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mardi, 20 octobre 2015

La Turchia, il PKK e lo Stato Islamico

Il conflitto siriano e l’avanzata dello Stato Islamico premono ormai anche sulla Turchia di Erdoğan condizionando sempre più i suoi orientamenti geopolitici. Le posizioni turche sono dipese, e continuano a dipendere, da un’attenta valutazione delle proprie priorità strategiche dovendosi destreggiare tra due minacce altrettanto pericolose per i propri interessi vitali. Se con un occhio i centri decisionali turchi guardano infatti al terrorismo di matrice jihadista, con l’altro non possono ignorare la minaccia decennale proveniente dalle ambizioni curde. Il dilemma sembra dunque essere quello tra il combattere lo Stato Islamico, favorendo in questo modo la causa curda, o declassare la minaccia jihadista al secondo posto concentrandosi sulla trentennale lotta contro i curdi. Tale dubbio strategico sembra aver infettato i centri decisionali turchi almeno fino all’estate del 2015 quando il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) di Erdoğan ha dovuto affrontare anche una crisi interna legata alla perdita della maggioranza la quale ha necessariamente condizionato le scelte di politica estera.

La di per sé difficile gestione della tregua1 firmata nel 2013 tra Ankara e il PKK è stata progressivamente messa in crisi da due eventi fondamentali, uno esterno alla Turchia e l’altro relativo agli equilibri politici interni, i quali intersecandosi hanno reso sempre più difficili i rapporti tra Ankara e la minoranza curda fino a sfociare nei fatti di Suruc del 20 luglio.2

Il fattore esterno riguarda, come è logico intuire, la guerra in Siria. Proprio quest’ultima ha rafforzato il ruolo dell’Unità di protezione del popolo (YPG), braccio armato del Partito dell’Unione Democratica (PYD), partito indipendentista curdo vicino al PKK fondato nel 2003 nel nord della Siria. L’YPG ha sostanzialmente preso la guida delle operazioni di terra contro lo Stato Islamico in Siria, appoggiato da una coalizione internazionale refrattaria ad intervenire direttamente. Più la guerra in Siria prendeva forma e i curdi consolidavano le proprie posizioni, tanto più le tensioni tra Ankara e i curdi si esacerbavano. Da un lato, le accuse dei curdi nei confronti di Ankara si sono fatte più pesanti e pressanti, arrivando ad accusare i vertici turchi di aver fatto il doppio gioco appoggiando i jihadisti in funzione anticurda; dall’altro, quanto più l’YPG si presentava come il principale braccio armato di terra nella guerra contro lo Stato Islamico, tanto più la preoccupazione di Ankara diventava percepibile fino a raggiungere il suo punto massimo quando l’YPG ha proclamato la nascita dello Stato curdo vicino al confine meridionale della Turchia. Unendo i territori che da Kobane arrivano a Qamishli, il gruppo siriano curdo si è garantito una continuità territoriale la quale rappresenta, de facto, un primo tassello per la realizzazione del grande sogno trentennale curdo. Agli occhi di Ankara una simile entità politico-territoriale, situata per di più lungo i propri confini, non è tollerabile in quanto rappresenta chiaramente un pericoloso polo di attrazione per i curdi che vivono nella Penisola Anatolica.

La situazione così creatasi ha messo Ankara in una posizione scomoda costringendola ad una certa ambivalenza di intenti. Se, infatti, la Turchia non può di certo dichiarare esplicitamente guerra ai curdi, gli unici a farsi carico della lotta contro lo Stato Islamico sul terreno, è tuttavia altrettanto vero che la Turchia non può neanche impegnarsi in una guerra su larga scala contro lo Stato islamico poiché potrebbe essere l’unico vero freno alla costituzione di uno stato curdo al confine con la Turchia. In questo delicato scenario si inseriscono anche i rapporti tra la Turchia di Erdoğan e la coalizione internazionale anti-Stato Islamico capitanata dagli USA.

Fin dal 2014 gli USA hanno cercato l’appoggio della Turchia, considerandola il vero pivot militare nella strategia di indebolimento dello Stato Islamico. Pur di ottenere il sostegno turco e soprattutto le basi militari turche da cui attaccare le postazioni dello Stato Islamico, gli USA sembrano aver ceduto sulla possibilità che Ankara continui, senza troppe proteste da parte della comunità internazionale, la sua guerra su due fronti. La base militare di Incirlik sembra essere stata dunque barattata idealmente con una sorta di “chiudere gli occhi” in riferimento alla reale strategia di Ankara e materialmente con l’accettazione della richiesta turca di una No-fly zone nel nord della Siria. La No-Fly Zone, lunga 90 km e profonda circa 50, consentirebbe alla Turchia di raggiungere due principali obiettivi: da un lato ridurre la potenza militare di Assad, unico in campo a detenere una forza militare aerea, e dall’altro la zona cuscinetto così creata eviterebbe l’ulteriore avanzata dei miliziani curdi siriani dell’YPG volta a ricongiungere nuovi cantoni alla striscia di territorio già controllata. Sebbene celata dietro ragioni umanitarie legate soprattutto alla questione dei profughi siriani, la No-fly Zone permetterebbe, infine, alla Turchia di avere maggiore peso politico nel momento in cui si dovrà ricostruire la nuova Siria.

La delicata partita che si gioca tra i curdi e la Turchia di Erdoğan potrà, come è logico intuire, rafforzare, piuttosto che indebolire, le posizioni dello Stato Islamico. Quest’ultimo uscirebbe, in definitiva, come il grande vincitore nello scontro tra la Turchia e i curdi, traendo enormi vantaggi da un rinnovato clima di instabilità nelle regioni della Turchia a maggioranza curda. Lo Stato Islamico, infatti, direttamente minacciato sul terreno dall’YPG, vedrebbe in un simile scenario una dispersione delle forze nemiche curde su più fronti e soprattutto un rallentamento dei rifornimenti che giungono ai curdi siriani.

La Turchia non può attaccare lo Stato Islamico per non favorire il PKK, né dichiarare guerra ai Curdi che contengono l’espansione di ISIS. Ma il grande vincitore dello scontro tra Turchi e Curdi non potrà che essere lo Stato Islamico

Passando invece alle questioni interne, le elezioni parlamentari del 7 giugno e il risultato elettorale ottenuto dal HDP3 hanno significato per Erdoğan la fine, o perlomeno una battuta d’arresto non prevista, del suo sogno di modificare la costituzione così da trasformare la Turchia in un regime presidenzialista puro. Dopo aver sabotato la formazione di un governo di coalizione, il Presidente Erdoğan ha annunciato nuove elezioni anticipate per il prossimo primo novembre. Il presidente turco spera, dopo lo stop di giugno, di poter ottenere il massimo rendimento dalla delicata congiuntura, internazionale e nazionale, che si è venuta a creare.

In particolare, Erdoğan sembra voler sfruttare la difficile situazione esistente tra le varie anime del movimento indipendentista curdo al fine di poter recuperare i voti necessari per ottenere la maggioranza. Benché vi sia, infatti, una base comune tra l’HDP, il PKK e i gruppi curdi siriani, in realtà le tensioni tra tutte queste diverse fazioni non sono meno pericolose di quelle esistenti in generale tra i curdi e i turchi. Il PKK rischia di essere emarginato dai successi dell’YPG siriano ma anche di essere considerato un fattore meramente destabilizzante se paragonato al più pacifico HDP; la tenuta di quest’ultimo, reo, secondo i gruppi più estremisti, di aver mediato la tregua del 2013, è invece messa in pericolo dalla crescente instabilità nelle regioni a maggioranza curda a causa della ripresa della lotta da parte del PKK. In sostanza, la situazione creatasi pare fare il gioco di Erdoğan in quanto sembra potersi prospettare un possibile indebolimento dell’HDP e un conseguente recupero per l’AKP dei voti persi a giugno. Ma il partito di Erdoğan sta cercando di attingere voti anche da un altro bacino elettorale: il vero obiettivo degli F16 schierati contro lo Stato Islamico e le postazioni curde sembrerebbe essere in realtà, non tanto l’annientamento militare dei terroristi, quanto il recupero dei voti dei nazionalisti turchi persi dall’AKP a favore dell’MHP, il partito ultranazionalista turco. Occorre sottolineare a tal riguardo che in Turchia una forte maggioranza dell’opinione pubblica vede nel PKK una minaccia alla sicurezza superiore rispetto a quella proveniente dallo Stato Islamico.

La ripresa della lotta armata del PKK e gli F-16 schierati in Siria dovrebbero garantire a Erdoğan il recupero di voti nazionalisti e, con essi, della maggioranza parlamentare necessaria a modificare la Costituzione e introdurre in Turchia un sistema presidenziale puro.

La Turchia, insomma, è chiaramente schierata su due fronti: se da un lato attacca lo Stato Islamico, dall’altro non perde di vista la minaccia curda che si fa sempre più pressante. I curdi, infatti, difficilmente si lasceranno sfuggire l’occasione, oggi concreta più che mai, di realizzare il sogno di un Kurdistan unito e indipendente. L’impressione è dunque che Erdoğan stia sfruttando la situazione in Siria a proprio vantaggio in funzione anticurda sia all’esterno, contro la formazione di uno stato curdo unito, sia all’interno, contro lo straordinario risultato elettorale raggiunto dall’HDP. Gli effetti sull’intero contesto regionale di questo “secondo fronte” di guerra, sempre più caldo e carico di incognite a livello interno, non possono essere trascurati. Emblematico in questo senso il tragico attentato che ha avuto luogo ad Ankara il 10 ottobre 2015. La situazione regionale, già fortemente precaria e instabile, è ora esposta ad un ulteriore pericolo di escalation. È infatti evidente che nello scontro tra Turchia e PKK sia in gioco non soltanto l’evolversi di una guerra civile iniziata nel 1984 quanto piuttosto il futuro stesso della lotta contro lo Stato Islamico.

NOTE:

1È sicuramente innegabile che i limiti del cessate il fuoco del 2013 fossero già evidenti prima che la situazione siriana provocasse nuove tensioni. Una delle condizioni della tregua era che i miliziani del PKK abbandonassero la Turchia stabilendosi in Iraq; in cambio il governo turco avrebbe dovuto portare avanti alcune riforme costituzionali e provvedere ad una sorta di amnistia. L’esecuzione di questi passaggi è avvenuta lentamente e tra la sfiducia reciproca delle parti; di fatto non tutti i miliziani si sono ritirati dal territorio turco e l’amnistia non è mai stata promulgata così come non sono mai state portate avanti le riforme politiche richieste dai curdi. Inoltre, PKK e governo di Ankara, non hanno mai cessato di scambiarsi accuse reciproche di violazione degli accordi.
2 Il 20 luglio la città di Suruc, città al confine con la Siria a maggioranza curda, è stata scossa da un attacco suicida. L’attentato è stato apparentemente organizzato dallo Stato Islamico ma i curdi hanno accusato il governo turco di aver supportato i jihadisti. L’accusa è ormai sollevata dai curdi da mesi; l’attentato a Suruc non è stato altro, infatti, che la scintilla che ha dato il via formale a quel processo di accuse e recriminazioni reciproche tra il PKK e Ankara che fino all’estate del 2015 era spesso comparso soltanto fra le righe. I concitati eventi che ne sono seguiti, la risposta armata del PKK a Ceylanpinar e le successive contromosse turche, hanno definitivamente posto fine al cessate il fuoco provvisorio firmato da Ankara e dal PKK nel 2013.
3 Il PHD, il partito che si batte ormai da anni per l’uguaglianza dei diritti politici della minoranza curda, ha raggiunto il 13% nelle elezioni, superando quindi la soglia di sbarramento del 10% pensata proprio per evitare l’entrata in parlamento dei partiti filo-curdi.

lundi, 19 octobre 2015

Turkey: Slow-Motion Crash

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Turkey: Slow-Motion Crash

Turkey, once a pillar of Mideast stability, looks increasingly like a slow-motion truck crash.   What makes this crisis so tragic is that not very long ago Turkey was entering a new age of social harmony and economic development.

Today, both are up in smoke as this week’s bloody bombing in Ankara that killed 99 people showed.  America’s ham-handed policies in the Mideast have set the entire region ablaze from Syria to South Sudan and Libya.  Turkey sits right on top of the huge mess, licked by the flames of nationalist and political conflagrations and now beset by 2 million Syrian refugees.

As Saddam Hussein predicted, George W. Bush’s invasions of Afghanistan and Iraq opened the gates of hell.  Attempts by Washington to overthrow Syria’s Alawite regime – a natural US ally –  have destroyed large parts of that once lovely nation and produced the worst human disaster  since the ethnic cleansing of Palestinians in the late 1940’s and 1967.

Washington’s bull-in-a-China-shop behavior in the fragile Mideast came just as the Turkish government of Recep Erdogan had presided over a decade of stunning economic growth for Turkey,  pushed the intrusive armed forces back to their barracks, and achieved friendly relations with neighbors.  No Turkish leader in modern history had achieved so much.

Equally important,  the Erdogan government was on the verge of making a final accommodation with Turkey’s always restive Kurds – up to 20% of the population of 75 million – that would have recognized many new rights of the “people of the mountains.”

This was a huge achievement. I covered the bloody guerilla war on eastern Anatolia between Turkey’s police and armed forces, and tough Kurdish guerillas of the Marxist-Stalinist PKK movement.  By 1990, some 40,000 had died in the fighting that showed no hope of resolution.

Thanks to patient diplomacy and difficult concessions,  PM Erdogan’s Islamist –Lite AK Party managed to reach tentative peace accords with the PKK and its jailed leader, Abdullah Ocalan in spite of fierce resistance from Turkey’s generals, violent semi-fascist nationalist groups and equally dangerous leftist revolutionaries.

Peace with the Kurds went down the drain when the US intensified the war in Syria and began openly arming and financing Syria’s and Iraq’s Kurds.   Various Kurdish groups became involved in the Syria fighting against the Assad regime in Damascus and against the Islamic State – which had been created by Saudi Arabia and the CIA to attack Shia regimes.  Turkey struck back,  and the war with the Kurds resumed.  A decade of patient work kaput.

Turkey’s prime minister – and now president – Erdogan had led his nation since 2003 with hardly a misstep.   Then came two disastrous decisions.  First, Erdogan dared criticize Israel for its brutal treatment of Palestinians and killing of nine Turks on a naval rescue mission to Gaza.   America’s media, led by the pro-Israel Wall Street Journal, New York Times and Fox News have made Erdogan a prime target for savage criticism.

Second, for murky reasons, Erdogan developed a hatred for Syria’s leader, Bashar Assad, and allowed Turkey to serve as a  conduit and primary supply base for all sorts of anti-Assad rebels, most notably the so-called Islamic State.  Most Turks were opposed to getting involved in the Syrian quagmire.  Doing so unleashed the Kurdish genii  and alienated neighbor Russia.

Turkey’s blunder into the Syrian War has enraged the restive military, which has long sought to oust Erdogan and return the nation to Ataturkism, the far-right political creed of  Turkey’s anti-Muslim oligarchs, urban and academic elite.  Now, Turkey’s long repressed violent leftists are stirring trouble in the cities.  Fear is growing that Turkey might return to its pre-Erdogan days of bombings, street violence, and assassinations – all against a background of hyperinflation, soaring unemployment and hostile relations with its neighbors.

One hears rumbles of a Turkish conflict with Armenia over its conflict with Turkish ally, Azerbaijan.  Greece is nervous and moving closer to Israel. Oil and gas finds in the eastern Mediterranean are heightening tensions.

With the biggest and best armed forces in the region save Israel, Turkey may yet intervene in Syria – which used, before 1918, to be part of the Ottoman Empire.

The US often accuses Erdogan of wanting to be an Ottoman Sultan, yet is pushing him to use his army in Syria.

dimanche, 18 octobre 2015

Syrie – Un nouvel axe Moscou-Pékin

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Syrie – Un nouvel axe Moscou-Pékin

Michel Garroté
Politologue, blogueur
Ex: http://www.lesobservateurs.ch

En mai dernier, le Parti islamique du Turkestan (TIP), organisation djihadiste des musulmans ouïghours du Turkestan oriental, le Xinjiang, situé en Chie occidentale, a publié une vidéo montrant le rôle de ce groupe dans la bataille pour s’emparer de la ville syrienne Jisr Al-Shughur. En outre, divers médias ont évoqué le rôle de la Chine, aux côtés de la Russie, dans le conflit syrien (concernant ces deux événements, voir les nombreux liens vers sources en bas de page).

Dans ce contexte, sur lepoint.fr, Caroline Galactéros écrit notamment, le jeudi 15 octobre 2015 (extraits adaptés ; voir lien vers source en bas de page) : Les Chinois tirent parti du mouvement russe en le rejoignant dans une démonstration de puissance et de contre-influence inédite vis-à-vis de Washington. Pékin affiche aussi sa détermination à éradiquer à la racine la menace séparatiste ouïghour, comme les Russes le font vis-à-vis du Caucase avec les Tchétchènes. Leur porte-avions Liaoning est désormais à Tartous, porteur de chasseurs bombardiers J15, d'un millier d'hommes et d'hélicoptères d'attaque. Il y a retrouvé le sous-marin géant russe Dimitri Donskoi, doté de 20 missiles intercontinentaux (200 têtes nucléaires, portée 10 000 kilomètres) et le croiseur lance-missiles Moskva. La Méditerranée orientale est donc sanctuarisée.

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Djihadistes de l'EI: parmi eux, des Ouighours, citoyens chinois

Caroline Galactéros : Un déploiement de puissance qui vise une démonstration d'ordre stratégique, bien au-delà de la Syrie et même du Moyen-Orient. En déployant des vaisseaux de guerre dissuasifs au propre et au figuré, en tirant depuis la Caspienne des missiles de croisière Kalibr, Moscou (et Pékin) démontrent non seulement leur renaissance militaire, mais adressent à Washington un avertissement tangible : l'Eurasie n'est plus sous contrôle américain. L'axe Moscou-Pékin, avec leurs clientèles associées en cours de consolidation, consacre la montée en puissance d'un challenger sécuritaire à l'Otan : l'organisation de Shanghaï.

Caroline Galactéros : Le leadership américain sur l'Orient a vécu. À cet égard, la centralisation de la coordination opérationnelle entre la Russie, l'Iran, l'Irak, la Syrie, et le Hezbollah de manière plus informelle, que certains appellent « l'axe 4+1 », marque une convergence d'intérêts sans équivoque, même si chacun conserve son propre agenda et ses arrière-pensées. Le gouvernement irakien vient d'ailleurs de donner à Moscou l'usage de sa base al Taqadum de Habanniyah, à 75 kilomètres de Bagdad, qui permet d'ouvrir un corridor aux avions russes vers la Syrie, mais pourrait aussi servir de base pour des missions russes de bombardement au nord de l'Irak même.

Caroline Galactéros : L'installation de la Russie comme acteur majeur au Moyen-Orient, arrière-cour américaine traditionnelle, est aussi une « réponse du berger à la bergère » aux actions diverses de déstabilisation américaines et occidentales dans sa propre arrière-cour : ex-satellites soviétiques mais surtout Ukraine, Géorgie, et désormais Azerbaïdjan qui subit de croissantes pressions américaines. La Russie sera donc au cœur de tout accord politique futur, pour le garantir ou le compromettre si elle n'y trouve pas son compte. Les États-Unis et leurs alliés, qui ne peuvent plus s'opposer à l'offensive russe, en sont réduits à jouer désormais Moscou contre Téhéran, probablement en marchandant avec les uns ou les autres la levée des sanctions en échange d'un affaiblissement de leur alliance de circonstance en Syrie et en Irak.

Caroline Galactéros : Moscou réalise un rêve vieux de cinq siècles, celui d'une puissance militaire russe durable en Méditerranée, mais surtout poursuit une ambition majeure : celle d'un monopole russe des routes et de la distribution de gaz vers l'Europe via la démonétisation énergétique de l'Ukraine par le nord, avec notamment la bénédiction allemande, et le contrôle de la concurrence iranienne ou qatarie qui pourrait emprunter les pipelines du nord de la Syrie. La Méditerranée orientale regorge de gaz et les enjeux énergétiques en arrière-plan de ces grandes manœuvres ne doivent pas être oubliés car, comme toujours, les grilles de lecture économiques du conflit, soigneusement éludées par les acteurs, sont en fait premières.

 

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Caroline Galactéros : Si l'on prend un peu plus de recul encore, on voit se confirmer le basculement du focus stratégique américain vers la mer de Chine orientale. Le président Obama, qui ne peut « être au four et au moulin » militairement parlant, paraît contraint de laisser faire les Russes au Moyen-Orient pour pouvoir redéployer sa flotte en Asie et venir au secours de ses protégés locaux qui s'inquiètent des ambitions de plus en plus tangibles de Pékin de faire de la mer de Chine sa mare nostrum, conclut Caroline Galactéros, le jeudi 15 octobre 2015, sur lepoint.fr (fin des extraits adaptés ; voir lien vers source en bas de page).

Michel Garroté

http://www.memrijttm.org/jaysh-al-fath-affiliated-group-exhorts-westerners-foreign-fighters-to-come-to-syria.html#_edn2

http://www.express.co.uk/news/world/610286/China-preparing-to-team-up-with-Russia-in-Syria-Boost-for-Putin-in-battle-against-ISIS

http://english.alarabiya.net/en/views/news/middle-east/2015/10/06/Are-the-Chinese-coming-to-Syria-.html

https://www.facebook.com/SCOCooperation?fref=nf

http://lainfo.es/en/2015/10/06/china-could-join-russias-action-against-terrorism-in-syria/

http://english.farsnews.com/newstext.aspx?nn=13940706000731

http://www.debka.com/article/24926/Chinese-warplanes-to-join-Russian-air-strikes-in-Syria-Russia-gains-Iraqi-air-bas

http://www.europe-israel.org/2015/10/syrie-des-enfants-ouighours-chinois-apprennent-a-combattre-dans-les-camps-dentrainement-de-letat-islamique/

http://www.lepoint.fr/invites-du-point/caroline-galacteros/galacteros-syrie-les-enjeux-caches-de-l-intervention-russe-15-10-2015-1973777_2425.php

   

jeudi, 15 octobre 2015

Pourquoi le suicide de la Turquie?

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Pourquoi le suicide de la Turquie?

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www;europesolidaire.eu

On peut se demander par quelle pathologie sociale un peuple de 77 millions d'habitants, jouissant de potentialités qui pourraient faire envie à la plupart des Etats européens, se laisse emporter par des réflexes venus du fond des âges, dont on pensait qu'avec Ataturk et surtout depuis les dernières années, quand il postulait l'entrée dans l'Union européenne, il avait commencé à se débarrasser.

La question se pose plus particulièrement à l'égard des 15 à 20% de turcs occidentalisés qui auraient parfaitement leur place dans l'Union européenne, et qui se laissent entrainer comme les autres au désastre.


Lors d'un séjour au Japon le 7 octobre, suivant un passage en France et en Belgique, le président Recep Tayyip Erdogan avait affirmé qu'il était préparé à se confronter avec la Russie, non seulement au sujet de violations supposées de son espace aérien, mais concernant l'intervention russe en Syrie, coupable de soutenir Bashar al Assad dans sa lutte contre l'Etat islamique (EI). Erdogan aurait ce faisant, a-t-il dit, le plein soutien des Etats-Unis et de l'Otan. Entre les lignes, on pouvait lire qu'il était ainsi prêt à provoquer un affrontement entre les deux plus grandes puissances nucléaires mondiales.

Mais dans quels buts? Les attentats ayant frappé des manifestants pro-kurdes du parti Démocratique du Peuple (HDP), les 10 et 11 octobre peuvent peut-être suggérer quelques réponses. Il a été peu observé par la presse internationale que la police turque avait dès après les attentats puis lors des défilés de deuil ultérieur , attaqué aux gaz lacrymogènes les militants du HDP. De même le premier ministre intérimaire Ahmet Davutoglu avait interdit tout reportage sur ces attentats, ce qui ne fut d'ailleurs pas observé.

Manifestement, pour Erdogan, l'ennemi à combattre sont les Kurdes. C'est d'ailleurs contre eux en Syrie qu'il réserve ses frappes aérienne, ménageant soigneusement les combattants de l'EI.  Il a été dit que ce faisant, il espère rallier les éléments turcs les plus conservateurs en vue de redonner une majorité absolue à son parti, l'AKP, aux prochaines élections du 1er novembre. Mais faire porter à Erdogan, autocrate mégalomane, la responsabilité du désastre menaçant aujourd'hui la Turquie, ne suffit pas. Ni Erdogan, ni son parti l'AKP, représentant les intérêts des riches industriels simultanément avec ceux des musulmans les plus arriérés, ne suffit pas. Il faut voir dans tout ceci la main, non comme l'on disait jadis de Moscou, mais de l'Amérique.

La main de l'Amérique

Là encore, comme dans d'autres parties du monde, notamment en Ukraine, la responsabilité de cette descente aux enfers repose essentiellement sur la politique américaine. On dira qu'il est facile de faire des Etats-Unis la cause de tous les maux qui accablent l'Europe et le Proche -Orient. Cependant, il est difficile de nier que depuis la fin de la seconde guerre mondiale, l'Empire américain avait décidé de lutter par tous les moyens, hors l'affrontement atomique, contre l'URSS d'abord, la Russie ensuite.

Ce furent d'abord la création de l'Union européenne puis de l'Otan, utilisées comme bastion avancés pour contenir puis faire reculer la Russie. Ce fut plus récemment l'embrigadement de la Turquie dans cette lutte. Si celle-ci, avec sa position géographique et ses richesses potentielles, avait rejoint la couronne d'Etats musulmans plus ou moins sensibles à l'influence de Moscou, une bonne part de la ceinture de sécurité, potentiellement offensive, dont l'Amérique avait réussi à entourer la Russie s'effondrait.

Pour cela la diplomatie, l'armée et la CIA firent tout ce qu'elles pouvaient pour soutenir en Turquie des archaïsmes dont la plupart des Etats européens avaient réussi à se débarrasser: illusion de pouvoir créer un Etat islamique turc lointain successeur de l'Empire ottoman, refus d'une fédéralisation entre l'Etat turc et le Kurdistan turc, maintien de l'influence d'un islam rétrograde, anti féministe et anti-ouverture, acceptation de la domination au plan gouvernemental de partis directement représentants des maffias, répression de la minorité sociologique moderne proche de l'Europe à tous égards...Ajoutons que sous la pression américaine la Turquie avait du renoncer à servir de "hub" au gazoduc proposé par la Russie, prématurément nommé Turkishstream.

Plus récemment, l'Amérique avait quasiment obligé la Turquie à servir de base arrière à l'Etat islamique (EI) lorsqu'il lui était devenu impossible de financer ouvertement celui-ci. Ceci au moment où les Kurdes du Parti de l'Union Démocratique, le PYD - le parti kurde syrien, qui administre le Kurdistan syrien depuis trois ans et qui est proche du Parti des Travailleurs du Kurdistan, le PKK en Turquie - combattaient l'EI à Kobané.

Les Etats-Unis acceptèrent de laisser faire les bombardements turcs contre les positions kurdes en Syrie au moment où ils avaient prétendu inclure la Turquie dans la coalition d'Etats arabes initialisée par Obama et prétendant frapper l'EI en Irak et en Syrie. Dans le même temps, la Turquie était implicitement encouragée à faire passer renforts en matériels et combattants djihadistes destinés à l'EI, par sa frontière plus que poreuse avec la Syrie. Il y a tout lieu aussi de penser qu'elle a été incitée à abriter plus de 2 millions de réfugiés, non pas en vue de sauver ces derniers, mais d'en faire à terme la source de flux de migrants destinés à déstabiliser ceux des Etats européens qui montraient, telle l'Allemagne et la France dans la formation dite « Normandie », des velléités de rapprochement avec la Russie.

Quant aux causes précises des derniers attentats, elles demeureront sans doute toujours ignorées, même si certains groupes manipulés les revendiquaient dans quelques jours. Disons que les manifestants démocratiques à Ankara, il est vrai petite minorité pourchassée, en butte elle-même à des attentas fomentés par le régime, comme l'est Selahattin Demirtas, co-dirigeant du HDP, tiennent clairement Erdogan et ceux qu'ils appellent sa clique de tueurs en série, responsables d'avoir provoqué l'attentat. Ceci afin que les forces conservatrices, effrayées , se rapprochent de l'AKP, le parti « islamo-conservateur » d'Erdogan, notamment lors des élections du 1er novembre, ou mieux encore, afin que ces élections soient reportées indéfiniment.

Comment, a dit Demirtas, admettre qu'un Etat tel que l'Etat turc, disposant d'un réseau d'informateurs considérable (ndlr. directement informés du reste par la CIA et la NSA), n'ait pas eu vent de la préparation d'un attentat de cette ampleur. Aucun orateur du HDP, non plus qu'à ce jour du PKK, n'est allé cependant jusqu'à mettre en cause, comme nous le faisons ici, sinon directement, du moins indirectement, la responsabilité de Washington. Une certaine prudence reste nécessaire en Turquie.

Notes

Pour mieux s'informer sur la Turquie et sur le Kurdistan turc, on lira les articles de Wikipedia, qui semblent à première vue très objectifs

Jean Paul Baquiast

mercredi, 14 octobre 2015

Is the European Union a U.S. Puppet?

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Is the European Union a U.S. Puppet?

The architects of the European Union argue that their construction is an unprecedented achievement following the fratricidal conflicts of the World Wars. Indeed, never before have sovereign nation-states freely consented to forming such a trade bloc and currency union. Furthermore, advocates of European integration argue that the Union’s common citizenship, promotion of regional identity, and open internal borders have softened the harsh lines between national identities. Many Identitarians have welcomed these aspects of the EU as a healthy manifestation of “implicit whiteness.”[1]

The EU, however, has more often been an object of contempt for most nationalists as impotent or as a destructive emanation of American power.[2] Indeed, for them the EU is not a manifestation of European sovereignty, but is rather an enforcer of the blank-slatist and globalist ideology which is leading to the physical replacement and reduction to minorityhood of indigenous Europeans in their own homelands. In this article I hope to shed light on this complex problem, disentangling the American role and indigenous European agency in the emergence of the EU as a decidedly “liberal” project.

The Traditional Critique: An Americano-Globalist Project

USA-UE-W-161x300.jpgThe traditional nationalist critique of existing European integration is that, far from reflecting European identity and interests, the project is a fundamentally anti-European one based on globalist ideology and American power.

This critique would cite the interwar Austro-Japanese writer Count Richard Nikolaus von Coudenhove-Kalergi, who argued that European unity would pave the way for the genocide of the indigenous peoples of Europe through universal miscegenation and the creation of the “Eurasian-Negroid race of the future, similar in its appearance to the Ancient Egyptians.” This would be an Endlösung to the racial question, so to speak.[3] Coudenhove-Kalergi specifically praised Jews for their leading role as “a spiritual nobility of Europe.” These feverish speculations were not merely those of a marginal, alienated half-caste, given that Coudenhove-Kalergi was formally recognized for his decades of activism by being awarded the first Charlemagne Prize by the city of Aachen in 1950, the official honor for mainstream Europeanism.

The nationalist critique could further cite the French cognac salesman and CIA-funded political operator Jean Monnet, no doubt the most influential postwar advocate of European integration and the first president of the European Coal and Steel Community. Monnet was not only clearly an expression of American and corporate power – European unity as the destruction of borders restraining international capitalism and getting the West Europeans in marching order for eventual war with the Soviet Union – but also saw the “European Community” as a mere intermediary step to a kind of global government.[4]

Nationalists would further argue that the European Union has used its power to undermine the homogeneity and sovereignty of European nations. In particular, the EU’s so-called “European values” are based on an anti-national and neoliberal ideology, hell bent on promoting blank-slatist and politically-correct censorship legislation, tearing down national borders, deracinating national bourgeoisies, and making states beholden to financial markets under the euphemistic label “market discipline.” The most symbolically shocking recent example of this has been the big Western European states’ decision during the current migrant crisis to impose a redistribution of Afro-Islamic settlers across Europe, including against unwilling and innocent Central European nations.

The EU’s geopolitical impact in this respect is undeniable. There are strong economic incentives for poorer nations to join the “European club,” with carrots such as access to the Common Market, funding from the EU budget (with net transfers of up to 2 percent of GDP), and unlimited immigration opportunities to the wealthier countries. These promises, which can be considered a form of bribery, have had a considerable effect in undermining nationalist regimes in southern Europe and Russian influence in Serbia, Moldova, and Ukraine.

French Attempts to “Turn” the European Project

The European Union however cannot simply be reduced to an American emanation, if only because European politicians – and in particular French ones – have sought to turn it into a genuinely independent power. This was evident in President Charles de Gaulle’s push for an almost non-aligned foreign policy based on cooperation with the Third World, rapprochement with West Germany, and emancipation of Europe from the United States of America.

In practice however, the General failed to pry the insecure West Germans from the United States and the achievements for Europe were singularly modest: The exclusion of Great Britain – considered to be an American Trojan horse – from the European Economic Community, the securing of substantial mostly German-funded subsidies for French farming under the Common Agricultural Policy, the maintenance of moderate tariffs at about 0.5 percent of GDP,[5] and the blocking of any further “Atlanticist” integration with the veto. De Gaulle was clearly more successful in securing some narrow French interests rather than broader European ones.[6]

De Gaulle’s failure is indeed humbling. Francis Parkey Yockey no doubt said more in a passing comment on the ambiguities of the General’s career and his brand of French nationalism than many hundreds of pages of official Gaullist hagiography: “De Gaulle wants more: he wants to be equal to the masters who created him and blew him up like a rubber balloon.”[7]

Later, President François Mitterrand would go further than ever in pushing for European integration – above all the creation of a common currency, the euro – in a kind of grand experiment meant to finally and really establish a European sovereignty, make Franco-German war impossible, and emancipate Europe from the “exorbitant privilege” of the U.S. dollar.[8] This was a rare example of visionary, almost transcendental politics, at least by the standards of these otherwise lifeless bourgeois regimes concerned with no more than money-chasing (although, characteristically, this materialistic ambition largely reduced “European unity” to . . . money, and was based on the lie that this would increase GDP, and hence, lead to more money). The French also persistently pushed to create a “Europe de la défense” as a rival to NATO in the 1990s, but in practice this rather nebulous concept amounted to a few, mostly minor, EU military operations and more-or-less inspired multilateral military-industrial projects.

Thus, many of the specifics of European integration were not designed by the Americans, notably on agricultural and monetary[9] policies, but rather reflected Franco-German compromise. More broadly the project is also one of Europe’s indigenous national bourgeoisies seeking to rationalize relations between their capitalist economies.

Apologists of the European Union then argue that it is a genuinely independent power. This has often been grossly exaggerated, no doubt in a crude attempt to legitimize the entity and dull Europeans’ awareness of their rapid and programmed decline in power and influence around the world.[10] Nonetheless, there is truth to the EU’s claims of economic power as a trade bloc, wherever there is consensus. This has arguably given Europeans certain advantages of scale not available to their smallish nation-states. American and Asian companies must respect the Common Market’s regulations (consumer, health, environmental . . .). Brussels directly negotiates trade agreements with other capitals (notably with Washington[11]), conducts anti-dumping/anti-subsidy investigations against China, and imposes sanctions against Russia. Finally, even the largest multinationals (Google, Goldman Sachs . . .) may fear the injunctions and potential multi-billion euro fines of the European Commission’s Competition authorities.

Most significantly, the EU has occasionally used its power against U.S. interests. In 2001, the European Commission blocked the merger of GE and Honeywell, two American firms, to prevent an aerospace oligopoly. The firms respected this ruling, despite the fact that U.S. authorities had approved the merger, so as to not be excluded from the European market. In 2002, the EU retaliated against U.S. tariffs on steel, leading the Bush Administration to back down the following year. What’s more, the euro has emerged as a rival reserve currency to the U.S. dollar[12] and has been used as a trading currency by various anti-American regimes – such as Cuba, North Korea, and Syria – instead of the dollar. The EU is also financing Galileo, a satellite navigation project meant to give Europeans strategic autonomy from America’s Global Positioning System. The European Union is then not wholly American in its origins and has taken some, albeit modest, anti-American actions.

“The small, miserable Europe of today”

On the whole however, we would have to admit that the European Union’s achievements as a Weltmacht, especially with regard to independence from the U.S., are a very thin gruel indeed. In practice, the EU’s theoretical status as “soft economic superpower” (if that is not already a contradiction in terms) is mitigated by the fact that the participating nation-states are ultimately sovereign, insofar as they have armies and administrations, and so could in principle withdraw or disobey at any time.

The European Union then functions somewhat like the United States did under the Articles of Confederation, the German Confederation, or the Polish-Lithuanian Commonwealth under the liberum veto. No consensus – because a foreign power (the U.S., China, Russia . . .) bribes or intimidates a national government to provide a veto or because of any national unilateral action – and the thing falls into irrelevance or outright collapse. One wonders what Carl Schmitt would have made of all this . . .

A rather miserly form of “power” indeed. Belgian Rexist leader and Volksführer der Wallonen Léon Degrelle’s assessment [2] from the 1970s appears as relevant as ever: “The small, miserable Europe of today, of this impoverished Common Market, cannot give happiness to men.” Again a National Socialist critique, in a single sentence, gets to the heart of a problem and cuts through so much of the turgid theological prose to be found in “EU studies.”

What’s more, the singular attempt to create a kind of European sovereignty, the euro, has thus far proved a continuous embarrassment and at times even an existential problem. In practice, while the European Central Bank is in some respects a worthy rival to the U.S. Federal Reserve, the Eurozone ultimately has thus far increased Europeans’ dependency on financial markets and vulnerability to speculation by Wall Street, the City of London, and others. The Eurozone has neither the solidary community of a nation nor the power and responsibility of a state. Instead, there is a kind of perpetual leaderless chaos and constant recrimination between peoples. An anti-Führerprinzip and anti-Volksgemeinschaft, if you will. This is indeed a startling illustration of the power and relevance of the nation-state.

America: Forger of “European” Consensus

The European Union – often termed an usine à gaz – is then little more than an enabler and reflection of consensus among its nation-states. But what shapes the cultural and political consensus in Europe? It is obvious that, above all, cultural and political consensus in Europe, insofar as these exist, has been largely shaped by American military, cultural, and diplomatic power. This is evident both historically and up to the present day.

Eurmerica [3]

The Transatlantic Market . . . “Help!!!”

Above all, it is the United States – in alliance with Joseph Stalin to whom Franklin Roosevelt gave half of Europe at Yalta –  which destroyed the native French and German governments during the Second World War and imposed bourgeois and anti-nationalist regimes. The Gaullo-Communist coalition won the “Franco-French civil war” against the French State of Vichy on the back of Anglo-American bombing and invasion, purging the Right in France. The Allies “reeducated” the Germans towards anti-Nazism and self-hatred through a systematic campaign of total war against the German people (including incineration of hundreds of thousands of innocent civilians, the ethnic cleansing of 9 million Germans, the mass rape of German women, systematic political persecution of National Socialists and historical revisionists, and ongoing military occupation). The corrupt French Fourth Republic and the traumatized German Federal Republic, both born from the loins of a corrupted America, founded the European Communities on a particular anti-national and Atlanticist basis at the instigation of U.S.-funded agents like Jean Monnet and in the shadow of the Soviet threat.

In fact, the immediate postwar regimes of Europe – while formally “antiracist” – only fully lost their ethnic consciousness over many years.[13] This reflected the steady rise of the blank-slatist, individualist-egalitarian, and multiculturalist Left, on the back of the ’60s cultural revolution and  American cultural power. This modern liberalism is a kind of auto-immune disorder: Europeans’ otherwise healthy instinct to purge “the bad,” necessary in any society, is channeled against those very people, patriots, who would preserve the organic integrity of their societies. This ideology – whatever weight one ascribes in its origins to indigenous French and American liberal trends or to Jewish cultural power[14] – has metastasized and achieved a certain autonomy in the European Union, and in particular in the Western states, as synonymous with the fameux “European values.”

The United States is, depressing as this may be, the single biggest contributor to “cultural consensus” among European nations today, through the profound influence in both elite and mass culture of Hollywood, the Ivy Leagues, pop music, prestigious print publications, and so on. Common European culture today stems not from our Greco-Roman and Indo-European myths, not from Christian religion and the churches, not even from our Renaissance and Enlightenment philosophy, but from the lowest American culture, produced by a notoriously deceitful elite. Nor is our common culture provided by Europe’s official multilateral cultural projects like the Franco-German TV channel Arte and the channel Euronews, which have markedly limited audiences. The steady, and now almost complete, rise of English as the European lingua franca, however useful the language of Shakespeare might otherwise be, has also furthered Anglo-American cultural hegemony.

Indeed, the center-left Jewish historian Tony Judt has observed that the Shoah has emerged as the central focal point of historical remembrance in Western European nations:

Far from reflecting upon the problem of evil in the years that followed the end of World War II, most Europeans turned their heads resolutely away from it. [. . .] Today, the Shoah is a universal reference. The history of the Final Solution, or Nazism, or World War II is a required course in high school curriculums everywhere. Indeed, there are schools in the US and even Britain where such a course may be the only topic in modern European history that a child ever studies. There are now countless records and retellings and studies of the wartime extermination of the Jews of Europe: local monographs, philosophical essays, sociological and psychological investigations, memoirs, fictions, feature films, archives of interviews, and much else. Hannah Arendt’s prophecy would seem to have come true: the history of the problem of evil has become a fundamental theme of European intellectual life.[15]

This centrality – which not coincidentally serves to stigmatize European ethno-nationalisms everywhere and apologize for Jewish ethno-nationalism in Israel and Jewish privilege in general – unquestionably reflects both American victory in the Second World War and the influence of American culture, rather than indigenous European trends.

Finally, the United States shapes the political consensus in the European Union through its unparalleled diplomatic power. Washington thus can typically block any major joint European action against American or Israeli interests (see the divided European reaction over the 2003 Iraq War and the failure to pass significant EU sanctions against Israel). What’s more, to the extent Europeans do adopt a common foreign policy, this tends to be shepherded by Washington and thus serve American geopolitical imperatives (e.g. the still-existing project of Turkish EU membership and the EU sanctions against Iran and Russia).

Conclusion: Towards a European Europe

The European Union then is not a counterweight to American power and, on the contrary, substantially reflects a European political consensus shaped by the United States. All that said, the history of the EU makes me rather optimistic about the prospects for our Continent if only the American Empire’s influence could be eliminated and we could become psychologically and culturally sovereign. Then Europeans would actually start thinking about their survival, rather than dully going along with their decline on the back of Hollywoodian propaganda and the false sense of security provided by NATO.

Europe alone, I dare to hope, would be able to forge a new cultural consensus[16] which would allow us to flourish again. We can easily imagine a new Europe in which our nations would organize to defend their sovereignty, notably in the economic sphere, to create cultural projects promoting European civilization and pride (a retooled Arte), to create a genuine European spiritual and cultural elite (a reformed Erasmus student exchange program going beyond an academic pretext for drunkenness abroad), and to use the European ingenuity of Airbus to defend our southern borders rather than those of corrupt Arab oligarchs [4]. Yes, the European is a creative breed and, once he identifies a problem, few are so idealistic and ingenious in reaching solutions.

Notes

1. See Guillaume Durocher, “Is the EU ‘racist’?: Implicitly White Themes in EU Ideology & Propaganda,” North American New Right,  July 2, 2015. http://www.counter-currents.com/2015/07/is-the-eu-racist/ [5]

2. This theme has been most successfully popularized in France by the anti-EU and anti-American nationalist François Asselineau, who leads the Union Populaire Républicaine. Asselineau has also sought to portray the EU as a kind of crypto-Nazi construct on the grounds that Walter Hallstein, the first president of the European Commission, was a “Nazi lawyer” under the Third Reich . . . See also Guillaume Durocher, “Is the EU ‘fascist’?,” North American New Right, June 15, 2015. http://www.counter-currents.com/2015/06/is-the-eu-fascist/ [6]

3. Another prominent miscegenationist theory was that of Mexican thinker and politician José Vasconcelos who called for the creation of la Raza Cósmica, a kind of a super-race composed of the best of European, African, and Asian blood. Vasconcelos believed that European blood would be more prominent in such a race. This theory can be considered a mystical rationalization for Mexico as a failed nation and continues to lend its name to the National Council of La Raza, the leading Hispanic ethnic lobby. See also Matt Parrot, “Cosmic America,” North American New Right, December 13, 2010. http://www.counter-currents.com/2010/12/cosmic-america/ [7]

4. Monnet’s American connections and the wider context of the heady days of postwar European federalism are discussed in detail in Richard J. Aldrich, “OSS, CIA and European unity: The American committee on United Europe, 1948-60,” Diplomacy & Statecraft, 8:1, March 1, 1997, 184-227. http://www2.warwick.ac.uk/fac/soc/pais/people/aldrich/publications/oss_cia_united_europe_eec_eu.pdf [8]

5. Gabriele Cipriani, “Financing the EU Budget: Moving Forwards or Backwards,” Centre for European Policy Studies (2014), 5. http://www.ceps.eu/system/files/Financing%20the%20EU%20budget_Final_Colour.pdf [9]

6. In this respect, we can also cite French semi-withdrawal from NATO, eviction of U.S. troops from French soil, and the creation of an independent French strategic nuclear deterrent (the force de frappe) – that at least France might survive the eventual Soviet-American nuclear war.

7. Francis Parkey Yockey, “The World in Flames: An Estimate of the World Situation,” February 1961. http://www.counter-currents.com/2011/07/the-world-in-flames-an-estimate-of-the-world-situation/ [10]

8. Discussed at length in Guillaume Durocher, “François Mitterrand: European Statesman, anti-American, & Judeophobe,” North American New Right, August 18, 2015. http://www.counter-currents.com/2015/08/francois-mitterrand/ [11]

9. Indeed, elite American economic commentators – whom we have to observe are largely Jewish – were overwhelmingly skeptical and even bemused by the Eurozone project, which we might deem to be yet another example of typically goyishe impractical idealism.

10. The postwar founders of the European Communities had incredible “federalist” pretensions despite an almost total lack of sovereign powers, their resources being reduced to the good will of national governments, U.S. support, and a secretariat in Brussels. Unbelievably overstated claims of the EU’s power and influence as a Weltmacht have been made in recent years, typically by Atlanticist pundits and professors who know they will be rewarded for going with the grain and flattering Eurocratic pretensions. See for example, Mark Leonard, Why Europe Will Run the Twenty-First Century (Public Affairs, 2006) and Andrew Moravcsik, “Europe, the Second Superpower,” Current History, March 10. https://www.princeton.edu/~amoravcs/library/current_history.pdf [12]

11. Namely with the famous Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), formerly known as TAFTA, which has attracted opposition from a wide array of leftists and nationalists, seeming to revive an old undercurrent of anti-Americanism in Europe for whom the U.S. is synonymous with unbridled corporate power and capitalist materialism. This same undercurrent has driven opposition to genetically-modified organisms (GMOs) and the “investment firm” Goldman Sachs. Incidentally, in one of his more inspired moments, Bernard-Henri Lévi argued that Danish opposition to  Goldman Sachs was “anti-Semitic” and indeed has argued that anti-Americanism in general is “anti-Semitic” . . .

12. The euro is today a distant second to the U.S. dollar as reserve currency, but nonetheless far ahead of any other.

13. In particular, President de Gaulle privately justified the abandonment of French Algeria on ethno-nationalist grounds, arguing that France could never assimilate tens of millions of Arabs. He remarked that Frenchmen and Arabs would never mix: “Try to integrate oil and vinegar.”

In West Germany, postwar leaders encouraged ethnic German immigration (Aussiedler) back to the fatherland and were highly skeptical of Turkish immigration, with Chancellor Helmut Kohl even having a proposal of halving the Turkish population in Germany through remigration. See Guillaume Durocher, “Merkel’s Betrayal: From the Ethno-National Principle to Afro-Islamized Germany,” The Occidental Observer, September 16, 2015. http://www.theoccidentalobserver.net/2015/09/merkels-betrayal-from-the-ethno-national-principle-to-an-afro-islamic-germany-part-1/ [13]

14. See the pioneering work of Professor Kevin B. MacDonald: The Culture of Critique: An Evolutionary Analysis of Jewish Involvement in Twentieth-Century Intellectual and Political Movements (1st books library: 2002) and “Understanding Jewish Influence I: Background Traits for Jewish Activism.” http://www.kevinmacdonald.net/understandji-1.htm [14]

15. Tony Judt, “The ‘Problem of Evil’ in Postwar Europe,” The New York Review of Books, February 14, 2008.  http://www.nybooks.com/articles/archives/2008/feb/14/the-problem-of-evil-in-postwar-europe/ [15]

16. Incidentally, there is a precedent in European Christendom, which created a cultural consensus among European elites across nations and states. This was a powerful factor of unity, especially against Muslim invasions, whatever one thinks of the wider problems and long-term effects of Christian doctrine.

 

 

 

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

 

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[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2015/10/USA-UE-W.jpg

[2] Léon Degrelle’s assessment: http://www.counter-currents.com/2015/06/for-our-part-we-dreamed-of-something-great/

[3] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2015/10/Eurmerica-e1444667159371.jpg

[4] corrupt Arab oligarchs: http://www.unz.com/isteve/germans-build-anti-arab-fence-for-arabs/

[5] http://www.counter-currents.com/2015/07/is-the-eu-racist/: http://www.counter-currents.com/2015/07/is-the-eu-racist/

[6] http://www.counter-currents.com/2015/06/is-the-eu-fascist/: http://www.counter-currents.com/2015/06/is-the-eu-fascist/

[7] http://www.counter-currents.com/2010/12/cosmic-america/: http://www.counter-currents.com/2010/12/cosmic-america/

[8] http://www2.warwick.ac.uk/fac/soc/pais/people/aldrich/publications/oss_cia_united_europe_eec_eu.pdf: http://www2.warwick.ac.uk/fac/soc/pais/people/aldrich/publications/oss_cia_united_europe_eec_eu.pdf

[9] http://www.ceps.eu/system/files/Financing%20the%20EU%20budget_Final_Colour.pdf: http://www.ceps.eu/system/files/Financing%20the%20EU%20budget_Final_Colour.pdf

[10] http://www.counter-currents.com/2011/07/the-world-in-flames-an-estimate-of-the-world-situation/: http://www.counter-currents.com/2011/07/the-world-in-flames-an-estimate-of-the-world-situation/

[11] http://www.counter-currents.com/2015/08/francois-mitterrand/: http://www.counter-currents.com/2015/08/francois-mitterrand/

[12] https://www.princeton.edu/~amoravcs/library/current_history.pdf: https://www.princeton.edu/~amoravcs/library/current_history.pdf

[13] http://www.theoccidentalobserver.net/2015/09/merkels-betrayal-from-the-ethno-national-principle-to-an-afro-islamic-germany-part-1/: http://www.theoccidentalobserver.net/2015/09/merkels-betrayal-from-the-ethno-national-principle-to-an-afro-islamic-germany-part-1/

[14] http://www.kevinmacdonald.net/understandji-1.htm: http://www.kevinmacdonald.net/understandji-1.htm

[15] http://www.nybooks.com/articles/archives/2008/feb/14/the-problem-of-evil-in-postwar-europe/: http://www.nybooks.com/articles/archives/2008/feb/14/the-problem-of-evil-in-postwar-europe/

 

 

 

lundi, 12 octobre 2015

Threat of Terrorism in Central Asia

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Author: Sofia Pale

Threat of Terrorism in Central Asia

Following the speech of Russian President, Vladimir Putin, which he delivered before the General UN Assembly on September 28, 2015, and the latest developments in Syria it evoked, global mass media engaged in a heated debate over the topic of international terrorism, which is associated these days with the activities of militants of the Islamic State (ISIS). It should be noted that Russia has a well-grounded reason to have concerns over this issue, as it directly involves the integrity of Russia’s eastern border it shares with the post-Soviet states of Central Asia.

Central Asia is a vast region, which includes Afghanistan, Mongolia, the northern regions of Iran, India and Pakistan, the western outreaches of China as well as part of the southern outskirts of Russia and five former Soviet republics: Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan, and Uzbekistan. Since any upheaval in the post-Soviet region of Central Asia would inevitably affect Russia, it is no surprise that this sub-region is regarded as vital as far as Russian strategic interests are concerned. This is why Russia’s geopolitical rivals (the US and the member countries of NATO, which often benefit from destabilization of the situation in the post-Soviet Central Asia) strive to spread their influence to that region.

According to experts, radical movements in the post-Soviet republics of Central Asia are apparently being funded and managed by some international powers. For example, since the beginning of the 21st century, the authorities of Uzbekistan and Kyrgyzstan had to deal with the Islamic Movement of Uzbekistan. Today this terrorist group, considered to be one of the most notorious, is seen as a threat to all countries of the Central Asia region. Originally, its objective was to achieve the separation of the Fergana valley from Uzbekistan, Kyrgyzstan, and Tajikistan and to form an independent Islamic state in its territory. The Fergana valley is a densely populated district with a high unemployment rate, which makes it a perfect “breeding ground” for all sorts of radical organizations and the recruitment of new supporters. If the initial militants’ agenda involved just the establishment of an independent state in the Fergana valley, today they harbor an even more ambitious plan: they want it to become a part of the Islamic Caliphate, which is supposed to include the entire territory of the Middle East and the Caucasus.

In August 2015, the Islamic Movement of Uzbekistan integrated into ISIS. This organization is proving to be more and more influential in the region and it is continually expanding, taking other smaller militant groups originating from the countries of Central Asia under its wing.

The threat it poses is so intense that on October 1, 2015 Tajikistan’s border patrol guarding the border with Afghanistan was put on full combat alert after Taliban militants, who are members of these terrorist organizations, stormed and seized the city of Kunduz.

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In recent years, there was a noticeable upsurge in the activities of the agents of international terrorist organizations in Kazakhstan. They recruit and train militants. There are militant bases in the territory of the country, where they plot acts of sabotage against neighboring states. Citizens of Kazakhstan participated in the acts of terrorism in Uzbekistan and Kyrgyzstan.

To add insult to injury, those who come from the former Soviet republics of Central Asia fight in Syria and Iraq in the ranks of ISIS. Outlook for the future is rather grim since the worst consequence of this situation for the countries of Central Asia is that sooner or later militants will return to their home countries, and the chances are high that having gained experience in war, they would engage in terrorist activities at home.

The threat of terrorism in the post-Soviet republics of Central Asia is exacerbated due to the wide support the radical Islamic movements receive from the local population, who are being “brainwashed” through the massive extremist propaganda. In Russia, this situation is perceived as potentially dangerous because propaganda campaigns are also being conducted among the Muslims residing in the Russian territory. According to some sources, a substantial number of militants originating from Central Asia and currently fighting in the ranks of terrorists in the Middle East were recruited in the Russian Federation, while temporary living in its territory as migrant workers. Adverse living conditions, low wages and discontent with the government in their home countries contribute to the recruiters’ success.

Therefore, the worst-case scenario for Russia (in the context of activities of terrorist organizations) would be the flaring up of armed conflicts, which, causing a stream of refugees to cross Russian borders, would put the country’s stability at risk and disrupt the established trade and political relations with its eastern neighbors.

Should that happen, all those, who fear a “strong Russia,” including the US, would be reaping the fruits. Some facts (and there are plenty) suggest that the US and NATO intelligence agencies were involved in the establishment of some of the most aggressive terrorist organizations. Evidently, there are occasions when geopolitical interests of the US require for “the dirty work” to be done by somebody else, and Islamic terrorists are perfect candidates for this role. It happened more than once that the US, striving to spread its influence to some region, would extend its support to the local extremist and terrorist organizations to overthrow the disfavored regime with their hands.

There are grounds to believe that the West is worried about the growing affinity between Russia and China and could potentially use tension in Central Asia to undermine the positions of the two countries and increase own influence in the region. As it has already been mentioned, Russia would be greatly troubled should a military conflict be sparked in the region. It would also hit China, especially, if the Uighur separatists from the Xinjiang Uyghur Autonomous Region of the People’s Republic of China (more than 15 million people live there, out of which 60% are of Turkic origin and practice Islam) would become active. The US and its NATO allies can (should the circumstances be suitable) promote extremism in the region to reinforce their influence and exert pressure on Russia and China.

What differentiates the contemporary approach of the US intelligence services in their dealing with terrorist groups from the methodology they used to apply in the past is that today terrorists are supposed to be liquidated after they complete their task. But the confidence of western intelligence services in that they can keep terrorists under control is profoundly erroneous. As the Russian President pointed out in his speech at the General UN Assembly, “…those, who flirt with terrorists, deal with cruel but not stupid people who also have their own ambitions and know how to implement them. The Islamic State did not come out of a clear blue sky: it was initially nurtured as an instrument against disfavored secular regimes.”

The threat to the global security is also heightened by the fact that even when NATO and the US publicly declare an uncompromising war on terrorism, they still continue pursuing their own geopolitical interests, and this notion was demonstrated in Iraq and Afghanistan.

By now, ISIS has developed into such a powerful force that it would take joint efforts of all countries to counter it.

Speaking before the General Assembly of UN, Vladimir Putin once again appealed to all countries (and, first of all, the countries of the western hemisphere) to put their ambitions aside and join Russia and its partners in their struggle against the common threat. Will the West accept this invitation or not? It is obvious that if the US and the countries of NATO do not reconsider their positions, terrorism will not be eradicated any time soon.

Sofia Pale, Ph.D. Candidate of Historical Sciences, Researcher with the Center for South-East Asia, Australia and Oceania of Institute of Oriental Studies of the Russian Academy of Sciences, exclusively for the online magazine “New Eastern Outlook”.
First appeared: http://journal-neo.org/2015/10/10/threat-of-terrorism-in-central-asia/

dimanche, 11 octobre 2015

La politique russe est la seule intelligente

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La politique russe est la seule intelligente

par Guillaume Faye

Ex: http://www.gfaye.com

La politique étrangère de Vladimir Poutine, appliquée par Sergueï Lavrov (ministre des Affaires étrangères de la F.R.), est la seule à être constante et cohérente. Elle contraste avec les choix occidentaux. Dans l’actuel chaos guerrier du Moyen-Orient, face à la barbarie islamique, la Russie mène une politique fondée sur trois axes : 1) l’élimination du ”califat” totalitaire de l’EI Dae’ch qui exporte le terrorisme et le djihad partout dans le monde ; 2) le rétablissement d’un État syrien sur de nouvelles bases ; 3) la protection des chrétiens d’Orient, ou ce qu’il en reste. La différence fondamentale entre la politique de Vladimir Poutine et celle de ses homologues occidentaux est qu’elle possède un axe et un projet. 

Washington est plus anti-russe qu’anti-islamiste…

L’arrivée de militaires et de matériels russes en Syrie et les interventions aériennes de Moscou suscitent l’ « inquiétude » des Etats-Unis. À juste titre, les Russes (comme des membres de l’état-major français) mettent en doute l’efficacité et surtout les objectifs de la coalition menée par Washington contre Dae’ch. Le Pentagone ne fournit volontairement aucun renseignement fiable à ses alliés pour les frappes aériennes (au point que la France a dû décider, après une nouvelle volte-face, de faire des vols de reconnaissance au dessus de la Syrie et d’aller y faire des bombardements, par ailleurs désordonnés et inutiles), des gesticulations qui n’ont aucune efficacité, comme le confirment les conquêtes territoriales de l’État islamique. Tout se passe comme si les Américains, sous la direction d’un Obama qui joue un double jeu, ne voulaient pas réellement détruire Dae’ch.

Disons les choses comme elles sont : Washington et le Pentagone, dans cette stratégie catastrophique dont ils ont le secret depuis longtemps dans la région, veulent d’abord éliminer le régime de Bachar el-Assad allié des Russes. La stratégie anti-russe et anti-Poutine (et non pas anti islamiste) prime sur toutes les autres, comme on l’a vu en Ukraine. Il s’agit d’expulser les Russes de Syrie et notamment de leur base navale de Tartous, la seule qu’ils possèdent en Méditerranée, ce qui est inadmissible pour les gouvernants américains.

Le Pentagone a dépensé 500 millions de dollars pour former des troupes syriennes ”alternatives”, rebelles luttant contre Bachar el-Assad : ce fut un fiasco total. Les armes US et les combattants sont passés aux islamistes ! L’échec, l’impuissance et l’improvisation des Occidentaux au Proche-Orient contraste avec l’efficacité de l’engagement russe. Poutine s’est engouffré dans la brèche de ce désordre américano-occidental. La présence russe en Syrie date des années 60.

Les chancelleries occidentales accusent le Kremlin de n’avoir comme seul objectif que le sauvetage du régime d’Assad en frappant les ”rebelles” et non pas de vouloir éradiquer Dae’ch. C’est stupide car l’aviation de Moscou frappe aussi Dae’ch qui a, ne l’oublions pas, incorporé dans ses rangs des milliers de musulmans caucasiens russes qui constituent un danger terroriste pour la Russie. Et surtout, lesdits ”rebelles” (Front Al-Nosra, proche d’Al-Qaida ou l’organisation Ahrar Al-Sham) que ciblent Moscou sont des milices terroristes islamiques au même titre que Dae’ch, qui ont – scandale international soigneusement dissimulé – été armées, entrainées, financées par la CIA ! 

Voilà pourquoi l’influent sénateur russophobe John Mac Cain s’est montré furieux contre les « provocations de Poutine » qui osait bombarder les protégés de Washington. Il faut retourner l’argument et dire : la ”coalition” aérienne  dirigée par les USA depuis une base de l’US Air Force près de Doha, au Qatar, n’a pas pour but principal la destruction de L’EI Dae’ch mais l’éradication du régime de Bachar el-Assad. Projet partagé par l’inconsistant M. Hollande. Ce qui aboutirait automatiquement à la création d’un État islamique fanatique en Syrie, d’où disparaitraient les derniers chrétiens.  

Objectifs géostratégiques de la Russie

Quels sont les objectifs de Moscou ? Le premier est la destruction de l’État islamique Dae’ch, d’autant que ce dernier incorpore des contingents caucasiens très nombreux qui peuvent revenir frapper la Russie. Le second est de contester la catastrophique hégémonie unilatérale américaine (déclinante) qui viole les règles de l’ONU sous prétexte de bons sentiments. Le troisième est de rétablir un monde multipolaire respectueux du droit international dans lequel la Russie retrouverait sa place de grande puissance mais non pas de puissance hégémonique, (leader of the world) ce qui a toujours été impossible dans l’histoire de l’humanité. Ce que les stratèges de Washington n’ont jamais compris. 

En proposant à la tribune de l’ONU une coalition mondiale contre Dae’ch, seule solution viable, Vladimir Poutine a été accusé par l’administration US et par tous les lobbies russophobes français et occidentaux de soutenir le ”criminel de guerre” Bachar el-Assad et de vouloir implanter un impérialisme russe au Levant. On a aussi accusé Poutine d’être un tyran qui soutiendrait un de ses amis tyran, Assad. Ces arguments relèvent d’une russophobie obsessionnelle, inopérante en politique. 

Les Russes ont bien joué contre les Américains, ce qui rend furieux ces derniers, dont la stratégie est versatile et impuissante. D’abord en 2013, en proposant et en initiant la destruction des armes chimiques de Bachar el-Assad, la diplomatie russe a tué dans l’œuf les promesses de bombardement des présidents Obama et Hollande. Moscou a démontré au monde que Washington avait perdu la main : importante revanche sur l’humiliation des années 90 Eltsine post-communistes. En renforçant sa présence militaire en Syrie et en proposant d’organiser une coalition contre Dae’ch, la Russie de Poutine humilie les USA et leur coupe l’herbe sous le pied. ”La Russie est de retour” : ce message de Poutine est d’autant plus crédible que les hôtes de la Maison Blanche, de la famille Bush à Obama (et bien avant…) n’ont jamais été capables de jouer leur rôle imaginaire de ”gendarmes du monde”. Ils ont créé le désordre à chacune de leurs interventions. On le voit dans la dramatique situation de l’Afghanistan et de l’Irak aujourd’hui.

Poutine dans les pas de Churchill et de De Gaulle?

La politique étrangère russe vise au contraire à réinstaurer une stabilité géopolitique mondiale. Le gouvernement chancelant de Bachar el–Assad n’est pas une solution à terme. Mais éliminer d’un coup cet autocrate, comme on l’a fait avec Ben Ali, Kadhafi, Saddam Hussein et Moubarak  reviendrait à augmenter encore le chaos actuel et le djihad mondial. La solution, comme l’a dit Poutine, est d’abord de battre militairement et d’éradiquer Dae’ch et ses alliés (éteindre l’incendie) et ensuite de résoudre le problème du régime syrien.

Dans son discours à l’ONU, Vladimir Poutine a comparé la lutte contre la barbarie de Dae’ch à la coalition contre Hitler. Ni Churchill ni De Gaulle n’aimaient l’autocrate communiste Staline, mais ils furent obligés de s’allier avec lui pour combattre le nazisme, l’ennemi principal. M. Poutine fait le même raisonnement avec le régime syrien : il faut d’abord abattre Dae’ch avec l’aide de Bachar el-Assad, et ensuite, on discutera.

Les frappes aériennes russes depuis le 29 septembre (Moscou a positionné 28 chasseurs-bombardiers Sukhoï) visent les milices islamistes et Dae’ch qui menacent Damas et la zone côtière syrienne où est la base navale de Tartous. Les Russes ont parfaitement compris que si Damas et cette zone tombaient aux mains des islamistes, ce serait une énorme catastrophe géopolitique, la Syrie devenant alors leur butin. Immédiatement beaucoup de médias et de gouvernements occidentaux ont accusé les Russes de ne chercher qu’à protéger le régime d’Assad contre les ”rebelles”, prétendus ”démocratiques” et de pas frapper Dae’ch. C’est un mensonge : les milices ”rebelles” (armées et financées par les gouvernements occidentaux, voir plus haut) et Dae’ch sont objectivement complices. Les Russes ne visent qu’à empêcher la pieuvre islamiste (Dae’ch et les ”rebelles”) de s’emparer du cœur de la Syrie.     

Ivan Rioufol  souligne «  le choix des États–Unis et de la France de rallier la Russie à reculons pour affronter l’EI en Syrie par des raids aériens » (Le Figaro, 02/10/2015). Il ajoute : « le retour en force de Vladimir Poutine, imperméable aux subtilités du ”soft power ”, signe l’échec de la stratégie de Barack Obama et de François Hollande. Leur humiliation se devine dans la mise en scène de leur défiance sur l’efficacité des premières frappes de Moscou. Cette réaction, puérile, est celle des leaders occidentaux ayant perdu la face pour s’être montrés incapables de désigner l’islamisme comme leur ennemi prioritaire. Non seulement le Syrien Bachar el-Assad, bête noire d’Obama et Hollande, est consolidé, mais c’est l’ancien ”kagébiste” qui prend la tête de la lutte contre le totalitarisme et de la défense des chrétiens d’Orient. Les démocraties sont à la remorque ». C’est le moins qu’on puisse dire…

Ancienne membre du Conseil de sécurité national américain et responsable de la stratégie au ”Center for a New American Security”, Mme Julianne Smith, qui exprime la position officielle de Washington, a déclaré le 1er octobre que « la Russie ne résoudra pas le conflit en Syrie ». CQFD. Elle reflète la frustration américaine devant le retour en force de Moscou dans le concert international mais elle avoue aussi une volte-face de la diplomatie américaine – et de la diplomatie française qui lui obéit : «  il faut laisser Assad en place pour le moment, le temps qu’on se mette d’accord sur la suite et une sortie de pouvoir honorable pour lui ». Autrement dit : les Russes avaient raison. Intéressant de l’avouer…     

Indispensable alliance avec la Russie

Les frappes aériennes françaises en Syrie, soi-disant ”indépendantes” des Américains”, contre des ”camps d’entrainement de terroristes djihadistes” de Dae’ch au nom d’une ”légitime défense” n’auront aucune efficacité militaire. C’est une gesticulation  de M. Hollande, à usage électoral interne. Il veut se vendre (marketing politicien) en vue de la prochaine élection présidentielle de 2017 comme ”petit De Gaulle”. C’est assez pathétique…Il n’est pris au sérieux ni par les Américains ni par les Russes.  

Comme l’écrit Frédéric Pons (Valeurs actuelles, 01–07/10/2015) : « Au Moyen-Orient, l’Amérique avance en tête du cortège des ”aveugles”. Sa responsabilité dans le chaos actuel est écrasante. Elle fit naître les Talibans, Al-Qaïda et détruisit tant de pays, de la Libye à l’Irak, aidée par ses alliés soumis jusqu’à l’absurde. En Syrie, notre ennemi est–il Assad ou les islamistes ? » Bon sens.

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Jean-Pierre Chevènement l’a reconnu : « l’élimination d’Assad ouvrirait les portes de Damas à Dae’ch ». Avec lucidité, d’accord avec les analyses de Poutine et de Lavrov, Chevènement estime que les frappes de la ”coalition internationale” dirigées par les É-U sont inopérantes et que les ”alliés” modérés n’existent pas. Les Russes sont les seuls à avoir compris le problème en bombardant à la fois l’ ”Armée de la conquête”, al-Nosra (émanation d’Al-Qaida) et l’EI Dae’ch, trois têtes de la même structure islamiste terroriste.  

Pour éradiquer efficacement Dae’ch, il faudrait, évidemment, dans l’absolu, s’allier aux Russes et leur donner des gages, c’est-à-dire lever les sanctions absurdes contre la Russie, prises sur ordres américains. Renaud Girard suggère  (Le Figaro, 22/09/2015) : « suivons la politique de nos intérêts et suspendons les sanctions commerciales contre la Russie. Faisons-le, sans demander leur avis aux Américains. Attendons de recueillir les fruits d’un geste diplomatique aussi fort que celui d’une suspension unilatérale des sanctions. […] A-t-on imposé la moindre sanction à l’Amérique pour avoir envahi illégalement l’Irak, en mars 2003 ? » Vœux pieux. MM. Hollande et Fabius qui ont fait le choix de l’obéissance à l’Otan, à l’UE et aux USA, ignorent que les alliances franco-russes ont toujours été égalitaires et que les alliances avec les USA (politiques, militaires, commerciales) ont toujours été d’allégeance. Les gouvernants européens sont les seuls responsables de leur double soumission à Washington (1) et à l’islam invasif, deux forces conjointes.

La Russie, relevée, régénérée, redevenue grâce à M. Poutine une puissance internationale et non plus régionale – en dépit de ses faiblesses économiques volontairement accentuées par les sanctions occidentales bien peu légales – s’impose comme une force de stabilité. Les accords de Minsk (sur la question ukrainienne) ont été parfaitement respectés par Moscou. Bien sûr, la Russie n’est pas parfaite. Mais qui l’est ? Et de quel droit nous mêlons-nous de son niveau de ”démocratie” et de ”droit-de-l’hommisme” intérieurs alors que nous tolérons tout, y compris l’esclavagisme, dans les monarchies autocratiques de la péninsule arabique ? La Russie est une grande puissance qui est notre premier allié naturel. La considérer comme un ennemi potentiel, un danger, une menace est une erreur d’analyse extrêmement grave.

Note:

(1) Mes critiques n’ont jamais visé les Américains en tant que tels, comme nation, mais la politique étrangère de l’oligarchie de Washington qui, depuis le début de ce siècle, est d’abord nuisible aux USA eux-mêmes.   

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L'alliance occidentale s'effrite

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L’Alliance occidentale s’effrite

Dans cet éditorial, Eric Zuesse nous informe que l’exploitation du monde par Washington rencontre de l’opposition. Un parlementaire irakien demande à Washington « de laisser tomber son hypocrisie ». Le Secrétaire d’Etat français aux Affaires Européennes rejette le Partenariat Transatlantique de Commerce et d’Investissement (PTCI ou en anglais TTIP) pour tenter de placer les multinationales américaines aux commandes de la France et les mettre hors d’atteinte du droit français. Le PTCI, comme le ministre l’affirme avec raison, élimine la souveraineté des pays signataires.

Obama ne peut vaincre Assad (Syrie) sans l’aide de l’UE. L’UE rejette également les exigences d’Obama concernant le PTCI et l’ACS (Accord sur le commerce des Services – en anglais TISA). L’héritage de la présidence d’Obama semble voué à l’échec.

L’Europe est envahie de réfugiés provenant des campagnes de bombardement en Libye et en Syrie, qui ont créé un état fantoche en Libye, et qui menacent de provoquer la même chose en Syrie. L’Europe est de ce fait obligée de se désolidariser de la campagne de bombardement américaine qui vise les forces gouvernementales syriennes du président chiite Bachar el-Assad, au lieu de ses opposants sunnites des groupes djihadistes (tous sunnites) de l’EIIL (Etat Islamique) et d’Al Qaida en Syrie (al Nusra).

Un membre du parlement irakien a déclaré :

« La pression exercée sur le régime syrien qui combat l’Etat Islamique doit être éliminée. Ils ne devraient pas essayer de renforcer la petite Armée syrienne libre (ASL). Il n’y a pas d’ASL. Il y a un Etat Islamique en Syrie et en Irak. Vous ne pouvez pas combattre l’EI en Irak, et le soutenir en Syrie. Il n’y a qu’une seule guerre et un seul ennemi. Les Etats-Unis devraient abandonner leur position hypocrite. Les gens ne sont pas bêtes ».

Le public européen est opposé aux frappes américaines, qui ont provoqué l’exode de réfugiés vers l’Europe. Les dirigeants européens commencent à se désolidariser de leur alliance avec les Etats-Unis.

Le Sénateur américain John McCain, qui, depuis qu’il était pilote de bombardier au Vietnam, a toujours détesté la Russie bien plus que le Président américain Barack Obama (qui la déteste pour d’autres raisons), pousse Obama à une guerre contre la Russie en Syrie ; il déclare : « Nous devons créer une zone d’interdiction aérienne », où nous empêcherons les avions russes de bombarder des zones qui sont contrôlées par des djihadistes soutenus par les Américains (que le gouvernement américain appelle par euphémisme « l’Armée syrienne libre »).

En fait, comme l’a annoncé l’Agence France Presse le 12 septembre 2014, « les rebelles syriens et les djihadistes de l’Etat Islamique ont conclu pour la première fois un pacte de non-agression dans une  banlieue de la capitale Damas, a déclaré un groupe de surveillance vendredi dernier. « L’Etat Islamique et l’ASL ont toujours été proches ; mais maintenant ils sont essentiellement une seule et même entité ; c’est juste que ce n’est pas relayé par la presse américaine. Les distinctions subtiles du gouvernement américain sont de ce fait trompeuses ; le but essentiel d’Obama en Syrie est évidemment de remplacer l’allié de la Russie, Assad, et non de vaincre l’Etat Islamique (avec les vestiges de l’Armée syrienne libre). McCain veut juste qu’Obama aille jusqu’au bout de la logique de guerre nucléaire avec la Russie, pour renverser Assad. (Peut-être pense-t-il qu’Obama va « reculer » pour ensuite l’accuser d’abandonner à son sort le peuple syrien, qui a tellement bénéficié des bombardements américains qu’il a fui la Syrie par millions. McCain et d’autres Républicains sont tellement « pro pour la vie» –  des zygotes de toute façon. Lorsque le parlementaire irakien a déclaré que les gens n’étaient pas bêtes il ne pensait pas à des gens comme eux).

Le 1er octobre, NPR (National Public Radio) présentait McCain disant : « Je peux vous confirmer avec une absolue certitude qu’ils (les bombardements aériens russes) ont visé Notre Armée Syrienne libre ou des groupes qui ont été armés et entraînés par la CIA parce que nous sommes en communication avec ces gens-là. » (Oh, donc il en reste même après qu’ils aient été absorbés par le mouvement de la Guerre Sainte ? Et la CIA continue à les financer ? Vraiment ? Ouah !)

La Russie a annoncé le 2 octobre que leur série de bombardements contre les alliés de l’Amérique en Syrie visant l’Etat Islamique et Al Nusra (ce dernier étant Al Qaïda en Syrie) – allait s’intensifier et durera « trois ou quatre mois ». Le Président américain Barack Obama insiste pour exclure la Russie de toutes les négociations de paix sur la Syrie ; les Etats-Unis n’avanceront pas sur les pourparlers de paix avant que le Président syrien Bachar el-Assad ne démissionne. Mais la Russie est la seule puissance militaire qui s’oppose aux djihadistes qui tentent de vaincre Assad, et la Russie se propose également de fournir au Liban des armes pour lutter contre les djihadistes, qui sont également les alliés de l’Amérique au Liban.

Les Etats-Unis prétendent que le renversement d’Assad profiterait à la « démocratie ». Mais lorsque le régime du Qatar, qui finance al Nusra, a demandé une étude à un institut de sondage pour interroger les Syriens en 2012, le résultat a indiqué que 55% des Syriens voulaient qu’il reste Président.

Puis, comme je l’ai mentionné le 18 septembre 2015, « les sondages montrent que les Syriens tiennent en majorité les Américains pour responsables pour leur soutien de l’Etat Islamique », et ces récents sondages émanent d’un Institut Britannique qui est liée à Gallup. Il n’y a pas eu de question à propos du maintien au pouvoir d’Assad ; mais il est clair qu’il bénéficie d’un soutien qui s’est renforcé entre 2012 et 2015, car le peuple Syrien perçoit maintenant avec plus de clarté qu’auparavant que le régime des Etats-Unis est pour lui un ennemi, non un ami. Les prétentions d’apparences d’Obama et des Républicains, souhaitant favoriser la démocratie sont un mensonge flagrant.

Ce n’est pas le seul problème de succession de la politique Obama : sa guerre contre la Russie, en renversant Kadhafi, puis Ianoukovytch, puis sa tentative de renversement d’Assad – provoque maintenant la rupture de l’Alliance Occidentale, à propos de la crise des réfugiés qui en découle. Un conflit plus important au sein de l’Alliance s’annonce avec la proposition du traité soumis aux pays européens par Obama : le PTCI, qui donnerait aux sociétés multinationales le droit de poursuivre en justice des gouvernements nationaux devant des tribunaux arbitraux privés non susceptibles de recours en appel, et dont les décisions superviseraient des lois de tous les états signataires. Les dirigeants des gouvernements élus n’auraient aucun contrôle sur elles. Cette tentative de créer une entité multinationale privée supranationale fait partie d’un plan similaire à celui proposé aux nations asiatiques avec le traité du PTP en Asie (Partenariat Trans-Pacifique), tous deux étant accessoirement destinés à isoler du commerce international non seulement la Russie, mais également la Chine, ce qui permettrait aux grandes multinationales américaines de contrôler potentiellement le monde entier.

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Telles que les choses se présentent actuellement concernant ces « accords » commerciaux, Obama devra soit renoncer à certaines de ses exigences, ou la Commission européenne sera dans l’incapacité d’obtenir l’accord de suffisamment de membres pour soutenir le traité qu’Obama propose à l’UE, le PTCI (Partenariat Transatlantique de Commerce et d’Investissement). Certaines nations européennes importantes, pourraient également rejeter le traité proposé par Obama sur la réglementation des services financiers et divers : l’ACS (Accord sur le Commerce des Services). Les trois accords « commerciaux » proposés par Obama, y compris le PTP (Partenariat Trans-Pacifique) entre les Etats-Unis et les pays asiatiques sont l’apothéose de la présidence d’Obama, et leurs prérogatives vont tous bien au-delà du commerce et de l’économie. Le principal accord proposé à l’Europe pourrait bien être mort et enterré à présent.

Le 27 septembre, le journal français Sud-Ouest publiait une interview exclusive avec Matthias Fekl, Secrétaire d’état français chargé du commerce, dans laquelle il déclarait que « la France examinait toutes les options, y compris la rupture définitive des négociations » à propos du PTCI. Il expliquait que, depuis le début des négociations en 2013, « ces pourparlers ont été menés dans un manque de transparence total » et que la France n’avait, à ce jour, reçu « aucune proposition sérieuse des Américains ».

Les raisons de cet étonnant rejet public avaient probablement déjà été définies avec précision il y a plus d’un an. Après tout, la France n’a, au cours de toutes ces négociations, reçu « aucune proposition sérieuse des Américains » ; ni maintenant, ni depuis le début des négociations en 2013.

Les Etats-Unis sont restés fermes. Jean Arthuis, un membre du Parlement Européen, et ancien Ministre français de l’Economie et des Finances, annonçait à la une du Figaro le 10 avril 2014 : « 7 bonnes raisons pour s’opposer au traité transatlantique ».

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Il n’y a rien qui laisse à penser que la situation pourrait avoir changé depuis, sur les exigences fondamentales exprimées par le Président Obama. Arthuis déclarait à l’époque :

Premièrement, je m’oppose à un arbitrage privé des litiges entre les Etats et les entreprises. (Cela instaurerait une cour d’arbitrage indépendante bien établie au dessus du droit national ne permettant pas de recourir à une cour d’appel dans le cas où une grande entreprise lésée poursuivrait une nation où des dommages et intérêts devraient être versés à une entreprise multinationale et, dans le cadre d’une violation de ses droits nationaux, reliant ce traité au commerce). Ce genre de procédure est rigoureusement contraire à l’idée que je me fais de la souveraineté des Etats.

Deuxièmement, je m’oppose à toute remise en cause du système européen des appellations d’origine contrôlée. Demain, suivant la proposition des Etats-Unis, il n’y aurait plus qu’un registre non contraignant, et uniquement pour les vins et spiritueux. Une telle réforme tuerait nombre de productions locales européennes dont la valeur repose sur leur authenticité d’origine contrôlée.

Troisièmement, je m’oppose à la signature d’un accord avec une puissance (étrangère) qui espionne massivement et systématiquement mes concitoyens européens, ainsi que les entreprises européennes. Les révélations d’Edward Snowden sont à cet égard édifiantes. Aussi longtemps que l’accord ne protège pas les données personnelles des citoyens européens et américains, il ne saurait être signé.

Quatrièmement, les Etats-Unis proposent un espace financier commun transatlantique, mais ils refusent catégoriquement une réglementation commune de la finance, de même qu’ils refusent d’abolir les discriminations systématiques par les places financières américaines à l’encontre des services financiers européens. C’est vouloir le beurre et l’argent du beurre: je m’oppose à cette idée d’un espace commun sans règles communes et qui maintiendrait des discriminations commerciales.

Cinquièmement, je m’oppose à la remise en cause de la protection de la santé sanitaire européenne. Washington doit comprendre une fois pour toutes que nonobstant son insistance, nous ne voulons dans nos assiettes ni des animaux traités aux hormones de croissance, ni de produits dérivées d’OGM, ni de la viande décontaminée chimiquement, ni de semences génétiquement modifiées, ni d’antibiotiques non thérapeutiques contenus dans l’alimentation animale.

Sixièmement, je m’oppose à la signature d’un accord s’il n’inclut pas la fin du dumping monétaire américain. Depuis la suppression de la convertibilité-or sur le dollar US et le passage au système des changes flottants, le dollar est à la fois monnaie nationale étasunienne, et l’unité principale de réserve et d’échanges dans le monde.

La Banque de la Réserve Fédérale pratique donc sans cesse le dumping monétaire, en agissant sur l’émission de dollars disponible pour favoriser ses exportations. La suppression de cet avantage déloyal suppose, comme l’a indiqué la Chine, de faire des «Droits de Tirage Spéciaux» du FMI, une nouvelle monnaie mondiale de référence plus représentative. En termes de compétitivité, l’arme monétaire (la devise) a le même impact que les droits de douane contre toutes les autres nations. (Et nous ne le signerons pas tant que cette disposition ne sera pas supprimée).

Septièmement, au-delà du seul secteur audiovisuel, étendard de l’actuel gouvernement qui sert de cache-sexe à sa lâcheté sur tous les autres intérêts européens dans le cadre de la négociation, je veux que toute l’exception culturelle soit défendue. Notamment, il est inacceptable de laisser les services numériques naissants d’Europe se faire balayer par les géants américains tels que Google, Amazon ou Netflix. Des géants, et maîtres absolus de l’optimisation fiscale, (et de l’évasion fiscale pour certains) qui font de l’Europe une «colonie numérique».

Le négociateur du Président Obama est son ami personnel, Michael Froman, un homme qui tente même de forcer l’Europe à abaisser ses normes écologiques de carburant contre le réchauffement climatique mondial et dont les agissements en arrière plan, vont exactement à l’encontre de la rhétorique publique d’Obama. Froman et Obama sont copains depuis qu’ils ont collaboré tous deux comme rédacteurs à la Harvard Law Review. Il connaît les objectifs réels d’Obama. « Froman a également présenté M. Obama à Robert E. Rubin, l’ancien Secrétaire d’Etat au Trésor » qui avait fait entrer dans l’Administration Clinton Timothy Geithner et Larry Summers, et s’était fait le champion (avec eux) de la fin de la réglementation des banques (Glass Steagall Act voté en 1933) que l’ancien Président Démocrate Franklin D. Roosevelt, avait mise en place. (Le Président Clinton a signé une loi juste avant de quitter ses fonctions le 12/11/1999, et cela a permis de commencer le long processus menant aux Titres adossés à des créances hypothécaires et aux produits dérivés spéculatifs CDS SWAP) dont le point culminant a été le crack des marchés en 2008, et cette même législation a également permis aux méga-banques d’être sauvées de la faillite par les contribuables américains via TAARP– exactement sur le fondement que la loi de Roosevelt avait rendue illégale. (pour séparer la banque de dépôt, et la banque d’investissement Ndt).

 

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Froman a toujours été un partisan des grosses multinationales, un champion des méga-banques, qui ne favorise que la réglementation qui bénéficie aux très riches américains, pas celle qui profite au grand public. La présentation du roi de Wall Street Robert Rubin au Sénateur (à l’époque) Obama, a été cruciale pour permettre à Obama d’être en position de gagner la course à la Présidence des Etats-Unis ; les contacts de Robert Rubin parmi les très riches étaient essentiels pour que Obama ait une réelle chance de remporter les présidentielles. Cela a permis à Obama de gagner la compétition contre la candidate Hillary Clinton. Autrement, il n’aurait pas pu y arriver. Le fait qu’il ait bénéficié du soutien de Robert Rubin était crucial pour devenir Président.

Les chances que le Président Obama soit maintenant apte à obtenir le soutien d’une quelconque entité politique, hormis le Congrès américain, pour sa proposition de traité PTCI, se réduisent de jour en jour. Après tout, l’Europe semble être moins corrompue que les Etats-Unis.

La seule analyse économique indépendante qui ait été faite sur la proposition du PTCI conclut que les seuls bénéficiaires seraient les grandes entreprises multinationales, particulièrement celles qui sont basées aux Etats-Unis. Les employés, les consommateurs, et tous les autres, seraient les perdants, s’il était signé.

Apparemment, il y a suffisamment de dirigeants européens qui s’en préoccupent, pour être capables de le bloquer. Ou alors, Obama va céder sur le fond, à tous les sept points qui font que l’Europe dit non. A ce stade, cela semble extrêmement improbable.

Par Eric Zuesse, le 3 octobre 2015

L’historien-chercheur Eric Zuesse est l’auteur, récemment, de They’re Not Even Close: The Democratic vs. Republican Economic Records, 1910-2010 (Elles sont loin d’être proches: les annales économiques des Démocrates et des Républicains, 1910-2010).

Article original: http://www.globalresearch.ca/the-western-alliance-is-crumbling-eu-is-abandoning-u-s-on-overthrowing-assad/5479566

Traduction Patrick Trev Isabelle

Source: http://paulcraigrobertstranslations.blogspot.ch/2015/10/francais-lalliance-occidentale-seffrite.html

samedi, 10 octobre 2015

The Impulsiveness of US Power

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The Impulsiveness of US Power

By

PaulCraigRoberts.org

& http://www.lewrockwell.com

Washington’s impulsive use of power is a danger to America and to the world. Arrogant Washington politicians and crazed neoconservatives are screaming that the US must shoot down Russian aircraft that are operating against the US-supplied forces that have brought death and destruction to Syria, unleashing millions of refugees on Europe, in Washington’s effort to overthrow the Syrian government.

Even my former CSIS colleague, Zbigniew Brzezinski, normally a sensible if sometimes misguided person, has written in the Financial Times that Washington should deliver an ultimatum to Russia to “cease and desist from military actions that directly affect American assets.” By “American assets,” Brzezinski means the jihadist forces that Washington has sicced on Syria.

Brzezinski’s claim that “Russia must work with, not against, the US in Syria” is false. The fact of the matter is that “the US must work with, not against Russia in Syria,” as Russia controls the situation, is in accordance with international law, and is doing the right thing.

Ash Carter, the US Secretary for War, repeats Brzezinski’s demand. He declared that Washington is not prepared to cooperate with Russia’s “tragically flawed” and “mistaken strategy” that frustrates Washington’s illegal attempt to overthrow the Syrian government with military violence.

Washington’s position is that only Washington decides and that Washington intends to unleash yet more chaos on the world in the hope that it reaches Russia.

I guess no one in hubristic and arrogant Washington was listening when Putin said in hisUN speech on September 28: “We can no longer tolerate the state of affairs in the world.”

The intolerable state of affairs is the chaos that Washington has brought to the Middle East, chaos that threatens to expand into all countries with Muslim populations, and chaos from which millions of refugees are flooding into Europe.

Not satisfied with threatening Russia with war, Washington is preparing to send US Navy ships inside the 12-nautical-mile territorial limit of islands created by China’s land reclamation project. The Navy Times reports that three Pentagon officials have said on background that “approval of the mission is imminent.”

So here we have the US government gratuitously and provocatively threatening two nuclear powers. The Washington warmongers try to pretend that land reclamation is “an act of regional aggression” and that Washington is just upholding international law by protecting “freedom of navigation.”

By “freedom of navigation,” Washington means Washington’s ability to control all sea lanes.After all of Washington’s violations of international law and war crimes during the last 14 years, Washington’s claim to be protecting international law is hilarious.

Lt. Gen. Michael Flynn, a former director of the US Defense Intelligence Agency, the Pentagon’s intelligence organization, said that Washington needs to understand that “Russia also has foreign policy; Russia also has a national security strategy” and stop crossing Russia’s “red lines.” Gen. Flynn thus joins with Patrick J. Buchanan as two voices of sense and sensibility in Washington. Together they stand against the arrogance and hubris that will destroy us.

Les rapports Turquie-Russie à la lumière de Daesh

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Les rapports Turquie-Russie à la lumière de Daesh
 
Ex: http://www.dedefensa.org

Le chroniqueur indien MK Bhadrakumar est un fin connaisseur de deux pays, où il a été ambassadeur de l’Inde : la Turquie et la Russie. Son avis sur les “tensions” entre ces deux pays, dans le cadre de l’intervention russe en Syrie est nécessairement intéressant, et il donne une image pondérée des “gesticulations” qui ont accompagné quelques incidents à la fin de la semaine dernière entre avions russes et avions turcs autour de la frontière syrienne. Les susdites gesticulation viennent en petite partie d’une tactique propre à Erdogan et n’engageant nullement sa stratégie, et en très grande partie de l’OTAN (dont fait partie la Turquie) qui tient un rôle confus et désorienté, et fort marginal, dans cette crise où elle n’a aucune stratégie ; l'OTAN a cru, avec cette incident russo-turc, retrouver une voix au chapitre et a surtout montré la faiblesse dériosoire de sa position. (L’OTAN est poussée dans cette voie, où elle dramatise sans grand effet ni risque un faux antagonisme turco-russe, par les USA qui sont grands adeptes de la confusion et de la désorientation pour eux-mêmes, et eux-mêmes relégués à un rôle mineur dans la crise.)

Dans un texte du 6 octobre sur son blog (Indian PunchLine), Bhadrakumar minimise la gravité que la communication a voulu donner à ces incidents. Il pense que les Turcs ont un rôle important à jouer dans la crise parce qu’ils en sont les protagonistes obligés ; ils auraient les moyens de transformer l’engagement russe en un bourbier type-Vietnam mais ils s’abstiendront au bout du compte à tenter de mettre les Russes, qui détiennent la “carte kurde”, en difficultés. Il pense que le but des Russes, avec ces incidents, est d’indiquer à la Turquie, comme ils le font avec Israël avec d’autres moyens, qu’il y a désormais de nouvelles règles en Syrie et que les interventions turques et israéliennes impunies en territoire syrien pour soutenir tel ou tel groupe font désormais partie du passé. Pour le reste, conclut Bhadrakumar, les rapports importants entre la Russie et la Turquie, symbolisés par les relations personnelles entre Erdogan et Poutine, ne seront pas affectés.

« The Turkish dictum had enabled Ankara up until now to ensure that the Syrian rebels could operate with impunity in a significant belt in northern Syria without fear of air attacks by Damascus. Russia is summarily terminating that privilege Ankara enjoyed. Russia is also simultaneously strengthening Syria’s air defence system and a point is reaching when the Turkish air force cannot any longer operate inside the Syrian airspace. In short, the weekend’s incidents have forced Ankara to contend with the new reality that its continued violations of Syria’s territorial integrity will come at a heavy price.

» By the way, Israel also is traveling in the same boat as Turkey – clandestinely supporting al-Qaeda affiliates operating in Syria, launching wanton air attacks on targets deep inside Syria, and systematically wearing down the Syrian state and its sovereignty. Israel too is livid that Russia will apply ‘red lines’ in Syria aimed at squashing Israeli interference in Syrian affairs. Israel is furious with Moscow – like Turkey – but has no option but to fall in line with the Russian ground rules. [...]

» In sum, an Afghanistan-type quagmire scenario is unlikely to develop in Syria for the Russians. During the Cold War, US brilliantly succeeded in pitting radical Islam against communism. Today, however, Russia enjoys diversified ties with the Muslim Middle East. The Russian diplomacy has been particularly active in Saudi Arabia and the UAE in the Gulf region as well as in Cairo and Amman. Egypt and Jordan have distinctly edged closer to Russia on the Syrian question.

» Conversely, Moscow’s close ties with the Syrian Kurdish leadership (which supports the PKK’s separatist movement inside Turkey) will act as a deterrent against Ankara setting up a bear trap in Syria. Suffice it to say, fueling insurgency is a game that both Turkey and Russia can play. [...] Simply put, if yet another Kurdistan takes shape in Syria (alongside the one already existing in northern Iraq), it would inevitably blur the sanctity and inviolability of Turkey’s established borders to the south and make them look somewhat like the Durand Line separating Pakistan from Afghanistan – a lawless no-man’s land that is condemned to remain a dagger forever aimed at Turkey’s heart.

» Erdogan’s priority will be to ensure that Turkey regains a place at the high table if a Syrian peace process picks up. Erdogan will try its best to forestall the emergence of yet another Kurdish entity in its neighborhood, which is a fast-emerging scenario already. Ankara’s main challenge lies in persuading Russia and the US to rein in the aspirations of the Syrian Kurds for regional autonomy in northern Syria as quid pro quo for their robust participation as Washington and Moscow’s foot soldiers in the war against the IS.

» At the end of the day, therefore, Erdogan will begin talking with the Kremlin. Actually, the conversation never really ended. His equation with the Russian leader at the personal level is something he can still count on. Vladimir Putin too has taken great pains to encourage Erdogan’s ‘Look East’ policies. Unlike the western powers, Russia has never been prescriptive about Turkey’s domestic politics. If Erdogan manages to win the November election and succeeds in switching Turkey to a presidential system, Putin will only congratulate him and possibly even draw satisfaction that he has a friend in Ankara who is likely to be a life-time executive president with whom he can do business to great mutual benefit. »

vendredi, 09 octobre 2015

La nouvelle illusion turque

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La nouvelle illusion turque

par Jean-Gilles Malliarakis

Ex: http://www.insolent.fr

Elle semble sur le point de s'installer dans les cercles de pouvoir de l'Europe institutionnelle. Il s'agit, de la part de MM. Jean-Claude Juncker, Donald Tusk et Martin Schulz, de supplier le gouvernement d'Ankara de contrôler les flux migratoires qui transitent actuellement par son territoire.

Une première rencontre s'est tenue le 5 octobre. On a déployé à Bruxelles le tapis rouge au président turc Erdogan. On a tout dégagé en vue du lèche-vitrines de son épouse Emine avenue Louise "n’hésitant pas, selon les clients, à faire bloquer par son service de sécurité l’entrée à certains magasins qu’elle visitait." (1)⇓

Les Européens ont absolument besoin de la Turquie, tel est le message que l'on veut faire passer. Le Monde parlait à l'avance, dès le 3 octobre, d'une sorte d'alliance "obligatoire". (2)⇓

Voilà, dès lors, comment le journal conservateur allemand Die Welt (3)⇓ évoque de tels pourparlers. "Beaucoup de paroles chaleureuses de la part des plus hauts représentants de l'Union européenne. Ceci est un jour important pour le président turc, Recep Tayyip Erdogan. "Nous avons besoin de la Turquie. Nous ne pouvons pas nous y prendre tous seuls" (toujours cette expression "wir schaffen das"…), a déclaré le président du Conseil européen, Donald Tusk, ayant en vue le nombre croissant de réfugiés en Europe. En outre au nom de l'Union européenne Tusk était même prêt à parler d'une "zone tampon" en Syrie le long de la frontière turque. Ceci est une vieille revendication que formule Ankara. Erdogan sourit : "Nous sommes prêts à toutes les formes de coopération." Et le journal conclut : "La Turquie est maintenant plus importante que jamais pour l'Union européenne".

Pour ce qui est de l'actualité fugace, cependant, il convient ici de rappeler aux gentils négociateurs bruxellois quelques données, sur lesquelles nos médias demeurent fort discrets.

La Turquie n'est pas seulement inondée de réfugiés et migrants. Elle se débat dans une grave crise monétaire. En un an, entre octobre 2014 et octobre 2015, la livre turque est passée de 2,21 pour un dollar à 3,02, soit un dévissage de 36 %.

Elle est en pleine campagne électorale. La guerre dans le sud-est anatolien a repris par la volonté d'Erdogan de ressembler le nationalisme turc contre le PKK.

Soulignons que sur c'est sur ce thème qu'il a organisé ce 4 octobre un énorme meeting de 12 000 personnes à Strasbourg, s'impliquant plus que jamais dans la campagne électorale, espérant rallier une partie de l'électorat nationaliste. Cette intervention la veille de sa visite d'État relève autant du mauvais goût que du mélange des genres.

Car la majorité AKP a été durablement ébranlée par divers scandales. Dès lors on dit s'inquiéter du fait que l'on négocie avec M. Erdogan dont le pouvoir constitutionnel reste encore, sur le papier, à peu près égal celui du grand-duc de Luxembourg quoique sa mégalomanie soit devenue grandissante depuis quelque temps.

Certes la diplomatie d'État de ce pays, la résilience de son peuple et, même, l'habileté de ses dirigeants au cours sa longue histoire permettent de préjuger de sa capacité à rebondir.

La part d'illusion consiste d’autre part, à faire l'impasse sur la politique étrangère de "chauve-souris" qui caractérise la diplomatie turque, tiraillée au moins entre trois identités contradictoires, dont l'islam sunnite et l'Asie centrale, qui l'éloignent de l'Europe. (4)⇓

Mais justement, il se révélera d'autant plus nécessaire de rappeler aussi quelques faits historiques dont la mémoire habite encore les peuples de l'est européens. Ils sont en général d'autant mieux passés sous silence que l'on a réduit à sa plus simple expression l'enseignement de l'Histoire aussi bien dans le secondaire, depuis la réforme Haby de 1975, ou par l'invasion des soixante-huitards ou dans des programmes comme ceux de l'Institut d'Études politiques sous la régence de feu Richard Descoings.

Après 40 ans de giscardo-chiraco-socialisme la mémoire nationale des Français n'existe plus, et leur conscience européenne semble s'être réduite à ce que peut en penser Cyril Hanouna.

Voilà qui permet de répandre, dans une opinion décérébrée, toutes les illusions, en général, et celles qui ont trait à la politique de l'Europe, en particulier.

JG Malliarakis

À lire en relation avec cette chronique

"La Question turque et l'Europe" par JG Malliarakis à commander aux Éditions du Trident, sur la page catalogue ou par correspondace en adressant un chèque de 20 euros aux Éditions du Trident, 39 rue du Cherche-Midi 75006 Paris.

Apostilles

  1. cf. sur le site "capitale.be" le 5 octobre 2015 à 15 h 51, et la protestation d'un conseiller communal.
  2. cf. "Le Monde" le 3 octobre 2015 à 10h43 "Erdogan, allié obligé de l’Europe"
  3. cf. "Die Welt" le 5 octobre, article "Flüchtlingskrise : Wir brauchen die Türkei" ("Crise des réfugiés: "Nous avons besoin de la Turquie").
  4. cf. notre chronique de 2009 "La chauve-souris turque sa propagande et sa diplomatie 
du pacte germano-soviétique jusqu'à nos jours", base d'un chapitre de mon petit livre "La Question turque et l'Europe" à commander aux Éditions du Trident, sur la page catalogue ou par correspondace en adressant un chèque de 20 euros aux Éditions du Trident, 39 rue du Cherche-Midi 75006 Paris.

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jeudi, 08 octobre 2015

Partenariat Transpacifique. Que cherche Obama?

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Partenariat Transpacifique. Que cherche Obama?

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Le Partenariat transpacifique (TPP) a reçu l'accord de principe, le 5 octobre, des représentants des douze pays concernés (Etats-Unis, Canada, Mexique, Chili, Pérou, Japon, Malaisie, Vietnam, Singapour, Brunei, Australie et Nouvelle-Zélande). Ce ne fut pas sans de multiples discussions, qui ont occupé plus de 5 jours.
 
Obama considère que ceci constitue pour lui un grand succès personnel. Il s'agit de l'aboutissement de discussions entamées en 2008, qui ouvre la porte à l'un des plus importants traités de libre-échange jamais signé. L'accord de principe doit maintenant être ratifié par les parlements de chacun des pays.

Sur un certain nombre de points, les oppositions entre pays étaient nombreuses. Il en a été ainsi de la protection des brevets dans le domaine des médicaments biotechnologiques. L'Australie, mais aussi le Chili et le Pérou, s'opposaient fermement à la protection dont dans le cadre du TPP jouiront les entreprises américaines du secteur. De même, l'ouverture du marché des produits laitiers canadien, japonais et américain aux exportations en provenance de Nouvelle-Zélande et d'Australie, plus compétitives, n'a pas été obtenue sans mal. Il en a été de même de l'ouverture du marché nord-américain dans le secteur des pièces détachées automobiles, où dominent les constructeurs japonais, très redoutés.

En définitive, l'accord prévoit la disparition de 18 000 droits de douane auxquels étaient assujetties les exportations américaines en direction de ses onze partenaires dans l'industrie mécanique, les technologies de l'information, la chimie ou les produits agricoles. Mais à l'inverse, il ouvrira le marché américain aux importations de milliers de produits de consommation courante, fabriqués dans les pays asiatiques à bas coût. Ceci entrainera nécessairement la disparition de milliers d'entreprises américaines dans ces domaines, déjà fortement éprouvées par la concurrence chinoise. Cela fait que le projet de TPP, censé bénéficier globalement aux Etats-Unis, a suscité l'opposition de nombreux parlementaires influents dans divers Etats de la fédération. Si Obama ne réussit pas à se faire reconnaître par le Congrès une procédure d'accord global (fast track), le TPP pourrait être rejeté.

Le libre échange, ruine des économies des pays développés ?

L'OCDE a récemment publié diverses études montrant que l'ouverture des frontières aux exportations des pays à bas coût, qu'il s'agisse des signataires du TPP ou de la Chine, non signataire, sera à terme insupportable pour les pays développés membres de l'OCDE, Europe mais aussi Etats-Unis. Il s'agira, selon le terme employé, d'un véritable tsunami. Comme l'a écrit Marc Antoine Rochet dans un article du 27 septembre publié par La Synthèse on line http://www.lasyntheseonline.fr/taux/banques_centrales/fed/la_fed_plus_proche_dun_qe4_que_dune_hausse_des_taux,31,4871.html

«  La vague actuelle de mondialisation invite schématiquement, à faire commercer, sans droits de douane, et en toute liberté, un nombre croissant de Pays : 161 membres de l'OMC. Les règles de cette organisation  aboutissent donc à mettre en compétition aujourd'hui 6,5 milliards d'êtres humains des Pays émergents face à un milliard dans les Pays matures. On ne peut imaginer une force déflationniste plus puissante. Les prix des produits fabriqués ou de services délivrés, et ainsi échangés mondialement,  ne peuvent qu'être moins chers que leurs équivalents produits dans les Pays de l'OCDE, vu l'écart des salaires et les dumpings fiscaux, sociaux et environnementaux pratiqués entre les mondes OCDE (34 Pays) et « non OCDE » (les 127 autres Membres de l'OMC). Cette progressive montée des eaux déflationniste engendre par ailleurs la création de classes moyennes dans les pays émergents et la diminution du pouvoir d'achat et du niveau de vie des classes moyennes dans les Pays de l'OCDE : voir à ce sujet la baisse du PIB par habitant dans de nombreux Pays de l'OCDE, ainsi que la baisse des revenus des classes moyennes, constatées depuis 2008. »
 
Quel objectif poursuit donc Obama dans sa volonté de faire accepter le TPP par le Congrès américain? Différentes raisons sont évoquées. La suppression des droits de douane bénéficiera non seulement aux entreprises des pays émergents mais aux nombreuses entreprise américaines délocalisées dans ces pays. Par ailleurs le TPP contrera les efforts de la Chine et de la Russie au sein du Brics et de l'OCS pour mettre en place des échanges entres ces pays libellées en yuan-rouble. Enfin et peut-être surtout, la référence du TPP pourra faire accepter plus facilement par les pays européens le TTIP outil d'une domination américaine renforcée sur l'Europe. Pour le moment, ces pays européens sont hésitants, malgré les multiples pressions américaines. Avec le TPP et le TTIP conjugués, ils seront alors doublement perdants, face aux exportations asiatiques et face aux exportations américaines. Ils seront en effet incapables de les concurrencer compte tenu des salaires et charges sociales pratiqués en Europe.

Plus généralement, le TPP permettra à Obama d'assurer à l'Amérique une vaste zone d'influence politique et militaire face à la Chine, considérée comme l'ennemi à abattre dans le Pacifique. Tout ceci vaut bien de sacrifier une grande partie des producteurs petits et moyens américains, qui ne se remettront pas de la suppression des droits de douanes et barrières réglementaires. Quand on veut dominer, comme le veut le Complexe-militaro-industriel relayé par Obama, il faut accepter d'en payer le prix, aux dépens de ses propres compatriotes.

Jean Paul Baquiast

L'accord Trans-Pacifique avant le Trans-Atlantique

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QUAND LE PACIFIQUE S'ÉVEILLERA....

L'accord Trans-Pacifique avant le Trans-Atlantique

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr
 
Les élus du Congrès américain ont accueilli prudemment ce lundi l'annonce d'un accord sur un traité de libre-échange trans-pacifique (TPP), qu'ils devront ratifier en 2016. La majorité républicaine est a priori favorable au libre-échange mais ses chefs de file dans le dossier réservaient toujours leur jugement, ce qui présage d'un examen difficile pour le président Barack Obama qui ne pourra en outre bénéficier du soutien uni de tout son parti. 

Selon une loi adoptée en juin, le Congrès devra voter pour ou contre l'accord commercial, sans pouvoir l'amender, mais la procédure prendra plusieurs mois, décalant tout vote jusqu'en plein milieu des primaires présidentielles. L'opposition la plus stridente viendra de la gauche du parti du président, la plupart des démocrates craignant que l'accord n'affaiblisse certaines industries américaines. Ils s'étaient déjà rebellés en juin et avaient voté contre la procédure d'examen accélérée. Une fois n'est pas coutume, Barack Obama avait dû alors se reposer sur ses adversaires républicains. « Cet accord fait suite aux accords commerciaux ratés avec le Mexique, la Chine et d'autres pays à bas salaires, et qui ont coûté des millions d'emplois et fermé des dizaines de milliers d'usines aux Etats-Unis », a déclaré le sénateur indépendant Bernie Sanders, candidat aux primaires démocrates pour la présidentielle 2016. La représentante démocrate Louise Slaughter a déjà prévenu qu'elle travaillerait avec des élus des parlements canadien et australien pour faire échouer l'accord, qui, selon elle, permettra l'importation de nourriture dangereuse, et empêchera celle de médicaments bon marché, comme les versions génériques de médicaments biologiques.
 
Le traité sur le partenariat Trans-Pacifique concerne près de la moitié de l’économie mondiale (40%) et instaure de nouvelles règles pour les entreprises traditionnelles mais aussi pour les entreprises en ligne. Comme on le sait, l’objectif déclaré du Partenariat Trans-Pacifique est de créer un bloc économique unifié pour que les entreprises puissent faire des échanges commerciaux plus facilement. Ce bloc unifié affecte toutes les entreprises mais remet aussi en cause les principes de base d’Internet. 

Ainsi, les termes d’une partie controversée de cet accord criminalisent la révélation "par un système d’ordinateur" des méfaits des entreprises, c'est la fameuse question des lanceurs d’alerte sur laquelle débute mercredi en France l'examen d'une loi sur la déontologie des fonctionnaires. Les clauses du Traité trans-Pacifique pourraient ainsi empêcher des journalistes d’enquêter sur certains comportements des entreprises. De plus, les fournisseurs de contenu, tels que YouTube ou Facebook, auraient l’obligation de supprimer un contenu pour lequel ils recevraient une plainte. De telles exigences nuiraient aux startups ou à des sites internet en les obligeant à répondre à chaque plainte. 

Même si ce Partenariat Trans-Pacifique couvre 40% de l’économie globale et unifie des pays différents, il utilise les règles restrictives américaines, celles du Patriot Act qui ont cours depuis samedi en France ,telles que la saisie des ordinateurs et des équipements impliqués dans une infraction alléguée par le gouvernement, ou encore, l’interdiction de la violation des cryptages numériques des dispositifs ou des travaux de créateurs (même à des fins juridiques). L'un des aspects les plus préoccupants du partenariat Trans-Pacifique, c’est qu'il pourrait générer et amplifier ces nouvelles règles de surveillance. On pourrait ainsi demander aux fournisseurs d’accès ou de services sur Internet de surveiller les activités des utilisateurs, de supprimer certains contenus d’Internet et d’empêcher certaines personnes d’accéder à certains contenus sur la Toile, prévient Expose the TPP, un groupe militant qui s’oppose justement à l’entrée en vigueur de ce traité.

 

mercredi, 07 octobre 2015

Putin Moves His Rook Into Syria

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Putin Moves His Rook Into Syria

By

Ex: http://www.lewrockwell.com

Frankfurt, Germany –Could anyone in the Obama administration have been so slow-witted to imagine that Russia wouldn’t move hard to counter US efforts to overthrow Moscow’s  ally, Syria?

The Syrian war began almost five years ago by the US, France, Britain and Saudi Arabia  to overthrow Syria’s Iranian and Russian-backed government. The result so far:  250,000 dead, 9.5 million refugees flooding Europe and  Syria shattered.

This is nothing new: the first CIA coup attempt to overthrow a Syrian ruler Gen. Husni Zaim was in 1949.

A combination of imperial hubris and ignorance has led Washington to believe it could overthrow any government that was disobedient or uncooperative.  Syria was chosen as the latest target of regime change because  the Assad regime – a recognized, legitimate government and UN member –was a close ally of America’s Great Satan, Iran.  Formerly it had been cooperating with Washington.

After watching Syria be slowly destroyed, Russia’s President, Vladimir Putin, moved his rook onto the Syrian chessboard.  For the first time since 1991, Moscow sent a small expeditionary  unit of 50 warplanes to Syria both to shore up the Assad regime and to reaffirm that  Russia has long-standing strategic interests in Syria.

Few of the  administration’s bumbling amateur strategists likely knew that Russia claimed during the 19th century to be the rightful protector of Mideast Christians.  Russia watched in dismay the destruction of Iraq’s ancient Christian communities caused by the overthrow of their protector, President Saddam Hussein.  Moscow has vowed not to let a similar crime happen again to Syria’s Christians.

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Russia is also clearly reasserting a degree of her former Mideast influence.  In 1970, Russian pilots tangled with Israeli warplanes over the Suez Canal during the “War of Attrition.”  The flying time from Moscow to Damascus is about the same as New York City to Miami. Syria is in Russia’s backyard, not America’s.

A highly effective propaganda war waged against Syria and Russia by the US, French and British media has so demonized Syria’s President Assad that Washington will find it very difficult to negotiate or include him in a peace deal.  The US made the same stupid mistake with Afghanistan’s Taliban and now is paying the price.

President Bashar Assad is no Great Satan. He was a British-trained eye specialist forced into the dynastic leadership of Syria by the car crash that killed his elder brother.  The Assad regime has plenty of nasty officials but in my long regional experience Syria is no worse than such brutal US allies as Egypt, Saudi Arabia, Morocco or Uzbekistan.

President Putin has long been calling for a negotiated settlement to end this destructive conflict that is quickly resembling Lebanon’s ghastly civil war from 1975-1990 whose horrors I saw firsthand.

Who rules Syria is not worth one more death or refugee.  Sadly, Syria may be beyond repair.  The crazies we created are now running large parts of Iraq and Syria.  Russia mutters about going into Iraq.

Vlad Putin keeps his game tightly under control.  I’m not so sure about the Obama White House and its confused advisors.  Better make a deal with Assad, a natural US ally, and end this crazy war before Sen. John McCain and his  Republican crusader pals really do start World War III.

Washington refuses Russia any legitimate sphere of influence in Syria, though Moscow has had a small base in Tartus on the coast for over 40 years.  This Russian logistics base is now being expanded and guarded by a ground force estimated at a reinforced company.

This week came reports that modest numbers of Iranian infantry have entered war-torn Syria.  Lebanon’s tough Hezbollah fighters are also in action in Syria.

Opposing them are a mixed bag of irregular forces and heavily armed religious fanatics trained and armed by US, French and British intelligence and financed by Washington and the Saudis.  This writer believes small numbers of US and French Special Forces and  British SAS are also aiding anti-Assad forces.

Israel and Turkey, hopping to profit from a possible break-up of Syria,  are also discreetly aiding the anti-Assad forces that include al-Qaida and everyone’s favorite bogeyman,  Islamic State.

Howls of protest are coming from Washington and its allies over Russia’s military intervention.  Don’t we hate it when others do exactly what we do.  The US has over 800 bases around the globe.  French troops operate in parts of Africa.  Both nations stage military interventions when they see fit.

Washington accuses Moscow of imperialism as 10,000 US troops, fleets of warplanes and 35,000 US mercenaries fight nationalist forces in Afghanistan.  Iraq remains a semi-US colony. Russia withdrew all of its 350,000 troops stationed in Germany in 1991; US bases still cover Germany and, most lately, Romania.

Neocons Want US to Ally Al-Qaeda Against Russia

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Neocons Want US to Ally Al-Qaeda Against Russia

By that we mean “ally openly” - US is de facto already using Al Qaeda as schock troops against Assad in Syria, just like against Gaddafi in Libya, Serbs in Bosnia and Soviets in Afghanistan

Originally appeared at Consortium News


The key sentence in The New York Times’ lead article about Russian airstrikes against Syrian rebel targets fell to the bottom of the story, five paragraphs from the end, where the Times noted in passing that the area north of Homs where the attacks occurred had been the site of an offensive by a coalition “including Nusra Front.”

What the Times didn’t say in that context was that Nusra Front is Al Qaeda’s affiliate in Syria, an omission perhaps explained because this additional information would disrupt the righteous tone of the article, accusing Russia of bad faith in attacking rebel groups other than the Islamic State.

But the Russians had made clear their intent was to engage in airstrikes against the mélange of rebel groups in which Al Qaeda as well as the Islamic State played prominent roles. The Times and the rest of the mainstream U.S. media are just playing games when they pretend otherwise.

Plus, the reality about Syria’s splintered rebel coalition is that it is virtually impossible to distinguish between the few “moderate” rebels and the many Sunni extremists. Indeed, many “moderates,” including some trained and armed by the CIA and Pentagon, have joined with Al Qaeda’s Nusra Front, even turning over U.S. weapons and equipment to this affiliate of the terrorist organization that attacked New York and Washington on Sept. 11, 2001. Lest we forget it was that event that prompted the direct U.S. military intervention in the Middle East.

However, in recent months, the Israeli government and its American neoconservative allies have been floating trial balloons regarding whether Al Qaeda could be repackaged as Sunni “moderates” and become a de facto U.S. ally in achieving a “regime change” in Syria, ousting President Bashar al-Assad who has been near the top of the Israeli/neocon hit list for years.

A key neocon propaganda theme has been to spin the conspiracy theory that Assad and the Islamic State are somehow in cahoots and thus Al Qaeda represents the lesser evil. Though there is no evidence to support this conspiracy theory, it was even raised by Charlie Rose in his “60 Minutes” interview last Sunday with Russian President Vladimir Putin. The reality is that the Islamic State and Al Qaeda have both been leading the fight to destroy the secular Assad government, which has fought back against both groups.

And, if these two leading terror groups saw a chance to raise their black flags over Damascus, they might well mend their tactical rifts. They would have much to gain by overthrowing Assad’s regime, which is the principal protector of Syria’s Christians, Alawites, Shiites and other “heretics.”

The primary dispute between Al Qaeda and the Islamic State, which began as “Al Qaeda in Iraq,” is when to start a fundamentalist caliphate. The Islamic State believes the caliphate can begin now while Al Qaeda says the priority should be mounting more terrorist attacks against the West.

Yet, if Damascus falls, the two groups could both get a measure of satisfaction: the Islamic State could busy itself beheadings the “heretics” while Al Qaeda could plot dramatic new terror attacks against Western targets, a grim win-win.

One might think that the U.S. government should focus on averting such an eventuality, but the hysterical anti-Russian bias of The New York Times and the rest of the mainstream media means that whatever Putin does must be cast in the most negative light.

The Anti-Putin Frenzy

On Thursday, one CNN anchor ranted about Putin’s air force attacking “our guys,” i.e., CIA-trained rebels, and demanded to know what could be done to stop the Russian attacks. This frenzy was fed by the Times’ article, co-written by neocon national security correspondent Michael R. Gordon, a leading promoter of the Iraq-WMD scam in 2002.

The Times’ article pushed the theme that Russians were attacking the white-hatted “moderate” rebels in violation of Russia’s supposed commitment to fight the Islamic State only. But Putin never restricted his military support for the Assad government to attacks on the Islamic State.

Indeed, even the Times began that part of the story by citing Putin’s quote that Russia was acting “preventatively to fight and destroy militants and terrorists on the territories that they already occupied.” Putin did not limit Russia’s actions to the Islamic State.

But the Times’ article acts as if the phrase “militants and terrorists” could only apply to the Islamic State, writing: “But American officials said the attack was not directed at the Islamic State but at other opposition groups fighting against the [Syrian] government.”

Unless The New York Times no longer believes that Al Qaeda is a terrorist group, the Times’ phrasing doesn’t make sense. Indeed, Al Qaeda’s Nusra Front has emerged as the lead element of the so-called Army of Conquest, a coalition of rebel forces which has been using sophisticated U.S. weaponry including TOW missiles to achieve major advances against the Syrian military around the city of Idlib.

The weaponry most likely comes from U.S. regional allies, since Saudi Arabia, Turkey, Qatar and other Sunni-led Gulf states have been supporting Al Qaeda, the Islamic State and other Sunni rebel groups in Syria. This reality was disclosed in a Defense Intelligence Agency report and was blurted out by Vice President Joe Biden.

On Oct. 2, 2014, Biden told an audience at Harvard’s Kennedy School: “our allies in the region were our largest problem in Syria … the Saudis, the emirates, etc., what were they doing? They were so determined to take down Assad and essentially have a proxy Sunni-Shia war, what did they do? They poured hundreds of millions of dollars and tens of thousands of tons of military weapons into anyone who would fight against Assad, except the people who were being supplied were Al Nusra and Al Qaeda and the extremist elements of jihadis coming from other parts of the world.” [Quote at 53:20 of clip.]

Al Qaeda’s Nusra Front also has benefited from a de facto alliance with Israel which has taken in wounded Nusra fighters for medical treatment and then returned them to the battlefield around the Golan Heights. Israel also has carried out airstrikes inside Syria in support of Nusra’s advances, including killing Hezbollah and Iranian advisers helping the Syrian government.

The Israeli airstrikes inside Syria, like those conducted by the United States and its allies, are in violation of international law because they do not have the permission of the Syrian government, but those Israeli and U.S. coalition attacks are treated as right and proper by the mainstream U.S. media in contrast to the Russian airstrikes, which are treated as illicit even though they are carried out at the invitation of Syria’s recognized government.

 

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Obama’s Choice

Ultimately, President Barack Obama will have to decide if he wants to cooperate with Russia and Iran in beating back Al Qaeda, the Islamic State and other jihadists – or realign U.S. policy in accord with Israel’s obsession with “regime change” in Syria, even if that means a victory by Al Qaeda. In other words, should the United States come full circle in the Middle East and help Al Qaeda win?

Preferring Al Qaeda over Assad is the Israeli position – embraced by many neocons, too. The priority for the Israeli/neocon strategy has been to seek “regime change” in Syria as a way to counter Iran and its support for Lebanon’s Hezbollah, both part of Shia Islam.

According to this thinking, if Assad, an Alawite, a branch of Shia Islam, can be removed, a new Sunni-dominated regime in Syria would disrupt Hezbollah’s supply lines from Iran and thus free up Israel to act more aggressively against both the Palestinians and Iran.

For instance, if Israel decides to crack down again on the Palestinians or bomb Iran’s nuclear sites, it now has to worry about Hezbollah in southern Lebanon raining down missiles on major Israeli cities. However, if Hezbollah’s source of Iranian missiles gets blocked by a new Sunni regime in Damascus, the worry of Hezbollah attacks would be lessened.

Israel’s preference for Al Qaeda over Assad has been acknowledged by senior Israeli officials for the past two years though never noted in the U.S. mainstream media. In September 2013, Israel’s Ambassador to the United States Michael Oren, then a close adviser to Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu, told the Jerusalem Post that Israel favored the Sunni extremists over Assad.

“The greatest danger to Israel is by the strategic arc that extends from Tehran, to Damascus to Beirut. And we saw the Assad regime as the keystone in that arc,” Oren told the Jerusalem Post in an interview. “We always wanted Bashar Assad to go, we always preferred the bad guys who weren’t backed by Iran to the bad guys who were backed by Iran.” He said this was the case even if the “bad guys” were affiliated with Al Qaeda.

And, in June 2014, then speaking as a former ambassador at an Aspen Institute conference, Oren expanded on his position, saying Israel would even prefer a victory by the brutal Islamic State over continuation of the Iranian-backed Assad in Syria. “From Israel’s perspective, if there’s got to be an evil that’s got to prevail, let the Sunni evil prevail,” Oren said. [See Consortiumnews.com’s “Al-Qaeda, Saudi Arabia and Israel.”]

So, that is the choice facing President Obama and the American people. Despite the misleading reporting by The New York Times, CNN and other major U.S. news outlets, the realistic options are quite stark: either work with Russia, Iran and the Syrian military to beat back the Sunni jihadists in Syria (while seeking a power-sharing arrangement in Damascus that includes Assad and some of his U.S.-backed political rivals) — or take the side of Al Qaeda and other Sunni extremists, including the Islamic State, with the goal of removing Assad and hoping that the mythical “moderate” rebels might finally materialize and somehow wrest control of Damascus.

Though I’m told that Obama privately has made the first choice, he is so fearful of the political reaction from neocons and their “liberal interventionist” pals that he feels he must act like a tough guy ridiculing Putin and denouncing Assad.

The danger from this duplicitous approach is that Obama’s penchant for talking out of multiple sides of his mouth might end up touching off a confrontation between nuclear-armed America and nuclear-armed Russia, a crisis that his verbal trickery might not be able to control.

Erdogan: danger pour l'Europe

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Erdogan: danger pour l'Europe

par Jean-Paul Baquiast

Ex: http://www.europesolidaire.eu

Le dimanche 4 octobre à Strasbourg le Premier ministre turc Recep Tayyb Erdogan a voulu lancer un appel à la diaspora turque en Europe. Il a réuni 15.000 sympathisants surchauffés. L'ensemble des médias se sont étonnés du fait que lors de ce meeting, hommes et femmes étaient séparés. La pratique est courante en Turquie mais donne un signal déplorable dans la capitale de l'Union européenne. Rappelons que la diaspora turque est très fortement représentée en Allemagne.
 
Erdogan veut évidemment rassembler ceux des futurs électeurs susceptibles de voter pour lui lors des prochaines élections législatives, où il espère récupérer la majorité absolue. Son intervention devait invoquer une nécessaire lutte contre le terrorisme. Mais Erdogan n'a jamais mentionné Daesh. Il s'en est pris aux séparatistes kurdes dont l'influence en Turquie même est de plus en plus grande. Nul n'ignore que la Turquie n'est absolument pas engagée dans la lutte contre Daesh. Au contraire elle encourage ledit Daesh par divers moyens, notamment le passage d'armes et de combattants djihadistes à travers sa frontière. Au contraire les kurdes d'Irak et de Syrie ont toujours lutté, initialement seuls au début, contre l' « Etat islamique » (EI). Ils continuent aujourd'hui à le faire.

Erdogan peut désormais se prévaloir d'un appui diplomatique massif, celui des Etats-Unis et de l'Otan. Ceux-ci comptent sur lui pour mettre en difficulté, y compris par des troupes au sol, l'alliance dite 5+1 (Iran, Irak, Syrie, Hesbollah et Russie) qui vient de se mettre en place, à l'initiative de la Russie, pour engager des moyens militaires importants contre l'EI. Le numéro 6 de la coalition devrait être désormais la Chine, qui vient d'engager en méditerranée son unique porte-avion, le Liaoning, lequel devrait prochainement recevoir des avions. La Chine, à juste titre, veut aider la Russie à lutter contre les combattants islamiques se référant à Daesh et de plus en plus nombreux à envahir le Caucase et les provinces chinoises dite Ouïghours.

Logiquement, les pays européens membres de l'Otan, à défaut des Américains eux-mêmes, devraient se réjouir de cette coalition, susceptible de contrer l'EI bien mieux que la coalition hétéroclite montée par Obama il y a quelques mois. Mais les grands alliés des Européens et des Etats-Unis sont les monarchies arabes du Golfe, dont le grand mérite est d'approvisionner l'Occident en pétrole. Elles combattent également par des moyens divers, y compris militaires au Yémen, les Etats chiites participant aux 5+1. Autrement dit, elles aident l'EI, considéré comme un rassemblement sunnite, à lutter contre l'axe chiite auquel vient de se joindre la Russie. Elles bénéficient donc plus que jamais de toutes les attentions de l'Otan.

Erdogan lutte, tant que membre actif de l'Otan, contre une montée en puissance de la Russie qui inquiète dorénavant de plus en plus les Etats-Unis. Il compte donc sur son positionnement anti-russe pour recevoir les appuis des pays européens disposant d'une importante diaspora turque.

Les membres européens de l'Otan,devraient se féliciter de l'engagement des 5+1 pour essayer de tarir en Syrie même et en Irak la source du terrorisme djihadiste dont ils seront de plus en plus les victimes. Par ailleurs, ni la Russie ni la Chine ne représenteront une menace militaire à leur égard, comme voudrait le faire croire Washington. Ils ne devraient donc pas encourager Erdogan à provoquer des incidents entre ses avions et ceux des russes, ce qu'il semble résolu faire.

Malheureusement, sous la pression américaine, ces pays européens, au premier rang desquels se trouve la France, continuent contre tout bon sens à vouloir la chute de Bashar al Assad, ce que de son côté le sunnite Erdogan a toujours cherché à faire. Tout ce qui en ce sens pourra faire des difficultés à la Russie,  provenant notamment de la Turquie, sera donc essayé, avec la bénédiction des Européens.

 

Jean Paul Baquiast

mardi, 06 octobre 2015

Erdogan is Starting to Pay His Bills

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Pogos Anastasov

Erdogan is Starting to Pay His Bills

Yerevan is anxiously watching developments in neighbouring Turkey. Destabilization in a neighbouring country is in nobody’s interests, but events there are developing rapidly, and it is unlikely that there is anything good in store for Ankara, which has got involved in a whole range of conflicts in the region.

It seems that the truly strong and popular Turkish leader has overestimated his strength and, having unleashed a war on all fronts, both internal and external, now risks if not losing power, then facing very serious problems.

What has happened that the President of Turkey, formerly prime minister, and most importantly, continuous leader of the country for almost fifteen years, should suddenly find himself in such a difficult situation? The answer is both simple and complicated. R. T. Erdogan came to power at the beginning of the twenty-first century as an exponent for the professedly down-trodden Muslim masses of Turkish citizens, who are both relatively poor and followers of the religious ideals of Islam, to which his Justice and Development Party (AKP) gave a political “mould”.

By all accounts, the success of the last decade has gone to the Turkish politician’s head, and he decided to go after internal achievements as well as external. Beyond Turkey’s borders, he set himself the task of overthrowing the Bashar al-Assad’s secular regime in Syria, in the hope of bringing kindred Sunni “Muslim brothers” to power there and inside Turkey he set upon completely changing the political landscape of the country and, having achieved absolute majority in the parliamentary elections of 7 June 2015, changing the country’s constitution so that the Parliament’s basic powers were transferred to the president.

However, Erdogan clearly never studied the Coup of 18 Brumaire. The June elections not only didn’t allow him to become the sole ruler of the country, but he couldn’t even form a government, and now he has been forced to hold new elections, which are scheduled for November 1, where he plans to take revenge. But are his hopes justified?

Firstly, outside the country, the support for all anti-governmental forces in Syria has led to the fact that Turkey has become almost an accessory to the ISIS terrorist movement, which until very recently received the supply of militants and weapons via the 900-kilometre Turkish-Syrian border. This led, in turn, to tensions between Erdogan and his NATO allies, primarily the United States, whom Turkey did not allow to bomb ISIS from its territory or use its Incirlik air base. Relations between the Turkish president and the Kurds have sharply deteriorated. The latter believed, they were receiving insufficient support from the Turkish authorities in the battle against ISIS for the town of Kobanî (Ayn al-Arab), where Washington itself had staunchly supported the Kurds.

The situation changed only after July 20 of this year, when an ISIS militant bombed Kurdish volunteers who had got together to help with the rebuilding of Kobanî, killing 32 of them. However, the attitude of the Turkish authorities to ISIS members had soured even earlier, when on July 17 an ISIS publication in Turkish entitled Konstantiniyye called for a fatwa against the “caliphate” and for a boycott of “unclean” Turkish meat.

The authorities couldn’t leave this with no response Immediately after the terrorist attack, and a telephone conversation between Erdogan and Obama, an agreement was signed according to which the United States was finally granted the right to use the Turkish Incirlik, Diyarbakir, Batman and Malatya air bases to bomb ISIS, and Turkey pledged to directly take part in these bombings. In Turkey, for the first time after the appearance of ISIS on the political map of the Middle East in June 2014, large-scale arrests of supporters of terrorist quasi-state commenced (to be fair, it must be said that the first dozens of radical Islamists were arrested as early as mid-July, before the terrorist attack). More than 500 people were imprisoned; and the border control was tightened: By the end of July, 500 foreigners had been deported for relations with ISIS, 1,100 were denied entry to Turkey, and 15,000 were put on the “black list”. ISIS did not forgive this and on July 23 the first clashes between the Turkish army and ISIS members took place. Scorpion bit the one who hid it in his sleeve, as B. Assad figuratively said speaking on the terrorist attacks in an interview with Russian journalists.

For his consent to the bombing of ISIS, Erdogan was allegedly granted the right to create a kind of no-fly zone over the western 90-km stretch of the Syrian-Turkish border officially to protect 1.8 million Syrian refugees from Assad, but in fact to help the anti-governmental forces (mainly the Free Syrian army). But this fig leaf was of little help to the Turkish president.

Having smoothed out his relations with the West and the United States over ISIS, and having thus obtained a pardon from the USA for taking a tougher stance on his domestic policies, Erdogan opened, apparently inadvertently, a new front, this time with the Kurds, and in particular with the Kurdistan Workers’ Party (PKK).

They perceived the attack of July 20 as a provocation by the authorities (after all, ISIS was called the organiser by the Turkish authorities, not the Islamic State itself) and responded to terror with terror, killing a couple of police officers. And this is where the Turkish president seems to have made a fatal mistake, which hasn’t backfired on him yet.

Instead of allaying the situation, he decided to punish the power that he believes is interfering with his plans to overthrow Assad and is preventing political hegemony inside the country (in the elections of June 7, the People’s Democratic Party (HDP) won 80 seats in parliament, depriving Erdogan’s party of the majority), he broke the ceasefire with the Kurds that had been in effect since 2012 and unleashed military actions on those who stood for the HDP and the PKK. AKP activists simultaneously attacked the offices of the Democratic People’s Party across the country. Legal proceedings were filed against the party leader, S. Demirtas, for “inciting violence”.

In response, the Turkish Kurds, who decided that they were deceived when they were called for peace, but were declared war instead, took up arms and sabotaged a pipeline, along which oil flows to the camp of supporters of an independent Iraqi Kurdistan – Turkey and Israel (thanks to which 77% of the needs of the Jewish state are met) from its leader, M. Barzani, with whom Ankara shares special relationship. They do not believe in the anti-ISIS policies of the authorities, because they supposedly consider ISIS an Ankara’s tool in the fight against them. According to them, by encouraging the PKK to resume the civil war, they want to discredit the HDP, and then ban it and prevent them from taking part in elections. There are already calls for this from the Turkish ultra-nationalists, who have decided to support Erdogan. They demonise the HDP, declaring it a supporter of separatism.

There is every reason to believe that pursuing this policy of aggravation, Erdogan risks losing the upcoming parliamentary elections. In the current climate he is unlikely to succeed in unifying the nation, while fighting on three fronts – against Syria, ISIS and the PKK. Reforms are stalling in the country, the economic situation is not improving, and the desire to impose an ideology on the whole nation that not everyone shares (at least not the Kurds and the Kemalists) and monopolize power, could lead to increased social unrest. Bonapartism is not fashionable these days…

Pogos Anastasov, political analyst, Orientalist, exclusively for the online magazine “New Eastern Outlook.”

Conférence d'Aymeric Chauprade à l'Université de Vladivostok

Conférence d'Aymeric Chauprade à l'Université de Vladivostok

Le nouveau monde multipolaire face au défi hégémonique américain

US and Rogue Allies Plot Plan B in Syria

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US and Rogue Allies Plot Plan B in Syria
 
by Stephen Lendman
Ex: http://www.therussophile.org
 
Putin’s righteous intervention in Syria disrupts Washington’s regional imperial agenda – neocons infesting Obama’s administration on the back foot, flummoxed on what to do next.
 
Their reaction awaits. Expect endless propaganda war, as well as increased support for ISIS and other takfiri terrorists, maybe plans to destabilize other regional countries – Iran, Lebanon and perhaps greater conflict in Iraq than already. Possibly another US direct or proxy war elsewhere.
 
London’s Guardian got it backwards suggesting Moscow’s intervention was “more provocative than decisive” – the same notion proliferated by other media scoundrels in lockstep with their rogue regimes, especially in America, Britain, Saudi Arabia, Turkey, and Israel.
 
The Guardian said “(r)egional powers have quietly, but effectively, channelled funds, weapons and other support to rebel groups making the biggest inroads against the forces from Damascus” – allied with Washington’s plan to weaken and isolate Iran.
 
Saudi Arabia supports the region’s vilest elements, cold-blooded terrorist killers – its Foreign Minister Adel Al-Jubeir boldly asserting “(t)here is no future for Assad in Syria.” If he doesn’t step down, Riyadh will get involved militarily to remove him “from power.”
 
European Council on Foreign Relations senior fellow Julien Barnes-Dacey called Moscow’s intervention “a massive setback for” America and other nations wanting Assad ousted.
 
Riyadh-based King Faisal Centre for Research and Islamic Studies associate fellow Mohammed Alyahya said the Saudi view throughout the conflict is “Assad must go,” echoing calls from Washington, Britain and other nations opposing him.
 
Prevailing anti-Putin propaganda claims his intervention means more instability and bloodshed – polar opposite the free world’s view. It’s a vital initiative to end conflict, maintain Syrian sovereignty, help its people, as well as free the region and other countries from the scourge of terrorism. It’s already making a difference, causing consternation in their ranks.
 
Neocon Washington Post editors expressed concern over Russia’s intervention, saying it may shift the balance of power in Assad’s favor, disrupting Obama’s plan to oust him, opening a new phase of war.
 
US strategy is in disarray, analysts saying as long as Moscow and Tehran provide support, Assad can survive indefinitely. Four-and-a-half years of Obama’s war to oust him failed. Expect Plan B to pursue endless regional wars and instability.
 
If Russia can curb or defeat ISIS and other takfiri terrorists in Syria, Washington will suffer a major defeat, its entire regional imperial project disrupted.
 
It’s unclear what it plans next. Expect new efforts to counter Russia’s intervention, partnered with Israel and other rogue states.
 
Moscow wants terrorism defeated and a political solution in Syria. Washington wants endless regional wars and instability – ousting all independent governments, replacing them with pro-Western ones, no matter the cost in human lives and suffering. Which agenda do you support? Which one deserves universal praise?
 
Paul Craig Roberts’ new Clarity Press book, titled “The Neoconservative Threat to World Order” explains “the extreme dangers in Washington’s imposition of vassalage on other countries…” – neocons in Washington risking nuclear war to achieve their objectives.
 
His “book is a call to awareness that ignorance and propaganda are leading the world toward unspeakable disaster.” Top priority for free people everywhere is confronting America’s imperial agenda and defeating it once and for all.
 
Stephen Lendman lives in Chicago. He can be reached at lendmanstephen@sbcglobal.net. 
His new book as editor and contributor is titled “Flashpoint in Ukraine: US Drive for Hegemony Risks WW III.”
 
http://www.claritypress.com/LendmanIII.html
Visit his blog site at sjlendman.blogspot.com. 
Listen to cutting-edge discussions with distinguished guests on the Progressive Radio News Hour on the Progressive Radio Network.

 

It airs three times weekly: live on Sundays at 1PM Central time plus two prerecorded archived programs.

lundi, 05 octobre 2015

Putin Lives in the Real World, Obama Lives in a Fantasyland

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Putin Lives in the Real World, Obama Lives in a Fantasyland

by Steven MacMillan

Ex: http://journal-neo.org

Listening to the speeches of the Russian President, Vladimir Putin, and the President of the United States, Barack Obama, at the United Nations General Assembly in New York on Monday, one is instantly struck by the polarization of the leader’s interpretation of world events. It is obvious that one leader resides in real world, whilst the other appears to live in a deluded fantasy.

You can understand why US Secretary of State, John Kerry, starts yawning 2 minutes and 47 seconds into Obama’s speech, as the US President’s delivery was completely devoid of vigour, spirit or honesty. An empty suit hypnotically going through the motions and reciting the usual propagated slogans, the US President spends as much time pausing as he does reading off his trusted teleprompter. 

Unsurprisingly, Obama promulgated the usual slogans in relation to Ukraine and Syria. The US President referred to the Syrian president Bashar al-Assad as a tyrant “who drops barrel bombs to massacre innocent children”, then moved on to deceptively describe how the Syrian conflict started in addition to reiterating once again that Assad must go:

“Let’s remember how this started. Assad reacted to peaceful protests, by escalating repression and killing, and in turn created the environment for the current strife… Realism also requires a managed transition away from Assad and to a new leader.”

A declassified intelligence report from the Defense Intelligence Agency (DIA) in 2012, a year after the violence erupted, completely contradicts the notion that the protests were “peaceful”, as the report documents that “the Salafists, the Muslim Brotherhood and AQI [Al-Qaeda in Iraq], are the major forces driving the insurgency in Syria.”

In addition, an evil dictator slaughtering peaceful protestors is the exact same propaganda the West used in order to demonize Muammar al-Qaddafi in Libya, even though the Libyan leader just like the Syrian leader was reacting to violent protests. Associate Professor of Public Affairs at the University of Texas, Alan J. Kuperman, wrote a policy brief in 2013, titled: Lessons from Libya: How not to Intervenein which he dispels the false narrative that Qaddafi instigated the violence:

“Contrary to Western media reports, Qaddafi did not initiate Libya’s violence by targeting peaceful protesters. The United Nations and Amnesty International have documented that in all four Libyan cities initially consumed by civil conflict in mid-February 2011—Benghazi, Al Bayda, Tripoli, and Misurata—violence was actually initiated by the protesters. The government responded to the rebels militarily but never intentionally targeted civilians or resorted to “indiscriminate” force, as Western media claimed.” 

Obama on Ukraine

Obama’s comments on the crisis in Ukraine were factually inaccurate and frankly absurd, although it is the type of rhetoric incessantly spouted by Western officials. The US President said:

“Consider Russia’s annexation of Crimea and further aggression in Eastern Ukraine. America has few economic interests in Ukraine, we recognise the deep and complex history between Russia and Ukraine, but we cannot stand by when the sovereignty and territorial integrity of a nation is flagrantly violated. If that happens without consequence in Ukraine, it could happen to any nation here today.”

So the US apparently “cannot stand by when the sovereignty and territorial integrity of a nation is flagrantly violated”, at the same time the US is leading a coalition in Syria which violates international law and violates Syria’s “sovereignty and territorial integrity”.

Secondly, there was a referendum in Crimea and the majority voted to rejoin Russia, Moscow did not coercively and aggressively force the Crimean people into the decision.

Western Aggression 

Thirdly, it was the West that overthrew the Ukrainian government, not Russia, a reality that even Foreign Affairs admits in an article written by the Professor of Political Science at the University of Chicago, John J. Mearsheimer, titled:  Why the Ukraine crisis is the West’s fault:

“The United States and its European allies share most of the responsibility for the crisis. The taproot of the trouble is NATO enlargement, the central element of a larger strategy to move Ukraine out of Russia’s orbit and integrate it into the West. At the same time, the EU’s expansion eastward and the West’s backing of the pro-democracy movement in Ukraine — beginning with the Orange Revolution in 2004 — were critical elements, too.”

Mearsheimer continues:

“Although the full extent of U.S. involvement has not yet come to light, it is clear that Washington backed the coup…The United States and its allies should abandon their plan to Westernize Ukraine and instead aim to make it a neutral buffer….. It is time to put an end to Western support for another Orange Revolution…..The result is that the United States and its allies unknowingly provoked a major crisis over Ukraine.”

Fourthly, how can Obama say “America has few economic interests in Ukraine”, when Hunter Biden, the son of the US Vice President, Joe Biden, joined the Board of Directors of one of the largest gas company’s in Ukraine following the coup?

A rare truth in Obama’s speech was when he called on Muslims to continue to reject “those who distort Islam to preach intolerance and promote violence”, adding that people that are not Muslim should reject “the ignorance that equates Islam with terror.” I completely agree with this statement. What Obama omits however, is that the majority of the radical Islamic terror groups that distort Islam are created and supported by Western intelligence agencies and regional allies in the first place.

Another microcosm of truth in Obama’s speech was not anything Obama actually said, but the response by the Russian Foreign Minister, Sergey Lavrov, to the US President’s fallacious words. Even though the US has played a pivotal role in directly causing the Syrian crisis – by funding ISIS and al-Qaeda to overthrow the Syrian government – in addition to being hostile to any serious dialogue with Russia and Iran, it still didn’t stop Obama falsely claiming “the United States is prepared to work with any nation, including Russia and Iran, to resolve the [Syrian] conflict.” Lavrov’s response to the comment was a frustrated shake of the head, and a look of disbelief that someone can lie so blatantly to the world (I suggest you watch that part, it’s quite amusing – from 26.15 into the speech).

Hopefully however, the US will eventually come to their senses and engage seriously with key players around the world to end conflicts they played a major role in creating – I wouldn’t hold your breath though.

Putin: The Voice of Reason 

Putin’s speech was the antithesis of Obama’s – insightful, honest, constructive and statesman-like. The Russian President’s analysis of the major geopolitical issues of our time was outstanding, with many practical, viable solutions to these issues provided. I highly recommend readers listen to the full speech as it is filled with critical and pertinent information, and I can’t include it all in this article. (Please not the quotes from Putin below are based on the Russian to English translation of his speech featured in this RT article)

Putin stressed that some nations “after the end of the cold war” considered themselves “so strong and exceptional” that they thought “they knew better than others”. The Russian President asserted that it is “extremely dangerous” for states to attempt to “undermine the legitimacy of the United Nations”:

“Russia stands ready to work together with its partners on the basis of broad consensus, but we consider the attempts to undermine the legitimacy of the United Nations as extremely dangerous. They could lead to the collapse of the architecture of international relations, and then there would be no other rules left but the rule of force. We would get a world dominated by selfishness, rather than collective work. A world increasingly characterized by dictates, rather than equality. There would be less genuine democracy and freedom, and there would be a world where true independent states would be replaced by an ever growing number of de facto protectorates and externally controlled territories.”

Speaking about the turmoil in the Middle East, the Russian leader correctly denounces “aggressive foreign interference” as a destructive force which has only brought chaos, not democracy:

“But how did it actually turn out? Rather than bringing about reforms, aggressive foreign interference has resulted in the destruction of national institutions and the lifestyle itself. Instead of the triumph of democracy and progress, we got violence, poverty and social disaster, and nobody cares a bit about human rights – including, the right to life. I cannot help asking those who have caused this situation: do you realize now what you have done?  But I am afraid that no one is going to answer that. Indeed, policies based on self-conceit and belief in ones exceptionality and impunity, have never been abandoned.” 

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NATO’s “Gross Violation” of UNSC Resolution 1973 

Putin specifically pinpoints Libya as a major recruiting ground for the so-called Islamic State (ISIS) – after NATO destroyed the North African nation in 2011, adding that Western supported rebels in Syria often defect to ISIS:

“Many recruits also come from Libya, a country whose statehood was destroyed as a result of a gross violation of the UN Security Council Resolution 1973. And now the ranks of radicals are being joined by the members of the so-called moderate Syrian opposition, [which is] supported by the Western countries. First they are armed and trained, and then they defect to the so-called Islamic State.”

Reports of US trained “moderate” fighters defecting to ISIS are ubiquitous. One example was when approximately 3,000 rebels from the Free Syrian Army defected to ISIS earlier this year. Interestingly, Putin also points out that ISIS did not just magically appear out of thin air, but the group was “forged as a tool against undesirable regimes”: 

“Besides, the Islamic State itself did not just come from nowhere; it was also initially forged as a tool against undesirable secular regimes.”  

This thesis is further confirmed by the 2012 declassified report from the DIA, which reveals that the powers supporting the Syrian opposition – “Western countries, the Gulf states and Turkey” – wanted to create a “Salafist principality in Eastern Syria in order to isolate the Syrian regime”:

“Opposition forces are trying to control the Eastern areas (Hasaka and Der Zor), adjacent to the Western Iraqi provinces (Mosul and Anbar), in addition to neighbouring Turkish borders. Western countries, the Gulf states and Turkey are supporting these efforts… If the situation unravels there is the possibility of establishing a declared or undeclared Salafist principality in Eastern Syria (Hasaka and Der Zor), and this is exactly what the supporting powers to the opposition want, in order to isolate the Syrian regime, which is considered the strategic depth of the Shia expansion (Iraq and Iran).” (p.5)

The former head of the DIA, Michael T. Flynn, also recently admitted that the Obama administration took the “willful decision” to support the rise of ISIS.

Don’t Play with Fire

Putin then goes on to issue a stark warning to the nefarious forces who have been using radical groups as geopolitical tools:

“It is hypocritical and irresponsible to make loud declarations about the threat of international terrorism, while turning a blind-eye to the channels of financing… It would be equally irresponsible to try to manipulate extremist groups and place them at one’s service in order to achieve one’s own political goals, in the hope of later dealing with them. To those who do so, I would like to say: Dear sirs, no doubt you are dealing with rough and cruel people, but they are [not] primitive or silly, they are just as clever as you are, and you never know who is manipulating whom… We believe that any attempts to play games with terrorists, let alone to arm them, are not just short-sighted but fire hazardous.” 

ISIS “desecrates one of the greatest world religions by its bloody crimes”, Russia’s leader said, adding: “The ideology of militants makes a mockery of Islam and perverts it true humanistic values.”

Defeating ISIS

As ISIS continues to expand its influence, it is increasingly becoming a national security threat for numerous countries outside of the Middle East, and “Russia is not an exception”.  Putin stated that “we cannot allow these criminals who have already tasted blood to return back home and continue their evil doings… Russia has always been consistently fighting against terrorism in all its forms. Today, we provide military and technical assistance both to Iraq and Syria and many other countries of the region who are fighting terrorist groups. We think it is an enormous mistake to refuse to cooperate with the Syrian government and its armed forces, who are valiantly fighting terrorism face to face. We should finally acknowledge that no one but President Assad’s armed forces and Kurdish militia are truly fighting Islamic State and other terrorist organizations in Syria

The Russia President stated the solution to the scourge of ISIS is to “create a genuinely broad international coalition against terrorism” in accordance with “international law”, which “similar to the anti-Hitler coalition, could unite a broad range of forces”.

“The desire to explore new geopolitical areas is still present among some of our colleagues,” Putin said. “First they continued their policy of expanding NATO,” he said, following the collapse of the Soviet Union, “they offered post-Soviet countries a false choice – either to be with the West or with the East. Sooner or later this logic of confrontation was bound to spark off a grave geopolitical crisis. This is exactly what happened in Ukraine where the discontent of the population with the current authorities was used and a military coup was orchestrated from outside that triggered civil war as a result.”

Russia’s leader maintained that the solution to the Ukrainian crisis is “through the full and faithful implementation of the Minsk accords”:

“We are confident that only through full and faithful implementation of the Minsk agreements of February 12th2015, can we put an end to the bloodshed and find a way out of the deadlock. Ukraine’s territorial integrity cannot be ensured by threats and the force of arms. What is needed is a genuine consideration of the interests and rights of people in the Donbass region, and respect for their choice.” 

What is blatantly clear from listening to both leaders’ speeches is that the moral leader of the world resides in Russia.

Steven MacMillan is an independent writer, researcher, geopolitical analyst and editor of  The Analyst Report, especially for the online magazine “New Eastern Outlook”.

dimanche, 04 octobre 2015

Kluger Ratschlag aus Princeton: Europa muss sich von den USA emanzipieren

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Kluger Ratschlag aus Princeton: Europa muss sich von den USA emanzipieren

Ex:  

Stephen F. Cohen von der Princeton-Universität rät Europa, eine neue Orientierung der Außenpolitik vorzunehmen: Diese müsse sich aus der Abhängigkeit der US-Politik lösen, ohne deswegen antiamerikanisch zu werden. Es wäre positiv für den Weltfrieden, wenn eine Allianz zwischen Deutschland, Russland und China entstünde.

Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Herr Cohen, Sie sind Professor Emeritus für Russland-Studien und Politik an der Princeton Universität, politischer Berater der US-Regierung und Mitglied im Council on Foreign Relations (CFR). Wie kommt es, dass Sie dennoch von den US-Medien gemieden werden, wenn es um eine Einschätzung zu Russland geht?

Stephen Cohen: Ich wurde in den 1980ern zweimal von Präsident George H.W. Bush nach Washington und Camp David eingeladen, um über Russlands Politik zu sprechen. Und das Council on Foreign Relations? Bei Ihnen klingt das so, als ob ich der amerikanischen Elite nahe stehe, aber das ist nicht wahr. Es ist nur der innere Kreis des CFR, der einflussreich ist und die amerikanische Elite vertritt. Ich bin seit Jahrzehnten einfaches Mitglied. Einst interessierte man sich dort für eine ausgewogene Sicht auf Russland, doch nun nicht mehr. Diese Organisation ist inzwischen so uninteressiert an Russlands Politik, dass ich nicht länger hingehe. Es gab eine Zeit in den 70ern, 80ern und teilweise in den 90ern, als ich einfachen Zugang zu den Massenmedien hatte. Das hörte Ende der 90er Jahre langsam auf. Und seit Putin an der Macht ist, wurde ich fast gar nicht mehr eingeladen. Das trifft nicht nur auf mich zu, sondern auch auf andere Amerikaner, die gegen die derzeitige US-Außenpolitik sind. Wir wurden aus den Massenmedien verbannt.

Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Welche politischen Fehler hat der Westen aus ihrer Sicht nach dem Zusammenbruch der Sowjetunion begangen?

Stephen Cohen: Ich denke, dass das heutige Desaster in der Ukraine und der Rückfall in einen neuen Kalten Krieg seinen Ursprung in den 90er Jahren in Washington hat. Was waren damals die größten Fehler? Einer war die Sieger-Mentalität bei beiden Parteien im US-Kongress. Es war die gefährliche Sichtweise, dass das post-sowjetische Russland eine Bittsteller-Nation für die Vereinigten Staaten sein würde. Die Idee war, dass Russland die Reformen durchführen würde, die die USA verlangten. Das ganze sollte durch den IWF, die Weltbank und unseren Verbündeten Boris Jelzin bewältigt werden. Der zweite große Fehler war die Entscheidung, die NATO östlich in Richtung Russlands Grenzen zu erweitern. Die Leute, die diese Politik bis heute verfolgen, sagen, sie sei rechtschaffen und könnten nicht nachvollziehen, wieso Russland dagegen sein könnte. Das war absolut dumm. Stellen Sie sich zum Vergleich ein russisches Militärbündnis vor, dass an den US-Grenzen in Mexiko oder Kanada auftaucht. Wenn der US-Präsident dann nicht den Krieg erklären würde, würde er auf der Stelle seines Amtes enthoben.

Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Dabei sah es um die Jahrtausendwende zunächst nach einer Entspannung zwischen Russland und den USA aus…

Stephen Cohen: Ja, nach den Anschlägen auf das World Trade Center tat Wladimir Putin viel, um die USA im Kampf gegen die Taliban zu unterstützen. Im Gegenzug tat George Bush jedoch etwas, was in Russland als gebrochenes Versprechen und sogar Verrat verstanden wurde. Die USA kündigten einseitig den ABM-Vertrag auf [Anti-Ballistic-Missile Treaty zur Begrenzung von Raketenabwehr-Systemen; Anm. d. Red.]. Der ABM-Vertrag war das Fundament der internationalen Nuklearsicherheit und ein Schlüsselbestandteil für Russlands Sicherheitspolitik. Und darüber hinaus setzte die Bush-Regierung die NATO-Osterweiterung in den baltischen Staaten fort. Bush versuchte sogar Georgien und die Ukraine in die NATO zu holen, was letztlich aber von Frankreich und Deutschland durch ein Veto unterbunden wurde. Die USA haben die rote Linie Russlands in Georgien 2008 überschritten und es folgte ein Stellvertreter-Krieg. Und 2013 haben sie die rote Linie in der Ukraine erneut überschritten und nun haben wir meiner Meinung nach die schlimmste internationale Krise seit der Kubakrise.

Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Der Auslöser für die Ukraine-Krise war das EU-Assoziierungsabkommen, dass die Ukraine enger an den Westen binden sollte. Warum war dieses Abkommen so explosiv?

Stephen Cohen: In dem Abkommen waren sowohl Regelungen zu Handelsbeziehungen, als auch Reise- und Visa-Bestimmungen enthalten. Das alles hörte sich zunächst gutmütig und großzügig an. Aber die Realität war, dass sich darin auch ein Paragraph zu militärischen und sicherheitsrelevanten Themen befand, was natürlich mit der NATO zu tun hatte. Die Ukraine wäre zwar nicht zum NATO-Mitglied gemacht worden, aber sie hätte sich der Sicherheitspolitik der EU und damit auch der NATO beugen müssen. Das machte sie de facto zu Verbündeten der NATO gegen Russland. Es war eine klare militärische Provokation gegenüber Russland. Das war hoch explosiv und wurde in den westlichen Medien nie ausreichend gewürdigt.

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Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Wurde Russland nicht ausreichend in die Verhandlungen zum EU-Abkommen eingebunden?

Stephen Cohen: Als das Thema des EU-Assoziierungsabkommens Mitte 2012 aufkam, war die offizielle Kreml-Position, dass dies gut für alle Beteiligten sein könnte. Putin arbeitete zu dieser Zeit an einer eurasischen Wirtschaftsunion. Deshalb sagte er, dass dies ein dreiseitiges Abkommen sein sollte, zwischen der Ukraine und der EU einerseits und zwischen Russland und der EU andererseits. Die Ukraine und Russland waren geschichtlich gesehen immer enge Handelspartner. Also sagte Putin: Je mehr Handel, desto mehr Produktion und Austausch, desto besser. Er schlug die Einbeziehung Russlands in das Abkommen vor. Doch die EU lehnte diesen Vorschlag ab und stellte die Ukraine vor die Wahl: Entweder die EU oder Russland. Sie drängten damit ein Land, dass kulturell, politisch und wirtschaftlich enge Verbindungen zu Russland hat, sich wirtschaftlich nur mit der EU zu verbünden und Russland auszuschließen. Das wäre ein Desaster für die Ukraine gewesen.

Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Warum hat die EU ein Abkommen mit Russland boykottiert?

Stephen Cohen: Ich denke, es war eine Mischung aus Dummheit und böswilliger Absicht, die dahinter steckte. Aber als Janukowitsch dahinter kam, was dies für die Ukraine bedeuten würde, nämlich den Verlust von Milliarden Dollar an Handelsbeziehungen mit Russland und nur einige Millionen Dollar im Gegenzug durch die EU, da zögerte er mit seiner Unterschrift und erbat sich mehr Zeit. Kein ukrainischer Politiker, der noch ganz bei Verstand ist, hätte das Abkommen in dieser Form unterzeichnen können. Doch die EU wollte das Abkommen schnell zum Abschluss bringen und setzte Janukowitsch ein Ultimatum – eine Tatsache, die Putin der EU später zum Vorwurf machte.

Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Der CEO des privaten Nachrichtendienstes Stratfor, George Friedman, sagte kürzlich, dass die Verhinderung einer deutsch-russischen Allianz das oberste Ziel der US-Außenpolitik sei. Inwiefern hat dies die US-Politik in der Ukraine-Krise beeinflusst?

Stephen Cohen: Offiziell haben die USA in der Ukraine keine Rolle gespielt, aber hinter den Kulissen haben die USA die Lage von Anfang an kontrolliert. Die NATO und der IWF waren involviert und beide werden durch Washington kontrolliert. Ein dreiseitiges Abkommen zwischen Russland, der EU und der Ukraine wäre nicht im Sinne der US-Außenpolitik gewesen, denn die USA hätten von diesem Abkommen nicht profitiert. Ob dies, wie George behauptet, Teil eines größeren Plans ist, kann ich nicht beurteilen. Das Problem mit Georges Argument ist, dass er sehr stark durch Leute aus der CIA beeinflusst wird und dass er ein hohes Maß an Intelligenz und strategischem Denken bei westlichen Politikern voraussetzt. Ich bezweifle aber, dass die meisten US-Abgeordneten wüssten wovon wir reden, wenn wir sie morgen fragen, ob es das Hauptziel der US-Außenpolitik ist, eine Allianz zwischen Russland und Kern-Europa zu verhindern. Wir müssten die Analyse von George also auf eine kleine Gruppe hochrangiger, historisch bewanderter und gut ausgebildeter Entscheider in Washington begrenzen. Und da, denke ich, hat er recht mit seiner Aussage.

Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Gibt es historische Belege für seine Aussage?

Stephen Cohen: Georges Argument ist als historische Abstraktion von entscheidender Bedeutung. Ich bin der Ansicht, dass Russlands Beziehung zu den USA eine fundamental andere ist, als noch zu Zeiten des Kalten Krieges. Alles, was Russland heute von den USA benötigt, betrifft Fragen der nuklearen Sicherheit, also die Regulierung nuklearer Waffen. Alles andere, was Russland braucht, kann es von Berlin und Peking bekommen. Je nach dem wie die Ukraine-Krise verläuft – und zurzeit bin ich da sehr pessimistisch – könnten wir wieder an einen Punkt gelangen, wo Russland sich verstärkt auf seine Beziehungen zu Deutschland und China konzentriert. Ich denke, dass wäre eine gute Sache für die Sicherheit in der Welt. Es ist Zeit für Europa, dass es endlich eine Außenpolitik entwickelt, die unabhängig von den USA, aber nicht gegen sie ist. Und es könnte diese Krise sein, die Europa von den USA trennt.

Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Sie sind der Ansicht, dass Russland in der Ukraine-Krise nur reagiert habe. War Putins Entscheidung gerechtfertigt, die Krim an Russland anzugliedern?

Stephen Cohen: Es war eine Reaktion auf die Ereignisse vom Februar 2014 in Kiew. George Friedman bezeichnete sie als „Coup“ und genau so sahen es auch die Russen. Die gesamte politische Elite Russlands sah das als eine potentielle Bedrohung für die Krim und die russische Marinebasis dort. Außerdem sahen sie in der Rhetorik der neuen Machthaber eine Bedrohung für ethnische Russen auf der Krim. So musste Putin entscheiden, was zu tun ist. Er sagte später, dass es bis zu diesem Moment nie eine Diskussion über eine Angliederung der Krim gegeben habe und für gewöhnlich lügt er nicht in der Öffentlichkeit. Diese Entscheidung wurde Putin aufgebürdet und sie ist ein klassisches Beispiel dafür, dass er in dieser Krise nicht der Aggressor war, sondern der Reagierende.

Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Putin wurde von den westlichen Medien als der Hauptschuldige der Krise ausgemacht. Wie sehen Sie die Sicht des Westens auf Putin?

Stephen Cohen: Als klar wurde, dass Putin seine eigenen Ideen hatte – und das wurde in Washington spätestens mit dem Chodorkowski-Fall klar – entfaltete sich die Dämonisierung Putins in den US-Medien. Die Leute, die den Anti-Putin-Kult geschaffen haben, sahen ihr Vorhaben in Russland durch seinen Aufstieg gefährdet. Sie verstanden dabei jedoch nicht, was Putins eigentliches Mandat war, und das war dasjenige, Russland vor dem Untergang zu bewahren.

Russland stand politisch, wirtschaftlich und geografisch vor dem Kollaps. Und Putin sah sich auf einer historischen Mission, die Souveränität Russlands wiederherzustellen. Im Jahr 2007 hielt er eine vielbeachtete Rede auf der Münchner Sicherheitskonferenz. Dort sagte er vor der gesamten westlichen Politik-Elite: „Die Beziehungen zwischen Russland und dem Westen glichen seit dem Zusammenbruch der Sowjetunion einer Einbahnstraße. Wir machten Zugeständnisse, und der Westen ignorierte unsere Position. Doch nun ist die Ära von Russlands einseitigen Zugeständnissen vorbei.“ Danach wurde Putin mit haltlosen Beschuldigungen überzogen und für alle möglichen Verbrechen verantwortlich gemacht – vom Attentat auf die Journalistin Anna Politkowskaja bis zur Ermordung des Ex-FSB-Agenten Andrey Litwinenko. Die offizielle Version wurde schnell die, dass alles, was zwischen den USA und Russland schief läuft, Putins Schuld sei. In der Ukraine-Krise ging es nicht mehr um Russland, sondern nur noch um Putin. Es war die Rede von „Putins Invasion“ und „Putins Aggression“ – eine wahre „Putinphobie“ brach los (wie extrem dies sein kann, zeigt das martialische Statement der republikanischen Präsidentschaftskandidatin Carly Fiorino, Video am Anfang des Artikels; die Redaktion).

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Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Wer steckt hinter dieser Entwicklung?

Stephen Cohen: Diese Kampagne wird von Organisationen befeuert, die an einem Kalten Krieg mit Russland interessiert sind. Diese Anti-Putin-Lobby verfügt über Millionen von Dollars, um die Presse mit Angriffen auf Putin zu füttern. Hillary Clinton verglich ihn mit Adolf Hitler und sagte, er habe keine Seele. Obama nannte ihn einen rüpelhaften Schuljungen, der andere in die Ecke treibt und sich ständig streiten will. Zu meinen Lebzeiten wurde nie ein russischer Politiker derart verunglimpft wie Putin, nicht einmal auf dem Höhepunkt des Kalten Krieges. Jeder rationale Diskurs wird dadurch im Keim erstickt, was eine gefährliche Entwicklung darstellt. Sogar Henry Kissinger schrieb in der Washington Post, dass die „Dämonisierung Putins keine Strategie ist, sondern ein Alibi für die Abwesenheit einer Strategie“ (Kissingers neue Sichtweise – hier). Ich denke, es ist sogar noch schlimmer, als keine Strategie zu haben. Die Dämonisierung Putins ist zum Selbstzweck geworden. Und ich denke, Kissinger weiß das, nur konnte er es nicht sagen, da er weiterhin das Weiße Haus politisch beraten möchte.

***

Stephen F. Cohen war Professor für Russistik an der Princeton University und der New York University. Er schreibt regelmäßig für das US-Magazin The Nation und ist Autor zahlreicher Bücher über Russland, darunter Failed Crusade: America and the Tragedy of Post-Communist Russia. Darüber hinaus hat er das American Committee for East-West Accord mitbegründet. Diese Organisation zählt ehemalige US-Senatoren, Botschafter und politische Berater zu ihren Mitgliedern, die sich für einen friedlichen Austausch mit Russland einsetzen. Sie fordern, dass die seit 2014 gestoppte Zusammenarbeit beider Staaten im NATO-Russland-Rat wiederaufgenommen wird und ihre Anstregnungen zur nuklearen Abrüstung fortgesetzt werden.

Ook China gaat islamitische terreurgroepen bombarderen in Syrië

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Ook China gaat islamitische terreurgroepen bombarderen in Syrië

Eerst Chinese militaire actie ooit in het Midden Oosten

VS en EU dreigen met aanhoudende steun voor islam aan verkeerde kant van de geschiedenis te komen staan

 
China heeft Rusland vandaag laten weten dat het binnenkort J-15 gevechtsbommenwerpers naar Syrië stuurt om islamitische terreurgroepen te bombarderen. Bovendien heeft Irak de Russen een luchtmachtbasis aangeboden om te gebruiken voor aanvallen op ISIS. Overigens is ISIS zeker niet het enige doelwit van de Russische-Chinese-Iraanse-Iraakse-Syrische coalitie. Ook de door het Westen gesteunde moslimrebellen van onder andere Al-Nusra/Al-Qaeda zijn het doelwit (2). Daarmee komen de VS en de EU met hun aanhoudende steun voor de islam steeds duidelijker aan de verkeerde kant van de geschiedenis te staan.

De J-15 bommenwerpers zullen opereren vanaf het vorige week zaterdag in Syrië aangekomen Chinese vliegdekschip Liaoning. De Chinese bombardementen zullen Beijings eerste militaire gevechtshandelingen ooit in het Midden Oosten zijn.

Gisterenavond verklaarde de Chinese minister van Buitenlandse Zaken Wang Yi in de VN Veiligheidsraad dat ‘de wereld niet met de armen over elkaar aan de zijlijn kan blijven staan, maar ook niet willekeurig tussenbeide moeten komen (in de Syrische crisis).’ Dat was impliciete kritiek op met name de Verenigde Staten, dat samen met Europa, Turkije en de Arabische Golfstaten de bloederige burgeroorlog in Syrië heeft veroorzaakt.

Russische troepen en vliegtuigen naar Irak

Tegelijkertijd zei de Iraakse premier Haider al-Abada tegenover een Amerikaanse nieuwszender dat hij Russische troepen in zijn land zal verwelkomen om ook in zijn land tegen ISIS te vechten. Daarmee wil hij het Kremlin de kans geven om de 2500 Tsjetsjeense moslimstrijders die aan de kant van ISIS vechten uit te schakelen.

Vorige week berichtten we dat Rusland, Iran, Syrië en Irak een gezamenlijk coördinatiepunt, een ‘war room’, in Baghdad hebben opgezet om hun militaire operaties in Syrië en Irak te coördineren en voor een veilige doorgang van de vele Russische en Iraanse luchttransporten naar Syrië te zorgen.

Irak en Rusland zijn het tevens eens geworden over het gebruik van de Al-Tawaddum luchtmachtbasis in Habbaniyah, 74 kilometer ten westen van de Iraakse hoofdstad. Deze basis zal gebruikt worden als vertrekpunt voor Russische bommenwerpers en om de luchtcorridor boven Irak te beveiligen. Bijzonder: dezelfde luchtmachtbasis wordt al jaren gebruikt door Amerika, dat nog zo’n 5000 troepen actief heeft in Irak. (1)

ISIS gecreëerd door VS, Turkije en Saudi Arabië

De snelle Russische en Chinese militaire opbouw in het Midden Oosten zou Westerse burgers, die voor het overgrote deel helaas nog steeds naïef de politici en massamedia geloven, moeten laten nadenken waarom het Amerika, Europa en de NAVO na jaren nog steeds niet gelukt is om de islamitische terreurgroepen zoals ISIS zelfs maar een forse nederlaag toe te brengen, laat staan te verslaan.

Zoals we al geruime tijd berichten komt dit omdat president Obama dit nooit van plan is geweest, en de spaarzame acties tegen ISIS enkel voor het publiek zijn bedoeld. ISIS werd door de CIA en de Turkse inlichtingendienst opgezet en door Saudi Arabië en enkele andere Golfstaten gefinancierd om de Syrische president Assad ten val te brengen en tegelijkertijd zoveel mogelijk chaos te creëren, om zo ruimte te scheppen voor de komst van het echte Islamitische Kalifaat.

Massale migrantenstroom bedoeld om Europa te islamiseren

En passant bereikten Washington en Brussel nog iets anders, namelijk een massale ongecontroleerde stroom moslim migranten naar Europa, waarmee de EU hoopt definitief alle tegenstribbelende en zich tegen een Europese superstaat verzettende autochtone volken te overspoelen en hun grenzen, identiteit, culturen, welvaart en vrijheid te verpletteren onder de ijzeren vuist van de gelegenheidscoalitie tussen ‘links’ en de islam.

VS en EU met aanhoudende steun voor islam aan verkeerde kant geschiedenis

Nu Rusland en China wél serieus werk maken van de aanpak van moslim terreurgroepen, en de Amerikaanse-Europese-Turkse-Arabische langetermijnplannen voor het Midden Oosten –een pan-Arabisch Soenitisch-Islamitisch Kalifaat dat ook een groot deel van het dan geïslamiseerde Europa omvat- dreigen de VS en de EU in toenemende mate aan de verkeerde kant van de geschiedenis te komen staan. Het is alleen nog de vraag of de doorsnee Europeaan daar nog tijdig achter komt voordat de Westerse globalisten opnieuw een verwoestende wereldoorlog op zijn continent ontketenen.

Xander

(1) DEBKA
(2) DEBKA


Zie ook o.a.:

01-10: Putin belooft in VN-toespraak keiharde actie tegen ISIS en voegt daad bij het woord
30-09: Rusland beveelt Amerikaanse luchtmacht Syrië te verlaten, VS weigert
26-09: Chinees vliegdekschip aangekomen in Syrië, jachtvliegtuigen volgen
24-09: Russische mariniers vallen samen met Hezbollah ISIS bij Aleppo aan
12-09: Syrië: Duitsland stapt uit Amerikaanse alliantie en wil samenwerken met Putin
11-09: Eerste 1000 Iraanse mariniers landen in Syrië en sluiten zich aan bij Russen

Europe in Free Fall

 

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Europe in Free Fall

By The Saker

Ex: "Information Clearing House" - "UNZ
 
Europe is in free fall. Nobody can doubt that any more. In fact, the EU is simultaneously suffering from several severe problems and any one of these could potentially become catastrophic. Let’s look at them one by one.

The 28 member EU makes no economic sense

The most obvious problem for the EU is that it makes absolutely no economic sense. Initially, in the early 1950s, there was a small group of not too dissimilar nations which decided to integrate their economies. These were the so-called Inner Six who founded the European Community (EC): Belgium, France, West Germany, Italy, Luxembourg, and the Netherlands. In 1960 this “core group” was joined by seven more countries, the Outer Seven, who were unwilling to join the EC but wanted to join a European Free Trade Association (EFTA). These were Austria, Denmark, Norway, Portugal, Sweden, Switzerland, and the United Kingdom. Together these countries formed what could loosely be called “most of western Europe”.

For all their faults, these treaties did reflect a reality – that the countries participating in them had much in common and that their peoples wanted to join forces. After 1960, the history of the European integration and expansion became very complicated and while it progressed in zig-zags with regular setbacks, at the end of the day this process ended growing uncontrollably, just like a malignant tumor. Today the EU includes 28(!) member states including all of what used to be called “central” and “eastern” Europe – even the ex-Soviet Baltic Republics are now part of this new union. The problem is that while such an expansion was attractive to the European elites for ideological reasons, such huge expansion makes no economic sense at all. What do Sweden, Germany, Latvia, Greece, and Bulgaria have in common? Very little, of course.

Now cracks are clearly appearing. The Greek crisis and the threat of a “Grexit” has the potential for a domino effect involving the rest of the so-called “PIGS” (Portugal, Italy, Greece and Spain). Even France is threatened by the consequences of this crisis. The European currency – the Euro – is “a currency without a mission”: is it supposed to support the German economy or the Greek one? Nobody knows, at least officially. In reality, of course, everybody understands that Frau Merkel is running the show. Quickfix solutions, which is what the Eurobureaucrats are offering, only buy time, but they are offering no solution to what is clearly a systemic problem: the completely artificial nature of a 28 member EU.

As for the the obvious solution, to give up on the crazy dream of a 28 member EU, it is so absolutely politically unacceptable that it won’t even be discussed although everyone fears it.

The EU is on the verge of a social and cultural collapse

The undeniable reality is simple as it is stark:

  • The EU cannot absorb so many refugees
  • The EU does not have the means to stop them

A massive influx of refugees presents a very complex security problem which EU countries are not equipped to deal with. All EU countries have three basic instruments they can use to protect themselves from unrest, disorders, crime or invasions: the special/security services, the police forces and the military. The problem is that neither of these are capable of dealing with a refugee crises.

The special/security services are hopelessly outnumbered when dealing with a refugee crisis. Besides, their normal target (career criminal, spies, terrorists) are few and far in between in a typical wave of refugees. Refugees are mostly families, often extended ones, and while they sometimes include criminal gangs, this is far from always the case. The problem is that if, say, 10% of Kosovars are drug dealers, that gives a bad name to all the refugees from Kosovo and the refugees themselves ended up being treated like criminals. Finally, special/security services rely very heavily on informants and foreign gangs are hard to infiltrate. They often also speak difficult languages which only few local language specialists master. As a result, most of the time the EU security services are clueless as to how to deal with the security problem presented to them, if only because they lack the personnel and means to keep track of so many people.

In contrast, cops have an advantage of sorts: they are literally everywhere and they typically have a good sense of the “beat on the street”. However, their powers are severely limited and they need to get a court order to do most of their work. Cops also mostly deal with local criminals, whereas most refugees are neither local, nor criminals. The sad reality is that most of what cops do in a refugee crisis is provide riot police – hardly a solution to anything.

As for the armed forces, the very best they can do is to try to help close a border. In some cases, they can assist the police forces in case of civil disturbances, but that’s about it.

Thus the various states of the EU neither have the means to lock their borders, deport most refugees, nor control them. Sure, there will always be politicians who will make promises about how they are going to send all these refugees back home, but that is a crude and blatant lie. The vast majority of these refugees are fleeing war, famine and abject poverty and there is no way anybody is going to send them back home.

Keeping them, however, is also impossible, at least in a cultural sense. For all the doubleplusgoodthinking propaganda about integrating all races, creeds and cultures the reality is that there is absolutely nothing the EU has to offer to these refugees to make them want to integrate it. For all its sins and problems, at least the US is offering an “American dream” which, false as it might be, still inspires people worldwide, especially the unsophisticated and poorly educated. Not only that, but American society has little culture to begin with. Ask yourself, what is “American culture?” If anything, it is really a “melting pot” rather than a “tossed salad” – meaning that whatever enters the melting pot loses its original identity while the overall mixture of the pot fails to produce a true indigenous culture, at least not in a European sense of the word.

Europe is or, should I say, used to be radically different from the USA. There used to be real, deep, cultural differences between the various regions and provinces of each European country. A Basque is most definitely not an Catalan, a Marseillais is not a Breton, etc. As for the differences between an German and a Greek – they are simply huge. The result from the current refugee crisis is that all European cultures are now directly threatened in their identity and their life style. This is often blamed on Islam, but the reality is that African Christians don’t integrate any better. Neither do the Christian Gypsies, by the way. As a result, clashes happen literally everywhere – in shops, streets, schools, etc. There is not a single country in Europe where these clashes are not threatening the social order. These daily clashes result in crime, repression, violence and the ghettoization of both the immigrants and of the locals, who leave their traditional suburbs and move to less immigrant-saturated areas.

[Aside: to my American readers who might think “so what? we have ghettos in the US too” I will say that what the French call “zones de non-droit” (non-law zones) are far worse than anything you could see in the USA. And keep in mind that no country in the EU has the kind of huge, militarized, police forces which every major US city now has. Neither is there the equivalent of the US National Guard. At best, there are anti-riot forces like the French CRS, but they can only do so much.]

The level of aggravation suffered by many, if not most, Europeans directly resulting from this crisis in immigration is hard to describe to somebody who has not seen it. And since voicing such frustrations was considered “racist” or “xenophobic” by the powers that be (at least until recently – this is progressively changing now), this deep resentment is mostly kept hidden, but it is perceptible nonetheless. And the immigrants most definitely feel it. Every day. And, again, this is why the notion of a US-style “melting pot” in Europe ain’t happening: the only thing Europe has to offer to all these hundreds of thousands of refugees is a silent hostility fed by fear, outrage, disgust and helplessness. Even those locals who used to be refugees themselves in the past (immigrants from North Africa, for example) are now disgusted and very hostile to the new wave of refugees coming in. And, of course, not a single refugee coming to Europe believes in any “European dream”.

Last but not least, these refugees are a huge burden on the local economies and the social services which were never designed to cope with such an influx of needy “clients”.

For the foreseeable future the prognosis is clear: more of the same, only worse, possibly much worse.

The EU is just a colony of the United States unable to defend her own interests

The EU is ruled by a class of people who have completely sold themselves to the United States. The best examples of this sorry state of affairs is the Libyan debacle which saw the US and France completely destroy the most developed country in Africa only to now have hundreds of thousands of refugees cross the Mediterranean and seek refuge from war in the EU. This outcome could have been very easy to predict, and yet the European countries did nothing to prevent it. In fact, all these Obama Wars (Libya, Syria, Afghanistan, Iraq, Yemen, Somalia, Pakistan) have resulted in huge movements of refugees. Add to this the chaos in Egypt, Mali and the poverty all over Africa and you have a mass-exodus which no amount of wall-building, ditch-digging or refugee tear gassing will stop. And if that was not enough, the EU committed what can only be called political and economic suicide by allowing the Ukraine to explode into a major civil war involving 45 million people, a completely destroyed economy and a bona fide Nazi regime in power. That outcome was also easy to predict. But all the Euro-bureaucrats did is to impose self-defeating economic sanctions on Russia which ended up providing exactly the kind of conditions needed for the Russian economy to finally diversify and begin producing locally instead of importing everything from abroad.

It might be worth recalling here that after WWII Europe was basically occupied territory. The Soviets had the central-eastern part while the US/UK had the western part. We all have been conditioned to assume that the people living under the “oppression” of what the US propaganda called the “Warsaw Pact” (in reality called the “Warsaw Treaty Organization”) were less free than those who lived under the “protection” of the North Atlantic Treaty Organization. Nevermind that the term “North Atlantic” was coined deliberately to tie western Europe to the USA, the central issue here is that while in many ways the folks in the West were, indeed, granted many more freedoms than those in the East, the US/UK occupied part of Europe never recovered true sovereignty either. And just as the Soviets carefully nurtured a local comprador elite in each East European country, so did the USA in the West. The big difference only appeared in the late 1980s/early 1990s when the entire Soviet-run system came crashing down while the US-run system came out reinforced as a result of the Soviet collapse. If anything, since 1991 the US iron grip over the EU became even stronger than before.

The sad reality is simple: the EU is a US colony, run by US puppets who are simply unable to stand up for basic and obvious European interests.

The EU is in a deep political crisis

Up until the late 1980s, there used to be some more or less “real” opposition “Left” parties in Europe. In fact, Italy and France the Communists almost came to power. But as soon as the Soviet system collapsed, all the European opposition parties either vanished or were rapidly co-opted by the system. And, just as in the US, former Trotskysts became Neocons almost overnight. As a result, Europe lost the little opposition it had to the Anglo-Zionist Empire and became a “politically pacified” land. What the French call “la pensée unique” or the “single thought” has now triumphed, at least if one judges by the corporate media. Politics has turned into a make believe show where various actors pretend to deal with real issues when in reality all they talk about are invented, artificially created “problems” which they then “solve” (homosexual “marriage” being the perfect example). The only form of meaningful politics left in the EU is separatism (Scottish, Basque, Catalan, etc.) but so far, it has failed to produce any alternative.

In this brave new world of pretend politics nobody is in charge of real problems which are never tackled directly, but only shoved under the carpet until the next election and that inevitably only worsens everything. As for the EU’s Anglo-Zionist overlords, they don’t care what happens unless their own interests are directly affected.

You could say that the Titanic is sinking and the orchestra keeps playing, and you would be close to the truth. Everybody hates the Captain and crew, but nobody know whom to replace them with.

samedi, 03 octobre 2015

Revue "Conflits": Inde/Chine

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Inde-Chine, un même horizon ?...

Le septième numéro de la revue Conflits, dirigée par Pascal Gauchon, et dont le dossier est consacré aux relations entre l'Inde et la Chine, vient de sortir en kiosque.

Au sommaire de ce numéro :

ÉCHOS

ÉDITORIAL

Ils ne voient pas, ils n'entendent pas, ils ne parlent pas Par Pascal Gauchon

ACTUALITÉ

ENTRETIEN

François Godement, le regard froid d'un homme chaleureux Propos recueillis par Pascal Gauchon

PORTRAIT

Henry Kissinger. Le "révolutionnaire blanc" Par Charles Zorgbibe

ENJEUX

Un paradis fiscal. Une construction géopolitique Par Vincent Piolet

ENTRETIEN

Général François Lecointre. L'armée française face au terrorisme

ENJEUX

Sport et influence Par Jean-Baptiste Noé

ENJEUX

Fuir l'Erythrée Par Catherine Augagneur-Delaye et Alain Michalec

IDÉES REÇUES

La réécriture géopolitique de l'histoire de la Chine Par Jean-Marc Huissoud

IDÉES

Grégoire Chamayou. L'anti-drone Par Florian Louis

GRANDE STRATÉGIE

L'empire aztèque. Intimidation, persuasion, information Par Carmen Bernand

BATAILLE

Marignan 1515. Beaucoup de bruit pour rien Par Pierre Royer

POLÉMIQUE

Le Quai d'Orsay, plus atlantiste que la Maison-Blanche? Par Hadrien Desuin

BOULE DE CRISTAL DE MARC DE CAFÉ

Le "miracle brésilien" passé en revue (de presse)

BIBLIOTHÈQUE GÉOPOLITIQUE

Le djihadisme, le comprendre pour mieux le combattre Par Gérard Chaliand

CHRONIQUES

LIVRES/REVUES/INTERNET /CINÉMA

GÉOPo- TOURISME

Genève, suisse ou internationale ? Par Thierry Buron

DOSSIER : Inde-Chine, un même horizon ?

Une montagne, une guerre et un quadrilatère Par Pascal Gauchon

Inde-Chine. Le rapport de force

GRANDE CARTE : La rivalité Inde-Chine en Asie

Les relations économique entre la Chine et l'Inde Par Michel Nazet

Les relations militaires entre l'Inde et la Chine Par Hadrien Desuin

Entre Inde et Chine, l'Asie du sud-est Par Michel Nazet

Inde, Chine, Pakistan? L'Inde prise à reversPar Sébastien Sénépart

Océan indien. L'Inde de retour chez elle ? Par Pierre Royer

Le "collier de perles", menace ou fantasme ? Par John Mackenzie

Adversaire ou partenaire ? Chine et Inde en Afrique Par François Lafargue

Face à la Chine : Japon-Inde, des partenaires naturels ? Par Jean-Marc Bouissou

Les USA entre Inde et Chine. Un triangle à haut risque Par Thomas Snégaroff

Chine-Inde-Russie. Vers un "triangle anti-hégémonique" Par Pascal Marchand

L'homme du Gujarat et l'Empereur de Chine? Par Claude Chancel

jeudi, 01 octobre 2015

Diplomatie française: improvisations, revirements et amateurisme…

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Diplomatie française: improvisations, revirements et amateurisme…

par Richard Labévière

Ex: http://www.prochetmoyen-orient.ch

Quelques semaines avant l’élection de François Hollande, un groupe de hauts fonctionnaires français signait une tribune dans un quotidien parisien1, appelant à rompre avec les postures médiatiques de Nicolas Sarkozy. Commentant les propositions du candidat socialiste, ce collectif écrivait : « on ne voit pas encore les axes structurants d’une politique réfléchie. Sans tabous ni autocensure, la première des préoccupations reste la non-prolifération nucléaire et le dossier iranien, mais aussi et peut-être davantage le Pakistan, ainsi que le réarmement d’autres puissances. Quelle est la meilleure politique au regard de nos intérêts? Est-ce pertinent de soutenir Israël quelles que soient les extrémités où l’on risque de nous entraîner? Quelles leçons tire-t-on de l’expédition libyenne – guerre déclenchée au nom des droits humains – dont on ne connaît toujours pas le bilan des victimes, ni l’ampleur des effets déstabilisateurs dans la sous-région sahélienne, sans parler de l’évolution inquiétante des libertés civiles et politiques? Et que penser de la politique de gribouille sur la Syrie, pouvant déboucher sur une militarisation accrue de la crise? L’appel au changement de régime est-il légitime, surtout lorsqu’il est porté par des pays comme le Qatar ou l’Arabie Saoudite? Ne reproduit-on pas ici les erreurs commises par les Américains et les Britanniques en Irak ? Cela ne ressemble-t-il pas à un vieux remugle de néo-colonialisme? Quant à l’Afghanistan, il restera à dresser un bilan de notre engagement militaire. Ces questions rompent avec le politiquement correct dominant. Il faut cesser de se gargariser des grands discours ridicules sur notre « diplomatie universelle » et de nier béatement le déclin de la France dans le monde. Il est temps d’élaborer une doctrine de redressement, fondée sur des analyses géostratégiques tenant compte de la réalité, de nos moyens d’agir, de nos intérêts ainsi que de ceux de nos voisins européens, méditerranéens et africains ».

Une fois élu, François Hollande – qui ne s’était guère intéressé aux relations internationales – nommait à la tête de la diplomatie française l’ « ancien plus jeune Premier ministre de la Vème République ». En confiant le Quai d’Orsay à Laurent Fabius, le nouveau président de la République cédait ainsi à son tropisme d’ancien premier secrétaire du PS : ménager les tribus de la rue de Solferino en considérant que Fabius serait moins nuisible à l’intérieur du gouvernement qu’abandonné à la direction d’un courant qui avait mené la bataille contre le projet de constitution européenne, notamment. Du grand art… et un signal fort adressé à nos partenaires européens. Condition de son acceptation du maroquin des Affaires étrangères, Laurent Fabius favorisait le choix d’un conseiller diplomatique faible pour l’Elysée, en l’occurrence le regretté Paul Jean-Ortiz – homme droit et affable, surtout spécialiste de l’Asie, – ne voulant pas s’encombrer d’un sherpa trop pointu, genre Jean-David Levitte qui géra les dossiers internationaux pour Sarkozy tandis que Bernard Kouchner amusait la galerie du Quai d’Orsay, multipliant les voyages et des affaires pas toujours très claires…

Cette inversion hollandaise du dispositif Sarkozy (sherpa fort/ministre faible) pour un ministre fort et un conseiller diplomatique docile ne changea pas grand-chose à une diplomatie qui accentua les évolutions impulsées par une « école française néoconservatrice » qui avait déjà commencé à sévir sous le deuxième Chirac finissant : retour dans le commandement intégré de l’OTAN, alignement sur Washington et Tel-Aviv ! Et l’un de nos grands ambassadeurs de commenter : « avec Laurent Fabius, c’est Guy Mollet, les néo-cons américains et la morgue en prime… » Sans appel, ce jugement s’illustre particulièrement sur les trois grands dossiers proche et moyen-orientaux.

La Syrie d’abord ! En mars 2012, Alain Juppé avait curieusement décidé de fermer l’ambassade de France à Damas, contredisant les fondamentaux de la diplomatie qui consistent, justement, à ne jamais perdre le contact avec les pays qui s’éloignent le plus de nos positions, sinon de nos intérêts… Cherchant à corriger les effets désastreux du soutien passé de Michèle Alliot-Marie au dictateur tunisien, Paris se devait de revenir dans le sens de l’Histoire : Ben Ali dégage, Moubarak dégage, Kadhafi idem… Avec Washington et Londres, Paris s’enferma dans le « Bachar dégage ! », personnalisant une situation syrienne, pourtant très différente des autres mal nommées « révolutions arabes ».

Sur la Syrie, inaugurant une « ligne Juppé consolidée », selon les propres termes d’un ancien ambassadeur de France à Damas, Laurent Fabius a été principalement inspiré par deux personnes : Eric Chevallier – un copain de Kouchner promu par ce dernier « diplomate professionnel », thuriféraire de Bachar jusqu’en juillet 2011, moment où il fut rappelé à Paris pour se faire expliquer que la suite de sa carrière dépendait d’un complet revirement anti-Bachar2 – et Jean-Pierre Filiu, un ancien diplomate – ayant quelque compte personnel à régler avec le régime baathiste – devenu professeur des universités et militant de la « révolution syrienne ». Fin août, lors de son discours devant la 70ème conférence des ambassadeurs, François Hollande a encore confirmé cette ligne « renforcée » du « ni-ni » – ni Bachar, ni Dae’ch – estimant que bombarder Dae’ch en Syrie pourrait renforcer le « boucher de Damas ».

Début Septembre survient la « crise des migrants », soulevant un mélange d’émotions et de craintes dans les opinions européennes, confirmant l’absence de véritable politique de l’Union européenne en la matière. La décision d’accueil massif d’Angela Merkel, qui pense ainsi combler ses déficits démographique et de main d’œuvre, embarrasse François Hollande qui doit pourtant afficher sa convergence avec la dirigeante de l’Europe. Opposée en Mai 2015 à des quotas migratoires contraignants au sein de l’UE, la France se met à en soutenir le principe en Septembre. Après avoir qualifié de « stupide » l’idée de rétablir un contrôle aux frontières, le gouvernement français affirme qu’il « n’hésitera pas » à le faire si nécessaire, après la décision allemande de fermer certaines de ses frontières. Improvisation totale, le regard rivé sur la ligne d’horizon des présidentielles de 2017, ce revirement pathétique s’opèrera naturellement sous la pression des sondages d’opinion.

Avec la crise des migrants, le Front national retrouve son « cœur de métier », mais récolte aussi les bénéfices d’une équation relativement simple : les migrants affluent pour fuir la guerre civile syrienne dont Dae’ch est l’un des principaux protagonistes. Deux corollaires s’imposent tout aussitôt : 1) il faut lutter plus efficacement contre l’organisation terroriste d’autant que le bilan d’une année de lutte de la Coalition anti-Dae’ch, regroupant les plus puissantes armées du monde, est particulièrement nul. En effet, comment expliquer aux électeurs que la Coalition n’arrive pas à venir à bout d’une organisation qui compte tout au plus 40 à 45 000 hommes, alors qu’elle signe aussi des attentats en Europe ? 2) il faut parler avec Bachar al-Assad. Les affirmations régulièrement répétées du Quai d’Orsay selon lesquelles le « dictateur de Damas » a enfanté Dae’ch tout seul font sourire depuis longtemps les connaisseurs du pays et de la région. Depuis plusieurs mois, l’Espagne, la Pologne, la Tchéquie et d’autres pays de l’UE, plus récemment l’Allemagne, disent de même. Moscou défend cette position depuis l’hiver 2011/2012 et Washington a commencé à nuancer la sienne à partir de mars 2015.

Le coup de grâce du « ni-ni » hollando-fabiusien intervient mi-septembre avec l’officialisation d’un engagement militaire russe accru afin d’épauler Bachar al-Assad pour éviter que les catastrophes d’implosion territoriale et politique, commises en Irak et en Libye, ne se répètent. Durant un déplacement de Laurent Fabius à l’étranger, Jean-Yves Le Drian, dont la compétence en matière de défense n’est plus à prouver, le général Pierre de Villiers, chef d’état-major des armées (CEMA), et le général Benoît Puga, chef d’état-major particulier du Président, finissent par convaincre celui-ci que la position française n’est plus tenable au risque de se trouver marginalisée dans la nouvelle donne inaugurée par l’accord sur le nucléaire iranien du 14 juillet dernier.

C’est le deuxième échec personnel de Laurent Fabius qui rejaillit sur l’ensemble de la diplomatie française : ne pas avoir accompagné la finalisation de l’accord sur le nucléaire iranien et n’avoir pas anticipé non plus ses conséquences régionales et internationales. Pire, Laurent Fabius s’est opposé pendant plus d’un an et demi aux progrès de la négociation en relayant systématiquement les critiques et les exigences… israéliennes ! Au nom de quels intérêts français ? On se le demande encore… La signature à peine sèche, le ministre français se précipite pourtant à Téhéran afin de devancer son homologue allemand : ce voyage est une telle catastrophe que lors de la dernière visite des patrons du MEDEF à Téhéran, il préfère se faire porter pâle et céder sa place au porte-parole du gouvernement Stéphane Le Foll. Au Quai d’Orsay comme au MEDEF, personne n’ose dire que son entêtement contre l’accord a plombé les grandes, moyennes et petites entreprises françaises pour pas mal de temps ! Heureusement que les Iraniens sont pragmatiques et qu’ils ne mettent jamais tous leurs œufs dans le même panier, mais tout de même ! Pourquoi avoir refusé si longtemps cet inéluctable début de normalisation avec l’une des grandes puissances régionales du Moyen-Orient ? La question reste entière…

Les yeux toujours rivés sur le baromètre intérieur, François Hollande demande instamment à Laurent Fabius d’organiser à Paris, le 8 septembre dernier, une conférence internationale pour venir en aide aux Chrétiens et autres minorités d’Orient. Celui-ci s’exécute à reculons, toujours partisan d’armer l’opposition syrienne « laïque et modérée » pour en finir avec Bachar, c’est-à-dire « les bons p’tits gars de Nosra », comme il l’affirmait en décembre 2012 lors d’un voyage au Maroc. Rappelons que Jabhat al-Nosra, c’est tout simplement Al-Qaïda en Syrie, qui achète et absorbe, depuis plusieurs années, les rebelles de l’Armée syrienne libre (ASL) qui n’existe plus que sur le papier. Rien appris, rien oublié ! Laurent Fabius persiste et signe. Cette conférence est un fiasco absolu. Mais un autre dossier inquiète fortement le président de la République : le conflit israélo-palestinien et les gosses des banlieues françaises qui critiquent, d’une manière de plus en plus organisée, les choix inconditionnellement pro-israéliens du gouvernement français.

Laurent Fabius effectue donc plusieurs déplacements en Israël et dans les Territoires palestiniens occupés. Des projets de résolution pour le Conseil de sécurité des Nations unies sont mis en chantier. Mais là encore, l’improvisation va coûter cher. Le chef de la diplomatie française s’étonne de ne pas trouver un Benjamin Netanyahou enthousiaste et surtout redevable à la France éternelle d’avoir tout mis en œuvre pour faire échec à l’accord sur le nucléaire iranien ! Le 8 juillet 2015, Paris renonce à présenter devant l’ONU son projet de résolution concernant le conflit israélo-palestinien. En coulisses, Tel-Aviv et Washington ont torpillé le texte. « Je peux dire que le projet français de résolution du conflit devant le Conseil de sécurité n’est plus une priorité pour les dirigeants français », déplore le ministre palestinien des Affaires étrangères, Riyad al-Maliki.

Au Liban, Paris tente de débloquer la situation politique pour l’élection d’un président de la République (chrétien selon la constitution). Le palais de Baabda est inoccupé depuis août 2014. A la demande de Laurent Fabius, le patron d’ANMO (Direction Afrique du Nord/Moyen-Orient) Jean-François Girault multiplie vainement les consultations au Pays du cèdre, en Iran, en Jordanie et en Egypte. En fait, Paris ne fait plus rien sans en référer au nouvel allié saoudien. A la « politique arabe » du général de Gaulle et de François Mitterrand s’est substituée une « politique sunnite » de la France ! Il faut dire que cette « évolution » pèse quelque 35 milliards d’euros pour les grandes sociétés du CAC-40. Quant aux droits de l’homme tellement sollicités afin de pouvoir « punir », sinon « neutraliser » Bachar al-Assad, ils n’empêchent guère les ronds de jambe et les courbures d’échine répétés devant les dictateurs du Golfe.

Aux dernières nouvelles, un jeune saoudien chi’ite, Ali Mohamed al-Nimr risque d’être décapité puis crucifié, pour avoir « manifesté » contre le régime saoudien – cet ami de la France qui nous achète nos matériels d’armement et finance les Rafale pour l’Egypte… Une diplomatie époustouflante, en effet !

Richard Labévière
28 septembre 2015


1 « Pour un changement de politique étrangère » – Libération du 13 mars 2012.
2 Eric Chevallier coule aujourd’hui des jours heureux à Doha comme ambassadeur de France. Ayant tellement mis de cœur à l’ouvrage dans son revirement anti-Bachar en faveur de « l’opposition » syrienne, financée par le Qatar, les autorités du petit émirat pétrolier sont intervenues directement auprès de François Hollande pour qu’il y soit nommé représentant de la France.