principale contribution, celle des Européens

A ce propos, le LEAP souhaite rappeler une vérité que la plupart des médias ignorent depuis plusieurs semaines : contrairement au discours dominant, le FMI, c’est d’abord et avant tout de l’argent européen. En effet, un Dollar sur trois du FMI est apporté par les Européens, contre seulement un sur six pour les USA (leur part a été divisée par deux en 50 ans). Et l’une des conséquences des décisions européennes de ces derniers jours, c’est que cela ne sera plus le cas très longtemps. Notre équipe est convaincue que d’ici trois ans au plus tard, quand il sera temps de pérenniser en Fonds Monétaire Européen le fonds d’intervention créé les 8 et 9 mai 2010, l’UE réduira d’autant sa contribution au FMI. On peut estimer, dès maintenant, que cette réduction de la contribution européenne (hors Royaume-Uni) sera d’au moins 50% : cela permettra au FMI de devenir plus global en rééquilibrant automatiquement les parts des BRIC, et en obligeant dans la foulée les USA à abandonner leur droit de veto (7) ; mais cela contribuera également à le marginaliser fortement, puisque l’Asie a déjà créé son propre fonds d’intervention d’urgence. C’est un exemple qui illustre combien les décisions européennes du début mai 2010 sont grosses de changements géopolitiques d’envergure, à l’échelle des toutes prochaines années. Il est d’ailleurs peu probable que la plupart des décideurs impliqués dans le « coup d’Etat de l’Eurozone » aient bien compris les implications de leurs décisions. Mais personne n’a jamais dit que l’Histoire était principalement écrite par des gens qui comprenaient ce qu’ils faisaient.

Evolution des contributions au FMI par pays/zone (1948-2001) - Source : FMI / Danmarks National Bank - 2001

Le Royaume-Uni : isolé désormais face à une crise historique

L’une des causes et des conséquences à la fois, de cette évolution, c’est la complète marginalisation du Royaume-Uni. Son affaiblissement accéléré, depuis le début de la crise, concomitant à celui de son parrain américain, a créé la possibilité d’une reprise en main complète et sans concessions de l’évolution du projet européen, par les Continentaux. Et cette perte d’influence renforce, en retour, la marginalisation de la Grande-Bretagne, puisque les élites britanniques sont piégées dans le déni de réalité qu’elles ont également fait partager à leur peuple. Aucun des partis britanniques, pas même, à ce stade, les Libéraux-Démocrates pourtant plus lucides que les autres forces politiques du royaume, ne peut envisager revenir sur des décennies de discours accusant l’Europe de tous les maux et affublant l’Euro de toutes les tares. En effet, même si leurs dirigeants se rendaient compte de la folie d’une stratégie consistant à isoler chaque jour un peu plus la Grande-Bretagne, alors même que la crise mondiale passe à la vitesse supérieure, ils se heurteraient à cet euroscepticisme public qu’ils ont entretenu au cours des années passées. L’ironie de l’Histoire a encore été bien présente au cours de ce week-end historique des 8/9 mai 2010 : en refusant de se joindre aux mesures défensives et protectrices communes de l’Eurozone, les élites britanniques ont, de facto, refusé d’attraper la dernière bouée de sauvetage qui passait à leur portée (8). Le continent européen va maintenant se contenter de les regarder essayer de trouver les 200 milliards d’euros dont leur pays a besoin, pour boucler le budget de cette année (9). Et si les dirigeants londoniens pensent que les spéculateurs de la City auront des états d’âmes pour briser la Livre sterling et vendre les Gilts, c’est qu’ils n’ont pas bien compris l’essence même de la globalisation financière (10), ni consulté les nationalités de ces mêmes opérateurs (11). Entre Wall Street qui est prêt à tout pour attirer les capitaux mondiaux (il suffit de demander à la place suisse ce qu’elle pense de la guerre que se livrent les places financières mondiales), Washington qui se démène pour aspirer toute l’épargne mondiale disponible et un continent européen qui s’est dorénavant placé sous la protection d’une monnaie et d’un endettement communs, les jeux sont déjà faits. Nous n’en sommes toujours qu’à l’étape du drame, car les principaux acteurs anglais n’ont pas encore compris le piège dans lequel ils se sont enfermés ; d’ici quelques semaines, nous passerons à la tragédie britannique car, à l’été, tout le Royaume-Uni aura identifié le piège historique dans lequel le pays s’est placé tout seul.

Ainsi, au moment où l’Euroland émerge à Bruxelles, le Royaume-Uni se débat avec un Parlement indécis, l’obligeant à passer par un gouvernement de coalition qu’il n’a pas connu depuis 1945 et qui conduira le pays à de nouvelles élections d’ici la fin 2010.

Des élites et un peuple britannique dans la difficulté, qui vont devoir «penser l’impensable»

Quoi qu’en disent les protagonistes de la coalition qui s’installe à la tête du Royaume-Uni, le LEAP estime en effet très improbable que cette alliance puisse durer plus de quelques mois. La structure très disparate des deux partis concernés (les Conservateurs comme les Libéraux sont très divisés sur nombre de sujets), conjuguée aux décisions impopulaires, conduit cet attelage tout droit vers des crises internes à chaque parti et donc, à une chute du gouvernement. Les Conservateurs vont d’ailleurs jouer cette carte car, à la différence des Libéraux-Démocrates, ils ont les moyens financiers de « se payer » une nouvelle campagne électorale d’ici fin 2010 (12). Mais, l’écueil sous-jacent le plus dangereux est d’ordre intellectuel : pour éviter la tragédie qui s’annonce, le Royaume-Uni va devoir « penser l’impensable », reconsidérer ses convictions profondes sur son identité insulaire, sa « nature » trans-atlantique, son rapport à un continent désormais en voie d’intégration complète, lui qui, depuis des siècles, pense le continent en terme de division. Pourtant, la problématique est simple : si le Royaume-Uni a toujours estimé que sa puissance dépendait de la division du continent européen, alors, en toute logique, au vu des évènements en cours, il doit désormais reconnaître qu’il s’achemine vers l’impuissance… et en tirer les conclusions pour, lui aussi, effectuer un « saut quantique ». Si Nick Clegg semble équipé intellectuellement pour faire ce saut, ni les Conservateurs de David Cameron, ni les élites britanniques dans leur ensemble, ne paraissent encore mûres. Dans ce cas, la Grand-Bretagne devra, hélas, en passer par la case « tragédie » (13).

En tout état de cause, ce week-end des 8/9 mai 2010 en Europe, plonge nombre de ses racines directement dans la Seconde Guerre Mondiale et ses conséquences (14). C’est d’ailleurs l’une des caractéristiques de la crise systémique globale, telle qu’annoncée par le LEAP en février 2006 : elle met « fin à l’Occident tel qu’on le connaît depuis 1945 ».

Une autre de ces caractéristiques, est l’envolée du cours de l’or (en particulier par rapport au Dollar US), face à la crainte croissante concernant l’ensemble des monnaies fiduciaires (voir le numéro de janvier 2010) (15) ; car, pendant que tout le monde parle de l’évolution de l’Euro par rapport au Dollar US, le Dollar reste à ses niveaux historiques les plus bas, quand il est mesuré par rapport à ses principaux partenaires commerciaux (voir graphique ci-dessous), signe de la faiblesse structurelle de la devise américaine. Dans les mois à venir, comme anticipé par le LEAP, l’Euro va retrouver son niveau d’équilibre de moyen terme, au-dessus de 1,45 dollar pour un euro.

Dans ce numéro, avant de présenter ses recommandations concernant les devises, la bourse et l’or, le LEAP analyse ainsi, plus en détail, la pseudo-reprise américaine, qui est essentiellement une vaste opération de communication destinée, en interne, à faire repartir la consommation des ménages (tâche impossible désormais) et, en externe, à éviter l’affolement des créditeurs étrangers (au mieux, ce seront quelques trimestres de gagnés). Les Etats-Unis prétendent ainsi pouvoir échapper à une brutale cure d’austérité, comme les autres pays occidentaux ; alors qu’en fait de reprise, c’est une « déprise » ou une « unrecovery », comme le titre avec humour Michael Panzner, dans un article exemplaire, publié le 27 avril 2010 dans Seeking Alpha.

Evolution du Dollar Index rapporté aux principaux partenaires commerciaux, et de l'index des hausses et baisses cumulées du Dollar par rapport aux huit devises principales - Source : BCA Research, Bloomberg, JP Morgan Chase, avril 2010

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Notes :

(1) La faiblesse très relative de l’Euro, par rapport au Dollar US, constitue un énorme avantage compétitif pour les exportations de l’Eurozone et handicape, au contraire, les tentatives américaines de réduire le déficit commercial du pays (d’ailleurs le déficit commercial US s’est accru en mars 2010). Les prochains mois vont voir cette détérioration s’accentuer. Source : AP/NDTV, 12 mai 2010

(2) Le Royaume-Uni s’est en effet, de facto, placé hors de cette protection. Pour notre équipe, c’est une étape de plus franchie par le Royaume-Uni en direction de la crise historique dans laquelle il va se débattre, tout seul, à partir de l’été 2010. Même le Financial Times s’est fait l’écho de ce risque croissant. S’il faut faire une comparaison avec la crise du système bancaire de 2008, le Royaume-Uni ressemble de plus en plus à Lehman Brothers, pilier d’un système qui refuse de s’avouer qu’un opérateur si central puisse être aussi dangereusement affaibli et qui finit par provoquer un effondrement du système lui-même. Pour pousser l’analogie une étape plus loin, demandez-vous qui va jouer le rôle d’AIG dans les semaines et mois qui suivront. Source : CNBC, 11 mai 2010

(3) C’est en juillet 2010 que la décision finale sera prise. Source : France24, 12 mai 2010

(4) Le 9 mai 2010, les 27 ministres des finances de l’UE ont en effet été sommés d’endosser les décisions du sommet de l’Eurozone qui avait réuni la veille les seize chefs d’Etat et de gouvernement de la zone Euro, faute de quoi l’Eurozone agirait seule et laisserait donc les onze autres pays dépourvus de protection face à la crise financière. Seul le Royaume-Uni, par réflexe et du fait de sa crise politique, a refusé le « diktat », mais sans être en mesure de s’y opposer comme il aurait pu le faire il y a encore un an, avant que son influence ne commence à s’effondrer.

(5) Source : RFI, 09 mai 2010

(6) Non pas que Moscou ait quoi que ce soit à voir avec les décisions prises à Bruxelles les 8 et 9 mai.

(7) Source : Bretton Woods Project, 19 mars 2008

(8) A ce sujet, le LEAP voudrait tordre le cou à la fable monétaire qui circule à longueur de médias économiques et reprise en cœur par la plupart des économistes : le fait de pouvoir dévaluer sa monnaie à « volonté » n’est pas du tout un facteur d’indépendance, ni un instrument constructif de sortie de crise ; bien au contraire. D’une part, ces dévaluations sont imposées par les « marchés », c’est-à-dire par des forces extérieures au pays dont la dernière préoccupation est l’intérêt du peuple concerné par la dévaluation ; d’autre part, ces dévaluations conduisent inévitablement à un appauvrissement du pays et à sa dépendance croissante vis-à-vis de ses partenaires aux devises plus fortes qui, dans un système de libre circulation des capitaux, peuvent acheter les « bijoux de famille » du pays à peu de frais. Le processus en cours dans l’Eurozone, qui impose en effet de difficiles cures d’austérité, est entrepris dans un cadre collectif avec, pour objectif, de permettre aux Etats concernés de rétablir des finances publiques saines, tout en préservant les grands équilibres du modèle socio-économique européen. Face à l’Eurozone, le FMI n’est qu’un acteur secondaire, qui n’est là que pour apporter un peu d’expertise technique et quelques dizaines de milliards d’Euros d’appoint, dizaines de milliards qui sont une part bien modeste de la grosse contribution des Européens au FMI en 2010 : plus de 30% du total, contre à peine plus de 15% pour les Etats-Unis.

(9) Et ce n’est pas parce que c’est un Français qui le dit publiquement, à savoir Jean-Pierre Jouyet, président de l’Autorité française des Marchés Financiers et ancien ministre des Affaires européennes, que c’est nécessairement faux. Source : Le Figaro, 11 mai 2010

(10) Comme le souligne fort justement Paul Mason dans son article publié sur la BBC le 11 mai 2010, les réactions des marchés vont affecter le Royaume-Uni et, en matière d’obligations, à la différence des actions, la taille des opérateurs peut faire toute la différence.

11) Il va être très intéressant de suivre le conflit avec la City que la coalition au pouvoir à Londres déclare vouloir ouvrir, en annonçant qu’elle va morceler les grandes banques britanniques d’ici un an. Source : Telegraph, 12 mai 2010

(12) Source : DailyMail, 04 mai 2010

(13) Et nous ne nous attardons même pas sur l’émergence croissante de la «question anglaise» au sein d’un Royaume de plus en plus désuni, suite aux « dévolutions » successives qui autonomisent de plus en plus l’Ecosse, le pays de Galles et l’Ulster. Il faut lire, à ce sujet, le très intéressant article de Tim Luckhurst, publié le 09 mai 2010 dans The Independent.

(14) Et même au-delà, puisque David Cameron (43 ans) est le plus jeune premier ministre britannique depuis 200 ans et George Osborne (38 ans), le plus jeune Chancelier de l’Echiquier depuis 125 ans. Cela suffira-t-il ? Rien n’est moins certain, puisque les lecteurs du LEAP savent que nous estimons que la crise remet en cause un ordre du monde établi il y a près de quatre cents ans, instituant la City de Londres comme place financière mondiale. Peut-être faudra-t-il aller chercher des dirigeants britanniques aux qualités inconnues depuis plus de quatre cents ans ? Source : Telegraph, 12 mai 2010

(15) Signe des temps, l’Emirates Palace, l’hôtel le plus luxueux d’Abou Dhabi, vient de mettre en place le premier distributeur automatique de mini-lingots d’or, en lieu et place des traditionnels distributeurs de billets. Source : CNBC, 13 mai 2010

LEAP – Europe 2020

Il mito dell'amicizia USA-Europa

Il mito dell'amicizia USA-Europa

di Gianni Petrosillo

Fonte: Conflitti e strategie [scheda fonte] 


Nessun problema è mai stato risolto semplicemente aggirandone la causa. Questa è invece la strategia che l’UE sta adottando per parare i colpi degli avversari dopo l’attacco speculativo contro la Grecia e la stessa moneta unica europea.
Mentre nessun analista mette in dubbio che la Grecia non sia stata virtuosa nel controllare le proprie spese, in pochi ammettono però che Atene è stata attirata in una trappola preparata dalle principali marchant banks americane e dalle Agenzie di rating, le quali adesso la colpiscono a morte con dei pretesti. Il disegno che questi soggetti stanno portando a compimento per destabilizzare l’area euro è condotto con le armi della guerra finanziaria ma la matrice del suo sviluppo è di tipo politico.
Chi c’è dietro questo complotto? Direttamente gli speculatori come gli hedge fund che già scommettono contro Papandreou e il suo governo. Tuttavia, se non si valuta questo come il vero punto focale delle manovre speculative in atto si coglie più facilmente che l’obiettivo principale è quello di scuotere gli anelli deboli dell’eurogruppo per nascondere i disagi e i default di Stati ben più grandi e potenti, come il Regno Unito e gli Usa.
Il primo ha già dichiarato che non parteciperà al fondo d'urgenza pensato a livello europeo per aiutare i Paesi della zona euro in difficoltà. La ragione ufficiale è che il regno di Sua Maestà la Regina non fa parte di eurolandia per cui non vuole riparare i danni che non ha causato, quella sottesa è invece di tipo logico: il Governo inglese non vuole contribuire a puntellare una situazione che deve invece precipitare per salvare le sue prerogative nell’attuale sistema economico globale.
Le bombe ad orologeria dell’economia mondiale stanno pertanto altrove, in quelle nazioni che hanno dominato l’attuale governance finanziaria internazionale per decenni e che perdono adesso terreno a causa dello squilibrarsi degli assetti mondiali in ambito geopolitico.
La Grecia è un diversivo che ci costerà caro pur non essendo le sue finanze in una condizione così disastrosa. Ma il momento storico in cui questo default è stato fatto deflagrare la dice lunga sulla posta in palio. Tutto è cominciato con gli articoli di quei botoli dei giornali economici inglesi, cani rabbiosi che si scagliano contro i paesi membri dell’UE per obnubilare i guasti di casa loro. Il crollo della Grecia è frutto di questa  cospirazione che ha giocato anche su fattori psicologici, in una fase in cui la preoccupazione generale è la porta di entrata nel caos sistemico. Del resto, i farabutti della speculazione hanno prima circondato la preda, l’hanno disarmata, privata dei mezzi per respingere gli attacchi, ed assicuratisi che nessuno sarebbe  celermente andato in suo soccorso (l'Ue) l’hanno azzannata come vampiri. Dopodiché l’orizzonte del loro assedio si è ovviamente potuto allargare perché per salvare il dollaro e la sterlina ci vuol altro che la piccola Grecia, lo scopo è la debilitazione stessa dell’euro. Anche senza voler ragionare in questo momento sul dato storico sistemico sono di certo Il Regno Unito e gli Stati Uniti i paesi in più grave situazione d'indebitamento privato e pubblico. Se la zona europea si fosse mantenuta salda e fortificata grazie alle sue politiche economiche morigerate (forse fin troppo!) chi avrebbe comprato i T-Bond americani? Chi avrebbe permesso agli statunitensi e agli inglesi di rifinanziare il proprio debito per  svariate centinaia di miliardi essendo la liquidità così scarsa? In questo contesto, dove non si può dimostrare con i numeri la propria solidità finanziaria, bisogna far sprofondare gli altri, metterli in ginocchio e privarli di qualsiasi credibilità. Dopo la Grecia, che ha aperto le danze degli stati insolventi, questi ladri di futuro altrui si accaniranno contro Spagna, Portagallo e forse anche Italia. Per prevenire ulteriori problemi occorre far crollare il mito dell’amicizia tra Europa e Usa e dare al Vecchio Continente una prospettiva geostrategica con nuove alleanze (politiche ed economiche) con i giganti emergenti dell'est (Russia e Cina). Se si continuerà invece a battere la stolida antica strada l’Europa verrà quasi sicuramente risucchiata nel vortice della dominanza statunitense, senza nemmeno i vantaggi di una volta. L’epoca è cambiata, si capisca almeno questo, gli amici di un tempo hanno un volto sempre più aggressivo e meno rassicurante.

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Les trois épicentres de la révolution eurasienne

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Pietro FIOCCHI:

 

Les trois épicentres de la révolution eurasienne

 

L’ambassadeur russe auprès de l’OTAN, Dmitri Rogozine, possède une sorte de sixième sens pour toutes les questions atlantiques: “Selon moi”, a-t-il dit le 4 mai 2010, “la Géorgie n’a pas encore de réelle prospective en vue pour son adhésion à l’Alliance parce que les problèmes qu’elle affronte en Abkhazie et en Ossétie du Sud demeurent irrésolus” et, par conséquent, “un pays qui n’a pas de frontières définies et est continuellement secoué de guerres civiles ne peut devenir membre de l’OTAN”.

 

La Géorgie dans le Caucase

 

L’ambassadeur fait référence au cas des deux républiques qui, il y a vingt ans, se sont déclarées indépendantes du gouvernement géorgien et qui, depuis 2008 jusque aujourd’hui, ont été reconnues par la Russie, le Nicaragua, le Vénézuela et Nauru. L’Abkhazie et l’Ossétie du Sud sont toutefois considérées comme des “territoires occupés” par les Géorgiens et aussi par l’eurocratie bruxelloise et par Washington qui, en bonne diligence, ont promis à leur allié Saakashvili de l’aider à remettre les “choses en place”. On veut donc que les deux républiques, ou “territoires occupés”, reviennent sous le contrôle de la Géorgie. En pratique, tout pas en cette direction augmente les possibilités d’un affrontement avec la Russie: le Kremlin, en effet, a promis de protéger la souveraineté territoriale des deux républiques caucasiennes, en vertu d’accords conclus et par la présence de bases militaires aujourd’hui en construction.

 

Si la Géorgie entrait effectivement au sein de l’Alliance atlantique, les tensions augmenteraient et présenteraient un réel danger. Pour éviter la guerre, il faut avoir conscience des positions antagonistes et percevoir qu’elles recèlent de fait le danger de mondialiser le conflit.

 

Dans cette optique, Rogozine a mis en exergue les dynamiques possibles dans la région: “les Géorgiens seront exploités au maximum afin qu’ils envoient des troupes en Afghanistan; ils seront traités comme des animaux auxquels on fait miroiter une carotte en la balançant sous leur museau. Tbilissi ne peut adhérer à l’OTAN parce que la Géorgie ne peut en devenir membre; l’Alliance atlantique devra ou reconnaître l’indépendance de l’Abkhazie et de l’Ossétie du Sud ou accepter les anciennes frontières de la Géorgie, tracées par Staline. C’est là une éventualité impensable, donc Tbilissi restera partenaire de l’OTAN mais son adhésion ne se fera pas dans un futur proche”.

 

Incertitudes au Kirghizistan

 

Passons maintenant du Caucase à l’Asie centrale: nous débouchons dans un espace où la Russie et les intérêts atlantistes s’opposent.

 

Cas atypique et, depuis le récent coup d’Etat, objet de toutes les attentions: le Kirghizistan. Dans cette ex-république soviétique cohabitent très proches les unes des autres des troupes russes et américaines, respectivement stationnées dans les bases de Kant et de Manas. Nous avons là un paradoxe qui pourrait bien ne plus durer très longtemps. Une fois les élections politiques et présidentielles, prévues pour le prochain automne, Bichkek prendra une décision définitive.

 

Aujourd’hui déjà, le gouvernement des Etats-Unis doit débloquer 15 millions de dollars qui serviront à payer partiellement le loyer de la base aérienne concédée aux Américains. Pour terminer, Washingbton devra débourser un total de 60 millions de dollars (c’est-à-dire trois fois autant que la somme déboursée jusqu’à l’an passé). Cette somme devra être payée chaque année sinon les locataires seront expulsés. Au Kirghizistan, la situation est donc précaire aussi.

 

Coopération russo-kazakh

 

En revanche, la coopération russo-kazakh, elle, semble de bonne augure. Les rapports entre les deux pays se sont consolidés. Moscou et Astana, depuis l’été, ont scellé un nouvel accord sur l’enrichissement de l’uranium à usage civil. C’est une nouveauté: les pays qui voudront développer leur industrie nucléaire pourront accéder aux technologies d’enrichissement disponibles. C’est tout à la fois une invitation à Téhéran et une garantie pour l’Iran à aller de l’avant dans son programme atomique.

 

Pietro FIOCCHI / p.fiocchi@rinascita.eu .

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 5 mai 2010; trad. franç.: Robert Steuckers ; cf.: http://www.rinascita.eu  ).