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mardi, 28 avril 2009

Jean Giono e "Le Chant du Monde"

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Jean Giono e “Le Chant du Monde”

  

Giovedì 16 Aprile 2009 – 16:06 – Rinascita - http://www.rinascita.info/

  
 

Il paganesimo di Jean Giono (foto) è stato ben identificato da Thierry Maulnier, che scriveva nel 1943, nella sua rubrica del quotidiano “Laction française”: “Il signor Giono è uno di quei rari artisti per i quali il grande Pan non è morto e non è ancora pronto a morire”. Punto di vista rafforzato da quello di Henry Miller: “Nell’opera di Giono chiunque possiede una dose sufficiente di vitalità e di sensibilità, riconosce subito ‘le chant du monde’. Secondo me questo canto, di cui egli ci dà con ogni nuovo libro delle variazioni senza fine, è molto più prezioso, più commovente, più poetico del Cantico delle creature”. (The books in my life, 1951). Non si saprebbe spiegare meglio quale abisso separi il mondo biblico dall’universo di Giono.
Questo universo è bagnato di sole, di profumo di timo e lavanda, di canti di cicale. Figlio della Provenza, la sua patria, con la quale ha un profondo legame carnale, Jean Giono è nato a Manosque il 30 marzo 1895. Suo padre, calzolaio, era anche un po’ guaritore. Jean ne erediterà senza dubbio il gusto di guarire gli animi, e si cimenterà in ciò nel Contadour. Si ricorderà per tutta la vita del saggio consiglio paterno: “Diffida della ragione”. Quanto al nonno, era un carbonaro, come Angelo dell’ “Hussard sur le toit” (L’Ussaro sul tetto)... Bella eredità.
La sua infanzia, che egli descrive in “Jean le bleu”, è il momento di una scoperta meravigliata del mondo. Lui che diventerà, grazie ai suoi testi, un incantatore, è prima incantato, vale a dire è sensibile, intuitivamente, sensualmente, all’incanto del mondo. Il canto del mondo lo porta prima di tutto in se stesso.
C’è qualche merito: avendo deciso a sedici anni di lavorare per aiutare i genitori, entra come “sbriga-faccende” al Banco Nazionale di Sconto di Manosque, ove doveva restare per diciotto anni. Per evadere da questo grigiore divora in continuazione e in modo disordinato: “Il libro della giungla”, Omero, Virgilio, Stendhal, Dostoevskij, Shakespeare, i poeti tragici greci in edizione molto popolare a 50 centesimi il volume. Questa copiosa iniziazione alla letteratura gli apre il cammino verso l’universo magico della scrittura.
Ma il destino ha preparato per lui, come per quelli della sua generazione, la prova più tragica tra tutte: a venti anni conosce, durante quattro interminabili anni, l’inferno dei campi di battaglia, da Eparges a Verdun (solo undici sono i superstiti della sua compagnia), da Chemin des Dames alla 
Somme. Egli esorcizzerà questo bagno di sangue dipingendo in “Le grand truopeau” il quadro più terribile, tra quelli che conosco, delle carneficine del 1914-1918.
Dal suo matrimonio nel 1920 nasceranno Aline nel 1926 e Sylvie nel 1934. Saranno loro le custodi benevole ma tenaci del rifugio dello scrittore, che è la sua casa, poi, più tardi, della sua memoria. Ritrovando, dopo l’incubo, la sua Provenza, Giono si purifica camminando zaino in spalla sui sentieri degli altipiani spazzati dal vento e si siede, al crepuscolo, davanti al fuoco dei pastori, con i quali parla molto e dei quali saprà raccontare con fervore l’antica e semplice saggezza.
Nel 1924 inizia, a dire il vero modestamente, la sua carriera letteraria: il suo amico Lucine Jacques pubblica a proprie spese dei poemi in prosa intitolati “Accompagnés de la flute”, stampati in 300 esemplari dei quali solo 30 furono venduti. Tuttavia qui si ritrova tutto Giono: “Il silenzio a denti 
stretti cammina, a piedi nudi, lungo i sentieri”.
Nel 1927, Giono scrive “Nascita dell’Odissea” (decisamente questo provenzale si sente molto vicino a “nostra madre la Grecia”), testo rifiutato da Grasset. che si precipiterà a pubblicarlo nel 1930, perché nel frattempo Giono si è fatto conoscere. Grazie a Gide, che ha diffuso a Parigi tutte le opinioni positive che ha di questo sconosciuto nella rivista “Commerce” (che ha lanciato, pensate un po’, Fargue, Valéry, Joyce), egli ha pubblicato nel 1929 “Colline”, il cui tema è il ritorno del “Grande Pan”. Lo stesso paganesimo, campestre e gioioso, si esprime in “Un de Baumugnes”, pubblicato anch’esso nel 1929, poi, l’anno successivo, con “Regain”. Seguono a raffica: 
“Solitude de la pitié”, “Présentation de Pan”, “Manosque des plateaux” e “Le serpent d’étoiles” (1933), “Le chant du monde” (1934), “Que ma joie demeure” (1935). Ecco un autore inesauribile. Ma il fatto è che lui canta, in ogni libro, il suo Paese, la Haute Provence, questa terra di montagne aspre ove bruciano il sole e le erbe aromatiche.
Un Paese di grande tradizione 
pastorale e poetica, dove la montagna realizza, nel suo silenzio e nella sua nudità, l’unione dell’uomo con l’Universo. “La montagna è mia madre” dichiara Giono in “Voyage en Italie” (1953).
Lassù, sulle rocce, tra i cespugli secchi odorosi o nelle foreste e nell’erba alta, la vita è potente e semplice, il ritmo dei giorni è lo stesso ritmo della natura. I venti avvolgono tutto. Gli alti pianori sono luoghi d’esaltazione, di comunione, agitati da un fremito continuo, da un linguaggio, come le querce di Dodona. Perché la natura parla a quelli che sanno ascoltarla (gli incantatori lo sanno, e Giono è un incantatore). E questo linguaggio afferma che tutto è vita: desiderio, piacere, dolore, crescita, scambio. La natura è vita. Il contadino di “Colline” lo sa bene: “Egli pensa che uccide quando taglia un albero. Uccide quando falcia. Ogni cosa è dunque vivente? Tutto, bestie, piante, e chi lo sa? Forse anche le pietre”. Questo è, dalla Grecia antica, il messaggio panteista che, camminando attraverso il tempo, è giunto fino a noi, grazie ad una catena di messaggeri, e Giono ne è evidentemente un anello fondamentale. Perché i personaggi di Giono camminano in mezzo all’ “immensa folla degli dei”. Dove sono questi dei? “Sono nell’animo e nella bellezza degli alberi, succo e cuore brillante dei vegetali, istinto di battersi e di amare delle giovani bestie, dolcezza feconda delle donne”. Tutto è un segno. Bobi, in “Que ma joie demeure” è affascinato dalle costellazioni, che sono altrettanti messaggi nel cielo: “Guarda i segni”. E “Jean le bleu”, cominciando la sua vita di uomo, afferma: “Ogni parola mi diceva l’importanza del sangue”.
L’uomo e gli alberi appartengono allo stesso mondo: “Gli alberi avevano l’odore penetrante di quando sono in amore”. E aggiunge: “L’uomo è come il fogliame attraverso il quale bisogna che passi il vento perché questo canti”. Il panteismo è la comunione con l’Universo, consiste nel collegarsi al divino dappertutto presente nel mondo, poiché il mondo è divino, e Giono lo sa bene: “I temporali, il vento, la pioggia, non ne gioisco più come un uomo, ma sono io il temporale, il vento, la pioggia”.
Bisogna qui metter fine allo stupido controsenso operato da Claudine Chonez (Giono, 1956, Le Seuil) quando afferma perentoria: “Non c’è religione in Giono”. Due possibilità: o lei non ha letto veramente Giono o confonde (ma non è la sola, perché duemila anni di condizionamento mentale hanno avuto la stessa difficoltà a distinguerli) religione e monoteismo.
Sicuramente lo stesso Giono può aumentare la confusione quando dichiara a Jean Carrière (Giono, La Manufacture, 1985): “Ammetto di non essere adatto per Dio”. Ma è un errore precisare che il dio biblico e gli Dei non solo non sono la stessa cosa, ma che sono anche, senza possibilità d’errore, due concezioni 
perfettamente e irrimediabilmente incompatibili.
D’altronde ogni ambiguità sparisce quando Giono si prende la pena di demolire la truffa intellettuale che è la confusione tra ateismo e paganesimo. Egli spiega il suo punto di vista, ed in maniera insistente, dialogando con Christian Michelfelder (Jean Giono et les religions de la terre, 1938, Gallimard): “L’affermazione dell’uomo libero si esprimerà sempre in una sorta di paganesimo molto colorato d’umanesimo. E questo è il motivo per cui sarà un paganesimo umano a salvarci. L’ateo dice no, si accontenta di rifiutare.
Ma il pagano desidera, vuole, e quindi distrugge e ricostruisce. Il vero mondo sarà un mondo di pagani. L’umanesimo pagano è la grande affermazione dell’uomo pieno di vita. Resta nell’ateismo qualcosa dell’atmosfera triste delle religioni spiritualiste. Bisogna tuttavia mettere da parte i mistici. Ma il paganesimo libera veramente”.
Gran lettore di Omero, di Eschilo, di Sofocle, Giono afferma un paganesimo vitale e cosmico per mezzo di numerosi suoi testi. Perché là sono le vere ricchezze (Les vraies richesses, 1937): “Noi siamo degli elementi cosmici”.
Questa comunione con il cosmo è il messaggio che predica il patriarca di Contadour, in questa comunità fervente e calorosa che ha raggruppato in un luogo solitario una cinquantina di persone tra il 1935 e il 1939. Con la pubblicazione dei “Cahiers de Contadour”, ai quali ha collaborato un certo Marc Augier, sedotto dal carattere fortemente influenzato da Nietzsche di un Giono che insegna, come Zarathustra, ai suoi ascoltatori - discepoli: “La soluzione è attuabile attraverso ciascuno”.
Il divino, Giono lo percepisce nelle stelle (Le serpent d’étoiles), nell’acqua (Colline), nella terra (Que ma joie demeure), questa terra materna e dura, amara e dolce. Ma anche negli animali, questi intermediari tra l’uomo e l’inanimato (o almeno che ha l’aspetto dell’inanimato). Tutto è vita: “Tutti gli errori dell’uomo derivano dal fatto che egli immagina di camminare su una cosa morta mentre i suoi passi s’imprimono in una carne piena di grande volontà”.
Giono è un autore che scuote dal torpore (alcuni direbbero un iniziato ma è la stessa cosa). Egli ha in effetti la capacità rara di risvegliare il lettore, di farlo passare dall’altro lato dello specchio, con poche parole molto semplici.
Lo testimonia Jean Carrière: “Avevo quattordici anni quando 
ho letto il primo libro di Giono, ‘Que ma joie demeure’. La prima frase resterà per me la chiave di volta della magia, ‘Era una notte straordinaria’. Ogni volta che rileggo quella frase passa in me la stessa piccola scossa, quella di un bambino meravigliato dal respiro delle foreste. La magia funziona ancora oggi. Divento di nuovo lo stesso bambino meravigliato”.
Stupore: la capacità di stupire è una qualità rara, una ricchezza che proviene dall’infanzia e che pochi hanno la fortuna (o la volontà) di conservare e che provoca la presa in giro delle “persone serie”, vale a dire vecchie (perché l’età non centra niente, nel caso specifico molti sono vecchi a vent’anni: poveri loro). Stupore davanti al mondo, davanti alla vita, questo miracolo, perché al contrario di ciò che dice “L’Ecclesiaste” (“Vanità delle vanità, tutto è vanità” Bibbia, Libro dell’Ecclesiaste, Prologo 1,2-11), Giono afferma che “Rien n’est vanità” (inedito, presentato da Christian Michelfelder): “Guarda come tutto conta, come tutto prende posto. Perché ci si è lasciati dire che tutto è vanità? L’acqua, e il prato, e il vento, e Yvonne. Colui che è solo, in piedi nella notte, canta come un albero ed è tutto sconvolto dalla canzone della sua carne. Sono sempre gli stessi che si stupiscono di San Francesco che parla agli uccelli”.
Perché la vita è un’acqua di sorgente che cola tra le dita. Bisogna vivere ogni istante come se dovesse essere l’ultimo. In Svizzera, spellando un camoscio, Giono medita: “Qui è il mistero della vita e del mondo. E un po’ di succo verde, come una pania tra le mie dita. Ciò che sarò un giorno io stesso nel corso della mia trasformazione tra carne e pianta, tra pianta e pietra, tra pietra e cielo, tra polvere di stella e spermatozoo in cammino nelle spine dorsali”. Ecco sorto il tema dell’eterno ritorno, della ruota che gira senza fine, la ruota solare che è simbolo di ogni vita. Una vita 
che non ha bisogno di giustificazioni, che basta a se stessa come portatrice di senso in sé: “Noi abbiamo dimenticato che il nostro solo scopo è quello di vivere e che, vivere, noi lo facciamo ogni giorno e tutti i giorni e che a tutte le ore del giorno noi raggiungiamo il nostro vero scopo se viviamo”. (Rondeur des Jours, 1937).
Apollineo per molti tratti della sua opera, Giono è anche, profondamente, dionisiaco, come l’ha ben compreso Christian Michelfelder sottolineando che uno degli obiettivi dello scrittore è quello di “rimettere l’uomo nel seguito di Dioniso”.
L’eremita di Manosque, del resto, spiega lui stesso ciò 
attraverso certe immagini evocatrici. Per esempio, per descrivere nella prefazione delle “Vraies richesses” (1936) la montagna, la sua montagna di Lure, dice: “Questa montagna di Lure, che si alza nel cielo non come un picco ma come il dorso mostruoso del toro di Dioniso”. Davanti a questa montagna l’uomo si sente messo di fronte alla terra”.
Si ritrova qui l’influenza di Virgilio, già manifesta dagli “Accompagnés de la flute”: “Sia che discenda nel mezzo dei fiumi del frutteto, o che s’insinui nel canneto, questo respiro che tu credi essere il vento è esalato dal dio seduto lassù sulla collina, in mezzo alle piante di salvia del cielo”. Si pensa all’Eneide, libro VIII: “Su questa collina dalla cima verdeggiante, un dio, quale non si sa, sì, un dio risiede qui”. E, dice Giono, bisogna tendere l’orecchio: “E vedi, sotto la sua voce musicale, che goccia a goccia questa sera cola attraverso i pini, commuoversi le piccole gole bianche di questo caprifoglio, ed alzarsi l’onda silenziosa degli ulivi argentati”.
Giono il meditativo è anche un uomo impegnato civilmente. Fa parte di quelli che, avendo vissuto sulla loro pelle il 14-18, non vogliono veder tornare la carneficina stupida e fratricida. E in prima fila nella lotta dei pacifisti quando firma un telegramma intimidatorio a Daladier e Chamberlain, in data 11 settembre 1938. Per questo è arrestato e rinchiuso nel forte di Saint-Nicolas a Marsiglia, il 3 settembre 1939. Nonostante le proteste di qualche coraggioso, tra cui Gide, ci resta fino a novembre. Durante la guerra conduce una vita ritirata scrivendo poco. Ma commette un errore fatale facendo pubblicare una novella sul giornale “La Gerbe” (1). Questo lo porta ad essere arrestato nel 1944 per collaborazionismo da giustizieri improvvisati, e messo in prigione per sette mesi, nel forte di Saint-Vincent, nelle Hautes Alpes. Il comitato centrale degli scrittori, controllato dai comunisti, lo iscrive, naturalmente, nella sua lista nera, destinata ad impedire di esprimersi ormai ad un gran numero di scrittori, tra i quali figurano i più grandi nomi della letteratura contemporanea. Ciò si chiama epurazione. Il crimine di Giono? Tutta la sua opera lo dice: avrebbe potuto essere l’autore della famosa formula “maréchaliste” (del Maresciallo Petain), “la terra non mente”.
Si capisce di colpo perché egli abbia potuto essere considerato da alcuni come un elemento particolarmente perverso e pericoloso.
Disincantato, Giono si volta verso una nuova tappa della sua opera. I suoi romanzi, che conosceranno un grande successo, sono ormai sprovvisti di ogni aspetto militante. Ma lo fanno affermare definitivamente come un grandissimo scrittore, riconosciuto come tale durante la sua elezione nel 1954 all’Accademia Goncourt (e, segno degli dei, per occupare il posto di Colette). Quindi fa l’esperienza dell’avventura cinematografica, realizzando nel 1960 il suo “Crésus”, impersonato da Fernandel. Il mondo del cinema gli affida la presidenza della giuria del Festival di Cannes nel 1961. Giono non è più un maledetto, perché il suo genio ha vinto i mediocri. Dopo la sua morte a Manosque nella notte tra l’8 e il 9 ottobre 1970, la Pléiade gli rende molto in fretta un giusto riconoscimento pubblicando in sei volumi la sua opera romanzesca, tra il 1971 e il 1983.
Noi conserviamo nel cuore l’immagine di colui che ci ha risvegliato al canto del mondo. Colui che diceva: “Il poeta deve essere un professore di speranza”. E nell’ultima frase dei “Grands Chemins” ci dà la ricetta della speranza: “Il sole non è mai così bello come il giorno in cui ci si mette in cammino”.
Allora mettiamoci in cammino. Sappiamo che Jean Giono camminerà al nostro fianco.

Pierre Vial

nota
(Tratto dal libro di Pierre Vial “Anthologie payenne”, Les Editions de la Forèt, Solstizio d’estate 2757 Ab Urbe Condita (2004) 308 pagine, formato 210 x 140, ISBN: 2-9516812-3-2, 23 euro.
Richiedere a: Les Editions de la Forèt 87, Monte des Grapilleurs, F 69380 Saint Jean des Vignes
France o all’indirizzo www.terreetpeuple.com
E-mail:contact@terreetpeuple.com

A lungo si rinfaccerà a Giono la pubblicazione di Deux cavaliers de lorage nella rivista La Gerbe (1), e  Description de Marseille le 16 octobre 1939 ne La Nouvelle revue française (2) di Drieu La Rochelle, ed un reportage fotografico su di lui apparso su Signal (edizione francese del periodico tedesco). A lui sarà imputata anche una certa vicinanza alle idee del regime di Vichy (ritorno alla terra e all’artigianato, esaltazione della giovinezza), idee che Giono veicolava da molti anni. Le idee di Giono si riaffermano nella nuova edizione del 1941 del Triomphe de la vie. Il libro, assai ben accolto dalla stampa della collaborazione, sarà uno dei capi d’accusa per lo scrittore al termine della guerra. Nel 1943 Giono pubblica L’eau vive e Fragments d’un paradis.
(1) La Gerbe, fondato e diretto da Alphonse de Chàteaubriant l’11 luglio 1940 reca come sottotitolo “Settimanale della volontà francese”. Con tiratura di 140.000 copie, dopo, “Je suis partout”, è la pubblicazione collaborazionista più seguita. I suoi principali redattori sono il corrispondente di guerra Marc Augier, più prossimo al direttore e noto in seguito come Saint-loup, il cattolico monarchico Bernard Fay, l’ex comunista poi doriotista Camille Fègy, e diversi altri, tra i quali Alfred Canton, Luois-Charles Lecoc, Louis Thomas, Michèle Lapierre, Jean Passere, Maurice Morel, Aimé Cassar, André Castelot, Claude Cabry. Tra i collaboratori del giornale figura inoltre il quasi intero Gotha della Collaborazione: Jacques Benoist-Méchin, Abel Bonnard, Georges Montandon, Pierre Drieu La Rochelle, Jacques de Lesdain, Ramon Fernandez, Jean Hérold-Paquis, il nipote di Gobineau Clément Serpeille, Armand Petitjean e ancora Jean Anouilh, Henry de Montherlant, Paul Morand, Jean-Pierre Maxence, Marcel Aymé, Dominique Sordet, Pierre Mac Orlan, Maurice Rostand, Jean Giono, Jean de La Varende.Da Moreno Marchi ‘I duri di Parigi. L’ideologia, le riviste, i libri’, Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 67.
“L’antesignano Giono, piuttosto prossimo al governo del Maresciallo”, (pag.13) Al di là dei suoi atteggiamenti intransigenti, o forse proprio per questo, collaborano a “Je suis partout”, molti tra i maggiori intellettuali dell’epoca, tra i quali Pierre Drieu La Rochelle, Jean Anouilh, Marcel Aymé, Jean Goino, Pierre Mac Orlan, André Fraigneau, Jean de La Varende, Abel Bonnard. Vi compaiono inoltre alcune lettere di Louis-Ferdinand Céline, secondo la sua abitudine di mantenere rapporti con i giornali solo a livello epistolare, e addirittura, 11 agosto 1941, un racconto Mort subite, dell’italiano Alberto Moravia. Ma sapeva quest’ultimo che si trattava di una pubblicazione antisemita? E, di converso, sapeva la redazione che si trattava di uno scrittore per metà ebreo?’, Moreno Marchi “I duri di Parigi. L’ideologia, le riviste, i libri”, Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 65.
(2) “La Nouvelle revue française” è una prestigiosa rivista letteraria mensile fondata nel 1909 da Gaston Gallimard. Dopo aver interrotto le pubblicazioni per motivi bellici nel luglio del 1940, La Nouvelle revue française ricompare nel successivo dicembre, per volontà e sotto gli auspici dell’ambasciatore ed alto commissario tedesco a Parigi Otto Abetz. La dirige Pierre Drieu La Rochelle. (...) Lo stesso fatto di scrivere o meni sulla NRF rappresenta un termometro della popolarità alla quale è difficile rinunciare. Ecco così che tra scrittori ed intellettuali direttamente impegnati nella politica di collaborazione ed altri, che non lo sono o che vi discordano, su la Nouvelle revue française si ritrova alfine quasi l’intero l’empireo delle lettere francesi: André Gide, Paul Valere, Henry de Montherlant, Paul Léautaud, Marcel Aymé, Paul Morand, Abel Bonnard, Paul Eluard, Marcel Jouhandeau, Jean Giono, Ramon Fernandez, Alfred Fabre-Luce, Jacques Chardonne, Marcel Arland, AndrÀ© Fraigneau. Moreno Marchi “I duri di Parigi. L’ideologia, le riviste, i libri”, Ed. Settimo Sigillo, 1997, pag. 76

Bibliografia italiana:
Lettera ai contadini sulla povertà e la pace, Ed. Ponte alle grazie, 2004; Note su Machiavelli. Con uno scritto su Firenze, Medusa Edizioni, 2004; Due cavalieri nella tempesta, Ed. Guanda, 2003; L’uomo che piantava gli alberi, Edizioni Angolo Manzoni, 2003; L’affare Dominaci, Ed. Sellerio, 2002; Angelo, Ed. Tea, 2002; Il serpente di stelle, Ed. Guanda, 2002; Morte di un personaggio, Ed. Passigli, 2001; Un re senza distrazioni, Ed. Guanda, 2001; L’ussaro sul tetto, Ed. Corbaccio, 2001; Il bambino che sognava l’infinito, Ed. Salani, 2000; La menzogna di Ulisse, Ed. Robin, 2000; Una pazza felicitÀ , Ed. Tea, 200°; Il ragazzo celeste, Ed. Guanda, 1999; Collina, Ed. Guanda, 1998; Risveglio, Ed. Passigli 1997; La fine degli eroi, Ed. Sellerio, 1996; Il disertore, Ed. Guanda,

Traduzione, note, bibliografia e iconografia a cura di
Harm Wulf

An Interview with Dominique Venner

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An Interview with Dominique Venner

 

 

by Michael O'Meara

TRANSLATOR’S NOTE: It’s testament to the abysmal state of our culture that hardly one of Dominique Venner’s more than forty books have been translated into English. But everything he writes bears directly on us — “us” here referring not specifically to the anglophone world, but to the European world that exists wherever white men still carry on in any of the old ways.

Venner is more than a gifted historian who has made major contributions to the most important chapters of modern, especially 20th-century European history. He has played a key role in both the development of the European New Right and the “Europeanization” of continental nationalionalism.

It is his “rebel heart” that explains his engagement in these great struggles, as well as his interests in the Russian Revolution, German fascism, French national socialism, the U.S. Civil War, and the two world wars. The universe I’ve discovered in his works is one that reminds me of Ernst von Salomon’s “Die Geächteten” — one of the Homeric epics of our age.

The following interview is about the rebel. Unlike the racial conservatives dominant in U. S. white nationalist ranks, European nationalism still bears traces of its revolutionary heritage — opposed as it is not merely to the alien, anti-national forces, but to the entire liberal modernist subversion, of which the United States has been the foremost exemplar. -Michael O’Meara

Question: What is a rebel? Is one born a rebel, or just happens to become one? Are there different types of rebels?

Dominique Venner: It’s possible to be intellectually rebellious, an irritant to the herd, without actually being a rebel. Paul Morand [a diplomat and novelist noted for his anti-Semitism and collaborationism under Vichy] is a good example of this. In his youth, he was something of a free spirit blessed by fortune. His novels were favored with success. But there was nothing rebellious or even defiant in this. It was for having chosen the side of the National Revolution between 1940 and 1944, for persisting in his opposition to the postwar regime, and for feeling like an outsider that made him the rebellious figure we have come to know from his “Journals.”

Another, though different example of this type is Ernst Jünger. Although the author of an important rebel treatise on the Cold War, Jünger was never actually a rebel. A nationalist in a period of nationalism; an outsider, like much of polite society, during the Third Reich; linked to the July 20 conspirators, though on principle opposed to assassinating Hitler. Basically for ethical reasons. His itinerary on the margins of fashion made him an anarch, this figure he invented and of which after 1932 he was the perfect representative. The anarch is not a rebel. He’s a spectator whose perch is high above the mud below.

Just the opposite of Morand and Jünger, the Irish poet Patrick Pearse was an authentic rebel. He might even be described as a born rebel. When a child, he was drawn to Erin’s long history of rebellion. Later, he associated with the Gaelic Revival, which laid the basis of the armed insurrection. A founding member of the first IRA, he was the real leader of the Easter Uprising in Dublin in 1916. This was why he was shot. He died without knowing that his sacrifice would spur the triumph of his cause.

A fourth, again very different example is Alexander Solzhenitsyn. Up until his arrest in 1945, he had been a loyal Soviet, having rarely questioned the system into which he was born and having dutifully done his duty during the war as a reserve officer in the Red Army. His arrest, his subsequent discovery of the Gulag and of the horrors that occurred after 1917, provoked a total reversal, forcing him to challenging a system which he once blindly accepted. This is when he became a rebel — not only against Communist, but capitalist society, both of which he saw as destructive of tradition and opposed to superior life forms.

The reasons that made Pearse a rebel were not the same that made Solzhenitsyn a rebel. It was the shock of certain events, followed by a heroic internal struggle, that made the latter a rebel. What they both have in common, what they discovered through different ways, was the utter incompatibility between their being and the world in which they were thrown. This is the first trait of the rebel. The second is the rejection of fatalism.

Q: What is the difference between rebellion, revolt, dissent, and resistance?

DV: Revolt is a spontaneous movement provoked by an injustice, an ignominy, or a scandal. Child of indignation, revolt is rarely sustained. Dissent, like heresy, is a breaking with a community, whether it be a political, social, religious, or intellectual community. Its motives are often circumstantial and don’t necessarily imply struggle. As to resistance, other than the mythic sense it acquired during the war, it signifies one’s opposition, even passive opposition, to a particular force or system, nothing more. To be a rebel is something else.

Q: What, then, is the essence of a rebel?

DV: A rebel revolts against whatever appears to him illegitimate, fraudulent, or sacrilegious. The rebel is his own law. This is what distinguishes him. His second distinguishing trait is his willingness to engage in struggle, even when there is no hope of success. If he fights a power, it is because he rejects its legitimacy, because he appeals to another legitimacy, to that of soul or spirit.

Q: What historical or literary models of the rebel would you offer?

DV: Sophocles’ Antigone comes first to mind. With her, we enter a space of sacred legitimacy. She is a rebel out of loyalty. She defies Creon’s decrees because of her respect for tradition and the divine law (to bury the dead), which Creon violates. It didn’t mater that Creon had his reasons; their price was sacrilege. Antigone saw herself as justified in her rebellion.

It’s difficult to choose among the many other examples. . . . During the War of Succession, the Yankees designated their Confederate adversaries as rebels: “rebs.” This was good propaganda, but it wasn’t true. The American Constitution implicitly recognized the right of member states to succeed. Constitutional forms had been much respected in the South. Robert E. Lee never saw himself as a rebel. After his surrender in April 1865, he sought to reconcile North and South. At this moment, the true rebels emerged, who continued the struggle against the Northern army of occupation and its collaborators.

Certain of these rebels succumbed to banditry, like Jesse James. Others transmitted to their children a tradition that has had a great literary posterity. In the “Vanquished,” one of William Faulkner’s most beautiful novels, there is, for example a fascinating portrait of a young Confederate rebel, Drusilla, who never doubts the justice of his cause or the illegitimacy of the victors.

Q: How can one be a rebel today?

DV: How can one not! To exist is to defy all that threatens you. To be a rebel is not to accumulate a library of subversive books or to dream of fantastic conspiracies or of taking to the hills. It is to make yourself your own law. To find in yourself what counts. To make sure that you’re never “cured” of your youth. To prefer to put everyone up against the wall rather than to remain supine. To pillage in this age whatever can be converted to your law, without concern for appearance.

By contrast, I would never dream of questioning the futility of seemingly lost struggles. Think of Patrick Pearse. I’ve also spoken of Solzhenitsyn, who personifies the magic sword of which Jünger speaks, “the magic sword that makes tyrants tremble.” In this Solzhenitsyn is unique and inimitable. But he owed this power to someone who was less great than himself. To someone who should gives us cause to reflect. In “The Gulag Archipelago,” he tells the story of his “revelation.”

In 1945, he was in a cell at Boutyrki Prison in Moscow, along with a dozen other prisoners, whose faces were emaciated and whose bodies broken. One of the prisoners, though, was different. He was an old White Guard colonel, Constantin Iassevitch. He had been imprisoned for his role in the Civil War. Solzhenitsyn says the colonel never spoke of his past, but in every facet of his attitude and behavior it was obvious that the struggle had never ended for him. Despite the chaos that reigned in the spirits of the other prisoners, he retained a clear, decisive view of the world around him. This disposition gave his body a presence, a flexibility, an energy that defied its years. He washed himself in freezing cold water each morning, while the other prisoners grew foul in their filth and lament.

A year later, after being transferred to another Moscow prison, Solzhenitsyn learned that the colonel had been executed. “He had seen through the prison walls with eyes that remained perpetually young. . . . This indomitable loyalty to the cause he had fought had given him a very uncommon power.” In thinking of this episode, I tell myself that we can never be another Solzhenitsyn, but it’s within the reach of each of us to emulate the old White colonel.

French Original
“Aujourd’hui, comment ne pas être rebelle?”
http://www.jisequanie.com/blogs/index.php?2006/06/18/13-entretien
avec-dominique-venner-comment-peut-on-ne-pas-etre-rebelle

On Venner
“From Nihilism to Tradition”
http://www.theoccidentalquarterly.com/vol4no2/mm-venner.html

lundi, 27 avril 2009

Historique de la crise financière des subprimes

Historique de la crise financière des subprimes

Par Janpier DUTRIEUX

Europe Nous publions un article de notre ami Janpier Dutrieux paru sur son site prosperite-et-partage.org

1. L’étincelle

Nous sommes à la fin des années 1990. Le marché immobilier américain est tendanciellement à la hausse. Les taux d’intérêt de la FED (Réserve fédérale) sont alors peu élevés. Assurées de la hausse progressive de l’immobilier et conscientes de la faiblesse des taux d’intérêt, les banques et les sociétés de prêts immobiliers se lancent dans la distribution de crédits immobiliers hypothécaires (ou mortage), à taux variables, et à hauts risques (subprimes) auprès d’une clientèle à bas revenus, et en situation précaire.

Avec la hausse, chacun espérait revendre plus cher. Pour se procurer des liquidités et conforter leur bilan, ces banques et sociétés de prêt revendirent leurs créances à risque auprès d’autres banques et de fonds spéculatifs 1 sur les marchés boursiers internationaux en les titrisant 2. Par exemple, la Banque de Chine détenait 10 milliards de dollars en titre « subprime » en fin août 2007.

Cependant, la FED commença à relever ses taux d’intérêt dans le courant de l’année 2004. Les banques qui avaient consenti les prêts immobiliers commencèrent alors à solliciter très agressivement tous les propriétaires (par courrier, téléphone, etc.) pour les inciter à monétiser leur plus value immobilière, c’est-à-dire à reprendre un crédit pour financer la hausse du crédit en cours souscrit à taux variable. Aux Etats-Unis, en effet, le bien acheté à crédit est hypothéqué et permet de garantir de nouveaux crédits. Malgré ces nouveaux crédits, de nombreux ménages ne purent plus financer leurs crédits. Leurs biens immobiliers furent mis en vente.

Mais, conséquence de la hausse des taux d’intérêt, la valeur de l’immobilier baissa alors que les taux d’intérêt s’élevaient. Avec des prêts à taux variables, les ménages ne purent plus rembourser une valeur immobilière achetée au plus haut prix. Les banques qui avaient prêté ne purent plus recouvrer leurs créances puisque la valeur du bien baissait sur le marché. Il en fut de même des autres banques et fonds qui avaient racheté ses créances titrisées. Les premières difficultés du crédit hypothécaire américain apparurent en fin 2006.

Les procédures de saisie s’élevèrent aux Etats-Unis et dépassèrent le million dans les 6 premiers mois de 2007, soit une procédure sur 112 foyers, notamment en Californie, en Floride, au Michigan, en Ohio et en Géorgie. Les emprunteurs se retrouvèrent à la rue, les prêteurs en faillite, les titres subprimes se négociaient de moins en moins sur les marchés financiers, les banques manquaient de liquidités, les clients perdaient confiance, le crédit allait manquer, l’activité économique se réduire, les marchés s’étioler et les bourses des valeurs s’effondrer.

2. Le vent incendiaire

La titrisation des créances à risque (supprime) a permis aux banques qui avaient accordé ces crédits immobiliers à des ménages américains de s’en débarrasser et de transférer le risque de non recouvrement aux institutions financières acquéreuses (banques et fonds spéculatifs notamment) sur un marché international. « La mondialisation financière fait qu’il est bien difficile, si le feu n’est pas circonscrit au départ, de l’arrêter ensuite. Il explique que les difficultés d’un compartiment très étroit du crédit immobilier américain se transforment en une crise bancaire puis monétaire et financière sur toute la planète. Tout le monde est aujourd’hui concerné par ce qui se passe chez son voisin 3. »

La création monétaire : Le banquier joue entre les flux entrants (dépôts nouveaux et retour de crédits consentis) et sortants (crédits consentis) en créant de la monnaie (de crédit bancaire ex nihilo) par duplication monétaire (en accordant des crédits de plus long terme que les dépôts qui les couvrent). Autrement dit, il prête de l’argent qu’il ne possède pas dans ses caisses. Il prête en anticipant la rentrée de dépôts : ce sont les crédits qui font les dépôts.

Banque centrale : Quand une banque (secondaire) manque de dépôts pour couvrir les retraits, elle se refinance auprès d’autres banques (marché interbancaire) ou, à défaut, auprès de la Banque centrale, préteur en dernier ressort. La Banque centrale dispose de plusieurs instruments de régulation monétaire (taux d’intérêt, appel d’offres, prise en pension, réserves obligatoires, open market).

Création et destruction monétaires : « (…) C’est le principe fondamental de la création monétaire : si je fais un crédit papier de 100 et si je sais qu’une grande partie de ce crédit reviendra chez moi banquier, je peux multiplier le crédit bien au-delà du stock d’or dont je dispose. (…) Le mécanisme est décrit dans l’adage : « les prêts font les dépôts ». Le crédit fait les dépôts, il fait l’argent. Et non l’inverse ! Avis à ceux qui croient que l’épargne fait l’argent. Quel contresens économique ! (…) Mais la vraie garantie de la création monétaire, c’est l’anticipation de l’activité économique, du cycle production consommation. Encore faut-il que cette anticipation soit saine : toute création monétaire saine débouche sur une destruction monétaire équivalente. (…) Nous percevons mieux la nature de la monnaie : des dettes (des créances sur la banque émettrice) qui circulent. Des dettes qui, si elles sont saines, doivent, par l’activité économique, provoquer leur remboursement. Aujourd’hui, la monnaie est détachée de tout support matériel, on peut en créer à l’infini. » Bernard Maris, Anti-manuel d’économie, éd. Bréal, oct. 2003, p. 219

Les banques n’osèrent plus se prêter mutuellement des liquidités contre des titres. La crise immobilière dégénéra ainsi en crise des marchés, puis en crise du crédit. Quelques conséquences : BNP Paribas annonça le gel de 3 SICAV monétaires investies dans des titres adossés à des crédits subprimes américains le jeudi 9 août, le lendemain les Bourses mondiales enregistraient le risque : - 3,71 % à Londres, - 3,13 à Paris, - 1,48 % à Frankfort, - 3,05 à Amsterdam, - 4,20 % à Séoul. Le 16 septembre, la clientèle de la banque britannique Northern rock commença à former de longues files d’attente pour retirer leurs dépôts. Plus de 8 % de ses dépôts totaux, soit plus de trois milliards d’euros, furent retirés 4. Les Banques centrales, prêteurs en dernier ressort, prirent conscience du risque d’assèchement monétaire (credit crunch), et des conséquences systémiques (effet domino, effet papillon, contagion et récession) de la crise. La BCE fut la première à injecter des liquidités à court terme (148 milliards d’euros le 9 août) suivie par la FED (59 milliards de dollars le 10 août), qui baissa fin 2007 ses taux de 0,75 % en les ramenant à 3,50 %. En fin janvier 2008, son principal taux était raméné à 3 % contre 5,25 % en août 2007. Conséquence, le dollar baissa encore, élevant mécaniquement l’euro. Un euro valait 1,4905 dollar le 31 janvier 2008. Les Européens apprécient.

Enfin, ce furent les fonds souverains 5 qui vinrent investir dans les banques et les sociétés qui accusaient des dépréciations de capital consécutives à la crise des titres subprimes en les privant d’une partie de leur indépendance. De nombreuses banques, ébranlées par cette crise, autorisèrent l’arrivée dans leur capital de fonds souverains (Citygroup, Barclays, Fortis). Ainsi, le 11 décembre 2007, UBS, première banque suisse, qui annonçait des pertes capitalistiques de 10 milliards de dollars (6,8 milliards d’euros). fit appel à l’Agence d’investissement du gouvernement de Singapour, qui y investit 6,6 milliards d’euros, soit 9 % du capital.

Mais ces actions ne semblent pas suffire pour ramener la confiance. L’action des Banques centrales devient toujours plus délicate. Une baisse des taux d’intérêt peut être mal interprétée par les marchés ou ne profiter qu’à des opérations spéculatives avec effet de levier (LBO) 6 sans entraîner la production. Les craintes que cette crise affecte l’économie réelle, et en premier lieu, les Etats-Unis, locomotive (à crédit) du monde, et dégénère en récession mondiale, sont d’actualité.

3. Boucs émissaires et critiques

Comme dans chaque crise ou krach, on recherche des coupables. En 1929, ce furent les ventes à découvert, en 1987, les programmes automatiques d’achats et de ventes, en 2007, on accusa l’opacité des bilans des banques qui ne font pas apparaitre les crédits à risques, les agences de notation 7 accusées d’apprécier la rentabilité au détriment de la sécurité, et les fonds d’investissements et spéculatifs « hedge funds ».

Cette crise résulte de deux facteurs :

1- elle fut généré parce que l’on a prêté à des gens peu solvables lorsque les taux d’intérêt étaient bas. 2- elle s’intensifia car les prix de l’immobilier baissèrent. Baisse consécutive à la remontée des taux d’intérêt de la FED. C’est une conséquence de la baisse des prix de l’immobilier et des facilités monétaires.

La crise des subprimes est la première grande crise systémique bancaire qui trouve son origine dans les crédits des ménages.

On notera que la BCE fut a priori « la plus active, en injectant plus de 250 milliards d’euros, une opération qui a eu pour effet de provoquer un gonflement de la masse monétaire, donc en totale contradiction avec son discours de vigilance anti-inflationniste. »

Inversement, on peut se demander pourquoi dès la fin 2006, « la FED n’a rien entrepris pour tenter d’éteindre l’incendie avant qu’il ne se propage. Les Banques centrales censées veiller à la stabilité financière mondiale ne viennent pas seulement de démontrer leur impuissance à prévenir les crises, mais aussi leur incapacité à les gérer en douceur » 8.

On oublie trop souvent l’analyse de Clément Juglar : « Qu’est-ce que le crédit », soulignait-il, c’est « le simple pouvoir d’acheter en échange d’une promesse de payer », mais comme « la fonction d’une banque ou d’un banquier est d’acheter des dettes avec des promesses de payer, (….) la pratique seule du crédit amène ainsi, par l’abus qu’on est porté à en faire, aux crises commerciales » 9.

« Les banques créent de la monnaie très simplement. Lorsque le titulaire d’un compte obtient un prêt à court terme (moins d’un an), par exemple une avance sur salaire : dans ce cas, la banque inscrit au crédit du bénéficiaire la somme demandée (d’où le terme de crédit). Elle a créé de la monnaie scripturale à partir de rien. Une inscription sur un compte lui a suffit. » Denis Clerc, Déchiffrer l’économie, La découverte, Poche, 15 édit. 2004, chapitre 4 La monnaie et le crédit, p. 163.

On se permettra également de critiquer in fine le dogme monétariste de la BCE et d’une façon générale l’incapacité des Banques centrales (c’est-à-dire du politique) à discipliner les marchés. On sait ainsi que pour garantir la stabilité des prix en dessous de 2 %, la BCE a défini une norme de progression de M3 (agrégat monétaire de référence) de 4,5 %, soit 2,5 % au titre de la croissance et 2 % d’inflation tolérée. Mais, pendant le 1er semestre 2007, la progression fut de 10,9 %. M3 est l’agrégat monétaire de référence et incorpore la monnaie stricto sensu, c’est-à-à-dire les billets et les dépôts à vue (M1), les placements à court terme (M2-M1) et les placements à plus long terme (M3-M2). Le tableau ci-dessous récapitule la part de chaque agrégat incorporé dans M3. Puis, il note la contribution de chacun de ces agrégats intermédiaires la croissance de M3.

Part de la croissance de M3 dévolue à ses agrégats intermédiaires pendant le 1er semestre 2007. 10 Structure de M3 Contribution à la croissance de la masse monétaire M1 (billets, DAV) 47 % 31 % M2-M1 (placements) 38 % 44 % M3 –M2 (actifs financiers négociables) 15 % 25 % Total M3 100 % 100 %

On constate ainsi que seuls 31 % de la création monétaire vinrent abonder M1, agrégat de la monnaie stricto sensu qui alimente les échanges dans le circuit économique de la production et de la consommation des biens et services. En revanche, 69 % de cette création monétaire se sont transformés en placements et actifs financiers et vinrent ainsi alimenter les marchés financiers. Autrement dit, la BCE nourrit l’inflation des marchés financiers, les opérations de levier, la spéculation sur les marchés immobiliers mais s’avère incapable de rendre à la monnaie sa fonction initiale de faciliter l’activité économique.

4. Notre conclusion

Les crises commerciales, bancaires et financières ne datent pas d’aujourd’hui. Cependant, la responsabilité individuelle restait circonscrite aux seuls preneurs de risques (banques, épargnants trop avides, entrepreneurs). Au XIXe siècle, la discipline de l’étalon or qui exigeait la couverture intégrale de tous les crédits par des dépôts, et des dépôts par des encaisses 11, limitait, voire supprimait, le refinancement aujourd’hui contraint par le risque systémique de la Banque centrale « prêteur en dernier ressort ». Mais cette exigence de couverture intégrale de tous les crédits par des dépôts de terme aussi long qui était à l’origine de la théorie bancaire fut progressivement abandonnée. Elle n’est plus imposée aux établissements bancaires dont la fonction s’avère commerciale que d’intérêt public et social. Nombreux sont les observateurs qui déplorent que les Banques centrales si réservées pour injecter de nouvelles liquidités afin de soutenir l’activité économique et les investissements à long terme, souvent publics car peu rentables à court terme, soient en revanche d’une obséquieuse générosité pour renflouer les pertes des banques secondaires et de quelques spéculateurs. Mais pour comprendre cette immorale servilité, il convient certainement de rappeler qu’à l’origine du débat sur la fonction du prêteur en dernier ressort, au XIXe siècle en Grande Bretagne, « le comité parlementaire de 1858 avait décrit la Banque d’Angleterre comme « la banque en dernier ressort en cas de panique »12. Autrement dit, la fonction d’émission monétaire de la Banque centrale se limitait à la sauvegarde d’un système frauduleux (prêter ce que l’on ne possède pas) et au maintien des privilèges de la caste des rentiers au détriment de celle des entrepreneurs. Les choses n’ont guère changées depuis. La chrématistique est toujours bien servie.

Il faut rendre aux Etats et à leurs Banques centrales le monopole naturel et historique de création monétaire au service de l’humanité, du bien commun et de la pérennité planétaire. Il faut revenir à une couverture intégrale des crédits pas les dépôts, et des dépôts par des encaisses en monnaie de base (ou centrale). Il reste que l’accumulation des dettes dans les pays développés, aux Etats-Unis comme en Europe, provoquera encore demain d’autres chocs, crises et krachs conséquences des premiers ou totalement indépendants. De surcroît, la baisse des taux d’intérêt américains enchérira mécaniquement l’euro et pénalisera l’économie européenne. Stagnation, récession, crises bancaires et boursières, ainsi s’ouvre 2008.

Source : Europae Gentes


 

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Le symbole du triskell

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Le symbole du triskell

 

Par Karlheinz WEISSMANN

 

Parmi tous les mouvements “nationalistes” dans les provinces espagnoles, qui réclament l’autonomie voire la sécession par rapport au pouvoir central, le mouvement galicien est le plus faible. Mais même, là-bas, on prévoit un référendum sur le statut d’autonomie. Chez les Galiciens, la conscience  d’une particularité a de profondes racines. Ils font remonter leurs origines, comme les Asturiens d’ailleurs, aux tribus celtibères qui, jadis, avaient dominé la presqu’île ibérique au-delà des Pyrénées. Ils soulignent la parenté entre le terme latin de “Galicia” et celui de “Gallia”, le nom que les Romains donnaient aux territoires qu’habitaient les Celtes dans la France actuelle et en Italie du Nord. Cela nous explique aussi pourquoi nous trouvons chez les “nationalistes galiciens” un symbole par ailleurs fort répandu dans les milieux celtisants: un symbole à trois branches, que l’on appelle “triskell” en gaëlique, d’après le grec “triskellion”.

 

Par ce terme, on désigne un symbole constitué de trois demi-arcs ou d’un équivalent dont les composantes dérivent d’un triangle isocèle placé au milieu. On retrouve des représentations de triskell qui remontent jusqu’à l’âge de la pierre. On n’en connaît pas la signification exacte: sans doute s’agit-il, comme pour la croix gammée, d’un tourbillon ou d’un symbole solaire, mais, en tous les cas, il s’agit indubitablement d’un signe sacré. On le considère comme typiquement celtique probablement parce qu’on l’associe à la “trinacria”, une sorte de triskell constitué de trois jambes portant des pièces d’armure qui est le symbole attesté de l’Ile de Man depuis le 13ème siècle. Certes, ce n’est qu’en 1968 que la “trinacria” a été officiellement adoptée comme symbole héraldique et comme drapeau de l’Ile de Man, mais elle y était extraordinairement populaire depuis le moyen âge, surtout comme motif de tatouage pour les marins d’origine manxoise.

 

Dans le cadre de l’engouement romantique pour les racines, né au 19ème siècle, on a mis l’accent sur les traditions spécifiquement celtiques des Manxois et de leur symbole. Cela nous explique pourquoi le triskell, dans le mouvement général de la renaissance celtique, ne s’est pas seulement répandu dans l’Ile de Man, en Irlande et en Bretagne, mais aussi en Ecosse, au Pays de Galles, en Cornouailles et, par extension, aux autonomistes de Galice et des Asturies. Parmi les multiples essais de créer un drapeau commun à tous les peuples celtiques, citons l’ébauche significative que proposa le Breton Robert Berthelier dans les années 50. Il conçut un drapeau vert sur lequel il plaça deux triskell jaunes, chacun représentant trois des six peuples celtiques; le premier symbolisant les Ecossais, les Manxois et les Irlandais; le second, les Gallois, les Bretons  et les Corniques. 

 

En Bretagne, à cette époque-là, le triskell était déjà largement répandu parmi les autonomistes et les séparatistes et avait reçu, dans l’entre-deux-guerres, le statut de “symbole héraldique national”. Un fait le confirme: après la conquête allemande de la France en 1940, les partis collaborationnistes bretons l’ont utilisé, tablant sur sa ressemblance avec la croix gammée. Mais cela ne porta pas ombrage au triskell. Celui-ci demeure omniprésent en Bretagne aujourd’hui: sur les emballages des marchandises produites en Bretagne, dans les symboles des associations de tous ordres ou comme emblème sur les souvenirs qu’achètent les touristes. Les régionalistes, plutôt orientés à gauche, qui prirent leur envol dans les années 60 et 70, se sont servis du triskell sans hésiter, comme, par exemple, les séparatistes du SPV ou “Strollad Pobl Vreiz”. Le recours au triskell fut également le fait de l’ADSAV, du Parti National Breton, plutôt classé à droite et fondé en 1999.

 

Les mouvements celtiques ont carrément pris possession du triskell, mais cela nous a fait complètement oublier que ce symbole avait été reconnu officiellement dans une toute autre partie de l’Europe: en Sicile. Immédiatement après la fondation par Napoléon du nouveau royaume des Deux-Siciles, les Siciliens avaient recouru, pour leurs armoiries nationales, à une ancienne représentation du triskell, constituée, elle, de trois jambes nues et recourbées, entre lesquelles figuraient des épis; et au centre de ces épis, on trouvait une figure masculine coiffée de lauriers; plus tard, lors d’un soulèvement en 1848/49, année de bien des révolutions en Europe, les révoltés brandirent un drapeau tricolore italien (vert, blanc, rouge) frappé d’un triskell, appelé “trinqueta”, sur la bande blanche centrale.

 

Au vingtième siècle, le triskell a conservé en Sicile sa signification de symbole indépendantiste pour la population insulaire. Ainsi, les combattants de l’EVIS, un groupe de partisans qui s’étaient engagés pour l’indépendance de la Sicile et s’étaient soulevés en 1943/44, avaient un drapeau rouge et jaune frappé d’une “trinqueta”. Ce motif a été repris dans les années 80 par le “Movimento per la Independenza della Sicilia” qui milite aujourd’hui pour l’indépendance de l’île.

 

Karlheinz WEISSMANN.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°12/2009, trad. franç. : Robert Steuckers).

Biribi: les bagnes coloniaux de l'armée française

Biribi : Les bagnes coloniaux de l'armée française

Ex: http://ettuttiquanti.blogspot.com/
Présentation de l'éditeur
Biribi, c'est le nom donné à la fin du XIXe siècle aux nombreux bagnes militaires que l'armée française installa en Afrique du Nord pour se débarrasser de ses " mauvais sujets " : on y envoyait les fortes têtes, les indisciplinés, les condamnés des conseils de guerre, les jeunes qui sortaient de prison, mais aussi parfois les opposants politiques, les homosexuels ou les faibles d'esprit. Ce livre retrace, pour la première fois, l'histoire tragique de ces " corps spéciaux " : compagnies disciplinaires, bataillons d'Afrique ou ateliers de travaux publics. Il décrit le sort terrible réservé aux milliers d'hommes qui y furent envoyés, les brimades, les sévices, parfois les tortures infligées par des sous-officiers indignes, le travail harassant sous un soleil de plomb, la violence des relations entre hommes dans ce qui était considéré comme les bas-fonds de l'armée. Mais il montre aussi comment le courage de quelques-uns, condamnés, médecins, militants ou journalistes comme Albert Londres, contribua à faire peu à peu prendre conscience au pays de l'horreur quotidienne vécue dans ces camps disciplinaires. Les derniers " corps spéciaux " de l'armée française furent supprimés au début des années 1970.

Dominique Kalifa,
Biribi : Les bagnes coloniaux de l'armée française, Perrin, 2009.
Commande possible sur Amazon.fr.

L'arbre en Occident

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L'arbre en Occident

Présentation de l'éditeur

L'arbre grandit et grossit, dépérit, brûle ou casse (on l'a encore constaté en janvier 2009 dans le Sud-Ouest de la France). Ces phénomènes reflètent le nombre des années ou la colère des cieux. Voilà 400 millions d'années qu'il démontre ses capacités évolutives. Il connaît le sort de tous les vivants : l'éloignement des anciens conditionne le développement des jeunes - leçon de tout temps difficile à admettre. Mais si les individus meurent, l'espèce demeure. Pourtant, inerte, l'arbre semble immuable, immortel même. Son espérance de vie excède celle des hommes et des animaux. Comment imaginer qu'un sujet si familier puisse disparaître ? Comment ne pas honorer un individu très vieux ? Comment ne pas lui attribuer des pouvoirs extraordinaires ? Comment ne pas conserver, parfois à tout prix, ce témoin de notre existence ? Il la rappellera peut-être lorsqu'elle sera éteinte. Jadis, les arbres furent des dieux ou des messagers. Naguère, ils fournissaient de quoi soulager les gens souffrants, combattre les maladies, éviter le malheur, obtenir le bonheur. Hier encore, en plantant un arbre, l'homme célébrait la naissance et le mariage ; il espérait la prospérité de la famille et la tranquillité de l'au-delà. Mais aujourd'hui, victimes des pollutions et des déboisements, les arbres n'écartent plus tous les maux de la terre : ils les dévoilent. Sans conteste, l'arbre est un objet d'histoire fascinant. Cette histoire-là, trop mal connue du public, réserve des surprises innombrables et est souvent plus prenante que celle de beaucoup de personnes ou de collectivités humaines.

Andrée Corvol,
L'arbre en Occident, Fayard, 2009.

 

 

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Renoncement : aliénation, servitude et tyrannie

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Archives de "Synergies Européennes" - 1997

Renoncement : aliénation, servitude et tyrannie

 

Mai 1995 en France. Les anciens cabinets s'en vont, les nouveaux arrivent : ce sont les mêmes ou presque. Le pouvoir des commanditaires fortunés et les nouveaux riches, politiciens et technocrates, ont fait alliance avec les notables. Ce trust s'appuie sur une idéologie officielle, la « pensée unique », nouvelle désignation de la pensée pieuse des religions monothéistes, et réorganise idéologiquement la société. Le trust a mis la main sur l'Etat et, comme toute mafia, défend ses privilèges et ses richesses ; à l'abri du Pouvoir, le chemin de l'enrichissement est pavé de crapuleries heureusement effacées par les pensées pieuses affichées.

 

Un système de castes s'est constitué en France en particulier et en Europe en général grâce à l'introduction de lois obscurantistes, et par l'intermédiaire de colonies de peuplement affluant de toutes parts en raison des facilités d'établissement que le parti des ethnocideurs leur accorde et de la prodigalité avec laquelle les satrapes étatiques accordent la citoyenneté. La naturalisation de ces foules est effectuée alors même qu'elles se regroupent par "ethnos" et servent de point d'ancrage à de nouveaux trafics au détriment des Européens de vieille souche. L'éradication du peuple donne naissance à la plèbe, abrutie ou excitée par la pègre médiatique selon le pogrom du jour. Dans la course au profit, les plus malins, les plus fripons, les mieux organisés sur le plan transnational utilisent les trous noirs des paradis fiscaux et des zones franches juridiques, ainsi que la religion du droit de l'homme, ecclesia d'agitateurs sacerdotaux professionnels.

 

Pensée unique, idéologie officielle

 

L'équité dont se revendiquent les mafias installées emprunte le modèle raciste des trafiquants pieux. La pensée est interdite, remplacée par la croyance unique distillée par la race supérieure des purs et imposée au moyen des ruses de commerçants ou par violence contre les philosophes, "qui ne savent point ce qui est, mais qui savent très bien ce qui n'est pas" (1). Il apparaît qu'on n'a jamais tant craint les gens d'esprit en Europe qu'aujourd'hui. Et tous les conflits doivent être réglés par des magistrats sous contrôle, leur servilité s'obtenant par tous moyens : corruption, sélection partisane, intimidation. Ainsi les cours jugent-elles toujours comme il plaît à la Cour.

 

La pensée unique est l'anti-France. Elle s'étale à partir de cercles où règne la bassesse, et la tyrannie théocratique qui en résulte est bien pire que la discipline librement consentie dans le cadre d'un Etat. Le mensonge est permanent : faux chiffres, fausses idées, fausses solu­tions, et toujours le même catéchisme, la même idéologie : le branche­ment planétaire qui fait l'impasse sur l'organisation des savoirs, sur la structure de la pensée, sur la lente maturation de l'intelligence. La table rase des esprits est organisée au moyen de la pédagogie ludique substituée à la discipline intellectuelle, l'animation remplaçant l'instruction. Toutes les tyrannies théocratiques n'ont-elles pas pour but de liquider le passé et de le réécrire selon des principes pieux ?

 

Il existe en France une idéologie officielle, c'est-à-dire une doctrine idéologique et une organisation idéologique des hommes qui se renforcent chaque jour. L'idéologie officielle est un système dans lequel tout se tient : rejet du modèle républicain, doctrine de l'Etat minimum, franc fort, politique fiscale et rationnement budgétaire, mauvais fonctionnement de la police, de la justice, de l'école, inégalité d'accès aux services publics, chômage, rétrécissement de la protection sociale... Et aussi la désintégration du système productif, de l'armature territoriale de la ville, le déclin de l'industrie, les difficultés de l'agriculture... Chaque chapitre du livre de Henri GUAINO (2) développe un slogan pieux et en montre le ridicule ou la fausseté.

 

Ridicule et fausseté de la « pensée pieuse »

 

1 - La pensée unique dit : "La politique, c'est toujours la droite contre la gauche". Or, il existe aujourd'hui une classe dirigeante unique, qui verrouille les fonctions administratives, politiques et économiques. Le régime oligarchique est en effet très efficace pour assurer la prospérité durable des diverses factions qui s'entendent au détriment du public au lieu de s'affronter.

 

2 - La pensée unique dit : "La France vit au-dessus de ses mo­yens". D'où la désinflation compétitive. Mais un pays n'est pas une entreprise. Le travail ne saurait disparaître compte tenu de la dynamique permanente des besoins. Les chiffres de la comptabilité natio­nale sont à appréhender avec un regard critique, comme il fallait in­terpréter les statistiques du plan dans les anciens pays de l'Est... Le ser­vice des rentiers est présenté sous la forme d'une nécessité : ce serait le problème économique fondamental. Mais n'y a-t-il pas 7 millions de personnes confrontées directement aux difficultés de l'emploi ? Le coût du chômage n'atteint-il pas 1100 milliards de francs ? Les actifs entre 35 et 45 ans ne se suicident-ils pas plus que les personnes âgées ? Le produit par tête ne stagne-t-il pas depuis 1990 à un taux de croissance inférieur à 1% par an ?  Aucune importance...

 

3 - La pensée unique dit : "La France va bien, elle avance dans la bonne direction". Or, les crapuleries montent en flèche. La guerre des groupuscules, de tous contre tous, fait vivre les anciens habitants dans une insécurité permanente dont ils savent que les mafias en possession d'Etat sont dispensées. Les Européens de vieille souche sont devenus minoritaires en de multiples lieux et massivement déportés par l'avancée de la barbarie. Parallèlement, le quadrillage de la population par l'industrie de la charité l'incite à quitter les petits villages, voués à la mort. Les droits élémentaires fondamentaux, dont celui de choisir son voisin, sont effacés par l'Etat qui force ainsi à l'exode des masses avilies par une propagande haineuse intense.

 

Dans l'enseignement, les mouchards-penseurs pullulent et affirment que puisqu'ils racontent partout la vérité vraie aux frais de l'Etat, le niveau monte. Quand à la protection sociale, la rançon dont les classes moyennes doivent s'acquitter chaque mois croît alors que la couverture décroît. La France se transforme en un ramassis de sectes, bandes, mafias. L'assassinat du peuple est vu comme la meilleure façon de jouir tranquillement du pouvoir et de ne plus être dérangé.

 

4 - La pensée unique dit : "Les fondamentaux sont bons". Un pays bien géré est en excédent. Mais le monde ne peut pas être en excédent vis-à-vis de lui-même. Lorsque le FMI martèle le catéchisme de l'ajustement structurel, il aliène les peuples au profit des soviets de la finance. La croissance repose sur la dynamique interne des pays qui travaillent pour eux-mêmes. Il est criminel de sacrifier le niveau de vie à la compétitivité extérieure. L'ordre de « réduire les déficits » est une erreur en matière budgétaire. L'épargne résulte de l'investissement, non l'inverse. Le montant et la nature de la dépense déterminent la réussite, en sorte que la première décision utile serait de réduire massivement les impôts pour accroître le revenu disponible. Les mauvais choix de dépenses et la restriction budgétaire coûtent chaque année 1,2 points de croissance et 800.000 chômeurs. En matière de retraites enfin, les têtes plates et les soviets de la finance encouragent la capitalisation. Or, les actifs paient les pensions des anciens si l'investissement intellectuel et matériel dont ils ont bénéficié dans leur jeunesse a été judicieux et rentable.

 

5 - La pensée unique dit : "Une bonne monnaie est une monnaie forte". Mais la monnaie forte bloque l'expansion et exprime un fétichisme qui n'est pas sans rappeler l'attitude à l'égard de l'or au temps de Philippe II. Pour nombre d'historiens, dont Pierre VILAR (3), les entrées de métaux précieux en Europe, leurs découvertes, ne sont jamais des variables exogènes aléatoires. A l'origine, il y a toujours une baisse générale des prix exprimés en or ou en argent, qui s'explique par un développement économique, source d'une pénurie de métaux précieux. La croissance crée le besoin monétaire, non l'inverse. Et si une dévaluation du Franc empire le déficit de la balance, il faudrait en toute logique, hausser le Franc...

 

D’autres politiques sont possibles

 

Les slogans des factions en possession d'Etat se rapprochent de ceux de toute théocratie : il n'y a qu'une vérité révélée, qu'un corpus doctrinal dont elles sont les interprètes autorisés. Il n'y a qu'une politique possible : la France, petit pays, n'a pas de moyens ; l'Etat est à abandonner au profit des internationales, mieux adaptées à une société complexe, en mutation ; l'Euro sera un bon bouclier contre la mondialisation. En réalité, le problème principal tient à la constitution d'Empires financiers conquérants dirigés par un système de soviets, des consistoires multimédias pilotés par des Al Capone pieux, en sorte que la mondialisation est très spécifique : un impérialisme semblable à celui des bolcheviks d'hier et de l'Eglise d'avant-hier.

 

Or, d'autres politiques sont possibles. Henri Guaino préfère la politique inspirée du jacobinisme. Il note que le gouvernement des ju­ges s'installe sur la défaillance des dirigeants, et qu'une guerre s'en­ga­ge entre juges et Etat, mortelle pour la république. L'analyse est à com­pléter. Pour un lettré d'aujourd'hui, l'Etat ressort plutôt de la dé­rive confessionnelle. La pénurie intellectuelle règne car le parti dévot, comme il y a deux mille ans, impose l'unité d'obédience reli­gieuse : histoire sainte, dogmes absurdes, pensées pieuses ethnocidaires. La haine des humains qui pensent, l'anathème, bref l'infâme~ ont pris leur envol et l'Etat se met au service du fanatisme méticuleux.

 

« Lorsque le chevalier de La Barre, petit-fils d'un lieutenant-général des armées, jeune homme de beaucoup d'esprit et d'une grande es­pérance, mais ayant toute l'étourderie d'une jeunesse effrénée, fut convaincu d'avoir chanté des chansons impies, et même d'avoir pas­sé devant une procession de capucins sans avoir ôté son chapeau, les juges d'Abbeville... » (4) furent dénoncés par Voltaire comme n'of­frant pas de garantie d'intelligence, de compétence et d'impartialité. Il les appela des "Arlequins anthropophages". Ne revivons-nous pas cette situation ? La séparation des pouvoirs est parfaitement accessoire dans les circonstances présentes. La division du pouvoir en trois branches (exécutif, législatif, judiciaire) n'est plus qu'une commodité purement professionnelle. Elle semble plutôt protéger certaines factions contre d'autres au sein du pouvoir lui-même mais, en aucune façon, ne met la population à l'abri d'une tyrannie des pen­sées pieuses : les arrêts contre les impies sont toujours rendus par des "cannibales".

 

L'Etat est devenu la marionnette du pouvoir économique. La fusion des deux a créé un super-pouvoir, directoire informel qui n'est ni fixé dans les textes, ni reconnu comme une institution légale. Aussi, la plupart des élites "visibles" ne sont plus qu'un ramassis, une véritable sous-humanité de pantins s'agitant sous la férule de ce super-pouvoir. Félicitons M. Guaino d'avoir préféré la démission à la collaboration avec des associations de malfaiteurs.

 

PONOCRATES.

 

(1) VOLTAIRE : Progrès de la philosophie. A M. D'Alembert. Lettre du 5 avril l765. Dans : Lettres choisies de Voltaire, Classiques Larousse, 1937, p. 88.

(2) Henri GUAINO : L'étrange renoncement, A. Michel, 232 p., 98 FF.

(3) Pierre VILAR : Or et monnaie dans l'histoire (1450-1920), Champs-Flammarion, 1974.

(4) René POMEAU : Voltaire par lui-même, Le Seuil, coll. Ecrivains de toujours, 1962, p. 151.

dimanche, 26 avril 2009

Nog eens 60 jaar NAVO?

Nog eens 60 jaar NAVO?

"Ramon" de Dominique Fernandez

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“Ramon” de Dominique Fernandez

 

Dominique Fernandez est un écrivain, un traducteur, un critique littéraire et un journaliste de grande notoriété. Pendant de longues années, il collabora à l’hebdomadaire “le Nouvel Observateur”. Ce spécialiste de l’Italie et de la Russie a terminé ses études à l’Ecole Normale Supérieure; il a reçu le Prix Médicis en 1974 pour son roman “Porporino ou les mystères de Naples”. Huit ans plus tard, il obtint le Goncourt pour “Dans la main de l’Ange”. Depuis deux ans, il est membre de l’Académie française. Cette année, Dominique Fernandez fêtera ses 80 ans  mais l’essai biographique de 800 pages que vient de publier cet auteur de gauche est indubitablement le livre le plus personnel de toute son oeuvre, pourtant si riche et bigarrée. Ces huit cent pages sont consacrées à un autre critique littéraire chevronné. Huit cent pages sur la vie d’un contemporain et ami de Proust, Mauriac, Gide, Bernanos et d’autres coryphées de l’entre-deux-guerres. Huit cent pages sur un socialiste qui cultivait des sympathies communistes. Huit cent pages sur l’un des fondateurs du fameux “Comité de vigilance des intellectuels anti-fascistes” qui a vu le jour en 1934.

 

Huit cent ! Huit cent pages consacrées à un traître qui, après la victoire du Front populaire des gauches en 1936, s’en va rejoindre le nouveau “Parti Populaire Français” (PPF) de Jacques Doriot, exclu du parti communiste et rival de Thorez qui évoluera rapidement dans le sens du fascisme puis de la collaboration. Dominique Fernandez consacre donc huit cent pages à un tel personnage. Le romancier de gauche Dominique Fernandez écrit huit cent pages sur Ramon Fernandez, son père, qu’il a à peine connu. “Je suis né de ce traître, il m’a légué son nom, son oeuvre, sa honte...”. Ce n’est qu’à la page 424 de son essai (auto)biographique sobrement intitulé “Ramon”, que nous apprenons pourquoi Dominique Fernandez a couché sur le papier  cette histoire de la vie de son père. Il affirme avoir voulu savoir pourquoi cet amoureux si raffiné de la littérature, qui se trouvait encore en 1934 sur la barricade de l’anti-fascisme, a pu se laisser embrigader dans le parti fascisant de Doriot et s’est finalement retrouver en 1942, en compagnie de quelques autres écrivains collaborationnistes français, en visite chez Goebbels, tout en prêtant sa plume aux principales revues de la collaboration. Ramon Fernandez n’a jamais pu l’expliquer lui-même. Il est mort en août 1944, quelques jours avant la libération: il avait cinquante ans. Il a ainsi échappé aux griffes de l’épuration. Le fils Fernandez connait certainement aujourd’hui l’étude très vivante que Simon Epstein a consacré l’an passé au phénomène: “Un paradoxe français – antiracistes  dans la Collaboration, antisémites dans la Résistance” (Grasset, mars 2008, 613 pages, 28 Euro). Dans cet ouvrage, le professeur israélien montre combien d’intellectuels de gauche de l’entre-deux-guerres ont fini par adhérer à l’idéal collaborationniste et combien de figures de l’extrême droite d’avant-guerre ont atterri  dans la Résistance, en contradiction avec ce que l’on pourrait penser à première vue. Dominique Fernandez donne une explication personnelle au “péché” de son père: il va la chercher dans le mariage difficile de ce playboy mexicain, amoureux de la dive bouteille, avec sa mère, Liliane Chomette, femme sévère et femme d’intérieur. Dominique Fernandez cite abondamment des passages du journal intime de sa mère, véritable chronique d’un divorce annoncé. 

 

Mais ce journal est également la chronique d’une rupture politique. Dominique Fernandez cite les belles paroles que Marguerite Duras  —qui était pendant la guerre une voisine et une amie de  son père—  a écrites dans son roman autobiographique en 1984, quand elle cherchait elle-même à expliquer son engagement communiste d’alors: “Collaborateurs, les Fernandez. Et moi, deux  ans après la guerre, membre du PCF. L’équivalence est absolue, définitive. C’est la même chose, la même pitié, le même appel au secours, la même débilité du jugement, la même superstition  disons, qui consiste à croire à la solution politique du problème personnel”.

 

“On ne devient pas communiste ou fasciste par conviction idéologique”, écrit Dominique Fernandez, le fils du collabo Ramon, mais pour guérir d’un mal personnel. Le ton employé par Dominique Fernandez peut paraître fort critique à l’endroit de son géniteur, il n’empêche que ces huit cent pages constituent l’hommage le plus pénétrant d’un fils à son père que j’ai jamais eu l’occasion de lire. Mais je dois m’empresser d’ajouter que Dominique Fernandez n’est pas juste. Mais dans cette injustice, je ne repère pas la plume du rédacteur du “Nouvel Observateur”. Il cherche parfois des circonstances atténuantes où il n’y en a pas. Il cherche à trouver de l’ironie dans les articles de son père, alors que toute ironie y est absente, tout cela pour plaider son acquittement. Pire encore, et là on ne peut pas lui laisser seul la parole: il injurie d’autre écrivains collaborationnistes (Drieu, Brasillach,...) pour défendre son père, alors, qu’en fin de compte, Ramon Fernandez fut le seul, parmi ces intellectuels, à avoir porté un uniforme pendant l’occupation. Quoi qu’il en soit, “Ramon”, en tant que “document humain”, mérite une bonne place dans la tribune d’honneur. Sans doute, Dominique Fernandez, avec ce livre consacré à son père, a voulu écrire son testament politique.

 

“Guitry”/”’t Pallieterke”.

(article paru dans  “’t Pallieterke”, Anvers, 15 avril 2009, trad. franç.: Robert Steuckers).

 

Source:

Dominique Fernandez, “Ramon”, Grasset, 807 pages, 24,90 Euro.

 

 

La tyrannie technologique - Critique de la société numérique

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La Tyrannie technologique :

Critique de la société numérique

Présentation de l'éditeur

Après le travail et le sommeil, la troisième activité des Occidentaux est de regarder la télévision. 80% de la population française possède un téléphone portable contre moins de 5% dix ans plus tôt. Créée en 1998 dans un garage, la société Google est aujourd'hui cotée en bourse et valorisée à plusieurs milliards de dollars. Au cours des dix dernières années, les ventes d'antidépresseurs ont doublé. Les nouvelles technologies, fer de lance et alibi d'une industrie obsédée par la rentabilité, participent chaque jour un peu plus à la destruction du lien social et à la disparition des formes anciennes de sociabilité, d'organisation du travail et de la pensée. Leur diffusion massive et leur omniprésence posent les bases d'une véritable mutation anthropologique comparable à l'apparition de l'écriture. Si l'alphabétisation fut bien souvent la compagne de l'émancipation, les technologies contemporaines préparent et organisent un monde fondé sur la vitesse, l'immédiateté, la superficialité, le profit et la mort. Ecrit par plusieurs auteurs tirant leurs réflexions de leurs travaux militants ou universitaires, La Tyrannie technologique dresse un panorama lucide et percutant de l'emprise des nouvelles technologies sur notre vie quotidienne.

Collectif,
La Tyrannie technologique : Critique de la société numérique, Ed. L'échappée, 2007.

Furet/Nolte: fascisme et communisme

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Archives de "SYNERGIES EUROPEENNES" - 1997

 

Furet & Nolte : fascisme et communisme

 

 

Chez Plon est paru Fascisme et communisme de François Furet et Ernst Nolte. Voici un extrait de la présentation: «Cet essai, qui réunit huit lettres échangées entre François Furet et l'historien allemand Ernst Nolte, constitue une sorte de prolongement au livre majeur de François Furet, Le passé d'une illusion. En réponse aux pages consacrées par Furet à l'analyse du fascisme et du nazisme chez Nolte, ce dernier entreprit de préciser et de développer une interprétation qui, lors de sa parution voilà dix ans, avait déclenché la plus importante controverse historique de l'après-guerre en Europe. Mais ce texte est davantage qu'une réflexion contradictoire entre deux grands historiens. Il propose une lecture de l'histoire du XXième siècle hors des sentiers battus à partir d'un événement fondateur, la guerre de 1914, et des liens qui unissent les trois "tyrannies" du siècle le fascisme, le nazisme et le communisme. Il s'agit de comprendre et d'expliquer l'étrange fascination que ces mouvements idéologiques et politiques ont exercée tout au long du siècle ». A propos de la liberté de la recherche historique, F. Furet écrit: « Rien n'est pire que de vouloir bloquer la marche du savoir, sous quelque prétexte que ce soit, même avec les meilleures intentions du monde. C'est d'ailleurs une attitude qui n'est pas tenable à la longue, et qui risquerait d'aboutir à des résultats inverses de ceux qu'elle prétend rechercher. C'est pourquoi je partage votre hostilité au traitement législatif ou autoritaire des questions historiques. L'Holocauste fait hélas partie de l'histoire du XXième siècle européen. Il doit d'autant moins faire l'objet d'un interdit préalable que bien des éléments en restent mystérieux et que l'historiographie sur le sujet n'en est qu'à son commencement » (P. MONTHÉLIE).

 

François FURET et Ernst NOLTE, Fascisme et communisme, 1998. 146 pages. 89 FF. Editions Plon.

samedi, 25 avril 2009

Le tyran qui sert de modèle à Obama

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Le tyran qui sert de modèle à Obama

 

par Jan von FLOCKEN

 

Au début de cette année, quand Barack Obama a été officiellement intronisé Président des Etats-Unis, un souffle chargé de symboles flottait sur la cérémonie. La figure d’Abraham Lincoln, président assassiné en 1865, semblait omniprésente. On évoquera en cette année 2009 le 200ème anniversaire de la naissance de ce Lincoln, devenu en quelque sorte l’un des saints patrons de la démocratie occidentale.  Obama ne s’est pas contenté de reproduire le trajet en chemin de fer que fit Lincoln au printemps 1861, partant de Philadelphie, passant par Baltimore pour arriver à Washinghton D.C., à la Maison Blanche. Obama a également insisté pour poser la main, lors de  sa prestation de serment, sur la Bible reliée et recouverte de velours, vieille de 156 ans, que feu “Old Abe”, alias Lincoln, avait utilisée. A la suite de ce serment, Obama a juré, comme le veut la tradition, de “maintenir la Constitution américaine, de la protéger et de la défendre”.

 

Personne n’a autant violé la Constitution que Lincoln...

 

Toute cette démonstration qui cherche à établir un parallèle entre l’homme d’Etat devenu légendaire et le jeune Président, nouvel espoir de l’Amérique, éveille cependant des souvenirs dérangeants voire compromettants, bien que non voulus. En effet, aucun président des Etats-Unis, au cours de ces 220 dernières années, n’a autant violé la Constitution et jugulé les droits fondamentaux des citoyens que Lincoln. Son mandat s’est déployé sous le signe sanglant d’une guerre civile entre Etats du Nord et Etats du Sud. Ces derniers s’étaient séparés de l’Union en 1860-61 et avaient fondé un Etat propre, la Confédération. La Constitution américaine n’interdisait nullement une sécession de ce type car ce n’est qu’en 1868 que la Cour Suprême a énoncé un verdict contraire. Dans un premier temps, les deux parties ont accepté la Sécession. Indice de cette acceptation: Horace Greeley, l’éditeur influent de la “New York Tribune” et ami politique de Lincoln, écrivit dans son journal, en date du 9 novembre 1860: “Nous ne vivrons jamais, espérons-le, au sein d’une République où nous serions contraints de rester à tout jamais par la force des baïonnettes”. 

 

Or ce sont justement les baïonnettes qu’a fait jouer Lincoln peu après son entrée en fonction. Il a saisi rapidement la première occasion venue: en l’occurrence, un échange de coups de feu aux abords de Fort Sumter, appartenant à la Confédération. Cet incident, qui ne fit que quelques blessés légers, servit de prétexte pour une déclaration de guerre de facto contre les Etats du Sud qui prit la forme d’un appel à 75.000 volontaires le 15 avril 1861. Dans la foulée, Lincoln ordonne en plus qu’un embargo commercial soit décrété contre la Confédération esclavagiste. Cet appel et cet embargo constituent deux fautes politiques graves car, immédiatement après leur mise en oeuvre, quatre Etats demeurés neutres, la Virginie, l’Arkansas, la Caroline du Nord et le Tennessee, quittent à leur tour l’Union pour rejoindre la Confédération.

 

Dans l’Etat du Maryland, qui, par tradition, penchait pour la Confédération, mais qui devait rester dans l’Union vu qu’il était proche de la capitale fédérale Washington, la population proteste en masse contre la politique belliciste de Lincoln. Le Président met aussitôt l’Article I/9 de la Constitution hors jeu, alors qu’il est cardinal en tant qu’ “Habeas Corpus Act” qui protège le citoyen contre toute arrestation arbitraire et lui garantit le droit d’être entendu par un juge dans des délais rapides. La capitale du Maryland, Annapolis, et la ville de Baltimore, celle où Barack Obama s’est rendu en voulant suivre les traces de Lincoln, ont été placées à l’époque sous la loi martiale. Le 13 mai 1861, le maire de Baltimore, George W. Brown, le chef de sa police et tous les membres du conseil municipal, ont été arrêtés,  sans qu’il n’y ait justification en droit, et emprisonnés jusqu’à la fin des hostilités en 1865. Parmi ces embastillés, il y avait, ô ironie, le petit-fils de Francis Scott Key, le poète qui avait composé l’hymne national américain, lequel chante les louanges de “ce pays des hommes libres et de ce foyer des braves”.

 

Lorsque le Parlement de l’Etat du Maryland condamna cette incoyable mesure et fustigea l’action illégale et tyrannique du Président des Etats-Unis, Lincoln fit immédiatement arrêter 31  députés qui furent incarcérés pendant trois à six mois sans jugement. Cette action musclée  enfreint clairement l’article additionnel VI de la Constitution, selon lequel tout accusé a droit à un procès immédiat et public devant un jury indépendant. Le président de la Cour Suprême, Roger B. Taney, l’homme devant lequel Lincoln avait officiellement prêté serment sur la Bible, exigea que le Président rende caduques ces arrestations car elles heurtaient trop manifestement les principes de la Constitution. Le Président s’était ainsi arrogé des compétences qui ne sont que du seul ressort du Parlement. A la suite des admonestations de Roger B. Taney, Lincoln lança une directive incitant toutes les autorités publiques à ignorer purement et simplement le jugement rendu par la Cour Suprême, ce qui constitue, bien évidemment, une entorse manifeste à la Constitution (Art. III/1). Un observateur, pourtant favorable à Lincoln, le démocrate allemand Otto von Corvin, correspondant du “Times”, nota, à l’époque, que les gesticulations de Lincoln lui rappellait celles d’un “instituteur de village”.

 

Pendant la guerre civile,  d’autres entorses à la Constitution eurent lieu; ainsi, en juin 1863, lorsque la Virginie fut partiellement occupée par les militaires nordistes, on proclama la naissance d’un Etat fédéral artificiel, la “Virginie occidentale” (“West Virginia”), alors que l’article IV/3 de la Constitution prescrit sans ambiguïté qu’aucun nouvel Etat fédéral ne peut être créé ou établi au départ du territoire d’un autre Etat fédéral. Toutes ces violations anti-démocratiques de la Constitution sont aujourd’hui relativisées sous prétexte que Lincoln a été le libérateur des esclaves  noirs. Or, à l’été 1862, une demie année avant la proclamation officielle de leur libération, le Président avait encore déclaré: “Si je pouvais sauver l’Union, sans avoir à affranchir un seul esclave, je le ferais”. Le maintien de l’Union a finalement coûté la vie à 600.000 personnes. Il reste aux Américains à espérer qu’Obama, à l’avenir, se contentera d’imiter Lincoln dans des cérémonies purement festives. Car n’oublions pas qu’Obama a dit, peu après son entrée en fonction en janvier: “Ma politique consiste à ne pas avoir de politique”. 

 

Jan von FLOCKEN.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°16/2009, trad.  franç.: Robert Steuckers). 

LDD en detectives

LDD en detectives

Geplaatst door yvespernet op 20 april 2009

Wat al veel gezegd is, maar nu meer dan ooit weer naar boven komt, blijft waar. Lijst Dedecker is een opeenstapeling van gefrustreerden, postjespakkers en ego’s. De laatste week is weer fantastisch geweest voor iedereen die een afkeer heeft van LDD (en daarmee groot gelijk heeft). Van de groep die ermee begonnen is, blijken er precies niet veel over te blijven op plaatsen van belang. De brulboei uit Oostende heeft de touwtjes in handen en wordt blijkbaar vooral gedreven door frustratie. Een kleine greep uit de LDD-artikels;

http://www.deredactie.be/cm/de.redactie/vlaamsbrabant/090420_vijnck

De 36-jarige Vijnck maakte zijn overstap bekend samen met Open VLD-voorzitter Bart Somers. Volgens Vijnck was de kwestie van de privédetective die Jean-Marie Dedecker op minister Karel De Gucht afstuurde, de druppel die voor hem de emmer deed overlopen.

Een liberaal doet zoiets niet, zei Vijnck, die hoopt dat andere LDD’ers zijn voorbeeld zullen volgen. [...] De heisa binnen LDD over het detective-verhaal laat zich intussen ook voelen in Heusden-Zolder. Daar is de lokale voorzitster van de LDD uit de partij gezet. Net als Vijnck had Helena Van Dessel kritiek geuit op het inzetten van een detective door Jean-Marie Dedecker.

Over die Helena Van Dessel valt trouwens ook nog wat te zeggen;

http://www.demorgen.be/dm/nl/989/Binnenland/article/detail/824018/2009/04/19/Dedecker-Detective-niet-op-priveleven-De-Gucht-ingezet.dhtml

Dedecker krijgt van de meeste politieke partijen kritiek voor zijn démarche. Ook binnen zijn eigen partij is niet iedereen gelukkig. Helena Van Dessel, LDD-lid uit Heusden-Zolder, biedt in een persmededeling “haar verontschuldigingen” aan aan minister De Gucht en zijn familie. “Het is mijn wens mij volledig te distantiëren, van demeest onlibertijnse praktijken, die de partij van het ‘gezond verstand’, tot mijn grote verbazing lijkt te hanteren”, zegt ze. “Mijn dagen bij Lijst Dedecker zijn door dit schrijven geteld”.

Libertijnse praktijken? Ik vrees dat Helena Van Desel niet echt weet wat haar ideologie is. Of althans toch niet wat die van LDD is. Maar libertijns is die bij mijn weten alvast niet. Of het kan ook zijn, en LDD kennende sluit ik het niet uit, dat Van Desel geen flauw idee heeft dat er een groot verschil is tussen libertijns, liberaal of libertariër zijn. Ook de voorpublicatie op de webstek van Humo ziet er interessant uit met dingen als;

http://www.humo.be/tws/deze-week/17336/exclusieve-voorpublicatie-jean-marie-dedecker-de-buffel.html

Hij zei dat ik een middelmatig judoka was. Tweederangs noemde hij mij. Hij had gedronken en ik ook. Ik had er genoeg van en ik antwoordde uitdagend: ‘Je hebt gelijk. Maar wat was jij dan vroeger? Ik ben acht keer Belgisch kampioen geweest. Jij niet één keer.’ Hij ontplofte en vloog me aan.

Dedecker stormde ons achterna en even later zat het er ook daar bovenarms op. Hij was naar mijn kamer gekomen om me duidelijk te maken wie de baas was, en vooral: om me duidelijk te maken dat ik mijn mond moest houden. Er was geen reden om dit in de pers te laten uitlekken, brulde hij. Ik vroeg dat hij mijn kamer zou verlaten, maar dat vertikte hij. Hij wilde vechten. Ik zei: ‘Waarom wil je dit niet in de kranten? Omdat de mensen dan zullen weten dat je niet alleen op je vrouw slaat, maar ook op je atleten!’ Toen ging hij volledig in het rood. Hij sloopte mijn halve hotelkamer en de wasbak in mijn badkamer.»

Het gaat hem alleen nog om de intrige. Hij is een demagoog geworden, een mestkever, een tafelspringer en eenopportunist. Hij is bereid iedereen te gebruiken om te bereiken wat hij wil bereiken.

Maar ook uit de linkerkant heb ik al goede dingen gelezen die ook de vinger op de zere wonde kunnen leggen, en daar besluit ik ook ineens mee;

http://indymedia.be/nl/node/32708

En dan is daar plots “De Wreker”

Ooit, in betere tijden, maakten hij zelf deel uit van het clubje slechterikken. Hij was een befaamd leider van sportieve elite en nadien werd hij zelf opgenomen in de politieke elite. Om redenen die voor de lezer / kijker nog niet duidelijk zijn (ooit wordt het via een Flashback wel duidelijk gemaakt aan de lezer / kijker) werd hij verstoten uit het clubje verkorenen des vaderlands. De motieven van “De verstotene” blijven vaag al is het duidelijk dat hij liefst zo snel mogelijk terug mee wil spelen in het clubje uitverkorenen. [...] De machthebbers en hun mediaslaafjes staan immers zo ver af van het gewone volk dat ze denken nu eindelijk “De Wreker” te kunnen ontmaskeren.

Geen woorden zijn straf genoeg om hun verontwaardiging te uiten. Zoals steeds is het 10° lakei in de rangorde die aandraaft met de vergelijking met Nazi Duitsland: “Gestapo”. Hij zou immers graag een paar streden stijgen op het laddertje der gezagsgetrouwen. Zelfs op anders kritische en onafhankelijke website indymedia.be is de cartoonist van dienst onder indruk van zoveel media geweld en pakt uit met een cartoon Herr Flick” In al hun verontwaardiging vergeet de meute gezagsgetrouwe journalisten, opiniemaker dat eigenlijk zij het probleem zijn.

“De Wreker” had natuurlijk geen privé detective moeten afsturen op zijn aartsrivaal en diens familie, hij had dat moeten overlaten aan een gedegen onderzoekjournalist. Het is begrijpelijk dat “De Wreker” dat niet kon weten, er zijn immers nagenoeg geen onderzoekjournalisten in dit klein landje. De paar die er nog zijn mogen af en toe eens in een elitair blaadje hun dossier publiceren, maar slagen er nagenoeg nooit in om enige impact te hebben op het publieke debat. Ze verworden tot de cynische journalisten die in elke comic worden opgevoerd. ”De Wreker” die wrijft in zijn handen. Zijn privé detective vond niets, en hij onthuld ook helemaal niets. Toch schreeuwen de machthebbers en hun lakeien moord en brand. En zoals in elke comic of slechte actiefilm uit het Reagan tijdperk wordt de wreker uitgespuwd door elite maar op handen gedragen door het volk.

Ze lijken niet te beseffen dat hoe luider ze schreeuwen hoe meer ze van “De Wreker ” de superheld maken die hij niet is.

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Qu'est-ce que le relativisme?

 

Qu'est-ce que le relativisme?

Ex: http://unitepopulaire.org/

 

« De toutes les pathologies dont souffre notre société, le relativisme "philosophique" est certainement l’une des plus dangereuses, car son caractère diffus, sa fausse logique empreinte de scientificité et son adéquation trop parfaite avec la notion de tolérance (suprême valeur du monde post-moderne) lui procurent d’inestimables avantages sur les courants philosophiques concurrents. Si, depuis Montaigne, le relativisme a attiré de nombreux penseurs refusant l’idée selon laquelle une civilisation ou une religion ne peuvent se déclarer supérieures à toutes les autres, il est indéniable que depuis une soixantaine d’années, le paradigme relativiste a étendu son empire sur toutes les nations occidentales, abrutissant dramatiquement leurs populations désormais incapables de sauvegarder les bases mêmes et les principes primordiaux de la pensée et de la culture européenne. […]

 

Loin d’avoir permis la sauvegarde de la diversité culturelle, le relativisme a engendré la haine de soi (ou, par voie de conséquence, la xénophilie) et l’essor de l’individualisme radical, qui ont laminé à une vitesse extraordinaire des nations millénaires.

 

Aujourd’hui, le relativisme apparaît cependant davantage comme la conséquence d’une déréliction généralisée, comme un discours servant à légitimer les faiblesses d’un peuple, hier glorieux et rayonnant, et aspirant désormais à une totale retraite. »

 

 

 François-Xavier Rochette, "Vaincre le relativisme ?", Rivarol, 6 mars 2009

Les guerres de nouvelle génération

Archives de "SYNERGIES EUROPEENNES" - 1997

Les guerres de nouvelle génération

 

Les « guerres de nouvelle génération » sont les guerres de types ancien et nouveau, dans lesquelles nous, les contemporains de la fin du XXième siècle, sommes bon gré, mal gré, entraînés: les guerres informatique, les guerres religieuses, psychotropiques, énergétiques, technologiques, économiques, financières, les guerres de classes, etc. On mène ces guerres simultanément et dans des espaces différents, c'est pourquoi chacune d'elles, directement ou indirectement, touche chacun de nous.

 

Le monde a toujours été en état de guerre. Dans un premier temps, cet antagonisme fondamentales des forces différentes a été situé au ciel (Indra-Vrtra, Ahura-Daevas, les conflits des dieux de l’Olympe, titanomachie, les anges et les démons) et ensuite sur la terre, tant entre les civilisations, qu'à l'intérieur de celles-ci (Mahabharata, Illiade, Grèce, Rome, Carthage, les Barbares, l'invasion arabe et la Reconquista espagnole, le joug des Tatares et des Mongols en Russie, la conquête de l'Amérique et de la Sibérie, les guerres coloniales, mondiales, etc.). Il n'y a aucune période de l’histoire où les guerres ont cessé complètement quelque part sur notre planète. D'où les dictons comme « La paix c'est la guerre » ou « Si tu veux la paix, prépare la guerre ».

Le sens de la guerre ne s'épuise pas par le meurtre d'un adversaire. Vaincre, cela signifie obtenir la supériorité, l'autorité, le pouvoir. C'est pourquoi tous les mythes pacifistes et les conjurations réclamant « La paix pour le monde » ou priant pour « Que la guerre ne commence pas! » n'ont aucun fondement.

 

Guerres du ciel et guerres de classes

 

Les guerres du ciel (célestes, transcendantales, de l'autre monde) sont interprétées conformément à la tradition religieuse dominante. L'Orthodoxie russe a développé la doctrine chrétienne de la hiérarchie des forces angéliques, de l'ange déchu Satan et de sa révolte contre le Dieu-Créateur, du Diable-séducteur et des démons. Tels symboles mystiques, comme la Croix, les Saintes Icônes, les temples, le Saint Sépulcre, Jérusalem sont une réalité absolue pour les Chrétiens. Les guerres religieuses font que la réalité céleste descend sur la terre et, le résultat qui s’ensuit, est profanation de ces guerres ;  elles sont abaissées au niveau d'un antagonisme entre les peuples, les races et les civilisations. L'amour du Christ a mené plus d'une fois à l'extermination des Païens et de leurs valeurs culturelles et religieuses ; la fidélité à Allah a été jusqu’à l’incendie des villes et des églises chrétiennes, sans parler des victimes humaines.

 

La guerre des classes, la guerre des prolétaires contre les bourgeois exploiteurs a des fonctions analogues, mystiques au fond. Le caractère inventé de cet idéologème typique s'exprime en toute clarté par la haine des communistes internationalistes à l’encontre de leurs compatriotes industriels et par l'amour des "frères de classe" d'Afrique, d’Asie et d’Amérique. En considérant notre Patrie comme une combinaison organique d’espaces de types différents (céleste, historique, géographique, communicatif, personnel, etc), unis par un Destin commun, nous découvrirons, que dans ce champ, s’est toujours déroulé, depuis un temps immémorial, le conflit des forces, éléments et tendances différents, qui forment les mondes variés.

 

Guerres classiques et guerres non classiques

 

Les guerres classiques (avec la participation de capitaines, officiers et soldats armés) peuvent être catégorisées sur le plan historique en guerres anciennes, classiques, modernes et surmodernes. On étudie aujourd'hui les guerres anciennes dans un but pédagogique et didactique, mais l'expérience vécue de ces guerres est très importante aussi pour la compréhension des orientations géopolitiques actuelles. On étudie les guerres classiques dans les écoles et académies militaires (les guerres de Napoléon, les deux guerres mondiales, les révoltes des colonies contre les métropoles), ainsi que les conflits limités avec l'utilisation d’armes meurtrières (les guerres civiles, la résistance des partisans, le terrorisme). Les guerres modernes sont les guerres qu'on fait aujourd'hui avec l'utilisation de tous les moyens disponibles.

 

On appelle « guerres non-classiques » les formes de conflits qui sortent des limites et des règles admises, qui fixent comment il faut faire la guerre, mais ces formes sont souvent plus efficaces et remontent à l'antiquité. Un guide original dans le domaine des guerres non-classiques : la lecture des célèbres principes stratégiques chinois, où l'art de la guerre inclut l'intelligence, la décision, la ruse, la fraude et l'hypocrisie: "tuer avec un couteau d'autrui", "piller durant un incendie", "pêcher en eau trouble", "attirer vers le toit et enlever l'escalier", "lutter contre le drapeau rouge en agitant le drapeau rouge", etc. La République Populaire de Chine, en utilisant la ruse de guerre, a voulu que « deux tigres (les Etats-Unis et l'URSS) se harassent l'un l'autre, tandis que le singe (la Chine) observe leur duel d'une distance sûre ». Et Chine y a réussi en partie. Mais les instigateurs de la guerre entre l’URSS et le Troisième Reich ont utilisé cette méthode encore plus efficacement. Cette guerre, ce sont les Etats-Unis, Israël, les corporations transnationales et les structures bancaires internationales qui l’ont gagnée.

 

Réflexions russes sur la « guerre froide »

 

Un mythe-stéréotype récent n’a cessé d’affirmer que l’un des traits caractéristiques des guerres modernes était l'utilisation des armes d'anéantissement massif, c'est-à-dire des bombes A et H, des matières chimiques empoisonnantes et paralysantes, des matériels d'artillerie ultra-performants et des fusées de grande puissance. On pensait que pour gagner la guerre à l'époque actuelle l'utilisation de tels moyens était possible et même nécessaire et leur utilisation en commun pourrait amener à l'anéantissement du globe terrestre tout entier.

 

Dans les circonstances de la course aux armements nucléaires, on a inventé le terme de « guerre froide ». Il s'agit d’une opposition globale entre blocs militaires et politiques adverses, où les collisions, la lutte, les controverses et les autres formes de rivalité existent, mais où on ne les conduit pas jusqu'au conflit meurtrier sur une vaste échelle. Cela a conduit au partage du monde en deux camps hostiles, l’un communiste et l’autre capitaliste. Les idéologies hostiles et non pas les grandes orientations de civilisation jouaient le rôle principal dans cet antagonisme planétaire. Le blocus de l’information ("Le rideau de fer") a été organisé de part et d’autre et cela a stimulé le partage artificiel de l’Allemagne, l'union contradictoire de l'URSS et de la Chine contre l'Europe et la division de la Corée.

 

L'isolation du camp communiste du reste du monde a mené le développement des pays assiégés à l'impasse économique et sociale. Ces pays sont tombés dans le piège classique et la Russie a subi tous les principes stratégiques des guerres non-classiques: elle a été "tuée avec un couteau d'autrui", "pillée durant un incendie", on a pêché ici longtemps en "eau trouble", on a fait les guerres contre les autres peuples “jusqu’au dernier Russe" et enfin, on "a enlevé l'escalier, en nous attirant vers le toit". La Russie, immergée dans les mythes chrétiens et communistes, ne s’était jamais préparée à ces jeux politiques, inhabituels pour elle, et elle a perdu ainsi la Troisième guerre mondiale, en gardant tout son potentiel nucléaire intact. En outre, l'énergie du réacteur nucléaire, explosé à Tchernobyl, a causé à notre pays un grand dommage, comparable au résultat d'une guerre locale.

 

La « guerre froide », déclarée par Churchill et Truman, dont  le programme minimal visait à ne pas admettre l'élargissement de la sphère d'influence de l'URSS et du communisme, et dont le programme maximal entendait forcer l'URSS à reculer jusque dans ses anciens confins, a été gagnée par l'Occident avec un avantage énorme. Un nouveau partage du monde a lieu sous nos yeux (Yougoslavie, Pays Baltes, Ukraine, Crimée, Caucase) et la Russie est rejetée dans un rôle de troisième rang dans la politique internationale et, pire, son niveau économique est celui d’un pays "sous-développé".

 

Cela est clair : nous, Russes, avons été vaincus avec des moyens "pa­cifiques" (comme la ruse, la corruption, les démonstrations de for­ces, la propagande), plus précisément, nous avons perdu la guerre des civilisations. Nonobstant le fait que notre civilisation soviétique avait quelques avantages face à la civilisation occidentale (par exemple, une économie planifiée, une discipline de travail, une éducation à la spartiate, un ascétisme et un idéalisme communistes), elle cédait le pas du point de vue du niveau de la vie (l'air vicié et pollué, la mauvaise qualité de l'habitation, le manque de moyens de transport personnels, le niveau des salaires, les possibilités de voyager à l'étranger). Si la civilisation soviétique avait pu offrir de tels avantages, les élites d’Europe et des Etats-Unis auraient immigré en Sibérie ou dans l’Oural et nos transfuges ne se seraient pas enfui en Occident.

 

Ainsi, force est de constater aujourd’hui que la condition la plus importante de la victoire, c'est la qualité de la vie, c'est-à-dire une bonne organisation de l'espace vital, que stimule toutes les fonctions de l’organisme « théanthrope » ; grâce à une telle organisation, le lieu d'habitation permanent se transforme en une maison confortable, avec un jardin agréable ; elle est un objet de la fierté nationale. C'est évident : nous ne pouvons apporter une telle qualité de vie qu'à une partie seulement de la Russie, tout en considérant le fait, que la quantité de notre peuple a commencé à diminuer ; une dégradation générale des fonctions, propres à donner la vie, est observable aujourd’hui. C'est pourquoi, il me paraît très important de définir avec précision les priorités nationales dans les domaines de la géopolitique, de la géographie économique et des liaisons internationales.

 

La quatrième guerre mondiale a commencé

 

Nous pouvons clairement affirmer aujourd’hui, que sitôt la Troisième guerre mondiale, la guerre froide, s’est achevée, la Quatrième guerre mondiale a commencé à acquérir vigueur et contours. Cette guerre se mène dans des espaces nouveaux, avec l'utilisation de technologies nouvelles et la participation de sujets nouveaux. Les agresseurs principaux sont les compagnies transnationales, les banques internationales et les organisations comme l’OTAN, l’ONU, l’OSCE. Leur but est l'établissement du "nouvel ordre mondial" et leurs moyens sont, avant tout, les technologies les plus modernes et les courants d'information. Les formes d'opposition ont changé aussi. Auparavant, il fallait prendre une ville d'assaut pour l'occuper et dicter aux habitants les conditions du vainqueur ; maintenant, une telle invasion s’opère par l'intermédiaire des média (TV, radio, journaux, revues). La propagande, la publicité et la culture étrangères dominent dans l'espace de l’information, les technologies occidentales déterminent l'image de l'industrie moderne et les marchandises étrangères ont évincé du marché les marchandises de production locale. Les structures bancaires internationales contrôlent la plupart des économies nationales. Il est donc légitime de parler de domination.

 

On peut placer au nombre des formes de guerre sur-moderne des méthodes d'invasion comme la "thérapie de choc", le "monétarisme", le “crochet énergétique" (les fournisseurs de matières premières contre le complexe militaire-industriel), une guerre locale subordonnée à des objectifs transnationaux (le piège de la Tchétchénie dans le cadre d'un scénario global), le “diktat technologique" (programmes pour les ordinateurs, licences pour les différents types de technique), "la fuite des cerveaux" bien organisée, l'attaque psychotropique (les élections du Président), etc. Les cours du rouble, attaché au cours du dollar, le contrôle d’internet, les virus d'ordinateur sont aussi des variantes d'une agression menée sur une vaste échelle contre la Russie.

 

Une victoire chaque jour !

 

Que pouvons-nous opposer à cette expansion nouvelle? La force de l'intelligence, avant tout. C'est inutile de penser à une contre-offen­si­ve sans supériorité intellectuelle. Il faut encourager, bien payer, dé­ve­lopper et faire de la propagande pour toutes les formes d'activité intellectuelle. Il est nécessaire de créer un champs d’action moderne et intellectuel (par l'intermédiaire de notre presse, par des réseaux informatiques, des fax-modems, etc.). Il faut combiner l'étude des disciplines fondamentales, de la tradition nationale, de la stratégie mil­itaire et politique avec l'analyse opérative. Les structures hermétiques de caste doivent remplacer les structures politisées de masse. Dans le domaine de la théorie et de la pratique, il est nécessaire de com­biner la Tradition et la Révolution, c'est-à-dire l'appropriation des val­eurs sacrales et simultanément, la correspondance aux exigences d'au­jourd'hui, et toujours le haut niveau professionnel et l'aspiration à la suprématie. Dans le domaine des liaisons extérieures, il faut établir des contacts avec les organisations paneuropéennes et eurasiennes, dres­ser des ponts entre nos alliés dans tout le monde.

 

Mais le point capital est l'offensive. L'attaque! Ici, tout de suite et tou­jours - une victoire chaque jour !

 

Pavel TOULAEV,

Vice-Président de « Synergies-Russie ».

(Traduit du russe par A. M. Ivanov ; texte abrégé issu du bulletin politologique international d'information Imperativ, Berlin, 1997, n°3, pp 55-57).

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vendredi, 24 avril 2009

Recettes pour assainir l'économie au quotidien

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Recettes pour assainir l'économie au quotidien

 

Ex: http://unitepopulaire.org/

 

« Il est naturel d’adopter un mode de vie économe quand les temps sont durs et que l’on craint pour son emploi. Mais, au Royaume-Uni, aux Etats-Unis et dans d’autres pays, comme l’Espagne et l’Irlande, où l’activité est tirée par la consommation, cette tendance semble annoncer un changement bien plus profond : la fin d’un mode de vie fondé sur une consommation effrénée, alimentée par le crédit facile et l’effet de richesse induit par une valorisation constante des actifs [immobilier et portefeuilles d’actions]. D’ores et déjà, les Américains, naguère si dépensiers, ont relevé leur taux d’épargne personnelle de quasiment zéro – niveau aux alentours duquel il tournait depuis des années – à presque 3 % en novembre. Il devrait prochainement atteindre au moins 8 %, du jamais-vu depuis vingt ans, prévoit David Rosenberg, le chef économiste de la banque Merrill Lynch. A l’image des banques, surendettées et sous-capitalisées, poursuit Rosenberg, les ménages assainissent leur situation en dépensant moins, en épargnant plus et en remboursant leurs dettes. Et, comme dans le secteur financier, cela ressemble de moins en moins à des ajustements temporaires et de plus en plus à un changement d’habitudes durable. […]


A en croire Bob McKee, un analyste d’Independent Strategy, un cabinet de conseil en investissement de Londres, cette prudence ralentira la croissance du crédit et les prêts iront aux entreprises qui produisent et investissent, et non plus aux opérations financières hasardeuses. Cela devrait normalement favoriser une décélération et une stabilisation de la croissance économique. […] Les signes de restriction des dépenses sont partout visibles. La consommation est en berne dans tous les pays industrialisés. […] Dans des pays traditionnellement économes comme la Chine et l’Allemagne, les taux d’épargne déjà élevés ont encore progressé. Les Chinois sont plus que jamais près de leurs sous, alors que des millions de travailleurs ayant perdu leur emploi dans les usines du littoral rentrent dans leur village natal. […] A Hong Kong, les restaurants de luxe sont désertés, tandis que les gargotes de rue sont encore plus bondées que d’habitude. Au Royaume-Uni, la chaîne de supermarchés Sainsbury’s annonce un triplement des ventes de produits à petits prix comme la viande à braiser (le morceau le moins cher) en l’espace d’un an. L’enseigne de cordonnerie minute Timpson signale un bond des réparations de montres et de chaussures dans ses magasins. “Nous voyons défiler des clients d’un genre tout à fait nouveau, des personnes qui n’ont jamais pensé faire réparer quoi que ce soit“ constate le président de la société, John Timpson. “Une nouvelle mentalité s’installe : on se débrouille et on raccommode ses affaires” […] Les entreprises ne gagneront plus rien à lever des capitaux et à s’endetter au maximum. En revanche, celles qui ont des fonds propres solides, des actionnaires patients et une trésorerie saine – celles-là mêmes dont on raillait naguère le côté pépère – disposeront d’un avantage certain. […]


Bien sûr, de nombreux économistes vous diront que la consommation va repartir, entraînant l’économie dans son sillage. Mais, pour David Rosenberg, ce rebond sera bien plus modeste que d’habitude. Car, d’une part, la dévalorisation des logements et des comptes épargne-retraite provoquera un “effet de pauvreté” durable et, d’autre part, le flot de crédit facile qui avait dopé la consommation n’est pas près de couler à nouveau. […] La croissance mondiale finira bien par repartir, mais elle ne sera plus tirée par la consommation des pays occidentaux. Elle a des chances de rester en deçà des 5 % pendant de nombreuses années, notamment parce que, partout dans le monde, les dirigeants politiques ne rateront pas l’occasion de reprendre du pouvoir aux marchés. Cela se traduira, à tort ou à raison, par un interventionnisme accru de l’Etat et des politiques de redistribution, avec un alourdissement de la fiscalité et une baisse des profits des entreprises.


Cette nouvelle frugalité fera peur à mesure que ses effets se propageront à l’économie mondiale, mais s’avérera au final bénéfique. […] Les capitaux se feront plus rares, mais ils seront investis de manière plus efficace. Les profits des entreprises représenteront une part moins élevée du revenu national, mais ils seront plus stables. Ce sera un monde plus ennuyeux, à croissance moins forte. Mais ce sera aussi un monde plus tenable, avec moins de déséquilibres, de déficits et de mauvaises surprises économiques. » 

 

Newsweek, mars 2009 

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Drieu on the Failure of the Third Reich

 

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Drieu on the Failure of the Third Reich

 

by Michael O’Meara

TRANSLATOR’S NOTE:  The powers threatening our people became hegemonic in May 1945, when the liberal-Communist coalition known as the “United Nations” imposed its dictatorship on defeated Germany. This dictatorship — whose defining characteristic, East and West, is its techno-economic worship of the Jewish Moloch — was subsequently imposed on the rest of Europe and, in the form of globalization, now holds the whole world in its grip. For white nationalists, the defeat of National Socialist Germany is both the pivotal event of the 20th century and the origin of their own movement. Opposing the powers which are one generation away from exterminating their race, white nationalists resume, in effect, the struggle of the defeated Germans. But they do so not uncritically.

As an idea and a movement, National Socialism (like Fascism) was a product of the late 19th-century political convergence that brought together elements from the revolutionary anti-liberal wing of the labor movement and elements from the revolutionary anti-liberal wing of the nationalist right.  Hitler’s NSDAP was the most imposing historical offshoot of this anti-liberal convergence, but one not always faithful to its origins — which bears on the fact
that Hitler shares at least part of the responsibility for the most devastating defeat ever experienced by the white race. 

It is not enough, then, for the present generation of white nationalists to honor his heroic resistance to the anti-Aryan forces.  Of greater need, it seems to me, is to identify and come to terms with his failings, for these, more than his triumphs, now weigh on our survival as a people.

The following is an excerpt from a piece that Pierre Drieu La Rochelle wrote in the dark days after August 1944, after the so-called “Liberation” of Paris and before the suicide that “saved” him from De Gaulle’s hangman.  It was written in haste, on the run, and never completed, but is nevertheless an illuminating examination of Hitler’s shortcomings (even where incorrect).

The central point of Drieu’s piece (and it should be remembered that he, like many of France’s most talented thinkers and artists, collaborated with the Germans in the hope of creating a new European order) is that Germany alone was no match for the combined powers of the British Empire, the United States, and the Soviet Union.  Only a Europe recast on the basis of National Socialist principles, he believed, could triumph against the Jew inspired coalition.   Hitler’s petty bourgeois nationalism, critiqued here by Drieu, prevented him from mobilizing the various national families of Europe in a common front, proving that his distillation of the anti-liberal project was inadequate to the great tasks facing the white man in this period.

*

From Drieu’s “NOTES SUR L’ALLEMAGNE:” 

I was shocked by the extreme political incompetence of the Germans in 1939, ‘40, and ‘41, after the victories [which made them Europe's master].  It was in this period that their political failings sealed the fate of their future military defeat.

These failings seem even greater than those committed under Napoleon [in the period 1799-1815, when the French had mastered Europe]. The Germans obviously drew none of the lessons from the Napoleonic adventure.

Was German incompetence the incompetence of fascism in general?  This is the question.

The imbecilic maxim guiding Hitler was: “First, wage and win the war; then, reorganize Europe.”  This maxim contradicted all the lessons of history, all the teachings of Europe’s greatest statesmen, particularly those of the Germans, like Frederick and Bismarck.  It was Clausewitz who said war is only the extension of politics.

But even if one accepts Hitler’s maxim, the German dictator committed a number of military mistakes:

1. Why did he wait six months between the Polish campaign and the French campaign?

2. Why did he squander another ten months after the French campaign?

3. Why in late 1940 did he wage a futile aerial assault on England, instead of striking the British Empire at its most accessible point, Gibraltar?

After July 1940 [when no European power opposed him on the continent], he could have crossed Spain, destroyed the [English] naval base at Gibraltar, and closed off the Mediterranean.

The armistice with Pétain [which led to the establishment of the Vichy regime] was [another] German disaster.  If the French had followed [Paul] Reynaud [the last Premier of the Third Republic who advocated continued resistance from France's North African colonies], the Germans would have been forced to do what was [militarily] necessary to win the war.  For once master of Gibraltar, Hitler would have rendered [the English base at] Malta useless, avoided the Italian folly in the Balkans [which doomed Operation Barbarosa in Russia], and assured the possibility of an immediate and relatively uncostly campaign against [English occupied] Egypt.  Rather than bombing London, he should, instead, have seized Alexandria, Cairo, and Suez.  This would have settled the peace in the Balkans, avoiding the exhausting occupations of Greece and Yugoslavia, [it would have cut England off from her overseas empire, and guaranteed Europe's Middle Eastern energy sources].

These military failings followed from Hitler’s total lack of imagination outside of Germany.  He was [essentially] a German politician; good for Germany, but only there.  Lacking political culture, education, and a larger tradition, having never traveled, being a xenophobe like many popular demagogues, he did not possess an understanding of what was necessary to make his strategy and diplomacy work outside Germany.  All his dreams, all his talents, were devoted to winning the war of 1914, as if conditions [in 1940] were still those of 1914. . .  He thus underestimated Russian developments and totally ignored American power, which had already made itself felt in 1914.

He did understand the importance of the tank and the airplane [whose military possibility came into their own after 1918], but not in relationship to the enormous industrial potential of Russia and America. He neglected [the role of] artillery, which was a step back from 1916-1918.  He is least reproachable in his estimation of submarine warfare, whose significance was already evident in the Great War.  But even here, the Anglo-Saxons [i.e., the Anglo-Americans] deployed their maritime genius in a way difficult for a European continental to anticipate.

Hitler’s political errors [, however,]  were far worse and more thorough-going than his military errors.  He hardly comprehended the problem, seeing it in terms of 1914 — in terms of diplomacy, national states, cabinet politics, and [rival] chancelleries.  His understanding of Europe did not even measure up to that of old aristocrats like Bismarck and Wilhelm II, who never forgot the traditions of solidarity that united Europe’s dynasties, courts, and nobilities. . .

It is curious that this man who knew how to inspire the masses in his own country, who always maintained the closest contact with his people, never, not for a second, thought of extending his [successful] German policies to the rest of Europe.  He [simply] did not understand the necessity of forging a policy to address Europe domestically and not just internationally.  Diplomats and ambassadors had lost command of the stage — it was now in the hands of political leaders capable of winning the masses with the kind of social policies that had succeeded in Germany and could succeed elsewhere.

Hitler didn’t understand this.  After his armies invaded Poland, France, and elsewhere, he never thought of implementing the social and political practices that had worked in Germany . . .  He never thought of carrying out policies that would have forged bonds of solidarity between the occupied and the occupiers. . .

These failures lead me to suspect that the Germans’ political stupidity . . . owed something to fascism — that political and social system awkwardly situated between liberal democracy and Communist totalitarianism.

In the fascist system there was something of the “juste milieu” that could not but lead to the Germans’ miserable failure.  [A French term meaning a "golden mean" or a "happy medium," "juste milieu" is historically associated with the moderate centrist politics (or anti-politics) of bourgeois constitutionalists -- first exemplified by France's July Monarchy (1830-48) and subsequently perfected in the American party system].

The Germans have no political tradition.  For centuries, most of them inhabited small principalities or cities where larger political forces had no part to play.  There was, however, Vienna and Berlin.  In these two capitals, politics was the province of a small [aristocratic] caste.  The events of 1918 [i.e., the liberal revolutions that led to the Weimar and Viennese republics] abruptly dislodged this caste, severing its ties from the new governing class.

Everything that has transpired in the last few years suggests that Germany remains what it was in the 18th century . . . a land unable to anchor its warrior virtues in politically sound principles . . .

[Part of this is due to the fact that] the German is no psychologist.  He is too much a theoretician, too intellectually speculative, for that.  He lacks psychology in the way a mathematician or metaphysician does.  German literature is rarely psychological; it develops ideas, not characters.  The sole German psychologist is Nietzsche [and] he was basically one of a kind. . .  Politically, the Germans [like the French] are less subtle and plastic than the English or the Russian, who have the best psychological literature and hence the best diplomacy and politics.

Hitler’s behavior reflected the backward state of German, and beyond that, European attitudes.  This son of an Austrian custom official inherited all the prejudices of his father’s generation (as had Napoleon).  And like every German nationalist of Austrian extraction, he had an unshakable respect for the German Army and the Prussian aristocracy.  Despite everything that disposed him against it, he remained the loyal Reichwehr agent he was in Munich [in 1919]. . . If he subsequently became a member of a socialist party [Anton Drexler's German Workers' Party] — of which he promptly became the leader — it was above all because this party was a nationalist one. Nationalism was always more important to him than socialism — even if his early years should have inclined him to think otherwise . . .

Like Mussolini, Hitler had no heartfelt commitment to socialism.  [Drieu refers here not to the Semitic socialism of Marx, with its materialism, collectivism, and internationalism, but rather to the older European tradition of corporate socialism, which privileges the needs of family, community, and nation over those of the economy] . . . That’s why he so readily sacrificed the [socialist] dynamism of his movement for the sake of what the Wehrmacht aristocracy and the barons of heavy industry were willing to concede.  He thought these alone would suffice in furnishing him with what was needed for his war of European conquest. . .

Fascism failed to organize Europe because it was essentially a system of the “juste milieu” — a system seeking a middle way between communism and capitalism. . .

Fascism failed because it did not become explicitly socialist.  The narrowness of its nationalist base prevented it from becoming a European socialism . . .  Action and reaction: On the one side, the weakness of Hitlerian and Mussolinian socialism prevented it from crossing national borders and becoming a European nationalism; on the other, the narrowness of Mussolinian and Hitlerian nationalism stifled its socialism, reducing it to a form of military statism. . .

Source: Pierre Drieu La Rochelle.  Textes retrouvées.
Paris: Eds. du Rocher, 1992.

jeudi, 23 avril 2009

E morto Giano Accame

È morto Giano Accame

http://www.ilmessagero.it/

Giano Accame (foto Ansa)
ROMA (16 aprile) - Giano Accame si è spento a Roma. La notizia della morte dello storico, giornalista e scrittore nato a Stoccarda il 30 luglio del 1928 è stata data dal figlio Nicolò. La camera ardente, allestita presso la casa-studio di Accame in Lungotevere dei Mellini 10 a Roma, verrà aperta questo pomeriggio a partire dalle 15.

I funerali si svolgeranno sabato prossimo alle 10.30 a Roma, nella chiesa di Santa Maria della Consolazione al Foro romano.

Accame, giornalista, studioso, direttore del Secolo d'Italia ìtra l'88 e il '91, è stato uno degli intellettuali di primo piano della destra italiana e avrebbe compiuto 81 anni il 30 luglio. Aveva un record unico tra i giovani di Salò: si arruolò la mattina del 25 aprile 1945: «la sera ero già in galera. Non ho mai fatto il miles gloriosus anche per questo. Avevo 16 anni», disse in una recente intervista.

Accame, nato a Stoccarda ma cresciuto a Loano, ha avuto un percorso molto particolare nella destra. Fu tra i relatori al convegno sulla Guerra rivoluzionaria, nel '65, che gettò le base teoriche della strategia della tensione, dirigente del Movimento sociale italiano fino al '68, tra i più stretti collaboratori di Randolfo Pacciardi, padre del presidenzialismo italiano, nell'esperienza effimera dell'Unione democratica per la Nuova Repubblica, anticipatrice del dibattito sulla repubblica presidenziale. E' stato poi redattore delle più importante riviste della destra - da Il Borghese, al Fiorino e L'Italia settimanale - collaboratore de Il Sabato, Lo Stato, Pagine Libere, Letteratura.

Durissima fu in principio la sua critica a Gianfranco Fini che parlava del fascismo come male assoluto ma Accame negli ultimi tempi leggeva gli avvenimenti politici e la confluenza con Forza Italia nel Pdl come un necessario fatto imposto dai tempi. Collocava dunque questa svolta nell'orizzonte del superamento delle ideologie, «oltre la destra, oltre la sinistra - disse ricordando lo slogan sempre caro alla destra sociale dell'Msi - il vero ambito in cui si muove questa fusione è quello della de-ideologizzazione, una scelta che è positiva ma che impone nuove analisi, nuovi modi di essere, nuove sfide. Lo globalizzazione non è stata quel fenomeno negativo che oggi si tende a raffigurare».

«Per me è veramente una scomparsa gravissima, per me è stato un maestro», ha detto il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «Ho offerto alla famiglia di allestire la camera ardente in Campidoglio - ha detto Alemanno - loro però preferiscono tenerlo a casa». «È stato un intellettuale di grandissimo spessore - ha concluso - che ha attraversato tutta la storia del dopoguerra, con posizioni sempre molto ricche e significative. È stato uno dei grandi maestri della cultura di destra».

Chi era Giano Accame

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Chi era Giano Accame

L'intellettuale "eretico" di destra

Pensatore eretico della destra, fascista di sinistra, uno degli intellettuali storici della destra italiana, l'intellettuale che voleva unire destra e sinistra sull'idea di patria, il pioniere del dibattito sulla repubblica presidenziale, il primo intellettuale di destra ad avere posizioni filoisraeliane, pensatore "scomodo" grande studioso del poeta americano Ezra Pound: sono solo alcune delle definizioni date ad Giano Accame, il giornalista, saggista e scrittore scomparso a Roma a 81 anni.

Da vero "irregolare" del panorama politico e culturale di destra, Giano Accame ha ricoperto ruoli diversi nella sua lunga vita: dalla sua collaborazione con Tabula Rasa, fucina di pensatori della destra, a inviato del settimanale Il Borghese dal 1958 al 1968; per sedici anni direttore del settimanale Nuova Repubblica, che faceva capo al repubblicano Randolfo Pacciardi, e direttore del quotidiano Il Secolo d'Italia, organo del Msi, tra il 1988 e il '91. Ha pubblicato diversi libri che hanno sempre suscitato dibattito a destra e letti con attenzione a sinistra: Socialismo tricolore (1983) con Editoriale Nuova, poi con Settimo Sigillo Il fascismo immenso e rosso (1990), Ezra Pound economista, Contro l'usura (1995), La destra sociale (1996), Il potere del denaro svuota le democrazie (1998). Nel 2000 con Rizzoli Accame ha pubblicato Una storia della Repubblica: un'opera, avvertiva l'editore, non basata sul conformismo e sul politicamente corretto, ma raccontata con un'interpretazione fuori dai vecchi schemi, spesso critica ma sempre obiettiva e rigorosamente documentata. In pochi mesi il volume fu ristampato più volte e poi apparve anche in edizione tascabile Bur Rizzoli. Alla presentazione ufficiale del libro a Roma esponenti di destra e di sinistra cercarono di far "pace" sul dopoguerra: intervennero, tra gli altri, Gianni Borgna, Marco Minniti, Gianni Alemanno e Francesco Storace.

Giano Accame nasce a Stoccarda il 30 luglio 1928 da madre tedesca, Elisabeth von Hofenfels, mentre il padre e il nonno furono ammiragli e gli antenati piccoli armatori di Loano (Savona). Il 25 aprile 1945, giorno della Liberazione, ad appena 17 anni, Accame si arruolò nella marina militare della Repubblica sociale italiana, ammirando la Decima Mas. La sua adesione alla Rsi durò lo spazio di un mattino, perché alla sera fu catturato dai partigiani a Brescia. Nel 1946 si iscrisse a Genova al Fronte degli Italiani, organismo poi confluito nel Msi, di cui creò le prime sezioni nella riviera ligure ed è stato dirigente regionale e nazionale. Nel 1956 lasciò il Movimento sociale italiano, stanco di polemiche interne e per impegnarsi di più con il giornalismo, sua futura professione, nelle polemiche culturali.

Da qui la collaborazione, con altri intellettuali già stanchi del partito, con Tabula Rasa. Nel 1956 iniziò la professione come capo della redazione toscana del settimanale Cronaca italiana. Nel 1958 passò a Il Borghese, da cui si dimise nel 1968 per contrasti sulla contestazione giovanile. Segretario del Centro di vita italiana presiedutoda Ernesto De Marzio, organizzò a Roma due incontri internazionali di scrittori di destra. Nel1964 dirisse il settimanale Folla, poi, Nuova Repubblica, organo del movimento presidenzialista del repubblicano Randolfo Pacciardi, l'Unione democratica per la nuova Repubblica, di cui divenne segretario nazionale. Come stretto collaboratore di Pacciardi, Accame fu anticipatore, durante gli anni Sessanta, del dibattito sulla repubblica presidenziale.

Dal 1969, come inviato ed editorialista de Il Fiorino, Giano Accame si specializzò in giornalismo economico e collaborò agli Annali dell'economia italiana di Epicarmo Corbino. Tra la fine del 1988 e il 1991 ricoprì l'incarico di direttore del Secolo d'Italia. Ha collaborato con diverse riviste, tra le quali L'Italia settimanale, Il Sabato, Lo Stato, Pagine Libere, Letteratura - Tradizione, La Meta Sociale e Area, ma anche con diversi quotidiani come Il Tempo, Lo Specchio e Vita.

Giano Accame è stato considerato, insieme a Piero Buscaroli, Fausto Gianfranceschi, Franco Cardini, Gianfranco de Turris e Marcello Veneziani, uno degli intellettuali storici della destra italiana. Accame non si ritenne mai un "fascista di sinistra", come il suo grande amico Beppe Niccolai, né tantomeno un "Bertinotti della destra", come fu definito da alcuni giornali per le sue posizioni "eretiche" e "scomode", considerandolo una perniciosa macchietta. Accame ha sempre pensato che tradizione e patria non dovessero essere pretesti, ma ideali veri da rendere concreti con l'azione politica. Quando vennero fuori i documenti del "golpe bianco" del partigiano liberale Edgardo Sogno, alla metà degli anni Settanta, Accame risultava in predicato come ministro della Pubblica istruzione. "Vanterie di una persona anziana che voleva stupire. Sogno era intelligente, simpatico, coraggioso. Ma era il birichino di mamma"', dichiarò Accame nel 2004 in un'intervista a Claudio Sabelli Fioretti per Sette del Corriere della Sera. Allo stesso giornalista che gli ricordava le definizioni date di lui come "terzomondista, anticapitalista, antiamericano", Accame rispose: "Sono solo venature".

Il sindaco di Roma Alemanno:
''Per me è veramente una scomparsa gravissima perché è stato un maestro''. ''E' stato un intellettuale di grandissimo spessore che ha attraversato tutta la storia del dopoguerra con posizioni sempre molto ricche e significative, uno dei grandi maestri della cultura di destra''.

La camera ardente, allestita presso la sua casa-studio in Lungotevere dei Mellini 10 a Roma, verrà aperta questo pomeriggio a partire dalle 15. I funerali si svolgeranno sabato.

Giano Accame : pensiero scomodo

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Giano Accame, pensiero scomodo

 

14 maggio 2001

Puntata realizzata con gli studenti del Liceo Classico "Umberto I" di Napoli"

STUDENTESSA: Ringraziamo Giano Accame per essere qui con noi. Prima di dare avvio alla discussione guardiamo la scheda filmata.

Pensieri scomodi, pensieri inquietanti, pensieri di difficile collocazione, attraversano, come ombre, il corso del secolo che è appena trascorso. Un secolo dove la massa si è fatta protagonista e il conformismo, l'automatismo mentale, l'inerzia, il torpore, sono diventati condotta comune, norma di comportamento. Il secolo dei grandi totalitarismi sicuramente è anche il secolo dell'indottrinamento di massa, ma, paradossalmente, è anche il secolo degli antagonismi, delle ribellioni, è il secolo in cui scrittori e pensatori, spesso solitari, emarginati, talvolta sconfitti dalla storia, conducono "esperimenti temerari" o semplicemente portano il peso di una "intelligenza scomoda", refrattaria a ogni conformismo. È il caso, ad esempio, dello scrittore tedesco Ernst Junger, una delle grandi figure della letteratura del Novecento. In età più che matura, all'inizio degli anni Cinquanta, Junger teorizza il comportamento del ribelle, al quale, "per sapere che cosa sia giusto, non servono teorie o leggi escogitate da qualche giurista di partito". Il ribelle "attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni". Il ribelle rifugge da ogni ordine costituito, non appartiene più a niente, ha varcato una volta per tutte il meridiano delle opinioni comuni. Pensatore scomodo è dunque Junger, come d'altra parte scrittore scomodo è stato Louis-Ferdinand Céline, definito "veggente del tramonto dell'Occidente". Poeta scomodo è Ezra Pound, una delle voci più alte della poesia del Novecento e uno dei critici più feroci della vita degradata, misurata dal denaro e dalla prestazione. E scrittore scomodo Yukio Mishima, la cui "intelligenza scomoda" si esprime nella ricerca della bellezza e nella fedeltà alla propria tradizione. Ma ogni ricerca ha il suo prezzo: Mishima muore suicida nel 1970.

STUDENTESSA: Possiamo arrivare a definire una "intelligenza scomoda"? Cioè quali sono i suoi tratti distintivi?

ACCAME: Questa espressione, "intelligenze scomode", viene da una trasmissione di Rai Educational dedicata a scrittori, intellettuali e artisti di destra, ma più che di destra, o fascisti, o accusati di fascismo, persone che sono state una parte ineliminabile, importante, del pensiero del Novecento; e che appartengono ormai non solo a una parte, ma al genere umano. Non si potrebbe fare a meno, nella letteratura italiana, di Gabriele D'Annunzio, anche se a Fiume ha creato la ritualità del fascismo, i saluti, il discorso dal balcone. La filosofia italiana non potrebbe fare a meno del più grande filosofo accademico del Novecento, Giovanni Gentile. L'arte italiana non potrebbe fare a meno del futurismo, anche se Marinetti è stato fascista. Il futurismo è stato, dopo il Barocco, la prima volta che l'arte italiana ha avuto di nuovo una dimensione universale. E così la cultura del mondo non potrebbe più rinunciare a Ezra Pound, che è stato il grande innovatore del modo di fare poesia in lingua inglese, o di Céline, che ha cambiato completamente, rinnovato, il modo di fare prosa narrativa, o di Carl Schmitt, che è stato il più grande politologo del secolo scorso.

STUDENTESSA: Secondo Lei, quali sono i rischi, i pericoli, che una "intelligenza scomoda" corre al giorno d'oggi, e quali sono stati quelli dell'anticonformismo nel secolo appena passato?

ACCAME: Ad esempio, tra i rischi dell'anticonformismo, è esemplare la vita tormentata di Ezra Pound, che per essere stato vicino al fascismo e soprattutto alla repubblica sociale italiana, fu poi chiuso dai suoi concittadini americani in una gabbia, come una bestia, in un campo di concentramento a Pisa e poi confinato per tredici anni in un manicomio criminale negli Stati Uniti. Questa idea di curare le dissidenze come una forma di disturbo mentale non è stata adottata prima nell'Unione Sovietica, ma per prima in America. Non accettandosi l'idea che il più grande poeta americano fosse simpatizzante del fascismo, lo si è fatto passare per matto.

STUDENTE: Al di là del nostro secolo, come può manifestarsi oggi una "intelligenza scomoda"? E cosa vuol dire, nella nostra società, andare contro l'opinione comune?

ACCAME: È sempre una posizione rischiosa e naturalmente scomoda. Non lo è stata nella prima metà del secolo, dove il pensiero fascista è stato dominante in quasi tutta l'Europa, ma nella seconda metà del secolo queste forme di cultura sono state emarginate e quindi, tra l'altro, si sono rarefatti gli intellettuali che vi hanno aderito. Il massimo della scomodità oggi è nel ribellarsi alla pretesa del denaro, dei poteri finanziari, e di porsi come elemento principale della scelta politica. Oggi viene teorizzato dalla migliore cultura economica, quella che viene dalla Banca d'Italia in Italia, la compresenza di due elettorati: uno siamo noi, sarete Voi, quando ci arrivate, a diciotto anni, il popolo sovrano, quello che vota per dei deputati e dei senatori, che contano sempre di meno. E l'altro invece è il grande elettorato del mercato finanziario, che, si dice, ormai vota tutti i giorni in casa nostra, facendo salire o scendere le quotazioni della lira e della borsa, a seconda che il Parlamento e i governi si comportino bene, cioè secondo le indicazioni del mercato finanziario, oppure si comportino male. Se spendono troppo per i pensionati o gli ammalati, la lira cade. Ecco, ribellarsi a questo grande potere internazionale è certamente scomodo, perché la maggior parte degli organi di informazione importanti sono nelle mai del potere finanziario, e quindi liberissimi nel criticare i poteri politici, molto meno nel criticare i poteri economici. I grandi giornali, le televisioni, sono un po' delle pistole puntate alla tempia dei poteri politici, che devono adeguarvisi.

STUDENTE: Non pensa che sia il pericolo ad impedire l'esercizio dell'anticonformismo? E ancora: è forse per paura che ci si adegua all'opinione comune?

ACCAME: Per la verità l'anticonformismo oggi non viene impedito. Viviamo in un periodo di piena libertà, soltanto che nessuno gli dà poi retta. Diceva Ezra Pound che la libertà di parola, senza la libertà di esprimersi via radio, non vale nulla. Questo lo diceva quando non esisteva ancora la televisione. Se uno scrive, ma non arriva a esprimersi attraverso il nuovo grande mezzo di comunicazione, parla a vuoto, o parla a delle piccole minoranze. Non credo che oggi vi siano motivi di paura. Il grande vantaggio di essere usciti dai due secoli di cultura delle rivoluzioni, con la caduta del Muro di Berlino, che nessuno ha più legittimo motivo di avere paura per la vita, per la libertà, per i beni, di fronte a qualunque scelta politica. Il potere non fa paura. Il potere però può emarginare, è naturale insomma. Quindi esiste, è legittimo, anche per gli intellettuali, il timore, la paura di essere isolati, di essere emarginati, di non contare niente, quindi di non guadagnare. Ecco, questo è. Ridimensionando il timore, è lì oggi il vero nemico dell'anticonformismo, quello che spesso vengono reclamizzate sono forme di anticonformismo banale, ma quello più serio viene ancora ghettizzato.

STUDENTESSA: Recentemente ho visto un film, L'ultimo bacio, di Gabriele Muccino, e uno dei personaggi dice: "La normalità è la vera rivoluzione". Lei cosa ne pensa?

ACCAME: La rivoluzione è cambiamento, mentre la normalità è stabilizzazione. La grossa difficoltà nel rapporto tra gli intellettuali e la politica è che, soprattutto in periodo democratico di elezioni, la politica si muove appunto sulla normalità. La politica deve usare argomenti accessibili al grande pubblico, quindi argomenti ormai banalizzati. Mentre il compito dell'intellettuale è quello di spingersi oltre, di dire delle novità; il compito più difficile, insomma. Ma la normalità non è la vera rivoluzione. La vera rivoluzione è il cambiamento. La vera rivoluzione è stata - adesso ormai questo periodo di due secoli è finito -  l'ambizione delle filosofie a inverarsi nella storia. Un tempo ci si accontentava che le filosofie spiegassero il mondo. Da Marx a Gentile, che ha ripreso questa filosofia della prassi di Marx, invece si aggiunge o si era aggiunta una nuova pretesa, che la filosofia non solo spiegasse il mondo, ma che lo cambiasse. Ecco, la normalità non ha questa pretesa di cambiamento. La normalità di solito si adegua e non penso che possa essere rivoluzionaria.

STUDENTESSA: Nella scheda filmata abbiamo visto che gli scrittori e i pensatori citati sono tutti critici della democrazia occidentale. Ora l'atteggiamento antidemocratico può identificarsi con l'anticonformismo?

ACCAME: Certamente! Perché quelli anticonformisti sono atteggiamenti di minoranza, che quindi spesso si rivoltano, o si sono rivoltati in passato contro la democrazia. In realtà né Pound né Junger si sono particolarmente rivoltati contro la democrazia. Se mai solo Mishima, che è un curioso esempio di fascismo di ritorno, o di tradizionalismo di ritorno. Durante la guerra  Mishima fu scartato alla leva e ne fu contentissimo perché si risparmiava la vita. Diventò lo scrittore giapponese più noto in Occidente, e di solito in Italia tutti i suoi primi libri sono stati pubblicati da Feltrinelli, quindi anche molto gradito alla sinistra. Omosessuale, o almeno bisessuale, quindi trasgressivo, su un piano che il pensiero conservatore è meno orientato a accettare. E tuttavia, dopo aver riscosso successo internazionale e in Giappone naturalmente, a un certo punto ha sentito la vanità di questo successo e ha avuto un ritorno di pensiero conservatore, tradizionale ed è ritornato all'antica etica dei Samurai, sino a compiere il sacrificio rituale in una caserma giapponese, per protestare contro l'occidentalizzazione del Giappone e soprattutto contro l'asservimento dell'attuale classe politica giapponese agli americani. Ecco, quindi è l'unico, se mai, che si è ribellato a quel tipo di democrazia asservita. In realtà tutti poi dopo hanno fatto riferimento al popolo. In particolare Ezra Pound era fortemente critico del sistema politico americano, ma non perché fosse antidemocratico. Lui seguiva le idee di Jefferson, che è tra i creatori della democrazia americana, ma accusava la classe dirigente democratica americana di essersi asservita ai banchieri, di essersi asservita al grande capitale finanziario e di aver quindi tradito la stessa Costituzione degli Stati Uniti, che riservava al Congresso la sovranità monetaria e invece questa sovranità era stata trasferita ai banchieri. Questo era più legato alla vera idea dei pionieri americani. Si considerava infatti un vero patriota americano, in rivolta contro il tradimento della democrazia fatta delegando troppi problemi e troppi poteri alla finanza.

STUDENTE: Non crede che l'anticonformismo sia possibile solo in democrazia, e che invece il totalitarismo non sopporti le intelligenze scomode?

ACCAME: Certamente è più facile in democrazia che nei totalitarismi.  E tuttavia anche nei sistemi totalitari ci sono stati esempi di rivolta, di ribellione, che naturalmente sono costati di più. Io, come scrittore di destra, la libertà in questo mezzo secolo ho dovuto più faticosamente conquistarmela, giorno per giorno. A me non l'hanno regalata gli americani, insomma, non mi è stata importata. L'ho dovuta conquistare vincendo pregiudizi, difficoltà, tentativi di discriminazione. E quindi qualche difficoltà la si incontra anche in un sistema di piena libertà.

STUDENTE: Si può, paradossalmente, seguire la legge ed essere comunque scomodi? Pensavo, ad esempio, al Giudice Falcone.

ACCAME: Certamente! Ma il Giudice Falcone era scomodo per la delinquenza, per la grande criminalità organizzata. Non direi che sia un esempio di anticonformismo. È un esempio di eroismo, come quello del Giudice Borsellino, come quello delle forze dell'ordine quotidianamente impegnate nella difesa delle persone per bene, degli onesti, contro la grande criminalità. Ma non direi che questo sia un esempio di anticonformismo. Per quanto, lì dove la società è addormentata, dove esistono complicità tra poteri politici e grandi organizzazioni mafiose, anche questo, il coraggio di rivoltarsi, rischiando la pelle, può, a suo modo, essere interpretato come un anticonformismo. L'egoismo, il rischiare la vita, è sempre impresa di pochi. L'eroe è di per sé uno che si stacca dalla media, dalla normalità, e in questo si può considerare non perfettamente conformista. Non è uno che si fa i fatti suoi e pensa solo alla famiglia. Pensa alla Patria, alla generalità dei cittadini.

STUDENTESSA: Secondo Lei l'intelligenza scomoda è capace solo di demolire e criticare, o è in grado anche di costruire e affermare?

ACCAME: L'intelligenza scomoda vorrebbe anche costruire e affermare. In realtà, dalla lezione dei fascismi è venuto qualcosa che oggi, a livello debole, è estremamente diffuso. Cosa ha fatto il successo politico di Mussolini, ad esempio? È stato il ribellarsi a quella spaccatura, che è nel cuore dell'uomo e della società europea, che aveva provocato la presunzione illuministica, contrapponendo alla tradizione il progresso, contrapponendo alla fede la ragione e la scienza, e, poi il socialismo, contrapponendo alla aspirazione e alla giustizia sociale l'idea di Dio e della Patria. Il successo di Mussolini è stato quello di risaldare queste spaccature e legando e rendendo compatibile, con un'aspirazione alla giustizia sociale, l'idea di Dio e della Patria. Naturalmente poi gli errori hanno compromesso questo tentativo, che aveva suscitato tanti entusiasmi, aprendo nuovi conflitti: conflitto razziale, la discriminazione degli ebrei, e aprendo un conflitto sui temi della libertà. Ma questa idea di risaldare, di non spaccare le masse, sui temi di Dio e della Patria, e spingere il progresso delle masse, unificando questi sentimenti forti, oggi è condivisa da tutti. Nel socialismo italiano è stato Bettino Craxi che ha cercato di sanare queste imprudenti e stupide spaccature, queste fratture. Ha fatto un nuovo Concordato con la Chiesa, ha riscoperto il socialismo tricolore. Ma non c'è forza politica importante, sono solo marginali quelle che non abbiano il pieno rispetto del sentimento religioso e che rinneghino l'aspirazione, oggi più debole, all'identità nazionale. Questo è ormai da destra a sinistra. Tutte le volte che un'idea si affaccia, si affaccia di solito con violenza e con forza, mentre adesso, anche a livello di pensiero debole, tutti condividono questa aspirazione unificante di quelle che sono le grandi tendenze dell'uomo.

STUDENTESSA: Noi finora abbiamo parlato solo di anticonformismo. Ma cosa si intende e come si esprime il conformismo oggi?

ACCAME: Il conformismo, secondo me, si esprime soprattutto nell'economicismo, nell'assegnare, come obiettivo esistenziale e principale, l'idea dell'arricchimento. E questo porta a delle gare che possono essere addirittura distruttive per il genere umano, perché è probabile che l'assetto ecologico della terra non possa resistere a ulteriori progressi, a ulteriori escalation in questa ricerca del benessere e dello spreco. Un tempo ci si accontentava più facilmente della propria condizione economica e si cercava la gratificazione nel far bene certe cose. Il medico condotto non voleva arricchirsi, ma curare, il professore era completamente dedito al proprio lavoro di educatore e non era scontento, i servitori dello Stato e gli ufficiali peroravano la grandezza della nazione. E, comunque, chiunque faceva la propria professione, o il proprio lavoro, o il proprio mestiere di artigiano, di operaio, tendeva a trovare la gratificazione nell'esistenza e in altri valori oltre che quelli monetari. Oggi la ricerca dell'arricchimento, l'economicismo, spegnendo altre aspirazioni dell'uomo, altre tendenze, esprime una forma di conformismo che considero pericolosa. 

STUDENTE: Non pensa che il prezzo da pagare all'anticonformismo sia l'individualismo?

ACCAME: No, se mai proprio il conformismo di oggi è l'individualismo. Ci si lamenta, dopo la caduta del Muro di Berlino, della affermazione planetaria della formazione di un pensiero unico, che è il pensiero liberale individualista. E c'è addirittura una forma quasi di intolleranza liberal-liberista. Se mai, l'anticonformismo oggi si dovrebbe manifestare in un ritorno al pensiero comunitario, all'idea di sentirsi insieme, all'idea della società a cui aderire e da servire.

STUDENTESSA: Secondo Lei, si può essere anticonformisti nel rispetto dell'opinione comune?

ACCAME: L'anticonformismo e l'opinione comune di solito sono in conflitto. L'anticonformista è proprio contro l'opinione comune. Però ci può essere una forma di anticonformismo del conformismo, nel senso che spesso gli intellettuali ostentano forme di disprezzo del senso comune. E allora aderire al senso comune rappresenta in qualche modo una forma di anticonformismo. Il coraggio di pensarla un po' come tutti, perché questo tipo di pensiero viene snobbato.

Puntata registrata il 21 febbraio 2001

Les dessous de la piraterie somalienne

Alors que les actes de piraterie maritime ne cessent de se multiplier dans le Golfe d’Aden, notre collaboratrice Michelle Favard-Jirard met en lumière certains aspects de ce phénomène jusque-là passé sous silence.

Les dessous de la piraterie somalienne

 

Image Hosted by ImageShack.us Avec neuf millions d’habitants et une côte longue de 3 300 km, la Somalie est, depuis 1991, un patchwork formé au sud par la Somalie proprement dite, au nord-ouest par le Somaliland bordant le Golfe d’Aden et au nord-estpar le Puntland, région semi autonome perchée sur sa corne. Dans chaque zone, la situation diffère, le nord-est et le sud, étant les plus instables.

Comme la majorité des pays africains décolonisés - dans les conditions lamentables que l’on sait – la Somalie a sombré dans le chaos puis la guerre civile. S’en est suivi une terrible famine et, en 1992, l’intervention, sous l’égide de l’ONU, d’une force militaire internationale à prépondérance américaine qui, se retrouvant en position d’échec, dut quitter les lieux en laissant le pays en proie à l’anarchie.

Des vérités pas très bonnes à révéler

C’est dans les années 80 qu’apparaît la piraterie, tout d’abord sous l’instigation de simples pêcheurs réagissant à l’incursion de navires étrangers pénétrant illégalement dans les eaux territoriales somaliennes. Malheureusement, ce système d’autodéfense se transforme peu à peu en un business lucratif et, suscitant des envies, dégénère en gangstérisme. Ce que réfute pourtant l’un des leaders des pirates, Sugule Ali qui affirme : « Nous ne nous considérons pas comme des bandits. Ceux qui sont des bandits, [sont] ceux qui pêchent dans nos mers et s’en servent comme dépotoirs ».

Un article paru voici quelques mois dans le journal londonien The Independant, fait écho à cette déclaration, affirmant que « dès la chute du gouvernement en 1991, de mystérieux bateaux européens ont fait leur apparition au large des côtes somaliennes, se délestant d’étranges cargaisons de barils. Peu après, la population a été prise de malaises divers : démangeaisons, nausées, etc. Suite au tsunami de 2005, l’échouage de quelques-uns de ces barils sur les plages, ayant bien entendu suscité curiosité et manipulation de la part des plus curieux, de graves signes de contamination radioactive se sont alors manifestés, entraînant le décès de quelques trois cents âmes. » Interrogés par Reuters, Ahmedou Ould-Abdallah, représentant de l’ONU en Somalie, devait confirmer « la présence de métaux lourds (plomb, cadmium, mercure) dans ces cargaisons provenant d’hôpitaux ou d’usines » et accuser « la mafia italienne (sic) de s’en être débarrassée à moindre frais ».

Déchets toxiques et piratage

D’autre part, à des centaines de kilomètres de là, un autre genre de rumeurs faisaient état de pillages des fonds marins, de surexploitation de fruits de mers - crevettes, langoustes et thons - par des chalutiers étrangers, évalués, pour la seule année 2008, à 300 millions de dollars.

Déplorant une pauvreté toujours croissante, le pêcheur Mohammed Hussein, résident de Marka, situé à une centaine de kilomètres de Mogadiscio, confiait à Reuters : « Si rien n’est fait, nous n’aurons bientôt plus de poisson au large de nos côtes ».

Comment, penseront d’aucuns, concilier dans une même région, le dumping de déchets toxiques et l’exploitation outrancière des ressources marines dès lors exposées à la contamination ? Vu la longueur du littoral somalien, sans garde-côte ni armée, commente un interlocuteur, « on peut par exemple imaginer combien il serait facile de voler du poisson en Floride et se lester en toute impunité de barils à contenance toxique en Californie. La distance séparant ces faits n’en annule pas pour autant, leur horrible commun effet : des indigènes meurent et la piraterie prospère… Il n’y a là aucune contradiction ».

Alors qu’attaques et kidnappings par les pirates se multiplient, la résolution du problème reste difficile. Interviewé le 14 avril dernier à Mogadiscio par Edmund Sanders du Los Angeles Times, le premier ministre somalien Omar Abdirashid Ali Sharmarke déclarait : « Nous ne sommes pas utilisés autant que nous le souhaitons… Il faut combattre les pirates sur la terre ferme. Nous avons des informations sur leur identité et leur fonctionnement… » Une intervention terrestre semble de même être favorisée par le représentant onusien Ahmedou Ould-Abdallah qui parle « d’encourager la paix sur la terre ferme afin de renforcer la sécurité sur mer ». Une chose est certaine, ce genre d’initiative de la part des seuls occidentaux ne pourrait qu’aggraver le conflit.

Aux dernières nouvelles, par une annonce de Sharmarke à l’Associated Press, on apprenait ce vendredi 17 avril, qu’une conférence sur la Somalie était organisée à Bruxelles la semaine prochaine, conduite par l’Union européenne et les Etats-Unis, à laquelle participeraient entre autre, le secrétaire général de l’ONU, le président somalien et des représentant de l’Union africaine en Somalie. Le pirate capturé dimanche dernier, Abdulwali Muse, 19 ans, devait être jugé à New York, alors que le porte-parole du quai d’Orsay, Frédéric Desagneaux, annonçait quant à lui, que la France proposait d’entraîner à Djibouti un bataillon somalien fort de 500 hommes.

Enjeux géopolitiques, véritable volonté de stabilisation ? L’ombre du Moyen-Orient pèse lourd sur cette région du monde…

Michelle Favard-Jirard pour Novopress France


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De totalitaire democratie

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De totalitaire democratie

Geplaatst door yvespernet op 17 april 2009

Vandaag de dagen leven we in een liberale representatieve parlementaire democratie. Iedereen heeft een stem die via een evenredige verdeling zorgt voor een gelijke vertegenwoordiging van de politieke strekkingen in Vlaanderen. Iedereen heeft het recht op vrije meningsuiting, vrijheid van vergaderen, etc… We mogen dus zeggen en denken wat we willen, censuur is er niet meer. Althans, dat is toch de theorie.

Nieuw en oud totalitarisme

Wanneer men over totalitaire regimes spreekt, heeft men direct een beeld voor van regimes met soldaten in de straten, een zichtbare geheime dienst en met regelmatige verdwijningen van politieke tegenstanders. We kunnen echter ook stellen dat wij vandaag de dag in een totalitaire samenleving wonen. Alleen is het regime veel beter geworden in de schijn te bewaren van de vrije mens en worden er ook allerlei misleidende vormen van totalitarisme gebruikt om politieke oppositie tegen het systeem de kop in te drukken. Waar vroeger werd gewerkt met fysiek geweld om de oppositie aan te vallen, werkt men nu veel slimmer. In vroegere tijden werden opposanten nogal zichtbaar en fysiek uitgeschakeld. Ze verdwenen (waardoor iedereen wel kon raden wat ermee gebeurde) of werden gewoon vermoord. Betogingen en opstanden werden met de wapenstok, de bajonet of het geweer neergeslagen of uiteengeschoten.

Het ontstaan van de consumptiemaatschappij heeft het regime echter een machtig wapen gegeven. Door het voeden van het individualisme worden oude sociale verbanden en wordt het sociale middenveld ondermijnd. Mensen worden aangemoedigd om hun eigen belang na te streven, ook als dit ten koste gaat van anderen. En al juich ik uiteraard de materiële vooruitgang tegenover het begin van de 20ste eeuw toe, het materialisme heeft er ook voor gezorgd dat mensen een disproportioneel groot belang hechten aan hun bezittingen. De arbeiders hadden vroeger amper iets te verliezen bij het ondernemen van politieke actie, vandaar ook de term proletariërs.

Totalitarisme in de maatschappij

Een andere eigenschap van de totalitaire staat, althans toch volgens Hanna Arendt (die we niet echt van sympathie kunnen verdenken van radikaal-rechts gedachtegoed), is het ineenstorten van de klassen in de maatschappij. Iets dat we ook vertaald zien in de opbouw van totalitaire bewegingen. Daarin is iedereen gelijk buiten de leider die als een soort nieuwe absolute vorst boven zijn volgelingen zweeft. Ook deze afbraak van de klassen kunnen we herkennen in de huidige maatschappij. Om een totalitaire samenleving te creëeren, is de afbraak van overkoepelende structuren en groepsgevoel immers vitaal. Enkel het individu mag nog bestaan. Duizend individuen zijn immers makkelijker te controleren dan honderd georganiseerde militanten.

Bovenop de afbraak van de groepen en overkoepelende verbanden is er ook nog een andere belangrijke factor; sociale uitsluiting. Opstandelingen tegen het systeem moet men immers niet proberen neer te knuppelen wanneer men een machtig media-apparaat heeft dat het voor het regime doet. Ook fenomenen als “anti-fascisme” dienen enkel voor het overleven van de staat te waarborgen. De grootste successen tegen de oppositie zijn altijd geboekt geweest wanneer de controle van het regime het minst zichbare bleef. Zodra de bevolking zichzelf bespioneert en verdacht maakt, betekentdit voor de staat een enorme verlichting van hun taken.

Door de controle van de media en door de zelfspionage van de bevolking heeft de staat van na WOII ook voor de eerste keer, in een mate dat een dictatuur nooit heeft kunnen doen, zo een grote controle over de mensen. In alle lagen van de maatschappij; media, cultuur, samenleving, etc… wordt er nu gepleit voor een zo “pluralistisch” mogelijke samenstellingen. Buiten uiteraard de regimebedreigende krachten, die zijn naar het schijnt vanuit hun wezen vijandig naar de mens toe. Althans, dat wenst het regime ons wel wijs te maken.

Een nieuw volksfront

Wanneer de politieke klasse zich eensgezind, wat de verschillen onderling zijn wel zeer minimaal te noemen, tegen alle oppositie kant, is het nodig om een nieuwe weg in te slaan. De oppositie moet zich verenigen in een nieuw soort volksfront. Een identitair, anti-globalistisch, anti-kapitalistisch eenheidsfront tegen het cultuurvernietigende, globalistische en kapitalistische volksvijandige kamp. Eenheid tussen radikaal-links en radikaal-rechts. Maar dan moet radikaal-links ook eens gaan beseffen dat ze niet moeten streven naar dingen als meer migratie, aangezien dat net een wapen is van de neoliberale klasse. Die dienen immers om de lonen hier te drukken en het volk op te zetten tegen het grootkapitaal(1).

Maar totdat de radikaal-linkse kant (al zijn er uitzonderingen godzijdank) heeft geleerd dat het belangrijker is om te strijden tegen de volksvernielers en mensenhandelaars (want daar komt de huidige (economische) massamigratie op neer) dan te ijveren voor de emancipatie van zowat alles, zal het regime rustig verder doen met de demonisering van hun grootste bedreiging; de volksnationalisten en solidaristen.

(1) Het grootkapitaal is een kleine groep mensen die geen belang hecht aan het bestaan van naties, voelen zich met niemand buiten hun eigen sociale groep verbonden (en dan nog) en zullen enkel streven naar het eigen geldgewin. Zij zijn niet de burgerij die zich tenminste nog met een cultuur en volk verbond en zijn kapitaal ten minste ook nog gedeeltelijk ten dienste stelde van kunstenaars en musici. Dit grootkapitaal, dat zich steeds verder en verder op een globale schaal organiseert, wilt helemaal niet beperkt worden in hun doen en laten. Zij zullen dan ook altijd streven naar een verdere liberalisering van de economie. Het grootkapitaal produceert op geen enkele manier een meerwaarde aan de samenleving.

Als een parasiet teert het op de rijkdommen van de maatschappij. Rente en de handel in niet-bestaand geld op de beurzen maakt hen stinkend rijk. Wanneer we spreken over een “klassenstrijd” in solidaristische ogen is het beter om te spreken over de strijd tussen productieven en niet-productieven. Productieven zijn iedereen die bijdraagt door arbeid of investeringen aan de maatschappij in zijn geheel, ik heb het dan over veel meer dan pure economische factoren. Niet-productieven zoals het grootkapitaal teren op de maatschappij en haar verwezenlijkingen als een parasiet die zich volzuigt.

France asservie par l'OTAN: Chauprade - De Gaulle, même combat

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Mishima: l'homme, l'oeuvre, la mort

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

 

MISHIMA: L'HOMME, L'ŒUVRE, LA MORT

 

Dans son autobiographie Le Soleil et l'Acier, Kimitake Hiraoka, bien plus connu sous le pseudonyme qui le révèlera à l'humanité, Mishima Yukio, confessait son irréfragable désir d'assouvissement tragique par ces quelques mots, jetés en une fausse interrogation, et alors fort peu écoutés: «Qu'est-ce qui distingue une mort héroïque d'une mort décadente? (...) Résister à la mort et à l'oubli». Cette phrase, le 25 novembre 1970 consommé, personne ne devait plus l'oublier. De fait, pacte suicidaire du plus célèbre des auteurs japonais marque au­jourd'hui encore les esprits à un point tel qu'elle recouvre d'ombre sa pourtant foisonnante et géniale œuvre littéraire. La biographie recomplétée de son ami journaliste Henry Scott-Stokes est éclairante en la matière, qui lui consacre près de 400 pages à décortiquer la troublante personnalité du dernier samouraï nippon, rejetant l'étude de ses textes à une simple énumération-explicitation insipide et sans profondeur aucune.

 

Etonnante inconséquence bien ancrée à “droite” également, pour qui le seppuku du Grand Quartier Général de Tokyo, plus coup d'éclat que coup d'état, est devenu un évènement prépondérant sa mythologie, qu'il est inutile ici d'évoquer à nouveau, tant il l'a déjà à maintes reprises été: «Yukio Mishima choisit d'être le dernier samourai. Sa sortie fulgurante hors d'un monde qu'il abhorrait se camoufle sous une tentative de putsch. Mais un putsch à la nip­pone, voué à l'échec, ayant pour seul dessein de mettre en scène un évènement inou­bliable» (Jean Mabire). Pourtant, un rapide retour sur ses écrits jette un éclairage nouveau et bien plus instructif que tous les cours de psychologie ou études de philosophie orientale (sa vie durant, il restera sceptique à l'égard du bouddhisme et du shintoïsme institutionnels) que depuis vingt-sept ans littérateurs, critiques journalistiques ou prétendus exégètes nip­pophiles s'acharnent à plaquer sur la personne de Mishima pour en finir avec son geste fa­tal.

 

Tout dans ses romans, nouvelles, essais et recueils autobiographiques annonçaient par la plume ce que leur auteur allait bientôt sceller par le sang. L'idée précède l'action, l'action la complète. Le mot, trompeur, factice transposition scripturale du fatum humain, pallié, trans­cendé par l'action elle-même. Et si Mishima nous paraît si proche, c'est que derrière le vernis de l'artiste insulaire imprégné de culture sino-nippone se profile, tantôt en filigrane, tantôt frappant d'évidence, l'écrivain baigné de littérature européenne, de philosophie allemande, de mythologie hellénique. Ceux qui l'ont connu ou approché s'accordent tous à le recon­naître: sa maison, délirant bâtiment baroque mariant avec plus ou moins bon goût pilastres massifs, fioritures et plâtres moulés de statues de l'antiquité et de la renaissance, sa passion pour la Grèce, son culte de l'haltérophilie, son goût immodéré pour Thomas Mann et Friedrich Nietzsche, le philosophe au marteau, attestent de son regard tourné vers le berceau de la tragédie. «Il faut ne jamais s'être ménagé soi-même, il faut avoir fait de la dureté une habitude pour rester serein et de bonne humeur parmi de dures vérités», quelle meil­leure traduction que cet aphorisme nietzschéen tiré d'Ecce Homo pourrait mieux percer à jour la complexité de Mishima, sa pensée profonde et la vision unique qui guida sa vie, son œuvre, et, point d'orgue terrible, sa mort par suicide.

 

Mishima, d'abord un écrivain européen? Perspective ambitieuse certes, mais qui s'appuie sur des faits et des écrits-mêmes de Mishima qu'il serait navrant de vouloir oblitérer, au titre fallacieux d'une compréhension plus aisée d'un auteur ultra-nationaliste et impérialiste en rup­ture de ban. En un dernier aveu au monde qu'il allait définitivement quitter, il laissait sur son bureau, accompagnant la dernière partie manuscrite de sa tetralogie La Mer de la Fertilité, ce billet, disant «La vie est brève, mais je voudrais vivre toujours». Espoir d'éternité concrétisé certes par sa postérite littéraire, que confirme la récente sortie dans la prestigieuse collection NRF-Gallimard du Pélerinage aux Trois Montagnes, mais qui, s'il n'avait été qu'un «quelconque» écrivain de talent, lui aurait au contraire évité sa mort volontaire et prématurée. Son acte, s'il reste nimbé de mystère, doit sa raison d'être à une toute autre inspiration, divine ou classique, indubitablement tragique, nourrie de références européennes, classiques grecs, littérature du «Grand Siècle» et bréviaires sils-mariens, juste retour des choses pour un Nietzsche volontiers «schopenhaueriennement» vulgarisateur du bouddhisme. Mishima, le plus occidental des écrivains asiatiques, tellement opposé au précepte Zen «Aller droit de­vant soi, sans se retourner et sans se poser aucune question».

 

*

«L'homme qui sait mourir ne sera jamais esclave» prêchait déjà Sénèque, conseiller de l'Empereur Néron et maître de la Rome stoïcienne, pour qui la vie, ascèse virile et souverai­neté aristocratique sur ses pulsions tendues vers la LIBERTE absolue de l'Etre, trouvait sa conclusion la plus pure et olympienne dans son propre abandon volontaire. Mais se sacrifier sous le coup de la passion, preuve de son inaptitude à s'affirmer contre le monde, ne saurait mériter que mépris et déshonneur. Or, c'est bien dans ce sens qu'abonde Henry Scott-Stokes quand il affirme péremptoirement que le suicide de Mishima ne fut jamais que shinju, double suicide amoureux en compagnie de son prétendu amant et second au sein de la Tatenokai;  Morita Masakatsu, connotant l'acte d'une homosexualité sado-masochiste honteuse qui ne résiste pas devant l'examen des faits. Quand meurt Mishima, il y a long­temps qu'il s'est défait de ses oripeaux romantiques. Son passage à la Bungei Bunka, asso­ciation militariste de littérateurs nationalistes et son appartenance au mouvement Nippon Roman-Ha («les Romantiques japonais») regroupés derrière la figure du romancier Yasuda Yajura remonte aux dernières années du second conflit mondial.

 

Glorifiant la «guerre sainte» et prônant la valeur salvatrice du sacrifice et de l'autodestruction du peuple japonais guidé par l'infaillabilité de son Empereur-thaumaturge, seul aux yeux de ce cercle avait droit de cité l'exploit intrinsèque, la défaite et la mort, inéluctables, magnifiant comble du romantique la plus belle des victoires, d'ores et déjà acquise par le seul fait que le Japon, peuple à la supériorité divine, ait osé lever le sabre sur l'Asie et s'aliéner la haine de l'Occident. Profondément influencé en ses jeunes années par l'école néo-confucéenne Wang-Yang-Ming  du Dr Inoue Tetsujuio («La mort du corps n'est rien face à la mort de l'esprit»), Mishima confiera bien plus tard, dans Le Soleil et l'Acier  (1968), son progressif changement d'orientation: «L'élan romantique, à partir de l'adolescence, avait toujours été en moi une veine cachée, n'ayant de signification qu'en tant que destruction de la perfection classique (...) En l'espèce, je chérissais un élan romantique vers la mort, tout en exigeant en même temps comme véhicule un corps strictement classique (...). Me manquaient, en bref, les muscles qui convenaient à une mort tragique».

 

Le grand bouleversement de sa vie a lieu en 1952, lorsque Mishima, alors tout jeune ro­mancier mondialement célébré pour Confession d'un Masque  (1949) met le pied en Grèce. Lecteur assidu d'Homère, Eschyle et Sophocle, des classiques grecs et du «Grand Siècle», cas rarissime dans le Japon post-1945, il «tombe amoureux des mers bleues et des ciels vifs de cette terre classique» et echafaude une théorie pour sublimer son Voyage à Sparte:  dans les temps anciens, la spiritualité («cette excroissance grotesque du christia­nisme»), inexistante, était palliée par un équilibre précaire entre le corps et l'esprit nécessitant un effort constant pour le préserver, que les Grecs sublimèrent dans la beauté et la tragédie, punition infligée aux hommes par les dieux pour leur arrogance. «Mon interprétation était peut-être fausse, mais telle était la Grèce dont j'avais besoin». Aristote ne disait-il pas qu'un «beau pied est l'indice d'une belle âme»?

 

A travers cette nouvelle grille de lecture éthique, le jeune et chétif écrivain désapprend la soli­tude, la haine de soi et découvre la beauté du corps travaillé, sculpté par l'exercice. A son re­tour au Japon, dégoûté du romantisme, «caractéristique typiquement bourgeoise (...) fa­daises poétiques, héroïsmes mélodramatiques, pathétiques complications d'amour» (dixit Julius Evola), il décide que l'heure est venue pour lui désormais d'écrire des «œuvres clas­siques», et, en corollaire, autre lecon rapportée de l'Hellade, de s'adonner au culturisme. «Le bon endroit, c'est le corps, l'apparence physique, le régime, la physiologie -et le reste  suit de lui-même (...) c'est pourquoi les Grecs constituent toujours le premier évènement capital de la culture de l'humanité. Ils savaient -et ils faisaient-, ce qu'il fallait». (Nietzsche in Crépuscule des Idoles).

 

La mort, qui jusque là n'était que trouble nihilisme destructeur, et attrait morbide pour la souf­france («Le penchant de mon cœur vers la mort, la nuit et le sang était indéniable» notera-t-il à l'occasion de la publication de Confession pour un Masque)  se voit rehaussé au rang d'idéal, de suprême geste de domination, de puissance et de liberté. Patet Exitus:  «Lorsque vous ne voulez plus combattre, il vous est toujours possible de vous retirer. Rien ne vous est plus facile que de mourir» (Sénèque). Chacune des œuvres qui paveront le panthéon de sa gloire littéraire sera dorénavant un pas supplémentaire dans son approche définitive du néant.

 

En 1951 puis 1953 paraissent deux versions de Couleurs Interdites, évocation de la société homosexuelle de Tokyo et des relations tumultueuses qui unissent le vieil écrivain Shinsuke et le bel éphèbe ingrat Yuichi, conclue par la mort par injection de drogue du vieillard, au terme d'un sermon inutile. Saisissante préfiguration de ce qui allait attendre Mishima... Cette même année 1953 sort La Mort en été, roman qui conte l'histoire d'une femme déses­pérée après la noyade accidentelle de ses deux enfants. Se profile à nouveau l'étude d'une âme en proie au chaos existentiel, qui lutte pour sa dignité dans le dépassement de ses sen­timents. Définissant sa perception de la tragédie classique, Mishima écrit, toujours dans Le Soleil et l'Acier:  «Selon ma définition de la tragédie, le pathos  tragique naît lorsqu'une sen­sibilité parfaitement moyenne assume pour un temps une noblesse privilégiée qui tient les autres à distance, et non pas quand un type particulier de sensibilité émet des prétentions particulières (...). Pour que, parfois, un individu touche au divin, il faut dans des conditions normales, qu'il ne soit lui-même ni divin ni rien qui en approche. C'est seulement lorsque, à mon tour, je vis le ciel bleu, étrange et divin, uniquement perçu par ce type d'individu, qu'enfin j'eus confiance en l'universalité de ma propre sensibilité, que je pus étancher ma soif et que fut dissipée ma foi aveugle et maladive dans les mots. A cet instant, je participai à la tra­gédie de tout être».

 

La parution du Pavillon d'Or en 1956, qui confère définitivement à Mishima le rang d'écrivain à la renommée mondiale, entérine son rejet viscéral de la laideur physique et mentale, son mépris pour ce qu'incarne ici le personnage de Kashiwagi, être vil dont les pieds bots ne sont qu'extériorisation corporelle de sa bassesse intérieure, dans la formule toute kantienne «le beau est le symbole du bien moral»: «Il avait pour marque particulière deux pieds aussi bots que pieds peuvent l'être et une démarche extrêmement étudiée. Il avait toujours l'air de mar­cher dans la boue: lorsqu'une jambe parvenait, non sans peine, à s'extraire, l'autre au con­traire paraissait s'engluer. En même temps, tout son corps s'agitait avec véhémence; sa dé­marche était une espèce de danse extraordinaire, aussi peu banale que possible». Autre ap­proche de la mort avec Le Marin Rejeté par la Mer (1963), qui voit une bande d'adolescents nihilistes combattant leur sensibilité s'essayer à l'exercice macabre de la mise à mort de Ryuji, l'officier de marine marchande, amant de la mère de Noboru, membre du groupe, par l'ignoble sacrifice longuement détaillé par l'auteur d'un innocent chaton abandonné.

 

A cette époque Mishima a déjà pris conscience, au cours des évènements de 1960, de son intérêt pour la politique. Les émeutes qui émaillèrent le renouvellement de l'ANPO (traité de sécurité américano-japonais), humiliante charte imposée par Mac Arthur en 1945, agirent sur Mishima comme le révélateur d'un engagement à venir. C'est alors qu'il découvre la richesse de la tradition militariste nippone. A l'automne 1960, il termine la nouvelle Yûkoku (Patriotisme, aujourd'hui insérée dans le volume La Mort en été) qui traite à travers l'histoire d'un jeune officier, le lieutenant Takeyama Shinji, de l'affaire Ni Ni Roku, putsch entrepris le 26 février 1936 par la société secrète impérialiste Kodo-Ha. Tiraillé entre sa fidélité pour l'Empereur et celle pour la Kodo-Ha, Takeyama préfère se suicider en compagnie de son amie Reiko, shinju  fort idéalisé et accompagné d'un véritable luxe de détails: «Il est difficile d'imaginer spectacle plus héroïque que le sursaut du lieutenant qui brusquement rassembla ses forces et releva la tête (...). Il y avait du sang partout. Le lieutenant baignait jusqu'aux ge­noux et demeurait écrasé et sans force, une main sur le sol. Une odeur âcre emplissait la pièce. Le lieutenant, tête ballante, hoquetait sans fin et chaque hoquet ébranlait ses épaules. Il tenait toujours dans sa main droite la lame de son sabre, que repoussaient les intestins et dont on voyait la pointe».

 

A deux reprises, Mishima reprend ce thème, dans la pièce Toka no Kiku puis dans l'essai Eirei No Koe (La Voix des Morts héroïques, parue en 1966). De Patriotisme,  il dira: «Ce n'est ni une comédie, ni une tragédie, mais simplement l'histoire d'un bonheur... Le douloureux suicide du soldat équivaut à une mort honorable sur le champ de bataille». De cette nouvelle devait être tiré un film éponyme en 1965, où Takeyama sera joué par... Mishima lui-même. On se souvient de la honte qui l'étouffa sa vie durant d'avoir triché au conseil de révision en 1945, alors que le Japon mobilisait ses dernières forces pour repousser l'hydre américaine. Dix ans après ce film, Mishima se rejouait la même scène, sans caméra cette fois.

 

Mais si Mishima manifeste un réel intérêt pour la politique, il reste un parfait apoliteia, seule­ment préoccupé par la figure de l'Empereur, à qui il reproche d'avoir trahi et sa charge divine et son peuple, sacrifié en son nom propre pendant huit ans de guerre. «Pourquoi fallait-il qu'il devienne un être humain...», écrira-t-il. La lecture de son roman Après le Banquet (1960) prouve quant à elle le profond mépris que ressentait Mishima pour la classe politique en gé­néral et le rôle prégnant qu'y tient l'argent. Le ridicule dont il affuble des personnages à l'identité réelle à peine voilée que manipule allègrement une sombre prostituée ne manqua pas de lui causer des déboires avec les milieux politiciens et certains groupes extrémistes.

 

Il s'initie aux règles du Bushido  ainsi qu'aux arts martiaux (Kendo et Karaté), réédite le premier en 1967 le bréviaire du Samurai condamné par l'occupant en 1945, le Hagakuré, du guerrier Yamamoto Jocho (XVIIIième siècle), qu'il adapte aux conditions du XXième siècle et sous-titre Le Japon Moderne et l'Ethique Samourai:  il en retient particulièrement quelques idées-clés, la soumission à son destin et à la mort, au relent fortement teinté de stoïcisme: «La mort recèle toujours un combat obscur entre la liberté de l'homme et un destin qui le dépasse». En introduction, il note: «Un homme d'action est destiné à subir une longue période de tension et de concentration jusqu'au dernier instant où il achève sa vie par son acte final: la mort —soit par causes naturelles, soit par seppuku»  Si la mort l'obsède depuis son enfance, sa propre mort lui devient dès à présent prépondérante. «Aux abords de la quarantaine, l'âge com­mence à tracasser Mishima» remarque Scott-Stokes dans sa biographie. Toujours en ex­cellente condition physique, ses muscles se font maintenant moins proéminents, ses con­tractions moins impressionnantes. Comment un homme si pétri d'esthétique classique pour­rait s'en contenter, lui qui écrivait, toujours dans Le Soleil et l'Acier, qu'à un muscle dur cor­respond la force de caractère et «la sentimentalité à un ventre flasque».

 

Impossible d'accepter l'inéluctable décrépitude de l'âge, lui qui sait que la grande idée de l'art classique se trouve dans la commémoration dans le marbre de l'instant parfait où s'affirme la beauté ultime, l'extrême moment qui précède le déclin et derrière lui, la mort. C'est désormais à elle qu'il consacrera ses dernières années. Dans l'ouvrage Shobu No Kokoro (L'Ame des Guerriers), reprise d'un dialogue avec Murakami Ichiro, paru après son décès, il confie: «On doit assurer la responsabilité de ses paroles, une fois qu'on les a prononcées. Il en va de même du mot écrit. Si l'on écrit: Je mourrai en novembre, alors on doit mourir. Si l'on fait une fois bon marché des mots, on continuera de le faire». Sa tétralogie achevée, La Mer de la Fertilité, certainement le sommet de son écriture, et interrogation sur la réincar­nation où s'exprime un bouddhisme plus universitaire que mystique, Mishima Yukio pourra se considérer enfin au bord de la falaise et rejoindre le héros qu'il vénère le plus, lui-même. «Le suicide est quelque chose qui s'organise dans le silence du cœur, comme une œuvre d'art» disait Albert Camus. Alors que persomne ne voulait voir en Mishima la réunion de la plume et de l'épée, il décidait de mourir fièrement, puisqu'il ne lui était plus permis de vivre avec fierté.

 

Dans son excellente biographie, Mishima ou la vision du vide, Marguerite Yourcenar de­vait écrire: «Il y a deux sortes d'êtres humains: ceux qui écartent la mort de leur pensée pour mieux et plus librement vivre, et ceux qui, au contraire, se sentent d'autant plus sagement et fortement exister qu'ils la guettent dans chacun des signaux qu'elle leur fait à travers les sen­sations de leur corps ou les hasards du monde extérieur. Ces deux sortes d'esprit ne s'amalgament pas. Ce que les uns appellent une manie morbide est pour les autres une hé­roïque discipline». Mishima aura vécu en artiste tragique, acceptant posément de se retirer en «joyeux pessimiste». Dyonisien aurait sans doute conclu Nietzsche.

 

*

Quand du haut du balcon du GQG des Jieitaï, ce 25 novembre fatidique de 1970, Mishima, revêtu de son uniforme moutarde, le front masqué par son hachi-maki, le poing tendu vers la foule qui le conspue, s'écrie «Au nom du passé, à bas l'avenir!», c'est d'abord et surtout à lui-même qu'il s'adresse, lui, subtile réunion d'irrationalisme nippon et d'universalisme européen, ayant décidé d'en finir avec une vie qui ne peut plus répondre à son idéal de beauté phy­sique, de grandeur virile, de pureté olympienne. Sa résolution est prise, recouvrer sa liberté dans l'extase finale de la mortification purificatrice, à l'image de ce Saint Sébastien agonisant peint par Gueno Reni qu'il ne cessera jamais de révérer dans son martyre, allant jusqu'à l'imiter pour le photographe Shinoyama Kishi. Deux mois avant son seppuku, il posait en­core pour un recueil de photos jamais publié et intitulé Otoko no Shi (La Mort d'un Homme). Sur certaines on le voit couvert de sang, sur d'autres mimant son seppuku. «Qu'est-ce que l'éternité», s'interrogeait Pierre Drieu la Rochelle. «Une minute excessivement in­tense». De son amour pour Saint Sébastien devait découler sa passion pour Gabriele d'Annunzio, dont il traduisit Le Martyre de Saint Sébastien et comme lui s'écriant: «J'ai tout risqué, j'ai tout donne, j'ai vaincu», il put lancer fièrement à la face de ce monde vieillot et as­soupi, dernier acte d'insoumission à la fatalité, cet épitaphe: «La mort violente est l'ultime beauté, toujours, et surtout quand on est jeune».

 

Laurent SCHANG,

le 27 juin 1997.

 

mercredi, 22 avril 2009

Le couple Obama a déclaré deux millions d'euros de revenus en 2008

Ploutocratie : le couple Obama a déclaré deux millions d’euros de revenus en 2008

Image Hosted by ImageShack.us 20/04/2009 –19h00
WASHINGTON (NOVOpress) – Selon un communiqué de la Maison Blanche de la semaine dernière, le président américain et son épouse ont gagné 2,65 millions de dollars en 2008 soit environ deux millions d’euros.

L’essentiel de cette somme est dû aux droits d’auteur que le messie métis de l’Amérique perçoit pour ses livres Les Rêves de Mon Père et L’Audace d’Espérer. Le premier est resté 142 semaines dans la liste des best-sellers du New York Times et le second, 67 semaines. Les droits d’auteur du nouveau Président américain se sont élevés à 2,5 millions de dollars (soit un peu moins de deux millions d’euros) en 2008 comme en 2007. En tant que sénateur de l’Illinois, Barack Obama a également touché une indemnité parlementaire de139 204 dollars (soit 105 454 euros).

Michelle Obama, Avocate de profession, a perçu pour sa part 62 709 dollars (47 492 euros) de salaire des hôpitaux de l’Université de Chicago, dont elle était l’une des directrices à mi-temps avant de devenir la première dame des Etats-Unis.

A titre de comparaison, le revenu médian des ménages américains - qui partage exactement en deux la population, une moitié disposant d’un revenu supérieur, l’autre moitié d’un revenu inférieur à celui-ci - est d’environ 38 000 euros par an. Obama s’était présenté durant la campagne comme le candidat des minorités ethniques, des pauvres et du changement. A l’instar de ses prédécesseurs, le nouveau président américain reste avant tout celui de l’argent.


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