Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

mardi, 02 avril 2013

Hobsbawm, ideologia forte e verità breve

Hobsbawm, ideologia forte e verità breve

I massacri stalinisti, l'attacco dell'Urss alla Finlandia, la repressione di Budapest: tutto "riletto" in chiave marxista

 

Asserite? Vediamo subito che cosa ordinava Lenin ai comunisti di Penza l'11 agosto 1918: «Impiccate assolutamente e pubblicamente non meno di cento kulak, ricchi e succhiatori del sangue del popolo, e pubblicate i loro nomi; togliete loro tutto il grano e preparate delle liste di ostaggi». È inutile aggiungere che l'operazione andava fatta «in via amministrativa», come si usava dire, senza processi né alcuna garanzia legale. Poche settimane dopo si calcola che le vittime della repressione seguita all'attentato di Fanya Kaplan siano state 20mila. La repressione fu ordinata dallo stesso Lenin convalescente (Memorandum a N. Krestinski del 3 settembre 1918). Ma Hobsbawm non amava i documenti, o almeno certi documenti.

Un'altra prova ci è fornita da come spiega l'insuccesso dei negoziati del 1939 tra Mosca e gli anglo-francesi per opporsi alla minacciata invasione tedesca della Polonia. Secondo Hobsbawm «i negoziatori di Stalin chiesero vanamente (agli anglo-francesi, ndr) che avanzassero proposte per operazioni congiunte nel Baltico» per combattere i tedeschi. Nel Baltico? No, i sovietici avevano chiesto di disporre di basi di partenza in Polonia, e i polacchi che conoscevano le intenzioni sovietiche avevano ovviamente rifiutato un simile “aiuto” interessato quanto pericoloso. Ma Hobsbawm si guarda bene dal dire che i negoziati per il patto di spartizione con la Germania che si sarebbe concluso a Mosca il 23 agosto erano cominciati molto prima di quelli con la Francia e la Gran Bretagna.
Egli parla, ovviamente, dell'accordo Ribbentrop-Molotov, spiegato come lo strumento necessario per spingere alla guerra la Germania e la Gran Bretagna, che «si sarebbero dissanguate a vicenda, a vantaggio dell'Urss che intanto, con le clausole segrete, avrebbe ripreso i territori perduti con la rivoluzione; il calcolo si dimostrò sbagliato». Hobsbawm dimenticava che la sua difesa del patto, nel 1939 era stata diversa, allineata cioè alle tesi sovietiche di allora, che coincidevano con quelle tedesche, secondo cui gli aggressori della povera Germania, alleata dell'Urss, erano stati gli anglo-francesi.
Quanto all'attacco sovietico alla Finlandia (la «guerra d'inverno, che costò all'Urss l'espulsione dalla Società delle Nazioni), essa era già stata spiegata in un tempestivo pamphlet da Eric Hobsbawm e Raymond Williams, suo compagno di partito, come una misura sovietica per «spingere un po' più lontano da Leningrado la frontiera» allo scopo di difendersi dall'invasione degli imperialisti britannici, allora in guerra con la Germania di Hitler. Anni più tardi Williams ammise che quel libello era stato compilato su ordine del partito comunista britannico, che aveva ricevuto ordini da Mosca. Hobsbawm non ricorse neppure a questa giustificazione per spiegare l'assurda tesi che aveva sostenuto con la sua autorità di storico.

Con l'attacco tedesco l'Urss si riscoprì antifascista e addirittura «democratica». Ma le pene di Hobsbawm non erano finite. Alcune si limita a ignorarle, per «non dover contraddire la sua militanza», ragione per cui i suoi lettori non sapranno nulla di un certo episodio svoltosi a Katyn e dintorni costato la vita a 20mila polacchi. L'insurrezione di Varsavia nel 1944 fallì - ci spiega - perché «prematura», anche se le truppe sovietiche erano a qualche chilometro e si astennero dall'intervenire, perché gli insorti si consideravano seguaci del governo in esilio a Londra e non di quello comunista sostenuto o meglio inventato da Mosca.
Più in generale nel 1945 non vi fu la sovietizzazione dell'Europa orientale ma «la grande avanzata della rivoluzione globale». I sovietici non avevano intenzioni aggressive, anzi Stalin faceva una politica difensiva, tanto è vero che accettò Berlino occidentale come una enclave nella Germania, «sia pure con riluttanza» (delicata allusione al blocco di quella città durato un anno). Il muro di Berlino fu dovuto, sostiene Hobsbawm, alla paura reciproca. Questo spiega perché i cittadini tedesco-orientali correvano il rischio di una fucilata se fossero andati a vedere di che cosa si aveva paura dall'altra parte: insana curiosità punita diverse centinaia di volte con l'immediata pena di morte inflitta dai Vopos. Nel 1950 non vi fu - secondo lo storico marxista - un tentativo nordcoreano di annettere la Corea meridionale: Pyongyang soltanto stava «dilagando» (spreading) nel sud. «Ah, qu'en termes galants, ces choses-là sont mises!».

È superfluo continuare a elencare le libertà che il defunto grande storico si prese con la verità. Egli afferma che Stalin non era totalitario; forse avrebbe voluto esserlo ma, secondo Hobsbawm, non ci riuscì per la resistenza di altri poteri non meglio specificati: chissà che cosa avrebbe fatto se ci fosse riuscito. Qualcuno ha affermato che almeno sulla repressione della rivolta ungherese del 1956 egli avrebbe espresso qualche riserva. È cosi? Ecco quel che scrisse: «Pur approvando con il cuore gonfio ciò che sta accadendo in Ungheria dobbiamo dire francamente che secondo noi l'URSS dovrebbe ritirare appena possibile le sue truppe da quel Paese». È inutile chiedersi in quale conto gli uomini del Cremlino abbiano tenuto l'amichevole consiglio dell'amico storico marxista.

E sulla Cecoslovacchia? Qui egli fu chiaro: «Per quanto fragili i sistemi comunisti si siano dimostrati, soltanto un uso limitato, addirittura nominale di coercizione armata fu necessario per mantenerli dal 1957 al 1989». Com'è noto, l'uso limitato della coercizione esercitato dall'Urss sulla Cecoslovacchia consistette in un esercito di 27 divisioni per complessivi 400mila soldati e 6.300 carri armati. In definitiva, concludeva il Nostro, il comunismo era in realtà un «Illuminismo».
Una virtù è tuttavia necessario riconoscere a Hobsbawm: quella della coerenza. Quando nel 1995 gli fu chiesto se l'aver appreso che il massacro di 15 o 20 milioni di uomini, donne e bambini nell'Unione Sovietica negli anni Trenta e Quaranta gli avesse fatto cambiare opinione, rispose orgogliosamente di no. Ciò significa, fu la domanda successiva, che valeva la pena uccidere tante persone? «Certamente», ripeté Hobsbawm.

00:08 Publié dans Histoire, Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : eric hobsbawm, marxisme, histoire, philosophie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Ivresse turque

Turkish-Army-Exercise.jpg

Ivresse turque

Ex: http://www.dedefensa.org/

Depuis la “réconciliation” entre Israël et la Turquie (coup de fil sympa de Netanyahou à Erdogan le 22 mars, excuses pour l’attaque de la “flotille de la paix” en mai 2010, excuses acceptées), l’“idée turque” d’une “Grande Turquie” a envahi les commentateurs en Turquie, surtout des commentateurs proches d’Erdogan, exactement comme le fait une ivresse. Il s’agit par conséquent du reflet fidèle de l’ivresse qui tient effectivement sous son empire les dirigeants turcs, essentiellement Erdogan et son ministre Davutoglu. Mais cette ivresse-là, qu’on pourrait qualifier de “syndrome du printemps” (sans qualificatif nécessaire d’“arabe”, les Turcs étant de la partie), n’est pas spécifique aux Turcs…

• Il y eut donc d’abord les “excuses” de Netanyahou à Erdogan. D’une façon générale, elles ont été présentées en Turquie comme une victoire incontestable de la susdite Turquie. (Certains commentaires émettent parfois des réserves, comme celui de Kadri Gursel, du quotidien Hurriyet, le 26 mars 2013 : «The normalization step between Israel and Turkey has been taken only because Turkey has moderated its tough stance.».) Netanyahou a agi essentiellement sous la pression d’Obama, qui voulait obtenir quelque chose qui puisse être vue comme “propre sur soi”, de façon à pouvoir être véhiculée par le système de la communication comme un résultat diplomatique notable, voire “a diplomatic breakthrough”, à l’issue de son voyage en Israël et alentour. Le “triomphe” turc a donc été particulièrement peu apprécié par les Israéliens… DEBKAFiles résumait ce constat le 23 mars 2013, en expliquant par ailleurs les raisons pour lesquelles c’était bien plus la Turquie qui avait besoin de cette réconciliation, qu’Israël. Dans cette citation, on a le récit de l’intervention de Netanyahou dans une grotesque mise en scène faite pour complaire à Sa Majesté Obama trônant devant Air Force One et, surtout, la tonalité des réactions israéliennes à l’attitude turque (soulignées par nous en gras).

«Israeli Prime Minister Binyamin Netanyahu granted the Turkish Prime Minister Tayyip Erdogan a face-saver for ending their three-year rift out of willingness to crown US President Barack Obama’s three-day visit with an impressive diplomatic breakthrough. He swallowed Israel and its army’s pride and, at the airport, with Obama looking on, picked up the phone to Erdogan and apologized for the killing by Israeli soldiers of nine Turkish pro-Palestinian activists in 2010 aboard the Mavi Marmara, which was leading a flotilla bound on busting the Israeli blockade of the Hamas-ruled Gaza Strip. The crowing comment by Turkish Foreign Minister Ahmet Davutoglu - “Turkey’s basic demands have been met; we got what we wanted” – was out of place, spiteful and ill-mannered

• Un journaliste turc au cuir tanné par l’expérience montre effectivement une certaine retenue dans la description de cette “réconciliation”, triomphale du point de vue turc… Voici les quelques considérations que nous propose Hüsnü Mahalli, dans Al-Akhbar, le 26 mars 2013 :

«Erdogan and his foreign minister Ahmet Davutoglu wanted to leave behind all these complex calculations by strengthening their alliance with the US. This meant a reconciliation with Tel Aviv, according to the conditions set during US Secretary of State John Kerry’s latest visit to Ankara. This could be the reason behind last week’s backtracking by Erdogan on his former statements on Zionism, announcing that he had not meant what he said and that he is neither against Judaism nor Zionism, but opposed to the policies of Israel concerning the rights of Palestinians.

»This new position was enough for US President Barack Obama to convince Israeli PM Benjamin Netanyahu to call Erdogan and apologize for the Israeli army’s actions against the Mavi Marmara ship in May 2010. But Netanyahu only gave verbal promises about lifting the siege on Gaza, which was the third fundamental condition set by Turkey for reconciliation with Israel.

»However, these indicators are not the only reason for Israel’s apology to Turkey. Ankara does not hide its dire need for the support of the Jewish Lobby in the US, which had threatened to sabotage Erdogan’s visit to Washington at the end of this month unless he reconciles with Tel Aviv. It is expected that the reconciliation will be reinforced with a surprise visit to Ankara by Netanyahu very soon and before Erdogan’s visit to the US.»

• Quoi qu’il en soit des modalités des “excuses” israéliennes, la presse turque fut aussitôt envahie de grandioses descriptions de l’avenir du Moyen-Orient sous la férule et l’inspiration d’Erdogan, y compris avec des cartes décrivant la nouvelle situation, comme celle de Taha Akyol, le 25 mars, lors d’une émission de la BBC. Depuis les cartes des neocons largement diffusées dans les années 2002-2004 sur le “nouveau Moyen-Orient” redessiné par la démocratie américaniste, on a pris l’habitude de se lasser de cette sorte de représentation à la fois graphique, enfantine et hypothétique des grands événements préparés par des maîtres-cerveaux, maîtres du monde. Cette fois, donc, il s’agit du cerveau d’Erdogan, et l’article de Bülent Kenes, rédacteur-en-chef de Today's Zamman, du 26 mars 2013, est significatif. Le quotidien est le premier de Turquie, et décrit comme très proche des milieux gouvernementaux. L’article décrit une nouvelle “Grande Turquie”, éventuellement une “Grande Nation Sunnite” puisqu’on y est, la création d’une nation kurde et l’éclatement de la Syrie et de l’Irak (ceci expliquant cela et l’ensemble étant évidemment connecté de causes en effets). Les circonstances, le thème développé, la position du journal, tout indique donc qu’il s’agit d’un reflet très précis de la pensée de la direction turque, Erdogan-Davutoglu. Voici l’entame et la conclusion de l’article…

«The region is changing at an incredible pace. It is as if the socio-political energy built up over the century is bursting in geopolitical volcanic eruptions. The artificial geopolitical straight jacket, tailored by France and England for the region in the wake of the First World War, is proving unfit. We are at the threshold, or even right in the middle of, a process where similar transformations will occur or are already occurring in the Middle East after more than 20 years since the end of the Cold War, which radically altered the political and strategic map of the world. The signs are everywhere that a new Middle East is emerging. But what sort of Middle East? Will it be “The New Middle East” described by Shimon Peres in his book written in the 1990s? Or will it be a Middle East with completely different dynamics and effects? […]

»…It is possible that the Kurdish entities in Iraq and Syria may be one of the founding elements of the New Turkey, which may come to adopt a federal character through radical changes to its political and administrative system. In the end, the emerging conditions, circumstances and alliances of the New Middle East in the making may leave no choice to Iraqi and Syrian Kurds other than to collaborate with Turkey to establish a common future and share a common fate. Furthermore, this may put Turkey in a position where it has to confront Iran and the wider Arab world, and also trigger existential concerns in Israel, thereby making these two countries in need of each other once again. I think it wouldn't be an overstatement to suggest that Israel's apology and Turkey's eagerness to normalize its ties with Israel should be seen within the context of this scenario. What do you think?»

What do we think ? Bof… La description des lendemains turcs qui chantent implique énormément de conditions et d’acceptations tacites, sinon d’encouragements de la part de divers protagonistes, voisins, etc., dont nombre ont les dents longues et leurs propres idées. Elle implique la participation active des Kurdes, lesquels n’ont pas montré grand enthousiasme ces derniers jours. Le Weekly Comment de l’institut Conflicts Forum de Beyrouth, du 29 mars 2013, remet certaines perspectives en ordre, en y introduisant les petits calculs qui se cachent souvent derrière les grandes manifestations théâtrales…

«Turkey’s Acceptance of an Israeli apology, and the PKK Peace Process: These two events are not unconnected to the angry divisions within the anti-Assad camp, described above: there is presently a surfeit of hubris in the Arab world over who is the leader of the Sunni world: with Erdogan, the Emir of Qatar and the Saudi king all claiming the title. Erdogan and the Emir, though suspicious of each other, nonetheless are bound by a common interest in seeing the Muslim Brotherhood come to power in the region. They believe that it is they who should be directing and stage-managing President Assad’s downfall, in the wider interests of the MB coming to power. Ranged against them are Saudi Arabia and the Emirates, who reject this claim, to insist that it is they, rather, who should manage the overthrow of President Assad, but in the interests of the MB not coming to power. President Obama seems undecided who to anoint, but Washington, over recent months, has noticeably cooled towards Turkey’s stewardship of the northern front against Syria. (The US Ambassador in Ankara has publicly criticised Turkish facilitation of the al-Nusra Front, which the US regards as an al-Qae’da offshoot). This drift by the US away from Erdogan, has caused anxiety in Ankara, and the sense was that this strategic relationship needed to be repaired. Erdogan is due to visit Washington shortly, but the ‘lobby’ (AIPAC) has been threatening to disrupt the smooth running of Erdogan’s DC visit, to protest at his anti-Israeli rhetoric. Erdogan’s somewhat triumphant acceptance of Netanyahu’s apology (which has irritated the Israelis considerably), is hoped to allow Turkey to again become central in the US calculations on Syria, and central to the future of the Kurds…»

…Décidément, que reste-t-il de la politique triomphante d’Erdogan, jusqu’à l’été 2011 ? Il semble y avoir une dérive impétueuse et inarrêtable vers une sorte de climat de mégalomanie parcourue de schizophrénies et paranoïas diverses, qui caractérise aujourd’hui l’état d’esprit général au Moyen-Orient, notamment des dirigeants du camp musulman allié au bloc BAO. A croire que la pensée-Système et bloquée du bloc BAO ne cesse d’infecter tout ce qu’elle touche, – mais c’est tout cru, sinon tout vu, d’ailleurs. Il en résulte que l’hubris règne, ajoutant au désordre des situations celui des esprits et des ambitions et créant un climat de déstabilisation générale dans cette région qui fut considérée longtemps comme si fragile pour qu’on pût envisager d'y susciter le moindre changement ; et une déstabilisation générale qui, de plus en plus systématiquement, prend la liberté de se retourner très souvent contre les déstabilisateurs eux-mêmes, par conséquent elle aussi animé d’un caractère de très profond désordre par rapport à elle-même et à l'orientation qu'on lui donne.

La Turquie et ses ambitions hégémoniques s’inscrivent donc dans un contexte général de désordre, particulièrement dans les psychologies des dirigeants, éventuellement avec l’aide des poings lorsqu’il s’agit des Saoudiens et des Qatariens, et sous l’aile d’une politique US évanescente et partagée d’une façon chaque fois différente entre la Maison-Blanche, le département d’État, peut-être le Pentagone à mesure de l’installation de Hagel, et bien sûr le duo Congrès-AIPAC. On finirait par croire que le courant “le désordre précédant les causes du désordre” prend également une dimension géographique pas loin d’être invertie… Aujourd’hui, le désordre psychologique est plus autour de la Syrie, dans la coalition anti-Assad, que dans le camp d’Assad en Syrie même. A cet égard, on doit évidemment ajouter les manœuvres à l’intérieur du camp rebelle et la psychose islamistes des divers pays du bloc BAO. DEBKAFiles signale (le 30 mars 2013) que le bloc BAO fait évoluer son embargo des armes en songeant à l’étendre du seul Assad aux rebelles eux-mêmes, pour empêcher une revente aux islamistes des armes données aux “modérés”. Hier, on se battait pour lever l’embargo, aujourd’hui on se mobiliserait plutôt pour le resserrer… Les nouvelles positions qui seraient acquises par les rebelles sur la frontière syro-jordanienne et syro-israélienne, variant selon les sources (DEBKAFiles le 25 mars 2013 et Antiwar.com le 30 mars 2013), font craindre que des islamistes trouvent des bases sur ces frontières et menacent par conséquent la Jordanie et Israël ; de là à imaginer qu’Assad pourrait juger avantageux de laisser aux islamistes quelques points stratégiques sur les frontières sensibles de la Syrie pour exporter le désordre en précipitant encore plus les psychologies de ses adversaires dans le susdit désordre.

…Ainsi cohabitent étrangement, dans les pays coalisés pour avoir raison de la Syrie, les ambitions les plus échevelées concernant une région entière débarrassée de la Syrie, et les pulsions extérieures de désordre de la “guerre syrienne” venues de Syrie vers eux qui veulent s’en débarrasser. Ce n’est finalement que rajouter du désordre au désordre, – sans savoir rien de plus, toujours, du sort de sa cause originelle...

L’OTAN codifie les nouvelles guerres cybernétiques

cooppppcyb.jpg

Andrea PERRONE:

L’OTAN codifie les nouvelles guerres cybernétiques

 

L’Alliance Atlantique tente d’obtenir de ses partenaires une réglementation commune contre les attaques informatiques; en réalité elle veut recevoir un blanc-seing pour devenir le gendarme mondial

 

Dans un monde de plus en plus “globalisé” où se répètent et se succèdent les attaques informatiques destinés à frapper et à espionner d’autres Etats, l’OTAN a préparé un manuel pour réglementer, à sa façon, les guerres cybernétiques, ce qui s’est fait, bien entendu, pour défendre les intérêts exclusifs de l’“Empire Stars and Stripes”. Le document suggéré par l’OTAN prévoit que, dans le futur, les attaques “online” pourront donner lieu à de véritables conflits militaires. Le quotidien britannique “The Guardian” dénonce les dangers que recèle cette démarche dans un long article où l’auteur rappelle les attaques informatiques lancées il y a quelques années contre les sites nucléaires iraniens par le biais d’un virus d’origine américaine ou israélienne qui a pu mettre hors d’usage les centrifugeuses utilisées pour l’enrichissement de l’uranium. Le virus utilisé s’appelait “Stuxnet” et avait été créé et délibérément diffusé par le gouvernement américain dans le cadre de l’opération “Jeux Olympiques” lancée par le Président américain George W. Bush en 2006. Cette opération consistait en une vague d’attaques digitales contre l’Iran en collaboration avec le gouvernement de Tel Aviv, plus particulièrement contre la centrale nucléaire iranienne de Natanz dans le but de saboter la centrifugeuse de la dite centrale en envoyant des ordres spécifiques au “hardware” contrôlant le dispositif industriel responsable de la vitesse de rotation des turbines. Le but était de les endommager au point qu’elles soient irréparables. Les experts de l’OTAN, qui se sont réunis à Tallinn pour élaborer le nouveau document, sont d’avis que l’attaque contre les centrifugeuses iraniennes est assimilable à un conflit armé.

 

Avec la publication récente de ce document, l’OTAN cherche à montrer à tous qu’elle n’est rien d’autre qu’une organisation de gais lurons altruistes qui a pour objectif d’éviter les attaques cybernétiques visant des objectifs civils comme les hôpitaux, les barrages ou les centrales nucléaires, et non pas de devenir, pour les siècles des siècles, le gendarme du monde au service des intérêts américains, comme on le constate pourtant partout. Selon l’OTAN, l’élaboration de normes constitue le premier pas dans la réglementation générale du “cyberwarfare”. Ces normes, désormais couchées sur le papier, prévoient que les Etats pourront désormais riposter par des forces conventionnelles contre toute attaque informatique menée par un autre pays qui aurait provoqué des morts ou des dommages considérables.

 

Le nouveau manuel de l’OTAN contient 95 normes assez contraignantes, élaborées par vingt experts juristes qui ont planché pendant trois ans en gardant des contacts étroits avec le Comité International de la Croix Rouge et le “Cyber Command” de l’armée américaine. Ces normes prévoient que les “hackers” responsables des attaques, même s’ils sont des civils, pourront être considérés comme des cibles légitimes par les militaires de l’OTAN. Le groupe d’experts a été invité à préparer le manuel, présenté il y a quelques jours à Londres dans le cadre du “think tank” de Chatham House, par le “Co-Operative Cyber Defence Centre of Excellence” (CCDCOE) de l’OTAN, celui qui se trouve justement à Tallinn en Estonie. Ce centre a été mis sur pied à Tallinn en 2008 après une vague d’attaques contre les Pays Baltes, parties de Russie pour frapper les Estoniens qui avaient détruit le symbole de la victoire communiste-moscovite, le monument au soldat russe. Le fait que l’activité de contre-attaque cybernétique soit basée en Estonie révèle que les ennemis de Washington sont géographiquement proches, se trouvent donc à Moscou ou à Beijing, deux pays émergents posés comme ennemis absolus de l’unipolarisme américain, aujourd’hui en déclin.

 

L’OTAN se prépare donc à lancer ses attaques cybernétiques en les camouflant en instruments de défense contre les “Etats-voyous”. L’Alliance Atlantique s’organise simultanément pour réglementer, de manière encore sommaire, le fait nouveau que constituent les attaques informatiques: selon le document de l’OTAN, il faudra, dans ce type de guerre, éviter les objectifs sensibles et civils tels les hôpitaux, les barrages, les digues et les centrales nucléaires. Toutefois, le manuel à consulter en cas de “cyberguerre” stipule bien que toute attaque “online” pourrait entraîner dans l’avenir des conflits militaires réels et complets.

 

Les règles élaborées par cette équipe d’experts payés par l’Alliance Atlantique représentent la toute première tentative de codifier, sur le plan du droit international, les attaques “online”, tout en prévoyant une série de dispositifs utiles aux Etats pour riposter au moyen de forces conventionnelles si l’agression est commise dans l’intention de s’insérer dans les réseaux informatiques d’autres pays et provoquerait des morts ou des dommages considérables aux biens ou aux infrastructures.

 

Ce manuel rédigé par les vingt experts ès-jurisprudence travaillant en collaboration avec le Comité International de la Croix Rouge et l’“US Cyber Command” se compose donc de 95 normes et affirme que des guerres à vaste échelle pourraient être déclenchées si des attaques “online” étaient perpétrées contre des systèmes informatiques. Le document affirme par ailleurs que les “hackers” qui organisent de telles attaques “online” pourraient constituer des objectifs à éliminer en cas de guerre, même s’ils sont des civils. Le groupe d’experts a aussi été invité à rédiger le manuel par le CCDCOE de l’OTAN, basé à Tallinn, capitale de l’Estonie. Il a fallu trois ans pour rédiger ce manuel.

 

Au courant du mois de janvier 2013, le Premier ministre conservateur britannique David Cameron a annoncé que le Royaume-Uni, à son tour, est prêt à faire partie du CCDCOE dès cette année. L’ambassadeur du Royaume-Uni à Tallinn, Chris Holtby, a observé que “le Royaume-Uni enverra un expert pour continuer une coopération à grande échelle avec le centre tel qu’il existe actuellement. Le Royaume-Uni apprécie grandement les travaux du centre et prévoit d’augmenter sa contribution”. Le Colonel Kirby Abbott, conseiller juridique attaché à l’OTAN, a déclaré à l’occasion de la présentation du manuel qu’actuellement “ce manuel est le plus important en matières de lois régissant la cyberguerre”; “il sera fort utile” a-t-il ajouté.

 

La norme 22 du manuel dit, textuellement: “Un conflit armé international existe dès lors qu’il y a hostilités, lesquelles peuvent comprendre des opérations informatiques ou seulement s’y limiter et peuvent s’observer entre deux Etats ou plus”. Le manuel suggère des “contre-mesures” proportionnées contre les attaques online d’un autre Etat, contre-mesures qui, comme elles ont été annoncés et couchées sur le papier, seront ipso facto acceptées par cet Etat agresseur. Elles ne pourront toutefois pas impliquer l’usage de la force, sauf si la cyber-attaque a provoqué des morts ou des dommages graves aux personnes et aux infrastructures. Formuler un cadre pour les contre-mesures, sur lesquelles tous se sont mis d’accord, ne devrait pas abaisser le seuil pour enclencher de nouveaux conflits, a déclaré au “Guardian” le Professeur Michael Schmitt, directeur du projet, qui travaille au service de l’ “US Naval War College”. “On ne peut utiliser la force que quand on atteint le niveau d’un conflit armé. Tous parlent du ‘cyberspace’ comme s’il s’agit du Far West. Nous avons découvert que de nombreuses lois pouvaient s’appliquer au ‘cyberspace’”, a observé ce conseiller de l’OTAN. Dans de nombreux cas, il semble difficile de percevoir les prémisses d’une attaque online. Le mois passé, depuis Shanghai, une attaque serait partie provenant d’une unité de l’armée chinoise, laquelle unité aurait déjà été la source de nombreuses autres attaques informatiques au niveau international, ce qui nous montre clairement qu’il s’avère difficile de reconnaître les responsables d’éventuels dommages aux systèmes informatiques.

 

La norme 7 du document affirme, en revanche, que si une opération de “cyberguerre” provient d’un réseau appartenant à un gouvernement, “ce n’est toutefois pas une preuve suffisante pour attribuer la dite opération au dit Etat, mais indique, plus simplement, que l’Etat en question est lié à l’opération”.

 

Le manuel retient également l’idée que, conformément aux clauses de la Convention de Genève, toute attaque contre des sites-clefs civils doit être absolument considérée comme hors-la-loi. L’article 80 du manuel affirme textuellement “qu’afin d’éviter la propagation de substances dangereuses et les conséquences qu’une telle diffusion pourrait entraîner, notamment de lourdes pertes parmi la population civile, une attention toute particulière doit être portée aux ‘cyber-attaques’ qui, le cas  échéant, seraient perpétrées contre les installations qui, pour fonctionner, utilisent des substances dangereuses ou contre des barrages, des digues, des centrales nucléaires et électriques ainsi que contre d’autres installations situées à proximité de celles-ci”. Les hôpitaux et les unités médicales devront recevoir la protection dont ils bénéficient déjà selon les normes qui régissent la guerre traditionnelle.

 

Le manuel ne doit toutefois pas être vu comme un document officiel de l’OTAN mais comme un simple manuel de consultation. Il a déjà été publié par les presses de l’Université de Cambridge car de nombreux juristes britanniques ont travaillé à la réalisation du projet. Cependant, comme, en bout de course, tout ce qui émane des milieux politico-militaires de l’Alliance Atlantique finit par avoir pertinence, y compris sur le plan juridique, ce manuel pourra servir à anéantir tout adversaire potentiel, si non par les armes du moins par les procès. En 2010, la stratégie de sécurité nationale du Royaume-Uni a défini les “cyber-attaques”, y compris celles qui frappent d’autres Etats, comme une des quatre menaces “de premier plan”, au même titre que le terrorisme, les crises militaires et les litiges entre Etats. Toutefois, on peut craindre que la teneur de ce manuel, qui fera petit à petit loi, portera préjudice à tous, notamment aux Etats émergents, qui auront l’heur de déplaire aux dirigeants de l’Occident euro-atlantiste, travaillés par le désir toujours inassouvi d’exporter leur “modèle” de démocratie, à coup de bombes ou... d’attaques informatiques.

 

Andrea PERRONE.

(article paru le 21 mars 2013 sur http://www.rinascita.eu/ ).

Crise à Chypre: Et si le rêve européen touchait à sa fin?

Chypre-Nicosie-Makarios.jpg

Crise à Chypre: Et si le rêve européen touchait à sa fin?

Un peu d’histoire

Les récents événements à Chypre ont donné lieu à un déferlement médiatique excessif et souvent bien éloigné de la réalité. La partie sud de l’île de Chypre (la partie nord étant envahie militairement par la Turquie depuis 1974) est peuplée de 770.000 habitants et ne représente que 0,3% du PIB de la zone euro. L’île, bien que relativement méconnue du grand public, du moins jusqu'à cette crise, a eu une histoire très tumultueuse la partageant largement entre l’Occident et l’Orient. Les lecteurs souhaitant en savoir plus peuvent consulter cette histoire illustrée de l’île s’arrêtant à 2004.

C’est justement à cette date que Chypre a intégré l’Union Européenne (le pays étant le plus riche des nouveaux entrants à l’époque) puis en 2008 Chypre a intégré la zone euro. A ce moment l’île connaissait déjà des afflux de capitaux russes et la législation fiscale y était déjà sensiblement la même qu’aujourd’hui. La même année la crise financière à frappé l’île comme tous les pays occidentaux et lors de la restructuration de la dette Grecque, les actifs des banques Chypriotes (qui contenaient une forte proportion de bons du trésor grecs) ont été brutalement dévalorisés par cette décision de l'Eurogroupe. Le pays en 2011 avait pourtant une dette en pourcentage du PIB inferieure à celle de la France, de  l’Italie et  de l’Allemagne. Jacques Sapir rappelle en outre que les banques chypriotes ont aujourd’hui des actifs qui sont égaux à 7,5 fois le PIB de l’île, alors que la moyenne dans l’UE est de 3,5 fois, mais que c’est largement moins par exemple que le Luxembourg dont les actifs bancaires pèsent 22 fois le PIB.

Le racket fiscal: nouvelle solution pour régler la crise?

La Troïka (une alliance de la BCE, du FMI et de l’UE) a donc choisi une mesure radicale pour récupérer la trésorerie nécessaire au renflouement des banques: le prélèvement de l’argent via une ponction obligatoire pour tous les détenteurs de comptes sur l’île. Une mesure sans précédent et vraisemblablement contraire à toutes les normes juridiques bancaires internationales, que les autorités russes ont qualifié non seulement d’injustes et dangereuses et qui montrent bien selon eux que le modèle économique néolibéral est complètement épuisé. Des officiels russes ont même parlé d’une mesure de type soviétique et la presse russe à elle titré sur la fin de l’Europe civilisée.

Les commentateurs français quand à eux ont ces derniers jours au contraire justifié ce racket fiscal imposé sur les comptes chypriotes par la Troïka en affirmant qu’après tout on y prélevait de l’argent sale et russe, ou russe et donc sale, et que par conséquent la mesure était justifiée. Mention spéciale à Marc Fiorentino pour qui il ne faut pas "s’emmerder" avec ce pays (…) Dans "lequel les gens ne payent pas leurs impôts (…) Et en frappant l’argent de la mafia russe". Les Chypriotes apprécieront. Pour Christophe Barbier la mesure vise "l’argent pas propre de Chypre" ce que les milliers de petits salariés qui risquent d'être maintenant licenciés auront sans doute du mal à croire.

Les politiques ne sont pas en reste. Pour le Ministre délégué auprès du ministre des Affaires étrangères Bernard Cazeneuve "il est normal que les oligarques russes payent", pour Alain Lamassoure "il est normal que la lessiveuse à laver l'argent sale qu'est Chypre soit arrêtée et que les oligarques russes payent" et pour Daniel Cohn-Bendit "qu'on taxe un oligarque russe ne va pas lui faire mal digérer ce qu'il a mangé ce soir" (sources). Quand a François d’Aubert il affirme lui "qu’il n’y a pas de raison que le contribuable européen finance l’épargne des oligarques russes".

On aimerait bien entendre les mêmes commentateurs sur les investissements russes en Angleterre, ce pays qui accorde le droit de résidence à un grand nombre d’oligarques dont on peut grandement douter qu’ils aient fait fortune légalement, ou même et pour faire plus proche sur nombre d’investissements russes en France notamment sur la cote d’Azur à la fin des années 90.

Romaric Gaudin remet lui relativement les pendules à l’heure en rappelant que "Les Européens, prompts à pleurer sur le sort peu enviable de Mikhaïl Khodorkovski oublient que ce dernier avait construit son empire sur la banque Menatep, basée à… Chypre" ou encore que "Lorsque l’argent russe va vers Chypre, il est forcément sale. En revanche, lorsque l’argent russe construit un gazoduc sous la baltique vers l’Allemagne, investit dans le football britannique, il devient respectable".

Les mythes sur Chypre ont la peau dure

A Chypre, en y regardant de plus près, la situation n’est pas vraiment celle décrite dans la presse francophone.

D’après l’économiste Natalia Orlova, le montant des dépôts dans les banques chypriotes s’élève à 90 milliards d’euros (particuliers et entreprises) dont seulement 30% est détenu par des personnes (morales ou physiques) pas originaires de la zone Euro. Les dépôts russes à Chypre sont selon elles estimés à environ 20 milliards et 13 milliards correspondent à des dépôts grecs, britanniques mais aussi du Moyen-Orient. L’immatriculation de sociétés a en effet contribué à la fortune de Chypre, qui offre il est vrai un cadre légal et fiscal avantageux et très souple. De nombreuses sociétés se sont ainsi très logiquement et légalement domiciliées à Chypre, au sein de l’Union Européenne. Parmi elles de nombreuses sociétés russes ayant des activités économiques intenses avec l’UE, bénéficiant à Chypre d’un régime fiscal avantageux (I.S à 10%) et d’un traité de non double imposition leur permettant donc de rapatrier leurs profits  en Russie sans être taxées deux fois.

Les arguments basés sur la "volonté de lutter" contre le blanchiment d’argent sale et russe, ou russe et forcément sale, ont tourné à la caricature grotesque puisque si les dépôts russes à Chypre se montent à environ 20 milliards d’euros, à titre de comparaison l’an passé, on a enregistré 120 milliards d’euros de mouvements de fonds russes vers Chypre, mais aussi et surtout 130 milliards d’euros de mouvements de fonds de Chypre vers la Russie (sources ici et la). Depuis 2005 les investissements de Chypre vers la Russie sont supérieurs aux investissements de Russie vers Chypre! Selon Marios Zachariadis, professeur d'économie à l'université de Chypre: "la proportion des avoirs étrangers illégaux à Chypre n’est pas supérieure à ce qu'elle est en Suisse ou au Luxembourg", pays qui vient par ailleurs il y a peu de signer le traité de non double imposition avec la Russie tout comme Chypre. Une réalité confirmée par le secrétaire d’Etat allemand aux Finances, Stefan Kampeter qui a explicitement affirmé qu’il "n’y avait aucun signe à Chypre de dépôt illégal et que les allégations de blanchiment d’argent contre Chypre ne pouvaient être prouvées".

Le parlement chypriote a voté contre le pan initial de la Troïka qui envisageait un prélèvement obligatoire sur tous les comptes de l’île et c’est seulement dans la nuit de dimanche à lundi dernier qu’un accord a été trouvé, à savoir le prélèvement de 100% des actifs au-dessus de 100.000 euros sur tous les comptes de la banque la plus malade de l’île, et un pourcentage non encore fixé (30 à 40%) au-dessus de 100.000 euros sur tous les comptes de la seconde grande banque du pays. En clair, le racket pur et simple de l’argent chypriote et non chypriote (russe, est européen, anglais et oriental) massivement stocké dans les deux principales banques de l’île. Est-ce normal que des actifs étrangers légaux payent pour la crise grecque? Peut-on imaginer les sociétés françaises ou américaines de Russie se faire taxer 40% de leurs actifs pour payer la dette d’un pays qui au sein de l’Union Eurasiatique serait mal en point? On peut tenter d’imaginer la réaction américaine dans une telle situation.

La guerre financière, entre énergie et orthodoxie

Chypre apparaît en réalité de plus en plus comme un maillon (un pion pour Thierry Meyssan) au cœur d’une tension géopolitique opposant de plus en plus directement et frontalement la Russie et l’Occident.

L’Eurogroupe a sans doute rempli ses objectifs réels. Tout d’abord celui de prendre une mesure test sur un pays de petite taille et qui a sans doute servi de laboratoire. Déjà l’Espagne et la Nouvelle Zélande se sont dites prêtes à faire passer une mesure similaire, pour combler le déficit de leurs systèmes bancaires. Nul doute que la liste va s’allonger. Les conséquences vont sans doute être très lourdes et pourraient insécuriser de nombreux titulaires de comptes dans la zone Euro. Bien que l'Eurogroupe répète en boucle que Chypre est un cas bien à part, nombreux sont les Européens tentés de déplacer leurs actifs financiers ailleurs, et sans doute outre-Atlantique, affaiblissant ainsi de plus en plus l’Europe et la zone euro. Les Chypriotes l’ont bien compris en brandissant dans la rue des pancartes "Nous ne serons pas vos cobayes" et alors que les rues de Nicosie sont pleines de messages adressés aux frères orthodoxes russes et que les manifestations de ces derniers jours voient fleurir les drapeaux russes.

Après la faillite de la Grèce, la Russie s’était engagée il y a près d’un an sur la voie du rachat du consortium gazier grec DEPA/DESFA par Gazprom. Ces négociations intervenaient quelques mois après la chute du régime libyen (et la perte financière importante liée pour Moscou) mais elles se sont visiblement arrêtées lorsqu’il y a un mois le département d'Etat américain a tout simplement mis en garde Athènes contre une coopération énergétique avec Moscou et déconseillé une cession de DEPA à Gazprom qui "permettrait à Moscou de renforcer sa domination sur le marché énergétique de la région". Empêcher une plus grande intégration économique Russie-UE est-il vraiment dans l’intérêt de l’Europe aujourd’hui alors que le président chinois vient de faire sa première visite internationale à Moscou avec à la clef une très forte intensification de la coopération politique, militaire mais aussi et surtout énergétique entre les deux pays ?

En sanctionnant ainsi directement les actifs russes dans les banques de Chypre, c’est la Russie qui est directement visée et touchée. Bien sur les Russes ont logiquement des visées et elles sont bien plus importantes que la simple exploitation du gaz offshore dont le consortium russe Novatek a été exclu de façon assez inexpliquée. D’après l’expert en relations internationales Nouriel Roubini, la Russie vise simplement l’installation d’une base navale sur l’île (ce que les lecteurs de RIA-Novosti savent depuis septembre dernier) et que les Russes pourraient tenter de monnayer en échange d’une aide financière à Nicosie.  

A ce titre, les négociations russo-chypriotes n’ont pas échoué contrairement à ce que beaucoup d’analystes ont sans doute hâtivement conclu. Mais Chypre ne se trouve sans doute pas suffisamment dans la sphère d’influence russe au vu de la dimension de tels enjeux. Il faudrait pour cela qu’elle quitte l’UE et rejoigne la Communauté économique eurasiatique, comme l’a clairement indiqué Sergueï Glaziev, le conseiller du président Poutine.

Il faut rappeler que Sergueï Glaziev avait au début de cette année dénoncé la "guerre financière totale que mènent les pays occidentaux contre la Russie aujourd’hui". Une guerre financière qui semble confirmée par les dernières menaces de la BCE envers la Lettonie pour que celle-ci n’accueille pas d’éventuels capitaux russes qui pourraient vouloir sortir de Chypre.

Sur le plan extérieur, Chypre reste un maillon crucial pour la Russie dans le cadre de son retour au Moyen-Orient et en Méditerranée, mais aussi dans le cadre de ses relations avec l’Occident. Sur le plan intérieur, le pouvoir russe peut enfin montrer qu’il est décidé à maintenir ses objectifs de lutte contre l’offshorisation de l’économie russe, dont Vladimir Poutine avait fait un point essentiel, dans son discours de fin d’année 2012. C'est dans cette optique que le groupe public russe Rosneft vient d’indiquer qu’il allait rapatrier de plusieurs zones du monde réputées offshore les actifs hérités lors de l’acquisition de son concurrent anglais: TNK-BP, notamment de Chypre et des Caraïbes.

Au cœur du monde orthodoxe, la fin du rêve européen?

Mais pendant qu’Occident et Russie s’affrontent par territoires interposés au cœur de la Méditerranée (Grèce, Syrie, Chypre…) le peuple chypriote et les dizaines de milliers de travailleurs anglais et est-européens immigrés à Chypre vont payer la facture et sans doute traverser des années difficiles, Jean Luc Mélenchon a par exemple déjà promis l’enfer aux Chypriotes.

Alors que la Bulgarie a récemment  interrompu ses négociations d’intégration à l’euro, la Grèce continue à s'enfoncer dans l’austérité. A Chypre aujourd’hui, selon les derniers sondages, 67% des habitants souhaitent désormais que leur pays quitte la zone euro, l’UE, et se rapproche de la Russie, une position soutenue activement par l’église orthodoxe chypriote.

Au cœur de la Méditerranée et du monde orthodoxe, le rêve européen semble toucher à sa fin.

L’opinion exprimée dans cet article ne coïncide pas forcément avec la position de la rédaction, l'auteur étant extérieur à RIA Novosti.

Alexandre Latsa est un journaliste français qui vit en Russie et anime le site DISSONANCE, destiné à donner un "autre regard sur la Russie".

Par ailleurs veuillez trouver les dernières interventions dans la presse Mainstream concernant le dossier chypriote ci-dessous:

Chypre, les dessous d'une plaque tournante pour l'argent russe
http://www.latribune.fr/actualites/economie/international/20130320trib000755038/chypre-les-dessous-d-une-plaque-tournante-pour-l-argent-russe.html

Ce que la Russie veut imposer à Chypre
http://www.latribune.fr/actualites/economie/international/20130319trib000754863/ce-que-la-russie-veut-imposer-a-chypre.html

Chypre un cadeau pour Poutine?
http://www.europe1.fr/Economie/Chypre-c-est-un-cadeau-pour-Poutine-1460199/

Le printemps arabe : un piège des islamistes

obama-muslim-honor.jpg

Le printemps arabe : un piège des islamistes qui ont infiltré la Maison Blanche

 

Ex: http://www.tunisie-secret.com/
 
par Fakhreddine Besbes

Après lecture de cet article, on comprendra pourquoi Ghannouchi dirige la Tunisie et Morsi préside l’Egypte. Deux ans après son déclenchement en Tunisie, le « printemps arabe » parait tel que personne ne l’a vu au départ : une destruction méthodique des Etats-nations et le remplacement des régimes despotiques mais modernistes issus de la décolonisation par des régimes islamistes réactionnaires et inféodés aux USA. On dira que c’est une lecture « conspirationniste » des évènements. C’est l’argument des désinformateurs et des agents à la solde de l’impérialisme. Voici les faits exposés par un docteur en sciences politiques, qui a bien voulu nous adresser son analyse. Jugez-en par vous-mêmes.

 

Tout a commencé juste après les attentats criminels du 11 septembre 2001. Lorsque Oussama Ben Laden, l’ancien agent de la CIA s’est retourné contre la puissance qui l’avait armé et galvanisé contre la présence soviétique en Afghanistan. La décision américaine de frapper Al-Qaïda en Afghanistan même n’était pas illégitime en soi. Ben Laden, ses complices et ses protecteurs devaient payer. Mais, dans son délire narcissique, George W.Bush a décidé en 2003 d’envahir l’Irak, un Etat qui n’avait strictement aucune responsabilité dans les attentats du 11 septembre, à l’inverse de l’Arabie Saoudite, gardienne des lieux saints et des puits du pétrole.

De George W.Bush à Barak Hussein Obama

C’est à partir de cette invasion que les  américains ont décidé de changer de stratégie et d’alliances : plutôt que d’en faire des ennemis, les islamistes repentis seront nos alliés et les gardiens de nos intérêts dans le monde. Sous couvert de démocratie et de droits de l’homme, nous lâcheront les régimes qui les oppriment et nous les installerons au pouvoir. Nous les appellerons « islamistes modérés », c’est-à-dire modérément démocrates et hyper-impérialistes. Nous leur fixerons trois lignes rouges à ne pas franchir : notre mainmise sur les richesses énergétiques du monde musulman, la sacralité de l’Etat d’Israël et l’arrêt des actions terrorises qui nous visent.

Ce rapprochement entre les impérialistes et les islamistes, qui réactive la vieille alliance entre le wahhabisme saoudien et le pragmatisme américain, et aussi entre les  services britanniques et les frères musulmans, a fait l’objet d’un important livre de Robert Dreyfuss, « Devil’s Game. How the United States Helped Unleash Fundamentalist Islam » (Jeu du diable. Comment les Etats-Unis ont aidé à libérer l’islam fondamentaliste ?), publié en novembre 2005.

Avec l‘arrivée au pouvoir de Barak Hussein Obama, ce rapprochement entre l’administration américaine et la secte islamiste prend un tournant décisif. Avec un père originaire du Kenya et de confession musulmane, puis un beau père indonésien, Barak Hussein a baigné dans cet islam identitaire, victimaire et communautariste qui n’a rien à voir avec l’islam quiétiste, spirituel et décomplexé de la majorité des musulmans dans le monde. Dans les années 1980, il est travailleur social, plus exactement « organisateur de communauté » (Community organizer) dans les quartiers sud de Chicago. A la même époque, il se rapproche de « L’Eglise unie du Christ », localement dirigée par le pasteur très controversé, Jeremiah Wright, issu de la secte « Nation of islam », puis finit par se « convertir » au protestantisme.

Avec Barak Hussein Obama à la Maison Blanche, les islamistes ont donc trouvé l’allié idéal qui comprend leur combat et partage leurs idéaux, ainsi que l’opportunité historique de passer à la phase finale de leur conquête du pouvoir dans le monde arabe. Pour eux, Obama est en quelque sorte le Messie libérateur, le bras par lequel le dessein d’Allah va se réaliser, pas seulement dans le monde arabe mais aussi, à moyen et long terme, dans ce vieux continent fragilisé par une déchristianisation entamée depuis plus d’un siècle. Les islamistes ne savent pas encore qu’Obama est plutôt l’Antéchrist dont la politique conduit droit vers un choc des civilisations qui fera disparaitre l’islam en tant que religion. Diviser les musulmans, tuer l’islam par le poison islamiste, telle est la stratégie machiavélique de l’administration américaine.

L’entrisme des Frères musulmans

Le 22 décembre 2012, paraissait dans le magazine égyptien « Rose el-Youssef » un article d’une importance capitale sous le titre de, « Un homme et six Frères à la Maison Blanche », signé par Ahmed Chawki, un pseudonyme. L’auteur écrit que six individus ont modifié la politique des Etats-Unis : « La Maison Blanche est passée d’une position d’hostilité envers les groupes et organisations islamistes dans le monde à celle du plus important partisan de la confrérie des Frères musulmans ».

Selon l’auteur, les six individus sont : Arif Ali-khan, secrétaire adjoint de la Sécurité intérieure pour le développement des politiques ; Mohamed Elibiary, membre du Conseil consultatif sur la Sécurité intérieure ; Rached Hussein, envoyé spécial américain de l’Organisation de la Conférence islamique ; Salem al-Marayati, cofondateur de Muslim Public Affairs Council (MPAC) ; Mohamed Majid, président de l’Islamic Society of North America (ISNA) ; Eboo Patel, membre du Conseil consultatif du président Obama, chargé des partenariats confessionnels d’arrondissements.

Le pédigrée des six Frères
       

Né en 1968 d’un père indien et d’une mère pakistanaise, Arif Ali-Khan est un avocat musulman et professeur à l’Université de la Défense Nationale, spécialisé dans la lutte antiterroriste. Après son succès en tant que maire adjoint de Los Angeles, il a été nommé en 2009 par Obama secrétaire adjoint à la Sécurité intérieure. Il a été surtout conseiller d’Obama chargé du dossier des Etats musulmans. Fondateur de l’Organisation mondiale islamique qui est une ramification de l’Organisation Mondiale des Frères Musulmans, c’est lui qui a assuré les liens et les négociations avec les mouvements islamistes avant et après le « printemps arabe ».

Né en Alexandrie, Mohamed Elibiary a grandi au Texas où s’étaient installés ses parents qui ont fui la persécution des islamistes en Egypte. Mohamed Elibiary, alias le « qutbiste » pour son fanatisme à l’égard des idées de Saïd Qutb, est un membre éminent des Frères musulmans aux Etats-Unis. Diplômé en management et en ingénierie réseau, a été directeur de la section de Houston du Council on American Islamic Relations (CAIR), une vitrine des Frères musulmans aux USA. C’est lui qui a rédigé le discours d’Obama appelant Hosni Moubarak à quitter le pouvoir.

Né en 1978 dans le Wyoming, Rached Hussein est un avocat d’origine indo-pakistanaise qui était un membre secret des Frères musulmans. En juin 2002, il a participé à la Conférence annuelle de l’American Muslim Council, anciennement dirigée par Abdurrahmane Alamoudi, qui a été condamné pour financement de terrorisme. Il a aussi participé au comité organisateur du Critical Islamic Reflection, aux côtés de grandes figures des Frères musulmans aux Etats-Unis, telles que Jamal Barzinji, Hichem al-Talib et Yacoub Mirza. Après avoir rejoint l’équipe électorale d’Obama, ce dernier l’a nommé en janvier 2009 conseiller juridique à la Maison Blanche. Barak Hussein Obama l’a chargé aussi de la rédaction de ses discours sur la politique étrangère. En 2009, c’est Rached Hussein qui a rédigé le discours d’Obama au Caire. Répondant à des critiques, Obama a dit de son ami et conseiller : « Je l’ai choisi pour ce poste parce que c’est un avocat accompli et parce qu’il a joué un rôle clé dans le développement des partenariats que j’ai demandé avec le Caire. Et comme un Hafiz (connaisseur) du Coran, c’est un membre respecté de la communauté musulmane américaine ».

Né en Irak, Salem el-Marayati est un américain d’adoption. Il est actuellement directeur exécutif de la Muslim Public Affairs Council (MPAC), une organisation islamique créée en 1986 par des Frères musulmans. Il a été nominé en 2002 pour travailler avec la National Security Agency. Les soupçons qui ont pesé sur la MPAC dans la campagne sécuritaire post 11 septembre 2001, n’ont pas empêché el-Marayati de s’approcher des néoconservateurs, puis des démocrates au sein de l’équipe d’Obama.

Né dans le nord du Soudan en 1965, Mohamed Majid est le fils de l’ancien mufti du Soudan. Il a émigré aux Etats-Unis en 1987. Après des études complémentaires, il a été en 1997 enseignant à l’Université de Howard, spécialiste de l’exégèse coranique. Membre des Frères musulmans, il a été très influent auprès des communautés musulmanes nord américaines. En tant qu’avocat occasionnel, il a été un militant farouche pour la criminalisation de toute diffamation de l’islam. Ayant soutenu la candidature d’Obama aux élections présidentielles, ce dernier lui a confié plusieurs missions associatives de type communautaristes. En 2011, il l’a nommé conseiller au Department of Homeland Security (DHS) pour lutter contre l’extrémisme et le terrorisme. Il est actuellement conseiller du Federal Bureau of Investigation (FBI) ainsi que d’autres organismes fédéraux.

Enfin, Eboo Patel est musulman américain d’origine indienne. Il a fait ses études en sociologie dans l’Illinois à Urbana-Champaign. Etudiant, il a été activiste islamiste auprès des musulmans originaires de l’Inde, de Sri Lanka et d’Afrique du Sud. Grâce à des fonds de la Fondation Ford, il est l’initiateur de IFYC en 2002. Frère musulman et ami très proche de Hani Ramadan, il est membre du Comité consultatif religieux du Council on Foreign Relations. Il a été aussi très proche de Siraj Wahhaj, un Frère musulman américain bien célèbre. Eboo Patel est actuellement consultant au Département de la Sécurité Intérieure américaine et membre du conseil Barak Obama’s Advisory.

Hillary Clinton avait aussi sa musulmane de service

Elle s’appelle Huma Mahmoud Abidin et elle a joué auprès de madame Clinton un rôle majeur au début du « printemps arabe ». Avant de rejoindre l’équipe électorale de madame Clinton, elle vient aussi de l’ancien entourage associatif et communautariste de Barak Hussein Obama. Pour montrer patte blanche au big boss noir, Hillary Clinton l’a recruté parmi ses plus proches collaborateurs. Elle est née en 1976, de père indien et de mère pakistanaise. Elle a grandi et fait ses études au pays du wahhabisme, l’Arabie Saoudite, où ses parents travaillaient. Lors des primaires démocrates de 2008, elle a été l’assistante personnelle d’Hillary Clinton. Elle est mariée à Anthony David Weiner, membre du Parti Démocrate et élu de New York.

Conclusion

Dès ses premiers frémissements en Tunisie, le « printemps arabe » a été une vaste escroquerie médiatique et une grande conspiration islamo-impérialiste, que le peuple tunisien, désireux de liberté et de démocratie n'a pas vu. Avec de telles personnalités islamistes américaines, influentes dans les instances décisionnelles et sécuritaires, le « printemps arabe » devait forcément être un hiver islamiste. Ce n’est pas du tout un hasard si les deux principaux pourvoyeurs de l’islamisme dans le monde, l’Arabie Saoudite et le Qatar, ont, dès la « révolution du jasmin », soutenu ces insurrections dites spontanées. Ce n’est pas non plus un hasard si ces Etats continuent à financer les djihadistes en Syrie qu’ils ont mis à feu et à sang, en attendant de passer sans doute à l'Iran, au Liban et en Algérie. Pour les ignorants, c’est le siècle de l’islamisme qui commence. Pour les initiés, c’est la fin de l’islam qui est amorcée.Tunisie-Secret.com

Fakhreddine Besbes, docteur en sciences politiques            

Soral, de Marx à Maurras

alainsoral.jpg

Soral, de Marx à Maurras

par Stéphane Blanchonnet

article d'abord paru sur a-rebours.fr puis repris dans L'AF2000

Ex: http://a-rebours.ouvaton.org/

« J’ai juré de vous émouvoir, d’amitié ou de colère, qu’importe ! » Cette formule de Bernanos, Alain Soral aurait pu la mettre en exergue de chacune de ses œuvres. Aucun de ses essais ne peut en effet laisser indifférent le lecteur de bonne volonté et tous ont contribué, d'une manière ou d'une autre, à entretenir la grande peur des bien pensants !
La publication récente chez Blanche et Kontre-Kulture, sous le titre de Chroniques d'avant-guerre, d'un recueil de ses articles parus dans le bimensuel Flash entre 2008 et 2011 ne fait pas exception à la règle. On y retrouve avec plaisir son talent de pamphlétaire, son flair de sociologue de terrain, son aisance à manier le concept, à faire bouger les lignes et à prendre le réel dans les mailles d'une dialectique qui n'hésite pas à s'inspirer des traditions intellectuelles les plus diverses.

L'art du boxeur

La forme brève qui est ici imposée par le genre du recueil d'articles n'est pas dépaysante pour le lecteur familier de Soral dont les ouvrages, même les plus construits, comme le roboratif Comprendre l'Empire, paru en 2011, se présentent généralement sous la forme d'une succession de textes brefs qui épuisent en quelque sorte leur sujet à la manière du boxeur enchaînant les directs, les crochets et les uppercuts pour mettre KO son adversaire.
La spécificité de ces Chroniques d'avant-guerre n'est donc pas à proprement parler la forme mais plutôt la composition générale. Là où des ouvrages comme Sociologie du dragueur ou Comprendre l'Empire (qui de l'aveu de l'auteur aurait pu s'intituler Sociologie de la domination) rassemblent les textes courts dont ils sont composés dans une progression logique en sept ou huit parties, les Chroniques d'avant-guerre progressent, elles, au fil de l'actualité des deux années et quelques mois de collaboration d'Alain Soral à Flash. Si l'impression de cohérence est moindre que dans Comprendre l'Empire, on prend un réel plaisir à revivre les événements grands ou petits de cette période. Le fait d'être parfois en désaccord avec l'auteur sur telle analyse de circonstance ou de ne pas épouser tous ses goûts et dégoûts ne nuit en rien à ce plaisir. Alain Soral a d'ailleurs lui-même l'honnêteté de montrer ses propres évolutions sur des sujets comme les printemps arabes ou sur des personnalités comme Jean-Luc Mélenchon ou Éric Zemmour. Sur ce dernier, nous appelons pour notre part de nos vœux une réconciliation entre les deux talentueux essayistes et polémistes. Sur le fond, et au-delà du cas particulier des Chroniques d'Avant-guerre, le principal intérêt de la lecture d'Alain Soral réside dans sa capacité à produire des axes à la fois politiques et stratégiques toujours cohérents, souvent audacieux, à travers lesquels, il va pouvoir donner une intelligibilité aux événements.

Gauche du travail, droite des valeurs

Le premier de ces axes est bien résumé par le slogan de son association Egalité et Réconciliation : « Gauche du travail, droite des valeurs ». A la manière de Christopher Lasch, de Jean-Claude Michéa, et à la suite de son maître en marxisme Michel Clousclard, Soral dénonce la collusion entre les libéraux et les libertaires, entre la droite et la gauche du capital comme dirait cet autre marxiste original qu'est Francis Cousin ; la gauche sociétale, soixante-huitarde, en fait libérale, ne faisant que s'acharner à détruire les reliquats de la société pré-capitaliste (« mettre une claque à sa grand-mère » selon l'expression de Marx) au nom d'un progressisme qu'elle partage avec la droite libérale, la droite des affaires, la droite du commerce ; la fonction objective de cette gauche étant de briser les moyens de résister au système que sont les solidarités traditionnelles comme la famille, la communauté, la nation. L'acharnement actuel du PS et des Verts à liquider le mariage civil en est une bonne illustration. Face à cette alliance des deux rives du libéralisme, Soral appelle à une unité militante de la gauche réellement sociale et de la droite contre-révolutionnaire. De Marx à Maurras en quelque sorte. Rappelons au passage que ce dernier écrivait qu'« un socialisme libéré de ses éléments démocratiques et cosmopolites peut aller au nationalisme comme un gant bien fait à une belle main. »


Le second axe soralien est une ligne de crête un peu comparable à celle sur laquelle s'était installé Maurras entre 1940 et 1944 quand il critiquait à la fois le camp des « Ya » et le camp des « Yes ». Elle consiste aujourd'hui à dénoncer la politique d'immigration voulue par le patronat et les libéraux de gauche comme de droite, autant d'un point de vue marxiste (l'armée de réserve du capital, la pression à la baisse sur les salaires, la destruction de l'esprit de solidarité et de lutte du prolétariat autochtone) que du point de vue de la défense de l'identité nationale, tout en refusant absolument toute forme d'islamophobie, et même en tendant la main aux musulmans. La thèse de Soral et de son mouvement est la suivante : il y a beaucoup de musulmans en France, une bonne partie d'entre eux a la nationalité française. Il est dans l'intérêt des Français de souche de s'entendre avec la partie la plus saine de cette population. Pour cela, il faut combattre énergiquement tout ce qui peut s'opposer à cette réconciliation : l'islamophobie laïciste de la gauche, l'islamophobie xénophobe de la droite, la poursuite de la politique immigrationniste, principale pourvoyeuse du racisme que ses propres promoteurs prétendent hypocritement combattre, la repentance coloniale permanente, qui entretient la haine entre les communautés et qu'il faudrait remplacer par une valorisation de notre histoire commune, les tentatives de puissances étrangères de financer ou de manipuler la population musulmane de France, le refus par la République de reconnaître la dimension catholique traditionnelle de la civilisation française, préalable pourtant indispensable à une discussion sur la place de l'Islam en France.

Tout pouvoir est une conspiration permanente

Un troisième axe est actuellement développé par Alain Soral qui n'est pas sans rapport avec le précédent. Il s'agit cette fois d'une synthèse entre Marx et l'école traditionaliste de René Guénon et Julius Evola. Sensible aux convergences entre son analyse marxiste de l'économie, en particulier de la crise financière que nous traversons, et les analyses de l'école traditionaliste comme de certains maîtres spirituels musulmans contemporains, Soral semble orienter sa réflexion vers une lecture plus spiritualiste, voire plus eschatologique des événements. Cette veine plus récente dans son œuvre, mais qui est associée à un souci chez lui beaucoup plus ancien de toujours chercher à débusquer les hommes et les intérêts derrière les idées, souci en lui-même très utile du point de vue méthodologique, peut parfois le conduire à s'intéresser à une lecture conspirationniste de l'Histoire, illustrée il est vrai par des personnalités éminentes, mais sur laquelle nous avons pour notre part quelques réserves. Cela dit, comme l'écrivait Balzac : « tout pouvoir est une conspiration permanente. » Il faudrait en effet être bien naïf pour imaginer que le monde fonctionne sur le seul mode du pilotage automatique ! Les analyses développées par Soral mais aussi par Michel Drac ou Aymeric Chauprade sur les stratégies conduites au niveau de l'Etat profond américain par les conseillers du Prince, néo-conservateurs ou autres, qui gravitent dans les sphères dirigeantes de l'Empire, sont d'ailleurs du plus grand intérêt pour comprendre la géopolitique du monde contemporain.


Pour finir, nous ne pouvons qu'encourager nos lecteurs, quelles que soient leurs réticences à l'égard de l'un ou l'autre des axes de la pensée soralienne, que nous avons tenté de résumer brièvement, à se faire une idée par eux-même en lisant ces textes qui présentent une forme toujours attrayante et une réflexion toujours stimulante. Ils y goûteront un climat intellectuel qui n'est pas sans rappeler celui des premiers années de l'Action française.

Stéphane BLANCHONNET

Ensauvagement et décivilisation? ...

Philippe Delbauvre:

Ensauvagement et décivilisation? ...

Nous reproduisons ci-dessous un point de vue de Philippe Delbauvre, cueilli sur Voxnr et consacré à l'ensauvagement de la société...

Racaille.jpg

Ensauvagement et décivilisation

Il n’est peut être pas impossible que mon lecteur se souvienne de la polémique déclenchée par Jean-Pierre Chevènement en 1998 suite à sa déclaration effectuée dans le cadre de l’assemblée nationale. Evoquant les délinquants de l’époque, il les avait alors qualifiés de sauvageons, entrainant de facto un tollé quasi général au sein de la classe politique. Le souvenir de cet incident m’est revenu en mémoire suite à la publication récente de l’ouvrage à succès de Laurent Obertone intitulé « La France orange mécanique ».

Le terme de sauvageon évoque bien évidemment la sauvagerie et donc l’absence de civilisation. Il est d’ailleurs une distinction effectuée en zoologie entre animaux domestiques ou familiers et animaux sauvages. Le problème est d’actualité puisque très récemment, Marine le Pen a évoquer l’ensauvagement croissant de toute une partie de la société française. Je ne sais si le terme a fait écho pour mon lecteur, raison pour laquelle je rappelle que la notion est issue des recherches effectuées par l’historien George Mosse (1918,1999) caractérisant une mue dans l’état d’esprit des combattants ayant connu l’enfer des tranchées. Que l’on qualifie cette mue de brutalisation (brutalization) ou d’ensauvagement, la notion reste approximativement la même puisque dans les deux cas, c’est un processus que nous pouvons qualifier de décivilisation dont il est question.

Cette décivilisation d’une partie de la société française appert durant la second partie des années soixante dix et coïncide avec l’avènement de la postmodernité. Le fait est qu’à l’époque, aussi bien Michel Poniatowski que Christian Bonnet, chacun successivement ministre de l’intérieur, malgré leur réputation de durs, ne sont pas parvenus à enrayer la montée en puissance du processus. Il est peut être utile de rappeler qu’à cette époque, c’est à dire voilà plus de trente ans, le fait migratoire n’était pas encore, loin s’en faut, devenu ce qu’il est aujourd’hui. Le processus d’involution caractérisant la modification des comportements, aussi bien des délinquants que de l’homme de la rue, ne sont bien sur pas la conséquence de décisions rationnelles issues des uns et des autres : c’est l’évolution de la société française voulue par les dirigeants politiques de l’époque, avec pour chef de file Valery Giscard d’Estaing, qui déclencha progressivement un autre rapport au monde et à autrui chez les Français. Bien évidemment, à lui seul, le chef de l’exécutif de l’époque n’eut pu faire autant de mal: le processus est à replacer dans le cadre de la postmodernité naissante mais aussi dans celui du grand vent libéral initié aussi bien par Margarett Thatcher que Ronald Reagan. C’est ainsi que nous sommes passés de l’influence majeure du marxo-stalinisme où l’Etat était tout (« le zéro et l’infini ») au libéralisme éhonté où l’individu quelconque est devenu roi. On peut remarquer d’ailleurs que l’histoire est souvent faite de grands mouvements de balancier, oscillant d’un extrême à un autre.

Revenons maintenant à nos sauvageons et analysons sans préjugés le terme. Il est une spécialité intellectuelle étudiant le parallèle entre comportements animal et humain: l’éthologie, puisque c’est son nom, a eu pour fondateur majeur Konrad Lorenz (1903,1989) même si cette discipline est déjà latente chez un penseur comme Schopenhauer (1788,1860). Je constate :

- Les jeunes dont il est question qui vivent au sein de ce que l’on appelle désormais et de façon très péjorative « cités », vivent en bandes : pour caractériser cet aspect dans le cadre animal, on évoque le terme de « meute ». Dans les deux cas d’ailleurs, la structure est très hiérarchisée et toute modification de l’édifice se fait par grande violence. Qui ignore l’exécution de temps à autres de certains chefs de bande ?

- Ces jeunes, on le sait, disposent d’un vocabulaire particulièrement restreint. Or, on sait justement que l’un des modes de différenciation entre homme et animal, est justement le langage. En cela, nos jeunes sont très proches de l’animalité.

- Les jeunes dont il est question ont un sens aigu du territoire au point que tout individu non identifié comme membre de la cité se voit abordé, voire agressé. Ce sens très particulier du territoire renvoie directement à la notion de niche environnementale qui est essentielle chez les animaux, y compris chez les moins évolués comme c’est le cas des reptiles. On sait que les animaux défendent avec beaucoup de détermination leur territoire : malheur à l’intrus.

- Le rapport qu’entretiennent ces jeunes de sexe le plus souvent masculin avec les femmes est lui aussi emblématique ; ou la femme est perçue comme instrument de plaisir et l’on voit poindre le principe des tournantes, viols collectifs effectués par la bande. Ou la femme est réduite à la maternité ; l’idée par exemple d’une autonomie intellectuelle ou sociale féminine disparait donc, la femme n’ayant pour seule vocation que l’enfantement : bien évidemment, ce n’est certainement au sein du monde animal qu’un statut favorable serait octroyé puisqu’il n’est alors question que de mâles et de femelles, principalement préoccupés par les besoins primaires.

Bien évidemment cet article pourrait être une propédeutique à l’élaboration d’un ouvrage traitant du phénomène de désociabilisation (décivilisation) ou d’un livre explorant plus en détail l’animalité croissante dans certains segments sociétaux de la France contemporaine. Je ne pense pas qu’en 1998, Jean-Pierre Chevènement avait réfléchi en détail à la problématique qu’il a initiée en utilisant le terme de « sauvageon ». Pour autant, au vu des arguments précités, difficile de ne pas lui octroyer un satisfecit.

Philippe Delbauvre (Voxnr, 25 février 2013)

Toleranz – Die 9. Todsünde der zivilisierten Menschheit

 tol2011_51388_86896.jpg

Toleranz – Die 9. Todsünde der zivilisierten Menschheit

Götz Kubitschek

ex: http://www.sezession.de/

1973 veröffentlichte Konrad Lorenz Die acht Todsünden der zivilisierten Menschheit, eine kulturkritische, pessimistische Analyse der gesellschaftlichen Verfallserscheinungen und Zivilisationskrankheiten seiner Zeit. Er schrieb diese Analyse entlang der wissenschaftlichen Grundsätze der Ethologie, der von ihm mitbegründeten und ausdifferenzierten Lehre vom Verhalten der Tiere und Menschen. Dieses Verhalten kann in seinem rezenten, also jeweils aktuellen Zustand beobachtet und als die Funktion eines Systems beschrieben werden, »das seine Existenz wie seine besondere Form einem historischen Werdegang verdankt, der sich in der Stammesgeschichte, in der Entwicklung des Individuums und beim Menschen, in der Kulturgeschichte abgespielt hat« (Konrad Lorenz).

Es steht also die Frage im Raum, warum wir Heutigen uns so oder so verhalten, und Lorenz betont an mehreren Stellen seiner Analyse, daß er erst über die Deformierung menschlichen Verhaltens zu der Frage gelangt sei, welche Notwendigkeit eigentlich hinter dem So-Sein des Menschen stehe: »Wozu dient der Menschheit ihre maßlose Vermehrung, ihre sich bis zum Wahnsinn steigernde Hast des Wettbewerbs, die zunehmende, immer schrecklicher werdende Bewaffnung, die fortschreitende Verweichlichung des verstädterten Menschen usw. usf.? Bei näherer Betrachtung aber zeigt sich, daß so gut wie alle diese Fehlleistungen Störungen ganz bestimmter, ursprünglich sehr wohl einen Arterhaltungswert entwickelnder Verhaltens-Mechanismen sind. Mit anderen Worten, sie sind als pathologisch aufzufassen.«

In acht Kapiteln wirft Lorenz seinen ethologisch geschulten Blick auf anthropologische Konstanten und zeitbedingte Entwicklungen und kommt zu verheerenden Ergebnissen: Rundumversorgung und Massenkonsum, Verweichlichung und Überbevölkerung, Indoktrinierbarkeit und genetischer Verfall – all dies trage dazu bei, aus den Menschen eine degenerierende, leicht manipulierbare Masse zu machen. Vom Wunsch einer Höherentwicklung und Veredelung menschlicher Möglichkeiten bleibt nicht viel übrig.

»Maßlos«, »Wahnsinn«, »Fehlleistungen«, »pathologisch«: Man hat Lorenz die Verwendung solcher Vokabeln vorgeworfen und beanstandet, er werte bereits durch seine Wortwahl den Gegenstand, den er doch zunächst bloß zu beobachten habe. Der Vorwurf stimmt: Lorenz weist sich mit seinen Todsünden als konservativer Kulturkritiker aus, der dem Menschen als Masse nicht viel abgewinnen kann und aufgrund seiner Alltags- und Fallstudien einen Niedergang aus einstiger Höhe konstatieren muß. Was aber ist an der Beschreibung von Lorenz anders als an den vielen Kritiken und Analysen, die bis heute das konservative Feuilleton füllen?

Lorenz hat als Naturwissenschaftler harte Fakten zur Hand, mit denen er seine Beobachtungen und Ableitungen stützt. Er geht als Ethologe von Dispositionen aus, die den Menschen wie ein Korsett umklammern. Seinen Genen, seinen Antrieben, Reflexen und phylogenetischen Dispositionen kann er nicht entfliehen, er ist in Zwangsläufigkeiten eingesperrt wie in einen Käfig. Auf Seite 56 in diesem Heft ist das unter dem Begriff »Ver­hausschweinung« einmal polemisch durchdekliniert: Die acht Todsünden sind voll von weiteren Beispielen. Wenn Lorenz etwa die dem Menschen typische Erhöhung der ökonomischen Umlaufgeschwindigkeit und die daraus resultierende Rastlosigkeit in Konsum und Bedarfsbefriedigung als »Wettlauf mit sich selbst« bezeichnet, stellt er als Erklärungsmodell das Prinzip des Regelkreises daneben und zeigt, warum lawinenartige Prozesse aufgrund ausschließlich positiver Rückkoppelung ins Verheerende und letztlich ins Verderben führen. Dasselbe gilt auch für die Überbevölkerung, die Lorenz als die zentrale Todsünde an den Anfang stellt und von der her er die meisten anderen Fehlentwicklungen ableitet, etwa auch »Das Abreißen der Traditionen«: Lorenz beschreibt, wie gefährlich es für die Entwicklung eines Kindes ist, wenn es bei seinen Eltern und in seiner nahen Umgebung vergebens nach rangordnungsmäßiger Überlegenheit sucht und in seinem Streben und seiner Entwicklung ohne (verehrungswürdiges) Ziel bleiben muß. Lorenz macht das Verschwinden unmittelbar einleuchtender Hierarchien zum einen an der modernen Arbeitswelt fest: Die Austauschbarkeit von Mutter und Vater am Schreibtisch ist ein revolutionärer Vorgang der letzten zwei Generationen. Der andere Grund liegt in der Übertragung einer Gleichheitslehre vom Menschen auf möglichst alle Lebensbereiche: »Es ist eines der größten Verbrechen der pseudodemokratischen Doktrin, das Bestehen einer natürlichen Rangordnung zwischen zwei Menschen als frustrierendes Hindernis für alle wärmeren Gefühle zu erklären: ohne sie gibt es nicht einmal die natürlichste Form von Menschenliebe, die normalerweise die Mitglieder einer Familie miteinander verbindet.«

Während nun das gender mainstreaming – das Lorenz noch nicht so nennen konnte – Orgien der Gleichheit zelebriert, Mann und Frau also weiterhin auf Ununterscheidbarkeit getrimmt werden, scheint es mit der pseudo-demokratischen Doktrin nicht mehr überall so aussichtslos gut zu stehen, wie Lorenz es noch vermuten mußte. Wenn sich ihr Zeitalter in der großen Politik seinem Ende zuzuneigen scheint, hat man doch bis in den Kindergarten hinein die Durchsetzung des Abstimmungsprinzips bei gleicher Stimmgewichtung von Erwachsenem und Kleinkind festzustellen. Dies alles scheint einem Abbau der Notwendigkeit einer Entscheidung zu folgen: Wenn die Zeit keine in ihrer Besonderheit wirksam herausmodellierten Männer und Frauen, sondern vor allem in ihrem Einheitsgeschmack und ihrer Funktionstüchtigkeit herausmodellierte Verbraucher erfordert, verhält sich die zivilisierte Menschheit wohl so, wie sie sich derzeit verhält. Und wenn es nichts ausmacht, ob die Fähigen (etwa: die Erzieher) oder alle (etwa: die Kleinkinder) mitentscheiden, dann hat man tatsächlich alle Zeit der Welt und kann die Konsequenzen von Fehlentscheidungen immer wieder ausbügeln – und die beim Ausbügeln neu entstandenen Falten wiederum, und so weiter.

An Beispielen wie dem vom Verlust der Rangordnung und am Hinweis auf eine pseudo-demokratische Doktrin hat sich die Kritik festgebissen. Neben vielen Reflexen gibt es bedenkenswerte Einwürfe, etwa den von Friedrich Wilhelm Korff, der eine Neuausgabe der Todsünden mit einem Nachwort versah. Er schreibt mit viel Sympathie über Lorenz’ provozierendes Buch und weist den Leser auf eine seltsame Unstimmigkeit, ein Pendeln zwischen zwei Ebenen hin. Auf der einen Seite nämlich lasse die aus dem unerbittlichen stammesgeschichtlichen Verlauf herrührende Fehlentwicklung der zivilisierten Menschheit keinerlei Raum für Hoffnung: Etwas, das qua Gen oder Arterhaltungstrieb so und nicht anders ablaufen könne, sei nicht aufzuhalten und nicht korrigierbar. Auf der anderen Seite finde sich Lorenz eben nicht mit der Rolle des kühl diagnostizierenden Wissenschaftlers ab, sondern gerate ins Predigen und formuliere pro Kapitel mindestens einen Aufruf, aus der Kausalkette der zwangsläufigen Entwicklung auszusteigen. Lorenz selbst hat diese Verwischung der Kategorien »Wissenschaft« und »Predigt« in einem »Optimistischen Vorwort« für spätere Ausgaben aufzufangen versucht, indem er etwa auf die Breitenwirkung der Ökologie-Bewegung hinwies, von der bei Verfassen seiner Schrift noch nicht viel zu bemerken war. Im Grund aber bleiben die Todsünden bis heute ein starkes Stück konservativer Kulturkritik.

Was also versuchte Konrad Lorenz mit seinem Buch? Er versuchte auf den permanenten Ernstfall hinzuweisen, den der »Abbau des Menschlichen« (auch ein Buchtitel von Lorenz) verursacht: Das Erlahmen der Abwehrbereitschaft ist der Ernstfall an sich, und der Beweis, daß es längst ernst war, wird durch den tatsächlich von außen eintretenden Ernstfall nur noch erbracht: Kluge Prognosen konnten ihn lange vorher schon absehen.

Es gibt kaum ein besseres Beispiel für dieses Erlahmen der Abwehrbereitschaft als die Umdeutung des Wortes »Toleranz«. Die heutige Form der Toleranz ist die 9. Todsünde der zivilisierten Menschheit. Ob sie in der Notwendigkeit ihrer stammesgeschichtlichen Entwicklung liegt, vermag nur ein Ethologe zu sagen. Festzustehen scheint, daß ihr trotz vielstimmiger Warnrufe und glasklarer Fakten nicht beizukommen ist. Vielleicht ist diese weiche, pathologische Form der Toleranz tatsächlich ein wichtiger Indikator für einen an das Ende seiner Kraft gelangten Lebensentwurf, hier also: den europäischen.

Toleranz ist nämlich zunächst ganz und gar nichts Schwaches, sondern die lässige Geste eines Starken gegenüber einem Schwachen. Während ich hier sitze und vermessen den acht Todsünden von Lorenz eine neunte aufsattle, toleriere ich, daß eine meiner Töchter im Zimmer über mir trotz angeordneter Bettruhe vermutlich einen Tanz einstudiert. Von Toleranz diesen rhythmischen Erschütterungen gegenüber kann ich nur sprechen, weil ich a) einen klaren Begriff von angemessenem Verhalten in mir trage und die Störung als Abweichung von dieser Norm erkenne, b) in der Lage wäre, diese Abweichung nicht zu tolerieren, sondern sie zu beenden, c) sie tatsächlich im Verlauf meines Vater-Seins schon unzählige Male nicht toleriert habe.

Zur Verdeutlichung hilft es, mit allen drei Kriterien ein wenig zu spielen: Wer a) nicht hat, also Angemessenheit und Norm nicht kennt, muß nicht tolerant sein: Er wird jede Entwicklung hinnehmen und sich einpassen oder verschwinden, wenn es gar nicht mehr geht; wer b) nicht kann, der empfundenen Störung und Beeinträchtigung also hilflos gegenübersteht, kann keine Toleranz mehr üben: Er kann bitten und betteln und sich die Haare raufen oder über das Argument und die Mitleidsschiene den anderen zur Rücksichtnahme bewegen. Das Kräfteverhältnis hat sich jedoch verschoben, und wenn der Störer keine Rücksicht nehmen will, bleibt dem Schwächeren nur übrig, sich mit seiner Unterlegenheit abzufinden. Und c)? Toleranz kann kein Dauerzustand sein. Wer den Regelverstoß dauerhaft toleriert, setzt eine neue Regel, weitet die Grenze des Möglichen aus, akzeptiert eine Verschiebung der Norm. Zur Toleranz gehört der Beweis der Intoleranz wie zur Definition des Guten das Böse.

Toleranz ist also eine Haltung der Stärke, niemals eine, die aus einer Position der Schwäche heraus eingenommen werden kann. Wer schwach ist, kann nicht tolerant sein; wer den Mut zur eigentlich notwendigen Gegenwehr nicht aufbringt, kann seine Haltung nicht als Toleranz beschreiben, sondern muß von Feigheit, Rückzug und Niederlage sprechen: Er gibt Terrain auf – geistiges, geographisches, institutionelles Terrain. Es kann – das versteht sich von selbst – ab einem bestimmten Zeitpunkt sinnvoll sein, sich zurückzuziehen und neue Grenzen der Toleranz zu ziehen. Solche Korrekturen und Anpassungen an den Lauf der Dinge hat es immer gegeben, und starre Gebilde haben die Neigung zu zersplittern, wenn der Druck zu groß wird. Aber eine Neuordnung in diesem Sinn ist ein Beweis für Lebendigkeit und nicht einer für Schwäche und das oben beschriebene Erlahmen der Abwehrbereitschaft.

Auch der Spiegel-Kolumnist und Wortführer einer »Achse des Guten« (www.achgut.de), Henryk M. Broder, hält Toleranz für ein gefährliches, weil sprachverwirrendes Wort. In seinem jüngsten Buch übt er die Kritik der reinen Toleranz und schreibt gleich im Vorwort Sätze, die an Deutlichkeit nichts zu wünschen übriglassen: »In einer Gesellschaft, in der ein Regierender Bürgermeister die Teilnehmer einer SM-Fete persönlich in der Stadt willkommen heißt; in einer Gesellschaft, in der ein rechtskräftig verurteilter Kindesmörder Prozeßkostenbeihilfe bekommt, um einen Prozeß gegen die Bundesrepublik führen zu können, weil er noch nach Jahren darunter leidet, daß ihm bei einer Vernehmung Ohrfeigen angedroht wurden; in einer Gesellschaft, in der jeder frei darüber entscheiden kann, ob er seine Ferien im Club Med oder in einem Ausbildungscamp für Terroristen verbringen möchte, in einer solchen Gesellschaft kann von einem Mangel an Toleranz keine Rede sein. Dermaßen praktiziert, ist Toleranz die Anleitung zum Selbstmord. Und Intoleranz ist eine Tugend, die mit Nachdruck vertreten werden muß.«

Das sind klare Worte, die außerdem Broders Montagetechnik veranschaulichen. Sein Buch ist theoretisch schwach und lebt von Fundstücken aus Presse und Internet – mal ausführlich beleuchtet, mal bloß aneinandergereiht. Jeder Schnipsel belegt den bestürzenden Zustand der Verteidigungsbereitschaft selbst der banalsten Werte unseres Volkes, unserer Nation, unseres kulturellen Großraums. Nicht ohne Grund stellt unsere Zeitschrift ihre Begriffsdefinitionen auf der letzten Seite unter ein Motto von Konfuzius: »Zuerst verwirren sich die Worte, dann verwirren sich die Begriffe und zuletzt verwirren sich die Sachen.« Broders Kritik der reinen Toleranz kann als Sammlung gefährlicher Wort- und Begriffsverwirrungen gelesen werden, etwa wenn er neben die Toleranz ein anderes ruiniertes Wort stellt: Zivilcourage. Jeder will ja diese Eigenschaft besitzen, will im entscheidenden Moment »Sophie Scholl« sein (jedoch ohne Fallbeil). Leute wie Wolfgang Thierse aber haben das Wort Zivilcourage bis auf weiteres kaputtgemacht, indem sie während eines Massenauflaufs gegen »Rechts« jedem Teilnehmer Zivilcourage attestierten. Neben einhunderttausend anderen Leuten zu stehen und eine Kerze zu halten, ist jedoch kein Beweis für Mut, es ist allenfalls ein Vorsatz, beim nächsten beobachteten Glatzen-Angriff auf einen schwarzen Mitbürger intolerant zu reagieren. »Toleranz ist gefühlte Zivilcourage, die man nicht unter Beweis stellen muß«, schreibt Broder etwas verwirrend, aber er meint das Richtige, nämliche dasselbe wie Armin Mohler, der stets und vehement davon abriet, Leute schon für ihre guten Vorsätze zu prämieren.

Das Gebot der Stunde ist also die Intoleranz, oder besser: das Lehren und das Erlernen der Intoleranz dort, wo das Eigene in seiner Substanz bedroht ist. Hier können wir ein seltsames Phänomen beobachten: den Sieg der Erfahrung über die Theorie. »So ist es nicht der klassische Spießer, der überall sein fürchterliches Gesicht zeigt, sondern der chronisch tolerante Bildungsbürger, der für jede Untat so lange Verständnis äußert, wie sie nicht unmittelbar vor seiner Haustür passiert« (wiederum Broder). Dann aber! Dann aber! Dann kann man nur hoffen, daß aus Erfahrung klug wurde, wessen Vorstellungsvermögen nicht hinreichte, die Lage des Ganzen (etwa: der Nation) zu seiner eigenen Sache zu machen.

Broders Buch, Ulfkottes neue Schrift oder die Zurüstung zum Bürgerkrieg von Thorsten Hinz: Die Beispiele für die verheerende Auswirkung der reinen Toleranz auf die Verteidigungsbereitschaft und -fähigkeit auch nur unserer eigenen Nation sind längst gesammelt und können gelesen und ausgewertet werden. Aber die Flucht in die 9. Todsünde, die Toleranz, scheint zu süß zu sein, und sie ist wohl angemessen für den Teil der Welt, der »schon Hemmungen hat, sich selbst ›zivilisiert‹ zu nennen, um die anderen nicht zu kränken« (ein letztes Mal: Broder).

lundi, 01 avril 2013

Il soldato italiano nella prima guerra mondiale

Rocca Sella

16:30 Publié dans Alpinisme, Evénement | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : muvra piemonte, alpinisme, événement | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

L’engagement d’Obama au Moyen-Orient

Obama_israel.jpg

L’engagement d’Obama au Moyen-Orient

L’art de la guerre

 
Double engagement répété par Obama dans sa visite en Israël. L’alliance toujours plus forte des USA avec l’Etat israélien, confirmée par le fait que « nos militaires et nos services de renseignement coopèrent plus étroitement que jamais ». Ceci est indubitable. La création d’ « un état palestinien indépendant et souverain ». Ceci est faux. L’ « Etat palestinien » auquel on pense à Washington ressemble beaucoup à une « réserve indienne » : il y a quatre mois, aux Nations Unies, les Usa ont même voté avec Israël contre la reconnaissance de la Palestine en tant qu’ « Etat observateur non membre ». Mais se déclarer favorables à un Etat palestinien accrédite l’idée que les Etats-Unis sont engagés, comme jamais, pour la paix et la démocratie au Moyen-Orient. Obama a en outre joué le médiateur de paix entre la Turquie et Israël : Netanyahu a téléphoné à Erdogan pour s’excuser des « erreurs opérationnelles » commises dans l’attaque contre la Freedom Flotilla qui transportait les pacifistes à Gaza. Excuses immédiatement acceptées : sur les tombes des pacifistes tués par les Israéliens il sera maintenant inscrit « mort le 31 mai 2010 par une erreur opérationnelle ».

Après ses rencontres en Israël, Obama a fait escale à Amman, en réaffirmant « l’engagement des Etats-Unis pour la sécurité de la Jordanie », mise en danger par la « violence qui filtre à travers la frontière avec la Syrie ». Il reste à voir, cependant, dans quelle direction. Comme informe le Guardian, des instructeurs étasuniens, aidés par des collègues français et britanniques, entraînent en Jordanie les « rebelles » qui sont infiltrés en Syrie. Le cercle se resserre ainsi autour de la Syrie, avec une opération sous direction Usa/Otan menée à travers la Turquie et Israël (à présent réconciliés) et la Jordanie. Et, pour l’estocade finale,  le casus belli est prêt : le lancement d’un missile à tête chimique, qui a provoqué la mort de plusieurs dizaines de personnes dans la zone d’Alep.

A Jérusalem, Obama a exprimé sa solidarité avec « la préoccupation croissante d’Israël pour les armes chimiques de la Syrie voisine », en avertissant que, si l’enquête trouvait les preuves que ce sont les militaires syriens qui ont utilisé l’arme chimique, cela « changera les règles du jeu ». En d’autres termes, c’est une menace d’intervention « préventive » USA/Otan en Syrie, au motif de bloquer l’arsenal chimique avant qu’il ne soit utilisé. Si de telles «preuves » émergeaient, cela voudrait dire que le gouvernement syrien a décidé d’utiliser un missile à tête chimique contre ses propres soldats et civils loyaux au gouvernement (la quasi-totalité des victimes), pour fournir aux Usa et à l’Otan, sur un plateau d’argent, la justification pour attaquer et envahir la Syrie. En attendant, en même temps que des dollars et des armes, Washington a déjà fourni aux « rebelles » le futur premier ministre : Ghassan Hitto, citoyen étasunien d’origine syrienne. Un executive[1] texan dans la technologie d’information, choisi formellement par les « rebelles ».

Qu’est-ce qu’Obama devrait faire d’autre pour la paix et la démocratie au Moyen-Orient ?

Edition de mardi 26 mars 2013 de il manifesto

http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20130326/manip2pg/14/manip2pz/337945/

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

 


[1] Executive, en anglais dans le texte, est le mot qui revient absolument invariablement dans les présentations anglophones du nouveau premier ministre syrien déniché au Texas par l’administration étasunienne (et « alliés ») : mot générique qui en dit long non seulement sur le flou entourant ce que Monsieur Hitto a fait jusque là mais aussi sur l’arrogance et le mépris de cette même administration (et « alliés ») qui ne ressent aucune nécessité à donner le moindre vernis de crédibilité à ses larbins. L’analyse précise du langage de l’empire, en deçà et au-delà de ses effets d’annonce, donne des clés essentielles pour une analyse non moins précise de la situation géopolitique. NdT pour la version française.

Articles Par : Manlio Dinucci
 

Sur le même sujet:

 

Les adieux au Greenback

Yuan.jpg

«Les adieux au Greenback»

«Les USA pourraient, déjà dans un futur proche, se voir contraints d’amasser une réserve de yuans»

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

Est-ce que la structure mondiale de la monnaie se trouve devant une refonte et un changement, comme nous ne l’avons plus vécu depuis de nombreuses décennies? Les spécialistes de monnaies en Europe voient et ressentent que particulièrement en Extrême-Orient «les adieux au Greenback» se font fortement entendre. Le chef du marché des changes d’une grande banque globale a nommé cela, lors d’une discussion, «le danger imminent de burnout». Des contournements de la monnaie de référence mondiale se sont établis notamment dans le commerce asiatique et l’économie pétrolière. Dans le commerce, les USA se retrouvent même derrière la Chine. Et toujours plus d’observateurs aux USA craignent un désastre à la suite de la politique monétaire ultra-libérale de la FED …
Un signe qui ne passe pas inaperçu: les pays émergents du bloc BRICS – soit le Brésil, la Russie, l’Inde, la Chine et l’Afrique du Sud – bricolent plus ou moins ouvertement à leur propre banque de développement. Capital de départ prévu: 50 milliards de dollars (!). Elle est clairement prévue – dans une phase ultérieure – comme concurrent possible au Fonds monétaire international, dans lequel les USA font la loi. La République populaire de Chine, de son côté, accélère davantage et plus ouvertement la propagation du yuan. Celui-ci a accédé rapidement, dans le commerce inter-asiatique, à un statut préférentiel de monnaie de facturation. En même temps, l’Europe est torturée par une douloureuse crise de dettes. Une récession menace de nouveau les USA après la baisse du produit intérieur brut lors du dernier trimestre de 2012. Mais la Chine a accédé, malgré moins de croissance, au rang de la plus grande nation de commerce mondial en 2012. Ainsi a-t-elle subtilisé, rapidement mais douloureusement, la couronne aux USA – que ceux-ci avaient portée depuis la Seconde Guerre mondiale …
Le magazine allemand Manager Magazin parle un langage clair: après des décennies, pendant lesquelles, au moyen de la mondialisation, de contrats stratégiques et de géants de Wall-Street en expansion, comme Coca-Cola, General Electric et IBM, la superpuissance USA a imposé son rythme au reste du monde, le vent tourne maintenant. Et ce tournant est dramatique. Dans le commerce mondial, surgit une nouvelle infrastructure, de plus en plus prête à renoncer à la monnaie de référence mondiale du dollar. «Les nouveaux joueurs de très haut niveau dans la ligue des champions économiques évoluant de façon rapide viennent d’Asie, d’Amérique latine, d’Afrique» …
Le Boston Consulting Group a établi, ces derniers jours, pour la cinquième fois depuis 2006, une liste des 100 plus grands challengers des pays émergents. Parmi les «100 Global Challengers», 30 viennent de Chine, 20 d’Inde. Pas moins de 1000 entreprises, venant des marchés émergents, ont franchi en 2006 le mur du son de 1 milliard de dollars de chiffre d’affaires annuel. L’analyse les nomme les Volkswagen, les Wal-Mart et les Apple de l’avenir! Ils sont maintenant sur le point de faire peur à l’Occident. Et la monnaie de référence mondiale pour les attaques sur le système économique mondial établi ne s’appelle plus automatiquement «dollar», mais de plus en plus souvent «renminbi». Les USA pourraient, déjà dans un futur proche, se voir contraints d’amasser une réserve de yuans, pour continuer à participer pleinement au commerce international …
La nervosité aux USA, face à cette relève de la garde, se transforme par endroits déjà en cynisme. «Nous voyons une guerre monétaire», dit Peter Schiff le PDG d’Euro Pacific Capital. «Ce qui distingue une guerre monétaire d’une autre guerre», ajoute-t-il, «c’est le fait que l’on se tue soi-même, et les USA semblent, dans ce sens-là, être déjà considérés comme le vainqueur désigné.»
Même pour le magnat des médias et milliardaire Steve Forbes, cela devient inquiétant: «La banque centrale américaine produit toujours plus de désastres, comme un drogué», dit-il, et il craint que la politique monétaire actuelle en arrive à ruiner l’économie américaine…

Source: Vertraulicher Schweizer Brief n° 1350 du 21/2/13

(Traduction Horizons et débats)

Le témoignage du neveu d'Hergé

Le témoignage du neveu d'Hergé

Herge16-171.jpgLe témoignage de George Rémi JUNIOR, le neveu d'Hergé, fils de son frère cadet, un militaire haut en couleur, cavalier insigne, auteur d'un manuel du parfait cavalier, est poignant, non seulement parce qu'il nous révèle un Hergé "privé", différent de celui vendu par "Moulinsart", mais aussi parce qu'il révèle bien des aspects d'une Belgique totalement révolue: sévérité de l'enseignement, difficulté pour un jeune original de se faire valoir dans son milieu parental, sauf s'il persévère dans sa volonté d'originalité (comme ce fut le cas...).

Sait-on notamment que le père de George Rémi junior avait été chargé d'entraîner les troupes belges à la veille de l'indépendance congolaise? Et qu'il a flanqué des officiers américains et onusiens, manu militari, à la porte de son camp qui devait être rendu aux Congolais au nom des grands principes de la décolonisation?

Le témoignage du fils rebelle, opposé à son père, se mue en une tendresse magnifique quand la mort rôde et va emporter la vie du fringant officier de cavalerie, assagi par l'âge et heureux que son fiston soit devenu un peintre de marines reconnus et apprécié. George Rémi Junior n'est pas tendre pour son oncle, certes, mais il avoue toute de même, à demi mot, qu'il en a fait voir des vertes et des pas mûres au créateur de Tintin.

Mais l'homme qui en prend plein son grade, dans ce témoignagne, n'est pas tant Hergé: c'est plutôt l'héritier du formidable empire hergéen, l'époux de la seconde épouse d'Hergé. George Rémi Junior entre dans de véritables fureurs de Capitaine Haddock quand il évoque cette figure qui, quoi qu'on en pense, gère toute de même bien certains aspects de l'héritage hergéen, avec malheureusement, une propension à froisser cruellement des amis sincères de l'oeuvre de George Rémi Senior comme le sculpteur Aroutcheff, Stéphane Steeman (qui a couché ses griefs sur le papier...), les Amis d'Hergé et leur sympathique revue semestrielle. Dommage et navrant: une gestion collégiale de l'héritage par tous ceux qui ne veulent en rien altérer la ligne claire et surtout le message moral qui se profile derrière le héros de papier aurait été bien plus profitable à tous...

George Rémi Junior rend aussi justice à Germaine Kiekens, la première épouse, l'ancienne secrétaire de l'Abbé Wallez, directeur du quotidien catholique "Le Vingtième Siècle", là tout avait commencé...

(RS)

George Rémi Jr, Un oncle nommé Hergé, Ed. Archipel, Paris, 2013 (Préface de Stéphane Steeman).

Musulmano o costruito dai robot: il Papa di fantascienza finisce così

Musulmano o costruito dai robot: il Papa di fantascienza finisce così

di Gianfranco de Turris

Fonte: il giornale [scheda fonte]

Le religioni (e la teologia) sono argomenti che hanno sempre attirato gli scrittori fantastici e fantascientifici. In particolare la Chiesa cattolica, sotto il profilo temporale e spirituale, ha ottenuto attenzione speciale sia in positivo che negativo. Molti autori ne hanno preso spunto per le loro ipotesi proiettate nel futuro. È soprattutto la fine della Chiesa che ha sollecitato la loro immaginazione. Il concetto di «fine» può infatti intendersi in molti modi: una religione che ha anche un potere temporale può concludere la propria missione in forme diverse. Ovviamente le cosiddette Profezie di Malachia sono spesso lo spunto di base, specie negli ultimi anni dato che ci si avvia alla conclusione dell’elenco dei papi contenuto in quello scritto, pubblicato per la prima volta nel 1595 in appendice a «Legnum Vitae» di Arnold de Wyon. Molti sostengono invece che sia un testo realizzato intorno al 1590 da un famoso falsario, Alfonso Ceccarelli, una specie di Simonides umbro.

 

roma-senza-papaSia come sia, in base a quella elencazione, che parte da Celestino II nel 1143, l’attuale Benedetto XVI sarebbe il 111esimo e penultimo della serie con il moto «De Gloria olivae». Subito dopo c’è una citazione che alcuni interpreti riferiscono a questi, mentre la maggioranza intende come riferita al 112° e conclusivo pontefice: «Durante l’ultima persecuzione di Santa Romana Chiesa siederà (sul trono) Pietro Romano che pascerà il gregge in mezzo a molte tribolazioni; terminate queste la città dei sette colli sarà distrutta, e il terribile Giudice giudicherà la gente».

 

Questa conclusione apocalittica, in linea con molte altre profezie cristiane, non poteva non colpire certi scrittori che l’hanno intesa in modi diversi. Una Chiesa e un Papato possono estinguersi e crollare non solo e non tanto materialmente, quanto spiritualmente, concludendo, fallendo o distorcendo la loro missione. E così per primo si deve ricordare il grande rimosso della letteratura italiana, Guido Morselli l’antimoderno, che come suo primo romanzo dopo il periodo realista scrisse nel 1966-7 Roma senza papa, anche il primo pubblicato da Adelphi nel 1974 dopo il suo suicidio l’anno precedente. Morselli rifiutava l’oggi e quindi la religione del suo oggi, che già manifestava sintomi di decadenza negli anni Sessanta del Novecento (il Concilio Vaticano II si era concluso nel 1965 con tutte le sue novità), e quindi la fine della Chiesa di Roma e del Papato viene descritta nel suo romanzo come una decadenza abissale dei valori tradizionali del Cristianesimo. La sua è una critica della Chiesa «al passo coi tempi» con papi fidanzati, favorevoli alla liberalizzazione di droga, contraccettivi, eutanasia, che utilizza più la psicanalisi freudiana che la teologia, dove il turismo di massa è una benedizione sicché ogni cosa nello Stato del Vaticano viene finalizzata a fare denaro. La Chiesa è finita perché non è più la vera Chiesa.

 

la-moschea-di-san-marcoE di una mercificazione totale, ad uso appunto dei turisti, parla anche, ma in una prospettiva più laica, Roberto Vacca, nel racconto L’ultimo papa (1965), dove il pontefice si esibisce nelle sue funzioni ad uso dei curiosi di tutto il mondo che pagano per vederlo all’insegna dello slogan «Peep-a-Pope-Show» (i «peepshow» sono spettacoli erotici). E, se ci si consente un’autocitazione, mi permetterò di ricordare che in un racconto che scrissi insieme a Piero Prosperi quando eravamo ventenni (Petrus Romanus, 1965) si immaginava una fine “politica” del Papato sotto un regime comunista instauratosi in Italia. Ma il tempo passa e i pericoli per la Chiesa cattolica cambiano: ad esempio, il relativismo dei valori, la crisi delle vocazioni, l’aggressività dell’Islam hanno indotto due autori a descriverne una fine traumatica, una resa senza condizioni: cinquant’anni dopo Prosperi, nel suo romanzo La moschea di San Marco (Bietti, 2007) prevede che nel 2015 Benedetto XVII, successore di Ratzinger, dopo aver creato una commissione di consulenti musulmani per allargare il dialogo, in un discorso Urbi et Orbi dichiari conclusa l’«eresia cristiana» e chieda ad Allah di riammettere i cattolici nella Umma dei credenti.

 

apocalissi-2012Di recente Antonio Bellomi torna sul tema e nel suo Finis mundi (antologia Apocalissi 2012, Bietti) prende spunto dalla profezia Maya sulla fine del mondo per immaginarsi la morte di Bendetto XVI e il suo successore uscito dal Conclave, il cardinale indonesiano Giovanni Ali Sudarto, che sceglie per sé il nome di Hussein I e che, senza portare alcun simbolo della croce, inizia la sua prima allocuzione alla folla dicendo: «In nome di Allah, misericordioso e compassionevole…». E uno dei personaggi del racconto dice: «Non è la fine del mondo. È la fine dell’era della Chiesa di Roma come l’abbiano conosciuta…».

 

Anche gli autori anglosassoni si sono avvicinati all’argomento con atteggiamento fantascientifico e futuribile. La storia più interessante non è il racconto Il dilemma di Benedetto XVI di J.H.Brennan (uscito nel 1977 con un titolo diverso e tradotto da Urania nel 1978), citato in questi giorni solo per la coincidenza del nome: vi si racconta delle visioni del Pontefice per dichiarar guerra ad un dittatore e di uno psicanalista chiamato per capire se esse siano vere o false. L’opera più curiosa è Il papa definitivo di un grande nome come Clifford D. Simak. Scritto nel 1981, racconta del pianeta Vaticano 17, dove si è rifugiata una stirpe di robot che, non potendo accedere sulla Terra alla religione cattolica in quanto privi d’anima, hanno creato una civiltà ed una religione simil-cattoliche con identiche strutture e riti, costruendo il «papa definitivo», cioè un immenso computer in cui immettere tutta la conoscenza dell’universo. Due temi, religione e robot, tipici di Simak che li usa per decretare la fine della Chiesa come l’abbiamo conosciuta sinora. In tema di automi Robert Silverberg con Buone notizie dal Vaticano del 1971 immagina che da un futuribile Conclave esca un pontefice robot che invece di rivolgersi alla gente in Piazza San Pietro accenda i propri razzi e sparisca in alto, nel cielo. Ma non occorre essere di metallo per fare e decidere cose inaspettate: il papa Roberto I descritto da Norman Spinrad nel suo Deus X emana una enciclica in cui proclama la possibilità di trapiantare l’anima tra esseri umani, come fosse il cuore, il fegato o i polmoni.


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Vincent Vauclin : "Résister à l'Empire"

 Vincent Vauclin :

« Résister à l’Empire »

Ex: http://la-dissidence.org/

Autopsie du corps social

Cette société est perdue.

Le processus est engagé, et la dévastation est telle que nous n’avons plus la capacité de l’inverser.
La seule limite qui se posera, et se pose déjà, est totalement indépendante de notre action : celle des contradictions intrinsèques du système et de son absurdité totale.

Le totalitarisme qui nous fait face est le plus implacable qui soit. De toutes les dictatures, la dictature hédoniste est de loin la plus performante et la plus solide de toutes. Aboutissement logique d’un long processus historique, sociologique et psychologique, la domination moderne s’est imposée comme une idéologie totale, omniprésente, dont chaque individu se fait aujourd’hui le vecteur à son insu, dans son langage, dans son comportement, dans son mode d’appréhension du monde.
Aucune sphère de la société, publique ou privée, n’est épargnée par ce vaste élan de subversion qui ravage les structures et les institutions traditionnelles, impose un rythme effréné, et induit un déracinement à la fois spatial et temporel des hommes, transformés en nomades dans un monde purgé de son sens, amputé de son Histoire, privé de son avenir.

L’aliénation est ainsi totale, et à mesure que les derniers remparts à l’hégémonie moderne s’effondrent, de nouvelles promesses hédonistes émergent, ouvrant comme seules perspectives d’avenir les satisfactions éphémères, organiques, conditionnées et perverses de la consommation et de la sexualité.
Accompagnant ce mouvement, la standardisation des personnalités par les médias de masses systématise les comportements individuels qui s’inscrivent ainsi dans un paradigme global purement matérialiste dont la fonction première est d’isoler l’individu de l’ensemble de ses appartenances, substituant le bien au lien, la possession à la relation.

Un tel totalitarisme neutralise alors l’ensemble de ses oppositions tout en alimentant son essor en s’appuyant sur les archaïsmes psychologiques d’individus qui se trouvent bombardés pluri-quotidiennement d’injonctions publicitaires et normatives qui excitent les plus bas instincts et leur offrent dans le même temps des débouchés pour décharger ces pulsions, que ce soit dans l’acte d’achat ou l’acte sexuel. La mobilisation de ces processus primaires – et parfaitement inoffensifs pour le Système – entraînant par ricochet une dégradation générale de l’intellect dont la source sublimatoire se trouve tarie par le « jouir-sans-entrave » qui s’y manifeste.

Dès lors, c’est un cercle vicieux qui s’enclenche. Standardisés et aliénés, les individus renforcent par leurs comportements et leurs discours une pression sociale qui broie insidieusement le collectif et normalise le processus de décivilisation. C’est là le caractère le plus abjecte de ce totalitarisme : sa domination ne repose ni sur la coercition, ni sur la force. Elle s’appuie sur l’adhésion collective, sur un contrat tacite et inconscient par lequel l’individu renonce à son âme, à ses responsabilités, en échange des quelques satisfactions immédiates à ses désirs, des désirs étant par ailleurs conditionnés par le Système (à travers les phénomènes de mode par exemple).

C’est la mort du corps social, tué de l’intérieur par ceux-là mêmes qui en dépendent.

Au milieu des ruines, les dissidents face à l’Empire

Mais la « perfection » n’est pas de ce monde. Malgré sa terrible efficacité, le Système se trouve dans l’incapacité de combler toutes ses failles et d’absorber l’ensemble de son opposition. Et ce pour une raison très simple : les promesses hédonistes dont il berce les masses ne peuvent satisfaire l’ensemble des individus qui y sont exposés.
Les contradictions et crises récurrentes de ce Système génèrent des frustrations nombreuses qui, si elles participent à la dynamique du Système en temps normal, deviennent ingérables lorsqu’elles dépassent un certain seuil.

La plupart du temps, les individus broyés par le Système, et dont les désirs standardisés entrent en conflits trop violents avec leur réalité matérielle, basculent dans la pathologie mentale : l’augmentation vertigineuse de la consommation d’antidépresseurs ou d’anxiolytiques en témoigne, de même que celle des suicides et des addictions. Cela dit, d’un point de vue systémique, cette frange de la population reste marginale et ne représente en aucun cas un quelconque danger pour la domination moderne qui, du reste, l’intègre aisément à son processus de domination marchande.

Mais il reste une part de la société sur laquelle la greffe de la modernité ne prend pas, pas totalement en tout cas. Le conditionnement général échoue dans sa tentative hégémonique d’imposer l’uniformisation des comportements, des discours, des attitudes : une frange non-négligeable de la population échappe en effet à cette standardisation, le plus souvent parce qu’elle en désapprouve moralement les fondamentaux, ou parce qu’elle a fait l’expérience malheureuse des conséquences de cette aliénation.
Ces dissidents représentent aujourd’hui la seule véritable résistance à ce Système. Et bien qu’embryonnaire, cette dissidence incarne une faille dans la pensée unique dominante, la lézarde, et contribue à rompre le consensus tacite sur lequel elle s’appuie. Mais le rapport de force étant ce qu’il est, l’analyse objective de la situation doit nous amener à considérer la bataille comme perdue, en tout cas sur le terrain strictement concret et matérialiste.

Notre Grande Guerre est spirituelle

Quelle résistance nous faut-il donc opposer au totalitarisme moderne ?

Il apparaît d’abord tout à fait absurde de se concentrer sur tel ou tel combat secondaire sans jamais oser penser le problème dans sa globalité, ni remonter à sa source.
Ainsi, certains se focalisent sur le combat contre l’Union Européenne par exemple. C’est parfaitement légitime mais, cela dit, ils peuvent être certains que si par miracle ce combat aboutissait, ce serait en pure perte. Tout simplement parce que l’Union Européenne, notamment, n’est que le résultat d’un dysfonctionnement profond de l’ordre social et de la gangrène généralisée qu’est la modernité
En toute logique, une remise en cause de la domination de l’Empire s’avère parfaitement inutile, pour ne pas dire contre-productive, si elle n’est que partielle, puisque se concentrant sur un seul aspect de cette domination.
Les mêmes causes produisant les mêmes effets, qu’ils soient assurés qu’au final leur action aura été nulle. Pour reprendre l’exemple de l’Union Européenne, ils ne feraient que différer temporairement l’influence d’une entité que rien n’empêchera d’émerger de nouveau, sous une forme encore plus abjecte. Tout simplement parce que dans leur combat, ils seront passés à côté de l’essentiel, c’est-à-dire la matrice qui l’a engendrée, et que rien n’empêchera d’enfanter de nouveau.
Il est vrai qu’il est sans doute plus confortable de mener ce type de combat secondaire, sans jamais oser nommer l’ennemi véritable. Il est forcément plus « rentable », moins dangereux, de pointer un seul aspect de la domination moderne que d’affronter en face l’Empire dans sa totalité, dans sa complexité, et notamment dans ses composantes ethno-confessionnelles qu’il faut bien nommer.

En vérité, notre rôle ne peut sérieusement se résumer qu’à maintenir une ligne de front, incarner une résistance totale, et former un « roc » par notre collectif, qui ne cédera rien à l’érosion. Soit transmettre par notre posture, notre ligne et nos actes, les principes fondamentaux de la Civilisation à l’heure où ceux-ci sont purement et simplement balayés par le totalitarisme moderne et hédoniste.
Notre engagement est donc avant tout moral, essentiellement moral. Donc actif, combatif, systématique.

Il est ainsi hors de question d’abandonner le terrain de l’action, mais il est absolument fondamental de concevoir cette action selon ces principes moraux intangibles, qui ne nous compromettent pas avec ce totalitarisme, faute de quoi nous serions nous même « happés » par cette modernité et y perdrions notre essence.
Considérant ces aspects, la dissidence en tant que forme totale d’engagement apparaît être le seul chemin de combat qu’il nous est autorisé d’emprunter.

Sur le plan économique, sur le plan politique, sur le plan intellectuel et culturel, nous devons organiser une riposte globale en cessant purement et simplement de participer aux institutions de l’Empire, en cessant de les cautionner, et en agissant pour l’émergence d’institutions parallèles et légitimes.
La guerre que nous devons mener est avant tout une guerre de légitimité. C’est alors, nécessairement, une guerre spirituelle, qui laisse de côté les contingences politiciennes, et impose à la fois discipline et abnégation.

A l’heure de son trépas, la Civilisation pousse un cri. Un cri dont l’écho résonne en nous et dont il semble que nous soyons les seuls à l’entendre.
Cela nous confère une responsabilité que nous devons assumer, par l’intégrité de notre engagement total et la détermination absolue de ceux qui n’ont rien à perdre, et qui n’attendent plus rien d’un Système dont ils perçoivent la nature fondamentalement malsaine et aliénante.

Et c’est en cela, que nous sommes des dissidents : le totalitarisme moderne n’a pas prise sur nous, tout simplement parce que nous sommes définitivement immunisés de ses illusions.

Vincent Vauclin

Seul compte, aujourd’hui, le travail de ceux qui savent se tenir sur les lignes de crête : fermes sur les principes ; inaccessibles à tout compromis ; indifférents devant les fièvres, les convulsions, les superstitions et les prostitutions sur le rythme desquelles dansent les dernières générations.

Seule compte la résistance silencieuse d’un petit nombre, dont la présence impassible de ‘convives de pierre’ sert à créer de nouveaux rapports, de nouvelles distances, de nouvelles valeurs, à construire un pôle qui, s’il n’empêchera certes pas ce monde d’égarés et d’agités d’être ce qu’il est, permettra cependant de transmettre à certains la sensation de la vérité – sensation qui sera peut-être aussi le déclic de quelque crise libératrice.

Julius Evola – Révolte contre le monde moderne

US’ Eurasian Objectives and the Afghan War

 afghanistan-winding-down_jpeg2-1280x960.jpg

US’ Eurasian Objectives and the Afghan War

By Salman RAFI SHEIKH (Pakistan)

Ex: http://orientalreview.org/  

Since 19th century, super powers have been ‘playing’ the Great Game in the region lying across Central, Southern and South-western Asia. During that ‘Game’ Afghanistan, which strategically connects these geographical segments of Asia, has historically been the heartland for British and Russian manoeuvres and struggle for control over Central Asia in the 19th and early 20th centuries. And in the present timeframe, with the energy resource becoming one of the major contending factors in major powers’ rivalry, importance of Central Asia has increased further due to its energy resource potential. However, gaining access to those resources and controlling their export routes is not possible for any extra-regional power without having strong military presence in the region. Dominant military presence in Afghanistan is, therefore, regarded by the Americans as vitally important for actualising US’ interests. It provides the platform through which US can threaten its potential regional rivals as well as dominate gas and oil export routes emanating from Eurasian landmass. Also, Afghanistan lies along a proposed pipe line route from the Caspian Sea oil fields to the Indian Ocean; therefore, its importance in US’ 21st century grand strategy is critical. To be realistic, therefore, US’ invasion of Afghanistan has to be analysed from the perspective of US’ geo-strategic and geo-energy objectives, rather than from the US’ projected perspective of ‘elimination of global terrorists’. This short paper presents an analysis of US’ 21st century grand objectives as well as importance of Afghanistan in the attainment of those objectives.

The breakdown of USSR provided US with new avenues of rich energy reservoirs in what is commonly known as Russia’s “under-belly” or the Central Asian region. Since then, this region has been a scene of political and economic manoeuvres, rivalry, disturbance, conflict, and struggle to maintain control over its vast energy resources for long-term geo-strategic and geo-economic objectives. Control over the energy resources of this region can possibly enable the US to manipulate its relations with energy-starving countries like India, China, Pakistan, Japan, other East Asian countries and also the European countries in its favour. In other words, control over this region provides the avenues of both geo-strategic and geo-economic domination not only over this region but beyond it as well.  It is thus energy-resources, which provide the logic to understand US’ policy of politically dominating the entire region through control over Afghanistan, which provides the critically important base for dominating the land route for energy supply and control over Eurasian region, as also dominating the proposed Silk-Route. Thus, Afghan war is not about the so-called terrorists or Al-Qaeda, nor is it about ridding the world of dangers of terrorism; rather it has a lot to do with US’ long-term objectives of dominating the world energy resources. It is thus here that the actual significance of US’ invasion of Afghanistan lies which requires proper understanding in order to determine the dynamics of the ongoing war in the region.

SILKROAD

The attack on Afghanistan came in 2001 but preparation for the war had already started in 1999 when the Silk Road Strategy Act[i] was passed by the US congress. This Act outlines the basic policy approach of US for the acquisition of energy in the Eurasian region. The section six of the Act provides the basic logic of US’ policy towards the region. It declares that the region of the South Caucasus and Central Asia has enough energy resources to meet US’ own needs as well as reduce its dependence on the volatile region of Persian Gulf.[ii] The Act was amended in 2006 which then declared energy security as the prime reason for the US to stay in Afghanistan. Afghanistan got the pivotal position because it was the only country in the region which provided the US with a pretext to invade. The Western saga of Taliban’s misrule and their refusal to hand over Bin laden helped preparing the Western mind to attack and dismantle the Taliban rule. On the contrary, it is ironical to note that no reference was made to Al-Qaeda or Bin laden whatsoever in the 2006 amendment of the Act. Terrorism was not declared in that Act as the reason for staying in Afghanistan. Although other policy statements[iii] do declare elimination of terrorism as one of the main objectives of US, the marked discrepancy between the policies stated and the actions taken creates a contradiction in US’ entire anti-terrorist and anti-Taliban agenda, which gives this war a peculiar colour of political manipulation, resource exploitation and regional domination. The Silk Road Strategy Act, which outlines the main framework of US’ economic and energy objectives, also indirectly paved the way for the invasion of Afghanistan. Without having a strong foothold in the region, the US could not have been in any position to control energy resources or trade routes. Similarly, without any strong foothold, it could not have been possible for US to dominate the entire region extending from the Black Sea to the Caspian, and also Central, Western and Southwestern and Eastern regions of Asia. Afghanistan was not only a week country, at least in US’ calculations of Afghanistan’s power potential, but was also located at the center of the region which the US wanted to dominate politically, militarily and economically by controlling the export routes of Oil and Gas. Military presence in Afghanistan­­­­­­­­­­ was thus to serve regional objectives of the US.  The following sketch would suffice to illustrate this point:

Geo-spacial, geostrategic and geo-energy importance of Afghanistan for the USA. (Red bold arrows showing the sphere of influence the US planned to establish in the region with strong military presence in Afghanistan.)

Geo-spacial, geostrategic and geo-energy importance of Afghanistan for the USA.
(Red bold arrows showing the sphere of influence the US planned to establish in the region with strong military presence in Afghanistan.)

The successful implementation of Silk Road Act required huge military presence in the region as well as controlled militarization of the Eurasian region as a means to securing control over oil and energy reserves and protecting pipeline routes and trade corridors. The militarization was to be largely against Russia, China, Iran and Pakistan. In other words, US’ actual objectives include not only geo-energy, but also geo-economic and geo-strategic. And achievement of these objectives required removal of the Taliban rule from Afghanistan and installation of favourable rulers.  This was and is, in US’ calculations, the possible way of achieving three-fold objectives. Since oil and gas are not merely commercial products, control over territory is an essential component of strategic superiority over potential rivals.

The Afghan War is thus as much a war of securing territory to outmanoeuvre the regional rivals such as China, Russia and Iran as to ensure energy security and secured trade routes. In other words, it was a calculated means of maintaining the status of the only global power status by keeping a check on potential rivals by exploiting their weak points. Conflict in Afghanistan has created conditions for the US to enhance its military presence in the entire region. The Taliban phenomenon itself was meant to facilitate, albeit indirectly, the US in building military bases; for, the Central Asian States have a history of rivalry with Taliban and face the threat of their spreading radical version of Islam in those States.[i]  In other words, the Afghan War is not about elimination of terrorists; the Taliban are not Al-Qaeda. The origin of the Taliban can be found in the Soviet-Afghan war. It was USA itself which fully assisted the Afghan Mujahidin fighting the Soviets out. At that time, the interest of the US and that of the Afghans were in considerable convergence. But, after the end of War, situation began to change, and so did US’ own policy towards Taliban, who themselves originated under the leadership of Mullah Omar after the war and joined by local Afghans and ex-Mujahidin commanders. The US’ policy took a visible change in 1997 with the appointment of Madeleine Albright as the Secretary of State, who openly criticized Taliban during her 1997 visit to Pakistan. She went to the extent of declaring them as ‘medieval Islamic fundamentalist curds.’ What caused this change of policy was, besides other factors, Taliban’s marked’ insensitivity’ to US’ interests. When Taliban were establishing themselves in Afghanistan, the US hoped that they would serve US’ interests in Afghanistan, which included construction of Oil and Gas pipelines for US oil companies (UNOCAL and Delta) connecting energy resources of the Central Asian States to the world market[ii] as later stated in the Silk Road Strategy Act, through Afghanistan and Pakistan. Taliban’s refusal to accommodate US’ interest should not be so surprising given the peculiar psychological make-up of Pashtun and their historical experiences with foreign powers. Thus, the Taliban were/are local Afghans who do not want to be occupied by any foreign power. Considering the Afghan psyche and behaviour pattern; their past and historical experiences; the geographical terrain of the region and their culture, it is but natural to conclude that Afghans are too difficult to be subjugated by force. It is history which testifies and provides the undisputed evidence that the Afghans are known for maintaining their independence and resisting foreign occupation with full force.[iii] As such, the Taliban are not terrorists as is projected by the USA and the Western media. They are victim of US’ grand strategy which includes toppling those regimes which do not prove to be sensitive enough to protecting US interests.[iv]  The US invaded and toppled Taliban from their rule in order to pave way for their long term presence in the region. Since this invasion and occupation was against the psyche of the Afghans, strong resistance was inevitable. The Afghans have not only been resisting but their resistance is increasing every day, making it extremely difficult for the US and its allies to establish permanent military presence in the region.

The Geo-Strategic and geo-political aspect of the Afghan war as highlighted above, and necessity for USA of toppling the Taliban regime are closely related to the geo-energy aspect. Control over flow of energy resources in the region with strong military presence in Afghanistan was the calculated means of the US to manipulate regional geopolitics. Most of South Asian and East Asian countries are energy starving, while Northern, Western and Central Asian countries are energy producers. The aim of USA was to have maximum number of energy producers in its axis to manipulate its relations with energy starving states such as Pakistan, India, China, Japan etc. in its favour on the one hand, and on the other hand, competing other powerful energy producers such as Russia and Iran. In other words, as have observed Fouskas and Gokay, control over energy was the key to US’ global hegemony, keeping check over rivals, establishing new sphere of influence, and integration of the central Asian region into the US led global economy;[v] and Afghanistan provided the key place to execute this strategy.

While implementation of Silk Road Strategy Act required militarization of the Eurasian heartland through Afghanistan territory, it also required construction of pipeline routes to ensure security of energy flow. The rationale to pipeline projects was provided in the said act and in National Security Strategy of 1999. The document of the NSS thus stated the rationale:

We are focusing particular attention on investment in Caspian energy resources and their export from the Caucasus region to world markets, thereby expanding and diversifying world energy supplies and promoting prosperity in the region.[vi]

It is in this context that the US considered it very important to manipulate the vast energy resources of the Eurasian region. Considering form US’ viewpoint, economic dependence of the region on the security umbrella provided by the USA must be maintained in order to strengthen its regional domination and also global reach. For providing that security umbrella, USA needed to build a permanent military strike force in the region with strong and well-equipped military bases in Afghanistan. The aim of these bases is not to ‘dismantle and disrupt’ terrorists; for, there are no terrorists, as defined by USA, in Afghanistan. The aim of these air bases, given the critical geo-strategic and geo-energy importance of the region, is to enable USA to be in a position to prevent any other power from dominating the energy rich region, and also take timely and swift action against any potential threat to US’ interests.

An analysis of US’ strategy of building military bases in Afghanistan would also augment the argument that the Afghan war was/is not about dismantling terrorism but about Oil and Gas. Since its occupation of Afghanistan in 2002, USA has been building military bases, following a systematic plan. During his visit to Afghanistan in 2004, US Secretary of State Donald Rumsfeld announced building nine bases in the provinces of Helmand, Herat, Nimrouz, Balkh, Khost and Paktia. These nine bases were in addition to already installed three bases in the wake of US’ occupation of Afghanistan. These bases were/are meant to protect both geo-strategic and geo-energy interests of USA. William Engdahl has analysed US’ strategy in detail. To him, the Pentagon built its first three bases at Bagram Air Field north of Kabul, the US’ main military logistics center; Kandahar Air Field, in southern Afghanistan; and Shindand Air Field in the western province of Herat. Shindand, the largest US base in Afghanistan, was constructed a mere 100 kilometers from the border of Iran, and within striking distance of Russia as well as China.[vii] Secondly, Afghanistan lies across the proposed oil pipeline route which is to transfer oil from Eurasia to the Indian Ocean. As a matter of fact, most of the US bases built in Afghanistan lie across the proposed pipeline route (TAPI) in order to ensure its security against all odds.[viii]

The US fully recognizes the importance of Central Asia’s energy resources and the economic possibilities they offer in world markets and in the region itself. Richard Boucher, US Assistant Secretary of State for South and Central Asia, said in 2007: “One of our goals is to stabilize Afghanistan,” and to link South and Central Asia “so that energy can flow to the south.” In December 2009, George Krol, Deputy Assistant Secretary of State for South and Central Asia, told Congress that one US priority in Central Asia is “to increase development and diversification of the region’s energy resources and supply routes.” He said, “Central Asia plays a vital role in our Afghanistan strategy.”[ix]

oil-TAPI-pipeline

In case of Afghanistan, it is the case of TAPI pipeline that matters much. It is the pipeline that is being planned to bring energy from the Caspian region to the Indian Ocean via Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan and India. Factually, it was this pipeline that triggered armed conflict in the region. Negotiations with Taliban over the proposed pipeline route failed in 2001, just before incidents of 9/11. Taliban’s refusal to accommodate US’ interests proved to be a last nail in the coffin of Taliban’s regime. They were ousted and the way was supposed to have been cleared for the construction of TAPI pipeline, and the heads of the participant States started meetings to finalize the project. The agreement was finally signed in 2008.[x]  Before US’ invasion of Afghanistan and September 11 attacks, US’ company UNOCAL had already testified to the congress that the pipeline cannot begin construction until an internationally recognized Afghanistan government is in place. For the project to advance, it must have international financing, government-to-government agreements and government-to-consortium agreements.[xi]  Here a question arises as to what USA would have gained out of this pipeline project? The answer to this can best be given by bringing to limelight the significance of Mackinder’s Eurasian heartland. The pipeline would undercut the geo-political significance of U’ backed other pipeline routes such as BTC and Trans-Caspian, and enhance US’ control over energy export routes. In US’ calculations, if it could control energy export routes with strong military presence in Afghanistan and providing security umbrella, it could control energy resources of the Eurasian landmass, and ultimately control the Eurasian Heartland as well.[xii] When studied this issue of TAPI in line with earlier quoted Silk Road Strategy Act, the picture becomes quite clear to us that energy-reservoirs, being US’ primary interests in the region, have to be under its control for its long term geo-strategic and geo-economic interests, and maintaining hegemony.

The above analysis of the aspects of the Afghan shows that US’ invasion of Afghanistan is not the result of any terrorist group’s agenda of creating disruption in the world. It was primarily the result of the perennial power tussle going on between powerful states in the world politics. It is a fact that oil and gas have been discovered in other ares of the word such as Venezuela, Mexico, West Africa, but it is getting the same attention. It is so because those areas are strategically not so important as the Eurasian Heartland is.[xiii] Presence of world’s some most powerful nuclear powered countries, biggest economies and ancient trade routes, all add to the importance of this region in international politics. US’ both war-time strategy (invasion of Afghanistan and Iraq, building bases) and peace-time strategy (building pipeline routes) serve its grand strategy in the 21st century of maintaining hegemony. A careful eye will detect that all of these strategies have a common purpose of enhancing American political control over the Eurasian landmass and its hydrocarbon resources. The intensified drive to global hegemony and growing dependence of economic prosperity on oil and gas have been the prime moving factors behind the US’ grand strategy for the Eurasian region, which included invasion of Afghanistan and establishing permanent military presence in the region. Although the current situation in Afghanistan appears negative for USA, nevertheless, these were the stated objectives of USA and Afghanistan was to be instrumental in achieving those goals. As such, the war was not about ‘disrupting and dismantling’ terrorists, it was and is about gas, oil and maintaining power, or as in words of Zbigniew Brzezinski, a power that dominated Eurasia would dominate two of the world’s three most economically productive regions, Western Europe and East Asia……what happens with the distribution of power on the Eurasian landmass will be of decisive importance to America’s global primacy and historical legacy.[xiv]  The war thus was not to maintain a balance of power but in favour of USA against its major rivals, most of them lying in the Eurasian landmass.

ENS NOTES:

[i] Marker Menkiszak, “Russia’s Afghan Problem: The Russian Federation and the Afghan Problem Since 2001.” Center For Eastern Studies 38 (2011): 53

[ii] Ahsan ur Rehman Khan, “Taliban as an Element of the Evolving Geopolitics: Realities, Potential, and possibilities.” Institute of regional Studies, Islamabad 19 (2000-2001): 98-99

[iii]  Ahsan ur Rehman Khan, Moorings and Geo-Politics of the Turbulence in Pashtun Tribal Areas Spreading to other Parts of Pakistan ( Lahore: Ashraf Saleem Publishers, 2011)  14-16

The Author has dealt with Pashtun psyche and behaviour pattern, as also other factors impacting their peculiar mindset in detail in his book cited here.

[iv] Emre Iseri, “The US Grand Strategy and the Eurasian Heartland in the Twenty-first Century.” Geopolitics 14 (2009), 6, http://dx.doi.org/10.1080/14650040802578658 (Accessed 1 March 2013)

[v] V. K. Fouskas and B.Gökay, “The New American Imperialism: Bush’s War on Terror and Blood for Oil.” Westport, CT: Praeger Security International (2005):  29

 [vi] “A National Security Strategy for a New Century” Washington, DC: The White House (1999): 33

 [vii] William Engdahl, “Geopolitics Behind the Phoney U.S. War in Afghanistan”  The Market Oracle  (2009)

 [ix] John Foster, Afghanistan, the TAPI Pipeline, and Energy GeopoliticsJournal of Energy Security (2010) http://www.ensec.org/index.php?option=com_content&view=article&id=233:afghanistan-the-tapi-pipeline-and-energy-geopolitics&catid=103:energysecurityissuecontent&Itemid=358 (Accessed 6 April 2012)

[x] Ibid

[xi] Ibid

 [xii] Emre Iseri, “The US Grand Strategy and the Eurasian Heartland in the Twenty-first Century.” Geopolitics 14 (2009), 19 http://dx.doi.org/10.1080/14650040802578658 (Accessed 1 March 2013)

 [xiii] J. Nanay, ‘Russia and the Caspian Sea Region’, in J. H. Kalicki and D. L. Goldwyn (eds.), Energy & Security: Towards a New Foreign Policy Strategy (Baltimore: The John Hopkins University Press, 2005), 142.

[xiv]  Zbigniew Brzezinski, ‘The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Importance (Basic Books: New York 1997), 223.

Marcel Déat: patriotisme européen

marcel-dc3a9at.jpg

Patriotisme Européen

Marcel Déat

Ex: http://fierteseuropeennes.hautetfort.com/

 

Extraits  tirés d’un texte (toujours d’actualité !) publié dans « La Jeune Europe ( Revue des combattants de la jeunesse universitaire européenne ) », cahier 3/4, 1942.  

 

Je le dis tout net : si cette guerre ne contenait pas la promesse de l’unité européenne, si ce prodigieux conflit n’était pas en même temps la grande révolution des temps modernes, et si l’Allemagne nationale-socialiste n’était pas à la fois la conductrice et la garante de nos espoirs révolutionnaires, je ne vois pas pourquoi je serais « collaborationniste ». Sinon pour combiner, vaille que vaille, un sauvetage français, sous le signe de « l’égoïsme sacré », quitte à poignarder dans le dos mon partenaire, si l’occasion venait à s’offrir.

Et quiconque n’est pas socialiste autant que national, européen autant que français, doit en effet s’établir sur ces positions et ne plus en bouger. C’est bien ce que nous constatons, depuis un an, quels que soient les discours. Je ne crois pas qu’il y ait désormais une confusion possible entre cette attitude et la nôtre. Et je me suis permis d’indiquer que les conséquences, pour la patrie, étaient autrement fécondes, autrement riches, si l’on consentait enfin à se jeter, corps et âme, dans la bataille européenne, et sans regarder derrière soi.

Mais l’incompréhension engendre trop facilement la calomnie, et la sottise est trop près du dénigrement, pour que nous n’éclairions pas en plein certaines idées. On a assez accusé de chimère le vieux socialisme, quand il évoquait l’Europe, quand il s’enivrait d’universalisme, pour qu’on ne manque pas de reprocher au nouveau socialisme un identique irréalisme. Comme si, selon la juste remarque de Jacques Chardonne, l’Allemagne d’aujourd’hui n’était pas merveilleusement différente de celle d’avant-hier.

Comme si le rassemblement des révolutionnaires européens avait désormais à voir avec les palabres des congrès internationaux.

Il ne s’agit plus de prononcer des discours solennels, de pontifier sur des tribunes, d’ergoter sur des résolutions, de formuler des dogmes avec l’autorité qui s’attache aux conciles. Il s’agit de combattre, d’abord, et ensuite de bâtir. De combattre les armes à la main, sur d’immenses champs de bataille, avec le risque que cela comporte. De combattre aussi dans les bagarres civiques, d’y risquer pareillement sa vie, et bien plus encore, sa tranquillité, sa réputation, son pain, son honneur. Et ce ne sera pas trop de tous ces sacrifices pour aider à l’accouchement d’un monde.

Fort bien, diront nos sages. Mais pourquoi cette fuite vers l’Europe, alors que la patrie est pantelante et requiert l’effort de tous ?

Mais qui parle de fuite ? Et qu’est-ce donc que l’Europe, sinon l’ensemble des patries ? Et où veut-on que nous servions l’Europe, sinon chez nous, sinon en France, sinon par la France et pour la France ? Il n’y a pas une terre européennne, indivise et neutre, où nous puissions planter indifféremment notre tente. Il y a une France, qui est en Europe, qui est un élément nécessaire de l’Europe. Et les deux réalités ne se séparent point.

Ce qui est vrai, c’est qu’en effet nous refusons « l’égoïsme sacré ». Que nous n’acceptons pas le refrain maurrassien sur « la France, la France seule ». Parce que cela n’a pas de sens, ou bien signifie qu’on se dresse contre l’unité continentale, qu’on la refuse, et que, sournoisement, on espère retrouver, au delà des mers, les anglo-saxons et leur capitalisme. Car, il faut bien rire, nos super-patriotes, qui repoussent si noblement l’impur contact germanique, ont la passion d’être à nouveau asservis aux seigneurs de la City et de Wall Street.

Et bien ! oui, nous commençons à avoir un patriotisme européen, une sensibilité européenne.

(…)

L’expérience a prouvé qu’une bigarrure de nations théoriquement assemblées à Genêve ne faisait pas une Europe. Il n’y a d’unité que dans une solidarité totale de la vie matérielle, et dans la similitude essentielle des institutions. La guerre, la révolution, sont en train de brasser les peuples et d’unifier les tendances, de rendre convergentes les aspirations politiques et sociales. Et c’est une triste chimère que d’espérer une unité française en dehors de ce passage au creuset de la révolution.

Qu’on nous laisse tranquille avec les propos abstraits et les poncifs officiels sur l’unité française : il y a une réalité française que rien n’entamera. (…) Il y a un trésor français que l’histoire nous lègue et qui jamais ne sera perdu. Mais la France dont l’Europe à besoin, la France sans laquelle il n’y aura plus vraiment de nation française, doit avoir une autre température, elle doit brûler d’une autre flamme. Un certain patriotisme d’image d’Epinal ne la gardera pas des effritements et des affaissements internes. Et si une grande passion ne la saisit pas, si une ardente mystique collective ne s’empare pas d’elle, ne la porte pas vers son vrai destin, il ne lui restera que la force misérable et désordonnée qui se disperse et s’épuise en déchirements.

Je prie pour que nos politique y songent : l’élan vers l’Europe sauvera la France de plus d’une manière, même en l’arrachant à ce qu’elle prend orgueilleusement pour une solitude, à un narcissisme ridicule et désespéré, à un radotage de vieillards au coin du feu. La révolution fait l’Europe, la révolution refait la France, la révolution concilie l’Europe et la France.

 

Marcel Déat / 1942. 

 patriotisme européen,marcel déat,europe,france,nationalisme,européanisme,identité européenne

Quelques exemplaires de « La Jeune Europe », retrouvés en faisant un peu de rangement.  

Une véritable mine d’excellents textes, tous très rares… dont nous vous offrirons régulièrement quelques pépites, le temps pour nous de les relire, trier et (surtout) taper.

patriotisme européen,marcel déat,europe,france,nationalisme,européanisme,identité européenne

dimanche, 31 mars 2013

Ribellismo, individualismo, cosmopolitismo

Ribellismo, individualismo, cosmopolitismo … ecco spiegato il fallimento della sinistra radicale

Ex: http://www.statopotenza.eu/

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO…

caviar.jpgPerché è necessario ribadire che l’idea socialista è necessariamente legata al concetto di disciplina? A più di quarant’anni dal tristemente famoso ’68, il ribellismo anarco-libertario ha pesantemente influenzato la “forma mentis” del militante di sinistra, e ha condizionato l’azione dei gruppi-movimenti determinati a realizzare il socialismo. La disciplina, intesa come serie di regole, norme ferree ed esercizi, necessari per il corretto funzionamento di qualunque forma di organizzazione politica (partiti) e statale, è fondamento di ogni costruzione sociale. Senza di essa, non è possibile generare e mantenere in vita nulla. In Europa Occidentale il rifiuto e la condanna del modo di produzione capitalistico sono costantemente associati al disprezzo per lo Stato, per la nazione, per la Polizia e per l’Esercito. In realtà non esiste alcuna alternativa politica seria che non prenda in considerazione l’idea di poter generare una nuova formazione statale e potenziare gli organismi di Difesa e tutela dell’ordine pubblico. Idee distorte sono il riflesso di comportamenti individuali altrettanto nocivi e antisociali, tipici della sovrastruttura culturale liberalista dell’ultima borghesia, non dei socialisti. Il passaggio che ha portato molti militanti dal Partito Comunista più forte e numeroso del campo occidentale ai “centri sociali occupati” o a repliche sempre più scadenti di “Democrazia Proletaria”(1), non può essere compreso senza riflettere sull’incapacità cronica del militante o simpatizzante di “sinistra”, di concepire il socialismo come società ordinata e rigidamente organizzata, dove non esistono consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope, “l’obiezione di coscienza” o parate dell’orgoglio omosessuale.


La condanna del socialismo concretamente realizzato attraverso l’imposizione e la coazione, coincide con l’adesione al capitalismo, il quale tollera e garantisce ciò che questi invertebrati occidentali desiderano. Perciò ogni prospettiva di superamento del modo di produzione capitalista si è chiusa in Europa. Mediante la sostituzione del leninismo, quale concreta materializzazione del marxismo nel ‘900, con le idee – a torto definite “progressiste” – della borghesia liberale, profondamente antisocialiste. Non è casuale il fatto che al di fuori del campo occidentale la situazione è capovolta, i Paesi socialisti e i partiti comunisti, non permeati da tali storture, costituiscono un vero e proprio baluardo contro la degenerazione borghese.


Viene dunque da chiedersi come mai questo bistrattato movimento politico di nome “Stato e Potenza” sia riuscito in poco più di un anno ad entrare in contatto con realtà politiche straniere non occidentali di ispirazione socialista e/o comunista, guadagnando la loro fiducia con fatti e iniziative concrete, mentre tutti i suoi denigratori e calunniatori sono rimasti al palo, sino alla completa auto-disintegrazione nelle fallimentari esperienze elettorali targate Ingroia o Grillo. La risposta è ovvia. Datevela da soli.

NOTE:

1. http://it.wikipedia.org/wiki/Democrazia_Proletaria

Putin fordert Adoptionsverbot für homosexuelle Paare

papaDSC0796-638x423.jpg

Putin fordert Adoptionsverbot für homosexuelle Paare

 

Der russische Präsident Wladimir Putin hat sich laut dem staatlichen TV-Sender Russia Today dagegen ausgesprochen, dass ausländische Lesben- und Schwulenpaare russische Waisenkinder adoptieren und die Regierung und den Obersten Gerichtshof angewiesen, bis 1. Juli entsprechende Gesetzesänderungen vorzubereiten. 

Wie die Zeitung „Iswestija“ berichtet, wird Putins Ukas höchstwahrscheinlich vom Erziehungs- und Wissenschaftsministerium des Landes ausgeführt werden, das sich derzeit intensiv mit Fragen der Waisenkinder und Adoptionen beschäftigt. 

homoparentalite.jpgDas Ministerium hat bisher noch keinen Kommentar zu dem Thema abgegeben, da Putins Anordnungen das Amt noch nicht erreicht hätten. 
Die Frage der Adoption durch LGBT-Familien war im Februar aufgekommen, nachdem die französische Nationalversammlung gleichgeschlechtlichen Paaren das Recht auf Adoptionen zugestanden hatte. Der russische Kinderrechtsbeauftragte Pawel Astachow hatte sofort angekündigt, er werde alles unternehmen, damit russische Kinder nur von heterosexuellen Familien adoptiert würden. 

Mitte Februar hatte das russische Außenministerium eine Überprüfung der möglichen „psychischen Schäden“ in Aussicht gestellt, die dem russischen Waisenkind Jegor Schabatalow durch die Adoption durch eine US-Bürgerin zugefügt worden sei, die in einer gleichgeschlechtlichen Ehe mit einer anderen Amerikanerin lebte, diesen Umstand aber beim Ausfüllen der Adoptionsunterlagen vor den russischen Behörden verheimlicht habe. Zwei Jahre nach der Adoption trennte sich das Paar und stritt vor Gericht um das Sorgerecht. 

„Ein Totalverbot von Auslandsadoptionen wäre ein klügerer Schritt“, so Nadeschda Chramowa, die Leiterin der russischen Kinderschutz-NGO „Allrussische Elternversammlung“, zu „Iswestija“. Die tatsächliche sexuelle Orientierung potentieller Adoptiveltern sei „technisch schwer festzustellen“, sagte Chramowa. Ihre Gesellschaftsorganisation hatte zuvor zu Massenaktionen für das sogenannte Dima-Jakowlew-Gesetz aufgerufen, das US-Bürgern die Adoption von Kindern aus Russland untersagt.

Die russische Abgeordnete Jekaterina Lachowa, eine der Hauptverfechterinnen des Adoptionsverbots, hatte im Zusammenhang mit der Adoptionsregelung in Frankreich geäußert, nur „traditionelle“ Familien seien imstande, Kinder ordentlich aufzuziehen. Wie die Parlamentarierin ausführte, sind neue Regulierungen ein langwieriger Prozess – niemand dürfe daher ein sofortiges Verbot erwarten. 
Die russische Gesetzgebung sieht keine gleichgeschlechtlichen Ehen vor, weswegen die Frage nach Adoption für Lesben- und Schwulenpaare hinfällig ist. Unverheiratete Einzelpersonen dürfen jedoch Kinder adoptieren – ein Nachweis der sexuellen Orientierung wird dabei nicht verlangt.

Manifestazione!

 

Savage Continent

Savage Continent: Europe in the Aftermath of World War Two, By Keith Lowe

 
In his memoir If This is a Man, the Italian writer Primo Levi recalls that the most terrifying time for him at Auschwitz was not the years of incarceration by the Nazis, when beatings, hunger, back-breaking work and the threat of murder were omnipresent. He came closest to despair during the vacuum between the flight of the guards and the arrival of the Red Army. This period, in which the prisoners were effectively left to their own devices, was characterised by a complete breakdown of all authority, however unjust, as well as the system of supply. I was reminded of these passages when reading Keith Lowe's Savage Continent: an excellent account of the two years or so between the end of hostilities in Europe with the defeat of Hitler, and the establishment of the Cold War order.
 

Savage.jpgAs the author points out, the Second World War did not end in 1945. In large parts of the continent, the contest lasted a lot longer as Polish, Ukrainian, Baltic and Greek partisans battled on in the mountains and forests of Eastern Europe and the Mediterranean. Some of these stories, such as the post-war travails of the Greeks, are well known to Western audiences, but the activities of the Lithuanian, Latvian and Estonian anti-Soviet "Forest Brothers" are not. Perhaps the most arresting fact in this compelling book is that the last Estonian guerrilla fighter, August Sabbe, was killed as late as 1978, trying to escape capture.

Even where there was no fighting, Lowe demonstrates, Europe was in flux. A contemporary observer described Germany, the crossroads of the continent, as "one huge ants' nest", in which everyone was on the move. There were refugees everywhere, some trying to escape the victors, others returning to their homes. Millions of German prisoners of war were crammed into insanitary Anglo-American camps in the West; and they were the lucky ones, unlike those captured by the Russians and taken to camps in Siberia, or murdered en route. Almost everywhere, the Nazi collapse was followed by a bloody settling of scores against real or alleged collaborators. Lowe shows that the numbers affected in places like France to have been much exaggerated by subsequent myth-makers; in Yugoslavia, on the other hand, the reckoning was truly horrific, the more so as British troops were actively involved in sending men and women back to face certain death at Tito's hands.

All this was accompanied by the greatest population shifts in Europe since the Dark Ages. These had, of course, begun during the war. Lowe notes the huge void left by the Nazi murder of the Jews, but he points out that it was not so much the Holocaust itself as the persistence of anti-Semitism in places like Poland and Hungary which persuaded so many survivors to make for Israel or the US. In eastern Poland and western Ukraine, new borders led to a massive exchange of populations attended by great hardship and brutality.

The principal post-war victims, however, were the Germans, systematically expelled by the Czechs and Poles from lands which they had settled for hundreds of years. Lowe describes these events too with admirable sensitivity, placing them squarely in the context of prior Nazi policies, without in any way justifying them.

sav2.jpgEurope was also in political flux. The war had destroyed the standing of the old elites, and brought the Red Army into the heart of the continent. It was Soviet power, rather than the failure of the ancien regime as such, which underpinned the wave of Communist takeovers in Eastern Europe. Lowe describes the Romanian case in fascinating detail. Hungary, Czechoslovakia, Poland and Bulgaria all met broadly similar fates: red terror, arrests, expropriation of land and property, and executions. In Greece, the boot was on the other foot, as the right-wing government parlayed first British then American help into brutal victory over the communists. Lowe notes the "unpleasant symmetry" caused by Cold War imperatives without in any way denying that "the capitalist model of politics was self-evidently more inclusive, more democratic and ultimately more successful than Stalinist communism".

Savage Continent is thus a fitting title for this book, and surely also an allusion to Dark Continent, Mark Mazower's brilliant history of the 20th century. Lowe's vivid descriptions of Europeans scrambling for scraps of food, rampant theft and "destruction of morals" are a timely reminder that a certain humility is in order when we look at less fortunate continents today. The author is also right to remind us, with respect to current travails in Iraq and Afghanistan, just how long it took to rebuild Europe and for democracy to take root – or to return.

That said, Lowe could perhaps have said more about the Europeans who emerged from the war with a new and uplifting vision: that the only way for the continent to prevent this from happening again, and to realise its full potential, was to chart a course towards greater unity. It was in the midst of the ruins described by this book that men such as Robert Schuman, Jean Monnet, Alcide de Gasperi and Altero Spinelli were taking the first steps towards what was to become the European Union. In this sense, Europe is a continent which contains not only the seeds of its self-destruction but also of its renewal.

Brendan Simms is a professor of history at Cambridge University; his 'Old Europe: a history of the continent since 1500' is published this summer by Allen Lane

Du Droit à la désobéissance

Déclaration : Du Droit à la désobéissance

Ex: http://la-dissidence.org/

 

Considérant le scrutin présidentiel des 22 Avril et 6 Mai 2012, nous estimons son caractère non-démocratique pour les raisons suivantes :

- La majorité des candidats défendant une ligne de fond identique, les différences entre eux n’étant objectivement que marginales ;
- Le temps de parole ainsi alloué ne permettant pas l’expression pluraliste des idées ;
Le système inique des 500 parrainages favorisant exclusivement les grandes formations politiques ;
/

Considérant le scrutin législatif des 10 et 17 Mai 2012, nous estimons son caractère non-démocratique pour les raisons suivantes :

- Le mode scrutin non-proportionnel, permettant les combinaisons politiciennes et partisanes au détriment de l’expression de la volonté populaire (Europe Ecologie- Les Verts a recueilli 2,21% aux présidentielles, et a 17 députés ; le Front National a recueilli 17,90% aux présidentielles, et n’a que 2 députés).
L’importance d’une abstention record, de 44,59% des inscrits. La majorité présidentielle (PS, FdG, Verts, DvG) issue du scrutin et qui entend donc légiférer pour les 5 ans à venir, ne reccueille donc finalement que 27,17% des suffrages des inscrits, n’ayant ainsi aucune légitimité populaire ;
/
/
Considérant enfin le fonctionnement intégralement dévoyé de la Vème République , et le non-respect de la décision populaire exprimée lors du référendum de 2005.
/

Nous déclarons la « République Française » illégitime.

Les lois, décrets, et taxes émanant de cette entité ne sauraient donc s’appliquer au Peuple de France.
En conséquence, et pour les raisons susmentionnées, nous décrétons la désobéissance comme Droit s’étendant à l’ensemble des Français.
Nous enjoignons les forces de l’ordre à prendre acte de cette dissidence, et à respecter ce Droit élémentaire et légitime .
/
Nous considérons dorénavant cette désobéissance comme Droit et Devoir, constitutif de notre dissidence politique.
Nous ne reconnaissons plus, par conséquent, le statut de « citoyen ».
/
 
Déclaration commune
 
 

00:05 Publié dans Politique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique, france, désobéissance, dissidence, révolte | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

La dictature autodestructrice du Système

autodestruction.jpg

La dictature autodestructrice du Système

Ex: http://www.dedefensa.org/

20 mars 2013 – Comme l’on sait, le projet de prélèvement sur les comptes bancaires chypriote a installé une superbe pétaudière, avec bouilloire au bord de la crise de nerf, dans l’usine à gaz générale qu’est le Système. Hier, en fin de journée, le parlement chypriote a rejeté le plan proposé par le gouvernement, ouvrant une nouvelle phase de la crise dont certains jugent qu’elle peut conduire à des événements totalement incontrôlables et insaisissables. Ce 20 mars 2013, un article du Guardian notait : «One [commentator] said it was the opening of Pandora's Box; another saw events in the eastern Mediterranean country as the equivalent of the assassination of archduke Franz Ferdinand in Sarajevo.»

Nous avons effleuré un aspect déconcertant et exotique de cette crise avec quelques observation sur notre chère Sorcha Faal (voir ce 19 mars 2013). Nous allons plus loin dans notre démarche, d’abord en proposant diverses réactions à cette initiative, dont la vertu principale est de montrer, autant que les caractères étranges de la mesure envisagée, le flou et l’incertitude qui règnent quant à identifier précisément qui a décidé quoi, qui a exigé quoi et ainsi de suite... S'il y a bien dictature du Système, le moins qu'on puisse dire est que son efficacité de fonctionnement est pour le moins erratique et confuse, jusqu'à l'inversion de la chose à l'étape présente : le vote du parlement de Chypre a sanctionné une victoire sans conditions de la révolte populaire, à laquelle le Système avait ainsi offert une voie triomphale d'affirmation.

• Le site ZeroHedge.com a largement suivi l’épisode de ce week-end en diffusant plusieurs articles bien documentés, et renvoyant à l’habituelle qualité du site dans ses commentaires. Mark J. Grant résumait la situation au terme du week-end, le 18 mars 2013 : «There was no tax on the bank accounts in Cyprus. There still is no tax; the Cyprus Parliament has not passed it and will not vote on it until tomorrow so whatever action takes place it is retroactive. Next, this was not enacted by Cyprus. The people from Nicosia did not go to the Summit and ask to have the bank accounts in their country minimized to help pay the bills. Far from it; the nations of Europe, Germany, France, the Netherlands and the rest, demanded that this take place, a “fait accompli,” the President of Cyprus said and Europe annexes Cyprus. Let's be quite clear; the European Union has confiscated the private property of the citizens in Cyprus without debate, legislation or Parliamentary agreement.»

Sur le même site, Tyler Durden observe, le 18 mars 2013, citant la Royal Bank of Scotland (RBS), qu’il s’agit du “plus gros coup de poker” jamais joué ; que ce processus a toutes les chances de se répéter dans d’autres pays et que la seule réaction désormais possible est l’insurrection populaire. «[T]his stunning move in Cyprus is likely only the beginning of this process (which seems only stoppable by social unrest now). […] As RBS summarizes, “the deal to effectively haircut Cypriot deposits is an unprecedented move in the Euro crisis and highlights the limits of solidarity and the raw economics that somebody has to pay. It is also the most dangerous gambit that EMU leaders have made to date.”»

• Le 18 mars 2013 également, le site WSWS.org faisait, avec son habituelle précision, un compte-rendu général à la fois des faits et des premières réactions, notamment aux USA et dans les milieux européens. Il faut noter qu’il s’agit là aussi de réactions venues de personnalités et d’organismes qui se trouvent au cœur du Système, tant au niveau financier qu’au niveau politique.

«The response of the financial magazine Forbes was scathing, denouncing the “German-led group of EU officials” for “probably the single most inexplicably irresponsible decision in banking supervision in the advanced world since the 1930s.” Another Forbes columnist entitled his comment, “Welcome to Another Great Depression.” Business Insider noted the “multiple reports which indicated that Germany told Cyprus: Confiscate your depositors’ money or leave the euro zone. That’s a terrible political dynamic, and on top of Italy it exacerbates a bad overall political situation.” […]

»With Italy still lacking a viable government, Monti, in his role as caretaker leader, appealed to EU leaders to soften their austerity course or face the same fate. In a letter to the summit, he declared that the election result showed “public support for the reforms, and worse, for the European Union, is dramatically declining” as part of a “trend which is also visible in many other countries across the Union.” Luxembourg Prime Minister and European Council President Jean-Claude Juncker warned at the start of the summit, “I have big worries about the coming economic developments. I won’t exclude that we run the risk of a social revolution, a social rebellion.”»

• Aujourd’hui, ce 20 mars 2013, Ben Chu, dans The Independent, rapporte quelques précisions sur la confusion extrême qui règne à propos de la détermination des responsabilités de cette décision à l’origine…

«The eurozone was still embroiled in an acrimonious dispute tonight over whose idea it was to impose a tax on the savings of ordinary depositors in Cypriot banks… […] At the weekend, the Cypriot government briefed the media that Wolfgang Schauble, the German Finance Minister, and Christine Lagarde, the head of the International Monetary Fund, had been instrumental in pressuring Nicosia to impose the levy on small depositors as the price of the country’s €10bn bailout. “We didn’t expect such demand from our European partners” said Cypriot President, Nicos Anastasiades. But that interpretation of events was firmly denied by Mr Schauble earlier this week. […] A Reuters report on Monday suggested the idea had come from a desperate President Anastasiades… […] However, an insider account of the Brussels negotiations from the Wall Street Journal muddied the waters further by suggesting that the idea [..] was first put forward by the Economic Affairs Commissioner in Brussels, Olli Rehn.»

• Aditya Chakrabortty, qui est le chef de la rubrique économique du Guardian, livrait son impression générale le 18 mars 2013. Pour l’illustrer de façon décisive il utilise la fameuse formule «C’est pire qu’un crime. C’est une faute», citant ainsi Talleyrand pense-t-il, – mais à cet égard, l’on doit se souvenir que ce jugement lapidaire et fort bien dit sur l’exécution du duc d'Enghien est contesté quant à son auteur : «Le député de la Meurthe Antoine Boulay eut ce mot à propos de ce jugement : “C'est pire qu'un crime. C'est une faute”. Le nom de Boulay étant peu connu du grand public, cette phrase, attestée par des témoignages de l'époque, se retrouvera souvent attribuée à Fouché, et parfois même à Talleyrand.» De même que dans le cas d'origine, ce jugement appliqué à l’affaire chypriote pourrait également être distribué à plusieurs auteurs et, qui plus est, concerner nombre de coupables possibles sans qu'on n'en soit sûr d'aucun, alors que l’unanimité des réactions est remarquable… Dans tous les cas, voici celle de Chakrabortty, commentateur-Système s’il en est, comme le montre le qualificatif de “clown” qu’il applique à Beppe Grillo, sans doute au grand désappointement de Berlusconi.

«What's different this time is the nakedness of the Cyprus heist. The right can jump up and down at a massive infringement of property rights. The left can fulminate at the obvious social unjustness of such a tax, levied even while the banks are shut. However the Brussels elite might thus seek to defend their plan, they have managed to offend all sides – and so blown a huge hole in the credibility of the eurozone. As Talleyrand once scornfully remarked of the latest blunder by Napoleon Bonaparte: “It's worse than a crime; it's a mistake.”

»That will be the lasting lesson from this week: it shows up again just how far the single currency has drifted from all those warm words uttered in the 90s about creating a continental shelter from turbulent globalisation. As we have seen since the sovereign debt crisis began, the euroclub has bullied its poorer members into swallowing poisonous austerity and social regressiveness in order to keep a bust system on the road. In so doing they have created the conditions for such clowns like Beppe Grillo and thugs such as Golden Dawn.

»A friend of mine has a mid-level job at the European Commission. Over the past few years, through Greece and Ireland and Portugal and Spain, he has kept up a resolutely chipper air. This weekend, as details of the Cyprus deal came out, he sent me this email: “Is this what the European financial system has come down to? A direct appropriation of savings because it cannot cure its systemic problems. It is not just the banks that are bankrupt. It is the whole bloody model that has run its course and we are in denial.” If even the true believers in the euro, the ones who have built their careers on it, now express such fundamental scepticism, you have to wonder how long it will last – or in what form.»

• Les Russes, qui sont concernés par cette affaire à cause de dépôts importants d’argent dans les banques chypriotes de divers “oligarques” substantiellement enrichis, réagissent avec vigueur, selon Russia Today le 19 mars 2013. Poutine a qualifié l’affaire de «unfair, unprofessional and dangerous», Medvedev de «forfeiture of other people’s money» selon une décision jugée par lui “étrange et controversée”. L’ancien ministre russe de l’économie Aleksei Koudrine a passé le message suivant sur Twiter : «The EU and its regulators are responsible for the current situation on Cyprus. They have slipped up on it…»

• Plusieurs des responsables (?) les plus importants du Système ont réagi d’une façon assez semblable, en retirant leur responsabilité dans la décision spécifique du président chypriote ensuite repoussée par le Parlement. C’est le cas de l’Allemagne, notamment, pays évidemment perçu comme le premier inspirateur de toute politique activant l'opérationnalité de l'austérité que le Système impose à l’Europe. Le porte-parole du gouvernement allemand Steffen Seibert a observé : «How the country makes its contribution, how it makes the payments, is up to the Cyprus government. Germany could have imagined a different plan but it is not our decision…» Le ministre des finances allemand est plus rigide et plus discipliné par rapport à sa ligne, et par conséquent moins fuyant que les commentateurs politiques de son gouvernement : il estime que si la décision n’est pas appliquée, «[t]“hen the Cypriot banks will no longer be solvent, and Cyprus will be in a very difficult situation. […] It can't be done any other way if we want to avoid insolvency…»

• Le principal accusé selon l’interprétation générale, celui qui aurait conduit “le raid” contre Chypre en imposant la mesure de prélèvement sur les comptes bancaires, c’est la Troïka (Commission Européenne, Banque Centrale Européenne et FMI). Pourtant, certains membres de la fine équipe se défendent d’avoir imposé cette mesure spécifique, s’en tenant à l’affirmation de la seule exigence d’un programme de remboursement sur un terme très court, – explication de circonstance qu'on peut supposer plus ou moins faussaire, et surtout contribution notable à la confusion générale... Ainsi, le membre du Conseil d’Administration de la BCE Joerg Asmussen : «[The iniative was] The Cyprus government's adjustment programme, not the Troika's or any other government’s. If Cyprus's president wants to change something in the structure of the levy on bank deposits, that's in his hands. He must simply make sure that the financing is intact…»

• Enfin, pour clore le florilège, encore quelques avis de spécialistes privés du domaine financier, qu’on retrouve à profusion dans les articles de presse : «If European policy makers were looking for a way to undermine the public trust that underpins the foundation of any banking system they could not have done a better job…» (Michael Hewson, analyste des maerchés à CMC Markets) «In the medium term the decision taken regarding the loss on bank deposits could have major ramifications for the eurozone if the European debt crisis re-escalates.[…] What I find most surprising is that they are prepared to take such a major gamble to save such a small amount of money.» (Gary Jenkins, directeur de la gestion à Swordfish Research.)

…Il est évident qu’on relève une exceptionnelle unanimité de commentateurs défavorables. Du côté de la langue de bois, on trouve les diverses potiches gouvernementales ou institutionnelles, qui cherchent à s’en laver les mains, avec les habituelles exceptions teutonnes qui entendent montrer quelle discipline de fer ils sont capables de recommander. Du côté des commentateurs-Système, le déchaînement est général, avec l’accent mis aussi bien sur le caractère arbitraire et interventionniste qui heurte quelques fondements du catéchisme ultra-libéral, que sur l’aspect de l’ébranlement terrible de la pseudo-confiance qu’auraient encore les citoyens-consommateurs et les sacro-saints investisseurs dans la sécurité des organismes de dépôt du Système. (Cas de l’ancien chancelier de l’Echiquier Alistair Darling, qui estime que cette affaire peut engendrer une contagion des retraits des dépôts bancaires [The Telegraph, le 19 mars 2013].)

Quoi qu’il en soit de la véracité de ces critiques, – justes sur le fond mais bien souvent intéressées pour la démarche, – leur véhémence et leur réverbération, y compris dans les rangs de la presse-Système (notamment anglo-saxonne) et dans les structures institutionnelles et satellites du Système, constituent un fait de communication essentiel. Ce tsunami furieux de critiques qui constitue une autocritique du Système a aussitôt entraîné un grand trouble et un flottement évident dans les rangs des organismes les premiers concernés, tant pour les pressions pour l’application du programme, que pour la décision, c’est-à-dire jusqu’à la direction chypriote. Bien entendu, les inquiétudes, l’agitation, les manifestations du public à Chypre même constituent la toile de fond de dramatisation de la pièce avec l’idée de l’épouvantail du désordre social et de l’insurrection populaire (l’idée exprimée par le Luxembourgeois Juncker : «I won’t exclude that we run the risk of a social revolution, a social rebellion»). Hamish McRae (The Independent, le 20 mars 2013) philosophe après la réaction du public chypriote et le vote du Parlement, – ainsi exemplaire de la confusion du commentateur-Système, en saluant comme “encourageant” le succès de la révolte populaire des Chypriotes : «The discouraging lesson is that official bodies are capable of spectacular incompetence. The encouraging one is that ordinary people are learning to cope.»

John Locke, réveille-toi, ils sont devenus fous!

Le cas est extraordinairement net. Il n’y a certainement jamais eu, dans la phase actuelle et peut-être au-delà dans l’histoire des crises financières, une décision et une action au nom du Système, prétendument en faveur du Système, qui ait soulevé avec une telle rapidité et une telle puissance une telle levée de boucliers, y compris et essentiellement au sein du Système. Tout l’arsenal est déployé, y compris les citations des grands anciens, qui, d’ailleurs, s’adaptent superbement à la situation générale. Mark J. Grant, cité plus haut, cite à son tour John Adams et ses formules fondatrices de l’américanisme et du libéralisme qui va avec  : «The moment the idea is admitted into society that property is not as sacred as the law of God, and that there is not a force of law and public justice to protect it, anarchy and tyranny commence.» On pourrait citer dix fois, vingt fois John Locke, père spirituel et comptable du libéralisme, dans le même sens.

Il n’y a aucune technicité économiste particulièrement complexe dans cette mesure, ce qui renforce d’une façon exceptionnelle sa perception et sa puissance de communication. Les qualificatifs de banditisme, de “braquage de banques” (bank robbery) conviennent à merveille, sans la moindre exagération et presque comme investis d’une réelle légitimité, d’une vérité extrêmement évidente et dérangeante ; ils parlent donc à tous et disent à tous ce qu’il importe qu’on sache, armant ainsi les esprits et aiguisant les commentaires. Ainsi observe-t-on à cette occasion, puisque tout cela s’exerce contre une action voulue par le Système, ou par ses représentants en l’occurrence dans cette action, qu’il n’est nul besoin d’être antiSystème de nature pour l’être à cette occasion. Cette plasticité “de nature” est d’ailleurs le caractère véridique de l’antiSystème, mais l’occasion est ici confondante par sa netteté, par la vigueur tranchante des positions d’une opposition qui se recrute quasi essentiellement dans les rangs même du Système.

Est-ce une manifestation d’une situation tactique que nous avons déjà rencontrée, que nous avons nommée “discorde chez l’ennemi” ? Nous pensons que cette définition est très largement insuffisante pour la situation créée ce week-end, que cette situation est d’un autre ordre par son exceptionnalité, sa puissance figurative, la rapidité des événements qui la définissent, le symbolisme dont elle est chargée, – et, peut-être, par-dessus tout, par les circonstances. En fonction de tous ces facteurs, nous dirions qu’il s’agit d’un événement stratégique qui ne figure pas une “discorde chez l’ennemi”, mais une totale inversion ; dans ce cas le “chez l’ennemi” ne suffirait pas, et il importerait de dire “inversion au cœur du Système”… Cela impliquerait qu’il y a quelque chose d’explosif, de totalement instable, de complètement irresponsable, – d’absolument autodestructeur enfin, “au cœur du Système”, – l’équation surpuissance-autodestruction à nouveau rencontrée, presque dans une quasi-perfection.

La quasi-unanimité réprobatrice qui salue, au sein du Système, cette décision pris par le Système et pour le Système, est singulière parce qu’elle est exceptionnelle, mais elle est singulière aussi parce qu’elle reflète cette situation tragique d’“inversion au cœur du Système”. La confusion qui entoure les conditions qui menèrent à la décision, avec les principaux acteurs tentant d’éluder leur responsabilité, le plus souvent dans la confusion, aussi bien chez les acteurs nationaux prépondérants (les Allemands) qu’au sein de la Troïka, tout cela est caractéristique. Tout se passe comme si une force générale dont les effets seraient complètement dissimulés aux acteurs-sapiens auraient déclenché cet ouragan, compréhensible dans ses détails et explicable dans ses buts rationnels, incontrôlable et insaisissable dans son opérationnalité impérative et furieuse, dans ses effets immédiatement catastrophiques, dans ses conséquences aujourd’hui d’une incertitude complète avec la possibilité de redémarrage du tourbillon central européen, tout cela déformant ainsi à mesure et grossissant monstrueusement les conditions générales de la chose. L’effet de critique furieuse, de rejet de la responsabilité, etc., finit par ressembler à une sorte de révolte du personnel-sapiens du Système, quasiment privé de la compréhension de l’évolution du phénomène, incapable de comprendre ce qui se passe, révolté effectivement, révulsé, stupéfait qu’une telle initiative venue du Système soit si profondément stupide, contre-productive, comme l’on jette des tonnes et des tonnes d’essence sur un incendie… Pour la première fois apparaît cette situation d’une façon aussi éclatante, urgente, oppressante, et, bien entendu, ils n’y comprennent rien. (Comme les autres et à peu près comme tout le monde en fait, mais l’essentiel pour ce propos est que ce soit eux aussi, eux les serviteurs du Système.) Bien qu’ils en soient les serviteurs, ils n’imaginent pas que puisse exister une entité nommé Système, qui agit d’une façon autonome, qui abrite dans ses flancs l’horrible secret de l’équation surpuissance-autodestruction, – d’où leur confusion, le désordre des idées, des critiques, la rupture complète du consensus-Système, de l’unanimisme de la pensée, de la solidarité et de la coordination de l’action.

Bien évidemment, le système de la communication a joué et joue un rôle amplificateur d’une puissance considérable, comme c’est la coutume, et encore plus puisqu’il s’agit d’une mesure envisagée d’une extrême puissance figurative et symbolique comme on l’a dit. D’une certaine façon, il importe assez peu que cette mesure soit ou non réellement appliquée, qu’elle soit modifiée, adaptées, etc. L’effet de communication a eu lieu et c’est l’essentiel. La possibilité de la chose est entrée dans les psychologies, y compris et surtout dans les psychologies des serviteurs divers du Système. L’effet n’est pas tant de division, voire de déstructuration, d’ailleurs la séquence a parfaitement montré combien les acteurs du Système sont, entre eux, d'ores et déjà déstructurés puisqu’ils se soupçonnent et s’accusent les uns les autres ; ils ne montrent aucune solidarité d’esprit et d’action, confirmant notre appréciation théorique qu’ils agissent par définition hors de tout cadre principiel. L’effet général est celui d’une phase nouvelle de dissolution, avec un plus une réelle méfiance installée “au cœur du Système”, avec cette idée désormais substantivée qu’à tout moment peut être prise, par le Système ou au nom du Système, une décision inepte ou l’autre, et une décision qui serait comme une provocation, une incitation aux pires excès. (Le fameux «risk of a social revolution, [of] a social rebellion» de Juncker, qui les terrorise tous, – eux qui n'ont pas compris qu'entre Beppe Grillo et le vote du parlement chypriote sous la pression et la surveillance de la rue, la “social rebellion” adaptée aux us et coutumes postmodernes est d'ores et déjà en bonne vitesse de croisière.) Tout se passe comme si une sorte de traître était installé au cœur du Système pour lancer des mesures provocatrices et idiotes, et même tout se passe comme si ce traître pouvait être le Système lui-même…

C’est une occurrence à la fois sympathique et significative qu’éclate cette affaire au même moment où l’on envisage des remous graves au sein du bloc BAO, une sorte de “deuxième époque du bloc BAO” (voir le 18 mars 2013) présentant la possibilité du dissolution du bloc par divergences et affrontements internes. Il existe comme une sorte d’enchaînement logique, de mécanique vertueuse, par lesquelles on verrait le terme “autodestruction” de l’équation surpuissance-autodestruction prendre de plus en plus l’avantage sur l’autre dans tous les domaines du Système, dans tous ses actes d’opérationnalité.

Roger Nimier: passions baroques

Roger Nimier

Passions baroques...

Ex: http://fierteseuropeennes.hautetfort.com/

Nimier-09bf6(1).pngTout le monde connaît ces avions de papier que les lycéens jettent dans la rangée centrale de la classe quand ils s’ennuient. Le fuselage de l’avion était constitué par l’Esplanade des Invalides. Les ailes faisaient un triangle, dont les pointes étaient le pont de la Concorde, le pont des Invalides et l’extrême avancée, sur la rive droite, de l’avenue Nicolas II.

Qui sait ? Malgré la pierre tendre, le contre-plaqué, les guinguettes du pont Alexandre, l’Exposition des Arts Décoratifs n’était pas forcément un avion pour rire. Les hommes avaient appris à s’envoler. En 1925, rien ne leur paraissait plus merveilleux. L’Exposition n’était peut-être que l’ombre d’un avion qui survolait Paris, avion idéal, bourré d’idées platoniciennes (comme de riches Américaines au visage éthéré), d’archétypes, de catégories, d’équations, de tout cet arsenal qui dominait la Terre.

Voilà pourquoi les animaux du siècle présentaient ces formes géométriques et cet aspect glacial. Longtemps les hommes avaient tout adouci. Ils avaient vécu entre des commodes Louis XV, ventrues comme des pourceaux, et des jeunes femmes de Fragonard au sourire facile. A force de se frotter à leurs tableaux, à leurs vêtements, à force d’ingurgiter des conversations sucrées, ils étaient devenus sages et civilisés.

C’était fini. Le démon de la géométrie l’avait emporté. Les austères lignes droites, en rangs serrés, venaient de conquérir la planète. Ainsi, dans le village de français, régnait la pensée de Leibnitz. Rien ne s’y abandonnait au hasard, puisque tout y était symbole, maille d’un univers bien tissé. On n’avait oublié ni la ferme parfaite, ni l’église idéale, ni le lavoir perfectionné. Seul le tas de fumier était un peu vétuste.

Cependant, le passé subsistait. Il était là sous deux aspects. D’abord celui des vieilles coutumes. Chaque nation avait son pavillon, comme si les hommes de 25 n’avaient pas appartenu à l’acier ou à la T.S.F., avant d’être de Bloomsbury ou de Flandres. Ensuite, par l’assimilation des styles les plus anciens : de Byzance à la Grèce, de l’Afrique aux pays esquimaux, toutes les formes avaient été convoquées, pesées d’un œil sûr, rejetées ou conservées, suivant leur degré de fidélité à la logique. Mais la logique avait toléré certains détails coupables ; ainsi garde-t-on un tableau de famille, une vieille domestique.

Le syncrétisme plaçait cette exposition à la rencontre de l’avenir et du passé. Une péniche-restaurant présentait l’avant d’un navire saxon – et son oriflamme sauvage disait qu’on y mangeait des poissons bizarres, des essences inconnues, whisky, gin, martini-patinette. Un déshabillé en velours portait les soleils de la Chine et rappelait les bleus profonds qu’on inventa jadis à Cathay. L’Espagne montrait des poutres sombres sur ses toits, exagérait la hauteur de ses portes.

Les sculptures, les bas-reliefs se tenaient à mi-chemin de la Grèce et des jeunes Parisiennes. Les femmes de pierres avaient les seins ronds, comme le demandaient les Antiques, la taille peu marquée, comme le voulaient les couturiers, les jambes fortes, le visage rectangulaire, sensuel, incliné, avec de grands yeux, dont l’un était pensif et l’autre endormi.

Mélange ! Quand les Romains eurent conquis la Gaule, on vit une chose impossible : l’impatient et le laborieux, Bacchus et Apollon, les moustachus et les chauves, fabriquèrent un monde qui s’appela la France et donna naissance à tous ces petits fonctionnaires, dont la main droite porte le sceau impérial depuis deux mille ans, tandis que la gauche soulève les pots d’hydromel de la maison Pernod.

De même, quand la géométrie et les puissances utiles qui lui servaient d’alliées prirent possession de l’univers, elles le trouvèrent dans un grand désordre, rempli d’hommes velus, de femmes serrées dans des corsets et dans des préjugés, d’ornements encombrants, de passions baroques (délivrer la Pologne, dormir la fenêtre fermée, se tuer d’amour). Les machines étaient inventées depuis longtemps, mais les hommes dignes de les servir n’existaient pas encore. Il fallut les fabriquer.

Quatre années d’industrie lourde et de meurtre facilitèrent les choses.    

 

Roger NIMIER / Histoire d’un amour. 

samedi, 30 mars 2013

Colloque "Maison Commune"