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lundi, 16 septembre 2013

L’Europa non ha difesa, ma a nessuno importa

L’Europa non ha difesa, ma a nessuno importa

Lorenzo Centini

Ex: http://www.statopotenza.it

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E’ un paradosso esiziale, o piuttosto dadaista, che in questi anni vocianti, in cui tutti si sono sentiti in dovere di esprimere giudizi sull’integrazione europea, nessuno abbia speso metà della propria energia culturale per farsi una domanda importante: “Ma l’Europa Unita, come si difende?”.


Probabilmente la Storia sarà inclemente con questa Unione zoppa e troppo improvvisata, fatta di distillatori portoghesi e taglialegna scandinavi, ma noi che ci troviamo a viverla, questa anomalia, abbiamo l’obbligo di sforzarci per rispondere ad alcune domande. Quella suddetta non è di secondaria importanza.


E’ assolutamente intuitivo che qualsiasi organismo nazionale o sovranazionale con tendenze direttive organiche abbia bisogno di una forza, se non altro di difesa. Finiti i tempi delle vacche grasse in cui ONU era un imperativo e i trattati erano tutti categorici e vincolanti ab aeternum, per giocare un ruolo importante nei destini del mondo, come L’Europa può ancora tentare di fare, è necessario avere a disposizione una salda forza militare, moderna e rapida, per poterla adoperare nello scontro diplomatico, come fiches o come spauracchio.
Al momento qualsiasi vaga forza millitare paneruopea è racchiusa nella PESC (politica estera e di sicurezza comune), una serie di direttive intermittenti decise in cicliche riunioni dei ministri degli esteri comunitari. Tuttavia tale forza non è costituita in modo continuo e gestita direttamente da un capo maggiore europeo, nominato od eletto, ma consiste in frammentarie alleanze a geometria variabilissima che, di volta in volta, vengono promosse per rispondere a questioni di sicurezza presentate come “comuni”.


Tale metodo, come si può evincere, non ha quasi mai funzionato. Nato nel 1970, non ha praticamente visto la luce del mondo fino agli anni 2000 (se si eccettua l’EUFOR, la forza europea a partecipazione nominale che aiutò l’ONU in Yugolasvia negli anni 90′), vista la peculiare situazione politica dell’Europa Unita durante la guerra fredda.


Dopo aver subito un revival negli anni della presidenza di Javier Solana (1999-2009) è stata trasformata nel 2010, quando il Trattato di Lisbona ha destituito la formula dei “pilastri dell’UE” eliminando le barriere che intercorrevano tra i processi integrativi economici, politici e militari.


Di lì in poi, il buio. La PESC, che non ha mai avuto alcuna influenza effettiva negli orientamenti dei singoli stati in tema di politica estera, non è nemmeno mai riuscita a federare un numero relativamente grande di compagini militari nazionali e a farle collaborare in qualche teatro estero. Le guerre statunitensi in medioriente hanno infatti visto i paesi europei spaccarsi in un fronte a favore e in uno contro. Discorso simile si può fare per le operazioni in Libia e Mali, dove la stragrande maggioranza dei ministri esteri si è guardata bene dall’impegnarsi in scorrerie nei balcani del mondo. Eccettuato Parigi, che come si sa ha da ridire solo se le guerre non può condurle lei.


Da vent’anni a questa parte, difatti, l’Unione Europea ha intrapreso un percorso di riconsiderazione. La struttura confederale dell’Unione e il suo passato dotato di molta massa critica ne hanno designato peculiarità e limiti. Il più grosso dei quali è sicuramente il rifiuto da parte dei quadri europei di definire l’UE come forza politica attiva e assertiva.
Domina infatti, come voga culturale, la tendenza a rifiutare qualsiasi interventismo comunitario, diffondendo l’immagine di un Europa compagnona che si impegna su tutti i fronti e in tutti i dialoghi ma che non è disposta a investire in questi processi capitali fattuali o non propriamentre diplomatici.


L’esempio fondante è sicuramente il dialogo tra Serbia e Kossovo. L’Unione Europa ha monopolizzato da subito il dialogo tra le parti per stabilizzare un cortile da sempre scottante, riuscendo anche ad ottenere pochi ma sensibili successi, come la pacificazione al livello militare della zona. Ma si è rifiutata sempre di impegnare mezzi o capitali, asserendo di non voler interevenire fisicamente in un paese sovrano. Stessa formula copicollata alla situazione Siriana, dove l’UE si è subito discostata da qualsiasi ipotesi di intervento dell’asse NATO-UE ma si è semplicemente dichiarata favorevole, in linea di principio, alle richieste dei ribelli. Le nozze coi fichi secchi.


La mancanza di una forza europea comune si farà sempre più sentire. Un Europa che si affida alle proprie capacità di pressione economica è un Europa che vive dei propri dividendi storici, convinta di essere un too big to fail geopolitico e assolutamente sicura di poter gestire il mondo attorno a lei, a livello comunitario, con ammonizioni e sanzioni.


Un Europa sempre più vecchia e autoreferenziale, il cui collante con gli States viene meno ogni giorno di più, visto che a Washginton ormai ci vedono più come un peso che come una risorsa, con armi quindi spuntate e incapacitata a chiamare il Papi a stelle e strisce quando vorrà fare la voce grossa.


Un Europa sempre più vecchia, in tutti i sensi, che in futuro potrà contare solo su una forza militare organizzata e specializzata, per supporto alle proprie (si spera concertate) future indicazioni geopolitiche e sulla propria capacità di organizzazione diagonale.
Un Europa che, con una forza militare propria, potrebbe anche pensare ad un percorso geopolitico proprio, senza l’ansia di rimanere senza ombrello difensivo.


Bruxelles, infatti, in questi anni, ha dimostrato in sede internazionale di non sopportare più totalmente le angherie geopolitiche atlantiste, reprimendo sempre più a fatica spinte autonomistiche di singoli stati. Già parlato della Francia, che da anni costituisce l’avanguardia antiamericana nel mondo occidentale sulle decisione macropolitiche estere nei consessi internazionali, anche il Bundestag ha ultimamente cambiato rotta, ammonendo per esempio gli States sulla loro assertività in Iraq, esponendo anche dubbi sulle politiche missilistiche Obamiane sulla frontiera col Limes Moscovita. Un caso che proprio Sarkozy e la Merkel, rispettivamente nel 2010 e nel 2011 abbiano caldeggiato la nascita di una forza militare europea? Non credo proprio.


La creazione di una forza militare comunitaria è il viatico per una traformazione radicale dell’UE, e potrebbe diventare un motore esterno quasi involontario per la cementificazione politico/economica dell’Unione e trasformarla da club aristocratico di potenze litigiose in attore importante della politica internazionale, magari in antitesi (ma questa è fantageopolitica) al mutilato blocco anglosassone.


Un inno alla gioia contenuta, si direbbe.

Crise ou coup d'Etat - Entretien avec Michel Drac

Crise ou coup d'Etat

Entretien avec Michel Drac

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Stop à l’intervention occidentale en Syrie

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Stop à l’intervention occidentale en Syrie: manifestation Bruxelles, le 25/09/2012 à 18h 

Manifestatie tegen een Westerse interventie in Syrië op 25/09/2012 om 18 uur

 

Tienduizenden steunen de Syrische president Bashar al-Assad op alle pleinen van Damascus.

USA : pourvoyeur de terroristes et fauteur de guerre en Syrie

Rassemblement devant l’ambassade des USA

Mardi 25 septembre à 18h

27 Bd du Régent, 1000 Bruxelles

Métro: Arts-Loi

 

 Stop à l’intervention occidentale en Syrie!

 

Verenigde Staten: maatje van terroristen en oorlogsstoker in Syrië

Bijeenkomst buiten aan de Amerikaanse ambassade

Dinsdag 25 september om 18 uur

  Regentlaan 27 te 1000 Brussel

Metro: Kunst-Wet

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 Stop een westerse interventie in Syrië!

 

Jadis, l’Occident menait la Guerre Sainte pour répandre le christianisme et la civilisation. Aujourd’hui, la religion nouvelle s’appelle « droits de l’Homme », « démocratie » ou « protection des civils ». Au nom de ses valeurs et de ses intérêts, l’Occident, Etats-Unis en tête, ne recule devant aucun sale coup : financement de groupes d’opposition et de filières terroristes, désinformation, opérations psychologiques (Psyops), livraison d’armes, formation de mercenaires, actions de sabotages et de déstabilisation, embargos et sanctions, attentats ciblés, attentats aveugles et au besoin, bombardements massifs.

Si la Syrie est aujourd’hui dans la ligne de mire de nos Etats, ce n’est certainement pas parce que le régime maltraite ses opposants. Nous avons vu en effet comment nos élites pouvaient faire preuve de compassion et d’indulgence envers leurs alliés régionaux qui ne sont pas moins violents comme le régime de Tel-Aviv, celui d’Ali Abdallah Saleh au Yémen, de Ben Ali en Tunisie, celui des Saoud au Royaume du même nom ou celui des Al Khalifa au Bahreïn.

D’abord, la Syrie paie le prix de son attachement à sa souveraineté nationale. C’est le dernier pays arabe capable de résister au courant néoconservateur qui déferle avec le soutien de l’Occident sur les pays de la région à la faveur du « printemps arabe ».

Ensuite, la Syrie subit des représailles pour son insoumission à Israël. L’alliance stratégique que Damas a tissée avec l’Iran et les organisations de la résistance libanaise et palestinienne est un crime grave et sans appel aux yeux de nos élites. Officiellement en état de guerre avec Israël, l’Etat syrien est de surcroît doté de la dernière armée arabe capable de résister à la superpuissance de Tsahal.

Tous les mémorandums altruistes de l’Occident sur la Syrie ne servent qu’à dissimuler ces deux réalités. Pour se rendre compte de l’imposture humanitaire, est-il besoin de rappeler l’aveu d’Henry Kissinger, ancien secrétaire d’Etat sous le président Ford, affirmant que « les grandes puissances n’ont pas de principes, seulement des intérêts » (cf. Georges Soros, On Globalization, New York Review of Book, 2002, p. 12)?

Nous aurions bien voulu croire que la mission de nos élites soit de répandre le Bien. Mais nous pensons avoir le droit d’être sceptique quant aux intentions et aux moyens mis en œuvre en Syrie par ceux-là même qui nous avaient tant promis l’avènement de la démocratie en Afghanistan, en Irak ou en Libye.

La Libye pour ne citer que cet exemple a curieusement disparu de nos écrans-radars alors que les milices y font régner la terreur et procèdent à une épuration ethnique et religieuse méthodique. Des dizaines de milliers de prisonniers politiques accusés de loyauté envers l’ancien régime et d’émigrés subsahariens croupissent dans plusieurs prisons secrètes. Ces détenus sont quotidiennement torturés et parfois assassinés dans l’indifférence générale. Tous les jours, des attentats sont commis par des inconnus et des règlements de compte opposent des bandes rivales. Les tombeaux des saints considérés comme « hérétiques » sont détruits un à un sous le regard bienveillant des nouvelles forces de « sécurité » (cf. De Morgen, 30 août 2012). Bref, la Libye est en pleine voie de « somalisation ».

Depuis dix-neuf mois, un feu destructeur ravage la Syrie. Affirmer que ce feu est alimenté par la seule intransigeance et la seule brutalité du pouvoir syrien est parfaitement malhonnête. Car ce feu n’est ni une nouveauté ni exclusivement dû à des facteurs intérieurs. Ce feu est en effet entretenu sous forme de guerre larvée par les puissances occidentales depuis la libération de ce pays en 1946 du joug français. Soucieuse de restaurer leur tutelle sur la Syrie, ces puissances coloniales ont indirectement contribué à la militarisation de ce pays en soutenant la création et l’expansion d’Israël (1948) ainsi que toutes les pétromonarchies du Golfe dont le discours religieux sectaire s’avérait utile face au panarabisme prôné entre autres par l’Egypte de Nasser et la Syrie baassiste.

En avril 1949, pour établir leur hégémonie sur la Syrie et soulager Israël, les USA ont soutenu le coup d’Etat du colonel Za’im.

En 1957, soit bien avant l’avènement de la Syrie d’Hafez el-Assad, l’axe américano-britannique a planifié d’assassiner trois dirigeants syriens jugés trop pro-soviétiques (cf. Ben Fenton, The Guardian, Macmillan backed Syria Assassination Plot, 27 septembre 2003). A l’époque, tous les plans de renversement du régime baassiste ont été envisagés par la CIA et le SIS (MI-6) : organisation de troubles, appels à l’insurrection, création d’un « Comité Syrie Libre »,  armement de l’opposition, « activation des Frères Musulmans à Damas ». Bien naïf serait celui qui nierait la similitude entre cet épisode de l’histoire syrienne et la situation actuelle.

Revenons un moment sur le traitement de l’information à propos des événements récents.

A partir de mars 2011, profitant de l’agitation naissante dans le pays, nos experts en communication ont exagéré le poids de l’opposition et l’ampleur de la violence d’Etat tout en minimisant le réel soutien populaire dont dispose le gouvernement de Damas ce que d’ailleurs l’ambassadeur de France en Syrie Eric Chevalier n’a pas manqué de reprocher à son ministre Alain Juppé. On nous a sciemment caché la militarisation d’une partie de l’opposition syrienne et la présence de groupes terroristes s’infiltrant depuis le Liban, une réalité pourtant constatée dès le mois d’avril 2011 par des journalistes d’Al Jazeera, la chaîne qatarie. La censure imposée par le patron d’Al Jazeera alias émir du Qatar sur les événements qui révéleraient la conspiration anti-syrienne a contraint ces journalistes à faire « défection » pour utiliser un terme que l’on nous sert toujours à sens unique.

Qui plus est, à vouloir dénoncer systématiquement la propagande de l’Etat syrien, la presse mainstream occidentale a soit gobé soit alimenté la propagande de l’opposition radicale allant jusqu’à déguiser des massacres de soldats ou de civils par des terroristes en « crimes de la dictature » comme à Jisr-Al-Choughour (juin 2011), Houla (mai 2012), Deir Ez Zor (mai 2012) ou Daraya (août 2012).

On peut en conclure que l’Occident mène au moins une guerre psychologique contre la Syrie.

Est-il cependant raisonnable de croire que l’Occident n’est pas militairement engagé dans ce pays ?

En automne de l’année dernière, lorsque le gouvernement syrien a appelé les conjurés à déposer les armes, Victoria Nuland, porte-parole du département d’Etat US, a sommé ses protégés syriens de désobéir. Parallèlement, les agents de la CIA et leurs acolytes européens ont incité les soldats syriens à passer dans les rangs d’une armée de mercenaires placée sous commandement de l’OTAN par le truchement de l’armée turque.

Sans surprise, les QG de l’Armée syrienne libre (ASL) installés au Hatay accueille désormais des terroristes du monde entier désireux d’en découdre avec les Syriens patriotes accusés d’être des « infidèles » à la solde de « l’ennemi chiite ». Ces terroristes y reçoivent une formation militaire, des armes, des pick-up surmontés de fusils-mitrailleurs, des MANPAD (systèmes portatifs de défense anti-aérienne) et des appareils de communication performants.

« Nous avons surtout récupéré des roquettes RPG9 puisées sur les stocks de l’armée saoudienne » jubile un rebelle dans les colonnes du Figaro (28 juin 2012) qui ajoute « Elles ont été acheminées par avion, jusqu’à l’aéroport d’Adana, où la sécurité turque a surveillé les déchargements avant de savoir à qui ces roquettes allaient être destinées ». Petits détails: l’armement saoudien est essentiellement américain et la base turque d’Adana dont parle le terroriste, est la base américaine d’Incirlik.

L’Occident s’est longtemps défendu de fournir des « moyens létaux » aux terroristes alors que des agents du Service fédéral de renseignement (BND) croisant au large de la Syrie transmettaient des informations concernant les mouvements des troupes syriennes aux services britanniques et US pour qu’elles parviennent aux rebelles (cf. Bild am Sonntag, 19 août 2012).

Selon le Sunday Times, les services britanniques basés à Chypre ont eux aussi aidé les insurgés à mener plusieurs attaques.

Le fait d’indiquer à ces derniers à quel moment et quel endroit ils doivent tirer sur les troupes syriennes ne revient-il pas de facto à participer militairement au conflit ? L’Occident semble donc loin d’être neutre et habité par de louables intentions. En cette époque de crise et de récession, il peut même se targuer de mener une guerre low cost dans laquelle les seules victimes sont des Arabes.

En rappelant ces faits, notre but n’est absolument pas de minimiser les responsabilités du gouvernement de Damas dans la terrible répression du mouvement de contestation syrien, les crimes d’Etat commis au nom de « la paix et la sécurité », le degré de corruption de certains hauts fonctionnaires de l’Etat, la cruauté de ses services de renseignement, ni l’impunité dont ils ont trop longtemps bénéficié. Tous ces facteurs internes de la tragédie syrienne font partie des éléments déclencheurs de la légitime révolte populaire lancée en mars 2011.

Nous réitérons au passage notre profonde indignation face au degré de violence du conflit syrien et souhaitons que le peuple syrien puisse accéder à l’improbable démocratie à laquelle il aspire légitimement.

En soulignant le rôle de l’Occident dans la militarisation de l’Etat syrien, nous tenons avant tout à renouveler cet avertissement à ceux qui croient en « la libération » du peuple syrien par la voie des armes : au-delà du caractère illégitime de l’action de nos pompiers pyromanes, celle-ci a pour seul résultat l’augmentation de la souffrance de ce peuple et entraîne inexorablement l’humanité dans une aventure aux conséquences que nul ne peut aujourd’hui mesurer.

Les show médiatiques d’un Laurent Fabius qui appelle au meurtre du président syrien (en déclarant qu’il ne mérite pas de vivre), celui d’un Didier Reynders qui vient de plaider au sommet de Paphos pour « le devoir d’ingérence » en Syrie ou les déclarations scandaleusement violentes de l’administration Obama ne font que précipiter l’humanité vers ce chaos.

Hier -au nom du respect de la souveraineté des peuples, de l’humanisme et de la paix-, nous, avons dénoncé l’invasion de l’Afghanistan sans pour autant éprouver de sympathie pour les Talibans. Nous avons manifesté contre l’invasion de l’Irak sans pour autant défendre le président Saddam Hussein. Nous avons protesté contre l’ingérence occidentale en Côte d’Ivoire sans être des laudateurs du président Laurent Gbagbo. Nous nous sommes indignés de l’implication occidentale dans la guerre civile libyenne sans adorer le dirigeant Kadhafi. Et aujourd’hui, nous nous insurgeons contre l’intervention militaire en cours en Syrie sans pour autant être des partisans du président Bachar El-Assad.

Constatant que la destruction de la Syrie ne profite qu’à ses ennemis de toujours, conscients que seules les initiatives prônant la paix, le dialogue et la réconciliation pourront offrir une alternative digne et viable au peuple syrien, nous appelons tous les véritables amis de la Syrie à condamner l’ingérence de nos dirigeants dans les affaires intérieures de ce pays.

Dans le cadre du lancement de notre campagne pour la paix, le dialogue et la réconciliation en Syrie, nous appelons à protester contre l’ingérence militaire occidentale par un rassemblement devant l’ambassade des Etats-Unis à Bruxelles le mardi 25 septembre à partir de 18 heures.

Pour le Comité contre l’ingérence en Syrie (CIS)

Bahar Kimyongür
Tél. : 0485 / 37 35 32

dimanche, 15 septembre 2013

C'est en vogue...

"Les internautes naviguent dans les corridors virtuels du cyberworld, des hordes en rollers transhument dans les couloirs de bus. Des millions de têtes sont traversées par les particules ondulatoires des SMS. Des tribus de vacanciers pareils aux gnous d’Afrique migrent sur les autoroutes vers le soleil, le nouveau dieu !

C’est en vogue : on court, on vaque, on se mondialise. On se troue de piercing pour avoir l’air tribal. Un touriste s’envoie dans l’espace pour vingt millions de dollars. « Bougez-vous ! » hurle la pub. « A fond la forme ! ». On se connecte, on est joignable en permanence. On s’appelle pour faire un jogging. L’Etat étend le réseau de routes : la pieuvre de goudron gagne. Le ciel devient petit : il y a des collision d’avions. Pendant que les TGV fusent, les paysans disparaissent. « Tout fout le camp », disent les vieux qui ne comprennent rien. En fit, rien ne fout le camp, ce sont les gens qui ne tiennent plus en place. Mais ce nomadisme-là n’est qu’une danse de Saint-Guy. “

Sylvain Tesson, « Petit traité de l’immensité du monde », Editions des Equateurs.

Ex: http://zentropaville.tumblr.com/

Pourquoi les Américains n’ont-ils pas utilisé de drones en Syrie?

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Pourquoi les Américains n’ont-ils pas utilisé de drones en Syrie?

Par Valentin Vasilescu

Ex: http://avicennesy.wordpress.com

Dans la dernière décennie, les Américains ont mis l’accent sur la conception et la construction à grande échelle d’avions de reconnaissance sans pilote (UAV), appelés drones. Ces appareils utilisent des technologies moins chères que les avions de combat, avec un risque zéro pour ceux qui les exploitent.

Les drones se sont avérés extrêmement efficaces pour fournir des données d’identification aux troupes américaines sur le terrain en Irak et en Afghanistan, en donnant un réel avantage dans la bataille. En parallèle, les Etats-Unis ont commencé à appliquer des frappes aériennes à distance, menées par des drones légèrement armés. Ces drones sont devenus un moyen de prévenir les attaques contre les Etats-Unis et leurs alliés de la part d’Al-Qaida, des Taliban et les autres ennemis classés par la Maison Blanche comme terroristes. La plupart des missions, découlant de la doctrine américaine de l’utilisation de drones armés concernent des attaques préventives et le maintien de l’occupation des territoires déjà conquis par l’armée américaine.

Les avions de reconnaissance (UAV) armés des Etats-Unis dépendent de la 24ème division ISR dont le siège se trouve à la base aérienne de Lackland, au Texas. 360 d’entre eux sont des MQ-1B Predator, propulsés par un moteur à piston de 1300 cc, développant 115 ch, une vitesse de pointe de 217 km / h, vitesse de croisière de 150 km / h, rayon d’action maximale de 1100 kilomètres, plafond 7.620 m et une autonomie pratique de 24 heures. Le Predator est équipé de deux éléments dans les ailes où peuvent se fixer deux missiles dirigés par faisceau laser AGM-114 Hellfire (poids 45 kg, dont 9 kg représente la charge). A la place des AGM-114, il peut être monté six missiles AGM-176 Griffin (poids 20 kg, dont 5 kg de charge). L’US Air Force a également 77 drones MQ-9 Reaper, propulsés par un turbopropulseur, développant 800 ch, une vitesse de pointe de 482 kilomètres par heure, une vitesse de croisière de 313 km / h, un rayon d’action maximale de 1850 kilomètres, plafond opérationnel 7.500 m et une autonomie de 14 heures. Le Reaper a 7 points d’accrochage pour 4 missiles dirigés par faisceau laser AGM-114 Hellfire et deux bombes laser GBU-12 Paveway II (230 kg) ou 2 bombes guidées par GPS de type GBU-38 (227 kg).

Jusqu’à présent, les drones armé ont été utilisés soit dans des pays qui n’ont pas de défense AA et une aviation pour protéger leur espace aérien (Somalie, Mali, Afghanistan), soit dans des cas comme le Yémen et le Pakistan, où les gouvernements concernés ont donné la permission aux américains de les utiliser. Toutefois, les drones étaient pratiquement inexistants dans les deux derniers conflits, d’abord en Libye et maintenant en Syrie. Dans la mesure où l’armée de l’état attaqué dispose d’une défense AA cohérente qui est capable de réagir, l’utilisation de drones armés est extrêmement risquée et équivaut à une déclaration de guerre.

Les Etats-Unis pourraient-ils intervenir avec leur flotte de drones armés pour punir le régime syrien, selon la déclaration du président Barack Obama ? La réponse est: dans la première phase, non. Les drones sont lents et bruyants, volant à basse altitude, et ont besoin de survoler longtemps les cibles potentielles avant une attaque, devenant eux-mêmes des cibles pour la défense AA syrienne. Donc les drones armés ont aussi des limites, ne sont utiles que si la suprématie aérienne américaine a déjà été acquise avec un accès illimité à l’espace aérien syrien. L’armée syrienne n’est pas équipée de drones, bien qu’elle en aurait grand besoin.

http://avicennesy.wordpress.com/2013/06/21/le-talon-dachille-de-larmee-de-bachar-al-assad/

Bien qu’il ait été dit à plusieurs reprises que l’intervention militaire en Syrie serait limitée, au cours des audiences à la Commission des affaires étrangères du Sénat, les responsables de la Maison Blanche et du Pentagone se comportent comme si l’objet des frappes aériennes viserait tout à fait autre chose que de punir le régime de Damas d’avoir utilisé des armes chimiques, à savoir déposer Assad en aidant les insurgés islamistes. C’est la raison pour laquelle la durée des raids aériens américains autorisés par le Sénat a été prolongée de 10 à 60-90 jours. Dans ces conditions, sur les ordres d’Obama, l’armée américaine a ajouté de nombreux autres objectifs à ceux prévus initialement.

http://romanian.ruvr.ru/2013_09_04/Care-sunt-tintele-americanilor-in-Siria-6491/

Par conséquent, dans les 10 premiers jours de l’intervention américaine en Syrie, il est prévu que les principales cibles des missiles de croisière, des avions de bombardement stratégiques et des missiles à bord du porte-avions américain seraient le réseau de défense AA, qui comprend des batteries de l’artillerie ainsi que les missiles AA et l’aviation militaire, comme en Libye. Le 19 Mars 2011, un total de 124 Tomahawk ont été lancés à partir de navires américains (122) et britanniques (2) contre 20 cibles libyennes près de Tripoli et Misrata. Trois jours plus tard, le 22 Mars 2011, les Américains ont lancé 159 Tomahawk, ciblant des batteries de missiles AA et les bases aériennes. L’armée américaine compte actuellement près de 3.000 missiles de croisière Tomahawk, dont elle ne peut utiliser que 800 en Syrie. Ce n’est qu’après que l’aviation militaire, l’artillerie et les missiles AA syriens aient été neutralisés, que les drones auront le feu vert dans l’espace aérien syrien pour 50-70 jours, dans des missions extrêmement minutieuses de chasse de cibles, à savoir repérer et attaquer les blindés, les colonnes motorisées, les missiles sol-sol et l’artillerie de l’armée syrienne.

Mais cette équation inventée par les Américains dépend de deux variables terribles, contrôlées par la Russie qui pourraient chambouler complètement les plans d’Obama  en quelques heures, et générer et amplifier instantanément un conflit dont l’issue sera différente de ce qu’avaient prévu les Etats-Unis. Mais cela c’est un autre article.

Traduction : Avic

Par Valentin Vasilescu, pilote d’aviation, ancien commandant adjoint des forces militaires à l’Aéroport Otopeni, diplômé en sciences militaires à l’Académie des études militaires à Bucarest 1992.

Massenmanipulation, Propaganda und Gehirnwäsche

Massenmanipulation, Propaganda und Gehirnwäsche

Er formte Preußens Generalstab

Manuel RUOFF:
Er formte Preußens Generalstab

Karl von Grolmann unterstützte Scharnhorst in der Militär-Reorganisationskommission und Blücher bei Belle-Alliance

Ex: http://www.preussische-allgemeine.de

grolman.jpgDer preußische Militärreformer Karl von Grolman war von einer enormen Prinzipienfestigkeit, Konsequenz und Rigorosität, um nicht zu sagen Radikalität, im Denken und Handeln. Mit dem Generalstab schuf er Moltke das Instrument, um an der deutschen Einigung maßgeblich mitzuwirken, die ihm selber zu erleben nicht mehr vergönnt war. Er starb vor 170 Jahren im 67. Lebensjahr.

„Er huldigt nur dem Verstande und ehrt von den Gemütskräften nur die Willenskraft“, sagte August Neidhardt von Gneisenau, ein weiterer Großer der preußischen Reformbewegung, über ihn. Diese Willenskraft kommt schon darin zum Ausdruck, dass der am 30. Juli 1777 in Berlin geborene Preuße sich bereits als Kind gegen die Fortsetzung der Familientradition entschied. Im Gegensatz zu seinem Vater, der als Obertribunalpräsident und Mitautor des Allgemeinen Landrechts in der Justiz erfolgreich Karriere machte, und seinem Großvater mütterlicherseits, der Kriminalrat war, wurde Karl bereits als 14-Jähriger Soldat. Beim Militär fand er seine Berufung. Mit Enthusiasmus ging er in seinem Beruf auf und erfuhr entsprechende Resonanz.


Die für Preußen katastrophal endende Doppelschlacht bei Jena und Auerstedt machte er als Adjutant des Feldmarschalls Wichard von Möllendorf mit. Es folgte eine Verwendung als Adjutant des Befehlshabers des Feldheeres, Fried­rich Ludwig Fürst zu Hohenlohe-Ingelfingen. Dessen ruhmlose und auf die preußische Moral verheerend wirkende Kapitulation bei Prenzlau brauchte er nicht mitzuerleben, da er vorher als Kurier zu seinem König Friedrich Wilhelm III. entsandt worden war. Im weiteren Verteidigungskampf Preußens gegen das überlegene napoleonische Kaiserreich bildete Grolman mit seiner Entschlossenheit und Tapferkeit eine ruhmreiche Ausnahme. Für sein Verhalten in dem Gefecht bei Soldau vom 26. Dezember 1806, in dem er schwer verwundet wurde, erhielt er den Orden Pour le Mérite.


Nach dem Krieg, dessen Verlust auch er nicht hatte abwenden können, wurde er in Gerhard von Scharnhorsts Militär-Reorganisationskommission berufen. Er war nicht nur im vorausgegangenen Vierten Koalitionskrieg positiv aufgefallen, sondern kannte Scharnhorst auch von der „Militärischen Gesellschaft“ her. Als Mitglied der Reorganisationskommission und der Untersuchungskommission, die das Verhalten der Offiziere während des Krieges zu prüfen und zu beurteilen hatte, sowie als für Personal- und Disziplinarangelegenheiten zuständiger Abteilungsdirektor des 1808 geschaffenen Kriegsministeriums half er mit der Schärfe seines Verstandes bei der Suche nach den Ursachen für die Niederlage und mit seiner unerbittlicher Strenge wie „rück­sichtslosen Wahrheitsliebe“, um mit dem preußischen Reformer Hermann von Boyen zu sprechen, bei der Verfolgung der Schuldigen.
Diese Arbeit am Schreibtisch befriedigte ihn jedoch nicht. Er wollte mit der Waffe in der Hand gegen Napoleon kämpfen und das war nach dem Tilsiter Frieden von 1806 zumindest vorerst nicht mehr möglich. Als sich dann 1809 Österreich gegen Bonaparte erhob, nutzt er die Gelegenheit und wechselte von preußische in österreichische Dienste. Doch noch im selben Jahr endete auch dieser Fünfte Koalitionskrieg mit einem Sieg Napoleons.


Grolman gelang die Flucht in das mit dem Habsburgerreich verbündete England. In Spanien wurde immer noch beziehungsweise schon wieder mit britischer Unterstützung militärischer Widerstand gegen Bonaparte geleistet und so ging Grolman 1810 als Kämpfer der Legion extranjera, einer Art Fremdenlegion der dortigen Armee, nach Spanien. Dort kämpfte er als Bataillonskommandeur gegen Napoleon. 1812 gehörte er zu den Verteidigern Valencias gegen die französische Belagerer. Bei dessen Eroberung geriet er in französische Kriegsgefangenschaft. Er wurde nach Frankreich verbracht. Während seiner Zeit in Spanien wurde Grolman zum Anhänger der konstitutionellen Monarchie – was ihn in den Augen preußischer Reaktionäre zum Jakobiner und Demokraten werden ließ.


In Frankreich gelang ihm noch in eben jenem Jahre 1812 die Flucht in die benachbarte Schweiz. Von dort reiste er mit falscher Identität über Bayern nach Jena, wo er ein Geschichtsstudium aufnahm. Zeitgleich mit dem Seitenwechsel Preußens am Ende von Bonapartes Russlandfeldzug kehrte Grolman nach Preußen und in dessen Armee zurück. Wieder war Grolman mit Engagement bei der Sache. Sein Einsatz bei der Völkerschlacht bei Leipzig brachte ihm das Eichenlaub zum Pour le Mérite.
Im Gegensatz zu den Österreichern, die im metternichschen Geiste Frankreich als Großmacht erhalten sehen wollten, trat nun Grolman mit Gneisenau und Gebhard Leberecht von Blücher dafür ein, den bei Leipzig geschlagenen Franzosenkaiser bis in sein eigenes Land zu verfolgen und dort niederzukämpfen. Die Preußen setzten sich in diesem Punkte gegen die Österreicher durch und der Krieg wurde bis zu Napoleons Kapitulation fortgesetzt.


Als Bonaparte 1815 von Elba nach Frankreich zurückkehrte, gehörte Grolman zusammen mit Gneisenau und Blücher zu jenen, die Napoleons Karriere endgültig beendeten. Während Blücher das Kommando über die preußischen Truppen führte, war Gneisenau sein Generalstabschef und Grolman sein Generalquartiermeister. Es war nicht zuletzt die logistische Leistung des Generalquartiermeisters Grolman, welche die Preußen noch rechtzeitig genug auf dem Schlachtfeld von Belle-Alliance erscheinen ließ, um die Entscheidung zu bringen.


Nach den napoleonischen Kriegen leitete Grolman unter dem preußischen Reformer und Kriegsminister Boyen das 2. Departement des Kriegsministeriums. In dieser Funktion baute Grolman den preußischen Generalstab auf, widmete sich dessen Organisation und Ausbildung. Neben der Beteiligung an der preußischen Heeresreform unter Scharnhorst und der Niederringung Bonapartes nach dessen Rückkehr von Elba unter Blücher ist sein konstituierendes Wirken als erster preußischer Generalstabschef die dritte große Leistung Grolmans von historischer Bedeutung.


Wie sein Minister wurde auch Grolman ein Opfer der Reaktion, die nach den napoleonischen Kriegen wieder ihr Haupt erhob. Ganz im Sinne Scharnhorsts hatten sich die beiden preußischen Reformer für ein Volk in Waffen, den Bürger in Uniform und damit für die Landwehr eingesetzt, während die Reaktion diese Errungenschaft der Befreiungskriege zugunsten des traditionellen auf den König eingeschworenen und von Berufssoldaten geführten stehenden Heeres zurückdrängen wollte. Der König schlug sich auf die Seite der Reaktion und Grolman nahm mit seinem Minister Boyen deshalb im Jahre 1819 den Abschied.


Auf Betreiben des Prinzen August von Preußen wurde Grolman jedoch 1825 reaktiviert. Nachdem er die 9. Division in Glogau kommandiert hatte, wurde er schließlich Nachfolger des 1831 verstorbenen Gneisenau. 1832 erst interimistisch und 1835 dann offiziell und definitiv wurde ihm das Kommando über das V. Armeekorps in Posen übertragen. In Posen war es denn auch, wo Karl von Grolman am 15. September 1843 starb. 

Manuel Ruoff

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L'ironie de Diogène à Michel Onfray

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Archives, 1997

Robert STEUCKERS:

Introduction au thème de l'ironie:

L'ironie de Diogène à Michel Onfray

Dans la philosophie grecque et européenne, toute démarche ironique trouve son point de départ dans l'ironie socratique. Celle-ci vise à aller au fond des choses, au-delà des habitudes, des conventions, des hypocrisies ou des vérités officielles. Les conventions et les vérités officielles sont bourrées de contradictions. L'ironie consiste d'abord à laisser discourir le défenseur des vérités officielles, un sourire aux lèvres. Ensuite, lui poser des questions gênantes là où il se contredit; faire voler en éclats son système de dogmes et d'idées fixes. Amener cet interlocuteur officiel à avouer la vanité et la vacuité de son discours. Telle est l'induction socratique. Son objectif: aller à l'essentiel, montrer que le sérieux affiché par les officiels est pure illusion. Nietzsche, pourtant, autre pourfendeur de conventions et d'habitudes, a raillé quelques illusions socratiques. Ce sont les suivantes: croire qu'une vertu est cachée au fond de chaque homme, ce qui conduit à la naïveté intellectuelle (a priori: nul n'est méchant); imaginer que la maïeutique et l'induction peuvent tout résoudre (=> intellectualisme); opter pour un cosmopolitisme de principe (Antisthène, qui était mi-Grec, mi-Thrace, donc non citoyen de la ville, disait, moqueur, que les seuls Athéniens pures, non mélangés, étaient les escargots et les sauterelles). Il n'empêche que ce qui est vérité ici, ne l'est pas nécessairement là-bas.

Pour nous, le recours à l'ironie socratique n'a pas pour objet d'opposer une doctrine intellectuelle à une autre, qui serait dominante mais sclérosée, ou de faire advenir une vertu qui se généraliserait ou s'universaliserait MAIS, premièrement, de dénoncer, démonter et déconstruire un système politique et un système de références politiques qui sont sclérosés et répétitifs; deuxièmement, d'échapper collectivement à toutes les entreprises de classification et, partant, d'homologation et de sérialisation; troisièmement, d'obliger les hommes et les femmes qui composent notre société à retrouver ce qu'ils sont au fond d'eux-mêmes.

Nietzsche critique Socrate

Mais comme Nietzsche l'avait vu, la pensée de Socrate peut subir un processus de fixation, à cause même des éléments d'eudémonisme qu'elle recèle et à cause des risques d'intellectualisation. Après Socrate viennent justement les Cyniques, qui échappent à ces écueils. Le terme de “Cyniques” vient de kuôn (= chien). Le chien est simple, ne s'encombre d'aucune convenance, aboie contre l'hypocrisie, mord à pleines dents dans les baudruches de la superstition et du conformisme.

Première élément intéressant dans la démarche des Cyniques: leur apologie de la frugalité. Pour eux, le luxe est un “bagage inutile”, tout comme les richesses, les honneurs, le plaisir et la science (le savoir inutile). La satisfaction, pour les Cyniques, c'est l'immédiateté et non un monde “meilleur” qui adviendra plus tard. Le Cynique refuse dès lors de “mettre sa sagesse au service des sots qui font de la politique”, car ces sots sont 1) esclaves de leurs passions, de leurs appétits; 2) esclaves des fadaises (idéologiques, morales, sociales, etc.) qui farcissent leurs âmes. Les Cyniques visent une vie authentiquement naturelle, libre, individualiste, frugale, ascétique.

La figure de proue des Cyniques grecs à été Diogène, surnommé quelquefois “le Chien”. On retient de sa personnalité quelques anecdotes, comme sa vie dans un tonneau et sa réplique lors du passage d'Alexandre, qui lui demandait ce qu'il pouvait faire pour lui: «Ote-toi de mon soleil!». Le Maître de Diogène a été Antisthène (445-365). Antisthène rejetait la vie mondaine, c'est-à-dire les artifices conventionnels et figés qui empêchent l'homme d'exprimer ce qu'il est vraiment. Le danger pour l'intégrité intellectuelle de l'homme, du point de vue d'Antisthène, c'est de suivre aveuglément et servilement les artifices, c'est de perdre son autonomie, donc le contrôle de son action. Si l'on vit en accord avec soi-même, on contrôle mieux son action. Le modèle mythologique d'Antisthène est Héraklès, qui mène son action en se dépouillant de toutes les résistances artificielles intérieures comme extérieures. L'eucratia, c'est l'autarkhia. Donc, avec Antisthène et Diogène, on passe d'une volonté (socratique) de gouverner les hommes en les améliorant par le discours maïeutique, à l'autarcie des personnes (à être soi-même sans contrainte). L'objectif d'Antisthène et de Diogène, c'est d'exercer totalement un empire sur soi-même.

Contre les imbéciles politisés, l'autarcie du sage

Diogène va toutefois relativiser les enseignements d'Antisthène. Il va prôner:

- le dénuement total;

- l'agressivité débridée;

- les inconvenances systématiques.

Le Prof. Lucien Jerphagnon nous livre un regard sur les Cyniques qui nous conduit à un philosophe français contemporains, Michel Onfray.

Première remarque: le terme “cynique” est péjoratif aujourd'hui. On ne dit pas, explique Jerphagnon: «Il a dit cyniquement qu'il consacrait le quart de ses revenus à une institution de charité»; en revanche, on dit: «Il a dit cyniquement qu'il détournait l'argent de son patron». Dans son ouvrage d'introduction à la philosophie, Jerphagnon nous restitue le sens réel du mot:

- être spontané et sans ambigüité comme un chien (pour le meilleur et pour le pire).

- voir l'objet tel qu'il est et ne pas le comparer ou le ramener à une idée (étrangère au monde).

Soit: voir un cheval et non la cabbalité; voir un homme et non l'humanité. Quand Diogène se promène en plein jour à Athènes, une lanterne à la main et dit aux passants: «Je cherche un homme», il ne dit pas, pour “homme”, anèr (c'est-à-dire un bonhomme concret, précis), mais anthropos, c'est-à-dire l'idée d'homme dans le discours platonicien. Diogène pourfend ainsi anticipativement tous les platonismes, toutes les fausses idées sublimes sur lesquelles vaniteux, solennels imbéciles, escrocs et criminels fondent leur pouvoir. Ainsi en va-t-il de l'idéal “démocratique” proclamé par la démocratie russe actuelle, qui n'est qu'un paravent de la mafia, ou des idéaux de démocratie ou d'Etat de droit, couvertures des mafiacraties belge, française et italienne. Dans les démocraties modernes, les avatars contemporains de Diogène peuvent se promener dans les rues et dire: «Je cherche un démocrate».

Jerphagnon: «La leçon de bonheur que délivrait Diogène (...): avoir un esprit sain, une raison droite, et plutôt que de se laisser aller aux mômeries des religions, plutôt que d'être confit en dévotion, mieux vaut assurément imiter les dieux, qui n'ont besoin de rien. Le Sage est autarkès, il vit en autarcie» (p. 192).

Panorama des impertinences d'Onfray

Cette référence au Cyniques nous conduit donc à rencontrer un philosophe irrévérencieux d'aujourd'hui, Michel Onfray. Dans Cynismes. Portrait d'un philosophe en chien (1990), celui-ci nous dévoile les bases de sa philosophie, qui repose sur:

- un souci hédoniste (en dépit de la frugalité prônée par Antisthène, car, à ses yeux, la frugalité procure le plaisir parce qu'elle dégage des conventions, procure la liberté et l'autarcie).

- un accès aristocratique à la jouissance;

- un athéisme radical que nous pourrions traduire aujourd'hui par un rejet de tous les poncifs idéologiques;

- une impiété subversive;

- une pratique politique libertaire.

Dans La sculpture de soi. La morale esthétique (1993), Onfray parie pour:

- la vitalité débordante (on peut tracer un parallèle avec le vitalisme!);

- la restauration de la “virtù” de la Renaissance contre la vertu chrétienne;

- l'ouverture à l'individualité forte, à l'héroïsme;

- une morale jubilatoire.

Dans L'Art de jouir. Pour un matérialisme hédoniste (1991), Onfray s'insurge, avec humour et sans véhémence, bien sûr, contre:

- la méfiance à l'égard du corps;

- l'invention par l'Occident des corps purs et séraphiques, mis en forme par des machines à faire des anges (=> techniques de l'idéal ascétique). Le parallèle est aisé à tracer avec le puritanisme ou avec l'idolâtrie du sujet ou avec la volonté de créer un homme nouveau qui ne correspond plus à aucune variété de l'homme réel.

gourm.jpgIl démontre ensuite que ce fatras ne pourra durer en dépit de ses 2000 ans d'existence. Onfray veut dépasser la “lignée morale” qui va de Platon à nos modernes contempteurs des corps. Onfray entend également réhabiliter les traditions philosophiques refoulées: a) les Cyrénaïques; b) les frères du Libre-Esprit; c) les gnostiques licencieux; d) les libertins érudits; etc.

Dans La raison gourmande (1995), Onfray montre l'incomplétude des idéaux platoniciens et post-platoniciens de l'homme. Cet homme des platonismes n'a ni goût ni olfaction (cf. également L'Art de jouir, op. cit.). L'homme pense, certes, mais il renifle et goûte aussi (et surtout!). Onfray entend, au-delà des platonismes, réconcilier l'ensemble des sens et la totalité de la chair.

Conclusion: nous percevons bel et bien un filon qui part de Diogène à Onfray. Un étude voire une immersion dans ce filon nous permet à terme de détruire toutes les “corrections” imposées par des pouvoirs rigides, conventionnels ou criminels. Donc, il faut se frotter aux thématiques de ce filon pour apprendre des techniques de pensée qui permettent de dissoudre les idoles conceptuelles d'aujourd'hui. Et pour organiser un “pôle de rétivité”.

Robert STEUCKERS.

Iran Will Stand Up for Syria With All its Might

 

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Iran Will Stand Up for Syria With All its Might

Nikolai Bobkin

Ex: http://www.strategic-culture.org

The US administration has launched the process of getting congressional approval of an attack against Syria. The Senate foreign affairs committee has voted for the resolution supporting the planned action. The next step is moving the motion to the full Senate and then to the House of Representative to receive bipartisan support. This way Washington is trying to make the decision to strike Syria look legitimate, even if it is going around the UN Security Council. 

The prediction that the war will spill over to encompass the entire Middle East in case the United States strikes Syria is coming true. As it was supposed to be, the first outside actor to get involved is Iran.  The enlistment is on, Iranian young people are willing to put on uniform and defend Syria. The number of volunteers is nearing 100 thousand. They have sent a letter to the President of Syria asking for his permission to be deployed in the area of Golan Heights… They want their government to provide airlift to Syria across the Iraqi airspace. Iraq is the country with large Shiite population; the probability is high that thousands of Shiites there will join the Iranian volunteers. Obama wanted the inter-religious strife in the Middle East turn into a slaughter of universal scope, now he can get it, or to be more exact, he can provoke its start in Syria by launching the Tomahawk missiles against this country. 

It’s Syria that is in sight, but the main target is the Islamic Republic of Iran. The newly elected President Rouhani’s policy is aimed at normalization of relations with the West and putting a stop to international isolation. It evokes concern among the United States and Israel’s ruling circles.  It’s a long time since Americans have been putting blame on Iran for all the troubles of the Middle East, even when it was clear that Iran had nothing to do with what happened.  It may sound as a paradox, but the Tehran’s readiness to start the talks on nuclear program was perceived by the Obama’s administration as a threat to its interests.  According to the White House logic, it may lose the main argument in the confrontation with Tehran. Then the US sanctions will instill no fear anymore.  Europe is already sending unambiguous signals to demonstrate that it expects real progress to be achieved at the talks.  The US has no trade ties with Tehran and it views the sanctions as an effective leverage in the standoff while Europeans face multibillion losses.     

The argument of “Iranian nuclear threat” has become an obsession for Washington after Ahmadinejad is gone. It fully matches the intent to find a pretext for war. The Syrian phase of the military operation is to start pretty soon.     

Iran needs no war. Instead Iranians want Obama to seriously weigh the consequences of such action letting him know that there is no way he could hide behind the back of Congress. Iranian Foreign Minister Mohammad Javad Zarifsaid said, “Mr. Obama cannot interpret and change the international law based on his own wish.” He added, that, “Only the UN Security Council, under special circumstances, can authorize a collective action, and that will be under Chapter 7 of the UN Charter, and this issue needs the approval of the Security Council.” By and large it coincides with the Russia’s position.

Tehran sees no intrigue in the fact that Congress will finally sanction the war against Syria, it is just curious to see how the US lawmakers will manage to do it under the pretext of “punishing” Syria for using chemical weapons while going around the Iranian issue. The members of Congress will inevitably take into consideration the “Iranian factor.”  Calling for war against Syria, State Secretary John Kerry tries to convince lawmakers that, if no action is taken against Syria, Iran is more likely to move ahead on its nuclear program. Kerry does not deliberate on availability of direct link between the events in Syria and the Iranian nuclear program, he simply states the White House position. US Defense Secretary Chuck Hagel says taking no action against Syria will undermine the Washington’s ability to counter the Iranian nuclear efforts.  The US Congress is under heavy influence of Jewish lobby and the arguments work because, while being hostile to Syria, Israel always had Iran in mind.  Where exactly the “red line” is drawn presents a matter of rather minor importance for Israeli politicians.  Some Republicans in Congress not only support the action against Syria but call for an intervention of larger scale sayinga limited strike will not be enough to seriously scare Iran.  Astrike against Syria is likely to make Tehran boost its security, including the acquisition of nuclear weapons as a universal deterrent… This isa reasonable warning which is not heeded somehow.  Having Iran in sight, a military provocation against Syria is also aimed at stoking disagreement in the ranks of Iranian leadership.  Washington hopes that war-minded politicians will prevail and the Iranian government will have to cede and abandon balanced approaches to the issue.  Indeed, only a few months ago such overt threats from Washington would have stoked a storm of responses, former President Ahmadinejad used to strike the keynote. Now Iran appears to be extremely restrained. Talking to Obama in absentia, Iran’s Defense Minister Brig. Gen. Hossein Dehghan uses proper diplomatic language and insists that all problems should be solved by political means. 

Still, the public restraint of the new Iranian government should leave no illusions for Americans.  It’s not government bureaucrats they’ll have to deal with in case combat actions start, but rather the Iranian Republic’s armed forces - the guarantee of retaliation in case the country is attacked.

Iran’s chief of staff Hassan Firouzabadi was quoted declaring that if the US strikes Syria, Israel will be attacked.  It’s not an occasion that Iranian volunteers, who are going to defend Syria, pay no interest in being deployed in the areas adjacent to the borders with Turkey of Jordan. No, they want it to be the Golan Heights - the line of Syrian-Israeli border stand-off since a long time. A potential strike delivered by Iran against Israel in retaliation for US attacking Syria is the worst scenario of all; this is the case when it’s impossible to avoid a large-scale Middle East war.  Instead of taking a decision to back away from a military action against Syria, Obama is driving Iran against the wall by staging incessant provocations like. For instance, the recent demonstrative Israeli missile defense test in preparation for Iranian retaliatory strike.  




Republishing is welcomed with reference to Strategic Culture Foundation on-line journal www.strategic-culture.org.

samedi, 14 septembre 2013

Hollande, Tartarin de carton pâte

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Hollande, Tartarin de carton pâte

par Guy MILLIERE

Ex: http://www.les4verites.com

Lorsque j’ai vu François Hollande emboîter le pas de Barack Obama, puis se mettre en pointe dans les débats concernant une intervention en Syrie, je me suis tout de suite dit que cela allait mal tourner.

J’ai compris, certes, que Hollande soit fasciné par Obama et voie en lui un dirigeant crédible : ils ont en commun une profonde incompétence et une adhésion aux dogmes socialistes, et cela crée des affinités électives.

J’ai pu imaginer une seconde, cela dit, que Hollande avait tiré un minimum de leçons de l’immense monstruosité que fut la folle et sanglante équipée de l’attelage Sarkozy-Obama en Libye, avec les effroyables résultats dont, pudiquement, on ne parle pas dans les grands médias français, mais que tous les services de renseignement occidentaux connaissent.

J’ai pu songer que Hollande éviterait de se laisser entraîner vers l’éventualité d’une équipée du même genre, dans un pays où celle-ci serait plus dangereuse et où le choix n’est plus, depuis longtemps, qu’entre la peste et le choléra – et où s’allier contre la peste, en faisant le lit du choléra, ne peut que conduire au chaos accentué.

J’ai gravement surestimé l’intelligence de Hollande qui, décidément, n’est pas seulement un président inepte en politique intérieure, mais aussi un président catastrophique et crétin en politique étrangère.

Même si Hollande s’est placé en retrait pour tenter de trouver une porte de sortie, et invoque maintenant les Nations Unies et le vote du Congrès américain, une équipée se profile néanmoins. Si elle a lieu, Hollande y restera associé de manière indélébile.

Comme pour la Libye, il n’y aura, le cas échéant, pas de troupes au sol et il y aura une volonté nette de déstabiliser le régime en place. Comme en Libye, une aide sera apportée aux « rebelles ». Comme en Libye, on édulcorera la présence intense parmi ceux-ci de factions djihadistes qui ne valent pas mieux en termes de barbarie que les troupes qui leur font face. Comme en Libye, où nul des géniaux stratèges à l’œuvre n’a pris en compte les dimensions ethniques, nul ne semble prendre en compte les dimensions ethniques et religieuses de la Syrie aujourd’hui.

Mouammar Kadhafi appartenait à une tribu minoritaire de Tripolitaine et gouvernait par alliances de tribus, par l’appui des Touaregs du Fezzan et, de fait, contre les tribus de Cyrénaïque. Il avait fait appel aussi à une population noire venue d’Afrique sub-saharienne. Son renversement a donné libre cours aux exactions des islamistes de Cyrénaïque et a débouché sur des massacres en Tripolitaine, sur des tueries de noirs d’Afrique sub-saharienne, et sur le départ des Touaregs vers le Sahel, avec des armes prises dans les arsenaux de l’ancien régime.

Bachar Al Assad appartient à un groupe minoritaire, les Alaoui­tes, et gouverne en cultivant des liens avec la minorité chrétienne, contre la majorité sunnite. Le renversement de Bachar Al Assad déboucherait sans nul doute sur des massacres d’Ala­ouites et de Chrétiens, et sur la victoire d’islamistes sunnites dominés par les Frères musulmans et la mouvance d’Al Qaïda.

Que Barack Obama soit prêt à aider des islamistes n’est pas étonnant : il a toujours eu un penchant pour les islamistes dès lors qu’ils ne s’appelaient pas Oussama Ben Laden.

Il est absolument navrant que Hollande ait suivi (quand bien même il recule aujourd’hui) et, faute d’avoir des moyens militaires à fournir, se soit placé en position de Tartarin de carton pâte prétendant parler au nom des droits de l’homme, mais agissant, en réalité, en supplétif du pire président de l’histoire des États-Unis.

Qu’aucun autre dirigeant européen n’ait, au-delà de « paroles verbales », suivi Hollande sur ce terrain montre que, même si la plupart des dirigeants européens manquent souvent de courage et de lucidité, ils ne relèvent pas tous de l’asile d’aliénés.

Que des commentateurs osent encore parler du « modèle libyen » pour justifier une éventuelle intervention en Syrie montre qu’ils ont la mémoire courte et le regard biaisé.

Il est vrai que, lorsque les conséquences de l’intervention militaire, si intervention il y a, seront visibles, ils pourront toujours détourner les yeux et cacher les images…

Saudi Arabia’s 'Chemical Bandar' behind the Syrian chemical attacks?

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Saudi Arabia’s 'Chemical Bandar' behind the Syrian chemical attacks?

Mahdi Darius Nazemroaya is a sociologist, award-winning author and geopolitical analyst.

Ex: http://rt.com

U.N. chemical weapons experts visit a hospital where wounded people affected by an apparent gas attack are being treated, in the southwestern Damascus suburb of Mouadamiya, August 26, 2013 (Reuters / Abo Alnour Alhaji)

Nothing the US claims about what happened in Syria adds up. We are being asked to believe an illogical story, when it is much more likely that it was Israel and Saudi Arabia who enabled the Obama Administration to threaten Syria with war.

The Obama Administration’s intelligence report on Syria was a rehash of Iraq. “There are lots of things that aren’t spelled out” in the four-page document, according to Richard Guthrie, the former project head of the Chemical and Biological Warfare Project of the Stockholm International Peace Research Institute. One piece of evidence is the alleged interception of Syrian government communications, but no transcripts were provided.

Just as with the Obama Administration’s speeches which all fall short of conclusively confirming what happened, nothing was categorically confirmed in the intelligence report. Actually it comes across more as a superficial college or university student’s paper put together by wordsmiths instead of genuine experts on the subject.

Going in a circle, the report even depends on “unnamed” social media and accounts as sources of evidence or data. Lacking transparency, it states that “there are accounts from international and Syrian medical personnel, videos, witness accounts, thousands of social media reports from at least 12 different locations in the Damascus area, journalist accounts and reports from highly credible non-governmental organizations.”

Chances are that these unnamed sources are actually foreign-funded insurgents, Israeli media, Saudi media, the Syrian Observatory for Human Rights - which includes fighters in the ranks of the insurgency and salutes Saudi Arabia as a model democracy - or the NGO Doctors Without Borders. These are the same sources that have been supporting the insurgency and pushing for regime change and military intervention in Syria.

Moreover, one of the main sources of the intelligence and communication interceptions that are supposed to be a smoking gun is none other than Israel, which is notorious for doctoring and falsifying evidence.

The US intelligence report also claims to have advanced knowledge about the plans to launch a chemical weapons attack several days before it happened. A leading expert on chemical weapons, Jean Pascal Zanders, who until recently was a senior research fellow at the European Union’s Institute for Security Studies, asks why the US government did not tell the world about it and issue warnings about a chemical attack at that time.

An Israeli-Saudi-US conspiracy?

The US-supported anti-government forces fighting inside Syria are the ones that have a track record of using chemical weapons. Yet, Obama and company have said nothing.

Despite the anti-government forces accusations that the Syrian military launched a chemical weapon attack on Homs at Christmas in December 2012, CNN reported that the US military was training anti-government fighters with the securing and handling of chemical weapons. Under the name of the Destructive Wind Chemical Battalion, the insurgents themselves even threatened to use nerve gas and released a video where they killed rabbits as a demonstration of what they planned on doing in Syria.

According to the French newspaper Le Figaro, two brigades of anti-government fighters that were trained by the CIA, Israelis, Saudis, and Jordanians crossed from the Hashemite Kingdom of Jordon into Syria to launch an assault, respectively on August 17 and 19, 2013. The US must have invested quite a lot in training both anti-government brigades. If true, some may argue that their defeat prompted the chemical weapons attack in Damascus as a contingency plan to fall back on.

However, how they came by chemical weapons is another issue, but many trails lead to Saudi Arabia. According to the British Independent, it was Saudi Prince Bandar “that first alerted Western allies to the alleged use of sarin gas by the Syrian regime in February 2013.”  Turkey would apprehend Syrian militants in its territory with sarin gas, which these terrorists planned on using inside Syria. On July 22 the insurgents would also overrun Al-Assal and kill all the witnesses as part of a cover-up.

A report by Yahya Ababneh, which was contributed to by Dale Gavlak, has collected the testimonies of witnesses who say that  “certain rebels received chemical weapons via the Saudi intelligence chief, Prince Bandar bin Sultan, and were responsible for carrying out the gas attack.”

The Mint Press News report adds an important dimension to the story, totally contradicting the claims of the US government. It quotes a female insurgent fighter who says things that make a link to Saudi Arabia clear. She says that those who provided them with weapons ‘didn’t tell them what these arms were or how to use them” and that they “didn’t know they were chemical weapons.” “When Saudi Prince Bandar gives such weapons to people, he must give them to those who know how to handle and use them,” she is quoted.

There is also another Saudi link in the report: “Abdel-Moneim said his son and 12 other rebels were killed inside a tunnel used to store weapons provided by a Saudi militant, known as Abu Ayesha, who was leading a fighting battalion. The father described the weapons as having a ‘tube-like structure’ while others were like a ‘huge gas bottle.’”
So it seems that the Saudis enabled the chemical attack while the Israelis provided them cover to ignite a full-scale war, or at the very least enable a bombing campaign against Damascus. Israel and Saudi Arabia have empowered the Obama Administration to threaten war on Syria.

Obama wants to change the balance of power in Syria

The moralistic language coming out of Washington is despicable posturing. The hypocrisy of the US government knows no bounds. It condemns the Syrian military for using cluster bombs while the United States sells them en mass to Saudi Arabia.

The UN inspectors entered Syria in the first place on the invitation of the government in Damascus. The Syrian government warned the UN for weeks that the anti-government militias were trying to use chemical weapons after they gained control of a chlorine factory east of Aleppo. As a precaution, the Syrian military consolidated all its chemical weapons into a handful of heavily guarded compounds to prevent anti-government forces reaching them. Yet, the insurgents launched a chemical weapon attack against the Syrian government’s forces in Khan Al-Assal on March 19, 2013. Turning the truth on its head, the insurgents and their foreign backers, including the US government, would try to blame the Syrian government for the chemical attack, but the UN’s investigator Carla Del Ponte would refute their claims as false in May after extensive work.

Concerning the alleged August attack the Obama Administration has been lying and contradicting itself for days. They say that traces of chemical weapons cannot be eliminated, but that the Syrian government destroyed that same evidence that cannot be eradicated. They want an investigation, but say they already have all the answers. 

The claims that the Syrian government used chemical weapons in the suburb of Ghouta defy logic. Why would the Syrian government unnecessarily use chemical weapons in an area that it controls and shoot itself in the foot by presenting the US and its allies with a pretext to intervene? And of all the days it could unnecessarily use chemical weapons, the Obama administration wants us to believe that the Syrian government picked the day when United Nation inspectors arrived in Damascus.

Even the biased and misleading state-run British Broadcasting Corporation admitted that there was something strange about the event. The BBC’s  own “Middle East Editor Jeremy Bowen says many will ask why the [Syrian] government would want to use such weapons at a time when [United Nations] inspectors are in the country and the military has been doing well militarily in the area around Damascus.”

The US is deliberately pointing the finger for the use of chemical weapons at the Syrian government.

American officials have a track record of lying to start wars against other countries. This has been the consistent modus operandi of the US from Vietnam to Yugoslavia, and from Iraq to Libya.

It is not Syria that is going against the international community, but the warmongers in Washington, which include the Obama Administration.

Washington is threatening to attack Syria as a means of prolonging the fighting inside Syria. The US government also wants to have a stronger hand in the country’s future negotiations by restoring the balance of power between the Syrian government and America’s anti-government insurgent allies, thus weakening the Syrian military and ending its winning momentum against the insurgency. If not softening Damascus up for the insurgents, America wants to level the equation and undermine the Syrian government before a final negotiation takes place.

Now is the time for the “responsibility to prevent war”—the real R2P—to come into play.

The statements, views and opinions expressed in this column are solely those of the author and do not necessarily represent those of RT.

Laurent Ozon et les Troupes d'Occupation Mentale. Réponse aux menteurs

Laurent Ozon et les Troupes d'Occupation Mentale.

Réponse aux menteurs

Leur guerre sans fin, signe de leur pathologie incurable

Leur guerre sans fin, signe de leur pathologie incurable

Ex: http://www.dedefensa.org

terminator.jpgIl a été porté à notre attention un texte déjà ancien du 28 août 2013, de Brandon O’Neill, sur son site Skiped (O’Neill collabore aussi au Daily Telegraph). Bien que datant (à cause de la rapidité des choses) par rapport aux événements de la phase paroxystique actuelle de la crise syrienne, le texte garde tout son intérêt parce qu’il aborde un sujet qui ne dépend pas de l’actualité pressante de l’heure en cours mais plutôt de la tendance du bloc BAO à ces guerres d’agression présentant comme principal argument la nécessité de défendre la vertu morale de ceux qui attaquent ; et qu’il aborde le sujet de la Syrie, bien entendu, comme exemple archétypique, car plus l’on avance dans cette sorte d’activité guerrière plus le modèle se raffine dans toute son absurdité et tout son nihilisme, et donc chaque nouveau cas crée en quelque sorte un nouveau modèle archétypique. O’Neill présente cette sorte de guerre comme “une thérapie” («Bombing Syria: war as therapy») : la guerre comme “poursuite de la thérapie par d’autres moyens” au lieu de comme “poursuite de la politique par d’autres moyens”.

Cette thérapie est nécessairement singulière. Il s’agit non pas de traiter ceux qu’on agresse mais bien soi-même en pratiquant ces agressions. Ceux qu’on attaque, ceux qui sont en-dessous (les agressions sont le plus souvent aériennes), sont finalement et objectivement des victimes, pour que les agresseurs puissent voir leur valeur morale rehaussées parce qu’ils ont porté secours aux victimes qu’ils ont bombardées. Il s’agit de “porter secours” à une catégorie d’être humains en les bombardant pour pouvoir mieux se soigner soi-même ; c’est la fameuse formule appliquée au Vietnam où l’on détruisait des villages pour “mieux les protéger”, mais élargie et explicitée décisivement dans sa réelle nature par la pathologie qui doit être traitée de celui qui “détruit pour protéger” ; de “détruire pour protéger celui qu’on tue” à “détruire pour soigner celui qui tue”.

Ci-dessous, quelques extraits du texte de Brandon O’Neill (le souligné en gras est de l’auteur lui-même).

«War used to be the pursuit of politics by other means. Today, if the statements made by the Western politicos and observers who want to bomb Syria are anything to go by, it’s the pursuit of therapy by other means. The most startling and unsettling thing about the clamour among some Westerners for a quick, violent punishment of the Assad regime is its nakedly narcissistic nature. Gone is realpolitik and geostrategy, gone is the PC gloss that was smeared over other recent disastrous Western interventions to make them seem substantial, from claims about spreading human rights to declarations about facing down terrorism, and all we’re left with is the essence of modern-day Western interventionism: a desire to offset moral disarray at home by staging a fleeting, bombastic moral showdown with ‘evil’ in a far-off field.

»Easily the most notable thing in the debate about bombing Syria in response to Assad’s alleged use of chemical weapons against civilians is the absence of geopolitical considerations, or of any semi-serious thought about what the regional or international consequences of dropping bombs into an already hellish warzone might be. Instead, all the talk is of making a quick moral gesture about ourselves by firing a few missiles at wickedness. In the words of a Democratic member of the US Foreign Affairs Committee, there might be ‘very complex issues’ in Syria, but ‘we, as Americans, have a moral obligation to step in without delay’. Who cares about complexity when there’s an opportunity to show off our own moral decency?

»All the discussion so far has focused, not on the potential moral consequences of bombing Syria, but on the moral needs of those who would do the bombing. US secretary of state John Kerry says failing to take action on Syria would call into question the West’s ‘own moral compass’. Others talk about Syria as a ‘test for Europe’, as if this rubble-strewn country is little more than a stage for the working-out of our values. [...] One pro-bombing commentator says the situation in Syria ‘holds a mirror up to Britain’, asking ‘what sort of country are we?’. Like Narcissus, the beaters of the drum for war on Assad are concerned only with their own image, their own reflection, and the question of whether they’ll be able to look at themselves in the mirror if they fail to Do Something. [...]

»... All that matters is that we in the West add physical weight – in the shape of bombs – to our ‘moral impulse’. Such blasé barbarism was taken to its logical conclusion by Norman Geras, co-author of the pro-war Euston Manifesto, when he wrote: ‘Since it is urgent that we respond somehow, out of solidarity, of our “common human heritage” with the victims, action must be taken even if it means meeting chaos with chaos and (by implication) that the chaos we cause turns out to be worse than the chaos we’re trying to bring to an end.’

»This is extraordinary stuff. It exposes what lies at the heart of modern Western interventionism – a desire to make a massive, fiery display of our own ‘moral impulse’, of the West’s flagging sense of ‘common human heritage’, regardless of the consequences on the ground or around the world. In our era, Western intervention is increasingly demanded and pursued, not as a specific, targeted thing that might change the shape of a conflict or further the geopolitical interests of Western nations, but as a kind of bloody amplifier of the presumed probity of the Western political class. At a time when both politics and morality at home are in a profound state of disarray, when there’s little of substance that can unite Western elites or populations, we’re seeing a desperate turn to foreign fields in search of the sort of black-and-white clarity and sense of mission that eludes our rulers domestically... [...]

»What we have today is a form of purely moralistic warfare, self-consciously detached from anything so tangible as geopolitics, national interests or regional stability. Such showboating interventionism is more lethally unpredictable than anything which existed in earlier imperialistic or colonial eras. At least those old warmongers tended to be guided by clear political or territorial ambitions, meaning their interventions had some logic, and potentially some endpoint. Today, when war is fuelled by narcissism rather than politics, and the aim is emotional fulfilment rather than territorial gain, there are no natural limits or rules to the warmongers’ behaviour.»

O’Neill cite à la fin de son texte l’auteur et essayiste devenu politicien, le Canadien Michael Ignatieff, exposant effectivement, dans les années 1990, cette idée du “narcissisme” à propos du courant en Occident en faveur du bombardement des Serbes bosniaques, et des attaques effectivement effectuées (l’originalité du propos étant qu’Ignatieff lui-même était partisan de ces attaques, donc partie prenante de ce “narcissisme” qu’il identifiait) : «We intervened not to save others, but to save ourselves, or rather an image of ourselves as defenders of universal decencies...» Ignatieff était un précurseur car, depuis, comme l’on sait, la formule s’est généralisée. Selon les critères avancés, on peut faire entrer les guerres d’Irak et d’Afghanistan dans ces catégories “humanitaires-narcissiques” puisque le but affiché est également l’apport de nos ”valeurs” à ces populations, selon la thèse du narcissisme développée par O’Neill.

Cela n’écarte pas d’autres buts greffés sur ce motif fondamental, concernant les intérêts, les montages hégémoniques, etc., mais dans l’esprit de la démonstration ces buts sont accessoires et secondaires, ou bien de simple opportunité (puisque l’intervention humanitaire a lieu, adjoignons-lui des buts lucratifs et autres du même genre). L’ensemble de cette campagne depuis les années 1990, qui montre une certaine incohérence dans les axes pseudo-stratégiques considérés, dans la façon dont les interventions ont lieu, dans la faiblesse sinon la contre-productivité des résultats obtenus (le bloc BAO est infiniment plus faible dans sa position relative aujourd’hui qu’il ne l’était au début des années 1990), substantive largement l’explication de O’Neill. La durée (pas loin de vingt ans) permet effectivement de tirer des conclusions concernant une tendance générale et systématique, et l’explication du “narcissisme” est tout à fait acceptable.

... Elle est même impérative pour nous, puisqu’elle rejoint évidemment, sous un autre nom, une appréciation constante de notre part depuis des années de l’activisme du bloc BAO. (Nous n’employons pas le terme “narcissisme ” que nous trouvons trop restrictif et privé de certaines dimensions essentielles, mais privilégions le champ général de la psychologie et sa pathologie.) L’explication du “narcissisme” rejoint notre explication générale fondamentale selon laquelle c’est la psychologie qui est en jeu, cela étant favorisé par l’écrasante puissance du système de la communication dans la détermination des projets pseudo-“politiques“ et de leur opérationnalisation. Les explications d’intérêts, de plan géopolitique, offertes d’une façon parcellaire et souvent contradictoire sur le long terme (la conquête de l’Irak pour en faire un État-satellite occidentalisé, devenu un allié de l’Iran, très proche d’Assad, etc., est un exemple), ne jouent qu’un rôle de rationalisation au coup par coup. Malgré l’apparence, elles participent au “comment?” de ces guerres (“comment a-t-on pu lancer cette guerre?” dans le sens de “comment a-t-on pu avoir l’inconscience, l’irresponsabilité, etc...”, en répondant “en lui adjoignant des explications-alibis de type rationnel et géostratégiques”) ; elles ne répondent nullement au “pourquoi ?” fondamental  : “pourquoi toute cette campagne chaotique, contre-productive, épuisante et affaiblissante, exaspérante finalement pour les populations du bloc BAO et même de plus en plus pour une partie de ses directions (Congrès aux USA), depuis la fin de la Guerre froide?”. L’explication psychologique, et dans le sens d’une pathologie collective dont les signes sont évidents jusqu’à l’obscénité psychiatrique chez un Fabius, un Kerry, etc., avec la cohérence de la durée qui rend impérative la logique psychiatrique, explique d’une façon très satisfaisante sinon impérative l’aspect erratique, chaotique de ces campagnes spécifiques, et de l’ensemble en général. Il suffit d’ouvrir sa raison à d’autres références que les références classiques, du type géopolitique, fortement contrôlés tout au long du XXème siècle, pour s’en convaincre ; l’ouverture de la raison à la recherche de la vérité d’une situation du monde qui pulvérise tous les standards en vigueur jusqu’ici ne doit pas être considérée comme une erreur, une naïveté ou une extravagance effrayante, sinon à participer complètement de la logique psychiatrique en cours .... Encore une fois, depuis qu’il s’est affirmé hégémonique et complètement conquérant (selon l’interprétation classique, géostratégique), le bloc BAO n’a fait que s’affaiblir, reculer partout, remporter des victoires tactiques poussives et coûteuses aboutissant à des désastres stratégiques selon la fameuse “formule de la Marne”. Cela demande une explication hors des références-Système, alors qu’on couvre cet ensemble de tous les attributs de la puissance conquérante.

Pour nous, l’interprétation d’O’Neill est une manière de nous confirmer dans le sens de notre analyse psychologique du phénomène (tout comme, bien entendu, l’“incompréhension” des Russes du comportement du bloc BAO [voir le dernier constat en date de la chose, le 7 septembre 2013]). Bien entendu, ce que ne fait pas O’Neill, c’est d’explorer la cause de ce qu’il nomme “narcissisme”, cause allant bien au-delà de la période de ces “guerres narcissique”. (Sans aller plus avant dans une tentative d’explication, O’Neill implique cela lorsqu’il écrit : «War used to be the pursuit of politics by other means. Today, if the statements made by the Western politicos and observers who want to bomb Syria are anything to go by, it’s the pursuit of therapy by other means.» Cela signifie que la thérapie était en cours avant la guerre, – sans succès comme on le comprend, – donc que la pathologie existait déjà. C’est cela qui est essentiel.)

C’est un point que nous explorons constamment, et que nous situons dans la logique écrasante du malaise aigu d’une “contre-civilisation” (bloc BAO) dépendante d’un Système qui est né du “déchaînement de la Matière“ et qui est en cours d'effondrement. Cette prépondérance absolue de forces supérieures, à tendance autodestructrice à partir de leur dynamique de surpuissance, explique largement, et peut-être exclusivement à notre sens, ce comportement “narcissique” ou autre. La pathologie collective infestant la psychologie ne peut être laissée à une seule analogie médicale qui se contente de décrire le “comment?” sans s’intéresser vraiment au “pourquoi?”, par impuissance d’ailleurs, comme dans le cas des sciences modernes qui en restent toujours, à leur terme de l’analyse, aux causes opérationnelles (un faux-“pourquoi?”, en réalité partie ultime du “comment?”). Dans tous les cas, cette approche, qui est complètement la nôtre, ne laisse aucun espoir que le bloc BAO puisse changer son orientation chaotique, et affirme comme un destin inéluctable la chute du bloc BAO suivant, ou accompagnant celle du Système. Leur “guerre sans fin” a une fin, et c'est leur chute. Seules les modalités de cette chute, sa chronologie, sa “méthodologie” restent inconnues. Quant à la situation lorsque cette chute sera accomplie, c’est l’inconnue centrale et totale, avec une seule assurance : aucun précédent historique de notre histoire, des plus contrôlés aux plus catastrophiques, ne peut figurer comme référence. Il s’agit d’une terra incognita.

Monothéismes et paganismes

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Monothéismes et paganismes

Le numéro 56 de TERRE & PEUPLE Magazine est presque tout entier consacré aux monothéismes et aux paganismes.

Pierre Vial consacre son éditorial à un pieux hommage qu’il rend à ‘l’âme altière’ de Dominique Venner, derrière qui il a lui-même marché depuis ses quinze ans, car il n’a jamais suivi d’autre chef que lui. Il nous engage ‘à nous orienter sur cette ‘étoile polaire’. Il cite Bruno de Cessole, pour qui le dernier geste de Dominique Venner n’a rien du désespoir. C’est au contraire un sacrifice accompli pour réveiller nos consciences.

 Pierre Vial ouvre ensuite le dossier ‘Monothéismes et paganismes’ pour souligner que l’islam se trouve dans un rapport de filiation avec les deux autres monothéismes et qu’un gouffre sépare ces trois religions du désert des religions de la forêt. Il se réfère aux archéologues israéliens Finkelstein et Silbermann, pour qui la saga biblique n’est qu’un produit de l’imagination, conçu sous la dynastie davidique, et à Jean Soler, qui a démontré que les épisodes d’Abraham et de Moïse ne peuvent plus être considérés comme historiques. Les dominations étrangères, assyrienne et perse, et les déportations des Hébreux ont alors été interprétées comme une punition pour leur tolérance à l’égard de dieux étrangers, ce qui doit les faire passer à la monolâtrie (pour un Dieu national), qui se muera bientôt dans une alliance privilégiée avec le Dieu unique et universel et justifiera une réécriture de la Bible à la fin du IVe siècle seulement.

Pour les Indo-Européens, Jean Haudry souligne que leur polythéisme s’est accommodé d’accumuler la tradition, sans jamais en retrancher ni craindre les contradictions et les paradoxes. Avec les temps historiques, les dieux, frères des hommes, ont tendance à s’en éloigner, peut-être suite au feu qui leur a été volé par Prométhée, et suite aux comportements inamicaux des héros, ‘contempteurs des dieux’. En Grèce, l’athéisme va apparaître avec l’atomisme matérialiste et l’épicurisme. Chez les Iraniens, le mazdéisme, avec son dieu suprême Ahura Mazda (Seigneur Sagesse), est une tentative avortée de monothéisme. Dans l’hindouisme, la recherche de l’unité fait évoluer le polythéisme en panthéisme. Toutefois, Brahma et Civa forment avec Vishnu le Trimurti ou Trinité, mais les trois composantes de la triade (avec les trois couleurs, blanche, rouge, noire qui leur sont associées) leur sont préexistantes.

Traitant la distinction entre monothéisme et polythéisme, Robert Dragan remarque que la Bible désigne paradoxalement le Dieu unique par le pluriel Eloïm, alors que Aristote (sur qui saint Thomas d’Aquin appuiera largement sa Somme théologique) pose les preuves d’un Dieu créateur qui est de nature différente des autres dieux, qui ne sont que représentation du monde, donc des créations des hommes. La clé métaphysique des païens n’est pas la révélation dogmatique, mais la contemplation muette qu’on n’atteint par recherche par ascèse, notamment celle des mystiques chrétiens.

Claude Perrin rappelle que les juifs sont passés du polythéisme à la monolâtrie d’un Dieu réservé au seul peuple juif. Les chrétiens en feront le Dieu de tous les peuples, notamment tous les peuples conquis par l’Empire romain, ce qui ne pouvait que séduire l’Empereur Constantin. Tard venu, le monothéisme a fait d’innombrables emprunts au polythéisme. Rare substitut qui subsiste aux dieux anciens : le Père Noël.

Claude Valsardieu dresse une fiche ‘théométrique’ extraordinairement fouillée d’Apollon, divinité solaire de la conscience éclairée, qui surclasse l’intelligence mercurienne, de l’esprit prophétique, qui transcende la raison logique, de l’harmonie supérieure, de la beauté radieuse, de l’espérance. Dieux guérisseur pourfendeur du Python, il dirige ses flèches contre la maladie. D’origine hyperboréenne, ses premières représentations sont égyptiennes.

Pierre Vial esquisse les traits les plus marquants de notre néo-paganisme : le ré-enchantement d’un monde qui a été diabolisé, méprisé et honteusement maltraité. Notre paganisme est une réalité charnelle et vécue, c’est le rejet de l’intolérance des religions fanatiques, c’est la revendication de la dignité des hommes libres et responsables d’eux-mêmes. C’est un paganisme de méditation, de sagesse, de combat, de fécondité, d’enracinement, de sublimation par le culte du sacré, un paganisme de fidélité, à la tradition de nos anciens, à notre sang et à notre terre.

Alain Cagnat retrace la voie qui a mené du monothéisme à l’universalisme mondialiste. On attribue à Aménophis IV Akhenaton,  pharaon de la XVIIIe dynastie (XIIIe AC) la paternité d’un monothéisme qui a été sans lendemain. Moïse ne remonterait qu’au VIIIe siècle AC, mais le monothéisme juif serait en fait beaucoup plus récent. Yahveh, dieu unique n’est au départ qu’un dieu national qui ne tolère pas le culte d’autres divinités par les juifs. C’est la condition contractuelle de leur suprématie, voire de leur surhumanité. Le christianisme est le même monothéisme étendu par saint Paul à tous les peuples du monde. Adopté par Constantin, le monothéisme chrétien est imposé à tous les peuples de l’Empire romain. Cette adoption lui assure un triomphe sur ces peuples jusqu’à la fracture interne de la réforme des protestants et la contestation. Celle des humanistes d’abord et ensuite celle des Lumières d’un esprit sanctifié par une influence maçonnique évidente, qui édifie un nouvel universalisme, avec une nouvelle métaphysique du progrès illimité, poursuivi dans le cadre d’un Contrat social régi par des Droits de l’Homme, révélés eux aussi par le même esprit saint laïc. Les Droits de l’Homme sont le credo insurpassable de la tolérance, lequel prescrit l’intolérance contre les ennemis de la liberté obligatoire. Comme il prescrit le droit et bientôt le devoir d’ingérence pour sanctionner les dissidents. Engendré par le libéralisme, l’individu doit pouvoir se libérer de tout lien qui l’attache à un groupe, fût-ce sa famille et rien ne peut entraver son activité économique sur un marché de libre concurrence. En soignant son propre bien, il fait le bien de tous, de toute l’humanité car le marché de doit pas connaître de frontières, surtout pas nationales, car il y a une équation entre nation et shoah. Il ne peut y avoir d’autre règle que l’auto-régulation du marché par l’équilibre de l’offre et de la demande. Elle s’impose aussi bien au travail qu’aux marchandises et services et le chômage exerce sur le prix du travail une pression bénéfique pour le prix des produits, qu’elle s’exerce par la concurrence des travailleurs des pays à bas salaires ou des travailleurs immigrés, dessinant avec les délocalisations le spectre d’un nouvel esclavagisme. Le mondialisme a connu un grand essor avec l’effondrement de l’URSS et la disparition du monde bipolaire et avec l’intégration des pays BRIC (Brésil/Russie/Inde/Chine) dans le grand marché sans nations. Celui-ci favorise la consolidation de quelques dizaines de multinationales, Certaines de ces ‘majors’, avec les banques qui leur sont associées par participations croisées, sont plus puissantes qu’un état comme la France et nombre de dirigeants politiques démocratiques sont issus de leur sérail (Goldman Sachs). Cette maffia a eu l’habileté d’inciter les états à s’endetter, non plus auprès de leurs administrés, mais auprès du capitalisme apatride. Marx, qui dénonçait cette dictature de la troisième fonction promettait de la renverser par la dictature du prolétariat, non moins matérialiste ni non moins mondialiste. L’Eglise catholique, mondialiste par définition même, avait vu ses prêtres ouvriers attirés par le marxisme, se syndiquer à la CGT, voire adhérer au parti. Dans les colonies, les missionnaires ont alors ressuscité la Controverse de Valladolid (sur la légitimité de la colonisation), et se sont plus préoccupés du bien temporel des indigènes que de leur bien spirituel. Pie XII intimera aux missionnaires l’ordre de ne plus occidentaliser les indigènes, mais de respecter leur identité et de promouvoir leur indépendance. Nombre de chrétiens soutiendront activement le Vietminh et les égorgeurs du FLN. La théologie de la libération fait la synthèse du marxisme et du message chrétien.  C’est la cardinal Ratzinger, futur Benoît XVI, qui condamnera la trop grande implication du clergé dans la révolution politique. Délaissant le marxisme moribond, les tenants de la théologie de la libération vont s’engager dans les combats modernes de l’altermondialisme et de l’antiracisme, lequel va notamment obtenir que le mot ‘race’ soit supprimé » de tous les textes officiels français. Toute recherche d’identité est condamnée comme discriminatoire. Jusque là, on reconnaissait communément les races bibliques issues des trois fils de Noé, avec une multitude de subdivisions. Le mythe de l’ancêtre commun né en Afrique, rapidement invalidé par les découvertes scientifiques, n’est plus reçu que par les Noirs. L’antiracisme s’est rapidement étendu à toute discrimination, physique, sexuelle, religieuse. Le mixage que poursuit le multiculturalisme est une machine à tuer les peuples. Il ne débouche pas du tout sur un mélange généralisé des races, mais sur le communautarisme ou repli de chaque groupe dans des ghettos, avec une sérieuse perspective de guerre interethnique. La fin du cycle est proche.

Sous le titre ‘Gouverner par le chaos’, Thibault, membre de la rédaction du scriptoblog, répond à la question que posait, en 1929 déjà, le Dr Edward Bernays, l’auteur de ‘Propaganda, comment manipuler l’opinion en démocratie’ : « Ne pourrait-on pas mobiliser les masses sans qu’elles s’en rendent compte ? ». Neveu de Freud, Bernays est avec Walter Lippmann, un des fondateurs de l’ingénierie sociale, technique scientifique qui prétend par le contrôle de toutes les sphères du vivant pouvoir écraser toute déviance à la pensée correcte. Notamment par l’association d’idées (le chien de Pavlov qui salivait au seul tintement de la sonnette qui accompagnait tous ses repas ou la diabolisation des contestataires d’aujourd’hui par leur reductio ad hitlerum). L’institut Tavistock, financé par Rockefeller, a théorisé ces méthodes dites de contre-insurrection. Le projet exprimé est de mettre en place « un fascisme à visage démocratique », en affaiblissant notre moral, par des crises suscitées, des désordres entretenus, un management négatif, l’immigration de remplacement et le communautarisme, la discrimination positive de minorités ethniques, religieuses, sexuelles, la déstabilisation par l’affolement dans la submersion dans une surabondance d’information, le neuro-marketing. Les ingénieurs sociaux analysent et mesurent les réactions chimiques aux stimuli qu’ils administrent à leurs cobayes humains, rythmes, couleurs, poses, gestuelle. Un des objectifs à terme de cette guerre cognitive serait la cybernétisation de l’humanité.      

 

Panarabismus statt Demokratie-​Export!

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Panarabismus statt Demokratie-​Export!

von Gereon Breuer

Ex: http://www.blauenarzisse.de

Die USA prüfen einen Demokratie-​Export nach Syrien. Einst sollte der Panarabismus den Islamismus zurückdrängen und die zerspaltene Arabische Welt einen.

Als am 28. September 1970 Gamal Abdel Nasser in Kairo einem Herzinfarkt erlag, starb nicht nur ein ägyptischer Staatspräsident, sondern auch der letzte prominente Vorkämpfer des Panarabismus. Welche Zukunft hat der Panarabismus heute?

Identitätskrise der arabischen Staaten

Die unter dem euphemistischen Begriff des „Arabischen Frühlings“ bekannt gewordene Welle von Aufständen des Volkes gegen seine Herrscher in der islamischen Welt schafft eine Lücke im Ringen um die Identität der arabischen Staaten. Nach dem Zusammenbruch des Osmanischen Reiches und der de-​facto-​Besatzung des fruchtbaren Halbmondes durch die Kolonialtruppen des britischen Empire und der Grande Nation, stürzte die arabische Welt in eine Identitätskrise, die bis heute nicht bewältigt scheint. Die Staaten und ihre zum Teil auf Geheiß der Besatzer installierten Führer fanden unterschiedliche Strategien, dieser Krise zu begegnen.

Eine dieser Strategien war der Panarabismus. Die Ursprünge dieser Bewegung liegen noch vor dem Beginn des zweiten Dreißigjährigen Krieges, als das Osmanische Reich de jure noch bestand, sein Zerfall aber nicht mehr zu leugnen war. Während für das Osmanische Reich und seinen Sultan die Umma – die Gemeinschaft der Muslime – die entscheidende Bezugsgröße war, setzte der Panarabismus auf die Identität der Nation. Es handelte sich um eine durchaus als nationalistisch zu bezeichnende politische Strömung, die alle Araber vom Atlantik bis zum Persischen Golf in einem gemeinsamen Staat vereinen wollte – das zumindest war der Anspruch.

Die Einigung aller Araber – vom Atlantik bis zum Persischen Golf

Es gab in der jüngeren Geschichte der nach-​osmanischen Staatenwelt mehrere Versuche, diesen Anspruch in die Wirklichkeit umzusetzen. Einen davon, der zu den bekanntesten gehört, wurde von Gamal Abdel Nasser unternommen. Mit der so genannten „Vereinigten Arabischen Republik“, in der Nasser Ägypten mit Syrien von 1958 bis 1961 zu quasi einem Staat zusammenschloss, versuchte der ägyptische Präsident, den Grundstein für eine alle arabischen Staaten umfassende Union zu legen.

Dieser Versuch misslang mit der Aufkündigung des Zusammenschlusses durch Syrien, das die ägyptische Vormachtstellung nicht akzeptieren wollte. Es war der bisher letzte Versuch, den Panarabismus in Form eines gemeinsamen arabischen Staates zu verwirklichen.

Stabilität gegen den Islamismus

Abseits der nationalistischen Bestrebungen Nassers, der die arabischen Staaten und Völker unter seiner Führung einen wollte und angesichts der aktuellen Entwicklungen in der arabischen Welt stellt sich die Frage, welche Zukunft der Panarabismus heute haben könnte. Um sie hinreichend und im überschaubaren Rahmen zu beantworten, sind zwei Aspekte bedeutsam. Der eine Aspekt ist, dass der Panarabismus Stabilität schafft. Der zweite, dass der Panarabismus in Opposition zum Islamismus steht. Beide Aspekte hängen zusammen.

Stabilität entsteht in der Hinsicht, dass eine gemeinsame Identität geboten wird, die zu akzeptieren für verschiedene arabische Völker beziehungsweise Stämme möglich ist. Die Identität des Arabischen in Sprache und Kultur kann der kleinste gemeinsame Nenner sein, der die arabischen Staaten miteinander verbindet. Das Machtstreben von Einzelpersonen, die sich zur autokratischen Herrschaft berufen fühlen, kann diese verbindende Identität freilich nicht verhindern. Ob sie es befördert, ist nicht zweifelsfrei zu sagen.

Nation vor Religion

Weil der Panarabismus den ideologischen Schwerpunkt im Bereich der Nation setzt, duldet er jedoch nicht die Vorherrschaft und die Reglementierung durch die Religion und die Ideologie des Islam. Der Grund hierfür liegt in der Zeit des Osmanischen Reiches. Der Sultan in Istanbul war nicht nur formal das weltliche Oberhaupt über die in seinem Reich lebenden Völker, sondern er beanspruchte auch die religiöse Herrschaft. Das empfanden nicht nur die Ägypter als Einschränkung. Es erscheint auch angesichts der vielen Strömungen innerhalb des Islam als mindestens problematisch, ein religiöses Oberhaupt zu akzeptieren. Der Vorzug der Nation, also des nationalen Aspektes des Arabischen, löst dieses Problem in einer Degradierung der Religion.

In der Zusammenschau beider Aspekte ergibt sich hinsichtlich heutiger Chancen des Panarabismus zur Stabilisierung der arabischen Welt folgendes Bild: Eine gemeinsame Identität aller arabischen Nationen erscheint durchaus vorteilhaft. Sie setzt diesen Aspekt vor den Islam und kann so extremistische religiöse Bestrebungen wie die Muslimbruderschaft in Ägypten einhegen.

Ein Staatenbund aller arabischen Staaten kann dann zwar ein hehres Ziel sein; viel wichtiger aber ist, dass eine Priorisierung der Gemeinsamkeiten aller arabischen Staaten verhindert, was im Osmanischen Reich zuletzt auf der Tagesordnung stand: Ein Scheitern an der oktroyierten Moderne mit den blutigsten Begleiterscheinungen.

Das Scheitern einer oktroyierten Moderne verhindern

Der Panarabismus ist schließlich kein politisches Konzept, wie es sich Demokratie-​Fetischisten für die arabische Welt wünschen. Das ist es nicht, weil es ein politisches Konzept der arabischen Welt ist, das aus ihr hervorgegangen ist. Aus diesem Grund kann der Panarabismus durchaus als erfolgversprechendes Modell für eine Stabilisierung der Staatenwelt zwischen Atlantik und Persischem Golf angesehen werden. Dabei wäre es irrelevant, ob ein westlicher Außenminister das gut findet, oder nicht.

L'IRONIE CONTRE LA “POLITICAL CORRECTNESS”

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Robert Steuckers:

L'IRONIE CONTRE LA “POLITICAL CORRECTNESS”

Université d'été de "Synergies Européennes", lundi 28 juillet 1997

Cercle Proudhon, Genève, décembre 1997

Organiser un atelier de l'Université d'été sur l'ironie comme “arme” contre la “political correctness” est politiquement et métapolitiquement justifié.

En effet, quelle est l'origine de la “political correctness” (dorénavant en abrégé: PC)?

Aux Etats-Unis, dès la fin des années 70, le relativisme, la ruine des idéaux et des ressorts communautaires provoquent une réaction qui prend forme dans le livre de John Rawls, A Theory of Justice (1979).

Pour atteindre l'idéal de la justice, pour le concrétiser, il faut, entre autres choses:

- une philosophie normative

- des normes capables de revigorer les ressorts coopératifs et communautaires de la société.

- Or, la tendance générale de la philosophie anglo-saxonne avait été de dire que les normes n'avaient pas de sens.

Donc, à la veille de l'accession de Reagan à la présidence des Etats-Unis, on dit: «Il faut des normes».

Pour avoir des normes, deux solutions:

1. Adopter les idées de Rawls, et ainsi promouvoir la justice, la coopération, la communauté. Mais c'est incompatible avec le programme néo-libéral de Reagan.

2. Déclarer indépassables, les “valeurs” du libéralisme telles qu'elles avaient été fixées par Locke à la fin du 17ième siècle. C'est Nozick qui offre cette option dans son livre Anarchy, State, Utopia (1974). Pour Nozick, l'Etat doit protéger ces valeurs libérales anglo-saxonnes contre toutes les autres.

Toutes les autres? Cela fait beaucoup de choses! Beaucoup de choses à rejeter!

Avec Hobbes, la philosophie politique anglaise avait rejeté hors de son champs les controverses religieuses parce qu'elles menaient à la guerre civile (ère des neutralisations disait Carl Schmitt).

Avec les déistes (Charles Blount, John Toland, Matthew Tindal, Thomas Woolston), la raison doit oblitérer les parts obscures de la religion, pour qu'elles ne deviennent pas subitement incontrôlables.

Comme on est en Europe, les déistes acceptent le christianisme par commoditié (sans y croire), mais ce christianisme signifie:

- un christianisme raisonnable (sans excès, sans fanatisme, etc.);

- le déisme a pour objectif de "raisonnabiliser" le christianisme (et toute la sphère religieuse);

- religion et "bon sens" doivent coïncider;

- il ne peut pas y avoir d'opposition entre religion et “bon sens ";

- il faut évacuer les mystères, car ils sont incontrôlables.

- les institutions religieuses doivent être "tranquilles”;

- miracles et autres "absurdités" du Nouveau Testament sont purement "symboliques".

John Butler, issu du filon aristotélo-thomiste médiéval répond à l'époque aux déistes:

- l'homme est un "être insuffisant", "imparfait", il présente donc ontologiquement des lacunes, il est quelques fois ontologiquement "absurde";

- l'homme a besoin de béquilles culturelles, dont, surtout, un système de normes, de fins. Ce système doit certes être logique, mais pas complètement accessible à notre raison.

C'est dans le contexte de cette disputatio  entre les déistes et Butler qu'il faut replacer deux grands maîtres de l'ironie:

- John Arbuthnot (1667-1735) et

- Jonathan Swift (1667-1745).

John Arbuthnot, ami et inspirateur de Swift est médecin et mathématicien. Il n'écrira pas de livre qui fera date, sauf peut-être son Martinus Scliberus, satire exagérant les défauts des hommes réels. Qui souligne l'inadéquation entre la théorie idéale de l'homme et l'homme de chair, de sang, de vice et de stupre.

L'ironie d'Arbuthnot se retrouvera dans le maître-ouvrage de Swift: Gulliver's Travels  (= Les voyages de Gulliver).

Première remarque sur les “Voyages de Gulliver": on croit que c'est un livre pour les enfants; effectivement une masse de versions édulcorées de ce livre existent à l'usage des enfants. Mais faisons nôtre cette remarque de Maurice Bouvier-Ajam: «Que d'éditions abêties, mutilées, trahies pour "plaire" au jeune lecteur! Et de quelles joies cette mutilation de l'œuvre ne prive-t-elle pas l'adulte, trompé et blasé prématurément... et frauduleusement...».

D'Arbuthnot, Swift reprend:

- la pratique de la physiognomie, c'est-à-dire un mode d'arraisonnement du réel et plus particulièrement du grotesque qui lui est inhérent (à mettre en parallèle avec les “Caractères” de La Bruyère et avec le "regard physiognomique" de Jünger);

- la pratique de l'humour et du sarcasme;

- un point de vue physique (physiologique au sens nietzschéen, participant de la “révolte des corps" et de la Leiblichkeit).

- un rationalisme moqueur et non constructiviste, moralisateur, pédant;

- l'idée d'un rationalisme comme "humilité de l'intelligence".

 

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Souvent, la "raison", dans le contexte de la modernité européenne, est "révolutionnaire" parce qu'elle abat les irrationalités stabilisantes de la société en place, pour les remplacer par de nouveaux édifices raisonnables mais rigides (querelle des déistes).

Face à cette rationalité moderne, la rationalité de Swift:

- n'est pas un irrationalisme conservateur articulé pour répondre aux déistes ou aux rationalistes

- mais une moquerie qui fragilise toutes les conventions, y compris anticipativement, celles des rationalistes.

Swift:

- raille les fanatismes des catholiques et des sectes protestantes "non conformistes";

- se révolte contre les ambitions constructivistes des déistes;

- dresse une pathologie des "Etats mystiques", qui ne camouflent, derrière leurs discours sublimes, que des turpitudes, des désirs inavoués de stupre ou de richesse.

- démontre que les discours des sectes protestantes (Quakers, Rauters, Huguenots extrémistes) sont des "convulsions", des "fermentations troubles de l'animalité" (Cf. A Tale of a Tub. Discourse Concerning the Mechanical Operation of the Spirit).

Dans The Battle of Books, on trouve une critique acerbe du rationalisme car celui-ci est:

- ambitieux;

- insolent;

- inacceptablement hostile à l'égard de la "gloire des Anciens";

- une activité théorique stérile (Cf. le Royaume de Laputa).

Swift prévoit déjà: «La fièvre de la spéculation, de l'enquête rationnelle, et, déjà, du progrès mécanique, que la société qui lui est contemporaine exhibe déjà; il la présente comme l'ardeur agitée de cerveaux surchauffés, dans lesquels se bousculent toutes sortes de "projets" et d'inventions, autant de chimères sans queue ni tête» (Legouis/Cazamian, p. 762).

L'homme est par essence vil et corrompu. Pour y remédier:

- Hobbes avait prévu un contrat et l'érection du Léviathan;

- Locke avait forgé l'idée du contrat démocratique moderne et préconisé, à la suite des déistes, d'"expurger les mystères";

- Swift reste un pessimiste fondamental:

- le contrat ne changera pas la nature humaine;

- le contrat ne sera toujours que provisoire;

- ni mystères de la religion ni noirceurs de l'âme humaine ne sont éradicables.

Chez Swift, nous découvrons un rejet de toutes les affirmations générales [qui prendra ultérieurement des formes très diverses: chez Herder, chez les Romantiques allemands, chez Jünger (cf. sa définition du "nationalisme" comme révolte du particulier contre le général), dans la révolte diffuse depuis Foucault contre les affirmations générales actuelles].

Avec Swift démarre aussi la tradition littéraire anglaise de la "contre-utopie”.

- L'utopie est un lieu idyllique, une île merveilleure ou la lune chez Cyrano de Bergerac.

- Mais la tradition utopique draine en elle-même sa propre réfutation. Le projet idéal de l'utopiste est trop souvent froid et sec, pur projet de législation alternative visant à CORRIGER LE RÉEL. Dans ce cas, écrit le Prof. Raymond Trousson dans Voyages aux pays de nulle part. Histoire littéraire de la pensée utopique:  «il n'est pas possible d'évoquer un possible latéral, mais de peser sur l'histoire».

Cette tradition contre-utopique trouvera son apogée dans le 1984 d'Orwell, où le futur devient cauchemar (Future as Nightmare). Le futur est alors le fruit, le résultat d'une volonté de transposer dans le réel les idées:

- des déistes/des rationalistes;

- de Locke;

- des projets de sociétés parfaites;

Nous retrouvons l'intention de Nozick.

Pour Rainer Zitelmann, la pensée utopique s'articule autour de trois idées majeures:

- La "fin de l'histoire", après la généralisation planétaire du "projet" ou du "code".

- La croyance en la possibilité d'émergence d'un "homme nouveau", par dressage ou rééducation.

- La croyance aux effets "eudémoniques" de l'égalité.

Ces trois idées marquent fortement la "political correctness" actuelle. C'est contre elles qu'il faut déployer ironie, sarcasmes et moqueries.

Les recettes de cette stratégie du rire sont multiples.

Examinons-en deux:

- L'œuvre de l'Espagnol Eugenio d'Ors.

- L'œuvre du sociologue néerlandais Anton Zijderveld.

Puis replaçons leurs arguments dans un contexte philosophique contemporain plus général.

EUGENIO D'ORS (1881-1954):

dors.jpgCe philosophe catalan a été défini comme: un "Socrate nordique", un "Goethe méditerranéen", un "personnage de théâtralité baroque".

A 25 ans en 1906, il décide: «Je serai ironique». Option première qui ne sera jamais démentie.

Sa réflexion sur l'ironie part du constat suivant:

- Présence de l'ironie dans la philosophie grecque, où l'ironie est jugée négative par Aristophane et Platon, mais jugée intéressante par Socrate (qui déploie son "ignorance méthodique" et sa "maïeutique") et par Aristote pour qui l'ironie est une modestie intellectuelle (Butler, Swift).

D'où d'Ors retient de l'ironie grecque qu'elle est "une sorte d'humilité courtoise qui suscite la confiance, une façon de se comporter qui est altruiste". Retenons cette définition, mais ajoutons-y celle de Cicéron: «L'ironie est une habilité polémique». Dans ce cas, elle est une stratégie du dialogue, de la polémique politique.

Mais d'Ors va plus loin que le dialogue:

- La présence de l'interlocuteur finit par n'être plus nécessaire chez lui.

- d'Ors applique l'ironie au monologue intérieur (Céline) du penseur solitaire.

- d'Ors prend distance par rapport à son objet;

- d'Ors dépassionne les débats philosophiques et politiques;

- d'Ors dévalue ainsi tactiquement son objet (précisons: tactiquement et non pas fondamentalement);

- d'Ors aborde tout objet de façon oblique (pas d'affrontement frontal: stratégie intelligente de l'esquive qui s'avère bien utile quand on est quantitativement, numériquement inférieur).

- pour d'Ors, l'ironiste aborde l'objet du débat sans avoir l'air de s'impliquer, ni même de la connaître vraiment.

- Avec cette position détachée, il va opter pour une stratégie de hit and run; il va soulever tantôt tel aspect, tantôt tel autre, frapper, se retirer, obliger l'ennemi à se fixer sur tel front et alors il attaquera sur un autre front, pour revenir au premier comme par hasard.

- l'ironie de d'Ors ne vise pas une connaissance globale, totale, mais reste ouverte à toutes les additions et les soustractions; ainsi elle ne divise pas, mais intègre au départ du divers, de la fragmentation.

- Mieux: l'ironie de d'Ors intègre la contradiction; elle admet qu'il y a des contradictions insurmontables dans le monde.

Avec Eugenio d'Ors, l'ironie devient synonyme d'"esprit philosophique" et même de "dialectique". Elle cherche à éviter l'écueil d'une philosophie trop préceptive.

Il y a là un parallèle évident avec notre propre démarche: refuser les préceptes du "nouvel ordre mondial", issu des affirmations de Locke, réactualisées et figées hors contexte  —et anachroniquement—  par Nozick et Buchanan.

L'objectif de d'Ors est:

- d'observer la réalité, de l'accepter dans ses diversités;

- d'éviter l'écueil d'un normativisme sec (que la philosophie relativiste avait jugé dénué de sens);

- de faire de la philosophie ironique la fidèle interprète de la réalité:

- de baigner à nouveau la philosophie dans les eaux vives de la curiosité;

- de s'inscrire dans la tradition vitaliste hispanique (Cf. le "ratiovitalisme" d'Ortega y Gasset).

- d'affirmer que les contradictions sont toujours déjà là, non comme dans la vulgate hégélienne, où la contradiction est perçue comme une forme ultérieure dans le temps. Eugenio d'Ors affirme la simultanéité du réel et des contradictions, sans vectorialité ni téléologie.

Ensuite:

1. L'ironie correspond à la plasticité du monde:

- mots-clefs: activité, flexibilité, dynamisme, élasticité.

- l'ironie respecte la "malléabilité" de tout objet (jamais elle ne le pose comme a priori rigide et fermé).

- l'ironie vise l'adéquation de l'intellect à un monde de lignes "estompées": fluides, fuyantes, diffuses (cf. Hennig Eichberg, in Vouloir n°8).

2. L'ironie correspond à l'ambigüité du langage:

Cet aspect de la philosophie de d'Ors est très important dans la lutte contre toute orthoglossie (contre toute prétention à imposer un langage unique, pour une pensée unique).

Première chose à retenir:

- Toute langue est la forme nécessaire que doit revêtir le savoir humain.

- Cependant, dit d'Ors, dans tout lexique, et plus particulièrement dans tout lexique philosophique, il y a toujours un "minimum d'équivoque" ou d'"inévitables imprécisions".

Pour d'Ors comme pour nous, ce n'est pas une tare mais "une garantie de vivacité, ce qui est hautement désirable", car le langage est alors bien le reflet du dynamisme du monde et du savoir.

Tout mot, toute parole, est dans une telle optique un ÉVENTAIL de possibilités créatrices ouvertes, un mouvement, une impulsion pour la pensée, une potentialité active d'enchaînements, de sources et de MÉTAPHORES.

D'Ors s'appuie sur la définition du langage de HUMBOLDT:

«Le langage n'est pas un résultat, tout de quiétude et de repos, mais une énergie, une création continue».

L'amphibologie (double sens que revêt ou peut revêtir toute phrase) et l'inexactitude du langage font de celui-ci une RAMPE DE LANCEMENT pour l'innovation: tout vrai écrivain écrit de perpétuels NÉOLOGISMES. (L'écrivain donne des sens nouveaux aux mots, les enrichit, les complète, complète leur champ sémantique, révèle des facettes occultées, oubliées ou refoulées du vocabulaire).

Par leur ambigüité constitutive, les langues ne résistent pas à l'exactitude quantitative et à la rigueur terminologique des symboles mathématiques. Pour les tentatives de construire une philosophie more geometrico  est condamnée à l'échec (mais aussi de construire une orthoglossie où les mots seraient tous absolument UNIVOQUES).

- L'ironie consiste à reconnaître cet incontournable fait de la linguistique: l'amphibologie.

- L'ironie reconnait le caractère irrécusablement métaphorique de toute parole, reconnait la dualité ou la pluralité inhérente à toute formulation. D'Ors: «Ley más laxa, más inteligente».

Conclusion de ce point 2:

«L'équivocité polysémique, que la philosophie conventionnelle (et partant, toute orthoglossie ou toute "novlangue" à la Orwell), ont considéré comme une malédiction babelienne, devient par le travail et la grâce, la légèreté, la flexibilité et la souplesse de l'ironie d'orsienne, une chance de comprendre davantage de choses dans ce qui est dit, de ne pas réduire le contenu du discours et de la pensée à des univocités rigides. Et surtout l'ironie d'orsienne nous permet toujours de compter avec la collaboration créatrice de l'autre, de l'interlocuteur potentiel (remarquons que la bonne formule pour désigner le dialogue avec l'Autre, venu d'une autre civilisation ou d'une autre culture est: “dialogue interculturel”).

Contre toutes les orthoglossistes fanatiques, présents et à venir, d'Ors sanctifie le PÉCHÉ ORIGINEL des langages, c'est-à-dire leur plurivocité. On ne peut pas renoncer aux contradictions et aux ambigüi­tés.

3. L'ironie correspond à la nature inépuisable de la vérité:

Comme l'ironie est MODESTIE INTELLECTUELLE, elle accepte qu'il reste des secrets, des mystères, dans le ciel et sur la terre (contrairement aux déistes). Il est impossible d'interpréter de façon EXHAUSTIVE les faits du monde. Ce serait aller à l'encontre de la nature.

4. L'ironie correspond à un monde où l'on travaille et l'on joue:

Dès 1911, d'Ors dit: «je vais énoncer la philosophie de l'homme en activité, de l'homme qui travaille et qui joue» (En 1914 paraît son livre: Filosofia del hombre que trabaja y juega).

L'existence humaine, c'est certes la lutte pour la vie, mais c'est aussi la fête et la joie. Ignorer l'aspect ludique, c'est mutiler cruellement l'humanité. Car le jeu est souvent, plus que le travail, le “lieu de la créativité”.

5. L'ironie correspond à l'aspect contradictoire du réel:

6. L'ironie correspond à l'expression catalane de “SENY":

- Quand les Catalans parlent de "Seny", ils entendent un mélange de sagesse, de savoir, de maturité, de prudence, de bon sens et d'intelligence.

- Pour le Catalan Eugenio d'Ors, l'ironie est la méthode du philosophe doué de "seny".

- Eugenio d'Ors replace ainsi l'ironie dans l'éthique, refuse de faire de l'ironie une pure arme de destruction.

- L'ironie ramène les choses à leurs justes proportions, qui ne sont jamais figées mais toujours en mouvement.

- L'ironie est donc une "position de liberté" vis-à-vis des axiomes rigides.

- L'ironie, en tant que position de liberté, donne à celui qui la pratique une position souveraine, libre de toute entrave, indépendante face au monde (mundanus),  aux contingences frivoles ou éphémères.

- Le philosophe ironique est davantage libre-penseur que le philosophe dogmatique.

La SOCIOLOGIE D'ANTON ZIJDERVELD:

Anton_Zijderveld_-_2012.jpgAprès le philosophe catalan Eugenio d'Ors, abordons la sociologie du Néerlandais Anton Zijderveld (disciple d'Arnold Gehlen).

Pour lui:

- L'humour est spontanéité et authenticité;

- L'humour est une fonction sociale oblitérée et traquée par la modernité;

- L'humour est une fonction sociale qu'il convient impérativement de réhabiliter. Dans cette optique, il faut, dit-il, retrouver le sens des fêtes, du carnaval, de la Fête des Fous où se conjuguent ébats de toutes sortes, dérision ritualisée du pouvoir et des édiles.

Le point de vue de Zijderveld n'est pas destructeur ou dissolvant: il dit que l'humour ne détruit pas les institutions (au sens de Gehlen), il les maintient en les remettant en question à intervalles réguliers, il évite qu'elles ne tournent à vide ou dérivent dans l'absurbe de la répétition.

Zijderveld s'oppose à ce qu'il appelle une “gnose sociale”, ou plus spécifiquement, le “nudisme social”. Selon le “nudisme social”, l'homme moderne est porté par l'obsession consistant à dire que l'homme n'est authentique que s'il a abjuré tous les rôles qu'il a joués, joue ou pourrait jouer au sein des institutions.

Rôles et institutions sont considérés par les “nudistes sociaux” comme des vecteurs d'aliénation oblitérant le véritable "moi" (fiction).

La fête médiévale, la Fête des Fous, les esbaudissements des Goliards, les confréries carnavalesques impliquent justement le port du masque: cela signifie qu'un homme authentique, qu'il soit boucher, boulanger, architecte ou médecin, adopte une inauthenticité fictive dans un segment limité du temps, le temps du carnaval, où est restitué brièvement le chaos originel.

Pour Zijderveld, la “gnose”, le “nudisme social”, l'obsession de l'homme authentique sans rôle ni profession ni béquille institutionnelle, est un apport du christianisme.

Mais l'histoire du moyen-âge européen, de la Renaissance, nous révèle que ce christianisme n'est qu'un mince vernis.

Preuve: la persistance des Saturnales ro­maines sous la forme du FESTUM STULTORUM ou du FESTUM FATUUM, pendant lequel blasphèmes et moqueries sont pleinement autorisés: il s'agit ni plus ni moins d'une INVERSION SALUTAIRE DE LA NORMALITÉ QUOTIDIENNE, qui permet de recréer brièvement le chaos originel, pour montrer son impossibilité dans le quotidien, la nécessité des institutions et, en même temps, leur fragilité.

 

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Autre signe que le christianisme médiéval n'est que vernis: la présence permanente dans cette société médiévale des GOLIARDS et des VAGANTES, qui ne cessent de blasphémer dans leurs chansons et de véhiculer des idées anti-cléricales (Cf. Les Chants de Cambridge  de 1050 et les Carmina Burana  de 1250, mis en musique en ce siècle par Carl Orff).

A partir du Concile de Bâle en 1431, de la Condamnation des fêtes par la faculté de théologie de Paris en 1444 (Charles VII doit constater que les mesures prises n'ont aucun effet!), à partir de la Renaissance, la Fête des Fous est plus réglementée (Ordonnance du Parlement de Dijon en 1552), de même que les charivaris, dont la fonction devient la moralisation de la société (moqueries contre les adultères, les filles volages, etc.).

La Bazoche des étudiants juristes de Paris, Lyon et Bordeaux organise des théâtres caricaturants et satiriques, se mue ensuite en club littéraire (dans les Pays-Bas méridionaux, on parle de "Chambre de Rhétorique” ou "Kamers der Rederrijkers", plus audacieuses que dans les grands royaumes modernes).

Zijderveld cite deux auteurs:

- Rabelais (nous y revenons)

- Erasme (Laus Stultitiae: Eloge de la folie).

Conclusion de Zijderveld:

- Battre en brèche l'arrogance de l'Aufklärung

- Démontrer que le moyen-âge est moins "obscurantiste" qu'on ne l'a écrit

- Démonter que le moyen-âge était bien davantage anti-répressif que la modernité (Foucault), du moins dans les espaces-temps réservés à la fête.

- Montrer que l'INVERSION des règles quotidiennes doit pouvoir exister dans toute société, pour assurer une convivialité féconde.

Mais quid de l'humour dans la modernité selon Zijderveld?

- L'humour de la Fête des Fous, des Saturnales, est régulateur, naturel.

- L'humour n'y est pas simple "soupape" de sécurité.

Aujourd'hui:

- L'humour est rejeté parce qu'il serait AGRESSIF (arguments psychanalytiques). Cette agression latente doit être systématiquement "punie" (“Surveiller et punir” selon Foucault).

La réponse de Zijderveld:

- L'humour permet à tous d'entrevoir la fragilité des choses, même les plus sublimes;

- L'humour permet la communication sociale de manière optimale.

- L'humour soude la solidarité du groupe.

- L'humour permet la résistance passive contre la tyrannie ou l'occupation.

RICHARD RORTY: CONTINGENCE, IRONIE ET SOLIDARITÉ

Quelle position la philosophie actuelle laisse-t-elle à l'ironie?

Quelle est la place de l'ironie dans le contexte du "nouvel ordre mondial", après la concrétisation des projets de Nozick et Buchanan?

rorty.JPGLe corpus le plus significatif, le plus souvent évoqué à l'heure actuelle est l'œuvre de RICHARD RORTY (Contingency, Irony and Solidarity).

Rappelons quelques points essentiels de l'œuvre de Rorty:

- La philosophie ne peut évoluer si elle s'en tient à des critères délibérément soustraits au temps.

- Une démarche philosophique doit toujours être replacée dans son contexte historique.

- Il faut parier pour une philosophie plus formatrice (bildende) que préceptive.

- Il faut refuser la réduction de tous les discours à un seul discours universel.

- Il faut proclamer la légitimité des discours "contingents" à deux niveaux: au niveau individuel (autopoiésis; Selbsterschaffung)  et au niveau communautaire (consolider la solidarité).

La place du philosophe ironique (comme d'Ors) se justifie par:

- la réponse au double défi qu'il apporte, double défi de l'autopoiésis et de la solidarité.

- son savoir modeste qui veut que ses convictions, ses espoirs et ses besoins sont toujours CONTINGENTS.

- son souci d'éviter d'ériger un MÉTA-DISCOURS.

- sa volonté de comprendre et de faire comprendre que la raison pure de Kant et son avatar actuel “la raison communicationnelle” de Habermas sont devenus obsolètes, dans le sens où elles sont universalistes, métadiscours, se méfient de la contingence et de l'histoire.

- Nous n'avons plus besoin de "méta-discours" mais d'un RECOURS à la multiplicité des faits contingents.

- La solidarité ne dérive plus de l'adhésion à un méta-discours partagé par tous obligatoirement, mais par respect "nominaliste" et "historique" des multiples contingences qui font le monde.

- Rorty réhabilite la PHRONESIS grecque, soit la sagesse et l'intelligence pratiques.

- Rorty rejette les philosophie, les théories qui se posent comme purement spectatrices (sa différence d'avec d'Ors) et refusent l'IMMERSION dans la contingence concrète d'un contecxte historique qui réclame implicitement la solidarité.

- Rorty réclame l'abolition des représentations figées.

- Rorty n'est pas relativiste, puisqu'il ne nie pas les valeurs propres à une contingence particulière.

- Rorty développe un ethno-centrisme axiologique ET pragmatique qui n'est nullement missionnaire. Il ne cherche pas à imposer ailleurs dans le monde les valeurs (ou les non-valeurs) de la “culture nord-atlantique".

Conclusion:

Rorty se base sur NIETZSCHE, FREUD, WITTGENSTEIN et HEIDEGGER (dont il ne reprend pas la définition de l'“Etre”), pour affirmer que les sociétés sont des contingences, pour rejeter le filon philosophique platonicien, pour dire que le philosophe doit se pencher sur la littérature, dont ORWELL et NABOKOV, parce que tous deux nous montrent l'effet de la CRUAUTÉ des métadiscours en acte à l'égard des contingences réelles de la vie et du monde.

Réel, vous avez dit "réel"?

Ce qui nous amène à Rabelais, Nietzsche, Foucault et Bataille.

RABELAIS:

rab.jpgRabelais (1494-1553), pourquoi Rabelais?

Au XXième siècle son exégète le plus intéressant est le Russe Mikhaïl BAKHTINE (1895-1975), linguiste et philosophe, historien des mentalités comme Michel Vovelle en France, Nathalie Davis dans l'espace linguistique anglo-saxon et Carlo Ginzburg en Italie.

La langue pour Bakhtine comme pour Foucault est:

- l'atelier où se forgent les instruments et les stratégies du pouvoir;

- mais elle est AUSSI le socle sur lequel se constitue une nouvelle communauté.

La langue de Rabelais, dans ses dimensions grotesques, ramène au CORPS, à ses limites et à ses capacités.

Les sources de l'écriture rabelaisienne sont les RÉCITS POPULAIRES, les CONTES et les LÉGENDES, dont les thèmes sont l'existence de sympathiques canailles, de simplets, de fous.

L'intérêt de cette écriture, c'est qu'elle hisse au niveau de la littérature universelle la dimension PARODIQUE des récits populaires.

Rabelais a vécu la rue, les marchés, les auberges et les tavernes de son temps, mais, simultanément, il a occupé de hautes fonctions.

Il fait ainsi charnière entre la culture populaire (encore largement païenne) et la culture des élites (christianisée).

Rabelais perçoit la différence entre:

- la langue des marchés, HÉTÉROGÈNE et NON FIGÉE et la langue des institutions, HOMOGÈNE et FIGÉE. Il perçoit très bien, avant la normalisation moderne, qu'il y a à la base, dans le peuple, pluralité et polysémie, tandis qu'au sommet il n'y a plus qu'univocité.

Bakhtine parlera de "réalisme grotesque" et pourra développer une critique subtile des rigidités soviétiques sans encourir les foudres du régime.

rabelais.jpgBakhtine en mettant en parallèle son réalisme grotesque et le réalisme socialiste officiel, revalorisera “LE PEUPLE RIANT SUR LA PLACE DU MARCHÉ”.

A partir de la Renaissance, l'église, la cour, l'Etat absolutiste, puis l'Etat sans monarque mais porté par l'Aufklärung, vont tenté de réduire au silence ce rire populaire, véhicule d'une formidable polysémie.

Pour Bakhtine, il s'agit d'une COLONISATION DE LA SPHÈRE VITALE (à mettre en parallèle avec les thèses analogues d'Elias, de Huizinga et de Simmel).

A la verticalité imposée d'en haut, il oppose la convivialité horizontale de la place publique.

Cette revalorisation de la convivialité et de l'humour corsé du peuple lui vaudra la critique négative de Tzvetan Todorov (auteur de Nous et les autres). Todorov accuse Bakhtine de “prendre parti pour le peuple sans esprit critique”.

Simone Périer (professeur à Paris VII) rend hommage, elle, à Bakhtine pour:

- sa biographie difficile (handicap, refus de lui accorder un doctorat)

- pour son hymne à la joie, sa profession de foi dans l'énergie collective («La sensation vivante qu'a chaque être humain de faire partie du peuple immortel, créateur de l'histoire»).

Que veut Bakhtine?

1. Transcender l'individuel: Bakhtine refuse de réduire l'humain à l'être biologique isolé ou à l'individu bourgeois égoïste.

2. Restaurer le carnaval (rabelaisien) en tant qu'antidote à l'“individuation malfaisante”.

3. Restaurer le PARLER HARDI, expression de la conscience nouvelle, libre, critique et historique.

4. Restaurer “la PROXIMITÉ rude et directe des choses désunies par le mensonge et le pharisaïsme”.

Il y a donc chez Rabelais une affirmation sans faille de la CORPORÉITÉ (de la LEIBLICHKEIT).

FOUCAULT:

Michel-Foucault.jpgNietzsche voit dans le corps le site d'une complexité née de multiples et diverses intersubjectivités et interactions, le lieu de passage de l'expérience, toujours diverse, chaque fois unique.

Foucault va systématiser ce filon corporel qui part du paganisme, de Rabelais et de Nietzsche.

Pour Foucault:

- l'homme est figure de sable, passagère et contingente, créée par des savoirs et des pratiques, tissés de hasard.

- si l'homme est CORPS, ce corps en tant que surface est lieu, site, évoluant dans un lieu spatial concret. C'est là que l'homme se situe et non dans un monde d'idées: par conséquent, toute lutte réelle est LOCALE.

- ce lieu doit être connu, sans cesse exploré, par enquête et historia  (= enquête en grec). L'enquête sur le lieu de notre vécu doit équivaloir à l'enquête lors d'un procès en droit. S'il y a enquête, il n'y a pas d'arbitraire, il y a liberté (et démocratie).

- mais le quadrillage de la modernité surplombe les enquêtes, distrait les hommes concrets de l'attention minutieuse qu'ils doivent apporter à leur lieu, à leur contingence.

- le quadrillage déclare apporter la démocratie et la transparence, mais pour s'imposer, il doit contrôler, CORRIGER, discipliner les corps (la "political correctness” est l'aboutissement de cette frénésie).

- dans un tel univers, le droit donne formellement l'égalité et la liberté, mais dans la concrétude quotidienne s'instaurent les micro-pouvoirs disciplinants, essentiellement inégalitaires et dyssimétriques.

- face à ces micro-pouvoirs, il n'est pas possible d'opérer un renversement global (le "tout ou rien" de la révolution fasciste ou communiste): on ne peut opposer que des résistances à un pouvoir "capillaire", des résistances multiformes, sans totalisation, une série de CONTRE-FEUX.

- l'objectif de la modernité: le PANOPTISME de l'architecture carcérale. Les grands mythes des Lumières recèlent le danger d'un espace transparent sans échappatoire (cf. 1984 + toute la veine contre-utopique de la littérature anglaise).

- pour Foucault, la VISIBILITÉ voulue par la modernité panoptique est un PIÈGE (les déistes déjà voulaient éliminer les "mystères"). «NOTRE SOCIÉTÉ N'EST PAS CELLE DU SPECTACLE MAIS DE LA SURVEILLANCE».

- le droit et la justice modernes sont les instruments de cette surveillance ubiquitaire: d'où la nécessité, pour Foucault, de rejeter radicalement le droit et de se montrer extrêmement sceptique à l'égard de la notion moderne de justice. Foucault développe un ANTIJURIDISME radical.

Mais la contestation du droit est restée dans l'orbe du droit; ses efforts se sont annulés. Il aurait fallu animer un PÔLE DE RÉTIVITÉ (exemple: les chahuts du 1 mai 96 organisés par les socialistes belges contre leurs dirigeants, les manifestations devant les palais de justice en Belgique en octobre 96, la suite, les "marches blanches" ayant été trop polies).

Foucault a plutôt parié pour les VIOLENCES MASSIVES, ce qu'on lui reproche aujourd'hui, de même que sa volonté de mettre la Vie au-dessus du droit (cf. Renaut, Ferry et même son biographe Jean-Claude Monod).

Conclusion:

La sextuple lecture de Swift, d'Ors, Rorty, Zijderveld, Bakhtine et Foucault doit nous conduire tout d'abord à

- ORGANISER CE PÔLE DE RÉTIVITÉ réclamé par Foucault.

Puis:

- de rejeter tout utopisme construit more geometrico.

- de tenir compte de l'extrême fragilité du matériel humain;

- de se maintenir dans la contingence, seul lieu possible de notre action;

- de chercher à restaurer la fête, comme espace virtuel d'inversion des valeurs;

- d'organiser une résistance ludique, difficilement dénonçable comme "totalitaire";

- de dénoncer la modernité et ses institutions politiques et judiciaires, de même que tous ses micro-pouvoirs comme une volonté obsessionnelle de SURVEILLER et PUNIR.

- de dire que l'orthoglossie obligatoire, la pensée unique et la "political correctness" sont des aboutissements de cette obsession de surveiller et de punir. Elles doivent être considérées puis traitées comme telles.

En conséquence, sur le plan philosophique qui doit précéder toute démarche pratique, nous devons allumer les CONTRE-FEUX du GRAND REFUS, impulser les synergies du PÔLE DE RÉTIVITÉ voulu par Foucault.

Bibliographie:

A. Généralités:

- ERASME, Eloge de la folie, Garnier-Flammarion, 1964.

- Julio CARO BAROJA, Le carnaval, Gallimard, Paris, 1979.

- Jacques HEERS, Fêtes des fous et carnavals, Fayard, Paris, 1983.

B. Sur Swift:

- Michael FOOT, «Introduction» to Jonathan Swift's Gulliver's Travels, Penguin, Harmondsworth, 1967.

- Emile LEGOUIS, Louis CAZAMIAN, Raymond LAS VERGNAS, A History of English Literature, J.M. Dent & Sons Ltd, London, 1971.

- Ernest TUVESON, Swift. A Collection of Critical Essays, Spectrum/Prentice-Hall, Inc., Englewood Cliffs, N.J., 1964.

- Ernest TUVESON, «Swift: The dean as Satirist», in E. TUVESON, Swift..., op. cit.

- Irvin EHRENPREIS, «The Meaning of Gulliver's Last Voyage», in E. TUVESON, op. cit.

- John TRAUGOTT, «A Voyage to nowhere with Thomas More and Jonathan Swift: Utopia and The Voyage to the Houyhnhnms», in E. TUVESON, op. cit.

- Maurice BOUVIER-AJAM, «Swift et son temps», in Europe, 45ième année, n°463, novembre 1967.

- Robert MERLE, «L'amère et profonde sagesse de Swift», in Europe, 45ième année, n°463, novembre 1967.

- M. Louise COUDERT, «Les trois rires: Rabelais, Swift, Voltaire», in Europe, 45ième année, n°463, novembre 1967.

- Caspar von SCHRENCK-NOTZING, «Jonathan Swift», in: Lexikon des Konservativismus, Stocker Verlag, Graz, 1996.

C. Sur Eugenio d'Ors:

- Alfons LOPEZ QUINTAS, El pensamiento filosofico de Ortega y d'Ors. Una clave de interpretación, Ediciones Guadarrama, Madrid, 1972.

- Gonzalo FERNANDEZ DE LA MORA, Filósofos españoles del siglo XX, Planeta, Madrid, 1987.

D. Sur Foucault:

- Michel FOUCAULT, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris, 1975.

- Michel FOUCAULT, L'ordre du discours, Gallimard, Paris, 1971.

- Michel FOUCAULT, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris, 1966. 

- Michel FOUCAULT, «Omnes et singulatim. vers une critique de la raison politique», in: Le Débat, n°41, sept.-nov. 1986.

- Luc FERRY & Alain RENAUT, La pensée 68. Essai sur l'anti-humanisme contemporain, Gallimard, Paris, 1985.

- Luc FERRY & Alain RENAUT, 68-86. Itinéraires de l'individu, Gallimard, Paris, 1987.

- Gilles DELEUZE, Foucault, Editions de Minuit, Paris, 1986.

- Henk OOSTERLING, De opstand van het lichaam. Over verzet en zelfervaring bij Foucault en Bataille, SUA, Amsterdam, 1989.

- Angèle KREMER-MARIETTI, Michel Foucault. Archéologie et généalogie, Livre de poche, coll. biblio-essais, Paris, 1985.

- François EWALD, «La fin d'un monde», in: Le magazine littéraire, n°207, mai 1984. 

- François EWALD, «Droit: systèmes et stratégies», in: Le Débat, n°41, op. cit.

- François EWALD, «Une expérience foucaldienne: les principes généraux du droit», in: Critique, Tome XLII, n°471-472, août-septembre 1986.

- Jürgen HABERMAS, «Les sciences humaines démasquées par la critique de la raison: Foucault», In: Le Débat, n°41, op. cit.

- Jürgen HABERMAS, «Une flèche dans le cœur du temps présent», in Critique, Tome XLII, n°471-472, op. cit.

- Katharina von BÜLOW, «L'art du dire-vrai», in: Le magazine littéraire, n°207, mai 1984.

- Pasquale PASQUINO, «De la modernité», in: Le magazine littéraire, n°207, mai 1984.

- Danièle LOSCHAK, «La question du droit», in: Le magazine littéraire, n°207, mai 1984.

- Guy LARDREAU, «Une figure politique», in: Le magazine littéraire, n°207, mai 1984.

- Henri JOLY, «Retour aux Grecs», in Le Débat, n°41, op. cit.

- Michel de CERTEAU, «Le rire de Michel Foucault», in: Le Débat, n°41, op. cit.

- Joachim LAUENBURG, «Foucault», in: J. NIDA-RÜMELIN, Philosophie der Gegenwart, Kröner, Stuttgart, 1991.

- Frédéric GROS, Michel Foucault, PUF, Paris, 1996.

- Jean-Claude MONOD, Foucault: la police des conduites, Michalon, coll. «Le bien commun», Paris, 1997.

E. Sur Rorty:

- Richard RORTY, Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge University Press, Cambridge, 1989-91 (3°ed.).

- Richard RORTY, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, Prefazione di Aldo G. Gargani, Editori Laterza, Roma/Bari, 1989.

- G. HOTTOIS, M. VAN DEN BOSSCHE, M. WEYEMBERGH, Richard Rorty. Ironie, Politiek en Postmodernisme, Hadewijch, Antwerpen/Baarn, 1994.

- Joachim LAUENBURG, «Rorty», in: J. NIDA-RÜMELIN, Philosophie der Gegenwart, Kröner, Stuttgart, 1991.

- Walter REESE-SCHÄFER, Richard Rorty, Campus, Frankfurt/New York, 1991.

F. Sur la problématique utopie/contre-utopie:

- Richard SAAGE (Hrsg.), Hat die politische Utopie eine Zukunft?, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1992.

- Ernst NOLTE, «Was ist oder was war die “politische” Utopie?», in R. SAAGE, op. cit.

- Rainer ZITELMANN, «Träume vom neuen Menschen», in R. SAAGE, op. cit.

- Iring FETSCHER, «Was ist eine Utopie? Oder: Zur Verwechslung utopischer Ideale mit geschichtsphilosophischen Legitimationsideologien», in: R. SAAGE, op. cit.

- Raymond TROUSSON, Voyages aux pays de nulle part. Histoire littéraire de la pensée utopique, Editions de l'Université de Bruxelles, Bruxelles, 1975.

- Mark R. HILLEGAS, The Future as Nightmare. H. G. Wells and the Anti-Utopians, Southern Illinois University Press, Carbondale and Edwardsville, Feffer & Simons, Inc., London/Amsterdam, 1967.

G. Sur Rabelais et Bakhtine:

- Anton SIMONS, Het groteske van de taal. Over het werk van Michail Bachtin, SUA, Amsterdam, 1990.

- Michel ONFRAY, «Reviens, François», in Le magazine littéraire, n°319, mars 1994.

- Michel RAGON, «Rabelais le libertaire», propos recueillis par J.J. Brochier, in: Le magazine littéraire, n°319, op. cit.

- Michel JEANNERET, «Et tout pour la tripe», in: Le magazine littéraire, n°319, op. cit.

- Pascal DIBIE, «Une ethnologie de la Renaissance», in: Le magazine littéraire, n°319, op. cit.

- Simone PERRIER, «Démesure pour démesure: le Rabelais de Bakhtine», in: Le magazine littéraire, n°319, op. cit.

H. Ouvrages d'Anton Zijderveld:

- Anton C. ZIJDERVELD, The Abstract Society. A Cultural Analysis of Our Time, Penguin/Pelican, Harmondsworth,1974.

- Anton C. ZIJDERVELD, Humor und Gesellschaft. Eine Soziologie des Humors und des Lachens, Styria, Graz, 1971.

vendredi, 13 septembre 2013

Syrie : confusion, imprudence et ridicule

Syrie : confusion, imprudence et ridicule

 
Ex: http://www.les4verites.com

hollande-valerie-syrie_0.jpgLa politique du gouvernement actuel de la France à l’égard de la Syrie est le prototype même de la confusion, de l’imprudence et d’une absence totale de bon sens.

François Hollande, capitaine de pédalo comme dit le camarade Mélenchon et chef d’un État en faillite où le budget de l’armée est sacrifié au profit de l’immigration afro-musulmane, veut être chef de guerre. Comme son prédécesseur, il veut, sabre au clair et panache socialiste au vent, maîtriser le printemps arabe – c’est-à-dire donner à l’armée française l’ordre de bombarder cet ancien protectorat français qu’est la Syrie.

Le précédent libyen, où l’intervention franco-sarkozyste a créé un chaos indescriptible aggravant la situation dans tout le Sahel africain et dispersant à travers l’Afrique et le Proche-Orient l’arsenal de Kadhafi, n’a pas servi de leçon. François Hollande veut recommencer en Syrie, avec cette circonstance aggravante que la situation, qui implique là-bas les grandes puissances, est extrêmement complexe et dangereuse.

La première question que l’on doit poser lorsque ce type d’intervention est à l’étude est celle-ci : quel est dans cette affaire l’intérêt national ? À cette question, je réponds immédiatement : il n’y a aucun intérêt national à intervenir militairement en Syrie, mais il y a des risques considérables à prendre. Derrière Bachar Al-Assad, nul n’ignore qu’il y a la Russie qui lui fournit tout l’armement nécessaire, l’Iran qui lui envoie tous les effectifs dont il a besoin et la Chine qui lui prodigue tout l’appui diplomatique qu’il peut souhaiter. Ajoutons à cela que de nombreux pays occidentaux, et non des moindres, refusent, arguments à l’appui, de s’engager militairement en Syrie : l’Allemagne, la Grande-Bretagne, l’Italie, la grande majorité des pays anglo-saxons, tous faisant observer que, si l’on se réclame du droit qu’à toute occasion la France veut imposer au monde entier, il convient pour commencer de respecter les règles de l’ONU et d’abord du conseil de sécurité dont la France est un membre permanent. La légalité n’est pas à géométrie variable. C’est ce que le secrétaire des Nations Unies a rappelé déclarant son opposition totale à une intervention armée en Syrie. Le pape, la plus haute autorité morale dans le monde, a lui aussi proclamé son opposition à toute aventure militaire en Syrie. Et, pour compléter cette opposition généralisée, Hermann Van Rompuy, président du conseil de l’UE, a, le 5 septembre, lui aussi, dit qu’il était tout à fait hostile à la politique de François Hollande. Voilà donc le président de la République française seul en Europe contre tous, à brandir les impératifs de l’éthique. « Je vais punir, moi seul, le méchant. » À ce propos, je me permettrai de rappeler que les Occidentaux ont aidé Saddam Hussein à utiliser des gaz toxiques contre les Iraniens en 1988 – « notre ami Saddam Hussein », pour lequel Jacques Chirac nourrissait la plus grande affection ! Je rappelle aussi que, pendant la guerre d’Indochine, Français et Américains ont utilisé surabondamment contre les populations civiles le napalm, qui n’est, dans ses effets, guère différent des gaz toxiques. Alors, de grâce, pour la vertu, Monsieur le Président, soyez discret !

Changeant d’avis tous les jours, donnant l’impression d’une improvisation quotidienne, ne sachant plus comment échapper au piège dans lequel il est tombé faute de jugement, François Hollande en est à laisser dire que des frappes n’auraient nullement pour but de renverser Bachar Al-Assad, ni de contrarier son protecteur, le tsar Vladimir Poutine, laissant entendre aussi que, le jour J, on avertira l’adversaire des objectifs choisis. À l’incohérence, on le voit, on ajoute le ridicule ! Et si, à l’inverse, une bavure se produisait, si le porte-avions Charles De Gaulle était torpillé, si le Hezbollah chiite libanais prenait le pouvoir à Beyrouth, que ferait-on ?

Ce qui est certain, en tout cas, c’est que des frappes auraient pour résultat assuré de faire de nouvelles victimes, comme s’il n’y en avait pas assez, de renforcer la détermination de Bachar Al-Assad et des populations alaouites, druzes, et chrétiennes qui le soutiennent, d’exciter davantage encore les Iraniens et le Hezbollah, de mettre Israël en péril, et de renforcer la volonté toujours présente des musulmans de provoquer, en représailles, de graves attentats – en France de préférence. Il serait bon aussi de tenir compte en priorité du fait que 80 % des rebelles syriens sont affiliés à Al Qaïda, que certains d’entre eux ont déjà proclamé « l’État islamique de Syrie », dans la région d’Alep où la charia est appliquée et que beaucoup de ces djihadistes encagoulés sont, outre des Caucasiens, des Maghrébins venant de France. Est-ce l’intérêt de la France de soutenir ces gens-là, alors que 70 % au moins de l’opinion française est hostile à l’intervention socialiste ?

Quand, enfin, ces princes qui, aujourd’hui sont au pouvoir en France, comprendront-ils que la conduite de l’État exige sérieux et réalisme ? À dire vrai, l’explication non dite de cette politique aventureuse est que François Hollande, et sans doute Obama, cherchent à redorer leur blason terni et à laisser une marque dans l’histoire. C’était aussi le but de Sarkozy en Libye. Il a bien laissé une marque dans l’histoire, mais hélas celle d’un politicien parvenu dépourvu de jugement qui a commis une grave erreur pour aboutir à un grave échec.

François Hollande qui, sauf le respect qu’on lui doit, n’a pas les qualités qu’exige la fonction, prend le même chemin. On n’en pleurerait pas. Le problème est qu’il peut nous jeter dans une aventure désastreuse et qu’il perd dans cette affaire toute crédibilité. Il faut le constater, ces gens-là sont dangereux. Aveuglés par leur idéologie, ils prennent les choses non pour ce qu’elles sont, mais pour ce qu’ils voudraient qu’elles soient. C’est le pire des dérèglements de l’esprit, disait Bossuet.

La sagesse exige de laisser les Arabes et les musulmans à leurs affaires. Depuis que l’indépendance leur a été accordée, ils s’entre-tuent dans un redoutable désordre. Eh bien, lorsqu’ils seront fatigués de s’entre-tuer, de s’entre-égorger, de s’entre-gazer, lorsque les chiites en auront assez de tuer les sunnites et vice versa, l’Occident et en particulier la France pourraient proposer des négociations pour la paix et une réelle démocratie. À cette occasion, on pourrait demander aux djihadistes syriens de bien vouloir libérer les deux journalistes français qu’ils détiennent, parmi d’autres, et de cesser de pratiquer le terrorisme, leur arme favorite qui, depuis si longtemps, tue femmes et enfants.

Une réflexion sur l’avenir de l’Europe

LE LIEU DU RADICAL EUROPEEN

 
Une réflexion sur l’avenir de l’Europe


Michel LHOMME
Ex: http://metamag.fr
La France est en récession. Pour l'année 2012, c'est un taux de croissance nul. Adam Smith avait prédit que les Etats européens finiraient par couler un jour ! C’est peut-être aujourd’hui !  

En Afrique, au contraire, on évoque des taux de croissance de 6% (10% en Ethiopie entre 2005 et 2010). Pour la Caraïbe et l'Amérique latine, le taux de croissance moyen est de 3,2% (Haïti et le Pérou, près de 6%). Le vrai combat mondial, ce n’est donc pas la Syrie mais plus que jamais le partage des richesses : ce n’est plus un combat simplement occidental. La France paie aujourd’hui le modèle de la surconsommation des années 60-70. Elle n’est plus un pays normal car un pays normal ne doit en aucun cas négliger sa production et son industrie. 


Les hommes politiques français ont privilégié depuis des décennies la surconsommation, le surendettement des ménages, une politique de grands centres commerciaux à l’américaine et d’alimentation industrielle. Or, comme le souligne Pierre Rabhi: " la croissance ce n'est pas la solution, c'est le problème". Ne faut-il pas replacer le commerce et l’économie dans un combat mondial géopolitique du partage des richesses. Ce sont les apports alimentaires africains, arabes, indiens, chinois et amérindiens qui ont fait la table de l'Occident (épices, bananes, café, thé, pomme de terre). Or nous sommes encore dans ce système occidental de répartition alimentaire. 

En Afrique et en Outre-mer, à voix basse, on entend très souvent dire qu’après tout le mal causé par le Blanc, il faudrait l'éliminer coûte que coûte. Pourtant, dans le monde, il ne faut pas qu'il n’y ait qu'un seul système. Il est possible de parler de croissance sans pour autant se laisser enfermer dans le seul paradigme occidental. S'il doit y avoir une alternative au système européen, laissons le cours de l'histoire se faire et nous verrons se dessiner une croissance africaine ou une alternative latino-américaine. Là encore, les intellectuels français complètement déphasés semblent se préparer pour la rentrée à défendre le convivialisme. Ils prétendent annoncer que l'économie libérale serait sur le point de rendre l’âme. Ce n’est que l’opinion géo-centrée et hexagonale d’un pays en déclin. Et en raison de cette opinion , on peut applaudir avec Adam Smith et nos amis africains, à la chute probable des vieux Etats européens.

Sur quel système, les échanges entre les pays du monde seront-ils basés demain ? 

L'OMC dans lequel adhèrent tous les pays souverains est toujours prédominant. Si nous remontons dans le temps, les échanges qui se faisaient entre les royaumes africains et les sultanats arabes n'étaient pas basés sur le système occidental de frontières douanières et de taxes : l'Europe n'avait pas encore colonisé l'Afrique et le Moyen-Orient. Idem pour la région Caraïbe ou polynésienne où les peuples circulaient et marchandaient de territoires en territoires sans avoir de passeports, de visas... Puis, la colonisation européenne est passée par là et maintenant au XXIème siècle, le commerce mondial se fait sous les contraintes juridiques occidentales des dites règles du commerce. L'Occident fait partie du monde mais maintenant, avec l’arrivée soudaine au premier plan des pays émergents, cet Occident ne pourra plus dicter ses lois de concurrence. On pourrait très bien imaginer des règles nouvelles d’un autre système commercial avec une alternative au système consumériste.

Avec l'arrivée de pays émergents comme la Chine, le Brésil, l'Inde, la Russie, l'Afrique du Sud, le Nigéria, la carte du monde change. Soucieuse d’égalité, l'Europe se retrouve en grande difficulté économique. Les USA sont obligés de traiter avec des pays qui jadis étaient "persona non grata" car ils ont besoin d’ouvrir leur marché, d’écouler leurs produits d’où l’idée d’accélérer le projet balladurien d’un traité de libre-commerce transatlantique. 

Il faut donc écrire au plus vite un guide de survie économique européen et pour cela poser les bases d’un nouvel espace économique avec les pays émergents, redéfinir les grands espaces du Sud et raisonner en termes de transfert de puissance. Le romancier créole antillais Patrick Chamoiseau écrivait récemment : « nous ne voyons que les ruines et les décombres se préciser autour de nous, mais l’horizon, l’en dehors, l’inconnu, l’inconcevable, nous brûle encore l’esprit… Le lieu est dans cette brûlure ». De quel lieu ?... Du « lieu du radical » précise-t-il, ce qu’un autre grand poète martiniquais, Edouard Glissant appelait « l’écart déterminant ». Chamoiseau ajoute dans cet entretien (Médiapart, 2 mai 2013) : « le poétique est le fondement du politique. Quand le politique s’en éloigne, il sombre dans la gestion ».

Le principal objectif d’une politique économique européenne ne serait-il pas la neutralisation économique américaine? Un tel programme impliquerait la fin du consumérisme et que les Américains soient prêts à abandonner leur leadership mondial. Ce serait l’occasion d’un grand revirement de la politique américaine comme l’a été la naissance du New Deal. Il serait en effet du devoir de l’Europe, de la défense de ses intérêts de susciter dans l’état de dette généralisée des Etats-Unis et surtout de sa probable dislocation interne et civile d’appuyer une telle politique de neutralisation américaine. Il faut donc refuser tout traité trans-atlantique qui ne vise qu’à faire entrer en masse les produits américains dans nos supermarchés. Pour l’Europe, ce serait une chance de sortir de l’impasse où se trouve actuellement la politique de ses Etats. 

Un moment  crucial

Pour la première fois, la volonté de domination américaine se retrouve en raison inverse de sa puissance politique interne et réelle. L’affirmation géo-économique dont elle rêve s’appuie sur une affirmation métaphysique. Or, on ne construit pas les réalités économiques de transformation (cf. Schumpeter) sur des affirmations métaphysiques. Tout manquera dans la culture américaine prochaine, dans les mœurs politiques et sociales du pays pour la rendre effective. On ne maintient pas une hyperpuissance avec des obèses ou des drogués. Et ce malgré tout l’aspect concret de l’affirmation politique américaine : un patriotisme fort, lié en la croyance en une prédestination biblique. Le péril interne américain, péril sociologique explique et justifie le durcissement visible du pouvoir fédéral, de son armature administrative et militaire, de son obsession de la surveillance nationale et internationale, de son orientation de plus en plus totalitaire mais cela ne l’empêchera pas de demeurer prisonnier dans la formation de ses élites des valeurs modernistes et libérales qu’il affiche. Il y a donc pour l’Europe et ses peuples un devoir de résistance. 

Intervention en Syrie : la recherche d'un prétexte à tout prix

La recherche d'un prétexte à tout prix...

par Eric Dénécé

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous une excellente analyse d'Eric Dénécé, spécialiste des questions de renseignement et ancien analyste Secrétariat Général de la Défense Nationale, qui anime depuis quelques années les travaux du Centre français de recherche sur le renseignement (CF2R). Eric Dénécé a récemment publié La face cachée des « révolutions » arabes (Ellipses, 2012) et Les services de renseignement français sont-ils nuls ? (Ellipse, 2012).

 

Synthèse nationale.jpg

 

Intervention en Syrie : la recherche d'un prétexte à tout prix

La coalition réunissant les Etats-Unis, le Royaume Uni, la France, la Turquie, l'Arabie saoudite et le Qatar vient de franchir un nouveau pas dans sa volonté d'intervenir en Syrie afin de renverser le régime de Bachar El-Assad. Utilisant ses énormes moyens de communication, elle vient de lancer une vaste campagne d'intoxication de l'opinion internationale afin de la convaincre que Damas a utilisé l'arme chimique contre son peuple, commettant ainsi un véritable crime contre l'humanité et méritant  « d'être puni ».

Aucune preuve sérieuse n'a été présentée à l'appui de ces affirmations. Au contraire, de nombreux éléments conduisent à penser que ce sont les rebelles qui ont utilisé ces armes. Ces mensonges médiatiques et politiques ne sont que des prétextes. Ils rappellent les tristes souvenirs du Kosovo (1999), d'Irak (2003) et de Libye (2010) et ont pour but de justifier une  intervention militaire afin de renverser un régime laïque, jugé hostile par les Etats-Unis  - car allié de l'Iran et ennemi d'Israël - et impie par les monarchies wahhabites d'Arabie saoudite et du Qatar. Il est particulièrement affligeant de voir la France participer à une telle mascarade.

La falsification des faits

Depuis deux ans, des informations très contradictoires et souvent fausses parviennent en Europe sur ce qui se passe actuellement en Syrie. Il est ainsi difficile de comprendre quelle est la situation exacte dans ce pays. Certes, le régime syrien n'est pas un modèle démocratique, mais tout est mis en œuvre par ses adversaires afin de noircir le tableau, dans le but d'assurer le soutien de l'opinion internationale à l'opposition extérieure et de justifier les mesures prises à son encontre, dans l'espoir d'accélérer sa chute.

Cette falsification des faits dissimule systématiquement à l'opinion mondiale les éléments favorables au régime :

- le soutien qu'une grande partie de la population syrienne - principalement les sunnites modérés et les minorités (chrétiens, druzes, chiites, kurdes) - continue d'apporter à Bachar El-Assad, car elle préfère de loin le régime actuel - parfois par défaut - au chaos et à l'instauration de l'islam radical ;

- le fait que l'opposition intérieure, historique et démocratique, a clairement fait le choix d'une transition négociée et qu'elle est, de ce fait, ignorée par les pays occidentaux ;

- la solidité militaire du régime : aucune défection majeure n'a été observée dans l'armée, les services de sécurité, l'administration et le corps diplomatique et Damas est toujours capable d'organiser des manœuvres militaires majeures ;

- son large soutien international. L'alliance avec la Russie, la Chine, l'Iran et le Hezbollah libanais ne s'est pas fissurée et la majorité des Etats du monde s'est déclarée opposée à des frappes militaires, apportant son soutien total aux deux membres permanents du Conseil de Sécurité de l'ONU - Russie et Chine - qui ont clairement indiqué qu'ils n'autoriseraient pas une action armée contre la Syrie. Rappelons également que le régime syrien n'a été à ce jour l'objet d'aucune condamnation internationale formelle et demeure à la tête d'un Etat membre à part entière de la communauté internationale ;

- le refus délibéré des Occidentaux, de leurs alliés et de la rébellion de parvenir à une solution négociée. En effet, tout a été fait pour radicaliser les positions des ultras de Damas en posant comme préalable le départ sans condition du président Bachar.

Au contraire, l'opposition extérieure, dont on cherche à nous faire croire qu'elle est LA solution, ne dispose d'aucune légitimité et demeure très éloignée des idéaux démocratiques qu'elle prétend promouvoir, en raison de ses options idéologiques très influencées par l'islam radical.

De plus, la rébellion syrienne est fragmentée entre :

- une opposition politique extérieure groupée autour des Frères musulmans, essentiellement contrôlée par le Qatar et la Turquie ;

- une « Armée syrienne libre » (ASL), composée d'officiers et d'hommes de troupe qui ont déserté vers la Turquie et qui se trouvent, pour la plupart, consignés dans des camps militaires faute d'avoir donné des gages d'islamisme suffisants au parti islamiste turc AKP. Son action militaire est insignifiante ;

- des combattants étrangers, salafistes, qui constituent sa frange la plus active et la plus violente, financés et soutenus par les Occidentaux, la Turquie, le Qatar et l'Arabie saoudite.

Ainsi, la Syrie connaît, depuis deux ans, une situation de guerre civile et des affrontements sans merci. Comme dans tous les conflits, les victimes collatérales des combats sont nombreuses, ainsi que les atrocités. Toutefois, les grands médias internationaux qui donnent le ton - qui appartiennent tous aux pays hostiles à la Syrie - cherchent à donner l'impression que les exactions, massacres et meurtres sont exclusivement le fait du régime et de son armée.

Si certaines milices fidèles au régime ont commis des exactions, cela ne saurait en aucun cas dissimuler les innombrables crimes de guerre qui sont chaque jour, depuis deux, ans l'œuvre de la rébellion, et dont sont victimes la population syrienne fidèle au régime, les minorités religieuses et les forces de sécurité. Ce fait est systématique passé sous silence. Pire, les nombreux actes de barbarie des djihadistes soutenus par l'Occident, la Turquie et les monarchies wahhabites sont même souvent attribués au régime lui-même, pour le décrédibiliser davantage.

L'Observatoire syrien des droits de l'Homme (OSDH), principale source des médias sur les victimes de la « répression », est une structure totalement inféodée à la rébellion, crée par les Frères musulmans à Londres. Les informations qu'il diffuse relèvent de la pure propagande et n'ont donc aucune valeur ni objectivité. S'y référer est erroné et illustre l'ignorance crasse ou de la désinformation délibérée des médias.

Enfin, face à ce Mainstream médiatique tentant de faire croire que le Bien est du côté de la rébellion et de ses alliés afin d'emporter l'adhésion de l'opinion, toute tentative de vouloir rétablir un minimum d'objectivité au sujet de ce conflit est immédiatement assimilée à la défense du régime.

Les objectifs véritables d'une intervention en Syrie

Dès lors, on est en droit de s'interroger sur les raisons réelles de cet acharnement contre Bachar Al-Assad et d'en rechercher les enjeux inavoués. Il en existe au moins trois :

- casser l'alliance de la Syrie avec l'Iran ; le dossier iranien conditionne largement la gestion internationale de la crise syrienne. En effet, depuis trois décennies, Damas est l'allié de l'Iran, pays phare de « l'axe du mal » décrété par Washington, que les Américains cherchent à affaiblir par tous les moyens, tant en raison de son programme nucléaire, de son soutien au Hezbollah libanais, que de son influence régionale grandissante ;

- rompre « l'axe chiite » qui relie Damas, Bagdad, Téhéran et le Hezbollah, qui est une source de profonde inquiétude pour les monarchies du Golfe qui sont, ne l'oublions pas, des régimes autocratiques et qui abritent d'importantes minorités chiites. Ainsi, Ryad et Doha ont désigné le régime iranien comme l'ennemi à abattre. Elles veulent la chute du régime syrien anti-wahhabite et pro-russe, afin de transformer la Syrie en base arrière pour reconquérir l'Irak - majoritairement chiite - et déstabiliser l'Iran. Elles cherchent aussi à liquider le Hezbollah libanais. En cela, leur agenda se confond avec celui de Washington ;

- détruire les fondements de l'Etat-nation laïc syrien pour le remplacer par un régime islamiste. Cela signifie livrer Damas aux forces wahhabites et salafistes favorables aux pétromonarchies du Golfe, ce qui signifie l'éclatement du pays en plusieurs entités en guerre entre elles ou, pire, l'asservissement voire le massacre des minorités non sunnites.

Ces objectifs non avoués n'ont pas été jusqu'ici atteints et ne le seront pas tant qu'existera le soutien sino-russe et tant que l'axe Damas-Téhéran ne se disloquera pas.

Le faux prétexte des armes chimiques

Face à la résistance de l'Etat syrien et de ses soutiens, la coalition américano-wahhabite a décidé d'employer les grands moyens afin de faire basculer l'opinion et de justifier une intervention militaire : accuser Damas de recourir aux armes chimiques contre sa propre population.

Une première tentative a été entreprise en avril dernier. Malheureusement, l'enquête des inspecteurs de l'ONU a révélé que l'usage d'armes chimiques était le fait de la rébellion. Ce rapport n'allant pas dans le sens que souhaitait la coalition américano-wahhabite, il a été immédiatement enterré. Seul le courage de Carla del Ponte a permis de révéler le pot aux roses. Notons cependant que les « médias qui donnent le ton » se sont empressés de ne pas lui accorder l'accès à leur antenne et que cette enquête a été largement passée sous silence.

Les événements du 21 août dernier semblent clairement relever de la même logique. Une nouvelle fois, de nombreux éléments conduisent à penser qu'il s'agit d'un montage total, d'une nouvelle campagne de grande envergure pour déstabiliser le régime :

- le bombardement a eu lieu dans la banlieue de Damas, à quelques kilomètres du palais présidentiel. Or, nous savons tous que les gaz sont volatils et auraient pu atteindre celui-ci. L'armée syrienne n'aurait jamais fait cela sauf à vouloir liquider son président !

- les vecteurs utilisés, présentés par la presse, ne ressemblent à aucun missile en service dans l'armée syrienne, ni même à aucun modèle connu. Cela pourrait confirmer leur origine artisanale, donc terroriste ;

- de plus, des inspecteurs de l'ONU étaient alors présents à Damas et disposaient des moyens d'enquête adéquats pour confondre immédiatement le régime ;

- les vidéos présentées ne prouvent rien, certaines sont même de grossières mises en scène ;

- enfin, le régime, qui reconquiert peu à peu les zones tenues par la rébellion, savait pertinemment que l'emploi d'armes chimiques était une « ligne rouge » à ne pas franchir, car cela déclencherait immédiatement une intervention militaire occidentale. Dès lors, pourquoi aurait-il pris in tel risque ?

Aucune preuve sérieuse n'a été présentée à l'appui la « culpabilité » de l'armée syrienne. Au contraire, tout conduit à penser que ce sont les rebelles qui ont utilisé ces armes, car contrairement à ce qui est avancé par la note déclassifiée publiée par le gouvernement français, les capacités chimiques des terroristes sont avérées :

- en Irak (d'où proviennent une partie des djihadistes de la rébellion syrienne), les autorités ont démantelé début juin 2013 une cellule d'Al-Qaida qui préparait des armes chimiques. Trois laboratoires ont été trouvés à Bagdad et dans ses environs avec des produits précurseurs et des modes opératoires de fabrication de gaz sarin et moutarde ;

- en Syrie, le Front Al-Nosra est suspecté avoir lancé des attaques au chlore en mars 2013 qui auraient causé la mort de 26 Syriens dont 16 militaires ;

- pour sa part, Al-Qaida a procédé en 2007 une douzaine d'attaques du même type à Bagdad et dans les provinces d'Anbar et de Diyala, ce qui a causé la mort de 32 Irakiens et en a blessé 600 autres. En 2002, des vidéos montrant des expérimentations d'armes chimiques sur des chiens ont été trouvées dans le camp de Darunta, près de la ville de Jalalabad, en Afghanistan.

Les errements de la politique étrangère française

A l'occasion cet imbroglio politico-médiatique dans lequel ses intérêts stratégiques ne sont pas en jeu, le gouvernement français mène une politique incompréhensible pour nos concitoyens comme pour l'étranger.

Depuis deux ans, la France, par le biais de ses services spéciaux, - comme d'ailleurs les Américains, les Britanniques et les Turcs - entraîne les rebelles syriens et leur fournit une assistance logistique et technique, laissant l'Arabie saoudite et le Qatar les approvisionner en armes et en munitions.

Ainsi, la situation syrienne place la France devant ses contradictions. Nous luttons contre les djihadistes au Mali, après les avoir aidés à prendre le pouvoir à Tripoli - en raison de l'intervention inconsidérée de l'OTAN en Libye, en 2011, dans laquelle Paris a joué un rôle clé - et continuons de les soutenir en Syrie, en dépit du bon sens. Certes le régime de Bachar Al-Assad n'est pas un modèle de démocratie et il servait clairement les intérêts de la minorité alaouite, mais il est infiniment plus « libéral » que les monarchies wahhabites : la Syrie est un Etat laïque où la liberté religieuse existe et où le statut de la femme est respecté. De plus, il convient de rappeler que Damas a participé activement à la lutte contre Al-Qaïda depuis 2002. Pourtant, nous continuons d'être alliés à l'Arabie saoudite et au Qatar, deux Etats parmi les plus réactionnaires du monde arabo-musulman, qui, après avoir engendré et appuyé Ben Laden, soutiennent les groupes salafistes partout dans le monde, y compris dans nos banlieues. Certes, notre soutien aux agendas saoudien et qatari se nourrit sans nul doute de l'espoir de quelques contrats d'armement ou pétroliers, ou de prêts financiers pour résoudre une crise que nos gouvernants semblent incapables de juguler.

Une question mérite donc d'être posée : la France a-t-elle encore une politique étrangère ou fait-elle celle du Qatar, de l'Arabie saoudite et des Etats-Unis ? Depuis la présidence de Nicolas Sarkozy la France aligne ses positions internationales sur celles des Etats-Unis et a perdu, de ce fait, l'énorme capital de sympathie que la politique du général de Gaulle - non ingérence dans les affaires intérieures des Etats et défense du droit des peuples à disposer d'eux-mêmes - lui avait constitué.

Si les élections de mai 2012 ont amené un nouveau président, la politique étrangère n'a pas changé. En fait, nous observons depuis plusieurs années la conversion progressive d'une partie des élites françaises  - de droite comme de gauche - aux thèses néoconservatrices américaines : supériorité de l'Occident, néocolonialisme, ordre moral, apologie de l'emploi de la force ...

Surtout, un fait nouveau doit être mis en lumière : la tentative maladroite des plus hautes autorités de l'Etat de manipuler la production des services de renseignement afin d'influer sur l'opinion publique et de provoquer un vote favorable des parlementaires. Ce type de manœuvre avait été conduit par Washington et Londres afin de justifier l'invasion de l'Irak en 2003, avant d'être dénoncé. Onze ans plus tard, le gouvernement recourt au même artifice grossier et éculé pour justifier ses choix diplomatiques et militaires. Compte tenu de la faiblesse des arguments présentés dans la note gouvernementale - qui n'est pas, rappelons-le, une note des services -, celle-ci ne sera d'aucune influence sur la presse et l'opinion. En revanche, par sa présentation, elle contribue à décrédibiliser le travail des services de renseignement, manipulés à leur insu dans cette affaire.

Le mépris des politiques français à l'égard des services est connu. Est-ce un hasard si cette affaire survient alors que l'actuel ministre des Affaires étrangères est celui-là même qui, en 1985, alors qu'il était chef du gouvernement, a fort élégamment « ouvert le parapluie », clamant son absence de responsabilité à l'occasion de l'affaire du Rainbow Warrior ?

Une chose au moins est sûre : une remise à plat de notre position à l'égard de la Syrie et de notre politique étrangère s'impose, car « errare humanum est, perseverare diabolicum ».

Eric Dénécé (Centre français de recherche sur le renseignement, 6 septembre 2013)

Rassegna Stampa (sett. 2013)

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Rassegna Stampa: articoli in primo piano (sett. 2013)

 

 



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Une Amérique antiguerre, une Amérique en révolte ?

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Une Amérique antiguerre, une Amérique en révolte ?

Ex: http://www.dedefensa.org

Bien entendu, la proposition russe de mettre l’arsenal chimique syrien sous contrôle international modifie considérablement la situation générale de la crise syrienne, – ou disons, pour être plus précis, la situation de la crise syrienne elle-même (attaque US ou pas attaque US), et la situation de la crise washingtonienne et même de la “crise du système de l’américanisme” consécutive à l’implication US (attaque ou pas) dans la crise syrienne. Nous observerions que le deuxième volet est au moins autant affecté que le premier, et qu’il pourrait même l’être beaucoup plus. Il faut préciser qu’Obama a accueilli cette proposition, dont il avait discuté la possibilité avec Poutine au G20, avec faveur et sans hésiter ni en délibérer avec ses conseillers, laissant effectivement l’impression qu’il “sautait sur la proposition pour se tirer de la perspective catastrophique d’une défaite majeure au Congrès”.

Ce dernier segment de phrase est une traduction d’une rapide analyse de cette situation par DEBKAFiles, du 10 septembre 2013. Nous choisissons ce point de vue évidemment partisan parce qu’il concerne un aspect crucial de la situation washingtonienne, et US par conséquent. L’analyse, assez courte parce que rédigée dans l’urgence, du site israélien connecté aux services de sécurité israéliens et aussi aux milieux bellicistes-extrémistes US, est intéressante parce qu’elle se préoccupe moins de présenter l’une ou l’autre exclusivité que de fixer une situation, manifestement du point de vue général dont le site est le représentant. Ainsi peut-on admettre qu’elle substantive bien le sentiment, extrêmement désappointé, de l’aile activiste du gouvernement Obama, et du War Party à Washington par extension, et qu’elle le fait clairement, sans les précautions et fioritures, ou sans la rhétorique de circonstance, qu’on trouve dans les milieux et médias US de cette tendance.

Rapportant diverses déclarations d’Obama, qui passait hier soir sur divers réseaux pour des interviews, DEBKAFiles met en évidence ce qui sera retenu comme une certaine duplicité de sa part, qui passe dans ce cas à une dialectique d’apaisement, qui minimise désormais le “danger” syrien, notamment vis-à-vis des USA, qui affirme que la crise syrienne ne peut être résolue militairement – deux affirmations qui démentent le sentiment général du War Party, et éventuellement de certains des conseillers d’Obama. DEBKAFiles affirme, – et c’est sa seule affirmation qui se veut in fine exclusive, – qu’Obama se trouve en contradiction avec ses conseillers Rice (directrice du NSC) et Kerry (secrétaire d’État), qui ne sont pas favorables à la suspension au moins temporaire de la menace d’attaque contre la Syrie.

«US president Barack Obama went against the words of his advisers, Secretary of State John Kerry and National Security Adviser Susan Rice Monday, and offered in TV interviews early Tuesday, Sept. 10, to “absolutely” put on hold military action against Syria, as well as the vote in Congress, if Bashar Assad abandoned chemical weapons. He said he found some positive signs in the Russian proposal [for Assad to hand over his chemical arsenal to international control] and said he was willing to run it to ground in the next few days to see if the Syrian issue can’t be solved without the military option. “I welcome the Russian proposals and we will try and verify them,” he said.

»As for the decision in Congress, which was almost certain to vote down military action, Obama said that too could be put on hold. Because from the start there had been no imminent military threat to the United States, there was still time for “a good deliberation in Congress before a decision.” It would take at least a week or a few weeks before Congress decides, and meanwhile “we can continue to talk to the Russians.”

»“We know the capabilities of the Syrian army and that is no big problem for us,” he said. In answer to a question, Obama admitted he had discussed the Russian proposal with Vladimir Putin last week at St. Petersburg (where they talked for 20 minutes on the G20 summit sidelines). He suggested then that the Syrian issue be approached in two stages: First, dispose of the chemical weapons problem, then move on to other issues of the Syrian conflict. Obama said he still believed the Syrian problem could not be solved militarily and would do everything to put the political discussions on the fast track.

»Most Washington observers were critical of this latest Obama flip-flop, saying they received the impression from the interviews that the president had seized on the Russian proposal as a means of extricating himself from a major defeat in Congress.»

• Tout cela, avec bien entendu la proposition russe, intervient dans un climat de dégradation accélérée de la position d’Obama à Washington. La proposition russe repoussant le cas du vote du Congrès au second plan, les jugements ne sont plus tenus par des obligations tactiques et rendent un ton général résumé par le propos de DEBKAFiles, selon lequel Obama allait vers “une défaite majeure au Congrès”, qui aurait été évidemment un coup terrible porté à sa position politique. La perspective d’une destitution avait été à nouveau évoquée (avant la proposition russe), devant la probabilité, sinon la certitude d’une défaite écrasante d’Obama au Congrès, suivie malgré tout d’une attaque ponctuelle contre la Syrie, ceci et cela conduisant justement à cette procédure de destitution. C’est le cas de Wester Griffin Tarpley, le 9 septembre 2013 pour PressTV.ir : «The big danger is that Congress will say ‘no’ [to an Obama war authorization on Syria] and then Obama will proceed to bomb. If he does, he will be impeached for sure...»

• Ce week-end et hier, le sentiment, notamment par le biais des sondages, reflète une poussée extrêmement significative de la pression populaire, aux USA, contre l’attaque. Non seulement ce sentiment met en cause l’idée de l’attaque contre la Syrie, mais également, – et c’est un fait nouveau, – la capacité de leadership d’Obama et sa politique étrangère en général. Il s’agit d’un mouvement qui semble avoir une très puissante substance, qui est perçu comme tel dans tous les cas et c’est ce qui compte, et qui est en train de se renforcer très rapidement malgré les pressions de communication d’Obama et de ses alliés en la circonstance, – dans tous les cas dans la phase d’avant la proposition russe, mais celle-ci ne devant nullement arrêter ce mouvement, au contraire. Il y a d’abord un sondage commenté et une enquête informative de McClatchy, le 9 septembre 2013.

«When President Barack Obama addresses the nation Tuesday in his bid for airstrikes against Syria, he will confront the most unfriendly political landscape of his presidency, one where opposition knows no boundaries and Democrats, Republicans, whites, blacks, Hispanics, old, young, men and women all are deeply skeptical of the mission.

»A solid majority of voters opposes airstrikes and wants Congress to reject Obama’s request for approval, according to a new McClatchy-Marist poll. A majority thinks he does not have a clear idea of what he’s doing with Syria. The ranks of Americans who approve of the way he’s handling foreign policy has dropped to the lowest level since he assumed office. And an overwhelming majority insists he stand down should Congress vote no. “Clearly this president needs to be very persuasive Tuesday,” said Lee Miringoff, director of the Marist Institute for Public Opinion in New York, which conducted the poll...»

Dans le même sens, et montrant ainsi combien ce mouvement de renforcement très rapide de l’opposition populaire est confirmé, il y a une enquête de l’institut PEW du 9 septembre 2013, présentée par USA Today le même 9 septembre 2013...

«By more than 2-1, 63%-28%, those surveyed Wednesday through Sunday say they are against U.S. military action against the Syrian regime for its reported use of chemical weapons against civilians. In the past week, support has declined by a percentage point and opposition has swelled by 15 points, compared with a previous Pew Research poll.

»As President Obama prepares to address the nation Tuesday, he can see damage the issue is doing to his own standing. He gets the lowest ratings of his presidency on handling foreign policy, and Americans by 2-1 disapprove of his handling of the situation in Syria. His overall approval rating has sagged to 44%-49%, the first time it has fallen into negative territory in well over a year. “This is a signal moment,” says political scientist Larry Jacobs of the University of Minnesota. ”On the one side is the kind of leadership of an historic order. On the other side is a fairly deep doubting about American power — and the power of this president.”»

• Un élément plus général s’impose également, qui est l’évolution très rapide du parti républicain (même au-delà de son aile libertarienne) vers une position antiguerre et isolationniste, chose impensable il y a encore deux ans et depuis plus d’un demi-siècle. On le sait, il s’agit d’un fait majeur de la situation politique washingtonienne, qui se développe sous la pression de mieux en mieux organisée, et de plus en plus renforcée par de nouvelles participation, du courant libertarien populiste, s’appuyant sur une alliance non seulement “objective” mais coordonnée d’une faction progressiste-populiste importante du parti démocrate. Ce courant est perçu comme structuré et efficace depuis la fin juillet (voir le vote sur la NSA, le 26 juillet 2013). Ce n’est plus un phénomène marginal, comme on avait tendance à le considérer dans le cadre de la communication-Système qui défend sa politique-Système ainsi directement mise en cause, mais bien le moteur central d’une évolution qui semble désormais toucher tout le parti républicain (le GOP), alors qu’une partie des démocrates y est également sensible. McClatchy fait (le 9 septembre 2013) un rapport sur cet événement politique qui a été accéléré et mis à jour par l’actuelle extension washingtonienne de la crise syrienne.

«The Republican Party may be turning anti-war.

»Some of the shift is driven by visceral distrust of President Barack Obama, who is the one proposing military strikes against Syria. Some is driven by remorse and lessons learned from the Iraq war. And some is fed by the isolationist and libertarian strains of the grassroots tea party movement. Plenty of Republicans, including key congressional leaders, support Obama’s push for military action against the Syrian regime for allegedly using chemical weapons. But among constituents, rank-and-file members of Congress and many influential voices in the party’s echo chamber, the trend is decidedly anti-war. “There is a growing isolationist movement within our own party,” said John Weaver, an Austin, Texas-based Republican consultant.

»The party’s popularity surged in the late 1940s partly because of its unrelenting stance against communism. Republicans nominated World War II hero Gen. Dwight D. Eisenhower as its 1952 presidential candidate and he won two terms. Ronald Reagan’s presidency is still revered by supporters for his tough talk against the Soviet Union, and in his 2005 inaugural address, President George W. Bush redefined America’s international mission.

»Now, that’s changing.

Quel bouleversement à la veille de 9/11 ?

... Ainsi semble-t-il bien que l’on se trouve à un tournant de la situation politique washingtonienne en crise, et la proposition russe sur le chimique a de fortes chances d’accélérer ce tournant, bien plus que de le bloquer. Certes, la proposition russe semble avoir de très grandes chances de modifier le cours du processus menant à une attaque US en Syrie, quoiqu’il n’y ait encore rien d’assuré à ce propos. (Voir sur Antiwar.com du 10 septembre 2013 des détails sur l’accueil fait à cette proposition, avec des interférences dans l’administration, accroissant la sensation d’un gouvernement en grand désarroi.) Mais la proposition a également pour effet, et surtout pour les développements de la situation washingtonienne, d’interférer dans un autre processus, qui a pris à notre avis une importance plus grande que l’attaque en Syrie, qui est le processus d’affrontement à Washington, et de dégradation de la position du président Obama. Évidemment, on est tenté de rejoindre le constat de DEBKAFiles, sur un Obama saisissant la proposition russe comme une bouée de sauvetage, et, par conséquent, sauter à la conclusion que la Russie a sauvé le président Obama. Cette conclusion-là, si elle n’est pas fausse, est peut-être précipitée pour le terme et, surtout, elle est incomplète.

D’une part, le débat continue, et si le Sénat a pour sa part repoussé sine die son vote sur la question de l’attaque, il n’en reste pas moins que le Congrès poursuit son travail sur le sujet et qu’on continue à se compter, et qu’au Sénat, justement, l’opposition à un texte autorisant l’attaque grandit (voir Antiwar.com le 10 septembre 2013). Tous ces événements ont conduit d’ailleurs à la perception désormais générale qu’Obama aurait perdu, ou a perdu sa bataille pour obtenir le soutien du Congrès, – et cette perception, même si un vote ne la sanctionne pas, implique pour l’évaluation des positions qu’Obama est de toutes les façons battu et vaincu dans cette affaire, et son pouvoir réduit à mesure. (Cela vaut d’ailleurs, dans des conditions différentes, pour certains membres de son cabinet : les super-neocons Susan Rice et Samantha Powers, et John Kerry qui a déchaîné une dialectique si outrancièrement anti-Assad qu’il lui sera difficile de revenir sans dégâts collatéraux pour lui-même à un langage plus mesuré.)

Au-delà, et pour ce qui concerne les mouvements de fond, les diverses nouvelles données ci-dessus indiquent que cette crise a déclenché une formidable dynamique, antiguerre, non-interventionniste voire neo-isolationniste, qui doit immédiatement interférer dans la politique courante et devrait s’institutionnaliser lors des élections de novembre 2014 (cela, si l’on a l’audace de faire de la prospective à si long terme dans une époque où les bouleversements mettent quelques jours pour s’affirmer). Certains en sont même à affirmer que le changement est tel que même la puissance du lobby israélien AIPAC est d’ores et déjà considérablement réduite. (Tarpley, déjà cité : «I think we’re going to find that [the AIPAC] influence has fallen fast and that they’ve chosen a battle that they’re destined to lose. They are trading on the basis of victories that are now several decades in the past. No matter what their power might be, they are running into a buzz saw. That buzz saw is the fact that the American people are not just sick of war but disgusted by war.») Répétons-le, ce fait-là, du surgissement d’une telle dynamique antiguerre aux USA, est de très loin le plus important de toute cette séquence crisique, bien plus que la situation en Syrie et au Moyen-Orient.

Il reste à voir quelle va être la réaction du War Party, qui est aux abois et qui devrait avoir désormais la sensation de se battre pour sa survie. Il dispose encore d’énormes moyens médiatiques et de communication, y compris bien sûr l’AIPAC lui-même, et il devrait avoir le réflexe de se radicaliser encore plus, sa survie passant par une tentative de provoquer malgré tout, par un moyen ou l’autre, de l’action d’influence à l’un ou l’autre false flag ou provocation dont il a le secret déjà pas mal éventé, une brutale nouvelle aggravation de la situation en Syrie passant par une relance des perspectives d’attaque de la Syrie. (Après tout, la proposition russe laisse Assad et son régime intacts, ce qui éloigne d’autant le War Party, – et les extrémistes du bloc BAO, d’ailleurs, et l’Arabie de Prince Bandar, et les rebelles, etc., – du but principal, regime change et liquidation d’Assad.) Cette perspective probable d’une résistance éventuellement forcenée du War Party renforce l’idée que rien n’est évidemment fini, surtout à Washington, ce qui, au contraire, devrait continuer à alimenter la dynamique antiguerre en l’institutionnalisant de facto.

Quant à la Russie, elle a manœuvré classiquement, selon sa politique ferme et principielle qui est de rechercher la stabilisation, si nécessaire en venant à l’aide d’un président US en difficulté, – ce qui va aussi dans le sens d’un but de stabilisation. (C’est une habitude héritée du temps de l’URSS : le meilleur et le plus fidèle soutien de Nixon pendant la crise du Watergate fut certainement le Premier Secrétaire du PC de l’URSS Brejnev, jusqu’à des gestes personnels lorsque Brejnev invita Nixon pour un court séjour dans sa villa de Crimée, pour le sortir du tourbillon washingtonien. L’ambassadeur de l’URSS à Washington Dobrynine écrivit dans ses mémoires que l’entente entre les deux hommes était telle dans cette période que, dans certaines circonstances qui ne se concrétisèrent jamais, Brejnev aurait été prêt à envisager de lancer en URSS, avec le soutien de Nixon, un processus réformiste de type gorbatchévien qui aurait permis d’établir une entente profonde entre l’URSS et les USA. Là aussi, la stabilisation du pouvoir US était une nécessité.) Considérée dans les conditions initiales qu’on connaît, l’initiative russe apparaît comme un succès qui ne peut que profiter au statut de la Russie, tout en ménageant Assad, qui a “approuvé” la proposition russe. Sur le terme pourtant, il n’est nullement assuré que, même dans le meilleur des cas, l'événement ait assuré quoi que ce soit. La “stabilisation” d’Obama dans ces conditions, si elle se confirme, pourrait bien se révéler très vite un leurre, car le président est nécessairement “stabilisé” dans une position de faiblesse extrême, jusqu’au paradoxe que la “stabilisation” elle-même, grâce à la Russie, l’affaiblit dans la mesure où elle dépend d’un pouvoir extérieur, et celui de Poutine en plus ! Cela, alors qu’on a vu que les autres dynamiques washingtoniennes en cours devraient se poursuivre, accentuant cet affaiblissement. Quant à la Syrie, comme on le devine, tout reste possible ... D’autre part, dira-t-on à ce point, que pouvaient et que peuvent faire de mieux les Russes ? Justement, cette question à la réponse évidente (“rien d’autre”, certes) mesure les limites des relations internationales dans leur dynamique actuelle, dont tous les acteurs n’ont pas encore compris, ou simplement admis, ou plus simplement encore accepté quand ils l’ont compris, que le véritable enjeu de la crise qui les secoue (ces relations internationales), – dito, la crise d’effondrement du Système, – n’y est absolument pas pris en compte pour ce qu’il est.

Et tout cela, de survenir à la veille de l’anniversaire sacré de 9/11 ...

Pour une séparation du Laïcisme et de l'État

Pour une séparation du Laïcisme et de l'État

par Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr

laicisme-contre-la-liberte.jpgPeillon s'est encore fait remarquer pour la rentrée scolaire. Le personnage communique beaucoup. Tel Robespierre, qu'il admire et qui, cependant signa son arrêt de mort à la Fête de l'Être suprême, il pose en grand maître d'une religion [presque] nouvelle.

Tout cela le prétentieux personnage l'écrit lui-même.

Qu'on en juge par ses propres citations :

On remarquera d'abord que, comme beaucoup d'esprits marqués par l'enseignement de la philosophie, il fait bon marché de la connaissance concrète de l'Histoire. Voici en effet comment il définit la révolution :

"La révolution française est l’irruption dans le temps de quelque chose qui n’appartient pas au temps, c’est un commencement absolu, c’est la présence et l’incarnation d’un sens, d’une régénération et d’une expiation du peuple français. 1789, l’année sans pareille, est celle de l’engendrement par un brusque saut de l’histoire d’un homme nouveau. La révolution est un événement méta-historique, c’est-à-dire un événement religieux." (1)⇓

Et il enchaîne donc par cette conclusion, certes logique, mais terrifiante :

"La révolution implique l’oubli total de ce qui précède la révolution. Et donc l’école a un rôle fondamental, puisque l’école doit dépouiller l’enfant de toutes ses attaches pré-républicaines pour l’élever jusqu’à devenir citoyen. C’est une nouvelle naissance, une transsubstantiation qui opère dans l’école et par l’école cette nouvelle église avec son nouveau clergé, sa nouvelle liturgie, ses nouvelles tables de la loi."

On se situe exactement dans cette idée rousseauiste "il faut les forcer d'être libres" qu'Augustin Cochin souligne. (2)⇓

Peillon ose écrire : "La laïcité elle-même peut alors apparaître comme cette religion de la République recherchée depuis la Révolution". (3)⇓

Mais il déclare par ailleurs ouvertement que "la franc-maçonnerie est la religion de la république"(4)⇓

Le laïcisme qu'il professe se veut par conséquent l'expression profane, le mot d'ordre, – et comme le mot "républicain",– le mot de passe d'une secte, d'ailleurs divisée, dont on rappellera qu'au sein de l'Éducation dite Nationale elle doit représenter au maximum 1 % des fonctionnaires eux-mêmes, malgré sa réputation d'ascenseur professionnel : ce qui doit bien vouloir dire qu'elle dégoûte les autres 99 %.

Cessons donc de confondre laïcité et neutralité. L'un des fondateurs du système, Viviani, qui fut président du Conseil au moment de la déclaration de guerre de 1914, l'écrivait à l'époque: "La neutralité est, elle fut toujours un mensonge [...]. Un mensonge nécessaire lorsque l’on forgeait, au milieu des impétueuses colères de la droite, la loi scolaire [...]. On promit cette chimère de la neutralité pour rassurer quelques timidités dont la coalition eût fait obstacle au principe de la loi. Mais Jules Ferry avait l’esprit trop net pour croire en l’éternité de cet expédient [...]." (5)⇓

Le développement de l'éducation étatique a toujours été conçu en vue de perpétuer le système.

Le fonctionnement de cette coûteuse administration, lourdement centralisée, se révèle d'année en année plus improductif, et plus destructeur.

Les écoles d'État ne parviennent plus à enseigner aux enfants de France à lire, écrire et compter. Mais on veut, par l'effet du laïcisme totalitaire, faire semblant d'imposer avec une soi-disant "morale laïque", dont personne ne connaît les fondements, un recul de l'islamisme, lâchement, sans oser le nommer : cette rustine méprisable, poisseuse et liberticide ne servira à rien. Jetons la sans hésiter. Séparons le laïcisme de l'État.

JG Malliarakis       

Apostilles

  1. cf. "La révolution française n’est pas terminée" Seuil 2008 page 17
  2. *cf. "Les sociétés de pensée et la démocratie moderne" Éditions du Trident.
  3. Ibidem p. 162
  4. cf. ses déclarations destinées à promouvoir son livre enregistrées au départ sur le site de son éditeur.
  5. cf. L’Humanité 4 octobre 1904.

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La morte per Jünger: l’inizio di un qualcosa

La morte per Jünger: l’inizio di un qualcosa

 

di Luigi Iannone

Ex: http://www.azionetradizionale.com

La grandezza di Ernst Jünger sta nell’aver conosciuto e intellettualmente dominato il moderno carattere faustiano della tecnica, gli scenari di crisi aperti dai totalitarismi e di aver intuito l’accelerazione del tempo. E, infatti, in Italia, la sua recezione si snoda attraverso una mole enorme di saggi scientifici che ne scandagliano in profondità questi aspetti. La biografia scritta da Heimo Schwilk (Ernst Junger. Una vita lunga un secolo, Effatà editrice, pp.720), amico personale di Jünger, è la prima nel nostro Paese e quindi apre finalmente una prospettiva completamente nuova integrando i temi della produzione saggistica con le vicende private.

Come era la giornata tipo di Jünger?

«Non era uno scrittore disciplinato, faceva quello che in quel momento gli passava per la mente. Sulla scrivania c’erano sempre più progetti in contemporanea, lettere, manoscritti, su due o tre livelli, e sempre tantissimi insetti. Ma si faceva facilmente distogliere dal lavoro. Bastava si presentasse una persona interessante per indurlo ad alzarsi e a dedicarsi ad essa. E poi amava moltissimo la televisione e guardava i telefilm del Tenente Colombo

Commentava le lotte partitiche degli anni ottanta?

«Aveva un distacco totale. Quando il cancelliere Helmut Schmidt perse le elezioni e Helmut Kohl divenne cancelliere, il suo commento fu laconico: “Un Helmut va, un Helmut viene”. Kohl ha cercato molto la vicinanza di Jünger, perché riteneva che la cosa gli desse prestigio, per cui andava spesso a trovarlo. Io gli chiesi: “Come mai viene così spesso?” Lui mi rispose: “Adesso basta, la mia capacità di averlo vicino è arrivata al limite”.»

In privato che giudizio dava di Kohl, Mitterand e Gonzalez?

«Kohl non era un intenditore di letteratura né un conoscitore dell’opera jüngeriana. Discorreva soprattutto della sua storia personale e Jünger ascoltava senza essere coinvolto. Quando intervenne al novantesimo compleanno di Jünger, quest’ultimo aveva appena pubblicato Un incontro pericoloso; nella dedica ironicamente gli scrisse: “Dopo un incontro non pericoloso”. Con Mitterand il dialogo era facilitato dal fatto che il Presidente francese aveva una profonda conoscenza della sua opera e nel suo staff personale c’era anche un traduttore dei libri di Jünger. González era invece un intenditore di botanica e quindi si trovavano in sintonia su questo tema.»

Il crollo del Muro lo colpì enormemente.

«“Sono molto felice che la Germania è stata riunificata”, fu il suo primo commento. Poi fece una pausa e aggiunse: “Ma ne manca ancora un terzo”, riferendosi ai territori ancora oggi parte di Polonia e Russia.»

Ha mai parlato del fatto di non aver ricevuto il Premio Nobel?

«Con me non ha mai parlato del Nobel, ma io so che l’ambasciatore Dufner, profondo conoscitore di Jünger, si era rivolto al governo tedesco affinché lo proponesse al comitato del Nobel; la risposta fu che rischiava di non essere accettato e questo sarebbe stato negativo per la sua reputazione. Fu una scusa. Comunque è nella Bibliothèque de la Pléiade dell’editore Gallimard. E lì ci sono soltanto tre tedeschi: Kafka, Brecht e Jünger.»

Come affrontò la morte?

«Ne parlava dicendo che la morte era per lui una grande curiosità. La stava aspettando perché la considerava l’inizio di un qualcosa. Aveva fatto una collezione delle ultime parole di molte persone che stavano per morire, perché voleva capire cosa si provasse di fronte alla morte. Ma la sua morte non è stata spettacolare; è morto in ospedale, anche se avevano già comprato un letto speciale per poterlo accudire a casa. Ho chiesto alla moglie se avesse detto un’ultima frase e mi ha risposto che il giorno prima aveva parlato tantissimo, ma al momento di lasciare questa vita è rimasto muto, impenetrabile. L’ultimo anno godeva di buona salute, ma la sua scrivania era praticamente vuota, non faceva quasi più niente: “Dopo cent’anni”, disse, “è stato detto abbastanza”. »

Può chiarirci le idee sulla questione della conversione?

«Jünger aveva sempre avuto una predisposizione favorevole verso il cattolicesimo, specie perché la madre, bavarese, era cattolica mentre il padre era protestante. Insomma, era come vivere un ecumenismo familiare che gli aveva dato una grande apertura su questi temi. Negli anni Venti gli piaceva molto il cattolicesimo perché era una religione combattiva, difensiva di norme certe, mentre da parte dei protestanti vedeva un abbandono di queste posizioni che avrebbe poi portato a quelli che definiva due grandi tradimenti: quello dei Deutsche Christen, schierati con il nazismo e quello della Kirche im Sozialismus integrata nel sistema comunista. Ammirava tantissimo i Gesuiti e il loro stile di vita e negli ultimi anni, viveva non lontano da casa sua un prete polacco che aveva combattuto il comunismo ed era stato vicino a Karol Wojtyła. Questo fatto lo attirava non poco. Si è convertito a 101 anni dicendo: “Adesso è venuto il momento di tornare nel luogo a me familiare, il cattolicesimo che ho conosciuto da mia madre”.»

 Fonte: Il Borghese- Agosto, Settembre 2013

jeudi, 12 septembre 2013

L’Occidente allo sbando, l’Occidente ha paura

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L’Occidente allo sbando, l’Occidente ha paura

Mr. Obama se ne faccia una ragione: il declino dell’ “Impero” è cominciato

Fabrizio Fiorini

Ex: http://www.rinascita.eu

Il diritto, interno o internazionale, scritto o consuetudinario, derivante che sia da leggi o trattati, ha nella sua stessa natura la possibilità di essere mutato, abrogato, riformulato, dimenticato, addirittura violato. Se non si fossero cancellate norme, soppresse costituzioni, denunciati trattati, se non vi fossero mai stati questi sovrani atti squisitamente politici, la società umana sarebbe rimasta innaturalmente ferma, immobile, prima di quel dinamismo sociale che la sua essenza storica ha materializzato sotto forma di stravolgimenti sociali, passaggi epocali, rivoluzioni.


Oggi, nell’Occidente dell’ipocrisia e del “dirittumanismo” non è più così. Il diritto resta, immutabile, cristallizzato, divinizzato. Protetto da vecchie cariatidi degli ordinamenti tardo-novecenteschi, da un insopportabile moralismo gauchiste, dalla supponenza indotta di aver finalmente conseguito il migliore dei mondi realizzabili, l’eden della politica e delle relazioni internazionali.


Ma il mondo non aspetta il diritto: in meglio o in peggio che sia, cambia. Non solo: la forza del diritto, nei tempi correnti, si indebolisce, contestualmente al tracollo dell’autorità e della forza delle fucine in cui questo era forgiato, gli Stati,  a vantaggio di poteri più forti ma sovranazionali, a-statali, apolidi. E allora il diritto, legato a schemi oramai preesistenti, viene semplicemente ignorato, relegato all’oblio.


Gli Stati Uniti, lo stato sionista, la Nato, l’Occidente in genere, in ispecie nel campo dei rapporti internazionali, dettano la linea di questa nuova a-giuridica. Sintetizzare in queste poche righe le violazioni del diritto internazionale da loro commesse nel corso degli ultimi decenni è non solo tecnicamente impossibile ma – considerando la “naturalezza” del loro spregio di norme che ad altri impongono con la forza – sarebbe quantomeno grottesco.
Serva, quale unico esempio, quello della guerra alla Jugoslavia del 1999 in cui la Nato trascurò di rispettare non solo una mezza dozzina di principi sanciti dal diritto internazionale ma addirittura ignorò il suo stesso statuto che all’articolo 5 prevede l’utilizzo della forza militare in caso di attacco a una delle nazioni componenti l’Alleanza; eventualità che, chiaramente, era estranea agli eventi balcanici del 1999.


Appurato che per l’Occidente, e segnatamente per gli Usa, per i sionisti, per la Nato, per la Gran Bretagna (e per la rediviva Francia) non rientra nei bisogni primari il rispetto delle disposizioni di legge (figurarsi della volontà popolare) per la messa in atto di imprese belliche e di operazioni armate in qualunque modo camuffate, risulta altamente indicativa l’inversione di rotta di questi mesi, contestualmente alla crisi siriana.


La Gran Bretagna ha abbandonato l’opzione militare in conseguenza di un voto parlamentare ostile. Negli Stati Uniti, per settimane e fino a l’altro ieri, si è parlato di “decisione del Congresso”. Stessa cosa, pur in tono minore, a Parigi. In tutti gli altri Stati satellite del libero Occidente, dall’Italia a Saint Kitts e Nevis, il coro era unanime: aspettiamo l’Onu, sentiamo cosa dice l’Onu, mai senza l’Onu. Proprio quello stesso Onu che era considerato un inutile carrozzone, era vilipeso e deriso ogniqualvolta avesse preso, fino alla guerra all’Iraq del 2003, una pur timida posizione avversa alla fregola bellica USraeliana.
Cosa si cela dietro questo inaspettato “ritorno al diritto”? Un repentino rinsavimento? Una “primavera americana”? No: la paura. Quella paura tipica di che all’improvviso esce dal suo autoreferenziale stordimento e si rende conto di essere stato messo all’angolo. Barack Obama, solo poche settimane or sono, era ancora spavaldo affermando con convinzione: “in Siria faremo come in Kosovo”. Non pensava, il tapino (forse i suoi consiglieri dell’Aipac lo tenevano all’oscuro),  che dal 1999 il mondo è cambiato, e non poco.


La “forza della ragione”, rivelatasi nel corso dei decenni poco efficace per fronteggiare la pervasiva aggressività americana, ha finalmente lasciato il posto alle “ragioni della forza”. Alla sana forza, alla rinascita e al potenziamento di Stati (pensiamo all’Iran, alla Russia, alla stessa Siria ma non solo) capaci di mettere un argine alla nuova “dottrina Monroe” applicata su scala planetaria; che hanno dimostrato che non è la “dottrina della pace” a essere vincente, ma la decisa e forte contrapposizione, l’unica “musica” che entra nelle orecchie di Washington.

 
Per la prima volta nella storia recente, gli Usa si fermano.  Non riescono a celare la loro frustrazione e il loro ridimensionamento neanche alla stampa più allineata, anche gli amici di vecchia data si fanno da parte. Addirittura il ministro Bonino tentenna, il che è tutto dire.
Mr. Obama se ne faccia una ragione: il declino dell’ “Impero” è cominciato. I popoli della terra potranno tirare un sospiro di sollievo, ma non si facciano troppe illusioni: la bestia ferita è capace di tutto.  E Tel Aviv, vedendo i suoi protettori indebolirsi, potrebbe fare di peggio.
 

11 Settembre 2013 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=22363

Syrie : Hollande et le double désaveu

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Syrie : Hollande et le double désaveu

 
Isolé au niveau international et désavoué par l’opinion publique

Jean Bonnevey et Raoul Fougax
Ex: http://metamag.fr

Décidément  la pré campagne de Syrie tourne au désastre politique pour le président français. Le matamore tricolore et la va-t-en guerre démocratique se retrouve isolé et désavoué. Isolé sur le plan international et désavoué par son opinion publique.

Les dirigeants des vingt plus grandes puissances se sont retrouvés à Saint-Petersbourg, jeudi 5 septembre, pour le premier dîner d'un G20 à l'agenda bouleversé par la Syrie. Après plusieurs jours d'échanges à distance, la tension est encore montée d'un cran entre François Hollande et Barack Obama d'un côté – qui accusent le régime de Bachar Al-Assad d'avoir tué des centaines de civils avec des armes chimiques et plaident pour une intervention militaire –  et le président russe, Vladimir Poutine, de l'autre, qui maintient son veto.
 
François Hollande n’avait  qu'un seul objectif: rallier «la coalition la plus large possible» de pays en faveur d'une intervention punitive en Syrie, aux côtés des Américains. «Nous comptons sur le soutien des Européens et des pays arabes», assurait l'entourage du chef de l'État.

C’est raté. Cela a même tourné au camouflet malgré un accord diplomatique de façade. « Les Européens se sont prononcés, à Vilnius, pour une «réponse claire et forte» à l'attaque chimique du 21 août, sans aller jusqu'à soutenir les frappes militaires souhaitées par Paris et Washington. Mais la France et l'Allemagne, jusqu'ici sur des bords opposés, ont fait les concessions nécessaires pour sortir de l'ornière » reconnait Le Figaro. Qu'est ce qu'une "réponse claire et forte" ? François Hollande était pourtant demandeur d'un accord sur des frappes contre la Syrie.

Membre du G20, représentant les 28 états membres de l'Union Européenne, le président du Conseil européen, Herman Van Rompu, flanqué du président de la Commission José Manuel Barroso a clairement rejeté l'usage de la force en Syrie. «Il n'y a pas de solution militaire au conflit en Syrie» a-t-il déclaré à Saint-Petersbourg, «seule une solution politique peut arrêter les massacres, les violations de droits de l'homme et la destruction de la Syrie».

Le président de l'UE a calqué sa position sur celle d'Angela Merkel, hostile aux frappes en Syrie, comme 70 % des Allemands, et favorable à une «solution politique dans le cadre de l'ONU».

Les Français eux ne sont plus loin du rejet allemand

Près des deux tiers des Français sont opposés à une intervention militaire internationale en Syrie en représailles à l'usage d'armes chimiques par le régime de Bachar el-Assad contre ses opposants, selon un sondage IFOP pour Le Figaro. Sur 972 personnes interrogées entre mardi et vendredi, 64 % se déclarent hostiles à une telle intervention, contre 36 % d'un avis contraire, ce qui constitue un renversement de l'opinion publique française sur cette question.
 
Début août, 55 % des personnes interrogées par l’IFOP pour le site internet Atlantico étaient favorables à ce type d'action. Le pourcentage de personnes hostiles à une intervention militaire internationale en Syrie est même désormais légèrement supérieur en France à ce qu'il est en Allemagne (63 %). 

Quant à une participation éventuelle de la France à une telle action, les Français interrogés sont massivement contre : 68 %, soit neuf points de plus qu'il y a un mois. "Voilà qui ne va pas simplifier la tâche de François Hollande", commente l'IFOP. "Alors que l'isolement du président de la République grandit sur le dossier syrien, il est désormais lâché par son opinion publique."
François hollande a commencé d’ailleurs un prudent repli stratégique.

La France n'attendra pas seulement l'issue du vote du Congrès américain, prévu «jeudi ou vendredi prochain » pour intervenir en Syrie. François Hollande attendra le rapport des inspecteurs de l'ONU sur l'utilisation des armes chimiques dans l'attaque du 21 août. «Après seulement, je m'adresserai à la nation pour faire connaître ma décision», a déclaré le chef de l'État à l'issue du sommet de Saint-Petersbourg. Il était urgent d’agir, il est maintenant urgent d’attendre. En effet la France est incapable d’agir seule. Les beaux discours n’y changent rien, ni sur la condamnation d’armes chimiques défi aux conventions internationales  ni l’amalgame douteux avec Oradour sur Glane.

Le président a parlé trop tôt pour se présenter en  leader moral de la coalition du bien. Mais il n’avait pas prévu que la coalition du bien puisse tourner mal.