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dimanche, 22 février 2015

L’IMPERATORE CHE VOLLE FARSI UOMO

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L’IMPERATORE CHE VOLLE FARSI UOMO

E non scriviamo "il Dio", perché quello è un altro

Primo Gennaio 1946: Hirohito, il dio-imperatore del Giappone, dichiara via radio di essere un comune mortale. In pochi minuti si sciolgono come neve al sole due millenni di storia giapponese: la divinità imperiale è decaduta per sempre. Sono anni di cambiamenti epocali per il paese del Sol levante, piegato dalla sconfitta nel secondo conflitto mondiale, travolto dalle atomiche di Hiroshima e Nagasaki, umiliato da un vincitore che costringe i suoi rappresentati a firmare la resa a bordo della corazzata Missouri ancorata nella baia di Tokyo. La pretesa di affermarsi come popolo eletto dagli dei, l’unico in grado di costruire una grande Asia indipendente a base imperiale e confederata, giace in frantumi. L’orgoglio e l’arroganza di questo popolo che, dopo essere uscito dalla sua secolare realtà feudale, era riuscito a colmare in pochi decenni il gap industriale e tecnologico con l’Occidente – crescendo a tal punto da illudersi di poter sfidare e battere il gigante Statunitense – tramontano all’ombra delle polveri radioattive che soffiano là dove un tempo sorgevano delle prospere città.

I vincitori hanno le idee chiare per il futuro: il Giappone è il territorio di sperimentazione prescelto per la costruzione di una nazione ideale. I piani esistono e si sviluppano fin dal 1942[1]. L’obbiettivo va oltre una semplice smilitarizzazione del paese: il risultato finale a cui si mira è una vera e propria castrazione dello spirito giapponese, lo sradicamento della sua cultura tradizionale per fare posto al modello sociale di stampo occidentale. Ma c’è un ostacolo su questa strada già tracciata: Hirohito. Gli Americani sapevano infatti di non poterlo impiccare alla stregua del generale Tojo e degli altri esponenti della leadership che avevano portato il Giappone alla guerra. L’esecuzione dell’imperatore avrebbe portato a conseguenze imprevedibili in un paese occupato, dove le ferite atomiche avevano lasciato nella popolazione sentimenti di rancore stemperati unicamente dal cibo e dagli aiuti forniti dai vincitori. Il rischio che il paese crollasse nell’anarchia, diventando magari una preda del comunismo, era più concreto che mai. Ciononostante qualcosa andava fatto, perché l’imperatore incarnava la convinzione giapponese di essere una razza di stirpe divina, egli era un dio per il quale i giovani piloti dell’aviazione nipponica non avevano esitato un istante a trasformarsi in kamikaze[2].

hirohito8233.jpgIl passo che seguì allo smantellamento dell’esercito e della gloriosa marina da guerra, fu quindi la cosiddetta Dichiarazione di umanità di quel fatidico primo giorno di Gennaio. Hirohito stesso fu molto turbato dal fatto di dover negare la sua discendenza divina, così come era stato previsto nel documento in inglese che gli fu sottoposto; decise allora di apportare una significativa modifica, facendo apparire il passaggio come fosse una rinuncia volontaria al suo status di dio vivente in nome del supremo interesse del Giappone. Accanto alla Dichiarazione fu emanata la Direttiva sullo scintoismo che prevedeva l’abolizione dello scintoismo di Stato e la sua definitiva separazione giuridica dalle istituzioni: per i giapponesi riverire la nazione e l’imperatore non sarebbe più stato un dovere. In seguito furono in molti i giapponesi che criticarono Hirohito per il suo gesto, considerato un vero e proprio atto di tradimento verso tutti coloro che in lui avevano creduto e per cui avevano donato la propria vita. Fra questi spicca certamente quello Yukio Mishima che non riuscì mai ad accettare il cambiamento imposto alla società giapponese, arrivando al punto da compiere il rito del seppuku[3] nel tentativo, insieme tragico e poetico, di ridare al Giappone il suo vero volto, anche se per un solo istante.

Oggi in Giappone la figura dell’imperatore è associabile a quella dei rimanenti monarchi europei, ovvero una figura istituzionale svuotata di poteri decisionali che vive unicamente della sua simbolicità. Aldilà del giudizio sulla figura di Hirohito, il quale d’altronde non ebbe una vera scelta in merito alla Dichiarazione né tantomeno la possibilità di opporsi al cambiamento del Paese, va sottolineato come fatto determinante il lascito della scelta americana di fare piazza pulita in pochi giorni di tradizioni così antiche e radicate. Quell’imposizione ha dato frutto ad una contraddizione di fondo in seno alla democrazia giapponese: il fatto che i giapponesi siano stati per così dire “obbligati alla libertà” da forze straniere, interroga ancora oggi la politica del paese, la quale si chiede se non sarebbe stato un suo diritto riscrivere la propria Costituzione. In un contesto contemporaneo di ritrovata volontà per una maggiore indipendenza ed un riallacciamento alla propria identità culturale, l’interrogativo potrebbe quindi trasformarsi presto in un atto di accusa e di rivendicazione. Solo il tempo allora saprà dirci se l’esportazione di occidentalità sia una soluzione credibile fino in fondo o solamente un’illusione destinata, alla lunga, a lasciare il passo alle profonde radici spirituali di un popolo come quello giapponese.

Daniele Frisio

 

[1] Vedi Ward (1987b), p.395, e Borton (1967), pp.4-8.
[2] Letteralmente “Vento Divino”, riferimento alla mitica tempesta che affondò provvidenzialmente la flotta d’invasione mongola nel 1274 d.c. che i piloti di caccia giapponesi speravano di rievocare grazie al più puro dei sacrifici.
[3] Il rituale del suicidio tradizionale, che prevede l’apertura del ventre secondo tagli e movimenti codificati, volti a testare la fermezza e la risoluzione di colui che mette fine alla propria vita (quindi non un semplice trafiggersi con la spada, come ci figuriamo spesso in Occidente). Mishima, pseudonimo di Kimitake Hiraoka, occupa assieme ai fedeli camerati del “Tate No Kai” l’ufficio del generale Mashita il 25 Novembre del 1970. Dopo aver fallito nel tentativo di iniziare una sollevazione dell’esercito, Mishima compie seppuku pronunciando le parole: « Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo. »

samedi, 21 février 2015

Siria, Iraq e Califfato, eredità della prima guerra mondiale

Siria, Iraq e Califfato, eredità della prima guerra mondiale

Rievocazioni

Michele Rallo

Ex: http://www.rinascita.eu

post_war_iraq.jpgChe cosa sta succedendo in Siria e in Iraq? Semplice: sta succedendo che uno dei principali alleati degli Stati Uniti nella regione – l’Emirato del Qatar – stia finanziando ed armando un esercito di terroristi che vuole cancellare Iraq, Siria, Libano e Giordania, ed al loro posto creare un impero clericale – il Califfato – ispirato ad una interpretazione fondamentalista dell’Islamismo nella sua versione sunnita.
Scopo di questo articolo non è, tuttavia, quello di investigare sul presente, magari alla ricerca di imperscrutabili disegni destabilizzatori, bensì quello di analizzare le radici storiche di ciò che sta avvenendo oggi. Ebbene, anche questa orrenda guerra in-civile, nasce dagli errori commessi dai vincitori della Prima guerra mondiale (Italia esclusa) e dalla loro pretesa – assurda, boriosa, arrogante – di tracciare i confini delle nuove nazioni mediorientali senza alcun rispetto per le popolazioni che vi sarebbero state incluse. Esattamente come la medesima pretesa aveva presieduto ai nuovi confini europei, creando Stati artificiali (la Cecoslovacchia, la Jugoslvaia), gonfiandone artificialmente altri (la Polonia, la Romania), mutilando i paesi vinti e ponendo le premesse per quel sanguinoso regolamento di conti che sarebbe stato poi la Seconda guerra mondiale.


Orbene, tutto nasceva, all’indomani della Grande Guerra, dalla spartizione delle spoglie dei vinti; e in particolare – per l’argomento di cui trattiamo oggi – dalla spartizione delle province arabe dell’Impero Ottomano. “Spartizione”, in verità, è un termine inadatto, perché nei fatti si trattava dell’acquisizione di quasi tutto da parte di una sola alleata, l’Inghilterra; della tacitazione con un piatto di lenticchie della seconda alleata, la Francia; e della maramaldesca esclusione della terza, l’Italia. Ma sorvoliamo anche su questo aspetto (che potrà essere oggetto di un ulteriore approfondimento) e concentriamo la nostra attenzione su quanto veniva stabilito, prescindendo da giudizi morali o da valutazioni politiche.
Si tenga ben presente – innanzi tutto – che fino a prima della Grande Guerra, l’Impero Ottomano si estendeva su tre continenti: dai Balcani all’Anatolia, al Medio Oriente, all’Egitto (ancorché assoggettato all’occupazione “provvisoria” dell’Inghilterra sin dal 1882).

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Nel maggio 1919, approfittando di una momentanea (e polemica) assenza dell’Italia dalla Conferenza della pace di Parigi, Inghilterra e Francia si accordavano per spartirsi le colonie tedesche e le regioni arabo-ottomane. Qualche briciola ai giapponesi nel lontano Pacifico e nulla all’Italia, che si voleva così punire per aver osato opporsi all’assegnazione di Fiume al Regno Serbo-Croato-Sloveno. Alla Francia – come già detto – un piatto di lenticchie: la Grande Siria – comprensiva del Libano – che si saldava al Kurdistan (poi cancellato) e ad una “zona d’interessi” nell’Anatolia sud-orientale (poi abbandonata precipitosamente di fronte all’avanzata di Atatürk). Tutto il resto all’Inghilterra, forse per diritto divino.
Naturalmente, non si poteva esplicitare la natura sfacciatamente colonialista di questa manovra, e ciò per due ordini di motivi: il rispetto del diritto di autodeterminazione dei popoli (che era stato la scusa per giustificare l’ingerenza degli USA in una guerra europea) ed i ripetuti impegni – assunti solennemente dall’Inghilterra – di concedere l’indipendenza agli arabi, se questi si fossero sollevati contro i turchi. Veniva perciò ideato un marchingegno che potesse in qualche modo mascherare i reali intenti di questa operazione: si riconosceva che le popolazioni arabe erano in grado di governarsi da sole, ma le si affidava alla neonata Società delle Nazioni, che avrebbe dovuto amministrarle provvisoriamente e poi accompagnarle verso la completa indipendenza. La S.d.N. poi, attraverso un “mandato”, le affidava – sempre “provvisoriamente” – «al consiglio e all’assistenza amministrativa di una Potenza mandataria».


Questo, nelle grandi linee. Per i dettagli, si rimandava tutto ad una successiva “Conferenza interalleata”, la quale avrebbe dovuto occuparsi anche del destino della Turchia, che l’Inghilterra avrebbe voluto praticamente cancellare dalla carta geografica. La Conferenza si teneva nell’aprile dell’anno seguente in Italia, a San Remo; le sue conclusioni saranno pochi mesi dopo recepite dal trattato di Sèvres, che però non andrà mai in vigore.


Frattanto – tra il maggio del ’19 e l’aprile del ’20 – si era verificato un fatto di non poca importanza: nella regione kurda di Mosul era stato scoperto il petrolio, tanto petrolio. E, allora, i “buoni” della situazione (cioè gli inglesi e i cugini americani) non potevano certo consentire che quel tesoro finisse – tramite il mandato sul Kurdistan – in mani francesi. Tutto lo scenario mediorientale stabilito a Parigi, perciò, veniva cancellato, e la carta geografica del Medio Oriente era ridisegnata ex novo. Il Kurdistan spariva: le sue regioni non petrolifere venivano divise fra la Turchia, la Persia (oggi Iran) e la Siria. Le sue regioni petrolifere, invece, erano accorpate al territorio arabo-sunnita di Baghdad ed a quello sciita di Bassora. Insieme, le tre regioni – che non avevano nulla in comune – erano racchiuse in uno Stato artificiale cui veniva dato il nome (persiano) di Iraq. Naturalmente – inutile dirlo – il relativo mandato era assegnato all’Inghilterra.


La Francia – depredata anche delle lenticchie – non faceva una piega. Incassava pure quest’altra scorrettezza (non certamente la prima!) da parte dei fedeli alleati britannici, continuando disciplinatamente a svolgere il ruolo – come più tardi dirà Mussolini – di “cameriera dell’Inghilterra”. Ad onor del vero, riceverà poi una specie di liquidazione per il suo cessato servizio in Kurdistan: il 25% delle azioni di due compagnie petrolifere, la Turkish Petroleum C° e la Anglo-Persian Oil C°; una inezia, a fronte del fiume di denaro che scaturirà dai pozzi petroliferi iraqeni.

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Naturalmente, non era questo l’unico pasticcio ascrivibile alla fantasiosa diplomazia degli “Alleati”. Ricordo un complicatissimo balletto di prìncipi ashemiti, prima designati Re di una determinata nazione, poi dirottati su un altro trono, costretti a deambulare sino alla attribuzione delle definitive corone in Siria, Giordania, Iraq. E ricordo, naturalmente, l’assurda vicenda della Palestina: promessa contemporaneamente agli arabi (accordo McMahon-Hüsseyn del 1916) ed agli ebrei (dichiarazione Balfour del 1917).


Ma, anche qui, tralasciamo tante vicende che pure sarebbe interessante approfondire, e concentriamoci sull’argomento che in questo momento ci preme maggiormente: sulle conseguenze dirette, cioè, che la decisione di cancellare il Kurdistan e di creare l’Iraq aveva – ed avrà poi fino ai nostri giorni – sugli equilibri del Medio Oriente e, in particolare, della regione compresa fra l’Anatolia orientale e quella che una volta si chiamava Mesopotamia.


Incominciamo dal Kurdistan, paese a maggioranza musulmana, ma non arabo ed etnicamente affine più all’Iran e alla Turchia che non al resto dell’Iraq. Orbene, dopo aver brevemente sognato ad occhi aperti di poter raggiungere l’indipendenza e l’unità nazionale, i kurdi vedevano repentinamente la loro patria annullata con un colpo di penna ed i loro territori divisi fra la Turchia (a nord), l’Iraq (a sud), la Persia (ad est) e la Siria (ad ovest). Da quel momento iniziava la disperata resistenza nazionale kurda contro le nazioni occupanti, resistenza che ha talora dato vita ad episodi di vera (e crudele) guerra civile, incidendo pesantemente sulla vita politica e sulla stabilità dei quattro paesi interessati. Ricordo – fra gli altri episodi – la breve stagione della Repubblica Popolare Kurda in territorio iraniano (1945), il bombardamento con gas nervino dei guerriglieri peshmerga di Halabja in territorio iraqeno (1988), e soprattutto la lunga stagione di lotte politiche ma anche di sanguinario terrorismo attuata in Turchia dal PKK di Ochalan.


E veniamo all’Iraq, paese – come abbiamo visto – del tutto artificiale, messo insieme soltanto per favorire l’accaparramento delle sue immense risorse petrolifere da parte di inglesi e americani. Tralasciamo tutta una serie di episodi significativi (come la rivolta filotedesca e filoitaliana del 1941) e veniamo alla sua storia più recente. Nel 1968 un colpo-di-Stato militare portava al potere il Baath, un partito nettamente laico ispirato ai princìpi di un nazionalismo panarabo (ma non panislamico) e di un socialismo nazionale (ma non marxista). Ostile agli Stati Uniti e ad Israele, il Baath governava già la Siria (dal 1963) ed aveva numerosi punti di contatto con il movimento degli Ufficiali Liberi nasseriani, al potere in Egitto dal 1952. La leadership del baathismo iraqeno – procediamo sempre in estrema sintesi – era in breve assunta da Saddam Hussein, prima Vicepresidente e poi – dal 1979 – Presidente della Repubblica.


Il laicismo del Baath, oltre ad essere in linea con le proprie radici politiche, era anche l’unico sistema in grado di tenere unito un paese formato da tre diverse realtà etnico-religiose, con una maggioranza musulmana spaccata in due (60% sciiti e 40% sunniti) e con una consistente (allora) minoranza cristiana. Altra peculiarità del baathismo era un rigido nazionalismo economico, che si estrinsecava nella nazionalizzazione dell’industria petrolifera (1972) e nell’utilizzo dei suoi proventi per una profonda modernizzazione del paese e per accrescere il benessere degli abitanti.


Abbattuto il regime baathista ad opera di una pretestuosa invasione americana (2003), il paese è – naturalmente – andato in frantumi: l’antagonismo politico fra le tre componenti è salito alle stelle; per tacere della quarta componente, la cristiana – un tempo rispettata da tutti – che era fatta oggetto della pesante ostilità di un fondamentalismo islamico in forte crescita. Pochi anni dopo, gli Stati Uniti e i loro alleati nella regione avviavano una guerra di aggressione – condotta attraverso un esercito mercenario armato e finanziato ad hoc – contro il regime baathista siriano del presidente Assad, con la scusa (fondata ma assolutamente risibile in Medio Oriente) che il regime di Damasco fosse una dittatura.
È da questo esercito mercenario – in larga parte formato da gruppi fondamentalisti – che è nato l’esercito del Califfo e la sua sorprendente creatura politica: l’ISIS, ovvero Stato Islamico dell’Iraq e della Siria.

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Obiettivo dell’ISIS e dei suoi sponsor (il Qatar soltanto?) è quello di frantumare l’Iraq, togliendogli la maggior parte dei territori petroliferi e lasciando il resto del paese alla maggioranza sciita ed all’alleanza con il correligionario Iran. Contemporaneamente, il Kurdistan iraqeno dovrebbe poter dichiararsi indipendente, ma privato delle sua zona più ricca di petrolio – Mosul – che dovrebbe rimanere al Califfato (ed alla commercializzazione qatarina) per garantire la sopravvivenza economica della creatura jihadista.


Il progetto presenta numerosi gravi inconvenienti (si pensi all’effetto destabilizzante per la Turchia che avrebbe uno Stato kurdo ai suoi confini), ma è quello che – si dice – abbiano elaborato gli strateghi di Israele: tornare alla situazione del 1919 e cancellare Iraq, Siria e Libano, frantumandoli in una miriade di staterelli coincidenti con le varie realtà etnico-religiose del Medio Oriente. E pazienza se, fra queste realtà, ce ne dovesse essere una che vuol mettere a ferro e fuoco il mondo intero.


Ex: http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=23700

dimanche, 15 février 2015

The Necessity of Anti-Colonialism

The Necessity of Anti-Colonialism

By Eugène Montsalvat 

Ex: http://www.counter-currents.com

Colonialisme-et-litterature_9666.jpegAnti-colonialism must be a component of any ideology that attempts to defend rooted identities. It is necessary to oppose the uprooting of peoples in the pursuit of power and wealth. In both its historical imperial form and in its modern financial guise, colonialism has warped both the colonist and colonizer, mixing, diluting, and even annihilating entire cultures and peoples. We know about the negative impact of colonialism on the colonized. However, its consequences for the people of colonial nations are rarely discussed, in order to reinforce a narrative that demonizes European history. 

Unfortunately, many patriotic, average whites feel some sort of pride in their imperial history. They do not realize that they are its victims as well. Hidden from the historical record are the poor and working class whites who served as cannon fodder for the agenda of plutocrats intent on extending their empire of wealth. They were forced to compete against foreign labor, occasionally even against slave labor. Consider how the suffering of thousands of Irish, Scottish, and English people forced to serve as indentured servants–that is, frankly, white slaves–by the British Empire in America has been conveniently erased from public knowledge. How many people know of the struggle of white Australian laborers who stood up to the English colonial power that wanted to undercut their wages with Indian and Chinese immigrants? These facts are hidden from our consciousness by our leaders, the end result being a suicidal support for an exploitative system or a guilt complex that feeds modern neocolonialism in the guise of “human rights” and “progress.”

If there is any nostalgia for the empires of the past among patriotic whites, it should be wiped away when they realize what those empires have transmogrified into. When vast empires no longer maximized profit, their controllers saw the borders between them dissolved to ensure a truly global financial oligarchy. Today the agenda behind colonialism is laid bare: it was never about bravery and exploration but about the economic exploitation of all the peoples of the world. It is not Faustian courage, but mercantile greed that drives the will to consume the entire earth.

While colonialism is not a distinctly European phenomenon, for our purposes we’ll look at how European colonialism evolved into the global neo-colonialism that plagues us today. Before what is called the “Age of Exploration” that saw the rise of European colonial empires overseas, there was a significant shift in the values of Europe. Before the Renaissance, Western Europe was dominated by feudal values, which were essentially religious in nature. Here we see superpolitical ideas dominate the political discourse. To quote Julius Evola on the feudal regime:

In this type of regime the principle of plurality and of relative political autonomy of the individual parts is emphasized, as is the proper context of the universal element, that unum quod non est pars [one that is not part of, i.e. God] that alone can really organize and unify these parts, not by contrasting but by presiding over each of them through the transcendent, superpolitical, and regulating functions that the universal embodies.

In this quote we see that the foundation of the polity is religious, its parts unified by divine power. As the feudal system declined, what was seen as the holy vocation of statecraft became replaced by simple, humanistic diplomacy. In place of spiritual unity, the emergence of the nation state and its absolutism provided the bonding forces of politics. From this great upheaval we see the rise of the mercantile classes, especially in Italy, as the feudal Holy Roman Empire receded from the peninsula. This lead to the Renaissance. While some may think of the Renaissance as the revival of Classical virtues lost under the domination of Christian despotism, it was superficial, exalting a decadent humanism and individualism not found in healthy pagan societies. Sparta it was not.

Evola recounts the consequences:

In the domain of culture this potential produced the tumultuous outburst of multiple forms of creativity almost entirely deprived of any traditional or even symbolic element, and also, on an external plane, the almost explosive scattering of European populations all over the world during the age of discoveries, explorations, and colonial conquests that occurred during the Renaissance and age of humanism. These were the effects of a scattering of forces resembling the scattering of forces that follows the disintegration of an organism.

colonExpo_1931_Affiche1.jpgEuropean colonialism began when the soul of Europe died. In place of God, stood greed and human self-adulation. The domination of materialist values we see today is a direct consequence of the inversion of values that resulted from the death of feudalism.

Like all systems where money is the highest good, the new colonial regime was dominated by mercantile forces. The financial power behind the Spanish empire was the Fugger banking dynasty, which was later replaced by Genoese merchants after Spain went bankrupt several times during the reign of Phillip II. In a manner similar to America’s foreign adventurism, Spain’s imperial dreams drove the state to ruin and left them at the mercy of avaricious creditors. This would certainly not be the last time that the benefits of colonialism have gone into the pockets of bankers at grievous expense to the people of the nation. The financial troubles of Spain lead one its erstwhile territories to declare independence and pursue its own colonial ambitions.

That would be the Netherlands, which created a mercantile empire through international banking. Much like how modern creditors hold entire nations, such as Greece, in their thrall, the Dutch merchants lent to foreign governments and then demanded concessions when they couldn’t pay. In addition, the Dutch created what is often considered the first multinational corporation to pursue their colonial profiteering, the Dutch East India Company. This corporation was imbued with great power, even the power to declare war. Thus common Dutch men would go off to die for their corporate masters. No, George Bush was not the first man to slaughter his countrymen for corporate greed. However, not to be outdone by the Dutch. The British created their own East India Company. Intense rivalry in the spice trade and over the territories of the crumbling Spanish Empire fueled violence. In 1623 agents of the Dutch East India Company massacred ten British in the employ of the British East India Company in Indonesia during the Amboyna Massacre. Eventually, their economic tensions would grow into full blown warfare, culminating in Three Anglo-Dutch wars in the 1600s. In 1688, the James II of England was overthrown by the Dutch backed William of Orange and his English wife Mary.

This so called Glorious Revolution was a coup for Dutch finance. William of Orange, who became William III upon assuming the English throne, was heavily indebted to Dutch bankers. Under his regime, the Bank of England was established to lend the throne money at interest. Thus England’s colonial empire was now the agent of capital. The Bank of England was modeled after the Dutch Wisselbank, which backed the Province of Holland, the City of Amsterdam, and the Dutch East India Company. Therefore, the public debt of the people became the private profit of the banks. If an expensive colonial war was fought, the bank always won, for either way its loans are repaid with the spoils or forcibly extracted from the indebted through foreclosures and credit restrictions. While we may think of these struggles as glorious feats of courage and daring, ultimately it was the blood sacrifice of honest men that fattened the Golden Calf of usury. One of the families profiting from this global web of sovereign debt was the infamous Rothschild family.

Originating in Frankfurt, in what is now Germany and establishing the branches in the imperial capitals of Paris, Naples, Vienna, and London. Nathan Rothschild became involved in financing the British war against Napoleon, using his international connections to funnel information on the continent to London. We should note that Napoleon’s economic policies sought to achieve autarky and limit usury through low interest rate loans given through the Bank of France. However, Napoleon was defeated and the forces of international finance reigned over Europe. Nathan’s grandson, Natty, saw the British Empire as a vehicle for his commercial interests. He became a friend of British imperialist, Cecil Rhodes. However, he was a fair weather friend, even floating loans to the Boer government, playing both sides in the colonial game.

It is clear that to the Rothschilds, the British Empire was merely the best mechanism for protecting their profits; they had no loyalty to it. Yet, it was not just the Rothschilds who were willing to use the empire as grist for their mills. In Australia, British colonial interests sought to displace white gold miners with cheap labor from China and India. Against the greed of their rulers, the Australian workers rose up, organizing and agitating against immigration from other parts of the Empire. William Lane, a founder of the Australian Labor Party said:

Here we face the hordes of the east as our kinsmen faced them in the dim distant centuries, and here we must beat them back if we would keep intact all that can make our lives worth living. It does not matter that today it is an insidious invasion of peaceful aliens instead of warlike downpour of weaponed men. Monopolistic capitalism has no colour and no country.

In the sheep shearing industry W. G. Spence fought against free trade policies of Joseph Chamberlain, who sought to allow waves of Asian labor to lower the wages of white laborers. The rising of the Australian workers led to the formulation of a White Australia Policy to prevent the Empire from using foreign labor to challenge white workers. As the 19th century drew to a close, the imperialism of kings, flags, and exploration was becoming passé. The capitalists were no longer content with vast empires. They wanted the entire world. The rise of American power would give them that opportunity.

The financial powers saw the old model of a world divided into regional powers as a barrier to their goal of a global economy. In the Fourteen Points Woodrow Wilson advocated free trade and the self determination of the former colonial territories. While self-determination may sound vaguely nationalistic, in reality its goal was to dissolve the old empires and assimilate them in bite sized pieces into the new American led global economy, replacing “Great Power” colonialism with international neocolonialism. The Atlantic Charter devised after the Second World War reiterated these points. In the wake of the Second World War, America’s seemingly anti-colonial foreign policy is exposed as merely a fig leaf for financial imperialism. In Africa, the US sought to break down the old colonial empires and impose American lackeys as their new leadership. I quote from a previous essay of mine:

In 1953 the Africa-America Institute was created to train a pro-American leader class for the post-colonial African nations. The AAI has received funding from the US government’s USAID and as of 2008 it counts Citibank, Coca-Cola, De Beers, Exxon Mobil, and Goldman Sachs among its sponsors. The AAI’s East Africa Refugee Program, which ran from 1962-1971, and the Southern African Training Program supported the training of FNLA terrorists against the Portuguese, ostensibly to prevent the Soviet backed MPLA from gaining power. The resulting civil war killed 500,000 over 27 years. With the Portuguese, whose Catholic social policies limited involvement in the global economy, removed from the picture, global corporations were free to strike deals with the newly installed government of Mozambique. Anglo-American Corporation negotiated a sale of chrome loading equipment the day Mozambique’s Samora Machel proclaimed the beginning of nationalization.

coloniales-affiche.jpgAs we see, the hidden hand behind these allegedly anti-colonial movements in Africa was American cash. These newly “independent” nations were merely puppets for Western financial interests.

However, true nationalist alternatives existed. Consider Libya’s Muammar Gaddafi, who articulated a nationalist and eventually pan-Africanist vision of self-determination. Gaddafi nationalized Libya’s oil industry, taking it out of the hands of foreign corporations, using the money to provide health-care and education for his people. First promoting Pan-Arabism and then Pan-Africanism, he sought to form a geopolitical bloc against foreign domination, as each nation by itself was too weak to challenge the full might of the United States.

Gaddafi’s vision was inspired by another Arab revolutionary, Egypt’s Gamal Abdel Nasser, who promoted a pan-Arab socialism. What he sought to do was assert the sovereignty of the people against both British and French colonialism and American neocolonialism. He saw the chaos they produced, especially through their support of Israel and their puppets in Saudi Arabia, who had been installed by the English for aiding them against the Ottomans in the First World War. Nasser was quite keen in recognizing this Saudi-Israeli alliance of American puppets, which wreaks all havoc in the Middle East to this day, stating, “To liberate all Jerusalem, the Arab peoples must first liberate Riyadh.”

Among Nasser’s supporters was Francis Parker Yockey, the author of Imperium, who wrote anti-Zionist propaganda in Egypt. A man of vision who saw the old powers fading away into an American Jewish dominated global empire, he sought allies who resisted America’s Zionist New World Order. He saw Western Europe devolving into an American colony after the Second World War and called for it to assert itself in his Proclamation of London. With Nasser, he saw the Arabs asserting themselves in a similar manner.

Across the Atlantic, Juan Domingo Perón of Argentina, pursued a geopolitical agenda intended to foil American backed neocolonialism, seeking to unite South America as a bloc for the independent development of its peoples. During his exile, he sought contacts with European nationalists who sought to resist American domination following the Second World War, including Jean Thiriart and Oswald Mosley. Perón saw South American anti-colonialists and European nationalists as natural allies, stating in a letter to Thiriart, “A united Europe would count a population of nearly 500 million, The South American continent already has more than 250 million. Such blocs would be respected and effectively oppose the enslavement to imperialism which is the lot of a weak and divided country.” During his final term in office, Perón, also pursued alignment with Gaddafi’s Libya.

By the 1960s, the complete dissolution of the European empires, combined with the rise of the US backed Zionist power in the Middle East, required European patriots to realign with third world anti-imperialists. The previously mentioned Jean Thiriart stated, “European revolutionary patriots support the formation of special fighters for the future struggle against Israel; technical training of the future action aimed to a struggle against the Americans in Europe; building of an anti-American and anti-Zionist information service for a simultaneous utilization in the Arabian countries and in Europe.”1 Ultimately, Thiriart’s goal of creating European Brigades to aid in the liberation of Palestine went unrealized. However, Thiriart’s goal to transform Palestine into Israel’s Vietnam may yet still be possible, as the Israeli war machine’s utter brutality towards the Palestinians gains increasingly negative exposure. As their excuses for brazen cruelty begin to lose power, we will once again see heroes rally to their standard to free Jerusalem.

Our current situation offers several outlets to continue to struggle. Firstly, we must realize that the creed of greed, which has infected our own people, is the enemy. Therefore, it is necessary to reform the right in America, it must be intransigently anti-liberal. The decline of our people did not begin in 1960. Simple opposition to the New Left is not going to solve our problems. It is foolish to praise the 19th century, one of industrial exploitation of our own working class, petty nationalism tearing ancient kingdoms asunder, and scientific rationalism de-sacralizing the world. The Enlightenment and its fruits must be rejected outright, for they brought an end to the domination of religious institutions and replaced them with the rule of gold. Ultimately, we must affirm spiritual values over materialistic ones. We must first win the spiritual battle before the political battle can begin. To defeat the global rule of the merchants, we must destroy the merchant in our souls. We must affirm Tradition, in the sense of Julius Evola, before we can become politically radical.

Once we have overcome the parasite in our own spirit, we must meet its external manifestations. That is the US/EU/NATO/Israel axis. This is the heartland of liberal capitalism, the new Carthage, that seeks to turn the peoples of the world into their raw material. It is in the interest of big business to destroy the traditions of a people and replace them with consumerism, to eliminate the borders that prevent the flow of cheap labor. The capitalist seeks little more than to turn the world into their private plantation. This mercantile virus, which first implanted itself through the colonial empires of old will become truly fatal if capitalist neocolonialism is allowed to pursue full globalization. Thus we must recognize our allies. Indeed, our enemies have already pointed them out, calling any nation that seeks to retain its sovereignty against the dictates of American imperialism a rogue state that hate’s freedom and democracy. The old adage “the enemy of my enemy is my friend” holds true.

One leader fighting the global system today is Syria’s Bashar al-Assad. He is facing down US and Saudi backed Wahhabists who seek to topple an Arab nationalist regime that has stood since the days of Thiriart. He is backed by two other organizations that have undergone American demonization, Hezbollah and Iran. Just recently we have witnessed the audacity of Israel’s imperialist regime, killing an Iranian general and Hezbollah fighters on Syrian soil on January 19th. While it may seem that radical Islam and Zionism are at odds, in the case of Syria they are two heads to the same coin, minted in the US I may add. Both the Israelis and the Wahhabists seek to destroy the Arab nationalists like Assad, while taking millions of dollars from the United States. If we wish to combat radical Islam, we must combat liberalism and Zionism as well. We must stand with Arab socialists and nationalists who wish to provide a nation that puts people before profits, we must stand against Israeli and Saudi backed warmongering that drives people from their ancestral homes, and we must stand against the capitalists who seek to use foreign labor to undercut their native working class. Nationalists and socialists of all nations must recognize that they are locked in a common struggle.

coloFRCAOM08_9FI_00473R_P.jpgOne nationalist and socialist figure, similarly hated by the American establishment, was Hugo Chávez. Inspired by both Perón and leftists such as Castro, he sought to unite South America against neo-liberalism, that is the financial colonialism of the United States. Thus he created the Bolivarian Alliance for the People of our America (ALBA), which consists of Antigua and Barbuda, Bolivia, Cuba, Dominica, Ecuador, Grenada, Nicaragua, Saint Kitts and Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent and the Grenadines and Venezuela. These organization seeks to aid the nations of South America to improve themselves through social welfare and mutual aid. Moreover, Chávez was also a resolute anti-Zionist, even going so far as to claim that “the descendants of those who crucified Christ . . . have taken ownership of the riches of the world, a minority has taken ownership of the gold of the world, the silver, the minerals, water, the good lands, petrol, well, the riches, and they have concentrated the riches in a small number of hands.” Chávez died of cancer in 2013, but his movement lives on.

Among the leaders who carry the torch of Bolivarian Revolution is Bolivia’s Evo Morales, a socialist who has pursued a redistribution of his nation’s wealth from the hands of multinational corporations to his own people. In 2008, Morales successfully fought off a coup engineered with the support of US Ambassador Philip Goldberg. While many of the American right still harbor their Cold War fears of Latin American nationalism, this only serves to line the pockets of men like Goldberg. Nationalists must stand in solidarity with one another.

And finally, target number one of globalism, Russia. America is clearly waging economic warfare on Russia through its sanctions, through the IMF support for the Kiev junta, through attempts by Western credit agencies to downgrade Russia. Russia’s refusal to bow to Western liberal standards in regards to sexuality, religion, and culture has earned America’s enmity. Putin’s refusal to become the glorified serving boy at the international table has drawn the ire of NATO. Putin has realized that the attempts at rapprochement with the Western led global economy had led to disastrous consequences for the Russian people. Growing from his role of cleaning up the utter ruin left by Yeltsin he has reasserted a Russian identity as the basis of his superpower. In his speech to Valdai Club, Putin defends Russia’s traditions, and the traditions of all peoples, against Western liberalism:

Another serious challenge to Russia’s identity is linked to events taking place in the world. Here there are both foreign policy and moral aspects. We can see how many of the Euro-Atlantic countries are actually rejecting their roots, including the Christian values that constitute the basis of Western civilization. They are denying moral principles and all traditional identities: national, cultural, religious and even sexual. They are implementing policies that equate large families with same-sex partnerships, belief in God with the belief in Satan.

The excesses of political correctness have reached the point where people are seriously talking about registering political parties whose aim is to promote paedophilia. People in many European countries are embarrassed or afraid to talk about their religious affiliations. Holidays are abolished or even called something different; their essence is hidden away, as is their moral foundation. And people are aggressively trying to export this model all over the world. I am convinced that this opens a direct path to degradation and primitivism, resulting in a profound demographic and moral crisis.

What else but the loss of the ability to self-reproduce could act as the greatest testimony of the moral crisis facing a human society? Today almost all developed nations are no longer able to reproduce themselves, even with the help of migration. Without the values embedded in Christianity and other world religions, without the standards of morality that have taken shape over millennia, people will inevitably lose their human dignity. We consider it natural and right to defend these values. One must respect every minority’s right to be different, but the rights of the majority must not be put into question.

At the same time we see attempts to somehow revive a standardised model of a unipolar world and to blur the institutions of international law and national sovereignty. Such a unipolar, standardised world does not require sovereign states; it requires vassals. In a historical sense this amounts to a rejection of one’s own identity, of the God-given diversity of the world.2

In this speech, Putin demonstrates the influence of geopolitical theorist Alexander Dugin, who is stridently opposed to the homogenized, unipolar world that Western globalist capitalism seeks to impose through financial neo-colonialism. In his Fourth Political Theory he asserts the identities of various civilizations as models for their respective geopolitical blocs in an alignment against the decadence of the modern world.

We know our allies, those who wish to preserve a rooted identity for their own people, and we know our enemies, those who wish to destroy all traditions in favor of a global consumer society. For hundreds of years we have seen our sons been shipped off to die for the profit of those who feel no love for their nation, we have seen our culture warped by greed. Deceived by promises of glory and disingenuous patriotism, we have marched off far too many times to count so that the gold lust of traitors could be satisfied. This is what colonialism has wrought, a global sweatshop where people from all the races of the earth can compete for the lowest wages, while our leaders count their 30 pieces of silver. Now, we must be the vanguard of a global conflict, the rebels in the heart of the empire. We must join our brothers in the fight for global liberation. The North American New Right must be resolutely anti-colonial. For the freedom of our people, and all the peoples of the world.

Notes

1. http://www.eurasia-rivista.org/the-struggle-of-jean-thiriart/13850/ [2]

2. http://eng.kremlin.ru/news/6007 [3]

 

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2015/02/the-necessity-of-anti-colonialism/

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[2] http://www.eurasia-rivista.org/the-struggle-of-jean-thiriart/13850/: http://www.eurasia-rivista.org/the-struggle-of-jean-thiriart/13850/

[3] http://eng.kremlin.ru/news/6007: http://eng.kremlin.ru/news/6007

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vendredi, 13 février 2015

Reagan, Iran and the Descent into Darkness

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Author: Gordon Duff

Reagan, Iran and the Descent into Darkness

The organization isn’t a new one, the basis for the Islamic State come from the Reagan presidency, the banking mechanisms used during Iran Contra when 123 Reagan appointees were convicted of crimes from Treason to Obstruction of Justice. ISIS is also a descendant of Gladio, the “stay behind” terror worldwide terror network controlled by Freemasons responsible for attacks across Europe and Latin America for over 3 decades.

Reagan’s real goal was taking down two enemies, the Soviets and Iran. His personal war on Iran, both economic and military nearly sent him to prison were he not able to prove he was mentally unfit for office while serving as president, as evidence in his testimony at the Iran Contra hearings.

Terror Funding Origins

The financial network used to back the terror organizations, Gladio, Al Qaeda and their current incarnations along with dozens of contrived “national fronts began with the moves against world banking.

In the US it began with the deregulation of “thrifts,” locally owned Savings and Loans quickly bankrupted through fraud, a move led by the Bush family and Senator John McCain but set up by the Reagan Treasury Department. 1.5 trillion US dollars were stolen from these financial organizations with only Charles Keating, close friend of Senator John McCain, and 40 low level operatives to go to prison.

McCain escaped prison and suffered only minor rebukes for his part in the Keating scandals.

Reagan’s domestic agenda rocked America, destroying unions, sent millions of skilled jobs overseas, ran up trillions in debt and destroyed America’s middle class. Reagan’s restructuring of the US economy eliminated over 5 million skilled labor and management jobs and millions of American families were set adrift, living in automobiles, sleeping under bridges and in makeshift “communities” much as during the Great Depression.

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The closing of mental hospitals send nearly 500,000 patients into communities unprepared to deal with the influx. When you combined this population with the burgeoning “crack cocaine” epidemic begun by the Reagan White House operatives and CIA, America had become a festering hell hole.

The response was to begin a massive campaign of building prisons and a restructuring of the legal system with longer sentences for drug offenses and life imprisonment for petty crimes making America the most imprisoned society in the world. Reagan did this.

With cutbacks in aid to education, the typical American home became multi-generational and home ownership was no longer considered the “norm” for an American family.

Many remember iconic issues, one in particular when school lunch programs needed to be cut to finance a tax cut for the wealthiest 1%. Rules were changed to change dietary requirements and condiments such as catsup and mustard were allowed to replace fresh vegetables and salads.

What wasn’t mentioned is that orange juice was replaced by colored water with corn sweetener and carcinogenic food coloring. Food safety became a thing of the past as a massive influx of undocumented workers from Mexico were allowed to enter the US, part of Reagan’s plan to kill labor unions. They took over food processing jobs first, particularly slaughterhouse and meat packing jobs. E.coli outbreaks began sweeping the nation.

More Progress

Dangerous untested pharmaceuticals were released, killing thousands, industrial pollution of water and air was legalized and workplace safety measures were overturned. Reagan was a champion of “big agriculture,” and GMO became a national cause.

Thousands of other examples of government cruelty and corruption were buried beneath the trials and hearings over drug running and fraud.

Defenders of the Reagan government have blinders on and very short memories. Lauding the destruction of the Soviet Union, it was really America that died under Reagan. Paul Craig Roberts, champion of America’s right, speaks glowingly of Reagan.

He cites “liberals” as criticizing Reagan’s divisive policies and “trickle down” economics. I worked for the Carter administration and stayed on when Reagan took office.

The CIA and Organized Crime

time850225_400.jpgA parallel version of the CIA was set up under Lt. Colonel Oliver North and members of the Bush family, and ratlines were created from the cocaine centers of Colombia, through Noriega’s Panama to the secret landing fields in Costa Rica and ending in America’s cities.

An epidemic of crack cocaine, aimed at America’s African-American population, as reported by Gary Webb and Mike Ruppert, financed Reagan initiatives, done in partnership with Israel, key Saudi figures and American organized crime.

Wanted members of the drug cartels bought up luxury condominiums in Miami and openly used CIA safehouses for meetings. CIA personnel were quietly “made aware” that things had changed, that a new administration had come to power and that drug cartels had become the close allies of the administration in Washington. Anyone that objected was threatened or worse.

Drug running was the “go to” solution for any black money shortfall during Reagan’s rule. Increasingly, financial institutions beginning with the breakaway Mormon communities of the South West, all “Red States” today. A “marriage” was consummated, tying these states, Arizona, New Mexico, Colorado, Utah, Nevada and regions of Texas to the drug cartel run regions of Mexico. Over the next 3 decades, county by county, town by town, state by state, drug cartels took control of government operations and financial institutions, eventually controlling several US Senators, state governors, prosecutors, sheriffs and countless judges. Those who failed to play along were killed.

Middle East Policy

Reagan represented an end to efforts to seek justice for the Palestinian people and stability in the Middle East. Reagan’s real focus was on Iraq and their war against Iran, a keystone to his foreign policy.

The Reagan administration’s goal was control of not just narcotics but world oil markets. The aftermath of the 1973 war had shown the power oil pricing had on the world economy. Oil could be used as a tool of war as much as any army and Reagan’s economic advisors pushed for seizure of Iran’s oil field as a lynchpin to that policy. To do that, Iran had to be destroyed. From Wikipedia:

“Starting in 1982 with Iranian success on the battlefield, the United States made its backing of Iraq more pronounced, normalizing relations with the government, supplying it with economic aid, counter-insurgency training, operational intelligence on the battlefield, and weapons.

President Ronald Reagan initiated a strategic opening to Iraq, signing National Security Study Directive (NSSD) 4-82 and selecting Donald Rumsfeld as his emissary to Hussein, whom he visited in December 1983 and March 1984. According to U.S. ambassador Peter W. Galbraith, far from winning the conflict, “the Reagan administration was afraid Iraq might actually lose.”

To think America would go to war to eliminate weapons of mass destruction given to Iraq by the United States is no secret. From the 1970s onward, the partnership between Israel, South Africa and Libya, fostered by the Reagan CIA, would develop and test, in Angola and elsewhere, new biological and chemical weapons later to be used by Saddam against Iran.

The Reagan administration, in order to facilitate the destruction of Iran, made it possible to supply Iraq with anything imaginable.

In 1982, Iraq was removed from a list of State Sponsors of Terrorism to ease the transfer of dual-use technology to that country. According to investigative journalist Alan Friedman, Secretary of State Alexander Haig was “upset at the fact that the decision had been made at the White House, even though the State Department was responsible for the list. I was not consulted,” Haig is said to have complained.

The Intel Partnership

What Wikipedia fails to tell of the 1983 Teicher/Rumsfeld meeting with Aziz in Baghdad is that they were sent there by the Israeli government, not America. Teicher presented a letter from Shamir to Saddam which was refused by Tarik Aziz, Iraq’s Foreign Minister.

Howard Teicher served on the National Security Council as director of Political-Military Affairs. He accompanied Rumsfeld to Baghdad in 1983. According to his 1995 affidavit and separate interviews with former Reagan and Bush administration officials, the Central Intelligence Agency secretly directed armaments and hi-tech components to Iraq through false fronts and friendly third parties such as Jordan, Saudi Arabia, Egypt and Kuwait, and they quietly encouraged rogue arms dealers and other private military companies to do the same:

Wikipedia also fails to mention the “ratline” for not just poison gas but biological agents as well, the German companies represented by Vice President George Herbert Walker Bush’s older brother, Prescott, nominally an “insurance executive,” in reality the largest arms trader in the world, and their role in arming Saddam against Iran.

Donald Rumsfeld meets Saddām on 19–20 December 1983. Rumsfeld visited again on 24 March 1984, the day the UN reported that Iraq had used mustard gas and tabun nerve agent against Iranian troops. The NY Times reported from Baghdad on 29 March 1984, that “American diplomats pronounce themselves satisfied with Iraq and the U.S., and suggest that normal diplomatic ties have been established in all but name.”

Conclusion

Torturing history is perhaps one of the greatest failings of our era. The abuses of wartime propaganda or the ideological struggles of the Cold War now permeate every aspect of our lives, creating a mythological unreality sustained only through considerable effort. It has gone far beyond repeating past mistakes but has become an organic movement of contrived entropy fueled through systematic denialism.

The Reagan era in the United States is cited for a reason. An actor was elected president, someone who played president and in some ways did so better than anyone in the past, with tremendous success, were reality a “play.”

Political theatricality had always been with us. However, it was once assumed that ideology and men of conscience would engage in meaningful conflicts, guns or ideas, but moving, once believed inexorably, toward human advancement. This is a failed hypothesis.

Gordon Duff is a Marine combat veteran of the Vietnam War that has worked on veterans and POW issues for decades and consulted with governments challenged by security issues. He’s a senior editor and chairman of the board of Veterans Today, especially for the online magazine “New Eastern Outlook
First appeared: http://journal-neo.org/2015/02/09/reagan-iran-and-the-descent-into-darkness/

mercredi, 11 février 2015

Filmbespreking: Michiel de Ruyter

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Filmbespreking: Michiel de Ruyter

door
Ex: http://rechtsactueel.com

Het is bepaald geen sinecure om de Nederlandse volkheld Michiel Adriaanszoon de Ruyter waardig te verfilmen, die een groot deel van zijn leven ten dienste van het vaderland de zeeën heeft bevaren. Op allerlei functies binnen de Nederlandse vloot heeft hij zich uitermate verdienstelijk gemaakt. Internationaal bekend is de overwinning bij Kijkduin in 1673, de Engelse en Franse vloot was in aantallen veel te sterk voor de Nederlandse vloot, maar De Ruyter wist de overwinning te behalen en te voorkomen dat de vijandige troepen aan wal gingen en Nederland bezetten.

Een dergelijke man van de daad, doorheen de eeuwen zeer geliefd onder het Nederlandse volk, ja ga dat verhaal maar eens verfilmen…. Toch is het filmregisseur zeker geslaagd, het is een knappe verfilming geworden vol met actie en romantiek en het redelijk vast aanhouden van de historische werkelijkheid. De producent is Klaas de Jong, die eerder verdienstelijk de Scheepsjongens van Bontekoe verfilmde.

De hoofdrol wordt gespeeld door Frank Lammers, die Michiel de Ruyter goed weet te spelen, als gewone Zeeuwse volksjongen die vanwege zijn grote kwaliteiten opklimt binnen de marine, sterk en krachtig, aangevuld met wat Zeeuwse humor. Ook zijn er andere rollen die alleraardigst naar voren komen, zo schittert Barry Atsma als een daadkrachtige en intelligente Johan de Witt en Sanne Langelaar als de vrouw van de Ruyter, als een ijzersterke moeder en liefdevolle vrouw.

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Prins van Oranje Willem III komt er minder van af, die wordt geportretteerd als homofiele slappeling, die wordt gestuurd en gemanipuleerd door Oranjegezinde intriganten. Daarentegen wordt de Republiek opgehemeld en haar verdedigers grote kwaliteiten aangemeten. Wellicht is ook interessant daarbij te vernoemen dat de Republiek vooral ook talloze ontwortelde bureaucraten voortbracht, die zich op behoorlijke schaal gingen verrijken ten koste van de Nederlandse bevolking.

Echter dit doet nauwelijks af van de heerlijke kijk- en luisterbeleving die de film is. Vechtpartijen en romantische scènes wisselen elkaar af onder het genot van ophemelende muziekdeunen. Meerdere malen zien we ook de Ruyter knokken met de bemanning van de Engelse vloot en ook zien we de elite eenheid Korps Mariniers aan de slag op de Theems. Ja, het zijn natuurlijk ook mooie stukken Nederlandse geschiedenis.

Het zeker een film om in het filmhuis te gaan bezoeken, want met de extra effecten en dramatische muziek en de knappe beelden van op de schepen, krijgt men zo meer dan een extra kijkervaring.

lundi, 09 février 2015

Hoe ‘ Laurence of Arabia’ de Islam op de kaart zette

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Saudi-Arabië, of hoe ‘ Laurence of Arabia’ de Islam op de kaart zette

Ex: vrijetribune.nl& http://www.alfredvierling.com

In een recente column zet de Iraanse balling Afshin Elian uiteen waar volgens hem de politieke Islam vandaan komt, namelijk uit Iran. Dit gaat echter volledig heen langs de rol die Saudi-Arabië speelde als voedingsbodem voor de radicale Islam. Het overlijden van ‘koning’ Abdullah van het Huis van Saud is een goede aanleiding om eens in de geschiedenis van deze familie te graven. In Engeland werd er namelijk een opmerkelijke hulde gebracht aan Abdullah door de vlag op Westminister halfstok te hangen. Dat brengt ons bij de oorsprong van het huidige Arabische Koninkrijk, te weten Groot-Britannië.

Vanaf 1888 begon Duitsland aan de bouw van de Berlijn-Baghdad spoorweg, waar we eerder reeds over schreven. Deze strategische spoorweg omzeilde het Suez-kanaal en was een uitgelezen kans voor de Turken om hun greep op het Arabische schiereiland te versterken. De spoorlijn had namelijk ook een tak die naar Mekka en Medina ging, de heiligste plaatsen in de Islamitische wereld. De Britten schaduwden om die reden de bouw van de spoorweg al voor de Eerste Wereldoorlog met een spionage-eenheid dat zich voordeed als een archeologie-team. In dat team zat T.E. Lawrence:

normal_lawrence17.jpgNa het uitbreken van de Eerste Wereldoorlog werd Lawrence, die Arabisch sprak, ingezet bij het organiseren van sabotage-acties tegen de bovengenoemde spoorweg. Het doel was om het Arabische schiereiland los te weken van het Ottomaanse Rijk. Om die reden was ook voorzien in een Arabische opstand. Daarvoor werd de meest agressieve en martiale stam uitgekozen, de Sauds. De Sauds waren aanhangers van het Wahabisme, een back-to-basics vorm van Islam, die zeer sober en orthodox was en beter pastte bij de woestijn dan bij het grootstedelijke leven in het Ottomaanse Rijk.

De Arabische opstand slaagde onder leiding van de homosexuele Lawrence en leidde er toe dat Mekka en Medina in handen kwamen van het Huis van Saud, en wel onder Abdoel Aziz Al-Saud (1876-1953). Hiermee kwamen de meest heilige plaatsen van Islam onder de meest militante vorm van Islam. Na de Eerste Wereldoorlog steunde de Britten Abdoel Aziz verder in de uitbreiding van zijn macht over het Arabische schiereiland. De invloed van Abdoel Aziz reikt tot op de dag van vandaag, want tot op heden werd hij opgevolgd door een directe afstammeling. Fahd, Abdullah en de huidige koning Salman zijn zijn zonen.

In 1932 erkende Groot-Britannië het koninkrijk Saudi-Arabië, dat een absolute monarchie was op basis van de Wahabisme en met het prestige van ‘beschermer van de heilige plaatsen’. De vlag liet niets aan de verbeelding over: het was groen, de kleur van de Islam, en bevatte de Islamitische geloofsbelijdenis. Op dat ogenblik was de Islam helemaal geen politieke kracht van betekenis. De Arabische wereld keek naar het machtige Europa en zag het seculiere nationalisme als het middel om het koloniale juk van zich af te werpen. Dit nationalisme vatte post onder Arabische officieren in Egypte, Syrië en Irak, zoals het Turkse nationalisme ook als eerst aansloeg binnen de Turkse strijdkrachten. Islam werd zowel in het Arabische en Turkse nationalisme gezien als een obstakel voor sociale en economische ontwikkeling.

In 1938 gebeurde er iets wat het Saudi-Arabische koninkrijk volledig transformeerde van een economische, sociale en politieke zandbak tot een fabelachtig rijke regionale macht – de vondst van olie. Saudi-Arabië kreeg zodoende de middelen om haar model te exporteren: de wahabitische Islam. Tot de jaren 1970 had het Arabische nationalisme echter de wind in de zeilen. De Saudi’s slaagden er echter in de gunst te verwerven van een nieuwe wereldmacht, de Verenigde Staten.

De Verenigde Staten namen het koninkrijk onder hun hoede vanwege de olie-belangen (Aramco – Arabian American Oil Company). Door deze samenwerking slaagden de Amerikanen er in de petro-dollar te lanceren. In ruil voor bescherming steunde Saudi-Arabië het Amerikaanse plan om alle olie-transacties te verrichten in US Dollars. Saudi-Arabië werd zodoende belangrijker dan het ooit zou zijn geweest zonder olie en de bescherming van Amerika.

Saudi-Arabië slaagde er met de hulp van Amerika in de afgelopen decennia de machtige seculiere Arabische republieken een voor een uit te schakelen. In 1991 werd Irak aangevallen omdat Saudi-Arabië zich bedreigd voelde door de Iraakse invasie van Koeweit. Later volgde de definitieve afrekening met Saddam in 2003, Libië in 2011 en Syrië in 2012. Dit ging ten koste van het Arabische nationalisme en ten gunste van de radicale Islam, die met geld vanuit Saudi-Arabië werd gesteund, ook in West-Europa.

Het is niet Iran die tientallen miljoenen stopt in de bouw van moskeeën en koranscholen in het buiteland. Iran is niet ook het land dat duizenden jihadisten uitspuwt die overal ter wereld dood en verderf zaaien. Saudi-Arabië is het epi-centrum van een radicale vorm van Islam die aanvankelijk gedoemd was in de woestijn te verblijven maar als politieke kracht tot leven werd gewekt door Groot-Britannië en vervolgens de Verenigde Staten.

samedi, 07 février 2015

Philippe Conrad: Reconquista

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Quand l’armée de Wrangel a dû abandonner la Crimée en 1920

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Erich Körner-Lakatos :

Quand l’armée de Wrangel a dû abandonner la Crimée en 1920

Automne 1920 : la fin de la guerre civile russe approche. Si nous faisons abstraction des poches de résistance blanche dans la région de l’Amour et autour de Vladivostok, il n’y a plus, à l’Ouest, qu’une seule grande région qui soit encore aux mains des forces fidèles au Tsar : la Crimée. Le Général Piotr Nikolaïevitch Wrangel y détient le commandement : il est l’as de cœur des optimistes qui croient encore à une victoire contre le bolchevisme. Wrangel est issu d’une ancienne famille noble allemande de la Baltique et c’est pourquoi, nous pouvons le dire, un cycle se clôt : dans le processus d’émergence politique de la Russie, jadis, les Varègues scandinaves avaient tenu le rôle de premier plan ; à la fin du cycle, un général issu de la noblesse germanique de la Baltique.

Au début du moi d’avril 1920, Wrangel, né en 1878, reprend le commandement des troupes tsaristes que détenait avant lui le Général Anton Denikine, qui démissionne après avoir subi plusieurs défaites face à l’Armée Rouge de Trotski. Mais à l’impossible nul n’est tenu : Wrangel, général très compétent, ne réussira pas à redresser la barre. Après un échec devant Cherson, la Crimée devient le dernier refuge des Blancs. Wrangel ordonne une réforme agraire, afin que la presqu’île devienne une sorte de Piémont russe, une région-modèle pour les paysans qui croupissent déjà sous la cruelle férule des communistes et qui, d’ailleurs, finiront par se révolter.

Mais la dure réalité dans cette Crimée assiégée par les Rouges est bien différente. Semion Boudyonny, à la tête de la cavalerie rouge, avance trop rapidement : le 14 novembre, Eupatoria tombe sur la côte occidentale, et Yalta, le même jour, sur la côte orientale.

Le flot ininterrompu de l’Armée rouge se déverse de deux côtés sur le port de Sébastopol, où les chefs blancs et d’innombrables réfugiés se regroupent autour de Wrangel. Le 14 novembre, 125 bateaux amènent 15.000 soldats et dix fois plus de civils en sûreté, en voguant vers Constantinople. Wrangel et sa famille sont les derniers, au soir de ce 14 novembre, à quitter Sébastopol à bord d’un navire de guerre français, le « Waldeck-Rousseau ». Le Général avait pris un risque car les matelots français, tourneboulés par la propagande communiste, s’étaient mutinés un an plus tôt et le gouvernement de Paris avait eu toutes les difficultés à mater cette révolte.

Les derniers Russes fidèles au Tsar ont eu plus de chance que les derniers combattants rouges de la guerre civile espagnole, moins de vingt ans plus tard. Ceux-ci se pressaient le 30 mars 1939 dans le port d’Alicante, tandis que les troupes nationalistes, victorieuses, s’apprêtaient à entrer dans la ville. Soudain, les vaincus rouges voient un navire pointer à l’horizon. La masse crie sa joie. Enfin, ils sont sauvés. Mais ce n’est pas une armada franco-anglaise qui arrive à leur secours. Il n’y a finalement qu’un seul navire et il n’évacue que quelques privilégiés. Tous les autres restent sur les quais.

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Wrangel et ses soldats sont internés dans des camps de réfugiés sur la presqu’île de Gallipoli et sur l’île de Lemnos. Les civils restent dans un premier temps à Constantinople où sont alors stationnées des garnisons de l’Entente (Anglais, Français, Grecs). Ce qu’il reste de la flotte tsariste de la Mer Noire (dont un seul navire de ligne) fait route vers la Tunisie, vers le porte de Bizerte, où elle jette l’ancre. L’armée de Wrangel est dissoute le 30 mai 1921. Beaucoup accompagne le « grand baron blanc » en exil en Yougoslavie, où les Russes sont chaleureusement accueillis car, il ne faut pas l’oublier, la dynastie des Karageorgevitch devait à l’Empire des Tsars que le cri lancé à Vienne « Serbien muss sterbien » en 1914, après l’attentat de Sarajevo, n’ait pas été suivi d’effets.

La vengeance de Staline ne poursuivra pas seulement ses anciens compagnons de combat comme Trotski mais aussi ses ennemis de la guerre civile. Le 25 avril 1928 Piotr Wrangel s’éteint à Bruxelles : il était le dernier espoir de la Russie chrétienne-orthodoxe. D’après sa famille, il aurait été empoisonné par le frère de son majordome, un espion soviétique.

Erich Körner-Lakatos.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°3/2015, http://www.zurzeit.at ).

Quand l’armée de Wrangel a dû abandonner la Crimée en 1920

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Erich Körner-Lakatos :

Quand l’armée de Wrangel a dû abandonner la Crimée en 1920

Automne 1920 : la fin de la guerre civile russe approche. Si nous faisons abstraction des poches de résistance blanche dans la région de l’Amour et autour de Vladivostok, il n’y a plus, à l’Ouest, qu’une seule grande région qui soit encore aux mains des forces fidèles au Tsar : la Crimée. Le Général Piotr Nikolaïevitch Wrangel y détient le commandement : il est l’as de cœur des optimistes qui croient encore à une victoire contre le bolchevisme. Wrangel est issu d’une ancienne famille noble allemande de la Baltique et c’est pourquoi, nous pouvons le dire, un cycle se clôt : dans le processus d’émergence politique de la Russie, jadis, les Varègues scandinaves avaient tenu le rôle de premier plan ; à la fin du cycle, un général issu de la noblesse germanique de la Baltique.

Au début du moi d’avril 1920, Wrangel, né en 1878, reprend le commandement des troupes tsaristes que détenait avant lui le Général Anton Denikine, qui démissionne après avoir subi plusieurs défaites face à l’Armée Rouge de Trotski. Mais à l’impossible nul n’est tenu : Wrangel, général très compétent, ne réussira pas à redresser la barre. Après un échec devant Cherson, la Crimée devient le dernier refuge des Blancs. Wrangel ordonne une réforme agraire, afin que la presqu’île devienne une sorte de Piémont russe, une région-modèle pour les paysans qui croupissent déjà sous la cruelle férule des communistes et qui, d’ailleurs, finiront par se révolter.

Mais la dure réalité dans cette Crimée assiégée par les Rouges est bien différente. Semion Boudyonny, à la tête de la cavalerie rouge, avance trop rapidement : le 14 novembre, Eupatoria tombe sur la côte occidentale, et Yalta, le même jour, sur la côte orientale.

Le flot ininterrompu de l’Armée rouge se déverse de deux côtés sur le port de Sébastopol, où les chefs blancs et d’innombrables réfugiés se regroupent autour de Wrangel. Le 14 novembre, 125 bateaux amènent 15.000 soldats et dix fois plus de civils en sûreté, en voguant vers Constantinople. Wrangel et sa famille sont les derniers, au soir de ce 14 novembre, à quitter Sébastopol à bord d’un navire de guerre français, le « Waldeck-Rousseau ». Le Général avait pris un risque car les matelots français, tourneboulés par la propagande communiste, s’étaient mutinés un an plus tôt et le gouvernement de Paris avait eu toutes les difficultés à mater cette révolte.

Les derniers Russes fidèles au Tsar ont eu plus de chance que les derniers combattants rouges de la guerre civile espagnole, moins de vingt ans plus tard. Ceux-ci se pressaient le 30 mars 1939 dans le port d’Alicante, tandis que les troupes nationalistes, victorieuses, s’apprêtaient à entrer dans la ville. Soudain, les vaincus rouges voient un navire pointer à l’horizon. La masse crie sa joie. Enfin, ils sont sauvés. Mais ce n’est pas une armada franco-anglaise qui arrive à leur secours. Il n’y a finalement qu’un seul navire et il n’évacue que quelques privilégiés. Tous les autres restent sur les quais.

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Wrangel et ses soldats sont internés dans des camps de réfugiés sur la presqu’île de Gallipoli et sur l’île de Lemnos. Les civils restent dans un premier temps à Constantinople où sont alors stationnées des garnisons de l’Entente (Anglais, Français, Grecs). Ce qu’il reste de la flotte tsariste de la Mer Noire (dont un seul navire de ligne) fait route vers la Tunisie, vers le porte de Bizerte, où elle jette l’ancre. L’armée de Wrangel est dissoute le 30 mai 1921. Beaucoup accompagne le « grand baron blanc » en exil en Yougoslavie, où les Russes sont chaleureusement accueillis car, il ne faut pas l’oublier, la dynastie des Karageorgevitch devait à l’Empire des Tsars que le cri lancé à Vienne « Serbien muss sterbien » en 1914, après l’attentat de Sarajevo, n’ait pas été suivi d’effets.

La vengeance de Staline ne poursuivra pas seulement ses anciens compagnons de combat comme Trotski mais aussi ses ennemis de la guerre civile. Le 25 avril 1928 Piotr Wrangel s’éteint à Bruxelles : il était le dernier espoir de la Russie chrétienne-orthodoxe. D’après sa famille, il aurait été empoisonné par le frère de son majordome, un espion soviétique.

Erich Körner-Lakatos.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°3/2015, http://www.zurzeit.at ).

jeudi, 05 février 2015

Charles Martel et les « Sarrasins » : Lorànt Deutsch répond aux universitaires du Front de Gauche

Charles Martel et les « Sarrasins » : Lorànt Deutsch répond aux universitaires du Front de Gauche

Invité jeudi 3 octobre de l’émission « C à vous » sur France 5, Lorànt Deutsch a répondu aux critiques formulées par quelques historiens et des membres du Front de gauche qui tentent depuis quelques jours de discréditer son nouveau livre Hexagone : Sur les routes de l’Histoire de France (tiré à 220 000 exemplaires) et l’héroïsation qu’il fait de Charles Martel et de la bataille de Poitiers, en 732, au cours de laquelle les « Sarrasins » ont été repoussés.

 

« Je n’ai rien inventé, se défend Lorànt Deutsch. Je me suis basé sur des auteurs, des historiens très qualifiés, (…) je vous conseille la biographie de Charles Martel, de Jean Deviosse. »

L’acteur féru d’histoire, accusé par ses détracteurs de glorifier une référence des groupes identitaires et de l’extrême droite, dénonce des « gens encartés », notamment Alexis Corbière, secrétaire national du Parti de gauche de Jean-Luc Mélenchon, élu du Conseil de Paris :

« Il y a 500 pages et ils ne retiennent qu’une page sur la bataille de Poitiers. (…) Il ne faut jamais juger l’histoire avec les yeux du 21e siècle. Leur problème, c’est qu’ils quittent le champ sémantique de l’histoire pour faire de la politique. Je n’ai rien à leur répondre. »

Sources : France 5 / Le Journal du Siècle

mercredi, 04 février 2015

Trotskisme yankee et invention du néo-conservatisme

Trotskisme yankee et invention du néo-conservatisme

Auteur : Denis Boneau
Ex: http://zejournal.mobi

Qui sont les « néoconservateurs » américains et occidentaux ? Historique du mouvement issu du trotskisme en gardant présent à l’esprit que Trotski, tout comme Lénine, était un agent de Wall Street et de la City de Londres. Voir à ce sujet notre dossier sur « Wall Street et la révolution bolchévique » de l’historien Antony Sutton. Ceci nous éclaire sur le pourquoi capitalisme et capitalisme d’état (marxisme et ses variantes léniniste, trotskiste, staliniste, puis plus tard maoïste…) sont les deux côtés de la même pièce capitaliste, pilotés par les mêmes intérêts convergents de la haute finance et de l’industrie transnationale. Le mouvement trotskiste néoconservateur n’en est qu’un des avatars supplémentaire…

En France, Jospin et Cambadélis (entre autres) issus du mouvement « lambertiste », en sont les représentants de longue date…

hook1.jpgÀ partir de 1945, les services de propagande états-uniens et britanniques recrutent des intellectuels souvent issus des milieux trotskistes afin d’inventer et promouvoir une « idéologie rivalisant avec le communisme ». Les New York Intellectuals, Sidney Hook (photo) en tête, accomplissent différentes missions confiées par la CIA avec zèle et efficacité, devenant rapidement des agents de premier plan de la Guerre froide culturelle. Des théoriciens majeurs de ce mouvement, comme James Burnham et Irving Kristol, ont élaboré la rhétorique néo-conservatrice sur laquelle s’appuient aujourd’hui les faucons de Washington.

En 1945, les stratèges soviétiques veulent obtenir la reconnaissance des démocraties populaires de l’Europe de l’Est. Ils lancent, en s’appuyant sur les services secrets, une campagne internationale pour la paix. Leur objectif est de conserver le contrôle du « glacis défensif » en évitant une série de conflits armés avec la coalition anglo-saxonne. En Grande-Bretagne, les gouvernements, notamment celui de Clement Attlee, cherchent à rompre avec la propagande de guerre qui a justifié de 1942 à 1945 l’alliance avec Moscou. Dans ce contexte, en février 1948, Attlee crée, au sein du Foreign Office, le Département de recherche de renseignements (IRD), véritable « ministère de la Guerre froide » alimenté par les fonds secrets et chargé de produire de fausses informations pour discréditer les communistes. Aux États-Unis, la situation est plus favorable. Les procès de Moscou, l’exil de Trotski, ancien bras droit de Lénine, et le pacte germano-soviétique ont considérablement nui au Parti communiste. Dans ce contexte, les marxistes rejoignent massivement l’aile trotskiste de la gauche radicale dont une fraction pactisera avec la CIA, trahissant la IVe Internationale. Après une série d’échecs désastreux, les services soviétiques renoncent à toute influence idéologique aux États-Unis et privilégient les pays d’Europe de l’Ouest, spécialement la France et l’Italie.

Les services secrets britanniques et états-uniens cherchent à fabriquer une pensée assez crédible et universelle pour rivaliser avec le marxisme-léninisme. Dans ce contexte, les New York Intellectuals – Sidney Hook, James Burnham, Irving Kristol, Daniel Bell…- vont constituer des combattants culturels particulièrement efficaces.

Les premiers « coups tordus »

Les New York Intellectuals n’ont pas besoin d’infliltrer les milieux communistes : ils s’y trouvent déjà et s’y définissent comme militants trotskistes. La CIA, en recrutant des hommes comme le philosophe marxiste Sidney Hook, collecte des renseignements utiles sur la gauche radicale états-unienne et tente de saboter les réunions internationales parrainées par Moscou.

towund.jpgEn mars 1949, à New York, se tient une « conférence scientifique et culturelle pour la paix mondiale », à l’hôtel Waldorf Astoria. Des délégations de militants communistes s’y pressent ; la réunion est secrètement supervisée par le Kominform. Mais l’hôtel est sous contrôle de la CIA, qui y a installé un quartier général secret au dixième étage. Sidney Hook, qui joue le communiste repenti, reçoit à part des journalistes auxquels il explique « sa » stratégie contre « les staliniens » : intercepter le courrier du Waldorf et diffuser de faux communiqués. Profitant de la « position de cheval de Troie » de Sidney Hook, la CIA mène une campagne d’intoxication médiatique allant jusqu’à divulguer publiquement l’appartenance politique de certains participants préfigurant ainsi la « chasse aux sorcière » du sénateur McCarthy. Avec zèle et brio, Hook mène son équipe d’agitateurs, de délateurs et de manipulateurs, rédigeant des tracts et semant le désordre lors des tables rondes… Simultanément, à l’extérieur de l’hôtel Waldorf, des dizaines de militants d’extrême-droite défilent pancarte à la main pour dénoncer l’ingérence du Kominform. L’opération est un succès total, la conférence tourne au fiasco. ?Tirant les leçons du « coup du Waldorf », la CIA états-unienne et l’IRD britannique systématisent l’enrôlement de trotskistes dans la lutte secrète contre Moscou, au point d’en faire une constante de la « guerre psychologique » qu’ils livrent à l’URSS.

Sidney Hook, chef de file des New York Intellectuals

Né dans un quartier pauvre de Brooklyn en 1902, Sidney Hook entre en 1923 à l’université de Colombia où il rencontre John Dewey, son premier maître à penser. Après son doctorat, il obtient une bourse de la fondation Guggenheim qui lui permet d’étudier en Allemagne et de visiter Moscou. Comme tant d’autres intellectuels de l’époque, il est fasciné par Staline et le régime soviétique. À son retour aux États-Unis, il débute sa carrière à l’université de New York au département de Philosophie. Il ne quittera son poste qu’en 1972 pour s’installer à Stanford au terme d’une évolution intellectuelle qui l’aura conduit du communisme au néoconservatisme. À la fin de la Première Guerre mondiale, après s’être marié avec une militante communiste, Hook s’inscrit dans un syndicat d’enseignants proche du Parti. Il travaille à une traduction de Lénine et publie un livre remarqué, Towards the understanding of Karl Marx. Intellectuel typique de la gauche radicale, il participe aux manifestations contre l’exécution des anarchistes Sacco et Vanzetti.

Au début des années 30, Hook rompt avec les communistes et se rallie au clan des trotskistes réunis au sein de l’American Workers Party, fondé en 1938. Il organise la « Commission d’enquête sur la vérité dans les procès de Moscou » qui a pour but d’innocenter Trotski écarté du pouvoir par Staline.

À partir de 1938, il abandonne définitivement l’idéal révolutionnaire. En 1939, il fonde le Committee for cultural freedom, une organisation antistalinienne qui constituera, après la guerre, l’une des bases du Congress for cultural freedom. Plus qu’une rupture, cette « trahison » – Hook surveille ses anciens amis pour le compte de la CIA – constitue pour lui une opportunité politique et financière attractive. Lorsque Hook évoque les raisons de sa conversion, il désigne des « staliniens » comme Brecht qui, au cours d’une discussion à New York en 1935 aurait plaisanté à propos de l’arrestation de Zinoviev et Kamenev : « Ceux-là, plus ils sont innocents, plus ils méritent d’être fusillés ». Une dénonciation qui en dit long sur les méthodes de Hook qui n’hésitait pas à citer des propos critiques en les retirant de leur contexte pour les rendre odieux.

Dans cette logique de délation, l’initiative du sénateur du Wisconsin, McCarthy, est soutenue discrètement par Hook qui publie deux articles, « Heresy, yes ! Conspiracy, no ! » (Hérésie, oui ! Conspiration, non !) et « The dangers of cultural vigilantism » (Les dangers de la vigilance culturelle) dans lesquels, prétendant critiquer McCarthy, il encourage à espionner et dénoncer les fonctionnaires, intellectuels et politiques proches des communistes. Hook a toujours prétendu par la suite qu’il n’avait jamais soutenu le sénateur du Wisconsin, ce que récuse la philosophe Hannah Arendt, pourtant alliée naturelle de Hook. Dans « Heresy, yes ! », il décrit la postures idéologique des « libéraux réalistes » et la notion de « culpabilité par fréquentation ». Il en déduit que l’État doit mener la « chasse aux sorcières » en gardant l’apparence d’un régime libéral. Pour cela, l’administration, plutôt que de criminaliser les fonctionnaires communistes, doit pouvoir amener les individus suspects à démissionner. Concernant les enseignants, Hook note qu’un professeur communiste « pratique une véritable fraude professionnelle ». Au finale, Hook considère que la « chasse aux sorcières » constitue une erreur politique, non pas en raison de la nature fasciste de cette campagne de délation, mais plutôt parce que l’initiative de McCarthy, trop peu discrète, contribue à mettre en équivalence la violence soviétique et états-unienne. Dans « The dangers of vigilantism », il préconise d’autres moyens, plus secrets, afin de chasser les communistes : il s’agit par exemple de confier la charge des enquêtes de loyauté aux instances professionnelles.

Effectivement Sidney Hook préfère les actions discrètes. Son implication dans plusieurs opérations de la Guerre froide culturelle, dont le Congrès pour la liberté de la culture, met en évidence sa conception de la démocratie, conçue comme une façade nécessaire du bloc atlantiste mené par les États-Unis. En 1972, il quitte New York et devient jusqu’à sa mort l’un des principaux théoriciens conservateurs rassemblés au sein de la Hoover Institution. En fréquentant les cercles de la diplomatie secrète, Sidney Hook devient un conservateur respecté par les gouvernants. En 1985, Ronald Reagan lui remet la plus haute distinction civile états-unienne, la Medal of Freedom après avoir décoré, le même jour Frank Sinatra et Jimmy Stewart. Il meurt en 1989. Sa femme reçoit les condoléances du Président Bush : « Pendant toute sa vie, il fut un défenseur sans peur de la Liberté (…) Alors qu’il affirmait souvent qu’il n’existe rien d’absolu dans la vie, l’ironie voulut qu’il prouve lui-même le contraire car s’il y eut un absolu, ce fut Sidney Hook toujours prêt à combattre courageusement pour l’honnêteté intellectuelle et la vérité ».

Convertir les trotskistes

La « trahison » de Sidney Hook qui a rendu possible la réussite de la campagne d’intoxication du Waldorf est le point de départ d’un mouvement de conversion d’une fraction de l’aile trotsksite. La CIA et l’IRD font confiance aux marxistes repentis pour mener à bien une opération de grande envergure : la fabrication d’une « idéologie rivalisant avec le communisme », selon l’expression de Ralph Murray, premier chef de l’IRD, dont le Congrès pour la liberté de la culture sera le principal instrument de promotion.

PartisanRev-1991q4.jpgLa tactique de la CIA et l’IRD consiste donc, dans un premier temps, à « retourner » des militants trotskistes et à s’assurer de leur obéissance. Pour cela, les services investissent une partie des fonds secrets dont ils disposent afin de « sauver » des revues radicales de la faillite totale. Ainsi la Partisan Review, fief des New York Intellectuals, ancienne tribune communiste orthodoxe, puis trotskiste, reçoit plusieurs dons. En 1952, le chef de l’Empire Time-Life, Henry Luce, verse grâce à Daniel Bell 10 000 dollars pour que la revue ne disparaisse pas. La même année, Partisan Review organise un symposium dont le thème général peut être résumé ainsi : « l’Amérique est maintenant devenue la protectrice de la civilisation occidentale ». Dès 1953, alors que les New York Intellectuals dominent le Congrès pour la liberté de la culture, Partisan Review reçoit une subvention issue du « compte du festival » du Comité américain pour la liberté de la culture, alimenté par la fondation Farfield… avec des fonds de la CIA. De la même manière, New leader animé par Sol Levitas est « sauvé » après l’intervention financière de Thomas Braden… avec l’argent de la CIA. On comprend mieux comment l’agence est parvenue à fidéliser certains groupes de la gauche radicale.

En plus du « sauvetage » de Partisan Review, la CIA collabore avec les services britanniques afin de créer une revue anticommuniste. Il recrute ainsi Irving Kristol, le directeur exécutif du Comité américain pour la liberté de la culture. Kristol est entré en 1936 à City College où il rencontre deux futurs camarades de la guerre froide, Daniel Bell et Melvin Lasky. Trotskiste antistalinien, il travaille pour la revue Enquiry. Après la guerre, recruté par les services états-uniens il retourne à New York pour diriger la revue juive Commentary. Directement financé par les crédits Farfield (CIA), il est chargé d’inventer Encounter sous la surveillance de Josselson. Le « magazine X », qu’il dirige avec le naïf Stephen Spender sera le fer de lance de l’idéologie néoconservatrice états-unienne.

La lutte contre le communisme au Congrès pour la liberté de la culture

Les New York Intellectuals et autres communistes repentis sont logiquement contactés par Josselson (placé sous les ordres de Lawrence de Neufville) qui, pour le compte de la CIA, est chargé de créer le Congrès pour la liberté de la culture. L’objectif est alors d’organiser en Europe de l’Ouest la « guerre psychologique », selon l’expression d’Arthur Koestler, contre Moscou.

Arthur Koestler, né en 1905 à Budapest, a été un militant communiste actif pendant plusieurs années. En 1932, il visite l’Union soviétique. L’Internationale finance l’un de ses livres. Après avoir dénoncé à la police secrète sa petite amie russe, il quitte Moscou et rejoint Paris. Pendant la guerre, il est arrêté et déporté en tant que prisonnier politique. La guerre terminée, Koestler écrit Le Zéro et l’infini, un livre dans lequel il retrace son parcours et dénonce les crimes du stalinisme. La rencontre des New York Intellectuals, par l’intermédiaire de James Burnham, lui permet de fréquenter les milieux où se décident les opérations culturelles secrètes. À la suite de nombreux entretiens avec des agents de la CIA, il supervise l’écriture d’un ouvrage collectif, une commande directe des services. Le Dieu des ténèbres (André Gide, Stephen Spender…) constitue une sévère condamnation du régime soviétique. Arthur Koestler est ensuite employé dans le cadre de la mise en place du Congrès pour la liberté de la culture.

Koestler écrit le Manifeste des hommes libres à la suite de la réunion du Kongress für Kulturelle freiheit de Berlin organisé en 1950 par son ami Melvin Lasky. Pour lui, « la liberté a pris l’offensive ». James Burnham est largement responsable du recrutement de Koestler qui va vite devenir, en raison de son enthousiasme, trop gênant aux yeux des conspirateurs du Congrès.

Le parrain de Koestler, James Burnham, est né en 1905 à Chicago. Professeur à l’université de New York, il collabore à diverses revues radicales et participe à la construction du Socialist Workers Party. Quelques années plus tard, il organisera la scission du groupe trotskiste. En 1941, il publie The Managerial Revolution, futur manifeste du Congrès pour la liberté de la culture, traduit en France en 1947 sous le titre de L’Ère des organisateurs. La conversion de Burnham est particulièrement spectaculaire. En quelques années, après avoir rencontré le chef des réseaux stay-behind, Franck Wisner et son assistant Carmel Offie, il devient un ardent défenseur des États-Unis, selon lui unique rempart face à la barbarie communiste. Il déclare : « Je suis contre les bombes actuellement entreposées en Sibérie ou au Caucase et qui sont destinées à la destruction de Paris, Londres, Rome, (…) et de la civilisation occidentale en général (…) mais je suis pour les bombes entreposées à Los Alamos (…) et qui depuis cinq ans sont la défense – l’unique défense – des libertés de l’Europe occidentale ». Parfaitement conscient de la fonction du réseau stay-behind, Burnham, ami intime de Raymond Aron, passe du trotskisme à la droite conservatrice devenant l’un des intermédiaire principaux entre les intellectuels du Congrès et la CIA. En 1950, lorsque le turbulent Melvin Lasky reçoit des fonds détournés du Plan Marshall, Burnham, Hook et Koestler sont vraisemblablement mis dans la confidence. Burnham va pouvoir, grâce au Congrès pour la liberté de la culture diffuser dans toute l’Europe de l’Ouest son livre The Managerial Revolution.

« Une idéologie rivalisant avec le communisme »

Raymond Aron est le principal artisan de l’importation en France des thèses des New York Intellectuals. En 1947, il sollicite les éditions Calmann-Lévy afin de afin de faire publier la traduction de The Managerial Revolution. Au même moment, Burnham défend aux États-Unis son nouveau livre Struggle for the World (Pour une domination mondiale). L’Ère des organisateurs est immédiatement interprété (à juste titre), notamment par le professeur Georges Gurvitch, comme une apologie de la « technocratie ».

Cherchant à disqualifier l’analyse en termes de luttes de classe, Burnham déclare que les directeurs sont les nouveaux maîtres de l’économie mondiale. Selon l’auteur, l’Union soviétique, loin d’avoir réalisé le socialisme, est un régime dominé par une nouvelle classe constituée de « techniciens » (dictature bureaucratique). En Europe de l’Ouest et aux États-Unis, les directeurs ont pris le pouvoir au détriment des parlements et du patronat traditionnel. Ainsi, l’ère directoriale signifie un double échec, celui du communisme et du capitalisme. La principale cible de Burnham est évidemment l’analyse marxiste-léniniste dont le principe, la dialectique historique, annonce l’avènement d’une société communiste mondiale. En fait, « le socialisme ne succédera pas au capitalisme » ; les moyens de production, partiellement étatisés, seront confiés à une classe de directeurs, seul groupe capable de diriger, en raison de leur compétence technique, l’État contemporain.

Léon Blum a bien compris la dimension fondamentalement anti-marxiste des thèses technocratiques de James Burnham. Après la guerre, en tant qu’allié de Washington, l’ancien homme fort du Front populaire doit pourtant préfacer la traduction française, non sans une certaine gêne : « Si je n’étais sûr de la sympathie des uns et de l’amitié des autres, j’aurais vu dans cette demande comme une trace de malice (…) on imagine guère d’ouvrage qui, sur la pensée d’un lecteur socialiste, puisse exercer un choc plus inattendu et plus troublant ». Avec un parrain comme Raymond Aron et un préfacier comme Léon Blum, L’Ère des organisateurs connaît un succès considérable.

Proche de Sidney Hook avec qui il soutient la « chasse aux sorcières », Daniel Bell publie en 1960 La Fin des idéologies, un recueil d’articles publiés dans Commentary, Partisan Review, New Leader et de communications du Congrès pour la liberté de la culture. La traduction française est préfacée par Raymond Boudon, qui durant toute sa vie a combattu les théories de l’école française de sociologie incarnée par Émile Durkheim et Pierre Bourdieu dans le but d’imposer une conception américanisée des sciences sociales. La Fin des idéologies, comme son nom l’indique, reprend la thèse favorite des New York Intellectuals, à savoir l’extinction du communisme comme idéal. Daniel Bell, membre actif du Congrès pour la liberté de la culture qui contribue à diffuser son livre, annonce aussi l’émergence de nouveaux conflits idéologiques : « La Fin des idéologies fait le pronostic de la désintégration du marxisme comme foi, mais ne dit pas que toute idéologie va vers sa fin. J’y remarque plutôt que les intellectuels sont souvent avides d’idéologies et que de nouveaux mouvements sociaux ne manqueront pas d’en engendrer de nouvelles, qu’il s’agisse du panarabisme, de l’affirmation d’une couleur ou du nationalisme »

De l’anticommunisme au néo-conservatisme

Les New York Intellectuals, engagés dans de multiples opérations d’infiltration, ne revèlent leur véritable appartenance idéologique que tardivement rejoignant massivement les rangs des néoconservateurs dont les principaux bastions sont déjà tenus par des marxistes repentis. Irving Kristol, qui entretient des rapports conflictuels avec Josselson, dirige de 1947 à 1952 Commentary. Une autre figure majeure du néoconservatisme, Norman Podhoretz, sera ensuite placée à la tête de la revue quasi-officielle du Congrès pour la liberté de la culture de 1960 à 1995. En France, Raymond Aron crée Commentaire en 1978. Le fils d’Irving Kristol, William, est le directeur du très néoconservateur Weekly Standard.

William Kristol

Contrairement à une thése répandue, il n’y a pas eu d’infiltration trotskiste dans la droite états-unienne, mais une récupération par celle-ci d’éléments trotskistes, d’abord dans une alliance objective contre le stalinisme, puis pour employer leurs capacités dialectiques au service de l’impérialisme pseudo-libéral. Burnham et Shatchman quittent le Socialist Workers Party et la IVe Internationale en 1940 pour fonder un parti scisionniste. Max Shatchman prône bientôt l’entrisme dans le Parti démocrate. Il rejoint le faucon démocrate Henry « Scoop » Jackson, surnommé le « sénateur Boeing » en raison de son soutien acharné au complexe militaro-industriel. Il réorganise son parti comme une tendance au sein du Parti démocrate sous l’appellation Parti des sociaux démocrates états-uniens (SD/USA). Au cours des années 70, le sénateur Jackson s’entoure de brillants assistants tels que Paul Wolfowitz, Doug Feith, Richard Perle, Elliot Abrams. En conservant le plus longtemps possible son discours d’extrême gauche, Max Shatchman fait de SD/USA une officine de la CIA apte à discréditer les formations d’extrême gauche, tandis qu’il devient l’un des principaux conseillers de l’organisation syndicale anticommuniste AFL-CIO. On trouve au bureau politique de SD/USA des personnalités comme Jeanne Kirkpatrick qui deviendront des icônes de l’ère Reagan. Dans une complète confusion des genres, le théoricien d’extrême droite Paul Wolfowitz intervient comme orateur aux congrès du parti d’extrême gauche. Carl Gershamn devient président de SD/USA, il est aujourd’hui directeur exécutif de la National Endowment for Democracy. D’une manière générale les membres de ce parti, dont les principaux relais sont la revue Commentary et le Committee for the Free World, sont récompensés pour leurs manipulations dès l’élection de Ronald Reagan.

Les New York Intellectuals n’ont pas seulement développé une critique de gauche du communisme, ils ont aussi inventé un habillage « de gauche » aux idées d’extrême droite dont la maturation finale est le néoconservatisme. Ainsi, les Kristol et leurs amis peuvent-ils présenter avec aplomb George W. Bush comme un « idéaliste » qui s’emploie à « démocratiser » le monde.


- Source : Denis Boneau

Exporting Sherman’s March

Sherman-2.jpg

Sherman statue anchors one southern corner of Central Park (with Columbus on a stick anchoring the other):
 
Exporting Sherman’s March

By

DavidSwanson.org

& http://www.lewrockwell.com

shermans_ghosts.jpgMatthew Carr’s new book, Sherman’s Ghosts: Soldiers, Civilians, and the American Way of War, is presented as “an antimilitarist military history” — that is, half of it is a history of General William Tecumseh Sherman’s conduct during the U.S. Civil War, and half of it is an attempt to trace echoes of Sherman through major U.S. wars up to the present, but without any romance or glorification of murder or any infatuation with technology or tactics. Just as histories of slavery are written nowadays without any particular love for slavery, histories of war ought to be written, like this one, from a perspective that has outgrown it, even if U.S. public policy is not conducted from that perspective yet.

What strikes me most about this history relies on a fact that goes unmentioned: the former South today provides the strongest popular support for U.S. wars. The South has long wanted and still wants done to foreign lands what was — in a much lesser degree — done to it by General Sherman.

What disturbs me most about the way this history is presented is the fact that every cruelty inflicted on the South by Sherman was inflicted ten-fold before and after on the Native Americans. Carr falsely suggests that genocidal raids were a feature of Native American wars before the Europeans came, when in fact total war with total destruction was a colonial creation. Carr traces concentration camps to Spanish Cuba, not the U.S. Southwest, and he describes the war on the Philippines as the first U.S. war after the Civil War, following the convention that wars on Native Americans just don’t count (not to mention calling Antietam “the single most catastrophic day in all U.S. wars” in a book that includes Hiroshima). But it is, I think, the echo of that belief that natives don’t count that leads us to the focus on Sherman’s march to the sea, even as Iraq, Afghanistan, and Gaza are destroyed with weapons named for Indian tribes. Sherman not only attacked the general population of Georgia and the Carolinas on his way to Goldsboro — a spot where the U.S. military would later drop nuclear bombs (that very fortunately didn’t explode) — but he provided articulate justifications in writing, something that had become expected of a general attacking white folks.

What intrigues me most is the possibility that the South today could come to oppose war by recognizing Sherman’s victims in the victims of U.S. wars and occupations. It was in the North’s occupation of the South that the U.S. military first sought to win hearts and minds, first faced IEDs in the form of mines buried in roads, first gave up on distinguishing combatants from noncombatants, first began widely and officially (in the Lieber Code) claiming that greater cruelty was actually kindness as it would end the war more quickly, and first defended itself against charges of war crimes using language that it (the North) found entirely convincing but its victims (the South) found depraved and sociopathic. Sherman employed collective punishment and the assaults on morale that we think of as “shock and awe.” Sherman’s assurances to the Mayor of Atlanta that he meant well and was justified in all he did convinced the North but not the South. U.S. explanations of the destruction of Iraq persuade Americans and nobody else.

sher4130-004-383D8192.jpgSherman believed that his nastiness would turn the South against war. “Thousands of people may perish,” he said, “but they now realize that war means something else than vain glory and boasting. If Peace ever falls to their lot they will never again invite War.” Some imagine this to be the impact the U.S. military is having on foreign nations today. But have Iraqis grown more peaceful? Does the U.S. South lead the way in peace activism? When Sherman raided homes and his troops employed “enhanced interrogations” — sometimes to the point of death, sometimes stopping short — the victims were people long gone from the earth, but people we may be able to “recognize” as people. Can that perhaps help us achieve the same mental feat with the current residents of Western Asia? The U.S. South remains full of monuments to Confederate soldiers. Is an Iraq that celebrates today’s resisters 150 years from now what anyone wants?

When the U.S. military was burning Japanese cities to the ground it was an editor of the Atlanta Constitution who, quoted by Carr, wrote “If it is necessary, however, that the cities of Japan are, one by one, burned to black ashes, that we can, and will, do.” Robert McNamara said that General Curtis LeMay thought about what he was doing in the same terms as Sherman. Sherman’s claim that war is simply hell and cannot be civilized was then and has been ever since used to justify greater cruelty, even while hiding within it a deep truth: that the civilized decision would be to abolish war.

The United States now kills with drones, including killing U.S. citizens, including killing children, including killing U.S. citizen children. It has not perhaps attacked its own citizens in this way since the days of Sherman. Is it time perhaps for the South to rise again, not in revenge but in understanding, to join the side of the victims and say no to any more attacks on families in their homes, and no therefore to any more of what war has become?

mardi, 03 février 2015

Els Witte over het orangisme

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Elitaire opstandelingen in eer hersteld

Els Witte over het orangisme

door Edi Clijsters
Ex: http://www.doorbraak.be

ew9789085425502.jpgHet moet zowat de grootste lof zijn die een historicus kan toegezwaaid krijgen, en die lof komt dan zelfs van de veeleisende Nederlandse NRC: 'Het gebeurt niet vaak dat een historicus geschiedenis echt kan herschrijven. Maar Els Witte is het gelukt.'

Dat kan tellen als compliment. Als compliment is die commentaar volkomen terecht, al is de formulering voor verbetering vatbaar.

Want de geschiedenis – als opeenvolging van feiten – kan natuurlijk niemand herschrijven. Geschiedenis als geschiedschrijving daarentegen – als weergave van de feiten en hun samenhang – kan daarentegen wel degelijk worden herschreven. En dat gebeurt gelukkig ook, al is het vaak moeizaam en ondankbaar werk. Terecht stelt Witte (hoogleraar emeritus en ere-rector van de VUB) dat de geschiedschrijving doorgaans meer (of bijna uitsluitend) aandacht heeft voor de 'winnaars', al was het maar omdat dié nu eenmaal in eerste instantie bepalen hoe het verdergaat. Daartegenover staat dat de officiële historiografie nog maar weinig belang hecht aan de verdedigers van een verloren zaak, zodra het pleit is beslecht. Voor zo ver later nog aandacht gaat naar die 'verliezers' is dat dan meestal in apologetische of ronduit hagiografische geschriften, die soms vér af staan van ernstige geschiedschrijving.

Dat zijn beschouwingen waarmee iedereen vertrouwd is die ook maar iets of wat belangstelling heeft voor geschiedenis. En ze gelden a fortiori wanneer de politieke geschiedenis van een land ter sprake komt. Ondertussen zijn immers al vele boekdelen gewijd aan de stelling (of het bestrijden daarvan) dat elke staat (en/of natie) een min of meer kunstmatige constructie is, en dus behoefte heeft aan enkele 'dragende mythes' die het geheel wat romantische luister moeten bijzetten. Met mythes en demystificaties hebben zich dus al ettelijke generaties historici verlustigd, en de bij uitstek kunstmatige creatie België maakt daarop geen uitzondering. Integendeel.

Heilige huisjes

En zie: de Belgische orangisten (die de revolutie van 1830 niet accepteerden en wilden trouw blijven aan het Verenigd Koninkrijk der Nederlanden) zijn werkelijk een schoolvoorbeeld van 'geschiedschrijving door en voor de overwinnaars'. Generaties historici hebben – in het spoor van de 'vader van de Belgische geschiedschrijving', de grote historicus en nog veel grotere belgicist Henri Pirenne – het verschijnsel 'orangisten in België' ofwel haast totaal genegeerd ofwel minachtend afgedaan als een onbeduidend stelletje nostalgici, meelijwekkende amateur-samenzweerders en/of achterbakse verraders des vaderlands.

Welnu, dat beeld zal elke bonafide historicus voortaan grondig moeten bijstellen, want aan de monumentale studie van Els Witte over 'het harde verzet van de Belgische orangisten tegen de revolutie 1828-1850' kan niemand voorbijgaan. En aangezien je bij een zo vooraanstaande historica van de VUB bezwaarlijk van 'monnikenwerk' kan spreken mag hier gerust het woord 'titanenwerk' worden gebruikt.

Jarenlang heeft Els Witte stapels en stapels officiële en geheime documenten doorploegd, bladen, vlugschriften, brieven en memoires; van rapporten in geheimschrift moest zij zelfs eerst de code ontcijferen. Dat alles vermeldt zij in haar boek slechts langs de neus weg, maar het illustreert wél met hoeveel inzet en volharding zij deze 'herschrijving' heeft aangevat én tot een goed einde gebracht.

Het resultaat is dan ook een kanjer. Pardon: een wetenschappelijke kanjer. Buitenstaanders durven wel 's monkelen dat historici zich blijkbaar soms verplicht achten "meer noten dan tekst" te produceren. Dat valt dan nog mee: tegenover 516 bladzijden verhaal staan 'slechts' 97 bladzijden (wel erg klein gedrukte) noten. Terecht. Niet zonder reden zal Witte het nodig geacht hebben haar studie zo minutieus te documenteren en (bij wijze van spreken) haast elke zin te staven met een verwijzing naar een of andere bron. Want die studie gaat nu eenmaal in tegen ettelijke lang gekoesterde heilige huisjes, en mag dus in het feitenrelaas geen enkele zwakke schakel vertonen.

Die heilige huisjes bevinden zich overigens niet alleen bij 'belgicistische' geschiedschrijvers (die de triomftocht van de sacrosancte Belgische natie sinds 1830 alleen nog kunnen gedwarsboomd zien door domoren of kwaadwilligen) maar evenzeer bij Groot-Nederlandse nostalgici of flamingantisch geïnspireerde auteurs die het orangisme ten onrechte in verband brengen met de prille Vlaamse Beweging).

Daarenboven heeft Witte het verschijnsel 'orangisme' vanuit verschillende hoeken willen bekijken en zoveel mogelijk verbanden willen duidelijk maken tussen de verschillende niveaus en terreinen waarop van orangisme sprake was, zodat onvermijdelijk herhalingen opduiken.

Al die op zichzelf loffelijke bekommernissen maken het boek bijwijlen tot een moeilijk verteerbare brok; maar dat is dan ook de enige negatieve bedenking bij dit opus. Want hoewel het niet bepaald makkelijke lectuur is, toch blijf je lezen – zelfs al weet je 'hoe het afloopt'. Omdat dit in essentie een heel niéuw verhaal is, dat althans met dit ene spook van Pirenne eens en voorgoed afrekent.

Franstalige conservatieven

Wie waren ze eigenlijk, die 'orangisten' ? En vooral: waarom waren ze dat ? Dank zij het minutieuze speur- en puzzelwerk van Els Witte krijgt de lezer nu voor het eerst een correct – niet gediaboliseerd noch geïdealiseerd – beeld van deze politieke stroming die meer dan tien jaar lang voor het prille België een reële bedreiging uitmaakte – én door het nieuwe bewind ook wel degelijk zo werd gezien.

Waarom bleven zo lang zovele Luikenaars, Gentenaars, mensen uit Henegouwen en Antwerpen, de Westhoek of Luxemburg gekant tegen het 'Belgische feit' dat uit de separatistische opstand van 1830 was ontstaan ? Om dat begrijpelijk te maken verwijst Witte naar de geest van die tijd. Na de nederlaag van Napoleon wou het Congres van Wenen vooral de oude monarchieën in eer herstellen en komaf maken met de erfenis van de Franse Revolutie. Het was een tijd van restauratie, en ook in het zuiden van het Verenigd Koninkrijk konden velen zich daarin vinden: oude en nieuwe kleine en grote adel, behoudsgezinde bourgeoisie en ambtenarij, én tal van industriëlen voor wie nieuwe markten opengingen, koninklijke steun niet ontbrak maar sociale rechten taboe bleven. Kortom: een conservatieve grondstroom avant la lettre.

Met name adel, bourgeoisie en ambtenarij hadden een uitgesproken legitimistische kijk op de gebeurtenissen: trouw aan de vorst was vanzelfsprekend en een erezaak, opstand daartegen was ongehoord. Voor de meeste industriëlen en handelslui ging het veeleer om welbegrepen eigenbelang: het opbreken van het Verenigd koninkrijk betekende het einde van nieuwe markten en mogelijkheden. Allen hadden ze een diepe afkeer gemeen van het straatgeweld door opgehitst gepeupel, waardoor niet alleen de 'proletarische opstand van 1830' werd getekend, maar ook de herhaalde repressie tegen orangisten.

De legitieme vorst was en bleef Willem I van Oranje of eventueel zijn zoon. Leopold I was daarentegen in de ogen van de 'orangisten' niets meer of minder dan een usurpator, een adellijke avonturier die zich (dank zij straatgeweld en het Franse leger) een troon had toegeëigend waarop hij geen recht had. Ook hier bleek de geschiedenis rijkelijk ironisch, want de meest fervente revolutionairen van 1830 beschouwden Leopold evengoed als een usurpator want zij hadden gevochten voor een democratische republiek; hun frustratie ging later zelfs zover dat zij toenadering zochten tot de orangisten.

In elk geval is duidelijk dat de verstokte aanhangers van Oranje vooral bij de sociale elite te zoeken waren. En die was toen ook in Vlaanderen Franstalig. De omgangstaal in kastelen, manoirs en herenhuizen was natuurlijk Frans, hun bladen en brochures waren in het Frans (Le Messager de Gand!), hun onderlinge correspondentie en evengoed die met hofkringen in 's Gravenhage gebeurde in het Frans.

Aanmoediging met handrem

Tja, Den Haag. Uiteraard werd het orangisme door de nieuwe Belgische bewindslieden afgeschilderd als een complot van de Nederlanders om het Zuiden terug in te lijven. Dat de grote meerderheid van de Nederlanders zelf daar hoegenaamd niet op belust was, is inmiddels voldoende bekend. Maar Witte toont onweerlegbaar aan dat Willem I wel degelijk ongeveer een decennium lang de hoop – en daarmee gepaard gaande financiële en diplomatieke inspanningen – niet heeft opgegeven om het zuiden weer onder zijn gezag te brengen. Zijn zoon koesterde die hoop evenzeer, en wou desnoods zelfs genoegen nemen met de 'Belgische' troon. Het verhaal van de rivaliteit tussen vader en zoon is bekend, evenals de funeste weerslag daarvan op de pogingen om de scheiding tussen noord en zuid ongedaan te maken.

Leerrijk is vooral hoe Witte de dubbelzinnige houding van Willem I (en evenzeer van zijn zoon) documenteert: hoe Den Haag het verzet van de orangisten tegen de nieuwe (en 'wederrechtelijke' !) staat wel aanmoedigde, maar tegelijk zelf buiten schot wou blijven. Tegenover de Europese grootmachten – die tenslotte in Wenen zijn Verenigd Koninkrijk in het leven hadden geroepen – bleef hij via diplomatieke weg aandringen op een herstel van zijn gezag in het zuiden. Maar hij wou die diplomatie uiteraard niet hypothekeren door rechtstreeks in verband te worden gebracht met opstandige bewegingen tegen het nieuwe België.

Die nieuwe constructie was immers niet alleen (begrijpelijkerwijze !) door Frankrijk enthousiast verwelkomd, maar kon ook rekenen op de goedkeuring van de Britten, zodra in Brussel een neef van Queen Victoria op de troon zat. Pruisen en Rusland hadden in 1830 en ook nadien wel andere opstandige katten te geselen, en Oostenrijk had al in 1815 zijn aanspraken op de voormalige Oostenrijkse Nederlanden laten schieten.

Willems (overigens bescheiden) diplomatieke initiatieven kenden echter geen succes, en de enige echte poging om het zuiden militair te heroveren werd (dank zij snelle Franse interventie) een flop. Dus bleef alleen de mogelijkheid dat de Oranje-getrouwen op eigen kracht het Belgische bewind zouden omverwerpen. Zij werden daartoe moreel en financieel flink aangemoedigd vanuit Den Haag, maar bleven geremd door de opgelegde discretie. Bovendien zou telkens opnieuw blijken dat de orangisten nauwelijks steun genoten bij de bevolking. In de steden had het proletariaat wel andere zorgen, en op het platteland gaf de antiprotestantse clerus de toon aan.

Demystificaties

Het is ondoenbaar hier het hele verhaal van het orangistische verzet tegen het nieuwe Belgische 'usurpatoren'-bewind na te vertellen. Zoals reeds gezegd: het boek van Witte is geen lichte lectuur, maar het biedt wel, met een overvloed aan details, een uitermate boeiend verhaal.

De brutale straatrepressie tegen Oranje-getrouwen in 1830 en herhaaldelijk nadien. De massale onthouding bij de eerste 'Belgische' verkiezingen (waarvoor hoe dan ook nauwelijks 1 – één – procent van de bevolking kiesgerechtigd was, en van die amper 46 000 kiezers nauwelijks 30 000 kwamen opdagen) én het afhaken van de toch verkozen orangisten. De (jammerlijk maar voorspelbaar mislukte) pogingen in 1831 om het Voorlopig Bewind omver te werpen vooraleer Leopold de troon kon bestijgen. Het failliet van de Tiendaagse Veldtocht kort nà die troonsbestijging, en het opgeven van de citadel van Antwerpen als laatste Nederlandse bolwerk op Belgische bodem eind 1832. En tenslotte de aanvaarding van het Verdrag der 24 Artikelen door de Nederlandse én de Belgische koning : schijnbaar de genadeslag voor de Belgische orangisten, maar ook fel betwist door Belgische revolutionairen van het eerste uur omdat daardoor grote delen van Limburg en Luxemburg werden opgegeven. Dat zijn bekende episodes.

Minder bekend is het voortleven van het orangisme nadien. Het is haast ontroerend om zien hoe de Belgische orangisten hardnekkiger vasthouden aan Oranje dan de Nederlandse vorsten aan België, aangezien voor hen immers het Nederlandse (of zelfs het strikt persoonlijke) belang telkens weer de doorslag geeft.

De abdicatie van Willem I in 1840 ontlokt de orangisten enerzijds 'un cri de douleur' maar geeft hen tegelijk hoop dat Willem II, die altijd al het zuiden in het hart droeg, het streven naar hereniging nieuw leven zal inblazen. Quod non, zoals men weet. Wanneer in 1841 nogmaals een orangistische poging tot staatsgreep in extremis wordt verijdeld, verdenkt 'heel Europa' Willem II van betrokkenheid bij dat initiatief. In werkelijkheid verleende hij slechts halfslachtige steun, en haast hij zich om zich van de mislukking te distanciëren.

Omverwerping van het Belgische bewind is nu duidelijk een hersenschim geworden, en de hereniging met het noorden evenzeer. Meer en meer adellijke en economische orangisten kiezen uiteindelijk eieren voor hun geld en verzoenen zich met de nieuwe staat. Maar, zo illustreert Witte andermaal uitvoerig, er blijft in een groot deel van de elite wel iets bestaan wat nu een orangistische 'subcultuur' zou worden genoemd.

Samenvattend dient nog eens beklemtoond dat deze studie enkele 'onprettige waarheden' onderbouwt. Belgicisten van nu zullen ongaarne lezen dat het orangisme zeker even sterk was in Franstalig België als in Vlaanderen. Vlaamse romantici zullen ongaarne toegeven dat dit orangisme ook in Vlaanderen een welhaast volkomen Franstalige aangelegenheid was. De eerste categorie zal er met veel leedvermaak aan herinneren dat de orangisten zo goed als geen steun genoten bij het volk; de tweede zal dat met de dood in het hart moeten erkennen. Er is echter ook dit: voor haast alle orangisten was de trouw aan het Verenigd Koninkrijk der Nederlanden een kwestie van eer, waarvoor velen zware offers brachten. Daarom is het goed dat zij nu in eer zijn hersteld.

Een toemaatje voor wie zich na dit alles zou afvragen of orangisten iets te maken hebben met 'appeltjes van Oranje' ofte appelsienen. Jazeker. Op sommige plaatsen kreeg Leopold I bij zijn 'blijde intrede' overrijpe sinaasappels naar het hoofd gegooid; en dat was echt niet als hulde bedoeld.

Titel boek : Het Verloren Koninkrijk
Subtitel boek : Het harde verzet van de Belgische orangisten tegen de revolutie 1828-1850
Auteur : Els Witte
Uitgever : De Bezige Bij Antwerpen
Aantal pagina's : 688
Prijs : 39.99 €
ISBN nummer : 9789085425502
Uitgavejaar : 2014

lundi, 02 février 2015

Paul Jamin: Anarchist van de lach

Karl Drabbe:

Paul Jamin: Anarchist van de lach

Ex: http://www.doorbraak.be

alidor.jpgCartoonisten staken altijd al de draak met het Belgische politieke bedrijf. Paul Jamin deed dat voor, tijdens én na de Tweede Wereldoorlog, in de collaboratiepers en later in De Standaard.

Het jezuïetenweekblad De Vlaamse Linie (1945-'53) grossierde in oud-collaborateurs. Auteurs, tekenaars, venters, gastredacteurs. Niet weinigen waren hun burgerrechten kwijt en slijtten voorheen hun dagen in een Belgische repressiecel. Allen hadden ze met de Duitse bezetter samengewerkt, sommigen met het nationaalsocialisme geheuld. En toch was het dreamteam van het door de jezuïeten in leven geroepen compromisloos katholieke weekblad een broeihaard van ontluikend Vlaams-nationalisme en een handige wegbereider voor het dagblad De Standaard dat langzaam zijn Vlaamse wortels herontdekte.

Lode Claes, Victor Leemans, Filip De Pillecyn. Het zijn maar enkele van de vele namen van oud-collaborateurs die het weekblad elke week klaarden. Tekenaars ook, zoals Pil en Jam, de noms de plume van Joe Meulepas en Paul Jamin. De Franstalige Gentse jezuïet Maurice Claes-Boúúaert was de ronselaar van velen voor de redactie van het Vlaamsgezinde weekblad. Ze werkten er een tijdlang onder de toen progressieve hoofdredacteur pater Karel van Isacker sj. Het betekende de rehabilitatie voor velen.

Pieter-Jan Verstraete, veelschrijvende historicus van de Vlaamse Beweging in en rond Wereldoorlog II, publiceerde nog maar net een brochure over cartoonist Jam zoals hij signeerde in de tijdschriften van de REX-beweging voor en tijdens de oorlog, in collaboratiekrant Le Soir, legerkrant Brüsseler Zeitung en na zijn vrijlating - als Pat en Kler - in De Standaard, De Vlaamse Linie, De Linie en vooral - als Alidor- in het Brusselse rechtse satirische weekblad Pan (dat enkele jaren terug is opgeslorpt door Père Ubu dat hij nog zelf mee oprichtte). Hij tekende tijdens een tienjarig verblijf in Dortmund ook voor de Ruhr Nachrichten, een job die hij te danken had aan de oud-adjunct-hoofdredacteur van de Brüsseler Zeitung die directeur was geworden van het Duitse blad. Eigenaardig, want de ooit ter dood veroordeelde collaborateur - als eerste door prins Karel gratie verleend; zijn straf werd omgezet tot levenslag - mocht niet naar Duitsland reizen, omwille van de cartoons die hij tijdens de oorlog in de collaboratiepers publiceerde.

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Niet alleen de hogervermelde jezuïet Claes-Boúúaert heeft een belangrijke rol gespeeld op het levenspad van de cartoonist, of de oude chef van de Brüsseler Zeitung. Zo ook zijn goede vriend Georges Rémi - Hergé, tekenaar van Kuifje - die hem binnenhaalde in de rechts-katholieke krant Le XXième siècle, en hem zijn eerste baan bezorgde. Ook oud-Dinaso-burgemeester van Sint-Niklaas en eerste naoorlogse hoofdredacteur van De Standaard, Willem Melis, die hem bij het dagblad betrok.

Verstraete schreef een beknopt rechttoe-rechtaan biografietje, gespijsd met tientallen prenten van de getalenteerde politiek cartoonist die overigens heel z'n leven bevriend bleef met de notoire REX- en SS-leider Léon Degrelle. Oud-De Standaard-journalist Gaston Durnez noemde hem de 'anarchist van de lach', die - zoals het een echte cartoonist betaamt - lachte en spotte met iedereen die het publieke podium betrad, op de eerste plaats politici. De spot drijven met en (zo) kritiek leveren op het politieke bedrijf, is wel de rode draad in het leven van de gevierde tekenaar.

Deze brochure is te verkrijgen bij de auteur tegen overschrijving van €6,85 (verzendkosten incl.) op rekening  BE64 4627 2867 9152 van P.J. Verstraete, 8500 Kortrijk.

Titel boek : Jam - Alidor alias Paul Jamin
Auteur : Pieter Jan Verstraete
Uitgever : Pieter Jan Verstraete
Aantal pagina's : 40
Prijs : 6.85 €
ISBN nummer : -
Uitgavejaar : 2015

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De bevrijding volgens Alidor - Tekening voor "Pan"

Un trésor gaulois vieux de 2300 ans!

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UN TRÉSOR GAULOIS VIEUX DE 2300 ANS
Une découverte à Roubion, dans les Alpes-Maritimes

Nice-Matin*
& http://metamag.fr

Quarante et une pièces de bronze datant de la Deuxième Guerre punique ont été découvertes dans le Mercantour au milieu des vestiges d’un sanctuaire gaulois. Les archéologues qui, l'été dernier, ont fouillé durant un mois le site de la Tournerie, à Roubion, n'imaginaient sans doute pas qu'ils allaient mettre au jour un véritable trésor !


Scientifiquement et historiquement les découvertes réalisées par ces chercheurs, à plus de 1.800 mètres d'altitude au cœur du Mercantour, étaient déjà inestimables. Leur travail a, en effet, permis d'exhumer un monumental sanctuaire gaulois datant de l'âge du fer.


Le crâne tranché d'un coup d'épée retrouvé à l'entrée du site qui, à l'époque, devait dissuader les intrus, n'a guère impressionné les archéologues. Ils ont fouillé avec minutie l'ensemble des lieux. Et entre les pierres qui soutenaient le lourd mur d'enceinte de 6 mètres d'épaisseur encerclant le sanctuaire, ils ont également trouvé le magot des Gaulois qui vivaient là !


41 pièces de bronze


Dans le plus grand secret c'est donc un trésor, monétaire cette fois, qui a été exhumé le 25 juillet dernier. Trois jours seulement avant que le chantier ne s'achève.
Le site archéologique de la Tournerie, à Roubion, repose désormais sous des milliers de mètres cubes de terre et les premières neiges de décembre. Mais cette chape de protection pour le moins dissuasive n'a pas suffi à contenir la rumeur qui, peu à peu, s'est emparée de la vallée de la Tinée.


Il y avait donc bien un trésor à la Tournerie : « Nous avons trouvé 41 pièces de bronze de 10 à 13 grammes chacune, confirme Franck Suméra, conservateur en chef de la région Paca. L'une d'entre elles, portant pour effigie la tête d'Athena, permet de dater l'ensemble après l'époque de la Seconde Guerre punique. C'est-à-dire entre 215 et 200 ans avant notre ère. Il n'y avait pour l'heure que trois trésors monétaires d'une telle ampleur découverts dans notre région, depuis le XIXe siècle, du côté de Montpellier et de Marseille. »


Influence massaliote


Dans les Alpes-Maritimes, il s'agit donc d'une première qui, bien sûr enthousiasme les chercheurs  : « C'est incroyable de découvrir en fouillant les montagnes du Mercantour un trésor qui nous renvoie directement à Carthage à Hannibal ! »


Mais aussi à Marseille, puisque le trésor découvert à Roubion serait d'origine Massaliote (Marseille antique). Voilà qui pourrait redessiner les contours la carte des influences géopolitiques.


Alors qu'on imaginait la région plutôt tournée à l'époque vers l'Italie ou les Alpes, il semblerait que les Gaulois du Mercantour entretenaient des relations commerciales avec leurs voisins phocéens.


De quoi faire sourire le président du conseil général qui a largement financé ce programme de fouilles : « Puisqu'il y avait déjà des relations avec Marseille à cette époque cela ne peut que nous inciter à les entretenir », souligne Eric Ciotti.


De manière, espérons-le, plus pacifié qu'au temps de nos ancêtres les Gaulois. Car, sur le site de la Tournerie, les archéologues ont également découvert des corps démembrés.
« Peut-être des trophées de guerre », explique Franck Suméra. Mais le site n'a pas encore livré tous ses mystères. Il faudra procéder à d'autres fouilles pour avoir une lecture précise de ces vestiges de notre Histoire.


« Nous continuerons à les financer, annonce d'ores et déjà Eric Ciotti pour qui ce « site majeur » est aussi « une source potentielle de développement pour notre territoire ».


Les fouilles devraient donc reprendre à la Tournerie dès l'été prochain. Non pas dans la perspective, peu probable, de découvrir un second trésor monétaire mais pour enrichir plus encore la connaissance de notre passé.


Des milliers de céramiques enfouies à Grasse


Une découverte archéologique peut en cacher une autre. Alors que le site de la Tournerie, à Roubion, hiverne en attendant que de nouvelles fouilles soient entreprises cet été, un autre chantier vient de s'ouvrir, à Grasse cette fois.


Le site était connu des archéologues depuis que les premiers coups de pioche de la future médiathèque Charles Nègre ont mis au jour les vestiges d'un passé que l'on ignorait.
Cette découverte fortuite à l'occasion des travaux a donné lieu à une première série de fouilles de juin 2013 à septembre 2014. Les archéologues pensaient alors être arrivés au bout de leur voyage dans le temps. Ils se trompaient.


60.000 tessons enfouis à 7 mètres sous le sol


Après avoir remonté les époques modernes puis médiévales, les chercheurs avaient buté contre une couche de roche. « Ce travertin constitue le sol naturel de la ville de Grasse, explique Fabien Blanc, l'archéologue qui supervise le chantier. Toutefois sa configuration nous avait intrigué. »


Les scientifiques ont donc décidé d'ouvrir des « fenêtres » dans la pierre pour voir ce qu'il y avait dessous. Et quelle ne fut pas leur surprise ! « Nous avons d'abord découvert du haut Moyen Âge qui avait été déplacé sans doute à la suite d'une catastrophe naturelle, un tremblement de terre ou des intempéries. »


La couche de travertin s'était, en fait, constituée par écoulement des eaux et masquait une occupation plus ancienne. Bien plus ancienne, car en fouillant plus profondément encore les archéologues ont trouvé un nouveau trésor. Celui-là n'est pas monétaire.


« A sept mètres sous le niveau actuel de la place nous avons découvert des tessons de céramique en très grande quantité datant d'il y a 1400 ans avant Jésus-Christ,relate Fabien Blanc qui s'est amusé à faire un petit calcul : « Sachant que nous n'avons pour l'heure ouvert que trois petites fenêtres dans le sol, si on extrapole aux 120 m2 du site on devrait extraire soixante mille céramiques sur à peine un mètre d'épaisseur. Une telle concentration serait réellement exceptionnelle. »


Pour s'en assurer il ne reste plus qu'à creuser. Les fouilles vont donc reprendre en janvier.


Gare aux pilleurs... de poussière


Le trésor monétaire de la Tournerie aura donc réussi à traverser 2 300 ans d’histoire. La valeur de ces quarante et une pièces de bronze est d’ailleurs plus historique que financière.
Pour les archéologues les éléments de découvertes (l’emplacement exact, le conditionnement, les autres objets à proximité), comptent d’ailleurs autant que la découverte elle-même.


C’est en réalité une carte du temps que les chercheurs mettent au jour. Et il suffirait que quelques chasseurs de trésor viennent labourer le site pour que tout se brouille. Le sanctuaire de la Tournerie ou le site protohistorique de Grasse auraient alors perdu tout intérêt historique.


C’est pourquoi les archéologues en appellent à la responsabilité de tous. Et rappellent que le simple fait de pénétrer sur un site archéologique est passible de trois mille euros d’amende.
Le piller est un délit pénal. Quant au butin du tel pillage, il redeviendrait poussière en l’espace de quelques semaines.


En effet, les objets exhumés se détériorent extrêmement vite s’ils ne sont pas traités avec des produits chimiques très particuliers. Resterait alors le préjudice, immense, pour la connaissance de nos origines.


Le site de la Tournerie perché à 1.816 m


Le site de la Tournerie avait été repéré dès 1996. En 2013, des vues aériennes ont permis confirmer que ces alpages avaient été façonnés par l’homme.Les clichés laissent clairement apparaître des cercles concentriques.


Il s’agit, en fait, des murs d’enceinte d’un vaste sanctuaire gaulois érigé à l’âge du fer.Cette découverte, on la doit aux fouilles entreprises l’été dernier sur le site en juillet dernier.


« Château fort »


Lorsque le premier coup de pioche a été donné le mystère était encore entier.Rien ne pouvait laisser présager que l’on était là, à 1816 m d’altitude, sur un site d’occupation monumental.


Monumental, c’est bien le mot ! Il y a 2.500 ans, avec des outils rudimentaires, des hommes ont taillé la roche de ce promontoire naturel pour édifier un véritable petit « château fort » en pierres sèches dont le mur d’enceinte mesurait six mètres d’épaisseur.


À l’intérieur, une plateforme servait peut-être de lieu de culte ou aux festivités du clan.Des ossements d’animaux domestiques et sauvages ont, en effet, été retrouvés ainsi que des bijoux en bronze.


Mais, les archéologues ont également découvert des corps démembrés et des têtes de lance, rappelant le caractère belliqueux de ces populations.On y vénérait peut-être le culte de ces chefs de clans qui allaient donner naissance à une véritable aristocratie.


Avec ses privilèges. Parfois sonnant et trébuchant.


Source : Nice-Matin

 

"Afrique en cartes": le nouveau livre de Bernard Lugan

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"Afrique en cartes": le nouveau livre de Bernard Lugan

Cet ouvrage de 278 pages tout en quadrichromie est composé d'une centaine de cartes accompagnées de leurs notices-commentaires.

Il s'agit d'un exceptionnel outil de documentation et de référence construit à partir des cours que Bernard Lugan dispense à l'Ecole de Guerre et aux Ecoles de Saint-Cyr Coëtquidan.

Il est composé de deux parties. Dans la première sont étudiés les conflits et les crises actuels ; la seconde traite de ceux de demain.

Sa vocation est d'être directement utilisable par tous ceux, civils et militaires qui sont concernés par l'Afrique.

En savoir plus cliquez ici

dimanche, 01 février 2015

Qu’est-ce qu’un événement ?

Qu’est-ce qu’un événement ?

Qu’est-ce qu’un événement?

par Grégoire Gambier

Ex: http://institut-iliade.com

Les attaques islamistes de ce début janvier 2015 à Paris constituent à l’évidence un événement. Tant au sens historique que politique et métapolitique – c’est-à-dire total, culturel, civilisationnel. Il provoque une césure, un basculement vers un monde nouveau, pour partie inconnu : il y aura un « avant » et un « après » les 7-9 janvier 2015. Au-delà des faits eux-mêmes, de leur « écume », ce sont leurs conséquences, leur « effet de souffle », qui importent. Pour la France et avec elle l’Europe, les semaines et mois à venir seront décisifs : ce sera la Soumission ou le Sursaut.

Dans la masse grouillante des « informations » actuelles et surtout à venir, la sidération politico-médiatique et les manipulations de toute sorte, être capable de déceler les « faits porteurs d’avenir » va devenir crucial. Une approche par l’Histoire s’impose. La critique historique, la philosophie de l’histoire et la philosophie tout court permettent en effet chacune à leur niveau de mieux reconnaître ou qualifier un événement. « Pour ce que, brusquement, il éclaire » (George Duby).

C’est donc en essayant de croiser ces différents apports qu’il devient possible de mesurer et « pré-voir » les moments potentiels de bifurcation, l’avènement de l’imprévu qui toujours bouscule l’ordre – ou en l’espèce le désordre – établi. Et c’est dans notre plus longue mémoire, les plis les plus enfouis de notre civilisation – de notre « manière d’être au monde » – que se trouvent plus que jamais les sources et ressorts de notre capacité à discerner et affronter le Retour du Tragique.

Tout commence avec les Grecs…

Ce sont les Grecs qui, les premiers, vont « penser l’histoire » – y compris la plus immédiate.

Thucydide ouvre ainsi son Histoire de la guerre du Péloponnèse : « Thucydide d’Athènes a raconté comment se déroula la guerre entre les Péloponnésiens et les Athéniens. Il s’était mis au travail dès les premiers symptômes de cette guerre, car il avait prévu qu’elle prendrait de grandes proportions et une portée dépassant celle des précédentes. (…) Ce fut bien la plus grande crise qui émut la Grèce et une fraction du monde barbare : elle gagna pour ainsi dire la majeure partie de l’humanité. » (1)

Tout est dit.

Et il n’est pas anodin que, engagé dans le premier conflit mondial, Albert Thibaudet ait fait « campagne avec Thucydide » (2)

Le Centre d’Etude en Rhétorique, Philosophie et Histoire des Idées (www.cerphi.net) analyse comme suit ce court mais très éclairant extrait :

1) Thucydide s’est mis à l’œuvre dès le début de la guerre : c’est la guerre qui fait événement, mais la guerre serait tombée dans l’oubli sans la chronique de Thucydide. La notion d’événement est donc duale : s’il provient de l’action (accident de l’histoire), il doit être rapporté, faire mémoire, pour devenir proprement « historique » (c’est-à-dire mémorable pour les hommes). C’est-à-dire qu’un événement peut-être méconnu, mais en aucun cas inconnu.

2) Il n’y a pas d’événement en général, ni d’événement tout seul : il n’y a d’événement que par le croisement entre un fait et un observateur qui lui prête une signification ou qui répond à l’appel de l’événement. Ainsi, il y avait déjà eu des guerres entre Sparte et Athènes. Mais celle-ci se détache des autres guerres – de même que la guerre se détache du cours ordinaire des choses.

3) Etant mémorable, l’événement fait date. Il inaugure une série temporelle, il ouvre une époque, il se fait destin. Irréversible, « l’événement porte à son point culminant le caractère transitoire du temporel ». L’événement, s’il est fugace, n’est pas transitoire : c’est comme une rupture qui ouvre un nouvel âge, qui inaugure une nouvelle durée.

4) L’événement ouvre une époque en ébranlant le passé – d’où son caractère de catastrophe, de crise qu’il faudra commenter (et accessoirement surmonter). Ce qu’est un événement, ce dont l’histoire conserve l’écho et reflète les occurrences, ce sont donc des crises, des ruptures de continuité, des remises en cause du sens au moment où il se produit. L’événement est, fondamentalement, altérité.

5) Thucydide, enfin, qui est à la fois l’acteur, le témoin et le chroniqueur de la guerre entre Sparte et Athènes, se sent convoqué par l’importance de l’événement lui-même. Celui-ci ne concerne absolument pas les seuls Athéniens ou Spartiates, ni même le peuple grec, mais se propage progressivement aux Barbares et de là pour ainsi dire à presque tout le genre humain : l’événement est singulier mais a une vocation universalisante. Ses effets dépassent de beaucoup le cadre initial de sa production – de son « avènement ».

Repérer l’événement nécessite donc d’évacuer immédiatement l’anecdote (le quelconque remarqué) comme l’actualité (le quelconque hic et nunc). Le « fait divers » n’est pas un événement. Un discours de François Hollande non plus…

Il s’agit plus fondamentalement de se demander « ce que l’on appelle événement » au sens propre, c’est-à-dire à quelles conditions se produit un changement remarquable, dont la singularité atteste qu’il est irréductible à la série causale – ou au contexte – des événements précédents.

Histoire des différentes approches historiques de « l’événement »

La recherche historique a contribué à défricher utilement les contours de cette problématique.

L’histoire « positiviste », exclusive jusqu’à la fin du XIXe siècle, a fait de l’événement un jalon, au moins symbolique, dans le récit du passé. Pendant longtemps, les naissances, les mariages et les morts illustres, mais aussi les règnes, les batailles, les journées mémorables et autres « jours qui ont ébranlé le monde » ont dominé la mémoire historique. Chronos s’imposait naturellement en majesté.

Cette histoire « événementielle », qui a fait un retour en force académique à partir des années 1980 (3), conserve des vertus indéniables. Par sa recherche du fait historique concret, « objectif » parce qu’avéré, elle rejette toute généralisation, toute explication théorique et donc tout jugement de valeur. A l’image de la vie humaine (naissance, mariage, mort…), elle est un récit : celui du temps qui s’écoule, dont l’issue est certes connue, mais qui laisse place à l’imprévu. L’événement n’est pas seulement une « butte témoin » de la profondeur historique : il est un révélateur et un catalyseur des forces qui font l’histoire.

Mais, reflet sans doute de notre volonté normative, cartésienne et quelque peu « ethno-centrée », elle a tendu à scander les périodes historiques autour de ruptures nettes, et donc artificielles : le transfert de l’Empire de Rome à Constantinople marquant la fin de l’Antiquité et les débuts du Moyen Age, l’expédition américaine de Christophe Colomb inaugurant l’époque moderne, la Révolution de 1789 ouvrant l’époque dite « contemporaine »… C’est l’âge d’or des « 40 rois qui ont fait la France » et de l’espèce de continuum historique qui aurait relié Vercingétorix à Gambetta.

Cette vision purement narrative est sévèrement remise en cause au sortir du XIXe siècle par une série d’historiens, parmi lesquels Paul Lacombe (De l’histoire considérée comme une science, Paris, 1894), François Simiand (« Méthode historique et science sociale », Revue de Synthèse historique, 1903) et Henri Berr (L’Histoire traditionnelle et la Synthèse historique, Paris, 1921).

Ces nouveaux historiens contribuent à trois avancées majeures dans notre approche de l’événement (4) :

1) Pour eux, le fait n’est pas un atome irréductible de réalité, mais un « objet construit » dont il importe de connaître les règles de production. Ils ouvrent ainsi la voie à la critique des sources qui va permettre une révision permanente de notre rapport au passé, et partant de là aux faits eux-mêmes.

2) Autre avancée : l’unique, l’individuel, l’exceptionnel ne détient pas en soi un privilège de réalité. Au contraire, seul le fait qui se répète, qui peut être mis en série et comparé peut faire l’objet d’une analyse scientifique. Même si ce n’est pas le but de cette première « histoire sérielle », c’est la porte ouverte à une vision « cyclique » de l’histoire dont vont notamment s’emparer Spengler et Toynbee.

3) Enfin, ces historiens dénoncent l’emprise de la chronologie dans la mesure où elle conduit à juxtaposer sans les expliquer, sans les hiérarchiser vraiment, les éléments d’un récit déroulé de façon linéaire, causale, « biblique » – bref, sans épaisseur ni rythme propre. D’où le rejet de l’histoire événementielle, c’est-à-dire fondamentalement de l’histoire politique (Simiand dénonçant dès son article de 1903 « l’idole politique » aux côtés des idoles individuelle et chronologique), qui ouvre la voie à une « nouvelle histoire » incarnée par l’Ecole des Annales.

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Les Annales, donc, du nom de la célèbre revue fondée en 1929 par Lucien Febvre et Marc Bloch, vont contribuer à renouveler en profondeur notre vision de l’histoire, notre rapport au temps, et donc à l’événement.

Fondée sur le rejet parfois agressif de l’histoire politique, et promouvant une approche de nature interdisciplinaire, cette école va mettre en valeur les autres événements qui sont autant de clés de compréhension du passé. Elle s’attache autant à l’événementiel social, l’événementiel économique et l’événementiel culturel. C’est une histoire à la fois « totale », parce que la totalité des faits constitutifs d’une civilisation doivent être abordés, et anthropologique. Elle stipule que « le pouvoir n’est jamais tout à fait là où il s’annonce » (c’est-à-dire exclusivement dans la sphère politique) et s’intéresse aux groupes et rapports sociaux, aux structures économiques, aux gestes et aux mentalités. L’analyse de l’événement (sa structure, ses mécanismes, ce qu’il intègre de signification sociale et symbolique) n’aurait donc d’intérêt qu’en permettant d’approcher le fonctionnement d’une société au travers des représentations partielles et déformées qu’elle produit d’elle-même.

Par croisement de l’histoire avec les autres sciences sociales (la sociologie, l’ethnographie, l’anthropologie en particulier), qui privilégient généralement le quotidien et la répétition rituelle plutôt que les fêlures ou les ruptures, l’événement se définit ainsi, aussi, par les séries au sein desquelles il s’inscrit. Le constat de l’irruption spectaculaire de l’événement ne suffit pas: il faut en construire le sens, lui apporter une « valeur ajoutée » d’intelligibilité (5).

L’influence marxiste est évidemment dominante dans cette mouvance, surtout à partir de 1946 : c’est la seconde génération des Annales, avec Fernand Braudel comme figure de proue, auteur en 1967 du très révélateur Vie matérielle et capitalisme.

braudel.jpgDéjà, la thèse de Braudel publiée en 1949 (La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II) introduisait la notion des « trois temps de l’histoire », à savoir :

1) Un temps quasi structural, c’est-à-dire presque « hors du temps », qui est celui où s’organisent les rapports de l’homme et du milieu ;

2) Un temps animé de longs mouvements rythmés, qui est celui des économies et des sociétés ;

3) Le temps de l’événement enfin, ce temps court qui ne constituerait qu’« une agitation de surface » dans la mesure où il ne fait sens que par rapport à la dialectique des temps profonds.

Dans son article fondateur sur la « longue durée », publié en 1958, Braudel explique le double avantage de raisonner à l’aune du temps long :

  • l’avantage du point de vue, de l’analyse (il permet une meilleure observation des phénomènes massifs, donc significatifs) ;
  • l’avantage de la méthode (il permet le nécessaire dialogue – la « fertilisation croisée » – entre les différentes sciences humaines).

Malgré ses avancées fécondes, ce qui deviendra la « nouvelle histoire » (l’histoire des mentalités et donc des représentations collectives, avec une troisième génération animée par Jacques Le Goff et Pierre Nora en particulier) a finalement achoppé :

  • par sa rigidité idéologique (la construction de modèles, l’identification de continuités prévalant sur l’analyse du changement – y compris social) ;
  • et sur la pensée du contemporain, de l’histoire contemporaine (par rejet initial, dogmatique, de l’histoire politique).

Pierre Nora est pourtant obligé de reconnaître, au milieu des années 1970, « le retour de l’événement », qu’il analyse de façon défensive comme suit : « L’histoire contemporaine a vu mourir l’événement ‘naturel’ où l’on pouvait idéalement troquer une information contre un fait de réalité ; nous sommes entrés dans le règne de l’inflation événementielle et il nous faut, tant bien que mal, intégrer cette inflation dans le tissu de nos existences quotidiennes. » (« Faire de l’histoire », 1974).

Nous y sommes.

L’approche morphologique : Spengler et Toynbee

Parallèlement à la « nouvelle histoire », une autre approche a tendu à réhabiliter, au XXe siècle, la valeur « articulatoire » de l’événement – et donc les hommes qui le font. Ce sont les auteurs de ce qu’il est convenu d’appeler les « morphologies historiques » : Toynbee et bien sûr Spengler.

L’idée générale est de déduire les lois historiques de la comparaison de phénomènes d’apparence similaire, même s’ils se sont produits à des époques et dans des sociétés très différentes. Les auteurs des morphologies cherchent ainsi dans l’histoire à repérer de « grandes lois » qui se répètent, dont la connaissance permettrait non seulement de comprendre le passé mais aussi, en quelque sorte, de « prophétiser l’avenir ».

Avec Le déclin de l’Occident, publié en 1922, Oswald Spengler frappe les esprits – et il frappe fort. Influencé par les néokantiens, il propose une modélisation de l’histoire inspirée des sciences naturelles, mais en s’en remettant à l’intuition plutôt qu’à des méthodes proprement scientifiques. Sa méthode : « La contemplation, la comparaison, la certitude intérieure immédiate, la juste appréciation des sentiments » (7). Comme les présupposés idéologiques pourraient induire en erreur, la contemplation doit porter sur des millénaires, pour mettre entre l’observateur et ce qu’il observe une distance – une hauteur de vue – qui garantisse son impartialité.

De loin, on peut ainsi contempler la coexistence et la continuité des cultures dans leur « longue durée », chacune étant un phénomène singulier, et qui ne se répète pas, mais qui montre une évolution par phases, qu’il est possible de comparer avec celles d’autres cultures (comme le naturaliste, avec d’autres méthodes, compare les organes de plantes ou d’animaux distincts).

Ces phases sont connues : toute culture, toute civilisation, naît, croît et se développe avant de tomber en décadence, sur des cycles millénaires. Etant entendu qu’« il n’existe pas d’homme en soi, comme le prétendent les bavardages des philosophes, mais rien que des hommes d’un certain temps, en un certain lieu, d’une certaine race, pourvus d’une nature personnelle qui s’impose ou bien succombe dans son combat contre un monde donné, tandis que l’univers, dans sa divine insouciance, subsiste immuable à l’entour. Cette lutte, c’est la vie » (8).

Certes, le terme de « décadence » est discutable, en raison de sa charge émotive : Spengler précisera d’ailleurs ultérieurement qu’il faut l’entendre comme « achèvement » au sens de Goethe (9). Certes, la méthode conduit à des raccourcis hasardeux et des comparaisons parfois malheureuses. Mais la grille d’analyse proposée par Spengler reste tout à fait pertinente. Elle réintroduit le tragique dans l’histoire. Elle rappelle que ce sont les individus, et non les « masses », qui font l’histoire. Elle stimule enfin la nécessité de déceler, « reconnaître » (au sens militaire du terme) les éléments constitutifs de ces ruptures de cycles.

Study_of_History.jpgL’historien britannique Arnold Toynbee va prolonger en quelque sorte cette intuition avec sa monumentale Etude de l’histoire (A Study of History) en 12 volumes, publiée entre 1934 et 1961 (10). Toynbee s’attache également à une « histoire comparée » des grandes civilisations et en déduit, notamment, que les cycles de vie des sociétés ne sont pas écrits à l’avance dans la mesure où ils restent déterminés par deux fondamentaux :

1) Le jeu de la volonté de puissance et des multiples obstacles qui lui sont opposés, mettant en présence et développant les forces internes de chaque société ;

2) Le rôle moteur des individus, des petites minorités créatrices qui trouvent les voies que les autres suivent par mimétisme. Les processus historiques sont ainsi affranchis des processus de nature sociale, ou collective, propres à l’analyse marxiste – malgré la théorie des « minorités agissantes » du modèle léniniste.

En dépit de ses limites méthodologiques, et bien que sévèrement remise en cause par la plupart des historiens « professionnels », cette approche morphologique est particulièrement stimulante parce qu’elle intègre à la fois la volonté des hommes et le « temps long » dans une vision cyclique, et non pas linéaire, de l’histoire. Mais elle tend à en conserver et parfois même renforcer le caractère prophétique, « hégélien », mécanique. Surtout, elle semble faire de l’histoire une matière universelle et invariante en soi, dominée par des lois intangibles. Pourtant, Héraclite déjà, philosophe du devenir et du flux, affirmait que « Tout s’écoule ; on ne se baigne jamais dans le même fleuve » (Fragment 91).

Le questionnement philosophique

La philosophie, par son approche conceptuelle, permet justement de prolonger cette première approche, historique, de l’événement.

Il n’est pas question ici d’évoquer l’ensemble des problématiques soulevées par la notion d’événement, qui a bien évidemment interrogé dès l’origine la réflexion philosophique par les prolongements évidents que celui-ci introduit au Temps, à l’Espace, et à l’Etre.

L’approche philosophique exige assez simplement de réfléchir aux conditions de discrimination par lesquelles nous nommons l’événement : à quelles conditions un événement se produit-il ? Et se signale-t-il comme événement pour nous ? D’un point de vue philosophique, déceler l’événement revient donc à interroger fondamentalement l’articulation entre la continuité successive des « ici et maintenant » (les événements quelconques) avec la discontinuité de l’événement remarquable (celui qui fait l’histoire) (11).

Dès lors, quelques grandes caractéristiques s’esquissent pour qualifier l’événement :

1) Il est toujours relatif (ce qui ne veut pas dire qu’il soit intrinsèquement subjectif).

2) Il est toujours double : à la fois « discontinu sur fond de continuité », et « remarquable en tant que banal ».

3) Il se produit pour la pensée comme ce qui lui arrive (ce n’est pas la pensée qui le produit), et de surcroît ce qui lui arrive du dehors (il faudra d’ailleurs déterminer d’où il vient, qui le produit). Ce qui n’empêche pas l’engagement, comme l’a souligné – et illustré –Thucydide.

Le plus important est que l’événement « fait sens » : il se détache des événements quelconques, de la série causale précédente pour produire un point singulier remarquable – c’est-à-dire un devenir.

L’événement projette de façon prospective, mais aussi rétroactive, une possibilité nouvelle pour les hommes. Il n’appartient pas à l’espace temps strictement corporel, mais à cette brèche entre le passé et le futur que Nietzsche nomme « l’intempestif » et qu’il oppose à l’historique (dans sa Seconde Considération intempestive, justement). Concept que Hannah Arendt, dans la préface à La Crise de la culture, appelle « un petit non espace-temps au cœur même du temps » (12).

C’est un « petit non espace-temps », en effet, car l’événement est une crise irréductible aux conditions antécédentes – sans quoi il serait noyé dans la masse des faits. Le temps n’est donc plus causal, il ne se développe pas tout seul selon la finalité interne d’une histoire progressive : il est brisé. Et l’homme (celui qui nomme l’événement) vit dans l’intervalle entre passé et futur, non dans le mouvement qui conduirait, naïvement, vers le progrès.

ha.jpgPour autant, Arendt conserve la leçon de Marx : ce petit non-espace-temps est bien historiquement situé, il ne provient pas de l’idéalité abstraite. Mais elle corrige l’eschatologie du progrès historique par l’ontologie du devenir initiée par Nietzsche : le devenir, ce petit non espace-temps au cœur même du temps, corrige, bouleverse et modifie l’histoire mais n’en provient pas – « contrairement au monde et à la culture où nous naissons, [il] peut seulement être indiqué, mais ne peut être transmis ou hérité du passé. » (13) Alors que « la roue du temps, en tous sens, tourne éternellement » (Alain de Benoist), l’événement est une faille, un moment où tout semble s’accélérer et se suspendre en même temps. Où tout (re)devient possible. Ou bien, pour reprendre la vision « sphérique » propre à l’Eternel Retour (14) : toutes les combinaisons possibles peuvent revenir un nombre infini de fois, mais les conditions de ce qui est advenu doivent, toujours, ouvrir de nouveaux possibles. Car c’est dans la nature même de l’homme, ainsi que l’a souligné Heidegger : « La possibilité appartient à l’être, au même titre que la réalité et la nécessité. » (15)

Prédire ? Non : pré-voir !

Pour conclure, il convient donc de croiser les apports des recherches historiques et des réflexions philosophiques – et en l’espèce métaphysiques – pour tenter de déceler, dans le bruit, le chaos et l’écume des temps, ce qui fait événement.

On aura compris qu’il n’y a pas de recette miracle. Mais que s’approcher de cette (re)connaissance nécessite de décrypter systématiquement un fait dans ses trois dimensions :

1) Une première dimension, horizontale sans être linéaire, plutôt « sphérique » mais inscrite dans une certaine chronologie : il faut interroger les causes et les remises en causes (les prolongements et les conséquences) possibles, ainsi que le contexte et les acteurs : qui sont-ils et surtout « d’où parlent-ils » ? Pourquoi ?

2) Une deuxième dimension est de nature verticale, d’ordre culturel, social, ou pour mieux dire, civilisationnel : il faut s’attacher à inscrire l’événement dans la hiérarchie des normes et des valeurs, le discriminer pour en déceler la nécessaire altérité, l’« effet rupture », le potentiel révolutionnaire qu’il recèle et révèle à la fois.

3) Une troisième dimension, plus personnelle, à la fois ontologique et axiologique, est enfin nécessaire pour que se croisent les deux dimensions précédentes : c’est l’individu qui vit, et qui pense cette vie, qui est à même de (re)sentir l’événement. C’est son histoire, biologique et culturelle, qui le met en résonance avec son milieu au sens large.

C’est donc fondamentalement dans ses tripes que l’on ressent que « plus rien ne sera comme avant ». L’observateur est un acteur « en dormition ». Dominique Venner a parfaitement illustré cette indispensable tension.

Il convient cependant de rester humbles sur nos capacités réelles.

Et pour ce faire, au risque de l’apparente contradiction, relire Nietzsche. Et plus précisément Par-delà le bien et le mal : « Les plus grands événements et les plus grandes pensées – mais les plus grandes pensées sont les plus grands événements – sont compris le plus tard : les générations qui leur sont contemporaines ne vivent pas ces événements, elles vivent à côté. Il arrive ici quelque chose d’analogue à ce que l’on observe dans le domaine des astres. La lumière des étoiles les plus éloignées parvient en dernier lieu aux hommes ; et avant son arrivée, les hommes nient qu’il y ait là … des étoiles. »

Grégoire Gambier

Ce texte est une reprise actualisée et légèrement remaniée d’une intervention prononcée à l’occasion des IIe Journées de réinformation de la Fondation Polemia, organisées à Paris le 25 octobre 2008.

Notes

(1) Histoire de la guerre du Péloponnèse de Thucydide, traduction, introduction et notes de Jacqueline De Romilly, précédée de La campagne avec Thucydide d’Albert Thibaudet, Robert Laffont, coll. « Bouquins », Paris, 1990.

(2) Ibid. Dans ce texte pénétrant, Thibaudet rappelle notamment l’histoire des livres sibyllins : en n’achetant que trois des neuf ouvrages proposés par la Sybille et où était contenu l’avenir de Rome, Tarquin condamna les Romains à ne connaître qu’une fraction de vérité – et d’avenir. « […] peut-être, en pensant aux six livres perdus, dut-on songer que cette proportion d’un tiers de notre connaissance possible de l’avenir était à peu près normale et proportionnée à l’intelligence humaine. L’étude de l’histoire peut nous amener à conclure qu’en matière historique il y a des lois et que ce qui a été sera. Elle peut aussi nous conduire à penser que la durée historique comporte autant d’imprévisible que la durée psychologique, et que l’histoire figure un apport incessant d’irréductible et de nouveau. Les deux raisonnements sont également vrais et se mettraient face à face comme les preuves des antinomies kantiennes. Mais à la longue l’impression nous vient que les deux ordres auxquels ils correspondent sont mêlés indiscernablement, que ce qui est raisonnablement prévisible existe, débordé de toutes parts par ce qui l’est point, par ce qui a pour essence de ne point l’être, que l’intelligence humaine, appliquée à la pratique, doit sans cesse faire une moyenne entre les deux tableaux ».

(3) Après bien des tâtonnements malheureux, les manuels scolaires ont fini par réhabiliter l’intérêt pédagogique principal de la chronologie. Au niveau académique, on doit beaucoup notamment à Georges Duby (1919-1996). Médiéviste qui s’est intéressé tour à tour, comme la plupart de ses confrères de l’époque, aux réalités économiques, aux structures sociales et aux systèmes de représentations, il accepte en 1968 de rédiger, dans la collection fondée par Gérald Walter, « Trente journées qui ont fait la France », un ouvrage consacré à l’un de ces jours mémorables, le 27 juillet 1214. Ce sera Le dimanche de Bouvines, publié pour la première fois en 1973. Une bombe intellectuelle qui redécouvre et exploite l’événement sans tourner le dos aux intuitions braudeliennes. Cf. son avant-propos à l’édition en poche (Folio Histoire, 1985) de cet ouvrage (re)fondateur : « C’est parce qu’il fait du bruit, parce qu’il est ‘grossi par les impressions des témoins, par les illusions des historiens’, parce qu’on en parle longtemps, parce que son irruption suscite un torrent de discours, que l’événement sensationnel prend son inestimable valeur. Pour ce que, brusquement, il éclaire. »

(4) Cette analyse, ainsi que celle qui suit concernant l’Ecole des Annales, est directement inspirée de La nouvelle histoire, sous la direction de Jacques Le Goff, Roger Chartier et Jacques Revel, CEPL, coll. « Les encyclopédies du savoir moderne », Paris, 1978, pp. 166-167.

(5) Cf. la revue de sociologie appliquée « Terrain », n°38, mars 2002.

(6) Cf. L’histoire, Editions Grammont, Lausanne, 1975, dont s’inspire également l’analyse proposée des auteurs « morphologistes » – Article « Les morphologies : les exemples de Spengler et Toynbee », pp. 66-73.

(7) Ibid.

(8) Ecrits historiques et philosophiques – Pensées, préface d’Alain de Benoist, Editions Copernic, Paris, 1979, p. 135.

(9) Ibid., article « Pessimisme ? » (1921), p. 30.

(10) Une traduction française et condensée est disponible, publiée par Elsevier Séquoia (Bruxelles, 1978). Dans sa préface, Raymond Aron rappelle que, « lecteur de Thucydide, Toynbee discerne dans le cœur humain, dans l’orgueil de vaincre, dans l’ivresse de la puissance le secret du destin », ajoutant : « Le stratège grec qui ne connaissait, lui non plus, ni loi du devenir ni décret d’en haut, inclinait à une vue pessimiste que Toynbee récuse tout en la confirmant » (p. 7).

(11) L’analyse qui suit est directement inspirée des travaux du Centre d’Etudes en Rhétorique, Philosophie et Histoire des Idées (Cerphi), et plus particulièrement de la leçon d’agrégation de philosophie « Qu’appelle-t-on un événement ? », www.cerphi.net.

(12) Préface justement intitulée « La brèche entre le passé et le futur », Folio essais Gallimard, Paris, 1989 : « L’homme dans la pleine réalité de son être concret vit dans cette brèche du temps entre le passé et le futur. Cette brèche, je présume, n’est pas un phénomène moderne, elle n’est peut-être même pas une donné historique mais va de pair avec l’existence de l’homme sur terre. Il se peut bien qu’elle soit la région de l’esprit ou, plutôt, le chemin frayé par la pensée, ce petit tracé de non-temps que l’activité de la pensée inscrit à l’intérieur de l’espace-temps des mortels et dans lequel le cours des pensées, du souvenir et de l’attente sauve tout ce qu’il touche de la ruine du temps historique et biographique (…) Chaque génération nouvelle et même tout être humain nouveau en tant qu’il s’insère lui-même entre un passé infini et un futur infini, doit le découvrir et le frayer laborieusement à nouveau » (p. 24). Etant entendu que cette vision ne vaut pas négation des vertus fondatrices de l’événement en soi : « Ma conviction est que la pensée elle-même naît d’événements de l’expérience vécue et doit leur demeurer liés comme aux seuls guides propres à l’orienter » – Citée par Anne Amiel, Hannah Arendt – Politique et événement, Puf, Paris, 1996, p. 7.

(13) Ibid. Ce que le poète René Char traduira, au sortir de quatre années dans la Résistance, par l’aphorisme suivant : « Notre héritage n’est précédé d’aucun testament » (Feuillets d’Hypnos, Paris, 1946).

(14) Etant entendu que le concept n’a pas valeur historique, ni même temporelle, car il se situe pour Nietzsche en dehors de l’homme et du temps pour concerner l’Etre lui-même : c’est « la formule suprême de l’affirmation, la plus haute qui se puisse concevoir » (Ecce Homo). L’Eternel retour découle ainsi de la Volonté de puissance pour constituer l’ossature dialectique du Zarathoustra comme « vision » et comme « énigme » pour le Surhomme, dont le destin reste d’être suspendu au-dessus du vide. Pour Heidegger, les notions de Surhomme et d’Eternel retour sont indissociables et forment un cercle qui « constitue l’être de l’étant, c’est-à-dire ce qui dans le devenir est permanent » (« Qui est le Zarathoustra de Nietzsche ? », in Essais et conférences, Tel Gallimard, 1958, p. 139).

(15) « Post-scriptum – Lettre à un jeune étudiant », in Essais et conférences, ibid., p. 219. En conclusion à la conférence sur « La chose », Heidegger rappelle utilement que « ce sont les hommes comme mortels qui tout d’abord obtiennent le monde comme monde en y habitant. Ce qui petitement naît du monde et par lui, cela seul devient un jour une chose »…

jeudi, 29 janvier 2015

El Banco de Inglaterra y la destrucción de América Hispana

por Julio C. González

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

“Gran Bretaña destruyó a las Españas de América, manteniéndolas sojuzgadas en el siglo XXI, por medio de un feroz neocolonialismo y dependencia económica y financiera (…)  Este neocolonialismo provoca que el comodumes decir, las ganancias, vayan hacia Londres; por otra parte el periculumlas pérdidas, son para Hispanoamérica: hambre, desocupación, enfermedades letales, analfabetismo e ignorancia, desnutrición”

El siguiente texto es un extracto del libro “La involución hispanoamericana. De provincias de las Españas a territorios tributarios. El caso argentino. 1711-2010″ (Capítulo XXVI: La “pérdida” del Imperio Español y el Banco de Inglaterra), obra de Julio C. González, abogado y economista, ex Secretario Técnico de la Presidencia de Perón y ex Profesor de la Universidad de Buenos Aires, y actualmente Profesor Titular de “Estructura Económica Argentina” en la Universidad Lomas de Zamora (Buenos Aires).

El Banco como punta de lanza para continuar la destrucción de los pueblos hispanos

Los intereses económico-financieros de Gran Bretaña utilizaron estas sociedades, masónicas o afines, para disolver y destruir el Imperio español, que era una civilización mundial afirmada sobre cuatro parámetros muy firmes:

1)    Posiciones filosóficas.

2)    Deslinde religioso.

3)    Estructura jurídica.

4)    Conformación-concordancia económica.

España no era ni podrá ser jamás un absolutismo o una hegemonía iconoclasta de libertades elementales para la vida. Porque España posee un sincretismo edificado por San Isidoro de Sevilla (circa 560-636) en el Concilio de Toledo (633), sobre el que se unificó la península ibérica como pueblo español. Tal unificación se desenvolvió, más tarde, sobre la base de la congruencia de tres pensadores colosos de sus axiomas interdependientes: Averroes (1126-1198), islámico, Maimónides (1135-1204), judío sefaradí, ambos de la Córdoba andalusí, y Santo Tomás de Aquino (1225-1274), de Roccasecca, en el Reino de Nápoles, Italia.

Los denominados “próceres”, “patriotas” o “libertadores” tanto por la historia “clásica” cuanto por la “revisionista”, si hubieran sido merecedores de tales denominaciones honoríficas, debieron en primer lugar haber conservado el mundialismo geográfico político de la estructura mundial Imperio español. El Imperio español tenía los siguientes hitos positivos:

  1. Idioma.
  2. Derecho: Nueva y Novísima Recopilación de las Leyes de Indias, que establecen derechos, obligaciones y responsabilidades para todos.
  3. Religión: en las Españas de América era el cristianismo católico, yuxtapuesto, en su aspecto antropológico, con las creencias ancestrales del Dios-Sol y la Madre-Tierra.
  4. Tradiciones culturales: música, poesía, instrumentos musicales, canto, baile.
  5. Arte escultórico: catedrales, pirámides aztecas y mayas en México y Yucatán; Puerta del Sol en Bolivia y ciudades incaicas del Perú: Machu Picchu.
  6. Conocimientos científicos: medicinales, matemáticos y astronómicos.

En vez de mantener esta armonía sobre la cual pudo haberse edificado una gran civilización, los secesionistas llamados libertadores segmentaron, diezmaron y trituraron todo. Los cuerpos, templos de la vida humana, fueron masacrados sin pausa ni piedad en feroces e interminables guerras civiles durante el siglo XIX. Durante el jactancioso siglo XX, el hambre, la miseria y las enfermedades fueron los vehículos usados para continuar con tal destrucción.

Hemos acreditado fehacientemente de qué manera Gran Bretaña destruyó a las Españas de América, manteniéndolas sojuzgadas en el siglo XXI, por medio de un feroz neocolonialismo y dependencia económica y financiera. Recapitulemos cronológicamente a riesgo de ser reiterativos:

1)    Tratado de Methuen de 1703: a cambio de tarifas de privilegio concedidas a los vinos portugueses que entraran a Inglaterra (en contra de los vinos franceses y españoles), Portugal abroga las tarifas portuguesas de 1684 sobre las lanas inglesas. Al mismo tiempo, los ingleses adquieren el privilegio exclusivo de comerciar libremente con el Brasil y con Portugal.

Con esta franquicia, depositaban todas las mercaderías –que luego introducían de contrabando  en España y en la América española- en las costas de Portugal y de Brasil (1).

2)    Tratados de Utrecht de 1713 y 1714:

a)    Imponen a España asientos de negros (diez) en las Españas de América.

b)    Navíos de registro, o buques ingleses para traficar libremente en los puertos de las Españas de América.

c)    Imponen a España “la cláusula de la Nación más favorecida” por la cual no pueden otorgar a otros países beneficios que no sean automáticamente concedidos a Inglaterra.

Estas franquicias permitieron que el Imperio español fuese penetrado en toda su extensión por el contrabando inglés (Muret, 1944: 20-21).

3)    Plan de 1711: “Una propuesta para humillar a España”.

4)    Respuesta de España en 1776:

a)    4 de julio: Creación de los Estados Unidos de Norteamérica como una república independiente. Acción de José de Gálvez.

b)    1º de agosto: Creación del Virreynato del Río de la Plata: territorio bioceánico con 7.200.000 Km2 de superficie.

5)    Plan Maitland-Pitt de 1804: método operativo para realizar íntegramente el plan estratégico de conquista de la América española de 1711. Cabeceras de puente: Buenos Aires y Caracas (Venezuela).

6)    Primera y Segunda Invasión Inglesa a Buenos Aires y Montevideo en 1806 y 1807: llevadas a cabo por Beresford y Whitelocke, que son derrotados por Santiago de Liniers, Juan Gutiérrez de la Concha, Martín de Álzaga y Felipe de Sentenach.

Beresford organiza dos logias: “Los hijos de Hiram” y “Los libres del sur” en la casa de Antonio de Escalada, futuro suegro de San Martín (Ferns, Harry S., 1968).

7)    25 de mayo de 1810: Golpe de Estado y destitución del virrey, consumado por las fragatas británicas Pitt, Misletoe y Mutin, y por el súbdito inglés (encubierto) Cornelio Judas Tadeo Saavedra, que dirigía el Regimiento Patricios, el de mayor poder de fuego.

 

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La Junta recibe en primera audiencia los almirantes De Courcy y Fabian. Imponen que el Edicto de Libre Comercio con Inglaterra y sólo con Inglaterra –que había vencido el 18 de mayo de 1810- no tenga fecha de vencimiento. Los buques británicos empavesaron sus mástiles y lanzaron una salva de artillería.

La bandera de la Junta es la bandera inglesa unida a la española (Williams Álzaga, 1966: 28).

8)    8 de octubre de 1812: San Martín y su hermano de sangre –Alvear-, junto con la Logia Lautaro destituyen al Primer Triunvirato y fuerzan la designación de Nicolás Rodríguez Peña, Antonio Álvarez Jonte y Juan José Paso. Surge así el Segundo Triunvirato resultado de la alianza de la Logia y Poder Militar. Es el primer golpe de Estado de nuestra patria.  Comienza a ejecutarse el Plan Pitt-Maitland de 1804.

9)    9 de julio de 1816: un Congreso convocado en Tucumán para dictar una constitución declara intempestivamente la independencia de América del Sur.

Objetivo: Inglaterra, mediadora entre la España europea y las Españas de América, impide que Rusia auxilie a la España europea para poner fin a la secesión sistematizada que Gran Bretaña organizó. Se procedió así a la fragmentación de las Españas de América, poniendo trabas a su reunificación.

10) 2 de febrero de 1825: Gran Bretaña impuso en cuatro (4) meses el Tratado de Amistad, Comercio y Navegación a las Españas de América. Por el mismo se disponía:

a)    Inglaterra sería el taller del mundo y la América española, su granja. Esto significa: ser proveedora de materias primas sin valores agregados, y tributaria de empréstitos.

b)    Gran Bretaña adquiere el derecho exclusivo de navegar por ríos interiores, con acceso a parajes y predios de toda la Argentina.

c)    Toda la navegación del ultramar de las Españas de América debe realizarse exclusivamente con navíos ingleses (art. 7º del tratado). De esta manera Gran Bretaña moviliza con exclusividad: contenido de bodegas, fletes, seguros y créditos de toda Hispanoamérica. Esto equivalía aproximadamente a la tercera parte de la masa monetaria del mundo.

d)    Régimen del artículo 11 del Tratado: en caso de guerra con Gran Bretaña (por ejemplo, Malvina 1982) le es prohibido a la Argentina interrumpir el comercio con Inglaterra.

El Banco de Inglaterra, piedra basal elemental de estas reflexiones

Los orígenes del movimiento bancario británico, “radican en los préstamos con intereses que hacían los usureros quienes, al ser expulsados en el año 1290, fueron reemplazados en tales menesteres por negociantes de los Estados lombardos de Italia que se establecieron en Londres en las inmediaciones de la calle que hoy lleva su nombre” (2). Esa calle se denominó desde entonces Lombard Street (3) y a partir de ese momento fue la sede central del mercado monetario de Londres.

Hacia 1500, con motivo del descubrimiento de América, los banqueros venecianos se radicaron en Londres. Esta invasión fue inmortalizada por William Shakespeare en su obra, anatema de la avaricia, El mercader de Venecia.

Durante el reinado de Isabel I (1533-1603), los corsarios ingleses, como por ejemplo sir Francis Drake, abarrotaron de oro el mercado monetario de Londres con los saqueos criminales que perpetraron contra ciudades de América y navíos españoles.

Durante este reinado se anexó Escocia a Inglaterra y se adquirió una supremacía marítima absoluta. Bajo el régimen de la República inglesa de Oliverio Cromwell (1649-1659) se conquistó Jamaica y se dictó el Acta de Navegación, por la cual todo lo que ingresase o saliese de Gran Bretaña debía transportarse en buques ingleses. Es decir, que Gran Bretaña prohibía que el comercio de importación y exportación pudiera realizarse con otros navíos que no fueran suyos.

En 1688 se produjo la gran revolución inglesa que erradicó del trono a Jacobo II Estuardo, designando rey a Guillermo de Orange de Holanda.

Esto provocó que a los banqueros ingleses, lombardos y venecianos se sumaran los banqueros holandeses. Todos esos grupos monetarios se afirmaron en Londres. En 1694 fue creado el Banco de Inglaterra, ente financiero de inagotables recursos para todas las conquistas británicas:

  1. Dominación de Portugal por el Tratado de Methuen en 1703.
  2. Tratados de Utrecht de 1713 y 1714: penetración por las franquicias que condujeron al contrabando a gran escala en la América española.
  3. Incorporación del Canadá.
  4. Conquista de la India hacia 1770 por el general inglés lord Robert Clive (1725-1774).
  5. Conquista económica y financiera de las Españas de América entre 1810 y 1825, etc., etc.

El Banco de Inglaterra es hoy, 2009, el más grande y poderoso del mundo, como lo demuestra la reunión del G20 en abril del corriente año.

Así se formó el Imperio británico, hoy denominado Commonwealth, con 64 países. Entre éstos se hallan Australia, Nueva Zelanda, África del Sur, India y Canadá. El territorio abarca 30 millones de kilómetros cuadrados y alberga a 1.600 millones de habitantes.

A lo anterior debemos adicionar la dependencia total que Hispanoamérica tiene hacia Gran Bretaña en lo económico y financiero. Este neocolonialismo provoca que el comodum, es decir, las ganancias, vayan hacia Londres; por otra parte el periculum, las pérdidas, son para Hispanoamérica: hambre, desocupación, enfermedades letales, analfabetismo e ignorancia, desnutrición, raquitismo, drogas y sida.

NOTAS

(1) Muret, Pierre (1944) La preponderancia inglesa, Ed, Minerva, México, p.18.

(2) Watson, Guy M. (1960) El Banco de Inglaterra, Ed. Centro de Estudios Monetarios Latinoamericanos, México, p.11.

(3) Bagehot, Walter (1968) Lombard Street. El mercado monetario de Londres, FCE, México.

lundi, 26 janvier 2015

Thomas Cromwell was the Islamic State of his day


         
       

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Hans Holbein’s portrait of Thomas Cromwell Photo: Alamy

On July 24, 2014, worshippers in Mosul were asked to leave one of the city’s most historic and famous buildings — an ancient Nestorian-Assyrian church that had long ago been converted into the Mosque of the Prophet Younis (biblical Jonah). The Islamic State then rigged the entire building with explosives, and blew it into oblivion. Tragically, it was a Shia mosque - one of many that have suffered the same fate.

The UK's current primetime TV fantasy blockbuster du jour is Wolf Hall. Everyone loves a costume drama, but there is a world of difference between fictional history and historical fiction. One dramatizes real people and events. The other is an entirely made-up story set in the past. The current tendency is to blur the two, which Wolf Hall does spectacularly.

Thomas Cromwell, whose life it chronicles, comes across as a plucky, self-made Englishman, whose quiet reserve suggests inner strength and personal nobility. Back in the real world, Cromwell was a “ruffian” (in his own words) turned sectarian extremist, whose religious vandalism bears striking comparison with the iconoclasm of Islamic State or the Afghani Taliban.

Thanks to Wolf Hall, more people have now heard of Thomas Cromwell, and this is a good thing. But underneath its fictionalized portrayal of Henry VIII’s chief enforcer, there is a historical man, and he is one whose record for murder, looting, and destruction ought to have us apoplectic with rage, not reaching for the popcorn.

Historians rarely agree on details, so a lot about Cromwell’s inner life is still up for debate. But it is a truly tough job finding anything heroic in the man’s legacy of brutality and naked ambition.

Against a backdrop of Henry VIII’s marital strife, the pathologically ambitious Cromwell single-handedly masterminded the break with Rome in order to hand Henry the Church, with its all-important control of divorce and marriage. There were, to be sure, small pockets of Protestantism in England at the time, but any attempt to cast Cromwell’s despotic actions as sincere theological reform are hopeless. Cromwell himself had minimal truck with religious belief. He loved politics, money, and power, and the reformers could give them to him.

Flushed with the success of engineering Henry’s divorce from Catherine of Aragon and his marriage to Anne Boleyn, Cromwell moved on to confiscating the Church’s money. Before long, he was dissolving monasteries as fast as he could, which meant seizing anything that was not nailed down and keeping it for himself, for Henry, and for their circle of friends. It was the biggest land-grab and asset-strip in English history, and Cromwell sat at the centre of the operation, at the heart of a widely-loathed, absolutist, and tyrannical regime. When Anne Boleyn pointed out that the money should be going to charity or good works, he fitted her up on charges of adultery, and watched as she was beheaded.

As an adviser to Henry, Cromwell could have attempted to guide the hot-headed king, to tame his wilder ambitions, counsel him in patience, uphold the many freedoms enjoyed by his subjects. But Cromwell had no interest in moderation. He made all Henry’s dreams come true, riding roughshod over the law of the land and whoever got in his way. For instance, we are hearing a lot about Magna Carta this year, but Cromwell had no time for tedious trials and judgement by peers. With lazy strokes of his pen, he condemned royalty, nobles, peasants, nuns, and monks to horrific summary executions. We are not talking half a dozen. He dispatched hundreds under his highly politicised “treason” laws. (When his own time came and the tables had turned, he pleaded to Henry: “Most gracyous prynce I crye for mercye mercye mercye.” But he was given all the mercy he had shown others.)

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And then there is his impact on this country’s artistic and intellectual heritage. No one can be sure of the exact figure, but it is estimated that the destruction started and legalised by Cromwell amounted to 97% of the English art then in existence. Statues were hacked down. Frescoes were smashed to bits. Mosaics were pulverized. Illuminated manuscripts were shredded. Wooden carvings were burned. Precious metalwork was melted down. Shrines were reduced to rubble. This vandalism went way beyond a religious reform. It was a frenzy, obliterating the artistic patrimony of centuries of indigenous craftsmanship with an intensity of hatred for imagery and depicting the divine that has strong and resonant parallels today.

It can only be a good thing that people are again thinking about Cromwell. Because as we look to the east, to the fanaticism that is sacking the cultural and artistic heritage of other ancient societies, we can all draw the same, inevitable conclusions about religious extremism in any age, whether Christian, Muslim, Jewish, Hindu, or Buddhist. None of it is pretty. All of it is real. And we, in England, are not in some way removed from it. We only have to survey the smashed up medieval buildings the length and breadth of the country, or contemplate Cromwell’s record of public beheadings and other barbarous executions.

It is plain that extremists come in all shapes and sizes.

dimanche, 25 janvier 2015

The Epochal Consequences Of Woodrow Wilson’s War

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The Epochal Consequences Of Woodrow Wilson’s War

By

David Stockman's Corner

Committee for the Republic & http://www.lewrockwell.com

Washington DC January 20, 2015

My humble thesis tonight is that the entire 20th Century was a giant mistake.

And that you can put the blame for this monumental error squarely on Thomas Woodrow Wilson——-a megalomaniacal madman who was the very worst President in American history……..well, except for the last two.

His unforgiveable error was to put the United States into the Great War for utterly no good reason of national interest. The European war posed not an iota of threat to the safety and security of the citizens of Lincoln NE, or Worcester MA or Sacramento CA. In that respect, Wilson’s putative defense of “freedom of the seas” and the rights of neutrals was an empty shibboleth; his call to make the world safe for democracy, a preposterous pipe dream.

Actually, his thinly veiled reason for plunging the US into the cauldron of the Great War was to obtain a seat at the peace conference table——so that he could remake the world in response to god’s calling.

But this was a world about which he was blatantly ignorant; a task for which he was temperamentally unsuited; and an utter chimera based on 14 points that were so abstractly devoid of substance as to constitute mental play dough.

Or, as his alter-ego and sycophant, Colonel House, put it:  Intervention positioned Wilson to play “The noblest part that has ever come to the son of man”.  America thus plunged into Europe’s carnage, and forevermore shed its century-long Republican tradition of anti-militarism and non-intervention in the quarrels of the Old World.

Needless to say, there was absolutely nothing noble that came of Wilson’s intervention. It led to a peace of vengeful victors, triumphant nationalists and avaricious imperialists—-when the war would have otherwise ended in a bedraggled peace of mutually exhausted bankrupts and discredited war parties on both sides.

m-1918-11-30 Soldier leading Turkey - J C Leyendecker.jpgBy so altering the course of history, Wilson’s war bankrupted Europe and midwifed 20th century totalitarianism in Russia and Germany.

These developments, in turn, eventually led to the Great Depression, the Welfare State and Keynesian economics, World War II, the holocaust, the Cold War, the permanent Warfare State and its military-industrial complex.

They also spawned Nixon’s 1971 destruction of sound money, Reagan’s failure to tame Big Government and Greenspan’s destructive cult of monetary central planning.

So, too, flowed the Bush’s wars of intervention and occupation,  their fatal blow to the failed states in the lands of Islam foolishly created by the imperialist map-makers at Versailles and the resulting endless waves of blowback and terrorism now afflicting the world.

And not the least of the ills begotten in Wilson’s war is the modern rogue regime of central bank money printing, and the Bernanke-Yellen plague of bubble economics which never stops showering the 1% with the monumental windfalls from central bank enabled speculation.

Consider the building blocks of that lamentable edifice.

First, had the war ended in 1917 by a mutual withdrawal from the utterly stalemated trenches of the Western Front, as it was destined to, there would have been no disastrous summer offensive by the Kerensky government, or subsequent massive mutiny in Petrograd that enabled Lenin’s flukish seizure of power in November. That is, the 20th century would not have been saddled with a Stalinist nightmare or with a Soviet state that poisoned the peace of nations for 75 years, while the nuclear sword of Damocles hung over the planet.

Likewise, there would have been no abomination known as the Versailles peace treaty; no “stab in the back” legends owing to the Weimar government’s forced signing of the “war guilt” clause; no continuance of England’s brutal post-armistice blockade that delivered Germany’s women and children into starvation and death and left a demobilized 3-million man army destitute, bitter and on a permanent political rampage of vengeance.

So too, there would have been no acquiescence in the dismemberment of Germany and the spreading of its parts and pieces to Poland, Czechoslovakia, Denmark, France, Austria and Italy—–with the consequent revanchist agitation that nourished the Nazi’s with patriotic public support in the rump of the fatherland.

Nor would there have materialized the French occupation of the Ruhr and the war reparations crisis that led to the destruction of the German middle class in the 1923 hyperinflation; and, finally, the history books would have never recorded the Hitlerian ascent to power and all the evils that flowed thereupon.

In short, on the approximate 100th anniversary of Sarajevo, the world has been turned upside down.

The war of victors made possible by Woodrow Wilson destroyed the liberal international economic order—that is, honest money, relatively free trade, rising international capital flows and rapidly growing global economic integration—-which had blossomed during the 40-year span between 1870 and 1914.

That golden age had brought rising living standards, stable prices, massive capital investment, prolific technological progress and pacific relations among the major nations——a condition that was never equaled, either before or since.

m-28877-guy-arnoux-.jpgNow, owing to Wilson’s fetid patrimony, we have the opposite: A world of the Warfare State, the Welfare State, Central Bank omnipotence and a crushing burden of private and public debts. That is, a thoroughgoing statist regime that is fundamentally inimical to capitalist prosperity, free market governance of economic life and the flourishing of private liberty and constitutional safeguards against the encroachments of the state.

So Wilson has a lot to answer for—-and my allotted 30 minutes can hardly accommodate the full extent of the indictment. But let me try to summarize his own “war guilt” in eight major propositions——a couple of which my give rise to a disagreement or two.

Proposition #1:  Starting with the generic context——the Great War was about nothing worth dying for and engaged no recognizable principle of human betterment. There were many blackish hats, but no white ones.

Instead, it was an avoidable calamity issuing from a cacophony of political incompetence, cowardice, avarice and tomfoolery.

Blame the bombastic and impetuous Kaiser Wilhelm for setting the stage with his foolish dismissal of Bismarck in 1890, failure to renew the Russian reinsurance treaty shortly thereafter and his quixotic build-up of the German Navy after the turn of the century.

Blame the French for lashing themselves to a war declaration that could be triggered by the intrigues of a decadent court in St. Petersburg where the Czar still claimed divine rights and the Czarina ruled behind the scenes on the hideous advice of Rasputin.

Likewise, censure Russia’s foreign minister Sazonov for his delusions of greater Slavic grandeur that had encouraged Serbia’s provocations after Sarajevo; and castigate the doddering emperor Franz Joseph for hanging onto power into his 67th year on the throne and thereby leaving his crumbling empire vulnerable to the suicidal impulses of General Conrad’s war party.

So too, indict the duplicitous German Chancellor, Bethmann-Hollweg, for allowing the Austrians to believe that the Kaiser endorsed their declaration of war on Serbia; and pillory Winston Churchill and London’s war party for failing to recognize that the Schlieffen Plan’s invasion through Belgium was no threat to England, but a unavoidable German defense against a two-front war.

But after all that—- most especially don’t talk about the defense of democracy, the vindication of liberalism or the thwarting of Prussian autocracy and militarism.

The British War party led by the likes of Churchill and Kitchener was all about the glory of empire, not the vindication of democracy; France’ principal war aim was the revanchist drive to recover Alsace-Lorrain—–mainly a German speaking territory for 600 years until it was conquered by Louis XIV.

In any event, German autocracy was already on its last leg as betokened by the arrival of universal social insurance and the election of a socialist-liberal majority in the Reichstag on the eve of the war; and the Austro-Hungarian, Balkan and Ottoman goulash of nationalities, respectively, would have erupted in interminable regional conflicts, regardless of who won the Great War.

In short, nothing of principle or higher morality was at stake in the outcome.

Proposition # 2:  The war posed no national security threat whatsoever to the US.  Presumably, of course, the danger was not the Entente powers—but Germany and its allies.

But how so?  After the Schlieffen Plan offensive failed on September 11, 1914, the German Army became incarcerated in a bloody, bankrupting, two-front land war that ensured its inexorable demise. Likewise, after the battle of Jutland in May 1916, the great German surface fleet was bottled up in its homeports—-an inert flotilla of steel that posed no threat to the American coast 4,000 miles away.

As for the rest of the central powers, the Ottoman and Hapsburg empires already had an appointment with the dustbin of history. Need we even bother with the fourth member—-that is, Bulgaria?

Proposition #3:  Wilson’s pretexts for war on Germany—–submarine warfare and the Zimmerman telegram—-are not half what they are cracked-up to be by Warfare State historians.

As to the so-called freedom of the seas and neutral shipping rights, the story is blatantly simple. In November 1914, England declared the North Sea to be a “war zone”; threatened neutral shipping with deadly sea mines; declared that anything which could conceivably be of use to the German army—directly or indirectly—-to be contraband that would be seized or destroyed; and announced that the resulting blockade of German ports was designed to starve it into submission.

A few months later, Germany announced its submarine warfare policy designed to the stem the flow of food, raw materials and armaments to England in retaliation.  It was the desperate antidote of a land power to England’s crushing sea-borne blockade.

Accordingly, there existed a state of total warfare in the northern European waters—-and the traditional “rights” of neutrals were irrelevant and disregarded by both sides. In arming merchantmen and stowing munitions on passenger liners, England was hypocritical and utterly cavalier about the resulting mortal danger to innocent civilians—–as exemplified by the 4.3 million rifle cartridges and hundreds of tons of other munitions carried in the hull of the Lusitania.

Likewise, German resort to so-called “unrestricted submarine warfare” in February 1917 was brutal and stupid, but came in response to massive domestic political pressure during what was known as the “turnip winter” in Germany.  By then, the country was starving from the English blockade—literally.

Before he resigned on principle in June 1915, Secretary William Jennings Bryan got it right. Had he been less diplomatic he would have said never should American boys be crucified on the cross of Cunard liner state room so that a few thousand wealthy plutocrat could exercise a putative “right” to wallow in luxury while knowingly cruising into in harm’s way.

As to the Zimmerman telegram, it was never delivered to Mexico, but was sent from Berlin as an internal diplomatic communique to the German ambassador in Washington, who had labored mightily to keep his country out of war with the US, and was intercepted by British intelligence, which sat on it for more than a month waiting for an opportune moment to incite America into war hysteria.

In fact, this so-called bombshell was actually just an internal foreign ministry rumination about a possible plan to approach the Mexican president regarding an alliance in the event that the US first went to war with Germany.

Why is this surprising or a casus belli?  Did not the entente bribe Italy into the war with promises of large chunks of Austria? Did not the hapless Rumanians finally join the entente when they were promised Transylvania?  Did not the Greeks bargain endlessly over the Turkish territories they were to be awarded for joining the allies?  Did  not Lawrence of Arabia bribe the Sherif of Mecca with the promise of vast Arabian lands to be extracted from the Turks?

Why, then, would the German’s—-if at war with the USA—- not promise the return of Texas?

Proposition #4:  Europe had expected a short war, and actually got one when the Schlieffen plan offensive bogged down 30 miles outside of Paris on the Marne River in mid-September 1914.  Within three months, the Western Front had formed and coagulated into blood and mud——a ghastly 400 mile corridor of senseless carnage, unspeakable slaughter and incessant military stupidity that stretched from the Flanders coast across Belgium and northern France to the Swiss frontier.

m-450437.jpgThe next four years witnessed an undulating line of trenches,  barbed wire entanglements, tunnels, artillery emplacements and shell-pocked scorched earth that rarely moved more than a few miles in either direction, and which ultimately claimed more than 4 million casualties on the Allied side and 3.5 million on the German side.

If there was any doubt that Wilson’s catastrophic intervention converted a war of attrition, stalemate and eventual mutual exhaustion into Pyrrhic victory for the allies, it was memorialized in four developments during 1916.

In the first, the Germans wagered everything on a massive offensive designed to overrun the fortresses of Verdun——the historic defensive battlements on France’s northeast border that had stood since Roman times, and which had been massively reinforced after the France’s humiliating defeat in Franco-Prussian War of 1870.

But notwithstanding the mobilization of 100 divisions, the greatest artillery bombardment campaign every recorded until then, and repeated infantry offensives from February through November that resulted in upwards of 400,000 German casualties, the Verdun offensive failed.

The second event was its mirror image—-the massive British and French offensive known as the battle of the Somme, which commenced with equally destructive artillery barrages on July 1, 1916 and then for three month sent waves of infantry into the maws of German machine guns and artillery. It too ended in colossal failure, but only after more than 600,000 English and French casualties including a quarter million dead.

In between these bloodbaths, the stalemate was reinforced by the naval showdown at Jutland that cost the British far more sunken ships and drowned sailors than the Germans, but also caused the Germans to retire their surface fleet to port and never again challenge the Royal Navy in open water combat.

Finally, by year-end 1916 the German generals who had destroyed the Russian armies in the East with only a tiny one-ninth fraction of the German army—Generals Hindenburg and Ludendorff —were given command of the Western Front. Presently, they radically changed Germany’s war strategy by recognizing that the growing allied superiority in manpower, owing to the British homeland draft of 1916 and mobilization of forces from throughout the empire, made a German offensive breakthrough will nigh impossible.

The result was the Hindenburg Line—a military marvel based on a checkerboard array of hardened pillbox machine gunners and maneuver forces rather than mass infantry on the front lines, and an intricate labyrinth of highly engineered tunnels, deep earth shelters, rail connections, heavy artillery and flexible reserves in the rear. It was also augmented by the transfer of Germany’s eastern armies to the western front—-giving it 200 divisions and 4 million men on the Hindenburg Line.

This precluded any hope of Entente victory. By 1917 there were not enough able-bodied draft age men left in France and England to overcome the Hindenburg Line, which, in turn,  was designed to bleed white the entente armies led by butchers like Generals Haig and Joffre until their governments sued for peace.

Thus, with the Russian army’s disintegration in the east and the stalemate frozen indefinitely in the west by early 1917, it was only a matter of months before mutinies among the French lines, demoralization in London, mass starvation and privation in Germany and bankruptcy all around would have led to a peace of exhaustion and a European-wide political revolt against the war makers.

Wilson’s intervention thus did not remake the world. But it did radically re-channel the contours of 20th century history. And, as they say, not in a good way.

Proposition #5:  Wilson’s epochal error not only produced the abomination of Versailles and all its progeny, but also the transformation of the Federal Reserve from a passive “banker’s bank” to an interventionist central bank knee-deep in Wall Street, government finance and macroeconomic management.

m-cur03_bly_001z.jpgThis, too, was a crucial historical hinge point because Carter Glass’ 1913 act forbid the new Reserve banks to even own government bonds; empowered them only to passively discount for cash good commercial credits and receivables brought to the rediscount window by member banks; and contemplated no open market interventions in debt markets or any remit with respect to GDP growth, jobs, inflation, housing or all the rest of modern day monetary central planning targets.

In fact, Carter Glass’ “banker’s bank” didn’t care whether the growth rate was positive 4%, negative 4% or anything in-between; its modest job was to channel liquidity into the banking system in response to the ebb and flow of commerce and production.

Jobs, growth and prosperity were to remain the unplanned outcome of millions of producers, consumers, investors, savers, entrepreneurs and speculators operating on the free market, not the business of the state.

But Wilson’s war took the national debt from about $1 billion or $11 per capita—–a level which had been maintained since the Battle of Gettysburg—-to $27 billion, including upwards of $10 billion re-loaned to the allies to enable them to continue the war. There is not a chance that this massive eruption of Federal borrowing could have been financed out of domestic savings in the private market.

So the Fed charter was changed owing to the exigencies of war to permit it to own government debt and to discount private loans collateralized by Treasury paper.

In due course, the famous and massive Liberty Bond drives became a glorified Ponzi scheme. Patriotic Americans borrowed money from their banks and pledged their war bonds; the banks borrowed money from the Fed, and re-pledged their customer’s collateral.  The Reserve banks, in turn, created the billions they loaned to the commercial banks out of thin air, thereby pegging interest rates low for the duration of the war.

When Wilson was done saving the world, America had an interventionist central bank schooled in the art of interest rate pegging and rampant expansion of fiat credit not anchored in the real bills of commerce and trade; and its incipient Warfare and Welfare states had an agency of public debt monetization that could permit massive government spending without the inconvenience of high taxes on the people or the crowding out of business investment by high interest rates on the private market for savings.

Proposition # 6:   By prolonging the war and massively increasing the level of debt and money printing on all sides, Wilson’s folly prevented a proper post-war resumption of the classical gold standard at the pre-war parities.

This failure of resumption, in turn, paved the way for the breakdown of monetary order and world trade in 1931—–a break which turned a standard post-war economic cleansing into the Great Depression, and a decade of protectionism, beggar-thy-neighbor currency manipulation and ultimately rearmament and statist dirigisme.

In essence, the English and French governments had raised billions from their citizens on the solemn promise that it would be repaid at the pre-war parities; that the war bonds were money good in gold.

But the combatant governments had printed too much fiat currency and inflation during the war, and through domestic regimentation, heavy taxation and unfathomable combat destruction of economic life in northern France had drastically impaired their private economies.

Accordingly, under Churchill’s foolish leadership England re-pegged to gold at the old parity in 1925, but had no political will or capacity to reduce bloated war-time wages, costs and prices in a commensurate manner, or to live with the austerity and shrunken living standards that honest liquidation of its war debts required.

At the same time, France ended up betraying its war time lenders, and re-pegged the Franc two years later at a drastically depreciated level. This resulted in a spurt of beggar-thy-neighbor prosperity and the accumulation of pound sterling claims that would eventually blow-up the London money market and the sterling based “gold exchange standard” that the Bank of England and British Treasury had peddled as a poor man’s way back on gold.

m-US-Marines.jpgYet under this “gold lite” contraption, France, Holland, Sweden and other surplus countries accumulated huge amounts of sterling liabilities in lieu of settling their accounts in bullion—–that is, they loaned billions to the British. They did this on the promise and the confidence that the pound sterling would remain at $4.87 per dollar come hell or high water—-just as it had for 200 years of peacetime before.

But British politicians betrayed their promises and their central bank creditors September 1931 by suspending redemption and floating the pound——-shattering the parity and causing the decade-long struggle for resumption of an honest gold standard to fail.  Depressionary contraction of world trade, capital flows and capitalist enterprise inherently followed.

Proposition # 7:  By turning America overnight into the granary, arsenal and banker of the Entente, the US economy was distorted, bloated and deformed into a giant, but unstable and unsustainable global exporter and creditor.

During the war years, for example, US exports increased by 4X and GDP soared from $40 billion to $90 billion.  Incomes and land prices soared in the farm belt, and steel, chemical, machinery, munitions and ship construction boomed like never before—–in substantial part because Uncle Sam essentially provided vendor finance to the bankrupt allies in desperate need of both military and civilian goods.

Under classic rules, there should have been a nasty correction after the war—-as the world got back to honest money and sound finance.  But it didn’t happen because the newly unleashed Fed fueled an incredible boom on Wall Street and a massive junk bond market in foreign loans.

In today economic scale, the latter amounted to upwards of $2 trillion and, in effect, kept the war boom in exports and capital spending going right up until 1929. Accordingly, the great collapse of 1929-1932 was not a mysterious failure of capitalism; it was the delayed liquidation of Wilson’s war boom.

After the crash, exports and capital spending plunged by 80% when the foreign junk bond binge ended in the face of massive defaults abroad; and that, in turn, led to a traumatic liquidation of industrial inventories and a collapse of credit fueled purchases of consumer durables like refrigerators and autos. The latter, for example, dropped from 5 million to 1.5 million units per year after 1929.

m-usoorlog.jpg

Proposition # 8:  In short, the Great Depression was a unique historical event owing to the vast financial deformations of the Great War——deformations which were drastically exaggerated by its prolongation from Wilson’s intervention and the massive credit expansion unleashed by the Fed and Bank of England during and after the war.

Stated differently, the trauma of the 1930s was not the result of the inherent flaws or purported cyclical instabilities of free market capitalism; it was, instead, the delayed legacy of the financial carnage of the Great War and the failed 1920s efforts to restore the liberal order of sound money, open trade and unimpeded money and capital flows.

But this trauma was thoroughly misunderstood, and therefore did give rise to the curse of Keynesian economics and did unleash the politicians to meddle in virtually every aspect of economic life, culminating in the statist and crony capitalist dystopia that has emerged in this century.

Needless to say, that is Thomas Woodrow Wilson’s worst sin of all.

Reprinted with permission from David Stockman’s Corner.

mercredi, 21 janvier 2015

Koos de la Rey

Koos de la Rey 100 jaar geleden vermoord

door
Ex: http://www.rechtsactueel.com

15 september 2014, het is vandaag precies honderd jaar geleden dat de Zuid-Afrikaanse generaal Koos de la Rey, één van de meest populaire Boerenleiders tijdens de vrijheidsoorlog tegen de Britten, op de weg van Johannesburg naar Potchefstroom, vermoord werd.

rey.jpgJacobus Herculaas (Koos) de la Rey, wiens Nederlandse voorouders (*) zich al een paar eeuwen eerder in Zuid-Afrika hadden gevestigd, werd op 22 oktober 1847 in de Kaap geboren en meer bepaald in het dorpje Winburg. In 1848 werd de hoeve van zijn familie door de Britten in beslag genomen. Die hadden immers van de Napoleontische oorlogen gebruik gemaakt om wederrechtelijk de Kaapkolonie te komen bezetten. Om aan het Engelse bewind te ontsnappen, trok de familie de la Rey naar de toen nog vrije Boerenrepubliek Transvaal. Ze vestigde zich in Lichtenburg en het is daar dat Koos opgroeide tot een gedreven en sterk geëngageerd patriot. Tijdens de eerste oorlog tegen de Britten, die uiteindelijk door de Boeren wordt gewonnen, brengt hij het al tot veldkornet, een hoge graad in het leger van de toenmalige Boerenrepublieken en wordt hij zelfs in de generale staf benoemd.

In 1883 wordt hij voor district Lichtenburg in de Volksraad (het parlement van Transvaal) verkozen. Hij sluit er zich aan bij de Progressieve fractie van Piet Joubert en voert er oppositie tegen de conservatieve president Paul Kruger en meer in het bijzonder tegen zijn beleid ten overstaan van de “uitlanders”. Deze laatste zijn de buitenlanders, voornamelijk Britten, die zich in Transvaal gevestigd hebben naar aanleiding van de ontdekkingen van de grote bodemrijkdommen (goud, diamant enz.) die het land rijk is. Krugers regering verplichte onder meer die ‘uitlanders’ belastingen te betalen terwijl de Transvaalse staatsburgers hier van vrijgesteld waren.

Oorlog met de Britten

In 1885 viel Jameson, een Engelsman die bevriend was met de beruchte Britse imperialist Cecil Rhodes, Transvaal binnen met een door hem gerekruteerd privé leger. Hij werd door de Boeren verslagen, maar deze aanval deed de spanningen tussen het Britse rijk en Transvaal sterk toenemen. De la Rey bleef echter pleiten om alles in het werk te stellen om een nieuwe oorlog met het Verenigd Koninkrijk te vermijden. Toen die er desondanks toch kwam, nam hij niettemin onmiddellijk weer dienst. Hij werd generaal en gaf door verschillende overwinningen blijk van een ware militaire deskundigheid. Zo slaagde hij erin bij de slag van Kraaipan een Britse pantsertrein te veroveren. Ook de slag bij Magersfontein werd door hem gewonnen. Nogal wiedes dat hij één van de meest populaire Boerenleiders werd. De Britse regering, die nog steeds haar nederlaag tijdens de eerste oorlog niet verteerd had, besloot echter deze keer alle middelen in te zetten. De kleine Boerenrepublieken konden het uiteraard niet halen tegen het in die tijd machtigste land ter wereld.

Koos_de_la_Rey.jpg

Engelse concentratiekampen

Na de verovering van Pretoria en van Bloemfontein besloten een behoorlijk deel van de Boeren dat ze niet anders meer konden dan tot capitulatie over te gaan. Ze werden spottend ‘hands upers’ genoemd door de anderen die zichzelf om voor de hand liggende redenen als ‘bittereinders’ voorstelden. Generaal de la Rey werd een van hun belangrijkste aanvoerders. Van dan af schakelden de Boeren op een zeer efficiënte guerrillatactiek over. Hun ‘commando’s’ (het woord is Afrikaans van oorspong) verschenen plots te paard in de nabijheid van één of andere Britse militaire post of colonne, de manschappen stegen af, beschoten de Engelsen gedurende een korte tijd, bestegen opnieuw hun rijdieren en verdwenen in ‘die veld’.

Toen de soldaten van hare majesteit vaststelden dat tegen deze wijze van oorlog voeren weinig kruid opgewassen was, kozen ze voor een manier van aanpakken die vandaag de dag zonder meer als een genocide zou worden beschouwd en hen wegens misdaden tegen de menselijkheid voor een internationaal tribunaal zou hebben gebracht. De boerderijen en de velden van al deze die er van werden verdacht bittereinders te zijn of ermee te sympathiseren werden systematisch platgebrand en hun vrouwen en kinderen werden opgepakt en opgesloten in kampen waar de levensomstandigheden ronduit onmenselijk waren. Dertigduizend onder hen zijn daar van ontbering omgekomen.

De Britten hadden zonder twijfel de concentratiekampen uitgevonden… Dit zal een eeuwige smet op hun blazoen zijn maar ze hadden hiermee de Boeren wel klein gekregen. De bittereinders en dus ook de la Rey zagen er zich toe verplicht de wapens neer te leggen. Het immense Britse rijk had uiteindelijk de kleine Boerenrepublieken Transvaal en Oranje Vrijstaat op de knieën gekregen. De roemrijke generaal de la Rey keerde naar het burgerleven terug tot hij, zoals reeds gezegd, op 15 september 1914 op de weg naar Potchefstroom werd vermoord. Er ontstonden rond zijn dood heel wat complottheorieën, maar voor zover geweten werd tot hiertoe in dit verband nooit iets concreets aangetoond.

Wat er ook van zij, deze held van de Zuid-Afrikaanse vrijheidsoorlogen is tot op vandaag de dag niet vergeten en dit ondanks het feit dat er in het huidige Zuid-Afrika voor hem geen officiële herdenking op het getouw werd gezet. Zijn standbeeld staat nog steeds in Lichtenburg en er is een de la Reystraat te vinden in de meeste Transvaalwijken van Nederland en Vlaanderen (onder meer in Antwerpen). Last but not least, een paar jaar terug schreef de Zuid-Afrikaanse zanger Bok Van Blerk over hem een prachtig lied dat niet alleen in zijn land en in het huidige Namibië zeer populair werd maar ook in nationalistische kringen in Vlaanderen behoorlijk bekend geraakte. Is dit niet mooier dan een officiële hulde?

(*) Aan de naam te horen waren het oorspronkelijk Franse hugenoten.

The De La Rey Song was written in 2006 by Bok van Blerk (Louis Pepler)

samedi, 17 janvier 2015

The Fall of Singapore - The Great Betrayal

The Fall of Singapore

The Great Betrayal

(Rare BBC Documentary)

This landmark documentary film by Paul Elston tells the incredible story of how it was the British who gave the Japanese the knowhow to take out Pearl Harbor and capture Singapore in the World War 2. For 19 years before the fall of Singapore in 1942 to the Japanese, British officers were spying for Japan. Worse still, the Japanese had infiltrated the very heart of the British establishment - through a mole who was a peer of the realm known to Churchill himself.

This is a very rare documentary on the fall of Singapore in WW2 by BBC Two broadcasted in Northern Ireland only.

The Fall of Singapore - The Great Betrayal

The Fall of Singapore

The Great Betrayal

(Rare BBC Documentary)

This landmark documentary film by Paul Elston tells the incredible story of how it was the British who gave the Japanese the knowhow to take out Pearl Harbor and capture Singapore in the World War 2. For 19 years before the fall of Singapore in 1942 to the Japanese, British officers were spying for Japan. Worse still, the Japanese had infiltrated the very heart of the British establishment - through a mole who was a peer of the realm known to Churchill himself.

This is a very rare documentary on the fall of Singapore in WW2 by BBC Two broadcasted in Northern Ireland only.

vendredi, 16 janvier 2015

Abraham Lincoln a voulu exiler les Noirs des États-Unis

abraham-lincoln.jpg

Ex: http://la-vache-retournee.over-blog.com

Où l'on apprend avec stupeur que la référence suprême parmi les hommes politiques, le grand Abraham Lincoln, était favorable à la remigration.

La Maison Blanche, l'un des lieux les plus secrets de la planète, témoin de nombres de décision historique. En pleine guerre de Sécession, Abraham Lincoln a une idée folle : loin de vouloir abolir l'esclavage, il souhaite envoyer les Noirs "coloniser" un pays. Extrait de "Les secrets de la Maison Blanche" de Nicole Bacharan et Dominique Simonnet

« Pourquoi les gens d’ascendance africaine doivent-ils partir et coloniser un autre pays ? Je vais vous le dire. Vous et moi appartenons à des races différentes. Il y a entre nous plus de différence qu’entre aucune autre race. Que cela soit juste ou non, je n’ai pas à en discuter, mais cette différence physique est un grand problème pour nous tous, car je pense que votre race en souffre grandement en vivant avec nous, tandis que la nôtre souffre de votre présence. En un mot, nous souffrons des deux côtés… Si on admet cela, voilà au moins une bonne raison de nous séparer… »

Oui, c’est le président Abraham Lincoln lui-même qui tient ces propos bien peu engageants, loin, bien loin de l’image que l’on construira de lui plus tard.

Ce 14 août 1862, alors que la nation américaine se déchire, que les États, désunis, s’affrontent dans un conflit fratricide, la terrible guerre de Sécession déclenchée depuis son élection il y a deux ans, Lincoln a convoqué à la Maison Blanche une délégation de leaders noirs pour leur tenir ce discours : il faut que les Noirs quittent les États-Unis ! En guise d’introduction, à peine les cinq « personnes de couleur » sont-elles assises dans son bureau qu’il leur indique qu’une somme d’argent a été réservée par le Congrès, « tenue à sa disposition pour aider au départ des personnes d’ascendance africaine pour qu’elles colonisent un quelconque pays ». Cela fait longtemps qu’il y songe, a dit d’emblée le président, et il se fera un devoir de favoriser cette cause.

— Vous, ici, vous êtes des affranchis, je suppose ? interroge abruptement Lincoln.

— Oui, Monsieur, répond l’un des délégués.

— Peut-être l’êtes-vous depuis longtemps, ou depuis toute votre vie… D’après moi, votre race souffre de la plus grande injustice jamais infligée à un peuple… Mais, même si vous cessez d’être esclaves, vous êtes encore bien loin d’être sur un pied d’égalité avec la race blanche… Mon propos n’est pas d’en discuter, c’est de vous montrer que c’est un fait… Et puis regardez où nous en sommes, à cause de la présence des deux races sur ce continent… Regardez notre situation – le pays en guerre ! –, les hommes blancs s’entre-égorgeant, et personne ne sait quand cela s’arrêtera. Si vous n’étiez pas là, il n’y aurait pas de guerre…

Et le président de conclure :

— Il vaut donc mieux nous séparer… Je sais qu’il y a parmi vous des Noirs libres qui ne voient pas quels avantages ils pourraient en tirer… C’est, permettez-moi de le dire, un point de vue extrêmement égoïste… Si des hommes de couleur intelligents, comme ceux que j’ai devant moi, le comprennent, alors nous pourrons aller plus loin. Je pense pour vous à une colonie en Amérique centrale. C’est plus près que le Liberia… Il y a là un pays magnifique, doté de beaucoup de ressources naturelles, et, à cause de la similarité du climat avec celui de votre pays natal, il vous conviendrait parfaitement…

Un silence stupéfait accueille ces arguments qui défient l’entendement.

C’est la première fois, depuis la création des États-Unis près d’un siècle plus tôt, qu’une délégation officielle de Noirs est invitée à la Maison Blanche pour une raison politique (elle a été conduite auprès du président par le révérend Joseph Mitchell, commissaire à l’Émigration), et quelle réception !

On imagine sans peine le froid glacial, même au cœur de l’été tropical de Washington, qui a saisi les cinq hommes, éminents représentants de la communauté noire dans la capitale.

Son monologue achevé, le président les congédie en laissant à peine le temps à Edward Thomas, qui mène la délégation, de bredouiller :

— Nous allons nous consulter et vous donner une réponse rapide…

— Prenez votre temps, lâche le président.

Comment Lincoln ose-t-il charger les Noirs de la responsabilité de la guerre qui ensanglante le pays ? Comment ne reconnaît-il pas que, comme ses interlocuteurs ce jour-là, la plupart des Noirs vivant alors aux États-Unis sont nés sur le sol américain et ne savent rien de l’Afrique ? Le président est indifférent à ce type de considération, ce n’est pas un idéaliste. Par ses propos coupants, il exprime ses convictions les plus profondes : s’il n’aime pas l’esclavage, c’est bien sûr pour des raisons morales, mais aussi parce que cela pourrit la vie des Blancs, et met en danger la pérennité de l’Union. Il reste convaincu que les deux races n’ont rien à faire ensemble. Et cela fait longtemps qu’il nourrit ce vieux projet, dit de « colonisation », déjà envisagé plusieurs décennies auparavant par Thomas Jefferson : renvoyer les esclaves en Afrique ou en Amérique centrale pour en finir avec cette plaie. C’est une sorte de compromis entre les deux positions extrêmes qui s’affrontent alors, celle des planteurs du Sud farouchement accrochés à l’esclavage et celle des intellectuels du Nord qui luttent pour son abolition pure et simple.


http://www.atlantico.fr/decryptage/au-coeur-maison-blanche-jour-ou-abraham-lincoln-voulu-exiler-noirs-etats-unis-1920131.html/page/0/1

jeudi, 15 janvier 2015

Comprendre la guerre

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Radio Courtoisie:

«Comprendre la guerre» (Audio)

 

 

Pour écouter:

http://fortune.fdesouche.com/371289-radio-courtoisie-comprendre-la-guerre-audio

Entré en service en 1987, le lieutenant-colonel Entraygues a successivement servi au 35e RI, au 8e Groupe de chasseurs, au 152e RI, à l’EMF 4 de Limoges puis au centre d’entraînement des postes de commandement de Mailly le camp.
Stagiaire de la 15e promotion du Collège Interarmées de Défense, École de Guerre, il est titulaire d’un double doctorat en histoire contemporaine – Paris IV La Sorbonne et King’s College London, Department of War Studies – dont le sujet est « JFC Fuller : comprendre la guerre ».

 

L’auteur a tenu la fonction d’officier de liaison interarmées au Joint Services Command and Staff College et du Centre de la doctrine des armées du Royaume-Uni. Il est depuis le mois de septembre 2013 chargé d’études à l’IRSEM.

00:05 Publié dans Militaria, Polémologie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : guerre, polémologie, militaria, histoire | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook