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samedi, 13 mars 2010

Postmortem Report: het laatste werk van Dr. Sunic

Postmortem Report: het laatste werk van Dr. Sunic

Tomislav Sunic is een van de vooraanstaande kenners van Nieuw Rechts.
In 2008 was hij nog te gast op het colloquium van Identiteit-Deltastichting. Tomislav Sunic publiceert in het Kroatisch, Engels, Frans en Duits onder andere over de ideeën van Oswald Spengler, Carl Schmitt, Vilfredo Pareto en Alain de Benoist.

Zijn culturele kritiek handelt voornamelijk over: religie, cultuurpessimisme, ras, het derde rijk, liberalisme en democratie,multiculturalisme en communisme. Dit boek bundelt Sunics beste teksten van de afgelopen tien jaar. Als Europees waarnemer die het liberalisme en het communisme aan beide zijden van het IJzeren Gordijn heeft meegemaakt, schetst hij enkele indringende culturele beelden van de westelijke en postcommunistische maatschappij. Altijd erudiet en soms humoristisch, biedt dit boek een zeer leesbaar postmortem verslag over de dood van het Westen.


Dit boek kan besteld worden bij Identiteit op het volgende E-postadres voor de prijs van 18 €.(verzending inbegrepen)

Ugo Spirito, il padre della "Corporazione Proprietaria"

Ugo Spirito il padre della "Corporazione Proprietaria"

di Luigi Carlo Schiavone - http://ginosalvi.blogspot.com/ 

Ugo Spirito nacque ad Arezzo il 9 settembre 1896 dall’ingegnere Prospero e da Rosa Leone. Iscrittosi a giurisprudenza, fu allievo del socialista Enrico Ferri, da cui trasse la sua formazione positivista. Nel 1918, anno della laurea, avrà il primo incontro, nel corso di una lezione all’università di Roma, con il suo futuro mentore, Giovanni Gentile. Nel 1920, dopo aver conseguito anche la laurea in filosofia, venne chiamato da Gentile a collaborare a “Il giornale critico della filosofia italiana” di cui divenne successivamente direttore. Nel 1922 conobbe Benedetto Croce, con cui entrò successivamente in polemica. Nel 1923 fondò con Carmelo Licitra e Arnoldo Volpicelli “Nuova politica liberale”, rivista che cambiò successivamente il nome in “Educazione politica” prima e “Educazione Fascista” poi. Nel 1924 fu chiamato da Giuseppe Bottai a collaborare per “Critica Fascista”. In questi anni pubblicò, inoltre, “Il pragmatismo della filosofia contemporanea”(1921), “Storia del diritto penale italiano” (1925), “Nuovo diritto penale” (1929), “Scienza e filosofia” (1933).

ugo public%5Cimg_prod%5C2471.jpgChiamato a vivere il periodo magico del neo-idealismo sorto all’indomani del primo dopoguerra, Spirito aderì giovanissimo all’attualismo gentiliano, corrente di pensiero dalla quale si distaccò nel corso degli anni Trenta, senza però rinnegare alcuni dei suoi principi di fondo. Dopo essere stato considerato un “divulgatore entusiasta ed un apologeta instancabile dell’attualismo” col suo “Scienza e filosofia”, infatti, delineò quella che è considerata, non a torto, una posizione originale ed autonoma rispetto al pensiero gentiliano, collocandosi, con Guido Calogero, sul fronte della cosiddetta “sinistra attualistica”. Spirito mantenne nella sua analisi il principio gentiliano del “fare” (dell’atto) col chiaro intento di “demetafisicizzarlo” legandolo all’agire fattuale degli uomini che si ha nell’ambito del concreto orizzonte mondano. Spirito, impegnandosi nell’ambito della problematica gnoseologica, giunse a risultati differenti da Gentile e Croce, distanziandosi anche dalla tesi sostenuta dal suo amico Calogero, che sviluppò questo programma in senso etico. Spirito, infatti, grazie ai suoi studi riuscì ad affermare una serie di precetti, tra cui la non inferiorità della conoscenza scientifica rispetto alla conoscenza filosofica; l’impossibilità di sopprimere la scienza nella filosofia e la necessità di stabilire tra loro un’organica collaborazione. Questa sua concezione, che egli stesso definì “attualismo costruttore”, insomma, aveva come scopo di fare “sul serio scienza che sia filosofia e filosofia che sia scienza” in un costante nesso dialettico.

Nel 1937, con la pubblicazione edita da Sansoni di “Vita come ricerca”, Spirito lanciò le tesi del “problematicismo” con le quali capovolse progressivamente le posizioni dell’attualismo, consumando la rottura definitiva con Gentile, il quale si scagliò duramente contro questa opera. Il disgelo avverrà solo nel 1941, in seguito alla pubblicazione del volume del filosofo aretino “Vita come arte” che Gentile commenterà all’interno di una conferenza promossa dal ministero dell’Educazione facendo riferimento ad uno “Spirito non più mio”.
Gli anni Trenta, però, sono anche gli anni di gestazione della teoria della “corporazione proprietaria”. Dopo aver riunito, nel 1930, nel libro “Il Corporativismo” i tre testi precedentemente redatti sull’argomento, “Dall’economia liberale al corporativismo”, “I fondamenti dell’economia corporativa” e “Capitalismo e Corporativismo”, partecipò nel maggio 1932 al secondo Convegno di Studi sindacali e corporativi, tenutosi a Ferrara. Qui, dopo aver criticato il dualismo di classe presente nel capitalismo, Ugo Spirito lanciò la sua innovativa teoria. Ne “La corporazione proprietaria”, anche detta “corporazione comunista” il filosofo paventò la possibilità che la proprietà dei i mezzi di produzione fosse affidata non più ai privati bensì alla corporazione stessa. Tale teoria si contrapponeva all’ “anarchia produttiva” e al “dirigismo statale” permettendo che la grande società anonima si trasformasse in corporazione; favorendo la fusione tra capitale e lavoro, Spirito, inoltre, propugnava il superamento dell’antagonismo fra datori di lavoro e lavoratori che da realizzarsi grazie al passaggio del capitale dagli azionisti ai lavoratori, che divenivano così proprietari della parte loro spettante. Questa teoria, che prevedeva la risoluzione del sindacalismo nel corporativismo integrale e che rendeva inutile la presenza delle associazioni di categoria, favorendo la piena identificazione fra individuo e Stato, affermando così il superiore valore etico della rivoluzione fascista, fu duramente avversata sia dalla “destra” fascista, rappresentante dell’industria e della borghesia conservatrice e nazionalista, che la tacciò di “bolscevismo” e la bollò come teoria “eretica”, sia dalla sinistra sindacale che, dopo aver accusato Spirito d’essere dotato di scarsa sensibilità sociale, passò al vaglio la sua tesi evidenziandone i tratti utopici. A queste critiche seguì una polemica di carattere accademico fra il filosofo e il quadriumviro De Vecchi. Con la redazione del codice civile del 1942, inoltre, s’affermò una concezione borghese ed individualistica della proprietà privata contro la quale lo stesso Mussolini espresse una certa insoddisfazione. Nonostante ciò, i rapporti tra il filosofo ed il regime continuarono ad essere solidi.

Ma nell’animo di Ugo Spirito la volontà di ravvivare gli studi corporativi non si spense; egli, infatti, nonostante tutto, proseguì nella sua opera. Nel 1941 redasse a tal proposito il volume “Guerra rivoluzionaria”, nel quale tracciò un quadro senza compiacenze dei rapporti di forze esistenti fra gli Alleati e l’Asse, e non nascose un certo rammarico per la mancata alleanza delle tre potenze totalitarie: Italia, Germania e Urss contro le demoplutocrazie internazionali. Un volume, quest’ultimo, la cui stampa sarà bloccata dallo stesso Mussolini perché considerato troppo filo-tedesco. In questo periodo, inoltre, si consumò anche il suo allontanamento da Bottai, a causa della conversione al cattolicesimo di quest’ultimo, portando Spirito a individuare in Camillo Pellizzi, presidente dell’Istituto Nazionale di Cultura fascista, il suo nuovo referente politico e culturale.
Nel giugno del 1944 il fervore giustizialista seguito al crollo del regime vide Ugo Spirito al centro di un processo d’epurazione che gli costerà la sospensione dall’insegnamento; prosciolto dall’accusa di apologia del fascismo, riuscirà a ritornare alle sue mansioni di docente.
Nel 1948, quindi, pubblicò “Il problematicismo” seguito, nel 1953, da “Vita come amore. Tramonto della civiltà cristiana”, opera con cui si evidenzia il distacco definitivo del problematicismo dal cristianesimo in generale e dal cattolicesimo in particolare, generando ampie discussioni e polemiche.

Nel 1956 compì un delicato viaggio in Unione Sovietica, dove avrà un colloquio molto interessante con Kruscev. I suoi viaggi nei paesi del socialismo reale però non si fermano qui. Nel 1961 si recò in Cina dove soggiornerà per un periodo abbastanza lungo nel quale riuscirà ad incontrare le più alte cariche del Paese, tra cui lo stesso Mao, che lo colpirà favorevolmente aldilà di ogni più rosea aspettativa.
Di questi due viaggi è, inoltre, interessante riportare quanto affermato dal filosofo in “Memorie di un incosciente”, edito nel 1977: “Negli occhi di Kruscev e in quelli di Mao ho visto la luce del vero comunismo. Era il comunismo trionfante, con la sicurezza del trionfo. Quel comunismo fu il solo comunismo che il mondo ha visto, e che non vedrà mai più. È lo spettacolo di una conquista assoluta che non potrà più ripetersi. Si tratta di un miliardo di uomini che hanno creduto alla nascita della verità. Aver visto quella realtà è uno dei tanto privilegi che la fortuna mi ha riservato”.
Il 1967 è l’anno della polemica con Papa Paolo VI. Il 2 dicembre di quell’anno, infatti, Spirito riceve dal segretariato pro non credentibus il messaggio del Papa per la celebrazione di una “Giornata della Pace”, seguito da una lettera di accompagnamento in cui il filosofo viene inserito tra “coloro che non riconoscono la dimensione religiosa dell’esistenza e della Storia”. Irritato, Spirito rispose affermando di non accettare la qualifica di “non credente”, figlia a suo dire di “regole procedurali arbitrarie e temerarie” ed aggiungendo, inoltre, che le sue opere non erano mai state poste all’indice. Nel 1972 partecipò, quindi, all’inaugurazione dell’Istituto degli Studi Corporativi a Roma; nel 1975, in qualità di presidente della Fondazione Giovanni Gentile promosse, giovandosi della collaborazione della Scuola Normale Superiore di Pisa e dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, un importante convegno internazionale sul pensiero di Giovanni Gentile. Pubblicò nello stesso anno il libro “Cattolicesimo e comunismo”.

Negli anni finali della sua esistenza, al pari dei grandi saggi del passato, la sua casa divenne meta e cenacolo di giovani intelligenze giunte lì per ascoltare dalla diretta voce del Maestro gli insegnamenti dettati da un’esperienza di vita, oltre che intellettuale, intensa. Una voce che cesserà d’essere udita il 28 aprile del 1979, quando la morte sopraggiunse improvvisa ad interrompere l’esistenza di una delle figure indubbiamente più interessanti ed ecclettiche del recente passato italiano.

Fonte: RINASCITA

vendredi, 12 mars 2010

Les "dégagements" de Régis Debray

regis_debray_1.jpgLes dégagements de Régis Debray

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

Dégagements est le titre du nouvel essai de Régis Debray qui doit sortir en librairie dans les prochains jours. Il a rassemblé dans ce volume, en particulier, ses carnets publiés dans la revue Médium.

L’essentiel, qui est un certain style, se niche dans les détails. C’est le ton de l’écrivain, celui qui vivifie les mots et stylise la vie.

Régis Debray joue aux quatre coins avec les accidents de la vie. Entre figures tutélaires (Julien Gracq ou Daniel Cordier), et artistes redécouverts (Andy Warhol ou Marcel Proust), entre cinéma et théâtre, expos et concerts, le médiologue se promène en roue libre, sans apprêt ni a priori. Rêveries et aphorismes cruels se mêlent aux exercices d’admiration. Les angles sont vifs, la lumière crue, mais souvent, à la fin, tamisée par l’humour.

Ainsi l’exige la démarche médiologique, tout en zigzags et transgressions, selon la définition un rien farceuse qu’en donne l’auteur : « Un mauvais esprit assez particulier qui consiste, quand un sage montre la lune, à regarder son doigt, tel l’idiot du conte. »

Essayiste, romancier, journaliste et mémorialiste, Régis Debray a notamment publié aux Éditions Gallimard de nombreux essais : Ce que nous voile le voile. La République et le sacré (Hors Série Connaissance, 2004), Le plan vermeil (Hors Série Connaissance, 2004), Supplique aux nouveaux progressistes du XXIe siècle (Hors Série Connaissance, 2006), une pièce de théâtre : Julien le fidèle (collection blanche, 2005), des mémoires : Aveuglantes lumières (collection blanche, 2006). Derniers ouvrages parus : Un candide en Terre Sainte (collection blanche, 2008, Folio n° 4968) et Le moment fraternité (collection blanche, 2009).

 

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Dixit Debray

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Dixit Debray

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com/

A l'occasion de la sortie de Dégagements, son dernier ouvrage publié aux éditions Gallimard, Régis Debray a donné un entretien au magazine Le Point dont voici quelques extraits.

  « Être, à présent, c'est être vu. C'est la caméra qui donne la visibilité sociale, après quoi on est bon pour l'influence, et même pour un ministère. Le système création-édition-critique-médias est devenu un mécanisme d'autocongratulations qui fonctionne en circuit fermé. Quant à nos acteurs, sportifs, chansonniers, animateurs, ils ont la légitimité. Quand Sarkozy pose à côté de son pote Johnny, le patron, c'est Johnny. Il met négligemment la main sur l'épaule de Nicolas. La politique est devenue une filiale parmi d'autres du show-biz. Comme la philosophie, ou ce qui passe pour tel, et le football. Ils font la paire en public et se mettent en ménage dans le privé. Mauvais temps pour les mots. "Casse-toi, pauvre con !" Ceux qui aiment déguster des mots plutôt que déglutir de l'info vont survivre, loin des best-sellers, hors marché, dans des îlots ou des monastères, peut-être dans quelques grandes écoles si celles-ci ne disparaissent pas entre-temps. Mais les Voltaire et les Victor Hugo, dans l'Occident postindustriel, sont technologiquement condamnés. L'intello classique n'est plus fonctionnel. »

 « Les nouveaux philosophes produisent de l'indignation au rythme de l'actualité en désignant au bon bourgeois le méchant du jour - le totalitaire, le franchouillard, l'islamo-fasciste, etc. »

 « J'estime avoir fait mon travail lorsque j'ai éclairé des zones d'ombre, comme la religion, raccordé des champs, proposé des outils de compréhension, en général pour expliquer pourquoi ça ne marche pas et pourquoi ça ne marchera pas beaucoup mieux demain. Mais je n'appelle personne à la conversion. Entre la tour d'ivoire et la course de vitesse avec l'actu, j'espère trouver une troisième voie, que j'appelle le dégagement ou le regard en biais. Je n'ai plus le virus politique, mais je garde un penchant pour les collectifs : j'aime la bande, la revue, la conspiration, le commando. C'est un trait de gauche. On ne se refait pas. »

 «  Le grand retour indigéniste auquel nous assistons à travers quelqu'un comme Evo Morales est bien une revanche de la mémoire sur les tables rases du futurisme occidental. Toutes les révolutions socialistes sont des nationalismes. Mao commence pour de bon avec l'attaque du Japon. Pourquoi les talibans sont-ils forts ? Parce qu'ils sont chez eux envahis par des étrangers, infidèles de surcroît. On ne gagne pas contre une civilisation. »

 «  Le problème, c'est l'évanouissement de l'Europe comme alternative. Voyez l'obamania de nos provinces. Faire d'un patriote américain juste milieu un bon Européen de gauche relève d'une incroyable perte de sens historique. Et géographique. Nous n'avons même plus la force de produire nos propres champions. On s'enamoure en midinette. On dirait qu'en vieillissant l'Europe n'est plus que fleur bleue. Elle regarde l'Oncle d'Amérique en prince charmant, lequel regarde ailleurs, là où les choses se passent : Asie et Pacifique. »

 « Le clivage [droite-gauche] reste, mais il est sociologique ou folklorique, au bon sens du mot. Quant aux idées et aux valeurs, allez vous y reconnaître. [...] Qui eût dit que le patron du FMI, installé à New York, serait un jour la vedette de la gauche française ? Il y a vingt ans, on pouvait reconnaître un homme de droite à sa cravate, à sa boutonnière et à sa coupe bien nette. Aujourd'hui, le casual wear et la barbe de trois jours font uniforme commun. En face de quoi vous pouvez me définir comme un conservateur de gauche, tiers-mondiste vieux jeu, voire gaulliste d'extrême gauche. Cela m'indiffère. »

 « Le handicap de la gauche, en matière d'art, c'est la morale. Le surmoi est assez peu créatif. La droite doit à un certain cynisme d'avoir les coudées franches. Il m'arrive d'avoir plus de plaisir à lire le Journal de Morand, politiquement immonde, que celui de Leiris, moralement impeccable. »

 « Pour sauvegarder votre capacité à être vous-même, faites de l'histoire, sortez de vos frontières et lisez des livres : plus vous maîtriserez les mots, plus vous jouirez des images. »

Sindacalismo rivoluzionario - Dottrina comunitaria di lotta

Sindacalismo rivoluzionario.
Dottrina comunitaria di lotta

di Luca Leonello Rimbotti - Ex: http://www.ariannaeditrice.it/

ugo-spirito_fondo-magazine-336x450.jpgNella tradizione politica italiana la coniugazione dei termini popolo e nazione è stata un’eterna costante. La speciale idea di democrazia che si era fatta largo in epoca moderna non aveva nulla dell’oligarchismo parlamentarista di provenienza anglosassone e puritana. E neppure aveva nulla a che spartire con il millenarismo classista di Marx e con il suo elogio del progresso cosmopolita. Al contrario, almeno da Mazzini in poi, si ha da noi il convincimento che per democrazia debba intendersi la mobilitazione di tutto il popolo, oltre le classi e gli interessi, e il suo inserimento nel circuito decisionista attraverso il meccanismo delle appartenenze sociali entro la cornice nazionale. Come dire: il lavoro e la sua possibilità di uscire dalla gestione economica per entrare in quella politica. Il che significava la guida del popolo affidata alle sue aristocrazie politiche espresse dalla competenza tecnica. E in questo noi vediamo facilmente l’anticipazione di molto corporativismo, ad esempio nel senso di un Ugo Spirito. Il Sindacalismo Rivoluzionario nacque in questa prospettiva. E la storia del socialismo non marxista ne è la conferma. La mobilitazione morale, la promozione di una cultura politica popolare e la lotta contro il classismo furono tappe essenziali di quel movimento di liberazione delle energie davvero democratiche e davvero popolari che si presentò al crocevia storico del 1914 come il più vitale e il più attivo. Bloccato il socialismo riformista nelle sue derive fatalistiche, screditato quello massimalista e marxista dalla sua impotenza anche solo a concepire una via rivoluzionaria, in Italia gli unici versanti mobilitatori e innovativi, capaci di intendere la politica mondiale e le possibilità della storia, furono il Nazionalismo imperialista e il Sindacalismo Rivoluzionario.


Possiamo dire che quando, intorno al 1911, Angelo Oliviero Olivetti affermava che sindacalismo e nazionalismo si presentavano come “dottrine di energia e di volontà”, essendo le due uniche “tendenze aristocratiche” in un mondo già livellatore, e che insieme esprimevano “il culto dell’eroico che vogliono far rivivere in mezzo a una società di borsisti e di droghieri”, le fondamenta di un diverso modo di concepire la politica erano già gettate. Questa via politica, in realtà, più che nuova, era proprio rivoluzionaria rispetto alla tradizione ottocentesca legata agli schieramenti di classe, e lo era anche nei confronti della politica del Novecento, tutta di nuovo incentrata - dal marxismo al liberalismo - sulla concezione antagonista tra i ceti e gli interessi, che era tipica del classismo tanto di vertice (liberale) quanto di base (marxista). La percezione che il criterio dell’appartenenza è dato dal valore di legame culturale e bio-storico, anziché dal profitto e dal salario, fu un rovesciamento delle categorie mentali del borghesismo, rifiutate nel loro insieme, come brutale negazione dell’identità profonda, quella geo-storica. Ben più significante di quella superficiale, occasionale e mutevole che deriva dalla mera collocazione sociale.


L’aver scoperto che tra le masse e le oligarchie esiste uno spazio destinale che entrambe le ricomprende sotto il nome di popolo è il maggior titolo ideologico del Sindacalismo Rivoluzionario italiano.

Di fronte ai ricorrenti tentativi di sottrarre il Sindacalismo Rivoluzionario a questo suo destino ideologico - tentativi intesi soprattutto a sganciarlo dall’eredità fascista, presentata ogni volta come incongrua e manipolatoria, secondo le note mistificazioni di certa storiografia contemporanea - noi non possiamo che far parlare gli ideali, i progetti e le intuizioni di una classe dirigente sindacalrivoluzionaria che procedette diritto lungo un unico crinale: concezione organicistica della società, precedenza del fattore comunitario su quello individualistico e settario, sindacato come aggregazione più politica che economica, messa in valore della lotta e persino della guerra esterna come essenziali momenti di potenziamento del popolo, in quanto blocco unitario di volontà e più precisamente di volontà politica. E, non da ultimo, netta presa di coscienza che il rivoluzionamento degli assetti sociali liberali e conservatori lo si poteva ottenere non con rivendicazioni settorialistiche vetero-sindacali, ma con drammaturgie popolari ad alta intensità coinvolgente. In altre parole, con una cultura politica fortemente mobilitante, alla maniera del “mito” soreliano. Ciò che ai sindacalisti rivoluzionari fece riconoscere la Prima guerra mondiale per quello che era: l’occasione storica per abbattere l’oligarchia liberale e per dare avvìo alla coscienza popolare di massa, attivata attraverso la tragica compartecipazione al dramma collettivo di una crescita “spengleriana”, per così dire. Ottenuta cioè per mutazioni traumatiche, per scatti rivoluzionari: la guerra nazionale come azione rivoluzionaria di massa, appunto. Qualcosa di molto diverso dai blandi riformismi, che in regime liberale sono facilmente gestibili, al solito, dalle caste borghesi paternaliste.

Una concezione del mondo fondata sul riconoscimento del trauma epocale come punto di rottura e apertura degli spazi del rovesciamento: questa la virtù rivoluzionaria dei sindacalisti rivoluzionari, che nel riconoscere la Nazione in altro modo rispetto al patriottismo conservatore borghese, in modo popolare e sociale, riconobbero il valore politico del Novecento, cioè la comunità di popolo mobilitata attorno a simboli e traguardi di valore sociale, politico e metapolitico, non occasionali ma macrostorici.

La macrostoria è difatti lo scenario del Sindacalismo Rivoluzionario, più di quanto la rivendicazione salariale contrattata coi potentati industriali non fosse invece l’umile terreno del sindacalismo socialista, microstorico a dispetto dei suoi sogni palingenetici, e incapace, al momento buono, di interpretare i segni del cambiamento epocale. Come accadde puntualmente nel 1914, quando i gestori socialisti del “risentimento di classe” proletario consegnarono alla sconfitta storica proprio quelle masse operaie che avrebbero inteso condurre al riscatto, contrattando scaglie di paternalismo con il padronato, anziché verificare la possibilità di liquidare la casta al potere costruendo un’avanguardia aristocratica aperta non al popolo, ma a tutto il popolo.

Sia Georges Sorel che Arturo Labriola Labriola ebbero modo di notare che il sindacalismo socialista aveva una scarsa propensione alla lotta e che quasi quasi la borghesia, o per lo meno certi suoi settori, dimostravano negli anni precedenti la Prima guerra mondiale una capacità dinamica maggiore, un decisionismo più libero. La storia del sindacalismo socialista prima e socialcomunista poi è una storia di sottomissione al padronato capitalistico e di rassegnazione alla subalternità, di assenza di strategia e di semplice tattica di retroguardia. In questo ambito, il Sindacalismo Rivoluzionario presentava una ben maggiore capacità di verificare le possibilità della storia. E sua fu l’unica volontà massimalista davvero all’opera allora in Italia. Quando poi si attuò la saldatura tra coscienza di popolo e coscienza di nazione, l’Italia si trovò all’avanguardia europea di tutte le rivendicazioni: politiche, sociali e storiche. Fu in questo modo dimostrato che la vera politica sociale era quella della nazione e non quella della classe.

Come hanno dimostrato gli storici, c’erano settori dominanti del Sindacalismo Rivoluzionario in cui il nazionalismo non solo era distinto dal patriottismo di classe del borghesismo, ma era giudicato come lo strumento migliore per creare, con i vincoli di un’appartenenza ribadita come identità di rilievo mondiale, le condizioni per scuotere le oligarchie plutocratiche e per ottenere il risveglio delle masse: non secondo principi universali astratti, ma secondo principi territoriali realistici. Un popolo e il suo territorio, un popolo e i suoi diritti alla vita, un popolo e la sua determinazione a imporsi nella lotta mondiale: questa la scena della maggiore rivendicazione possibile. In uno scritto apparso sul foglio “L’internazionale” del luglio 1911, in occasione della polemica circa la guerra di Libia, ad esempio, troviamo sanciti in maniera straordinariamente chiara i contorni di una maturazione politica che allora e ancor più in seguito mancò del tutto sia al socialismo sia al socialcomunismo: il valore-nazione come strumento di liberazione dalla prigione della classe. Il parere di un operaio intellettualizzato, Agostino Gregori, era il seguente: il nazionalismo è il “fatto nuovo”, destinato a segnare una fase storica nel movimento politico ed economico del nostro paese. Potrebbe anche darsi che il proletariato debba a questo movimento lo scatto violento di tutte le sue energie che lo porterebbero alla conquista della propria emancipazione, alla rivendicazione di tutti i suoi diritti prima ancora di quanto noi pensiamo e speriamo.

Si faccia attenzione a come qui si parli di “tutti i diritti” del popolo lavoratore, e non solo di quelli sindacali o retributivi. “Tutti i diritti” significa che tramite il nazionalismo il proletariato accede anche alla “cultura borghese”, alla nazione, alla patria e alla guerra di classe internazionale: l’imperialismo. Affermazioni come questa sono tipiche di un sostrato rivoluzionario antimarxista e veramente popolare, cioè nazionale, ben vivo nel sottotraccia politico dell’epoca che incubò il Fascismo, e bene in grado di comprendere che una politica popolare di vertice era possibile svolgerla unicamente impossessandosi dei diritti del popolo usurpati dalla borghesia. Togliere dalle mani della borghesia la nazione e lo stesso imperialismo - come ad esempio faceva Corradini - significava sostituire alle oligarchie del denaro le aristocrazie di comando della politica, attinte dall’intero bacino del popolo. E queste, a differenza di quelle, provenivano da tutto il popolo, erano tutto il popolo, e non soltanto la sua minoranza capitalista o la sua minoranza operaista: l’una e l’altra, se prese isolatamente, ugualmente dedite all’esclusivo calcolo utilitario di classe.

Questo è il lontano antefatto di accadimenti di solito trascurati dalla storiografia, ma che sono centrali in un’analisi del valore storico dell’idea italiana di democrazia di popolo. Questo è il lontano antecedente, per fare un esempio, del fatto che durante la Repubblica Sociale si poté avere un ministro direttamente espresso non dalla cultura sindacalista, non dall’intellettualità borghese di nominale militanza filo-proletaria, non dalla nomenclatura di questo o quel partito, ma dalla fabbrica e dalla militanza di base: l’operaio Giuseppe Spinelli, ultimo Ministro del Lavoro della RSI.

Il passaggio dal Sindacalismo Rivoluzionario al sindacalismo nazionale non fu che la sintesi storica di un procedimento naturale e spontaneo. Una volta che si era riconosciuta la contiguità tra lotta di popolo e guerra rivoluzionaria, si erano anche stabilite le coordinate dell’organicismo. Se pensiamo ad esempio al comunalismo di un Alceste De Ambris, incentrato sulle identità ancestrali della territorialità locale, sulla tradizione e sulla consuetudine della comunità di villaggio, noi vediamo che è su questo punto che avverranno le più larghe convergenze proprio tra il Fascismo e questa ideologia della tradizione rivoluzionaria. Fu infatti proprio il Fascismo, per altri versi accentratore e “prefettizio”, il Fascismo “liberticida”, totalitario e politicamente “assolutista” che favorì, senza alcuna contraddizione nel far convivere l’assoluto del Centro con il relativo della periferia, quella straordinaria operazione di recupero della cultura popolare in epoca moderna che fu la rinascita fascista delle piccole patrie. Regioni, borghi, feste e associazionismi paesani, ataviche memorie condivise e realtà locali di antico prestigio sociale ebbero sanzione di sovrana autorità identitaria, convivendo entro la cornice della Nazione, che tutto questo comprendeva armonicamente. Questa singolare inquadratura di eguale sincronismo tra arcaismo e modernità seppe conferire alle identità locali quel respiro di integrazione nel più ampio quadro dell’identità nazionale, che non è mai esistito né nel comunismo - che è stato sempre violentemente ostile al tradizionalismo rurale e urbano - né nel liberalismo, per natura nemico dei radicamenti e favorevole agli universalismi.

Il Sindacalismo Rivoluzionario italiano, oltre che terreno di lotta sociale e politica nel nome del popolo emarginato, da ricondurre entro l’alveo nazionale con nuovi titoli di nobiltà sociale, è stato infatti anche e soprattutto strumento rivoluzionario-conservatore dell’identità. In esso, la modernità della società sviluppata e massificata veniva coniugata al riconoscimento che il nesso radicale tra uomo e suolo, tra lavoratore e identità geo-storica, tra ceppo ancestrale e luogo fisico della convivenza, è ineliminabile, è anzi da rafforzare contro ogni cosmopolitismo.
La risoluzione di riconoscere prima nella guerra coloniale del 1911-12 e poi in quella nazionale del 1915-18 una rivoluzionaria guerra di popolo di portata politica, sociale e identitaria decisiva, mostra che il Sindacalismo Rivoluzionario, affiancando il Nazionalismo nella lotta interventista, non ebbe nulla a che spartire con le logiche classiste liberali e marxiste, ma ne costituì l’esatto contraltare.

Quando, nel 1935, Arturo Labriola riconobbe nella guerra d’Africa davvero l’attesa pagina di riscatto popolare attraverso l’imperialismo contadino di un’intera nazione, mise un chiaro sigillo ideologico sull’intero movimento del sindacalismo politico. Questa sua finale ammissione dei titoli storici del Fascismo a interpretare i diritti del lavoro, fu una ben più centrata analisi che non quella operata dal “famoso” sindacalismo rivoluzionario parmense che, pur interventista nel 1914, volle nel 1922 sbagliare la sua diagnosi storica: volle vedere nello squadrismo non l’insurrezione armata del popolo, ma il braccio dell’Agraria, indotto in questo errore da coincidenze locali, da propagande reazionarie, da miopie di piccoli capi, mancando di coglierne il più vasto significato storico: che per la prima volta, in Italia, il popolo della campagna, quello del bracciantato, quello del sobborgo, quello dell’artigianato impoverito, quello minuto degli antichi centri storici urbani - insomma, proprio il popolo deambrisiano del comunalismo - prendeva le armi contro un’autorità massonica, oligarchica e reazionaria e portava al potere un suo capo. Prevalse dunque in quel caso un malconcepito afflato “libertarista” che non fu mai patrimonio del vero Sindacalismo Rivoluzionario, ma cascame anarco-repubblicano, “azionista” ante-litteram. Ma quella di Parma sindacalista che fece le barricate contro l’insurrezione squadristica - modesto episodio ostentato dalla storiografia di parte come l’unico trofeo antifascista del Sindacalismo Rivoluzionario, e che invece fu un chiaro attestato della retroguardia in cui si dibatteva tanta “sinistra” italiana dell’epoca - fu scheggia a sé, in nulla rappresentativa dell’intero movimento. Basti dire che il Sindacalismo Rivoluzionario fornì al Fascismo l’ossatura storica del suo sindacalismo e del suo corporativismo: Michele Bianchi, Edmondo Rossoni, Cesare Rossi, Massimo Rocca, Umberto Pasella, Ottavio Dinale, Paolo Orano, Agostino Lanzillo…e può bastare così. E che inoltre fornì, attraverso l’elaborazione del socialismo giuridico, la pietra d’angolo del regime sociale di massa gerarchico e popolare.

Ma il senso storico centrale del Sindacalismo Rivoluzionario è ancora un altro. E’ l’idea propriamente corporativa che l’associazionismo di popolo è la trama sociale su cui una nazione si regge, è il basamento su cui viene eretto un sistema aperto all’accesso dei migliori al potere, è l’organo vivo le cui cellule dinamiche sono attivate dalla partecipazione, dalla mobilità verso l’alto, dal decisionismo politico e da un solidarismo doppiamente efficace: quello di ordine sociale e quello di identità nazionale. Senza il Sindacalismo Rivoluzionario, il pensiero politico italiano non avrebbe conosciuto, ad esempio, il fenomeno del sindacalismo nazionale. Che può essere ben espresso da quanto Sergio Panunzio affermava circa l’organicismo sindacalista, anima di una “socializzazione dell’uomo” che avrebbe definitivamente desertificato il terreno su cui vigoreggiano i liberismi del profitto privato.

Il sindacato operaio può essere la risposta al solidarismo borghese solo in regime di spaccature liberali. Il sindacalismo operaio, in uno Stato organicista, svolge invece, come qualunque altro rango sociale o Stand - intellettuale, di mestiere, di professione, di servizio -, il ruolo di elemento politico di selezione dei migliori, attingendo da una base popolare che né il liberalismo né lo stesso bolscevismo considerarono mai come effettivo bacino dell’élite di comando: l’intera popolazione nazionale. Lo Stato sindacale non è, in questo senso, che il bastione di una conservazione rivoluzionaria, all’interno della quale la raccolta del lavoratore in associazione non solo economica, ma soprattutto politica, ha lo stesso arcaico sapore delle antiche corporazioni, delle antiche compagnie dei mestieri, delle fraglie artigiane, dei sodalizi di artieri. Storicamente, tutti questi momenti dell’ordinamento per ranghi di onore sociale sono luoghi in cui il solidarismo non è propaganda umanitaria e mondialista, né organismo di protezione economica di settori più o meno privilegiati, ma vita vissuta quotidianamente accanto a chi condivide il proprio spazio geo-storico e lotta per un medesimo destino.

jeudi, 11 mars 2010

Hermann Wirth e Julius Evola, un profondo rapporto culturale

Tratto da CentroStudilaRuna di Silvio degli Aurelli:

Continuando una serie di pubblicazioni brevi, ma estremamente interessanti, le benemerite Edizioni del Veltro di Parma hanno appena stampato il libro di Arthur Branwen, Ultima Thule. Herman Wirth e Julius Evola (coll. “I Quaderni del Veltro”, pp. 110, € 13,00). Si tratta in assoluto del primo ed unico studio che intende delineare i rapporti fra lo studioso tedesco-olandese e l’esoterista italiano. Herman Wirth è poco conosciuto in Italia. Di origini olandesi, nel 1910 ottenne la cittadinanza tedesca e nel primo dopoguerra si dedicò allo studio delle tracce dei popoli preistorici europei. La conoscenza di una cospicua quantità di diversificate lingue antiche e moderne, e una straordinaria preparazione sulla preistoria, gli consentì di avvicinarsi ai reperti che man mano studiava con una mentalità molto lontana dalle usuali prospettive accademiche. Non solo, ma per dirla con Evola, “il Wirth ha preteso di ricostruire non solo la storia della razza nordico-atlantica, ma altresì la sua religione. Sarebbe stata una religione già superiore, monoteistica, assai distinta dall’animismo e dal demonismo degli aborigeni negreidi o finno-asiatici, senza dogmi, di una grande purezza e potenzialmente universale”.
Utilizzando tutta una serie di dati e di testimonianze tratte dalla storia delle religioni, dal folklore, dalla paletnologia e dalla linguistica il Wirth pensò di poter dimostrare che alle origini dell’attuale umanità si trovasse un continente artico abitato da un popolo che incentrava la propria vita religiosa sul percorso solare e sui significati cosmico-spirituali che il tracciato dell’astro diurno disegna ogni anno. Il Wirth giunse ad enucleare una serie di segni primordiali che chiamò “serie sacra”, servita a questo popolo preistorico non solo come strumento espressivo, ma anche come un sistema di simboli e di notazioni astrali che articolavano il percorso del sole, i ritmi rituali, le forme espressive e probabilmente anche un sistema arcaico di scrittura derivato da questi segni cosmico-sacrali.
Herman Wirth

Julius Evola ha ammesso in molte occasioni la profonda influenza che l’opera del Wirth esercitò sul suo sistema speculativo,wirth.jpg ma nessuno aveva osato tentare di chiarire fin dove era arrivata questa influenza. Anzi, la quasi totalità dei biografi, degli estimatori o dei denigratori di Evola, ha solamente utilizzato quanto lo stesso Evola ha detto a questo proposito, non riuscendo neanche a leggere le opere dello studioso tedesco-olandese e restando paghi di quanto ha scritto lo stesso Evola.

Un’attenta comparazione dei testi permette ad Arthur Branwen di chiarire fin dove è arrivata questa influenza, cosa ha diviso i due studiosi, i limiti delle interpretazioni wirthiane, quelle che Evola riterrà confuse e farraginose. D’altronde, il punto di vista di Evola si era arricchito della lettura degli scritti di René Guénon che in quel tempo mostravano un diverso modo di studiare le dottrine spirituali e addirittura osavano indicare una superiorità dell’Oriente su un Occidente privo di ogni base rituale e religiosa. Persino l’interpretazione evoliana del mondo romano a poco a poco sembra riposizionarsi sulle prospettive wirthiane e l’arrivo dei Latini nel Lazio diventa un prolungamento delle invasioni nordico-atlantiche che cambieranno la stessa struttura morfologica dei popoli e delle tante tradizioni spirituali che ne deriveranno.

Il testo di Arthur Branwen è ben documentato, contiene una serie di dottissime note che da sole avrebbero avuto bisogno di ampliamenti dottrinali ed esplicativi capaci di trasformarle in altrettanti capitoli. La documentazione è abbondante, precisa, attenta e l’autore non si fa sfuggire l’occasione di puntualizzare la portata di studiosi come Frobenius, Pettazzoni, Altheim, Schmidt, Rasmussen, ecc. L’autore ci ha confidato che sta conducendo uno studio parallelo su Evola e Bachofen, e coloro che intendono capire la portata della cultura fiorita fra le due guerre e le prospettive che ne sono derivate, non possono che plaudire ad un’opera che mostra la superficialità di quegli interpreti evoliani (e sono molti) che in realtà non hanno mai studiato veramente il vasto retroterra sul quale sono state costruite le opere dell’esoterista romano.

Silvio degli Aurelii

mercredi, 10 mars 2010

Il superomismo sociale di D'Annunzio

Il superomismo sociale di D’Annunzio

Autore: Luca Leonello Rimbotti - http://www.centrostudilaruna.it/

GabrieleD.jpgChe le rivoluzioni nazionali europee del XX secolo abbiano regolarmente avuto alle loro spalle il meglio dell’intellettualità dei rispettivi Paesi, e che tale prestigioso palladio non abbia l’eguale in altri contesti ideologici, costituisce una delle maggiori frustrazioni per l’intellighentzia liberalgiacobina. Nel caso del Fascismo italiano, la galleria dei padri nobili più lontani, come quella degli immediati profeti e antesignani, è sterminata. Di qui, l’ingrato lavoro cui si sottopongono da decenni i poligrafi antifascisti: nascondere se possibile, altrimenti mettere in sordina e depistare, al fine di limitare il danno che reca alla credibilità democratica il fatto che il Fascismo possa impunemente godere del prestigio postumo di tanti geni nazionali che lo precorsero. Senza andare più indietro, i casi di un Carducci, di un Oriani, di un Pascoli, di un Pirandello, di un Pareto, di un Marinetti sono conosciuti: qui si concentra sovente lo sforzo dei nuovi “negazionisti”: le assonanze, le precise rispondenze, le plateali coincidenze tra il loro pensiero ideale, sociale e politico e l’ideologia fascista vengono appunto negate o minimizzate, contestando l’incontestabile attraverso la pratica abituale del cavillo cabalistico oppure della semplice deformazione.

D’Annunzio è un caso a sé. Il grande poeta è stato a lungo ridicolizzato dai progressisti come esteta da burla, in virtù del suo “decadentismo borghese”. E a lungo è stato giudicato come nulla più che una manifestazione retorica di interessi di classe. Molti ricorderanno i frasari paramarxisti che per lunghe stagioni relegarono D’Annunzio tra i servi del capitalismo. Un solo esempio a caso: quel libro einaudiano con cui Angelo Jacomuzzi nel 1974 definiva il pensiero del Vate «funzionale all’affermazione dell’ideologia del capitalismo avanzato». Oggi, che il febbrone marxistico è degenerato in pandemìa liberista, sciocchezze del genere non sono più somministrabili. Oggi questo particolare tipo di “negazionismo” viaggia su binari meno rozzi, più sfumati. Eppure, qua e là, vediamo ancora riaffiorare con altri argomenti l’antica tendenza alla mistificazione.

Stavolta, infatti, non si vuole enfatizzare il D’Annunzio reazionario, ma piuttosto fabbricarne addirittura uno antifascista. Si passa, insomma, da una forzatura a un’invenzione di sana pianta. È il caso, ad esempio, di un breve scritto di Vito Salierno, intitolato non a caso Gabriele d’Annunzio: il disprezzo per i fascisti e il rapporto con Mussolini, che compare nel libro a più mani L’Italia e la “grande vigilia”. nella politica italiana prima del fascismo, a cura di Romain H. Rainero e Stefano B. Galli (Franco Angeli editore). Il saggetto in parola, sin da titolo, si picca di voler dimostrare che D’Annunzio e i fascisti non avevano nulla a che spartire. Due mondi diversi. A riprova, si cita la famosa lettera che il Comandante inviò a Mussolini il 16 settembre 1919, rimproverandolo di non aver mobilitato i Fasci a sostegno dell’impresa fiumana. E si cita anche l’ordine dato ai legionari, a Marcia su Roma appena terminata, di «mantenersi assolutamente estranei all’attuale situazione politica». Il fatto che D’Annunzio e Mussolini avessero la medesima ideologia non conta. Contano le occasionali divergenze sulla tattica politica. Poco importa, ad esempio, che D’Annunzio si fosse affacciato al balcone di Palazzo Marino a Milano il 3 agosto 1922 – in piena fase insurrezionale fascista – per arringare una folla nazionalista e avendo a fianco fior di squadristi e neri gagliardetti… e poco importa che in occasione della Marcia, D’Annunzio, se non si sperticò in elogi, neppure si pronunciò contro: si sa infatti che il Vate, quell’ingresso a Roma, avrebbe voluto farlo lui, mancandogli tuttavia i talenti politici per scegliere il come e il quando. Suscettibile com’era, ci rimase male quando la “rivoluzione nazionale” fu portata a compimento da altri, relegandolo ai margini della scena.

E si sa anche che certe sue rampogne a Mussolini erano figlie più di un antagonismo tra caratteri forti che non tra divergenti vedute di fondo. Mussolini aveva la capacità politica che sfuggiva completamente al Comandante, tutto avvolto nelle sue potenti evocazioni simboliche. D’Annunzio, da parte sua, ebbe il talento estetico necessario per fondare la liturgia celebrativa e la mistica comunitaria, poi ereditate dal Fascismo e socializzate su scala nazionale.

Non potendo contestare in toto la coincidenza ideologica tra Mussolini e D’Annunzio, oggi, per confutare il primo e salvare il secondo da una fratellanza ideologica che disturba, si preferisce pestare sul pedale delle marginali divergenze: ad esempio, quelle immaginate tra il corporativismo fascista e il corporativismo della Carta del Carnaro. Che effettivamente, se guardata col microscopio, rigirata in controluce, ai raggi X, proprio volendo, in alcune sfumature è un po’ diversa, che so, dalla Carta del Lavoro… Oppure, come ha fatto Ferdinando Cordova – in un suo vecchio libro recentemente ristampato –, si preferisce cavillare su certe differenze di scelta politica tra alcuni arditi e legionari dannunziani e gli arditi e gli squadristi fascisti… Insomma, una letteratura bizantina che gode ancora buona salute. Gli storici più equilibrati e meno corrivi hanno da tempo liquidato questi tentativi di imbrogliare le carte.

Il pensiero politico dannunziano, presente non solo negli scritti e discorsi politici, ma nella sua intera produzione letteraria, poetica e giornalistica, era quanto mai chiaro. L’Immaginifico possedeva il dono divino, assente nei tardi glossatori democratici, della brutale schiettezza. La sua ideologia? Ce l’ha riassunta anni fa un insospettabile come Paolo Alatri: «il principio della completa libertà d’azione dell’uomo superiore… la polemica antidemocratica e antiparlamentare, la celebrazione delle virtù della razza, l’esaltazione della guerra, l’esaltazione della romanità e la celebrazione del Risorgimento… un socialismo di superuomini…». Cos’altro aggiungere? Questa ideologia dannunziana proprio non fa venire in mente nessuna assonanza, a quanti accarezzano un improbabile D’Annunzio anti-fascista o a-fascista?

I vecchi storici marxisti erano in fondo più onesti degli attuali “revisionisti” democratici. Lo stesso Alatri – ma come lui anche i vari Ernesto Ragionieri o Gabriele De Rosa – rimarcavano per l’appunto che D’Annunzio «preparò il terreno al fascismo», proprio perché, se non fascista (un carattere come quello era maldisposto per natura a inquadrarsi in un partito comandato da un altro…), fu quanto meno protofascista. E, inoltre, proprio quegli storici ricordavano il debito che l’ideologia nazionalpopolare di D’Annunzio aveva col socialismo nazionale di Corradini, col suo imperialismo sociale e con il sindacalismo rivoluzionario: tutti elementi che furono alla base dell’ideologia fascista. Dice: ma nella Carta del Carnaro si parla di libertà, si afferma che tutti i cittadini sono uguali… e poi a capo della Reggenza il Vate mise De Ambris, un libertario antifascista. Sì, ma che dire del fatto che alla prima occasione D’Annunzio se ne sbarazzò a favore di Giuriati, che era fascista e che diventò un gerarca? Ma poi, non si parla nella Dottrina del Fascismo proprio dello “Stato etico” come manifestazione della vera libertà e dell’eguale dignità di tutti gli Italiani? E che dire poi della stragrande maggioranza dei legionari fiumani, che dal 1921 confluirono in blocco nel PNF? Senza contare che, se ci fu, come ci fu, una forte vena “di sinistra” nella Carta del Carnaro, essa fu preceduta e di molto dal programma sansepolcrista dei Fasci di Combattimento.

Per la verità, la leggenda di un D’Annunzio “di sinistra” (ma di una sinistra estrema, non tanto nazionale, quanto addirittura internazionalista e para-comunista) venne malauguratamente diffusa da De Felice e poi rinforzata da qualche suo allievo. In un famoso convegno di storici tenutosi a Pescara nel 1987, De Felice pensò bene di provare questo fantasioso schieramento del poeta, ricordando che D’Annunzio invitò a Fiume sia Gramsci che il commissario sovietico agli esteri Cicerin. Questa presa di posizione di De Felice è alla base dei tentativi della storiografia contemporanea di rinverdire la mitologia di un D’Annunzio estraneo alla politica e ai valori del Fascismo e con l’unico occhio rimastogli volto alla sinistra estrema. Ma, anche qui, si tratta di argomenti facilmente smontabili. Un conto sono le tattiche o gli atti politici contingenti, un altro conto è l’ideologia politica di fondo che sostiene un’azione. Basterà ricordare, per chiarire la faccenda, che, ad esempio, il primo Stato occidentale che riconobbe diplomaticamente l’URSS fu l’Italia, ma nel 1923 e per iniziativa di Mussolini, e senza che per questo diventasse comunista…

Fatto sta che è su mitologie di tale inconsistenza che ancora oggi si lavora. Una volta conosciuta l’opera dannunziana, una volta letta la sua straripante prosa estremistica, se ne riconoscono le tracce che anticiparono il Fascismo fin dai primi scritti giovanili negli anni Ottanta dell’Ottocento. Se il punto di partenza dell’ideologia di D’Annunzio fu il superomismo nietzscheano, a questo il poeta aggiunse col tempo quella sensibilità sociale che già era da un pezzo nell’aria sia nel nazionalismo corradiniano, sia nelle scelte dei sindacalisti rivoluzionari in favore dell’interventismo: confluiti poi l’uno e gli altri nel Fascismo. Il Vate si esprimeva a favore della energia dominatrice che agisce tanto nell’arte quanto nell’arte politica di un capo carismatico; esaltava le glorie italiane e affidava alla nazione una missione da realizzarsi attraverso i trionfi guerrieri; celebrava il destino della stirpe formulando una delle rivendicazioni imperialistiche più radicali del Novecento: a questo aggiunse l’idea di una nobiltà del popolo presente anche nell’umile lavoro quotidiano. Da Giovanni Rizzo, il prefetto che il Duce inviò al Vittoriale per sorvegliare non tanto D’Annunzio quanto la fauna di parassiti che lo circondava, sappiamo che Gardone pullulava di faccendieri e mestatori: «avversari di varia tinta, partigiani, zelatori e gelosi si davan da fare per attizzare il fuoco della discordia». Ma invano: D’Annunzio confermò fino alla fine l’identità di ideali col Fascismo. Dev’essere stata una ben strana inimicizia, quella tra i due, se ad esempio nel 1936 D’Annunzio poté inviare a Mussolini – che chiamava spesso il grande Capo – parole che non lasciano scampo: «Tutta la mia arte migliore si tendeva dal mio profondo nell’ansia di scolpire la tua figura grande, mentre tu solo contro gli intrighi de’ vecchi, contro la falsità degli ipocriti… difendevi la tua patria, la mia patria, l’Italia, l’Italia, l’Italia, tu solo, a viso aperto!…».

* * *

Tratto da Linea del 27 giugno 2008.

mardi, 09 mars 2010

Sigrid Hunke et le sens de la mort

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

Sigrid Hunke et le sens de la mort

Sigrid Hunke est très connue Outre-Rhin. Le public francophone, lui, ne connaît que son livre sur l'Islam et les rapports intellectuels euro-arabes au Moyen Age (Le Soleil d'Allah brille sur l'Occident, Albin Michel, 1984, 2ème éd.) et sa remarquable fresque philosophico-religieuse "L'autre religion de l'Europe" (Le Labyrinthe, 1985). En 1986, Sigrid Hunke a publié un petit ouvrage fascinant sur le thème de la mort, tel qu'il est entrevu par huit grands systèmes religieux dans le monde, le christianisme, le judaïsme, l'Islam, le classicisme hellénique, la mythologie de l'Egypte antique, le bouddhisme, l'Edda germano-scandinave, les grandes idéologies modernes.

 

Duerer_-_Ritter,_Tod_und_Teufel_(Der_Reuther).jpgPour le christianisme, écrit Sigrid Hunke, le Dieu tout-puissant, depuis sa sphère marmoréenne d'éternité, depuis son au-delà inaccessible, impose la mort à ses créatures en guise de punition pour leur désobéissance et pour leur prétention à devenir égales à lui. Le Christ, fils de ce Dieu omnipotent fait chair et "descendu" parmi les hommes, obéit à son Père, meurt crucifié, descend dans le royaume des morts et revient à la vie. Pour les premiers croyants, le règne paradisiaque, annoncé par ce Messie et par la tradition hébraïque, devait commencer dès la réapparition du Christ. Il n'en fut rien et ce fut le tour de force opéré par Paul de Tarse: cet apôtre tardif annonce que la mort est une parenthèse, qu'il faut attendre un "jugement dernier", où le Christ sépararera les pies des impies et jugera bons et méchants à la place de son "Père". Ce n'est qu'alors que commencera le règne définitif de Dieu, où injustice, misères, maladies auront à jamais disparues.

 

Quant au Dieu juif de l'Ancien Testament, il est, écrit Sigrid Hunke, un dieu des vivants et non des morts, lesquels sont à jamais séparés de lui. Ce Dieu n'entretient aucune relation avec le phénomène de la mort, avec les morts, avec le règne de la mort. Sa toute-puissance s'arrête là. La mort, dans le monde hébraïque, est fin absolue, négation, non-être définitif. Iavhé n'a aucun pouvoir sur Shéol, l'univers des défunts dans l'imaginaire hébraïque. Le corps du défunt rejoint la terre, la Terre-mère, que vénéraient les tribus sémitiques du Proche-Orient. Le Iahvisme, inauguré par Moïse, rompt les ponts avec cette religiosité tellurique des Sémites, entraînant un effondrement et une disparition des cultes voués aux défunts. Plus tard, après l'exil babylonien, les prophètes Ezra, Daniel et Enoch, renforcent cette radicale altérité entre l'au-delà iavhique et l'en-deça terrestre, par une instrumentalisation des dualismes issus de Perse. Dès lors, la césure entre l'esprit et la chair, entre Iavhé et l'homo peccator (l'homme pécheur), entre la Vie et la Mort, se fait encore plus absolue, plus brutale, plus définitive. Mais cette césure terrible, angoissante, se voit corrigée, par certaines influences iraniennes: désormais, à ce monde de larmes et de sang s'oppose l'espoir de voir un jour advenir un monde meilleur, rempli de cette "lumière" dont les Iraniens avaient le culte.  Mais seul le peuple élu, obéissant à Iavhé en toutes circonstances, pourra bénéficier de cette grâce.

 

Le Dieu de l'Islam est l'ami des croyants, de ceux qui lui sont dévoués. Il leur accorde son amour et sa miséricorde. La Terre n'est pas réceptacle de péché: le péché découle du choix de chaque créature, libre de faire le bien ou le mal. L'Islam ne connaît pas de catastrophe dans la dimension historique, comme le iahvisme vétéro-testamentaire et le christianisme, mais bien plutôt une catastrophe globale, cosmique, après laquelle Allah recréera le monde, car telle est sa volonté et parce qu'il aime sa création et refuse qu'on la dévalorise.

 

Les dieux de la Grèce antique sont des immortels qui font face aux mortels. Pour Sigrid Hunke, contrairement à l'avis de beaucoup d'hellénisants, la Grèce affirme la radicale altérité entre la sphère du divin et la sphère de l'humain. Le destin mortel des hommes ne préoccupe pas les dieux, écrit-elle, et les âmes, libérées de leurs prisons corporelles, errent, pendant des siècles et des siècles, souillées par leur contact avec une chair mortelle pour éventuellement ensuite retourner dans l'empyrée d'où elles proviennent.

 

Les dieux de l'Egypte antique et des Germains sont eux-mêmes mortels. Pour les Egyptiens, les dieux ont tous une relation directe avec la mort. Chaque soir, le dieu solaire connaît la mort et, chaque matin, il revient, ressuscite rajeuni par ce voyage dans l'univers de la mort. Le défunt rejoint le dieu des morts Osiris et accède à un statut supérieur, dans le royaume de ce dieu. Dieux et hommes sont partenaires et responsables pour le maintien de l'ordre cosmique. Dans la mythologie germanique, les dieux sont des compagnons de combat des hommes. Lorsque ceux-ci meurent, les dieux les accueillent parmi eux, puisque, durant leurs vies, les hommes ont aidé les dieux à combattre les forces de dissolution.

 

Au XXème siècle, cette idée d'amitié entre dieux et hommes, est revenue spontanément, dit Sigrid Hunke, dans la pensée d'un Teilhard de Chardin, qui demandait à ses contemporains de lutter de toutes leurs forces aux côtés de la puissance du créateur pour repousser le mal". Idée que l'on retrouve aussi dans la mystique médiévale d'un Maître Eckhart qui voulait que les hommes deviennent des "Mitwirker Gottes", c'est-à-dire qu'ils collaborent efficacement à l'oeuvre créatrice de Dieu. Quant au Russe Nikolaï Berdiaev (1874-1948), il écrivait, en exil à Berlin dans les années 20: "Dieu attend la collaboration des hommes dans son travail de création; il attend leur collaboration dans le déroulement incessant de cette création". Cet appel à s'engager activement pour le divin implique une responsabilité de l'homme vis-à-vis du monde vivant, de la nature, de l'écologie terrestre, de la justice sociale, des enfants qui naissent et qui croissent,...

 

Pour Max Scheler, dont Sigrid Hunke admire la philosophie, l'homme doit se débarasser de son attitude infantile à l'égard de la divinité, oublier cette position de faiblesse quémandante et implorante que les religions bibliques lui ont inculquée et accéder à une religiosité adulte, c'est-à-dire participative. L'homme, à côté du divin, doit participer à la création, doit s'engager personnellement, s'identifier à l'oeuvre de Dieu.

 

La conclusion de la belle enquête de Sigrid Hunke est double: 1) il ne faut plus voir la mort sous l'angle sinistre de la négation; 2) le principe "confiance" est supérieur au principe "espérance". Avec les grands penseurs de ce que Sigrid Hunke a appelé "l'autre religion de l'Europe", Héraclite, Hölderlin, Hebbel, Rilke, etc., nous ne saurions regarder la mort comme la négation absolue, ni la craindre comme point final, comme point de non retour définitif mais, ainsi que l'avaient bien perçu Schelling et Tolstoï, comme une "reductio ad essentiam". La mort, dans cette perspective immémoriale, qui remonte aux premiers bâtisseurs de tumuli de notre continent, aux autochtones absolus dont nous descendons, est un retour à la plénitude de l'Etre; elle est un "retour à ce foyer qui est si proche des origines" (Heidegger). Et Sigrid Hunke de rapeller ces paroles de Bernhard Welte, prononcées au bord de la tombe de Heidegger: "... La mort met quelque chose en sûreté, elle dérobe quelque chose à nos regards. Son néant n'est pas néant. Elle cache et dissimule le but de tout un cheminement" (Der Tod birgt und verbirgt also etwas. Sein Nichts ist nicht Nichts. Er birgt und verbirgt das Ziel des ganzen Weges).

 

Ces paroles, si proches de la pensée heideggerienne, si ancrées dans la campagne Souabe et dans l'humus de la Forêt Noire, nous révèlent, indirectement, le principe "confiance". Une confiance dans le grand mouvement de l'Etre qui nous a jeté dans le monde et nous reprendra en son sein (Teilhard de Chardin). Le principe "confiance" est supérieur au principe "espérance" (Ernst Bloch), affirme Sigrid Hunke, car il ne laisse aucune place au souci spéculateur, au calcul utopique au doute délétère: il nous apprend la sérénité, la Gelassenheit.

 

En résumé, un livre d'une grande sagesse, servi par une connaissance encyclopédique des auteurs de cette "autre religion de l'Europe", pré-chrétienne, qui n'a cessé de corriger la folie anti-immanentiste judéo-chrétienne.

 

Bertrand EECKHOUT.

 

Sigrid Hunke, Tod was ist dein Sinn?, Neske-Verlag, Pfullingen, 1986, 164 S., DM 28.    

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lundi, 08 mars 2010

Das politische Volk

polvolk.jpg

 

Das politische Volk

Hans Freyers Theorie der Volksgemeinschaft - eine Wirkungsgeschichte mit Brüchen.

(in: Ethnologie und Nationalsozialismus, Hg. Bernhard Streck, Gehren, Escher Verlag, 2000)

Ex: http://www.uener.com/

Geschichte der Soziologie oder Vergangenheitsbewältigung?

Um die Mitte der siebziger Jahre begann die Soziologie in Deutschland sich auf ihre jüngste Geschichte zu besinnen; es ging weniger um ihre Klassiker, die seit jeher zum Kanon der Fachausbildung gehörten, vielmehr um Werk, Wirkung und politisches Profil ihrer wissenschaftlichen "Väter" und "Großväter" als Repräsentanten der deutschen Soziologie der Zwischenkriegszeit 1918-1945. Auslöser für diese Recherchen waren einerseits neue Konzepte der Wissenschaftssoziologie: Die Struktur wissenschaftlicher Revolutionen und das Konzept des Paradigmenwandels (Kuhn 1976), soziale und kognitive Institutionalisierungsprozesse und Stadien der Wissenschaftsentwicklung (Mullins/Mullins 1973), wurden auf die eigene Disziplin angewandt und machten gerade die Zwischenkriegszeit mit ihren politischen Umbrüchen, sozialen Krisen und kulturellen Experimenten zum bevorzugten Analysegegenstand einer "Wissenschaftssoziologie der Soziologie". Andererseits waren diese wissenschaftlichen Bemühungen stets begleitet von einer stark emotionalisierten Aufarbeitung persönlicher Lebensgeschichten: als zornige Abrechnung der Nachkriegsgeneration mit ihren Vätern, als moralische Kritik an den geistigen Irrwegen, die zwangsmäßig zur Katastrophe des Nationalsozialismus führen mußten - oder auch als Rechtfertigung bzw. gegenseitige Schuldzuweisung der betroffenen Zeitzeugen. Diese Kontroversen haben eine systematische wissenschaftliche Analyse erschwert, aber gleichzeitig eine lebhafte und pointierte Diskussion ausgelöst und werden selbst wieder zu Forschungsgegenständen einer bewegten Wirkungsgeschichte der Soziologie, an der Konflikte und Zusammenwirken von wissenschaftlichen Ideen, persönlichen Karriereentscheidungen, plötzlichem Wechsel des politischen Rahmens und institutionellen Zwängen hervorragend studiert werden können. Die ideengeschichtliche Perspektive, die zweifellos ihre Berechtigung behält als Fortschreibung und Sicherung des disziplinären Wissenskanons, tritt hier zurück zugunsten einer wirkungsgeschichtlichen und wissenschaftssoziologischen Analyse und eines biographischen Aspekts. Damit erscheinen neben den Institutionen Wissenschaft und Universität mit ihren in langer Tradition gefestigten Regeln der Wissensproduktion, Sozialisation, Selektion, Paradigmenbindung etc., wissenschaftsexterne Einflußfaktoren auf das Werk: sowohl schicksalhafte Ereignisse, politische Umbrüche, Kriege, als auch subjektive Merkmale, wie Temperament und Begabung, familiäre Bindungen und Freundschaften, persönliches politisches Engagement und alle Zufälle des persönlichen Lebensweges; persönliche Verantwortung und Versäumnisse werden damit auch zum soziologischen Forschungsproblem.

Die Berücksichtigung außerwissenschaftlicher Faktoren, vor allem der politischen Ereignisse, hat in dieser deutschen Nachkriegsdiskussion zu einer nationalstaatlichen Isolierung der Soziologiegeschichte und zu einer zeitlichen Zentrierung auf das Schlüsselereignis der "Machtergreifung 1933" geführt. Beides ist sachlich unzulässig und führt zu verzerrten Ergebnissen. In der Zwischenkriegszeit bestand weiterhin ein dichtes Kommunikationsnetz der verschiedenen intellektuellen Milieus des deutschsprachigen Mitteleuropa - dazu gehörten auch Prag und Budapest als Kulturzentren der Habsburger Monarchie - das erst durch den 2. Weltkrieg zerstört wurde (Lepsius 1981a: 7-10). Auch eine zeitliche Eingrenzung auf die zwanziger Jahre oder auf die Zeit des Nationalsozialismus muß zu irreführenden Ergebnissen führen. Wenn auch die politische Zäsur 1933 in Deutschland einen deutlichen Bruch mit der Soziologie der zwanziger Jahre hervorrief und eine weitere Spaltung nach 1933 durch die Emigration verursachte, so sind doch in allen drei Fragmentierungen weiterhin auch Gemeinsamkeiten hinsichtlich wissenschaftstheoretischer Grundlagen, des wissenschaftlichen Selbstverständnisses und der Paradigmen festzustellen. Die äußerst schöpferische Kultur und Wissenschaft der Weimarer Republik zehrte von längerfristigen europäischen geistigen Strömungen, die durch Kulturkampf und Wissenschaftspolitik im wilhelminischen Deutschland größtenteils abgeblockt waren und danach mit gesteigerter Wucht zum Durchbruch kamen. Vor allem die Soziologie war davon betroffen - sie fand in Deutschland erst in den zwanziger Jahren Anerkennung als akademische Disziplin, und wurde im Gesamtzusammenhang dieses kulturellen Durchbruchs zur gesellschaftlichen Erneuerungsbewegung hochstilisiert. Die Ursprünge der Sozialwissenschaften und ihre großen Fortschritte im 19. Jahrhundert sind jedoch im langfristigen europäischen und transatlantischen Diskurs verankert, der in einer im Vergleich zu heute viel übersichtlicheren Wissenschaftsgemeinschaft mit wenigen maßgeblichen Zeitschriften nach 1918 in Deutschland noch einmal einen Höhepunkt erreichte. Die 1909 gegründete Deutsche Gesellschaft für Soziologie (DGS) hatte zahlreiche Mitglieder aus dem deutschsprachigen Mitteleuropa, die zum Teil auch führende Positionen einnahmen. Die durchgängigen europäischen kulturellen Traditionen blieben also ebenso relevant wie die nationalen politischen Ereignisse. Erst durch eine Mehrebenen-Betrachtung in diesem Sinne, die erstens vermeidet, das Jahr 1933 als einen alle gesellschaftlichen Bereiche revolutionierenden Bruch zu definieren, die zweitens sich nicht auf den deutschen nationalstaatlichen Raum beschränkt, der vor 1871 ja nicht in dieser Form existiert hatte, wird man das Zusammenspiel der einzelnen Ebenen zeigen können, in dem euphorische Übersteigerungen, Sinnverschiebungen und Bedeutungswandel sozialwissenschaftlicher Modelle und Theorien zustande kamen - ein Zusammenspiel, das von Synergieeffekten bis zur gegenseitigen Blockade reichen konnte.

Die meisten Arbeiten über diese Zeit wurden als "kritische" Analysen unternommen, jedoch nicht im Sinne dieser Mehrebenen-Analyse, die mit einer immanenten Interpretation auf der Grundlage einer zeitgenössischen Ortsbestimmung auch eine Einordnung in den Gesamtzusammenhang ex post, sowie ein Prüfen der logischen Folgerichtigkeit der Werke vereinen würde; "kritisch" verstanden sich die Forschungen vielmehr im Sinne einer "Vergangenheitsbewältigung", die das "falsche Bewußtsein" der damaligen Gelehrten als Wegbereiter des Nationalsozialismus aufdecken sollte und diese damit zu Ideologen erklärte. So wird in einer intellektuellen Biographie Hans Freyers von der wissenschaftlichen Leistung Freyers von vorneherein abgesehen (dabei jedoch konzediert, daß seine wissenschaftlichen Werke heute noch mit Profit gelesen werden könnten), da seine historische Bedeutung als radikal-konservativer Ideologe überwiege (Muller 1987: 3). In einer Darstellung der deutschen Soziologie 1933-45 wird Freyer zum Ideologen der nationalsozialistischen Bewegung erklärt, da er bereits 1930 den gesellschaftlichen Willen als Hiatus zwischen Vergangenheit und Zukunft bzw. Theorie und Praxis in sein soziologisches Konzept einbezogen hätte.(Rammstedt 1986: 44 f.) Oder er wird in einer renommierten historischen Darstellung der Kultur der Weimarer Republik lediglich als "völkischer Schriftsteller" erwähnt, seine wissenschaftliche Karriere wird dabei außer acht gelassen ( Gay 1970: 11). Dies sind durchaus folgerichtige Eingrenzungen des Forschungsinteresses, wenn Gesellschaft und Kultur der Weimarer Zeit ausschließlich vom "Endpunkt" des Nationalsozialismus her charakterisiert werden.

Die Frage, wie es 1933 zur politischen Katastrophe in Deutschland kommen konnte, die ja eine harte historische Tatsache ist, sollte nicht dazu führen, im nachhinein alle Entwicklungen auf diesen Kulminationspunkt der Katastrophe hin zu interpretieren. Am weitesten geht dabei wohl Georg Lukács, der eine immanente und zwingende Kausalkette herstellt von einem historischen Eklektizismus in der Nationalökonomie des 19. Jahrhunderts über einen Werterelativismus, gefördert durch die damalige Psychologie, bis zum Irrationalismus, bei dem Max Weber gerade durch seine Exclusion der Werte aus der Wissenschaft gelandet wäre - sowie zu Hans Freyer, der durch Übertragung der Existenz- und Lebensphilosophie auf die gesellschaftliche Ebene den positiven Weg zum Faschismus frei gemacht hätte (Lukács 1946). In derartigen Rezeptionen spiegelt sich der Kampf der Ideologien des 20. Jahrhunderts; sie tragen jedoch kaum zu einem historisch-wissenschaftlichen Erkenntnisfortschritt bei, denn was Resultat der Analyse sein sollte, ist darin von vorneherein vorgegeben; man betreibt "Vergangenheitsbewältigung, und die "wissenschaftliche" Arbeit wird dabei zur bloßen Reifikation. Auch in der historischen Analyse muß das Ergebnis zunächst offen sein, die Komplexität der Prozesse und die Falsifizierbarkeit der Ergebnisse und Theorien müssen erhalten bleiben.

Die wissenschaftliche Bearbeitung dieser Zeit wurde durch die Gründung einer Arbeitsgruppe "Ethnologie im Nationalsozialismus" nun im Fach Ethnologie aufgenommen, und die Arbeiten zur Soziologie der Zwischenkriegszeit können erste Vergleichsmöglichkeiten bieten. Das Buch von Otthein Rammstedt, Deutsche Soziologie 1933-1945 (1986) hat vermutlich deshalb in die ethnologische Diskussion Eingang gefunden, weil der Begriff der Volksgemeinschaft darin eine zentrale Rolle spielt. Dieses Buch, das eine Bibliographie der "Soziologischen Literatur im Dritten Reich" von mehr als 200 Seiten enthält, im Text aber nur wenige, bereits in anderen Arbeiten hinlänglich diskutierte Werke behandelt, kann hier als paradigmatisches Exempel einer wissenschaftlichen "Vergangenheitsbewältigung" im o.a. Sinn dienen.

Rammstedt kommt in seiner Abhandlung schnell auf das Hauptergebnis seiner Forschungen: Ab 1933 hätten die in Deutschland verbliebenen Soziologen eine paradigmatische Eigenständigkeit und Einheit nach innen wie nach außen vertreten, im Sinne einer "deutschen" Soziologie (in Anführungsstrichen) bzw. Deutschen Soziologie (groß geschrieben - ähnlich wie damals auch eine Deutsche Physik propagiert wurde). Da die für seine Abhandlung erstellte Bibliographie ein unerwartetes Übermaß an nationalsozialistischen Arbeiten ergeben hätte, fühlte Rammstedt sich berechtigt, mehr oder weniger die gesamte sozialwissenschaftliche Profession in Deutschland nach 1933 unter dieses einheitliche Paradigma der Deutschen Soziologie zu subsumieren, das er als einen totalitären Ansatz versteht, der jedoch weder von den zeitgenössischen Wissenschaften im Ausland, noch in späteren Rezeptionen, auch nicht in der bisherigen Fachgeschichtsschreibung wahrgenommen worden wäre (1986:20-22).

Zwei Kritikpunkte sind hier anzuführen:
Erstens müßte die Feststellung, daß die zeitgenössische internationale scientific community, die doch die deutsche Entwicklung äußerst kritisch verfolgte, den totalitären Ansatz der Deutschen Soziologie nicht wahrgenommen hätte (Rammstedt 1986: 22f.), und die sich dabei auf Durchsicht renommierter Zeitschriften und Verhandlungen internationaler wissenschaftlicher Gesellschaften nach 1933 bezieht, den Autor doch zu einer Überprüfung veranlassen, ob seine Subsumierung der Soziologie in Deutschland unter das totalitäre Paradigma Deutsche Soziologie überhaupt wissenschaftlich haltbar ist. Freyers theoretische Grundlegung der Soziologie (1930), auf der seine nachfolgenden Arbeiten zu den Aufgaben der Soziologie, zur politischen Erziehung, zu Herrschaft, Planung und Technik, sowie zum Volksbegriff theoretisch aufgebaut sind, ist als eine der wenigen Arbeiten der jüngeren deutschen Soziologengeneration nach Max Weber im Ausland rezipiert worden. Sie wurde als interessante Fortführung des Ansatzes Max Webers in Frankreich auch nach 1933 wahrgenommen (Aron 1935: 4, 175), und der amerikanische Soziologe Talcott Parsons übernahm 1937 in seinem frühen Hauptwerk The Structure of Social Action (New York 1968: 473) nicht nur Freyers geschichtsphilosophische Fundierung der Soziologie im Idealismus, sondern stützte sich auch im wesentlichen auf Freyers Klassifikation der Wissenschaften in Natur-, Logos-, und Wirklichkeitswissenschaften (762, 774), um nur einige Beispiele des internationalen Diskurses zu nennen. Einige der Schüler Freyers haben sowohl in Deutschland als auch in der Emigration dessen theoretische Grundlegung ausgebaut1.
Zweitens kommt mit der Subsumierung aller soziologischer Arbeiten in Deutschland nach 1933 unter "Deutsche Soziologie" eine ideologische Kategorisierung der Soziologie sozusagen "durch die Hintertür" wieder ins Spiel, die damals nur von wenigen nationalsozialistischen Karrieristen vertreten wurde: Wenn man alle in Deutschland verbliebenen Soziologen unter dem Paradigma "Deutsche Soziologie" zusammenfassen kann, müßte daraus dann nicht auch eine Zusammenfassung der Emigranten folgen - etwa unter dem Paradigma "Jüdische Soziologie", oder "liberalistische Soziologie"?

Rammstedt hat auf jeden Fall einen heftigen Protest der älteren Soziologengeneration als Zeitzeugen herausgefordert. Unter ihnen war es vor allem René König, der selbst noch nach 1933 in Deutschland studiert und und publiziert hat, bis er 1938 nach Zürich ging - der als einer der führenden deutschen Soziologen nach 1945 zeit seines Lebens gegen alle restaurativen Tendenzen und gegen die Fortsetzung nationalsozialistischer Karrieren gekämpft hat - der die theoretische Denkfigur der Deutschen Soziologie bei Rammstedt lediglich durch einen primitiven Empirismus abgestützt fand (König 1987: 393 ff.): Statt seine These theoretisch zu differenzieren, könne er sie nur abstützen durch "eine ungemein dilettantisch und primitiv aufgestellte Bibliographie, [die] das bisher erreichte Maximum an versuchter Irreführung eines harmlosen Publikums darstellt, das über keinen substantiellen Blick nach rückwärts verfügt [...]" (395). König mahnt dabei nicht nur das Fehlen seiner und vieler anderer Publikationen in der Bibliographie an, sowie den fehlenden Bezug auf seine eigene bereits 1937 geschriebene theoretische Kritik der historisch- existenzialistischen Soziologie (1975), sondern bezichtigt Rammstedt darüber hinaus, er hätte sich auf genau die abwegige Linie weniger Soziologen (vor allem Hans Freyers) um 1933 verleiten lassen, die aus der Fiktion, die gesellschaftliche Wirklichkeit hätte sich mit dem politischen Umbruch 1933 sprunghaft geändert, folgerten, daß die Erkenntnishaltung der Soziologie als Wissenschaft sich ebenfalls grundlegend ändern müsse (394) - hin zur nun alleine hoffähigen Deutschen Soziologie. König verabsolutiert hier allerdings ebenfalls den Umbruch 1933, denn die soziologischen Theorien der sogenannten Deutschen Soziologen Rammstedts wurden lange vor 1933, in den Aufbruchsjahren der Weimarer Republik konzipiert. Auch tendiert König in seiner o.a. theoretischen Kritik stellenweise zu ähnlichen Vereinfachungen, indem er die historisch-existenzialistische Soziologie besonders anfällig für Gewalt (1975: 13) und die Anfälligkeit dieser Denkformen und Denker für den Nationalsozialismus (1975: 267) herausstellt und sich dabei im wesentlichen auf Freyer und Heidegger beruft. Da zu den berühmtesten Vertretern einer historisch-existenzialistischen Soziologie auch Emigranten der "Frankfurter Schule" zu rechnen sind, führt es nicht weiter, theoretische Denkfiguren, wie die historisch-existenzialistische Theorie, eine politikwissenschaftliche Liberalismuskritik, oder auch die Gleichsetzung von Theorie und Praxis, mit Faschismus oder Nationalsozialismus in eine Linie zu bringen. Um derartige Theorien mit der Realpolitik zu verbinden, sind immer institutionelle Schaltstellen nötig, und diese sind im einzelnen nachzuweisen.

Im Falle Hans Freyers wird versucht, diese Schaltstelle zu belegen durch seine Wahl zum Präsidenten der Deutschen Gesellschaft für Soziologie (DGS) im Dezember 1933 (u.a. Klingemann 1981, Käsler 1984). Hans Freyer nahm nach vorheriger Absage die Wahl zum Präsidenten der DGS im Dezember 1933 nur deshalb an, um die Gegengründung eines neuen nationalen Soziologenverbandes durch eine radikale Gruppe NS-orientierter Soziologen, die sich tatsächlich "Deutsche Soziologen" bezeichneten, zu verhindern2. Das ist gelungen, und nach 1934 gab es keinen nennenswerten Auftritt dieser radikalen Deutschen Soziologen mehr, bzw. ist sie offensichtlich nie zu einer nationalen Organisation geworden.

Freyer hätte Ende 1933 tatsächlich alle institutionellen Möglichkeiten in der Hand gehabt, zum "Führer" der Soziologen im neuen nationalsozialistischen Deutschland zu werden: Er war Präsident der traditionellen Fachorganisation DGS, er wäre als Kompromißkandidat auch von der neuen radikalen Gruppe akzeptiert worden, und er war bestens eingeführt sowohl in der internationalen Kant-Gesellschaft als auch in der Deutschen Philosophischen Gesellschaft; er hätte zudem als Herausgeber der neuen soziologischen Zeitschrift Der Volksspiegel (ab 1933) die Schaltstelle für Publikationen einer nationalsozialistischen Soziologie kontrollieren können. Aber er nützt keine dieser Gelegenheiten aus, unterläßt weitere Aktivitäten als Präsident der DGS und gibt die Herausgeberschaft des Volksspiegel 1934 wieder auf. Aus dem Nicht-Ausnützen insitutioneller Vorteile und aus seiner wiederholten Ablehnung einer Parteimitgliedschaft läßt sich schließen, daß sich Freyer von einer nationalsozialistischen Vereinnahmung fernhalten wollte, was er stets sehr höflich und vorsichtig, niemals mit theatralischer Pose, durchzuhalten wußte. Auch spricht Freyers Rückzug gegen Rammstedts These, Freyer hätte, wie die anderen Deutschen Soziologen, die hypertrophe Absicht gehabt, die Soziologie als eigenständige Kraft im Prozeß der Volkwerdung neben der Politik zu institutionalisieren (Rammstedt 1986: 128 f.); dazu wären doch die ihm zur Verfügung stehenden Positionen hervorragend geeigent gewesen. Sein Wirken an der Universität war nach übereinstimmenden Aussagen ehemaliger Schüler gekennzeichnet vom Bemühen, nach außen möglichst kein Aufsehen zu erregen, um seinen Schülern und Kollegen in seinem Istitut einen Schutzraum zur wissenschaftlicher Arbeit zu erhalten. In der Atmosphäre des zunehmenden allgemeinen Mißtrauens konnte das allerdings auch irritieren - man wußte nicht, woran man war3. Die Konzessionen Freyers werden genauestens berichtet ( z.B. Muller 1987), die Gegenbeispiele jedoch übersehen: Freyer hat nach 1933 sowohl die Marx-Studien seines Schülers Heinz Maus (nach 1945 einer der prominenten Vertreter einer marxistischen Soziologie in Marburg) gedeckt und ihn aus dem Gefängnis geholt4, wie auch den Leipziger Philosophen Hugo Fischer bis zu seiner Flucht nach Norwegen geschützt, der (wie H. Maus) mit der nationalbolschewistischen Bewegung verbunden war. Für die Berliner "Mittwochsgesellschaft" war Freyers Deutsches Wissenschaftliches Institut in Budapest bis 1944 ein ausländisches Vortrags- und Kontakt-Refugium, und zahlreiche ungarische Kollegen verdanken Freyer ihre Rettung in letzter Minute vor den sowjetischen Besatzern. Freyer wird von Carl Goerdeler als Mittelsmann seiner Widerstandsgruppe in den Verhören nach dem 20. Juli 1944 genannt, und diese Verhöre sind längst publiziert (Archiv Peters 1970). Nach 1945 hat Freyer in Leipzig den in Bonn abgelehnten marxistischen Historiker Walter Markov habilitiert, der später, mit Jürgen Kuczynski in Berlin als Gegenfigur, zur Historikerprominenz der DDR gehörte.


1933 - Zugriff der Politik - Abwehrmechanismen der Wissenschaft

Aus soziologischer Sicht ist die Wissenschaft als gesellschaftlicher Prozeß zu denken, d.h. es ist herauszustellen, "welche Funktionen und Wirkungen die Wissenschaft im gesellschaftlichen Prozeß hat bzw. unter welchen gesellschaftlichen Bedingungen ihr diese Funktionen zugeschrieben werden können" (Bühl 1974: 19). Das soll auf keinen Fall heißen, daß Wissenschaft nur ein "Abbild der gesellschaftlichen Verhältnisse" wäre (zu diesem ist sie gerade in geschichtlichen Rückblicken oft degradiert worden), sondern es wird das Modell eines relativ selbständigen Teilsystems zugrundegelegt, in dem die gesellschaftliche Definition und Funktion von Wissenschaft und die immanenten logischen Konstrukte und wissenschaftstheoretischen Definitionen relativ unabhängig variieren. Die Wissenschaftssoziologie geht heute von einem sehr komplexen Zusammenwirken auf unterschiedlichen Ebenen des inneren und des äußeren Systems von Wissenschaft aus - ein Modell, das der Wissenschaft als eine der großen Institutionen der modernen Industriegesellschaft seit Mitte des 19. Jahrhunderts am ehesten entspricht. Die modernen Diktaturen im 20. Jahrhundert konnten weder auf die Wissenschaft verzichten, noch diese Institution vollkommen unter ihre Kontrolle bringen; die Förderung der Wissenschaften gehörte zu ihrem politischen Programm (wenn auch nach ihren politischen oder weltanschaulichen Vorstellungen), da der wissenschaftliche Fortschritt politische Macht und internationalen Einfluß verlieh. Ab welchem Punkt das komplexe Zusammenspiel von Wissenschaft und Politik mit seinen Prozessen der Kooperation, Konkurrenz, Selektion von vordringlichen Aufgaben, von Personal, Kontrolle der Veröffentlichungen usw., das in jeder modernen Gesellschaft in unterschiedlichen Varianten stattfindet, pervertiert wird und zu einseitiger Machtausübung führt, muß in jedem Einzelfall untersucht und begründet werden.

Bereits das "Gesetz zur Wiederherstellung des Berufsbeamtentums" 1933, danach u. a. die bürokratische Macht der NS-Dozenten- und Studentenbünde, die vornehmlich jüngere, karrierebesessene, aber wissenschaftlich mittelmäßige Köpfe anzog, waren Perversionen des komplexen Wissenschaftssystems, deren Folgen nicht nur im Verlust durch Emigration oder in der Rekrutierung von nationalsozialistischen Parteigängern bestanden, sondern die sich bis in die wissenschaftlichen Texte auswirkten, auch in solche, die als nicht politisch relevant galten. Entstellungen der Wissenschaft in diesem Sinne sind in den Verklausulierungen der inneren Emigration ebenso zu finden, wie in der zweideutigen Alltagskommunikation von Kollegen, die sich seit langer Zeit zu kennen glaubten. Es war ein schleichender Erosionsprozeß der Wissenschaft, dessen Folgen weit in die Nachkriegszeit wirkten. Trotzdem war auch in dieser "dürftigen Zeit" die Wissenschaft nicht am Ende.

Im Prozeß der zunehmenden Unterhöhlung der wissenschaftlichen Institutionen durch die Politik wird die Erhaltung des noch verbleibenden "Restsystems" um jeden Preis zum Überlebensprinzip. Dabei kommt es zu unvermeidlichen "Abwehrmechanismen" gegen die politischen Übergriffe, die in allen modernen totalitären Regimes in ähnlicher Weise auftreten. Sie haben die Funktion, das Wissenschaftssystem, wenn auch unzulänglich oder entstellt, aufrechtzuerhalten und dem direkten politischen Zugriff insgeheim auszuweichen - die Bildung von kleinen Verschwörergemeinschaften der engsten Mitarbeiter, die bewußten Plagiate oder die Camouflage brisanter Themen in Klassiker-Analysen gehören ebenso zu diesen wissenschaftlichen Abwehrmechanismen, wie ein übertriebenes professionelles Verhalten und Vokabular, mit dem politische Gegner ihre parteiideologischen Kämpfe verbrämten, oder auch die beflissene Einhaltung bürokratischer Regeln, um wenigstens ein Mindestmaß an wissenschaftlicher Arbeit voranzubringen. Diese Abwehrmechanismen verursachen Schäden und sind zu bedauern wie Krankheitssymptome, ihr Auftreten ist jedoch ebenso sicher zu erwarten wie diese, wenn eine derartige politische Situation einmal eingetreten ist.

Bei der institutionellen Gleichschaltung der Universitäten waren den betroffenen Wissenschaftlern kaum Handlungsspielräume gegeben; die Maßnahmen des Gesetzes zur Wiederherstellung des Berufsbeamtentums, die Beschneidung der Rechte der Fakultäten, die Einführung des "Führerprinzips", d.h. die Aufhebung der Wahlen des Rektors bzw. der Dekane usw. waren eindeutige Vorschriften und konnten nur auf informellen Wegen gemildert werden. Das wurde in Leipzig häufig praktiziert, sei es durch nachlässige Bearbeitung des Ariernachweises, durch Hervorhebung der Teilnahme am 1. Weltkrieg, politischer Verdienste, oder des sozialen Engagements eines gefährdeten Kollegen, oder z. B. auch durch informelle Beeinflussung bei der Ernennung der Dekane. Hans Freyer hat in dieser Zeit mit großem Geschick die Rolle des savant prudent eingenommen, die ja taktisches Denken, Schläue und List nicht ausschließt5. Auf der institutionellen Ebene kann man Freyer also kaum zur Gallionsfigur des Nationalsozialismus erklären. Da auch die persönliche Biographie keine Anhaltspunkte ergab, bleibt also noch sein wissenschaftliches Werk zu untersuchen. Es war hauptsächlich seine Pallas Athene. Ethik des politischen Volkes (1935), sowie seine Schriften Revolution von rechts (1931), Der Staat (1925) und seine Aufsätze zum Volksbegriff zwischen 1928 und 1934, die in der Nachkriegsrezeption als Nachweis herangezogen wurden, daß er die nationalsozialistische Ideologie vorbereitet bzw. unterstützt hätte.


Volk als Rasse oder "Volk als Tat"?
Der Volksbegriff als Krisenbewältigung der Moderne.

Es sollte nicht unbeachtet bleiben, daß Freyers Reflexionen über den Volksbegriff auf einem langfristigen wissenschaftlichen Diskurs aufbauen. Die Weiterführung von Hegels Phänomenologie des Geistes und seiner Rechtsphilosophie, die Verarbeitung von Fichtes und Lorenz von Steins Staatslehre, die Einbeziehung der Werke von Dilthey und Simmel, Max Webers politischer Soziologie und nicht zuletzt der damals höchst aktuellen Wissenssoziologie, müssen als Gegenstand einer Theorieanalyse (Üner 1992) hier ausgeklammert bleiben. Jedoch kann eine dokumentarische Skizze der wissenschaftlichen Diskurse um den Volksbegriff seit dem 19. Jahrhundert und deren Synergieeffekte mit sozialen und politischen Umwälzungen zur genaueren Bestimmung dienen, wie die Schnittpunkte von langfristigen wissenschaftlichen Diskursen mit politischen Ereignissen die Deutungen des Volksbegriffes beeinflußt haben.

Nach dem 1. Weltkrieg, als Folge des Zusammenbruchs der großen Reiche - des russischen, des österreichisch-ungarischen sowie des osmanischen - stand in ganz Europa die Diskussion um die Volksgemeinschaft im Mittelpunkt. Einerseits wurde die eigene Geschichte und Kultur, Sprache und Traditionen des jeweiligen Volksgemeinschaft aus der Zeit vor der Einbindung in die Großreiche als die eigentliche historische Identität und gemeinschaftsbindende Kraft wieder in Erinnerung gerufen; andererseits wurden aber durch Friedensverträge neue staatliche Einheiten gebildet, die wiederum unterschiedliche ethnische Minderheiten umfaßten; z.B. wurden ehemals ungarische Gebiete der neuen Tschechoslowakei oder Rumänien eingegliedert, oder deutsche Minderheiten kamen erneut zu Frankreich. Das Problem der Nationwerdung (nation building) beschäftigte das zerstückelte Europa und hat der facettenreichen Diskussion des Volksbegriffes in den zwanziger Jahren, die sich zwischen den Extremen biologisch-rassistischer Positionen einerseits und einer expressionistisch-humanistischen, oder auch sozialistischen Weltgemeinschaft andererseits bewegte, einen äußerst aktuellen politischen Gehalt gegeben. Es ist dabei zu betonen, daß diese polarisierte öffentliche Diskussion im Rahmen neuer, die jeweiligen Monarchien ablösender republikanischer Staatenbildungen stattfand, und somit die Vision einer neuen "res publica" der modernen Massengesellschaft, für die alle bisherigen historischen Beispiele als unzulänglich angesehen wurden, auch hinter diesen Kontroversen nach dem 1. Weltkrieg stand. Diese republikanische Idee wurde im kontinentalen Europa jedoch im Laufe der zwanziger Jahre zunehmend durch moderne Diktaturen6 propagiert, die sich in unterschiedlichen Varianten der Idee eines plebiszitären Führerstaates verpflichtet sahen und insgesamt als Retter der Volksherrschaft, oder der "wahren Demokratie" auftraten. Das Konzept einer biologischen Rasse oder einer ausschließlich durch Geburt bestimmten Volksgemeinschaft blieb dabei ein Außenseiterthema; wenn auch die zeitgenössische expressionistische Literatur euphorisch von "Volk" "Blut" und "Rasse" sprach, oder Hans Freyer in seiner kulturphilosophischen Staatstheorie die Heilighaltung der Rasse (1925: 153) als wichtigste Aufgabe der Macht verkündete, so waren das symbolische Exaltationen für eine durch gemeinsame Geschichte, Sprache und Traditionen übermittelte Kultur.

Man kann diese Diskussion als einen Durchbruch in das öffentliche Bewußtsein und als krisenbedingte Steigerung und Popularisierung ausgedehnter wissenschaftlicher Diskussionen aus dem 19. Jahrhundert über "Volk als Rasse" und dessen Gegenbegriff "Volk als Tat" bezeichnen7. Das Zusammentreffen von wissenschaftlichen Erkenntnissen, die Übertragung eines wissenschaftlichen Modells einer Disziplin in eine andere, und die Popularisierung der wissenschaftlichen Erkenntnisse durch Medien, soziale Bewegungen und Politik können zu unerwarteten Synthesen führen: z. B. wurde das darwinistische Prinzip der Evolution der Natur durch Selektion übertragen auf historische Prozesse als Wettbewerbsprinzip: Fortschritt durch Veredelung und Auslese der Völker; damit erschien eine Reduzierung vom kulturellen Fortschritt der Menschheit auf den der Nation gerechtfertigt. Oder es kam zu einer politische Synthese eines biologischen Rassebegriffes mit der kulturellen Herkunft, die vor allem durch den immensen wissenschaftlichen Ausbau der Philologie im 19. Jahrhundert: Slawistik, Germanistik, Romanistik, etc. ausgelöst wurde. Im Zuge der politischen Nationalbewegungen ging aus dieser wissenschaftlichen Differenzierung ein neuer Urmythos hervor: Dadurch, daß Ergebnisse vergleichender Sprachforschung,nämlich die Verflechtungen verwandter Sprachen, auf ethnische Gebilde übertragen wurden, ergaben sich aus Sprachfamilien Völkerfamilien, deren Stammesursprung nun wissenschaftlich erforscht werden sollte. Diese Suche nach dem "Urvolk" schlug sich politisch in den zahlreichen "Pan-Bewegungen" nieder - Panslawismus, Pangermanismus etc., und die damit verbundene wissenschaftliche Erforschung von Wanderungsbewegungen führte wieder zurück zum Problem der "Rasse". Deshalb konnten bei der Gründung der "Société Ethnologique" in Paris 1839 Programm und Ziele dieser Vereinigung als Elemente der Rassenforschung bezeichnet werden (Brunner u.a.1972 f., Bd. 5: 157-159), während die Ethnologie Ende 1920 als reine Kulturwissenschaft verstanden wird8.

Wenn auch der biologische Rassebegriff in den Sozialwissenschaften der Weimarer Zeit nur noch periphere Bedeutung hatte (die "Geschichte als Rassenkampf" war wissenschaftlich nicht mehr zu vertreten), so bestimmte er als Amalgam von Rasse-Urvolk-Urkultur nach wie vor die öffentliche Diskussion in Bewegungen z.B. des Zionismus, oder des Alldeutschtums, wie auch in der expressionistischen Literatur, die allesamt damit auch eine wissenschaftliche Grundlage für ihre Ziele beanspruchen konnten. Die auf den biologischen Rassebegriff konzentrierte Spezialdisziplin der Eugenik, in der die amerikanischen Humanwissenschaften die Vorreiter waren, wurde von Erneuerungsbewegungen - sowohl rechter wie linker politischer Couleurs - ebenfalls popularisiert und "voluntarisiert": die Planbarkeit des Erbes versprach Befreiung aus dem Zustand des Ausgeliefertseins an die Natur und verhieß bewußte Gestaltung - des germanischen oder auch des sozialistischen freien Menschen. Es ist wissenschaftgeschichtlich zu wenig aufgearbeitet, wie sehr die junge Disziplin der Bevölkerungswissenschaft der zwanziger Jahre in Verbindung mit der Eugenik gerade von linken Bewegungen gefördert und in die politische Arbeit einbezogen wurde. Der wissenschaftliche Referent im sozialdemokratischen sächsischen Kultusministerium, Karl Valentin Müller, in den Fächern Geschichte, Nationalökonomie und Statistik an der Universität Leipzig promoviert, verfaßte 1927 im Auftrag der Gewerkschaftsbewegung die Schrift Arbeiterbewegung und Bevölkerungsfrage, mit dem Untertitel: Eine gemeinverständliche Darstellung der wichtigsten Fragen der quantitativen und qualitativen Bevölkerungspolitik im Rahmen gewerkschaftlicher Theorie und Praxis; die Kapitelüberschriften reichen von der Gesellschaftsbiologie über Arbeiterbewegung und Rassenhygiene bis zu Siedlung und Wanderung als Lohnbestimmungsgrund.

Der mit der Idee der Planbarkeit einer Gesellschaft verbundene Voluntarismus konnte ohne weiteres mit dem Konzept des "Volkes der Tat" verschmelzen, das aus den konstitutionellen Bewegungen Anfang des 19. Jahrhunderts stammt: Das Volk, das aus dem gegenwärtigen Zustand der Unmündigkeit heraustritt und sich eine gemeinschaftlich erarbeitete Constitution gibt, die nun die Kräfte der einzelnen zu einem geschichtlichen Ziel der Volksgemeinschaft vereinigt9. In euphorische Hoffnungen steigerte sich diese Volksdiskussion in der Literatur des politischen Expressionismus der Zeit: Das Individuum ist gefallen. Das Volk steht auf, der Mensch und das Volk, beide wollen eins sein - sie wollen Menschheit sein. Die Vernichtung des Eins, um das All zu sein, ist der Sinn der namenlosen Erschütterung, die Menschen und Völker der Gegenwart umgestaltet (Lothar Schreyer); Masse wird als "wirkendes Volk" (Ludwig Rubiner) oder als "verschüttet Volk" (Ernst Toller) beschworen, aus deren Trümmern sich das Volk als höhere freie Gemeinschaft erheben wird (Üner 1981: 135-141).

Derartige Begriffssynthesen führen dazu, daß es in der wissenschaftlichen Rezeption, den Expertisen und in der Anwendung ihrer Ergebnisse, immer schwieriger wird, die Begriffe und Resultate sauber zu trennen. Auch innerhalb der wissenschaftlichen Diskussion herrschen dann die Analogieschlüsse, die Übertragung der Modelle auf andere Disziplinen vor. Nun sollte das nicht von vorneherein als Defizit bewertet werden. Um ein "Darüber-hinaus" über den bisherigen Wissensstand der eigenen Wissenschaft zu erreichen, die Verhärtungen der eingefahrenen Theorien aufzubrechen, müssen die disziplinären Grenzen überschritten werden, um neue Inspirationen aus Entdeckungen anderer Gebiete zu gewinnen und sich neuen Aufgaben aus dem politisch-sozialen Umfeld zu stellen. Gerade in Zeiten des krisenhaften Wandels wird auch ein Wissenschaftsverständnis vorherrschen, das gekennzeichnet ist durch Gegenerschaft den Traditionen der etablierten Disziplin gegenüber - die "Wissenschaft als Bewegung" (Üner 1992: 16-19), die nicht mehr die "Reform" des Bestehenden, sondern eine "Revolution" im Sinn des "Umsturzes der Werte"10 anstrebt, die eine neue "Weltsicht" und den ethischen Appell in den Vordergrund stellt. Eine ins Detail gehende logisch-analytische Diskussion ist noch gar nicht möglich, weil dem alten Wissenschaftsverständnis noch kein neues entgegengesetzt werden kann - und auch nicht soll, denn man will ja aus der Verhärtung des bisherigen Systems herauskommen. Gerade deshalb wird eine große Ausdehnung der wissenschaftlichen Bestrebungen auf andere Disziplinen und auch auf religiöse, künstlerische und soziale Erneuerungsbewegungen möglich. Die "Wissenschaft als Bewegung" ist keinesfalls als zweitrangig einzustufen, sie bleibt neben der sogenannten "Expertenwissenschaft" eine konstitutive Komponente jeder Wissenschaft; denn hohe Spezialisierung bedeutet immer auch Erstarrung und Senilität, die wieder aufgebrochen werden muß.

In diesen kaum mehr entwirrbaren Verflechtungen von wissenschaftlicher Diskussion und Aufbruchsparolen der sozialen Bewegungen sind die ersten wichtigen Arbeiten Hans Freyers zur Geschichts- und Kulturphilosophie (1921, 1923), zum Staat als Kultursystem (1925) und zum Begriff des "politischen Volkes" entstanden. Freyer ging in seinen frühen Schriften während der Weimarer Republik, anknüpfend an Hegels Volksgeist, vom Volk als kulturelle Konkretion bzw. vom Staat als Einheit der Gesamtkultur aus (1966: 129 ff.) - wie übrigens auch sein Leipziger Kollege Theodor Litt, der ebenfalls Staat und Volk als "Wesensgemeinschaft" idealisiert, in der eine Ineinssetzung von Individuum und Gemeinschaft stattfände (Litt 1919: 171 ff.). Eine unpolitische Flucht in eine höhere Realität ist bei keinem von beiden intendiert, denn sie knüpfen doch sehr dezidiert an eine die deutsche Reichsgründung begleitende politische Diskussion um die Kulturnation an: Mensch und Volk einander zugeordnet, Volk ist durch Führung geschaffen, jedoch wird - nun im Denkstil der Weimarer Reformen - Führung mehr eine Leistung der geführten Schar, als eine Leistung des Führers; je weiter der Schaffensprozeß fortschreitet, desto mächtiger wird das Werk, um so ohnmächtiger sein Täter (Freyer 1925: 108 f.). Die in den zahllosen kulturellen Erneuerungsbewegungen des Expressionismus, der Jugendbewegung, der Arbeiterkultur etc. artikulierten Konflikte zwischen Mensch und Masse, Natur und Kultur, Kultur und Geschichte, Geist und Macht, vereint Freyer als Kulturphilosoph in seinen Werken bis 1925 mit gleichem expressionistischen Pathos (Üner 1981) zu einer eher integrationistischen dialektischen Theorie der Sinnzusammenhänge, der Objektivationen der Kulturwirklichkeit, während er ab 1925, nun als Ordinarius der Soziologie11, die soziale Wirklichkeit als Handlungszusammenhang und Entscheidungsprozeß in den Vordergrund stellt. Die Schriften vor und nach 1925 können durchaus als komplementäre Analysen der gesellschaftlich-kulturellen Welt betrachtet werden. Die Komplementarität bezieht sich dabei nicht auf die Untersuchungsgegenstände - es handelt sich nicht um die Analyse von Kulturphänomenen einerseits und die Untersuchung gesellschaftlich-politischer Erscheinungen andererseits, sondern um zwei komplementäre wissenschaftliche Betrachtungsweisen ein- und desselben Lebenszusammenhangs. Bemerkenswert ist - wirkungsgeschichtlich gesehen - wie zeitgleich der Wechsel Freyers vom Lehrstuhl für Philosophie in Kiel zum Ordinariat für Soziologie in Leipzig (den er ja nicht maßgeblich beeinflussen konnte) und damit der Wechsel seiner wissenschaftlichen Aufgaben mit einer verstärkten Kulturpolitik zusammenfällt, in der man durch Erwachsenenbildung, Volksbibliotheken, Volksmusikbewegung, Arbeiter- und politische Bildung das "Werden" des Volkes voranbringen wollte.


Hans Freyers Begriff des "politischen Volkes".

Zusammenfassend kann man Freyers "Volk" als politischen Begriff - im Kontext der aktuellen politischen Turbulenzen deutlich vom Volksbegriff in seiner Kulturphilosophie bis 1925 unterschieden - als dynamische und handlungsorientierte Kategorie bezeichnen, die der gegenwärtigen politischen Gemeinschaft im revolutionären Wandel entsprechen sollte: Das "politische Volk" ist nach Freyers historischer Einordnung eine Erscheinung der Moderne, erstmals möglich geworden im Zeitalter der Aufklärung und durch die darauf folgenden Säkularisierungsbewegungen in allen Wissensbereichen der sich konsolidierenden Industriegesellschaft im 19. Jahrhundert; der Begriff "politisches Volk" steht für eine neue, nicht mehr auf organisch gewachsenen kulturellen Traditionen oder auf unveränderbaren staatlichen Institutionen begründete politische Gemeinschaft, die erstmalig in der Menschheitsgeschichte dazu fähig ist, sich von pseudo-theologischen, von oben oktroyierten politischen Heilsmythen und von überzeitlichen "ewigen Werten" des Staates zu emanzipieren, und durch gemeinschaftliches politisches Handeln sowie durch eine dieses Handeln ständig begleitende wissenschaftliche Selbstreflexion, die ihr in ihrer jeweiligen historischen Lage gemäße Staatsform hervorzubringen (Freyer 1931b, 1933). Die wissenschaftliche Selbstreflexion dieser modernen politischen Gemeinschaft hat sich nach Freyer in der Soziologie bereits institutionalisiert - eine Disziplin, die ebenfalls erst durch die Epoche der Aufklärung möglich geworden sei als "Wirklichkeitswissenschaft"12.

Das Neuartige an Freyers Begriff des "politischen Volkes" nach 1925 bestand darin, daß er den Akzent auf Tat und Entscheidung, damit verbunden den Machtaspekt der Führung, vor ihre kulturelle Leistung setzte. Dieser Begriff hat nichts mehr mit kleinen Stammesgesellschaften, oder mit kultur- und lebensweltlichen Aspekten zu tun, die für Ethnologen bedeutsam sein könnten. Freyers Volksbegriff wurde nach 1933, trotz seines Aktivismus und seiner Hervorhebung des Führertums, von den nationalsozialistischen Zeitgenossen keineswege als Artikulierung ihrer "Bewegung" begrüßt - im Gegenteil vermißte man ein biologisch-rassistisches Fundament bzw. eine Volkstheorie, die auf dem Prozeß des organischen Wachstums als Entfaltung von vorneherein gegebener Anlagen gegründet sein müsse. In einem vernichtenden internen Gutachten der NS-Kontrolle kreidete man Freyer an, daß sein Postulat, die Nation sei das Volk des 19. Jhdts, eine Historisierung und Soziologisierung des Volksbegriffes bedeute. Man schloß (vollkommen zutreffend) daraus, daß Freyer "Volk" jeweils in unterschiedlichen historischen Erscheinungen verstünde, daß "Volk" also immer neue staatliche Strukturgedanken aus sich hervorbringen könne, und folgerte, daß nach Freyers Lehre heute an Stelle des Nationalsozialismus auch der Marxismus die Lage beherrschen könnte. Diese Historisierung des Volksbegriffes und darüberhinaus Freyers dezidierte Parteinahme für die idealistische Geschichtsphilosophie "kann in diesem Zusammenhang nur so gedeutet werden, daß eine auf die Biologie gegründete nationalsozialistische Geschichtsphilosophie in ihrer Möglichkeit und Notwendigkeit bestritten wird. Die Schrift ist als marxistisch schärfstens abzulehnen". (Archiv IfZ München 1933).

Die Vorstellung des Volkes als organisch gewachsene Kultureinheit, wie etwa Othmar Spann sie zur selben Zeit vertreten hat, konnte nach Freyers Ausführungen höchstens für ständische Gesellschaftsformen vor der Aufklärung und für das idealistische Konzept der Nationalkultur gelten, die eigentlichen Problem der modernen Gesellschaft im Umbruch würden darin übergangen: daß erstens das ganze Gewebe der Realbedingungen und Realfaktoren ausgeklammert bleibe (Freyer 1930: 76); daß zweitens die heute erreichte Individuation der Individuen geleugnet werde, die bei aller "Gliedhaftigkeit eine unverlierbare Existenz" beanspruchen würde (und um der konstruktiven Entwicklung der Gesellschaft auch beanspruchen solle) (Freyer 1930: 72); daß drittens in Spanns universalistischem Modell der gegliederten Ganzheit der Charakter der Offenheit der Geschichte geleugnet werde, da er damit Entwicklung nur als Emanation von bereits Angelegtem verstehen kann: "Jeder Emanatismus entwertet die konkreten Unterschiede und die konkreten Beziehungen innerhalb der Erscheinungswelt zugunsten des gemeinsamen Bezugs aller Erscheinungen auf die absolute Mitte. Jeder Emanatismus entwertet insbesondere die zeitlich-geschichtlichen Veränderungen der Wirklichkeit zugunsten ihrer metaphysischen Rangordnung [...]; die geschichtliche Veränderung wird zur bloßen Oszillation. Die Wirklichkeit ist von Anfang präformiert; [...] was sie außerdem zu sein scheint, ist Verfall oder Trug" (Freyer 1929: 235).

Freyers methodologischer Grundsatz - die Historisierung aller, auch der allgemeinsten soziologischen Strukturbegriffe (1931a: 124-129) - ist verbunden mit einem neuen Geschichtskonzept der Emergenz, das im Gegensatz zu den emanatistischen oder evolutionären Entwicklungsmodellen des 19. jahrhunderts den Aspekt der Variation und Kontingenz in den Vordergrund stellt: In jeder Situation sind mehrere Möglichkeiten der Weiterentwicklung angelegt, und eine davon wird durch Handeln aktualisiert. Handeln bedeutet immer auch Entscheidung, denn es kann niemals alles aktualisiert werden, was in der Latenz angelegt ist. Das bedeutet auch, daß die gegenwärtige Situation niemals vollständig aus der vergangenen erklärt werden kann: es kann Entwicklungsbrüche, Gabelungen und Umwälzungen geben (Üner 1992: 49 ff.). Dieses Geschichtsmodell der Diskontinuität, das die schöpferische Aktualisierung durch die handelnde Gemeinschaft hervorhebt, wurde in der Leipziger Geschichts- und Sozialphilosophie bereits seit Mitte des 19. Jahrhunderts (Fechner, Wundt, Lamprecht) vorbereitet und von Hans Freyer, Schüler von Karl Lamprecht und Wilhelm Wundt, weiter entwickelt. Es ist theoretische Grundlage sowohl von Freyers politischen Schriften um 1933, als auch von Freyers Überwindung einer evolutionären Entwicklungsgeschichte zugunsten einer modernen sozialwissenschaftlichen Strukturgeschichte nach 1945 (Schulze 1989: 283 ff.)

Hans Freyer sieht seine politische Gegenwart nach dem Zusammenbruch des alten Europa im 1. Weltkrieg in einer Umwälzung, die dem Anbruch der Moderne nach der französichen Revolution vergleichbar ist, und in der sich die politische Gemeinschaft völlig neu zu bestimmen hat. Freyer ist also durchaus ein Theoretiker der Revolution, wie Rammstedt hervorhebt. Nur legt Freyer die Epochenschwelle nicht auf den Zeitpunkt 1933, sondern auf den Anbruch der industriellen Gesellschaft im 19. Jahrhundert mit ihren proletarischen Aufständen, der "Revolution von links", historisch gebunden an die Klassengesellschaft des 19. Jahrhunderts; Akteur war damals das Proletariat, das sich aus der materialistischen Entfremdung zu emanzipieren suchte. Nun, in der Gegenwart der Weimarer Republik, kündigt sich für Freyer die Antithese an: eine "Revolution von rechts" (1931b), die keineswegs gegen die Revolution von links gerichtet ist, sondern im Gegenteil diese im Sozialstaat der Bismarckzeit liquidierte, (26 f.), zu einer selbstläufigen Dialektik der Produktionsverhältnisse irrtümlich umgedeutete (10 f.) und zu einem Bekenntnis zur industriellen Welt umformulierte (41) Revolution dialektisch weitertreiben und vollenden soll; gerade die Eingliederung des Proletariats in das System der Industriegesellschaft habe die neue revolutionäre Kraft erzeugt (37). Akteur sei jetzt nicht mehr das Proletariat, das seine materiale Deprivation zu überwinden suchte, sondern das "politische Volk", das jetzt um die vorenthaltene politische Emanzipation kämpft und "die Geschichte des 20. Jahrhunderts freimachen" wird (5).

Nicht dezidiert genannte zeitgeschichtliche "Folie" Freyers war dabei sicher auch die russische Oktoberrevolution 1917, die weltweit mit Faszination betrachtet wurde. Die Sowjetunion verzeichnete in diesen Jahren erstaunliche industrielle Fortschritte, erschien 1931 als einzige politische Macht unbehelligt von der weltweiten Wirtschaftskrise und hat als Modell und Alternative gedient bei den Umstürzen der liberalen Demokratien in fast allen europäischen Staaten (Hobsbawm 1995: 99f.) In dieser Zeit erfolgte auch in der Sowjetunion eine Wendung der politischen Ziele von der sozialistischen Internationale zur Respektierung der nationalen Einheiten. Des weiteren erschien ein Jahr vor Freyers Revolution von rechts die "Theorie der permanenten Revolution" von Leo Trotzki (1930); es ist kaum von der Hand zu weisen, daß Freyer auch dazu eine Entgegnung intendierte. Freyer schließt sich außerdem einer damals weit verbreiteten öffentlichen Kritik an; den Parteien der Weimarer Republik wurde nicht nur von den Konservativen, sondern auch von der politischen Linken vorgeworfen, sie wären mit ihren Programmen im weltanschaulichen Gedankengut des 19. Jahrhunderts steckengeblieben und daher unfähig, die gegenwärtige Gesellschaft im Umbruch zu repräsentieren und deren Ziele politisch umzusetzen.

Freyers "politisches Volk" ist also ein revolutionäres Volk: "Nachdem die Gesellschaft ganz Gesellschaft geworden ist, alle Kräfte als Interessen, alle Interessen als ausgleichbar, alle Klassen als gesellschaftliche notwendig erkannt und anerkannt hat, erscheint in ihr dasjenige, was nicht Gesellschaft, nicht Klasse, nicht Interesse, also nicht ausgleichbar, sondern abgründig revolutionär ist: das Volk" (1931 b: 37). Eine berühmte dialektische Formel von Karl Marx aufnehmend, versteht Freyer das "Volk" als das "gründliche Nichts, von der Welt der gesellschaftlichen Interessen aus gedacht, denn in dieser Welt kommt es nicht vor; und das gründliche Alles, wenn man nach der Zukunft fragt, die dieser Gegenwart innewohnt" (44). Das Recht einer Revolution kann niemals durch eine Analyse der Stärkeverhältnisse bewiesen werden - "man kann ein Nichts nicht messen, und ein Alles auch nicht" - es gilt nur "Prinzip gegen Prinzip zu stellen: das Prinzip Volk gegen das Prinzip industrielle Gesellschaft" (44). Mit derartig polarisierender Dialektik wird immer eine genauere Definition, was nun "Volk" im Gegensatz zu "Gesellschaft" bedeuten soll, umgangen, ja vielmehr würde eine solche Definition für Freyer bereits den gefürchteten Rückfall in längst überholte wissenschaftliche Konzepte bedeuten; eine revolutionäre Entwicklungsdynamik kann nicht mit altbewährten Begriffen erfaßt werden. So muß Freyer das "aktive Nichts" als neues Prinzip der Geschichte vornehmlich mit negativen Bestimmungen einkreisen:

- Das "politische Volk" ist nicht Nation, wie das 19. Jahrhundert Volk verstanden und verwirklicht hatte, als Begriff, der "den Stolz auf das geschichtlich Erreichte, die Gewißheit des geschichtlichen Bestands und irgendeinen Willen zur Weltgeltung im zugemessenen Raum" versinnbildlichte. "Das Bewußtsein eines unendlich reichen geistigen Gemeinbesitzes schwingt mit. Alle Bildung schöpft aus diesem Besitz, und das Bekenntnis zu ihm verpflichtet zum treuen Festhalten an der geprägten geistigen Art, die ihn erwarb. Dieser Begriff des Volkes ist in der neuen Lage der Gegenwart überwunden." (51).

- Das "politische Volk" hat mit "Urvolk" ebenfalls nichts zu tun. Eine tiefer als der Begriff der Nation liegende Schicht: Volk als "Urkräfte der Geschichte [...], Geister, die der Natur ganz nahe waren[...], ein unmittelbares Dasein [...], Volk als Ahnungen und Verkündigungen [...], bleiben für Freyer lediglich als unspezifische Sedimente gültig und sollen als solche in den neuen Begriff des Volkes eingehen. "Nur ist zu sorgen, daß nicht auch diese Schicht als unverlierbarer Besitz und als naturhaft-selbstverständliches Sein erscheine"; denn dann wäre die Wirklichkeit die ungetrübte Darstellung dieser zugrundeliegenden Potenz, und Volk wäre "so etwas wie eine Weihnachtsbescherung" (51 f.), auch hier erlaubt Freyer keinen theoretischen Emanatismus.

Die positive Bestimmung als neues Prinzip der Geschichte ist auffallend vage - Freyer beschränkt sie auf Volk als "Sinn, der in der industriellen Gesellschaft aufgeht", als "lebendiger Kern, um den sich die Mittel des industriellen Systems zu einer neuen Welt zusammenfügen werden, wenn es gelingt sie zu erobern" (1931b:52); da vom neuen Prinzip Volk her eine totale Neuordnung der Welt erfolge, sei es nicht möglich, die Struktur dieses "werdenden Volkes" jetzt schon genau zu bestimmen. Gleichwohl stellt er der Soziologie drei konkrete Aufgaben: Es muß gefragt werden "erstens nach der Struktur des herrschenden Systems, innerhalb dessen sich die Revolution bildet; zweitens nach den Kräften, die sich an dem neuen Gegenpol aufladen, nach ihrer Herkunft und nach der Notwendigkeit, mit der sie ihm zuströmen; und drittens nach der Richtung, die diesen Kräften und ihrer Revolution innewohnt" (53). Die Richtung benennt er: "von rechts", jedoch wiederum nur negativ bestimmend, daß Volk zum einen keine Gesellschaftsklasse wäre, daß also rechts nicht die Fortsetzung der Revolution von links mit anderen Mitteln sein könne; zum anderen könne rechts auch nicht Reaktion heißen. Freyer nimmt den Begriff der Revolution beim Wort, wenn er immer wieder hervorhebt, daß die Revolution quer durch alle bisherigen Interessengegensätze hindurchbräche, weil hier ein umfassendes Freimachen aus dem alten Gesamtsystem und eine totale Umordnung nach einer neuen Generalformel stattfinde (54). Seine positive Definition des Schlagwortes "von rechts" ist ebenso vieldeutig: Emanzipation des Staates. Der Staat, der in der Epoche der industriellen Gesellschaft immer nur Beute, bestenfalls vorsichtiger Schlichter der Wirtschaft war, wird in der Synthese mit dem politischen Volk zum ordnenden Prinzip gegen die Industriegesellschaft. Auch von diesem neuen Staat gibt Freyer keine politische Struktur oder Ordnung an, aber sehr deutlich dessen Bedeutung als realer Faktor im Vollzug der Revolution: Die Revolution von rechts läuft über den Staat, nicht in dem Sinne, daß eine unterdrückte Gesellschaftsklasse sich des Staates taktisch bemächtige, um ihre gesellschaftlichen Interessen durchzusetzen; vielmehr das Volk wird Staat, erwacht zu politischem Bewußtsein, und als "politisches Volk" wird es zum selbständigen Prinzip gegen die wirtschaftlichen Interessen der Industriegesellschaft, ist also die neue, alles umordnende Generalformel (61).

Es ist ein Modell des plebiszitären Führerstaates13, die Freyers Arbeiten zum "politischen Volk" bis 1934 bestimmt. Ganz im Gegensatz dazu steht seine Schrift Pallas Athene: Ethik des politischen Volkes 1935, die bestenfalls eine Ethik des totalen Ausnahmezustandes genannt werden kann; mit dem "politischen Volk" im obigen Sinn hat sie nichts mehr zu tun. Dies erscheint nur noch als "Block des Volkes", an dem der Staatsmann wie ein Bildhauer arbeitet (1935: 98). Die Maximen dieser Ethik sind nicht mehr generalisierbar, vielmehr werden "Ethik" und "bürgerliche Moral" gegeneinander ausgespielt, wird dem "Gewissen aus der Welt des kleinen Mannes" ein Gewissen "mit politischem Format", eben Pallas Athene, die "Göttin der politischen Tugend" gegenübergestellt (30 f.), erinnert der Aufbruch in seiner Doppeldeutigkeit fatal an Vergewaltigung. Das folgende Freyersche Zitat reicht von der magischen Beschwörung bis zum blanken Zynismus und läßt kaum einen Interpretationsspielraum offen. "Immer handelt es sich darum, im Leben [...] ein neues magisches Zentrum aufzurichten, auf das die Menschen nun hinstarren, welcher Segen von ihzm komme oder welches Unheil. Das ist eine Vergewaltigung der menschlichen Natur, und die Menschen entgleiten der Politik immer wieder, weil sie mit ihren eigenen Dingen so viel zu tun haben. Aber die Leistung der politischen Tugend besteht darin, daß diese Vergewaltigung immer aufs neue gelingt, so gründlich gelingt, daß die Erde nicht bloß Wohnhäuser und nützliche Anstalten, sondern Tempel, Burgen und Paläste trägt. Aus dem arbeitssamen und verspielten Menschenwesen [...] eine Heldenschar zu machen für ferne Ziele, ihm, das gegen diesseitige Autoritäten im Grund skeptisch ist [...], den absoluten Glauben an die sichtbare Macht aufzuzwingen, ihm das so gerne lebt, den freiwilligen Tod zu versüßen , ihm eine neue Ehre einzupflanzen, die nur Opfer kostet, kurz diese weiche Materie in ein hartes Metall zu verwandeln, mit dem man stoßen und schlagen kann - das ist die merkwürdige Alchimie, die immer neu erfunden werden muß, wenn politisch etwas geschehen soll" (50 f.). Freyer scheint hier nichts weniger als sein eigenes Werk und seine Gelehrtenkarriere zu verraten, denn Die "Ethik des Willens" ist vor allem auch gegen die theoretische Vernunft gerichtet, die Ausschau nach dem Ganzen hält, und die Begründung sucht, damit aber die Tat begrenzen könnte. (21 f.). Aus der kritischen Sicht der Emigranten wurde diese Kombination von Desperado-Mentalität und hochgepriesener Fahnentreue mit den Verbrechen des Dritten Reiches in Verbindung gebracht - René König und Herbert Marcuse haben die politischen Konsequenzen klar herausgestellt (König 1975: 135 f., Marcuse 1936).

Dennoch ist nicht zu übersehen, daß es auch in dieser Schrift eine zweite Sichtweise gibt, aus der bereits die Enttäuschung über einen "zweitrangigen Principe", über die Geistlosigkeit der an die Macht gelangten nationalsozialistischen Bewegung und das Denken in "Räuberkategorien" zu entnehmen ist. "Es ist armselige Romantik zu glauben, daß in der politischen Welt der Instinkt den rechten Weg fände, und daß der Staatsmann um so genialer sei, je mehr er sich auf sein Gefühl statt auf seinen Verstand verlasse [...]" (112). Und eines erläßt die Göttin der politischen Tugend ihren Lieblingen nicht: "daß ihre Handlungen Adel. Reinheit und die Spannung des guten Gewissens haben [...] Wer beim ersten Schritt, den er aus der Welt der bürgerlichen Arbeit heraustut, dem Kitzel der Zwecke, die die Mittel heiligen, verfällt und sich höchst politisch dünkt, wenn er aus großen Niederträchtigkeiten eine kleine Intrige zusammensetzt, beweist damit nur, daß er lieber in der Welt der bürgerlichen Arbeit hätte bleiben sollen. [...] Ein Principe aus zweiter Hand ist immer nur eine traurige oder je nachdem eine lächerliche Figur" (30 f.) - das konnte kaum ein Aufruf zur Konsolidierung der 1935 gegebenen Verhältnisse sein. Eine Deutung dieser Schrift, die sich nicht zu einem konsistenten Bild zusammenschließt, ist ohne Nachweis der Adressaten, die Freyer ansprechen wollte, nicht möglich. Als Aufruf zur nationalsozialistischen Revolution kam sie 1935 um einige Jahre zu spät. Der von Freyer ursprünglich gewählte Untertitel Ethik der konservativen Revolution, der vom Verleger Niels Diederichs als zu brisant korrigiert wurde (Universitätsarchiv Jena), nennt allerdings die Adressaten. War die Schrift Antwort auf die Mordaktion der Gestapo und SS am 30. Juni 1934 an Ernst Röhm, Schleicher, Gregor Strasser und anderen Feinden, derer sich Hitler damit entledigt hatte - war sie konzipiert, um eine "Zweite Revolution" einzuleiten? Dafür spricht Freyers Stil, der mehr einem Kreuzzugsaufruf als einer ethischen Abhandlung entspricht, aber es gibt bisher keine Nachweise einer Verbindung Freyers zu dieser Gruppe. Freyer hatte nie Sympathien für die Wehrverbände der Parteien während der Weimarer Republik gehegt, und so wird er wohl kaum eine Unterstützung des Machtkampfes der SA bzw. Ernst Röhms gegen die SS intendiert haben. Welche konkrete politische Bewegung er mit der "Pallas Athene" zur Aktion aufrufen wollte, kann zur Zeit noch nicht nachgewiesen werden.

Diese Schrift stellt einen paradigmatischen Fall dar für die anfangs erwähnten "Abwehrmechanismen" des geistigen Schaffens in totalitären politischen Systemen. Als heimliche Botschaft einer Verschwörergemeinschaft konnte sie nur von den Eingeweihten entziffert werden. Sowohl René König (1975) als auch Herbert Marcuse (1936), die Deutschland verließen, haben sie als Fanfare für den Nationalsozialismus gelesen, und auch alle nicht zum engsten Kreis um Freyers zählenden Kollegen konnten sie nur als solche einschätzen. Die Schwierigkeiten der Interpretation liegen offenbar darin, daß hier Innen- und Außenperspektive weit auseinandertreten. Aus der Innenperspektive der Beteiligten verstanden, stellte die reine Willensethik mit ihren Kategorien "Tat" und "Entscheidung", die schon bei Fichte gewissermaßen als Kategorien des Widerstands literaturfähig gemacht worden sind, keineswegs eine Äußerung der politischen Reaktion oder eine Festschreibung der bestehenden Verhältnisse dar, sondern konnten die noch aufrechterhaltene Hoffnung in die Kraft des politischen Volkes oder eines echten politischen Führers beschwören. Das Verhängnisvolle daran ist, daß sowohl NS-Gegner wie NS-Kämpfer in der gleichen Umwelt an die gleichen Adressaten die gleiche Sprache sprechen mußten. Solange ihre Schriften noch in Deutschland publiziert wurden, konnten auch die Gegner ihre Botschaften nur in den gleichen Allegorien verstecken. Aus der Außenperspektive, entweder in der Emigration oder im zeitlichen Abstand, verliert man den Sinn für den zeithistorischen Kontext, sieht man keine Notwendigkeit, in Allegorien zu sprechen - also kann den Botschaften nur ihr aktueller Sinn, von außen gesehen, unterstellt werden; und der ist eben Aktivismus, Gewalt und Diktatur.

Für die Wirkungsgeschichte war Freyers Pallas Athene zweifellos die verhängnisvollste Schrift seines Gesamtwerkes, denn sie bildete die Folie, auf die seither Freyers Gegner sowohl seine frühen, wie auch die späteren Werke projizierten. Es wurde nicht mehr erkannt, daß Freyers Pallas Athene aus der werkimmanenten Entwicklung vollkommen ausbricht, daß er, wie oben dargelegt, zur gleichen Zeit die Reziprozität von Herrschaft und Volk konzipiert hat und die Aufgaben der Wissenschaft, entgegen der Pallas Athene, mit Verve vertreten hat. Deshalb soll nun die Betrachtung wieder zu dieser zurückkehren.



Die Stunde der Soziologie.

In der revolutionären Gegenwart, die diese neue Selbstfindung, Willensbildung und geschichtliche Leistung des Volkes verlangt, schlägt die Stunde einer qualitativ völlig neuen Wissenschaft, die Stunde der Soziologie: Im Freyerschen Konzept ist sie als bewußte wissenschaftliche Lebensgestaltung, Planung und Sozialtechnik der Nachweis dieses historischen Umschlags zu einem neuen Zeitalter der menschlichen Bewußtwerdung. Allerdings hat Freyer diesen Umschlag zur wissenschaftlichen Bewußtwerdung nicht auf den politischen Umbruch 1933 bezogen, wie seine Kritiker ihm vorwerfen (u.a. König 1987), sondern bereits in der Epoche der Aufklärung gesehen: Durch die emanzipatorischen geistigen Strömungen der Aufklärung ist Soziologie als Nachdenken der Gesellschaft über sich selbst erst möglich geworden - sie ist seitdem als "Wirklichkeitswissenschaft" systematisierte gesellschaftliche Selbsterkenntnis. Für seine Gegenwart formulierte Freyer daraus die große Erwartung, daß die Soziologie auch jetzt als Medium der politischen Emanzipation oder "Volkwerdung" fungiert; denn, indem sie mit der kontinuierlichen Selbstanalyse auch die ständige Neuformulierung gesellschaftlicher Ziele leistet und so das Substanzielle eines Zeitalters ausdrückt, treibt sie die Veränderungsprozesse als gesellschaftsimmanente Dialektik weiter und kann also den Hiatus zwischen Theorie und Praxis überbrücken (Freyer 1930: 300-307). Die Kluft zwischen Idealdialektik und Realdialektik ist in Freyers Wirklichkeitswissenschaft aufgehoben (Üner 1992: 196-214).

Freyers logische Grundlegung dieser radikalen Neubestimmung der Soziologie: "Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft" (1930) erschien im gleichen Jahr wie die deutsche Erstveröffentlichung der Frühschriften von Karl Marx und hat nicht nur im mühsamen innerwissenschaftlichen Diskurs um die Gegenstandsbestimmung der Soziologie Aufsehen erregt, sondern auch die unterschiedlichsten weltanschaulichen Kontroversen ausgelöst. An der zeitgenössischen Rezeption Freyers fällt auf, daß nur von zwei Rezensenten, dem Philosophen Josef Pieper (1931) und dem Soziologen Karl Mannheim (1932: 40), eine Beziehung von Freyers Konzeption der Soziologie als gesellschaftliche Selbstreflexion zu den theoretischen Auseinandersetzungen in der damaligen Disziplin hergestellt und dabei auch die theoretischen Kurzschlüsse aufgedeckt wurden. Alle anderen beschränkten sich darauf, sie daran zu messen, ob sie mit den eigenen weltanschaulichen Überzeugungen übereinstimmte oder nicht. Und so reicht die zeitgenössische Kritik an Freyer von "Kryptomarxismus" bis zu "Überfaschismus" (Üner 1992: 61 ff.). Der Heidegger-Schüler Herbert Marcuse begrüßte Freyers Buch als die einzige radikale theoretische Selbstbesinnung überhaupt, die seit Max Weber nicht mehr aufgenommen worden wäre (Marcuse 1931).

Dieses "reflexive Paradigma" der modernen Wissenschaft ist nicht alleine Freyers Domäne; er teilt es mit den zeitgenössischen Richtungen der Phänomenologie, der Lebensphilosophie, der Existenzphilosophie, oder auch mit den technikphilosophischen Visionen der Befreiung des Menschen von der Naturgebundenheit zu einer durch die moderne Technik möglich gewordenen Selbstgestaltung (N. Berdjajew, F. Dessauer). Helmuth Plessner hat die moderne menschliche Bewußtwerdung für die damals mit ähnlichem Anspruch einer neuen Leitwissenschaft auftretende Philosophische Anthropologie prägnant zusammengefaßt in der Formel: "Der Mensch ist sich selber nicht mehr verborgen, er weiß von ihm, daß er mit ihm, welcher weiß, identisch ist." (Plessner 1981: 401). Der Gedanke der wissenschaftlichen Selbsterkenntnis blieb auch keineswegs der philosophischen Reflexion vorbehalten; er lieferte eine äußerst publikumswirksame Begründung für die Institutionalisierung der neuen sozialwissenschaftlichen Disziplinen - von der Soziologie über die politischen Wissenschaften bis zur philosophischen Anthropologie - im Zuge der Universitätsreform der zwanziger Jahre. Die diesbezüglichen Stellungnahmen des Soziologen Karl Mannheim (1932) oder des preußischen Kultusministers Carl Heinrich Becker (1925) stützen sich gleichermaßen auf die durch die Sozialwissenschaften möglich gewordene Selbsterkenntnis der politischen Gemeinschaft, und die Förderung dieser Selbstreflexion wird als wichtigste öffentliche Aufgabe, insbesondere der Volksbildung, deklariert, um eine mündige politische Willensbildung möglichst aller Bürger in Gang zu bringen.

Freyers Wirklichkeitswissenschaft und das Wissenschaftsverständnis seines damaligen Leipziger Schüler- und Kollegenkreises waren von einem lebenspraktischen Pathos getragen und konnten von weltanschaulichen Erneuerungsbewegungen aller Couleurs als Lebensphilosophie übernommen werden, denn sie boten jedem das verheißungsvolle Ziel der "Selbstfindung". Freyer verfaßte populärphilosophische Aufrufe, die den unterschiedlichsten weltanschaulichen Gruppierungen zur Selbstreflexion verhelfen sollten. Er selbst war dabei nie Mitglied einer politischen Partei, nie organisatorisch aktiv in einer der weltanschaulichen Erneuerungsbewegungen, und erfüllte damit beispielhaft die von ihm charakterisierten Rolle des "Führers" als Medium des Volkswillens, der dem "politischen Volk" nur so weit Rat geben darf, als es zu seiner Selbstfindung bedarf.

Dieses aktivistische und existentialistische Konzept hat Freyer selbst nicht lange aufrechterhalten; schon 1933 verschwindet der Begriff "Wirklichkeitswissenschaft" in Freyers Schriften, und es deutet sich eine Überwindung des radikalen Aktivismus an durch den Begriff der Planung, die nur langfristig möglich ist und eine stabile politische Macht voraussetzt, welche jedoch nach wie vor durch den Gemeinschaftswillen getragen sein muß (Freyer 1987). Herrschaft stellt erstens ein reales Machtverhältnis dar, das immer auf der Legitimation durch die Teilnehmer beruhen muß; zweitens kann Herrschaft nicht beschränkt werden auf "Repräsentation" i.Sinne einer "Spiegelung" oder Abbildung einer Gemeinschaft, denn auch in der Willensgemeinschaft sind die Inhalte nicht immanent vorgegeben, sondern sie müssen erst in der Auseinandersetzung und in fortlaufender Integrationsleistung geschaffen werden. Das "politische Volk" ist eine "geschichtliche Ganzheit, deren Integration niemals abggeschlossen ist (1987: 39 f., 70).

Aufschlußreich zur Wirkungsgeschichte Freyers ist eine Arbeit seines zeitweiligen Kollegen und Dozenten am Freyerschen Institut, des Staatsrechtlers Hermann Heller, dessen Staatslehre (1933) ohne Freyers "Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft" nicht entstanden wäre. Auch Heller geht mit dem Prinzip der Aktualisierung den Antagonismus von Staat und Volk an: Eine durch Praxis der Volksgemeinschaft ständig hervorgebrachte Rechtsanschauung soll als "Imperativ einer Gemeinschaftsautorität" die Staatsakte determinieren, um zu einer Integration von Staat und Gesellschaft zu kommen. Auch er will diese Integration mit Hilfe der Soziologie herbeiführen - sie ist, wie bei Freyer, sowohl Wissenschaft als auch Selbstreflexion einer Gemeinschaft und politische Ethik. Hellers Arbeit, die übrigens zur Programmschrift der SPD der Nachkriegs-Bundesrepublik erkoren wurde, macht deutlich, daß das Leipziger Theorem der politischen Praxis oder Aktion des Volkes - im Zusammenwirken mit anderen Einflußfaktoren und ohne existentialistisches Pathos des "Werdens" - wissenschaftlich durchaus ergiebig sein konnte.

Die Wendung zum Politischen - von der Teleologie zur Teleonomie.

Nimmt man Freyer hinsichtlich der konkreten Aufgaben der Soziologie beim Wort, so vermißt man in der radikal polarisierten Revolutionsdialektik sowohl eine genauere Analyse der Strukturen wie der politischen Prozesse. In den Arbeiten zur Soziologiegeschichte (u.a. Rammstedt 1986: 26ff.), wird übereinstimmend festgestellt, daß die Sozialwissenschaftler allesamt Schwierigkeiten hatten, die Ereignisse um 1933 angemessen zu erklären. Die zeitgenössische Soziologie konnte den Umbruch weder als soziale noch als politische Revolution kennzeichnen; eine Deutung im Sinne einer vorübergehenden Abweichung von normaler Entwicklung mußte ebenfalls ausgeschlossen werden; auch eine Begründung aus ökonomischen, sozialen oder politischen Einzelfaktoren konnte diese Krise nicht angemessen erklären. So blieb für die im Geschehen selbst verstrickten Gelehrten im allgemeinen nur eine geschichtsphilosophische Deutung, die nicht nur bei Freyer stark mythologische Züge bekam, die jedoch innerhalb des Freyerschen Systems eine theoretische Begründung erfährt: Aufbauend auf seiner bereits erwähnten Postulierung, daß soziologische Begriffe immer historisch gebunden, also wissenschaftlicher Ausdruck einer konkreten historisch verortbaren Gesellschaft sein müßten, ergibt sich für die Soziologie die Aufgabe der kontinuierlichen Reflexion über den "historischen Ort" der gegenwärtigen Gesellschaft - insofern sind für Freyer Geschichtsphilosophie und Soziologie überhaupt nicht voneinander zu trennen (eines der zahlreichen Postulate, die Freyer mit der Frankfurter Schule verbindet). Nun muß insbesondere in einer Epoche des krisenhaften Wandels die geschichtsphilosophische Reflexion in der Gegenwart abbrechen, um nicht wieder den Fehler der Extrapolierung von Strukturen aus der Vergangenheit in die Zukunft zu begehen - im Umbruch muß die Zukunft offen bleiben, denn hier ist in extremem Maße "der Hiatus zwischen Gegenwart und Zukunft nicht durch dinghafte Entwicklung, sondern durch den Willen überbrückt [...], ist freie menschliche Praxis" (1930: 307).

Der kritische Punkt an Freyers Konzeption des "politischen Volkes" ist nicht, daß Freyer damit eine bestimmte politische oder weltanschauliche Präferenz bewiesen und unterstützt hätte; Zeitgenossen, die ähnliche Positionen zu Volk und Führung vertreten haben, haben sich den unterschiedlichsten politischen Lagern verpflichtet gefühlt. Das Problem bei Freyer liegt in seiner theoretischen Konzeption begründet, es liegt in der radikalen Offenheit seines theoretischen Systems, in dem "Aktualisierung" und "Wille" wohl die Annahme einer unilinearen Entwicklung korrigieren können, dabei aber zum Allheilmittel gegen jede weltanschauliche oder auch wissenschaftliche Vorbestimmung hochstilisiert werden. Für Freyer ist es zwar Aufgabe der Soziologie, den geschichtlich gültigen Willen zur Veränderung zu eruieren; das ist ganz im Sinne einer wissenschaftlichen Ethik gedacht, bleibt jedoch eine nichtssagende Formel, solange die "Veränderung" alles meinen kann: Volks- oder Führerwille, Bestätigung, Überwindung oder Zwang. Das reflexive Paradigma der gesellschaftlichen Selbsterkenntnis und Selbstgestaltung hat sich als theoretische Sackgasse erwiesen, Freyers Logik der "Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft" und auch sein Begriff des "politischen Volkes" enden so im Dezisionismus und vor allem in der Heilsgewißheit des selbstreferentiellen Systems, in der sich ein Urvertrauen auf eine eigenläufige Entwicklungsgesetzlichkeit doch wieder einschleicht: in Freyers selbstreferentiellem System kann das Volk immer nur sich selbst zum Ausdruck bringen.

In Verbindung mit Freyers Wendung zum "Politischen" zwischen 1931-35 und seiner Konzeptionen des Staates und des politischen Volkes steht seine theoretische Neukonzeption des Idealismus. Das hat sowohl die nationalsozialistische ideologische Kritik wie auch "Kritische" Sozialwissenschaftler nach 1945 dazu bewogen, Freyer als einen unzeitgemäßen Romantiker oder den ewig Jugendbewegten einzuordnen und ihn als Protagonisten des deutschen Traumes und Irrweges der Nationwerdung zu lesen. Daß er die kollektiven Hoffnungen dieser Zeit mitgetragen hat, ist unbestritten; deshalb wurde in dieser Darstellung bewußt auf den politischen Kontext dieser Jahre Bezug genommen. Festzustellen wäre dabei aber auch, wogegen seine Schriften gerichtet waren, welche theoretischen Annahmen überwunden werden sollten. Nach 1935 benützt Freyer den Denkweg des "politischen Idealismus" von J. G. Fichte als Kritik am aktuellen politischen Verfall; seine Ablehnung des idealistischen Glaubens an die universelle Immanenz der Inhalte und an die Möglichkeit ihrer deduktiven Entwicklung, des damit verknüpften Vernunftoptimismus und der Logisierung der Wirklichkeit (1987: 50-57; 1986: 129-150), ist nicht zuletzt eine Absage an alle zeitgenössischen chauvinistischen Verstiegenheiten, daß das "deutsche Wesen" nun endlich "zu sich selbst" kommen werde. Freyer wählt diesen Weg aber auch aus rein wissenschaftlichen Gründen, weil die idealistische Philosophie die einzig verfügbare komplexe "Systemtheorie" seiner Zeit darstellte.

Rammstedt widerlegt unbeabsichtigt seine eigene Einordnung Freyers als Deutschen Soziologen (im Sinne der Verabsolutierung einer aktivistischen Denktradition der Soziologie als Selbstgleichschaltung mit dem Nationalsozialismus) in seiner durchaus zutreffenden Charakterisierung des Freyerschen "politischen" oder "werdenden Volkes", die er eng an Freyers Definitionen darlegt, und die einen Übergang Freyers vom deutschen Idealismus zu ersten systemtheoretischen Konzepten deutlich werden läßt, was Rammstedt offensichtlich nicht bewußt geworden ist(Rammstedt 1986: 29 ff.; Freyer 1933).

Freyers "Volk im Werden" wird gekennzeichnet als noch in Bewegung stehendes, als nicht vollendete Tatsache, sondern Forderung; Volkwerdung bedeute also erstens die Herausbildung eines kollektiven Selbstbewußtseins und einen willentlichen Wandel. Freyer hat mit dem willentlichen Wandel nicht nur den Glauben an die selbstläufige Entfaltung eines "deutschen Wesens" zurückgewiesen14, sondern der NS-Ideologie des durch natürliche Gaben auserwählten Herrenvolkes einen "prozessualen" Volksbegriff entgegengestellt. Volkszugehörigkeit ist eine durch freiwillige Verpflichtung erworbene Eigenschaft - in Freyers historisch camouflierter politischer Theorie nach 1939 über Friedrich den Großen15 heißt es: "Preuße kann man nur werden, und so ist Preußentum [...] ein Weg, an dessen Anfang[...] eine Entscheidung steht und in dessen Vollzug [...] der eingeübte Wille, die erfahrene Pflicht stark mitwirkt" - und Freyer bezeichnet die unter Friedrich dem Großen zugewanderten Wahlpreußen, die sich freiwillig dem "Preußentum" verpflichtet haben, als die eigentlichen Kulturträger Preußens (1986 b: 65 f.).

Zweitens bedeutet Volkwerdung politische Gestaltung. In den Artikeln zur "Volkwerdung" bis 1934 wird die politische Gestaltung mit Schlagworten eher beschworen, im Führertum und im "geschichtlichen Werk" des gegenwärtig beginnenden "sozialistischen Gestaltungsprozesses", die der liberalen Demokratie nun abgerungen werden müsse (1934 b: 7f.). Die Norm der politischen Gestaltung als sittlicher Ordnung wird bereits 1935 als Mahnung formuliert: Das "politische Volk" war für Freyer dasjenige Volk, das sich bewußt zu seinem politischen System bekennt und den Staat trägt, dem andererseits auch die Staatsform zu entsprechen hat. Einen echten Staat sollte man von einem unechten dadurch unterscheiden können, daß er nicht durch den Befehl eines Tyrannen, sondern durch die Überzeugung des Volkes zusammengehalten werde, und das Volk werde sich immer gegen einen Staat wenden, der nicht auf Dauer das Vertrauen des Volkes an sich binden könne (1935: 89 ff.). Volkwerdung heißt für Freyer die "Setzung eines bestimmten Herrschaftssysstems [...], die Fähigkeit, herrschaftliche Kräfte in sich überhaupt neu zu erzeugen und sich insbesondere dasjenige Herrschaftssystem zu geben, das den Aufgaben der Stunde gewachsen ist" (1933: 19), also ein "Gefüge von Führung und Gefolgschaft, von Herrschaft und Dienst" (1934a: 4), zu errichten - in heutiger Diktion: eine neue politische Elite in sich zu erzeugen und sich dasjenige Herrschaftssystem zu geben, das die gegenwärtigen politischen Aufgaben bewältigen kann. Das bedeutet gleichzeitig die "Schaffung einer bestimmten Raumgestalt in der Sphäre der Macht" (1933: 19). In der politischen Soziologie der Nachkriegszeit (z.B. Modelski 1978), die sich mit systemtheoretischen Begriffen viel nüchterner präsentiert, findet man diese politische Gestaltung wieder als Aufbau eines politischen Systems, die eine Definition der Systemgrenzen und die hierarchische innere Gliederung des Systems, wie auch seine Einordnung in die internationalen Machtstrukturen notwendig mit einschließt.

Drittens kann die "Volkwerdung" nur gelingen, wenn die innere gesellschaftliche Gestaltung zu einer bestimmten einheitlichen Formel findet, zu einem "staatlichen Prinzip" oder neuen "staatlichen Strukturgedanken" (1933: 21), sozusagen zu einem neuen Code, der sich durch die einzelnen sozialen Ebenen zieht und sie trotz all ihrer Selbständigkeit zusammenhält. Diese strukturelle Code, der in langfristigen Entwicklungsprozessen entsteht, der alle konkreten Strukturen sozusagen auf einer Metaebene begleitet und sich, wie die Grammatik einer Sprache, mit den strukturellen Entwicklungen auch verändert, war das zentrale theoretische Problem der Leipziger Wissenschaftsgemeinschaft um Hans Freyer. Dieses Theorem liegt sowohl der Sprachpsychologie als auch der Bevölkerungswissenschaft Gunther Ipsens zugrunde, wie auch der Religionssoziologie Joachim Wachs, die er nach der Emigration in Chicago ausbaute. Paul Tillich, der Vertreter einer sich sozialistisch verstehenden dialektischen Theologie, hat in Freyers Institut die Begriffe der Theonomie, des Kairos und Telos, für diese Strukturformel und offene Entwicklungsdynamik erarbeitet, die gegen eine religiöse Orthodoxie gerichtet war und Ziel, Wille und Gestaltung einer konkreten Gemeinschaft mit einbeziehen sollte (Schüßler 1997: 48 f.). Die gemeinsamen Anstrengungen dieser interdisziplinären Leipziger Wissenschaftsgemeinschaft, anstelle einer Theorie der vorbestimmten, zielgerichteten Entwicklung zu einem dynamischen Modell eines zugrundeliegenden Codes i.S. einer die Kulturentwicklung begleitenden generativen Grammatik zu gelangen, sind 1933 durch die Zerschlagung dieser Wissenschaftsgemeinschaft zum Stillstand gekommen, auch wenn jeder einzelne weiter daran gearbeitet hat.

Die heutige Aversion gegen zeitbedingte expressionistische Formulierungen und historische Metaphern, sowie die Interpretation dieses Modells ausschließlich auf die bald folgende politische Katastrophe hin, haben die Rezeption blockiert, daß bereits in der Leipziger Soziologie der zwanziger Jahre der Entwurf einer Staatstheorie versucht wurde, die nicht mehr begrenzt blieb auf Souveränität, Vorrecht der physischen Gewaltanwendung und reine Rechts- und Verfassungslehre, sondern die Reziprozität von sachlich-politischen Forderungen und Entscheidung des Volkes herausstellte. Freyers besonderer Beitrag hierzu besteht in der Verdeutlichung der Dimension der Herrschaft und Souveränität, in der Hervorhebung ihres dialektischen Verhältnisses zur Willens- und Entscheidungsgemeinschaft und der gerade auf der Interdependenz dieser beiden Dimensionen beruhenden Legitimität, schließlich in der Charakterisierung dieses dialektischen Verhältnisses als die Dimension des eigentlich "Politischen". Auch wenn dieses Modell noch nicht ausgearbeitet ist und zeitbedingt in historischen Analogien versteckt ist, ist es völlig verfehlt, es als "irrational" oder lediglich als ideologisches Machtstaatsdenken zu verwerfen. Ebenso hat die Leipziger Wissenschaftsgemeinschaft bereits den logischen Schritt getan von der Teleologie als einer durch ein vorgefaßtes Ziel bestimmten Entwicklung hin zur teleonomischen Dynamik - eine Dynamik, die durch eine in der bisherigen Geschichte herauskristallisierte Grundarchitektonik bestimmt ist, jedoch in der zukünftigen Entwicklung die Freiheit einer vielfältigen Ausgestaltung unter neuen Einflüssen zuläßt. Die Ausarbeitung dieses logischen Modells war in der durch Diktaturen und Kriege zerstörten europäischen Wissenschaft nicht mehr möglich; sie erfolgte erst sehr viel später in der Neuen Welt (Mayr 1974), und die Ausarbeitung bleibt angesichts des globalen krisenhaften Wandels eine dringende sozialwissenschaftliche Aufgabe. Wenn diese Ausführungen die Schwierigkeiten und Gefahren einer wissenschaftshistorischen Werkrezeption aufzeigen konnten, wenn sie dazu anregen konnten, auch in den ethnologischen Arbeiten der Zwischenkriegszeit das Bleibende zu entdecken, indem man die wissenschaftlichen Ideen als "generative Grammatik" aus der Konstellation mit persönlichen Karrieren, dem Wechsel des politischen Rahmens und der institutionellen Zwänge herausfiltert, wäre der Sinn der damaligen Bemühungen bestens erfüllt.


 

1 Zum Schüler- und Kollegenkreis Freyers in Leipzig vgl. Üner (1981); zur Weiterführung seines Ansatzes Üner 1992: 93-96, 101 f.,114-117 u.a.

2 Die Verhandlungen Freyers können nur aus den Nachlässen von Ferdinand Tönnies und Werner Sombart rekonstruiert werden, denn die Akten der Deutschen Gesellschaft für Soziologie aus dieser Zeit sind im Krieg verbrannt. Auch Freyers gesamte Unterlagen wurden im Angriff auf Dresden 1945 zerstört. Die genauen Briefstellen würden hier zu weit führen; sie werden in einer umfangreicheren Arbeit dr Autorin über die Wirkungsgeschichte der Soziologie Hans Freyers erscheinen.

3 Über die Verunsicherung bezüglich Freyer Theodor Litts Briefe u.a. an Eduard Spranger (Nachlaß Litt, jetzt in der Theodor Litt-Forschungsstelle der Universität Leipzig), außerdem Gespräche der Autorin mit Fritz Borinski 1982.

4 Gespräch der Autorin mit Prof. Kurt Lenk 1994, der bestätigte, daß er dies von Heinz Maus persönlich erfahren hätte.

5 Der plötzliche Anbruch einer neuen Situation und Das vorsichtige institutionelle "Navigieren" Freyers 1933 ist am ausführlichsten dargestellt bei Diesener 1995. Konzessionen Freyers bei Dissertationen oder Habilitationen sollen nicht ausgeschlossen bleiben - sie gehören zu diesem Navigieren. Von emigrierten Schülern, auch z. B. von Theodor Litt wird nach 1945 bestätigt, daß Freyer "immer anständig geblieben" sei; alleine diese Wortwahl belegt, wie auswegslos und entwürdigend die Situation für alle Beteiligten war.

6 Anfang der dreißiger Jahre war das Modell einer parlamentarischen Demokratie nicht mehr ausschlaggebend in
Europa. Italien, Ungarn, Jugoslawien, Polen, die Sojetunion, die Türkei, Spanien hatten diktatorische Regime (in verschiedenen Varianten). Die einzigen europäischen Staaten, in denen eine konstitutionellen Demokratie in der ganzen Zwischenkriegszeit ohne Unterbrechung funktionierte, waren Großbrittannien, Finnland (mit Einschränkungen), der Freistaat Irland, Schweden und die Schweiz - während um 1918 nach der Katastrophe des Krieges die Institutionen der liberalen Demokratie auf dem Vormarsch waren. Vgl. Hobsbawm 1995: 145.

7 Nur einzelne Stichpunkte werden hier genannt aus den Artikeln "Rasse" und "Volk" in Brunner/Conze/Koselleck 1972 f: Bd. 5 bzw. 7.

8 Vgl. z. B. die Rubriken der Zeitschrift für Völkerpsychologie und Soziologie, herausgegeben von Richard Thurnwald, in denen neben der biologischen Rassenforschung die Ethnologie als Kulturwissenschaft berücksichtigt wird - ein Paradigmenwandel in der Ethnologie.

9 Der Begriff "Volk der Tat" wurde im begriffsgeschichtlichen Artikel "Verfassung" den konstitutionellen Ideen zu Beginn des 19. Jahrhunderts zugeordnet. Vgl. Brunner u.a. 1972 f., Bd 6: 876.

10 Unter diesem Titel hat der Philosoph und Anthropologe Max Scheler seine Aufsätze der auch wissenschaftlich sehr bewegten Jahre 1911-1914 vorgelegt( Scheler 1972).

11 Freyer erhielt den 1925 an der Universität Leipzig begründeten ersten Lehrstuhl in Deutschland für Soziologie ohne Beiordnung eines anderen Faches. Der damalige preußische Kultusminister, Carl Heinrich Becker, der die kulturelle Volkwerdung sich ebenfalls zur Lebensaufgabe machte und folglich nie einer politischen Partei beitrat, der unter vermutlichem persönlichen Einfluß Hans Freyers die Soziologie als Leitwissenschaft der Weimarer Reformen verstand, hat sich maßgeblich für die Berufung Freyers nach Leipzig eingesetzt, ebenso
wie der sozialdemokratische sächsische Hochschulreferent Robert Ulich.

12 Den Begriff und das Wissenschaftsverständnis hat Freyer aus Max Webers Wissenschaftslehre übernommen, aber dann historisch-existenzialistisch zugespitzt; s. hier S. 27 ff.

13 Das Verhältnis zu Trotzkis "permanenter Revolution" ist also schwer zu bestimmen. Einerseits ist der Staat als revolutionärer Akteur das Gegenteil zur Auffassung Trotzkis; andererseits ist im Volk, das sich ständig neu zu "Staat"
formieren soll, Trotzkis permanente revolutionäre Dynamik auch mit enthalten.

14 Die Gleichsetzung Rammstedts von Freyers Diktum, daß "Rasse ihren Ursprung und ihr Recht nur in bezug auf Volkstum" habe, mit dem biologischen Rassebegriff der "Deutschen Soziologen" (30, Fußnote 24), d.h. mit H.F.K. Günther, Reinhard Höhn, Ernst Krieck usw, ist eine Verdrehung des Sinns. Freyer sagt damit genau das Gegenteil: daß Rasse als biologischer Begriff für das Volk, da es Kulturgemeinschaft ist, sinnlos sei, daß man den Begriff "Rasse" nur in bezug auf Volkstum, d.h. auf langfristig vermittelte Geschichte, Sprache, Kultur, verwenden könne. S.a. den o.a. expressionistischen Begriff der "Rasse".

15 Hier kommt auch er zurück auf eine ausgewogenere Balance von strukturellen Gegebenheiten, Entwicklungsprozessen und Aktualisierung durch politisches Handeln, indem er den Staat allein noch durch die Wohlfahrt des Individuums und durch die langfristige positive Entwicklung der Gesellschaft gerechtfertigt sieht. Angesichts einer vollkommen pervertierten politischen Macht hatte der Begriff des "politischen Volkes" als neue generative Generalformel seine Berechtigung gänzlich verloren, während er in der Aufbruchseuphorie der zwanziger Jahre, im Diskurs mit Existenzialismus, Phänomenologie und
Neukantianimus eine wichtige Alternative darstellte, auch wenn
der theoretische Anspruch letztlich nicht zu erfüllen war (Freyer 1986 b).


 

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Amor, milagro, excepcion: la Rosa mistica en Dante y Schmitt

Amor, milagro, excepción: La Rosa mística en Dante y Schmitt

Giovanni B. Krähe - Ex: http://geviert.wordpress.com/

Advenimiento como ordo ordinans: Amor como accidente in sustanzia

rose-hiver.jpgLa Vita nuova (1292-1293) de Dante  es el canto que prepara a la  recta lectura de la Divina commedia. El lector atento sabe que el ejercicio necesario para la compresión del Amor dantesco en términos impersonales y político-religiosos, depende del soneto de la Vita nuova. Se trata, en este breve libro, de la compresión del dogma del Milagro como evento del Automaton (la casualidad), como la realización del evento excepcional  en el accidente. En Dante el Automaton es la inmediatez ineluctable y subitánea del advenimiento en su Ahora perpetuo bajo la forma del saluto. Il saluto (saludo) irrumpe en el tiempo (lo crea más precisamente) para imponer su Salud: Beatrice (1). Se trata, en otras palabras, del advenimiento de un nuevo orden bajo la forma del acontecimiento fortuito: se trata del orden necesario de lo excepcional (genitivo subjetivo). El advenimiento necesario de lo excepcional como (nuevo) orden es  un problema que Carl Schmitt en su politische Theologie resuelve invirtiendo radicalmente el principio de lo accidental en Aristóteles (Schmitt, PT: 21). En efecto, Schmitt y Dante saben que el Automaton era considerado por los antiguos como un principio extrínseco que afecta a los entes. La causa era un principio necesario, por lo tanto, intrínseco. En vez de observar una regularidad procesual aparente en los acontecimientos y luego una irregularidad en tal proceso como eventual excepción, Dante y Schmitt observan más bien la realización en el evento de la analogía entre necesidad y casualidad. Se podría hablar de un isomorfismo, de un único principio en acto que irrumpe en la Physis y que se refleja tanto en la forma de los entes (la belleza por ejemplo), como en todo lo que le toca y le tocará vivir al ente como posibilidad. Frente a tal irrupción indeterminada, el ser humano tiene únicamente dos posibilidades, dos polos donde puede expresar su capacidad de deliberación y vivirla como libertad prescrita: imitar la irrupción paraclética del Automaton en la Physis como rito (mímesis religiosa) o enfrentarse a ella con su Techne. Se reflexione cómo los antiguos y la sociedades tradicionales logran colectivamente un equilibrio entre estos dos polos. En efecto, las virtudes antiguas – con excepción de las teologales, es decir, la caridad, la esperanza, la fe – son principios de equilibrio entre Automaton y Techne, o modernamente expresado, entre contingencia y técnica. Para Dante y Schmitt toda la teleología aristótelica, como la finalidad del ente, se realiza completamente en el momento constitutivo e inicial de su orden como advenimiento: un orden que se reproduce  una y otra vez en su Ahora (Jeweiligkeit) como acontecimiento, determinando una identidad que se realiza intrínsecamente una y otra vez (jeweils) entre la esencia del ente y lo que esta manifiesta  como tiempo y forma. Dicha relación intrínseca es (west) la identidad del ente (2).

En Dante, más evidente que en Schmitt sin duda, toda la finalidad del acontecer del ente se realiza completamente en un advenimiento sutil, al parecer inocuo: il saluto, el saludo de Beatrice. Se podría afirmar que en Dante lo excepcional muestra además un aspecto de carácter salvífico completamente indeterminado, no por esto menos ineluctable: es, en efecto, el encuentro completamente fortuito con Beatrice lo que permite la visión de la Salud (Dante, Vita nuova: 3). Si consideramos, entonces, esta inversión de Aristóteles a partir de ambos autores, debemos concluir rectamente que cualquier acontecimiento exterior, no sólo aquello que no se da como regular-procesual, debe ser considerado como excepcional. No se trata de una inversión meramente lógica. No todo acontecimiento adviene (!) en su finalidad última completamente, como no todo acontecer es salvífico o logramos notar la Salud que nos muestra y ofrece (3). Es precisamente esta (aparente) “latencia” en el telos del ente como tiempo lo que determina toda su posibilidad y toda su necesidad ya escrita. Para poder comprender esto, necesitamos introducir, además del Automaton, un ulterior principio extrínseco al ente, que define precisamente la irrupción de lo excepcional como posible momento salvífico o como completo fracaso: la Tyche (fortuna). Con estos dos principios podemos notar que el tiempo del ente (genitivo subjetivo) es tiempo dramático, es drama permanente. En Dante y Schmitt, la excepción, lo excepcional, se convierten en la regla porque “lo excepcional se explica a sí mismo y explica lo general… lo excepcional piensa lo general con enérgica pasión” (Schmitt citando a Kierkegaard, PT: 21).

Del advenimiento al acontecimiento: el acontecimiento como ordo ordinatur

A diferencia de Dante, Schmitt concentra su interés en la compresión de un aspecto específico del advenimiento, es decir, el acontecimiento en su irrupción dada en el tiempo. Es la comprensión de la mencionada latencia télica como ordo ordinatur, como orden constituido que crea el tiempo de los hombres (el Estado por ejemplo). Se trata de la compresión del orden constituido que (se) realiza kathechontisch (“kathechonticamente”) una y otra vez, (en) su finalidad. Este orden constituido se realiza en el ámbito (Be-Reich) completamente contingente y paraclético de lo excepcional: se trata de la permanencia, conservación y realización del destino del ente en el ámbito (Reich) del mencionado Automaton. Es el mismo ámbito contingente desde donde surge, victorioso o derrotado, el enemigo, “nuestra única forma” dirá Schmitt. Para Schmitt (y los Románticos), aquello que denominamos corrientemente “naturaleza” o ambiente “externo” (Um-welt) es comprendido en los términos de abismo (Ab-grund), o más modernamente como contingencia. El término Um-Welt, (ambiente), es todo aquello indeterminado que rodea (um) el mundo (Welt) (4). La metafísica dantesca nos muestra, en cambio, el otro lado especular del mismo evento: nos enseña el acontecimiento como advenimiento, es decir nos muestra la inversión schmittiana de Aristóteles sin ninguna mediación temporal, ni procesual, ni final en su sentido moderno: nos muestra todo el acahecer de un único evento puntualmente como accidente amoroso in sustanzia (Dante, Vita Nuova, XXV). El soneto dantesco nos permite, entonces, comprender el mismo evento que Schmitt estudia, pero como el advenimiento que crea el tiempo, que crea su tiempo: como ordo ordinans, como orden constituyente. Es pues legítimo indagar próximamente el nexo entre Dante y Schmitt como el nexo analógico entre Amor (evento), milagro (advenimiento) y excepción (acontecimiento). En este Orden, el Amor es la gnosis (política y religiosa) que le es propia a la relación entre milagro y excepción: la Rosa mística.

Notas

(1) En la simbología dantesca il saluto, (el saludo) mantiene la misma raíz etimológica con el saludo beato o bienaventurado, la Salute (Salud).

(2) No es casual que Heidegger use el sustantivo alemán Wesen (esencia) como verbo: es decir, wesen. Tal vez “existente” sea su traducción más apropiada en castellano, es decir, como participio presente, no como su sustantivación: lo existente. Se haga el ejercicio de declinar el verbo heideggeriano wesen rectamente  y se comprenderá inmediatamente a Heidegger, sin necesidad de mucho manierismo hermenéutico postmoderno á la Gianni Vattimo.

(3) Algo que impone necesariamente una gnoseología (barroca) que remplace completamente el mirar por el admirar (El reflejo).

(4) se haga el ejercicio de redefinir completamente ( o interpretar rectamente), bajo esta definición de Umwelt, el término Lebenswelt.

dimanche, 07 mars 2010

Fenomenologia del "politicamente scorretto"

Fenomenologia del “politicamente scorretto”

di Fabrizio Fiorini - Fonte: http://www.ariannaeditrice.it/

E’ un dato di fatto che a forza di ‘prenderle’, bastian contrari si diventa. Difficilmente vi si nasce: sono rari casi che riguardano l’analisi e l’anamnesi delle patologie, più che l’analisi politica. Al di là di ogni sorta di vittimismo, quindi, è ravvisabile in una larga casistica di soggetti l’attrazione estrema nei confronti di teorie, modi di vita, parametri estetici, ideologie o loro surrogati, atteggiamenti, che destano lo scandalo al sentire comune, che sono invisi ai normali atteggiamenti della parte maggioritaria dei propri contemporanei e aborriti da quella normalità e da quella medietà che da qualche tempo è uso definire borghesi. In sintesi: politicamente scorretti. Tale attrazione, sovente accompagnata da una marcata ostentazione, è da analizzarsi – per essere adeguatamente compresa – alla luce di diversi criteri di valutazione.

oneway.jpgA una valutazione soggettiva, questo modo di vita assume largamente connotazioni negative. E’ la rappresentazione di quel cancro dell’anima che prende comunemente il nome di vittimismo, che si manifesta quando una sconfitta genera nella persona che l’ha subita un indole da cronico perdente. Tanti tra coloro che hanno impresso negli occhi l’orrore della modernità e che quotidianamente ne denunciano la corruzione e la decadenza l’hanno provato; hanno sentito sulle proprie spalle quel senso di prevaricazione che li ha spinti a tuffarsi nel vortice perché il vortice è tutto quello che riuscivano a scorgere, tanto il loro capo era piegato. Essi sposano quindi e fanno proprio tutto ciò che rappresenta il male, tutto ciò attraverso cui riescono a salvare quantomeno le apparenze della loro contrarietà, spesso in maniera sconclusionata, spesso auto-mortificandosi. Quante volte li abbiamo sentiti: “abbiamo perso la guerra”; oppure: “verremo repressi”; o ancora: “siamo pochi”. A costoro dedicò il suo pensiero Jean Thiriart:  «Le persone prive di decisione si giustificano frequentemente della loro inerzia ragionando su un ‘risveglio’ sicuro dell’Esercito o su una vigilanza sicura della Chiesa. Essi dicono allora: ‘mai l’esercito permetterà questo’ o ancora ‘la Chiesa millenaria, nella sua saggezza e nella sua potenza, porrà un freno in tempo’. Si tratta ancora di pseudo giustificazioni di vigliaccheria e di pigrizia».

Altro soggettivo nesso eziologico col politicamente scorretto risiede nell’auto-confino nell’hic sunt leones, da qualcuno definito “cattiverio”,  che il sistema ha appositamente creato con funzioni di controllo e a mo’ di valvola di sfogo per i soggetti in questione. Costoro, infatti, per una serie di motivi che spaziano dalla coercizione al condizionamento, si limitano nella cattività cui la loro scorrettezza li ha condotti. Le analisi dei fenomeni giovanilistici pullulano di tali esempi: dagli ultras agli skin, dalle gang metropolitane alle ricadute “delinquenziali” del sottoproletariato. La crema dell’inteligencija internazionale si interpella, istituisce seminari e promuove dibattiti sull’argomento. Già, chissà perché un “disadattato” non si arruola nella protezione civile, o nei boy-scout? E pensate, li pagano pure.

A una valutazione oggettiva, invece, il politicamente scorretto assurge agli onori della più alta dignità. La veridicità di ciò risiede nella validità della prova a contrariis. Entrano in gioco altri fattori ed altri strumenti di lotta politica e contestuale repressione. Il relegare al rango della scorrettezza politica è infatti una delle armi più affilate detenute dall’oligarchia reggente la società contemporanea nelle sue luride giberne. L’epoca storica, d’altronde, è quella che è: non è più tempo di contrapposizione squisitamente politica, non è più tempo di opporre una visione del mondo a un’altra. E’ tempo di coscienze addormentate, e nel torpore delle coscienze non si può che colpire allo stomaco. Nessuno ci darà la soddisfazione di argomentare le proprie tesi opposte alle nostre e nessuno ci farà omaggio della possibilità di un dialogo: non lo faranno perché ne uscirebbero distrutti. Molto meglio per loro metterci alla gogna con al collo il vergognoso cartello che ci indica come folli, estremisti, irrispettosi, scandalosi: i più deboli soccomberanno subito; altri in gran numero, si tureranno occhi, bocca e orecchie, si auto-convinceranno di essere ciò di cui vengono accusati e invocheranno gli eserciti e le chiese di cui sopra; i migliori trarranno da ciò la consapevolezza di essere nella ragione. Il loro politicamente scorretti diventerà (dicevamo: a contrariis) dimostrazione di giustezza e bandiera di verità.

Il confine è quindi labile, difficilmente identificabile, e taglia a metà tanto questioni di rilevanza condominiale quanto altre di rilevanza strategica.

Dalla parte malsana del confine, grandi e piccole cose, e le grandi – a ben guardare – diventano davvero piccole. E’ politicamente scorretta una rissa in uno stadio: ma altro non avrete fatto che assecondare la sedazione cui vuole sottoporvi chi vuole farvi sfogare in una “curva” per fare in modo che una volta fuori vi comportiate da bravi bambini. E’ politicamente scorretto accompagnarsi con una prostituta o drogarsi, ma avrete ceduto a chi vuole farvi passare questo mondo per quello che non è: un paradiso da comprare con quattro soldi. E’ politicamente scorretto apprezzare pubblicamente Berlusconi, perché politicamente corretta è la sua apparente controparte, la falsa sinistra degli sciocchi; ma avrete scambiato un bicchier d’acqua per un oceano, e vi sorbirete questo bicchiere – amaro calice! – trovandovi sul fondo il solito asservimento alle grandi potenze di cui anche questo governo è portabandiera. E’ politicamente scorretto aderire a partiti e ideologie delle “estreme”, ammantandosi dei loro colori e vantandosi del proprio riuscito lifting ideologico, suscitando una smorfia di disappunto in quelli che ben pensano; ma cos’altro avrete fatto se non rinchiudervi in una gabbia le cui sbarre sono l’impotenza, l’auto-compiacimento, l’esclusione, il soffocamento di ogni anelito di reale cambiamento?

Dalla parte sana del confine, dalla nostra parte, grandi e piccole cose, e le piccole – a ben guardare – diventano davvero grandi. E’ politicamente scorretto épater le bourgeois, come ha fatto chi negli scorsi giorni ha ricordato, in un programma televisivo, di come gli italiani in tempo di fame mangiassero anche i gatti, suscitando un sussulto nella massaia che in quel momento sezionava il coniglio o il vitellino da latte per il pranzo e un brivido lungo la schiena del dirigente Rai che, stringendosi nella pelliccia, ne ordinava l’allontanamento seduta stante. Sono politicamente scorretti il nostro sorriso quando tutti si chiudono in ipocrita serietà, e la nostra serietà quando tutti trovano nella farsa e nella tragedia qualcosa di cui ridere. Sono politicamente scorretti (anzi: sacrileghi) lo studio non conforme della nostra storia e la sua incondizionata difesa, i quali rendono giustizia alla civiltà europea che da più parti si vorrebbe infangare o cancellare e che dimostrano come l’affermazione della verità sia più forte delle sbarre di un carcere. E’ politicamente scorretto denunciare gli stati che sottomettono i popoli con la violenza, gli Stati Uniti d’America e Israele, perché dimostra la nostra caparbietà a volerli vedere per quello che sono, roccaforti nel deserto dal cui mastio non gronda che sangue, anche se molti sono convinti che sia nettare.  E’ politicamente scorretto propugnare ancora idee forti quali quelle del socialismo e della nazione, perché si bestemmia il verbo che fonda la società marcia da cui i parassiti e gli usurai traggono vita: quello del denaro.

Non tutto ciò che è politicamente scorretto è quindi eticamente corretto. Il valore è dato dal risultato che si ottiene o che si tenta di ottenere: è una questione di qualità. Politicamente scorretto è oggi il nostro libero pensiero, che sta a testimoniare che non abbiamo paura

Führung als politisches Prinzip: verschmäht, vergessen und trotzdem praktiziert

Führung als politisches Prinzip: verschmäht, vergessen und trotzdem praktiziert

Geschrieben von: Larsen Kempf   

Ex: http://www.blauenarzisse.de/

max_weber.jpgDie „Frage nach der Führung“ ist nach wie vor aktuell. Das zeigt die im Januar erschienene Wochenbeilage „Aus Politik und Zeitgeschichte“ der Zeitung „Das Parlament“. Die Themenstellungen der von der Bundeszentrale für politische Bildung herausgegebenen Zeitschrift sind dabei oft kontroverser als die braven Beiträge der deutschen Intelligenz. Schon im Editorial wird im Tenor des bundesdeutschen Schuldvorwurfs auf die nationalistische Hybris und den Dilettantismus des Kaiserreiches verwiesen und politische Führung derart im politisch korrekten Kontext verortet, dass Beiträge zur Führung „als Demokratiewissenschaft“ (Ludger Helms) oder abgrenzend: „in der Diktatur“ (Jan C. Behrends) nur folgerrichtig scheinen.

Auch die Neue Linke braucht ihre Führer

Dass Führung notwendig zur politischen Praxis gehört, wird auch heute von niemandem ernsthaften Sinnes bestritten. Mit dem Ableben „des Führers“ und seines katastrophalen Erbes allerdings geriet der Begriff derart in Verruf, dass seither selbst das deutsche Militär nur noch sehr vage von „Innerer Führung“ spricht. Ohne die kommt es aber nicht aus. Schnell aber wurde auch die Pflicht, die Kant so hoch schätzte, zum Kadavergehorsam diffamiert.

Hierarchische Über- und Unterordnung betrachtete die Neue Linke nach 1945 häufig gar als Grundübel und als Ausdruck struktureller Gewalt. Jedoch auch sie kam ohne Führung nicht aus. Allein durch wortgewandte Autoritäten wie etwa Rudi Dutschke oder später Joschka Fischer konnte sie ihren Idealen im politischen Diskurs Ausdruck verleihen. Ob heilige Hierarchie der Kirche, wissenschaftliche Hierarchie der Universität, wirtschaftliche Hierarchie des Unternehmens oder legale Hierarchie des politischen Apparats: in allen die Demokratie stützenden Subsystemen bleibt religiöse, wissenschaftliche, unternehmerische oder politische Führung unverzichtbar.

Sehnsucht nach authentischer Führung: eine potentielle Gefahr für die Demokratie?

Alle linke Kritik am Führungsprinzip ist jedoch in dem Punkt berechtigt, wo sie auf eine Sehnsucht nach authentischer Führung hindeutet. Denn tatsächlich kann diese auch in der inszenierten Massenhypnose einer Diktatur ihren Ausdruck finden. Bürger sollten aber Führung vor allem in ihrer politischen Funktionalität verstehen. Denn ohne ein Minimum an Autorität ist auch Demokratie letztendlich undenkbar.

Zum Verständnis hilft Max Webers Herrschaftssoziologie, die Charisma, Tradition oder das rational entstandene Gesetz zur Grundlage legitimer Herrschaft macht. Obwohl die charismatische und traditionale Herrschaft im vorrationalen Raum angesiedelt sind, verlieren sie nicht einfach ihre Legitimität. Es zeigt sich, dass Führung verschiedene Facetten annehmen und nicht allein auf den legal-demokratischen Prozess reduziert werden kann.

Im Beitrag „Max Weber heute“ von Mateusz Stachura findet sich von dieser zurückhaltend normativen Wertung sämtlicher Führungskonzepte bedauerlicherweise kaum ein Wort. Er zeichnet nur die charismatische Führungspersönlichkeit in ihrer Bedrohung nach. In der Tat erwiesen sich herausragende Charismatiker nicht selten als Despoten. Als Beispiele dienen nicht zuletzt neben dem schon benannten deutschen Diktator auch Gaius Julius Caesar oder Revolutionsführer Oliver Cromwell. Bei aller historischer Umstrittenheit führen aber Persönlichkeiten wie der englische Staatsmann Thomas Morus oder die französische Nationalheldin Jeanne d'Arc die schlichte Formel vom „bösen Charisma“ ad absurdum.

Gute Führung braucht Demut

Der Unterschied zwischen Diktatoren und Heiligen besteht in ihrem Selbstverständnis. Beide haben subjektiv als gerecht bewertete Motive zur Grundlage. Hitler glaubte an die moralische Notwendigkeit seiner Vernichtungsmaschine und rechtfertigte sich damit vor dem eigenen Gewissen. Die gerne herbeizitierte Gewissenhaftigkeit scheidet als Differenzmerkmal folglich aus. Das Selbstverständnis der Heiligen prägt jedoch vor allem das Moment der Demut, die eine Verantwortlichkeit gegenüber dem eigenen Gewissen besitzt. Demut befreit von Fanatismus, indem sie die eigene Fehlerhaftigkeit vor Augen führt und persönliche Wertvorstellungen aus innerer Haltung heraus relativiert. Die christliche Empfehlung zur Demut ist demnach auch für den säkularen politischen – und militärischen – Führer sinnvoll. Sie stellt das alte Ideal des Charismas unter den besonderen moralischen Anspruch, sich immer wieder neu zu rechtfertigen und im Zweifel zu korrigieren.

Im modernen demokratischen Rechtsstaat übernimmt, so könnte man meinen, die regelmäßige Wahl die Funktion der Demut. Sie erinnert den Politiker an seine Pflicht zum treuen Dienst, indem sie ihn an den Volkswillen bindet. Diese Interpretation erweist sich allerdings als defizitär. Denn der Volkswille kann nicht nur durch schlechte Führung manipuliert werden, auch der zeitliche Abstand von Wahlen ist gefährlich groß. Die Wahl kann innere Integrität demnach nie ersetzen, sondern bloß ergänzen.

Das Kanzlerwort ist unverzichtbar

Dieses Spektrum normativer Leitlinien demonstriert die Berechtigung charismatischer Führung, auf die eine machtstrategisch verpflichtete Politik nicht verzichten kann. Machterwägungen und die auf Carl Schmitt zurückgehende Unterscheidung von Freund und Feind verweisen auf die Dezision als originäres politisches Handlungsmotiv. Der politische Führer entscheidet im repräsentativen Raum. Dies wird vielfach vergessen und aus dem öffentlichen Bewusstsein verbannt, intuitiv aber bis auf den heutigen Tag praktiziert. Denn ohne das viel beschworene Kanzlerwort funktioniert der politische Alltag nicht. Politische Entscheidungen der Führung schaffen Ordnung, und die schlechteste ist stets noch besser als die Tyrannei des Chaos.

Mai 68: du col Mao au Rotary?

Archives de "Synergies Européennes" - 1986

Mai 68: du col Mao au Rotary?

 

mariannede68.jpgOn n'a pas fini de parler de Mai 68, même s'il ne reste plus grand'chose de l'effervescence des campus de Berkeley, Berlin ou Paris. Le soixante-huitardisme s'est enlisé dans ses contradictions, s'est épuisé en discours stériles, malgré les fantastiques potentialités qu'il recelait. Examinons le phénomène de plus près, de concert avec quelques analystes français: d'une part Luc FERRY et Alain RENAUT, auteurs de La pensée 68, essai sur l'anti-humanisme contemporain (Gallimard, 1986) et, d'autre part, Guy HOCQUENGHEM, qui vient de sortir un petit bijou de satire: sa Lettre ouverte à ceux qui sont passés du col Mao au Rotary  (Albin Michel, 1986). Pour RENAUT et FERRY, la pensée 68 comportait deux orientations possibles: la première était "humaniste"; la seconde était "anti-humaniste". L'humanisme soixante-huitard était anti-techniciste, anti-totalitaire, pour l'autonomie de l'individu, pour l'Eros marcusien contre la civilisation, pour le pansexualisme, pour l'effacement du politique, etc. Pour FERRY et RENAUT, ces valeurs-là sont positives; elles forment le meilleur de l'aventure soixante-huitarde. Pour nous, ce sont au contraire ces idéologèmes-là qui ont conduit aux farces actuelles des "nouveaux philosophes", à leur valorisation infra-philosophique des "droits de l'homme", au retour du fétichisme du "sujet", à la régression du dis-cours philosophique, à l'intérêt porté aux scandaleuses niaiseries d'un Yves MONTAND qui se prend pour un oracle parce qu'il est bon acteur... Ces farces, ces amu-sements stériles, ces assertions pareilles à des slogans publicitaires pour margarine ou yaourts ont permis le retour d'une praxis libérale, le néo-libéralisme, auquel ne croyait plus qu'une poignée d'aimables plaisantins presqu'octogénai-res. Ou encore, Madame Thatcher qui, selon les paroles officieuses de la Reine Elizabeth II, serait bel et bien restée "fille d'épicier" malgré son fard oxfordien. Ipso facto, le petit gauchisme de la pansexualité éroto-marcusienne, le baba-coolisme à la Club Med', le néo-obscurantisme talmudiste de BHL, les éloges tonitruants du cosmopolitisme à la SCARPETTA ou à la KONOPNICKI acquièrent une dimension "géopolitique": ils renforcent la main-mise américaine sur l'Europe occidentale et avalisent, avec une bienveillance très suspecte, les crimes de la machine de guerre sioniste. Décadentistes d'hier et traîneurs de sabre sans cervelle, illuminés moonistes et vieux défenseurs d'un "Occident chrétien", se retrouvent curieusement derrière les mêmes micros, prêchent les mêmes guerres: il n'y a que le vocabulaire de base qui change. L'effondrement du soixante-huitardisme dans ce que RENAUT et FERRY appellent "l'humanisme" s'est également exprimé à l'intérieur des partis de gauche: de l'Eurocommunisme à la trahison atlantiste du PSOE, au révisionnisme du PCI et au mittérandisme atlantiste: le cercle des rénégats est bouclé. HOCQUENGHEM trouve les mots durs qu'il faut: Montand? Un "loufiat râleur géostratège mégalo" (p.73); Simone Veil? Un "tas de suif" (p.73); Serge July? Un "parvenu" (pp. 108 et 109); Jack Lang? Il a la "fu-tilité des girouettes" (p.134); Régis De-bray? Un "ex-tiers-mondiste à revolver à bouchons" (p.129); BHL, alias, sous la plume d'HOCQUENGHEM, Sa Transcendance Béachelle? Un "aimable Torquemada d'une inquisition de théâtre" (p.159) qui ne tient qu'à l'applaudimètre (p.164); Glucksmann? "Tortueux" (p.179), "So-phiste et fier de l'être" (p.185), etc. HOCQUENGHEM fustige avec une délectable méchanceté et une adorable insolence tous les gourous mielleux, à fureurs atlantistes récurrentes, pourfendeurs de "pacifistes allemands gauchistes", que l'ère Mitterand a vomis sur nos écrans et dans les colonnes de nos gazettes. HOCQUENGHEM, comme presque personne en France, défend le pacifisme allemand que BHL et GLUCKSMANN abreuvent de leurs insultes de néo-théocrates et de leurs sarcasmes fielleux, parce que ce paci-fisme exprime la volonté d'un peuple de se maintenir hors de la tutelle yankee, de s'épanouir en dehors de l'hollywoodisme cher à SCARPETTA et à KONOPNICKI, par-ce que ce pacifisme est, malgré ses insuf-fisances, la seule idéologie d'Europe puis-samment hostile au duopole yaltaïque.

 

Voilà où mène l'humanisme post-soixante-huitard: aux reniements successifs, au vedettariat sans scrupules, comme si l'humanisme devait nécessairement me-ner à cette indulgence vis-à-vis des histrions, des pitres et bateleurs de la rive gauche. L'humanisme ainsi (mal) compris ne serait que tolérance à l'égard de ces ouistitis débraillés alors qu'un humanisme sainement compris exigerait la rigueur des autorités morales et poli-tiques (mais où sont-elles?) à l'encontre de ce ramassis d'incorrigibles saltimban-ques.

 

Heureusement pour la postérité, Mai 68 a aussi été autre chose: un anti-humanisme conséquent, une rénovation d'un héritage philosophique, un esprit pionnier dont on n'a pas fini d'exploiter les potentialités. RENAUT et FERRY, qui chantent le retour du "sujet" donc de la farce prétendument humaniste, signalent les œuvres d'ALTHUSSER, de FOUCAULT, de LACAN et de DERRIDA. Ils voient en eux les géniaux mais "dangereux" continuateurs des traditions hegelienne (Althusser) et nietzschéo-heidegerienne (Foucault, Derrida). Pour ces philosophes français dans la tradition allemande, le "sujet" est vidé, dépouillé de son autonomie. Cette auto-nomie est illusion, mystification. L'hom-me est "agi", disent-ils. Par quoi? Par les structures socio-économiques, diront les marxistes. Par des "appartenances" di-verses, dont l'appartenance au peuple historique qui l'a produit, dirions-nous. L'homme est ainsi "agi" par l'histoire de sa communauté et par les institutions que cette histoire a généré spontanément (il y a alors "harmonie") ou imposé par la force (il y alors "disharmonie").

 

Certes le langage de la "pensée 68" a été assez hermétique. C'est ce qui explique son isolement dans quelques cénacles universitaires, sa non-pénétration dans le peuple et aussi son échec politique, échec qui explique le retour d'un huma-nisme à slogans faciles qui détient la for-ce redoutable de se faire comprendre par un assez large public, fatigué des dis-cours compliqués.

 

Si l'avénement du fétiche "sujet" est récent (le XIXème dit FOUCAULT), il est contemporain de l'avènement du libéralisme économique dont les tares et les erreurs n'ont cessé d'être dénoncées. Et si la "pensée 68" s'est heurtée au "sujet", elle a également rejeté, au nom des spé-culations sur l'aliénation, la massification des collectivismes. La juxtaposition de ces deux rejets ne signifie par nécessairement l'existence de deux traditions, l'une "humaniste" et l'autre "anti-huma-niste". Une voie médiane était possible: celle de la valorisation des peuples, valo-risation qui aurait respecté simultané-ment la critique fondée des dangers re-présentés par le "sujet" (l'individu atomisé, isolé, improductif sur le plan historique) et les personnalités populaires. Aux "grands récits" abstraits, comme ce-lui de la raison (dénoncé par Foucault) à prétention universaliste, se seraient sub-stitués une multitude de récits, expri-mant chacun des potentialités particu-lières, des façons d'être originales. Quand les étudiants berlinois ou parisiens pre-naient fait et cause pour le peuple viet-namien, ils étaient très conséquents: cette lutte titanesque qui se jouait au Vietnam était la lutte d'un peuple particulier (cela aurait pu être un autre peuple) contre la puissance qui incarnait précisément l'idolâtrie du sujet, le chris-tianisme stérilisant, la non-productivité philosophique, le vide libéral, la vulgarité de l'ignorance et des loisirs de masse.

 

La "pensée 68" a oscillé entre le libé-ralisme à visage gauchiste (ce que RE-NAUT et FERRY appellent "l'humanisme") et l'innovation révolutionnaire (ce qu'ils appellent "l'anti-humanisme"). Elle a ou-blié un grand penseur de la fin du XVIIIème: HERDER. L'humanisme de ce dernier est un humanisme des peuples, non des individus. Le vocable "huma-nisme" est trop souvent utilisé pour dé-signer l'individualisme non pour désigner les créativités collectives et populaires. Or tous les anthropologues sérieux seront d'accord pour nous dire que l'homme n'est jamais seul, qu'il s'inscrit toujours dans une communauté familiale, villa-geoise, clanique, ethnique, etc. La "pensée 68", notamment celle de FOUCAULT, et la pensée d'un LEVY-STRAUSS nous ont dévoilé une "autre histoire", une histoire qui n'est plus celle du "grand récit de la raison". La raison, en tant qu'instance universelle, est une apostasie du réel. Le réel se déploie au départ d'instances multiples, sans ordre rationnel. FOUCAULT et LEVY-STRAUSS s'inscrivent ipso facto dans le sillage de HERDER qui estimait que l'historicité de l'homme se déployait au départ de sa faculté de par-ler une langue bien précise (Sprachlich-keit), donc au départ d'une spécificité inaliénable. Au "grand récit" abstrait de la raison, se substituait dès lors les merveilleux "petits récits" des peuples poètes. Ce sont ces récits-là que la "pen-sée 68", pour son malheur, n'a pas su re-découvrir; pourtant, avec Mircea ELIADE, Gilbert DURAND, Louis DUMONT, etc. les occasions ne manquaient pas.

 

Le philosophe allemand contemporain Walter FALK (Université de Marburg) a résolu le problème, sans encore avoir ac-quis la réputation qu'il mérite: si le "grand récit" rationaliste n'est plus cré-dible, si le structuralisme d'un LEVY-STRAUSS nous conduit à désespérer de l'histoire, parce que nous serions invo-lontairement "agis" par des "structures fixes et immobiles", le modèle de l'histoire ne sera plus "téléologique" (comme le christiano-rationalisme occidental et son dérivé marxiste) ni "structuralo-fixiste" (comme lorsque LEVY-STRAUSS chantait les vertus des "sociétés froides"). Le modèle de l'histoire sera "potentialiste", au-delà du néo-fixisme du "réarmement théologique" de BHL et au-delà des résidus de téléologie progressiste. Pour FALK, le potentialisme équivaut, en som-me, à deux pensées, que l'on ne met ja-mais en parallèle: celle des fulgurations phylogénétiques de Konrad LORENZ et celle de la pensée anticipative d'Ernst BLOCH. Comme chez FOUCAULT, les struc-tures qui agissent les hommes ne sont plus simplement stables mais aussi va-riables. FALK développe là une vision réellement tragique de l'histoire: l'huma-nité ne marche pas vers un télos para-disiaque ni ne vit au jour le jour, bercée par l'éternel retour du même, agie sans cesse par les mêmes structures échap-pant à son contrôle.

 

L'histoire est le théâtre où font irruption des potentialités diverses que le poète interprète selon ses sensibilités propres. Là réside ses libertés, ses libertés d'a-jouter quelques chose au capital de créa-tivité de son peuple. La "pensée 68" est entrée dans une double impasse: celle d'un "anti-humanisme", très riche en po-tentialités, enlisée dans un vocabulaire inaccessible au public cultivé moyen et celle d'un "humanisme" sans teneur phi-losophique. Le potentialisme de FALK et le retour des récits historiques des peu-ples ainsi que des récits mythologiques constitueront les axes d'une "troisième voie" politique, impliquant la libération de notre continent.

 

Vincent GOETHALS.

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samedi, 06 mars 2010

Althusius' Societal Federalism: A Model for the EU?

Althusius’s Societal Federalism:

A model for the EU?

althusiuelf0002_figure_001.jpgMany supporters of the European integration strongly believe in a kind of federalism that would be closer to European citizens, more transparent, and more representative of Europe’s plurality of communities than is the case under the current form of the European Union. The problem obviously arises in the moment when it is necessary to pin down these abstract proposals to a more concrete federal model that would embody them. This article will try to show that when approaching this task, we can gain much if we explore the very roots of the federalist thought as they are found in the work of an early modern political thinker Johannes Althusius. As we will discover below, Althusius’s federalism presents a ‘bottom-up’, dynamic, participatory, consensual, and solidarist alternative to that static federal model, which is popular in our modern times.

Let us first briefly start with the life of Johannes Althusius (1557-1638) himself. Besides being a jurist and prolific Calvinist political thinker, Althusius was engaged in active politics of the city of Emden. As a syndic of that city, he had become the main instigator of the arrest of the city’s provincial lord, count of Eastern Frisia, by Emden’s city councillors that transpired on 7 December 1618. Althusius vigorously defended the councillors’ decision as a ‘legitimate act of self-defence and resistance’ against the provincial lord’s infringements on the city’s rights, considering it an ultimate resolve ‘warranted under every natural and secular law’.[1] As will become apparent with the discussion of his work, the right of resistance to tyranny of a government that does not respect the rule of law is a key part of his federal thought.[2] His most famous work Politica Methodice Digesta (Politics Methodically Digested, first published in 1603), which will be taken here as the main source of Althusius’s federal thought, in a similar vein justifies the right of the Dutch provinces to secede from the crown lands of the Spanish ruler.

Nevertheless, we would do injustice to Althusius’s work if we thought that his federalist thought consisted only of the effort to defend the rights of cities or provinces against tyrannical rulers. Quite the contrary. Althusius, as a witness to wide scale social changes of the early modern period, primarily strove to strike a balance between individual freedoms and responsibilities coming from shared communal belonging. On the one hand, people at the beginning of the 17th century were no longer as tied to their place of birth as in the medieval times, and especially bourgeoisie was becoming increasingly emancipated from the nobility. On the other hand, newly acquired freedoms did not lead people to perceive themselves as lone individuals and they retained the older idea of considering themselves citizens with mutually binding responsibilities. Althusius’s model of ‘bottom-up’ societal federalism was meant to provide such an answer to a potential clash between demands of private associations and smaller political communities, and more encompassing political bodies such as province or realm. Besides the rights of communities, Althusius therefore to the same extent defends the necessity of inter-communal cooperation and solidarity. We will now move on to discuss Althusius theoretical assumptions on the nature of society, which serve as the pillar of his unique kind of federalism.

The Consociation as the Basic Element of Societal Federalism

Similarly to other political thinkers, Althusius starts Politica Methodice Digesta by explaining his philosophical presuppositions. In the first chapter, Althusius names consociatio as the basic element of society. More precisely, by this term Althusius understands a partially autonomous community that comes into existence through a social compact freely agreed between persons or consociations, thus uniting them into a new social whole.[3] Every human community is such a consociation: they are not just of public nature (as city, province, or realm are), but also private, including families, kinships, guilds, and professional colleges.

This particular theory of social contract is based on Althusius’s observations of the social nature of human beings. Although he does not deny aggressive or selfish impulses present in the human nature, he nevertheless believes, very much in the Aristotelian spirit, that all humans are just as well endowed with ‘the instinct for living together and establishing civil society’.[4] Human beings are ‘symbiotes’—they have natural capacity to form cooperative unions with other human beings. Notwithstanding whether this social compact is concluded tacitly or explicitly, it comes from the general human need to share ‘whatever is useful and necessary’ for their life, that is, goods, services, and rights. Every consociation first comes to existence only because there are persons who are able to see beyond their immediate individual interests and are willing to contribute to the welfare of an integrated and interdependent social whole. The act of founding of a consociation is an act of decision: every consociate expresses that he sees some common, higher values and needs that he might share with other human beings. Thus, the modern liberal idea of considering human beings atomised individuals only capable of maximising their personal interest is rejected by Althusius from the start. Symbiotes – be it persons or consociations – come together to consensually form a consociation ‘for the common advantage of the symbiotes individually and collectively’.[5] Pure self-interest (Rousseau’s l’amour propre) alone would never allow them to form any consociation with mutually shared responsibilities in the first place. Indeed, as it was already noted above, in the Althusius’ time it still remained an unquestioned assumption that citizens should contribute to the common good of the community.[6]

It therefore might not be surprising that sharing of material resources and services is an intrinsic part of the consociation building—because it provides ‘hard’ material basis for the day-to-day functioning of the consociation, that is, for the subsequent communication of other goods, services, and rights within the community. In sharing their resources and services, consociates do not rely on the centralistic administrative apparatus of the state – the activity is entirely in their own hands and it is also up to them to secure the communication of goods, rights, and services politically. Althusius’s thought thus contains a remarkable and untraditional ‘socialist’ element. As Thomas Hueglin notes, ‘such considerations are socialist because the distribution and use of scarce resources is not left to the highest bidder but remains under co-operative control’.[7] Furthermore, it is untraditional, because even though it emphasises collective good, it is not collectivist. It is dependent on the previous consent of symbiotes deciding which services should be delegated to the level of their consociation and which should be retained by lower consociations. In those areas where the consociation members decide that they have common interest, public property, conduct of public works, and voluntary charity are the ultimate acknowledgments of their long-term shared interests.[8]

The Consociational Government

After this brief exposure to Althusius’s general theory of consociations, the reader might rightly ask where does politics and federalism in particular have a place in all this. Althusius’s answer is strikingly simple: politics is the process of consociation building, and federation (or rather, as we will see, federalising) is the result of this perpetual process. We can easily ascertain this assumption from the following quote, where Althusius defines politics as

the art of consociating men for the purpose of establishing, cultivating and conserving social life among them. It is also called “symbiotics.” The subject matter of politics is therefore consociation, wherein the symbiotes pledge themselves, each to the other, by an explicit or tacit pact, to the mutual communication of whatever is useful and necessary for the exercise and harmony of social life.[9]

Almost by definition, the participation in a consociation requires active political engagement of the symbiotes in the continuous process of community building and renegotiation: communication of goods, rights, and services. As it was mentioned already above with regard to the sharing of material resources, it is only the political decision of the symbiotes that decides on the functional scope of the consociation. The consociation is therefore founded by a social compact of symbiotes. Interestingly enough, the social contract is for Althusius present at the basis of both private and public consociations. Although private and public consociations clearly differ in their purpose, as private consociations have particular, limited aims, such as economic gain, or perpetuating kinship relations, they share with public consociations the same consociational element: the communication of goods, rights, and services between their members. In this sense, both are all ‘political’.[10] Althusius was clearly not a modern feminist arguing for the politicisation of private life, nevertheless, he acknowledged that husband and wife form a consociational partnership, where each partner of the ‘contract’ shares his or hers particular resources for the benefit of a higher whole, i.e. the family. Althusius, although not dismissing the distinction between public and private as the distinction between limited and shared aims, rejects the modern limitation of the political to the public sphere. It is this communicative political element that is present in all consociations that allows the city, as the first public consociation Althusius considers in his work, to emerge as a consociation of private consociations in the first place.

When dealing with Althusius’s theory of social contract we have to furthermore distinguish it from the theories of other social contract thinkers such as Thomas Hobbes. As can be clearly seen from the discussion above, parties to the consociational contract of Althusius are not giving up all their political rights and freedoms to an all-powerful legislator (leviathan). The created consociation has clearly defined functions and purposes, which are decided by unanimity by its constituting members. The ‘politics’ of establishing of a consociation, and of renegotiation of its functional scope (i.e., what would be today constitutional amendment) is therefore distinguished from the administration or governance of that consociation. ‘True’ politics is the communication of goods, rights, and services between symbiotes: a permanent process of consociation building and renegotiation of its tasks. Administering the concluded common affairs comes only afterwards, as ‘second-order’ politics that has as its task the enactment and enforcement of communally agreed rights and duties. The government of a consociation has as its purpose the administration of the commonwealth commissioned by the people. In other words, the contract with the government, which by signing promises to uphold the consociations’ laws, is therefore only a part, although a crucial one, of the previously concluded social pact. As Thomas Hueglin remarks,

the sphere of governance and power is defined as part of the process of communication, and not a regulatory superstructure with an entirely different logic of social intervention. Political community, in other words, is a common social enterprise including all essential cultural, economic, and political activities.[11]

Maintaining the order and authority is an essential part of every social compact, but the government cannot wilfully decide on those issues, which were not explicitly delegated to its authority by the consociation as the organised body of the people as a whole. The sovereign is not absolute, he always rules according to law and his only ‘purpose is to co-ordinate and regulate that community’s process of communication. It is not to prescribe its goals and aspirations in any absolute or uncontrolled way.’[12] People never at any point give away their sovereign rights to the government—as the respect for their laws is always the source of the government’s legitimacy—they only delegate to the government the conditional authority required for the management and enforcement of the community’s laws.

Every consociation’s political representation therefore consists of two levels, which would be relatively close to the modern understanding of legislative and executive. The first level consists of elected representatives, who in the council represent the consociation as the organised body of the people as a whole, that is, as a consociation of smaller consociations, who united into that consociation for the common purpose. They enact new laws, to which the sovereign is bound, renegotiate the terms of the original consociational contract, and hold the executive accountable for his actions. In the worst of all cases, they can even depose the ruler from the office. In the majority of their decisions, they exercise their powers as a collegium, that is, collectively through the means of a majority vote. In this role, as Althusius notes, ‘the administrators and rectors of the universal symbiosis and realm represent the body of the universal association, or the whole people by whom they have been constituted.’[13] It is crucial not to misunderstand the point here as these representatives do not represent the ‘demos’ in the common way of understanding it (i.e., as a community of individuals), but only the organised body of the people. Althusius once again goes beyond mere individualism and collectivism when he underlines that the council of representatives neither embodies the general of the people une et indivisible (J.-J. Rousseau), nor a mere association of private wills (liberal democratic thinkers). They embody the common will, but this will is the product of plurality of communities, whose reason for participating in the consociation is the long-term desire to overcome individual differences. The purest manifestation of this consociational desire is the willingness to use a majority vote in those matters, on which individual consociations previously decided as being the common values and interests their consociation will share. Only when decisions would concern these constituent units individually, as in the case of constitutional amendment, the council would be once again required to decide unanimously or perhaps by a qualified majority vote.

The magistrate or a body of administrators elected by the council of representatives forms the second level of the political representation. They preside over the council’s meetings, enact and enforce its laws and have higher authority than any of the councillors taken individually, but are ultimately subject to the council’s will when taken collectively. The magistrates are responsible to the council and in turn, the council representatives are responsible to the constituent communities of the consociation. We will now proceed to further discuss this system of political representation in relation to Althusius’s proposals for the federal constitution of the polity.

Federalism – Federalising Consociations

In the previous two sections of this text, we have been trying to expose the ‘societal’ element of Althusius’s societal federalism. Politics was shown to be a process of consociation building as it establishes and renegotiates the terms of the communication of goods, rights, and services of a consociation. Consequently, governance is the administration and enforcement of the essential laws agreed by the lawful representatives of the consociation, as by the organised body of the people. Our following task will be to elaborate how Althusius’ theory of consociational politics enables him to develop a unique theory of ‘ascending’ (or ‘bottom-up’) federalism.

Firstly, let us highlight that for Althusius, consociations are not generally constituted by individuals—but by other communities. Perhaps only the family, as the basic social unit, might be said of consisting of individuals. Nevertheless, strictly speaking, even here we do not find socially alienated selves, but a husband and wife: persons with distinctive roles, who share their specific qualities for the benefit of their children and the family as a whole. The association of several families then forms more inclusive private consociations, such as kinship groups, colleges, or guilds. A public consociation (universitas) for Althusius for the first time emerges when several private consociations join to form an inclusive political order (politeuma).[14] It is the first organised body of people, assembling itself through the exercise of ‘natural’ symbiotic right (jus symbioticum). This inter-consociational compact gives rise to the legal order of the city (jus civitatis). It is an organised public body created by families, kinship groups, various collegia, and guilds (collegia artificum), that is, private consociations, all living in the same locality. By the virtue of this consociation, the formerly private persons become citizens. For Althusius, this first public consociation has the pre-eminent political nature – it is here where for the first time people gather not merely in order to pursue their private goals – but to pursue common good. By this consociation, Althusius has primarily in mind the city (civitas), but he also acknowledges that villages or countryside have similar status as the city’s rural counterparts. It is also at this point that we can fully appreciate the ‘societal’ element in Althusius federalism. It is by this element that we can distinguish it from modern federal models—since Althusius includes non-territorial private consociations into his federal framework. It is the consociation of these more ‘primordial’ social units that creates the city as the first public consociation.

If we tie this up to our discussion of the political representation, we find that in the city it is the prefect or consul (or a collective body of administrators) that serves as the city’s government. Likewise, the senate exercises the role of the council of representatives of the organised body of the people of the city, making the prefect subject to its laws. Thus, Hueglin remarks that ‘things done by the senatorial collegium are considered as done by the whole city that the collegium represents.’[15] On day-to-day laws, the senate decides by a majority vote, but a more far-reaching consensus, or even unanimity, is required in those matters that touch the constituent consociations of the city individually, not collectively.

The similar structure of the political representation is mirrored by higher levels of the federal polity. In this vein, Althusius discusses the province and the commonwealth. Let us just briefly remark that at the provincial level the provincial lord has the same role as the prefect in the city and the estates or orders (ecclesiastical, and secular, which themselves consist of nobility, burgers, and agrarians) fulfil the same duties as the senate. Again, it is the orders taken together that represent the organised body of the people of the province and the provincial head, although their superior in terms of political authority, is bound to the laws in his decision-making. The duties to be performed at the provincial level are to be first decided by the mutual consent of all the symbiotes, as they are represented in the provincial council gathering the provincial orders.[16] Exactly the same principles apply to the commonwealth, which unites several provinces, represented by the universal council of the realm and the commonwealth’s supreme magistrate.

We can see that at every level of the organised body of the people there is the same pattern of dual political representation. The councillors not only represent the common will of the consociation as such through the exercise of a majority vote, but they are also magistrates of lower communities that constitute the consociation. Their role is to be delegates of these lower consociations and as these delegates, they are bound to respect the common will of their own consociation and represent it in the higher council accordingly. Althusius’ federal polity is therefore

a kind of co-sovereignty shared among partially autonomous collectivities consenting to its exercise on their behalf and within the general confines of this consent requirement.[17]

Thus even the representatives remain ultimately ‘constrained by their oath of loyalty’ to the organised body of the community. Althusius explains this at some length in the Chapter XVIII of his book, it is worth to quote him at some length:

The people first associated themselves in a certain body with definite laws (leges), and established for itself the necessary and useful rights (jura) of this association. Then, because the people itself cannot manage the administration of these rights, it entrusted their administration to ministers and rectors elected by it. In so doing, the people transferred to them the authority and power necessary for the performance of this assignment, equipped them with the sword for this purpose, and put itself under their care and rule.

It is therefore difficult to speak of the division of powers between legislative and executive when dealing with Althusius’ societal federalism: a magistrate at every level of this federal polity might be at the same time a mandated legislator at the council one level higher. The universal council of the realm gathers provincial magistrates, who are in turn politically responsible to their provincial councillors. Nevertheless, taken collectively as the universal council, they form a ‘legislative’ body that promotes the interests of the organised body of the people as a whole and the supreme magistrate is for his actions accountable to this council.

A Model for the European Union?

Althusius’s societal federalism could be discussed at much greater depth, but due to the constraints of available space, we have to move on to briefly consider the applicability of Althusius’s proposals to the EU. On the first sight, the EU to a certain extent already functions according to Althusius’s federal model. Both the EU Council and the Council of Ministers largely function on the principle of inter-governmental bargaining, with the requirement of unanimity on ‘constitutional’ principles and majority or qualified majority voting for the issues of collective interest. A crucial difference lies however in the fact that national governmental representatives can be only weakly controlled by their national parliaments. Furthermore, national parliaments themselves have not been federalised from below by towns, cities, and regions. The line of political accountability is therefore broken and citizens have limited means of holding their representatives accountable except for limited amount of periodical elections. The keen reader might observe that for Althusius there would be no role for the European Parliament: there would be no ‘demos’ at the European level to be represented, if speak of it in terms of individuals, but only a common will to consociation of European nations or regions. We might return to this very interesting topic in one of the future articles.

Summary

Althusius’s societal federalism gives us a picture of a dynamic federal polity that integrates society from bottom-up. It starts at the level of families and private non-territorial consociations, which constitute its societal or horizontal element, than continues through the city as its first locus of public power, and ends at the level of universal commonwealth. The consociations in this federation dynamically reorganise themselves, renegotiating their values and interests. Each level of the federal polity is constituted by a council of representatives constituted by the delegated magistrates of the next lower level together with an magistrate or magistrates, who in turn represent the interests of this consociation at the next higher level of the polity.[18] In the final analysis, the whole political order is legitimate, when it functions as a representative consociation of consociations. If this model would be applied to the European Union, it might be able to deliver more pluralised governance, normative commitment to social solidarity, which would be however first subject to the consent of consociated members, and finally, popular control over the decision-making that would spring from the lowest levels of society to the highest level of Europe.

- Stanislav Maselnik


Endnotes:

[1] Quoted in Thomas O. Hueglin, Early Modern Concepts for a Late Modern World: Althusius on Community and Federalism (Waterloo, Ontario: Wilfrid Laurier University Press, 1999), 15. The original source is Heinz Antholz, Die politische Wirksamkeit des Johannes Althusius in Emden (Cologne: Leer, 1954).

[2] The right of resistance against unlawful decisions of government is also something that makes his work close to other early federalist thinkers, notably John C. Calhoun (1782–1850). Calhoun, in the so-called Nullification Crisis, got himself into a very similar situation as Althusius in Emden – he supported American states’ rights against their infringement by the US federal government. See J. K. Ford, Jr., ‘Inventing the Concurrent Majority: Madison, Calhoun, and the Problem of Majoritarianism in American Political Thought’, The Journal of Southern History, 60 (1994), pp. 19-58.

[3] Hueglin, Early Modern Concepts for a Late Modern World: Althusius on Community and Federalism, 86.

[4] Quoted in Ibid., 87.

[5] Quoted in Ibid.

[6] Indeed, even Adam Smith in his On the Wealth of Nations and Bernard Mandeville in The Fable of the Bees in the 18th century still justified their early free market economic theories by claiming that maximal economical freedom will ultimately be for the benefit of the community as a whole. See for example Emma Rothschild, ‘Adam Smith and the Invisible Hand’, The American Economic Review, 84 (1994), pp. 319-322.

[7] Hueglin, Early Modern Concepts for a Late Modern World: Althusius on Community and Federalism, 94.

[8] Althusius for instance mentions that the city should have the oversight over the following range of public services: all public political buildings, security, temples, theatres, courtyards, roads, ports, bridges, granaries, water mills, public water systems, and ‘other public works’. See Johannes Althusius, The Politics of Johannes Althusius (Boston: Beacon Press, 1964), chap. V-VI, http://www.constitution.org/alth/alth.htm.

[9] Ibid., chap. 1.

[10] Hueglin, Early Modern Concepts for a Late Modern World: Althusius on Community and Federalism.

[11] Ibid., 95.

[12] Ibid., 98.

[13] Althusius, The Politics of Johannes Althusius, chap. XVIII.

[14] Ibid., chap. V-VI.

[15] Ibid.

[16] Althusius suggests seven general areas of these duties, which may indeed be delegated to the level of commonwealth, if necessary: ‘(1) the executive functions and occupations necessary and useful to the provincial association; (2) the distribution of punishments and rewards by which discipline is preserved in the province; (3) the provision for provincial security; (4) the mutual defence of the provincials against force and violence, the avoidance of inconveniences, and the provision for support, help, and counsel; (5) the collection and distribution of monies for public needs and uses of the province; (6) the support of commercial activity; (7) the use of the same language and money; and (8) the care of public goods of the province’, Ibid., VII-VIII.

[17] Hueglin, Early Modern Concepts for a Late Modern World: Althusius on Community and Federalism, 4.

[18] Ibid., 142.

vendredi, 05 mars 2010

Jean-Jacques Rousseau: souveraineté populaire et nationalisme

Rousseau.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

 

Jean-Jacques Rousseau: souveraineté populaire et nationalisme

 

Aux origines du fascisme? Réflexions sur les thèses de Noel O'Sullivan

 

par Thierry MUDRY

 

Le nationalisme français des origines dans lequel, si l'on en croit le professeur Sternhell, le fascisme plonge ses racines n'a pas été tendre avec Rousseau pas plus qu'avec Kant: Maurras et La Revue d'Action Française ont repris contre Rous-seau les sarcasmes de Voltaire et les Cahiers du Cercle Proudhon , expérience "fasciste" avant l'heure (1), à laquelle participèrent des hommes venus du syndicalisme révolutionnaire (dont Edouard Berth) et du nationalisme intégral, n'ont pas épargné non plus le malheureux Rousseau, père présumé de la "démocratie", en reprenant contre lui les attaques de Proudhon (2). Les fascistes, et parmi eux tout particulièrement l'Espagnol José-Antonio, reprirent à leur compte la polémique anti-rousseauiste des maurrassiens. Barrès, de son côté, s'en prenait au "kantisme de nos universités", au "kantisme" d'un Bourdeiller qui transformait les jeunes Lorrains en déracinés en leur enseignant des vérités et une morale universelles (3).

 

Apparemment donc, rien n'est plus éloigné de l'univers intellectuel du fascisme que la pensée d'un Rousseau ou celle d'un Kant. Pourtant, pour Noel O'Sullivan (Fascism, J.M. Dent & Sons, London and Melbourne, 1983), Rousseau et Kant sont d'une certaine façon à l'origine du phénomène fasciste! Noel O'Sullivan définit en effet le fascisme comme l'avant-dernière manifestation, avec le communisme, d'une tradition politique "activiste" européenne dont Rousseau (et éventuellement Kant) serait le père (4).

 

Noel O'Sullivan oppose le style politique activiste à un style politique limité, étroitement lié au développement du concept d'Etat depuis la fin de l'ère médiévale (le style politique activiste étant lié, lui, à la notion de "mouvement"). Parmi les caractéristiques de ce style limité, l'auteur cite:

- la loi conçue comme seul lien social (dans la tradition activiste, c'est un tout commun exprimé dans une idéologie qui tient lieu de lien social);

- la distinction entre la vie publique et la vie privée, entre l'Etat et la Société (dans la conception activiste, la politique devient une activité totale. Il n'y a pas d'existence apolitique de la société ou de l'individu qui, de sujet, se transforme en citoyen ou militant);

- le pouvoir y est toujours objet de suspicion (dans la conception activiste, le pouvoir n'est plus pensé comme intrinsèquement suspect -pervers- et les garanties constitutionnelles contre son abus sont ignorées);

- l'Etat est pensé comme une unité territoriale particulière, produit de l'histoire (le style activiste s'oppose à l'ordre international établi pour des raisons d'ordre idéologique; le plus souvent, il allie le messianisme révolutionnaire à une volonté d'expansion nationale).

 

Noel O'Sullivan situe les origines du style politique activiste dans la dernière partie du XVIIIème siècle. Alors apparurent:

 

- une nouvelle théorie sur l'origine et la nature du Mal et une nouvelle conception de la politique; celle-ci est désormais conçue comme une croisade activiste contre le Mal et n'a plus pour objet essentiel d'assurer la paix et la prospérité. Depuis Rousseau, on ne considère plus le Mal comme une part intrinsèque de la condition humaine -l'homme est né innocent et libre- mais comme une conséquence de l'ordre (social) établi. Ainsi se dessine une rupture avec le pessimisme anthropologique chrétien qui est à la base de la tradition politique médiévale, voire absolutiste, puis contre-révolutionnaire (Bonald, de Maistre, Donoso Cortes).

 

- la doctrine de la souveraineté populaire: la légitimité, désormais, réside dans le peuple, vient "d'en bas" (mais s'exprime le plus souvent d'une manière extra-constitutionnelle et extra-parlemen-taire). La conception du "peuple" peut varier: il peut s'agir du Tiers-Etat (c'est-à-dire de la classe moyen-ne) opprimé par les aristocrates et les prêtres, ou du prolétariat  exploité par la bourgeoisie capitaliste, ou encore de la Nation dominée par l'étranger ou menacée par l'ennemi extérieur et l'"ennemi intérieur" (Juifs, Francs-Maçons, etc.).

 

- une nouvelle conception de la liberté: la li-berté pour les partisans du style politique limité (Locke) concernait la relation purement extérieure entre les différents sujets et entre les sujets et leur gouvernement; la liberté signifiait alors la sécurité pour les personnes et leurs propriétés. Avec Kant et Rousseau, une nouvelle conception de la liberté ap-paraît à la fin du XVIIIème siècle: la liberté comme réalisation de soi (dans la soumission à l'impératif catégorique ou à la volonté générale. La "vraie li-berté" dans la soumission inconditionnelle à la vo-lonté générale chez Rousseau évoque la "vraie li-berté" chez Hobbes,  conçue dans la soumission in-conditionnelle au souverain -monarque ou as-semblée- nécessaire si l'on veut éviter le retour à l'état de nature où les personnes et les biens seraient la proie des "loups") mais aussi la liberté comme sa-crifice de soi.

 

Cette conception intérieure de la liberté devient affirmation et lutte contre le monde extérieur. Ainsi, pour Robespierre, la liberté dont la fin est la "vertu", réalisation de soi, requiert la terreur contre les ennemis de la liberté (Rousseau n'écrivait-il pas déjà que celui qui ne voulait pas être libre, c'est-à-dire se soumettre à la volonté générale, il fallait le forcer à la liberté?). Le terrorisme et la guerre accompagnent nécessairement, si l'on en croit Noel O'Sullivan, une telle conception de la liberté.

 

Dans le style politique activiste fondé sur le sacrifice de soi, la politique devient prioritairement une "affaire" de jeunes (O'Sullivan de citer "Jeune Italie" de Mazzini -il aurait pu citer aussi les "Burschenturner" allemands).

 

Autre caractéristique du "style activiste": le volontarisme ou la croyance en la capacité illimitée qu'a la volonté humaine, particulièrement celle d'un homme ou de certains hommes (une élite), de trans-former l'ordre social et l'homme du commun lui-même.

 

Au terme de cette démonstration, dont on vou-dra bien excuser le caractère énumératif, il apparaît que le fascisme fut "the most extreme, ruthless and comprehensive expression of the new activist style of politics, which the western world has yet expe-rienced" (pages 41 et 84). Autrement dit, le fascisme poussa la logique de l'activisme à son terme.

 

Noel O'Sullivan qualifie le fascisme de "poli-tique théâtrale" et attribue la paternité de cette poli-tique à Rousseau.

 

En effet, dans Le contrat social,  Rousseau rejette le style politique limité (qui, à son époque, caractérise aussi bien le despotisme éclairé que l'absolutisme!) parce qu'il ne connait pas l'enga-gement des masses (fût-ce de masses numériquement limitées comme le préconisaient les bourgeois li-béraux des débuts du XIXème siècle, limitées par la propriété et les "capacités") et parce que son objectif est d'assurer la paix et la prospérité (ainsi le des-potisme éclairé qui repose sur l'intervention éco-nomique de l'Etat). Ces Etats, constate Rousseau, courent à leur perte en ne créant pas ce sens de la solidarité ou de l'unité spirituelle, qui est la ca-ractéristique d'un peuple grand et libre, et cor-rompent leurs sujets en ne leur inspirant pas le désir de se sacrifier dans des actes héroïques sans lesquels la vie est dénuée de toute dignité. Rousseau, dans ses Considérations  sur  le  Gouvernement  de  Pologne  cherche à compléter Le  contrat  social  par une théorie de l'activisme politique destinée à trans-former les membres d'un Etat de sujets passifs en citoyens actifs et vertueux, amoureux de leur Etat et de leur Patrie: ainsi l'Etat pourrait-il acquérir cette unité spirituelle qui le renforcerait et renforcerait donc la liberté collective et l'existence humaine pourrait enfin acquérir ce sens et cette dignité qui lui manquent grâce à l'héroïsme et au dévouement à la Patrie.

 

Pour cela, Rousseau préconisait, outre la sup-pression de la distinction traditionnelle entre la vie privée et la vie publique (la politique devenant une activité totale), un système d'éducation publique sous le contrôle direct de l'Etat, la part la plus importante de cette éducation consistant en une éducation physique collective (l'inspiration lacédé-monienne est ici manifeste); la soumission des grou-pes sociaux et des intérêts particuliers à la volonté générale. Autre trait marquant: le refus des insti-tutions représentatives: Rousseau prônait un style politique théâtral reposant sur des spectacles publics (jeux, fêtes, cérémonies) qui permettrait une large participation des masses en même temps qu'une identification de celles-ci à la Patrie et à l'Etat, en somme, une manière de démocratie directe. Ces techniques destinées à assurer la "nationalisation des masses" et la "socialisation de l'individu", d'abord appliquées en France pendant la Révolution, seront, après la normalisation opérée par l'Empire, ré-cupérées par les nationalistes allemands Jahn et Arndt (5) et leurs disciples, les Burschenturner, puis par le national-socialisme et le IIIème Reich (bien qu'Hitler dira à Rauschning s'être inspiré de ses adversaires sociaux-démocrates, sans mentionner ses précurseurs nationalistes) (6). En Italie, les idées de Rousseau seront reprises par Mazzini et puis, après la Grande Guerre, mises en pratique par d'Annunzio à Fiume (lors de la Régence du Carnaro) et bien sûr par le fascisme.

 

A ceux qui, malgré ces prémisses, s'étonneront encore de voir Rousseau transformé en créateur du fascisme, Noel O'Sullivan concède que l'influence de Rousseau sur le fascisme ne fut pas directe: le fascisme procéda en effet à une révision du style activiste en substituant un "activisme dirigé" à "l'activisme spontané" des origines (7).

 

Cette révision de l'activisme fut entamée lors de la dernière décennie du XIXème siècle. A cette époque se fit jour l'idée qu'un mouvement activiste ne pouvait reposer entièrement sur la spontanéité des masses mais devait encadrer et diriger les masses d'en haut (8). Le fascisme devait réduire cet acti-visme dirigé à trois éléments: le chef, le mouvement, le mythe qui met les masses en mouvement (page 114).

 

Déjà chez Rousseau (qui entrevoit dans ses Considérations   sur  le  Gouvernement  de  Pologne,  la nécessité d'un législateur de la trempe d'un Moïse, d'un Lycurgue et d'un Numa) (9) apparaît un certain pessimisme à l'égard des masses. Mais c'est surtout après 1848/49 que la désillusion gagne les milieux activistes: en France, avec Napoléon III, une dictature plébiscitaire fondée sur l'appel direct aux masses clôt la Révolution de 1848 et restaure un régime d'"Ordre"; la Commune de 1871, qui est un échec, laisse la place à la IIIème République et à ses politiciens opportunistes. En Italie et en Allemagne, l'unité nationale (inachevée) fut le fait non des masses mais, au-dessus d'elles, de la diplomatie traditionnelle d'un Cavour et d'un Bismarck (10).

 

L'impuissance historique des masses à réaliser l'idéal activiste donne alors naissance à la théorie des élites (Pareto, Mosca et Michels) et à la "psychologie des foules" de Le Bon dont on peut dire qu'elles inspirèrent aussi bien Lénine (Que Faire?)   et Sorel (Réflexions sur la violence),  qui entamèrent une révision révolutionnaire du marxisme en rejetant le kautskysme, qu'Hitler (Mein Kampf)   qui entama une révision révolutionnaire du nationalisme völkisch alors pris dans les rêts du conservatisme allemand (11).

 

Pour Lénine, les sociaux-démocrates ne doi-vent pas s'attendre à un soulèvement prolétarien spontané. Aussi préconise-t-il la création d'une élite de révolutionnaires professionnels. Pour Sorel, l'u-topie, construction intellectuelle, n'est génératrice que de révoltes; seul le mythe peut conduire les masses à la révolution. Aussi Sorel propose-t-il au prolétariat le mythe de la grève générale. Quant à Hitler, il met la propagande diffusée par une organisation de combat au service de l'idéologie völkisch, du mythe racial proposé aux masses allemandes. Hitler applique les recettes de Le Bon: Le Bon ne décrit-il pas le chef qui, ayant suffisamment de "prestige" (de charisme) et con-naissant la psychologie des foules et ses lois, saura manipuler les masses?

 

O'Sullivan montre enfin l'importance de la Grande Guerre et de ses suites dans le triomphe de l'activisme dirigé sur l'activisme spontané: le putsch bolchevik appuyé sur les thèses de Rosa Luxemburg, écrasé par les Corps-Francs, la marche sur Rome, prouvent dans l'immédiat après-guerre la supériorité de l'activisme dirigé sur la spontanéité des masses.

 

Mais la Grande Guerre a montré aussi l'impact du mythe national sur les masses et fourni aux acti-vistes un modèle d'organisation calqué sur l'armée. Mussolini et ses amis d'extrême-gauche retiendront la leçon!

 

Noel O'Sullivan rompt avec l'analyse idéo-logique classique du fascisme qui fait de celui-ci l'héritier d'une réaction contre le XVIIIème siècle, portée en France par le maurrassisme (version Nolte: Le  fascisme  dans  son  époque,  tome I), ou née de la rencontre du maurrassisme et du sorélisme (cf. Sternhell La  droite  révolutionnaire): cette hostilité au XVIIIe siècle se manifestait en Alle-magne dans le courant du "pessimisme culturel" puis dans la "Révolution Conservatrice" auxquels de nombreux auteurs attribuent une responsabilité importante dans la naissance de l'idéologie nazie (selon Jean-Pierre Faye, auteur de Langages totalitaires,   le langage de la Révolution Conser-vatrice a rendu acceptable le langage hitlérien de l'extermination).

 

En revanche, le livre d'O'Sullivan n'est pas sans rapports avec Les  origines  de  la  démocratie totalitaire  écrit par J-L. Talmon (Calmann-Lévy, Paris, 1966). Dans ce livre, l'auteur oppose la démocratie (empirique) libérale à la "démocratie" (messianique) totalitaire" qui conduit au com-munisme, l'une et l'autre plongeant leurs racines dans la pensée du XVIIIe siècle individualiste et rationaliste. La démocratie totalitaire qui "ne re-connaît basiquement qu'un seul plan d'existence, le plan politique", qui ne conçoit la liberté "qu'à travers la poursuite et la réalisation d'un but collectif absolu" (page 12) évoque par plus d'un trait le style activiste décrit par O'Sullivan. Talmon oppose ensuite le totalitarisme de droite (le fas-cisme) au totalitarisme de gauche, pourtant assez proches l'un de l'autre: le totalitarisme de gauche ne conçoit-il pas le citoyen idéal sur le modèle spartiate ou romain comme "superbement libre tout en étant un prodige de discipline ascétique. Membre à part égale de la Nation souveraine, il n'a de vie ni d'intérêts extérieurs au destin collectif"(page 22). Talmon donne d'ailleurs aux totalitarismes de droite et de gauche un même ancêtre: Rousseau. Ainsi Talmon croit discerner, dans Le  contrat  social,  "la transformation de la pensée de Rousseau, qui passe du rationalisme individualiste au collectivisme de type organique et historique. L'être connaissant qui veut librement être transformé en produit de l'en-seignement et du milieu ambiant d'abord, puis, passé les traditions, en produit du milieu ambiant et, pour finir de l'esprit national. De la même manière, l'idée et l'expérience patriotiques font passer la volonté générale, vérité à découvrir, dans le fonds commun, avec toutes les particularités qu'il comporte. C'est à ce point que l'apport de Rousseau se dédouble pour influencer deux courants; d'une part, la tendance individualiste nationaliste et éventuellement collectiviste de gauche, et, d'autre part, l'idéologie nationaliste irrationnelle de droite, avec ses affinités pour le romantisme politique allemand de Fichte, Hegel, Savigny. Le passage au rationalisme a lieu dans les Considérations  sur  le  Gouvernement  de Pologne   (page 345). Le propos de Talmon rejoint ici celui de Noel O'Sullivan.

 

Noel O'Sullivan ne croit pas que le fascisme ait été un regrettable accident dans l'histoire euro-péenne et place résolument le fascisme dans une tradition politique européenne activiste dont il ne serait qu'une des manifestations parmi les plus radi-cales. Malgré sa pertinence, la thèse d'O'Sullivan apparaît insuffisante: peut-on mettre dans le même sac les nationalismes populaires libéraux et démo-cratiques du XIXème siècle, les divers socialismes, le radicalisme patriotique et républicain français, le bolchévisme et les fascismes sous prétexte qu'ils partagent une même conception activiste de la vie (politique)? N'est-ce pas là nier la spécificité idéologique et institutionnelle de chacun de ces phénomènes? Noel O'Sullivan ne néglige certes pas l'étude de la Weltanschauung   fasciste mais, à son sens, il n'y a pas réellement de projet sous-tendu par une idéologie fasciste, ou alors il ne s'agit que d'un masque: l'idée selon laquelle le fascisme réaliserait l'union du nationalisme et du socialisme, idée défendue par Georges Valois en 1926 et par Meinecke en 1946, ne rend pas la dimension du fascisme selon O'Sullivan (une telle union est-elle d'ailleurs propre au fascisme)? Le fascisme a-t-il réalisé dans la théorie et dans les faits cette union? Et de quel nationalisme, de quel socialisme s'agit-il ici? Pour l'auteur, qui reprend à son compte les assertions de Rauschning sur l'hitlérisme et de Megaro sur le fascisme italien, le fascisme est un pur dynamisme qui tend à mobiliser les masses de manière permanente sans leur assigner de buts précis. Les traits de la Weltanschauung fasciste entrent parfaitement dans ce cadre: un corporatisme instrumental destiné à encadrer les masses et non à résoudre la question sociale, une conception de la révolution permanente produit paradoxal d'un conservatisme radical, le "führerprinzip" qui évite au fascisme les débats internes d'ordre idéologique, la mission messianique de la Nation fasciste dont les linéaments ont été dessinés en Italie par Mazzini et en Allemagne par les radicaux du Parlement de Francfort, l'autarcie.

 

La thèse de Noel O' Sullivan traduit une mé-fiance anglo-saxonne envers la tradition politique européenne qui, née de la Révolution française, prend ses distances avec les Révolutions anglaises et américaine et la pensée whig d'un Locke; qui met l'accent sur le pouvoir et non sur le détachement bourgeois vis-à-vis du pouvoir (dans le lexique poli-tique européen du XIXème siècle, le terme "libéral" ou "libéral-démocratique" désigne l'exigence de li-bertés politiques qui permettent l'engagement du ci-toyen, non son retrait dans la sphère privée), dont les fondements sont souvent laïques c'est-à-dire in-différents aux considérations morales (dans le mon-de anglo-saxon, les fondements de l'action politique sont exclusivement moraux). Cette tradition politi-que européenne ne peut produire selon les Anglo-Saxons que le totalitarisme, communiste ou fasciste.

 

Thierry MUDRY.

 

NOTES

 

(1) Dans "Combat" (février 1936, n°2), Pierre Andreu décrit sous le titre "fascisme 1913" l'expérience des Cahiers.

(2) Par exemple, dans un article intitutlé "Rousseau jugé par Proudhon" sont abondamment cités des passages de La  Justice  dans  la Révolution  et  dans  l'Eglise  dans lesquels Rousseau est qualifié par Proudhon de "premier de ces femmelins de l'intelligence..." (Cahiers  du Cercle  Proudhon,  3ème et 4ème cahiers, mai-août 1912, pages 105 à 108).

(3) Cf. Les  Déracinés  et les Scènes  et  doctrines  du Nationalisme.

(4) Dernière manifestation en date de cette tradition: le terrorisme des Brigades Rouges, de la Fraction Armée Rouge et d'Action Directe.

(5) L'idéal humain de Jahn et Arndt (des citoyens allemands héroïques dévoués au Bien Comun, des Germains aux mœurs pures et simples) tout autant que leur idéal politique activiste les rapprochaient de Jean-Jacques.

(6) Sur l'Allemagne, l'ouvrage de référence est The  nationalization of  the  masses   de George Mosse (1975).

(7) Comme exemples d'activisme spontané, on peut citer les Girondins et les anarchistes, les uns et les autres victimes de l'activisme dirigé, discipliné, de leurs concurrents montagnards et bolcheviks. Dès la révolution française, l'activisme dirigé semble apparaître sous la Terreur, puis chez les conspirateurs babouvistes dont l'héritage passe avec Buonarroti aux sociétés secrètes révolutionnaires du XIXème siècle: une élite de conspirateurs doit préparer la chute des tyrans (carbonarisme, voire blanquisme).

(8) A cette époque apparaissent d'ailleurs en France avec la Ligue des Patriotes, les premières manifestations modernes de la propagande de masse (cf Zeev Sternhell,  La  droite  révolutionnaire).

(9) Mais aussi chez Saint-Just pour qui "le peuple est un éternel enfant".

(10) Noel O'Sullivan éclaire dans son ouvrage le destin particulier de l'Italie et de l'Allemagne: la vulnérabilité de ces deux pays à l'égard du fascisme ne s'expliquerait pas, selon l'auteur, par le caractère tardif (et partiel) de l'unification nationale mais plutôt par les caractéristiques mêmes du mouvement d'unification qui se développa en Italie et en Allemagne sous les auspices de l'activisme (national et libéral, puis national-démocratique, voire socialiste): "In both countries the ideal of unification was shaped and moulded within the framework of a new acticvist style of politics which tended naturally towards demagogic extremism. The fact that unification itself was the work of politicians who despised activism is beside the point; what matters is the fact that they themselves encouraged activist dreams for their own purposes" (page 181).

(11) Hitler a-t-il pris connaissance de l'œuvre d'un Le Bon ou d'un Pareto? Cette hypothèse semble improbable, mais cela est sans importance: Hitler s'est laissé porter par l'esprit du temps, un élitisme et un darwinisme social ambiants.

Dans le début des années 1920, et dans Mein  Kampf,  Hitler se livrait à une critique "révolutionnaire" du nationalisme völkisch. Il s'en prenait d'abord aux méthodes d'action politique des Völkischen, méthodes qu'il jugeait inefficaces et auxquelles il prétendait substituer un activisme politique (Hitler ne faisait là que renouer avec les méthodes employées par les agitateurs antisémites allemands Heinrici et Böckel dans les années 1880/90. Ce ne fut d'ailleurs qu'apèrs l'échec des expériences Heinrici et Böckel que les antisémites völkisch abandonnèrent l'acti-visme). Il s'en prenait ensuite au caractère bourgeois et intellectuel des formations völkisch et prétendait conférer au nouveau mouvement völkisch un caractère populaire, "ouvrier" et "socialiste" marqué (d'où l'adoption du drapeau rouge et du qualificatif de Parti "ouvrier" national-socialiste"). Là encore rien de très original à vrai dire: déjà certaines formations völkisch avaient récupéré le qualificatif de "socialiste" -exemple: le Parti socialiste allemand  -et puis le "socialisme allemand" comme mot d'ordre). En cela, Hitler fut approuvé par de nombreux militants völkisch qui, plus tard, devaient s'estimer trahis par les compromis d'Hitler avec l'Eglise et la monarchie, les capitalistes et les Junkers, l'armée et la bureaucratie, la légalité weimarienne et l'Occident, etc.

 

mercredi, 03 mars 2010

G. Faye: Simulierte Heterogenität

Simulierte Heterogenität

Ex: http://rezistant.blogspot.com/
guillaume-faye.jpgNicht zuletzt den provokanten Büchern Guillaume Fayes verdanken wir, dass die Verwirrung um den uns so vertrauten Gegensatz von Konservatismus und Fortschritt zunimmt. Bereits in seinem furiosen Einstandswerk "Le Système a tuer les peuples" (Paris: Copernic, 1981) erwies sich Faye als dynamischer Denker der neuen Kultur, der gegen den totalitären Merkantilismus in humanitaristischem Gewande kämpft und für die Rechte der Völker - aller Völker! - eintritt. Er plädierte für Selbstbestimmung, kulturelle Identität und ein Recht auf Anderssein. Damals zeigte er den vollzogenen Übergang unserer Gesellschaften von der Zivilisation zum "System": Unser Dasein - so Faye - ist geprägt von der morbiden, systembedingten Amerikanosphäre, einem Zustand sozialer Entropie.

Auch in seinem Buch über die Neue Konsumgesellschaft - für Faye kurz "La NSC" - setzt sich der Autor mit Rationalismus und Egalitarismus auseinander. Zwar erfährt der Leser wenig über eine pragmatische Zielorientierung, mit der die Krise der Gegenwart überwunden werden soll. Jedoch wird der Widerspruch, den seine Ausführungen auslösen können, ein Indikator dafür sein, wann unsere Krise zu Ende gedacht und gelebt wird.

Faye beherrscht die a-moralische Sichtweise; daher die Präzision seiner Beobachtungen. Er erkennt Hedonismus und Konsummanie als kardinale Werte der Neuen Konsumgesellschaft und liefert anschauliche Beispiele dafür, dass der Beginn des Zeitalter des homo consummans (gefülltes Portefeuille kombiniert mit kleinbürgerlichem Geist) hinter uns liegt. Ihm gelingt es, den Begriff der Lebensqualität und das Dogma des ökonomischen Wohlstands einer luziden Kritik zu unterziehen. Lebensintensität wird von der Neuen Rechten zur Tugend zukünftigen Menschseins erkoren.

Fayes Kernausse, durchaus ein Ansatz zu einer kritischen Theorie, lautet: Wo früher vertikale (regionale, nationale) Differenzen vorherrschten, dominiert heute - Folge des Egalitarismus - eine horizontale, nur simulierte Heterogenität. Diese löste eine soziologisch heterogene und kulturell gemeinsame Gesellschaftsstruktur ab. Unsere Zivilisation, das System, ist hingegen soziologisch homogen und gerade kulturell atomisiert. Faye sieht die Neue Konsumgesellschaft als gigantisches Theater; Konflikten drohe die Unbegrenzbarkeit.

Was tun? Ohne Eskalaton werde es keine historische Erneuerung geben. Möglich, dass Faye sich als positiver Nihilist einer postmodernen Neuen Rechten verstanden wissen will. Seine symbolträchtige Anlehnung an den Gott Dionysos - dionysische Freuden sind Fayes Programm für die Posthistoire - will nachvollzogen sein: Denn der fernen Rückkehr des Apoll gilt es zu harren. Für Autor und Leser keine ungefährle Aporie; nicht alle Triebhaftigkeiten des Gehirns bewahren die Maske einer Errungenschaft des Geistes.

Aufmerksamkeit ruft Fayes Rezeption der unorthodoxen Soziologen Jean Budrillard und Michel Maffesoli hervor. Im westlichen Nachbarland verlieren Links-Rechts-Schemata ihre Argumentationswirkung. Die Mühe lohnt, über subtile Grenzüberschreitungen nachzudenken. Erste Reflexionen ergeben ein faszinierendes Relief.

Guillaume Faye, La NSC - La Nouvelle Société de Consommation. Le Labyrinthe, Paris 1984. Buchbesprechung in: DESG-inform, 3/85.

mercredi, 24 février 2010

Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity

Dr. Sunic' Newest Book !

Paperback: 224 pages
Publisher: Iron Sky Publishing; 1ST edition (February 11, 2010)
ISBN-10: 0956183522
ISBN-13: 978-0956183521
 
 
 
Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity (collected Essays)
 
 
 
 

Postmortem Report: Cultural Examinations from Postmodernity

(collected Essays) (Paperback)

Tomislav Sunic (Author), MacDonald Kevin (Foreword)

Editorial Reviews

Product Description

Tomislav Sunic is one of the leading scholars and exponents of the European New Right. A prolific writer and accomplished linguist in Croatian, English, French, and German, his thought synthesizes the ideas of Oswald Spengler, Carl Schmitt, Vilfredo Pareto, and Alain de Benoist, among others, exhibiting an elitist, neo-pagan, traditionalist sensibility. A number of themes have emerged in his cultural criticism: religion, cultural pessimism, race and the Third Reich, liberalism and democracy, and multiculturalism and communism. This book collects Dr. Sunic’s best essays of the past decade, treating topics that relate to these themes. From the vantage point of a European observer who has experienced the pathology of liberalism and communism on both sides of the Iron Curtain, Dr. Sunic offers incisive insights into Western and post-communist societies and culture. Always erudite and at times humorous, this highly readable postmortem report on the death of the West offers a refreshing, alternative perspective to what is usually found in the cadaverous Freudo-Marxian scholasticism that rots in the dank catacombs of postmodern academia.

 

T. Sunic: Amérique réelle, Amérique hyperréelle

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Synergies Européennes – Bruxelles / Zagreb – février 2009

 

Tomislav SUNIC :

Amérique réelle, Amérique hyperréelle

 

Un phénomène important est survenu dans les relations entre les élites américaines détentrices du pouvoir et les élites médiatiques. Au début du 21ème siècle, l’Amérique, contrairement aux autres pays européens, se vante ouvertement qu’elle garantit une liberté d’expression totale. Pourtant, les médias américains osent rarement soulever des thématiques considérées comme contraires à l’esprit postmoderne de l’américanisme. De fait, la « médiacratie » américaine postmoderne opère de plus en plus en liaison avec le pouvoir exécutif de la classe dominante. Cette cohabitation se déroule sur un mode mutuellement correcteur, où les uns posent des critères éthiques pour les autres et vice-versa. Les principales chaînes de télévision et les principaux journaux d’Amérique, comme CNN, The New York Times ou The Washington Post suggèrent aux hommes politiques la ligne à suivre et vice-versa ou, pour un autre sujet, les deux fixent de concert les critères du comportement politique général qu’il faudra adopter. Parmi les citoyens américains, l’idée est largement répandue que les médias représentent un contre-pouvoir face au système et que, de par leur vocation, ils doivent être par définition hostiles aux décisions prises par les élites au pouvoir. Mais en réalité, les médias américains ont toujours été les porte-paroles et les inspirateurs du pouvoir exécutif, bien que d’une manière anonyme, sans jamais citer les noms de ceux qui, au départ de la sphère gouvernementale, leur filaient des tuyaux. Depuis la première guerre mondiale, les médias américains ont eu une influence décisive, dans la mesure où ils ont créé l’ambiance psychologique qui a précédé et soutenu la politique étrangère américaine, en particulier en poussant les politiques américains à bombarder au phosphore les villes européennes pendant la seconde guerre mondiale. La même stratégie, mais avec une ampleur réduite, a été suivie, partiellement, par les médias américains lors de l’engagement US en Irak en 2003.

 

Médias et classe dominante : opérations conjointes

 

Dans le choix des mots, la classe dominante américaine et ses courroies de transmission dans les médias et l’industrie de l’opinion ne fonctionnent plus d’une manière disjointe et exclusive l’une de l’autre ; elles opèrent conjointement dans le même effort pédagogique de « répandre la démocratie et la tolérance » dans le monde entier. « Qu’il y ait ou non un soutien administratif au bénéfice des médias », écrit Régis Debray, « ce sont les médias qui sont les maîtres de l’Etat ; l’Etat doit négocier sa survie avec les faiseurs d’opinion » (1). Debray, figure de proue parmi les théoriciens de la postmodernité, ne révèle au fond rien de neuf, sauf que dans la « vidéo-politique » postmoderne, comme il l’appelle, et qui est distillée par les médias électroniques modernes, les mensonges des politiciens semblent plus digérables qu’auparavant. En d’autres mots, le palais présidentiel n’a plus d’importance politique décisive ; c’est la tour de la télévision qui est désormais en charge de la « haute politique ». L’ensemble des discours et récits politiques majeurs ne relève plus de la « graphosphère » ; il entre dans le domaine de la « vidéosphère » émergente. En pratique, cela signifie que toutes les absurdités que pense ou raconte le politicien n’ont plus aucune importance de fond : quel que soit leur degré de sottise, il faut qu’elles soient bien présentées, qu’elles suscitent l’adhésion, comme sa propre personne, sur les écrans de la télévision. Il peut certes exister des différences mineures entre la manière dont les médias, d’une part, et la classe dominante américaine, d’autre part, formulent leur message, ou entre la façon dont leur efforts correcteurs réciproques se soutiennent mutuellement, il n’en demeure pas moins vrai que la substance de leurs messages doit toujours avoir le même ton.

 

La télévision et les médias visuels ont-ils changé l’image que nous avons du monde objectif ? Ou la réalité du monde objectif peut-elle être saisie, si elle a été explicitée autrement qu’elle ne l’est par les médias ? Les remarques que les universitaires ou d’autres hommes politiques formulent et qui sont contraires aux canons et aux vérités forgées par les médias se heurtent immédiatement à un mur de silence. Les sources et informations rebelles, qui critiquent les dogmes de la démocratie et des droits de l’homme, sont généralement écartées des feux de la rampe. C’est vrai surtout pour les écrivains ou journalistes qui remettent en question l’essence de la démocratie américaine et qui défient la légitimité du libre marché.

 

Significations à facettes multiples

 

Les hommes politiques américains contemporains ont de plus en plus souvent recours à des références voilées derrière un méta-langage hermétique, censé donner à ses locuteurs une aura de respectabilité. Les hommes politiques postmodernes, y compris les professeurs d’université, ont recours, de plus en plus, à une terminologie pompeuse d’origine exotique, et leur jargon se profile souvent derrière une phraséologie qu’ils comprennent rarement eux-mêmes. Avec la propagation rapide du méta-discours postmoderne au début du 21ème siècle, la règle, non écrite, est devenue la suivante : le lecteur ou le spectateur, et non plus l’auteur, devraient devenir les seuls interprètes de la vérité politique. A partir de maintenant, le lexique politique est autorisé à avoir des significations à facettes multiples. Mais, bien sûr, cela ne s’applique pas au dogme du libre marché ou à l’historiographie moderne, qui doit rester à tout jamais en un état statique. Le discours postmoderne permet à un homme politique ou à un faiseur d’opinion de feindre l’innocence politique. De cette manière, il est libre de plaider l’ignorance si ses décisions politiques débouchent sur l’échec. Ce plaidoyer d’ignorance, toutefois, ne s’applique pas s’il osait tenter ou s’il désirait déconstruire le proverbial signifiant « fascisme » qui doit rester le référent inamovible du mal suprême.

 

Dans un essai de 1946, un an après la défaite totale du national-socialisme, Orwell notait combien le mot « fascisme » avait perdu sa signification originelle : « il n’a maintenant plus aucune signification sauf dans la mesure où il désigne quelque chose qui n’est pas désirable » (…). On peut dire la même chose d’un vaste éventail de référents postmodernes, y compris du terme devenu polymorphe de « totalitarisme », qui date du début des années 20 du siècle passé, quand il est apparu pour la première fois et n’avait pas encore de connotation négative. Et qui sait s’il aura toujours cette connotation négative si on part du principe que le système américain, monté en épingle, pourrait, en cas d’urgence, utiliser des instruments totalitaires pour garantir sa survie ? Si l’Amérique devait faire face à des affrontements interraciaux de grande ampleur (on songe aux clivages raciaux de grande envergure après les dévastations causées par l’ouragan Katrina à la Nouvelle Orléans en 2005, qui pourrait être le prélude de plus graves confrontations ultérieures), elle devra fort probablement adopter des mesures disciplinaires classiques, telles la répression policière et la loi martiale. On peut imaginer que la plupart des théoriciens postmodernes n’émettraient aucune objection à l’application de telles mesures, bien qu’ils esquiveront probablement le vocable « totalitaire ».

 

Incantations abstraites

 

Il y a longtemps, Carl Schmitt théorisa et explicita une vérité vieille comme le monde. Notamment, que les concepts politiques acquièrent leur véritable signification si et seulement si l’acteur politique principal, c’est-à-dire l’Etat et sa classe dominante, se retrouvent dans une situation d’urgence soudaine et imprévue. Dans ce cas, toutes les interprétations usuelles des vérités posées jusqu’alors comme « allant de soi » deviennent obsolètes. On a pu observer un tel glissement après l’attaque terroriste du 11 septembre 2001 à New York (un événement qui n’a pas encore été pleinement élucidé) ; la classe dirigeante américaine a profité de cette occasion pour redéfinir la signification légale d’expressions comme les « droits de l’homme » et la « liberté de parole ». Après tout, la meilleure façon de limiter les droits civiques concrets n’est-elle pas d’abuser d’incantations abstraites sur les « droits de l’homme » et sur la « démocratie » ? Avec la déclaration possible d’un état d’urgence à grande échelle dans l’avenir, il semble tout à fait probable que l’Amérique finira par donner de véritables significations à son vocabulaire politique actuel. Pour les temps présents, toutefois, la postmodernité américaine peut se décrire comme une sémantique transitoire et un engouement esthétique parfaitement idoine pour assumer une surveillance dans les sphères académiques et politiques, sous le masque d’un seul terme : celui de « démocratie ».

 

Contrairement au mot, le concept de postmodernité désigne un fait politique ou social qui, selon diverses circonstances, signifie tout et le contraire de tout, c’est-à-dire, finalement, rien du tout. La postmodernité est tout à la fois une rupture avec la modernité et sa continuation logique sous une forme hypertrophiée. Mais, comme nous avons déjà eu l’occasion de le noter, en termes de dogme égalitaire, de multiculturalisme et de religion du progrès, le discours postmoderne est resté le même que le discours de la modernité. Le théoricien français de la postmodernité, Gilles Lipovetsky, utilise le terme d’hypermodernité lorsqu’il parle de la postmodernité. La postmodernité est hypermodernité dans la mesure où les moyens de communication défigurent et distordent tous les signes politiques, leur font perdre toutes proportions. De ce fait, quelque chose que nous allons considérer comme hypermoderne doit simultanément être considéré comme ‘hyperréel’ ou ‘surréel’ ; c’est donc un fait gonflé par une prolifération indéfinie de mini-discours ; des mémoires historiques et tribales travesties en panégyriques aux commémorations de masses honorant les morts de la guerre. De nouveaux signes et logos émergent, représentant la nature diversifiée du système mondial américanisé. Lipovetsky note que « très bientôt, il n’y aura plus aucune activité particulière, plus aucun objet, plus aucun lieu qui n’aura pas l’honneur d’un musée institué. Depuis le musée de la crêpe jusqu’à celui des sardines, depuis le musée d’Elvis Presley jusqu’à celui des Beatles » (2). Dans la postmodernité multiculturelle, tout est objet de souvenir surréel et aucune tribu, aucun style de vie ne doit se voir exclu du circuit. Les Juifs se sont déjà taillé une position privilégiée dans le jeu global des cultes de la mémoire ; maintenant, c’est au tour d’une myriade d’autres tribus, de styles de vie ou de divers groupes marginaux cherchant à recevoir leur part du gâteau de la mémoire globale.

 

Obsession de la « race »

 

Officiellement, dans l’Amérique multiculturelle, il n’y a ni races ni différences raciales. Mais les quotas de discrimination positive (« affirmative action ») et l’épouvantail du racisme ramènent sans cesse le terme ‘race’ à l’avant-plan. Cette attitude qui se voit rejetée, de manière récurrente, par l’établissement postmoderne américain, est, de fait, une obsession ressassée à l’infini. Les minorités raciales réclament plus de droits égaux et se font les avocates de la diversité sociale ; mais dans les termes mêmes de leurs requêtes, elles n’hésitent jamais à mettre en exergue leur propre ‘altérité’ et le caractère unique de leur propre race. Si leurs requêtes ne sont suivies d’aucun effet, les autorités courent le risque de se faire accuser d’ ‘insensibilité’. De ce fait, pourquoi n’utiliserait-on pas, dès maintenant, les termes d’Hyper-Amérique hyperraciale ? Ce qui importe, ici, c’est que le lecteur saisisse ces termes dans leur sens aléatoire car la postmodernité, selon les circonstances, peut se donner des significations contradictoires.

 

L’Amérique est un pays aussi moderne qu’il a voulu l’être. La modernité et la religion du progrès font partie du processus historique qui l’a créé. En même temps, toutefois, les éléments méta-statiques de la postmodernité, en particulier l’ ‘overkill’, les tueries excessives, que l’on voit à satiété dans les médias, sont désormais visibles partout. La postmodernité a ses pièges. Afin de les éviter, ses porte-paroles font usage d’approches particulières du discours moderne en recourant à des qualifiants apolitiques et moins connotés. Dans le monde postmoderne, écrit Lipovetsky, « on note la prédominance de la sphère individuelle sur la sphère universelle, du psychologique sur l’idéologique, de la communication sur la politisation, de la diversité sur l’homogénéité, de la permissivité sur la coercition » (3). De même, certaines questions sociales et politiques apparaissent désormais sous les feux de rampe alors qu’elles étaient totalement ignorées et inédites au cours des dernières décennies du 20ème siècle.  L’éventuelle impuissance sexuelle d’un candidat à la présidence  est désormais considérée comme une événement politique de premier plan —souvent plus que sa manière de traiter un thème important de la criminalité publique. La mort d’un enfant en bas âge dans une Afrique ravagée par les guerres en vient à être considérée comme une affaire nationale urgente. Même le supporter le plus ardent du multiculturalisme aurait eu grand peine à imaginer, jadis, les changements phénoménaux qui se sont opérés dans le discours pan-racialiste des élites américaines. Même le progressiste américain le plus optimiste de jadis, avocat de la consommation à outrance, n’aurait jamais imaginé une telle exhibition colossale de permissivité langagière ni l’explosion de millions de signes de séduction sexuelle. Tout chose se mue en sa forme plus « soft » que suggère la nouvelle idéologie ; depuis l’idéologie du sexe jusqu’à la nouvelle religion du football en passant par la croisade idéologique contre le terrorisme réel ou imaginaire.

 

Transformations sémantiques

 

La culture de masse à l’âge de la néo-postmodernité, comme l’écrit Ruby, facilite le développement d’un individualisme extrême, au point où la plus petite parcelle d’une existence humaine doit dorénavant être perçue comme une commodité périssable ou hygiénique. « La personnalité de quelqu’un est jugée d’après la blancheur de ses incisives, d’après l’absence de la moindre gouttelette de sueur aux aisselles, de même d’après l’absence totale d’émotion » (4). La culture des mots en langue anglaise a, elle aussi, été sujette à des transformations sémantiques. Actuellement, ces mots transformés existent pour désigner des styles de vie différents et n’ont plus rien en commun avec leur signification d’origine. C’est pourquoi on pourrait tout aussi bien appeler l’Amérique postmoderne « Amérique hypermoderne », désignation qui suggère que, dans les années à venir, il y aura encore plus d’hyper-narrations tournant autour de l’hyper-Amérique et du monde « hyper-américanisé ».

 

Et qu’est-ce qui viendra après la postmodernité ? « Tout apparaît », écrit Lipovetsky, « comme si nous étions passés d’un âge ‘post’ à un âge ‘hyper’ ; une nouvelle société faite de modernité refait surface. On ne cherche plus à quitter le monde de la tradition pour accéder à la modernité rationnelle mais à moderniser la modernité, à rationaliser la rationalisation » (5). Nous avons donc affaire à la tentative d’ajouter toujours du progrès, toujours de la croissance économique, toujours des effets télévisés spéciaux pour, imagine-t-on, nourrir l’existence de l’Amérique hyperréelle. Le surplus de symbolisme américain doit continuer à attirer les désillusionnés de toutes races et de tous styles de vie, venus de tous les coins du monde. N’importe quelle image télévisée ou n’importe quelle historiette de théâtre sert désormais de valeur normative pour une émulation quelconque à l’échelle du globe  —ce n’est plus le contraire. D’abord, on voit émerger une icône virtuelle américaine, généralement par le truchement d’un film, d’un show télévisé ou d’un jeu électronique ; ensuite, les masses commencent à utiliser ces images pour conforter leur propre réalité locale. C’est la projection médiatique de l’Amérique hyperréelle qui sert dorénavant de meilleure arme propagandiste pour promouvoir le rêve américain. Nous voyons se manifester un exemple typique de l’hyperréalité américaine lorsque la classe politique américaine prétend que toute erreur générée par son univers multiculturel ou tout flop dans son système judiciaire tentaculaire pourrait se réparer en amenant dans le pays encore plus d’immigrants, en cumulant encore davantage de quotas raciaux ou en gauchisant encore plus ses lois déjà gauchistes. En d’autres termes, la hantise d’une balkanisation du pays, qu’elle ressent, elle croit pouvoir s’en guérir en introduisant encore plus de diversité raciale et en amenant encore plus d’immigrants de souche non européenne. De même, les flops du libre marché, de plus en plus visibles partout en Amérique, elle imagine qu’elle leur apportera une solution, non pas en jugulant la concurrence sur le marché, mais en acceptant encore davantage de concurrence grâce à plus de privatisations, en encourageant plus encore la dérégulation économique, etc. Cette caractéristique de l’ ‘overkill’, de la surenchère postmoderne est l’ingrédient constitutif principal de l’idéologie américaine, qui semble avoir trouvé son rythme accéléré au début de l’âge postmoderne. Jamais il ne vient à l’esprit de l’élite américaine que le consensus social dans une Amérique multiraciale ne pourra s’obtenir par décret. Pourtant, si l’on recourrait à des politiques contraires à tous ces efforts hyperréels en lice, cela pourrait  signifier la fin de l’Amérique postmoderne.

 

Tout doit pouvoir s’expliquer selon des formules toute faites

 

Déjà à la fin du 20ème siècle, l’Amérique a commencé à montrer des signes d’obésité sociale. C’est la nature irrationnelle de la croyance au progrès qui a crû démesurément à la manière des métastases et qui, de ce fait, annonce, le cas échéant, la fin de l’Amérique. Lash notait, il y a déjà pas mal d’années, que tout à la fin du 20ème siècle, les narcisses américains savoureraient les plaisirs sensuels et se vautreraient dans toutes les formes d’auto-gratification. ‘Prendre du plaisir’ est une option qui a toujours fait partie des prescrits de l’idéologie américaine. Cependant le narcisse américain postmoderne à la recherche du plaisir, comme le nomme Lipovetsky, a d’autres soucis actuellement. Son culte du corps et l’amour qu’il porte à lui-même ont conduit à des crises de panique et des anxiétés de masse : « L’obsession à l’égard de soi se manifeste moins dans la joie fébrile que dans la crainte, la maladie, la vieillesse, la ‘médicalisation’ de la vie » (6). Dans l’Amérique hyperrationnelle, tout doit absolument s’expliquer et s’évacuer à l’aide de formules rationnelles, peut importe qu’il s’agisse de l’impuissance sexuelle d’une personne particulière ou de l’impuissance politique du président des Etats-Unis. La nature imprévisible de la vie représente le plus gros danger pour l’homo americanus parce qu’elle ne lui offre pas sur plateau une formule rationnelle pour lui dire comment éviter la mort ; l’imprévisibilité de la vie défie par conséquent la nature intrinsèque de l’américanisme. Tout effraye l’homme américain aujourd’hui : du terrorisme au rabougrissement de son plan retraite ; de l’immigration de masse incontrôlée à la perte probable de son emploi. Ce serait gaspiller du temps de dénombrer et de chiffrer les maux sociaux américains en ce début de troisième millénaire : songeons à la pédophilie, à la toxicomanie, à la criminalité violente, etc. Le nombre de ces anomalies croîtra de manière exponentielle si la marche en avant du progressisme postmoderne américain se poursuit.

 

Tout est copie grotesque de la réalité

 

Chaque postmoderne utilise un méta-langage qui lui est propre et donne sa propre interprétation aux significations de l’histoire. Si nous acceptons la définition de la postmodernité que nous livre le théoricien français Jean Baudrillard, alors tout dans l’Amérique postmoderne est une copie grotesque de la réalité. L’Amérique aurait donc fonctionné depuis 1945 comme un gigantesque photocopieur xérographique, produisant une méta-réalité, qui correspond non pas à l’Amérique telle qu’elle est mais à l’Amérique telle qu’elle devrait être pour le bénéfice du globe tout entier. La seule différence est la suivante : à l’aube du 21ème siècle, le rythme doux et allègre de l’histoire de jadis s’est modifié continuellement, s’est mis à s’accélérer pour passer à la cinquième vitesse. Les événements se déroulent à la vitesse d’une bobine de film, comme détachés de toute séquence historique réelle, et s’accumulent inlassablement jusqu’à provoquer un véritable chaos. Selon Baudrillard, qui est à coup sûr l’un des meilleurs observateurs européens de l’américanisme, l’hyperréalité de l’Amérique a dévoré la réalité de l’Amérique. C’est pourquoi une question doit être posée : pour parachever le rêve américain, les Américains du présent et de l’avenir ne sont-ils pas sensés vivre dans un monde de rêve projeté ? L’Amérique ne se mue-t-elle pas dans ce cas en une sorte de « temps anticipatif » (« a pretense »), en une sorte de fiction, de métaréalité ? L’Amérique a-t-elle dès lors une substance, étant donné que l’américanisme, du moins aux yeux de ses imitateurs non américains, fonctionne seulement comme un système à faire croire, c’est-à-dire comme une « hypercopie » de son soi propre, toujours projeté et embelli ? Dans le monde virtuel et postmoderne d’internet et de l’informatique, toute mise en scène d’événements réels en Amérique procède toujours déjà d’un modèle de remise en scène antérieur et prêt à l’emploi, sensé servir d’instrument pédagogique pour différents projets contingents. Par exemple, les élites militaires américaines disposent de toutes sortes de formules possibles pour tous cas d’urgence qui surviendrait, en n’importe quel endroit du monde. On peut dès lors parier en toute quiétude qu’un scénario, selon l’une ou l’autre de ces nombreuses formules, pourra aisément correspondre à un événement réel sur le terrain. En bref, raisonne Baudrillard, dans un pays constitué de millions d’événements « fractaux », bien que surreprésentés et rejoués à satiété comme ils le sont, tout se mue en un non événement. La postmodernité rend triviales toutes les valeurs, même celles qu’elle devrait honorer pour sa propre survie politique !

 

De nouvelles demandes sociales émergent sans fin

 

L’Amérique et sa classe dirigeante pourraient peut-être un jour disparaître, ou, même, l’Amérique pourrait se fractionner en entités étatiques américaines de plus petites dimensions ; dans l’un ou l’autre de ces cas, l’hyperréalité américaine, cependant, continuera à séduire les masses partout dans le monde. L’Amérique postmoderne doit demeurer le pays de la séduction, même si cette séduction fonctionne davantage auprès des masses non européennes et moins auprès des Américains de souche européenne qui, en privé, rêvent de se porter vers d’autres Amériques, non encore découvertes. Dans un pays comme l’Amérique, écrit Baudrillard, « où l’énergie de la scène publique, c’est-à-dire l’énergie qui crée les mythes sociaux et les dogmes, est en train de disparaître graduellement, l’arène sociale devient obèse et monstrueuse ; elle se dilate comme un corps mammaire ou glandulaire. Jadis, cette scène publique s’illustrait par ses héros, aujourd’hui elle s’indexe sur ses handicapés, ses tarés, ses dégénérés, ses asociaux —tout cela dans un gigantesque effort de maternage thérapeutique » (7). Les marginalisés de la société et les marginaux tout court sont devenus des modèles, qui ont un rôle à jouer dans la postmodernité américaine. La « vérité politique » est d’ores et déjà devenue une thématique de la scène privée et émotionnelle, dans le sens où le membre d’une secte religieuse ou le porte-paroles d’un quelconque « lifestyle » (mode de vie) peut émettre sans frein ses jugements politiques nébuleux. Un toqué bénéficie d’autant de liberté de beugler publiquement ses opinions politiques que le professeur d’université. Il arrive qu’un serial killer devienne une superstar de la télévision, aussi bien avant qu’après ses bacchanales criminelles. En fait, comme la quête de diversité ne cesse de s’élargir, de nouveaux groupes sociaux, et, avec eux, de nouvelles demandes sociales émergent sans fin. Le stade thérapeutique de la post-Amérique, comme l’appelle Gottfried, est le système idéal pour étudier tous les comportements pathologiques.

 

En ces débuts du 21ème siècle, les postmodernistes aiment exhorter tout un chacun à remettre en question tous les paradigmes et tous les mythes politiques, mais, en même temps, ils adorent chérir leurs propres petites vérités étriquées ; notamment celles qui concerne l’une ou l’autre « vérité » de nature ethnique ou relevant des fameux « genders ». Ils continuent à se faire les avocats des programmes d’ « affirmative action » (= de « discrimination positive »), destinés à « visibiliser » les modes de vie non européens et à valoriser les narrations autres, généralement hostiles aux Blancs. Le terme « diversité » est devenu le mot magique des postmodernistes : c’est une diversité basée sur une légitimation négative, dans le sens où elle rejette toute diversité d’origine européenne en mettant l’accent sur la nature soi-disant mauvaise de l’interprétation que donne l’homme blanc de l’histoire.

 

Les narrations postmodernes ne peuvent être soumises à critique

 

Bien que la plupart des postmodernistes tentent de déconstruire la modernité en utilisant l’œuvre de Frédéric Nietzsche et en s’en servant de fil d’Ariane, ils persistent à soutenir leurs propres ordres du jour, micro-idéologiques et infra-politiques, basés sur la valorisation d’autres races et de modes de vie différents. Ce faisant, ils rejettent toute autre interprétation de la réalité, surtout les interprétations qui heurtent de front le mythe omniprésent de l’américanisme. L’approche intellectuelle sous-tendant leurs micro-vérités ou leurs micro-mythes ne peut être soumise à critique, en aucun circonstance. Leurs narrations demeurent les fondements sacro-saints de leur postmodernité. Pour l’essentiel, la narration de chaque tribu ou de chaque groupe apparaît comme un gros mensonge commis sur le mode horizontal, ce qui a pour effet que chacun de ces mensonges élimine la virulence d’un autre mensonge concurrent. Le protagoniste d’un mode de vie quelconque et bizarre, présent sur la scène américaine, sait pertinemment bien que sa narration relève de la fausse monnaie ; mais il doit faire semblant de raconter la vérité. Finalement, et dans le fond, le discours de la postmodernité est un grand discours de méta-mensonge, de méta-tromperie.

 

Si vous adoptez la logique de la postmodernité permissive et la micro-narration hyperréelle d’un zélote religieux ou d’un quelconque tribal de la planète postmoderne, indépendamment du fait qu’il souhaite ou non devenir l’hôte d’un talk show télévisé, ou devenir une star du porno, ou le porte-paroles imaginaire d’une guérilla, alors vous devez implicitement accepter également l’idée d’un « post-démocratie », d’un « post-libéralisme », d’une ère « post-holocaustique » et d’une « post-humanité » dans une post-Amérique. Comme toutes les grandes narrations de la modernité mourante peuvent être remises en question en toute liberté, on peut trouver plein de bonnes raisons pour remettre en question et pour envoyer aux orties la grande narration qui se trouve à la base de la démocratie américaine. En utilisant le même tour de passe-passe, on pourrait remettre au goût du jour en Amérique des penseurs, des auteurs et des hommes de science qui, depuis la fin de ce Sud antérieur à la guerre civile ou, plus nettement encore, depuis la fin de la seconde guerre mondiale en Europe, ont été houspillés dans l’oubli ou ont été dénoncés comme « racistes », bigots ou « fascistes » ou ont reçu l’un ou l’autre nom d’oiseau issu de la faune innombrable de tous ceux que l’on a campés comme exclus. Les auteurs postmodernes évitent toutefois avec prudence les thèmes qui ont été dûment tabouisés. Ils se rendent compte que dans la « société la plus libre qui soit », les mythes antifascistes et anti-antisémites doivent continuer à prospérer.

 

Tomislav SUNIC.

(extrait du livre « Homo Americanus – Child of the Postmodern Age », publié à compte d’auteur, 2007, ISBN 1-4196-5984-7, pp. 146 à 156 ; trad. franc. : Robert Steuckers). 

 

Notes :

(1)    Régis DEBRAY, Cours de médiologie générale, Gallimard, 1991, p. 303.

(2)    Gilles LIPOVETSKY/Sébastien CHARLES, Les temps hypermodernes, Grasset, 2004, p. 124.

(3)    Gilles LIPOVETSKY, L’ère du vide, Gallimard, 1983.

(4)    Christian RUBY, Le champ de bataille postmoderne, néo-moderne, L’Harmattan, 1990.

(5)    Gilles LIPOVETSKY/Sébastien CHARLES, Les temps hypermodernes, Grasset, 2004, p. 78.

(6)    Ibidem, p. 37.

(7)    Jean BAUDRILLARD, Les stratégies fatales, Grasset, 1983, p. 79. 

mardi, 23 février 2010

Soyons différentialistes!

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Soyons différentialistes!

 

Un professionnel du marketing me disait, il y a quelques semaines, la nécessité, dans notre monde mo­derne régi par la publicité, d'être identifié rapidement. Ainsi, on a accès aux médias parce que l'on est ca­talogué socialiste, gaulliste, nationaliste, écologiste, etc. Ce sont là des étiquettes commodes mais somme toute très réductrices. Cette règle actuelle, qui consiste à passer sous les fourches caudines de la “réduction”, nous sera appliquée que nous le voulions ou non. Dès lors, ce professionnel du marketing m'a demandé: vous, les synergétistes, comment vous définiriez-vous en un seul mot? C'est le terme “différentialiste” qui n'est apparu comme le plus proche de notre démarche.

 

Etre différentialiste, en effet, c'est être pour le respect des différences, des variétés, des couleurs, des traditions et donc hostile à toutes les tentatives d'uniformiser le globe, de peindre le monde en gris, de sérialiser outrancièrement les gestes de la vie quotidienne et les réflexes de la pensée.

 

Etre différentialiste, c'est être fondamentalement tolérant et non pas superficiellement tolérant comme se piquent de l'être beaucoup de vedettes du prêt-à-penser. Etre différentialiste, c'est respecter les forces numinales qui vivent en l'autre, de respecter les valeurs qui l'animent et s'incarnent en lui selon des mo­dalités différentes des nôtres.

 

Etre différentialiste, c'est donc être hostile à cette sérialisation planétaire à l'œuvre depuis plus d'un siècle, c'est refuser que tous les peuples soient soumis indistinctement aux mêmes règles dites univer­selles. C'est reconnaître à chaque communauté le droit de se développer selon ses rythmes propres. C'est être du côté de la loi de la différAnce, du processus de différAnce générateur de différEnces provi­soires, pour reprendre le vocabulaire de Derrida, c'est-à-dire du côté de la créativité, des mutations per­manentes et constructives, qui suscitent à chaque seconde des formes durables mais mortelles, mar­quées de cette finitude qui oblige à l'action et sans laquelle nos nerfs et nos neurones s'étioleraient, se laisseraient sans cesse aller aux délices de la mythique Capoue.

 

Le différentialisme est en fait une rébellion constante pour préserver ce travail permanent de différAnce à l'œuvre dans le monde, pour empêcher que de terribles simplificateurs ne le bétonnent, ne l'oblitèrent. Mais pour que différAnce il y ait, il faut que soient préservées les différEnces car c'est sur le socle de dif­férEnces en expansion ou en déclin que les hommes dynamiques ou réactifs créeront par différAnce les formes nouvelles, qui dureront le temps d'une splendide ou d'une discrète différEnce. Le différentialisme est donc une rébellion pour garder la liberté de se plonger dans le processus universel de différAnce, armé des vitalités ou des résidus d'une différEnce particulière, qui est nôtre, à laquelle le destin nous a liés.

 

Pour nous l'Europe sera différentialiste ou ne sera plus! Une Europe soustraite par les terribles simplifica­teurs au processus universel de différAnce, privée de ses différEnces vivaces ou abîmées, ne sera plus qu'une Europe étouffée par l'asphalte des idéologies-toutes-faites, une Europe qui n'aura plus la sou­plesse intellectuelle pour faire face adéquatement aux défis planétaires qui nous attendent. Nous ne voulons pas d'un modèle américain, de plaisirs sérialisés, nous voulons sans cesse de l'originalité, nos critères nous portent à aimer le cinéma ou la littérature d'un Chinois inconnu des pontifes médiatiques, d'un Latino-Américain brimé par sa bourgeoisie ou ses militaires aux ordres de Washington, d'un Africain qui n'a pas accès aux pla­teaux de Paris ou de New York, d'un Indien qui refuse les modes pour faire re­vi­vre en lui, à chaque ins­tant, la gloire de l'univers védique! Notre différentialisme est donc ouverture per­ma­nente au monde, com­bat inlassable contre les fermetures que veulent nous imposer la “political correc­tness” et le “nouvel ordre mondial”.

 

Mais cette propension à tout bétonner est aujourd'hui au pouvoir. Comme l'écrivait Pierre Drieu la Rochelle dans son Journal:  «J'ai mesuré l'effroyable décadence des esprits et des cœurs en Europe». Or depuis la rédaction de ce texte, la chute n'a fait que s'accélérer. C'est contre elle que nous avons voulu réagir en nous implantant partout en Europe: pour dialoguer, comparer nos héritages à ceux des autres, pour op­poser nos différEnces et participer ainsi au processus de différAnce, pour épauler ceux qui agissent en dehors des grands circuits commerciaux d'une culture homogénéisée, mise au pas, stérilisée.

 

Notre mouvement s'accroît, bon nombre d'initiatives s'adressent à nous pour œuvrer en commun: j'en veux pour preuve les associations allemandes ou italiennes qui vont participer conjointement à nos uni­versités d'été, qui nous fournissent des orateurs, qui travaillent chacune sur leur créneau, j'en veux pour preuve les journaux, grands et petits, qui s'adressent à nos cadres pour remplir leurs colonnes, j'en veux pour preuve ce théâtre de rue lombard qui pratique, de concert avec “Synergies”, le gramscisme dans sa version la plus pure. En effet, Antonio Gramsci pariait justement sur ce théâtre spontané des rues et des masses, animé par des “intellectuels organiques”, pour jeter bas le cléricalisme dominant à son époque. Berthold Brecht ne disait pas autre chose. La contestation radicale de cette fin de siècle est notre camp, notre seul camp. Nous ne luttons pas pour faire advenir en Europe une grande idéologie verrouillée, un iron heel  de nouvelle mouture, mais justement pour préserver ces spontanéités culturelles qui corrodent les raides certitudes des bigots de toutes espèces.

 

Gilbert SINCYR.

lundi, 22 février 2010

Bertrand de Jouvenel, analyse du pouvoir, dépassement du système: l'impact de la revue "Futuribles"

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998

Bertrand de Jouvenel, analyse du pouvoir, dépassement du système: l'impact de la revue Futuribles

Intervention de Laurent Schang lors de la 6ième Université d'été de "Synergies Européennes" (Valsugana/Trento, 1998)

 

BERTRAND_DE_JOUVENEL.jpgSingulier destin que celui de Bertrand de Jouvenel des Ursins, aristocrate républicain, non-conformiste des années de l'entre-deux-guerres et fédéraliste européen fondateur du Club de Rome, titulaire de chaires académiques à Paris mais aussi à Oxford, Manchester. Cambridge, Yale ou Berkeley, auteur d'une trentaine de traités théoriques en politologie et sciences économique et sociale, témoin et acteur de cinquante ans de haute diplomatie mondiale (tour à tour en tant qu'envoyé spécial puis conseiller expert auprès des principales instances dirigeantes, membre de la Commission des Comptes de la Nation et de la Commission au Plan), président-directeur général de la S.E.D.E.I.S. (Société d'Etude et de Documentation Economique, Industrielle et Sociale), directeur de revues de prospective dans lesquelles il mit en équation parmi les premiers la méthodologie de la prospection dans le domaine des ³sciences² sociales (l'art de la conjecture ou stochastique: sagesse du philosophe et prudence du politique) synthétisée en un néologisme, Futuribles, qui devait donner l'intitule d'une revue créée et dirigée par son fils, Hugues de Jouvenel, et qui sur la fin de ses jours dut intenter un procès à l'historien Zeev Sternhell, qui dans sa somme Ni Droite ni Gauche, I'idéologie fasciste en France,I'évoquait en une figure prédominante de l'intelligentsia pro-fasciste française. On se souvient que Denis de Rougemont, à qui bien des convergences doctrinales reliaient Bertrand de Jouvenel, se vit lui aussi obliger de traîner Bernard Henri Lévy devant les tribunaux pour les mêmes accusations publiées dans le livre L'idéologie française.

Singulier destin en effet pour ce fils né le 31 octobre 1903 de Henry de Jouvenel, sénateur et ambassadeur français radical-socialiste mais de tradition familiale catholique et royaliste, et de Sarah Claire Boas, fille d'un riche industriel juif et franc-maçon. Jean Mabire, dans sa bio-bibliographie Bertrand de Jouvenel, la mauvaise réputation, écrit: ³Curieux personnage qui a toujours été décalé, en avance ou en retard sur son temps, jamais en prise sur le réel, mais d'une singulière lucidité sur l'évolution du monde qu'il a regardé toute sa vie avec un mélange de scepticisme et d'enthousiasme, qui l'apparente par plus d'un trait à son vieil ami Emmanuel Berl².
 

De l'économie dirigée aux Futuribles

Solidement appuyé sur ses brillantes études de droit et sciences à l'Université de Paris, Bertrand de Jouvenel se passionne pour la politique internationale et devient reporter auprès de la Société des Nations, cependant qu'il s'attèle très tôt à relever et théoriser l'essence du pouvoir dans ses multiples expressions et échafaude sa pensée-monde. Ses reportages pour La République, un quotidien parisien, lui assure la reconnaissance de ses pairs. L 'Economie Dirigée, formule qu'il crée pour la circonstance, est publiée en 1928, Vers les Etats-Unis d'Europe en 1930. Pacifiste, ardent promoteur de la réconciliation franco-allemande, et conscient de l'étroitesse de la dichotomie Droite-Gauche, il constitue avec Pierre Andreu et Samy Béracha La Lutte des Jeunes, hebdomadaire non-conformiste à la pointe des idées planistes, personnalistes et fédéralistes où l'on peut lire Jean Prévost, Henri De Man ou Pierre Drieu la Rochelle. Peu de temps attiré par l'expérience prolétaro-fasciste du PPF, il s'en eloigne vite, et, résistant, il passe la frontière suisse en 1943, poursuivi par la Gestapo. Il reprendra après guerre ses fonctions de penseur et analyste, enseignera a l'I.N.S.E.A.D. de 1966 à 1973, à partir de quand il professera au C.E.D.E.P.. Professeur honoris causa de l'Université de Glasgow, il crée entre 1954 et 1974 deux périodiques: Analyse et Prévision, Chroniques d'Actualité et ¦uvre au sein du Comité International Futuribles et de I'Association Internationale Futuribles. Bertrand de Jouvenel s'éteint en 1987.

Mais, une fois évoqués ces quelques éléments d'éclaircissement biographique, nous n'avons encore rien dit, et tout reste à définir du monumental travail théorique, analytique et prospectif de Bertrand de Jouvenel. Ainsi sa pensée, englobant la totalité des connaissances issues des sciences humaines, doit-elle être abordée d'un point de vue politologique comme une tentative de mise en relation hiérarchique des trois partenaires de tout mouvement social: I'individu, la société, l'Etat/nation, intégrée dans la vaste perspective d'ensemble du devenir éternel de la civilisation. ³Quelle Europe voulons-nous?², cette question essentielle doit être comprise comme le fil conducteur de sa pensée critique.


L'Etat, Minotaure absolutiste

Guidé par sa volonté de puissance, I'Européen a conquis la planète, et l'histoire de l'Occident est devenue l'histoire du monde.. Comment donc expliquer ³la balkanisation² de l'Europe post-1945, son écartèlement entre les puissances asiatique et américaine, le dépérissement du citoyen libre à la base de la philosophie européenne en producteur/consommateur; comment mesurer, enfin, dans l'optique de dégagement des futurs possibles (sur lesquels nous reviendrons) la dégénérescence des structures sociales dans leur articulation organique en un Tout mécanique parasité par l'Etat, ³Minotaure² absolutiste auquel l'individu-citoyen est jeté en pâture, cellule impuissante devant la mégamachine statocratique? La réponse, pour Bertrand de Jouvenel, se trouve dans cette même volonté de puissance. Pour mobiliser les énergies et rationaliser cet appétit insatiable de supplantation de la nature par la culture, la civilisation s'est dotée de l'arme idéologique, et tout le travail des temps modernes consistera à renforcer la souveraineté nationale et l'autorité illimitée du souverain au détriment du citoyen. Ce que le Pouvoir, minoritaire, exige, la majorité nationale doit s'y soumettre.

Au centre du système, la démocratie, qui, indissociable du principe national, consacre non pas le règne de la personne et de la communauté, expression la plus directe du génie européen, mais celui d'un ³self-government² autocratique, prétendant exprimer la volonté majoritaire et modeler le genre de vie de tous ses ressortissants. Le droit se substitue à l'esprit, la liberté devient axiome.
Avec le gonflement de l'Etat, le Pouvoir s'est affirmé, droit illimité de commander au nom du Tout social par la destruction progressive (le mot a son importance) de tous les corps intermédiaires. Le passage de la monarchie à la démocratie, considéré comme un progrès dans le gouvernement des hommes, est davantage progrès dans le développement des instruments de coercition: centralisation, réglementation, absolutisme. Avec la démocratie, le serpent se mord la queue et la civilisation, de puissance, devient
impuissante, privée de ses ressources légitimes que sont la spiritualité, I'esprit d'entreprise ou l'association libre.

Que le pouvoir soit toujours égal à lui-même, indépendamment des expressions idéologiques dont il se pourvoit, seulement mené par son égoïsme ontologique et usant des forces nationales à cette fin, ne fait aucun doute pour Bertrand de Jouvenel dont l'¦uvre, magistrale et trop ignorée, peut se décomposer comme suit:
-connaissance de la politologie;
-des sociétés aristocratiques à l'avènement de la démocratie, le triomphe du Pouvoir;
-³Quelle Europe?² Thésée contre le Minotaure;
Bertrand de Jouvenel, analyse du pouvoir et dépassement du système:
 

I. Connaissance de la politologie:

La science politique est une discipline hybride,  ‹³instaurée par des immigrants de la philosophie, de la théologie, du droit et, plus tard, de la sociologie et de l'économie, chaque groupe apportant sa propre boîte d'outils et s'en servant²,‹  qui présente deux aspects complémentaires: l'efficacité, qu'incarne Bonaparte sur le pont d'Arcole, debout, prêt à charger, entraîneur exalté; la précision, magnifiée par le roi Saint Louis, assis, serein, conciliateur. (cf. De la Politique Pure, v. aussi De la Souveraineté).

Dans ses Lettres sur l'esprit de patriotisme (Letters on the Spirit of Patriotism, 1926), Bolingbroke indique quatre déterminants du politique:
1) - I'objectif patriotique;
2) - une grande stratégie mise en ¦uvre pour atteindre son but;
3) - une série de man¦uvres actives et souples destinées à mener à bien cette stratégie;
4) - le plaisir intense attaché à son exécution.
 

Dix constantes   invariables en sciences politiques

Cette conception sportive du politique, Bertrand de Jouvenel la reprend mais pour en atténuer sensiblement le caractère de noblesse: ³L'observation nous permet, malheureusement, de craindre que le plaisir de manipuler les hommes ne soit goûté pour lui-même, alors même que l'opération ne s'inspire d'aucun but élevé, ne se consacre à aucune fin salutaire²..
Jouvenel dénombre dix constantes invariables relatives aux sciences politiques:
- I'élément identifiable le plus petit dans tout évènement politique, c'est l'homme faisant agir l'homme.
- est politique, tout ce qui est accompli dans le registre ³du champ social pour entraîner d'autres hommes à la poursuite de quelque dessein chéri par l'auteur². De fait, ³la théorie politique est collection de théories individuelles qui figurent côte à côte, chacune d'elles étant impénétrable à l'apport de nouvelles observations et à l'introduction de nouvelles théories² (richesse des théories normatives et pauvreté en théories représentatives).
- faisant sienne la définition de Leibniz, Bertrand de Jouvenel considère la société comme ³complexe d'individus réunis par un modèle de comportement où l'individu exerce sa liberté².
- il convient de distinguer l' eventus opération préparée et contrôlée tout au long de son déroulement, et l' eventum, sans auteur identifiable, rencontre d'enchaînements créant un phénomène incontrôlable.
- I'Etat comporte dans sa définition deux sens antagonistes: une société organisée avec un gouvernement autonome ou chacun est membre de l'Etat; un appareil qui gouverne hors des membres de cette société.
- le problème politique, du ressort des sciences humaines, n'est pas soluble, ³il peut être réglé, ce qui n'est pas la même chose²,
- pour la même raison, ³il est particulièrement hasardeux de supposer que dans la politique les hommes agissent d'une manière rationnelle².
- I'essence même du Pouvoir tient dans sa dualité, égo-ïsme et socialisme, car le principe égo-ïste fournit au Pouvoir la vigueur de ses fonctions, le socialisme attestant la préservation de l'ascendant des dirigeants.
- par conséquent le pouvoir ne se maintient que par sa vertu à préserver l'obéissance des citoyens, et leur croyance dans sa légitimité.
- les trois valeurs cardinales de tout Pouvoir étant: légitimité, force, bienfaisance.
Il n'existe qu'une finalité au Pouvoir, se maintenir en toujours croissant. Pour ce faire, I'appareil d'Etat use de ses services rendus. Le commandement qui, en dehors de tout altruisme, se prend pour fin, est amené à veiller sur le bien commun, ayant besoin du consentement des forces sociales pour assurer son hégémonie parasitaire. Dans son Pseudo Alcibiade, dialogue entre Socrate et Alcibiade inspiré de Platon, Jouvenel fait dire à Alcibiade ces propos qui résonnent comme une profession de foi:  ³Pour le politicien qui désire obtenir d'un grand nombre de gens et dans un bref délai une certaine décision ou action, il faut absolument faire appel à l'opinion actuelle que les gens ont du bien, accepter cette opinion telle qu'elle est; et c'est elle, précisément que tu as pour but de changer. Ce que les gens considèrent aujourd'hui comme le bien, voilà la donnée sur laquelle se fonde le politicien, celle qu'il emploie pour faire agir les gens comme il le désire. Voilà la façon dont le jeu se joue².
 

Privation des libertés, recul des corps intermédaires

Or, possédant désormais les rouages de l'Etat, les grands dossiers, les représentants du Pouvoir se convainquent de leur souveraineté; de délégués du souverain, ils se muent en ³maîtres du souverain² (cf.. Proudhon, in Théories du mouvement constitutionnel au XIXième siècle). De cette situation se nourrit le dualisme du Pouvoir. Sa croissance apparaît moins aux individus comme une entreprise continuelle de privation des libertés que comme un facteur de libération des contraintes sociales. Ainsi le progrès étatique induit-il le développement de l'individualisme, et vice-versa, la nation livrée au Pouvoir, niant systématiquement toute distinction entre ses intérêts et ceux propres de la société civile.

Comment le progrès de l'intrusion étatique a-t-il coïncidé avec le nivellement de la Nation? Le fait que ce travail de sape soit dans la destinée même de l'Etat ne suffit pas à expliquer ce recul des corps intermédiaires. La raison profonde est à rechercher dans la crise ouverte par le rationalisme, philosophie du progrès qui a accompagné à partir du XVIlième siècle la technicisation de l'Occident. Déjà les rêveries platoniciennes, héritières d'utopies plus anciennes encore, avaient entretenu dans la pensée antique la confusion sur un gouvernement attaché en tout temps aux seules aspirations des gouvernés. Cette dangereuse chimère, méconnaissant la nature humaine, a entravé la constitution d'une science politique véritable et engendré toutes les révolutions qui menacent périodiquement la civilisation. A l'origine du processus, le Contrat Social, vue de l'esprit qui réduit la société à l'état d'un club de célibataires et oublie la nature fondamentalement communautaire de l'Homme, dépendant du groupe (avant d'être homo sapiens, l'individu est d'abord homo docilis), et agissant ³dans un environnement structuré²..

De l'atomisation ainsi provoquée s'impose l'obéissance au Pouvoir, la croyance dans sa légitimité, l'espoir dans sa bienfaisance. La soumission à la souveraineté, ³droit de commander en dernier ressort de la société², introduit la suprématie arbitraire d'un représentant ou groupe de représentants, titulaire de la volonté générale, laquelle est censée participer au débat à travers l'opinion, coquille vide, majorité floue n'obéissant qu'aux passions du moment, guidée par la propagande, incapable de dégager une ligne politique cohérente: ³De simples sentiments ne peuvent rien fonder en politique. Il y faut une pensée, consciente des éléments du problème, qui connaisse les limites dans lesquelles il est susceptible de solution, et les conditions auxquelles il peut être résolu² (extrait de Quelle Europe?). La partitocratie n'agit pas autrement, qui s'adresse non à l'intelligence du militant, mais à son partiotisme prosélyte, sa fidélité servile au centralisme démocratique du parti.
 

Le tandem police/bureaucratie

Pour avoir retiré au droit sa force transcendante, le rationalisme a condamné la législation à n'être plus que convention utilitariste, dénuée de morale, seule expression de la versatile volonté humaine. La Raison érigée en dogme a inauguré l'ère des despotes éclairés, sceptiques, incrédules, et convaincus de devoir corriger le peuple pour le conformer à la Raison au moyen du tandem police bureaucratie.

Ainsi, à chaque Pouvoir nouveau correspond une notion du Bien, du Vrai, du Juste aussi éphémère que lui et indéfiniment modifiable au gré des opinions de l'époque. Rien ne retient plus la machine dès lors, puisque, si l'autorité doit se conformer au droit, le droit n'est que l'ensemble des règles édictées par elle, sous couvert de représentation populaire. L'autorité législatrice ne peut qu'être juste, par définition.
 

Mise en place de la démocratie totalitaire

D'espace de liberté, le droit devient à son tour sujet du Pouvoir; I'Homme, de réalité physique et spirituelle, devient ³légal².. Consécration du monisme démocratique, ³l'exécrable unité² de Bainville, la centralisation ne connaît plus de limite: ³anéantissement des pouvoirs locaux devant le pouvoir central, développement des exigences du pouvoir central à l'égard des sujets et rassemblement entre ses mains des moyens d'action² (Du Pouvoir). Son contrôle est total: direction de l'économie nationale, direction de la monnaie nationale, contrôle du commerce extérieur, contrôle des changes, monopole de l'éducation, mainmise sur l'information.

La confusion démocratique du pouvoir et de la liberté du peuple est à la source du principe despotique moderne. Armé de l'anonymat que lui confère son identification au peuple, le Pouvoir n'en écrase que mieux l'individu sous le poids de la totalité, opprime l'intérêt particulier au nom de l'intérêt général. Le Tout veut, le Tout agit, le régent a l'autorité du Tout. La démocratie totalitaire est en place.  On le voit, la politologie selon Jouvenel ne tient aucun compte de l'armature idéologique des régimes: ³Les discussions sur la démocratie sont frappées de nullité car on ne sait pas de quoi on parle². Le discours omniprésent des philosophes camoufle à peine leur travail de justification des politiciens en place. Remontant à l'essence du Pouvoir, Jouvenel délivre la science politique de son fardeau de concepts et s'astreint à ne traiter que de Realpolitik au sens le plus pur du terme.

Et où la démocratie entend la marche de l'Histoire au sens marxiste comme un inexorable progrès vers la libération de l'individu aliéné, Jouvenel dresse le panorama de deux mille ans de régression planifiée.


 

II. Des sociétés aristocratiques à l'avènement de la démocratie, le triomphe du Pouvoir

Si la grande mutation de notre civilisation peut être datée au tournant des XVlIIième et XlXième siècles avec l'acquisition toujours accélérée de forces nouvelles qui dégagèrent l'Homme de l'emprise du Créateur, la marche du Pouvoir, elle, lui est bien antérieure, et correspond à l'émergence même d'une autorité constituée et légitimée au sein des sociétés les plus primitives.

D'origine gérontocratique et ritualiste, le Pouvoir primitif, par essence conservateur, est supplanté par l'essor de la classe guerrière, qui répond au besoin d'ébranlement social caractéristique des périodes de trouble.

Le déplacement d'influence observé engendre une nouvelle élite, l'aristocratie regroupée en une pyramide gentilice bientôt mutée en ploutocratie au fil des conquêtes. Noblesse devient synonyme de richesse du temps de la Grèce homérique.

Parallèlement, I'expansion nécessite la nomination d'un chef à l'autorité absolue, concédée par les autres chefs de gentes regroupés dans le Sénat. L'histoire conservera le souvenir de l'lmperium extra muros de Rome, où la fonction politique du dux s'associe au caractère religieux du Rex. Cette dualité historique du pouvoir royal, ³symbole de la communauté (...) sa force cohésive, sa vertu mainteneuse (...) il est aussi ambition pour soi (...) volonté de puissance, utilisation des ressources nationales pour le prestige et l'aventure².
 

Un appareil stable et permanent

Le roi, ainsi nanti, ne tarde pas à s'opposer aux gentes dont la puissance propre l'oblige à composer et pour acquérir l'autorité directe, indiscutable qui lui fait défaut, il se tourne vers les couches plébéiennes. L'appui de la plèbe transforme la royauté en monarchie, comme Alexandre le Grand soutenu par les Perses contre les chefs macédoniens.. Bureaucratie, armée, police, impôt construisent un appareil stable et permanent qui jamais plus ne sera démenti: I'Etat.

L'apport du christianisme à la souveraineté, en lui conférant un droit divin, selon la formule de Saint Paul: ³Tout Pouvoir vient de Dieu², avertit le roi qu'il est serviteur des serviteurs de Dieu, protecteur et non propriétaire du peuple. Le système médiéval fondé sur la Loi divine et la Coutume populaire incite le Pouvoir pendant de longs siècles à la modération. Saint Paul dans ses épîtres ne se réfère-t-il pas à la tradition juridique romaine, laquelle place la souveraineté dans les mains du Peuple!

Il faudra la crise de la Réforme et les plaidoyers de Luther en faveur du pouvoir temporel pour que le Pouvoir se défasse de la tutelle papale et que soit introduite la remise en cause de l'intercession de l'Eglise entre Dieu et le Roi. Au siècle suivant Hobbes déduira le droit illuminé du Pouvoir non de la souveraineté divine mais de la souveraineté du peuple. A sa suite, Spinoza dans son Traité théologico-politique rompt définitivement avec la tradition augustinienne et annonce le souverain despote. Dieu terrestre au pouvoir seulement limité par le droit accordé aux sujets. ³Est esclave celui qui obéit au seul intérêt d'un maître. Est sujet celui qui obéit aux ordres dans son intérêt². Rousseau et Kant assignent pareillement un droit illimité au commandement, mandaté par le peuple empêché de l'exercer par lui-même. Mais, à l'opposé de Montesquieu, il méconnaît la représentativité parlementaire: ³La Souveraineté ne peut être représentée (...) les députés du peuple ne sont donc et ne peuvent pas être représentants (...) Le peuple anglais pense être libre: il se trompe fort; il ne l'est que durant l'élection des membres du Parlement, sitôt qu'ils sont élus, il est esclave, il n'est rien². (in Du Contrat Social).
 

L'Occident: un processus ininterrompu de croissance étatique

L'Occident, depuis sa segmentation en royaumes rivaux, a connu un processus ininterrompu de croissance étatique. La volonté d'agrandissements, la soif d'expansion explique l'organisation d'infrastructures toujours plus efficaces. Les périls extérieurs ont permis de démultiplier les droits de l'Etat se présentant comme étroitement lié aux intérêts du peuple. ³Ainsi la guerre accouche-t-elle de l'absolutisme², ce que magnifia Richelieu: ³ne permettre aucune division à l'intérieur, les entretenir toutes à l'extérieur, ne point souffrir de partisans de l'étranger mais avoir partout les siens².

La Nation se forme autour du Trône. Le Roi incarne les peuples agrégés en un Tout à la seule validité psychologique. Aussi la Révolution ne doit-elle être envisagée qu'en tant que rénovation et renforcement du Pouvoir de la part d'un corps social qui, de spectateur de la monarchie, entend s'approprier le commandement. Bertrand de Jouvenel écrit ³le trône n'a pas été renversé, mais le Tout, le personnage Nation, est montré sur le trône². Et d'ajouter: ³Qu'on cesse donc d'y saluer des réactions de l'esprit de liberté contre un pouvoir oppresseur. Elles le sont si peu qu'on ne peut citer aucune qui ait renversé un despote véritable². La fonction historique de la Révolution n'est pas à rechercher dans la punition morale du despote mais bien plus dans la sanction biologique de son impuissance.

Et dans ce plein essor du sentiment national, Hegel théorise le premier une doctrine cohérente du phénomène nouveau qu'est l'Etat-Nation, ³ce qui commande souverainement à nous et à quoi nous sommes incorporés². Hegel voit dans l'Etat la conception à venir de la société, être collectif, infiniment plus important que les individus, au pouvoir bureaucratique et savant, à la volonté qu'il qualifie non arbitraire mais connaissance de ce qui doit être et doit pousser le peuple dans le but que lui assigne la Raison.
 

Suffrage universel, méritocratie, droits del 'Homme

L'organicisme de Spencer et Durkheim, le positivisme de Comte et les théories transformistes de Lamarck et Darwin, héritiers de l'enthousiasme industriel du XlXième siècle, iront tous dans le sens de l'accroissement indéfini des fonctions et de l'appareil gouvernemental.

Pour se maintenir, le Pouvoir, dont les dimensions actuelle ont pris, avec le développement des moyens de communication, une importance inégalée, dispose de trois armes imparables:
- le recours au suffrage universel, ce qu'avaient déjà compris Napoléon, Bismarck et Disraeli qui consacre le césarisme, la large classe des dépendants se reposant sur l'omnipotence étatique contre l'aristocratie bourgeoise, puissance financière mais sans assise populaire;
- la ³méritocratie², très relatif renouvellement des élites qui facilite beaucoup l'extension du pouvoir en offrant à tous la perspective d'une participation au Pouvoir, complicité spécifique à la démocratie;
- les Droits de l'Homme, qui répandent l'illusion de la garantie des intérêts absolus de l'individu contre la société convention collective, mais que contourne aisément le Pouvoir, qui jouit du prestige de la Souveraineté, et de la collusion tacite liant l'individualisme social avec la philosophie politique absolutiste d'un gouvernement se réclamant des masses.

Le triomphe de la démocratie dans la cohésion opérée entre l'Etat et la Nation prend une tournure téléologique. Bertrand de Jouvenel parle d' ³incubation de la tyrannie².
 

III. Quelle Europe? Thésée contre le Minotaure.

³L'Etat moderne n'est autre chose que le roi des derniers siècles, qui continue triomphalement son labeur acharne, étouffant toutes les libertés locales, nivelant sans relâche, et uniformisant². Régulateur impérieux de toutes les existences individuelles, il ne protège pas les droits locaux, particuliers, mais réalise une ³idée², I'idée nationale et sociale mêlée. Le paradis plané. Le partisanisme agressif, I'étatisme spoliateur, le nationalisme fiévreux, I'idéalisme cynique concourent à son succès. Le pouvoir de faire concentré, ne reste plus à l'individu que celui de consommer, fonction irresponsable, le pouvoir d'achat, qui porte toutefois en germe le ferment possible d'une révolte, provoquée par la paupérisation et l'inégalité quantitative croissante des pouvoirs de consommation, derrière quoi pourrait se profiler de nouvelles revendications sociales, morales et politiques. Quelle ligne adopter? Bertrand de Jouvenel postule cinq fronts à établir en vue de restaurer la civilisation:
- nier et ¦uvrer au démantèlement de l'Etat national unitaire, monstrueuse concentration de pouvoir et unique impulsion à toutes les forces et toutes les vies de la société. ³Le mal serait en voie de guérison si l'Etat cessait d'être un appareil à travers lequel une volonté générale dicte à chacun ce qu'il doit croire, faire et sentir².

- supprimer la dichotomie producteur-citoyen, renouer avec l'antique conception de l'homme libre, I'habitant, le citoyen accompli dans sa capacité à s'affirmer comme personne, comme Etre et Devenir.

- procéder à l'étude critique des penseurs à l'origine de la Civilisation de Puissance: Hobbes, Rousseau, Kant, Bentham, Helvétius et Destutt de Tracy, conceptions fausses et mortelles de la société.

- reprendre conscience que la nation n'est pas sentiment d'association mais d'appartenance commune à une foi, une morale unanimement respectées. Un droit inviolable parce que hors d'atteinte du Pouvoir.

- instaurer une nouvelle charte des peuples, reposant sur les particularismes linguistiques, culturels, traditionnels et coutumiers. Un libertarisme féodal que Jouvenel traduit par ces mots ³le traditionalisme, I'esprit conservateur des gloires et des coutumes propres au groupe, une fierté de corps qui préfère des conduites spécifiques à d'autres qu'on lui propose comme plus rationnelles, une adhésion affective à la localité plutôt que le dévouement à l'idéologie qui transcende le cadre géographique².


 

Un libertarisme de type féodal

Une position non-conformiste éminemment proche du personnalisme, qui met l'accent sur la personne humaine, le fédéralisme, la liberté d'association spontanée, I'appartenance à la communauté contre l'omnipotence du Pouvoir. ³Il faut des hommes internationaux par croyance, comme étaient les clercs du Moyen Age² (in Quelle Europe?). Jouvenel opte pour une autorité internationale ayant une prise morale directe sur les peuples, gouvernement des gouvernements, ³ultramontanisme² fédéral à l'échelle européenne sur le modèle de la ³République chrétienne².

Nécessité historique, ce super-gouvernement européen n'aura aucune prétention à l'universalisme du type O.N.U., dont la vanité ne lui échappe pas: ³Ne commet-on pas une erreur lorsqu'on préfère un édifice universel et théorique, à un édifice plus limité, mais réalisable² (in: Quelle Europe?). C'est de la solidarité des instincts, de l'union des sentiments, du respect commun des coutumes particulières que fécondera la résistance à l'hégémonie nationale étatique, ultime rempart de la civilisation européenne.

Ainsi le régime de l'anonymat consacre-t-il non l'ère libertaire des philosophes mais l'ère sécuritaire des tyrans. L'acquisition de droits sociaux s'est accompagnée de l'abandon correspondant des droits individuels les plus élémentaires. L'envahissement de la protection sociale a pris une telle arnpleur qu'il réclame à son tour qu'on s'en protège. Si l'Utile a pris le pas sur le Bien, la faute en revient d'abord aux philosophes modernes.

³Où est donc votre fleuve que je m'y désaltère? Mirages. Il faut retourner à Aristote, Saint Thomas, Montesquieu. Voilà du tangible et rien d'eux n'est inactuel². Sachons, nous aussi nous montrer réceptifs au message anti-étatique et communautariste de Bertrand de Jouvenel. Pour que vive l'Homme Européen, responsable, citoyen, libre!


* * *

 

Avant de clore cet exposé nécessairement succinct parce que synthèse d'une ¦uvre qui s'est voulue analytique, il convient de parfaire notre connaissance de Bertrand de Jouvenel par quelques éclaircissements sur le concept des Futuribles. Plutôt qu'un historique de la revue du même nom, dirigée par son fils, Hugues de Jouvenel, voyons ensemble ce que recouvre ce terme: ³Futuribles² est un néologisme repris par Bertrand de Jouvenel à un jésuite du XVIième siècle, Molina, théologien espagnol, contraction des mots ³futurs² et ³possibles². Il désigne les différents avenirs possibles selon les différentes manières d'agir. En ce sens, Bertrand de Jouvenel publie en 1964 un essai intitulé L'art de la conjecture, traité théorique où Jouvenel expose le procédé employé par lui dans la réalisation, depuis 1961, de travaux de prospective sur les modifications structurelles du système social et politique. Prévoyance comme action de l'esprit qui considère ce qui peut advenir et non futurologie (pseudo-science proposée par Ossip Flechtheim en 1949 sur la base de la connaissance), ce à quoi il oppose le principe de la ³conjecture raisonnée².
 

Les péchés mortels de la politique

Au sortir de 1945, Jouvenel jetait les bases de cet aspect proleptique de sa réflexion: ³Si terribles qu'aient été leurs conséquences, ces erreurs sont moins coupables dans leur principe que les fautes, véritables péchés mortels de la politique, qui sont causées par l'impuissance des dirigeants à calculer les répercussions lointaines de leurs actes, par le mépris des règles établies et des maximes avérées de l'art de gouverner²..

En préface de L'art de la conjecture, Bertrand de Jouvenel ajoute: "Susciter ou stimuler des efforts de prévision sociale et surtout politique, tel est le propos de l'entreprise Futuribles, formée, grâce à l'appui de la Fondation Ford, par un petit groupe offrant un éventail de nationalités et de spécialités, assemblé par une commune conviction que les sciences sociales doivent s'orienter vers l'avenir (...) Ainsi l'avenir est pour l'homme, en tant que sujet agissant, domaine de liberté et de puissance, et pour l'homme, en tant que sujet connaissant, domaine d'incertitude. Il est domaine de liberté parce que je suis libre de concevoir ce qui n'est pas, pourvu que je le situe dans l'avenir; j'ai quelque pouvoir de valider ce que j'ai conçu (...). Et même il est notre seul domaine de puissance, car nous ne pouvons agir que sur l'avenir: et le sentiment que nous avons de notre capacité d'agir appelle la notion d'un domaine ³agissable²".
 

Les quatre règles des "Futuribles"

 

Quatre règles fondent la démarche:
1) sans représentation, pas d'action.
2) l'action suivie, systématique, s'adresse à la validation d'une représentation projetée dans l'avenir.
3) l'affirmation du futur vaut toutes choses égales d'ailleurs, selon la vigueur de l'intention.
4) l'homme qui agit, avec une intention soutenue, pour réaliser son projet, est créateur d'avenir.

Depuis, colloques, séminaires, projets soumis à la D.A.T.A.R. (Délégation à l'Aménagement du Territoire et à l'Action Régionale) se sont accumulés, que renforcent depuis 1974 la revue Futuribles et la publication régulière d'actes et de livres. ³A mesure que l'avenir devient plus flou et offre une marge de liberté plus grande à nos actions² (cf. La Revue des revues, n°20), Futuribles poursuit le travail initié par Bertrand de Jouvenel et conserve en ligne de mire la mise en garde de Martin Heidegger (in: Le Tournant): Ne pas ³prendre purement et simplement en chasse le futur pour en prévoir et calculer le contour - ce qui revient à faire d'un avenir voilé la simple rallonge d'un présent à peine pensé².
 

dimanche, 21 février 2010

La leçon du philosophe et sociologue Hans Freyer

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

La leçon du sociologue et philosophe Hans Freyer

Ex: http://vouloir.hautetfort.com/

 


freyer.jpgPour Hans Freyer (1887-1969), sociologue allemand néo-conservateur (« jeune-conservateur », jungkonservativ) qui sort du purgatoire où l'on avait fourré tous ceux qui ne singeaient pas les manies de l'École de Francfort ou ne paraphrasaient pas Saint Habermas, la virtù de Machiavel n'est pas une "vertu" ou une qualité statique mais une force qui n'attend qu'une chose : se déployer dans l'aire concrète de la Cité, dans l'épaisseur de l'histoire et du politique. Fondateur de l’École de Leipzig, d’où seront issus les meilleurs cadres de la sociologie historique de Weimar (il est parmi les fondateurs, avec Werner Conze, de la nouvelle histoire sociale allemande), puis de la sociologie nazie et une grande partie des sociologues conservateurs allemands d’après-Guerre (not. Helmuth Schelsky), ce sociologue a une solide formation de philosophe, dont l’ouvrage fondateur, Theorie des objektiven Geistes (1928) qui poursuit les pensées de Hegel et de Wilhelm Dilthey, va préparer le projet sociologique, not. dans son ouvrage Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft (1930), d’une « révolution de droite » qui prendrait acte de l’anomie de la société industrielle et de l’échec de la lutte des classes, en lui opposant un État autoritaire. Ayant pris ses distances avec le nazisme – il sera professeur à Budapest entre 1941 et 1945 – il est l’exemple même du penseur conservateur, du théoricien de cette Révolution conservatrice qui aura grand mal à se justifier au moment de la dénazification. Il n’en est pas moins l’un des premiers sociologues professionnels qui, après la mort de Max Weber et de Georg Simmel, dont il ne cesse de se nourrir de manière critique, va lancer des projets innovateurs en sociologie industrielle, des organisations et de l’administration publique.

 

Victor Leemans, qui avant-guerre avec Raymond Aron introduisit en Belgique et en France les grands noms de la sociologie allemande, écrivait, à propos de Hans Freyer, dans son Inleiding tot de sociologie (Introduction à la sociologie, 1938) :

« Pour Freyer, toute sociologie est nécessairement "sociologie politique". Ses concepts sont toujours compénétrés d'un contenu historique et désignent des structures particulières de la réalité. Dans la mesure où la sociologie se limite à définir les principaux concepts structurels de la vie sociale, elle doit ipso facto s'obliger à prendre le pouls du temps. Elle doit d'autant plus clairement nous révéler les successions séquentielles irréversibles où se situent ces concepts et y inclure les éléments de changement, Les catégories sont dès lors telles : communauté, ville, état (Stand), État (Staat), etc., tous maillons dans une chaîne processuelle concrète et réelle. Ces concepts ne sont pas des idéaltypes abstraits mais des réalités liées au temps. (...)

Selon Freyer, aucune sociologie n'est donc pensable qui ne débouche pas dans la connaissance de la réalité contemporaine. À ce concept de réalité ne s'attache pas seulement la connaissance des structures immédiatement perceptibles mais aussi et surtout la connaissance des volontés de maintien ou de transformation qui se manifestent en leur sein. La connaissance sociologique opte nécessairement pour une direction déterminée découlant d'une connaissance de la Realdialektik (dialectique réalitaire [ou dialectique réelle, c'est-à-dire non simplement discursive])... ».

 

Une sociologie de l'homme total

 

­Malgré cette définition courte de l'œuvre de Freyer, définition qui veut souligner le recours au concret postulé par le sociologue allemand, nous avons l'impression de nous trouver face à un édifice conceptuel horriblement abstrait, détaché de toute concrétude historique. Ce malaise, qui nous saisit lorsque nous sommes mis en présence de l'appareil conceptuel forgé par Freyer, doit pourtant disparaître si l'on fait l'effort de situer ce sociologue dans l'histoire des idées politiques. Avec les romantiques, les jeunes hégéliens (Junghegelianer), Feuerbach et Karl Marx, le XIXe siècle montre qu'il souhaite abandonner définitivement l'homme des humanistes, cet homme perçu comme figure universelle, comme espèce générale dépouillée de sa dimension historico-concrète. Désormais, sous l'influence et les coups de boutoir de ces philosophies concrètes, l'épaisseur historique sera rendue à l'homme : on le percevra comme seigneur féodal, comme serf, bourgeois ou prolétaire.

 

Une « objectivité » qui doit mobiliser l'homme d'action

 

Mais ces hégéliens et marxistes, qui dépassent résolument l'idéalisme fixiste de l'humanisme antérieur au XlXe, demeurent mécaniquement enfermés dans la vision de l'homo œconomicus et n'explorent que chichement les autres domaines où l'homme s'exprime. À cette négligence des matérialistes marxistes répond l'hyper-mépris des économismes d'un Wagner ou d'un Schopenhauer, d'un Nietzsche ou d'un Jakob Burckhardt. L'homme total n'est appréhendé ni chez les uns ni chez les autres. Pour Freyer, les essayistes et polémistes anglais Carlyle et John Ruskin nous ont davantage indi­qué une issue pour échapper à ce rabougrissement de l'homme. Leurs préoccupations ne les entraînaient pas vers des empyrées légendaires, néo-idéalistes ou spiritualistes mais les amenaient à réfléchir sur les moyens de dépasser l'homme capitaliste, de restituer une harmonie entre le travail et la Vie, entre le travail et la création intellectuelle ou artistique.

Dans deux postfaces aux travaux de Freyer sur Machiavel (ou sur l'Anti-Machiavel de Frédéric Il de Prusse), Elfriede Üner nous explique comment fonctionne concrètement la sociologie de Freyer, qui cherche, au-delà de l'abstractionnisme matérialiste marxiste et de l'abstractionnisme humaniste pré-mar­xiste, à restaurer l'homme total. Pour parvenir à cette tâche, la sociologie et le sociologue ne peuvent se contenter de décrire des faits sociaux passés ou présents, mais doivent forger des images mobilisatrices ti­rées du passé et adaptées au présent, images­ qui correspondent à une volition déter­minée, à une volition cherchant à construire un avenir solide pour la Cité.

La méthode de Freyer repose au départ, écrit Elfriede Üner, sur la théorie de "l'esprit objectif" (Theorie des objektiven Geistes). Cette théorie recense les faits mais, simultanément, les coagule en un programme revendicateur et prophétique, indiquant au peuple politique la voie pour sortir de sa misère actuelle. Le sociologue ne saurait donc être, à une époque où le peuple cherche de nouvelles for­mes politiques, un savant qui fuit la réalité concrète pour se réfugier dans le passé : « Qu'il se fasse alors historien ou qu'il se retire sur une île déserte ! », ironisera Freyer. Cette parole d'ironie et d'amertume est réellement un camouflet à la démarche "muséifiante" que bon nombre de sociologues "en chambre" ne cessent de poser.

Les écrits de sociologie politique doivent donc receler une dimension expressionniste, englobant des appels enflammés à l'action. Ces appels aident à forger le futur, comme les appels de Machiavel et de Fichte ont contribué à l'inauguration d'époques historiques nouvelles. Fichte parlait d'un « devoir d'action » (Pflicht zur Tat). Freyer ajoutera l'idée d'un « droit d'action » (Recht zur Tat). « Devoir d'action » et « droit d'action » forment l'épine dorsale d'une doctrine d'éthique poli­tique (Sittenlehre). L'activiste, dans cette optique, doit vouloir construire le futur de sa Cité. Anticipation constructive et audace activiste immergent le sociologue et l'acteur politique dans le flot du devenir historique. L'activiste, dans ce bain de faits bruts, doit savoir utiliser à 100 % les potentialités qui s'offrent à lui. Cette audacieuse mobilisation totale d'énergie, dans les dangers et les opportunités du devenir, face aux aléas, constitue un "acte éthique".

 

Une immersion complète dans le flot de l'histoire

 

L'éthique politique ne découle pas de normes morales abstraites mais d'un agir fécond dans la mouvance du réel, d'une immersion complète dans le flot de l'histoire. L'éthique freyerienne est donc "réalitaire et acceptante". Agir et décider (entscheiden) dans le sens de cette éthique réalitaire, c'est rendre concrètes des potentialités inscrites dans le flot de l'histoire. Freyer inaugure ici un "déterminisme intelligible". Il abandonne le ­concept de "personnalité esthétisante", individualité constituant un petit monde fermé ­sur lui-même, pour lancer l'idée d'une personnalité dotée d'un devoir précis, celui de fonctionner le plus efficacement possible dans un ensemble plus grandiose : la Cité. L'éthique doit incarner dans des images matérielles concrètes, générant des actes et des prestations individuels concrets, pour qu'advienne et se déploie l'histoire.

Selon cette vision freyerienne de l'éthique politique, que doit nécessairement faire sienne le sociologue, un ordre politique n'est jamais statique. Le caractère processuel du politique dérive de l'émergence et de l'assomption continuelles de potentialités historiques. Le développement, le changement, sont les fruits d'un déplacement perpétuel d'accent au sein d'un ordre politique donné, c'est-à-dire d'une politisation subite ou progressive de tel ou tel domaine dans une communauté politique. Le développement et le changement ne sont donc pas les résultats d'un "progrès" mais d'une diversification par fulgurations successives [fractales], jaillissant toutes d'une matrice politico-historique initiale. La  logique du sociologue et du politologue doit donc viser à saisir la dynamique des fulgurances successives qui remettent en question la statique éphémère et nécessairement provisoire de tout ordre politique.

 

Une sociologie qui tient compte des antagonismes

 

Cette spéculation sur les fulgurances à venir, sur le visage éventuel que prendra le futur, contient un risque majeur : celui de voir la sociologie dégénérer en prophétisme à bon marché. Le sociologue, qui devient ainsi "artiste qui cisèle le futur", poursuit, dans le cadre de l'État, l'œuvre de création que l'on avait tantôt attribué à Dieu tantôt à l'Esprit. L'homme, sous l'aspect du sociologue, devient créateur de son destin. Au Dieu des humanistes chrétiens, s'est substitué une figure moins absolue : l'homo politicus... Cette vision ne risque-t-elle pas de donner naissance aux pires des simplismes ?

Elfriede Üner répond à cette objection : la reine Rechtslehre (théorie pure du droit) du libéral Hans Kelsen, idole des juristes contemporains et ancien adversaire de Carl Schmitt, constitue, elle aussi, une "simplification" quelque peu outrancière. Elle n'est finalement que repli sur un formalisme juridique qui détache complètement le système logique, constitué par les normes du droit, des réalités sociales, des institutions objectives et des legs de l'histoire. Rudolf Smend, lui, parlera de la "domination" (Herrschaft) comme de la forme la plus générale d'intégration fonctionnelle et évoquera la participation démocratique des dominés comme une intégration continue des individus dans la forme globale que représente l'État.

Cette idée d'intégration continue, que caressent bon nombre de sociaux-démocrates, évacue tensions et antagonismes, ce que refuse Fre­yer. Si, pour Smend, la dialectique de l'es­prit et de l'État s'opère en circuit fermé, Freyer estime qu'il faut dépasser cette situation par trop idéale et concevoir et forger un modèle de système plus dynami­que, capable de saisir les fluctuations tragi­ques d'une ère faite de révolutions. L'idéal d'une intégration totale s'effectuant progressivement ne permet pas de projeter dans la praxis politique des "futurs imaginés" qui soient réalistes : un tel idéal s'abrite frileusement derrière la muraille protectrice d'un absolu théorique.

 

À droite : utopies passéistes, à gauche : utopies progressistes

 

La dialectique de l'esprit et du politique (de l'État), c'est-à-dire de l'imagination constructive et des impératifs de la Cité, de l'imagination qui répond aux défis de tous ordres et des forces incontournables du politique, n'a reçu, en ce siècle de turbulences incessantes, que des interprétations insatisfaisantes. Freyer estime que la sociologie organique d'Othmar Spann (1878-1950) constitue une impasse, dans le sens où elle opère un retour nostalgique vers la structuration de la société en états (Stände) avec hiérarchisation pyramidale de l'autorité. Cette autorité abolirait les antagonismes et évacuerait les conflits : ce qui indique son caractère finalement utopique. À "gauche", Franz Oppenheimer élabore une sociologie "progressiste" qui évoque une succession de modèles sociaux aboutissent à une société sans classes et sans plus aucun antagonisme : cet espoir banal des gauches s'avère évidemment utopique, comme l'ont indiqué quantité de critiques et de polémistes étrangers à ce messianisme. Freyer renvoie donc dos à dos les utopistes passéistes de droite et les utopistes progressistes de gauche.

Ces systèmes utopiques sont "fermés", signale Freyer longtemps avant Popper, et trahissent ipso facto leur insuffisance fondamentale. Les concepts scientifiques doivent demeurer "ouverts" car l'acteur politique injecte en eux, par son action concrète et par son expérience existentielle, la quintessence innovante de son époque. Freyer privilégie ici l'homo politicus agissant, le sujet de l'histoire. Les acteurs politiques, dans l'opti­que de Freyer, façonnent le temps.

L'idée essentielle de Freyer en matière de sociologie, c'est celle d'une construction pratique ininterrompue de la réalité [les époques sont en relation les unes aves avec les autres dans la dynamique de la continuité historique]. Aux époques politiquement instables, les normes scientifiques (surtout en sciences humaines) sont décrétées obsolètes ou doivent impérativement subir un aggiornamento, une re-formulation. L'histoire est, par suite, un chantier où œuvrent des acteurs-artistes qui, à la façon des expressionnistes, recréent des mondes à partir du chaos, de ruines. Freyer, écrit Elfriede Üner, glorifie, un peu mythiquement, l'homme d'action.

 

Le peuple (Volk) est le dépositaire de la virtù

 

Le personnage de Machiavel, analysé méthodiquement par Freyer, a projeté dans l'histoire des idées cette notion expressionniste/ créatrice de l'action politico-historique. Le concept machiavelien de virtù, estime Freyer, ne désigne nullement une "vertu morale statique" mais représente la force, la puissance de créer un ordre politique et le maintenir. Virtù recèle dès lors une qualité "processuelle", écrit Elfriede Üner. Par le biais de Machiavel, Freyer introduit, dans la science sociologique jusqu'alors "objective" et statique à la Comte, un ferment de nietzschéisme, dans le sens où Nietzsche voyait l'existence humaine comme un imperfectum qui ne pouvait jamais être "parfait" mais qu'il fallait sans cesse façonner et travailler.

Le "peuple", dans la vision freyerienne du social et du politique, est, grâce à sa mémoire historique, le dépositaire de la virtù, c'est-à-dire de la "force créatrice d'histoire". Le peuple suscite des antagonismes quand les normes juridiques et/ou institutionnelles ne correspondent plus aux défis du temps, aux impératifs de l'heure ou au ni veau atteint par la technologie. Un système "ouvert" implique de laisser au peuple historique toute latitude pour modifier ses institutions.

Le système freyerien est, en dernière instance, plus démocratique que le démocratisme normatif qui, à notre époque, prétend, sur l'ensemble de la planète, être la seule forme de démocratie possible. Quand Freyer parle de « droit à l'action » (cf. supra), corollaire d'un « devoir éthique d'action », il réserve au peuple un droit d'intervention sur la trame du devenir, un droit à façonner son destin. En ce sens, il précise la vision machiavelienne du peuple dépositaire de la  virtù, oblitérée, en cas de tyrannie, par l'arbitraire du tyran individuel ou oligarchique.

 

Relire Freyer

 

Relire Freyer, contemporain de Schmitt, nous permet de déployer une critique du normativisme juridique, au nom de l'imbrication des peuples dans l'histoire et du décisionnisme. L'État de droit, c'est finalement un État qui se laisse réguler par la virtù enfouie dans l'âme collective du peuple et non un État qui voue un culte figé à quel­ques normes abstraites qui finissent toujours par s'avérer désuètes.

­Et cette volonté freyerienne de s'imbriquer totalement dans le réel pour échapper aux mondes stérilisés des réductionnismes matérialistes, économistes et caricaturalement normatifs que nous lèguent les marxismes et libéralismes vulgaires, ne pourrait-on pas la lire parallèlement à Péguy ou aux génies de l'école espagnole : Unamuno avec sa dialectique du cœur, Eugenio d'Ors, Ortega y Gasset ?

 

► Robert STEUCKERS, Vouloir n°37/39, 1987.


1) Hans FREYER, Machiavelli (mit einem Nachwort von Elfriede Üner), Acta Humaniora, Weinheim, IX/133 p.

2) Hans FREYER, Preussentum und Aufklärung und andere Studien zu Ethik und Politik (herausgegeben und kommentiert von Elfriede Üner), Acta Humaniora, Welnheim, 222 p.

 

¤ Compléments bibliographiques :

 

  • Les Fondements du monde moderne - Théorie du temps présent, H. Freyer, Payot, coll. Bibliothèque scientifique, 1965.
  • « Romantisme et conservatisme. Revendication et rejet d'une tradition dans la pensée politique de Thomas Mann et Hans Freyer », C. Roques, in : Les romantismes politiques en Europe, dir. G. Raulet, MSH, avril 2009.
  • « Die umstrittene Romantik. Carl Schmitt, Karl Mannheim, Hans Freyer und die "politische Romantik" », C. Roques, in : M. Gangl/ G. Raulet (dir.), Intellektuellendiskurse in der Weimarer Republik. Zur politischen Kultur einer Gemengelage, 2. neubearbeitete und erweiterte Auflage, Frankfurt/M., Peter Lang Verlag 2007 [= Schriftenreihe zur Politischen Kultur der Weimarer Republik, Bd. 10]. [cf. sur ce thème : Les formes du romantisme politique]
  • Nationalité et Modernité, D. Jacques, Boréal, Montréal, 1998, 270 p.
  • The Other God that Failed : Hans Freyer and the Deradicalization of German Conservatism, J. Z. Muller, Princeton Univ. Press, 1987. Cf. [pt] Reinterpretar Hans Freyer.
  • « The Sociological Theories of Hans Freyer : Sociology as a Nationalistic Program of Social Action », Ernest Manheim in : An Introduction to the History of Sociology, H. E. Barnes (éd.), Chicago Univ. Press, 1948.

 

¤ Citation :

 

  • « Il faut une volonté politique pour avoir une perception sociologique ».

 

¤ Liens :

 

 

¤ Évocations diverses :

 

1) LE CARACTÈRE INHUMAIN DU CAPITALISME : Mais comment se présente plus précisément le capitalisme moderne comme système d’action? Un grand sociologue humaniste du XXe siècle, Hans Freyer, peut nous aider à répondre. Dans son livre Theorie des gegenwärtigen Zeitalters (Théorie de l’époque actuelle, 1956), il parle des "systèmes secondaires" comme de produits spécifiques du monde industrialisé moderne et en analyse la structure avec précision. Les systèmes secondaires sont caractérisés par le fait qu’ils développent des processus d’action qui ne se rattachent pas à des organisations préexistantes, mais se basent sur quelques principes fonctionnels, par lesquels ils sont construits et dont ils tirent leur rationalité. Ces processus d’action intègrent l’homme non comme personne dans son intégralité, mais seulement avec les forces motrices et les fonctions requises par les principes et par leur mise en œuvre. Ce que les personnes sont ou doivent être reste en dehors. Les processus d’action de ce genre se développent et se consolident en un système répandu, caractérisé par sa rationalité fonctionnelle spécifique, qui se superpose à la réalité sociale existante en l’influençant, la changeant et la modelant. Voilà la clé qui permet d’analyser le capitalisme comme système d’action. (S. Magister)

 

2) En ce qui concerne la tradition sociologique allemande, qui est marquée par l'influence de nombreuses conceptions philosophiques (notamment celles du système de Hegel), elle subit en particulier l'influence néfaste de la distinction opérée par Wilhelm Dilthey (1833-1911) entre les systèmes de culture (art, science, religion, morale, droit, économie) et les formes «externes» d'organisation de la culture (communauté, pouvoir, État, Église). Cette dichotomie fut encore aggravée par Hans Freyer (1887-1969) qui distinguait les « contenus objectifs » ou « signification devenue forme », qui sont les « formes objectivisées de l'esprit » dont l'étude relève des « sciences du logos », de leurs « être et devenir réels » qui sont l'objet des « sciences de la réalité ». Le caractère insupportablement artificiel de cette opposition ne saurait être mieux démontré qu'en rappelant que dans cette conception, le langage lui-même est défini comme un « assemblage de mots et de significations, de formes mélodiques et de formations syntaxiques », comme si on pouvait appréhender le langage indépendamment de l'organisation sociale des hommes qui l'emploient. Bien entendu, les langues (Langage) présentent aussi des structures intellectuelles qu'on ne peut expliquer par la sociologie sans tomber dans l'erreur du sociologisme; mais ces structures ne constituent que la moitié du problème. En outre, les entités intellectuelles objectives ne peuvent jamais être opposées au devenir social, mais seulement former avec lui une corrélation fonctionnelle dans des complexes d'action culturelle (A. Silbermann). Dilthey lui-même adoptait à cet égard une position radicalement plus ouverte, aussi bien dans ses explications réelles, opposées à son projet, que dans beaucoup d'autres occasions, comme le prouvent ses tentatives pour établir les fondements psychologiques des sciences humaines et ses tentatives périodiques pour mettre sur pied une éthologie empirique (que l'on pourrait également définir comme une science empirique de la culture). Le danger que recèle cette distinction consiste avant tout dans ce qu'elle ouvre la voie à une sorte de distinction hiérarchique à une culture « supérieure », en quelque sorte proche de l'« esprit », et une culture « inférieure » ; celle-ci se confond facilement avec le concept de « civilisation » (matérielle), ce qui introduit dans toute cette approche du problème une évaluation patente. Il semble préférable de passer de ces conceptions fortement teintées de philosophie à une approche plus réaliste. Après la destruction totale de l'ancienne théorie des aires culturelles par l'ethnologie moderne, la dernière possibilité apparente de séparer certains contenus culturels de leurs rapports fonctionnels avec la société a définitivement disparu. (R. König)

 

3) La conférence « Normes éthiques et politiques » que Freyer a tenue en mai 1929 devant la Kant-Gesellschaft, souligne encore la primauté de l'État [comme fondement de la vie politique] sur le peuple. « L'État est celui qui rassemble et éveille les forces du peuple au service d'un projet culturel caractéristique ; sa politique est le fer de lance dans lequel le peuple devient historique ». Deux ans plus tard [en pleine crise de la République de Weimar], Freyer voit la signification véritable de la « révolution de droite  » dans la résolution avec laquelle elle mobilise le peuple contre l'État. Et trois ans plus tard, il est avéré, pour Freyer, « qu'il existe aussi un véritable esprit du peuple en dehors des frontières politiques de l'État-Nation ». L'esprit du peuple, lit-on alors dans un sens tout à fait national-populiste, « doit être autre chose qu'un contexte fondé sur la politique. Le peuple doit être autre chose qu'un rassemblement d'hommes au sein d'un système étatique » (1934). Les singulières variations qui caractérisent la définition par Freyer du rapport de l'État et du peuple sont bien mises en valeur chez Üner (Soziologie als „geistige Bewegung“. Hans Freyers System der Soziologie und die „Leipziger Schule“, 1992). (S. Breuer)

samedi, 20 février 2010

Réflexions sur la chute des empires

Colloque de Londres, 19 novembre 1995

 

Réflexions sur la chute des empires

(Intervention de Robert Steuckers)

 

downfall_wallpaper2.jpg1.

Lorsqu'après la perestroïka, après la chute du Mur de Berlin, après le retrait des troupes soviétiques hors d'Europe orientale, après l'effondrement des structures étatiques soviétiques en 1991, les Etats-Unis sont demeurés la seule et unique superpuissance en lice sur la scène internationale et le Président Bush pouvait effectivement espérer qu'un “Nouvel Ordre Mondial” allait émerger sous la direction de son pays, béni par le Tout-Puissant. Mais la tâche de diriger le monde n'est pas aisée, si l'on se souvient des pro­phécies du Prof. Paul Kennedy sur l'“hypertrophie impériale”. Bon nombre d'empires dans l'histoire ont sombré dans le déclin jadis simplement parce qu'ils ne pouvaient plus contrôler tous les territoires se trouvant sous leur juridiction ou, pour être plus précis, toutes les grandes voies de communication de l'Empire sur terre comme sur mer. Cette tâche nécessite une mobilisation constante de tous les moyens militaires, diplomatiques et économiques.

- Mobiliser les moyens militaires coûte très cher et soumet la nation impériale au risque de négliger ses problèmes domestiques, comme l'éducation et la santé. L'écroulement de l'empire peut alors avoir pour cause un manque de dirigeants et de gestionnaires qualifiés pour les grandes entreprises ou même pour les armées, ou par un le poids excessif des classes sociales exclues.

- Mobiliser tous les moyens diplomatiques implique une recherche constante de nouveaux alliés fiables. Mais l'art de la diplomatie nous enseigne qu'il faut éviter de trop se fier aux alliés qui risquent de devenir trop puissants et de vous lancer un défi ultérieurement. Aujourd'hui, les Etats-Unis, en tant que seul su­perpuissance demeurant en lice, essaiyent de mobiliser des musulmans modérés autour de la Turquie, des musulmans fondamentalistes-conservateurs autour de l'Arabie Saoudite, des musulmans fondamen­talistes révolutionnaires autour du Soudan, afin d'acquérir un certain contrôle de l'Asie Centrale, de la ré­gion du Golfe ou de l'Afrique du Nord. Ce constat doit nous amener à poser une question: ces nouveaux alliés seront suffisamment fiables à long terme? Une partie d'entre eux, ou même l'ensemble, ne pourrait-elle pas évoluer comme l'Iran et devenir en un tourne-main des ennemis fanatiques de la superpuissance dirigeante? Les philosophes parmi nous se remémoreront la dialectique du Maître et de l'Esclave chez Hegel. L'Esclave obéira aussi longtemps qu'il ne pourra pas faire autrement, tant qu'il sera payé pour ac­complir sa tâche. Il se rendra indispensable. Mais dès qu'il prendra conscience de son pouvoir en tant qu'adjoint ou qu'allié, il défiera son Maître. C'est là une loi de l'histoire bien connue.

- Mobiliser tous les moyens économiques implique de dépenser des sommes considérables pour la dé­fense et de rogner dans les autres domaines, comme la santé et l'éducation. Sur le long terme, avec une telle politique, la solidarité nationale s'évanouit, la nation cesse d'être une communauté, le sens du res­pect mutuel disparaît, la moralité publique demeure un vague souvenir et la cohésion du pays ne peut plus œuvrer pour soutenir la puissance de l'Etat sur la scène internationale. Le manque d'investissements dans le domaine de l'éducation conduit à engager du personnel enseignant à l'étranger, même dans des pays potientiellement ennemis. Les Etats et les peuples soumis à la superpuissance impériale peuvent ti­rer avantage du fait que les charges militaires sont supportées par la puissance hégémonique et investir dans les affaires sociales domestiques, gagnant du même coup en cohésion et en qualité d'enseignement, c'est-à-dire en pariant sur une politique qui leur donnera très vite de meilleures gestion­naires et de meilleurs ingénieurs.

 

A cause de l'“hypertrophie impériale” et à certaines faiblesses domestiques, les Etats-Unis doivent au­jourd'hui pratiquer la politique suivante dans le monde:

- Premièrement, contrôler l'Asie Centrale pour contenir la Russie;

- Deuxièmement, contrôler la région du Golfe pour contenir et l'Irak et l'Iran ou pour empêcher toute affir­mation européenne ou japonaise dans cette zone recelant les plus grands gisements de pétrole du globe;

- Troisièmement, contrôler tous les pays situés entre la Méditerranée et la Corne de l'Afrique;

Cette triple nécessité implique d'ores et déjà de déléguer du pouvoir à la Grande-Bretagne, pour qu'elle négocie avec les challengeurs islamiques en Algérie; à l'Allemagne, pour qu'elle négocie directement avec l'Iran, comme l'a annoncé officiellement la semaine dernière le Ministre des Affaires Etrangères al­lemand, Klaus Kinkel, dans les colonnes du plus important des hebdomadaires de l'Europe continentale, Der Spiegel  (Hambourg). Si le boycott de l'Iran est la politique officielle de Washington, la nouvelle poli­tique de Berlin à l'égard de Téhéran sera celle du “dialogue critique”.

 

Déléguer de telles tâches à Londres ou à Berlin constitue en fait un recul de la stratégie impériale améri­caine parce que cela signifie réintroduire Londres et Berlin dans des zones d'où ces pays avaient été ex­clus au cours des événements de ce siècle par une intervention directe ou indirecte des Etats-Unis. Il nous reste à poser une question: les Etats-Unis seront-ils capables de contrôler entièrement la politique des diplomates et des industriels allemands en Iran, surtout sur les Allemands agiront dans les premières étapes de leur “dialogue critique” avec l'accord tacite de Washington? La délégation de pouvoir indique que l'hypertrophie impériale n'est déjà plus gérable.

 

2.

Mais outre la difficulté croissante à contrôler tout ce qui devrait être contrôlé, comment l'impérialisme se présente-t-il aujourd'hui?

a) L'IMPÉRIALISME MILITAIRE. L'impérialisme militaire de la seule superpuissance de 1995 consiste en résidus d'alliances forgées au temps de la Guerre Froide. L'OTAN ne peut évidemment plus avoir le même but et les mêmes objectifs aujourd'hui qu'il y a dix ans lorsque Berlin était encore divisé par un Mur et des champs de mines et quand les troupes russes étaient concentrées en Thuringe, à 70 km de Francfort, où l'on trouve l'aéroport stratégique le plus important d'Europe Centrale. L'évolution la plus logique que pour­rait subir l'OTAN dans les années à venir serait une fusion du pilier européen avec l'UEO et un désenga­gement graduel des Etats-Unis sur le théâtre européen. L'UEO, en tant que pilier européen de l'OTAN, ab­sorbera dans une seconde phase des nouveaux pays comme l'Autriche, la Hongrie, la Slovénie et la République Tchèque, donnant à l'alliance un profil beaucoup plus européen et de moins en moins atlan­tique. Ensuite, nous devons espérer une fusion graduelle de l'UEO et de l'OSCE, afin d'établir la paix dans toute l'Europe et en Asie septentrionale et centrale. Espérons que cette OSCE acquerra de plus en plus de substance dans les décennies qui viennent.

 

b) L'IMPÉRIALISME DIPLOMATIQUE. La première tâche que se donnera Washington, c'est de susciter du désordre partout dans le monde, spécialement dans les régions d'importance hautement stratégique, afin qu'aucune autre puissance ne soit en mesure de les contrôler et de glâner quelques bribes d'hégémonie régionale. ce désordre mobilisera des forces qui ne pourront plus consacrer leurs énergies à des fusions régionale ou à des processus de pacification ou à des processus impériaux au sens antique et non impérialiste du terme. La tâche que s'assignera Washington  —comme le fait généralement toute puissance hégémonique—  sera d'éviter l'émergence de tout challengeur. Mais sera-t-il possible, sur le très long terme, de confiner la Turquie dans un rôle mineur si la Turquie reçoit pour mission de coordonner les énergies des peuples turcophones d'Asie Centrale et deviendra ainsi une puissance hégémonique sur un groupe de pays comptant plus de 130 millions d'habitants? Sera-t-il possible d'obliger Berlin à suivre gentiment toutes les politiques suggérées par Washington si l'Allemagne, en tant que pays industriel très puissant et très efficace, amorce un travail en tandem avec une grande puissance pétrolière comme l'Iran, potentiellement forte aussi sur le plan militaire? Surtout si l'on se souvient que la première guerre mondiale a éclaté en partie parce que l'on voulait éviter que l'industrie de l'Allemagne de Guillaume II n'exerce une domination hégémonique sur le Moyen-Orient...

 

c) L'IMPÉRIALISME TECHNOLOGIQUE. Washington contrôle le commerce mondial par le biais du GATT ou du FMI. Mais l'idéologie qui se cache derrière ces structures nées immédiatement après la seconde guerre mondiale est une idéologie du libre-marché, visant à détruire toutes les barrières douanières pro­tectrices, pour créer, en bout de course, un monde unifié, heureux et uniforme, soit le monde que crai­gnait de voir émerger un Georges Orwell. Les barrières douanières était un système utilisé par les pays les moins puissants au niveau industriel pour aider leur population à développer en toute autonomie une industrie nationale, capable d'évoluer selon les schèmes culturels du peuple autochtone. Entre 1944 et 1946, les Etats-Unis, étant devenus le pays industriel le plus puissant, désiraient maintenir le monde tel qu'il était à ce moment-là de l'histoire, où Washington régnait sur de vastes groupes de pays dévastés ou sous-équipés. Le développement du Japon et de l'Allemagne, de même que celui des Nouveaux Pays Industriels (NPI) d'Asie orientale, constituent un danger pour le marché domestique américain lui-même, tout simplement parce que le Japon, l'Allemagne, Taïwan et Singapour n'ont pas la charge de financer une armée colossale et une technologie militaire hautement avancée capable d'intervenir partout dans le monde. Le résultat est que les voitures et les gadgets japonais envahissent les magasins aux Etats-Unis, en vertu du principe du libre marché imposé jadis par Roosevelt et Truman, mais les voitures et les gad­gets américains n'envahissent pas les boutiques japonaises...

 

Mais dans un domaine, l'Amérique se défend sans efforts avec un indéniable succès: dans les médias. Elle garde un atout gagné lors de la seconde guerre mondiale: l'utilisation généralisée d'un anglais appau­vri à travers le monde entier, comme une sorte de nouveau pidgin. Mais ce phénomène de “pidginization” permet à l'Amérique de lancer partout dans le monde des produits scientifiques ou culturels, de mettre sur pied des banques de données et de contrôler l'industrie informatique. Mais cet état de “pidginization” ne constitue-t-il pas une situation temporaire? Des méthodes pour apprendre la langue anglaise ont été ré­pandues dans le monde, si bien qu'une élite pragmatique, qui n'est ni américaine ni britannique, est dé­sormais capable d'utiliser cette langue correctement et d'envoyer des informations en anglais dans les banques de données ou sur internet. C'est déjà le cas, surtout dans les pays européens où l'anglais s'apprend et s'enseigne facilement parce que les langues locales lui son apparentées, comme en Allemagne, en Scandinavie et dans les pays du Bénélux. De ce fait, des informations reposant sur une base culturelle différente peuvent désormais modifier l'idéologie dominante en utilisant la langue de l'idéologie dominante. D'autres schèmes philosophiques ou spirituels peuvent d'ores et déjà avoir un cer­tain impact sur l'idéologie globale et relativiser ses certitudes. A la fin du processus, l'idéologie globale ne sera plus la même. Les cultures dominées infiltreront le discours dominant. Un processus semblable se déroulera du fait de l'anglicisation de l'Inde. D'ores et déjà les Indiens écrivent et impriment en anglais et injectent simultanément des conceptions et des modes de pensée indiens dans l'ensemble de la sphère anglophone ou dominée par l'anglais. L'Inde devient ainsi, petit à petit, la première voix du monde non-eu­ropéen et non-blanc, directement dans la langue d'origine européenne la plus répandue dans le monde.

 

3.

Comment lutter contre ces diverses formes d'impérialisme?

a) Contre l'IMPÉRIALISME MILITAIRE, la meilleur politique que l'Europe puisse suivre aujourd'hui est une politique d'inertie, une politique qui s'interdit d'embrayer sur les bellicismes américains et les condamna­tions unilétérales d'ennemis désignés par Washington. La meilleur chose que les puissances euro­péennes puissent faire, c'est d'attendre, de retarder les paiements dans le cadre des alliances avec les Etats-Unis, de développer lentement le pilier européen et de favoriser à terme la fusion avec l'UEO. Mais nous devons également être fort attentifs et ne pas nous faire dérober des opportunités au Moyen-Orient, ne pas nous faire barrer l'accès à des voies maritimes ou fluviales ou à des marchés équilibrés avec des puissances de moindres dimensions en dehors d'Europe, puissances que nous ne pourront jamais consi­dérer comme des semi-colonies mais toujours comme des partenaires à part entière.

b) Face à l'IMPÉRIALISME DIPLOMATIQUE, les journalistes, politiciens, intellectuels, professeurs d'université, initiatives privées européens doivent sans cesse suggérer des alternatives à l'actuel Ordre mondial, qui est basé sur une idéologie accordant trop d'importance à l'argent et trop peu d'importance à la culture, l'éducation, la recherche, les traditions et la religion. Nous devons combler le “vide spirituel” qui s'est constitué au fil des décennies, justement parce que nous n'avions pas de “vide technologique”.

c) Contre l'IMPÉRIALISME TECHNOLOGIQUE, nous devons absolument focaliser nos attentions sur la responsabilité de chacun pour les atouts irremplaçables que nous offre la Terre-Mère, c'est-à-dire focali­ser nos attention sur les matières écologiques, parce que l'environnement malade de ce XXième siècle finissant nous a fait découvrir que toutes les choses que recelait la Terre avaient des limites et qu'il n'est plus possible désormais d'ignorer ces limites purement et simplementn comme nous l'avait enseigné une certaine philosophie étroitement rationaliste et cartésienne, surtout dans le cadre de nos pratiques éco­nomiques. Nous devons également respecter le principe de RÉCIPROCITÉ au niveau global. Ce n'est pas une bonne politique de laisser des continents entiers mourir de faim ou plongés dans les plus affreux dé­sastres de la guerre, du génocide ou des dissensions civiles. Nous ne pouvons pas offrir à l'Afrique une solution qui serait purement et simplement une reprise du vieil impérialisme colonialiste ni accentuer le néo-colonialisme financier en Amérique latine: seul sera cohérent l'avenir qui généralisera les principes de coopération et de réciprocité. Par exemple, les productions bon marché des pays du Tiers-Monde doivent être taxées si elles sont importées chez nous mais de la façon suivante: les pays du Tiers-Monde expor­tateurs doivent avoir la chance d'acheter des produits de haute technologie dans les pays riches qui im­portent les biens qu'ils produisent, de façon à ce que les travailleurs des pays développés puissent con­server leur emploi; l'économiste français Lauré suggère une TVA pour les produits du Tiers-Monde qui se­rait thésaurisée pour acheter des produits de plus haute technologie ou d'autres biens nécessaires au pays importateurs; en effet, les pays industriels ne peuvent tolérer une dialisation de leurs propres socié­tés, ou quelques happy fews  viveraient dans l'opulence à côté de masses clochardisées. Les sociétés duales émergent quand les marchandises bon marché du monde extérieur remplacent les mêmes mar­chandises produites dans le cadre domestique. Une telle situation crée les problèmes que nous connais­sons: chômage et misère dans les pays développés, pas de décollage et famine dans les pays en voie de développement. Un cul-de-sac dont nous devons tous sortir.

 

Et si le GATT vise en dernière instance à interdire les douanes, il ne dit rien de bien précis quant aux normes. La stabilisation des marchés domestiques pourrait dès lors s'opérer dans l'avenir non pas en appliquant des tarifs douaniers mais en imposant des normes de qualité afin de protéger des branches performantes de l'économie domestique et d'éviter ainsi le chômage, de conserver l'emploi et d'empêcher toute dualisation de la société.

 

Les chutes d'empires au cours de l'histoire ont toujours obligé les peuples à agir localement, à se tourner vers la planification régionale. Ce fut le cas immédiatement après l'effondrement de l'empire romain en Europe. Aujourd'hui, l'aménagement territorial sur base régionale est redevenu une nécessité, surtout dans les régions demeurées en marge, comme l'“Arc Atlantique” (du Portugal à la Bretagne) ou le Mezzogiorno. Même aux Etats-Unis, l'idée d'un vaste réaménagement territorial sur base régionale est aujourd'hui perçue comme une nécessité plutôt urgente, ainsi que nous le constatons dans les mouve­ments biorégionalistes et communautariens, qui peuvent être considérés comme les deux projets poli­tiques les plus intéressants d'Outre-Atlantique à ce jour. Mais ce retour aux racines et aux faits régionaux est possible aujourd'hui en interaction avec des technologies globales telles Internat. La coopération, les échanges d'informations, l'éducation interculturelle sont désormais possibles sans violence ou sans con­trôle colonial, c'est-à-dire sans qu'il ne soit nécessaire de perdre ses racines ou ses traditions. Etre membre d'un peuple spécifique, parler une langue très difficile et très ancienne, apprendre les langues antiques, mortes ou subsistantes, s'immerger totalement dans une tradition religieuse ou culturelle seront des atouts et non plus des inconvénients. Mais pour atteindre cette diversité globale, nous allons devoir nous armer de patience. La route sera longue qui nous mènera à cette diversité. Mais nous invitons tous les hommes à marcher joyeusement avec nous dans cette direction.

 

Comme l'écrivait récemment Hermann Scheer, un ingénieur allemand spécialisé en énergie solaire, dans son ouvrage Zurück zur Politik  (Piper, Munich, 1995), nous devons combattre pour construire un ordre économique global permettant à chaque Etat de forger sa propre politique énergétique et écologique, afin de démanteler les monopoles en économie, en politique et dans les médias, de lutter pour imposer un nouvel ordre agricole débarrassé des monopoles céréaliers et des manipulations génétiques, pour restau­rer l'agriculture écologique et créer des systèmes de communication respectueux de l'environnement.

 

Comme l'écrivait le philosophe italo-slovène Danilo Zolo (in Cosmopolis,  Feltrinelli, Milano, 1995), “le vieux modèle hiérarchisant... sera remplacé par une nouvelle logique, la logique du pacifisme faible, c'est-à-dire un pacifisme qui n'est pas le pacifisme habituel et conventionnel, visant à supprimer définitivement les guerres dans le monde, mais un pacifisme nouveau qui respecte la diversité des cultures et accepte la compétition entre les intérêts divergents”. Mais sans planétariser les guerres et les conflits.

 

Atteindre une anti-utopie de ce type est possible. Mais, comme je viens de le dire, le chemin qui y mène est très très long. Et je répète: marchons joyeusement dans cette direction.

 

Robert STEUCKERS.

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vendredi, 19 février 2010

Der Engel der Vernichtung

Der Engel der Vernichtung
Angriff gegen den aufklärerischen Optimismus, verdunkelt von Kraftworten: Zum 250. Geburtstag von Joseph de Maistre

Günter Maschke - Ex: http://www.jungefreiheit.de/ 

JMaistre.jpgLa neve sulla tosta, ma il fuoco nella bocca!", rief ein begeisterter Italiener aus, der das einzige überlieferte Portrait Joseph de Maistres betrachtete, das kurz vor dessen Tode entstand. Das Haupt weiß, wie von Schnee bedeckt und aus dem Munde strömt Feuer: De Maistre gehört zu den wenigen Autoren, die mit zunehmenden Jahren stets nur radikaler und schroffer wurden und sich der sanft korrumpierenden Weisheit des Alters entschlungen, gemäß der man versöhnlicher zu werden habe und endlich um die Reputation bemüht sein müsse. Fors do l'honneur nul souci, außer der Ehre keine Sorge, war der Wahlspruch des Savoyarden, und zu seiner Ehre gehörte es, immer unvermittelter, schonungsloser und verblüffender das Seine zu sagen.

Der Ruhm de Maistres verdankt sich seinen Kraftworten, mit denen er den ewigen Gutmenschen aufschreckt, der sich's inmitten von Kannibalenhumanität und Zigeunerliberalismus bequem macht. "Der Mensch ist nicht gut genug, um frei zu sein", ist wohl noch das harmloseste seiner Aperçus, das freilich, wie alles Offenkundige, aufs Äußerste beleidigt. Beharrliche Agnostiker und schlaue Indifferenzler entdecken plötzlich ihre Liebe zur Wahrheit und erregen sich über den kaltblütigen Funktionalismus de Maistres, schreibt dieser: "Für die Praxis ist es gleichgültig, ob man dem Irrtum nicht unterworfen ist oder ob man seiner nicht angeklagt werden darf. Auch wenn man damit einverstanden ist, daß dem Papste keine göttliche Verheißung gegeben wurde, so wird er dennoch, als letztes Tribunal, nicht minder unfehlbar sein oder als unfehlbar angesehen werden: Jedes Urteil, an das man nicht appellieren kann, muß, unter allen nur denkbaren Regierungsformen, in der menschlichen Gesellschaft als gerecht angesehen werden. Jeder wirkliche Staatsmann wird mich wohl verstehen, wenn ich sage, daß es sich nicht bloß darum handelt, zu wissen, ob der Papst unfehlbar ist, sondern ob er es sein müßte. Wer das Recht hätte, dem Papste zu sagen, daß er sich geirrt habe, hätte aus dem gleichen Grunde auch das Recht, ihm den Gehorsam zu verweigern."

Der Feind jeder klaren und moralisch verpflichtenden Entscheidung erschauert vor solchen ganz unromantischen Forderungen nach einer letzten, alle Diskussionen beendenden Instanz und angesichts der Subsumierung des Lehramtes unter die Jurisdiktionsgewalt erklärt er die Liebe und das Zeugnisablegen zur eigentlichen Substanz des christlichen Glaubens, den er doch sonst verfolgt und haßt, weiß er doch, daß diesem die Liebe zu Gott wichtiger ist als die Liebe zum Menschen, dessen Seele "eine Kloake" (de Maistre) ist.

Keine Grenzen mehr aber kennt die Empörung, wenn de Maistre, mit der für ihn kennzeichnenden Wollust an der Provokation, den Henker verherrlicht, der, zusammen mit dem (damals) besser beleumundeten Soldaten, das große Gesetz des monde spirituel vollzieht und der Erde, die ausschließlich von Schuldigen bevölkert ist, den erforderlichen Blutzoll entrichtet. Zum Lobpreis des Scharfrichters, der für de Maistre ein unentbehrliches Werkzeug jedweder stabilen gesellschaftlichen Ordnung ist, gesellt sich der Hymnus auf den Krieg und auf die universale, ununterbrochene tobende Gewalt und Vernichtung: "Auf dem weiten Felde der Natur herrscht eine manifeste Gewalt, eine Art von verordneter Wut, die alle Wesen zu ihrem gemeinsamen Untergang rüstet: Wenn man das Reich der unbelebten Natur verläßt, stößt man bereits an den Grenzen zum Leben auf das Dekret des gewaltsamen Todes. Schon im Pflanzenbereich beginnt man das Gesetz zu spüren: Von dem riesigen Trompetenbaum bis zum bescheidensten Gras - wie viele Pflanzen sterben, wie viele werden getötet!"

Weiter heißt es in seiner Schrift "Les Soirées de Saint Pétersbourg" (1821): "Doch sobald man das Tierreich betritt, gewinnt das Gesetz plötzlich eine furchterregende Evidenz. Eine verborgene und zugleich handgreifliche Kraft hat in jeder Klasse eine bestimmte Anzahl von Tieren dazu bestimmt, die anderen zu verschlingen: Es gibt räuberische Insekten und räuberische Reptilien, Raumvögel, Raubfische und vierbeinige Raubtiere. Kein Augenblick vergeht, in dem nicht ein Lebewesen von einem anderen verschlungen würde.

Über alle diese zahllosen Tierrassen ist der Mensch gesetzt, dessen zerstörerische Hand verschont nichts von dem was lebt. Er tötet, um sich zu nähren, er tötet, um sich zu belehren, er tötet, um sich zu unterhalten, er tötet, um zu töten: Dieser stolze, grausame König hat Verlangen nach allem und nichts widersteht ihm. Dem Lamme reißt er die Gedärme heraus, um seine Harfe zum Klingen zu bringen, dem Wolf entreißt er seinen tödlichsten Zahn, um seine gefälligen Kunstwerke zu polieren, dem Elefanten die Stoßzähne, um ein Kinderspielzeug daraus zu schnitzen, seine Tafel ist mit Leichen bedeckt. Und welches Wesen löscht in diesem allgemeinen Schlachten ihn aus, der alle anderen auslöscht? Es ist er selbst. Dem Menschen selbst obliegt es, den Menschen zu erwürgen. Hört ihr nicht, wie die Erde schreit nach Blut? Das Blut der Tiere genügt ihr nicht, auch nicht das der Schuldigen, die durch das Schwert des Gesetzes fallen. So wird das große Gesetz der gewaltsamen Vernichtung aller Lebewesen erfüllt. Die gesamte Erde, die fortwährend mit Blut getränkt wird, ist nichts als ein riesiger Altar, auf dem alles, was lebt, ohne Ziel, ohne Haß, ohne Unterlaß geopfert werden muß, bis zum Ende aller Dinge, bis zur Ausrottung des Bösen, bis zum Tod des Todes."

Im Grunde ist dies nichts als eine, wenn auch mit rhetorischem Aplomb vorgetragene banalité supérieure, eine Zustandsbeschreibung, die keiner Aufregung wert ist. So wie es ist, ist es. Doch die Kindlein, sich auch noch die Reste der Skepsis entschlagend, die der frühen Aufklärung immerhin noch anhafteten, die dem Flittergold der humanitären Deklaration zugetan sind (auch, weil dieses sogar echtes Gold zu hecken vermag), die Kindlein, sie hörten es nicht gerne.

Der gläubige de Maistre, der trotz all seines oft zynisch wirkenden Dezisionismus unentwegt darauf beharrte, daß jede grenzenlose irdische Macht illegitim, ja widergöttlich sei und der zwar die Funktionalisierung des Glaubens betrieb, aber auch erklärte, daß deren Gelingen von der Triftigkeit des Glaubens abhing - er wurde flugs von einem bekannten Essayisten (Isaiah Berlin) zum natürlich 'paranoiden' Urahnen des Faschismus ernannt, während der ridiküle Sohn eines großen Ökonomen in ihm den verrucht-verrückten Organisator eines anti-weiblichen Blut- und Abwehrzaubers sah, einen grotesken Medizinmann der Gegenaufklärung. Zwischen sich und der Evidenz hat der Mensch eine unübersteigbare Mauer errichtet; da ist des Scharfsinns kein Ende.

Der hier und in ungezählten anderen Schriften sich äußernde Haß auf den am 1. April 1753 in Chanbéry/Savoyen geborenen Joseph de Maistre ist die Antwort auf dessen erst in seinem Spätwerk fulminant werdenden Haß auf die Aufklärung und die Revolution. Savoyen gehörte damals dem Königreich Sardinien an und der Sohn eines im Dienste der sardischen Krone stehenden Juristen wäre wohl das ehrbare Mitglied des Beamtenadels in einer schläfrigen Kleinstadt geblieben, ohne intellektuellen Ehrgeiz und allenfalls begabt mit einer außergewöhnlichen Liebenswürdigkeit und Höflichkeit in persönlich-privaten Dingen, die die "eigentliche Heimat aller liberalen Qualitäten" (Carl Schmitt) sind.

Der junge Jurist gehörte gar einer Freimaurer-Loge an, die sich aber immerhin kirchlichen Reunionsbestrebungen widmet; der spätere, unnachgiebige Kritiker des Gallikanismus akzeptiert diesen als selbstverständlich; gelegentlich entwickelte de Maistre sogar ein wenn auch temperiertes Verständnis für die Republik und die Revolution. Der Schritt vom aufklärerischen Scheinwesen zur Wirklichkeit gelang de Maistre erst als Vierzigjährigem: Als diese in Gestalt der französischen Revolutionstruppen einbrach, die 1792 Savoyen annektierten. De Maistre mußte in die Schweiz fliehen und verlor sein gesamtes Vermögen.

Erst dort gelang ihm seine erste, ernsthafte Schrift, die "Considérations sur la France" (Betrachtungen über Frankreich), die 1796 erschien und sofort in ganz Europa Furore machte: Die Restauration hatte ihr Brevier gefunden und hörte bis 1811 nicht auf, darin mehr zu blättern als zu lesen. Das Erstaunliche und viele Irritierende des Buches ist, daß de Maistre hier keinen Groll gegen die Revolution hegt, ja, ihr beinahe dankbar ist, weil sie seinen Glauben wieder erweckte. Zwar lag in ihr, wie er feststellte, "etwas Teuflisches", später hieß es sogar, sie sei satanique dans sons essence. Doch weil dies so war, hielt sich de Maistres Erschrecken in Grenzen. Denn wie das Böse, so existiert auch der Teufel nicht auf substantielle Weise, ist, wie seine Werke, bloße Negation, Mangel an Gutem, privatio boni. Deshalb wurde die Revolution auch nicht von großen Tätern vorangetrieben, sondern von Somnambulen und Automaten: "Je näher man sich ihre scheinbar führenden Männer ansieht, desto mehr findet man an ihnen etwas Passives oder Mechanisches. Nicht die Menschen machen die Revolution, sondern die Revolution benutzt die Menschen."

Das bedeutete aber auch, daß Gott sich in ihr offenbarte. Die Vorsehung, die providence, leitete die Geschehnisse und die Revolution war nur die Züchtigung des von kollektiver Schuld befleckten Frankreich. Die Furchtbarkeit der Strafe aber bewies Frankreichs Auserwähltheit. Die "Vernunft" hatte das Christentum in dessen Hochburg angegriffen, und solchem Sturz konnte nur die Erhöhung folgen. Die Restauration der christlichen Monarchie würde kampflos vonstatten gehen; die durch ihre Gewaltsamkeit verdeckte Passivität der Gegenrevolution, bei der die Menschen nicht minder bloßes Werkzeug sein würden. Ohne Rache, ohne Vergeltung, ohne neuen Terror würde sich die Gegenrevolution, genauer, "das Gegenteil einer Revolution", etablieren; sie käme wie ein sich sanftmütig Schenkender.

Die konkrete politische Analyse aussparen und direkt an den Himmel appellieren, wirkte das Buch als tröstende Stärkung. De Maistre mußte freilich erfahren, daß die Revolution sich festigte, daß sie sich ihre Institution schuf, daß sie schließlich, im Thermidor und durch Bonaparte, ihr kleinbürgerlich-granitenes Fundament fand.

Von 1803 bis 1817 amtierte de Maistre als ärmlicher, stets auf sein Gehalt wartender Gesandter des Königs von Sardinien, der von den spärlichen Subsidien des Zaren in Petersburg lebt - bis er aufgrund seiner lebhaften katholischen Propaganda im russischen Hochadel ausgewiesen wird. Hier entstehen, nach langen Vorstudien etwa ab 1809, seine Hauptwerke: "Du Pape" (Vom Papste), publiziert 1819 in Lyon, und "Les Soirées de Saint Pétersbourg" (Abendgespräche zu Saint Petersburg), postum 1821.

Die Unanfechtbarkeit des Papstes, von der damaligen Theologie kaum noch verfochten, liegt für de Maistre in der Natur der Dinge selbst und bedarf nur am Rande der Theologie. Denn die Notwendigkeit der Unfehlbarkeit erklärt sich, wie die anderer Dogmen auch, aus allgemeinen soziologischen Gesetzen: Nur von ihrem Haupte aus empfangen gesellschaftliche Vereinigungen dauerhafte Existenz, erst vom erhabenen Throne ihre Festigkeit und Würde, während die gelegentlich notwendigen politischen Interventionen des Papstes nur den einzelnen Souverän treffen, die Souveränität aber stärken. Ein unter dem Zepter des Papstes lebender europäischer Staatenbund - das ist de Maistres Utopie angesichts eines auch religiös zerspaltenen Europa. Da die Päpste die weltliche Souveränität geheiligt haben, weil sie sie als Ausströmungen der göttlichen Macht ansahen, hat die Abkehr der Fürsten vom Papst diese zu verletzlichen Menschen degradiert.

Diese für viele Betrachter phantastisch anmutende Apologie des Papsttums, dessen Stellung durch die Revolution stark erschüttert war, führte, gegen immense Widerstände des sich formierenden liberalen Katholizismus, immerhin zur Proklamation der päpstlichen Unfehlbarkeit durch Pius IX. auf dem 1869 einberufenen Vaticanum, mit dem der Ultramontanismus der modernen, säkularisierten Welt einen heftigen, bald aber vergeblichen Kampf ansagte.

Die "Soirées", das Wesen der providence, die Folgen der Erbsünde und die Ursachen des menschlichen Leidens erörternd, sind der vielleicht schärfste, bis ins Satirische umschlagende Angriff gegen den aufklärerischen Optimismus. Hier finden sich in tropischer Fülle jene Kraftworte de Maistres, die, gerade weil sie übergrelle Blitze sind, die Komplexität seines Werkes verdunkeln und es als bloßes reaktionäres Florilegium erscheinen lassen.

De Maistre, der die Leiden der "Unschuldigen" ebenso pries wie die der Schuldigen, weil sie nach einem geheimnisvollen Gesetz der Reversibilität den Pardon für die Schuldigen herbeiführen, der die Ausgeliefertheit des Menschen an die Erbsünde in wohl noch schwärzeren Farben malte als Augustinus oder der Augustinermönch Luther und damit sich beträchtlich vom katholischen Dogma entfernte, der nicht müde wurde, die Vergeblichkeit und Eitelkeit alles menschlichen Planens und Machens zu verspottern, - er mutete und mutet vielen als ein Monstrum an, als ein Prediger eines terroristischen und molochitischen Christentum.

Doch dieser Don Quijote der Laientheologie - doch nur die Laien erneuerten im 19. Jahrhundert die Kirche, deren Klerus schon damals antiklerikal war! -, der sich tatsächlich vor nichts fürchtete, außer vor Gott, stimmt manchen Betrachter eher traurig. Weil er, wie Don Quijote, zumindest meistens recht hatte. Sein bis ins Fanatische und Extatische gehender Kampf gegen den Lauf der Zeit ist ja nur Gradmesser für den tiefen Sturz, den Europa seit dem 13. Jahrhundert erlitt, als der katholische Geist seine großen Monumente erschuf: Die "Göttliche Komödie" Dantes, die "Siete Partidas" Alfons' des Weisen, die "Summa" des heiligen Thomas von Aquin und den Kölner Dom.

Diesem höchsten Punkt der geistigen Einheit und Ordnung Europas folgte die sich stetig intensivierende Entropie, die, nach einer Prognose eines sanft gestimmten Geistesverwandten, des Nordamerikaners Henry Adams (1838-1918), im zwanzigsten und einundzwanzigsten Jahrhundert zur völligen spirituellen, aber auch politischen und sittlichen Anomie führen würde.

Der exaltierte Privatgelehrte, der in St. Petersburg aufgrund seiner unbedeutenden Tätigkeit genug Muße fand, sagte als erster eine radikale, blutige Revolution in Rußland voraus, geleitet von einem "Pugatschev der Universität", was wohl eine glückliche Definition Lenins ist. Die Prophezeiung wurde verlacht, war Rußland doch für alle ein Bollwerk gegen die Revolution. Er entdeckte, neben Louis Vicomte de Bonald (1754-1840), die Gesetze politisch-sozialer Stabilität, die Notwendigkeit eines bloc des idées incontestables, Gesetze, deren Wahrheit sich gerade angesichts der Krise und des sozialen Atomismus erwies: Ohne Bonald und de Maistre kein August Comte und damit auch keine Soziologie, deren Geschichte hier ein zu weites Feld wäre. De Maistre, Clausewitz vorwegnehmend und Tolstois und Stendhals Schilderung befruchtend, erkannte als erster die Struktur der kriegerischen Schlacht und begriff, daß an dem großen Phänomen des Krieges jedweder Rationalismus scheitert; der Krieg war ihm freilich göttlich, nicht wie den meist atheistischen Pazifisten ein Teufelswerk; auch ihn durchwaltete die providence.

Endlich fand de Maistre den Mut zu einer realistischen Anthropologie, die Motive Nietzsches vorwegnahm und die der dem Humanitarismus sich ausliefernden Kirche nicht geheuer war: Der Mensch ist beherrscht vom Willen zur Macht. Vom Willen zur Erhaltung der Macht, vom Willen zur Vergrößerung der Macht, von Gier nach dem Prestige der Macht. Diese Folge der Erbsünde bringt es mit sich, daß, so wie die Sonne die Erde umläuft, der "Engel der Vernichtung" über der Menschheit kreist - bis zum Tod des Todes.

Am 25. Februar 1821 starb Joseph de Maistre in Turin. "Meine Herren, die Erde bebt, und Sie wollen bauen!" - so lauteten seine letzten Worte zu den Illusionen seiner konservativen Freunde. Das war doch etwas anderes als - Don Quijote. 

Joseph de Maistre (1753-1821): Außer der Ehre keine Sorge, lautete der Wahlspruch des Savoyarden, und zu seiner Ehre gehörte es, immer unvermittelter und schonungsloser das Seine zu sagen

Günter Maschke lebt als Privatgelehrter und Publizist in Frankfurt am Main. Zusammen mit Jean-Jacques Langendorf ist er Hausgeber der "Bibliothek der Reaktion" im Karolinger Verlag, Wien. Von Joseph de Maistre sind dort die Bücher "Betrachtungen über Frankreich", "Die Spanische Inquisition" und "Über das Opfer" erschienen.


jeudi, 18 février 2010

Réalité virtuelle et économie

Archives de Synergies Européennes - 1995

RÉALITÉ VIRTUELLE ET ÉCONOMIE

 

realitievirtuelle.jpgLa lecture d'Aristote nous enseigne que l'argent naquit pour faciliter le troc, et que dès lors il est une con­vention, un artifice, un signe. Ce signe alimenta l'imagination et développa l'illusion qui corrompit les âmes et les sociétés, car il magnifia la richesse créée par l'argent-papier en lieu et place de la richesse réelle is­sue de la production de biens et de services. L'éthique aristotélicienne se fondait sur le concept de la limi­tation des richesses; tant que l'économie de troc fonctionnait, il ne pouvait y avoir de richesse illimitée car, par exemple, la récolte de grains est limitée comme le sont les semailles. Mais l'argent introduisit le concept de richesse illimitée; et contrairement aux grains de céréales, les monnaies peuvent s'accumuler indéfiniment, et quand cela survient, la richesse se transforme en une fin en soi, et non plus en un moyen; l'homme ne vit plus de la richesse, il vit pour elle.

 

Le Moyen Age condamna le développement des taux d'intérêt, considérés comme anti-naturels sur base d'une éthique aristotélicienne; cependant, le judaïsme et le protestantisme les prirent à leur compte, dé­veloppant ainsi le commerce et l'économie en général. Actuellement, les chroniques économiques journa­lières qui nous retracent les turbulences économico-financières mondiales nous révèlents par la même occasion l'hégémonie décisive de la sphère financière sur le plan réel de la production, l'investissement, l'emploi et le salaire. Ceci est un phénomène à portée planétaire, mais dont le pouvoir de nuisance nous semble se manifester avec une véhémence toute particulière dans les économies périphériques (notamment en Amérique latine, ndt), excessivement dépendantes des financements externes. La globa­lisation financière est à l'origine de la concetration d'énormes actifs dans les mains de quelques méga-opérateurs qui obtiennent de forts taux d'intérêt, aux dépens des pays périphériques qui se trouvent ainsi sous leur pouvoir direct. Du reste, il est significatif que le commerce mondial ne dépasse pas 4000 mil­liards de dollars tandis que l'argent électronique qui circule dans le “marché ouvert” atteindra les 210.000 milliards à la fin de 1995.

 

En 1990, le Prix Nobel d'économie fut octroyé à un trio de fins connaisseurs dans l'art de maximiser les rentes speculatives: Harry Markowitz, Merton Miller et William Sharpe. Plus tard, en 1991 (Ronald Coase) et en 1994 (John Nash, Reinhard Selten et Janos Harsanyi), les Prix Nobel récompensèrent les travaux apportant les signes d'une science encore plus fine dans ce domaine. Nous y voyons une manifestation éblouissante de la dérive financière et des significations qu'elle est en mesure de proposer. Sous le doux euphémisme de “produits dérivés”, l'ingénierie financière sauvage invente tout un large éventail d'accords financiers d'où naît une immense timballe financière grâce à laquelle des sommes énormes peuvent être gagnées après avoir parié des sommes bien plus minimes. Spéculer avec des instruments aussi volatiles crée des risques élevés: dès que le moindre maillon de la chaîne s'interrompt, il en résulte des pertes as­tronomiques; par exemple, si un pays en voie de développement entre en cessation de paiements, ce sont des milliards de dollars “dérivés” qui volent instantanément en fumée.

 

Un système développé de satellites, ordinateurs et autres moyens technologiques à portée globale am­plifient la dimension des transactions financières de tous types qui débordent le monde de l'économie réelle, en rapidité comme en intensité. L'argent électronique dégage une chaleur moite: cette fiction est propice au pullulement de la faune “yuppy”, qui jongle tour à tour avec des profits mirobolants et avec des banqueroutes foudroyantes, au rythme éperdu des capitaux lancés dans leur course à travers les divers marchés de capitaux.

 

A l'ère de la réalité virtuelle, quand les signes se rebellent envers les réalités, il est nécessaire de récupé­rer l'essence des valeurs philosophiques. Les finances doivent être remises dans un état de subordina­tion à l'égard des productions réelles de biens et de services, car c'est de là que des possibilités naissent pour l'être humain de se réaliser en tant que tel. La dépendance des populations humaines envers le pou­voir diffus et essentiellement cruel du monde financier est extrêmement dangereuse, elle annule le pou­voir décisionnel des gouvernements et ne saurait avoir qu'un impact social traumatique. Les stratégies de développement qu'il nous faut créer, une fois pour toutes, seraient basées sur la production et les expor­tations: la production des choses au-dessus du règne des signes.

 

Manuel Agustin GAGO.

(article tiré de Disenso, n°4, hiver 1995).

mercredi, 17 février 2010

Culture médiatique

Archives de Synergies Européennes - 1995

Alberto Buela:

Culture médiatique

medien.jpgA en croire l'intuition du philosophe danois —sans doute le plus grand d'entre eux, Søren Kierkegaard (1813-1855), pasteur protestant contre sa religion, le protestantisme, père de la philosophie existentia­liste—, la culture médiatique trouverait sa source en Luther: «Oh, Luther, combien énorme est ta respon­sabilité! Car plus j'y songe, plus j'entrevois que si tu as entrepris d'abattre le Pape... c'est pour introniser le Public. Tu as enseigné aux hommes à vaincre par la force du nombre» (Journal intime, 1854).

 

Un des ingrédients de la culture médiatique est le public comme masse de consommateurs. Les peuples deviennent des marchés solvables. Et, à coup sûr, la valeur d'un programme télévisuel est proportion­nelle aux indices d'écoute. Nous entendons par “culture médiatique” l'ensemble des manifestations émises par les mass media qui tendent à fondre en un même amalgame uniforme le message émis et l'homme qui le reçoit.

 

La culture médiatique est une culture d'interposition entre l'homme et les choses. Mais à vrai dire, c'est en matière de culture au vide intersidéral qu'elle correspond. Car la culture est essentiellement l'activité de l'homme cultivant son propre être, son humanitas.  Et c'est ce devenir humain qui est, sans plus, la racine ultime de la culture. D'où cette contradictio in terminis  lorsqu'il est fait mention de cette sorte d'entité mi-chair mi-poisson qu'est la culture médiatique.

 

Par rapport à celle-ci, l'homme en est réduit purement et simplement à un consommateur: en tant que lec­teur, auditeur ou téléspectateur. Les messages médiatiques sont indifférents aux individualités aux­quelles ils s'adressent; maigre exutoire, celui proposé par certains journaux dans le “courrier des lec­teurs”. Tous ces messages sont uniquement conçus en fonction d'un accroissement escompté de la consommation des produits dont la publicité soutient économiquement les mass media. Publicité et con­sommation, telles sont les finalités auxquelles l'être humain est confronté, dans ce qui pourrait être quali­fié de “cercle herméneutique de production de sens”.

 

De pas son exaltation paroxystique du public, la culture médiatique est l'expression la plus achevée de la modernité; elle gave un public anesthésié d'images télévisées à travers cette immense vitrine que consti­tuent les innombrables écrans de télévision. L'existence en est réduite au niveau de celle des stocks de marchandises, si sagement alignés, par la publicité qui ne connaît d'autre vocation que de vendre: et en l'occurence, de tout vendre. Le sens ultime de l'existence est compris dans ce tout.

 

la société opulente, celle de l'ostentation, des shoppings, a réduit la domaine du privé au dégré zéro: de­puis la mise à nu de l'inconscient par Freud jusqu'aux dernières manipulations génétiques, depuis les bombardements défoliants sur la forêt amazonienne jusqu'aux cartes de crédit qui rendent impossible l'intimité des dépenses, depuis les édifices en verre jusqu'aux vêtements transparents.

 

Toute vie privée, comprise comme domaine d'expression de la singularité et de l'unique, ayant été ba­layée par le message homogénéisant de la culture médiatique, la voie est largement ouverte à l'anéantissement des identités des hommes et des peuples, pour en arriver au règne du blue jeans et du light, adoptés par un homme moderne qui n'est plus que pure apparence d'humanité.

 

Apparences dans le vêtement, dans le langage, par un baby talk monosyllabique qui permet de paraître plus rude, par la démarche, en se balançant pour paraître plus méchant, par l'allure, en affichant une barbe de quelques jours pour faire “bonne impression”. Mais, bien sûr, paraître ne suffit pas: l'essentiel est d'apparaître. Il faut se montrer en public. Le leitmotiv sera d'attirer l'attention par un aspect de “transgresseur light”. Avec des vêtements paraissant défaits et vieillis mais de bonnes marques. Avec des cheveux à l'indienne mais soigneusement couverts de gel. Avec un mouchoir qui pend un peu à la fa­çon tzigane mais en soie italienne. Est-il malaisé d'ironiser sur l'intensité des soucis que de tels trans­gresseurs peuvent causer aux tenants du pouvoir en place? La dissidence pourrait-elle être plus finement domestiquée?

 

Tel est l'empire des choses et, pour ainsi dire, des entités, qui, n'obéissant qu'à la loi de leur inertie, écran­sant l'être humain et donnent ainsi le ton de cette fin de millénaire. Ainsi donc, être signifie avoir. Et cela va jusqu'à acheter des choses dans le seul but de les posséder, indépendemment de l'usage qui peut en être fait. Le zapping, succession d'images tronquées, devient une attitude générale face à la vie. L'image, apparence de la réalité, s'est imposée en lieu et place des concepts véhiculés jadis. Ne voyons-nous pas la part des photos s'accroître dans la presse, les textes se faisant au contraire de moins en moins denses.

 

Les voyages de masse, le pélérinage des touristes qui voudraient être partout mais qui en définitive ne se dirigent nulle part, nous montrent l'homme moderne sous son jour le plus authentique: un voyeur qui veut tout regarder, même s'il a du mal à voir. Car pour voir il faut posséder une vision préalable de l'objet re­cherché. Connaissance préconceptuelle. Le regard qui voit est celui qui s'insère dans une totalité de sens. Platon affirmait: «La meilleure preuve qu'une nature soit douée ou non de sagesse, c'est la capa­cité que seul le sage possède, d'avoir une vision d'ensemble» (République,  537a, 10-15).

 

Or, c'est à une succession ininterrompue d'images tronquées et sans aucun sens que se livre l'homme médiatique. Lorsque celui-ci se spécialise en quelque chose, c'est dans l'art que nous pourrions qualifier de “minimalisme”. Le profil de l'homme médiatique est light,  sa pensée est faible, privée de convictions. Seul savoir en mesure de l'intéresser: celui de savoir ce qui se passe; il ne songe à poursuivre nulle in­vestigation personnelle ni a fortiori nul changement en quoi que ce soit. Moralement, il ne parvient même pas à être un hédoniste: il ne cherche pas le plaisir, il ne fait qu'être permissif. De cette permissivité il glisse vers un scepticisme et une indifférence généralisée envers toute vérité. L'interminable tolérance qui l'anime en toutes circonstances est le berceau douillet de son relativisme et de son atomisme social.

 

Ces jours-ci (15 décembre 1994), le projet de “télévision interactive” a connu une première phase d'accomplissement. Le firme nord-américaine Time Warner a installé dans cinq foyers de la ville d'Orlando un ordinateur, une télévision et une imprimante grâce auxquels les usagers visionneront des films choisis parmi une cinquantaine, commanderont leurs courses dans plusieurs magasins de la ville, dialogueront avec leurs voisins, utiliseront le service de coursiers et liront sur écran les nouvelles locales du journal Orlando Sentinel.

 

Tout indique que désormais la télévision, la vidéo, le téléphone, le courrier, l'informatique et beaucoup d'autres éléments s'intègreront dans une autoroute informatique dont le vecteur sera la fibre optique. L'interactivité intégrera l'homme en tant que simple apparence, son image parlant à sa place tandis que l'homme en chair et en os en sera réduit à taper sur le clavier de son terminal.

 

Autrefois, avant même que n'apparaisse la télévision, Leopoldo Marechal affirma: «Bien rares sont ceux aujourd'hui qui ne reconnaissent et ne vénèrent la radiotéléphonie, un des miracles de la science qui a le plus contribué à exlater la foi en un avenir plein d'artifices admirables, qui, en meublant leurs maisons et en démeublant leurs âmes, permettra aux humains d'atteindre le règne d'une béatitude débarrassée de tout casse-têtes».

 

Meubler leurs maisons de divers appareils électro-domestiques et démeubler leurs âmes: l'homme perd la capacité d'instaurer des valeurs, construire un monde lorsque seuls des désirs préfabriqués l'anime. Sa liberté n'est plus qu'une illusion. Son pouvoir est celui que les mass media lui offrent. Le développement des communications nous a fait passer de l'ère atomique à l'ère satellitaire ou informatique; le sens natu­rel du monde, comme lieu pour habiter, est annulé: le monde devient un écran où la virtualité supplante la réalité.

 

L'accès instantané à l'informatisation, la planétarisation des produits choisis par les mass media incitent l'homme dérivé de la culture médiatique à croire que ce qui apparaît est réel. L'éloignement de l'homme envers lui-même ne connaît dès lors plus de frontière. Dans les sociétés dépendantes comme sont les nôtres, en ce cône méridional du continent américain, l'aliénation médiatique atteint des niveaux invrai­semblables. La boîte à assomer, autrement dit la télévision, s'adresse à une population dont 40% survi­vent dans la pauvreté absolue pour proposer une vision totalement mercantile du monde. Notons que 85% de cette même population possède un téléviseur.

 

Serait-ce par hasard, à cause précisément de cette masse d'hommes et de femmes constamment mena­cés de noyade par les flots déchaînés de la misère, et qui parviennent de temps à autre à émerger pour assister au spectacle de la société de consommation, que nos technocrates de service appellent nos sociétés du doux euphémisme d'“émergentes”? Songeons aux 15.000 Mexicains qui tous les ans meurent de diarrhée dans la région de Chiapas. Qu'en est-il de ceux qui périssent, en dehors de toute statistique, en Bolivie, au Pérou, au Paraguay et au Brésil, emportés par le choléra?

 

Ce sont des millions de personnes qui vivent le nez collé à l'écran, voyant, désirant, rêvant un monde au­quel ils n'auront jamais accès, et qui pour eux existe réellement, alors que, pour notre part, nous savons qu'il n'est que virtualité et apparence.

 

A l'adage hégélien, selon lequel tout ce qui est rationnel est réel et tout ce qui est réel est rationnel, nous pouvons rétorquer désormais que tout ce qui est apparent est réel et que tout ce qui est réel est apparent. L'illusion rationaliste a véritablement été éventrée par la mystification, plus puissante et plus radicale, qu'est la culture médiatique. L'homme conditionné par celle-ci, après avoir pris l'image pour une réalité, en finira par jeter sur sa réalité environnante un regard lourd de scepticisme: car sa réalité finit par être moins réelle à ses yeux que les images télévisées. De ce fait, il marquera son renoncement face à l'entreprise médiatique de déculturation et de colonisation culturelle. L'homme abandonne sa capacité d'être soi-même en perdant son appartenance, son enracinement, ses valeurs, son langage.

 

L'homme médiatisé ne médiatisera rien qui lui soit propre; au contraire, il est l'objet de cette médiatisation qui accapare son être. Combien de fois n'entendons-nous pas affirmer innocemment: «Je ne peux vivre sans la télévision, la radio, le walkman, le journal, etc.». L'homme secrété par la culture médiatique réali­sara les travaux les plus abrutissants, les plus aliénants, comme si la réalité dans laquelle il baigne ne fût telle; la réalité s'efface et il n'a de cesse de s'identifier au message que les mass media lui envoient sans discontinuer. Deux exemples extrêmes illustrent cette dialectique. Nous trouvons le premier dans les transports en commun, à Buenos Aires, avec les colectiveros:  faune si commune et quotidienne, dont la réalité s'écarte notablement de celles des passagers et dont le souci n'est pas de prendre soin de cette clientèle mais bien d'accomplir leur mission au rythme des messages que les radios, tournées à plein vo­lume, leur divulguent: telle est la réalité illusoire dans laquelle ils se plongent. A l'autre extrême se trou­vent les yuppies de la Bourse, engloutis dans la masse des données que leur vomissent leurs ordina­teurs, contemplant les va-et-vient de leur fortune. La transaction financière est douée d'une vélocité bien supérieure à celle de l'opération commerciale, d'où une “mobilité électronique”, ainsi dénommée par l'économiste Marcelo Lascano, qui permet au spéculateur de réaliser plusieurs transactions financières, totalement fictives, sur une opération commerciale réelle. Couronnées de succès, de telles transactions transforment le yuppie en un millionnaire virtuel, fermé certes à toute considération quant à la virtualité de sa richesse. Son contact avec la réalité, à travers les revers de fortune occasionnels, le remplira de per­plexité.

 

Ce chemin est-il sans retour? Existe-i-il une sortie? Il se trouve des sociologues, des anthropologues, des intellectuels, qui se fondent sur un volontarisme optimiste pour parier que notre société et nos peuples d'Amérique latine ont suffisamment de forces inconscientes pour rejeter les valeurs de la contre-culture imposée par les mass media. Nous voyons, pour notre part, une possibilité de sortie non pas dans un appel romantique adressé au Volksgeist  mais en une prise de conscience qui nous permet, face aux mass media et à leurs techniques, leur toute-puissance, de dire: NON. Mais NON peut se dire de plusieurs façons. L'une de ces façons consiste à clôturer toute possibilité de contact. Il faut éteindre la télévision a conseillé Jean-Paul II l'année passée. L'autre de ces façons, tournée vers le discours heideggerien, est de dire “NON et OUI” aux objets techniques. Avoir la capacité de nous en emparer dans la seule mesure de leur utilité. L'utile étant ce que détermine l'être.

 

Il s'agit d'une désaffection, un détachement envers les choses, envers la technique comme déesse sal­vatrice, envers la consommation. Ce qui conduit nécessairement à une conduite austère. Heidegger ca­ractérise cette attitude par l'antique vocable germanique Gelassenheit, sérénité. Ainsi affirmait-il, “la sé­rénité envers les choses et l'ouverture aux mystères nous ouvrent la perspective d'un nouvel enracine­ment”. Les philosophes grecs dénommaient phroneseos  cette sorte d'hommes, ce qui, par la suite, a été mal traduits par “prudents”. Nous préférons traduire, comme le philosophe italien Giorgio Colli (1917-1978), par “savants”. Mais “savant” au sens véritablement, profondément, étymologique, dérivé de sapio, qui signifie “saveur” (et non au sens donné par le terme hellénique sophos). N'est pas sage celui ayant englobé de vastes quantités de données encyclopédiques, à la façon des érudits, mais celui capable de prendre son temps pour goûter la vie.

 

Nous voyons ainsi comment la dialectique médiatique, apparemment sans retour, peut être dépassée par la science de se donner le temps nécessaire à donner à chaque chose sa place.

 

Prof. Alberto BUELA.

(article tiré de Disenso, n°4, hiver 1995).