Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

lundi, 08 mars 2010

La teozoologia di Jörg Lanz von Liebenfels

La teozoologia di Jörg Lanz Von Liebenfels

Autore: Luca Leonello Rimbotti / http://www.centrostudilaruna.it/

Lanz_von_Liebenfels.jpgSi è ritagliato un suo piccolo posto nella storia. Lo troviamo in tutti i libri più importanti che si occupano delle primissime origini ideologiche del Nazionalsocialismo. A volte viene descritto addirittura come quello che fornì a Hitler le idee: Jörg Lanz von Liebenfels, a metà strada fra il monaco erudito e il visionario psichedelico, fu capace di immaginare fantastici mondi da apocalisse. Dipinse lo scenario della storia come una lotta manichea tra la razza ariana luminosa e quella tenebrosa degli uomini-bestia, attingendo dalla Bibbia, da antichi testi gnostici, aramaici, greci, da dimenticati libri apocrifi e da un’infinità di dettagli archeologici e filologici, nella certezza che l’Età dell’Oro, popolata in origine da un’umanità bella e nobile, fosse degenerata nel caos della modernità a causa degli incroci umani con gli animali. In questa sua «rappresentazione zoomorfa del principio del male», come l’ha definita lo storico Goodrick-Clarke, in realtà si ritrovano antichi incubi dell’uomo. La paura della bestia, e della bestia che è in noi, ha dato vita nel tempo ad ogni sorta di proiezione.

In materia, ci sono dei piccoli classici. Ad esempio, Il Bello della Bestia di Silvia Tommasi, in cui si è ripercorso l’immaginario “bestiale” da Lovecraft a Karen Blixen. Oppure, il famoso Bestie, uomini, dèi di Ossendowski, in cui l’Asia viene popolata di presenze oscure e terribili, fino a Bestie o dei? L’animale nel simbolismo religioso, in cui, tra l’altro, Grado G. Merlo sottolineava la pratica cristiana di attribuire agli eretici i tratti dell’immondo animale. Impostazione foriera di radicalismo tra opposte fazioni ideologiche, che avrà le sue ricadute nel Novecento. E proprio a questa mentalità giudeo-cristiana di associare la bestia al demoniaco, drammatizzando così al massimo il suo già robusto dualismo di fondo, si può far risalire la febbrile volontà di Lanz von Liebenfels di giudicare la vicenda storica come un continuo processo di corruzione, attraverso la promiscuità sessuale tra uomo superiore e uomo imbestiatosi.

teozoologia_grande.jpgAdesso le Edizioni Thule Italia ripropongono il testo certo più caratteristico di Lanz, Teozoologia. La scienza delle nature scimmiesche sodomite e l’elettrone divino, a cura e con la traduzione di Marco Linguardo. Si tratta di un vero unicum editoriale. Il bizzarro titolo ci rimanda direttamente all’epoca, il 1905, in cui il libro fu scritto. Le recenti scoperte scientifiche dei raggi X e della radioattività, di cui Lanz fu un appassionato studioso, lo portarono a diventare egli stesso uno sperimentatore, ottenendo anche svariati brevetti di motori e sistemi elettrici. Ne trasse le immagini del Theozoon, l’uomo divino fornito di poteri magnetici superumani, e del suo speculare semibestiale, l’Anthropozoon.

Questa nota futuristica, unita al tradizionalismo völkisch di cui Lanz era imbevuto e all’erudizione teologica, costituirono l’esplosiva miscela di una formula ideologica pericolosamente in bilico tra fantascienza e millenarismo pangermanista. Non sarà stato comunque un caso che il giovane viennese Lanz, assunti nel 1897 i voti monacali presso l’abbazia cistercense di Heiligenkreuz, si fosse dedicato non solo alla severa esegesi biblica, ma anche all’apprendimento di un sapere razzialista direttamente appreso dal suo istitutore conventuale, l’erudito Nidvard Schlögl, biblista e orientalista allora di fama. La teoria che «la radice di tutti i mali del mondo avesse effettivamente una natura animale subumana», come dice Goodrick-Clarke, si stilizzava in Lanz nel rappresentare la lotta cosmica tra l’ordine, di cui erano detti portatori i popoli bianchi dominatori, e il caos ingenerato invece dagli orgiasmi sessuali, con cui i popoli di colore avrebbero sedotto i signori, conducendoli a crescente rovina bio-psichica.

Ostara.jpg Questa idea fissa si era rafforzata in occasione del ritrovamento, avvenuto nel 1894 nello stesso monastero in cui Lanz ricoprì anche ruoli di insegnante, di una pietra tombale medievale, in cui compariva la scena di un antico aristocratico che teneva sotto i piedi una specie di animale. Da qui insorse nell’immaginario di Lanz una ricerca ossessiva di prove, che attraverso l’arte antica, certi obelischi e bassorilievi assiri, o i bestiari medievali, testimoniassero di quella pratica di ibridazione universale, che a un certo punto si saldò a idee di rigenerazione situate in un mitico futuro, in cui l’uomo – non diversamente da quanto tratteggiato da Nietzsche, che per il suo Superuomo usò il termine di Züchtung, che significa allevamento – si sarebbe purificato da ogni impurità attraverso la pratica di una selezione dei tipi migliori.

Lasciate entro pochi anni la tonaca e l’abbazia, Lanz dal 1900 entrò in contatto con ambienti del pangermanesimo, come quelli legati a Guido von List, Theodor Fritsch e Ludwig Woltmann. Non si sa come, riuscì ad entrare in possesso del castello di Werfenstein, sul Danubio, facendone la sede dell’Ordine del Nuovo Tempio, da lui fondato. Quanto poi alla sua rivista Ostara, che veicolava l’ideologia ariosofica in un misto di teosofia, cristianesimo ariano e pangermanesimo razzista, noi sappiamo da numerosi storici, a cominciare da Fest e Kershaw, che il periodico venne letto dal giovane Hitler. E, molto probabilmente, i due, che furono a Vienna e a Monaco in anni vicini, ebbero anche modo di conoscersi. Ma Hitler divenne ben presto un politico moderno e realista, e una volta al potere lasciò indisturbato Lanz, ma fece chiudere molti circoli dell’occultismo völkisch, giudicandoli confusionari.

Effettivamente, occorre dire che esiste da sempre nell’arte e nella psicologia umana un’associazione tra la bestia e l’uomo, che è circonfusa di pesanti inquietudini. Gli studiosi si sono spesso interrogati su quelle presenze animalesche così ricorrenti un po’ ovunque, dalle divinità egizie alla tavoletta di Narmer, in cui una figura di dominatore aggioga una forma subumana, alle cattedrali gotiche, sovrabbondanti di mostruose creature animali, alle placche dorate vichinghe, in cui si vedono bestie umanoidi, fino alle rappresentazioni legate al lupo, da alcuni studiosi rovesciate in miti sovrumani: per dire, anni fa Chiesa Isnardi studiò il lupo mannaro presente nelle tradizioni europee come un’immagine del Superuomo. In ogni caso, la strana figura del monaco Lanz – che ebbe tra i suoi estimatori personaggi come Lord Kirchner, August Strindberg e autorevoli biblisti del suo tempo – rimane ancorata a un’epoca in cui il progresso scientifico e il riemergere di arcaismi occulti si fusero in maniera impensata. Creando i presupposti di un’ideologia di massa che di lì a pochi anni avrebbe salito la ribalta mondiale.

* * *

Tratto da Linea del 21 febbraio 2010.

Archéologie de Haithabu, port viking

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

Archéologie de Haithabu, port viking

haithabu.jpgHaithabu, c'est un ancien port du Schleswig-Holstein qui fut un grand centre commercial à l'époque des Vikings. C'est aujourd'hui un site archéologique de première importance pour comprendre le fonctionnement global du commerce en Europe au cours du premier millénaire de notre ère. Haithabu, écrit Herbert Jankuhn, s'est constitué par le hasard de l'histoire, quand les relations commerciales en Europe du Nord et de l'Ouest se sont progressivement modifiées au contact d'un empire franc dont le poids venait de basculer vers l'Austrasie, autrement dit sa partie septentrionale largement germanisée.

 

Avec les Mérovingiens et les Carolingiens, le poids politique de l'ensemble franc se focalise donc sur la côte septentrionale de la Méditerrannée et l'arrière-pays provençal et rhodanien en bénéficie. Les côtes de la Mer du Nord, avoisinant, en Zélande, le delta des fleuves (Rhin, Meuse, Escaut), acquièrent une importance stratégique et économique qu'elles ne perdront plus. Dès la fin du VIème siècle, ce glissement vers le Nord finit par englober la Scandinavie. La presqu'île "cimbrique", c'est-à-dire le Jutland et le Slesvig, bénéficiera de cette évolution, en marche depuis les Romains. Les découvertes archéologiques démontrent que les Germains des côtes frisonnes (néerlandaise et allemande) ainsi que leurs congénères de l'arrière-pays entretenaient des relations commerciales suivies avec l'Empire romain. Les voies de pénétration de ces échanges sont 1) la mer et 2) les grands fleuves (Rhin, Weser, Elbe, Oder, Vistule).

 

En traversant l'isthme du Slesvig, le commerce germano-romain touche le bassin occidental de la Baltique. Par l'Oder et la Vistule, il accède au bassin oriental. Entre le cours inférieur de la Vistule et la côte septentrionale de la Mer Noire, les Germains commercent avec les établissements coloniaux grecs. Depuis la préhistoire et depuis les premiers mouvements des peuples indo-européens, ces axes fluviaux existent: avec l'Empire romain, le trafic s'y fait simplement plus intense. Les invasions hunniques, qui réduisent à néant le pouvoir conquis des Goths, établis entre la Baltique et la Mer Noire, éliminent toutes les possibilités d'échanges portées par cet axe fluvial oriental. Plus tard, l'axe central de l'Oder cessera, lui aussi, de fonctionner à cause des Huns. L'axe occidental, celui du cabotage le long des côtes de la Mer du Nord, sera le dernier à s'effondrer. A Vème siècle, le commerce avec la Scandinavie diminue pour connaître son intensité minimale à la fin du VIème siècle. Mais, à la même époque, avec Théodoric le Grand, Roi des Ostrogoths fixés en Italie, l'axe central reprend vigueur, tandis que la littérature épique germanique prend son envol.

 

Les produits échangés le long de ces axes fluviaux et maritimes sont essentiellement l'ambre et les fourrures. L'irruption des Avars dans l'espace danubien, vers 565, ruine une seconde fois ce réseau d'échange italo-baltique. Après les Avars, les tribus slaves s'emparent de l'Europe centrale, isolant la zone baltique et coupant les voies d'échange qui, depuis des siècles, voire un ou deux millénaires, reliaient la Baltique à la Méditerranée. Ce blocage par les Avars et les Slaves redonne vigueur à la région flamande-frisone centrée autour du delta des grands fleuves: l'Ile de Walcheren en Zélande (avec le port de Domburg) et Dorestad, au sud-ouest d'Utrecht, prennent, à cette occasion, une dimension nouvelle.

 

Ce va-et-vient continuel entre l'Est et l'Ouest, Herbert Jankuhn, auteur d'un ouvrage remarquable sur le site de Haithabu, révèle, finalement, l'importance des grands fleuves (Rhin, Meuse, Escaut) pour l'échange des marchandises entre le Nord scandinave et le Sud gaulois et méditerranéen.

 

Et Haithabu, port ouest-baltique, comment acquiert-il son importance? Quand l'ère viking s'amorce officiellement avec le pillage, le 8 juin 793, du monastère anglais de Lindisfarne, la Scandinavie a déjà, pourtant, un passé pluriséculaire, marqué de mouvements migratoires vers le midi. Le territoire de la Scandinavie ne peut accepter une démographie trop dense. Les côtes norvégiennes, ouvertes sur l'Atlantique, ne sont guère propres à l'agriculture intensifiée. La Suède, à l'époque couverte d'épaisses forêts, permet certes une colonisation intérieure, mais clairsemée. Le Danemark possède des terres fertiles à l'Est mais chiches à l'Ouest, où la côte ne permet, de surcroît, la construction d'aucune installation portuaire digne de ce nom.

 

anfahrgr.jpg

Avant César, dès la tragique aventure des Cimbres et des Teutons, ce sont des raisons identiques, d'ordre géographique et démographique, qui ont poussé les Scandinaves à émigrer vers le Sud. Aux VIIème et VIIIème siècles, une nouvelle émigration massive commence: d'abord vers les îles de la Mer du Nord, les Shetlands, les Orkneys et les Hébrides. Elles porteront les Scandinaves partout en Grande-Bretagne, en Irlande, en Normandie, en Sicile et dans les plaines russes.

 

 

 

C'est donc dans la foulée de ce mouvement migratoire, parfois violent, que Haithabu connaîtra son apogée. La localité est située au fond d'un "fjord" de plaine, sans falaises, situé sur la côte baltique du Slesvig. Le fond de cette baie, la Schlei, devenue navigable à partir du VIème siècle, constitue le prolongement le plus profond de la Baltique en direction de la Mer du Nord. D'Haithabu à celle-ci, la distance est la plus courte qui soit entre les deux mers nordiques sur l'ensemble territorial de la presqu'île du Jutland-Slesvig. Danois, Frisons, Saxons et Wendes/Obotrites (tribus slaves) se juxtaposent dans la région.

 

Stratégiquement, la région, depuis l'Eider, petite presqu'île s'élançant dans la Mer du Nord, en face d'Héligoland, en passant par le tracé de la rivière Treene, constituait, sans doute depuis, plusieurs siècles, la zone idéale pour transborder des marchandises et pour couper par voie terrestre, en évitant de contourner le Jutland sans port  -ce qui constitue un risque majeur en cas de tempête-  sur une mer qui, de surcroît, est dominée par de violents vents d'Ouest, provoquant énormément de nauvrages de voiliers.

 

Haithabu doit donc son existence au commerce entre la Rhénanie et le Delta friso-flamand et le Gotland suédois. Les Suédois, entretemps, ont pris pied en Finlande, dans les Pays Baltes et dans plusieurs territoires slaves. Des Suédois se fixent au Sud du Lac Ladoga, fondent Novgorod, puis Kiev, et ouvrent les voies du Dnieper et de la Volga, restaurant l'axe gothique perdu lors de l'invasion des Huns et contournant le verrou avar qui bloquait l'espace danubien. Par la maîtrise de ces fleuves, les Scandinaves entrent en contact avec Byzance et l'Islam. Le commerce nord-occidental en direction de ces régions passera dès lors par Haithabu. Du Danemark à Bagdad, s'inaugure une voie commerciale, aussi importante géopolitiquement, sans nul doute, que celle que voulut recréer Guillaume II, Empereur d'Allemagne, en construisant le chemin de fer Berlin-Bagdad. Le souvenir de la gloire d'Haithabu doit nous laisser entrevoir les potentialités d'une connexion du port de Hambourg, héritier d'Haithabu, avec le nouveau Transsibérien soviétique (Cf. VOULOIR no. 31).

 

Les sources arabes (Ibn Faldan) nous renseignent sur les modalités de transaction dans l'espace aujourd'hui russe, dominé jadis par les Varègues suédois. Les Scandinaves rencontrent les marchands arabes à Bolgar sur la Volga, capitale du Royaume des Bulgares, et leur fournissent notamment des fourrures qui seront ensuite transportées vers la Mésopotamie par les caravanes de chameaux organisées par les Khazars. A Bolgar aboutit également la route de la soie qui mène en Chine. Les pièces de soie retrouvées en Grande-Bretagne et aux Pays-Bas et datant de cette époque, proviennent de Chine, via Haithabu et Bolgar. L'âge d'or, pour Haithabu, sera le Xème siècle, celui de la domination varègue en Russie qui permit un intense commerce avec le Sud-Est islamique.

 

A partir de l'an 1000, où saute le verrou avar, le déclin commence pour Haithabu. La région perd son intérêt stratégique. De plus les tribus slaves du Holstein oriental s'emparent du site, le pillent et l'incendient. Puis, petit à petit, le nom d'Haithabu disparaît des chroniques. Le livre de Herbert Jankuhn retrace, avec minutie, cette évolution économique et politique, mais, bien sûr, cette relation captivante n'est pas le seul intérêt de son magnifique ouvrage. Il y décrit les fouilles en détail, y compris celles qui ont mis à jour les reliefs du "Danewerk", ce mur défensif érigé par le Roi des Danois entre Haithabu et le cours de la Treene, pour arrêter les poussées slaves. On acquiert, grâce au travail systématique de Jankuhn, une vue d'ensemble sur les types d'échanges commerciaux, le type d'habitation et d'entrepôts d'un port scandinave du Xème siècle, sur les monnaies, les habitants, etc.

 

Serge HERREMANS.

 

Herbert JANKUHN, Haithabu, Ein Handelsplatz der Wikingerzeit, Wachholtz Verlag, Neumünster, 1986, 260 S. (Format 21 x 25 cm), DM 48.

00:05 Publié dans archéologie | Lien permanent | Commentaires (6) | Tags : histoire, archéologie, scandinavie, vikings, monde nordique | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 07 mars 2010

Bruno Favrit: Nouvelles des Dieux et des Montagnes

Bruno FAVRIT, Nouvelles des Dieux et des Montagnes

Ex: http://terreetpeuplevivarais.wordpress.com/

« Ensuite il assista à la chute de son corps nu (…) tout au fond de lui, quelque chose lui avait commandé d’attendre pour assister à cela: la vision d’une petite masse sur la neige, et qui maintenant se taisait. » C’est ainsi que la Russie septentrionale joue avec un pauvre Français, Léo. Qui est prêt à devenir fou furieux dans cette ville portière de l’Océan Glacial avec ces nuits polaires sans fin…qui remportent à jamais ses deux compagnons marins.

« En fait, Saint-Paul a éveillé beaucoup de vocations, dit-il sèchement. » Dans cette nouvelle, nous apprenons qu’un mythe existe – celui de Saint-Paul, un passionné de la montagne, un de ses fils. Un Homme qui a battu tous les records de l’alpinisme mais qui reste discret en vivant dans son chalet isolé, connu de quelques amis privilégiés. Poussin, et bien d’autres jaloux se risqueront à refaire ses trajets dangereux. Ils y laisseront leurs vies. La Montagne garde à jamais ses secrets…

Comme dans les Andes chiliennes, jamais le scientifique européen ne découvrira le secret d’une momie indienne. Au risque d’éveiller les pires malheurs, personne ne devrait y toucher ! Le patron de l’Auberge locale semble connaitre la réponse à ce mystère qui fait traverser à notre héros des montagnes et passer les nuits dehors…près du réel danger.

Mais que dire, si, de nos jours, Vincent Vermeil, en rentrant dans son village natal ou tant de souvenirs l’attendent: son oncle païen décédé sans qu’on sache comment et sa bien-aimée.. Une enquete qu’il mènera en bon Sherlock Holmes, s’il ne finirait pas, contrairement au célèbre détective…le cou brisé dans l’eau forestière ! Est-ce le Jeu du Pendu qui se perpétue ?! Le sang se glace-t-il déjà chez les sages paroissiens ? Pas chez les enfants des forets autour de Saint-Rome, en tout cas, hé hé.

Et c’est pas fini ! Dans la chaude Catalogne, les étudiants tout excités que peuvent etre des jeunes gens, célèbrent le culte de Mithra. Une relation amoureuse se noue entre Juanita et Ramon.

« Quant à Maxime, je demeure persuadée qu’il a eu la mort qu’il désirait si ardemment. » Ce Saint-Paul, ici, dans la dernière nouvelle du recueil (j’en veux encore !) est bien parti conquérir ses montagnes chéries et a disparu.. Meme Liliane qui écrit ses lignes sur sa probable mort n’est pas sure de celle-ci ! En effet, elle lattend ! La disparition de Maxime Saint-Paul ?! Chiche ! Les Grands Esprits ne nous quittent jamais. La preuve en est que tous les 6 nouvelles nous appellent à imiter les élans des personnages.

Toujours plus haut. Et plus loin, en ayant sous la main ce superbe bouquin imprégné de l’âme du Vieux Continent.

A commander sur www.crevetabous.com des Amis de la Culture Européenne

00:20 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : paganisme, mythologie, montagnes, alpinisme | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

De visita en la casa de Ernst Jünger


El Aura se impregna especialmente en las sustancias orgánicas:
madera, cuero, pergamino, cera, lana, lino.
Todas ellas preparan el justo ánimo
donde la piedra y el metal ponen únicamente el acento.

Ernst Jünger


De visita en la casa de Ernst Jünger

Giovanni B. Krähe - Ex: http://geviert.wordpress.com/

No hace mucho el periódico alemán FAZ publicó un artículo sobre los necesarios trabajos de restauración en la casa del escritor alemán Ernst Jünger. Las imágenes que reproducimos en este post (© FAZ, Jünger-Haus) pertenecen a la casa de Wilflingen, localidad donde se encuentra la Jünger-Haus, construcción de época barroca (1728) perteneciente entonces al barón Franz Schenk von Stauffenberg (pariente de Klaus, el del atentado contra Hitler). Jünger vivió en esta casa desde los años cincuenta hasta su fallecimiento en 1998. En 1950 el barón Franz le ofreció al escritor una habitación en el castillo, oferta que Jünger declinó por la habitación de enfrente, una construcción del siglo XVIII con once cuartos y un jardín, destinada a la familia del Oberförsterei (inspector del bosque, ver última imagen). Un año después de la gentil oferta, Jünger se mudaría definitivamente. Personalidades como el presidente Theodor Heuss, François Mitterrand, el canciller Helmut Kohl o el escritor Jorge Luis Borges entre otros, “peregrinaron” en su momento hasta la casa del escritor de in Stahlgewittern. En las imágenes se pueden apreciar algunos de los objetos entre más de setenta mil catalogados por los técnicos y germanistas del archivo Marbach durante el trabajo de mudanza provisoria. Más de 450 fotografías de inventario y dos meses de trabajo de catalogación minuciosa, han sido necesarios para poder restituir después las cosas a su lugar exacto, luego de los trabajos de restauración. Entre las fotos podemos observar el Stahlhelm (casco de acero) de la Primera y Segunda Guerra Mundial (arriba de derecha a izquierda), la colección de fósiles marinos y la nota colección jüngeriana de Käfer, escarabajos, reflejo de su pasión por la entomología (Jünger estudió zoología en Leipzig).

Algunas cosas se quedarán en la casa: la colección de escarabajos se quedará para evitar que pueda dañarse, dada la fragilidad, al igual que la tortuga de Jünger de nombre Hebe. Jünger comenta en 1990 sobre Hebe: Ob wohl schon jemand bemerkt hat, dass die Schildkröten, änhlich wie die Katzen, gern am Bäckchen gestreichelt werden? (¿habrá notado alguien que las tortugas también gustan de ser acariciadas en su caparazón como los gatos?). Un transporte especial ha sido preparado para la biblioteca personal del autor: los libros serán transportados al archivo subterráneo de Marbach exactamente como han sido encontrados en la posición original. Cabe destacar la colección de relojes de arena (ver detalle más abajo). A continuación algunas fotos:

Más fotos:

Links:

Editorial Klett-Cotta, las obras completas

Jünger en España (El Mundo, 1995)

Textos de y sobre Ernst Jünger:

en Dialnet: link para descargas

en Figator: link

en Pdf Search:Link

Otros links relacionados im Geviert:

Friedrich Georg Jünger: Die Perfektion der Technik

Ernst Jünger: congreso internacional de la Jünger Gesellschaft en Breslau, Polonia

Fenomenologia del "politicamente scorretto"

Fenomenologia del “politicamente scorretto”

di Fabrizio Fiorini - Fonte: http://www.ariannaeditrice.it/

E’ un dato di fatto che a forza di ‘prenderle’, bastian contrari si diventa. Difficilmente vi si nasce: sono rari casi che riguardano l’analisi e l’anamnesi delle patologie, più che l’analisi politica. Al di là di ogni sorta di vittimismo, quindi, è ravvisabile in una larga casistica di soggetti l’attrazione estrema nei confronti di teorie, modi di vita, parametri estetici, ideologie o loro surrogati, atteggiamenti, che destano lo scandalo al sentire comune, che sono invisi ai normali atteggiamenti della parte maggioritaria dei propri contemporanei e aborriti da quella normalità e da quella medietà che da qualche tempo è uso definire borghesi. In sintesi: politicamente scorretti. Tale attrazione, sovente accompagnata da una marcata ostentazione, è da analizzarsi – per essere adeguatamente compresa – alla luce di diversi criteri di valutazione.

oneway.jpgA una valutazione soggettiva, questo modo di vita assume largamente connotazioni negative. E’ la rappresentazione di quel cancro dell’anima che prende comunemente il nome di vittimismo, che si manifesta quando una sconfitta genera nella persona che l’ha subita un indole da cronico perdente. Tanti tra coloro che hanno impresso negli occhi l’orrore della modernità e che quotidianamente ne denunciano la corruzione e la decadenza l’hanno provato; hanno sentito sulle proprie spalle quel senso di prevaricazione che li ha spinti a tuffarsi nel vortice perché il vortice è tutto quello che riuscivano a scorgere, tanto il loro capo era piegato. Essi sposano quindi e fanno proprio tutto ciò che rappresenta il male, tutto ciò attraverso cui riescono a salvare quantomeno le apparenze della loro contrarietà, spesso in maniera sconclusionata, spesso auto-mortificandosi. Quante volte li abbiamo sentiti: “abbiamo perso la guerra”; oppure: “verremo repressi”; o ancora: “siamo pochi”. A costoro dedicò il suo pensiero Jean Thiriart:  «Le persone prive di decisione si giustificano frequentemente della loro inerzia ragionando su un ‘risveglio’ sicuro dell’Esercito o su una vigilanza sicura della Chiesa. Essi dicono allora: ‘mai l’esercito permetterà questo’ o ancora ‘la Chiesa millenaria, nella sua saggezza e nella sua potenza, porrà un freno in tempo’. Si tratta ancora di pseudo giustificazioni di vigliaccheria e di pigrizia».

Altro soggettivo nesso eziologico col politicamente scorretto risiede nell’auto-confino nell’hic sunt leones, da qualcuno definito “cattiverio”,  che il sistema ha appositamente creato con funzioni di controllo e a mo’ di valvola di sfogo per i soggetti in questione. Costoro, infatti, per una serie di motivi che spaziano dalla coercizione al condizionamento, si limitano nella cattività cui la loro scorrettezza li ha condotti. Le analisi dei fenomeni giovanilistici pullulano di tali esempi: dagli ultras agli skin, dalle gang metropolitane alle ricadute “delinquenziali” del sottoproletariato. La crema dell’inteligencija internazionale si interpella, istituisce seminari e promuove dibattiti sull’argomento. Già, chissà perché un “disadattato” non si arruola nella protezione civile, o nei boy-scout? E pensate, li pagano pure.

A una valutazione oggettiva, invece, il politicamente scorretto assurge agli onori della più alta dignità. La veridicità di ciò risiede nella validità della prova a contrariis. Entrano in gioco altri fattori ed altri strumenti di lotta politica e contestuale repressione. Il relegare al rango della scorrettezza politica è infatti una delle armi più affilate detenute dall’oligarchia reggente la società contemporanea nelle sue luride giberne. L’epoca storica, d’altronde, è quella che è: non è più tempo di contrapposizione squisitamente politica, non è più tempo di opporre una visione del mondo a un’altra. E’ tempo di coscienze addormentate, e nel torpore delle coscienze non si può che colpire allo stomaco. Nessuno ci darà la soddisfazione di argomentare le proprie tesi opposte alle nostre e nessuno ci farà omaggio della possibilità di un dialogo: non lo faranno perché ne uscirebbero distrutti. Molto meglio per loro metterci alla gogna con al collo il vergognoso cartello che ci indica come folli, estremisti, irrispettosi, scandalosi: i più deboli soccomberanno subito; altri in gran numero, si tureranno occhi, bocca e orecchie, si auto-convinceranno di essere ciò di cui vengono accusati e invocheranno gli eserciti e le chiese di cui sopra; i migliori trarranno da ciò la consapevolezza di essere nella ragione. Il loro politicamente scorretti diventerà (dicevamo: a contrariis) dimostrazione di giustezza e bandiera di verità.

Il confine è quindi labile, difficilmente identificabile, e taglia a metà tanto questioni di rilevanza condominiale quanto altre di rilevanza strategica.

Dalla parte malsana del confine, grandi e piccole cose, e le grandi – a ben guardare – diventano davvero piccole. E’ politicamente scorretta una rissa in uno stadio: ma altro non avrete fatto che assecondare la sedazione cui vuole sottoporvi chi vuole farvi sfogare in una “curva” per fare in modo che una volta fuori vi comportiate da bravi bambini. E’ politicamente scorretto accompagnarsi con una prostituta o drogarsi, ma avrete ceduto a chi vuole farvi passare questo mondo per quello che non è: un paradiso da comprare con quattro soldi. E’ politicamente scorretto apprezzare pubblicamente Berlusconi, perché politicamente corretta è la sua apparente controparte, la falsa sinistra degli sciocchi; ma avrete scambiato un bicchier d’acqua per un oceano, e vi sorbirete questo bicchiere – amaro calice! – trovandovi sul fondo il solito asservimento alle grandi potenze di cui anche questo governo è portabandiera. E’ politicamente scorretto aderire a partiti e ideologie delle “estreme”, ammantandosi dei loro colori e vantandosi del proprio riuscito lifting ideologico, suscitando una smorfia di disappunto in quelli che ben pensano; ma cos’altro avrete fatto se non rinchiudervi in una gabbia le cui sbarre sono l’impotenza, l’auto-compiacimento, l’esclusione, il soffocamento di ogni anelito di reale cambiamento?

Dalla parte sana del confine, dalla nostra parte, grandi e piccole cose, e le piccole – a ben guardare – diventano davvero grandi. E’ politicamente scorretto épater le bourgeois, come ha fatto chi negli scorsi giorni ha ricordato, in un programma televisivo, di come gli italiani in tempo di fame mangiassero anche i gatti, suscitando un sussulto nella massaia che in quel momento sezionava il coniglio o il vitellino da latte per il pranzo e un brivido lungo la schiena del dirigente Rai che, stringendosi nella pelliccia, ne ordinava l’allontanamento seduta stante. Sono politicamente scorretti il nostro sorriso quando tutti si chiudono in ipocrita serietà, e la nostra serietà quando tutti trovano nella farsa e nella tragedia qualcosa di cui ridere. Sono politicamente scorretti (anzi: sacrileghi) lo studio non conforme della nostra storia e la sua incondizionata difesa, i quali rendono giustizia alla civiltà europea che da più parti si vorrebbe infangare o cancellare e che dimostrano come l’affermazione della verità sia più forte delle sbarre di un carcere. E’ politicamente scorretto denunciare gli stati che sottomettono i popoli con la violenza, gli Stati Uniti d’America e Israele, perché dimostra la nostra caparbietà a volerli vedere per quello che sono, roccaforti nel deserto dal cui mastio non gronda che sangue, anche se molti sono convinti che sia nettare.  E’ politicamente scorretto propugnare ancora idee forti quali quelle del socialismo e della nazione, perché si bestemmia il verbo che fonda la società marcia da cui i parassiti e gli usurai traggono vita: quello del denaro.

Non tutto ciò che è politicamente scorretto è quindi eticamente corretto. Il valore è dato dal risultato che si ottiene o che si tenta di ottenere: è una questione di qualità. Politicamente scorretto è oggi il nostro libero pensiero, che sta a testimoniare che non abbiamo paura

Führung als politisches Prinzip: verschmäht, vergessen und trotzdem praktiziert

Führung als politisches Prinzip: verschmäht, vergessen und trotzdem praktiziert

Geschrieben von: Larsen Kempf   

Ex: http://www.blauenarzisse.de/

max_weber.jpgDie „Frage nach der Führung“ ist nach wie vor aktuell. Das zeigt die im Januar erschienene Wochenbeilage „Aus Politik und Zeitgeschichte“ der Zeitung „Das Parlament“. Die Themenstellungen der von der Bundeszentrale für politische Bildung herausgegebenen Zeitschrift sind dabei oft kontroverser als die braven Beiträge der deutschen Intelligenz. Schon im Editorial wird im Tenor des bundesdeutschen Schuldvorwurfs auf die nationalistische Hybris und den Dilettantismus des Kaiserreiches verwiesen und politische Führung derart im politisch korrekten Kontext verortet, dass Beiträge zur Führung „als Demokratiewissenschaft“ (Ludger Helms) oder abgrenzend: „in der Diktatur“ (Jan C. Behrends) nur folgerrichtig scheinen.

Auch die Neue Linke braucht ihre Führer

Dass Führung notwendig zur politischen Praxis gehört, wird auch heute von niemandem ernsthaften Sinnes bestritten. Mit dem Ableben „des Führers“ und seines katastrophalen Erbes allerdings geriet der Begriff derart in Verruf, dass seither selbst das deutsche Militär nur noch sehr vage von „Innerer Führung“ spricht. Ohne die kommt es aber nicht aus. Schnell aber wurde auch die Pflicht, die Kant so hoch schätzte, zum Kadavergehorsam diffamiert.

Hierarchische Über- und Unterordnung betrachtete die Neue Linke nach 1945 häufig gar als Grundübel und als Ausdruck struktureller Gewalt. Jedoch auch sie kam ohne Führung nicht aus. Allein durch wortgewandte Autoritäten wie etwa Rudi Dutschke oder später Joschka Fischer konnte sie ihren Idealen im politischen Diskurs Ausdruck verleihen. Ob heilige Hierarchie der Kirche, wissenschaftliche Hierarchie der Universität, wirtschaftliche Hierarchie des Unternehmens oder legale Hierarchie des politischen Apparats: in allen die Demokratie stützenden Subsystemen bleibt religiöse, wissenschaftliche, unternehmerische oder politische Führung unverzichtbar.

Sehnsucht nach authentischer Führung: eine potentielle Gefahr für die Demokratie?

Alle linke Kritik am Führungsprinzip ist jedoch in dem Punkt berechtigt, wo sie auf eine Sehnsucht nach authentischer Führung hindeutet. Denn tatsächlich kann diese auch in der inszenierten Massenhypnose einer Diktatur ihren Ausdruck finden. Bürger sollten aber Führung vor allem in ihrer politischen Funktionalität verstehen. Denn ohne ein Minimum an Autorität ist auch Demokratie letztendlich undenkbar.

Zum Verständnis hilft Max Webers Herrschaftssoziologie, die Charisma, Tradition oder das rational entstandene Gesetz zur Grundlage legitimer Herrschaft macht. Obwohl die charismatische und traditionale Herrschaft im vorrationalen Raum angesiedelt sind, verlieren sie nicht einfach ihre Legitimität. Es zeigt sich, dass Führung verschiedene Facetten annehmen und nicht allein auf den legal-demokratischen Prozess reduziert werden kann.

Im Beitrag „Max Weber heute“ von Mateusz Stachura findet sich von dieser zurückhaltend normativen Wertung sämtlicher Führungskonzepte bedauerlicherweise kaum ein Wort. Er zeichnet nur die charismatische Führungspersönlichkeit in ihrer Bedrohung nach. In der Tat erwiesen sich herausragende Charismatiker nicht selten als Despoten. Als Beispiele dienen nicht zuletzt neben dem schon benannten deutschen Diktator auch Gaius Julius Caesar oder Revolutionsführer Oliver Cromwell. Bei aller historischer Umstrittenheit führen aber Persönlichkeiten wie der englische Staatsmann Thomas Morus oder die französische Nationalheldin Jeanne d'Arc die schlichte Formel vom „bösen Charisma“ ad absurdum.

Gute Führung braucht Demut

Der Unterschied zwischen Diktatoren und Heiligen besteht in ihrem Selbstverständnis. Beide haben subjektiv als gerecht bewertete Motive zur Grundlage. Hitler glaubte an die moralische Notwendigkeit seiner Vernichtungsmaschine und rechtfertigte sich damit vor dem eigenen Gewissen. Die gerne herbeizitierte Gewissenhaftigkeit scheidet als Differenzmerkmal folglich aus. Das Selbstverständnis der Heiligen prägt jedoch vor allem das Moment der Demut, die eine Verantwortlichkeit gegenüber dem eigenen Gewissen besitzt. Demut befreit von Fanatismus, indem sie die eigene Fehlerhaftigkeit vor Augen führt und persönliche Wertvorstellungen aus innerer Haltung heraus relativiert. Die christliche Empfehlung zur Demut ist demnach auch für den säkularen politischen – und militärischen – Führer sinnvoll. Sie stellt das alte Ideal des Charismas unter den besonderen moralischen Anspruch, sich immer wieder neu zu rechtfertigen und im Zweifel zu korrigieren.

Im modernen demokratischen Rechtsstaat übernimmt, so könnte man meinen, die regelmäßige Wahl die Funktion der Demut. Sie erinnert den Politiker an seine Pflicht zum treuen Dienst, indem sie ihn an den Volkswillen bindet. Diese Interpretation erweist sich allerdings als defizitär. Denn der Volkswille kann nicht nur durch schlechte Führung manipuliert werden, auch der zeitliche Abstand von Wahlen ist gefährlich groß. Die Wahl kann innere Integrität demnach nie ersetzen, sondern bloß ergänzen.

Das Kanzlerwort ist unverzichtbar

Dieses Spektrum normativer Leitlinien demonstriert die Berechtigung charismatischer Führung, auf die eine machtstrategisch verpflichtete Politik nicht verzichten kann. Machterwägungen und die auf Carl Schmitt zurückgehende Unterscheidung von Freund und Feind verweisen auf die Dezision als originäres politisches Handlungsmotiv. Der politische Führer entscheidet im repräsentativen Raum. Dies wird vielfach vergessen und aus dem öffentlichen Bewusstsein verbannt, intuitiv aber bis auf den heutigen Tag praktiziert. Denn ohne das viel beschworene Kanzlerwort funktioniert der politische Alltag nicht. Politische Entscheidungen der Führung schaffen Ordnung, und die schlechteste ist stets noch besser als die Tyrannei des Chaos.

Mai 68: du col Mao au Rotary?

Archives de "Synergies Européennes" - 1986

Mai 68: du col Mao au Rotary?

 

mariannede68.jpgOn n'a pas fini de parler de Mai 68, même s'il ne reste plus grand'chose de l'effervescence des campus de Berkeley, Berlin ou Paris. Le soixante-huitardisme s'est enlisé dans ses contradictions, s'est épuisé en discours stériles, malgré les fantastiques potentialités qu'il recelait. Examinons le phénomène de plus près, de concert avec quelques analystes français: d'une part Luc FERRY et Alain RENAUT, auteurs de La pensée 68, essai sur l'anti-humanisme contemporain (Gallimard, 1986) et, d'autre part, Guy HOCQUENGHEM, qui vient de sortir un petit bijou de satire: sa Lettre ouverte à ceux qui sont passés du col Mao au Rotary  (Albin Michel, 1986). Pour RENAUT et FERRY, la pensée 68 comportait deux orientations possibles: la première était "humaniste"; la seconde était "anti-humaniste". L'humanisme soixante-huitard était anti-techniciste, anti-totalitaire, pour l'autonomie de l'individu, pour l'Eros marcusien contre la civilisation, pour le pansexualisme, pour l'effacement du politique, etc. Pour FERRY et RENAUT, ces valeurs-là sont positives; elles forment le meilleur de l'aventure soixante-huitarde. Pour nous, ce sont au contraire ces idéologèmes-là qui ont conduit aux farces actuelles des "nouveaux philosophes", à leur valorisation infra-philosophique des "droits de l'homme", au retour du fétichisme du "sujet", à la régression du dis-cours philosophique, à l'intérêt porté aux scandaleuses niaiseries d'un Yves MONTAND qui se prend pour un oracle parce qu'il est bon acteur... Ces farces, ces amu-sements stériles, ces assertions pareilles à des slogans publicitaires pour margarine ou yaourts ont permis le retour d'une praxis libérale, le néo-libéralisme, auquel ne croyait plus qu'une poignée d'aimables plaisantins presqu'octogénai-res. Ou encore, Madame Thatcher qui, selon les paroles officieuses de la Reine Elizabeth II, serait bel et bien restée "fille d'épicier" malgré son fard oxfordien. Ipso facto, le petit gauchisme de la pansexualité éroto-marcusienne, le baba-coolisme à la Club Med', le néo-obscurantisme talmudiste de BHL, les éloges tonitruants du cosmopolitisme à la SCARPETTA ou à la KONOPNICKI acquièrent une dimension "géopolitique": ils renforcent la main-mise américaine sur l'Europe occidentale et avalisent, avec une bienveillance très suspecte, les crimes de la machine de guerre sioniste. Décadentistes d'hier et traîneurs de sabre sans cervelle, illuminés moonistes et vieux défenseurs d'un "Occident chrétien", se retrouvent curieusement derrière les mêmes micros, prêchent les mêmes guerres: il n'y a que le vocabulaire de base qui change. L'effondrement du soixante-huitardisme dans ce que RENAUT et FERRY appellent "l'humanisme" s'est également exprimé à l'intérieur des partis de gauche: de l'Eurocommunisme à la trahison atlantiste du PSOE, au révisionnisme du PCI et au mittérandisme atlantiste: le cercle des rénégats est bouclé. HOCQUENGHEM trouve les mots durs qu'il faut: Montand? Un "loufiat râleur géostratège mégalo" (p.73); Simone Veil? Un "tas de suif" (p.73); Serge July? Un "parvenu" (pp. 108 et 109); Jack Lang? Il a la "fu-tilité des girouettes" (p.134); Régis De-bray? Un "ex-tiers-mondiste à revolver à bouchons" (p.129); BHL, alias, sous la plume d'HOCQUENGHEM, Sa Transcendance Béachelle? Un "aimable Torquemada d'une inquisition de théâtre" (p.159) qui ne tient qu'à l'applaudimètre (p.164); Glucksmann? "Tortueux" (p.179), "So-phiste et fier de l'être" (p.185), etc. HOCQUENGHEM fustige avec une délectable méchanceté et une adorable insolence tous les gourous mielleux, à fureurs atlantistes récurrentes, pourfendeurs de "pacifistes allemands gauchistes", que l'ère Mitterand a vomis sur nos écrans et dans les colonnes de nos gazettes. HOCQUENGHEM, comme presque personne en France, défend le pacifisme allemand que BHL et GLUCKSMANN abreuvent de leurs insultes de néo-théocrates et de leurs sarcasmes fielleux, parce que ce paci-fisme exprime la volonté d'un peuple de se maintenir hors de la tutelle yankee, de s'épanouir en dehors de l'hollywoodisme cher à SCARPETTA et à KONOPNICKI, par-ce que ce pacifisme est, malgré ses insuf-fisances, la seule idéologie d'Europe puis-samment hostile au duopole yaltaïque.

 

Voilà où mène l'humanisme post-soixante-huitard: aux reniements successifs, au vedettariat sans scrupules, comme si l'humanisme devait nécessairement me-ner à cette indulgence vis-à-vis des histrions, des pitres et bateleurs de la rive gauche. L'humanisme ainsi (mal) compris ne serait que tolérance à l'égard de ces ouistitis débraillés alors qu'un humanisme sainement compris exigerait la rigueur des autorités morales et poli-tiques (mais où sont-elles?) à l'encontre de ce ramassis d'incorrigibles saltimban-ques.

 

Heureusement pour la postérité, Mai 68 a aussi été autre chose: un anti-humanisme conséquent, une rénovation d'un héritage philosophique, un esprit pionnier dont on n'a pas fini d'exploiter les potentialités. RENAUT et FERRY, qui chantent le retour du "sujet" donc de la farce prétendument humaniste, signalent les œuvres d'ALTHUSSER, de FOUCAULT, de LACAN et de DERRIDA. Ils voient en eux les géniaux mais "dangereux" continuateurs des traditions hegelienne (Althusser) et nietzschéo-heidegerienne (Foucault, Derrida). Pour ces philosophes français dans la tradition allemande, le "sujet" est vidé, dépouillé de son autonomie. Cette auto-nomie est illusion, mystification. L'hom-me est "agi", disent-ils. Par quoi? Par les structures socio-économiques, diront les marxistes. Par des "appartenances" di-verses, dont l'appartenance au peuple historique qui l'a produit, dirions-nous. L'homme est ainsi "agi" par l'histoire de sa communauté et par les institutions que cette histoire a généré spontanément (il y a alors "harmonie") ou imposé par la force (il y alors "disharmonie").

 

Certes le langage de la "pensée 68" a été assez hermétique. C'est ce qui explique son isolement dans quelques cénacles universitaires, sa non-pénétration dans le peuple et aussi son échec politique, échec qui explique le retour d'un huma-nisme à slogans faciles qui détient la for-ce redoutable de se faire comprendre par un assez large public, fatigué des dis-cours compliqués.

 

Si l'avénement du fétiche "sujet" est récent (le XIXème dit FOUCAULT), il est contemporain de l'avènement du libéralisme économique dont les tares et les erreurs n'ont cessé d'être dénoncées. Et si la "pensée 68" s'est heurtée au "sujet", elle a également rejeté, au nom des spé-culations sur l'aliénation, la massification des collectivismes. La juxtaposition de ces deux rejets ne signifie par nécessairement l'existence de deux traditions, l'une "humaniste" et l'autre "anti-huma-niste". Une voie médiane était possible: celle de la valorisation des peuples, valo-risation qui aurait respecté simultané-ment la critique fondée des dangers re-présentés par le "sujet" (l'individu atomisé, isolé, improductif sur le plan historique) et les personnalités populaires. Aux "grands récits" abstraits, comme ce-lui de la raison (dénoncé par Foucault) à prétention universaliste, se seraient sub-stitués une multitude de récits, expri-mant chacun des potentialités particu-lières, des façons d'être originales. Quand les étudiants berlinois ou parisiens pre-naient fait et cause pour le peuple viet-namien, ils étaient très conséquents: cette lutte titanesque qui se jouait au Vietnam était la lutte d'un peuple particulier (cela aurait pu être un autre peuple) contre la puissance qui incarnait précisément l'idolâtrie du sujet, le chris-tianisme stérilisant, la non-productivité philosophique, le vide libéral, la vulgarité de l'ignorance et des loisirs de masse.

 

La "pensée 68" a oscillé entre le libé-ralisme à visage gauchiste (ce que RE-NAUT et FERRY appellent "l'humanisme") et l'innovation révolutionnaire (ce qu'ils appellent "l'anti-humanisme"). Elle a ou-blié un grand penseur de la fin du XVIIIème: HERDER. L'humanisme de ce dernier est un humanisme des peuples, non des individus. Le vocable "huma-nisme" est trop souvent utilisé pour dé-signer l'individualisme non pour désigner les créativités collectives et populaires. Or tous les anthropologues sérieux seront d'accord pour nous dire que l'homme n'est jamais seul, qu'il s'inscrit toujours dans une communauté familiale, villa-geoise, clanique, ethnique, etc. La "pensée 68", notamment celle de FOUCAULT, et la pensée d'un LEVY-STRAUSS nous ont dévoilé une "autre histoire", une histoire qui n'est plus celle du "grand récit de la raison". La raison, en tant qu'instance universelle, est une apostasie du réel. Le réel se déploie au départ d'instances multiples, sans ordre rationnel. FOUCAULT et LEVY-STRAUSS s'inscrivent ipso facto dans le sillage de HERDER qui estimait que l'historicité de l'homme se déployait au départ de sa faculté de par-ler une langue bien précise (Sprachlich-keit), donc au départ d'une spécificité inaliénable. Au "grand récit" abstrait de la raison, se substituait dès lors les merveilleux "petits récits" des peuples poètes. Ce sont ces récits-là que la "pen-sée 68", pour son malheur, n'a pas su re-découvrir; pourtant, avec Mircea ELIADE, Gilbert DURAND, Louis DUMONT, etc. les occasions ne manquaient pas.

 

Le philosophe allemand contemporain Walter FALK (Université de Marburg) a résolu le problème, sans encore avoir ac-quis la réputation qu'il mérite: si le "grand récit" rationaliste n'est plus cré-dible, si le structuralisme d'un LEVY-STRAUSS nous conduit à désespérer de l'histoire, parce que nous serions invo-lontairement "agis" par des "structures fixes et immobiles", le modèle de l'histoire ne sera plus "téléologique" (comme le christiano-rationalisme occidental et son dérivé marxiste) ni "structuralo-fixiste" (comme lorsque LEVY-STRAUSS chantait les vertus des "sociétés froides"). Le modèle de l'histoire sera "potentialiste", au-delà du néo-fixisme du "réarmement théologique" de BHL et au-delà des résidus de téléologie progressiste. Pour FALK, le potentialisme équivaut, en som-me, à deux pensées, que l'on ne met ja-mais en parallèle: celle des fulgurations phylogénétiques de Konrad LORENZ et celle de la pensée anticipative d'Ernst BLOCH. Comme chez FOUCAULT, les struc-tures qui agissent les hommes ne sont plus simplement stables mais aussi va-riables. FALK développe là une vision réellement tragique de l'histoire: l'huma-nité ne marche pas vers un télos para-disiaque ni ne vit au jour le jour, bercée par l'éternel retour du même, agie sans cesse par les mêmes structures échap-pant à son contrôle.

 

L'histoire est le théâtre où font irruption des potentialités diverses que le poète interprète selon ses sensibilités propres. Là réside ses libertés, ses libertés d'a-jouter quelques chose au capital de créa-tivité de son peuple. La "pensée 68" est entrée dans une double impasse: celle d'un "anti-humanisme", très riche en po-tentialités, enlisée dans un vocabulaire inaccessible au public cultivé moyen et celle d'un "humanisme" sans teneur phi-losophique. Le potentialisme de FALK et le retour des récits historiques des peu-ples ainsi que des récits mythologiques constitueront les axes d'une "troisième voie" politique, impliquant la libération de notre continent.

 

Vincent GOETHALS.

00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : histoire, france, philosophie, mai 68, idéologie, années 60 | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

samedi, 06 mars 2010

Terre & Peuple Magazine: La force du sacré

Communiqué de "Terre & Peuple - Wallonie"

terre_et_peuple_42.jpgTERRE & PEUPLE Magazine

 

Le numéro 42 de TERRE & PEUPLE Magazine est placé sous l’unique signe de ‘La Force du Sacré’ et du mot d’ordre ‘Terre et Peuple en action.

 

Dans son éditorial, Pierre Vial invite à cesser de nous sacrifier pour ceux qui ne le valent pas. Les sondages sur l’identité menés sur le territoire français révèlent trois catégories : ceux qui s’y déclarent étrangers, par leurs origines, les traîtres collabos d’origine européenne qui déclarent tenir ces origines pour nulles et ceux qui y sont au contraire enracinés. Il l’illustre ensuite le fait avec ces supporters allochtones qui célèbrent ‘festivement’ une victoire sportive en accrochant le drapeau algérien au balcon de l’Hôtel de ville de Toulouse, après avoir décroché et brûlé le drapeau français, pourtant protégé par un cordon de policiers menottés dans leurs consignes !

 

A propos du referendum suisse en faveur de l’interdiction des minarets, les sondages organisés par la plupart des grands organes de presse européens révèlent que leur clientèle approuve les Suisses à 86% (L’Express), 76,98% (Le Figaro), 70% (Euronews) ; 63,2% (Le Soir), 76,3% (Der Spiegel, de), 87% (Die Welt, de), 79% (El Mundo, esp)94% (20 Minutos, esp), 94% (Diario de Noticias, port), 68% (Elsevier, nl). Les lecteurs du Monde estiment même, à 61,5%, que le referendum est un signe de démocratie.

 

Jean Haudry met en gerbe les fleurs que Claude Lévi-Strauss a adressées à Georges Dumézil dans son discours d’accueil à l’Académie française. C’est un véritable canon de béatification.

Pierre Vial, en ouvrant le dossier central, rappelle que la dictature intellectuelle des Lumières, et celle de ses rejetons jumeaux le libéralisme et le marxisme, a imposé une vision matérialiste du monde comme seule idéologiquement correcte, rompant avec la tradition qui voit dans l’homme le produit subtil de trois composantes, le corps, l’esprit et l’âme. Ce que saint Benoît avait, au VIe siècle, repris pour sa communauté monastique dans une règle qui a passé l’épreuve des siècles, équilibrant la vie des moines entre leur corpus (par le travail), leur animus (par l’étude) et leur anima (par la prière).

 

Michèle Favard-Jirard liste les professeurs d’université israéliens, archéologues et historiens, qui font la démonstration de l’inexistence historique de l’Ancien Testament. Les murs de Jéricho ont été emportées par les pluies bien avant que par les trompettes de lévites. Le royaume de David et Salomon se réduit au terroir d’une petite tribu qui inventera l’historiographie biblique durant son exil babylonien. Elle est formée en fait des rescapés de la débâcle des Hyksos, ainsi que le soutenait déjà l’historien juif antique Flavius Josèphe (37 à 100 PC). Il s’agit d’une peuplade qui, refoulée d’Asie centrale par les Indo-européens, s’était installée en Egypte et en sera finalement chassée par le pharaon Amosis (-1580 à -1558), fondateur de cette XVIIIe dynastie qui tentera d’introduire le monothéisme. S’ajoutant à cela la découverte (commanditée par le Congrès Juif) au nord de la Mer Caspienne des vestiges d’Itil, la capitale du royaume des Khazars, tribu d’Asie centrale pas sémitique du tout, qui a servi aux Byzantins de pare-choc contre la poussée de l’islam et s’est convertie en bloc au judaïsme au IXe siècle, il y a largement de quoi troubler tous les Billancourt du sionisme ! Pas tant que cela, semble-t-il, car avec la masse plus c’est gros et mieux ça passe ! Jusqu’à envisager en fin de compte que les Palestiniens soient les seul vrais Juifs, convertis à l’islam ?

Pour Jean Haudry, la Sainte Trinité (de l’évangile de Mathieu 28, 18) provient probablement des diverses triades de divinités du monde indo-européen. Mais celle-ci sont constituées de trois divinités, et non d’une seule en trois personnes. Cette unité se retrouve toutefois dans le mazdéisme de Zarathustra, où le Dieu suprême Ahura Mazda a des rapports privilégiés avec le Saint Esprit (Spanta Manyu, le Bénéfique) et avec le Feu, qui devient le fils du Dieu suprême. Toutefois, à la différence de la conception catholique de la Trinité (avec le filioque), le Saint Esprit mazdéen ne procède que du Père et pas du Fils. On notera que, dans l’Avesta ancien, Manyu ne signifie pas esprit, mais fureur et que Spanta Manyu a un correspondant néfaste, Ahra Manyu, le futur Ahriman, qui préfigure le Satan du christianisme. Les analogies sont foisonnantes !

 

Pélage dévoile ‘l’islam tel qu’on nous le cache’ : la Sunna (tradition transmise par le Prophète à travers le Coran), la Sira (vie du Prophète et de ses compagnons immédiats) et les Hadiths (recueil de ses paroles : 1,5 millions authentifiées ou non). On compte quatre écoles d’interprétation sunnite : le malékisme (Maghreb et France), le hanéfisme (Empire ottoman), le chafisme (Egypte et Proche-Orient) et le hanbalisme, la plus intransigeante, dont le wahabisme (Arabie saoudite) est l’héritier, qui récuse la tolérance, de pur opportunisme économique, à l’égard des infidèles. C’est avec la bénédiction des USA et de l’URSS que la tribu nomade des Bani Saoud s’est emparée des Lieux Saints en s’appuyant sur le wahabisme, par le sabre et le livre.

 

Après avoir parlé à Abraham, Moïse et Jésus, Allah dicte à l’ultime prophète le Livre qui ne peut être que parfait et justifiera de brûler la centaine de milliers d’ouvrages grecs et persans de la bibliothèque d’Alexandrie, qui sont soit faux soit surabondants. Le Coran (le mot signifie ‘récitation’) comporte 114 sourates, classées sans autre ordre que leur longueur, qui comptent ensemble 6.325 versets hétéroclites, aux répétitions incessantes ! Les emprunts sont très nombreux à la Torah, au Talmud et à la Bible et l’analyse linguistique révèle une pluralité d’auteurs. Le texte justifie le rezzou et l’esclavage par le butin, dont un cinquième appartient à Allah, à son Messager et ses proches parents. Les Barbaresques exploiteront la veine du commerce d’esclaves et du rapt non seulement en Afrique subsaharienne, mais en Europe, Islande comprise, jusqu’en 1830 ! On estime à 1.250.000 les Européens raptés au XVIe et XVIIe siècles.

 

Les versions du Coran rédigées en langue vulgaire sont édulcorées et ne rendent qu’un reflet de son mépris pour les kafirs. La colère d’Allah contre eux occupe 650 versets et le jihad 250. La distinction entre grand jihad (victoire sur soi-même) et petit jihad (guerre sainte) n’apparaîtra qu’après trois siècles. En plus d’une religion, l’islam prétend être un code civil, un code pénal et un code moral. La charia est un assemblage de prescriptions empruntées aux autres religions, notamment au judaïsme, dont la haine de l’autre, la persécution des minorités, l’esclavage, le talion, la punition par mutilation, le statut inférieur de la femme, etc. L’apostat qui voudrait s’en émanciper est passible de mort. C’est par faveur d’Allah que les hommes ont autorité sur les femmes, lesquelles leur doivent obéissance, à défaut de quoi Allah recommande : « Frappez-les. » L’honneur de l’homme repose sur ce contrôle sur le corps de la femme. En dépendent ses vertus viriles, y compris sa vaillance guerrière. L’adultère mérite la lapidation, héritée du judaïsme. L’excision, comme la circoncision, est une pratique antérieure au Coran, mais certains hadiths la qualifient d’honneur pour la femme. Le seul péché mortel est d’être incroyant. Le parjure d’un musulman est insignifiant s’il conserve la foi. Il est même louable si c’est pour tromper un incroyant (baise la main que tu ne peux couper). A la différence des païens et des athées qui ne méritent que la mort, les chrétiens et les juifs (« Qu’Allah les anéantisse ! ») n’y sont pas promis tout de suite. Il leur est fait d’abord obligation de coudre sur leur vêtement un signe distinctif, le zunnâr. Il ne peuvent pas pratiquer ouvertement leur religion, ni posséder un cheval, ni des armes, ni un esclave musulman, ni épouser une musulmane, ni assigner un musulman pour s’en faire rendre justice. Cette ‘protection’ se paie d’un impôt mensuel, la jizyat, et d’un impôt foncier, le kharâdj, qui sont perçus sous peine de prison, voire de mort. Dans les pays de charia stricte, toute pratique d’une autre religion est passible de mort. Les pays ‘démocratiques’ s’en tiennent à multiplier l’impôt général par 3,5. Mais dans ces derniers comme dans les autres, le statut des kafirs ne cesse de se dégrader.

 

Sunnites et chiites s’entretuent pour des motifs plus politiques que religieux, en tout cas entre les talibans sunnites et les chiites iraniens. Le Petit Livre Vert de Khomeiny est révélateur : outre la guerre sainte, il promet la république islamique universelle, où en un an les loi punitives déracineront l’immoralité, notamment de manger la viande d’un animal qui a été sodomisé par un homme ou de forniquer en adultère. Mais une femme appartient légalement à un homme par mariage temporaire d’un jour ou même d’une heure et, si un musulman ne peut épouser une chrétienne en mariage continu, il le peut en mariage temporaire. Les sunnites ont eux aussi leur fous de Dieu, qui prouvent que la science est néfaste à la civilisation (islamique) puisqu’elle met le Coran en question. Ils sont résolus à rétablir l’esclavage au Pakistan et, en attendant, à maintenir le pays en jihad permanent, par le terrorisme dans les zones kafirs et la négociation dans les autres. Dans celles-ci, ils comptent sur la pression fiscale pour achever de convertir. Pas si fous que cela, donc !

 

Les uns et les autres se flattent que la civilisation arabo-musulmane soit la matrice du monde moderne, sans s’embarrasser du fait que les grands penseurs musulmans ignoraient le grec et le latin, s’en tenant par piété à l’arabe, langue divine sans doute, mais peu propre à traduire le message classique. Et sans tenir compte de l’apport iranien, indien, arménien.

Conclusion : il faut être ignorant, naïf ou malhonnête pour croire que l’islam est soluble dans la société européenne moderne.

 

A propos de la vision du sacré, lequel de tout temps fait le lien entre l’humain et le divin, Pierre Vial relève d’emblée que notre paganisme unit notre communauté dans la croyance en un univers un, où le contact au divin passe par l’immersion dans le monde et par l’adhésion au vivant. Il se distingue en cela de la croyance en un Dieu unique, seul éternel, extérieur à notre monde transitoire. Les païens que nous sommes contestent à ces croyants le monopole de la transcendance qu’ils s’arrogent. Nous nous situons à la croisée, essentielle et existentielle, du vertical et de l’horizontal, solidaires de tout ce qui vit, comme l’arbre qui plonge ses racines dans la terre et lance dans le ciel ses branches vers les quatre horizons. C’est ce que symbolise pour nous la rune d’Hagal et les croix grecque et celtique. C’est ce qu’évoque Dom Sterckx (OSB) dans son ‘Orientation totale de l’homme’. Cette vision du sacré, bien antérieure au christianisme, est la colonne vertébrale de la culture européenne.

On peut déjà situer un seuil qualitatif de perception du sacré certainement au Paléolithique supérieur (-15.000), avec des manifestations esthétiques et religieuses et avec déjà la référence à un au-delà dans l’apparition des sépultures (-60.000). Dans l’art rupestre animalier, l’homme se représente lui-même, paré d’une ramure de cerf, comme officiant dans la magie de la chasse. Les Vénus et les déesses-mères sont des allusions au principe, vital pour la communauté, de la fécondité féminine, solidaire de la fécondité de la terre pour laquelle l’agriculture et l’élevage néolithiques sacrifient au rythme des saison. L’âge des métaux (-5.000) verra surgir la notion d’axe du monde, centre d’un ordre cosmique sans cesse renouvelé, où le soleil représente le principe transcendant, surveillant hommes et dieux. Homère (-800) dira que le soleil est le garant de la vérité. Il est parfois représenté au centre d’une ramure de cervidé, dont la croix lumineuse du cerf de saint Hubert pourrait être un prolongement, car le disque solaire est censé être tiré le jour par des cerfs et la nuit par des loups. L’âge des métaux va conférer au forgeron un prestige lié aux puissances souterraines démoniaques. Honoré par les guerriers autant que le dieu de la guerre, le dieu forgeron fabrique des armes miraculeuses. Le feu de sa forge l’associe au soleil, au rythme saisonnier et, avec les roues et les chars solaires, au mouvement perpétuel.

 

Jean Haudry souligne, chez les Indo-européens, la dualité du sacré, qui peut être positif et chargé de puissance divine ou négatif et interdit au contact des hommes. Le premier invite à la familiarité avec le dieu, car notre paganisme est une religion d’hommes libres. C’est encore le sacré qui intègre politiquement ces hommes libres à leur communauté, chacun s’y inscrivant dans un cadre divisé en quatre structures, la famille, le clan, la tribu et la nation, toutes fondées sur le sol et le sang. Le célébrant du culte familial est le chef de famille assisté de son épouse, et ainsi pour le chef de clan, le chef de tribu, le roi. Ils officient au centre des membres du groupe, à l’exclusion de tout étranger, autour de la flamme du foyer, qui représente l’âme de la communauté. La révolution culturelle du christianisme visait à éradiquer cette conception païenne du sacré (lapidation d’Hypathie, destruction des sites sacrés par les saints Boniface et Martin). Mais finalement certains ecclésiastiques (dont saint Grégoire 1er) ont estimé, dans les débuts du moyen âge, qu’il serait plus efficace d’intégrer à la nouvelle religion cette vision, si séduisante par ‘le charme infini qu’elle donne à toutes les circonstances de la vie’. Et on se mit à installer des églises à la place, voire dans les lieux sacrés païens (la cathédrale de Syracuse et Saint-Michel-Mont-Mercure). La tripartition indo-européenne trouve alors écho dans les ordres chevaleresques (oratores/laboratores/bellatores) et le culte des bonnes Dames dans la dévotion à la Vierge Marie. Les fêtes païennes sont rebaptisées. Les colonnes des églises, avec leurs chapiteaux feuillus évoquent le bois sacré. Le Christ, nouveau soleil, rayonne dans la rosace des cathédrales. Il faudra attendre le protestantisme pour réagir et revenir aux sources judaïques et Vatican II pour lui emboîter le pas.

 

Le professeur Claude Perrin tente de définir ce qu’est ‘l’honneur aujourd’hui’. Au regard de l’abnégation souvent héroïque des mille morts par jour de la Première Guerre, dont il ne subsiste que le parfum d’un vase vide. L’honneur est alors le corollaire de l’estime de soi-même, par le dépassement dans le sacrifice au bien public. Il tient au sacré, à la croyance en une transcendance. Nos pères, qui avaient un sens aigu de l’honneur, révéraient le sacrifice de Vercingétorix. Le mythe du héros, mobilisateur et réunificateur a été largement utilisé dans cette guerre. Dans l’Ancien Régime, la fidélité au roi était la manifestation de l’honneur dans la soumission à un pouvoir légitime pour qui on nourrit la tendresse qu’on a pour un père et le respect qu’on ne doit qu’à Dieu, sentiments que la Révolution a rendus presque incompréhensibles, en ce qu’ils conservaient l’âme libre jusque dans la plus extrême dépendance. Les piliers honneur-hiérarchie-dignité ont été remplacés par liberté-égalité-fraternité, qui prétendent étendre avec la dignité le devoir d’honneur des nobles aux vilains. Mais ce n’est plus le même code et il faudra les commissaires de la Révolution pour briser les réflexes, les loyautés, les appartenances. L’appartenance suppose l’allégeance dans une foi aux valeurs communes. C’est le contraire de la contrainte de lois liberticides comme la Loi Gayssot. Socrate est mort, en effet, d’avoir parlé sur les sujets prohibés, non par le tyran, mais par les représentants démocratiques de la cité.

 

Comment ne pas citer en regard Albert Camus : « Nous vivons dans un monde où on peut manquer à l’honneur sans cesser de respecter la loi. » ? Ou citer Luc Ferry, ministre de l’Education nationale, qui juge ‘un peu ridicule’ le patriotisme. Abandonnant le code de l’honneur à certains truands, il parle pour une société de bobos, que le suicide de certains perdants laisse perplexe. Il parle pour ces responsables de la crise qui s’obstinent à donner des leçons d’économie. Il parle au monde sportif, où le fair play comme le dopage sont laissés à la discrétion des sponsors. Et au monde politique, où le principe de précaution sert d’alibi au refus du moindre risque. Bernanos avertissait que, dans la civilisation de la machine, la plus redoutable est la machine ‘à liquéfier les cerveaux’, notamment cette télévision dont un de ses grands patrons, Patrick Le Play, se vante qu’elle lui permet ‘de vendre des cerveaux disponibles à Coca Cola’. L’auteur dénonce ainsi, bien sûr, Mai 68 avec l’absence de toute distance, par le tutoiement universel. Et on passe bientôt des enfants battus aux mères battues. L’hédonisme multisensoriel (Alain de Benoist) a vite fait de tuer les engagements sur la durée, de même que les emplois contraignants : les cultivateurs, les médecins de campagne, les petits patrons ne trouvent plus de remplaçants. La tolérance, qui est le mot d’ordre, est en fin de compte la peur de l’avenir et la drogue est le refuge de cette peur. Les gouvernants de cette société de la peur la dirigent en suivant une logique d’épicier ou d’éleveur de volailles, pour qui même l’espérance de vie n’est plus l’objet de souhait. C’est normal dans une civilisation dont le modèle n’est plus le Sage, comme dans l’Antiquité, ni le Saint, comme au Moyen Age, ni l’Uomo Universalis, comme à la Renaissance, mais le Technicien, robot inculte, et tricheur ! Le mot de la fin est au soldat engagé exposé aux risques de l’Afghanistan : « Cela vaut quand même mieux que mourir ivre au volant ! »

Jean Haudry, enfin, éclaire les liens entre Gaulois et Germains, qui sont linguistiquement cousins, si pas jumeaux. Contrairement à ce qu’en écrit Tacite dans sa ‘Germanie’, les Gaulois n’ont pas été les envahisseurs comme le suggère ‘le divin Jules’, mais les premiers occupants. Et il y a eu nombre de populations celto-germaniques, comme ces Eburons dont on ne sait s’ils sont des Germains celtisés ou des Celtes germanisés.

 

00:25 Publié dans Revue | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : nouvelle droite, identité, mouvement identitaire, wallonie, sacré | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Althusius' Societal Federalism: A Model for the EU?

Althusius’s Societal Federalism:

A model for the EU?

althusiuelf0002_figure_001.jpgMany supporters of the European integration strongly believe in a kind of federalism that would be closer to European citizens, more transparent, and more representative of Europe’s plurality of communities than is the case under the current form of the European Union. The problem obviously arises in the moment when it is necessary to pin down these abstract proposals to a more concrete federal model that would embody them. This article will try to show that when approaching this task, we can gain much if we explore the very roots of the federalist thought as they are found in the work of an early modern political thinker Johannes Althusius. As we will discover below, Althusius’s federalism presents a ‘bottom-up’, dynamic, participatory, consensual, and solidarist alternative to that static federal model, which is popular in our modern times.

Let us first briefly start with the life of Johannes Althusius (1557-1638) himself. Besides being a jurist and prolific Calvinist political thinker, Althusius was engaged in active politics of the city of Emden. As a syndic of that city, he had become the main instigator of the arrest of the city’s provincial lord, count of Eastern Frisia, by Emden’s city councillors that transpired on 7 December 1618. Althusius vigorously defended the councillors’ decision as a ‘legitimate act of self-defence and resistance’ against the provincial lord’s infringements on the city’s rights, considering it an ultimate resolve ‘warranted under every natural and secular law’.[1] As will become apparent with the discussion of his work, the right of resistance to tyranny of a government that does not respect the rule of law is a key part of his federal thought.[2] His most famous work Politica Methodice Digesta (Politics Methodically Digested, first published in 1603), which will be taken here as the main source of Althusius’s federal thought, in a similar vein justifies the right of the Dutch provinces to secede from the crown lands of the Spanish ruler.

Nevertheless, we would do injustice to Althusius’s work if we thought that his federalist thought consisted only of the effort to defend the rights of cities or provinces against tyrannical rulers. Quite the contrary. Althusius, as a witness to wide scale social changes of the early modern period, primarily strove to strike a balance between individual freedoms and responsibilities coming from shared communal belonging. On the one hand, people at the beginning of the 17th century were no longer as tied to their place of birth as in the medieval times, and especially bourgeoisie was becoming increasingly emancipated from the nobility. On the other hand, newly acquired freedoms did not lead people to perceive themselves as lone individuals and they retained the older idea of considering themselves citizens with mutually binding responsibilities. Althusius’s model of ‘bottom-up’ societal federalism was meant to provide such an answer to a potential clash between demands of private associations and smaller political communities, and more encompassing political bodies such as province or realm. Besides the rights of communities, Althusius therefore to the same extent defends the necessity of inter-communal cooperation and solidarity. We will now move on to discuss Althusius theoretical assumptions on the nature of society, which serve as the pillar of his unique kind of federalism.

The Consociation as the Basic Element of Societal Federalism

Similarly to other political thinkers, Althusius starts Politica Methodice Digesta by explaining his philosophical presuppositions. In the first chapter, Althusius names consociatio as the basic element of society. More precisely, by this term Althusius understands a partially autonomous community that comes into existence through a social compact freely agreed between persons or consociations, thus uniting them into a new social whole.[3] Every human community is such a consociation: they are not just of public nature (as city, province, or realm are), but also private, including families, kinships, guilds, and professional colleges.

This particular theory of social contract is based on Althusius’s observations of the social nature of human beings. Although he does not deny aggressive or selfish impulses present in the human nature, he nevertheless believes, very much in the Aristotelian spirit, that all humans are just as well endowed with ‘the instinct for living together and establishing civil society’.[4] Human beings are ‘symbiotes’—they have natural capacity to form cooperative unions with other human beings. Notwithstanding whether this social compact is concluded tacitly or explicitly, it comes from the general human need to share ‘whatever is useful and necessary’ for their life, that is, goods, services, and rights. Every consociation first comes to existence only because there are persons who are able to see beyond their immediate individual interests and are willing to contribute to the welfare of an integrated and interdependent social whole. The act of founding of a consociation is an act of decision: every consociate expresses that he sees some common, higher values and needs that he might share with other human beings. Thus, the modern liberal idea of considering human beings atomised individuals only capable of maximising their personal interest is rejected by Althusius from the start. Symbiotes – be it persons or consociations – come together to consensually form a consociation ‘for the common advantage of the symbiotes individually and collectively’.[5] Pure self-interest (Rousseau’s l’amour propre) alone would never allow them to form any consociation with mutually shared responsibilities in the first place. Indeed, as it was already noted above, in the Althusius’ time it still remained an unquestioned assumption that citizens should contribute to the common good of the community.[6]

It therefore might not be surprising that sharing of material resources and services is an intrinsic part of the consociation building—because it provides ‘hard’ material basis for the day-to-day functioning of the consociation, that is, for the subsequent communication of other goods, services, and rights within the community. In sharing their resources and services, consociates do not rely on the centralistic administrative apparatus of the state – the activity is entirely in their own hands and it is also up to them to secure the communication of goods, rights, and services politically. Althusius’s thought thus contains a remarkable and untraditional ‘socialist’ element. As Thomas Hueglin notes, ‘such considerations are socialist because the distribution and use of scarce resources is not left to the highest bidder but remains under co-operative control’.[7] Furthermore, it is untraditional, because even though it emphasises collective good, it is not collectivist. It is dependent on the previous consent of symbiotes deciding which services should be delegated to the level of their consociation and which should be retained by lower consociations. In those areas where the consociation members decide that they have common interest, public property, conduct of public works, and voluntary charity are the ultimate acknowledgments of their long-term shared interests.[8]

The Consociational Government

After this brief exposure to Althusius’s general theory of consociations, the reader might rightly ask where does politics and federalism in particular have a place in all this. Althusius’s answer is strikingly simple: politics is the process of consociation building, and federation (or rather, as we will see, federalising) is the result of this perpetual process. We can easily ascertain this assumption from the following quote, where Althusius defines politics as

the art of consociating men for the purpose of establishing, cultivating and conserving social life among them. It is also called “symbiotics.” The subject matter of politics is therefore consociation, wherein the symbiotes pledge themselves, each to the other, by an explicit or tacit pact, to the mutual communication of whatever is useful and necessary for the exercise and harmony of social life.[9]

Almost by definition, the participation in a consociation requires active political engagement of the symbiotes in the continuous process of community building and renegotiation: communication of goods, rights, and services. As it was mentioned already above with regard to the sharing of material resources, it is only the political decision of the symbiotes that decides on the functional scope of the consociation. The consociation is therefore founded by a social compact of symbiotes. Interestingly enough, the social contract is for Althusius present at the basis of both private and public consociations. Although private and public consociations clearly differ in their purpose, as private consociations have particular, limited aims, such as economic gain, or perpetuating kinship relations, they share with public consociations the same consociational element: the communication of goods, rights, and services between their members. In this sense, both are all ‘political’.[10] Althusius was clearly not a modern feminist arguing for the politicisation of private life, nevertheless, he acknowledged that husband and wife form a consociational partnership, where each partner of the ‘contract’ shares his or hers particular resources for the benefit of a higher whole, i.e. the family. Althusius, although not dismissing the distinction between public and private as the distinction between limited and shared aims, rejects the modern limitation of the political to the public sphere. It is this communicative political element that is present in all consociations that allows the city, as the first public consociation Althusius considers in his work, to emerge as a consociation of private consociations in the first place.

When dealing with Althusius’s theory of social contract we have to furthermore distinguish it from the theories of other social contract thinkers such as Thomas Hobbes. As can be clearly seen from the discussion above, parties to the consociational contract of Althusius are not giving up all their political rights and freedoms to an all-powerful legislator (leviathan). The created consociation has clearly defined functions and purposes, which are decided by unanimity by its constituting members. The ‘politics’ of establishing of a consociation, and of renegotiation of its functional scope (i.e., what would be today constitutional amendment) is therefore distinguished from the administration or governance of that consociation. ‘True’ politics is the communication of goods, rights, and services between symbiotes: a permanent process of consociation building and renegotiation of its tasks. Administering the concluded common affairs comes only afterwards, as ‘second-order’ politics that has as its task the enactment and enforcement of communally agreed rights and duties. The government of a consociation has as its purpose the administration of the commonwealth commissioned by the people. In other words, the contract with the government, which by signing promises to uphold the consociations’ laws, is therefore only a part, although a crucial one, of the previously concluded social pact. As Thomas Hueglin remarks,

the sphere of governance and power is defined as part of the process of communication, and not a regulatory superstructure with an entirely different logic of social intervention. Political community, in other words, is a common social enterprise including all essential cultural, economic, and political activities.[11]

Maintaining the order and authority is an essential part of every social compact, but the government cannot wilfully decide on those issues, which were not explicitly delegated to its authority by the consociation as the organised body of the people as a whole. The sovereign is not absolute, he always rules according to law and his only ‘purpose is to co-ordinate and regulate that community’s process of communication. It is not to prescribe its goals and aspirations in any absolute or uncontrolled way.’[12] People never at any point give away their sovereign rights to the government—as the respect for their laws is always the source of the government’s legitimacy—they only delegate to the government the conditional authority required for the management and enforcement of the community’s laws.

Every consociation’s political representation therefore consists of two levels, which would be relatively close to the modern understanding of legislative and executive. The first level consists of elected representatives, who in the council represent the consociation as the organised body of the people as a whole, that is, as a consociation of smaller consociations, who united into that consociation for the common purpose. They enact new laws, to which the sovereign is bound, renegotiate the terms of the original consociational contract, and hold the executive accountable for his actions. In the worst of all cases, they can even depose the ruler from the office. In the majority of their decisions, they exercise their powers as a collegium, that is, collectively through the means of a majority vote. In this role, as Althusius notes, ‘the administrators and rectors of the universal symbiosis and realm represent the body of the universal association, or the whole people by whom they have been constituted.’[13] It is crucial not to misunderstand the point here as these representatives do not represent the ‘demos’ in the common way of understanding it (i.e., as a community of individuals), but only the organised body of the people. Althusius once again goes beyond mere individualism and collectivism when he underlines that the council of representatives neither embodies the general of the people une et indivisible (J.-J. Rousseau), nor a mere association of private wills (liberal democratic thinkers). They embody the common will, but this will is the product of plurality of communities, whose reason for participating in the consociation is the long-term desire to overcome individual differences. The purest manifestation of this consociational desire is the willingness to use a majority vote in those matters, on which individual consociations previously decided as being the common values and interests their consociation will share. Only when decisions would concern these constituent units individually, as in the case of constitutional amendment, the council would be once again required to decide unanimously or perhaps by a qualified majority vote.

The magistrate or a body of administrators elected by the council of representatives forms the second level of the political representation. They preside over the council’s meetings, enact and enforce its laws and have higher authority than any of the councillors taken individually, but are ultimately subject to the council’s will when taken collectively. The magistrates are responsible to the council and in turn, the council representatives are responsible to the constituent communities of the consociation. We will now proceed to further discuss this system of political representation in relation to Althusius’s proposals for the federal constitution of the polity.

Federalism – Federalising Consociations

In the previous two sections of this text, we have been trying to expose the ‘societal’ element of Althusius’s societal federalism. Politics was shown to be a process of consociation building as it establishes and renegotiates the terms of the communication of goods, rights, and services of a consociation. Consequently, governance is the administration and enforcement of the essential laws agreed by the lawful representatives of the consociation, as by the organised body of the people. Our following task will be to elaborate how Althusius’ theory of consociational politics enables him to develop a unique theory of ‘ascending’ (or ‘bottom-up’) federalism.

Firstly, let us highlight that for Althusius, consociations are not generally constituted by individuals—but by other communities. Perhaps only the family, as the basic social unit, might be said of consisting of individuals. Nevertheless, strictly speaking, even here we do not find socially alienated selves, but a husband and wife: persons with distinctive roles, who share their specific qualities for the benefit of their children and the family as a whole. The association of several families then forms more inclusive private consociations, such as kinship groups, colleges, or guilds. A public consociation (universitas) for Althusius for the first time emerges when several private consociations join to form an inclusive political order (politeuma).[14] It is the first organised body of people, assembling itself through the exercise of ‘natural’ symbiotic right (jus symbioticum). This inter-consociational compact gives rise to the legal order of the city (jus civitatis). It is an organised public body created by families, kinship groups, various collegia, and guilds (collegia artificum), that is, private consociations, all living in the same locality. By the virtue of this consociation, the formerly private persons become citizens. For Althusius, this first public consociation has the pre-eminent political nature – it is here where for the first time people gather not merely in order to pursue their private goals – but to pursue common good. By this consociation, Althusius has primarily in mind the city (civitas), but he also acknowledges that villages or countryside have similar status as the city’s rural counterparts. It is also at this point that we can fully appreciate the ‘societal’ element in Althusius federalism. It is by this element that we can distinguish it from modern federal models—since Althusius includes non-territorial private consociations into his federal framework. It is the consociation of these more ‘primordial’ social units that creates the city as the first public consociation.

If we tie this up to our discussion of the political representation, we find that in the city it is the prefect or consul (or a collective body of administrators) that serves as the city’s government. Likewise, the senate exercises the role of the council of representatives of the organised body of the people of the city, making the prefect subject to its laws. Thus, Hueglin remarks that ‘things done by the senatorial collegium are considered as done by the whole city that the collegium represents.’[15] On day-to-day laws, the senate decides by a majority vote, but a more far-reaching consensus, or even unanimity, is required in those matters that touch the constituent consociations of the city individually, not collectively.

The similar structure of the political representation is mirrored by higher levels of the federal polity. In this vein, Althusius discusses the province and the commonwealth. Let us just briefly remark that at the provincial level the provincial lord has the same role as the prefect in the city and the estates or orders (ecclesiastical, and secular, which themselves consist of nobility, burgers, and agrarians) fulfil the same duties as the senate. Again, it is the orders taken together that represent the organised body of the people of the province and the provincial head, although their superior in terms of political authority, is bound to the laws in his decision-making. The duties to be performed at the provincial level are to be first decided by the mutual consent of all the symbiotes, as they are represented in the provincial council gathering the provincial orders.[16] Exactly the same principles apply to the commonwealth, which unites several provinces, represented by the universal council of the realm and the commonwealth’s supreme magistrate.

We can see that at every level of the organised body of the people there is the same pattern of dual political representation. The councillors not only represent the common will of the consociation as such through the exercise of a majority vote, but they are also magistrates of lower communities that constitute the consociation. Their role is to be delegates of these lower consociations and as these delegates, they are bound to respect the common will of their own consociation and represent it in the higher council accordingly. Althusius’ federal polity is therefore

a kind of co-sovereignty shared among partially autonomous collectivities consenting to its exercise on their behalf and within the general confines of this consent requirement.[17]

Thus even the representatives remain ultimately ‘constrained by their oath of loyalty’ to the organised body of the community. Althusius explains this at some length in the Chapter XVIII of his book, it is worth to quote him at some length:

The people first associated themselves in a certain body with definite laws (leges), and established for itself the necessary and useful rights (jura) of this association. Then, because the people itself cannot manage the administration of these rights, it entrusted their administration to ministers and rectors elected by it. In so doing, the people transferred to them the authority and power necessary for the performance of this assignment, equipped them with the sword for this purpose, and put itself under their care and rule.

It is therefore difficult to speak of the division of powers between legislative and executive when dealing with Althusius’ societal federalism: a magistrate at every level of this federal polity might be at the same time a mandated legislator at the council one level higher. The universal council of the realm gathers provincial magistrates, who are in turn politically responsible to their provincial councillors. Nevertheless, taken collectively as the universal council, they form a ‘legislative’ body that promotes the interests of the organised body of the people as a whole and the supreme magistrate is for his actions accountable to this council.

A Model for the European Union?

Althusius’s societal federalism could be discussed at much greater depth, but due to the constraints of available space, we have to move on to briefly consider the applicability of Althusius’s proposals to the EU. On the first sight, the EU to a certain extent already functions according to Althusius’s federal model. Both the EU Council and the Council of Ministers largely function on the principle of inter-governmental bargaining, with the requirement of unanimity on ‘constitutional’ principles and majority or qualified majority voting for the issues of collective interest. A crucial difference lies however in the fact that national governmental representatives can be only weakly controlled by their national parliaments. Furthermore, national parliaments themselves have not been federalised from below by towns, cities, and regions. The line of political accountability is therefore broken and citizens have limited means of holding their representatives accountable except for limited amount of periodical elections. The keen reader might observe that for Althusius there would be no role for the European Parliament: there would be no ‘demos’ at the European level to be represented, if speak of it in terms of individuals, but only a common will to consociation of European nations or regions. We might return to this very interesting topic in one of the future articles.

Summary

Althusius’s societal federalism gives us a picture of a dynamic federal polity that integrates society from bottom-up. It starts at the level of families and private non-territorial consociations, which constitute its societal or horizontal element, than continues through the city as its first locus of public power, and ends at the level of universal commonwealth. The consociations in this federation dynamically reorganise themselves, renegotiating their values and interests. Each level of the federal polity is constituted by a council of representatives constituted by the delegated magistrates of the next lower level together with an magistrate or magistrates, who in turn represent the interests of this consociation at the next higher level of the polity.[18] In the final analysis, the whole political order is legitimate, when it functions as a representative consociation of consociations. If this model would be applied to the European Union, it might be able to deliver more pluralised governance, normative commitment to social solidarity, which would be however first subject to the consent of consociated members, and finally, popular control over the decision-making that would spring from the lowest levels of society to the highest level of Europe.

- Stanislav Maselnik


Endnotes:

[1] Quoted in Thomas O. Hueglin, Early Modern Concepts for a Late Modern World: Althusius on Community and Federalism (Waterloo, Ontario: Wilfrid Laurier University Press, 1999), 15. The original source is Heinz Antholz, Die politische Wirksamkeit des Johannes Althusius in Emden (Cologne: Leer, 1954).

[2] The right of resistance against unlawful decisions of government is also something that makes his work close to other early federalist thinkers, notably John C. Calhoun (1782–1850). Calhoun, in the so-called Nullification Crisis, got himself into a very similar situation as Althusius in Emden – he supported American states’ rights against their infringement by the US federal government. See J. K. Ford, Jr., ‘Inventing the Concurrent Majority: Madison, Calhoun, and the Problem of Majoritarianism in American Political Thought’, The Journal of Southern History, 60 (1994), pp. 19-58.

[3] Hueglin, Early Modern Concepts for a Late Modern World: Althusius on Community and Federalism, 86.

[4] Quoted in Ibid., 87.

[5] Quoted in Ibid.

[6] Indeed, even Adam Smith in his On the Wealth of Nations and Bernard Mandeville in The Fable of the Bees in the 18th century still justified their early free market economic theories by claiming that maximal economical freedom will ultimately be for the benefit of the community as a whole. See for example Emma Rothschild, ‘Adam Smith and the Invisible Hand’, The American Economic Review, 84 (1994), pp. 319-322.

[7] Hueglin, Early Modern Concepts for a Late Modern World: Althusius on Community and Federalism, 94.

[8] Althusius for instance mentions that the city should have the oversight over the following range of public services: all public political buildings, security, temples, theatres, courtyards, roads, ports, bridges, granaries, water mills, public water systems, and ‘other public works’. See Johannes Althusius, The Politics of Johannes Althusius (Boston: Beacon Press, 1964), chap. V-VI, http://www.constitution.org/alth/alth.htm.

[9] Ibid., chap. 1.

[10] Hueglin, Early Modern Concepts for a Late Modern World: Althusius on Community and Federalism.

[11] Ibid., 95.

[12] Ibid., 98.

[13] Althusius, The Politics of Johannes Althusius, chap. XVIII.

[14] Ibid., chap. V-VI.

[15] Ibid.

[16] Althusius suggests seven general areas of these duties, which may indeed be delegated to the level of commonwealth, if necessary: ‘(1) the executive functions and occupations necessary and useful to the provincial association; (2) the distribution of punishments and rewards by which discipline is preserved in the province; (3) the provision for provincial security; (4) the mutual defence of the provincials against force and violence, the avoidance of inconveniences, and the provision for support, help, and counsel; (5) the collection and distribution of monies for public needs and uses of the province; (6) the support of commercial activity; (7) the use of the same language and money; and (8) the care of public goods of the province’, Ibid., VII-VIII.

[17] Hueglin, Early Modern Concepts for a Late Modern World: Althusius on Community and Federalism, 4.

[18] Ibid., 142.

Gallovacantisme

Gallovacantisme

par Georges FELTIN-TRACOL

france_2040_interrogant.jpgIl est fréquent dans les milieux dits non-conformistes et d’engagement national, droitier ou identitaire, de s’échauffer contre l’actuel Système globalitaire, de vilipender l’oligarchie dominante, de déplorer le tournant pris par les mœurs, de stigmatiser nos contemporains, de dénoncer leurs défauts, leurs travers, leurs lâchetés et leurs bassesses, avant de conclure finalement par un vibrant « Vive la France quand même ! ».

Ce comportement proprement schizophrène n’est pas récent. Qu’on se souvienne des déchirements tragiques du camp patriotique entre 1940 et 1945 ! En remontant le temps, soulevons la faute magistrale de Maurras et de l’Action française qui, par germanophobie viscérale, conclurent un « compromis historique » avec la IIIe République dans le cadre de l’« Union sacrée ». Au même moment et dans le même élan de communion nationale, le prétendant légitimiste aux trônes de France et d’Espagne, le duc d’Anjou et de Madrid, demandait à ses partisans espagnols, les carlistes, d’atténuer leur germanophilie et de prier pour le salut de la France. Mentionnons aussi l’erreur considérable du pape Léon XIII d’appeler les catholiques de France au « Ralliement »… Passons charitablement sur l’énorme bourde des légitimistes de se retirer, par fidélité indéfectible à la dynastie légitime, dans leurs manoirs campagnards après 1830, délaissant ainsi le champ politique. Et que penser des discrètes manœuvres de l’ambassadeur du Piémont-Sardaigne, Joseph de Maistre, à Saint-Pétersbourg afin de freiner l’appétit territorial des Coalisés en 1814 – 1815 ?

À l’énoncé de ces quelques exemples, on a l’impression que les « conservateurs », les « réactionnaires », les « contre-révolutionnaires », se fourvoient avec les meilleurs intentions dans un incroyable jeu de dupe. La préservation des principes spirituels de légitimité et d’aristocratie traditionnelle semble passer après des intérêts politiques plus immédiats.

Il ressort de ces brèves considérations que de nombreux patriotes ne parviennent plus à distinguer la France idéale qui se perpétue en leur for intérieur et un Régime toujours plus détestable. Dans un essai bien senti, malheureusement passé assez inaperçu, Les deux patries (1), l’historien Jean de Viguerie relevait une dichotomie entre une patrie traditionnelle irriguée par des corps intermédiaires florissants et une patrie républicaine, abstraite, régie par des valeurs universalistes et individualistes. Ce distinguo est plus que jamais d’actualité au moment où Fadala Amara rêve publiquement d’une « République métissée » (2). Lentement mais sûrement, l’Hexagone dissout la France aux indéniables racines européennes, notre France historique. Arnaud Guyot-Jeannin remarque fort bien que « les nationalistes aiment la France. Tout le problème vient de ce que la France ne les aime pas. Non pas la France traditionnelle et enracinée, mais la France fraternitaire et cosmopolite Black-Blanc-Beur. L’atomisation du corps social qui en résulte, standardise alors les comportements individuels et collectifs. L’uniformisation qui découle de l’individualisme désagrège tous les modes de vie soudant les communautés naturelles » (3). Ne serait-il pas temps de prendre acte de cette césure fondamentale et d’agir en pleine connaissance de cause ?

Quitte à choquer, la défense acharnée de ce qu’on croît être la France et qui n’est en fait qu’une république francophage, variante spécifique et locale de l’idéologie mondialiste, n’est plus soutenable et se montre même en certaines circonstances contre-productive pour la mouvance rebelle et anticonformiste. Plus abruptement dit, les patriotes authentiques ne devraient plus se ranger de manière systématique et quasi-pavlovienne derrière un « patriotisme » officiel ou une volonté de « défense nationale » en fait délétère pour une conception du monde traditionnelle ou non-moderne. On pense combattre pour la France et on favorise au final l’assassinat systématique des cultures, des peuples et des identités.

La France que nous chérissons meurt étranglée par un mondialisme rapace, des instances eurocratiques pesantes et une République subrepticement totalitaire. Comme le fut jadis l’U.R.S.S. pour la Russie, la République hexagonale représente pour les Français les plus lucides un organisme parasitaire meurtrier de masse : le populicide vendéen, l’ethnocide des langues vernaculaires perpétré par les « hussards noirs », les massacres répétitifs de la paysannerie au cours des guerres de la Révolution, de l’Empire et de 1914 – 1918 en sont des preuves flagrantes et terribles !

Ce processus criminel, cette lente extermination des peuples enracinées de France, se poursuit et s’accélère avec la substitution en cours des populations autochtones par une immigration extra-européenne incontrôlée. La diversité ethnique et confessionnelle grandissante de la société oblige les pouvoirs publics et para-publics à recourir au seul ciment civique à leurs yeux valable, les dénommées « valeurs républicaines ».

Il en découle un martèlement croissant du discours républicain en tout lieu et à tout moment. Cette propagande suscite une phobie anti-discriminatoire qui frôle la pathologie mentale lourde. La quête harassante en faveur d’une diversité de façade imposée – s’il le faut par la contrainte – par la H.A.L.D.E., peint de couleurs exotiques variées une domination sur les esprits centrée sur la marchandisation, l’individualisme et le rejet de toute spiritualité.

L’Hexagone républicain n’est pas la France. Sait-on d’ailleurs que dans les réunions internationales, les documents officiels ne parlent jamais de France et toujours de République française ? Certes, s’il existe une République algérienne démocratique et populaire, il y a surtout une République fédérale d’Allemagne, une République de Pologne, une République populaire et démocratique de Corée, et non une République fédérale allemande, une République polonaise ou une République populaire coréenne… L’Hexagone reprend (fortuitement ?) la titulature du dernier Louis XVI, de Napoléon Ier, de Louis-Philippe et de Napoléon III qui était « roi (ou empereur) des Français ». Les masses se substituent à l’idée sapientielle ! Nullement français, l’Hexagone black-blanc-beur ne peut être une res publica au sens que l’entendaient les Anciens, ni un oïkos post-moderne (ou une République-site).

Les « hexagonophobes » doivent-ils pour autant délaisser la patrie nationale, s’en détourner irrémédiablement ? Nullement ! Ils doivent au contraire accompagner la métamorphose, la mutation en cours, fut-ce au prix d’entériner l’éclipse de la France. Oui, la République jacobine a volontairement occulté la France traditionnelle dont la légitimité a disparu irrémédiablement le 24 août 1883 à Froshdorf. Depuis, et à part l’exception incarnée par Charles de Gaulle entre 1940 et 1969, la légalité sert de pis-aller. En attendant qu’une nouvelle légitimité européenne et impériale surgisse des aléas de l’histoire, la seule posture désormais satisfaisante est le francovacantisme ou le gallovacantisme (4).

Le gallovacantiste ou francovacantiste postule d’abord que les structures républicaines occupent l’espace géographique et mentale de la France, ensuite qu’il est vain de soutenir un Hexagone qui est l’anti-France par excellence. On ne cesse d’invoquer l’« identité républicaine », le « civisme républicain », l’« école républicaine »… Ira-t-on bientôt jusqu’à expulser royalistes, européistes et régionalistes qui n’adhèrent pas au républicanisme laïc, gratuit et obligatoire ?

Bousculons donc les douillettes certitudes des souverainistes et autres nationalistes qui agissent en parfaits valets du Système. Dissocions la France historique de l’Hexagone républicain mondialiste. Repensons globalement le combat essentiel des identités autochtones d’Europe, et abandonnons aux fétichistes de l’État-nation républicain La Marseillaise, Marianne, le coq, sa devise inepte et le drapeau tricolore. Osons nous affirmer anti-républicains, Français d’Europe et localistes enracinés!

Telle est la véritable révolution intellectuelle qui s’ouvre à nous ! C’est au nom des valeurs républicaines prépondérantes qu’on exige l’assimilation, qu’on célèbre l’intégration et qu’on chasse la burqa. Dans le même temps, le Régime délaisse les zones rurales ou péri-urbaines, fait fermer hôpitaux de proximité, agences postales de villages et petites gares ferroviaires et prépare l’imposition des ménages rurbains fuyant l’exécrable multi-ethnicité des centres urbains au moyen de la fameuse  « taxe carbone ».

Les patriotes identitaires se doivent d’exprimer une dissidence radicale à la République. Loin de la préserver, ils doivent préparer son effondrement en se tenant prêts à l’imprévu. Qu’ils s’inspirent pour la circonstance de l’exemple des républicains sous le Second Empire. En effet, le 4 septembre 1870, dès l’annonce de la défaite française de Sedan et de la reddition de l’Empereur aux Prussiens, les républicains parisiens profitèrent du désarroi gouvernemental pour proclamer la République alors que cinq mois plus tôt, un plébiscite confirmait massivement l’assise populaire de l’institution impériale. Certes, les républicains mettront presque dix ans pour s’emparer définitivement de l’ensemble des pouvoirs, mais le mouvement initial, décisif, fondateur, était lancé. Soyons par conséquent aux aguets, aptes à répondre au Kairos. Le gallovacantisme doit nous aider à penser autrement notre vision de la France.

Georges Feltin-Tracol

Notes

1 : Jean de Viguerie, Les deux patries. Essai historique sur l’idée de patrie en France, Dominique Martin-Morin Éditeur, 2004, première édition en 1998.

2 : « Nous sommes en train d’accoucher d’une France diverse, d’une République métissée. Le mouvement n’est pas spectaculaire et ne se voit pas devant des caméras. » Amara Fadala, in Le Monde, 4 et 5 octobre 2009.

3 : Arnaud Guyot-Jeannin, « Une Europe néo-carolingienne est-elle envisageable pour l’avenir ? », in Benjamin Guillemaind (s.d.), La subsidiarité. Un grand dessein pour la France et l’Europe, Éditions de Paris, coll. « Les Cahiers de l’As de Trèfle », 2005, p. 99.

4 : « Gallovacantisme » ou « francovacantisme » sont deux néologismes dont il appartient à l’usage de valider l’un ou l’autre. Ces deux termes se construisent sur le modèle du sédévacantisme. Sans entrer dans les détails, le sédévacantisme considère que, depuis le concile Vatican II, tous les papes qui occupent le siège de Saint-Pierre sont illégitimes et hérétiques. Il en découle une vacance de la papauté. Une frange moins radicale de ce courant, le sédéprivatisme, considère que le siège pontifical est occupé dans les faits par une personne qui n’en est toutefois pas digne si elle entérine les conclusions conciliaires. Sédévacantistes et sédéprivatistes suivent donc des messes non in cum, c’est-à-dire hors de toute communion avec la hiérarchie ecclésiastique et les souverains pontifes.

Intervista a Luca Leonello Rimbotti

Intervista a Luca Leonello Rimbotti

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/

Luca Leonello Rimbotti è nato a Milano nel 1951. Laureato in storia contemporanea, si occupa di mito, filosofia e politica nella cultura europea, in special modo tedesca. È autore – tra gli altri – dei volumi
Il fascismo di sinistra. Da Piazza San Sepolcro al Congresso di Verona (Settimo Sigillo, 1989), Il mito al potere. Le origini pagane del nazionalsocialismo (Settimo Sigillo, 1992), Globalizzazione (Settimo Sigillo, 2003) e La rivoluzione pagana. Relativismo etnico e gerarchia delle forme (Ar, 2006). Ha collaborato con le riviste «Elementi», «Italicum», «Margini», «Linea», «Diorama letterario», «Trasgressioni».



Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?


Il Sovrumanismo di Nietzsche e Stirner, ma anche le individualità letterarie per così dire «eroiche» del tipo di Byron o William Blake, il Romanticismo anglo-tedesco, certe personalità che incarnano la lotta contro il proprio tempo e hanno il tratto del solitario e visionario precursore – da Herder a Oriani, per intenderci – fino ad ambienti del ribellismo storico, ad esempio l’anarco-squadrismo antemarcia. Poi ci metterei il classicismo dorico, l’estetica pre-raffaellita e in genere il figurativismo ottocentesco, da Friedrich ai Simbolisti al Futurismo... poi hanno avuto grande incidenza sulla mia formazione certi ambiti musicali della mia generazione, legati alla musica hard-rock e heavy-metal, coi loro immaginari rivoltosi e i loro rimandi ai valori tradizionali vissuti come opposizione anti-borghese... ma si potrebbe continuare.


Che cos’è stato sinteticamente il Fascismo, in che modo il suo insegnamento può essere ancora valido oggi, e in che senso te ne senti continuatore?

Il punto a mio vedere di gran lunga più importante del Fascismo è stato il tentativo storico di coniugare la tradizione popolare con la modernità: una nuova considerazione delle masse come soggetto politico, una concezione dinamica della vita e della socialità, un potente mito aggregante e identitario, una volontà di futuro che si sposava senza tante incrinature con la rivendicazione delle più lontane appartenenze, coi simboli antichi, col culto della terra dei padri, con la sacralizzazione della comunità di popolo, etc. Trovo che tutto questo proprio oggi rappresenti qualcosa di vivo, giudico che sia un’ideologia generosa di affratellamento e di fierezza, per cui ogni popolo dovrebbe riunirsi attorno ai propri patrimoni ereditati, così da offrire la maggiore resistenza contro il tentativo in atto di distruggere i legami nazionali a favore di un cosmopolitismo privo di identità e negatore delle differenze. Personalmente, mi sento un modesto ma tenace continuatore di tali valori: e da quarant’anni (da quando pubblicai il mio primo articolo) batto e ribatto sul medesimo tasto di una tenuta strenua sui significati di legame e di identità, poiché penso che, perduti questi, non si avranno più uomini e popoli, ognuno con la propria storia e la propria cultura, ma soltanto individui degradati e popolazioni ammassate a casaccio.


Quali sono gli storici che hanno contribuito secondo te ad una più oggettiva e disinteressata interpretazione del Fascismo?

Quelli classici. De Felice, Nolte, Mosse, poi Acquarone, Salvatorelli, Santarelli, sui quali mi sono formato. Ad essi si sono aggiunti Emilio Gentile, Settembrini, Sternhell, Parlato e pochi altri: ma nessuno di essi ha dato interpretazioni «disinteressate». Molti, anzi tutti, erano e sono in varia misura ostili al fascismo. Ciò non toglie che spunti, idee, metodi siano stati per me di insegnamento. Quando mi laureai, il mio professore mi disse che potevo, anzi dovevo avanzare giudizi di valore: da allora così faccio in ogni mio scritto e diffido di chi si proclama super partes. Non avere opinione su ciò che si scrive – essere dunque disinteressati – non è buona cosa per uno storico...


Quali sono, a tuo parere, le più profonde affinità e differenze tra il Fascismo italiano e il Nazionalsocialismo tedesco?

Sono stati movimenti storici molto più affini che differenti. Entrambi intesi a operare quella unione tra modernità e tradizione di cui dicevamo, entrambi basati su sistemi affini di mobilitazione popolare, su una struttura di partito e poi di Stato molto simile. La differenza sta nelle rispettive caratteristiche nazionali: l’antisemitismo, ad esempio, blando e solo di matrice cattolica in Italia, era in Germania diffuso a livello popolare. La maggiore somiglianza risiede, più che nei sistemi sociali o partitici, a mio parere, nella eguale volontà di operare una rivoluzione antropologica, creando un tipo nuovo di uomo che rompesse la tradizione progressista occidentale e si ricollegasse al mito eroico indoeuropeo: la Romanità e il Germanesimo ebbero questa funzione.


In cosa, secondo te, il Fascismo fu il legittimo erede di Roma antica? La Roma fascista fu veramente la Terza Roma?

Penso di sì. Se furono legittimi altri richiami alla Roma antica – pensiamo ai giacobini, ammiratori della Roma repubblicana, o a Mazzini, o ai poeti risorgimentali... – lo fu a maggior ragione il fascismo, che sui temi della fedeltà alla stirpe, la sacralizzazione della tradizione, l’imperialismo colonizzatore, la socialità corporativa, la gerarchia di rango, il senso del destino, etc. ci impiantò un moderno Stato nazionale. Dopo la Roma antica e quella papalina, davvero quella fascista avrebbe dovuto essere la Terza Roma, per dichiarazione esplicita dei suoi protagonisti: che fosse di cartapesta, grottesca o imbelle come ama dire la storiografia, non saprei. Dopotutto, a parte le gravissime deficienze umane, organizzative, etc. del fascismo, alla coalizione mondiale nemica occorsero diversi anni di guerra totale per abbattere un tale disegno politico... di cartone: o sbaglio? E, a giudicare da quanto se ne scrive ancora oggi, tutto questo ha lasciato una certa traccia nella storia.


Giovanni Gentile è stato definito il «filosofo del Fascismo». Quanto è stato grande, a tuo parere, il suo contributo nell’edificazione del regime fascista?

Gentile era uno dei pochi intellettuali italiani conosciuti a livello internazionale: e altri di questa categoria, come ad es. Pirandello o Marinetti, furono del pari fascisti. Ma il fascismo di Gentile fu piuttosto un liberalismo nazionale radicale. Anche se, dobbiamo dire, la socialità gentiliana aveva un tono non solo conservatore: l’umanesimo del lavoro aveva una sua nobiltà e una sua grandezza, e la sua concezione dell’Io come essere comunitario, la sua indicazione che la comunità nazionale non consiste nella mera cittadinanza, ma nell’unità spirituale, costituiscono un’ideologia di forte presa identitaria. La civiltà del lavoro come compiuta realizzazione dell’Idea ha una sua logica e sul finire Gentile – mi riferisco specialmente a Genesi e struttura della società, del 1943 – colse i rapporti tra liberalismo e anarchismo, rifiutandoli nel nome di una marcata funzione sociale dello Stato. Personalmente ho un po’ rivalutato Gentile per alcuni di questi aspetti: non vedeva il partito rivoluzionario, vedeva lo Stato, d’accordo, ma alla fine fece spazio – da buon hegeliano – a una concezione organica non certo di «destra». Sua fu poi, insieme a Mussolini, la visione del fascismo non come semplice movimento politico, ma come religione, forza dello spirito.


Quali furono i pregi e i difetti del «Fascismo di sinistra»?

I pregi? La volontà politica di eliminare i condizionamenti capitalistici senza distruggere il capitale, che è ricchezza del popolo, l’idea di dare al lavoro il protagonismo sociale, la determinazione di farne un elemento della decisione e non della sola esecuzione della volontà politica. Considerare un’unica classe: il popolo. E dare soltanto a chi vive del suo lavoro – che sia in basso o in alto – dignità e onore sociale. La competenza poi (ad es. in Bottai) era giudicata centrale, quindi niente retorica operaista, ma coscienza che senza gerarchia si fa la fine che ha fatto il comunismo, e che fecero le comuni ottocentesche. Al posto dell’utopia, la concreta concezione dello Stato organico: ognuno al suo posto e tutti a remare dalla stessa parte. I difetti? Non avere avuto una potente referente nel partito. Dopo l’accantonamento di Rossoni (1928) non si ha più un leader del fascismo corporativo. Mussolini si barcamena tra capitalisti, monarchia e Chiesa. La Carta del Lavoro era un buon punto di partenza, poi le corporazioni del 1934 rimasero sulla carta. La Camera dei Fasci e delle Corporazioni poteva essere un ottimo strumento per istituzionalizzare il fascismo social-progressista... ma è del 1939, non ebbe tempo per incidere.


Berto Ricci è stato uno degli intellettuali più brillanti e vivaci della «nuova generazione». Qual è il valore della sua opera? Quale lezione ne possiamo trarre oggi?

La sua lotta contro il borghesismo e la concezione individualistica della società, che è tipica della cultura italiana, trovo che sia ancora oggi un messaggio vivo e un modello estremamente valido. Il suo battersi, insieme a tanti altri giovani dell’epoca, per un’idea di «aristocrazia di comando» che desse ai migliori, ai più efficienti e ai più disinteressati, le leve del potere, eliminando la corruzione, il clientelismo e la tradizionale pratica italiana di stare dalla parte del più forte. L’avvento di una generazione di uomini liberi da condizionamenti, che avesse in mente il riscatto dell’onore e della dignità del popolo, e che fosse per questo in grado di toccare gli interessi privati avendo come sponda il fulcro centrale del potere: il partito e Mussolini. Che, invece, rimasero troppo spesso prigionieri dei poteri forti pre-fascisti, alla fine – grazie alle vicende mondiali – risultati vincenti.


La Scuola di Mistica Fascista è stata la fucina dei cosiddetti «apostoli del Fascismo». Quali furono i punti di forza di quell’affascinante esperienza?

La volontà di considerare la vita degna di essere vissuta soltanto se spesa servendo ideali nobili di offerta di sé. Considero la Scuola di Mistica un vero sacerdozio, un ambiente che con taglio propriamente religioso giudicava il sacrificio – persino della propria vita – un fine luminoso cui aspirare, una meta con la quale la persona umana si completa, diventando qualcosa di sovrumano. La dimensione trascendente, innestata su una fede fanatica – non dissimile dalla fede dei santi e dei martiri – è una via difficile e dolorosa, tanto più ardua da intraprendere se concepita come offerta spontanea, persino gioiosa e sorridente nello sforzo di superare i limiti della nostra natura di uomini: si tratta di apici esistenziali difficilmente comprensibili dall’uomo normale, specialmente in un’epoca come la nostra, che premia il furbo, il dissacratore, l’arrivista... cioè i valori opposti a quelli di una visione mistica e sacrale della vita.


In cosa risiede la portata rivoluzionaria del Corporativismo e della Socializzazione delle imprese?

La conciliazione delle classi, il superamento della conflittualità interna al corpo sociale: questo il dato sovvertitore. Il fatto che può essere un partito egemone e addiririttura uno Stato illuminato a guidare il processo di liquidazione del predominio degli interessi privati su quelli comunitari. L’idea che il popolo è un’unità organica, una comunità unita da un medesimo destino e non un insieme di interessi divergenti, legati alla categoria di lavoro cui si appartiene. Pur con certe differenze, talora marcate, tra il sindacalismo integrale e il corporativismo vero e proprio, si nota un comune intendimento di pervenire al concetto di organicità dell’economia. Progetti come quello della corporazione proprietaria di Spirito – in un contesto di maggiore forza politica – avrebbero rivoluzionato gli assetti sociali dalle fondamenta: la proprietà, la gestione e gli utili d’impresa spartiti tra i membri della produzione, gli esecutivi come i direttivi. Ma anche il corporativismo «di regime», pur attuato poco e male, aveva un’ideale nobile: proprietà dei mezzi produttivi inalterata, ma verifica che non avesse a prevalere l’interesse del capitalista sull’interesse della produzione nazionale. La socializzazione, poi, che dava al lavoro la cointeressenza sugli utili, spingeva tale ottica rivoluzionaria a un punto radicale: la stessa gestione è appannaggio delle categorie del lavoro, e il ricavato viene suddiviso tra chi lavora, e non elargito dal capitalista in qualità di salario. Antioperaismo, anticapitalismo e produttivismo organico: non c’è nulla, in questa concezione, che non possa essere ancora oggi pienamente ripreso da un movimento politico inteso a superare le micidiali derive della gestione multinazionale dell’impresa e soprattutto a spezzare il predominio della finanza sull’economia e quello dell’economia sulla politica. Molto modestamente e con tutti i limiti del caso, il sottoscritto è stato il primo ad occuparsi specificamente del «fascismo di sinistra», anticipato solo dal breve saggio di Silvio Lanaro che comparve sulla rivista «Belfagor» nel 1975: lo stesso Settembrini – che nel suo libro Parlato, pur citandomi, dice essere stato il primo – mi seguì di due anni. Rivendico questa modesta primogenitura e confesso che non mi sono mai distaccato dalle mie giovanili convinzioni, che il fascismo avesse una forte spinta rivoluzionaria anche in senso sociale.


Evola è stato un punto di riferimento importante degli eredi del Fascismo. Qual è stata la forza e la debolezza del suo pensiero?

La sua forza è stata nella rara capacità di evocare miti viventi. Di fare di alcuni simboli e di alcuni mondi culturali l’antefatto immediato di una presa di coscienza politica che potesse essere ancora attuale. Il suo talento nell’affrescare valori storici e significati tradizionali imprime indubbiamente un’energia ideologica animatrice, che rimane indelebile in chi ha avuto i suoi libri tra gli elementi formativi. Certo, non comprese appieno il fascismo e la sua epoca. Non ebbe i mezzi culturali per apprezzare uno sforzo di tale portata, inteso a innestare i motivi tradizionali nella modernità, facendone cultura di popolo ed estraendoli dalle chiuse stanze degli eruditi. Similmente ai circoli nazionalconservatori tedeschi, era assente in Evola la sensibilità politica atta ad apprezzare il disegno di portata epocale di combinare l’arcaicità col futuro. Mancanza impolitica non da poco, che tuttavia non ne compromette il retaggio sotto il punto di vista del valore culturale e ideologico.


Quali sono stati, a tuo parere, i gruppi organizzati e le fucine di pensiero più importanti e validi del neofascismo dal dopoguerra ad oggi?

Penso che soltanto l’ambiente di Ordine Nuovo sia stato, ai tempi e per un breve periodo, un vero laboratorio di pensiero politico. Agganciato a Evola – pur coi difetti di costui di cui si è detto – quel sodalizio ebbe la capacità di sollevare argomenti, miti, inquadrature con ricadute sul politico, insomma un’ideologia in sé coerente, una vera concezione del mondo. Personalmente poi ho partecipato per lunghi anni all’esperienza della cosiddetta «Nuova Destra»: qui veramente si ebbero incisivi segnali di uno svecchiamento della cultura politica, nuovi temi affiorarono, antichi complessi venivano abbandonati. De Benoist per un periodo importante è stato un maestro di elaborazione nuova, un intellettuale creativo e fertile, che ha aperto spazi e indicato metodi. In maniera non dissimile, Marco Tarchi ha impresso in tanti di noi la capacità di vedere le cose più da lontano, con ottica libera, cercando nuovi collegamenti. Purtroppo il progetto metapolitico della Nuova Destra, isolata in modo crescente, non ha sfondato: e i suoi paladini hanno finito con l’essere attirati di nuovo dal magnete delle loro culture di provenienza. Così molti oggi sono tra le gambe del potere, altri sono rifluiti allo studio del fascismo e dintorni. Marco lotta ancora da solo e con qualche giovane nella sua trincea. Ma l’esperienza – parlo per me – non è stata infeconda, i suoi semi hanno in qualche modo fruttificato, anche se solo a livello individuale.


Anni di piombo. Quali i miti da sfatare, le logiche ed i protagonisti occulti di quel periodo?

Confesso che l’intero capitolo degli «anni di piombo» non mi ha mai interessato. L’ho sempre visto come un ginepraio di loschi traffici, atteggiamenti ambigui, idealismi mal riposti e oscene compromissioni. Ho un istintivo distacco per tutto quanto non è limpido e aperto. Dico soltanto che provo umana comprensione per tutti coloro che, senza colpe, sono stati travolti dalla logica dura del potere, e ne hanno sofferto.


Si parla spesso di «identità», o con richiami puramente retorici oppure con invocazioni ideologiche al meticciato: che senso ha questa parola? Il melting pot è, secondo te, un pericolo o una possibilità?

Identità è l’esser se stessi: ciò vale per un singolo uomo come per un singolo popolo. Tutto ciò che non attiene all’esser se stessi è evidentemente estraneo o addirittura nemico dell’identità, mirando a sfigurare un volto e a renderlo irriconoscibile. Gettare masse delle più disparate provenienze all’interno di un popolo significa volerne annientare la forma e la caratteristica storica, bella o brutta che sia. Tanto l’immigrante quanto chi subisce l’immigrazione perde qualcosa di sostanziale: la propria tradizione, il proprio passato, la propria cultura, il proprio onore di uomo, che non consiste solo nell’individualità, ma anche nell’appartenere a una cultura storica, sia pure la più umile del pianeta. Che, in quanto tale, merita anch’essa rispetto e protezione: che c’è di positivo in questo voler annientare i legami di storia e di cultura? In nome di cosa, poi? La cittadinanza universale?


Che cosa pensi del processo di unificazione europea? Meglio un’unione “inquinata” da derive liberalcapitalistiche, oppure un rafforzamento delle sovranità nazionali?

L’attuale unificazione europea è a gestione bancaria, lo vede anche un cieco. I popoli europei – del resto quasi mai consultati in proposito e, quando consultati, espressisi negativamente – non c’entrano niente. Un rafforzamento identitario a tutti i livelli, oggi che il vecchio nazionalismo è superato da due guerre civili, sarebbe auspicabile in vista di un’Europa unita. I regionalismi, in questo senso, li giudico positivamente, come ogni fenomeno di rinsaldamento identitario. Lo stesso nazionalismo non esclude né il regionalismo né l’europeismo, anzi li presuppone: gli imperi da sempre sono innestati sulle piccole appartenenze. Di solito si obietta che il nazionalismo porta alla guerra. Direi che non è vero. È solo quando il nazionalismo viene forzato dall’interesse economico imperialista che diventa un elemento infiammabile, altrimenti l’amare il proprio popolo non prevede affatto l’odiare quelli altrui, al contrario. Le recenti faide balcaniche sono state causate da precedenti motivi di internazionalismo comunista: popoli a forte identità mescolati a forza dal pregiudizio anti-nazionale, e che hanno scatenato l’odio reciproco che si crea dalla fusione coatta. Mi risulta poi che la liberaldemocrazia sia in grado di scatenare guerre perfettamente distruttive, senza avanzare la minima rivendicazione nazionale, ma anzi proprio nel nome di quelle utopie internazionaliste che vengono gestite da liberali e neo-giacobini (la «destra» e la «sinistra») in assoluta concordia.

00:10 Publié dans Entretiens | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : italie, histoire, fascisme, nouvelle droite | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Réflexions sur les Accords Rex-VNV

DOCUMENT pour servir à une meilleure compréhension de notre histoire

Réflexions sur les Accords Rex-VNV

par José Streel (1941)

Il n'est pas trop tard pour parler encore de l'accord conclu la semaine dernière entre les organisations de Rex, du VNV et du Verdinaso et portant création du parti unique en Flandre et en Wallonie. Il en va de cet accord comme de tous les contrats: sa valeur réelle dépendra plus de l'application qui en sera faite que de ses clauses. C'est pourquoi plutôt qu'à un texte court et assez banal, il faut s'attacher à l'esprit dans lequel il a été négocié et signé. Dans la mesure où il est possible de définir des probabilités pour l'avenir, c'est dans l'atmosphère de l'accord et dans ses principes de base qu'on peut essayer de deviner les fruits qu'il portera.

 

Le patriotisme s'attache au peuple et non à l'Etat

 

Ce qui a triomphé et ne pourra être remis en question, c'est le principe de la primauté du peuple par rapport à l'Etat.Une des plus grave parmi les erreurs de l'ancien régime a consisté à considérer la formule étatique existante comme immuable et à identifier le patriotisme avec l'attachement à cette formule. En général, cette assimilation de l'Etat au peuple est utile à la paix publique et au développement de la communauté nationale. Seulement lorsque les fondements de la nationalité ne s'imposent pas avec la rigueur inéluctable d'une évidence, il est fatal que les périodes révolutionnaires remettent en question la forme et les limites de l'Etat. S'il en sort un Etat plus étroitement adapté à la réalité populaire, on regagnera dans l'avenir en stabilité et en harmonie les perturbations inséparables d'un aménagement.

 

Gesch9.jpgL'histoire récente de notre pays montrait que telle était notre situation. Le jour où sous la pression d'événements intérieurs ou extérieurs l'Etat libéral unitaire créé en 1830 par la bourgeoisie d'expression française s'écroulerait, l'organisation étatique appelée à lui succéder devrait non seulement posséder une nouvelle structure institutionnelle, mais intégrer le courant qui au cours d'un siècle a créé une conscience flamande nationale. Considérer la question flamande comme une simple "question linguistique" était l'expédient dont la démocratie pouvait se contenter, mais qui était depuis longtemps dépassé. Le phénomène flamand avait atteint un degré de complexité tel qu'il ne pouvait trouver sa place dans les cadres de l'Etat unitaire; s'il n'avait été qu'une simple querelle linguistique, il aurait été résorbé assez rapidement par la voie d'une législation assez satisfaisante sur l'emploi des langues. La surenchère électorale ne l'aurait pas empêché d'aller tout doucement en s'atténuant; il aurait perdu sinon en ampleur, au moins en virulence. Or, il n'en était rien. Chaque "concession" de l'Etat unitaire au mouvement flamand ne faisait que renforcer celui-ci au lieu de l'apaiser. Manifestement, on se trouvait en face d'un phénomène d'un dynamisme historique incoercible qui ne pouvait prendre place dans les limites d'une formule étatique conçue en d'autres temps et pour d'autres temps; fatalement, il devait faire craquer ces limites et créer une nouvelle forme d'Etat, conforme à son contenu populaire. Ceux qui, dès 1936, ou même avant, avaient reconnu la nature réelle de ce phénomène voyaient combien il était dangereux de solidariser le patriotisme ou le fait politique belge avec des formes étatiques désuètes et condamnées par l'évolution. De cette solidarité, il ne pouvait naître que des équivoques effroyables et lourdes de périls, que les efforts de quelques esprits lucides et authentiquement patriotes ne pouvaient réussir à conjurer.

 

Le patriotisme ne consiste pas dans la fidélité à une formule politique qui a fait son temps, mais dans l'amour concret et vivant du peuple au milieu duquel on est né et auquel on est lié par la communauté de destin; la patrie, ce n'est pas une création juridique plus ou moins arbitraire, c'est un ensemble d'hommes dont on partage le sort dans les bons comme dans les mauvais jours, et dont on défend le patrimoine spirituel, moral et matériel. La bourgeoisie dénationalisée de Flandre a cherché, comme il était naturel, à confondre la construction politique de 1830 avec la patrie; dans la partie romane du pays et à Bruxelles, l'électoralisme a joué dans le même sens. On n'a manqué aucune occasion d'exploiter les sentiments de la population ni de mettre en ligne les anciens combattants de 1914-1918, comme si la formule étatique ancienne était sacrée et comme si c'était pour elle que des hommes avaient affronté la mort pendant cinquante-deux mois. Ces manœuvres n'ont que trop bien réussi   -d'autant plus facilement qu'elles étaient liées à l'action pour maintenir notre politique extérieure dans une ligne favorable non pas aux Belges, mais à nos anciens alliés. Un régime perméable comme la démocratie aux influences étrangères ne pouvait manquer de commettre cette monstrueuse confusion.

 

Il est caractéristique que lors de la proclamation de la politique d'indépendance en octobre 1936, puis après la capitulation du 28 mai 1940, la presse française, dont l'ignorance des réalités belges est proverbiale, n'ait rien trouvé de plus fort ni, à son sens, de plus décisif que de parler du Roi "flamingant" ou de "l'entourage flamingant" de notre Souverain. Après cela, tout paraissait dit.

 

En Wallonie, nombreux étaient ceux qui, avec une candide bonne foi, ne discernaient dans le mouvement flamand, même dans sa forme la plus minimaliste, que de sombres machinations plus ou moins inspirées par une volonté de "trahison". Trahison envers qui et envers quoi? Envers le peuple? Non. Mais envers une forme de l'Etat dont les services rendus sont contestables et qui, de toute façon, se trouvait depuis longtemps dépassée par l'évolution de la réalité populaire. On ne trahit aucune valeur essentielle quand on se propose d'aménager autrement, fût-ce au détriment de quelques minorités fort peu soucieuses de leur propre peuple, les rapports entre les communautés culturelles dans un pays ayant une situation aussi complexe que le nôtre. L'Etat unitaire n'a rien de sacré, sauf pour ceux à qui son existence profitait.

 

Sacrifier l'unitarisme pour sauver l'unité

 

Il y a quelque chose qui, à notre sentiment, est sinon sacré  -ce mot n'ayant aucune signification politique-  au moins politiquement utile, nécessaire et donc désirable: c'est l'unité. Mais cette unité ne se confond nullement avec l'unitarisme: depuis longtemps déjà, il était évident pour les bons esprits, que le second devait être sacrifié à la première. Même ceux qui sont le moins suspects de sympathie personnelle envers M. Degrelle et qui naguère considéraient comme intangible l'édifice unitaire de 1830, ont reconnu la haute pertinence du passage de la communication du Chef de Rex exposant qu'il ne peut plus être question d'imposer une forme quelconque d'unité au peuple flamand, mais qu'il faut le laisser venir spontanément à cette unité que recommandent à la fois l'histoire, la géographie et l'économie. Ou bien on estime que cette unité, ayant subi les aménagements indispensables, répond vraiment aux exigences profondes de la vie politique de nos populations et dans ce cas, il faut faire confiance aux évidences: elles ne manqueront pas d'imposer cette unité. Les réalités sont toujours plus puissantes que la volonté bonne ou mauvaise des hommes. Ou bien  -ce que nous ne croyons pas-  cette unité n'a aucun fondement dans le réel et son désir ne procède que d'une sentimentalité assez vaine: dans cette hypothèse, il ne faudrait pas pleurer sa disparition, celle-ci apparaissant alors comme un bienfait libérant les forces populaires et orientant vers des voies nouvelles et plus sûres leur épanouissement.

 

Nous ne recommandons pas un fatalisme apathique: il faut aider la vérité politique à se manifester de la meilleure façon et avec le plus grand profit pour le peuple. Mais on se prépare de cruels déboires quand on prétend la violenter, soit dans un sens soit dans l'autre. Il faut maintenir le maximum de conditions favorables à une unité belge revue, corrigée et exprimée politiquement par un Etat de structure nouvelle. Cela non par fétichisme de l'unité ou de "l'idée belge" ni pour toute autre sentimentalité plus ou moins respectable, mais parce qu'on estime que nos provinces, celles du nord comme celles du sud, seraient condamnées à de pénibles vicissitudes historiques si l'on commettait l'erreur  -l'erreur politique insistons-y-  de les séparer.

 

Seulement, la meilleur façon de sauver cette unité, qui venant d'une libre adhésion, sera durable, c'est de la désolidariser très nettement d'avec l'ancien unitarisme.

 

L'accord et la stratégie révolutionnaire

 

C'est d'ailleurs là un des aspects inéluctables de la révolution du XXème siècle dans le coin d'Europe que nous habitons. Il était absurde d'imaginer que le régime ancien pourrait s'écrouler comme démocratie parlementaire, comme système ploutocratique, comme économie libérale, comme domination de l'argent sur le travail et que miraculeusement il resterait debout comme Etat unitaire. Dans ce domaine, comme dans les autres, la révolution ne pouvait être que totale. Il existait des forces jeunes, vigoureuses, populaires, dégagées par le seul développement historique des forces qui menaçaient la structure du vieil Etat. Elles étaient même beaucoup plus clairement manifestées et moins latentes que celles dont l'effort principal se portait contre la forme d'organisation politique ou contre la structure sociale de la société bourgeoise. Il fallait de toute manière leur faire une place dans la révolution. Tout est dans tout.

 

Le fameux accord Rex-VNV de 1936, tant critiqué, cible de tant de sottises et de tant de vilenies, répondait à une conception totalitaire et remarquablement réaliste de la stratégie révolutionnaire. Les rexistes savaient ou devinaient d'instinct que, pour écraser le système des partis et la puissance ploutocratique, dont ce système était le support, il fallait tout remettre en question, y compris la forme unitaire de l'Etat; les nationalistes flamands se rendaient compte, d'autre part, que l'Etat unitaire résisterait à leurs assauts aussi longtemps qu'il aurait son armature démocratique, économique et sociale.

 

Nous plaignons ceux qui n'ont vu dans cette opération qu'une banale coalition des oppositions; quant à ceux qui y voyaient nous ne savons quelle machination ténébreuse ou quelle "trahison" plus ou moins inspirée par l'Allemagne, leur cas relève soit de la vénalité, soit de l'ignorance la plus invincible des réalités populaires et politiques. En portant leur effort principal contre l'accord Rex-VNV, la bourgeoisie libérale, la caste politicienne et la maffia ploutocratique, galvanisées par le sourire doucereux de M. Van Zeeland, savaient ce qu'elles faisaient: elles sabotaient la conjonction des forces révolutionnaires dont la communauté d'action mettait en péril leur domination.

 

Par la fusion des diverses organisations politiques en Flandre, par la reconnaissance du nouveau parti comme parti unique flamand et de Rex  -d'un Rex ouvert à tous et extensible en tous sens-  comme parti unique dans le sud du pays, la nouvelle convention réédite ce regroupement des forces révolutionnaires organisées, à défaut duquel on voyait depuis un an les forces d'ancien régime consolider leurs positions, reconquérir celles qu'elles avaient perdues et renforcer une domination ploutocratique qui devenait plus lourde et plus menaçante que jamais.

 

L'ancien accord et le nouveau

 

Le nouvel accord se distingue cependant assez nettement de l'ancien par son contenu. En 1936, les parties contractantes énonçaient un programme commun d'aménagement de l'Etat; c'était le temps où l'on faisait encore des programmes et où chaque candidat disposait, au gré des préférences de ses électeurs, de l'avenir du pays.

 

Aujourd'hui, il s'agit de tout autre chose. Le nouveau pacte va plus loin, en ce sens par exemple que Rex renonce à toute action directe en Flandre, ce que M. Degrelle avait refusé de consentir il y a cinq ans, malgré le désir de ses alliés; c'est qu'aujourd'hui l'unification organique des forces politiques prime tout. La vieille anarchie libérale est éliminée, aussi bien en politique que dans l'économie.

 

Il était donc indispensable non pas de sacrifier les organisations flamandes de Rex, mais de les intégrer avec honneur et surtout avec efficacité dans le nouveau parti unique flamand.

 

En ce sens, l'accord de 1936 est dépassé. Par contre, le nouveau pacte ne dispose pas  -et n'a pas à disposer-  de l'avenir. Il ne trace pas de programme pour les constructions futures. Le moment n'est plus aux alignements de paragraphes et d'aliénas, puisque la guerre n'est pas terminée sur le plan juridique et que le Chef naturel du pays est réduit au silence. Ce qui est possible et ce qui a été fait, c'est une délimitation des sphères d'influence de chaque groupement. Faut-il dire que cette délimitation laisse prévoir l'avenir et que son principal intérêt à nos yeux est de sauvegarder "in spe" les intérêts des Wallons, menacés par l'impérialisme flamand et d'assurer l'intégrité romane de leurs provinces?

 

Mais ces aménagements sont l'œuvre de l'avenir. Pour l'instant, les organisations politiques n'ont qu'à renforcer leurs cadres, préparer les esprits et procéder au lent investissement de l'appareil étatique.

 

L'accord concerne donc principalement la stratégie révolutionnaire et non ses objectifs. Son seul contenu politique est le principe, que nous avons tenté de dégager plus haut, de la primauté du peuple sur l'Etat.

 

José STREEL.

in: Le Soir, jeudi 15 mai 1941.

 

vendredi, 05 mars 2010

Analyse dissonante des élections en Ukraine

Analyse dissonante des élections en Ukraine

Un peu moins de 900.000 voix voix séparent Viktor Ianoukovitch (48.95% et 12 480 053 voix), et Youlia Timoshenko (45.47% et 11 589 638 voix) mais c'est le premier qui a été élu président, au cours d'une élection, dont la transparence a été soulignée par tous les grands états et les principales instances internationales mais qui a surtout mis un terme au mythe de la « démocratie Orange ». Seule la ravissante Youlia (l'Evita Peron de la mer noire), malheureuse perdante, a quelque peu tardé à reconnaitre le choix de ce peuple qui l'avait pourtant généreusement soutenu en 2004, veillant dans le froid et la nuit sur la place centrale de Kiev.

Orangisme, mauvaise gestion et dérives nationalistes
La gestion économique et politique des Orangistes n'a pas été brillante, aggravée il est vrai par la crise économique qui a très durement frappé le pays, comme le montre le graphique dessous sur l’évolution du PIB sur la période 2006-2009. 





Les brimades linguistiques à l'encontre de la minorité Russophone n'ont certainement pas contribué à favoriser leur implantation électorale à l'est du pays et le président sortant Viktor Iouchenko, héros de la démocratie et chouchou de l’Occident en 2004 (!), a réuni moins de 6% des suffrages et a choisi de décorer (entre les deux tours) la figure historique Ukrainienne de la collaboration nazie, Stepan Bandera, (dont les hommes ont tués plus de 100.000 Polonais pendant la seconde guerre mondiale). Il est d'ailleurs assez surprenant de n'avoir entendu aucun commentaire des démocraties Occidentales a propos de cette "émouvante cérémonie" de l’entre deux tours. Le premier ministre ayant alors affirmé que le président Ukrainien « crachait au visage de ses anciens sponsors». Logiquement, au second tour, les mouvements d'extrême droite Ukrainiens  ont appelé à soutenir le candidat Orange.
Cet échec flagrant des Orangistes est à la fois électoral mais également financier, la crise ayant privé de crédits leurs principaux bailleurs de fonds, les stratèges des diverses ONGs qui pullulent dans les pays frontaliers de la Russie, Ukraine et Géorgie en tête.
La victoire du candidat bleu n'est pas cependant une surprise totale pour tout commentateur initié, elle était même au contraire relativement prévisible. Un sondage de l'institut Ramsukov (pourtant affilié au parti du président défait) montre bien l'évolution forte des mentalités en Ukraine de 2005 (révolution Orange) à 2009 et le basculement "a l'est". En 2009 un sondage durant l'été montrait que le gouvernement Orange d'Ukraine était le gouvernement avec le soutien populaire le plus faible au monde, 85% des Ukrainiens désapprouvant l'action de leur gouvernement.

L'Ukraine plus unie qu'il n'y parait
Les élections de 2004 avaient dévoilées l'existence de deux Ukraines, la bleue (orientale, tournée vers la Russie) et l'orange (tournée vers l'Occident). Cette coupure n'est pas seulement politique et culturelle. Elle est aussi linguistique, les Ukrainiens « bleus » lorsqu'ils ne se considèrent pas comme Russes sont souvent Russophones voir parlent un dialecte local Ukraino-russe. Dans la partie Orange les populations sont Ukraïnophone (ou parlent un dialecte local Ukraino-polonais).

Les élections de 2010 ont quelque peu atténués cette coupure, comme le précise Jean Marie Chauvier, Ianoukovitch et son Parti remportent leurs plus grands succès dans les régions à majorité russophone de l’Est et du Sud : 90% à Donetsk (Donbass), 88% à Lugansk, 71% à Kharkov, 71% à Zaporojie, 73% à Odessa, 79% à Simféropol (Crimée), 84% à Sébastopol. Le leader « régionaliste » avait reçu l’appui du Parti Communiste et d’autres formations de gauche, en très net recul au premier tour.  Mais Ianoukovitch remporte également de substantiels succès dans l’Ouest ukraïnophone : 36% à Jitomir, 24% à Vinnitsa, 18% à Rovno, 41% en Transcarpatie…C’est seulement dans les régions de Galicie (Lvov, Ternopol, Ivano-Frankovsk), traditionnels bastions du nationalisme radical antirusse et antisémite, que ses scores sont les plus faibles : inférieurs à 10%.
Une remarque symétrique s’impose pour les résultats de Ioulia Timochenko. Majoritaire à l’Ouest (de 85 à 88% dans les régions galiciennes, 81% à Lutsk, 76% à Rovno, 71% à Vinnitsa, mais seulement 51% en Transcarpatie), elle remporte également des succès remarquables à l’Est (29% à Dniepropetrovsk, 34% à Kherson, 22% à Kharkov). Les 29% à Dniepropetrovsk ne sont pas le fruit du hasard : Ioulia en est originaire, et le clan industriel de cette région est rival de celui de Donetsk que domine Ianoukovitch. Comme quoi, là non plus, le clivage « est-Ouest » ou « Russophones contre ukraïnophones ne joue pas. La ville de Kiev se partage entre 65% pour Ioulia et 25% pour Viktor Ianoukovitch, alors que cette capitale est très majoritairement russophone. Le leader de l’Est industriel et ouvrier n’y est pas reconnu par une bourgeoisie et une « classe moyenne » pourtant très attachée à la langue et à la culture russes.
Enfin la percée du 3ième homme Sergueï Tiguipko montre bien que la lassitude des électeurs envers cette scission et l’intérêt que porte une grande partie d’entre eux à une éventuelle 3ième voie.


L'Ukraine nouvelle, pont entre l'est et l'ouest
Pourtant contrairement à ce que beaucoup de journalistes ou commentateurs ont affirmé, le résultat des élections en Ukraine ne traduit pourtant pas du tout un retour de l’Ukraine dans le giron Russe ou une quelconque résurgence impériale Russe qui serait un danger pour l’Ouest. Bien au contraire, la victoire bleue affirme la position de l’Ukraine comme nation périphérique de la Russie, sur la « route vers l’Europe » mais également comme « partenaire de nouveau fiable » pour la Russie. La position de Ianoukovitch de tendre la main à l’ouest et à l’est ne fait que confirmer la situation économique réelle du pays (afflux de capitaux Russes) mais également son besoin de capitaux Européens pour moderniser le pays et faire face au problèmes économiques aggravés depuis l’été 2008. A ce titre l’Ukraine de Ianoukovitch pourrait se retrouver dans la position d’un « pont » entre l’Europe et la Russie et non plus d’un fusible dirigé par Washington pour déstabiliser les relations Euro-Russes (guerre du gaz, conflits de pipelines etc.). La volonté du nouveau président de faire ses deux premiers voyages à Bruxelles et Moscou devrait rassurer les chancelleries Européennes mais également le Kremlin quand à la création du cartel énergétique Ukraino-Russe mais également du maintien de la flotte Russe en Crimée ou son opposition à ce que l’Ukraine rejoigne l’OTAN.

Comme l'a précisé le président Ukrainien lors de son investiture : " L'Ukraine poursuivra l'intégration avec l'Europe et les pays de l'ex-URSS en tant qu'Etat européen n'appartenant à aucun bloc ... L'Ukraine sera un pont entre l'Est et l'Ouest, une partie intégrante de l'Europe et de l'ex-URSS en même temps, l'Ukraine se dotera d'une politique extérieure qui nous permettra d'obtenir un résultat maximum du développement des relations paritaires et mutuellement avantageuses avec la Russie, l'UE, les Etats-Unis et autres pays qui influencent le cours des événements dans le monde". (source de l'extrait).

L’élection de Ianoukovitch semble donc ancrer l’Ukraine entre Bruxelles et Moscou, mais l’éloigner de Washington et cette ligne « globale » semble être souhaitée par le peuple Ukrainien, au début de l’année, un sondage du Kiev post montrait que 60% des Ukrainiens souhaitaient l’intégration à l’UE, 57% sont contre l’intégration à l’OTAN et seuls 7% voient la Russie comme un état hostile, 22% souhaiteraient un état unique Russie-Ukraine (Source :
Johnson Russia List 2010 issue 34 number 2).

Ianoukovitch, un « poutine ukrainien » pour la presse Occidentale ?
Il est symptomatique de voir à quel point la presse anglo-saxonne a critiqué les résultats de l’élection, l’égérie Kremlinophobe du Moscow Times, Youlia Latynina allant même jusqu’à expliquer le résultat des élections comme logique, les électeurs pauvres étant tentés par des votes Poujadistes (« letting poor people vote is dangerous »). Pas de chance pour elle, la carte électorale montre bien que c’est la partie la plus riche d’Ukraine, la plus industrielle qui est majoritairement « bleue » et pro Russe. 



Autre critique plutôt surprenante du résultat des élections, l'oligarque en exil Boris Berëzovski qui s'est fendu d'un commentaire des plus insultants (Uk / Ru), après avoir affirmé qu'il avait soutenu et financé la révolution orange.

L’Ukraine au cœur de l’Eurasie.
Le 1er janvier 2012 entrera en vigueur l’Espace économique commun Russie-Biélorussie-Kazakhstan impliquant la liberté de circulation des capitaux et des travailleurs. L’Ukraine est fortement invitée à s’y joindre ou, du moins, à s’en rapprocher. Les Russes insistent sur « l’intérêt pour l’Europe » d’encourager la formation de ce nouveau « marché commun » opérant une sorte de trait d’union entre les parties orientales (principalement la Chine) et occidentale (Union Européenne) de l’Eurasie. 
On peut se poser la question de savoir si le futur du continent ne se dessine pas également via la création de ces deux «zones», celle Occidentale de Bruxelles et celle Eurasiatique de Moscou. Une scission entre ces deux Europes, l’Occidentale, et l’Orientale reprenant la délimitation territoriale telle que le définit le projet de sécurité Européenne proposé par la Russie qui définit dans son point 10 la zone de Vancouver à Vladivostok comme séparée en deux, avec une partie qualifiée d’Euro-Atlantique et l’autre partie qualifiée d’Eurasiatique.

Pour l’heure comme le souligne l’expert Michael Averko, la tentative d’installer le nouveau mur entre les Europes à Kiev a échoué. L’impatience de l’OTAN et son extension à l’est forcenée, ou ses différentes actions militaires anti Serbes ont finalement contribué à involontairement et indirectement améliorer l’image de la Russie.

Starbucks: leuk voor de linkerkant

Starbucks: leuk voor de linkerkant

Ex: http://yvespernet.wordpress.com/

starbucks1.jpgEen interessant artikel over Starbucks, het trendy imago daarvan bij links Europa en de nieuwe vestiging in Antwerpen. Hier het volledige artikel en hieronder de meest interessante stukken:

Sta me toe om een voorspelling te doen: precies dezelfde linkse lui die je met geen stokken een cheeseburger van McDonald’s kan voeren, zullen en masse opdagen voor een latte van Starbucks [...]

Logisch dus dat er meteen een fanpagina op Facebook opdook die een week later al 3.500 leden had, en dat ze zaak geopend werd met radioster Peter Van de Veire, een stoet BV’s, de Amerikaanse ambassadeur Howard Gutman, burgemeester van Antwerpen Patrick Janssens en een optreden van Das Pop, de band van Bent “De slimste mens” Van Looy. Naar wat ik opmaak uit de internet- en krantenverslagen leek het daar wel de intrede van de sint, maar dan voor grote mensen.[...]

Clustering heet die praktijk. Wanneer Starbucks zaken begint te doen in een nieuwe buurt of gemeente, heeft het de nare gewoonte om daar niet één, maar meteen een heel aantal vestigingen neer te poten en bovendien te tolereren dat die een hele tijd met verlies draaien. Gevolg: onafhankelijke koffiehuizen en andere horecazaken in de buurt kunnen de concurrentie niet aan, moeten de deuren sluiten en Starbucks heeft het terrein voor zichzelf. [...]

 

00:25 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : finances, économie, fast food, sociologie, commerce | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Restaurer la souveraineté monétaire

Restaurer la souveraineté monétaire

Par Jean Claude Werrebrouck

Comment solder les différences de niveaux de prix intra européens, lorsqu’a disparu l’arme de la dévaluation ? La réponse classique consiste à prôner la déflation salariale – entendre blocage ou baisse des salaires, qui entraînerait une baisse relative de l’inflation et des coûts par rapport à la zone euro et permettrait de restaurer la compétitivité des économies du sud. En clair, plusieurs années d’éreintantes vaches maigres en perspective.

billets_euros_469_300_2636b.jpgL’économiste Jacques Delpla, reprenant une étude d’Olivier Blanchard, du FMI, propose une mise en œuvre à marche forcée de ce programme. Les États du sud, propose-t-il, devraient imposer une réduction coordonnée des salaires et des prix, de l’ordre de 10 à 30%. Jean Claude Werrebrouck s’inquiète des conséquences de cette mesure « abracadabrantesque », aux effets de bord imprévisibles, et qui de plus aurait pour conséquence remarquable d’être favorable aux rentiers. Face à la grande crise qui menace, le temps n’est plus aux bricolages, juge-t-il : il convient de « rétablir la souveraineté monétaire ».

L’économiste en chef du FMI, Olivier Blanchard, propose de sanctionner les « GIPEC » (Grèce, Irlande, Portugal, Espagne et Chypre), encombrants passagers clandestins du navire Euro. Puisqu’il est impossible de les « amincir » par des progrès rapides de productivité, leur permettant tout à la fois de rétablir l’équilibre extérieur, le plein emploi et l’équilibre des comptes publics, il faut en monnaie unique, passer par une dévaluation interne. Le schéma proposé est ambitieux. Puisque la monnaie unique interdit toute manipulation de la valeur externe de la monnaie, il est urgent de procéder à une révolution des prix internes.

Concrètement il s’agit d’une déflation imposée et généralisée des prix, et si possible déflation coordonnée pour assurer l’homothétie du recul. Plus concrètement encore il est proposé une baisse générale, par exemple de 30%, de tous les prix, salaires, loyers, transferts sociaux, retraites, etc.

Il s’agirait bien d’une dévaluation puisqu’il y aurait diminution du pouvoir d’achat international des résidents, en particulier celui les salariés. En même temps, la capacité exportatrice augmenterait en raison de la baisse du niveau général des coûts et des prix. Et, en principe, l’évolution positive du solde commercial serait porteuse d’un ré enclenchement dynamique de la demande globale, et donc porteuse d’emplois nouveaux. Jacques Delpla voit dans cette proposition, un keynésianisme d’un genre sans doute nouveau, marqué par le double sceau de l’acceptabilité politique (hypothèse d’homothétie dans la déflation et donc d’équité) et de l’efficience économique (ajustement plus rapide que les politiques traditionnelles de rigueur). Remarquant toutefois que le poids relatif du stock de dettes serait accru dans les mêmes proportions, il propose à enveloppe constante des budgets bruxellois, un redéploiement des fonds structurels et de la politique agricole commune vers les « GIPEC » soumis à la dévaluation interne. On peut imaginer que les dettes privées pourraient également bénéficier de ce redéploiement.

Un tel projet laisse place à de lourdes interrogations. Tout d’abord il semble bien qu’il s’agit d’une déflation organisée. Cela signifie le rétablissement d’un contrôle des prix avec toutes les difficultés correspondantes. D’abord la mise en place d’une bureaucratie nouvelle chargée du contrôle et de la gestion des litiges. Mais aussi d’inextricables difficultés d’application : dans quelle mesure les prix des marchandises, dont le contenu en input importations est infiniment variable, doivent ils baisser au même rythme que les marchandises locales ? Faut-il établir des barèmes en fonction du contenu importation de marchandises pourtant produites localement ? Plus encore, faut-il prévoir une diminution des prix des crédits nouveaux, ce qui suppose le contrôle des banques et donc du taux de l’intérêt ? La baisse des salaires pourra t’elle être uniforme ? Et surtout peut-on sérieusement imposer une telle baisse, sans voire apparaitre de gigantesques comportements opportunistes, comme dans le cas des heures supplémentaires à la française dans le cadre de la loi « TEPA » ? La liste des questions n’est évidement pas exhaustive, et seule la mise en pratique peut faire apparaitre l’étendue des problèmes, notamment l’étendue imprévisible d’externalités elles mêmes imprévisibles. Levitt et Dubner (cf « Superfreakonomics ») et plus généralement les bons connaisseurs de la micro économie savent à quel point toute intervention développe des conséquences pour le moins inattendues.

Mais au-delà, une question fondamentale se doit d’être évoquée. Si tous les prix diminuent, il est logique que la valeur du stock d’actifs financiers soit rognée dans les mêmes proportions. Pourquoi Jacques Delpla semble soucieux de ne pas déflater la dette existante, et en contre partie mobiliser à ce titre les fonds européens devenant indisponibles par ailleurs ? Le coût d’opportunité d’un tel choix a-t-il fait l’objet d’évaluation ? Pourquoi faut-il ainsi « sacraliser » la dette existante ? Et la réponse consistant à dire qu’une bonne partie de la dette est détenue par des non résidents est insuffisante car l’autre partie est détenue par des résidents qui eux – mais pour quelle raison ?- ne seraient pas soumis à la même déflation. Pourquoi faudrait-il ainsi créer 2 catégories de résidents, les titulaires de la rente s’opposant à tous les autres ?

Mieux, attendu que durant la période de déflation autoritaire, il faudrait continuer à assurer la gestion de la dette publique avec les moyens habituels des agences des Trésors, lesquels passent toujours par des adjudications, faut-il penser que les dites adjudications seraient « déflatées » comme les autres prix ? En clair les agences pourraient-elles imposer le prix de la dette souveraine nouvelle en imposant un taux ? Dans quel Traité de Sciences Economiques a-t-on pu lire qu’un acteur de marché – fusse t-il en situation de monopole – pouvait simultanément fixer et les quantités et les prix ?

Les dérapages des économistes qui – très imprudemment – se déclarent libéraux sont saisissants : au nom de l’ajustement et donc du marché, certains sont prêts à restaurer un ordre, à tout le moins autoritaire, porteur de bien des déconvenues. Comme quoi il est difficile de sacraliser l’ordre spontané de Hayek en édifiant un ordre organisé. Comme quoi il est difficile de conserver le cercle si on le transforme en carré.

Mais s’agit-il par la voie de l’autorité, de protéger des marchés libres, ou plutôt de protéger les ardeurs prédatrices de la rente ?

Car enfin, il est une façon plus simple pour sortir de l’étau les « petits un peu ronds », et ce peut-être sans même renoncer à la monnaie unique : rétablir une souveraineté monétaire dont le blog La Crise des années 2010 se fait l’ardent défenseur.

La rencontre européenne des marchés politiques nationaux a débouché sur le drame de la dénationalisation monétaire dans les années 80 et 90. Bien des mises en gardes furent étouffées dans le climat idéologique de ces années, climat porteur de sacralisation. Et la Raison – comme toujours et partout- s’est effacée devant le nouvel objet sacré. C’est que rien ne peut être entrepris contre le sacré. La violence de ce que certains commencent à appeler – à très juste titre – la « grande crise » met à nu – peut-être plus rapidement que prévu- les incohérences des choix nationaux et européens qui furent promulgués. Et les adeptes de la dénationalisation monétaire sont aujourd’hui terrorisés par l’énormité des conséquences résultant des décisions des années 90. Face à l’énormité des coûts associés au démantèlement de la zone euro ces mêmes adeptes poursuivent leur fuite en avant en imaginant des dévaluations internes abracadabrantesques. Et bien évidemment les entreprises politiques sont encore bien plus démunies devant l’épaisseur du brouillard.

Contre-Info

Gamal Abdel Nasser, el republicano egipcio

Gamal Abdel Nasser, el republicano egipcio

Líder político más influyente en el mundo árabe de su época. Fue militar, estadista egipcio y Presidente de Egipto de 1956 a 1970.

nasserfffffffff.jpgDe origen humilde, nacido en 1918 en la provincia de Asiut, Egipto, Gamal Abdel Nasser ingresó en la Academia Militar en 1938, en plena guerra de resistencia.

El atractivo que significaba el canal de Suez, el hecho de ser la bisagra entre oriente y occidente, y las riquezas naturales de este país, no tardarían en hacerlo presa del imperio británico, la primera potencia mundial para 1882… los ingleses usaron la humillante estrategia de convertir el gran Egipto de las escrituras en un protectorado inglés. Años de guerra de resistencia, ocasionaría el ultraje imperial.

En 1949 Nasser funda la organización de militares libres, con la cual daría el golpe de estado que derrocó al Rey Faruq I, súbdito de Gran Bretaña.


La organización de los militares estaba constituida por jóvenes oficiales nacionalistas de la academia militar que compartían la preocupación de su país y por el saqueo al cual era sometido por el imperio británico.

Los militares libres poseían su propio medio de comunicación: un periódico donde exponían claramente su ideología política y la razón de su lucha. Voz de los oficiales libres:”nacionalismo árabe, lucha contra cualquier potencia colonial y en especial contra los británicos, instauración de una república laica y defensa de los principios del socialismo”.

Nasser llega al poder el 23 de junio de 1956 y constituye el consejo directivo de la revolución. Su primera acción fue la nacionalización del canal de Suez lo que desencadenó la movilización militar de Francia, Gran Bretaña e Israel, países que planearon recuperar el canal, invadir el Cairo y destituir a Nasser.

A finales de 1956 Nasser aceleró el proceso de nacionalización, liquidó los bienes británicos y franceses, acepto la ayuda soviética, e impulsó la distribución de tierras y lideraba la construcción de un nuevo partido: la unión nacional organización de masas que debía cimentar la nueva sociedad socialista egipcia.

Nasser se convirtió en un panarabista, abogaba por la unidad regional, por la unidad de los países árabes,…por los países del sur, de allí su militancia en el movimiento de los no alineados.

En enero de 1958 materializó su sueño con la creación de la Republica Árabe Unida producto de la unión de Egipto y Siria…la arremetida imperial terminó con este sueño aunque la liga de estados árabes continúa como testimonio de lo que pudo haber sido.

“Podéis matar a Gamal! El pueblo egipcio cuenta con cientos de gamales que se alzarán y os mostrarán que más vale una revolución roja que una revolución muerta”.

Gamal Nasser murió de apenas 52 años de edad, de un repentino infarto al corazón en el año 1970.

Reinaldo Bolívar

Extraído de Radio del Sur.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 26, 2010.

Jean-Jacques Rousseau: souveraineté populaire et nationalisme

Rousseau.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1986

 

Jean-Jacques Rousseau: souveraineté populaire et nationalisme

 

Aux origines du fascisme? Réflexions sur les thèses de Noel O'Sullivan

 

par Thierry MUDRY

 

Le nationalisme français des origines dans lequel, si l'on en croit le professeur Sternhell, le fascisme plonge ses racines n'a pas été tendre avec Rousseau pas plus qu'avec Kant: Maurras et La Revue d'Action Française ont repris contre Rous-seau les sarcasmes de Voltaire et les Cahiers du Cercle Proudhon , expérience "fasciste" avant l'heure (1), à laquelle participèrent des hommes venus du syndicalisme révolutionnaire (dont Edouard Berth) et du nationalisme intégral, n'ont pas épargné non plus le malheureux Rousseau, père présumé de la "démocratie", en reprenant contre lui les attaques de Proudhon (2). Les fascistes, et parmi eux tout particulièrement l'Espagnol José-Antonio, reprirent à leur compte la polémique anti-rousseauiste des maurrassiens. Barrès, de son côté, s'en prenait au "kantisme de nos universités", au "kantisme" d'un Bourdeiller qui transformait les jeunes Lorrains en déracinés en leur enseignant des vérités et une morale universelles (3).

 

Apparemment donc, rien n'est plus éloigné de l'univers intellectuel du fascisme que la pensée d'un Rousseau ou celle d'un Kant. Pourtant, pour Noel O'Sullivan (Fascism, J.M. Dent & Sons, London and Melbourne, 1983), Rousseau et Kant sont d'une certaine façon à l'origine du phénomène fasciste! Noel O'Sullivan définit en effet le fascisme comme l'avant-dernière manifestation, avec le communisme, d'une tradition politique "activiste" européenne dont Rousseau (et éventuellement Kant) serait le père (4).

 

Noel O'Sullivan oppose le style politique activiste à un style politique limité, étroitement lié au développement du concept d'Etat depuis la fin de l'ère médiévale (le style politique activiste étant lié, lui, à la notion de "mouvement"). Parmi les caractéristiques de ce style limité, l'auteur cite:

- la loi conçue comme seul lien social (dans la tradition activiste, c'est un tout commun exprimé dans une idéologie qui tient lieu de lien social);

- la distinction entre la vie publique et la vie privée, entre l'Etat et la Société (dans la conception activiste, la politique devient une activité totale. Il n'y a pas d'existence apolitique de la société ou de l'individu qui, de sujet, se transforme en citoyen ou militant);

- le pouvoir y est toujours objet de suspicion (dans la conception activiste, le pouvoir n'est plus pensé comme intrinsèquement suspect -pervers- et les garanties constitutionnelles contre son abus sont ignorées);

- l'Etat est pensé comme une unité territoriale particulière, produit de l'histoire (le style activiste s'oppose à l'ordre international établi pour des raisons d'ordre idéologique; le plus souvent, il allie le messianisme révolutionnaire à une volonté d'expansion nationale).

 

Noel O'Sullivan situe les origines du style politique activiste dans la dernière partie du XVIIIème siècle. Alors apparurent:

 

- une nouvelle théorie sur l'origine et la nature du Mal et une nouvelle conception de la politique; celle-ci est désormais conçue comme une croisade activiste contre le Mal et n'a plus pour objet essentiel d'assurer la paix et la prospérité. Depuis Rousseau, on ne considère plus le Mal comme une part intrinsèque de la condition humaine -l'homme est né innocent et libre- mais comme une conséquence de l'ordre (social) établi. Ainsi se dessine une rupture avec le pessimisme anthropologique chrétien qui est à la base de la tradition politique médiévale, voire absolutiste, puis contre-révolutionnaire (Bonald, de Maistre, Donoso Cortes).

 

- la doctrine de la souveraineté populaire: la légitimité, désormais, réside dans le peuple, vient "d'en bas" (mais s'exprime le plus souvent d'une manière extra-constitutionnelle et extra-parlemen-taire). La conception du "peuple" peut varier: il peut s'agir du Tiers-Etat (c'est-à-dire de la classe moyen-ne) opprimé par les aristocrates et les prêtres, ou du prolétariat  exploité par la bourgeoisie capitaliste, ou encore de la Nation dominée par l'étranger ou menacée par l'ennemi extérieur et l'"ennemi intérieur" (Juifs, Francs-Maçons, etc.).

 

- une nouvelle conception de la liberté: la li-berté pour les partisans du style politique limité (Locke) concernait la relation purement extérieure entre les différents sujets et entre les sujets et leur gouvernement; la liberté signifiait alors la sécurité pour les personnes et leurs propriétés. Avec Kant et Rousseau, une nouvelle conception de la liberté ap-paraît à la fin du XVIIIème siècle: la liberté comme réalisation de soi (dans la soumission à l'impératif catégorique ou à la volonté générale. La "vraie li-berté" dans la soumission inconditionnelle à la vo-lonté générale chez Rousseau évoque la "vraie li-berté" chez Hobbes,  conçue dans la soumission in-conditionnelle au souverain -monarque ou as-semblée- nécessaire si l'on veut éviter le retour à l'état de nature où les personnes et les biens seraient la proie des "loups") mais aussi la liberté comme sa-crifice de soi.

 

Cette conception intérieure de la liberté devient affirmation et lutte contre le monde extérieur. Ainsi, pour Robespierre, la liberté dont la fin est la "vertu", réalisation de soi, requiert la terreur contre les ennemis de la liberté (Rousseau n'écrivait-il pas déjà que celui qui ne voulait pas être libre, c'est-à-dire se soumettre à la volonté générale, il fallait le forcer à la liberté?). Le terrorisme et la guerre accompagnent nécessairement, si l'on en croit Noel O'Sullivan, une telle conception de la liberté.

 

Dans le style politique activiste fondé sur le sacrifice de soi, la politique devient prioritairement une "affaire" de jeunes (O'Sullivan de citer "Jeune Italie" de Mazzini -il aurait pu citer aussi les "Burschenturner" allemands).

 

Autre caractéristique du "style activiste": le volontarisme ou la croyance en la capacité illimitée qu'a la volonté humaine, particulièrement celle d'un homme ou de certains hommes (une élite), de trans-former l'ordre social et l'homme du commun lui-même.

 

Au terme de cette démonstration, dont on vou-dra bien excuser le caractère énumératif, il apparaît que le fascisme fut "the most extreme, ruthless and comprehensive expression of the new activist style of politics, which the western world has yet expe-rienced" (pages 41 et 84). Autrement dit, le fascisme poussa la logique de l'activisme à son terme.

 

Noel O'Sullivan qualifie le fascisme de "poli-tique théâtrale" et attribue la paternité de cette poli-tique à Rousseau.

 

En effet, dans Le contrat social,  Rousseau rejette le style politique limité (qui, à son époque, caractérise aussi bien le despotisme éclairé que l'absolutisme!) parce qu'il ne connait pas l'enga-gement des masses (fût-ce de masses numériquement limitées comme le préconisaient les bourgeois li-béraux des débuts du XIXème siècle, limitées par la propriété et les "capacités") et parce que son objectif est d'assurer la paix et la prospérité (ainsi le des-potisme éclairé qui repose sur l'intervention éco-nomique de l'Etat). Ces Etats, constate Rousseau, courent à leur perte en ne créant pas ce sens de la solidarité ou de l'unité spirituelle, qui est la ca-ractéristique d'un peuple grand et libre, et cor-rompent leurs sujets en ne leur inspirant pas le désir de se sacrifier dans des actes héroïques sans lesquels la vie est dénuée de toute dignité. Rousseau, dans ses Considérations  sur  le  Gouvernement  de  Pologne  cherche à compléter Le  contrat  social  par une théorie de l'activisme politique destinée à trans-former les membres d'un Etat de sujets passifs en citoyens actifs et vertueux, amoureux de leur Etat et de leur Patrie: ainsi l'Etat pourrait-il acquérir cette unité spirituelle qui le renforcerait et renforcerait donc la liberté collective et l'existence humaine pourrait enfin acquérir ce sens et cette dignité qui lui manquent grâce à l'héroïsme et au dévouement à la Patrie.

 

Pour cela, Rousseau préconisait, outre la sup-pression de la distinction traditionnelle entre la vie privée et la vie publique (la politique devenant une activité totale), un système d'éducation publique sous le contrôle direct de l'Etat, la part la plus importante de cette éducation consistant en une éducation physique collective (l'inspiration lacédé-monienne est ici manifeste); la soumission des grou-pes sociaux et des intérêts particuliers à la volonté générale. Autre trait marquant: le refus des insti-tutions représentatives: Rousseau prônait un style politique théâtral reposant sur des spectacles publics (jeux, fêtes, cérémonies) qui permettrait une large participation des masses en même temps qu'une identification de celles-ci à la Patrie et à l'Etat, en somme, une manière de démocratie directe. Ces techniques destinées à assurer la "nationalisation des masses" et la "socialisation de l'individu", d'abord appliquées en France pendant la Révolution, seront, après la normalisation opérée par l'Empire, ré-cupérées par les nationalistes allemands Jahn et Arndt (5) et leurs disciples, les Burschenturner, puis par le national-socialisme et le IIIème Reich (bien qu'Hitler dira à Rauschning s'être inspiré de ses adversaires sociaux-démocrates, sans mentionner ses précurseurs nationalistes) (6). En Italie, les idées de Rousseau seront reprises par Mazzini et puis, après la Grande Guerre, mises en pratique par d'Annunzio à Fiume (lors de la Régence du Carnaro) et bien sûr par le fascisme.

 

A ceux qui, malgré ces prémisses, s'étonneront encore de voir Rousseau transformé en créateur du fascisme, Noel O'Sullivan concède que l'influence de Rousseau sur le fascisme ne fut pas directe: le fascisme procéda en effet à une révision du style activiste en substituant un "activisme dirigé" à "l'activisme spontané" des origines (7).

 

Cette révision de l'activisme fut entamée lors de la dernière décennie du XIXème siècle. A cette époque se fit jour l'idée qu'un mouvement activiste ne pouvait reposer entièrement sur la spontanéité des masses mais devait encadrer et diriger les masses d'en haut (8). Le fascisme devait réduire cet acti-visme dirigé à trois éléments: le chef, le mouvement, le mythe qui met les masses en mouvement (page 114).

 

Déjà chez Rousseau (qui entrevoit dans ses Considérations   sur  le  Gouvernement  de  Pologne,  la nécessité d'un législateur de la trempe d'un Moïse, d'un Lycurgue et d'un Numa) (9) apparaît un certain pessimisme à l'égard des masses. Mais c'est surtout après 1848/49 que la désillusion gagne les milieux activistes: en France, avec Napoléon III, une dictature plébiscitaire fondée sur l'appel direct aux masses clôt la Révolution de 1848 et restaure un régime d'"Ordre"; la Commune de 1871, qui est un échec, laisse la place à la IIIème République et à ses politiciens opportunistes. En Italie et en Allemagne, l'unité nationale (inachevée) fut le fait non des masses mais, au-dessus d'elles, de la diplomatie traditionnelle d'un Cavour et d'un Bismarck (10).

 

L'impuissance historique des masses à réaliser l'idéal activiste donne alors naissance à la théorie des élites (Pareto, Mosca et Michels) et à la "psychologie des foules" de Le Bon dont on peut dire qu'elles inspirèrent aussi bien Lénine (Que Faire?)   et Sorel (Réflexions sur la violence),  qui entamèrent une révision révolutionnaire du marxisme en rejetant le kautskysme, qu'Hitler (Mein Kampf)   qui entama une révision révolutionnaire du nationalisme völkisch alors pris dans les rêts du conservatisme allemand (11).

 

Pour Lénine, les sociaux-démocrates ne doi-vent pas s'attendre à un soulèvement prolétarien spontané. Aussi préconise-t-il la création d'une élite de révolutionnaires professionnels. Pour Sorel, l'u-topie, construction intellectuelle, n'est génératrice que de révoltes; seul le mythe peut conduire les masses à la révolution. Aussi Sorel propose-t-il au prolétariat le mythe de la grève générale. Quant à Hitler, il met la propagande diffusée par une organisation de combat au service de l'idéologie völkisch, du mythe racial proposé aux masses allemandes. Hitler applique les recettes de Le Bon: Le Bon ne décrit-il pas le chef qui, ayant suffisamment de "prestige" (de charisme) et con-naissant la psychologie des foules et ses lois, saura manipuler les masses?

 

O'Sullivan montre enfin l'importance de la Grande Guerre et de ses suites dans le triomphe de l'activisme dirigé sur l'activisme spontané: le putsch bolchevik appuyé sur les thèses de Rosa Luxemburg, écrasé par les Corps-Francs, la marche sur Rome, prouvent dans l'immédiat après-guerre la supériorité de l'activisme dirigé sur la spontanéité des masses.

 

Mais la Grande Guerre a montré aussi l'impact du mythe national sur les masses et fourni aux acti-vistes un modèle d'organisation calqué sur l'armée. Mussolini et ses amis d'extrême-gauche retiendront la leçon!

 

Noel O'Sullivan rompt avec l'analyse idéo-logique classique du fascisme qui fait de celui-ci l'héritier d'une réaction contre le XVIIIème siècle, portée en France par le maurrassisme (version Nolte: Le  fascisme  dans  son  époque,  tome I), ou née de la rencontre du maurrassisme et du sorélisme (cf. Sternhell La  droite  révolutionnaire): cette hostilité au XVIIIe siècle se manifestait en Alle-magne dans le courant du "pessimisme culturel" puis dans la "Révolution Conservatrice" auxquels de nombreux auteurs attribuent une responsabilité importante dans la naissance de l'idéologie nazie (selon Jean-Pierre Faye, auteur de Langages totalitaires,   le langage de la Révolution Conser-vatrice a rendu acceptable le langage hitlérien de l'extermination).

 

En revanche, le livre d'O'Sullivan n'est pas sans rapports avec Les  origines  de  la  démocratie totalitaire  écrit par J-L. Talmon (Calmann-Lévy, Paris, 1966). Dans ce livre, l'auteur oppose la démocratie (empirique) libérale à la "démocratie" (messianique) totalitaire" qui conduit au com-munisme, l'une et l'autre plongeant leurs racines dans la pensée du XVIIIe siècle individualiste et rationaliste. La démocratie totalitaire qui "ne re-connaît basiquement qu'un seul plan d'existence, le plan politique", qui ne conçoit la liberté "qu'à travers la poursuite et la réalisation d'un but collectif absolu" (page 12) évoque par plus d'un trait le style activiste décrit par O'Sullivan. Talmon oppose ensuite le totalitarisme de droite (le fas-cisme) au totalitarisme de gauche, pourtant assez proches l'un de l'autre: le totalitarisme de gauche ne conçoit-il pas le citoyen idéal sur le modèle spartiate ou romain comme "superbement libre tout en étant un prodige de discipline ascétique. Membre à part égale de la Nation souveraine, il n'a de vie ni d'intérêts extérieurs au destin collectif"(page 22). Talmon donne d'ailleurs aux totalitarismes de droite et de gauche un même ancêtre: Rousseau. Ainsi Talmon croit discerner, dans Le  contrat  social,  "la transformation de la pensée de Rousseau, qui passe du rationalisme individualiste au collectivisme de type organique et historique. L'être connaissant qui veut librement être transformé en produit de l'en-seignement et du milieu ambiant d'abord, puis, passé les traditions, en produit du milieu ambiant et, pour finir de l'esprit national. De la même manière, l'idée et l'expérience patriotiques font passer la volonté générale, vérité à découvrir, dans le fonds commun, avec toutes les particularités qu'il comporte. C'est à ce point que l'apport de Rousseau se dédouble pour influencer deux courants; d'une part, la tendance individualiste nationaliste et éventuellement collectiviste de gauche, et, d'autre part, l'idéologie nationaliste irrationnelle de droite, avec ses affinités pour le romantisme politique allemand de Fichte, Hegel, Savigny. Le passage au rationalisme a lieu dans les Considérations  sur  le  Gouvernement  de Pologne   (page 345). Le propos de Talmon rejoint ici celui de Noel O'Sullivan.

 

Noel O'Sullivan ne croit pas que le fascisme ait été un regrettable accident dans l'histoire euro-péenne et place résolument le fascisme dans une tradition politique européenne activiste dont il ne serait qu'une des manifestations parmi les plus radi-cales. Malgré sa pertinence, la thèse d'O'Sullivan apparaît insuffisante: peut-on mettre dans le même sac les nationalismes populaires libéraux et démo-cratiques du XIXème siècle, les divers socialismes, le radicalisme patriotique et républicain français, le bolchévisme et les fascismes sous prétexte qu'ils partagent une même conception activiste de la vie (politique)? N'est-ce pas là nier la spécificité idéologique et institutionnelle de chacun de ces phénomènes? Noel O'Sullivan ne néglige certes pas l'étude de la Weltanschauung   fasciste mais, à son sens, il n'y a pas réellement de projet sous-tendu par une idéologie fasciste, ou alors il ne s'agit que d'un masque: l'idée selon laquelle le fascisme réaliserait l'union du nationalisme et du socialisme, idée défendue par Georges Valois en 1926 et par Meinecke en 1946, ne rend pas la dimension du fascisme selon O'Sullivan (une telle union est-elle d'ailleurs propre au fascisme)? Le fascisme a-t-il réalisé dans la théorie et dans les faits cette union? Et de quel nationalisme, de quel socialisme s'agit-il ici? Pour l'auteur, qui reprend à son compte les assertions de Rauschning sur l'hitlérisme et de Megaro sur le fascisme italien, le fascisme est un pur dynamisme qui tend à mobiliser les masses de manière permanente sans leur assigner de buts précis. Les traits de la Weltanschauung fasciste entrent parfaitement dans ce cadre: un corporatisme instrumental destiné à encadrer les masses et non à résoudre la question sociale, une conception de la révolution permanente produit paradoxal d'un conservatisme radical, le "führerprinzip" qui évite au fascisme les débats internes d'ordre idéologique, la mission messianique de la Nation fasciste dont les linéaments ont été dessinés en Italie par Mazzini et en Allemagne par les radicaux du Parlement de Francfort, l'autarcie.

 

La thèse de Noel O' Sullivan traduit une mé-fiance anglo-saxonne envers la tradition politique européenne qui, née de la Révolution française, prend ses distances avec les Révolutions anglaises et américaine et la pensée whig d'un Locke; qui met l'accent sur le pouvoir et non sur le détachement bourgeois vis-à-vis du pouvoir (dans le lexique poli-tique européen du XIXème siècle, le terme "libéral" ou "libéral-démocratique" désigne l'exigence de li-bertés politiques qui permettent l'engagement du ci-toyen, non son retrait dans la sphère privée), dont les fondements sont souvent laïques c'est-à-dire in-différents aux considérations morales (dans le mon-de anglo-saxon, les fondements de l'action politique sont exclusivement moraux). Cette tradition politi-que européenne ne peut produire selon les Anglo-Saxons que le totalitarisme, communiste ou fasciste.

 

Thierry MUDRY.

 

NOTES

 

(1) Dans "Combat" (février 1936, n°2), Pierre Andreu décrit sous le titre "fascisme 1913" l'expérience des Cahiers.

(2) Par exemple, dans un article intitutlé "Rousseau jugé par Proudhon" sont abondamment cités des passages de La  Justice  dans  la Révolution  et  dans  l'Eglise  dans lesquels Rousseau est qualifié par Proudhon de "premier de ces femmelins de l'intelligence..." (Cahiers  du Cercle  Proudhon,  3ème et 4ème cahiers, mai-août 1912, pages 105 à 108).

(3) Cf. Les  Déracinés  et les Scènes  et  doctrines  du Nationalisme.

(4) Dernière manifestation en date de cette tradition: le terrorisme des Brigades Rouges, de la Fraction Armée Rouge et d'Action Directe.

(5) L'idéal humain de Jahn et Arndt (des citoyens allemands héroïques dévoués au Bien Comun, des Germains aux mœurs pures et simples) tout autant que leur idéal politique activiste les rapprochaient de Jean-Jacques.

(6) Sur l'Allemagne, l'ouvrage de référence est The  nationalization of  the  masses   de George Mosse (1975).

(7) Comme exemples d'activisme spontané, on peut citer les Girondins et les anarchistes, les uns et les autres victimes de l'activisme dirigé, discipliné, de leurs concurrents montagnards et bolcheviks. Dès la révolution française, l'activisme dirigé semble apparaître sous la Terreur, puis chez les conspirateurs babouvistes dont l'héritage passe avec Buonarroti aux sociétés secrètes révolutionnaires du XIXème siècle: une élite de conspirateurs doit préparer la chute des tyrans (carbonarisme, voire blanquisme).

(8) A cette époque apparaissent d'ailleurs en France avec la Ligue des Patriotes, les premières manifestations modernes de la propagande de masse (cf Zeev Sternhell,  La  droite  révolutionnaire).

(9) Mais aussi chez Saint-Just pour qui "le peuple est un éternel enfant".

(10) Noel O'Sullivan éclaire dans son ouvrage le destin particulier de l'Italie et de l'Allemagne: la vulnérabilité de ces deux pays à l'égard du fascisme ne s'expliquerait pas, selon l'auteur, par le caractère tardif (et partiel) de l'unification nationale mais plutôt par les caractéristiques mêmes du mouvement d'unification qui se développa en Italie et en Allemagne sous les auspices de l'activisme (national et libéral, puis national-démocratique, voire socialiste): "In both countries the ideal of unification was shaped and moulded within the framework of a new acticvist style of politics which tended naturally towards demagogic extremism. The fact that unification itself was the work of politicians who despised activism is beside the point; what matters is the fact that they themselves encouraged activist dreams for their own purposes" (page 181).

(11) Hitler a-t-il pris connaissance de l'œuvre d'un Le Bon ou d'un Pareto? Cette hypothèse semble improbable, mais cela est sans importance: Hitler s'est laissé porter par l'esprit du temps, un élitisme et un darwinisme social ambiants.

Dans le début des années 1920, et dans Mein  Kampf,  Hitler se livrait à une critique "révolutionnaire" du nationalisme völkisch. Il s'en prenait d'abord aux méthodes d'action politique des Völkischen, méthodes qu'il jugeait inefficaces et auxquelles il prétendait substituer un activisme politique (Hitler ne faisait là que renouer avec les méthodes employées par les agitateurs antisémites allemands Heinrici et Böckel dans les années 1880/90. Ce ne fut d'ailleurs qu'apèrs l'échec des expériences Heinrici et Böckel que les antisémites völkisch abandonnèrent l'acti-visme). Il s'en prenait ensuite au caractère bourgeois et intellectuel des formations völkisch et prétendait conférer au nouveau mouvement völkisch un caractère populaire, "ouvrier" et "socialiste" marqué (d'où l'adoption du drapeau rouge et du qualificatif de Parti "ouvrier" national-socialiste"). Là encore rien de très original à vrai dire: déjà certaines formations völkisch avaient récupéré le qualificatif de "socialiste" -exemple: le Parti socialiste allemand  -et puis le "socialisme allemand" comme mot d'ordre). En cela, Hitler fut approuvé par de nombreux militants völkisch qui, plus tard, devaient s'estimer trahis par les compromis d'Hitler avec l'Eglise et la monarchie, les capitalistes et les Junkers, l'armée et la bureaucratie, la légalité weimarienne et l'Occident, etc.

 

jeudi, 04 mars 2010

Les plus atroces injustices...

Les plus atroces injustices...

Ex: http://zentropa.splinder.com/

"Aucun adulte ne peut lire Dickens sans percevoir ses limites, mais elles ne remettent pas en cause cette générosité d'esprit innée qui joue en quelque sorte le rôle d'une ancre et empêche presque toujours Dickens de partir à la dérive. C'est probablement là le secret de sa popularité. Cette espèce d'heureux antinomianisme que l'on trouve chez Dickens est l'un des traits caractéristiques de la culture populaire occidentale. Il est présent dans les contes et chansons humoristiques, dans les figures mythiques comme Mickey Mouse ou Popeye, dans l'histoire du socialisme ouvrier, dans les protestations populaires contre l'impérialisme, dans l'élan qui pousse un jury à accorder des indemnités exorbitantes quand la voiture d'un riche écrase un pauvre. C'est le sentiment qu'il faut toujours être du côté de l'opprimé, prendre le parti du faible contre le fort. En un sens, c'est un sentiment qui est passé de mode depuis une cinquantaine d'années.
L'homme de la rue vit toujours dans l'univers psychologique de Dickens, mais la plupart des intellectuels, pour ne pas dire tous, se sont ralliés à une forme de totalitarisme ou à une autre. D'une point de vue marxiste ou fasciste, la quasi-totalité des valeurs défendues par Dickens peuvent être assimilées à la "morale bourgeoise" et honnies à ce titre. Mais pour ce qui est des conceptions morales, il n'y a rien de plus "bourgeois" que la classe ouvrière anglaise.

dickensmisère.jpgLes gens ordinaires, dans les pays occidentaux, n'ont pas encore accepté l'univers mental du "réalisme" et de la politique de la Force. Il se peut que cela se produise un jour ou l'autre, auquel cas Dickens sera aussi désuet que le cheval de fiacre. Mais s'il a été populaire en son temps, et s'il l'est encore, c'est principalement parce qu'il a su exprimer sous une forme comique, schématique et par là même mémorable, l'honnêteté innée de l'homme ordinaire. Et il est important que sous ce rapport des gens de toutes sortes puissent être considérés comme "ordinaires". Dans un pays tel que l'Angleterre, il existe, par delà la division des classes, une certaine unité de culture. Tout au long de l'ère chrétienne, et plus nettement encore après la Révolution française, le monde occidental a été hanté par les idées de liberté et d'égalité. Ce ne sont que des idées, mais elles ont pénétré toutes les couches de la société. On voit partout subsister les plus atroces injustices, cruautés, mensonges, snobismes, mais il est peu de gens qui puissent contempler tout cela aussi froidement qu'un propriétaire d'esclaves romain, par exemple. Le millionnaire lui-même éprouve un vague sentiment de culpabilité, comme un chien dévorant le gigot qu'il a dérobé. La quasi-totalité des gens, quelle que soit leur conduite réelle, réagit passionnellement à l'idée de la fraternité humaine. Dickens a énoncé un code auquel on accordait et on continue à accorder foi, même si on le transgresse. S'il en était autrement, on comprendrait mal comment il a pu à la fois être lu par des ouvriers (chose qui n'est arrivée à aucun autre romancier de son envergure), et être enterré à Westminster Abbey."

George Orwell, Charles Dickens (1939) in Dans le ventre de la baleine et autres essais, Editions Ivrea/Encyclopédie des Nuisances, Paris, 2005, pp. 124-125.

PRESSESCHAU 1/März 2010

newspapersvvvvvvvvbbbb.jpgPRESSESCHAU

1 / März 2010

Einige Links.

Bei Interesse anklicken...

###

Deutsche Bewegung

Deutsche Bewegung, von W. Dilthey geprägte und durch den Pädagogen H. Nohl eingeführte Bezeichnung für die Blütezeit der deutschen Geistesgeschichte zwischen 1770 und 1830. Nach den Epochen überwiegender Fremdbestimmung (Renaissance, Humanismus, Barock, Klassizismus) stelle sie die erste Epoche eigenständiger deutscher Selbstverwirklichung nach dem Mittelalter dar: in der Dichtung (Sturm und Drang, Klassik, Romantik), der Philosophie (deutscher Idealismus), der Entdeckung der geschichtlichen Welt und des deutschen Mittelalters (J. Möser, J.G. von Herder, Romantik), der Neubegegnung mit der Antike (J.J. Winckelmann, Goethe, Schiller, Hölderlin), der Sprachdeutung und -erforschung (J.G. Hamann, Herder, J. Grimm, W. von Humboldt), der Entstehung des Nationalbewußtseins (J.G. Fichte, E.M. Arndt, F.L. Jahn), der Staatsauffassung (W. von Humboldt, Freiherr vom Stein). Die Epoche hat die Entwicklung der europäischen Geistesgeschichte nachhaltig beeinflußt.

Literatur: H. Nohl: Die Deutsche Bewegung. Vorlesungen und Aufsätze zur Geistesgeschichte von 1770–1830, herausgegeben von O.F. Bollnow und F. Rodi (1970).

(Brockhaus-Enzyklopädie, 19., völlig neubearb. Aufl., Bd 5, Mannheim 1988)

###


Schwarzes Erdbeben
Von Claus Wolfschlag
Der alte weiße Mann ist ein Übel, weshalb sich die europäische Welt auch in eine „bunte“, eine „farbige“ Welt umzuwandeln habe. Vor einigen Tagen ermöglichte es die Frankfurter Rundschau in einem Interview dem Schweizer Soziologen Jean Ziegler, die These von der angeblichen Schuld des weißen Mannes neu in den Ring zu werfen.
http://www.sezession.de/12376/schwarzes-erdbeben.html#more-12376

Armeeführung unter Terrorverdacht
Ideologische Schlacht um die Zukunft der Türkei
Von Boris Kálnoky
Plante das Militär einen Putsch, oder sind die Vorwürfe gegen die verhafteten Generäle haltlos? Derzeit wird die gesamte türkische Armeeführung von 2004 unter Terrorverdacht verhört. Details der Verfahren werden gezielt über islamische Medien verbreitet, die der Regierung von Recip Tayyip Erdogan nahestehen.
http://www.welt.de/politik/ausland/article6555130/Ideologische-Schlacht-um-die-Zukunft-der-Tuerkei.html

Despot in Rage
Gaddafi ruft zum Dschihad gegen die Schweiz auf
Muammar al-Gaddafis Angriffe gegen die Schweiz werden immer schriller: Nach monatelangen diplomatischen Querelen ruft Libyens Staatschef nun zum Heiligen Krieg gegen die Alpenrepublik auf. Als Begründung nennt er das Minarett-Verbot der Eidgenossen – und fordert einen „Kampf mit allen Mitteln“.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,680418,00.html

Hier noch ein älterer Artikel, in dem es ebenfalls um Gaddafi geht ...
„Wenn ihr so viele tausend Ausländer ins Land laßt, braucht ihr zu eurem Schutz irgendwann einen Diktator.“
http://www.tagesspiegel.de/meinung/kommentare/art141,2823203

Medien-Streit
Auf den Stinkefinger folgt das Hakenkreuz
Als „Betrüger in der Euro-Familie“ betitelt der „Focus“ das verschuldete Griechenland, zeigt dazu Aphrodite mit dem Stinkefinger. Die griechische Presse reagiert empört mit einer Montage der Göttin Viktoria auf der Siegessäule mit einem Hakenkreuz. Nun folgen Proteste und eine Beschwerde beim deutschen Botschafter.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article6534983/Auf-den-Stinkefinger-folgt-das-Hakenkreuz.html

Jetzt wird die Nazikeule erst richtig rausgeholt ...
Griechen erheben Nazi-Vorwürfe gegen Deutsche
Am Tag des Generalstreiks lenkt die griechische Regierung ihr Augenmerk auf Deutschland: Griechenland sei für die Nazi-Besatzung im Zweiten Weltkrieg nicht entschädigt worden, sagt Vize-Regierungschef Theodoros Pangalos. Und stellt – vor dem Hintergrund horrender Staatschulden – Forderungen.
http://www.welt.de/wirtschaft/article6536961/Griechen-erheben-Nazi-Vorwuerfe-gegen-Deutsche.html

Öl befeuert den Falkland-Konflikt
Von Thomas Kielinger
Argentinien ist wütend über Bohrungen rund um britisches Territorium und will die Vereinten Nationen einschalten – Proteste gegen London
http://www.welt.de/die-welt/politik/article6566828/Oel-befeuert-den-Falkland-Konflikt.html

Kampf gegen Terror
Bushs Folter-Juristen bleiben ohne Strafe
http://www.tagesspiegel.de/politik/international/Terrorkampf-Terror-CIA-Folter;art123,3036511

Kommentar
Die Deutschen haben recht mit ihrer Euroskepsis
Von Jörg Eigendorf
Die Deutschen glauben immer weniger an die Europäische Union. Und sie liegen richtig. Vor dem Hintergrund der Griechenlandkrise zeigt sich deutlich: Die EU ist eine Schönwetterveranstaltung. Unfähig, Spielverderber zur Vernunft zu bringen. Und diese Krise trifft die Menschen direkt in ihrem Geldbeutel.
http://www.welt.de/debatte/kommentare/article6544740/Die-Deutschen-haben-recht-mit-ihrer-Euroskepsis.html

DAS GROSSE ZITTERN UM DIE EUROPÄISCHE GEMEINSCHAFTSWÄHRUNG
Experte: Zusammenbruch des Euro nur eine Frage der Zeit
http://www.bild.de/BILD/politik/wirtschaft/2010/02/13/euro-zusammenbruch/experte-nur-noch-eine-frage-der-zeit.html

Herman ist Europas 1. Präsident
http://www.bild.de/BILD/politik/2010/01/02/herman-van-rompuy/ist-europas-erster-praesident.html

Du bist Terrorist:
http://www.dubistterrorist.de/
http://rettedeinefreiheit.de/
http://www.spiegel.de/media/0,4906,15385,00.swf

Was will man uns damit sagen ...
Verbrecher in Deutschland sind männlich
http://www.op-online.de/nachrichten/deutschland/verbrecher-deutschland-sind-maennlich-643938.html

Profildebatte in der CDU
Frustrierte Rechte machen gegen Merkel mobil
Von Philipp Wittrock
Angela Merkel hatte gehofft, die leidige Profildebatte in der CDU sei beendet. Doch jetzt formiert sich eine neue Basis-Initiative: Enttäuschte Rechtskonservative wettern gegen den „Linkstrend“ bei den Christdemokraten – und sammeln eifrig Unterstützer.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,678809,00.html

Konservativ ist in der CDU fast ein Schimpfwort
http://www.welt.de/politik/deutschland/article5850528/Konservativ-ist-in-der-CDU-fast-ein-Schimpfwort.html

Hamburg: CDU stürzt ab
Von Insa Gall; Florian Hanauer
Umfrage zur Halbzeit der Legislaturperiode – 69 Prozent unzufrieden mit Arbeit des Senats
Zur Halbzeit der Legislaturperiode ist die Hamburger CDU in der Gunst der Wähler regelrecht abgestürzt. Würde am Sonntag gewählt, verlören die Christdemokraten im Vergleich zur Bürgerschaftswahl 2008 ganze 11,6 Prozentpunkte und kämen nur noch auf 31 Prozent. Damit lägen CDU und SPD erstmals seit dem Machtwechsel 2001 wieder gleichauf, denn auch die Sozialdemokraten erhalten 31 Prozent.
http://www.welt.de/die-welt/regionales/article6513797/CDU-stuerzt-ab.html

Angebot an Sponsoren
NRW-CDU verkauft Gesprächstermine mit Rüttgers
Von René Pfister
Jürgen Rüttgers gerät durch eine Finanzaffäre unter Druck: Nach SPIEGEL-Informationen bietet die nordrhein-westfälische CDU zahlungskräftigen Sponsoren exklusive Gesprächstermine mit dem Ministerpräsidenten an – für Tausende Euro.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,679130,00.html

Gespräche gegen Geld
Rüttgers opfert seinen Generalsekretär
Die Sponsoring-Affäre droht dem nordrhein-westfälischen Ministerpräsidenten Rüttgers schwer zu schaden – nur zweieinhalb Monate vor der Landtagswahl. Jetzt nahm Hendrik Wüst, Generalsekretär der Landes-CDU, alle Schuld auf sich und trat zurück.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,679547,00.html

Deutsche Kanzlerin Merkel ein Stasi-Spitzel?
http://www.schweizmagazin.ch/2009/04/13/deutsche-kanzlerin-merkel-ein-stasi-spitzel/

Miserables Zeugnis: Sarrazin giftet gegen Merkels „gefährliche“ Politik
Gegen Merkels Regierungskurs hagelt es schon länger Kritik von allen Seiten. Die Wirtschaftsweisen warfen der Kanzlerin gar eine „Münchhausen“-Politik vor, weil sie behauptet hatte, die Staatsverschuldung lasse sich durch Wachstum abbauen. Merkel ließen die Vorhaltungen stets kalt. Doch jetzt schießt auch die Bundesbank gegen sie. Vorstandsmitglied Sarrazin attackierte sie scharf.
http://www.handelsblatt.com/politik/deutschland/miserables-zeugnis-sarrazin-giftet-gegen-merkels-gefaehrliche-politik%3B2490228

Hier schreibt ein ganz Schlauer ...
Landtagswahlen in NRW: Zu Besuch bei den Islamhassern
Mit Parolen gegen Moscheen, Muslime und Migranten versucht die Partei Pro NRW in den Landtag einzuziehen. Mit Neonazis will man nichts zu tun haben, gibt sich als Bürgerbewegung aus. Eine moderne Rechte oder ein Häuflein von gestern? Ein Besuch beim Parteitag. Von Lenz Jacobsen
http://www.stern.de/politik/deutschland/landtagswahlen-in-nrw-zu-besuch-bei-den-islamhassern-1545093.html

Ganz NRW unter der Lupe
Tunnel, Bahnen, Brücken – alles wird geprüft
Der Pfusch-Verdacht beim Ausbau der U-Bahn in Düsseldorf ruft Landesregierung, Behörden und Staatsanwaltschaft auf den Plan. Landesweit sollen sämtliche Großprojekte im U- und Straßenbahnbau der vergangenen 40 Jahre überprüft werden, außerdem Brücken und Tunnel.
http://www.rp-online.de/panorama/deutschland/Tunnel-Bahnen-Bruecken-alles-wird-geprueft_aid_824286.html


Die besoffene Margot Käßmann: Wasser predigen, Wein trinken
Von Robin Classen
Die Ratsvorsitzende der Evangelischen Kirche in Deutschland (EKD), Margot Käßmann, wurde am Samstagabend, mitten in der Fastenzeit, mit 1,54 Promille im Blut von der Polizei angehalten. Ohne mit dem Finger auf die Verfehlungen von Mitmenschen deuten zu wollen; schließlich ist Irren und Sündigen menschlich; ist es doch von Zeit zu Zeit notwendig, auf bestimmte Merkwürdigkeiten hinzuweisen. Merkwürdigkeiten, wie die doch auffällige Häufung an Verfehlungen, mit der Margot Käßmann seit ihrer Amtseinführung im Oktober 2009 gestraft wurde. Ob hier böse Geister am Werk sind?
http://www.blauenarzisse.de/v3/index.php/anstoss/1377-die-besoffene-margot-kaessmann-wasser-predigen-wein-trinken

Verhütungsmittel
Bremen fordert Gratis-Pille für Hartz-IV-Empfänger
Um die Zahl der ungewollten Schwangerschaften bei Hartz-IV-Empfängerinnen zu reduzieren, setzt sich das Bremer Gesundheitsressort für die staatliche Finanzierung der Verhütungsmittel ein. Wird der Vorschlag gebilligt, folgt eine entsprechende Bundesratsinitiative.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article6433278/Bremen-fordert-Gratis-Pille-fuer-Hartz-IV-Empfaenger.html

Hartz-IV-Debatte: Soziale Wärme durch weniger Geld
Von Felix Menzel
Die Hartz-IV-Debatte ist in vollem Gang. FDP-Chef Guido Westerwelle hat jetzt noch einmal in der BILD am Sonntag nachgelegt und gefordert, Arbeitslose sollten Schnee schippen. Außerdem müsse der Staat aufpassen, daß sie das Geld für ihre Kinder nicht „in einen neuen Fernseher“ investieren. Um dies zu verhindern, sollten Bildungsgutscheine und Ganztagsschulen an die Stelle von finanziellen Zuwendungen treten.
http://www.sezession.de/12497/hartz-iv-debatte-soziale-waerme-durch-weniger-geld.html

Dem Steuerzahler ein Notwehrrecht!
Von Thorsten Hinz
In der letzten Zeit habe ich merkwürdige Anwandlungen, von denen meine gesetzestreue, biedere Seele bis vor kurzem nicht wußte, daß sie überhaupt möglich sind: Ich entwickle Verständnis für die Steuerhinterzieher, die ihr Geld in die Schweiz verfrachtet haben und nun zittern. Knapp 500 Millionen Euro sollen durch Selbstanzeigen bereits zusammengekommen sein, doch nicht mal Schadenfreude will deswegen bei mir aufkommen.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M55265042f25.0.html


Der Polizist Bernd Merbitz ...
Von Götz Kubitschek
... ist einer der Verantwortlichen dafür, daß aus dem geplanten Trauermarsch der Jungen Landsmannschaft Ostdeutschland am 13. Februar in Dresden eine Standkundgebung wurde. Merbitz, seines Zeichens Polizeipräsident von Sachsen, begründete das passive Vorgehen der Polizei gegen die Blockierer von links mit einem Hinweis auf deren Gewaltlosigkeit.
Diese Einschätzung teilen weder wir (die wir vor Ort waren), noch etwa die Deutsche Polizeigewerkschaft, die sich mittels einer Pressemitteilung indirekt, aber vehement gegen ihren Polizeipräsidenten stellt.
http://www.sezession.de/12665/der-polizist-bernd-merbitz.html#more-12665
http://www.dpolg-sachsen.de/aktuelles/150210-presserklaerung/index.html

Dresden: Bomben vor 65 Jahren
Keinen Raum den Faschisten
http://www.sueddeutsche.de/kultur/67/503291/text/

Nachtrag zu Dresden: Fundstück aus dem Jahre 1963:
Sodom in Sachsen
LUFTKRIEG
Sieben Tage und acht Nächte lang stand die Stadt in Flammen. Ihre Menschen wurden verbrannt, erschlagen, vergiftet. Die berstenden Mauern begruben 135 000 Tote, 75 000 mehr als in Hiroshima.
http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-45143910.html

Düsseldorf
Neuer Gastprofessor
Avi Primor holte Joschka Fischer
http://www.rp-online.de/duesseldorf/duesseldorf-stadt/nachrichten/Avi-Primor-holte-Joschka-Fischer_aid_822059.html

Afghanistan-Debatte
Lammert schließt Linke von Bundestagssitzung aus
In der Bundestagsdebatte über den Afghanistan-Einsatz der Bundeswehr ist es zu einem Eklat gekommen. Bundestagspräsident Norbert Lammert schloß die Linksfraktion von der Sitzung aus, weil sie mit Protestplakaten gegen den Einsatz demonstriert hatte. Über den Einsatz darf die Oppositionspartei aber wieder abstimmen.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article6568721/Lammert-schliesst-Linke-von-Bundestagssitzung-aus.html

Debatte um katholischen Mißbrauch
Die Grünen, der Sex und die Kinder
Mißbrauch von Kindern als Folge der sexuellen Revolution? Auf Bischof Mixas Äußerungen folgte zu Recht Entrüstung. Ganz vorne dabei: die Grünen – und die hatten zum Thema Sexualität und Kinder einst Abenteuerliches zu sagen. Eine kleine Zeitreise von Jan Fleischhauer
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,678961,00.html

Elton John: „Jesus war ein schwuler Mann“
http://www.promiflash.de/elton-john/201002191815-elton-john-jesus-war-ein-schwuler-mann

Frankfurter Städel erforscht seine NS-Vergangenheit
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article6499295/Frankfurter-Staedel-erforscht-seine-NS-Vergangenheit.html

Stadt Offenbach
Demo gegen NPD geplant
Jusos und andere Gruppen mobilisieren
http://www.fr-online.de/frankfurt_und_hessen/nachrichten/stadt_offenbach/2350146_Demo-gegen-NPD-geplant-Jusos-und-andere-Gruppen-mobilisieren.html

„Bewegung Morgenlicht“
Ein-Euro-Jobber nach Anschlägen in Frankfurt in U-Haft
http://www.faz.net/s/RubFAE83B7DDEFD4F2882ED5B3C15AC43E2/Doc~EAD3668DAC79D4F90B7AC22B05F7658F1~ATpl~Ecommon~Scontent.html?rss_googlenews

Deutsch-jüdische Symbiose
Von Ellen Kositza
Als ich gestern früh beim Müllrausbringen, ungekämmt und angetan mit u.a. einer Kittelschürze und übergroßen Schuhen von Kubitschek, in die ich schnell geschlüpft war, auf dem Weg zur „Gelben Tonne“ im Schnee ausrutschte und hinfiel, war mein erster Gedanke ziemlich absurd (...)
http://www.sezession.de/12623/deutsch-juedische-symbiose.html#more-12623

Melita Maschmann – Ein Nachruf
Von Karlheinz Weißmann
Es gibt den Fall, daß Menschen unserer Aufmerksamkeit entgleiten, auch dann, wenn sie in der Öffentlichkeit eine Rolle spielten, auch dann, wenn man ihren Lebenslauf mit Interesse verfolgt hat. Irgendwann verschwinden sie, ziehen sich freiwillig zurück, aus Altersgründen, weil sie ihre letzten Jahre in Ruhe verbringen wollen, beschränken sich auf eine private Existenz.
http://www.sezession.de/12456/melita-maschmann-ein-nachruf.html

Bundesrepublikanische Probleme ...
Geschichte
Kapelle mit Baumaterial aus Hitlers Berghof?
http://salzburg.orf.at/stories/424682/

Tondokument
Wie Hitlers Stimme wirklich klang
Ein finnischer Radiotechniker zeichnete 1942 heimlich ein Männergespräch auf: Darin erklärt Hitler einem finnischen General den Kriegsverlauf. Bis heute ist dies die einzige bekannte Aufnahme, auf der man den „Führer“ im normalen Gesprächston hört. SPIEGEL TV über ein außergewöhnliches Tonband.
http://www.spiegel.de/sptv/magazin/0,1518,319655,00.html

Hochinteressant (auch inhaltlich!) ...
Adolf Hitler secret recording 1942, part 1
http://www.youtube.com/watch?v=wkLKfClUiHQ&feature=channel

Adolf Hitler secret recording 1942, part 2
http://www.youtube.com/watch?v=kLlCEQ2wVsA&feature=channel

Adolf Hitler secret recording 1942, part 3
http://www.youtube.com/watch?v=PTdsvkWBGlo&feature=channel

Debatte um nationale Identität in Frankreich ...
Weder ein Volk noch eine Sprache
Von Alain de Benoist
„Waterloo“, „Begräbnis der politischen Klasse“, „bedingungslose Kapitulation“, „gravierende politische und ideologische Niederlage“: Die Kommentare zum Abschluß der im vergangenen Oktober von Staatspräsident Nicolas Sarkozy ausgerufenen „großen Debatte über die nationale Identität“ fallen eindeutig und einhellig aus. Echte Ergebnisse hat diese Debatte nicht gebracht, und ob der beschlossenen Maßnahmen weiß man kaum, ob man lachen oder weinen soll.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M51268507178.0.html

Große Überraschung ...
Integrationsbeauftragte Böhmer
„Alarmierend hoher Migrantenanteil bei Hartz IV“
Die Integrationsbeauftragte Maria Böhmer ist beunruhigt über die hohe Migranten-Quote unter den Hartz-IV-Beziehern und mahnt bessere Sprachkenntnisse und eine gute Bildung an. Auch Kanzlerin Merkel beschäftigt das Thema Hartz IV. Sie verlangt Verbesserungen – doch der FDP ist das zu wenig.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article6477554/Alarmierend-hoher-Migrantenanteil-bei-Hartz-IV.html

Frankfurt am Main: Abschied von der Integration
Frankfurt kommt nicht zur Ruhe. Nachdem letzte Woche der Hessische Rundfunk Enthüllungen über den Bau der dritten Moschee im Stadtteil Hausen an die breite Masse der Bevölkerung verbreitete (PI berichtete), und somit die Aussagen der damaligen BI Hausen – heute PI-Frankfurt – bestätigte, wurde von der Fraktion der Freien Wähler im Römer am 10. Februar 2010 nun eine Expertise zum Integrationskonzept von Dr. Nargess Eskandari-Grünberg vorgestellt.
http://www.pi-news.net/2010/02/frankfurt-am-main-abschied-von-der-integration/#more-118870

Kriminalität
Bande terrorisiert Hamburger Hochhaussiedlung
Von André Zand-Vakili
Straßenschlägereien, Drogenhandel, Raub und lebensgefährliche Raserei – die Kriminalität am Hamburger Mümmelmannsberg gerät außer Kontrolle. Eine „multi-ethnische Bande“ terrorisiert seit Jahren die Hochhaussiedlung. Die Polizei scheint machtlos, denn die meist jungen Intensivtäter sind gut organisiert.
http://www.welt.de/vermischtes/article3693816/Bande-terrorisiert-Hamburger-Hochhaussiedlung.html

Offenbach
Für Polizei und Staatsanwaltschaft sind türkische Kickbox-Zwillinge Schutzgelderpresser
Brutale Sponsoren-Suche
Von Thomas Kirstein
Offenbach – Das als „Fight Club“ firmierende Kampfsportstudio in der Großen Marktstraße stellt auf seiner aufwendigen Internet-Seite viele derjenigen vor, die sich als Sponsoren verdient machen.
Folgt man der Offenbacher Staatsanwaltschaft und der Kriminalpolizei, dann haben sie nicht freiwillig finanzielle Beiträge geleistet. Vielmehr sollen die meist türkischstämmigen Betreiber von Spielotheken, Wettbüros, Kiosken, Gaststätten, Telecafés und einem Hotel durch massiven Druck seitens zweier Landsleute und ihrer Helfershelfer zu regelmäßigen Zahlungen genötigt worden sein – aus anfänglich 50 Euro im Monat wurden bald 300.
Klarer Fall von Schutzgelderpressung, meinen Ankläger und Ermittler. Als Drahtzieher und Hauptakteure gelten die als Kampfsport-Trainer tätigen Zwillinge Deniz und Devrim Akarsu, beide 1977 in Offenbach geboren und türkische Staatsbürger.
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/brutale-sponsoren-suche-636353.html

Raubüberfall mit unerwartetem Finale
Wir berichten immer wieder über Fälle von Migrantengewalt, bei denen sich das Opfer vermeintlich wehrlos seinem Schicksal ergibt. Etwas anders verlief am Samstag ein Raubüberfall im Bonner Stadtteil Pützchen. Dort holte sich ein „südländischer“ Täter von seinem Opfer eine blutende Nase.
http://www.pi-news.net/2010/02/raubueberfall-mit-unerwartetem-finale/
http://www.general-anzeiger-bonn.de/index.php?k=loka&itemid=10490&detailid=703394


Schweinfurt
„Ehrenmord“?: Türkin stirbt durch Attacke des Vaters
http://www.zeit.de/newsticker/2010/2/24/iptc-bdt-20100224-201-24004588xml

Eine ganz normale Woche in München
„Dank“ der Political Correctness ist es bekanntlich ziemlich schwierig herauszufinden, welcher Nationalität ein Straftäter angehört, da die Medien die entsprechenden Informationen meist verschweigen. Auf der Seite der Polizei München ist das – noch – anders, hier hat man keine Hemmungen, die (traurigen) Tatsachen beim Namen zu nennen. Jeden Tag außer samstags werden dort Straftaten veröffentlicht. Ein PI-Leser hat sich einmal die Mühe gemacht und die Veröffentlichungen der vergangenen Woche hinsichtlich Nationalität bzw. Migrationshintergrund analysiert.
http://www.pi-news.net/2010/02/eine-ganz-normale-woche-in-muenchen/

Massenschlägerei bereichert Fasnachtsumzug
Im bernischen Langenthal kam es beim örtlichen Karneval zu einem politisch inkorrekten Zwischenfall: Ausscherende Fasnächtler hatten einen Wagen mit Minarett und Initiativplakat gezimmert (Foto). Auf der Spitze stand offenbar ein „echter Muezzin“, denn er habe nach Bericht der „Berner Zeitung“ während des Umzugs „gröbere Sprüche“ gemacht und „blöd heruntergeplärrt“ – wie sich das eben gehört. Ungehörig fanden es jedoch südländische Jugendliche, die sich empörten, einen Streit anfingen und dabei ein paar eidgenössische Fäuste ernteten.
http://www.pi-news.net/2010/02/massenschlaegerei-bereichert-fasnachtsumzug/

Fasnachtsschlägerei: Jetzt sprechen die „Freaks“
Noch immer wird der fasnächtliche Minarettwagen und die anschließende Massenschlägerei in Langenthal (PI berichtete) in den Schweizer Medien heftig diskutiert. Vor allem die Frage, von wem der Streit zwischen einer Gruppe junger Dachdecker aus der Region und 20 jugendlichen Ausländern ausging, steht im Raum. Ein Ausländer sagte der „Berner Zeitung“, die Dachdecker wollten bewußt prügeln und seien mit Schlagringen bewaffnet gewesen. Alles gelogen, meinen die Dachdecker gegenüber PI.
http://www.pi-news.net/2010/02/fasnachtsschlaegerei-jetzt-sprechen-die-freaks/#more-120807

Gene lassen uns Gesichter erkennen
Von Pia Heinemann
London – Offenbar ist die Fähigkeit, ein Gesicht zu erkennen, nichts, was wir im Laufe der Kindheit erlernen.Wissenschaftler des University College in London berichten in PNAS über Hinweise darauf, daß in den Genen jedes einzelnen verankert ist, wie gut Gesichter erkannt werden können.Und offenbar ist die Arbeit, die das Gehirn beim Erkennen von Gesichtern leisten muß, wesentlich höher und komplizierter als bei anderen kognitiven Prozessen, etwa der Worterkennung. Die Wissenschaftler haben für ihre Studie eineiige und zweieiige Zwillinge getestet. „Gesichtserkennung ist eine Fähigkeit, die wir jeden Tag benötigen“, sagt Hirnforscher Brad Duchaine.
http://www.welt.de/die-welt/wissen/article6514900/Gene-lassen-uns-Gesichter-erkennen.html

Verkehrskonzept Speedway
Die elektrische Autobahn
Von Jürgen Pander
In seiner Diplomarbeit hat Designer Christian Förg das Reichweiten-Problem von Elektroautos gelöst – und gleich noch ein zukunftsweisendes Verkehrssystem entwickelt. Speedway heißt das Projekt. Die Prüfer an der FH München bewerteten es mit der Note 1,0.
http://www.spiegel.de/auto/aktuell/0,1518,678168,00.html

Abrisse in Wien
Historische Schutzzone in der Leopoldstadt in Auflösung begriffen
http://www.idms.at/index.php/meldungen-nach-bundesland/meldungen-wien/97-wien2/173-historischeschutzzoneinderleopoldstadtinaufloesungbegriffen

Weißrußland erklärt Rammstein zum Staatsfeind
http://www.stern.de/kultur/musik/weissrussland-erklaert-rammstein-zum-staatsfeind-1545542.html

Rammstein darf in Weißrußland auftreten
http://www.merkur-online.de/nachrichten/stars/rammstein-darf-weissrussland-auftreten-644355.html

Jud Süß ausgepfiffen und ausgebuht
http://www.moviepilot.de/news/jud-suess-ausgepfiffen-und-ausgebuht-105462
http://film-insider.de/info/94417/

00:15 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : journaux, presse, médias, allemagne, politique internationale | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Il Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente

Il Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente

Fra grandi attese, ottimi docenti e qualche immancabile boicottaggio, il tradizionale corso di studi all’Università di Teramo

Filippo Ghira

Enrico_Mattei.pngRiparte all’Università di Teramo il  “Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente”. Nel 2007 era stato chiuso per la nota vicenda Faurisson, per due anni è continuato a Roma sotto l’egida dello Iemasvo, Istituto Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente”, e adesso è di nuovo nell’Ateneo dove era stato inaugurato nel febbraio 2006 con una prolusione di Giulio Andreotti su Enrico Mattei.
E’ cambiato qualcosa? “E’ cambiato il regolamento di Facoltà - risponde il professor Claudio Moffa, coordinatore del corso di studi, le cui domande scadranno il 28 febbraio prossimo – adesso la lista dei docenti deve essere approvata dal Consiglio di Facoltà ma comunque l’impianto generale non cambia. Anzi nella fase romana è stata allargata la rosa dei conferenzieri, per fare due nomi Ilan Pappè e Clementina Forleo, e quest’anno proponiamo nuovi argomenti interessanti”. Come il convegno di economia su “Monete, acqua, oleodotti: le guerre economiche del Medio Oriente” e quello su: “Finanza, usura e signoraggio”, con economisti quali Bruno Amoroso, Gianfranco Lagrassa e Eugenio Benetazzo. O il seminario su: “L’assedio dei cristiani in Medio Oriente”, un panorama radicalmente diverso da quello dei tempi di La Pira.
Un corso dunque allo stesso tempo altamente professionale ma anche poco omologato alla lettura dominante degli eventi mediorientali.
Nessun problema dunque? “I problemi ci sono – risponde Moffa – e vengono per ora soprattutto da internet che  ci impedisce di fatto una adeguata pubblicizzazione: improvvisi blocchi della posta in uscita, scomparsa dai siti di nomi e notizie importanti che poi magicamente ricompaiono poco dopo. Ma chiunque tratta argomenti politicamente non corretti conosce questo tipo di ostacoli. Per il resto ci stiamo avvicinando al traguardo delle iscrizioni, ancora possibili. Il termine ultimo per iscriversi al Master è il 28 febbraio. L’impressione quindi è che si voglia giocare sul fattore tempo per impedire che gli incontri del Master che vedrà l’avvicendarsi di docenti di chiara fama, abbia il successo e il riscontro già avuti in passato.
Una battaglia che riguarda tutti: basta andare sul sito
www.masteruniteramo.it, ascoltare le presentazioni video del corso di studi e il già nutrito programma articolato in convegni e temi molto interessanti e spesso controcorrente per capire. La lista dei relatori, Franco Cardini, Maurizio Blondet, ma anche Agostino Cilardo, Ferdinando Pellegrini e Israel Shamir, basterebbe da sola a rassicurare che quella offerta agli iscritti e agli uditori, sarà un’analisi obiettiva degli argomenti trattati. Ci saranno anche alcuni ambasciatori, come quello venezuelano, entro un quadro di pluralismo tipico di un Ateneo pubblico”.
 
Enrico Mattei: in nome dell’Italia
Problemi per un Master intitolato a Mattei? La verità è che la figura e l’opera di Enrico Mattei sono ancora in grado di dare fastidio per tutti gli interrogativi che esse pongono oggi in materia di approvvigionamento energetico, indipendenza nazionale, colonialismo e rapporti internazionali. Della figura di Enrico Mattei si tende oggi a ricordare l’atteggiamento spregiudicato, i finanziamenti versati ai vari partiti per non dover incontrare ostacoli sul suo cammino. Ma ben pochi ricordano che il suo “utilizzare i partiti come taxi” era finalizzato a rendere l’Italia indipendente dal punto di vista energetico e non dipendente quindi dalle forniture delle Sette Sorelle statunitensi e anglo-olandesi. Basti pensare che  nell’immediato dopoguerra, Enrico Mattei, nominato commissario liquidatore dell’Agip, dimostrando una notevole lungimiranza, riuscì a convincere il governo dell’epoca a rinunciare a quella idea e di investire invece in un Ente pubblico, l’Eni appunto, che si occupasse di garantire al nostro Paese l’approvvigionamento energetico di petrolio e di gas, che fu più che determinante per sostenere il nostro boom economico. La stampa italiana, specie quella del Nord, legata agli ambienti industriali e finanziari nazionali, e con saldi legami con analoghi ambienti europei e americani, non si fece sfuggire l’occasione per attaccare la politica dell’Eni che si muoveva con estrema autonomia sugli scenari internazionali, avendo per prima preoccupazione l’interesse nazionale.
L’aspetto che determinò il successo dell’Eni nei Paesi produttori di petrolio fu l’approccio “non colonialista” con cui Mattei lo caratterizzò. Tanto per cominciare, Mattei innovò radicalmente nella percentuale che l’Eni ritagliò per se stesso nello sfruttamento dei giacimenti di petrolio scoperti. Appena un 25% per il gruppo italiano contro il 75% riservato alla compagnia petrolifera di Stato locale. Laddove le Sette Sorelle pretendevano come minimo il 50%. Secondo aspetto, fu la clausola secondo la quale se le ricerche di uno specifico giacimento non avessero avuto buon fine, l’Eni non avrebbe chiesto niente allo Stato estero a mo’ di indennizzo. Un metodo a dir poco rivoluzionario che contribuì in maniera determinante a creare una corrente di enorme simpatia verso il gruppo italiano. Terzo e non meno importante innovazione fu la scelta di Mattei di fare addestrare le maestranze locali nella scuola aziendale dell’Eni a San Donato Milanese. Il disegno era di per sé ovvio. L’Eni, voleva far capire Mattei, non vuole limitarsi a rapporti economici ma vuole far crescere professionalmente una folta schiera di tecnici che una volta formati saranno in grado di fare da soli o affiancare al meglio le società petrolifere straniere, senza quindi dover dipendere totalmente da esse. Un approccio che è ancora vivo nella memoria delle classi dirigenti di quel Paese. Un ricordo che fa sì che l’Eni possa ancora oggi vivere di rendita in quei Paesi godendo di una simpatia che non è mai venuta meno.
La politica autonoma dell’Eni si indirizzò soprattutto verso i Paesi del Vicino Oriente e del Nord Africa. Se fu l’Iran l’esempio più eclatante di un irrompere del gruppo italiano in un Paese che era considerato territorio esclusivo di caccia della British Petroleum, fu però l’Egitto di Nasser il primo Paese con il quale Mattei nel 1956 iniziò rapporti stabili e duraturi. Per non parlare dell’appoggio finanziario dato dall’imprenditore marchigiano al Fronte di liberazione nazionale algerino, un fatto che non poteva che irritare non poco la Francia la cui classe dirigente si stava ormai rassegnando all’idea di perdere i suoi territori di oltremare. Una vicinanza all’Fnl che fu rafforzata dalla disponibilità di un appartamento a Roma per il capo politico del movimento indipendentista, Mohamed Ben Bella.
L’Eni si poneva quindi come una realtà autonoma che, in nome degli interessi superiori dell’Italia, vista come un naturale prolungamento dell’Europa verso i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, voleva rompere gli equilibri consolidati in tutta l’area. L’attivismo di Mattei dava particolare fastidio ad Israele che male sopportava il fatto che l’Eni tendesse a far crescere economicamente e autonomamente Paesi come Algeria ed Egitto. L’origine dell’attentato del 27 ottobre 1962 con la bomba piazzata nel suo aereo ed esplosa nel cielo di Bascapè deve probabilmente essere inserita in questa contrapposizione con lo Stato nato appena quindici anni prima. Una ostilità che ebbe conseguenze all’interno della stessa Eni quando Mattei, qualche mese prima della sua morte, obbligò Eugenio Cefis, vicepresidente dell’Eni e presidente dell’Anic, a lasciare il gruppo dove costituiva il capo di una corrente giudicata troppo “vicina” agli interessi atlantici ed israeliani. Lo stesso Cefis, ex braccio destro di Mattei nella guerra civile come partigiano cattolico, che fu chiamato a guidare l’Eni subito dopo la morte di Mattei. Le altre ipotesi sul’attentato sono infatti poco credibili. Da un intervento delle Sette Sorelle, con le quali in settembre aveva raggiunto una sorta di “gentlemen agreement”, all’ipotesi della Cia che giudicava Mattei destabilizzante, proprio nei giorni in cui infuriava la crisi dei missili sovietici a Cuba. Lo stesso scetticismo vale per un possibile ruolo avuto dalle compagnie petrolifere francesi, che avevano vasti interessi in Algeria, o per l’intervento della Mafia siciliana o di Cosa Nostra Usa che agirono per conto terzi. Tutte ipotesi che hanno il demerito di vedere solamente la punta dell’iceberg e di non voler leggere quella che è la sostanza del problema. L’attentato di Bascapè mise comunque fine all’esistenza di una personalità unica, un uomo che era stato capace di intravedere realtà e potenzialità che altri nemmeno si immaginavano.  
 
 
 
Per informazioni e per iscriversi al Master:
www.masteruniteramo.iit
info@mastermatteimedioriente.it;
claudio.moffa@fastwebnet.it;
mastermattei.unite@tiscali.it;
377-1520283; 347-7777.071





23 Febbraio 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=832

La nationalité canadienne

canadaarton6583.gif

 

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

La nationalité canadienne

 

 

par Mario Gagné

 

L'histoire est faite d'événements passés dont les effets continuent de manifester aujourd'hui leur présence. Ceux-ci, parce qu'ils sont chargés de sens, parlent à la psychè collective. De la même façon que les territoires, l'âme des peuples est aussi le champ du politique (1). La conscience de cette réalité nous permet d'abord de comprendre une situation historique et, peut-être, de modifier par la suite le cours des événements.

 

Parce que nos sociétés sont encarcannées dans cet Occident qui a pour centre les Etats-Unis d'Amérique, il est nécessaire de comprendre les représentations qui nous révèlent l'Amérique. Toutefois, gardons-nous bien de confondre cette dernière avec les Etats-Unis. En effet, il existe des américanités plus anciennes et plus authentiques que celle-ci: entre autres, la nationalité canadienne.

 

Les récits de fondation

 

Dans la tradition politique et culturelle européenne, les nationalités apparaissent à la suite d'une alliance conclue entre deux ou plusieurs ethnies. Afin d'expliquer le sens de cet événement fondateur, les générations subséquentes mettront très souvent au point une interprétation fabuleuse et légendaire.

 

Ainsi la France est née à la suite du Baptême de Clovis. Le rite conféré par Saint Rémi dans cette Rome liturgique qu'est Reims a non seulement permis l'union politique des Gallo-Romains et des Francs mais il a aussi été perçu comme le moment où l'imperium romain et la culture gréco-latine, principes spirituels dont l'Eglise s'était instituée le fiduciaire à l'époque de la migration des peuples (2), ont été remis en héritage à la France.

 

Le mythe fondateur de la Suisse célèbre à la fois le serment de Rütli prononcé par les représentants des Trois Cantons et l'établissement de la société helvétique sur le modèle des ordres indo-européens (3). Celui de l'Angleterre doit être recherché dans le couronnement de Guillaume le Conquérant à Westminster à la suite de la bataille de Hastings; il rappelle à la fois l'alliance (plus ou moins volontaire) des Normands et des Saxons et l'avènement définitif de la romanité dans l'île britannique. On pourrait multiplier ainsi de semblables exemples.

 

Le Canada comme américanité

 

Transportons-nous le 19 juillet 1603 à Tadoussac, lieu où se jette le fleuve Saguené dans l'estuaire maritime du Canada. A cet endroit, les représentants des tribus etchemine, montagnaise et algonquine se sont réunis afin de souhaiter la bienvenue à Champlain et aux colons français qui vont s'établir à sa suite dans le pays (4).

 

Grâce à l'habile politique de Champlain, les Français furent les seuls Européens, parmi ceux qui sont venus en Amérique, à ne pas avoir acheté ou acquis par la force les territoires sur lesquels ils se sont installés; seuls, ils furent expressément conviés par les autochtones. A l'occasion du Paoua de Tadoussac, Champlain dit à peu près ceci aux chefs des tribus indiennes: "Nos fils épouseront vos filles et ils deviendront une seule nation". Ceux-ci lui répondirent: "Les enfants de vos fils apprendront de leur mère à devenir des hommes valeureux (5)".

 

Le métissage est l'événement fondateur du Canada, pays dont les racines plongent à la fois dans le passé européen et dans le passé immémorial de l'Amérique autochtone. Une telle hybridation ne fut pas seulement somatique mais aussi et surtout culturelle.

 

En adoptant maints aspects du mode de vie indien, les colons français ont d'abord pu survivre malgré les rigueurs du climat canadien. En voyageant tantôt dans des canots d'écorce, tantôt sur des chevaux indiens appelés "cayouche", les descendants de ces mêmes colons ont pu explorer la Nord-Amérique à partir de la vallée du Saint-Laurent jusqu'aux Montagnes Rocheuses et même au-delà, de l'Océan Arctique jusqu'au Golfe du Mexique. Ayant fait l'apprentissage des langues indiennes, les Canadiens ont pu rallier à la France un immense continent. En assimilant les techniques de guerre indiennes, les Canadiens ont encore forcé les Anglo-Saxons à demeurer sur le rivage de l'Océan Atlantique.

 

La nationalité canadienne, création européenne en terre d'Amérique, possède donc un caractère véritablement autochtonien (6). Le Canada se présente ainsi, avec le Mexique, la Caraïbe et le Brésil, comme une authentique construction américaine. A cet égard, il est intéressant de constater que le mythe de la fondation du Mexique prend aussi la forme d'une métaphore conjugale, c'est-à-dire celle de l'union de Guadeloupe et de Quetzalcoatl (7).

 

L'acculturation étatsunienne

 

Tout autre est le mythe de fondation des Etats-Unis d'Amérique. Revivifié aujourd'hui par le pasteur Falwell, allié politique du président Reagan, un tel mythe raconte la venue en Nord-Amérique des Pères pélerins à bord du Fleur-de-mai (Mayflower).  Chassés d'Europe parce qu'ils poursuivaient le rêve du paradis puritain, les Pères pélerins continuèrent d'y être fidèles dans le Nouveau Monde, notamment en choisissant de demeurer à l'écart de l'Amérique autochtone. De cette attitude découleront les guerres d'extermination, qu'eux et leurs héritiers vont entreprendre contre les Indiens, et la création de réserves pour y enfermer les survivants.

 

Les Etats-Unis d'Amérique ne sont donc pas nés d'une alliance entre deux peuples mais bien plutôt d'un double refus: à la fois celui de l'Europe originelle et celui de l'Amérique primordiale. Ce pays qui ne voulait pas avoir de racines, ni en Amérique, ni en Europe, ne forma donc jamais un véritable peuple. Conformément aux fantasmes des Pères pélerins, cette entité étrangère à la fois à la terre d'origine et à la terre d'accueil, s'efforcera de ne devenir rien d'autre qu'«une bonne et solide prospérité étalée au grand jour» (8).

 

Afin de se donner un semblant de légitimité politique et historique, les E.U.A. se sont désespérément mis en quête d'une identité nationale. D'abord, comme leur nom l'indique, ils se sont octroyés le monopole de l'américanité; ensuite, ils ont usurpé l'identité des peuples véritables, en particulier celle des Canadiens.

 

Derrière la silhouette des personnages de Fennimore Cooper, que l'auteur a créés afin de donner aux Yanquis une familiarité qu'ils n'ont jamais eu avec la terre d'Amérique, se profile l'image à peine transposée du coureur-de-bois canadien. Sans la geste du cavalier métis, dont Hollywood s'est abondamment inspiré pour fabriquer en série ses héros de plateau de tournage, la figure du gardien de vaches, symbole de l'Amérique yanquie, apparaîtrait clairement pour ce qu'elle est, c'est-à-dire bien misérable.

 

Tout aussi significatif est le travestissement effectué par cette autre formation politique, voisine des E.U.A., qu'est l'Amérique du Nord Britannique. Comme en témoigne sa toponymie où se rencontrent des Kingston, des Windsor, des London, etc., l'A.N.B. fut créée sur le modèle de la Grande-Bretagne. Désirant n'avoir de racines qu'en Europe, l'A.N.B. choisit, comme les E.U.A., de demeurer étrangère à l'Amérique autochtone.

 

Comme les E.U.A., l'A.N.B. se retrouva bientôt devant le même vide identitaire. Comme les E.U.A., l'A.N.B. essayera de le combler en usurpant l'identité des Canadiens. Mais cette fois-ci, ce sera de manière plus profonde: alors que l'A.N.B. refuse précisément au Canada le droit à l'existence, elle s'attribuera le nom du Canada et voudra se faire reconnaître pour tel à la face du monde. Une telle opération, il va sans dire, aura aussi pour but de minoriser les Canadiens dans leur identité et de vider de toute substance leur nationalité.

 

Le refus français de l'Amérique

 

Alors que les Canadiens avaient, au-delà de l'Océan Atlantique, ouvert à la France un espace illimité et plein de possibilités pour son expansion territoriale et démographique, celle-ci ne comprit jamais l'importance de ses possessions nord-américaines. Au contraire, elle s'entêta dans sa traditionnelle politique d'expansion vers l'Est. Vu l'exigüité et le peuplement déjà dense du territoire européen, une telle politique allait non seulement faire perdre à la France son rôle de grande puissance de l'avenir mais aussi entraîner jusqu'à nos jours l'Europe dans de nombreux conflits, causes premières de son actuel déclin (9).

 

La France s'est volontairement départie de ses territoires nord-américains, d'abord en empêchant les Canadiens d'utiliser les techniques de guerre adaptées au Nouveau Monde  -ce qui allait conduire à la chute de Québec en 1759-  et, ensuite, en vendant la Louisiane aux Etats-Unis d'Amérique. Construite sur le refus de l'aventure américaine, la France moderne  chassera de sa mémoire historique le Canada en intériorisant systématiquement le point de vue yanqui sur l'Amérique (10). Pour pouvoir agir autrement, il aurait fallu reconnaître explicitement l'erreur de jugement historique qui lui a valu la perte de son imperium.

 

Les Etats-Unis étant surtout pour la France l'"Amérique", il est significatif de constater que sa littérature romanesque ira jusqu'à affubler, pour faire plus "américain" des noms anglais aux Indiens -lesquels ont très souvent des ascendants français- et à les faire évoluer dans une toponymie non moins anglo-saxonne. Tout aussi significativement, elle mesurera désormais à l'aune yanquie les différentes manifestations de la "modernité" et de la "démocratie". Dans cette perspective, constater que le refus français de l'Amérique a entraîné l'asservissement aux Etats-Unis est le moindre des paradoxes.

 

Seule l'attitude du Général de Gaulle, qui a permis à la France de redécouvrir l'Amérique, représente une exception (11). Ce n'est pas par hasard si l'homme d'Etat qui fut à l'origine du rapprochement franco-allemand, c'est-à-dire de la mise en cause de la traditionnelle politique étrangère française, fut aussi celui qui appuya le mouvement indépendantiste du Canada français. Cet appui, rappelons-le ici, avait pour but d'annuler dans une certaine mesure les effets du désastreux traité de Paris (1763).

 

Le nationalisme de l'Eglise canadienne

 

Après la cession du Canada à la Grande-Bretagne, différents mouvements de résistance à la présence anglaise surgirent. Le plus important de ceux-ci fut l'Insurrection des Patriotes qui eut lieu en 1837 et en 1838. Influencés par les meilleures idées de la Révolution française (12), les Patriotes élaborèrent une légitimité en vertu de laquelle l'autochtonité du peuple canadien fondait son droit à la liberté et à la souveraineté politiques. Ils l'utilisèrent afin de l'opposer au droit de domination que le pouvoir britannique s'était arrogé.

 

La défaite de l'Insurrection fut le moment qui permit à l'Eglise de s'accaparer, avec la complicité de l'occupant, le pouvoir culturel; notamment, sa présence se fit sentir dans le domaine de l'enseignement public et dans celui de la formation des élites professionnelles et politique. En gros, cette mainmise allait durer de 1840 à 1960.

 

Pendant toute cette période, l'Eglise s'acquitta fidèlement de son pacte de collaboration. Afin d'empêcher à l'avance d'autres tentatives d'émancipation politique, elle mit au point un nationalisme qui, tout en faisant appel au sentiment national des Canadiens, allait aussi et surtout le neutraliser. Centré autour de la Province of Quebec, nom que le conquérant avait donné au Canada dès la Proclamation royale de 1763, ce nationalisme s'opposa résolument au caractère autochtonien de la nationalité canadienne.

 

Au moins deux raisons amenèrent l'Eglise à collaborer avec l'occupant. D'abord, elle se faisait du pouvoir politique une conception théocratique et déracinée. Puisque le Canada avait été cédé à la Grande-Bretagne en vertu d'un accord passé entre deux monarques, qui étaient l'un et l'autre les représentants de Dieu sur terre, on devait alors au roi d'Angleterre la même obéissance que l'on avait accordé au roi de France. Ensuite, la nationalité canadienne, qui avait émergé à la suite d'un contact prolongé avec la Grande Sauvagerie, représentait pour les Français qui venaient s'établir en Nord-Amérique et leurs descendants une façon de couper les ponts avec la Rome catholique. A l'exemple de Marie de l'Incarnation, le clergé se plaignait amèrement: "Un Français devient plutôt sauvage qu'un Sauvage ne devient Français."

 

L'Eglise favorisa donc la construction d'une histoire et d'une sociologie fictives dont les principaux axes furent la francité et la catholicité. On s'en doute bien, l'intériorisation du point de vue français ne pouvait manquer d'être aliénante. C'est ainsi que progressivement l'élite politique et culturelle canadienne évacua, comme le fit la France, le Canada de sa mémoire historique.

 

La fausse nationalité québécoise

 

Au début des années 1960, apparut un nationalisme qui, tout en se voulant nouveau, alla porter cent vingt années d'influence cléricale à son ultime conséquence. Bien loin de s'inspirer de l'Insurrection des Patriotes ou de la Relève des Métis (1869 et 1885), qui furent des moments d'affirmation de la nationalité canadienne, les néo-nationalistes fabriquèrent de toute pièce une nationalité québécoise qui serait exclusive de la nationalité canadienne et qui, de ce fait, entérinerait l'usurpation faite par l'A.N.B. Bien qu'ils proclamaient bien haut la nécessité de l'indépendance politique, les néo-nationalistes la niaient dans les faits puisqu'ils interdisaient le recours à la nationalité canadienne qui parle à la psychè collective et qui seule peut fonder un tel droit.

 

Sans le savoir, les néo-nationalistes, qui étaient souvent des anticléricaux virulents, reprirent l'essentiel de l'ancien nationalisme clérical. Les modifications apportées à celui-ci furent mineures. Ainsi, le terme "Québec" se substitua à celui de "Province" et le "corporatisme social" des années 1930 devient la "sociale démocratie" des années 1970 (13). Si l'Eglise disparut du domaine de l'éducation et des affaires sociales ce fut au profit d'une instance toute aussi maternante: l'Etat technocratique pourvoyeur de services. Pour le reste, les néo-nationalistes continuèrent d'agiter le drapeau à fleurs de lys blanches du clergé, véritable symbole d'abdication nationale.

 

Si la fausse nationalité québécoise a pu exercer un attrait durant un certain moment, c'est justement parce qu'elle promettait de faire accéder un peuple à la souveraineté politique sans avoir à soutenir de combat contre un adversaire identifiable. Après s'être donné une nouvelle identité qui l'exorciserait de tout un passé jugé colonial, il lui suffirait, aux dires du Parti québécois, de pratiquer la "démocratie" et de devenir "moderne" à la manière dont les Anglo-Saxons l'entendent. A leurs yeux, il lui aurait été enfin possible de mériter l'indépendance.

 

Une telle vue de l'esprit soutend une démarche semblable à celle que doit suivre le catéchumène chrétien: on se purifie d'un passé jugé inacceptable en abandonnant le nom de sa lignée et en pratiquant certaines vertus dans le but de se mériter le salut éternel devant Dieu.

 

Les néo-nationalistes ont donc conduit le mouvement indépendantiste du peuple canadien dans l'impasse. Ils n'ont pas voulu comprendre qu'un mouvement de libération nationale est d'abord et avant tout une révolution. Révolution, parce qu'à l'exemple de la conduite d'actions inscrites dans l'histoire, elle exige du courage, au moins celui qui permet de mettre en cause les schémas intellectuels étriqués.

 

Révolution aussi, parce qu'une action inscrite dans l'histoire est toujours  -comme l'indique l'étymologie du terme, revolvere-  un retour aux origines. Or, un peuple ne se maintient dans le monde que parce qu'il actualise constamment son mythe de fondation et sa tradition de lutte nationale.

 

Mario GAGNE.

 

 

NOTES

 

(1) C'est l'opinion du géopoliticien Jordis von Lohausen telle que rapportée dans le "Dossier géopolitique" de la revue  Orientations,  octobre 1980, p. 4.

(2) Voir à ce sujet Louis Rougier dans  La France en marbre blanc,  Bourquin, éd., Genève, 1947, p. 73.

(3) Voir Pierre Maugué dans  "Les origines de la Suisse et la Tradition celtique",  Etudes et recherches,  n°3, automne 1984, p. 3.

(4) Voir Jean-Marc Soyez,  Quand l'Amérique s'appelait Nouvelle-France,  Fayard, Paris, 1981, p.84.

(5) Voir le texte en exergue du livre de Hugh Broody,  The People's Land Eskimos and Whites in the Eastern Arctic,  Penguin Books Ltd., Harmondsworth, 1975.

(6) Voir Alain de Benoist,  Démocratie, le problème,  éd. Le Labyrinthe, Paris, 1985; en particulier les pp. 13, 14 et 15.

(7) Voir Jacques Lafaye,  Quetzalcoatl et Guadeloupe, la formation de la conscience nationale au Mexique, 1531-1813,  Gallimard, 1974.

(8) L'expression est de Hawthorne et elle a été citée par Jean Morisset dans son livre  L'Identité usurpée,  tome I, éd. Nouvelle Optique, 1985, p. 58. Jean Morisset, dont les analyses sont une source d'inspiration féconde, est, avec Raoul Roy, l'un des rares intellectuels canadiens à défendre la nationalité canadienne contre la méprise que constitue la fausse identité québécoise.

(9) voir Jordis von Lohausen,  op. cit., p. 15.

(10) L'Atlas mondial de la découverte  préparé par Gérard Chaliand et Jean-Pierre Rageau (Fayard, Paris, 1984) est caractéristique de l'attitude déconcertante des Français envers le Canada. Alors qu'ils décrivent avec soin les explorations effectuées par les Espagnols, les Portugais et les Anglais en Amérique, aucune allusion n'est faite quant aux pérégrinations des explorateurs français et canadiens dans le nouveau monde. Même les voyages de Jacques Cartier sont ignorés. Ces deux géopoliticiens, qui ne peuvent avoir pour eux l'excuse de l'ignorance, se sont donc conformés aux vœux des Anglo-Saxons qui ont toujours combattu la présence de la France en Nord-Amérique.

(11) Le très beau livre de Jean-Marc Soyez  (op. cit.),  qui se lit comme un roman, est l'un des rares ouvrages français qui présente l'Amérique à la France et à l'Europe; il y a tout lieu de croire qu'il n'a pu être écrit que dans le contexte de la présidence du Général de Gaulle.

(12) Les dirigeants du mouvement des Patriotes étaient fascinés par les tentatives de "retour à l'antiquité" effectuées par la Révolution française. Un Ludger Duvernay, fondateur et directeur du journal  La Minerve,  puisait ses modèles politiques dans la démocratie athénienne ou dans la République romaine.

(13) Sur les liens de parenté existant entre les deux nationalismes, voir Clinton Archibald,  Un Québec corporatiste?,  éd. Asticou, Hull, 1983. 

mercredi, 03 mars 2010

La OTAN le dicta a la Union Europea su relacion con Turquia

La OTAN le dicta a la Unión Europea su relación con Turquía

La UE debe suscribir un acuerdo bilateral en materia de seguridad, entre otros asuntos.- Catherine Ashton no asiste a la reunión

otan-turquie-copie.jpgEn materia de defensa, la OTAN -es decir, EE UU- sigue siendo quien manda. Así ha quedado de manifiesto en la reunión informal que los ministros de Defensa de la UE celebran en Palma de Mallorca. En ausencia de la Alta Representante para la Política Exterior y de Seguridad, Catherine Ashton, que ha preferido asistir a la toma de posesión del nuevo presidente ucranio, la estrella de la reunión ha sido el secretario general de la OTAN, Anders Fogh Rasmussen.

Su primera intervención en un encuentro de este tipo no se ha limitado, como se esperaba, a abordar las relaciones entre las dos organizaciones. Rasmussen se ha presentado ante los ministros europeos como el embajador de los intereses de Turquía y les ha dicho cómo deben tratar a este país islámico, miembro de la OTAN y eterno aspirante a entrar en la UE. A saber: la UE debe suscribir un acuerdo bilateral en materia de seguridad con Turquía; debe establecer mecanismos de cooperación entre Turquía y la Agencia Europea de Defensa (AED); y debe permitir que los países que participan en operaciones militares de la UE sin pertenecer a la misma intervengan en la toma de decisiones. Por si hubiera duda, ha aclarado que Turquía es el segundo contribuyente de la misión de la UE en Bosnia. Tras admitir que “se trata de un tema sensible”, ha agregado que ello “no debe servir como excusa”.


Rasmussen ha asegurado que la discusión con los ministros europeos ha sido “muy fructífera”, pero ha evitado responder si Chipre está dispuesta a dar un papel mayor en la Unión al país que ocupa el norte de su territorio desde 1974. Respecto a la ausencia de Asthon, ha asegurado que ya ha abordado este asunto con ella y que “está muy a favor de reforzar la cooperación con la OTAN”.

Preguntado por las declaraciones del jefe del Pentágono, Robert Gates, quien ha lamentado la “desmilitarización” de Europa, Rasmussen ha recordado que los europeos aportarán 10.000 soldados a Afganistán a petición de Obama, pero ha admitido que “hay un problema por la falta de capacidad [militar] en Europa”. Ha calificado de “éxito” la ofensiva en la provincia afgana de Helmand y ha dicho que “servirá como ejemplo para operaciones futuras”.

La reunión de Palma ha concluido sin que los siete países socios del avión de transporte europeo A400M (Alemania, Francia, Reino Unido, España, Turquía, Bélgica y Luxemburgo) certificaran el “principio de acuerdo” anunciado por la ministra española, Carme Chacón . El comunicado oficial es más cauto y sólo constata que se ha producido “un avance significativo en las conversaciones”. Lo cierto es que la empresa fabricante, EADS, ha aceptado la última oferta de los gobierno para compensarla por el sobrecoste del proyecto: 2.000 millones a fondo perdido y 1.500 en créditos. Aún quedan, sin embargo, notables flecos; como saber qué países participarán en el préstamo y en qué condiciones. Chacón subrayó la “voluntad inequívoca” y unánime de ir adelante con el A400M y su impresión de que “pronto” se cerrará el acuerdo.

Miguel González

Extraído de El País.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 26, 2010.

Le nouveau site d'Ayméric Chauprade

chauprade_geopolitique.jpg

 

La géopolitique exposée par Aymeric Chauprade

Un nouveau site:

 http://realpolitik.tv/

 

Aymeric Chauprade, dont Polémia a largement développé les mesures de disgrâce qu’ils l’ont frappé voilà un an, annonce le lancement de realpolitik.tv, un site dédié à l’analyse géopolitique qui rassemble des contenus et audiovisuels. Déjà à la pointe de l’actualité internationale, on y trouve dès maintenant une excellente analyse Nouvelle doctrine de défence russe, sous la plume de Xavier Moreau, qui, en contrepoint des articles généralement destructeurs de la grande presse sur tout ce qui concerne la Russie, permet de comprendre mieux ce qui a amené la Russie à adopter sa nouvelle doctrine de défense en désignant comme ennemis principaux et immédiats les Etats-Unis et l’OTAN.

Polémia ne peut que conseiller à ses lecteurs, intéressés par la géopolitique, de mettre ce nouveau site dans la liste de leurs favoris et de le visiter régulièrement. Ils y trouveront des informations et des explications pertinentes aux grands événements mondiaux.

Polémia

 

J’ai le plaisir de vous annoncer le lancement de realpolitik.tv, un site dédié à l’analyse géopolitique qui rassemble des contenus écrits et audiovisuels.

Les intervenants sont tous des spécialistes de géopolitique d’une aire géographique (Europe, États-Unis, Chine, Russie, Amérique Latine, Afrique…) ou d’un thème (questions maritimes, énergétiques…). Issus d’horizons variés, ils s’attachent à développer une pensée indépendante et attentive aux réalités des peuples et des civilisations. Le choix du terme realpolitik signifiant simplement que nous tentons de comprendre et d’expliquer le monde tel qu’il, non tel qu’on voudrait qu’il soit.

Le site n’est pas payant, et n’a pas vocation à le devenir. Il débute son activité, il est donc loin d’avoir atteint son plein régime et vous aurez bien conscience, lors de votre première consultation, que le contenu va s’enrichir de nombreux articles et de nombreuses vidéos. Vous pouvez nous adresser vos critiques et suggestions en nous écrivant directement à l’adresse contact@realpolitik.tv.

Je vous en remercie par avance. Bienvenue dans le monde des réalités identitaires !

Aymeric Chauprade, directeur du site

 

Correspondance Polémia

25/02/2010

Polémia

A chi giova la bancarotta della Grecia?

griekse_vlag.jpg

A chi giova la bancarotta della Grecia?

Di fronte al disastro monetario greco, Bruxelles confida nella Germania

Ugo Gaudenzi

La crisi del debito pubblico della Grecia sta provocando lo sconquasso dell’eurocrazia. Su Bruxelles in panne fioccano infatti le analisi soddisfatte d’Oltremanica e i continui rimbrotti su e contro i “PIGS”. (Abbiamo già accennato al significato di “pigs”. Come si sa gli anglosassoni e i loro cortigiani hanno il debole per gli acronimi: così il termine non certo “neutrale “pigs” (porci nella lingua d’Albione) accomuna le nazioni Ue “deboli” o inadempienti ai parametri di Maastricht sul rapporto debito-pil e sulla “stabilità forzata” decretata dalle elites burocratiche nell’articolo 125 del trattato di Lisbona: p come Portogallo, i come Italia, g come Grecia, s come Spagna, oltre al corollario di una possibile doppia i per includere anche l’Irlanda).
Vediamo di chiarire quanto accade. In tre mesi, da qui al 15 maggio, l’Ue dei “Sedici” dovrà mettere in esecuzione un piano di sostegno alla Grecia perché possa evitare la bancarotta. In questo trimestre Atene è chiamata a operare un prelievo forzoso dalle tasche dei suoi cittadini e a programmare una consistente riduzione dell’indebitamento. Bruxelles, come deciso dai ministri ecofin ed esplicitato dal commissario Olli Rehn, cercherà per parte sua di delineare un piano di aiuti finanziari per sostenere la Grecia. In quanto a cifre i dati sono più che conosciuti: nel 2010 il rapporto pil-indebitamento sarà per la Grecia pari al 121 per cento, con un deficit ulteriore di oltre 300 miliardi di euro.
Di fronte al disastro monetario greco, a Bruxelles si sta premendo sulla “locomotiva tedesca” perché guidi la “squadra di soccorso”. Ma per Berlino non è affatto un onore, questo, ma un onere difficilmente accettabile.
Sia perché è escluso dagli stessi elementi fondativi dell’unione monetaria europea (e dai dettati dei due trattati fondanti, Maastricht e Lisbona) che un Paese membro si faccia carico della stabilità dell’eurozona con accordi di sostegno a chi è in crisi. E sia perché la lenta ripresa tedesca difficilmente potrebbe sopportare nuovi carichi e zavorre esterne. D’altra parte, proprio per evitare tali ripercussioni, i padri fondatori di quel mostro che è l’Unione europea – un’eurocrazia non eletta, priva di sovranità, priva di unità politica - avevano delegato ad un ente terzo – la Bce - la politica monetaria dell’Europa dell’euro, per lavarsi le mani da ogni obbligo di direttiva economica.
E non è certo tutto. La possibilità di una reazione a catena che destabilizzi totalmente l’eurozona è appena dietro l’angolo.
Il Fondo monetario internazionale – che di usura monetaria se ne intende – di recente ha stilato la sua consueta pagella sui “Paesi cattivi del mondo” in quanto a stabilità monetaria ed ha indicato le varie necessità di “inasprimento fiscale”, nazione per nazione, al solo fine di mantenere lo status quo governando l’indebitamento. E’ interessante notare che in cima alle classifiche si ergano Gran Bretagna e Giappone, per i quali il Fmi propone inasprimenti fiscali, nel 2010, pari al 13% del pil. Seguono a ruota Irlanda, Spagna e Grecia (9%) e quindi gli Usa (8,8%). Per l’Italia si parla della “necessità di alzare le tasse” di un altro 8 per cento…
Già. Gli Usa. Gli “spendaccioni del mondo”, quelli che hanno riempito di carta-straccia (banconote), le casseforti cinesi e che veleggiano impavidi sull’onda di un deficit di 1500 miliardi di dollari che, con la cura Obama, accumula ulteriori 300 miliardi di interessi annuali da pagare. Con un surplus di emissioni statali in scadenza per un trilione di dollari all’anno (mille miliardi di dollari), difficilmente assestabili con un risparmio dei cittadini caduto dal 2008 a livelli infimi.
Gli Usa, quelli che da tempo immemore – la Grande Depressione – usano a loro piacimento i cambi del dollaro per abbassare i costi delle importazioni di materie prime o, al contrario, per far crescere la redditività delle proprie esportazioni di brevetti, royalties, beni e servizi…
Quelli che stanno lucrando in queste settimane appunto, sulla crisi dell’eurozona, attirando investitori e risparmi oltreoceano, grazie alla totale mancanza di sovranità nazionale ed economica europea. Il tallone di Achille, voluto, costruito a tavolino a Maastricht e quindi a Lisbona, per assoggettare “l’area di libero scambio” che qualcuno si affanna a definire “Europa” ai desiderata del momento degli Stati Uniti d’America,
Una bancarotta greca val bene la sopravvivenza dei Padri Fondatori.
 


19 Febbraio 2010 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=783

G. Faye: Simulierte Heterogenität

Simulierte Heterogenität

Ex: http://rezistant.blogspot.com/
guillaume-faye.jpgNicht zuletzt den provokanten Büchern Guillaume Fayes verdanken wir, dass die Verwirrung um den uns so vertrauten Gegensatz von Konservatismus und Fortschritt zunimmt. Bereits in seinem furiosen Einstandswerk "Le Système a tuer les peuples" (Paris: Copernic, 1981) erwies sich Faye als dynamischer Denker der neuen Kultur, der gegen den totalitären Merkantilismus in humanitaristischem Gewande kämpft und für die Rechte der Völker - aller Völker! - eintritt. Er plädierte für Selbstbestimmung, kulturelle Identität und ein Recht auf Anderssein. Damals zeigte er den vollzogenen Übergang unserer Gesellschaften von der Zivilisation zum "System": Unser Dasein - so Faye - ist geprägt von der morbiden, systembedingten Amerikanosphäre, einem Zustand sozialer Entropie.

Auch in seinem Buch über die Neue Konsumgesellschaft - für Faye kurz "La NSC" - setzt sich der Autor mit Rationalismus und Egalitarismus auseinander. Zwar erfährt der Leser wenig über eine pragmatische Zielorientierung, mit der die Krise der Gegenwart überwunden werden soll. Jedoch wird der Widerspruch, den seine Ausführungen auslösen können, ein Indikator dafür sein, wann unsere Krise zu Ende gedacht und gelebt wird.

Faye beherrscht die a-moralische Sichtweise; daher die Präzision seiner Beobachtungen. Er erkennt Hedonismus und Konsummanie als kardinale Werte der Neuen Konsumgesellschaft und liefert anschauliche Beispiele dafür, dass der Beginn des Zeitalter des homo consummans (gefülltes Portefeuille kombiniert mit kleinbürgerlichem Geist) hinter uns liegt. Ihm gelingt es, den Begriff der Lebensqualität und das Dogma des ökonomischen Wohlstands einer luziden Kritik zu unterziehen. Lebensintensität wird von der Neuen Rechten zur Tugend zukünftigen Menschseins erkoren.

Fayes Kernausse, durchaus ein Ansatz zu einer kritischen Theorie, lautet: Wo früher vertikale (regionale, nationale) Differenzen vorherrschten, dominiert heute - Folge des Egalitarismus - eine horizontale, nur simulierte Heterogenität. Diese löste eine soziologisch heterogene und kulturell gemeinsame Gesellschaftsstruktur ab. Unsere Zivilisation, das System, ist hingegen soziologisch homogen und gerade kulturell atomisiert. Faye sieht die Neue Konsumgesellschaft als gigantisches Theater; Konflikten drohe die Unbegrenzbarkeit.

Was tun? Ohne Eskalaton werde es keine historische Erneuerung geben. Möglich, dass Faye sich als positiver Nihilist einer postmodernen Neuen Rechten verstanden wissen will. Seine symbolträchtige Anlehnung an den Gott Dionysos - dionysische Freuden sind Fayes Programm für die Posthistoire - will nachvollzogen sein: Denn der fernen Rückkehr des Apoll gilt es zu harren. Für Autor und Leser keine ungefährle Aporie; nicht alle Triebhaftigkeiten des Gehirns bewahren die Maske einer Errungenschaft des Geistes.

Aufmerksamkeit ruft Fayes Rezeption der unorthodoxen Soziologen Jean Budrillard und Michel Maffesoli hervor. Im westlichen Nachbarland verlieren Links-Rechts-Schemata ihre Argumentationswirkung. Die Mühe lohnt, über subtile Grenzüberschreitungen nachzudenken. Erste Reflexionen ergeben ein faszinierendes Relief.

Guillaume Faye, La NSC - La Nouvelle Société de Consommation. Le Labyrinthe, Paris 1984. Buchbesprechung in: DESG-inform, 3/85.