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lundi, 02 novembre 2015

Baath, storia del partito che ha costruito la Siria

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Baath, storia del partito che ha costruito la Siria

Da Hafez a Bashar Al Assad, l'ultimo gruppo politico "panarabo" si è rinnovato pur conservando i suoi valori socialisti e patriottici, tradizionalisti e laici, anti-colonialsti e identitari.
 
 
Ex: http://www.linttelletualedissidente.it
 

In Medio Oriente, nell’universo politico di cultura laica, sono tante e spesso in conflitto tra loro, le personalità che si sono elevate al di sopra delle nazioni per incarnare l’ideale panarabo. Ahmed Ben Bella in Algeria, Gamal Abdel Nasser in Egitto, Saddam Hussein in Iraq, Muammar Gheddafi in Libia, Hafez Al Assad in Siria. Gli uomini passano, le idee restano. Di fronte ai grandi sconvolgimenti della regione, il più delle volte rimodellata dall’esterno, un solo gruppo politico è riuscito a conservarsi nel tempo e a mantenere viva la fiamma di un pensiero politico che ancora oggi appare profondamente attuale. È la storia del Baath, il partito che attualmente governa in Siria e che fa capo al presidente Bashar Al Assad.

Nato nel Rashid Coffee House di Damasco (divenuto successivamente il Centro Culturale Sovietico), dove ogni venerdì un gruppo di giovani studenti provenienti da tutto il Paese – comprese le piccole delegazioni di Giordania, Libano e Iraq – il Baath si riunisce intorno aMichel Aflaq (1910-1989) e Salah Al Bitar (1912-1980), due insegnanti damasceni, rispettivamente di confessione cristiana e islamica, che si erano conosciuti a Parigi quando frequentavano le aule universitarie della Sorbona. Il primo nucleo si costituisce negli anni Quaranta sulle note di Nietzsche, Marx e del romanticismo tedesco, ma l’ufficializzazione del partito si colloca nel 1947 dopo un incontro tra i vertici a Latakia in cui è raggiunto l’accordo sia sul programma politico che sul nome da dare allo schieramento nascente: Baath, ovvero, Partito della Resurrezione araba. Al congresso costitutivo la maggior parte dei delegati sono di estrazione borghese, principalmente notabili delle campagne, e di confessione drusa e alawita, anche se poi saranno sempre di più i cristiani e i sunniti che vi aderiranno.

baath33904400000.jpgCosì mentre si delinea lo scenario di una Guerra Fredda articolata sulla contrapposizione tra due blocchi, quello statunitense e quello sovietico, i teorici Aflaq e Al Bitar mirano a edificare un’ideologia esclusivamente araba che si smarca sia dal capitalismo imperialista che dal marxismo internazionalista e che allo stesso tempo riesca a conciliare laicità, tradizione islamica, socialismo e nazionalismo. Patrick Seale, giornalista irlandese e biografo di Hafez Al Assad scrive ne Il Leone di Damasco parafrasando la dottrina del partito: “La nazione araba, insegna Aflaq, è millenaria, eterna ed unica, risale all’inizio dei tempi e ha davanti a sé un ancor più luminoso futuro. Per liberarsi dall’arretratezza e dall’oppressione straniera, gli arabi devono avere fede nella loro nazione ed amarla senza riserve”.

Michel Aflaq formula così le parole di battaglia e le trasmette al popolo siriano durante le conferenze e tramite gli opuscoli distribuiti in tutto il Paese dai giovani militanti che si organizzano capillarmente in cellule e sezioni. Nel 1953 il Baath fallisce il primo tentativo di colpo di Stato, ma riesce a ramificarsi in tutti i Paesi della regione, principalmente in Iraq. E paradossalmente proprio in Iraq, nel 1963, riesce a conquistare il potere facendo cadere il regime di Abd al Karim Qaem, (il governo baathista durò pochi mesi per poi consolidarsi soltanto qualche anno dopo, nel luglio del 1968, con Ahmed Hasan Al Bakr), aprendo tuttavia la strada a un parallelo capovolgimento in Siria. Nello stesso anno il Baath siriano fu portato al potere dai militari e da essi ricevette il consenso per rimanervi. Fu intrapreso immediatamente un percorso per lo sviluppo del cosiddetto socialismo arabo, tentando di liquidare le basi economiche della vecchia élite ancora legate all’occupazione inglese e francese. Fu applicata la riforma agraria, furono nazionalizzate banche (1963), aziende commerciali e industriali (1965).

Mentre in Iraq, nel novembre del 1963, i militari posero fine al regime bathista, in Siria continuò, pur con tanti problemi interni. Inizialmente fu l’ideatore sunnita Al Bitar ad occupare il potere (1966), poi però fu estromesso dall’ala radicale del partito che decise di espellerlo dal Paese insieme all’altro ideatore Michel Aflaq, il quale si rifugiò in Iraq dove contribuì alla conquista dello Stato nel 1968 (questo esilio fu, oltre all’inimicizia personale tra Hafez Al Assad e Saddam Hussein, uno dei motivi della rottura tra il Baath siriano e quello iracheno). L’espulsione dei due padri fondatori consacrava un nuovo corso: il Baath siriano assunse un carattere più nazionale, se non più alawita, conservando l’ideale “panarabo” come strumento di legittimazione nell’intera regione. Ma la vera svolta avviene nel febbraio del 1971 quando i dirigenti del partito e l’ala militare affidarono il potere ad un uomo che si era fatto spazio nella classe politica, Hafez Al Assad, primo presidente alawita della storia siriana, che orientò immediatamente il Paese verso l’Unione Sovietica, attuò una politica economica di natura socialista e tutelò la laicità dello Stato. Pur dichiarandosi promotore della tradizione islamica nel Paese, tre dei suoi fedelissimi, Jubran Kurieyeh, Georges Jabbur ed Elyas Jibranerano, erano di religione cristiana.

Ma chi era il padre di Bashar? Il generale Hafez Al Assad (1930-2000), nacque a Qardaha, nell’area di Latakia, terzogenito di una famiglia alawita. Svolse i suoi studi primari nel suo villaggio, quelli secondari a Latakia, e nel 1946 si iscrisse al nascente partito Bath, facendosi notare nel 1951 per aver presieduto il congresso degli studenti. Più avanti si iscrisse alla scuola militare di Homs e, appena uscito nel 1955 con il grado di tenente, diventò pilota alla scuola aviatoria di Aleppo. Dopo una serie di vicissitudini interne al Baath e una serie di colpi di Stato falliti (1961, 1963 e 1966) in cui partecipò in prima persona, Hafez al Assad, che acquistò sempre più peso politico, entrò nella direzione del partito nel 1969 e assunse la carica di ministro della difesa nel maggio del 1969. Fu eletto presidente della Repubblica Araba Siriana nel 1970. Con sistemi a volte brutali – tra questi il bombardamento di Hama nel 1982 – riuscì a dare autorevolezza e dignità ad un Paese che in quegli anni era diventato probabilmente il più importante protagonista del Medio Oriente.Giulio Andreotti, che fu uno degli uomini più popolari in quella regione, rimase affascinato dall’omologo siriano. Le autorità sovietiche lo consideravano il miglior alleato nel mondo arabo. Bill Clinton dopo averlo incontrato nell’ottobre 1994 lo definì “duro ma leale”. Il giornalista irlandese Patrick Seale, morto l’anno scorso all’età di 84 anni, è stato il suo “biografo” occidentale. Nel suo libro pubblicato nel 1988, intitolato Il Leone di Damasco(Gamberetti editrice), ritrae fedelmente la figura di un uomo che nel bene e nel male, attraverso il figlio Bashar Al Assad, fa ancora parlare di sé e dell’ideale “panarabo”.

Articolo pubblicato su Il Giornale

dimanche, 01 novembre 2015

Crise syrienne, paysage intellectuel français et «Grand Remplacement»

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Crise syrienne, paysage intellectuel français et «Grand Remplacement»

Entretien avec Robert Steuckers

Propos recueillis par Adriano Scianca pour « Primato nazionale »

1.     Que pensez-vous de la manière dont l'Europe a géré la crise de l'immigration suite à la crise syrienne?

L’Europe est inexistante en tant que puissance politique qui compte dans la région hautement stratégique qu’est le Levant. Elle n’a su ni impulser une politique de stabilité qui aurait joué dans son intérêt le plus légitime ni faire face aux catastrophes que l’intervention des Etats-Unis et de leurs alliés dans la région ont entraînées. Parmi ces catastrophes, la plus visible aujourd’hui en Europe, de la Grèce à l’Allemagne en passant par tous les pays des Balkans, est bien sûr cet afflux massif de réfugiés que les Etats européens ne sont pas capables d’intégrer à l’heure d’un certain ressac de l’économie européenne, perceptible même en Allemagne. L’intérêt de l’Europe aurait été de maintenir la stabilité au Levant et en Irak. C’était le point de vue du fameux « Axe Paris-Berlin-Moscou » qui s’était insurgé contre l’intervention de Bush en Irak en 2003. Les Etats-Unis, qui ne sont pas une puissance romaine au sens classique du terme et au sens où l’entendait Carl Schmitt, ne font donc pas comme Rome, ils n’apportent ni « pax romana » ni « pax americana » mais génèrent le chaos, auquel les populations essaient tout naturellement d’échapper, au bout d’une douzaine d’années voire d’un quart de siècle si l’on tient compte de la première intervention en Irak en 1990. Ces pays, jadis structurés selon les principes de l’idéologie baathiste (personnaliste, transconfessionnelle et étatiste), avaient le mérite de la stabilité et faisaient l’admiration d’un grand diplomate néerlandais, Nikolaos Van Dam, docteur en langue et civilisation arabes, qui a consacré un ouvrage en anglais à la Syrie baathiste qui mériterait bien d’être traduit en toutes les grandes langues d’Europe. Cette stabilité, maintenue parfois avec rudesse et sévérité, a été brisée : on a cassé la forme d’Etat qui finissait vaille que vaille par s’imposer dans une région, soulignait aussi Van Dam, marquée par le tribalisme et allergique à cette forme étatique et européenne de gestion des « res publicae ». L’Europe a fait du « suivisme », selon la formule d’un observateur flamand des relations internationales, le Prof. Rik Coolsaet. Elle a benoîtement acquiescé aux menées dangereuses et sciemment destructrices de Washington, puissance étrangère à l’espace européen et à l’espace du Levant et de la Méditerranée orientale. Elle paie donc aujourd’hui les pots cassés car elle est la voisine immédiate des régions où l’hegemon-ennemi a semé le chaos. Celui-ci cherche à éviter ce que j’appellerais la « perspective Marco Polo », la cohésion en marche des puissances d’Eurasie (Europe, Russie, Inde, Chine), par le truchement des télécommunications, des nouvelles voies maritimes et ferroviaires en construction ou en projet, du commerce, etc. Par voie de conséquence, l’hegemon hostile doit mener plusieurs actions destructrices, « chaotogènes » dans les régions les plus sensibles que les géopolitologues nomment les « gateway regions », soit les régions qui sont des « passages stratégiques » incontournables, permettant, s’ils sont dominés, de dynamiser de vastes espaces ou, s’ils sont neutralisés par des forces belligènes, par un chaos fabriqué, de juguler ces mêmes dynamismes potentiels. La Syrie et le Nord de l’Irak sont une de ces « gateway regions » et l’étaient déjà au moyen-âge car ce Levant, avec sa projection vers l’hinterland mésopotamien, donnait accès à l’une des routes de la soie, menant, via Bagdad, à l’Inde et la Chine. L’Ukraine est une autre de ces « gateway regions ». L’abcès de fixation du Donbass est un verrou sur la route du nord, celle empruntée, avant la première croisade d’Urbain II, par les Coumans turcs, tandis que leurs cousins seldjouks occupaient justement les points-clefs du Levant, dont on reparle aujourd’hui : cette tenaille turque, païenne au nord et musulmane au sud, barrait la route de la soie, la voie vers l’Inde et la Chine, enclavait l’Europe à l’Est et risquait de la provincialiser définitivement.

Par ailleurs, dans un avenir très proche, d’autres zones de turbulences pourront éclore autour de l’Afghanistan, non pacifié, dans le Sinkiang chinois, base de départ d’une récente vague d’attentats terroristes en Chine, en Transnistrie/Moldavie ou ailleurs. L’Europe, dans cette perspective, doit être cernée par des zones de turbulence ingérables, afin qu’elle ne puisse plus se projeter ni vers l’Afrique ni vers le Levant ni vers l’Asie centrale au-delà de l’Ukraine. L’Europe a la mémoire courte et ses établissements d’enseignement ne se souviennent plus ni de Carl Schmitt (surtout le théoricien du « grand espace » et le critique des faux traités pacifistes dictés par les Américains) ni surtout du géopolitologue Robert Strausz-Hupé (1903-2002) qui, pour le compte de Roosevelt et de Truman, percevait très clairement les atouts de la puissance européenne (allemande à son époque), que toute politique américaine se devait de détruire. Ces atouts étaient, entre bien d’autres choses, l’excellence des systèmes universitaires européens, la cohésion sociale due à l’homogénéité des populations et la qualité des produits industriels. Le système universitaire a été détruit par les nouvelles pédagogies aberrantes depuis les années 60 et par ce que Philippe Muray appelait en France l’idéologie « festiviste » ; l’homogénéité des populations est sapée par des politiques migratoires désordonnées et irréfléchies, dont l’afflux massif de ces dernières semaines constitue l’apothéose, une apothéose qui détruira les systèmes sociaux exemplaires de notre Europe, qui seront bientôt incapables de s’auto-financer. Les Européens seront dès lors dans l’impossibilité de consacrer des budgets (d’ailleurs déjà insuffisants ou inexistants) à l’insertion de telles quantités de nouveaux venus. L’Europe s’effondre, perd l’atout de son excellent système social et ne peut plus distraire des fonds pour une défense continentale efficace ou pour la « recherche & développement » en technologies de pointe. Avec le scandale Volkswagen, qui verra le marché américain lui échapper, un coup fatal est porté à l’industrie lourde européenne. La boucle est bouclée.

2.     Partout en Europe des mouvements hostiles à l'immigration ont beaucoup de succès. Dans bon nombre de ces cas, cependant, ces partis n'ont pas très clairement compris qu’attaquer l'immigration sans se battre contre la vision du monde libérale et les mécanismes du capitalisme est une bataille qui ne touche pas les racines du Système. Que pensez-vous?

Votre question pointe du doigt le problème le plus grave qui soit : effectivement, les succès récents de partis ou mouvements hostiles à cette nouvelle vague migratoire, considérée comme ingérable, sont dus à un facteur bien évident : les masses devinent inconsciemment que les acquis sociaux des combats socialistes, démocrates-chrétiens, nationalistes, communistes et autres, menés depuis la fin du 19ème siècle, vont être balayés et détruits. Le paradoxe que nous avons sous les yeux est le suivant : depuis 1979 (année de l’accession au pouvoir de Thatcher en Grande-Bretagne), la vogue contestatrice de l’Etat keynésien, jugé trop rigide et mal géré par les socialistes « bonzifiés » (Roberto Michels), a été la vogue néolibérale, mêlant, en un cocktail particulièrement pernicieux, divers linéaments de l’idéologie libérale anti-étatique et anti-politique. Une recomposition mentale erronée s’est opérée : elle a injecté dans toutes les contestations des déviances et errements politiques régimistes une dose de néolibéralisme, dorénavant difficilement éradicable. Quand ces partis et mouvements anti-immigration acquièrent quelque pouvoir, même à des niveaux assez modestes, ils s’empressent de réaliser une partie du vaste programme déconstructiviste des écoles néolibérales, préparant de la sorte l’avènement d’horreurs comme le Traité transatlantique qui effacera toute trace des Etats nationaux et tout résidu d’identité populaire et nationale. On combat l’immigration parce qu’on l’accuse de porter atteinte à l’identité mais on pratique des politiques néolibérales qui vont bientôt tuer définitivement toute forme d’identité. Le combat contre le néolibéralisme et ses effets délétères doit être un combat socialiste et syndicaliste musclé (retour à Sorel et Corridoni), pétri, non plus des idées édulcorées et dévoyées des pseudo-socialistes actuels, mais des théories économiques dites « hétérodoxes », dérivées de Friedrich List, des écoles historiques allemandes et de l’institutionnalisme américain (Thorstein Veblen). Parce que ces écoles hétérodoxes ne sont pas universalistes mais tiennent compte des contextes religieux, nationaux, civilisationnels, culturels, etc. Elles ne théorisent pas un homme, un producteur ou un consommateur abstrait mais un citoyen ancré dans une réalité léguée par l’histoire. Etre en rébellion contre le système, négateur des réalités concrètes, postule d’être un hétérodoxe économique, qui veut les sauver, les réhabiliter, les respecter.

3.     Que pensez-vous des positions actuelles, plus ou moins «identitaires» des intellectuels comme Zemmour, Onfray, Houellebecq, Finkielkraut, Debray?

Tous les hommes que vous citez ici sont bien différents les uns des autres : seuls les praticiens sourcilleux de la médiacratie contrôlante et du « politiquement correct » amalgament ces penseurs en une sorte de nouvel « axe du mal » au sein du « paysage intellectuel français » (PIF). Zemmour dresse un bilan intéressant de la déconstruction de la France au cours des quatre dernières décennies, déconstruction qui est un démantèlement progressif de l’Etat gaullien. En ce sens, Zemmour n’est pas un « libéral » mais une sorte de personnaliste gaullien qui estime qu’aucune société ne peut bien fonctionner sans une épine dorsale politique.

 

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Onfray a toujours été pour moi un philosophe plaisant à lire, au ton badin, qui esquissait de manière bien agréable ce qu’était la « raison gourmande », par exemple, et insistait sur l’homme comme être de goût et non pas seulement être pensant à la façon de Descartes. Onfray esquissait une histoire alternative de la philosophie en ressuscitant des filons qu’une pensée française trop rationaliste avait refoulés ou qui ne cadraient plus avec la bien-pensance totalitaire inaugurée par Bernard-Henry Lévy à la fin des années 70, période où émerge le « politiquement correct » à la française. Plus récemment, Onfray a sorti un ouvrage toujours aussi agréable à lire, intitulé « Cosmos », où il apparaît bien pour ce qu’il est, soit un anarchiste cosmique, doublé d’un nietzschéen libertaire, d’un avatar actuel des « Frères du Libre Esprit ». Certaines de ses options le rapprochent des prémisses organicistes, dionysiaques et nietzschéennes de la fameuse « révolution conservatrice » allemande, du moins dans les aspects non soldatiques qu’elle a revêtus avant la catastrophe de 1914. D’où un certain rapprochement avec la nouvelle droite historique, observable depuis quelques jours seulement.

 

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Houellebecq exprime, mieux que personne en Europe occidentale aujourd’hui, l’effondrement moral de nos populations, leur dé-virilisation sous les coups de butoir d’un féminisme exacerbé et délirant, ce qui explique, notamment, le succès retentissant de son ouvrage Soumission aux Etats-Unis. Houellebecq se déclare affecté lui-même par la maladie de la déchéance, qui, qu’on le veuille ou non, fait l’identité européenne actuelle, radical contraire de ce que furent les fulgurances héroïques et constructives de l’Europe d’antan. L’homo europaeus actuel est un effondré moral, une loque infra-humaine qui cherche quelques petits plaisirs furtifs et éphémères pour compenser le vide effroyable qu’est devenue son existence. Pour retrouver une certaine dignité, notamment face à ce féminisme castrateur, cet homo europaeus pourrait, pense Houellebecq, se soumettre à l’islam, le terme « islam » signifiant d’ailleurs soumission à la volonté de Dieu et aux lois de sa création. Ce passage à la « soumission », c’est-à-dire à l’islam, balaierait le féminisme castrateur et redonnerait quelque lustre aux mâles frustrés, où ceux-ci pourraient reprendre du poil de la bête dans une Oumma planétaire, agrandie de l’Europe.

Le parcours de Finkielkraut est plus étonnant, dans la mesure où il a bel et bien fait partie de ces « nouveaux philosophes » de la place de Paris, en lutte contre un totalitarisme qu’ils jugeaient ubiquitaire et dont ils étaient chargé par la « Providence » ou par « Yahvé » (Lévy !) de traquer les moindres manifestations ou les résurgences les plus ténues. Ce totalitarisme se percevait partout, surtout dans les structures de l’Etat gaullien, subtilement assimilé, surtout chez Bernard-Henri Lévy, à des formes françaises d’une sorte de nazisme omniprésent, omni-compénétrant, toujours prêt à resurgir de manière caricaturale. Ces diabolisations faisaient le jeu du néolibéralisme thatchéro-reaganien et datent d’ailleurs de l’avènement de celui-ci sur les scènes politiques britannique et américaine. Finkielkraut a été emblématique de ces démarches, surtout, rappelons-le, lors de la guerre de l’OTAN contre la Serbie. Finkielkraut avait exhumé des penseurs libéraux serbes du 19ème siècle inspirés par le philosophe différentialiste allemand Herder, pour démontrer de manière boiteuse, en sollicitant les faits de manière pernicieuse et malhonnête, que deux de ces braves philologues serbes, espérant se débarrasser du joug ottoman, étaient en réalité des précurseurs du nazisme (encore !). Ce travail de Finkielkraut était d’autant plus ridicule qu’au même moment, à Vienne, un journaliste très connu, Wolfgang Libal, également israélite mais, lui, spécialiste insigne du « Sud-Est européen », écrivait un ouvrage à grand tirage pour démontrer le caractère éminemment démocratique (national-libéral) des deux philologues, posés comme pionniers de la modernité dans les Balkans !!

9782070415526.jpgAprès son hystérie anti-serbe, Finkielkraut, sans doute parce qu’il prend de l’âge, s’est « bonifié » comme disent les œnologues. Son ouvrage sur la notion d’ingratitude, qui est constitué des réponses à un très long entretien accordé au journal québécois Le Devoir, est intéressant car il y explique que les malheurs de notre époque viennent du fait que l’homme actuel se montre « ingrat » par rapport aux legs du passé. J’ai lu cet entretien avec grand intérêt et beaucoup de plaisir, y retrouvant d’ailleurs une facette de l’antique querelle des anciens et des modernes. Je dois l’avouer même si le Finkielkraut serbophobe m’avait particulièrement horripilé. A partir de cette réflexion sur l’ingratitude, Finkielkraut va, peut-être inconsciemment, sans doute à son corps défendant, adopter les réflexes intellectuels des deux Serbes herdériens qu’il fustigeait avec tant de fureur dans les années 90. Il va découvrir l’« identité » et, par une sorte de tour de passe-passe qui me laisse toujours pantois, défendre une identité française que Lévy avait posée comme une matrice particulièrement répugnante du nazisme !

Debray est un penseur plus profond à mes yeux. Le début de sa carrière dans le paysage intellectuel français date des années 60, où il avait rencontré et accompagné Che Guevara en Bolivie. Cet aspect suscite toutes les nostalgies d’une époque où l’aventure était encore possible. Jean Cau, ancien secrétaire de Sartre (entre 1947 et 1956) qui, ultérieurement,  ne ménagera pas ses sarcasmes à l’encontre des gauches parisiennes, consacrera en 1979 un ouvrage au Che, intitulé Une passion pour Che Guevara ; en résumé, nous avons là l’hommage d’un ancien militant de gauche, passé à « droite » (pour autant que cela veuille dire quelque chose…), qui ne renie pas la dimension véritablement existentielle de l’aventure et de l’engagement pour ses idées, fussent-elles celles qu’il vient explicitement de rejeter. Debray a donc mis, dans une première phase de sa carrière, sa peau au bout de ces idées. Peu ont eu ce courage même si d’aucuns ont cherché plus tard à minimiser son rôle en Bolivie.

51EqyovmguL._SX302_BO1,204,203,200_.jpgDans les années 80, Debray, devenu, plutôt à son corps défendant, faire-valoir du mitterrandisme ascendant, participera à toutes les mascarades de la gauche officielle, en voie de « festivisation » et d’embourgeoisement, où les cocottes et les bobos se piquent d’eudémonisme et se posent en « belles âmes » (on sait ce que Hegel en pensait…). Les actions qu’il mène, je préfère les oublier aujourd’hui, tant elles ont participé des bouffonneries pariso-parisiennes. Mais entre l’épisode du militant guevariste et celle du néo-national-gaulliste d’aujourd’hui, il n’y a pas eu que cette participation à la lèpre républicano-mitterrandiste, il y a eu le passage du Debray militant et idéologue au Debray philosophe et « médiologue » (une science visant à cerner l’impact des « médiations », des images, dont éventuellement celles des médias, sur la formation ou la transformation des mentalités et des aspirations politiques). C’est dans le cadre de ce statut de « médiologue », qui commence en 1993, que Debray va glisser progressivement vers des positions différentes de celles imposées par le ronron médiatique ou le « politiquement correct » des « nouveaux philosophes » (Lévy, etc.) « qui », dit-il, « produisent de l’indignation au rythme de l’actualité ». Debray, comme l’indique alors le titre d’un de ses ouvrages récents, Dégagements, se « dégage » de ses engagements antérieurs, l’espace de la gauche, de sa gauche, ayant été phagocyté par de nouveaux venus qui se disent « occidentaux » et participent à la pratique perverse de la table rase, notamment en Amérique latine : leur travail de sape serait entièrement parachevé si des hommes comme Evo Morales, qu’il qualifie positivement d’« indigéniste », ne s’étaient pas dressés contre son vieil ennemi l’impérialisme américain, appuyé par les bourgeoisies compradores.

Enfin, les révolutions socialistes (et communistes) sont d’abord des nationalismes, écrit-il en 2010 : en dépit de l’omniprésence du Front National dans la vie politique de l’Hexagone, Debray ne craint plus le mot, à l’heure où les nouvelles gauches « néo-philosophiques » perdent et ruinent tout sens historique et basculent dans la moraline répétitive et incantatoire, dans le compassionnel et l’indignation programmée. Debray se déclare aussi « vieux jeu » : ce n’est pas le reproche que je lui ferai ; cependant, l’abus, dans ses œuvres polémiques récentes, est d’utiliser trop abondamment le vocable (également incantatoire) de « République » qui, pour tout observateur non parisien, est un véhicule d’éléments délétères de modernité donc d’ignorance du véritable tissu historique et populaire. De même, sa vision de l’« Etat » est trop marquée par l’idéologie jacobine, figée au fil des décennies depuis le début du 19ème siècle. Ceci dit, ses remarques et ses critiques (à l’adresse de son ancien camp) permettent de réamorcer un combat, non pas pour rétablir la « République » à la française avec son cortège de figements et d’archaïsmes ou un Etat trop rigide, mais pour restaurer ce que Julien Freund, à la suite de Carl Schmitt, nommait « le politique ». Combat qui pourrait d’ailleurs partir des remarques excellentes de Debray sur la « représentation », sur le « decorum », nécessaire à toute machine politique qui se respecte et force le respect : Carl Schmitt insistait, lui aussi, sur les splendeurs et les fastes du catholicisme, à reproduire dans tout Etat, sur la visibilité du pouvoir, antidote aux « potestates indirectae », aux pouvoirs occultes qui produisent les oligarchies dénoncées par Roberto Michels, celles qui se mettent sciemment en marge, se dérobent en des coulisses cachées, pour se soustraire au regard du peuple ou même de leurs propres militants. Schmitt hier, Debray aujourd’hui, veulent restaurer la parfaite visibilité du pouvoir : nous trouvons là une thématique métapolitique offensive qu’il serait bon, pour tous, d’articuler en nouveaux instruments de combat. Debray est sans nul doute une sorte d’enfant prodigue, qui a erré en des lieux de perdition pour revenir dans un espace à l’air rare et vif. L’histoire des idées se souviendra de son itinéraire : nous jetterons dès lors un œil narquois sur les agitations qu’il a commises dans les années 80 dans les allées du pouvoir mitterrandien et vouerons une admiration pour l’itinéraire du « médiologue » qui nous aura fourni des arguments pour opérer une critique de la dictature médiatique et pour rendre au pouvoir sa visibilité, partageable entre tous les citoyens et donc véritablement « démocratique » ou plutôt réellement populiste. Derrière cela, les quelques « franzouseries » statolâtriques et « républicagnanates », qu’il traine encore à ses basques, seront à mettre au rayon du folklore, là où il rangeait lui-même le vieux et caduc « clivage gauche/droite », dans quelques phrases bien ciselées de Dégagements.

4.     Êtes-vous d'accord avec la thèse du Grand Remplacement?

Camus—Identitaires.jpgJe ne considère pas la notion de « Grand Remplacement » comme une thèse mais comme un terme-choc impulsant une réflexion antagoniste par rapport au fatras dominant, comme une figure de rhétorique, destinée à dénoncer la situation actuelle où le compassionnel, introduit dans les pratiques politiques par les nouveaux philosophes, évacue toute éthique de la responsabilité. Vous avez vous-même, en langue italienne, défini et explicité la notion de « Grand Remplacement » (http://www.ilprimatonazionale.it/cultura/grande-sostituzione-32682/ ). Vous l’avez fait avec brio. Et démontré que Marine Le Pen comme Matteo Salvini l’avaient incluse dans le langage politico-polémique qui anime les marges dites « droitières » ou « populistes » des spectres politiques européens d’aujourd’hui. Renaud Camus, père du concept, a le sens des formules, du discours (selon une bonne tradition française remontant au moins à Bossuet). Il est aussi le créateur de deux autres notions qui mériteraient de connaître la même bonne fortune : la notion de « nocence », contraire de l’« in-nocence », puis la notion de « dé-civilisation ». Renaud Camus se pose comme « in-nocent », comme un être qui ne cherche pas à nuire (« nocere » en latin). Les régimes politiques en place, eux, cherchent toujours à nuire à leurs citoyens ou sujets, qu’il haïssent au point de vouloir justement les remplacer par des êtres humains perdus, venus de partout et de nulle part, attirés par les promesses fallacieuses d’un paradis économique, où l’on touche des subsides sans avoir à fournir des efforts ni à respecter des devoirs sociaux ou citoyens. Les établis forment donc le parti de la « nocence », de la nuisance, auquel il faut opposer l’idéal, peut-être un peu irénique, de l’« in-nocence », sorte d’ascèse qui me rappelle tout à la fois le bouddhisme de Schopenhauer, le quiétisme de Gustav Landauer, but de son idéal révolutionnaire à Munich en 1919, et l’économie empathique de Serge-Christophe Kolm, inspiré par les pratiques bouddhistes (efficaces) qu’il a observées en Asie du Sud-est (cf. notre dossier : http://www.archiveseroe.eu/kolm-a118861530 ). Si la « nocence » triomphe et s’établit sur la longue durée, la civilisation, après la culture et l’éducation, s’effiloche, se détricote et disparait. C’est l’ère de la « dé-civilisation », du « refus névrotique de l’héritage ancestral », commente l’écrivain belge Christopher Gérard. Ce pessimisme n’est pas une idée neuve mais, à notre époque, elle constitue un retour du réalisme, après une parenthèse trop longue de rejet systématique et pathologique de nos héritages.

arton70.jpgJe mettrais en parallèle la double idée de Renaud Camus d’une « dé-culturation » et d’une « dé-civilisation » avec l’idée de « dissociété », forgée par le philosophe Marcel De Corte au début des années 50. Pour De Corte, monarchiste belge et catholique thomiste, l’imposition des élucubrations libérales de la révolution française aux peuples d’Europe a conduit à la dislocation du tissu social, si bien que nous n’avons plus affaire à une « société » harmonieuse, au sens traditionnel du terme comme l’entendait Louis de Bonald, mais à une « dissociété ». L’idée, en dépit de son origine très conservatrice, est reprise aujourd’hui par quelques théoriciens d’une gauche non-conformiste, dont le Prof. Jacques Généreux qui constate amèrement que les pathologies de la dissociété moderne sont une « maladie sociale dégénérative qui altère les consciences en leur inculquant une culture fausse ». Généreux, socialiste au départ et rêvant à l’avènement d’un nouveau socialisme capable de gommer définitivement les affres de la « dissociété », quitte, déçu, le PS français en 2008 pour aller militer au « Parti de Gauche » et pour figurer sur la liste « Front de Gauche pour changer l’Europe », candidate aux élections européennes de 2009. En mars 2013, les idées, pourtant pertinentes, de Généreux ne séduisent plus ses compagnons de route et ses co-listiers : il n’est pas réélu au Bureau politique ! Preuve que la pertinence ne peut aller se nicher et prospérer au sein des gauches françaises non socialistes, bornées dans leurs analyses, sclérosées dans des marottes jacobines et résistancialistes qui ne sont qu’anachronismes ou tourneboulées par les délires immigrationnistes dont l’irréalisme foncier est plus virulent et plus maladivement agressif en France qu’ailleurs en Europe.

Ceci dit, l’idée de « Grand Remplacement » est à mes yeux un des avatars actuels d’un ouvrage écrit en 1973, le fameux récit Le Camp des Saints de Jean Raspail, où l’Europe est envahie par des millions d’hères faméliques cherchant à s’y installer. Les grandes banlieues des principales villes de France étaient déjà occupées par d’autres populations, complètement coupées des Français de souche. Dorénavant on voit la bigarrure ethnique émerger, à forte ou à moyenne dose, dans de petites villes comme Etampes, Vierzon ou Orléans, où elle semble effectivement « remplacer » les départs antérieurs, ceux de l’exode rural, ceux du départ vers les grandes mégapoles où dominent les emplois du secteur tertiaire. La France donne l’impression de juxtaposer sur son territoire deux ou plusieurs sociétés (ou dissociétés) parallèles, étanches les unes par rapport aux autres. Personne n’est satisfait ; d’abord les « remplacés », bien évidemment, dont les modes de vie et surtout les habitudes alimentaires sont dénigrées et jugées « impures » (ce qui fâche tout particulièrement les Français, très fiers de leurs traditions gastronomiques) mais aussi les « remplaçants » qui ne peuvent pas reproduire leur mode de vie et manifestent dès lors un mal de vivre destructeur. Le plan satanique du libéralisme se réalise dans cette bigarrure : la société est disloquée, livrée à la « cash flow mentality », déjà décriée par Thomas Carlyle au début du 19ème siècle. Le néolibéralisme, amplification monstrueuse de cette « mentality », étendue à la planète entière, ne peut survivre que dans des sociétés brisées, de même que les « économies diasporiques » ou les réseaux mafieux, pourfendus par les gauches intellectuelles non conformistes mais non combattus sur le terrain, dans le concret de la dissociété réellement existante.

5.     Dans le parlement italien, on est en train de changer les lois sur la citoyenneté, en introduisant le principe de la citoyenneté par le lieu de naissance (jus soli) à la place de celui fondé sur la nationalité des parents (jus sanguinis). Selon vous quelles conséquences cela aura sur le tissu social de notre pays?

Le débat opposant le jus sanguinis au jus soli est ancien. Il remonte à l’époque napoléonienne. Napoléon voulait accorder automatiquement la nationalité française à toute personne vivant en France et ayant bénéficié d’une éducation (scolaire) française. Le but était aussi de recruter des soldats pour les campagnes militaires qu’il menait partout en Europe. Les rédacteurs du Code civil optent toutefois pour le jus sanguinis. Ces dispositions seront modifiées en 1889, vu l’afflux massif d’immigrés dans la France du 19ème siècle, essentiellement belges et italiens, dans une moindre mesure allemands et espagnols. Même visée que celle de Napoléon : la France de souche connait un ressac démographique, encore léger toutefois, face à une Allemagne qui, elle, connaît un véritablement boom démographique, en dépit des émigrations massives vers les Etats-Unis (plus de 50 millions de citoyens américains sont aujourd’hui d’origine allemande). Il faut à cette France angoissée devant son voisin de l’Est une masse impressionnante de soldats. De même, il faut envoyer des troupes dans un Outre-Mer souvent en révolte où les effectifs de la « Légion étrangère » ne suffisent pas. Dans Paris, sur les monuments aux morts de la première guerre mondiale, on lit plus de 10% de noms germaniques, allemands, suisses ou flamands, quelques noms italiens (ou corses ?), ce qui ne mentionne rien sur les immigrés romans de Suisse ou de Wallonie, parfois de Catalogne, dont les patronymes sont gallo-romans, comme ceux des Français de souche. La France s’est voulue multiethnique dès la fin du 19ème siècle, forçant parfois les immigrés européens, notamment en Afrique du Nord, à acquérir la nationalité française. Tant que cet apport volontaire ou forcé était le fait de peuples immédiatement périphériques, l’intégration et la fusion s’opéraient aisément. Après l’horrible saignée de 1914-18, quand les villages de la France profonde sont exsangues, une immigration plus exotique prend le relais de celle des peuples voisins. La départementalisation de l’Algérie et l’entrée, d’abord timide, de travailleurs algériens, puis subsahariens, colore la nouvelle immigration. Rien à signaler dans un premier temps. Ou rien que des broutilles. A partir du moment où certaines banlieues deviennent à 90% exotiques, le projet d’intégration et d’assimilation cafouille : pourquoi s’intégrer puisque l’environnement de l’immigré n’est en rien « Français de souche » ? Il lui est désormais possible de vivre en complète autarcie par rapport à la population d’origine. La société devient « composite » comme le déplorent les théoriciens indiens du RSS et du BJP qui estiment aussi que de telles sociétés n’ont pas d’avenir constructif, sont condamnées au chaos et à l’implosion. Pour les sociétés européennes, l’avenir nous dira si ces prophéties des théoriciens indiens s’avèreront exactes ou fausses. En attendant, l’introduction du jus soli, au détriment de tout jus sanguinis, en Italie comme ailleurs en Europe, est le signe d’un abandon volontaire de toute idée de continuité, d’héritage. Avec les théories du genre (le « gendérisme ») et les pratiques du néolibéralisme   ­-dont la délocalisation et la titrisation soit l’abandon de toute économie patrimoniale et industrielle au profit d’une économie de la spéculation boursière-   ce glissement annonce l’éclosion d’une société nouvelle, éclatée, amnésique, jetant aux orties l’éthique wébérienne de la responsabilité, pour la remplacer par des monstrations indécentes de toutes sortes d’éthiques de la conviction, prononcée sur le mode de l’hystérie « politiquement correcte » et travestie d’oripeaux festivistes et compassionnels. Bref, un Halloween planétaire et permanent.

Forest-Flotzenberg, octobre 2015.

samedi, 31 octobre 2015

Should We Fight for the Spratlys?

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Should We Fight for the Spratlys?

By

Ex: http://www.lewrockwell.com

Trailed by two Chinese warships, the guided-missile destroyer USS Lassen sailed inside the 12-nautical-mile limit of Subi Reef, a man-made island China claims as her national territory.

Beijing protested. Says China: Subi Reef and the Spratly Island chain, in a South China Sea that carries half of the world’s seaborne trade, are as much ours as the Aleutians are yours.

Beijing’s claim to the Spratlys is being contested by Vietnam, Malaysia, Brunei, the Philippines and Taiwan. While Hanoi and Manila have occupied islets and built structures to back their claims, the Chinese have been more aggressive.

They have occupied rocks and reefs with troops, dredged and expanded them into artificial islands, fortified them, put up radars and are building air strips and harbors.

What the Chinese are about is easy to understand.

Having feasted and grown fat on trade surpluses with the United States, the Chinese are translating their economic strength into military power and a new strategic assertiveness.

They want to dominate East Asia and all the seas around it.

We have been told our warships are unwelcome in the Yellow Sea and the Taiwan Strait. Beijing also claims the Senkakus that Japan occupies, which are covered by our mutual security treaty.

And not only is the South China Sea one of the world’s crucial waterways, the fish within can feed nations and the floor below contains vast deposits of oil and gas.

Who owns the islands in the South China Sea owns the sea.

Moreover, our world has changed since Eisenhower threatened to use nuclear weapons to defend Taiwan and the offshore islands of Quemoy and Matsu — and since Bill Clinton sent two U.S. carrier battle groups through the Taiwan Strait.

Now we send a lone destroyer inside the 12-mile limit of a reef that, until recently, was under water at high tide.

What China is doing is easily understandable. She is emulating the United States as we emerged to become an imperial power.

After we drove Spain out of Cuba in 1898, we annexed Puerto Rico and the Hawaiian Islands, where America settlers had deposed the queen, took Wake and Guam, and annexed the Philippines. The subjugation of Filipino resistance required a three-year war and thousands of dead Marines.

And the reaction of President McKinley when he heard our Asian squadron had seized the islands:

“When we received the cable from Admiral Dewey telling of the taking of the Philippines I looked up their location on the globe. I could not have told where those darned islands were within 2,000 miles.”

In 1944, General MacArthur, whose father had crushed the Filipino resistance, retook the islands from the Japanese who had occupied them after Pearl Harbor.

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At the end of the Cold War, however, Manila ordered the United States to get out of Clark Air Force Base and Subic Bay naval base. We did as told. Now our Filipino friends want us back to confront China for them, as do the Vietnamese Communists in Hanoi.

Before we get ourselves into the middle of their dispute, before we find ourselves in an air war or naval clash with China, we ought to ask ourselves a few questions.

First, why is this our quarrel? We have no claim to any of the Spratly or Paracel Islands in the South China Sea. Yet, each of the claimants — Beijing, Taipei, Manila, Hanoi — seems to have maps going back decades and even centuries to support those claims.

Besides freedom of the seas, what is our vital interest here?

If these islands are Chinese territory, Beijing has the same right to build air and naval bases on them as we do in the Aleutians, Hawaii, Wake and Guam. What do we hope to accomplish by sailing U.S. warships into what China claims to be her territorial waters?

While the ships of the U.S. Seventh Fleet are superior to those of the Chinese navy, China has more submarines, destroyers, frigates and missile boats, plus a vast inventory of ground-based missiles that can target warships at great distances.

In an increasingly nationalist China, Xi Jinping could not survive a climbdown of China’s claims, or dismantlement of what Beijing has built in the South China Sea. President Xi no more appears to be a man to back down than does President Putin.

Continued U.S. overflights or naval intrusion into the territorial waters of Chinese-claimed islands are certain to result in a violent clash, as happened near Hainan Island in 2001.

Where would we go from there?

China today is in trouble. She is feared and distrusted by her neighbors; her economy has lost its dynamism; and the Communist Party is riven by purges and rampant corruption.

If we believe this will be the Second American Century, that time is on our side, that Chinese communism is a dead faith, we ought to avoid a clash and show our opposition to Beijing’s excesses, if need be, by imposing tariffs on all goods made in China.

China’s oligarchs will understand that message.

Laurent Henninger: Puissance et stratégie pour penser les forces armées du XXIème siècle

Laurent Henninger: Puissance et stratégie pour penser les forces armées du XXIème siècle

Laurent Henninger était l'invité du Cercle Aristote. Dans sa conférence, intitulée "Penser les forces armées au 21ème siècle", cet historien militaire évoque l'avènement prochain d'un système totalitaire plus violent que ceux du 20ème siècle et dénonce la politique de l'émotion.

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Les djihadistes de l’EI se sont rassemblés pour une Invasion MASSIVE de l’Asie Centrale

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Renseignements russes : Les djihadistes de l’EI se sont rassemblés pour une Invasion MASSIVE de l’Asie Centrale

Auteur : Nick Gutteridge
Traduction Laurent Freeman
Ex: http://zejournal.mobi

Un grand nombre de combattants islamistes se sont rassemblés au nord de la frontière afghane et se préparent à entrer dans les états voisins, ont révélé des agents des services de renseignement russes.

L’espion moscovite en chef, Alexander Bortnikov, a mis en garde les Talibans, des combattants, dont beaucoup ont prêté allégeance à l’Etat Islamique, qui sont lourdement armés et préparés à pénétrer la frontière poreuse.

S’adressant à un congrès des services spéciaux des Etats Indépendants du Commonwealth, il a dit:

« La communauté internationale fait désormais face à un nouveau challenge géopolitique, un groupe criminel international du nom de l’Etat Islamique. »

« Ce projet, qui est la progéniture même du ‘Printemps Arabe’, a obtenu son élan à cause du deux poids deux mesures de certains pouvoirs mondiaux et régionaux, en utilisant ‘un proxy terroriste ravageur’ pour qu’ils atteignent leurs objectifs stratégiques en Asie et en Afrique ».

« Selon nos propres estimations, les citoyens de plus de 100 pays différents se battent actuellement dans les différents rangs de ces structures terroristes variées et les jeunes recrues représentent 40% de leurs forces ».

« L’escalade des tensions en Afghanistan a provoqué de graves dangers. Il y a de nombreux groupes criminels au sein du mouvement taliban au nord de ce pays en ce moment-même. Certains d’entre eux ont également commencé à opérer sous les ordres de l’Etat islamique, ce qui amène à une montée critique du niveau de menaces terroristes d’une potentielle invasion de l’Asie centrale ».

Le groupe de djihadistes haineux pourrait essayer de se frayer un chemin au nord de l’Afghanistan après avoir essuyé plusieurs raids aériens meurtriers de la Russie.

L’invasion serait comme un coup bas pour Vladimir Poutine, car elle emporterait avec elle plusieurs régions de l’ex-URSS à savoir le Turkménistan, l’Ouzbékistan, le Tadjikistan, qui sont toujours en bon terme avec Moscou.

Ils prendraient ainsi le contrôle des champs d’opium en Afghanistan qui sont entretenus par les forces occidentales. Une manne qui renforcerait l’Etat Islamique, car le produit une fois transformé en héroïne, serait revendu dans les rues européennes ou américaines.

L’Etat Islamique n’a cherché qu’à accroître sa présence en Asie et n’a cessé de recevoir du soutien de plusieurs cellules islamistes indiennes, pakistanaises et malaisiennes.

Tôt ce mois-ci, Poutine a dénoncé la situation en Afghanistan comme étant « proche du seuil critique » et a appelé les nations de l’ex Union Soviétique à se préparer à agir à l’unisson pour contrer une potentielle attaque de l’Etat Islamique.

Les fous islamistes ont été usés par les bombardements aériens russes et occidentaux, ce qui a amené plusieurs experts à reconnaître que leur économie est en panne et que leur structure de commande est sur le point de disparaître.

Les djihadistes ont précédemment annoncé leur intention de conquérir le monde et de soumettre tous les êtres humains à une seule idéologie, la loi de la Charia.

L'Amérique en guerre contre la Chine. Et de ce fait contre l'Europe?

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L'Amérique en guerre contre la Chine. Et de ce fait contre l'Europe?

par Jean-Paul Baquiast
Ex: http://www.europesolidaire.eu
 
La Chine a signé le 20 octobre une commande portant sur l'acquisition de 30 A330 et 100 A320 auprès d'Airbus pour un prix indicatif de 15,5 milliards d'euros, lors d'une visite de la chancelière allemande Angela Merkel . Ce voyage de deux jours de Mme Merkel intervient dans une période d'activité diplomatique intense entre Pékin et l'Europe, suivant un séjour très médiatisé du président chinois Xi Jinping au Royaume-Uni et à quelques jours d'une venue en Chine du président français François Hollande.
 
 
Celui-ci doit effectuer une visite d'Etat en Chine les 2 et 3 novembre à l'invitation de son homologue Xi Jinping, dans l'optique de la conférence de l'ONU COP21 qui se tiendra du 30 novembre au 11 décembre à Paris.  L'objectif en est de préparer le lancement avec le président Xi Jinping d'un appel pour le climat lors de cette conférence.

A l'occasion de ces deux visites, de nombreux contacts entre industriels de chacun des pays préciseront la volonté des Européens d'aider la Chine, sur sa demande, à sortir d'une économie exportatrice de main d'œuvre à bas coût et devenir une économie industrielle à haute valeur ajoutée, qui est celle de l'Allemagne et dans de nombreux secteurs de la France.

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Précédemment,le 22 octobre, lors de la visite au Royaume-Uni du président chinois Xi Jinping, 55 milliards d'euros d'accords commerciaux avaient été été signés. Rappelons également que la Grande Bretagne, suivie de la France et d'autres pays européens importants, avaient décidé de devenir membres fondateurs de la nouvelle Banque asiatique pour les investissements dans les infrastructures AIIB fondée par la Chine.

Ainsi voit-on progressivement et sans tapage diplomatique s'établir une convergence euro-asiatique, incluant nécessairement la Russie. Elle est dans la logique d'une alliance stratégique indispensable des deux continents, face aux risques divers qu'affronte la planète. Dans certains cercles, on emploie le terme de convergence euro-Brics.

Guerre en mer de Chine?


Dans le même temps cependant, bien évidemment sans aucun accord des Européens, les Etats-Unis précipitent des affrontements militaires entre eux et la Chine en Mer de Chine méridionale, que nous évoquons depuis plusieurs jours sur ce site. L'offensive américaine prend actuellement de plus en plus d'ampleur, avec le soutien du Japon et de l'Australie qui sont au plan diplomatique complètement inféodés à l'Amérique.

L'incursion d'un navire lance-missile américain , l'USS Lassen dans les eaux territoriales de l'archipel des Spratley, depuis longtemps revendiqué par la Chine et reconnu de fait comme une extension de son territoire maritime, (voir notre article http://www.europesolidaire.eu/article.php?article_id=1950&r_id=) se révèle comme prévu être le début d'une offensive de bien plus grande ampleur contre la Chine, dont il ne faut pas oublier qu'elle est une puissance nucléaire dotée récemment d'armements sophistiqués modernes en matière d'affrontements aéro-navals et de guerre électronique. Le secrétaire à la défense Ashton Carter vient de rappeler qu'en défense d'un Droit à la liberté de navigation que la Chine ne menace en aucune façon, les actions militaires, aériennes et navales américaines s'amplifieront dans les prochaines semaines.

L'US Navy a de fait positionné depuis plusieurs mois en Mer de Chine deux porte-avions nucléaires et leurs escortes, l'USS Theodore Roosevelt (image) et l'USS Ronald Reagan. Elle pourrait prochainement missionner l'un deux, sinon les deux, dans la suite de l'USS Lassen. Cette offensive contre la Chine, qui était depuis plusieurs années réclamée par des forces politiques en militaires américaines très influentes, avait été jusqu'ici tenue en bride par un Barack Obama préoccupé de ne pas laisser grandir l'influence russe en Europe et au Moyen-Orient. Mais devant les échecs rencontrés sur ces deux terrains, le lobby militaro-politique anti-chinois avait repris toute son influence au Congrès et à la Maison Blanche.

Que cherche l'Amérique? Pour le Pentagone, autant que l'on puisse en juger à la lecture des nombreux articles qu'il fait publier, l'objectif est de précipiter une véritable guerre contre la Chine avant que les mesures de Déni d'accès et de couverture sous marine destinées à protéger les côtes chinoises n'aient atteint leur plein effet.(voir notre article http://www.europesolidaire.eu/article.php?article_id=1948&r_id=) Cette guerre devrait déboucher sur ce que le Pentagone nomme une large «  AirSea Battle strategy » prenant la forme d'un assaut dévastateur, aérien et par missiles, sur les côtes chinoises et les grands centres industriels s'y trouvant. Cet assaut serait déclenché très rapidement si les Chinois tentaient de s'opposer par quelque moyen militaire que ce soit, fut-il symbolique,contre les intrusions aéro-navales américaines.

L'objectif de Washington est manifestement que, confronté à cette menace de destruction, la Chine rentre dans le giron américain, partageant avec la Japon, les Philippines et bien d'autres, le statut de semi-colonie. Alors, grâce notamment au Traité de libre échange transpacifique que l'Amérique vient d'imposer, la Chine ne pourrait plus refuser les bienfaits de la domination des intérêts transnationaux américains.

Londres, Berlin et Paris devront pour ce qui les concerne renoncer alors à toute autonomie diplomatique et économique à l'égard de la Chine. Ainsi les contrats envisagés par celle-ci avec, entre autres, Airbus, seront très sainement reconvertis en contrats avec Boeing . Celui ci pourra retrouver le monopole quasi absolu qu'il exerçait jusqu'ici dans le domaine du transport aérien chinois.

Jean Paul Baquiast

Affrontements militaires aux frontières de l'Empire américain

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Affrontements militaires aux frontières de l'Empire américain

par Jean-Paul Baquiast
Ex: http://www.europesolidaire.eu
 
Partons de l'hypothèse optimiste qu'aujourd'hui les grandes puissances mondiales, USA, Russie et Chine, ne s'affronteraient pas (sauf accident toujours possible) de façon délibérée avec des armes nucléaires dites stratégiques (Bombe H) car ce serait la fin, non seulement des belligérants mais du monde entier.

Pourrait en envisager par contre que dans de futurs conflits, soit entre elles, soit avec des voisins jugés agressifs, elles emploieraient des armes nucléaires tactiques? Celles-ci peuvent être à courte portée, constituées de charges limitées et donc susceptibles d'avoir des effets locaux. Leurs effets seraient désastreux pour les zones touchées mais ne devraient pas en principe conduire à un recours aux armes stratégiques.

Là aussi, on peut supposer que les grandes puissances évoquées ci-dessus, et même d'autres puissances moyennes dotées de l'arme atomique, comme l'Inde, le Pakistan ou Israël, hésiteraient d'avoir recours en première frappe à des armes nucléaires fussent-elles très peu puissantes. La raison en serait que dans ce cas, elles s'exposeraient à des frappes en représailles bien plus puissantes, pouvant leur provoquer chez elles des dégâts humains et matériels considérables.

Dans les deux cas, ces perspectives n'empêcheraient pas ces différentes puissances de renforcer et améliorer constamment leur arsenal nucléaire. Ceci serait une conséquence de l'effet dit de dissuasion: les belligérants potentiels sont découragés d'utiliser des armes atomiques s'ils savent risquer des ripostes en retour de même nature. C'est pour cette raison que jusqu'à ce jour, les arsenaux nucléaires et leurs vecteurs sont considérés comme ayant permis d'éviter les conflits autres que périphériques.

Les armes conventionnelles

Qu'en est-il de l'utilisation des armes non nucléaires dites conventionnelles? Il est bien connu que celles-ci sont constamment utilisées, non seulement par les puissances grandes ou petites, mais par tous les pays et mouvements susceptibles de s'en procurer. C'est pour cette raison que les grandes puissances, pour conserver leur primauté, s'efforcent en permanence de les améliorer. Il en est de même de tous les pays disposant d'industries militaires, comme parmi de nombreux autres Israël ou l'Iran. Cet effort d'amélioration porte sur tous les systèmes d'armes dont ces pays sont susceptibles de se doter et d'utiliser, terrestres, aériens et maritimes.

Nous avons noté dans des articles précédents que la Russie a récemment surpris le reste du monde à l'occasion de ses interventions en Syrie. Elle a montré qu'elle dispose désormais de missiles de croisières à longue portée et de systèmes permettant de désarmer les divers moyens de guerre électronique susceptibles d'emplois contre ses forces en cas de conflits; sonars, radars, systèmes de guidage et autres. Évidemment, les Etats susceptibles de voir employer contre leurs unités de tels moyens feront tout ce qu'ils pourront pour de doter de moyens équivalents et si possibles supérieurs.

Dans le cas précis des relations entre Russie et USA s'engagera ainsi une course aux armements conventionnels. Il n'est pas certain que la Russie la perde, compte tenu des réformes importantes apportées récemment par le nouveau pouvoir aux capacités de son CMI (Complexe militaro industriel) au moment où le CMI américain peine à de moderniser, comme le montre le désastre industriel et militaire qu'est l'affaire du JSF F35. Est-ce à dire que les forces des deux blocs, USA et Russie, n'hésiteraint pas à s'affronter en utilisant leurs armements conventionnelles? L'hypothèse n'est pas à exclure, mais elle paraît peu probable, compte tenu des risques d'escalade pouvant conduire à une guerre nucléaire.

Guerre dans le Pacifique et en mer de Chine

La situation de paix armée, aussi fragile qu'elle soit, s'étant établie entre les USA et la Russie, ainsi qu'entre leurs alliées en Europe, se retrouvera-t-elle aux frontières occidentale de l'Empire américain, c'est-à-dire dans le Pacifique? Cette partie du monde voit s'affronter dorénavant deux coalitions armées, l'une menée par les USA et comptant de nombreux alliés puissants, notamment le Japon. L'autre menée par la Chine, comptant certains alliés asiatiques et potentiellement l'appui de la Russie, également puissance sur le Pacifique.

Pourquoi y aurait-il rivalité voire guerre entre les USA et la Chine dans le Pacifique? Pourquoi pas des partages d'influences? Pour une raison simple. De tels partages ne peuvent pas résulter d'une réflexion rationnelle au sein des blocs. Chacun pousse à l'expansion et le cas échéant à la guerre, laquelle bénéficie aux CMI respectifs. Le partage ne peut que résulter d'une paix armée.

 

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Aujourd'hui, les USA semblent les mieux armés dans le Pacifique et en mer de Chine. La Chine a hérité de nombreuses faiblesses la rendant dépendante: nécessité d'accès aux routes de navigation, retard technologiques notamment en matière d'armements, facteurs internes tels que l'état sanitaire d'un bon quart de sa population. Néanmoins, elle a pris conscience de ces retards et s'efforce de les réduire. Autrement dit, elle ne se comporta pas comme l'ancien Empire impérial qui avait au 19e siècle pratiquement capitulé devant l'occident.

Pour être capable de peser dans la recherche d'un équilibre de paix armée, elle doit donc se doter d'un armement compétitif vis a vis des USA. Laissons à nouveau de côté le recours à l'arme nucléaire, au moins en première frappe, peu probable également de la part des USA car pouvant très vite mener à l'escalade. Il faut donc que la Chine perfectionne son armement conventionnel. Faute de temps et de moyens, elle ne peut pas le faire dans le domaine des grands porte-avions d'attaque. Non plus que dans le domaine des grands sous-marins nucléaires d'attaque. En termes de porte-avions, elle ne dispose que d'une seule unité, le Liaoning, actuellement utilisé pour des tâches de formation et de démonstration – comme la récente invitation faite à une délégation navale américaine le 21 octobre.

Il semble donc qu'elle se soit intéressée à la mise en place de sous-marins diesels dont les Russes ont développé une version très performance, ceux de la classe dite Kilo, dont ils ont concédé la licence à la Chine. La Chine a l'intention d'en construire dorénavant de nombreux exemplaires, complétant ceux de la classe Song, plus anciens. Pour une charge totale de 1800 tonnes,les Kilo embarquent 60 marins pouvant utiliser 6 tubes lance torpilles.

 

Opérant en « meutes » comme du temps de la Kriegsmarine, ils devraient pouvoir neutraliser un Carrier group. Encore faudrait-il que la Chine ait le temps et les moyens pour en construire un nombre suffisant, bien plus grand que la douzaine d'exemplaires dont elle dispose aujourd'hui.

Par ailleurs, comme la Russie, et sans doute avec la collaboration de celle-ci, la Chine a développé des missiles de croisière dernière génération capables d'être lancés à partir d'un sous-marin. Elle annonce également, comme la Russie, une gamme de systèmes évoluées de guidage ainsi que de systèmes de protection contre les moyens électroniques de l'adversaire. Il est difficile cependant de juger de l'état de maturité de ces systèmes, comme du nombre et de la rapidité de production prévisibles, car elle communique peu sur ces questions. Concernant les missiles, citons le missile antibunker DF15B, le missile DF-16, d'une portée de 1 000 kilomètres, et le missile antinavire DF-21D, d'une portée de 2 500 kilomètres, capable de transporter une ogive nucléaire.

Les futurs avions de 5e génération chinois, si l'on en croit les annonces, semblent par ailleurs pouvoir rivaliser, comme ceux des Russes, avec ceux des Américains. Le plus connu est le Chengdu J-20, développé par le constructeur Chengdu Aircraft Corp. D'autant plus que ceux-ci ont pris, avec le JSF F35, du fait d'erreurs incompréhensibles de leur CMI rappelé ci-dessus, un retard certain, se révélant actuellement en Syrie.

Ajoutons que sur le plan de l'armement terrestre, les Chinois, comme les Russes et peut-même davantage ont mis au point des systèmes évolués d'armement des fantassins, des blindés et de la guerre terrestre en réseau. Les Américains, d'ores et déjà, n'auraient aucune chance de réussir des opérations terrestres comme celles menées durant la guerre de Corée et au Vietnam.

Partages d'influence

Que conclure de ce qui précède au regard de l'escalade que mènent Américains et Japonais concernant la « liberté de navigation » autour des iles Senkaku et plus au sud,  des récifs désormais fortifiés du Cuateron Reef et du Johnson South Reef dans les iles Spratly. Pékin insiste sur le fait qu'il a des droits souverains sur quasiment l'ensemble de la mer de Chine méridionale, y compris près des côtes des Etats voisins, supposés être des alliés des Etats-Unis.

Aujourd'hui, si les USA y envoient des porte-avions d'attaque, comme ils ont annoncé vouloir le faire, les Chinois ne seraient pas sans doute en état de résister. Ils seraient donc obligés de laisser faire. Mais ceci pourrait ne pas durer très longtemps, avant qu'ils ne reviennent en force dans l'ensemble de la mer de Chine méridionale, et ceci avec des moyens militaires tels que les USA et leurs alliés ne pourraient pas s'y opposer de façon efficace, sauf à provoquer une guerre de grande ampleur, avec des milliers de morts de part et d'autre.

Alors il faudrait bien que des zones de partage d'influence faisant une large place à la Chine s'établissent en mer de Chine et plus généralement dans le Pacifique. Ceci serait alors un nouveau coup porté à la suprématie de l'Empire, cette fois-ci dans une partie du monde où ils se croyaient jusqu'ici les maîtres absolus.

Le concept de Brics, reposant sur une large alliance stratégique entre la Russie et la Chine, deviendrait une réalité indiscutable. Répétons le une nouvelle fois: que les Européens y réfléchissent et ne restent pas en dehors des Brics.

 

Jean Paul Baquiast

jeudi, 29 octobre 2015

The Gospel According to Kristol

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The Gospel According to Kristol

Having noticed that Bill Kristol has agreed with Billy Graham that Seventh Day Adventists are “great on New Testament doctrine,” I have to wonder how much canonical weight Bill’s judgment here would carry among Murdochites. (My friend Boyd Cathy has created this term for those whose minds are totally imprisoned in the synthetic world of the Murdoch media.) Now I can figure out why Kristol the Lesser has conferred his seal of approval on the Seventh Day Adventists. His least favorite Republican presidential contender, the Donald, has been lording it over Dr. Ben, a political competitor who, unlike the Presbyterian Trump, is a lowly Adventist. Trump’s comments on this subject seem hardly worth remembering, and for all I know, they may have been said jokingly. But Kristol decided to come to the defense of the candidate whom he’s hoping will knock out the hated Trump, not because Bill really wants a black Adventist surgeon named Ben Carson to become the GOP nominee but because he needs Carson to get rid of Trump. At that point he and the other neocons will push one of their paid lackeys, preferably Rubio, to the front of the line, providing they can do a number on Dr. Ben.

All of this should seem obvious to anyone who has been following the GOP presidential contest with open eyes. The problem is, authentic Murdochites would never accept the view that Bill Kristol is not speaking as an expert on the Bible.  Neocons for the adepts are experts on everything they deign to address, just as Marxists used to claim an extensive knowledge about everything because of their Marxist “science.” Allow me to mention that I’ve just finished an anthology of essays mostly on historical topics, which Northern Illinois University Press will be publishing after my book on fascism. Among those distortions and half-truths I engage in this volume, the bulk came from neoconservative journalists, typically misrepresented as “conservatives” or “libertarians.”  Friends ask me why I would waste my time dealing with these lightweights. The answer is simple: These lightweights get loads of publicity in the neoconservative and established leftist press; and whatever kooky stuff they write about the past or about the Bible or about anything else they “explain” to the rest of us, is widely treated as the alternative position to what the academic Left is saying. Unfortunately what these self-described scholars are peddling are not really alternative views but what the Left used to proclaim before it went on to even nuttier positions.

I for one wouldn’t care what these scribblers wrote if they weren’t reaching millions of people, at least some of whom have told me the following nonsense: There is no reason to write anything else on fascism because Jonah Goldberg has already treated this subject from a “conservative” point of view, and everyone who counts, including Ted Cruz and the New York Times Bestseller list, has recognized the brilliance and comprehensiveness of Jonah’s scholarship.  Or: the Germans and Austrians were entirely responsible for World War One because Victor Davis Hanson and Max Boot say so. What supposedly seals the case is that the Weekly Standard ran an article maintaining that Kaiser Bill planned to invade the US as soon as he finished off “democratic” England. Since most of this article was an attack on the “horrid” Germanophile H.L. Mencken, it was unclear whether Mencken was embroiled in the invasion or was simply ready to cheer it on.  Let’s not get into Lincoln and the American Civil War, subjects about which there is no significant difference between what the PC Left drums into our heads and what the “conservatives” are proposing as their non-alternative alternative. Tom DiLorenzo may have to devote the rest of his earthly existence to the “conservative” defenders of the “conservative” Lincoln, trying to change their obstinate minds. I shall gladly leave him this task.

In a less uniformly leftist and less ideologically leftist culture, I would not feel obliged to write my “revisions and dissents,” which is the provisional title of my anthology; nor would other non-leftist revisionist historians have to fight what usually looks like a combined leftist-neocon front on historical questions; nor would I find myself battling “conservative interpretations” of subjects like fascism prepared by culturally illiterate partisan Republicans. Even more depressing is the activity of the Murdoch media, which spits out instant historical interpretations that have no factual content but correspond to neoconservative prejudices or momentary GOP strategy.  Each time I encounter this nonsense my blood pressure goes through the roof. The new Authorized Version rarely deviates from what the establishment Left taught us in college and graduate school.  But back then one could easily extract alternative views from traditional conservatives, from libertarian authors like Murray Rothbard or from some traditional Marxist who had an interesting take on some historical development. Murdoch and his friends have been able to white out the discussion of alternative historical views from the non-authorized Right. And even worse, they duplicate what they pretend to oppose.

Of course on certain subjects they go their own way, particularly when it comes to the Middle East. I’ve no idea how Murdoch’s Jerusalem Post can pretend that no Palestinian was ever ethnically cleansed during the creation of the Israeli state. In a well-researched dossier, Israeli historian Ilan Pappe puts the figure for non-combatant Palestinians who were killed or driven from the present Israeli territory (excluding the West Bank) at about 800,000. One does not have to be an enemy of the Jewish state (and I am certainly not one) to recognize that Palestinians do have justified historical gripes. Furthermore, their territory was not a land waiting for a people when Jewish settlers arrived from Europe. On this historical point the neocons and their sponsors differ significantly from everyone else, and the rest of the Left may be closer to the truth here than the neoconservatives and establishment Republicans. Also on those very few issues on which “conservative” history now diverges from the opinions of the rest of the Left, the Old Right, or what’s left of one, may find itself closer to the official Left than it is to the faux conservatives.

Une catastrophe sanitaire programmée…

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Une catastrophe sanitaire programmée…

 
Anne Lauwaert
Ecrivain belge
Ex: http://www.lesobservateurs.ch

Je vous raconte une histoire belge qui circule sur le net :

"Dans le village flamand de Sijsele il y a un supermarché Lidl. En face il y a un centre pour requérants d’asile. Les pensionnaires du centre pour requérants d’asile vont flâner entre les rayons du supermarché, ouvrent des bouteilles et les boivent, ouvrent des confections et en mangent le contenu et quand ils arrivent à la caisse ils disent “no money”. Alors on appelle la police mais la Croix Rouge intervient pour expliquer que “c’est leur culture”… Alors les habitants de Sijsele ne font plus leurs courses dans leur supermarché Lidl mais vont les faire dans le village voisin de  Moerkerke et les seuls clients qui restent à Sijsele c’est ceux qui ne payent pas…

Un commentateur ajoute “et chez nous ils ouvraient même les pots de confiture et les vidaient comme ça”…

Un autre précise qu’on a engagé un cuisinier mais celui-ci a été refusé, d’ailleurs “la nourriture est trop belge”…

Un autre ajoute qu’ils n’ont ni faim, ni soif mais ce qu’ils veulent c’est de l’argent…

Et vous savez quoi ? Ben, on constate un mécontentement croissant parmi la population… "

 Signé “Wannes”

Une histoire allemande. Ma voisine est allemande et écoute l’heure pendant laquelle les auditeurs peuvent s’exprimer à la radio. Et vous savez quoi? Ben, il y a un médecin qui a dit que les hôpitaux sont bondés et posent la question “qui va payer tout ça?” Mais c’est pas tout, ce médecin dit que ces gens qui arrivent de partout dans les conditions les plus désastreuses apportent avec eux des germes qui peuvent faire réapparaitre chez nous des maladies qui ont été éradiquées grâce à des décennies de soins, campagnes d’hygiène, vaccinations etc.

Les gens commencent à oser en parler…

La santé c’est mon domaine alors je vais y ajouter mon grain de sel. Comme je l’ai raconté dans mon livre “Les oiseaux noirs de Calcutta”, dans les pays du Tiers Monde il y a des maladies endémiques comme la gale ( scabieuse) qui est une maladie de la peau extrêmement contagieuse qui est une véritable calamité quand elle se répand dans une école, un home, un hôpital… à tel point qu’un chirurgien refusait d’hospitaliser les enfants qui en étaient porteurs de peur de contaminer tout le service et de devoir le fermer.

Il y a aussi la tuberculose qui est résistante aux médicaments dont nous disposons. Il y a aussi tout ce qui est amibes, bactéries ou vers intestinaux. A côté de ça le SIDA semble moins grave car c’est une maladie que nous connaissons mieux.

Il y a quelque temps un médecin français expliquait que le tourisme médical voit arriver en France des maladies graves comme des insuffisances rénales qui vont finir par la dialyse et des médicaments à vie mais que, étant donné que dans leur pays d’origine ces gens ne peuvent pas se soigner, il était impossible de les renvoyer chez eux, par contre ils ont  le droit de faire venir leurs familles. Qui paye ? Ca c’est un type de problème. Le problème des maladies importées par les “migrants” est d’un autre type: il s’agit de l’importation de germes qui peuvent produire des contaminations et ensuite des épidémies. Ces gens n’ont pas non plus une constitution physique adaptée à nos conditions de vie, ni à notre environnement climatique.

Voici ma cerise sur notre gâteau: la poliomyélite ou paralysie infantile.

Je ne vais pas vous faire un cours de médecine mais le sujet est tellement grave que je vous recommande chaudement d’aller lire ce que dit Wikipédia de tout ça.

Toujours est-il que quand j’étais à l’école primaire dans mon petit village flamand de Strijtem, en 1952 nous, les petits élèves nous avons été vaccinés contre la polio – j’ai encore ma carte de vaccinations. Depuis, grâce à la vaccination, chez nous, la polio a pratiquement disparu mais il y a eu des épisodes d’épidémies surtout au sein de sectes religieuses qui refusent les vaccinations. J’ai un cousin qui n’avait pas été vacciné, qui a été contaminé, en a gardé des paralysies aux jambes et maintenant à l’âge de 55 ans il souffre d’un syndrome de post polio. C’est là qu’on se rend compte du caractère terrible de la polio car non seulement elle laisse des séquelles graves comme des paralysies, mais elle ne disparait jamais et avec l’âge reprend vigueur et continue la lente destruction les muscles jusqu’à ce que la personne se retrouve en chaise roulante. Pire: si le virus attaque les muscles de la cage thoracique c’est soit le poumon d’acier, soit la mort par asphyxie.

Mais, étant donné que cette maladie a pratiquement disparu chez nous, elle n’est plus enseignée dans les universités et les médecins ne la connaissent pas. Il n’est pas rare que les patients, comme mon cousin,  soient considérés comme des simulateurs… Pendant mes études de physiothérapie j’ai eu la chance d’avoir comme professeurs des kinés qui avaient encore participé à la lutte contre la polio avant la découverte du vaccin.

Puisque la polio ne se rencontre plus, de nombreux parents refusent de faire vacciner leurs enfants. Je suis tout à fait d’accord, les vaccins ne sont pas inoffensifs et il faut bien peser les pours et les contres. Mais en l’occurrence  les conséquences de la polio peuvent être beaucoup plus graves que celles de la coqueluche ou de la grippe.

Actuellement l’OMS a beau se gargarise avec “L’éradication de la polio”, elle n’est pas éradiquée du tout dans le Tiers Monde et par exemple pour un tas de raisons, voir Internet, en Afghanistan les talibans s’en prennent aux vaccinateurs.

Tout ça pour dire que parmi les chercheurs de vie meilleure il va fatalement y avoir des porteurs de germes de toutes sortes mais aussi de la polio et nous ne sommes pas du tout à l’abri d’épidémies, ni préparés à les affronter.

Ce n’est pas leur faute: ces gens ne savent pas d’être porteurs, mais ils peuvent contaminer puisqu’ils circulent dans les transports publics, les magasins, les WC etc. Le pire c’est quand ils ne connaissent pas les règles d’hygiène et ne font pas leurs besoins naturels dans des WC et ne se lavent pas les mains avec du savon…Dans leurs pays … s’ils n’ont pas de quoi acheter à manger, ils n’ont  certainement pas de quoi acheter du savon, serviettes hygiéniques, tampax, ni même des WC ou du papier WC… Ces gens s’essuient avec la main gauche… et mangent avec la main droite…  A Calcutta, dans Park Street, la rue chic, devant la Oxford Library, j’ai vu un monsieur descendre du trottoir, s’accroupir et déféquer. A l’arrêt du bus j’ai vu un jeune homme bien habillé genre employé, s’arrêter et uriner, même pas derrière un arbre, ni un poteau, non comme ça. Ils toussent et crachent tout le temps et partout. Cela signifie une dissémination et une prolifération de germes inimaginable à laquelle nous ne sommes pas préparés, nos hôpitaux non plus, notre assurance maladie non plus. Qu’est ce qui va se passer, qui va payer, comment allons-nous empêcher notre système sanitaire de s’écrouler ? A la limite, allons-nous disposer d’assez de vaccins ?

Pourquoi je vous brosse un tableau aussi effrayant? Parce qu’il faut décider de priorités et la priorité la plus urgente, c’est, avant toute autre chose, d’enseigner à ces personnes les règles d’hygiène pour éviter une catastrophe sanitaire. Il est beaucoup plus urgent qu’ils apprennent à ne pas cracher par terre qu’à parler français. Dans ma profession j’ai appris qu’il faut prévoir le pire pour ne pas être pris au dépourvu. Je ne sais pas si nos gouvernements le font, bien que gouverner ce soit justement…  prévoir. En tous cas je conseille aux parents qui n’ont pas fait vacciner leurs enfants d’en parler avec leur médecin.

Anne Lauwaert

Cuba libéré ou Cuba enchaîné demain à l'argent?

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Cuba libéré ou Cuba enchaîné demain à l'argent?
Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

Nous n'en aurons jamais fini avec la liberté et la confusion du libéralisme philosophique, du libéralisme politique et du libéralisme économique et nous ne saurions le trancher si facilement. L'économiste américain Milton Friedman soulignait que, dans une société, les arrangements économiques jouaient un double rôle dans la promotion de la liberté politique parce que premièrement, les libertés économiques sont une composante essentielle des libertés individuelles et que par là-même, elles devraient être une fin en soi du politique et que deuxièmement, les libertés économiques sont aussi le moyen indispensable pour parvenir au libre-arbitre. Ainsi alors que pour beaucoup, les chemins de la liberté économique et de la liberté politique divergent et ne sont pas fondamentalement les mêmes, nous parlons d'une seule et même liberté. Choisir de produire sans coercition et sans aucune entrave, choisir de travailler et de financer sans règle, c'est effectivement une position foncièrement différente de la décision sur laquelle s'appuie l'Etat dans son programme politique autoritaire pour prélever l'impôt et les taxes. Nous nous retrouvons dans la pince de la « global-invasion ».


Cuba , le nouvel eldorado ?


Prenons Cuba. Cuba se libéralise mais Cuba n'est pas libéré. Le sera-t-il d'ailleurs un jour lorsqu'il sera totalement devenu capitaliste c'est-à-dire « libéral » au sens économique du terme ? La griffe française de luxe Chanel vient d'annoncer qu'elle présentera sa collection « croisière » du printemps, le 3 mai prochain, pour la première fois en Amérique Latine et pas n'importe où, puisque Chanel défilera à Cuba, l'île communiste qui vient de normaliser ses relations avec les Etats-Unis. Chanel va donc faire défiler à la Havane des filles vêtues de robes légères de luxe et autres tweeds ou maillots de bain à plusieurs milliers d'euros à Cuba, là où sur le Malecon, on se prostitue gayment pour finir les fins de mois de ! Une première pour la maison de luxe parisienne, qui n'avait même jamais organisé de show en Amérique latine et un choix plutôt étonnant sachant que la Maison de la rue Cambon ne possède pas de boutique à Cuba. C'est que la levée de l'embargo américain sur Cuba cet été, et le réchauffement des relations d'affaires avec le « bloc capitaliste », fait depuis quelque temps la joie des entreprises, en particulier françaises . Des fleurons hexagonaux des biotechnologies comme les alcools français profitent déjà de l'ouverture de Cuba aux échanges internationaux, un Cuba devenu en quelques mois le nouvel eldorado du business. 


Depuis cinq décennies, la perle des Caraïbes est sous l'emprise de la dictature communiste qui a plongé le peuple cubain dans un ostracisme international devenu avec le temps de plus en plus anachronique. Cuba, une île paradisiaque où deux frères « blancs » dans un pays nègre ou de métis, les frères Castro décident pratiquement de tous les aspects de la vie sur l'île et où la seule contestation possible s'appelle  « dissidence » puisque toute critique ouverte du régime y demeure interdite. Malgré cela, l'administration du président Barack Obama a récemment décidé de reprendre des relations diplomatiques avec Cuba, avec la volonté avouée de se réconcilier avec les latinos qui sont d'un poids électoral non négligeable pour les élections présidentielles américaines. Obama rêve aussi de laisser derrière lui avant de quitter la Maison Blanche les années d'embargo économique de Cuba comme l'image sépia d'un vieux cauchemar ridicule. La décision est historique pour une administration Obama quelque peu affaiblie actuellement par les problèmes afghans (le bombardement de l'hôpital de Médecins sans frontières) et l'offensive russe en Syrie. Mais de quelle libéralisation cubaine parle-t-on puisque la libéralisation économique de Cuba ne semble modifier en rien la nature du régime cubain ? Pire, le vieux Fidel, El lider maximo semble même en tirer les marrons du feu. C'est en tout cas ce qu'on entend beaucoup en ce moment dans les milieux des exilés de Miami même si Danilo Maldonado, le dernier prisonnier de conscience cubain a été libéré ce mardi 20 octobre.


L'échec des politiques d'embargo 

En fait, l'assouplissement des conditions économiques à Cuba ne sera pas suffisant pour mobiliser l'île vers la démocratie réelle. La libéralisation économique ne garantit pas la liberté politique. Il nous faut donc cocher négativement Friedman et tirer d'ailleurs les leçons du modèle chinois de l'« économie socialiste de marché » et de l'oxymore du « communisme libéral ». En tout cas, Cuba confirme une autre loi politique, l'échec manifeste des politiques d'embargo. L'embargo rend en réalité plus fort celui que l'on veut affaiblir. Pour avoir prétendument affaibli matériellement le gouvernement cubain depuis le milieu du siècle dernier, Cuba est toujours là. Certes, l'embargo américain a sapé durant des décennies l'économie des familles cubaines, les a maintenues dans une pauvreté scandaleuse mais l'embargo a aussi fourni à Castro et au régime cubain le moyen de se maintenir en justifiant ses piètres performances économiques en tant que gouvernant par l'affermissement de son patriotisme, la défense de la grande cause de l'unité nationale et de la lutte héroïque contre l'«ennemi extérieur». Il est curieux que les Etats-Unis n'ait tiré aucune leçon de Cuba reproduisant ainsi les mêmes erreurs mais à une toute autre échelle aujourd'hui avec la Russie de Vladimir Poutine.

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Ainsi, timidement, certaines réformes amènent Cuba à une plus grande liberté dans le domaine économique. La téléphonie mobile presque inexistante jusqu'à récemment aurait déjà dépassé trois millions d'utilisateurs. Les marchés de l'automobile et de l'immobilier sont devenus plus ouverts et en 2015, plus de 3000 restaurants sont passés en gestion privée. L'espoir demeure que ces changements en matière économique permettent rapidement une prise de conscience des citoyens cubains vers l'obtention de plus de droits civils, et éventuellement une demande de réforme et de transformation politique. Mais en réalité les Américains le veulent-ils vraiment ? N'est-il pas préférable en effet de commercer à La Havane avec des Cubains blancs et sans parole politique ?


Paradoxalement, les assouplissements des règles de l'économie cubaine offrent un répit inattendu à la dictature de Castro qui en arrive même à légitimer son pouvoir par un slogan gauchiste pour ne pas dire bolchévique dans le genre « la liberté dans l'ordre », en quelque sorte la règle et même l'étalon du pouvoir capitaliste. Or, après plus d'un demi-siècle de régime communiste et toutes les tentatives extérieures, comme celles des exilés de Miami, d'étouffer sans succès l'administration cubaine, il faudrait « hacker », pirater Cuba, redoubler d'astuces pour permettre aux jeunes cubains de se donner les moyens d'échanger des idées, d'organiser et de progresser dans la voie d'un renversement politique du régime qui maintiendrait comme priorité la défense de leur identité. Cuba est l'un des derniers territoires de la planète non connecté, l'internet y est extrêmement limité et surtout pas libre à tel point que l'île est surnommée « l'île des déconnectés ». L'autonomie cubaine ne peut pas être qu'économique. Elle exige le politique, la représentativité populaire mais elle réclame aussi l'Etat et non sa suppression afin de contrer le rêve capitaliste d'en faire un gigantesque paquebot de croisière terrestre.  En réalité, l'Etat préserve les libertés, protège les individus contre ceux, les prédateurs, entrepreneurs et financiers, tous les requins du mercantilisme qui souhaitent contraindre les gouvernements au libéralisme économique sans libéralisme philosophique ou politique. La réflexion sur le cas de Cuba et sur beaucoup d'autres, comme la Chine communiste ou même l'assassinat de John F. Kennedy  nous pose ainsi en filigrane une autre question, celle de l'« Etat profond » de Peter Dale Scott, des responsabilités de la finance dans la dilution des Etats mondiaux et de la régulation juridique nécessaire de la mondialisation, l'anarchie libertarienne dans la « global-invasion ». Elle pose la question critique du néo-constitutionnalisme contemporain, de la dilution du droit, de l'extinction du droit dans l'économisme. Le libéralisme économique est ainsi enchaîné à des prémisses telles qu'elles présentent finalement Milton Friedman comme un naïf ou plutôt comme l'idiot utile du système qui ne saurait du coup être capable de reconsidérer métapolitiquement la liberté. Autrement dit et après tout, la vraie mesure de l'avancement politique de nos peuples sera non pas le grand remplacement mais le grand renversement à la manière stylée de la grande révolution cubaine idéalisée par le romantisme révolutionnaire du guérillero et de la lutte armée mais sans la violence des autocrates du prolétariat.


A noter un jeu de société très « cubain » pour petits et grands.

mercredi, 28 octobre 2015

Entretien avec Edouard Limonov

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«L'EUROPE DOIT AUJOURD'HUI FAIRE FACE À SES CRIMES»
 
Entretien avec Edouard Limonov
Ex: http://metamag.fr

Edouard Limonov est un écrivain et dissident politique, fondateur et chef du Parti national-bolchevique (Nazbol) interdit en Russie. Célèbre pour son charisme et ses prises de position controversées, son ouvrage le plus connu paraît alors qu'il est émigré aux Etats-Unis, puis à Paris. Intitulé « C'est moi, Eddie ou Le poète russe préfère les grands nègres » (1980) et racontant ses mois d'errance et de débauche dans le New-York des années 70, il connaît un immense succès et Limonov est propulsé au sommet de la scène littéraire française durant plusieurs années. Il reste encore aujourd'hui un personnage médiatique adulé par certains, haï par d'autres. L'ouvrage de l'écrivain français Emmanuel Carrère qui retrace sa vie a obtenu le prix Renaudot.Edouard Limonov a été écrivain, voyou, poète, ouvrier d'usine, émigré, sans-abri, domestique, dissident politique... D'un tempérament volontairement provocateur, il a récemment défrayé la chronique en critiquant violemment la politique européenne qui, selon lui, a provoqué la crise migratoire qui entraînera, à terme, la mort de l'Europe. Pour RT France, il a accepté de revenir sur ce point de vue et nous livre une interview sans équivoque.


RT France : D'un côté, l'Europe se sent obligée d'accueillir les réfugiés, par solidarité, par devoir d'humanité. D'un autre côté, elle craint pour ses frontières et son patrimoine culturel et religieux. Que pensez-vous des effets de la crise migratoire sur l'Europe ?

 Edouard Limonov (E.L) : Vous savez, l'Europe et les Etats-Unis on créé eux-mêmes cette situation de toutes pièces. Ils ont totalement détruit la Libye avec leur intervention en 2011. l'Irak, les Etats-Unis l'ont carrément détruit deux fois ! Regardez aujourd'hui l'Irak, regardez la Syrie. C'est de votre faute messieurs les européens ! Aujourd'hui il faut faire face à votre crime. On récolte ce que l'on sème. L'Europe et les Etats-Unis ont détruit ces pays et aujourd'hui, des réfugiés fuient ces pays par milliers pour gagner l'Europe. Qu'attendiez-vous en échange ? Cette situation était inévitable. D'un autre côté, nous sommes désormais à l'aube de changements démographiques grandioses. Et vis-à-vis de cela, je considère que l'Europe a entièrement le droit de se défendre. 

Une grande majorité de réfugiés veulent se rendre en Allemagne... 

E.L : Evidemment ! L'Allemagne est une cible de choix pour eux. C'est le pays le plus riche, le plus prospère d'Europe. Il est donc évident que c'est en Allemagne que les réfugiés veulent se rendre. Bien que cette richesse, dont je vous parle, est à mon avis seulement présumée car la crise n'a épargné aucun pays et l'Allemagne d'aujourd'hui, ce n'est plus l'Allemagne des années 80-90. Et cette Allemagne subit aujourd'hui une sorte d'invasion barbare, de peuples qui ont d'elle une vision totalement fantasmée. J'ai peur qu'à terme, on risque de voir apparaître une résurgence des idées nazies à cause de cette invasion incontrôlée.  

limonovol12.jpgL'Allemagne semble pourtant accueillir les réfugiés chaleureusement... 

E.L : Oui. Cela vient d'un sentiment de culpabilité vis-à-vis du nazisme. Pour ma part j'attends depuis longtemps que l'Allemagne se relève et arrête de se cantonner à sa politique victimaire, de se flageller pour son passé. Le tribu qu'on lui fait payer commence à être beaucoup trop lourd. L'Allemagne finira par se révolter de cette situation. C'est également le cas pour le Japon à qui on fait payer depuis bien trop longtemps sa prise de position dans la Seconde Guerre Mondiale.


De nombreux pays européens et notamment certains maires français, on affirmé qu'ils ne sont prêts à accueillir que des chrétiens... 

E.L : Selon moi, c'est une exigence tout à fait raisonnable. Aujourd'hui, les médias nous montrent un Islam aggressif, représenté par Daesh. Alors les gens ont peur, ils préfèrent se tourner vers des populations dont ils savent qu'elles partagent la même religion, les mêmes valeurs.

 
Vous aussi avez vécu l'exil et la situation de réfugié dans les années 70-80, aux Etats-Unis et en Europe... 

E.L : J'ai vécu une toute autre situation. Ce n'est pas comparable. Réfugiés, nous l'étions, certes, mais nous n'étions que quelques centaines. Nous aussi nous avons fuit, mais nous faisions partie de l'Intelligentsia, nous étions des artistes, des poètes, des peintres, des écrivains. Comment peut-on comparer cela à la vague migratoire à laquelle fait face aujourd'hui l'Europe ? Ces gens fuient la terreur, la mort, ils fuient pour sauver leurs vies. Beaucoup d'entre eux n'ont pas le choix. Et l'Europe en paye les conséquences.

Comment évaluez vous cette situation de Russie, où vous vous trouvez ? 

E.L : La Russie aussi a accueilli plus de 600 000 réfugiés vous savez. Seulement, voyez-vous, ceux-là sont ukrainiens. Ils parlent la même langue que nous, ils partagent notre culture. Ils ne sont absolument pas une menace pour la Russie. Je peux vous dire qu'on est bien mieux lotis que vous de ce côté là. Enfin... pour le moment.


*Source 

«Europa gibt ein fatales Bild in der Welt ab»

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Jean Asselborn

Ex: http://www.lessentiel.lu

«Europa gibt ein fatales Bild in der Welt ab»

Ein Krisentreffen in Brüssel will Lösungen in der Flüchtlingskrise finden. Doch vor Ort treten gravierende Trennlinien zwischen den EU-Staaten zu Tage.

Die früheren Luxemburger Koalitionspartner Jean Asselborn (l.) und Jean-Claude Juncker sprachen am Sonntag über mögliche Sofortmaßnahmen in der Flüchtlingskrise. (Bild: DPA/Stephanie Lecocq)

Der anhaltende Flüchtlingsandrang stellt Europa vor eine Zerreißprobe. Angesichts des Chaos auf der Balkanroute fühlen sich Länder wie Slowenien und Kroatien überfordert und rufen nach mehr europäischer Solidarität. Bei einem kurzfristig angesetzten Krisentreffen zwischen Ländern der Region und zehn EU-Staaten traten die Spannungen am Sonntag in Brüssel deutlich zutage.

 

So sieht Ungarns Ministerpräsident Viktor Orban sein Land, das sich mit Grenzzäunen zu Serbien und Kroatien abgeriegelt hat, nur noch als «Beobachter» der Flüchtlingskrise. «Ungarn liegt nicht mehr auf der Route», sagte er. Transitstaaten wie Bulgarien, Rumänien und Serbien drohen ebenfalls mit der Schließung ihrer Grenzen.

Täglich strömen Tausende über die Westbalkanroute in Richtung Österreich und Deutschland. Die meist aus dem Bürgerkriegsland Syrien stammenden Menschen kommen über die Türkei in die EU. Unter den Flüchtlingen sind auch viele Frauen und Kleinkinder – oft nur notdürftig gegen Nässe und Kälte geschützt.

«Anfang vom Ende der EU»

Sloweniens Regierungschef Miro Cerar warnte in Brüssel vor dem Ende der EU, wenn Europa die Krise nicht in den Griff bekomme: «Europa steht auf dem Spiel, wenn wir nicht alles tun, was in unserer Macht steht, um gemeinsam eine Lösung zu finden.» Sonst sei dies «der Anfang vom Ende der EU und von Europa als solches».

In den vergangenen zehn Tagen seien in seinem Land mehr als 60.000 Flüchtlinge angekommen. Dies sei «absolut unerträglich», sagte Cerar. Umgerechnet auf ein großes Land wie Deutschland entspräche dies einer halben Million Ankömmlinge in Deutschland pro Tag, rechnete er vor.

Österreichs Bundeskanzler Werner Faymann warnte vor einem Auftrieb für radikale Kräfte in Europa: «Wenn wir daran scheitern, werden die rechten Nationalisten ein leichtes Spiel haben zu erklären, dass diese Europäische Union versagt hat.» Faymann lobte zugleich ausdrücklich die Zuversicht von Kanzlerin Angela Merkel (CDU), dass die Krise zu bewältigen sei: «Diese Grundhaltung hat in dieser historischen Situation sehr geholfen.»

Asselborn hofft, «dass der Groschen fällt»

Merkel selbst sagte, bei dem Treffen gehe es «um Linderung, um vernünftiges Obdach, um Wartemöglichkeiten und Ruhemöglichkeiten für die Flüchtlinge» sowie die Aufgabenteilung der Staaten entlang der Balkanroute. Die Kanzlerin warnte allerdings: «Nicht lösen können wir das Flüchtlingsproblem insgesamt. Da bedarf es unter anderem natürlich weiterer Gespräche mit der Türkei.»

Der Luxemburger Außenminister und aktuelle EU-Ministerratsvorsitzende Jean Asselborn drückte vor dem Treffen seine Hoffnung aus, dass «der Groschen in allen Ländern vielleicht doch noch fällt». Es könne nicht sein, dass etwa die Balkan-Staaten «nur nationale Sichtweisen» anwenden. «Mit Stacheldrähten und Mauern geben wir ein fatales Bild in der Welt ab. Ich komme gerade aus New York, habe dort mit UN-General Ban Ki-moon gesprochen. Er sagte, 'Wer, wenn nicht ihr in Europa soll das Problem Migration denn in den Griff bekommen?'. Das Geld dafür ist da.»

Türkei fehlt am Verhandlungstisch

Die Türkei nahm an dem Treffen nicht teil. Griechenlands Premier Alexis Tsipras beklagte die Abwesenheit des «entscheidenden Partners» bei dem Treffen, ohne den es schwer werde, eine Lösung zu finden. Athen werde seine Zusagen erfüllen und bis Ende des Jahres fünf Registrierungszentren (Hotspots) einrichten. «Ich frage mich aber, was mit der Verantwortung der anderen Länder ist», merkte Tsipras an. Griechenland kann seit Monaten den Ansturm Zehntausender Flüchtlinge aus Syrien kaum bewältigen.

Kroatiens Regierungschef Zoran Milanovic kritisierte Griechenland als Tor für Flüchtlinge in die Europäische Union. «Warum kontrolliert Griechenland nicht sein Seegebiet zur Türkei? Ich weiß es nicht.»

(jt/dpa/L'essentiel)

Le traité transatlantique - enjeux et menaces

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Le traité transatlantique - enjeux et menaces

Michel Drac & Maurice Gendre

(au Cercle Non Conforme et E&R Lille)

lundi, 26 octobre 2015

La schizophrénie de l’idéologie française sur l’identité de la France

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NATION ET IDENTITÉ ETHNIQUE : LES RACINES DE LA FRANCE
 
La schizophrénie de l’idéologie française sur l’identité de la France
Guillaume Faye*
Ex: http://metamag.fr & http://www.gfaye.com
L’idéal de De Gaulle, auquel s’est référée Nadine Morano, selon lequel la France est un «  pays de race blanche, de religion chrétienne et de culture gréco-latine » – et qui doit le rester –, expliquait, selon Alain Peyrefitte, que le général ait abandonné  l’Algérie. Il ne voulait pas que des millions de musulmans, en forte progression démographique, deviennent français. Pour eux, il ne ne croyait nullement à la moindre ”intégration” ou ”assimilation” possibles. Ce réalisme s’associait à la crainte que « Colombey–les–deux–églises ne devienne Colombey–les–deux–mosquées ».  Malheureusement, De Gaulle n’avait pas prévu l’immigration de masse autorisée par le laxisme de ses successeurs.
   
colombey-les-deux-églises.jpgDe Gaulle, en réalité, personnage ambigu influencé par Maurras, le néo-monarchiste, et par Barrès, l’aède de l’enracinement charnel  de la France, se démarquait de l’idéologie française universaliste issue de la Révolution. L’idéologie républicaniste des conventionnels de 1792, aux accents cosmopolites mystiques, leur faisait dire : « tout homme a deux patries, la sienne et la France ».  Mais on était dans la pure gratuité de l’utopie idéologique, puisqu’il n’y avait pas d’immigration. On pouvait raconter ce qu’on voulait.

Mais, par la suite, le virus idéologique s’est activé : l’Empire colonial français a rapidement caressé l’idée d’une possible France multiethnique, cosmopolite, mondiale, en rivalité avec les autres puissances européennes. En dépit de terribles contradictions idéologiques de la gauche républicaine au pouvoir, par exemple Jules Ferry qui en appelait au « devoir des races supérieures de civiliser les races inférieures ».
   
D’ailleurs, pendant toute la IIIe République, l’entreprise coloniale a été combattue par une partie de la droite nationaliste au nom d’une conception ethniciste et non pas universaliste de la Nation. On se souvient du slogan : « plutôt la Corrèze que le Zambèze ». De Gaulle héritera en partie de cette vision des choses. Par la suite, l’appel à des troupes ”indigènes” (on dirait aujourd’hui ”allogènes” !), issues des colonies, pendant les deux Guerres mondiales – engagés contre d’autres Européens – a considérablement renforcé la conception cosmopolite et multiethnique de la nation française.

L’idéologie française de la nation, héritée de la Révolution, s’avère donc à la fois antinationale et antifrançaise, au sens ethnique, par l’introduction du concept d’ ”assimilation”, supposé possible avec tout le monde et n’importe qui. Et surtout à l’intérieur même de l’Hexagone ! Alors qu’à l’époque, l’ ”Empire français”, géographiquement mondial, n’envisageait pas l’immigration en métropole. Cette vision abstraite se heurte aujourd’hui à la violence des faits. Cette schizophrénie française se formule ainsi : la France se pense, depuis deux cent ans, – à travers la majorité de sa classe intellectuelle – comme un idéal universel et moral (comme une sorte d’Eglise catholique laïque), alors que l’opinion populaire vit la France comme une patrie charnelle.  
 
Une schizophrénie voisine s’est manifestée en URSS, aux Etats-Unis et pour la construction européenne. En URSS, on observait la césure et la confusion (surtout pendant la dernière guerre) entre le combat communiste de la ”patrie des travailleurs” contre le nazisme, combat internationaliste par essence, et la résistance armée de la ”patrie russe” contre l’Allemagne. Aux USA, l’opposition est toujours très vive entre ceux qui considèrent le pays comme une ”société” multiraciale ouverte à toutes les immigrations et ceux (à l’image du think-tank American Renaissance) qui voient le melting pot américain comme une stricte union de populations d’origine européenne et les Etats-Unis comme une nation blanche.

Le même quiproquo se remarque à propos de l’Union européenne : super-État impérial et fédéral ethniquement européen et souverain dans l’idéal d’une minorité d’ ”européistes” adeptes d’un patriotisme européen, mais dans les faits, un ”machin” bureaucratique et sans frontières sans aucun souci de l’identité européenne. Insurmontable contradiction. (Les maux attribués à l’Union européenne en tant qu’institution, y compris la soumission volontaire aux USA, ne sont pas imputables à l’UE comme telle mais aux gouvernements européens eux-mêmes

Le sang et le sol : problème central 

Le catéchisme officiel des bien-pensants est parfaitement représenté par le dernier essai de l’intellectuel de cour Roger-Pol Droit, auteur de l’essai Qu’est-ce qui nous unit ? (Plon). Il tente de définir dans une gymnastique intellectuelle scolaire et convenue la nature des liens empathiques humains, nationaux, familiaux, personnels, etc. Pour lui, tout ce qui est mémoriel, biologique, identitaire ne vaut rien. Seul compte, dans la nation, l’Idée désincarnée. Il entend éviter « les pièges du terroir et de l’identité ». On reconnaît là l’idéologie cosmopolite officielle, qui dénie aux Français et autres Européens toutes racines revendiquées, toute  identité ethnique, mais en revanche applaudit et protège celles des autres, surtout des intouchables immigrés.

M. Droit formule le dogme de cette manière : «  l’Histoire nous apprend que les identités sont du côté du devenir, pas de l’être. Ce qui fait liens entre humains, ce ne sont jamais ni le sang ni le sol ». Si, justement ! C’est d’abord le sang et le sol qui forment l’identité et la cohésion de la France et des autres nations. Le ”sang”, c’est-à-dire la lignée des ancêtres communs au même peuple, héritier de la même histoire, de la même civiltà (terme italien difficilement traduisible qui signifie à la fois ”culture” et ”civilisation”, héritage et construction partagés par un même peuple) ; le ”sol”, c’est-à-dire la terre léguée et configurée par l’Histoire, le territoire à défendre dans ses frontières protégées. Roger–Paul Droit ajoute une autre ineptie, issue du catéchisme libertaire et mercantile : « Qu’est-ce qui nous unit ? Il est possible de répondre : nos échanges ». La nation réduite au statut de supermarché : passeport assuré pour sa désagrégation, voire pour la guerre civile…
 
Éric Zemmour  a éreinté ce prêchi-prêcha dans une chronique du Figaro (24/09/2015) intitulée "Nous ne sommes pas ce que vous croyez". Il écrit : «  Mais comment devenir français si personne ne donne le modèle de l’être ? Et quel est ce « devenir » français si l’ « être » français a été englouti ? Si on prend un couteau tricolore et que l’on remplace la lame et le manche, qu’est-ce qui reste de la France sinon le nom sur l’étiquette ? Avec l’identité française, Roger-Paul Droit fait le même pari que les partisans de la théorie du genre avec le sexe ».
 
R-P. Droit recopie la thèse erronée de Renan, selon laquelle la Nation est un ”projet” plus qu’une appartenance. Sauf qu’à son époque, Renan parlait de manière abstraite, dans le vide, vu que l’immigration colonisatrice n’existait pas…. De plus, cette idée est stupide : un projet national, un avenir commun ne peuvent se fonder que sur une appartenance commune héritée d’une histoire passée et d’une parenté partagée. Il n’existe aucun avenir, aucun projet possible avec des populations  immigrées, majoritairement musulmanes et globalement hostiles, ancrées dans une autre longue histoire, antagoniste de la nôtre. Il en a été de tout temps ainsi dans l’histoire de tous les peuples.

Qu’est-ce que la nation ?  Qu’est-ce que la patrie ?

Une nation est d’abord une réalité ethnique avant d’être une réalité politique. L’étymologie de nation (natio, en latin, du verbe nascere, ”naître”) renvoie à la terre de naissance, la terre-mère, celle des ancêtres. Elle a donc une dimension d’enracinement biologique, historique, géographique et culturel – mais non pas idéologique. Sa traduction en grec – ancien et moderne – est d’ailleurs ethnos, ce qui se réfère à un apparentement dans une mémoire et une lignée, et ce qui suppose une homogénéité. C’est pourquoi une trop grande immigration détruit une nation en abrogeant son caractère ethnique et donc sa cohérence et son empathie naturelle.

aristote21.jpgAristote, à ce propos, estimait qu’une Cité (polis) doit être ethniquement homogène, ce qui est le fondement de la paix civile, de la connivence des valeurs (philia). Autrement, explique-t-il, une Cité rendue hétérogène par l’immigration étrangère est vouée à la dictature – pour établir de force la cohésion – ou à la guerre civile endémique. Si la notion de patrie (enracinée et ethnique) connaît un tel désaveu, la responsabilité en incombe en partie à l’Allemagne nazie qui a extrémisé les principes nationaux et ethniques en les défigurant dans une ubris criminelle. Le nazisme a dévoyé,  neutralisé, diabolisé l’idée de nationalisme en Europe.

La responsabilité intellectuelle en incombe à Herder et à Fichte, deux philosophes allemands du début du XIXe siècle, qui ont largement inspiré le pangermanisme belliciste, catastrophique pour l’Europe, de l’empereur Wilhelm II et de Hitler. Fichte dans son célèbre Discours à la nation allemande (1807), non dépourvu de paranoïa, développe l’idée que le peuple allemand est intrinsèquement supérieur à tous les autres peuples européens parce qu’il a échappé à la romanisation et qu’il possède seul une ”âme culturelle” originelle. Cette thèse absurde, issue d’une frustration face à la France napoléonienne et d’un complexe allemand d’infériorité – transformé en complexe de supériorité schizophrénique– a donné lieu au nationalisme allemand des deux guerres mondiales, qui, par son extrémisme, a diabolisé et détruit tout sentiment ethno-national non seulement en Allemagne mais dans les autres pays européens, dont la France  (Le IIIe Reich et son souvenir, son ubris, ses crimes et sa défaite ont provoqué chez le peuple allemand une implosion, une délégitimation  de toute idée nationale et patriotique).

Cependant la fameuse ”crise des migrants réfugiés” (pseudo réfugiés à 90%), qui n’est que l’aggravation spectaculaire du processus d’immigration invasive et colonisatrice, ressuscite ce sentiment ethno-national chez les classes populaires européennes, sentiment totalement absent chez les dirigeants, uniquement préoccupés d’affairisme politicien. Cette situation peut déboucher sur un incendie incontrôlé.

Qu’elle soit française ou étendue à une ”nation européenne”,  ou appliquée à Israël et à bien d’autres, l’idée de nation suppose quatre ingrédients : 
1) une homogénéité ethnique et culturelle globale où les différences sont bien moindres que les ressemblances (ce qui en exclut totalement les musulmans, appartenant à leur umma) ; 
2) le sentiment d’appartenance à une patrie commune enracinée dans l’histoire, formant en gros un même peuple qui se définit et se perçoit comme différent des autres et se sentant potentiellement opposé à eux (Carl Schmitt et Julien Freund ont bien montré que toute identité ethnique ou politique ne peut se construire que contre un ennemi. Le positif interagit avec le négatif. On peut le déplorer, mais la psychologie humaine est ainsi faite)  ; 
3) l’existence de frontières parfaitement définies et protégées ; 
4) la réalité d’un État, fédéral ou centralisé, peu importe, souverain et indépendant, qui protège et assure la préférence nationale, notion centrale qui discrimine légalement l’étranger par rapport au citoyen.
 
L’idée ”européenne” des dirigeants actuels, même fédéraliste, ne vise absolument pas ce modèle (supra)national qu’on pourrait appeler les Etats-Unis d’Europe. Elle recherche l’abolition des fondements ethno-nationaux des peuples européens et, plus grave, l’abolition de l’européanité elle-même.
 
Objectif implicite : déconstruire l’identité de la France et des nations européennes

En effet, la conception officielle de la nation française, abstraite et désincarnée, intellectuelle, non-ethnique, a été reprise et aggravée dans la construction européenne, comme l’a vu Philippe de Villiers. L’Union européenne, qui vise à détruire l’Europe des nations souveraines, n’a même pas la prétention d’être une entité fédérale et supranationale (une ”super nation”) mais s’avère être une anti-nation, une construction fondamentalement anti-européenne, aux sens ethnique, historique et politique. Un ”machin”, ouvert comme un moulin, avec, pour seule règle, l’idéologie des Droits de l’homme et du libre-échangisme tempéré par une bureaucratie privilégiée. Voici un mélange comique d’ultra-libéralisme et de soviétisme mou, l’union de la carpe et du lapin,  un ensemble flou, déraciné, aux frontières poreuses ; son idéal minimaliste est apolitique et anhistorique (droits de l’homme, consumérisme, etc.), incapable de susciter l’enthousiasme des peuples et apte seulement à favoriser des flux migratoires incontrôlés et à obéir à tous les désidératas de Washington.

L’idéologie dominante et la classe politique ont une conception libertaire de la nation (issue du libéralisme philosophique – à ne pas confondre avec le libéralisme économique) qui ramène cette dernière à un agrégat d’individus sans enracinement. Conception exprimée par l’inénarrable Alain Juppé: «  la nation, ce sont des hommes et des femmes qui veulent vivre ensemble » (Grand Jury RTL–Le Figaro, 4 octobre 2015). Aucune mention d’une histoire, d’une culture, d’une appartenance, d’une identité communes. Cette vision de la nation en détruit la substance même en la ravalant au rang de ”société”, ensemble flou sans passé et sans avenir. Un grand Club Med. Face à l’islam fanatique et conquérant, c’est désopilant.

hollande-la-france-morte1.jpgDécryptons cette déclaration très idéologique (et indigne) de François Hollande lors d’une visite à l’École des Chartes, temple de la tradition française de l’enseignement gréco-latin que Mme Vallaud-Belkacem est en train de saborder : « La France n’est pas une identité figée dans le marbre, elle n’est pas une nostalgie qu’il faudrait conserver, un corps vieilli avec un sourire fatigué. La France est une espérance ». Puis, après cette insulte voilée à la patrie française (”vieillie et fatiguée”)  le petit président politicien fit l’apologie d’un « portrait de la France dans sa diversité », ce qui, en langue de bois signifie qu’il faut imposer aux Français historiques de souche l’apport massif de populations étrangères. C’est la théorie du lobby socialiste Terra Nova, à visées électoralistes, en faveur de la ”nouvelle France” (la France 2.0), celle de la ”diversité”. Malheureusement, une large partie de ces ”nouveaux Français” issus de l’immigration n’en ont (pardonnez-moi d’utiliser exceptionnellement le bas argot) strictement rien à foutre de la France, de son identité, de son histoire, de son avenir. Ils ne se reconnaissent pas en elle, ils sont d’accord pour la détruire. Détruire la France (et les peuples européens) au nom même d’une ”certaine idée” de la France et de l’Europe, tel est le projet orwellien (par inversion sémantique) de l’oligarchie et de leurs alliés. 
   
Abordons maintenant un point capital, lié à Éric Zemmour. Ce dernier, par ses livres et sa présence médiatique – et malgré les intimidations par censures, procès, etc. – est devenu un défenseur emblématique du patriotisme français et de l’identité française. Or, il est Juif. Ce qui semble poser un problème aux clercs de l’idéologie dominante. Léa Salamé (cf. autre article de ce blog) dans l’émission de Ruquier (FR 2) On n’est pas couché s’était étonnée qu’un Juif (apostrophe : « vous, le Juif… ») puisse professer de telles idées patriotiques. 
 
Guy Bedos sur France 5, début octobre 2015, a commis le même lapsus : « Zemmour est juif. C’est un drôle de Juif…Il est devenu plus français que les Français ». Le comique bourgeois d’extrême gauche à bout de souffle révèle deux choses par cette saillie : d’abord un antisémitisme de gauche (un Juif ne peut pas  prétendre être un vrai Français et vice–versa, ce qui nous ramène à l’idéologie de Vichy dont le régime était peuplé de socialistes et…de communistes) ; ensuite une francophobie évidente : le Français de souche, le ”franchouillard ” des classes populaires, est méprisable par essence.
    
L’indispensable unité ethnique, facteur de paix

L’historien et sociologue Georges Bensoussan – aujourd’hui très mal vu, comme Finkielkraut, par le clergé intello-médiatique –  explique que désormais en France cohabitent sur le même territoire comme ”deux nations”, deux populations antagonistes. Elles ne partagent absolument pas les mêmes valeurs, la même culture, les mêmes comportements et moeurs, ni les mêmes projets. Une de ces populations, en forte croissance, d’origine immigrée récente, est de plus en plus islamisée et ne se sent absolument pas appartenir à la ”nation France” traditionnelle ; au contraire, elle lui manifeste une hostilité croissante. Elle se réclame à la fois de sa nationalité d’origine et de l’umma musulmane supranationale. L’équation est insoluble.
 
Le déni de ce phénomène central par l’intellocratie et les dirigeants politiques, attachés au dogme utopique et angélique de l’ ”intégration”, de l’ ”assimilation” ou de l’ ”inclusion” par une cohabitation pacifique de communautés inconciliables, ressemble aux techniques des médecins du XVIIe siècle (relire Molière) qui tuaient les malades en prétendant les guérir.

L’idéologie française officielle et ”républicaine” de la Nation est contredite par l’histoire de France elle-même. La France intellectuelle se pense comme une idée (lourde erreur, énorme prétention) mais la France populaire se vit comme une patrie charnelle.  Le « vivre ensemble », monstrueux néologisme de la novlangue de bois, se terminera dans la guerre. On ne peut vivre ensemble qu’avec ses proches, pas avec ceux qui vous désignent comme ennemis.
 
Contrairement aux mensonges de l’idéologie officielle, la France, comme les autres pays d’Europe, a toujours été globalement homogène ethniquement jusqu’au XXe siècle, à la fin duquel a commencé une immigration massive extra-européenne, en grande partie musulmane. Ce phénomène historique est le plus important et le plus grave vécu par les Européens depuis le début du Moyen–Âge, bien plus que toutes les guerres, crises économiques et épidémies. Parce qu’il risque de signer notre acte de décès.
  
Toute l’histoire démontre (et le Proche-Orient en est l’éclatante démonstration) que la diversité ethnique sur un même territoire ou sous une même autorité politique est, la plupart du temps, ingérable et débouche sur le chaos, fruit d’une impossible cohabitation. On commence à le ressentir en Europe. Plus que jamais, le bon sens, l’expérience quotidienne populaire, les leçons de l’histoire s’opposent aux délires idéologiques et aux calculs politiciens de l’oligarchie. Reprenons Aristote : chacun chez soi, dans ses frontières. Ce qui ne remet pas en cause la notion d’Humanité mais rappelle qu’elle est faite de peuples différents et (souvent) hostiles et ne constitue pas un magma anthropologique.  C’est la loi de la vie. La paix entre les êtres humains est proportionnelle à la méfiance et aux barrières qu’ils dressent entre eux.  Si vis pacem, para bellum.
I
* Source 

 

1942 & 2015: les mêmes décombres?

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1942 & 2015: les mêmes décombres?
 
Livre: Les décombres

Relire Lucien Rebatet

Journaliste
Ex: http://www.bvoltaire.fr
 

rebatet1.JPGSorti en 1942, Les Décombres de Lucien Rebatet (deuxième titre majeur après Les deux étendards) viennent d’être réédités chez Robert Laffont. Cinq mille exemplaires épuisés dès le premier jour, l’éditeur a lancé un deuxième tirage à trois mille.

Si les « heures les plus sombres de notre histoire » sont cadenassées par le système oligarchique en place (interdisant même l’étude historique), le peuple reste friand et curieux de son histoire, et de points de vue interdits.

Rebatet nous présente une France, au cœur de l’action politique furieuse de la fin de l’Entre-deux-guerres, dans un état similaire au nôtre. « On avait pu reconnaître la fragilité de la carcasse parlementaire. Mais elle s’était révélée encore plus ferme que tous ses ennemis. Les Parisiens, des camelots du roi aux communistes, avaient prouvé qu’ils étaient encore capables d’un beau sursaut de colère et même de courage. Mais leur élan inutile était brisé pour longtemps. »

Ces lignes, écrites il y a plus de soixante-dix ans, nous prouvent, une fois de plus, que l’histoire est un éternel recommencement : « Nous ne faisions pas la guerre. Nous la singions », comme François Hollande, caporal-chef de guerre pour l’oligarchie mondialiste en Afrique et au Moyen-Orient. Avec les mêmes faux-amis : « L’aide des Anglais – ils ne nous le cachaient pas – serait de pure forme. Nous serions réduits à nos seuls moyens, un contre deux, trois peut-être bientôt si l’Italie s’en mêlait. »

La finance de Wall Street soutenait Hitler en sous-main 1 et les soubresauts du peuple, par des partis alternatifs (aujourd’hui décrits comme extrémistes, fascistes ou nazis par les tenants de ladite oligarchie) ou des manifestations n’eurent aucun effet sur les événements politiques et économiques. « Il n’y avait aucun risque que le prolétariat s’insurgeât contre la guerre. Ses maîtres, décidément beaucoup plus forts que nous, étaient parvenus à lui faire confondre le grand soir avec l’abattoir. […] Il était dit que l’imbécillité suraiguë remplacerait le typhus dans cette guerre et que sa contagion n’épargnerait personne. C’était à notre tour de jouer les justiciers avec nos sabres de paille. »

La nouvelle montée des tensions voulue par les élites mondialistes (écho de Bagatelles pour un massacre de Louis-Ferdinand Céline) se fait, à nouveau, sous couvert du vernis craquelé de la démocratie. « Pour imposer silence aux vieilles cliques sans idées, incapables d’imaginer et de faire la paix avec nos voisins, il faut une poigne solide. Nous demeurons dans la situation paradoxale d’août 1939. Ce sont les mous, les hésitants, les « modérés » qui poussent à de nouvelles tueries guerrières, par débilité intellectuelle ou sentimentale. Ce sont les forts, les violents, puisant leur énergie dans leur intelligence, qui veulent la paix, parce que la paix seule peut être vraiment révolutionnaire, tandis que la guerre revancharde ne pourrait être que hideusement conservatrice. » Les mêmes causes produisent les mêmes effets…

Obama‘s Strategien im Mittleren Osten

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Obama‘s Strategien im Mittleren Osten
 
 
 
Ex: http://strategische-studien.com

US-Präsident Barack Obama verfolgt im Mittleren Osten zum gegenwärtigen Zeitpunkt eine sehr zurückhaltende Strategie, die teilweise durch diffuse Ziele bestimmt wird.[1] Dazu gehören vor allem die Beziehungen zum Iran. Während seine Administration durch den Nukleardeal mit dem Iran den engsten Verbündeten der USA im Mittleren Osten, das Königreich Saudi-Arabien, als Rivalen Teherans buchstäblich düpiert hat, unterstützen die Amerikaner bezüglich Logistik die Saudis bei ihren Angriffen auf die iranischen Verbündeten in Jemen, die Houthi. Gleichzeitig bekämpfen die USA im Irak beinahe Seite an Seite mit dem Iran und den schiitischen Milizen den Islamischen Staat (IS) durch Bombardierungen. In Syrien bombardieren die USA wiederum die Stellungen des IS, unterstützen aber durch Waffenlieferungen die sunnitische Opposition gegen den Alawiten Assad, der mit dem Iran eng verbündet ist und durch die Islamische Republik mit Beratern und Truppen unterstützt wird. Des Weiteren vermeidet offiziell die Obama-Administration jede Zusammenarbeit mit den Russen, deren Bombardierungen in Syrien primär auf die sunnitische Opposition gerichtet sind und weniger dem Islamischen Staat gelten. Bei ihren Bombardierungen in Syrien beschränken sich die USA auf den Einsatz ihrer Kampfflugzeuge und jener ihrer Alliierten gegen die Stellungen des Islamischen Staates.

Präsident Obama will unter keinen Umständen, dass die USA bei diesen Einsätzen Verluste erleiden. Deshalb werden auch keine Fliegerleitoffiziere zu den irakischen Truppen oder zu den kurdischen Verbündeten abkommandiert. Die Unterstützung der syrischen Kurden in ihrem Krieg gegen den IS wiederum liegt nicht im Interesse der Türkei, deren Luftwaffe nur sehr zurückhaltend Stellungen des IS im Irak angreift. Die Türkei selbst unterstützt die sunnitische Opposition gegen Assad. Ähnlich verhalten sich auch die Saudis, deren Kampfflugzeuge nur Ziele in Syrien angreifen. Auch Israel handelt nach dem Motto „der Feind meines Feindes ist mein Freund“, bombardiert Stellungen der schiitischen Hisbollah und auch der Armee Assads, aber nicht jene des IS.

Auf die Dauer dürften die USA mit dieser zwiespältigen und undurchsichtigen Strategie im Mittleren Osten, mit der nicht zwischen Feind und Alliierten unterschieden werden kann, scheitern. Obama oder sein Nachfolger wird in der Zukunft zwischen zwei Strategien mit eindeutigen Zielen wählen müssen. Wenn die USA weiterhin die geopolitische Lage im Mittleren Osten bestimmen wollen, müssen sie den Islamischen Staat durch einen massiven Einsatz von Bodentruppen im Irak vernichten. Mit dem Luftkrieg allein wird diese Organisation nicht besiegt werden können. Durch die Stationierung von 100‘000 bis 150‘000 Soldaten im Irak könnten die USA auch Russland zur Beendigung ihrer Unterstützung für Assad zwingen. Damit könnte vielleicht eine Voraussetzung für das Ende des Bürgerkrieges in Syrien erreicht werden.

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Die zweite Strategie wäre der totale Rückzug der USA aus dem Mittleren Osten. Angesichts der Tatsache, dass die USA nicht mehr von der Versorgung mit Erdöl aus dem Mittleren Osten abhängig sind, könnten sie einen solchen Rückzug ohne weiteres durchführen. Nach diesem Rückzug würden sie die Region sich selbst überlassen und damit den Konflikten zwischen den Regionalmächten Saudi-Arabien, Türkei und Iran sowie den Einmischungen Russlands ausliefern. Den Preis dafür würden die Bewohner Syriens und des Iraks zahlen. Europa hätte eine Nachbarregion, die sich in einem ständigen Kriegszustand befinden würde, und würde weiterhin durch Flüchtlinge aus der Region überschwemmt werden. Angesichts dieses Chaos würden die USA in der Welt aber jegliche Glaubwürdigkeit verlieren. Die Folge wäre eine Destabilisierung weiterer Regionen.

[1] Trofimov, Y., and PH. Shishkin, Clashing Agendas Fuel Rise of Islamic State, Regional rivalries in Middle East trump fighting extremist group, in: the Wall Street Journal, October 19, 2015, P. A1/A6.

Le Sahel, une poudrière prête à exploser aux portes de l'Europe

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«Le Sahel, une poudrière prête à exploser aux portes de l'Europe»

Entretien avec Serge Michaïlof

Ex: http://www.letemps.ch

Les pays de la frange méridionale du Sahara cumulent explosion démographique et panne économique. Un cocktail explosif 

A l’heure où des foules de réfugiés quittent la Syrie et l’Afghanistan pour l’Europe, un ancien directeur de la Banque mondiale, Serge Michaïlof, lance un cri d’alarme: des vagues bien plus considérables encore de migrants pourraient affluer prochainement des pays du Sahel, avertit dans un livre choc ce spécialiste du développement à l’Institut de relations internationales et stratégiques (IRIS) à Paris. Explications.


Le Temps: Vous décrivez le Sahel comme un baril de poudre prêt à exploser aux portes de l’Europe. D’où vous vient cette conviction?

Serge Michaïlof: La démographie est un facteur d’insécurité fondamental. Or, elle échappe à tout contrôle dans les pays du Sahel. Les chiffres y sont hallucinants. Un pays comme le Niger, qui avait trois millions d’habitants à l’indépendance, en compte pratiquement 20 millions aujourd’hui et, quoi qu’on fasse, en aura plus de 40 millions dans 20 ans. La situation s’avère d’autant plus dramatique que son territoire est à 92% impropre à l’agriculture et que sur les 8% restants, le secteur est en panne. Cela pose non seulement un problème alimentaire mais aussi un très grave problème social: le manque d’emplois à disposition des foules de jeunes qui arrivent sur le marché du travail. Et le cas n’est pas isolé. Le Mali, le Burkina et le Tchad connaissent le même cocktail explosif de surpopulation rurale et d’absence de perspectives professionnelles.

- Vous comparez le Sahel à l’Afghanistan…

- Effectivement. Si la situation est aujourd’hui moins dramatique au Sahel, la région ressemble à l’Afghanistan à de nombreux égards. Comme lui, elle couve toutes sortes de fractures ethniques et religieuses, qui vont s’aggravant. Comme lui, elle souffre de la grande faiblesse de l’Etat, voire de son absence totale dans certaines zones reculées. Comme lui, enfin, elle possède un voisinage dangereux, entre un sud libyen sans foi ni loi et un nord nigérian sous l’influence des djihadistes de Boko Haram. Et ce sur fond de propagande islamiste radicale, de multiplication des groupes armés et de développement de tous les trafics.

 

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- Quelles conséquences les malheurs du Sahel peuvent-ils avoir sur les pays avoisinants?

- La crise actuelle ressemble à un cancer. Il existe divers foyers cancéreux dans la région, du nord du Mali au nord du Nigéria. Et ces foyers développent des métastases sur leur pourtour. Les pays du Sahel ont été les premiers touchés mais la montée de l’insécurité ne peut qu’affecter tôt ou tard les pays du golfe de Guinée. D’autant que ces Etats sont fragiles. Preuve en est le très riche Nigeria, tenu en échec pendant trois ans par les djihadistes de Boko Haram.

- Et sur l’Europe? Quels effets attendez-vous?

- De nombreux jeunes Sahéliens vont être tentés par l’émigration. Comme ils retrouveront au bord du golfe de Guinée et en Afrique du Nord les problèmes d’explosion démographique et de sous-emploi qui les ont poussés à partir, nombre d’entre eux devraient pousser tout naturellement plus loin, jusqu’en Europe. Et là, gare à la vague! Quand on voit l’émoi provoqué par la déstabilisation de la Libye et de la Syrie, deux pays qui totalisent moins de 30 millions d’habitants, on a de la peine à imaginer les réactions que pourrait provoquer la décomposition du coeur du Sahel francophone, une région qui compte près de 70 millions d’habitants aujourd’hui et en aura quelque 200 millions en 2050. Cela n’est pas pour ces toutes prochaines années. Mais les évolutions démographiques vont devenir dramatiques dans 8 à 15 ans.

- Comment expliquez-vous que les gouvernements des pays sahéliens ne parviennent pas à mieux contrôler la situation?

- Les élites sahéliennes font ce qu’elles peuvent. Mais dans des pays souffrant régulièrement de déficit alimentaire, elles sont submergées en permanence par mille requêtes urgentes. Et puis, elles disposent de maigres ressources financières qu’elles se sentent obligées de consacrer en bonne partie au maintien d’un minimum de sécurité. Il ne leur reste dès lors presque plus d’argent à affecter au développement, un secteur où elles dépendent largement de l’aide extérieure. Or, les donateurs étrangers financent ce qu’il leur plaît, comme il leur plaît, quand il leur plaît.

- Quelle aide la communauté internationale peut-elle apporter aux pays du Sahel?

- L’expérience afghane a apporté divers enseignements, qui peuvent s’avérer utiles en Afrique. Elle s’est caractérisée par un engagement militaire et financier considérable qui a débouché sur un fiasco politique, économique et militaire. La première leçon à en tirer est que l’emploi prolongé d’armées étrangères n’a aucune chance d’assurer la sécurité, parce que de telles troupes sont rapidement perçues comme des forces d’occupation. Il est par conséquent impératif de renforcer les armées locales et, au-delà, tout l’appareil «régalien», soit la gendarmerie, l’administration territoriale, la justice, etc. Les efforts consentis dans ce domaine au Sahel sont très insuffisants.

La deuxième leçon est que l’aide internationale finit souvent par faire partie du problème, parce qu’elle se focalise sur les problèmes qui plaisent aux décideurs politiques et aux opinions publiques des pays donateurs au lieu de répondre aux besoins des populations locales. Des besoins qui sont d’abord le développement rural et le renforcement de l’appareil d’Etat.

 

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- Le Mali et le Nigéria ont connu des percées djihadistes spectaculaires ces dernières années. Où en sont-ils aujourd’hui?

- Le cancer connaît des périodes de rémission. C’est ce qui arrive en ce moment dans l’un et l’autre cas. Au Mali, les djihadistes ont subi une grave défaite mais ils sont toujours là. On doit s’attendre à ce qu’ils changent de stratégie et qu’ils s’en prennent à l’avenir à des régions plus peuplées, où l’aviation et l’artillerie françaises auront plus de mal à intervenir. Au Nigeria, l’étroite collaboration de plusieurs armées africaines paraît en mesure de briser l’appareil militaire structuré de Boko Haram, ces blindés,ces pick-up équipés de canons de 20 mm et ces unités de plusieurs centaines, voire de plusieurs milliers d’hommes que l’organisation a pu aligner ces dernières années. Mais là aussi, le mouvement ne disparaîtra pas pour autant. Ses membres vont se disperser dans la nature, notamment au Niger, et continuer à sévir sous d’autres formes. Et allez empêcher des fillettes de tuer des dizaines de personnes en se faisant exploser sur des places de marché! Le problème sera d’autant plus difficile à régler qu’il est économique avant d’être militaire. Cela signifie que sa solution sera longue à mettre en oeuvre.

«Africanistan - L’Afrique en crise va-t-elle se retrouver dans nos banlieues?», Serge Michaïlof, édit. Fayard, 2015, 366 pages.

 

Leidt de digitale economie tot een catastrofe?

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Leidt de digitale economie tot een catastrofe?

Guillaume Faye

Ex: http://www.solidarisme.be

Joseph Schumpeter toonde met zijn theorie van de “creatieve vernietiging” aan dat technologische innovaties méér banen schiepen dan ze vernietigden. Dat was het geval voor de industriële revoluties van het midden van de 19de eeuw tot op vandaag. Maar met de digitale economie (ook wel de “uberisering van de economie” genoemd) is dat misschien gedaan. We riskeren er veel meer banen door vernietigd te zien worden dan er geschapen worden. Pierre Bellanger was met zijn essay La souveraineté numérique (zie het vorige artikel op deze blog) een van de eersten om op die uitdaging te wijzen. Vandaag maken echter steeds meer economen zich zorgen; de digitale platformen op smartphones, tablets of computers dematerialiseren heel wat diensten die door bedrijven geleverd worden en brengen zo die laatste in gevaar. Ze vernietigen immers veel meer banen dan dat ze er voortbrengen.

De valstrik van de krab met zijn twee scharen

Nemen we het voorbeeld van Airbnb (een kamerverhuurdienst van particulier tot particulier, in 2008 opgericht en vandaag beursgenoteerd) dat het hotelwezen beconcurreert met een beurswaardering die veel hoger is. Laurent Gey merkt op in Epoch Times (5-11/10/2015): “Airbnb stelt slechts 600 mensen ter wereld te werk, de hotelgroep Accor 180 000. Een verschil van 300 keer minder personeel voor een omzet die veel groter is: economisch gezien, een droom. Over ‘t geheel genomen, een ramp.

De dienstensectoren die naast het hotelwezen bedreigd worden zijn niet te tellen: restaurants, leveringen, reisagentschappen en vastgoedkantoren, autoverhuurbedrijven, allerlei klein- en grootdistributie, vaklui en diensten aan huis, het bankwezen, verzekeringen enz. Om nog te zwijgen van de post, de sectoren van het uitgeversbedrijf (geschreven pers en boeken … ) en de audiovisuele media (radio, tv, muziek- en filmuitgevers), die op termijn bedreigd worden, niet met verdwijning, maar wel met gedwongen afslanking. Daartegen wegen de banen en rijkdommen in de digitale economie niet op.

Het aantal banen dat door een digitaal platform wordt voortgebracht is meer dan 100(!) keer lager dan dat van een reële onderneming, terwijl de kosten ervan tien keer minder zijn door de outsourcing van diensten naar particulieren of zelfstandigen: gedaan met bedrijfsruimten, onderhoudskosten, vergoedingen voor talloze werknemers, sociale of fiscale lasten enz.

We lopen het risico getuige te zijn van een pervers economisch fenomeen, een verpaupering die de “valstrik van de krab met zijn twee scharen” kan worden genoemd. De schaar van de toeleveringszijde vernietigt de werkgelegenheid en de schaar van de afnemerszijde vernietigt de sociale en fiscale inkomsten van de staat, die de oude ondernemingen in verval ziet raken en van de opbrengsten uit de digitale sector verstoken blijft. Dat zou dus door méér directe belastingen moeten worden gecompenseerd. Het is een vicieuze cirkel, waarop we later nog zullen terugkomen. De keuze voor micro-economische winsten op zeer korte termijn zou zo een macro-economisch verlies op lange termijn kunnen uitlokken, trapsgewijs en volgens een meetkundige reeks.

Het huidige bedrijfsmodel, dat relatief log en star is, wordt overhoopgehaald door de digitalisering. Zowel op het vlak van de klassieke bezoldiging als dat van het belastingwezen. Dat “technologische nomadisme” brengt een omwenteling teweeg en fascineert, maar draagt ook een onvoorzien gevaar in zich: het vermindert het aantal banen en het weefsel van ondernemingen die belastingen betalen.

Internationaal kantoor voor strategisch advies Roland Berger voorspelt dat de komende tien jaar drie miljoen banen in West-Europa zullen verdwijnen (verband tussen schepping en vernietiging) als gevolg van de nieuwe technologieën: “zeker, de digitalisering van de economie opent perspectieven voor de creatie van banen. Men weet ook dat digitale ondernemingen de meest dynamische groei hebben. Maar de nieuwe banen zullen niet de oude banen vervangen: noch in termen van vereiste bekwaamheidsgraad, noch in termen van positie in de waardeketen of van geografische spreiding”. Het is de vicieuze cirkel van onvoldoende marginale nuttigheid.

De vicieuze cirkel van de digitale economie

Die vicieuze cirkel is als volgt samen te vatten: de nieuwe digitale economie kan de spreekwoordelijke tak afzagen waarop ze zelf zit. Die tak is de koopkracht die afhankelijk is van de werkgelegenheidsgraad en de sociale en fiscale inkomsten die door bedrijven en huishoudens worden voortgebracht. Anders gezegd: als de digitale economie samenlevingen verarmt door de oude sectoren te snel droog te leggen, dan zal ze haar eigen klanten verliezen en wegkwijnen. Het risico bestaat immers dat de marginale kost van de digitale economie hoger uitvalt dan het marginale nut. Simpel gezegd: de digitale economie kost meer dan dat ze opbrengt.

De nieuwe economie voedt namelijk de illusie van kosteloosheid en low cost (goedkoopheid) bij miljoenen consumenten. In werkelijkheid is ze vrij duur en fragiel, en wel om drie redenen:

1) de digitale uitrusting is duur voor de consumerende huishoudens: op vlak van de aankoop van verschillende eindtoestellen (smartphones, tablets, computers, met internet verbonden voorwerpen enz.), de voortdurende vernieuwing van die laatste en de vrij prijzige abonnementen bij operatoren (waarvan de gehanteerde tarieven weinig transparant zijn). Hetzelfde geldt voor de globale kost van informatica in bedrijven.

2) de “netwerksoftware” (of “résogiciels”, een neologisme van Pierre Bellanger), de werking van het gedematerialiseerde internet – met zijn cloud (“wolk”) die door de reusachtige servers van big data (grote hoeveelheden gegevens) wordt mogelijk gemaakt – en alle eindtoestellen met beeldschermen veronderstellen een enorm “onzichtbaar” elektriciteitsverbruik.

3) De digitale economie ziet drie verontrustende factoren onophoudelijk toenemen: er is de onveiligheid veroorzaakt door internetpiraterij en cybercriminaliteit, onveiligheid die exponentieel toeneemt; verder is er de kwetsbaarheid door het permanente risico van bugs (pannes en disfuncties), maar ook door de complexiteit van een zeer gesofisticeerd wereldwijd netwerk, dat zowel van levensbelang is als overgeleverd is aan de genade van massale ongelukken zonder dat er vangnetten zijn (gebrek aan robuustheid); ten slotte de grenzen aan de taken die door buitensporige informatisering en systematische digitalisering kunnen worden gefaciliteerd. Dat laatste punt is belangrijk en betreft de concrete sociologie, die uitgaat van dagelijkse ervaringen op microniveau.

Steeds meer stemmen merken inderdaad op dat bedrijven, besturen en particulieren tijd en geld verliezen ten opzichte van de traditionele technieken doordat ze uitsluitend gebruik maken van digitale middelen en gedematerialiseerde e-tools. Twee voorbeelden: u boekt en regelt een reis via internet zonder dat er een agentschap bij komt kijken. De reële financiële besparing die u daarmee gaat doen zal miniem en illusoir zijn vergeleken met de tijd die u voor uw magische scherm zult hebben doorgebracht (de “fantoomarbeid”) en de betrouwbaarheid van uw boeking zal vrij laag zijn. Een tweede geval, dat ik persoonlijk heb meegemaakt: in de geschreven of audiovisuele media hebben internet en de massale toevlucht tot digitale middelen (dematerialisering van het informatieverkeer) niet geleid tot een substantiële verbetering van de prestaties (snelheid, gebruiksvriendelijkheid, kosten). Integendeel: de problemen die zich voordoen, overstijgen de marginale nuttigheid van de veronderstelde voordelen. De geboekte “vooruitgang” is niet vanzelfsprekend. Hij is psychologisch, niet concreet.

Die feiten worden op dit ogenblik zorgvuldig weggemoffeld omdat we ons bevinden in een fase van enthousiaste fascinatie voor het digitale, het internet enz. Voor de “nieuwigheid”. Beetje bij beetje zullen we merken dat we te ver zijn gegaan.

De zeepbel van het digitale/internet kan leeglopen … of uit elkaar spatten

Tegenwoordig wordt er in Frankrijk (waar de Senaat zich beraadt over een wetsvoorstel) en andere landen over nagedacht om webwinkels en samenwerkingsplatformen vrij sterk te belasten om hun groei te beperken en verlies van fiscale inkomsten goed te maken. Het probleem is dat die oplossing (altijd die Franse obsessie met belastingen en taksen) geen enkel effect zal hebben op de grond van het fenomeen.

Het “internet van de energie”, dat wordt aangeprezen door de Amerikaanse economische goeroe Jeremy Rifkin (auteur van De derde industriële revolutie. Naar een transformatie van economie en samenleving, 2012), doet ons dromen van een intelligent en interactief netwerk dat onder andere huishoudelijke toestellen, personenwagens en openbaar vervoer met elkaar verbindt, en dat geacht wordt enorme hoeveelheden energie te besparen. Helaas! De regio Nord-Pas-de-Calais, die het experiment wou uitproberen, heeft berekend dat de prijs torenhoog is voor een onzekere uitkomst. Het stadsbestuur van Parijs is ook op zijn stappen teruggekeerd. De impasse is het lot van elke utopie. Het gaat er niet om domweg het internet en de digitale economie af te wijzen, maar wel om ze te herzien. En op te houden met de verafgoding van economie en techniek. De fascinatie voor technologie is even inefficiënt als de groene hang naar het verleden.

De buitensporige informatisering en digitalisering zijn zeepbellen die onvermijdelijk gaan leeglopen als ballonnen of, tragischer, plots ontploffen als bommen. De vergelijkingen met het verleden zijn interessant: in de jaren ’60 geloofde men dat de mens tientallen bases op de maan zou hebben vanaf het jaar 2000, mijnen inbegrepen. Waar zijn ze? Laten we ons ervoor hoeden om sciencefiction toe te passen op de economie. 80% van de technisch-economische prognoses tijdens de laatste 150 jaar zijn verkeerd gebleken. De toekomst is nooit zoals men hem droomt of voorspelt. We tasten in het duister. In de internationale beurshandel wijzen de flitstransacties met computer-algoritmes op een ander gevaar: de ontkoppeling met de reële economie. Daar toont de buitensporige informatisering zich opnieuw van haar kwetsbaarste kant. Zo ook fantaseert men over het 3D-printen (zoals over “hernieuwbare energieën”): opgelet voor technologische illusies.

Welke toekomst voor de digitale economie? Onduidelijk

Het zou natuurlijk ondoordacht zijn de digitale economie op zich te veroordelen. Ze zal haar plaats hebben, maar niet overheersen. Ze zal een ernstige terugval kennen in het komende decennium, omdat de toename van haar marginale kosten (in directe financiële termen of als externaliteiten) – beetje bij beetje de globale voordelen overstijgen. Laten we zeggen dat de neerwaarts gaande curve van de voordelen weldra zal kruisen met de opwaartse gaande curve van de nadelen. Onder meer door het probleem van banen- en dus koopkrachtvernietiging (het aantal vernietigde banen is groter dan het aantal nieuwe banen dat ze met zich meebrengt); en door overdrijving van de verhouding tussen geleverde diensten en opportuniteitskosten, die omstreeks 2010 een daling is beginnen te vertonen.

Er zit dus waarschijnlijk een inkrimping van de digitale economie op wereldschaal aan te komen: ze zal zich aanpassen in een grootteorde van 35% binnen 10 jaar. Met een daling van de markt (vraag), omdat de consumenten stilaan beseffen dat de investeringen niet opwegen tegen de prestaties. De volledig digitale wereld die sommige goeroes prediken, lijkt sterk op de Hollywood-romantiek van de jaren zestig, de ruimtevaartdroom van een mensheid die zich in het zonnestelsel gaat vestigen.

De utopie botst altijd op de menselijke natuur van de economische verhoudingen. Kortom, de voordelen maximaliseren, de gebreken minimaliseren, de kosten optimaliseren volgens een proces van zelfaanpassing dat zich in enkele decennia voordoet. Schakel uw smartphone, tablet of computer niet uit, ze zijn nuttig. Maar verafgoodt u ze ook niet. Er zal een “post-digitaal tijdperk” zijn of veeleer een “alter-digitaal tijdperk”. Aan elk monopolie komt een einde. Na elke droom volgt het ontwaken.

Bron: Gfaye.com

 

dimanche, 25 octobre 2015

The Cost Germany Is Paying For Washington’s Wars

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The Cost Germany Is Paying For Washington’s Wars

I am unable to vett the accuracy of this report from a German hospital beyond the fact that this report was given over Czech TV. It coud be true or it could be anti-Muslim propaganda or some combination of the two.

Nevertheless, it is true in the sense that the sudden appearance of one million pennyless refugees in a European country, which are not of the vast size of the US and Canada, is destabilizing in many ways.

One can commiserate with the Germans and the refugees, but the Germans brought it on themselves. They permitted the Merkel government, which serves Washington and not Germany, to legitimize Washington’s illegal wars that brought Germany the refugees. The same is happening all over Europe and in the UK, where the British also sat on their butts and permitted Blair and Cameron to serve Washington instead of them.

Who is to say that the Europeans and British do not deserve the consequences of their own complicity in Washington’s gratuitous and illegal wars? Nothing more needs to be said.

The local German Press are not allowed to report on what is happening inside German Hospitals

The below letter is from a retired physician who had returned to work at a Munich area hospital where they needed an anaesthesiologist. She e-mailed the following letter to her friend in Prague. The letter has been read out on Czech TV but in Germany the issues mentioned in the letter are not being reported on by the German Press because they have been told to not write anything negative about the migrants. Merkel’s government fears that the German population will react badly to the truth, so like bad governments throughout history the truth is being suppressed. Despite this German’s are protesting in record numbers as they can see the negative effects of record migration in their own towns and cities but you will only find articles and photos describing the protests on New Media. Even international media seem to be going along with the Blackout on bad news about migrants in Germany.

“Yesterday, at the hospital we had a meeting about how the situation here and at the other Munich hospitals is unsustainable. Clinics cannot handle emergencies, so they are starting to send everything to the hospitals.

Many Muslims are refusing treatment by female staff and, we, women, are refusing to go among those animals, especially from Africa. Relations between the staff and migrants are going from bad to worse. Since last weekend, migrants going to the hospitals must be accompanied by police with K-9 units.

Many [Muslim] migrants have AIDS, syphilis, open TB and many exotic diseases that we, in Europe, do not know how to treat them. If they receive a prescription in the pharmacy, they learn they have to pay cash. This leads to unbelievable outbursts, especially when it is about drugs for the children. They abandon the children with pharmacy staff with the words: “So, cure them here yourselves!” So the police are not just guarding the clinics and hospitals, but also large pharmacies.

Truly we said openly: Where are all those who had welcomed in front of TV cameras, with signs at train stations?! Yes, for now, the border has been closed, but a million of them are already here and we will definitely not be able to get rid of them.

Until now, the number of unemployed in Germany was 2.2 million. Now it will be at least 3.5 million. Most of these people are completely unemployable. A bare minimum of them have any education. What is more, their women usually do not work at all. I estimate that one in ten is pregnant. Hundreds of thousands of them have brought along infants and little kids under six, many emaciated and neglected. If this continues and German re-opens its borders, I’m going home to the Czech Republic. Nobody can keep me here in this situation, not even double the salary than at home. I went to Germany, not to Africa or the Middle East.

Even the professor who heads our department told us how sad it makes him to see the cleaning woman, who for 800 Euros cleans every day for years, and then meets young men in the hallways who just wait with their hand outstretched, want everything for free, and when they don’t get it they throw a fit.

I really don’t need this! But I’m afraid that if I return, that at some point it will be the same in the Czech Republic. If the Germans, with their nature cannot handle this, there in Czechia it would be total chaos. Nobody who has not come in contact with them has no idea what kind of animals they are, especially the ones from Africa, and how Muslims act superior to our staff, regarding their religious accommodation.

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For now, the local hospital staff has not come down with the diseases they brought here, but, with so many hundreds of patients every day – this is just a question of time.

In a hospital near the Rhine, migrants attacked the staff with knives after they had handed over an 8-month-old on the brink of death, which they had dragged across half of Europe for three months. The child died in two days, despite having received top care at one of the best pediatric clinics in Germany. The physician had to undergo surgery and two nurses are laid up in the ICU. Nobody has been punished.

The local press is forbidden to write about it, so we know about it through email. What would have happened to a German if he had stabbed a doctor and nurses with a knife? Or if he had flung his own syphilis-infected urine into a nurse’s face and so threatened her with infection? At a minimum he’d go straight to jail and later to court. With these people – so far, nothing has happened.

And so I ask, where are all those greeters and receivers from the train stations? Sitting pretty at home, enjoying their non-profits and looking forward to more trains and their next batch of cash from acting like greeters at the stations. If it were up to me I would round up all these greeters and bring them here first to our hospital’s emergency ward, as attendants. Then, into one building with the migrants so they can look after them there themselves, without armed police, without police dogs who today are in every hospital here in Bavaria, and without medical help.

Hongrie: Paroles de médias et réalités

Conférence de Ferenc Almássy pour le Cercle Aristote :

«Hongrie: Paroles de médias et réalités»

(14 septembre 2015)


Suivez-nous sur www.cerclearistote.com et sur Facebook : https://www.facebook.com/Cercle-Arist... .

Liens des articles présentés :
- http://www.lefigaro.fr/international/...
- http://www.lemonde.fr/europe/article/...
- http://www.lemonde.fr/europe/article/...
- http://www.lemonde.fr/idees/article/2...
- http://www.lefigaro.fr/international/...
- http://www.bbc.com/news/world-europe-...
- http://www.lemonde.fr/europe/article/...
- http://www.lemonde.fr/europe/article/...
- http://www.rfi.fr/europe/20140804-hon...
- http://www.slate.fr/story/95771/femme...
- http://magyarhirlap.hu/cikk/32941/Elk...
- http://www.courrierinternational.com/...
- http://www.franceinfo.fr/vie-quotidie...
- http://www.lemonde.fr/europe/article/...
- http://www.lepoint.fr/monde/migrants-...

LE PROJET CHINOIS “UNE ROUTE, UNE CEINTURE”

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LE PROJET CHINOIS “UNE ROUTE, UNE CEINTURE”
 
Des ambitions irréalistes ?

Auran Derien
Ex: http://metamag.fr

Il y a 100 ans, en mai 1915, les anglo-américains avaient chargé un paquebot de munitions, le Lusitania. Alors que les Allemands avaient rappelé que cela était prohibé par les lois de la guerre, ils le firent volontairement pour entrer en guerre avec le but final de faire mainmise sur le continent européen. En un siècle, les mêmes utilisent toujours les mêmes méthodes pour ramener l’Europe et tout l’Occident à un niveau d'inhumanité très comparable. Dans ce contexte, on a pu lire avec intérêt les nouveaux projets chinois qui pourraient ramener un peu de civilisation dans ce monde dirigé par l’association des Al Capone fanatisés. Le projet chinois s’intitule “une route, une ceinture” et l’on doit au site “Les crises”  d’en avoir publié une version française. Particulièrement surpris de l’obsession anglo-américaine pour la guerre, l’auteur chinois Qiao Liang reconnaît volontiers que l’astuce et le fanatisme de l’oligarchie occidentale l’a conduite à promouvoir deux grandes ignominies : le terrorisme aveugle et la guerre financière. Le premier devoir d’une élite consiste évidemment à bien comprendre ce que cela signifie en pratique pour ne plus en être la victime. 


Les impérialismes se ressemblent mais…


Dans les instituts d’études politiques, on enseignait que l’Impérialisme provenait d’une différence de potentiel qui incitait certaines puissances à en dominer d’autres. Le développement de la Chine répond à ce scénario traditionnel et ne surprend personne. Tant les Russes que les Chinois souhaitent en premier lieu obtenir une part du gâteau que les oligarchies anglo-américaines ont su s’approprier depuis la première guerre mondiale. Mais dans l’univers de la mafia, il ne faut pas “toucher au grisbi” surtout lorsque les chefs se considèrent comme une race élue destinée à administrer les richesses du monde à leur seul profit. Les oligarques occidentaux refusent en général de partager. Les impérialismes naissants doivent donc bâtir une stratégie de puissance originale tout en évitant une confrontation directe avec l’Occident qui ne rêve que guerres, destructions, pillages et génocides. 


L’art de la conquête s’avère primordial et l’auteur chinois propose deux pistes 

- Fixer des objectifs principaux sur terre et sur mer, puis des objectifs secondaires. La partie matérielle la plus connue est terrestre. La Chine souhaite construire des réseaux vers l’Europe, en particulier des trains à grande vitesse dont ils sont désormais les grands spécialistes, des pipelines et des oléoducs. La partie financière est encore plus fondamentale. Entre l’Internet et les échanges en ligne, le rôle de la monnaie américaine doit diminuer inexorablement. Les sites chinois permettent déjà des paiements sans utiliser de dollar. La lutte principale réside pour eux comme pour nous tous dans la libération de l’esclavage monétaire.


- Aider les fanatiques qui dominent l’Amérique à scier les branches sur lesquelles ils sont assis : l’innovation dans l’internet, les bases de données, les nuages ne doivent pas être monopolisés par les gangs anglo-américains et leurs serviteurs européens. La Chine se considère comme étant sur la même ligne de départ pour ces nouvelles technologies et entend progresser au même rythme pour éviter la dépendance. Surtout, ses élites apprennent à décrypter les pièges habituels des voyous de la finance car ils ne veulent pas demeurer niais et bêtes comme les européens face à leurs bourreaux. Qiao Liang détaille la guerre financière, observant le phénomène de l’accordéon. La finance anglo-américaine gonfle des créances puis les dégonfle. Il remarque avec subtilité que le dégonflement suit une crise organisée par l’oligarchie. Elle détruit les pays qui en sont victimes et enrichit Wall street et ses diverses activités financières car il n’y a désormais rien d’autre aux États-Unis en dehors de la finance. Il est fondamental pour les criminels en col blanc de contrôler les fluctuations de tous les marchés monétaires et financiers car sans cela ils ne peuvent plus maintenir leur niveau de vie et s’appauvrissent. Les crises sont fondamentales pour remplir les poches des employés de la finance et toute la politique occidentale vise à les provoquer à intervalle régulier. 


Sauf grain de sable, l’empire du néant va durer


Pierre Leconte, qui appartient à la tradition libérale autrichienne, propose sur son Forum de se dépouiller de toute illusion sur l’évolution à court terme du programme de terreur et de destruction massive piloté par le pouvoir. 


Comme libéral, Leconte défend deux thèses pour lesquelles on peut être en désaccord: la création monétaire à partir du métal précieux; la concurrence des monnaies. Par contre, nous sommes tout à fait convaincus du bien-fondé des réformes qu’il propose pour soulager les misères des populations victimes des néantologues financiers: casser les monopoles de la finance car ils font régner la terreur sur les hommes politiques; supprimer le FMI qui est un appareil prédateur; interdire l’escroquerie du grand marché transatlantique; sanctionner la publicité mensongère sur les actifs financiers; éliminer les armes de destruction massive que sont les marchés à terme. Quand aux USA, leur ressemblance avec l’ex-Union Soviétique est désormais frappante: le Plunge Protection Team est la main très visible chargée de manipuler les marchés. Pour construire cet autre monde, le chinois Qiao Liang se berce d’illusions sur son pays. Le dollar va rester encore longtemps la principale monnaie malgré le système de destruction massive qui le contrôle, le produit, l’agite. La chute d’un empire monétaire prend du temps. Il en sera de même à propos des organisations terroristes manipulées, contrôlées, entretenues par l’axe de l’inhumanité. Elles ne permettront ni à la Chine ni à la Russie de faire chuter l’horreur vétérotestamentaire. Il faudra des résistances multiples, des refus d’obéissance systématiques, pour que l’inhumanité retourne dans son lit… Sauf si, à la manière du grain de sable, divers phénomènes imprévus (épidémies?, aveuglements? …) favorisaient la dislocation des réseaux de la haine et de la corruption.


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Le monde orwellien de l’information, c’est maintenant

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Le monde orwellien de l’information, c’est maintenant

par Yovan Menkevick

Ex: https://reflets.info

Le journalisme est une pratique professionnelle très large. Il n’y a pas un type de journaliste, une sorte de modèle qui donnerait le « La » à tous les autres. Certains relayent les informations de [la centrale française de l’information] l’AFP, et les « habillent », d’autres mettent bout-à-bout des actualités récupérées par des confrères. Il y a des journalistes assis, d’autres debout, en mouvement, des journalistes qui analysent, qui n’analysent pas, qui creusent ou non, enquêtent, fouillent, vont sur le terrain, ou au contraire, relayent principalement le message de groupes d’intérêts.

Toutes ces formes de journalisme créent ce que l’on nomme « l’information ». Et dans un monde complexe, hétérogène, aux politiques d’influence d’une puissance historique incomparable, recouvert de technologies [de l’information] en perpétuelles améliorations, le journalisme continue, malgré tout, à pratiquer son activité de manière [majoritairement] uniforme. Majoritairement, mais pas intégralement, puisque des hisoires commencent à être racontées avec l’aide de nouveaux acteurs — qui peuvent être nommés de façon large — les hackers.

Poitras et Greenwald, avec les révélations d’Edward Snowden en sont un exemple frappant. Reflets, avec les affaires Amesys, Qosmos, en est un autre. Ces nouvelles manières d’aborder les réalités  — beaucoup par et — grâce à Internet, offrent une autre vision du monde qui nous entoure. Elles critiquent la réalité établie, celle qui est servie par « l’information ». Personne ne pouvait imaginer il y a un peu plus de 2 ans, que la planète entière était sous écoute américaine (et d’autres grandes nations), même si cette possibilité était pointée par Reflets, depuis 2011, inlassablement, avec entre autres les ventes d’armes numériques de la France à la Lybie, la Syrie — et d’autres nations très peu démocratiques.

La réalité commune, véhiculée par l’information des journalistes, n’est donc pas fixe. Mais elle a la peau dure. Le rapprochement avec le monde d’Orwell commence à émerger, et étrangement — alors que chacun pouvait le penser au départ — ce n’est pas grâce à une surveillance permanente des individus par un œil étatique invisible (Big Brother) et omniprésent. Le monde d’Orwell est en place, mais c’est avant tout celui de la fabrication et de la refabrication de la réalité qui le définit. Par le biais de l’information.

La guerre c’est la paix (créer le chaos c’est la sécurité)

go5798749_e9c5d296d2_z.jpgLes attentats de janvier 2015 ne sont pas survenus au gré de circonstances équivoques, par la simple volonté d’illuminés vengeurs qui ne supportaient pas des caricatures vieilles de 10 ans, d’un journal satirique en cours d’effondrement économique pour cause de manque de lecteurs. Cette histoire de liberté d’expression bafouée ne fut qu’un paravent pour éviter de parler de politiques françaises lourdes de conséquences.

La première de ces politiques est la participation militaire de la France à des bombardements en Irak depuis l’automne précédent. La seconde est la politique de rapprochement avec Israël, marquée par un discours du chef de l’Etat français soutenant – durant l’été 2014 — les bombardements aveugles d’un Nethanyaou plus martial que jamais, et causant par des bombardements aveugles la mort de plus de 2000 Palestiniens de la bande de Gaza, dont un nombre impressionnant d’enfants.

« La guerre c’est la paix » était le slogan d’un ministère de la société de Big Broter imaginée par Georges Orwell dans 1984. Le « chaos c’est la sécurité » pourrait dire Hollande, qui prétend protéger la France en envoyant son armée pilonner des territoires partout où des fondamentalistes appellent leurs « frères », en Occident, à causer le maximum de morts dans les populations des pays engagés militairement contre eux.

La cause et l’effet sont évidentes, elles ne sont pourtant pas fortement discutées : la réalité ne semble pas vouloir plonger dans les racines des événements. Au contraire, elle semble devoir être l’événement, et lui seul. Une forme d’amnésie permanente de « l’information au présent simple », avec laquelle l’histoire est évacuée.

L’ignorance c’est la force (et la distraction assurée)

« Notre ennemi, c’est la finance, mais ce sont aussi les djihadistes, bien que nos alliés soient des bourreaux qui ont financé ces mêmes djihadistes et participent au grand désordre financier mondial. Quand nous soutenons la dictature militaire égyptienne en leur vendant de l’armement, nous soutenons la démocratie et les révolutions arabes, parce que nous sommes le pays des Droits de l’homme qui aide les dictatures à torturer ses opposants politiques grâce à nos technologies duales de surveillance numérique. Nous soutenons la transition écologique grâce à l’énergie nucléaire — qui exploite nos ex-colonies riches en uranium, aux populations affamées — énergie que nous allons pourtant réduire, tout en déclarant la guerre aux centrales à charbon, car la planète se réchauffe dramatiquement par notre faute, par la croissance économique, que nous souhaitons pourtant la plus forte possible. »

Discours imaginaire de François Hollande.

La réalité commune, celle du monde qui nous entoure est forgée — au XXIème siècle — non pas par une observation personnelle d’un environnement local, ou par la lecture approfondie de documents fabriqués par des personnes observatrices et analystes d’événements locaux, dans la durée, mais par un flot ininterrompu d’informations. Cette information est rapide, fabriquée par des acteurs plus ou moins indépendants, plus ou moins présents lors des événements. Sa principale vocation est d’appeler à réagir, émotionnellement le plus souvent.

Présenter des événements inquiétants, violents, perturbants, gênants, qui appellent les spectateurs à la fascination et au dégoût, tel est le principe de l’information actuelle. Le but étant de faire commerce de cette information, il est crucial qu’elle « fasse événement », soit forte, et surtout, qu’elle soit une nouveauté. D’où le remplacement nécessaire d’une information forte par une autre, quand la première commence à se dégonfler, à perdre de son intensité. Cette faculté de l’information à ne jamais revenir sur les origines des événements, de ne jamais traiter les causes et les effets (faculté qui existait auparavant mais pas dans des proportions aussi importantes, cf l’info en continu) de ce qu’elle montre, mène à des manipulations par omissions, certainement inconscientes de la part des journalistes, mais qui posent de véritables problèmes. Démocratiques.

Comment les citoyens peuvent-ils débattre, échanger, chercher à connaître la réalité de la façon la plus honnête qui soit, demander à leurs représentants d’améliorer, faire progresser leur société (ou d’autres plus lointaines), s’ils sont en permanence floués, assommés par des réalités/vérités qui remplacent et annulent les anciennes ?

L’information, c’est l’affirmation

Une quinzaine d’articles publiés sur Reflets (du même auteur que cet article) — plus ou moins satiriques — à propos du changement climatique, ont tenté de réfléchir et faire réfléchir sur cette capacité à revisiter l’histoire que la société de l’information actuelle pratique intensivement. Le but de ces articles, malgré les apparences, n’était pas moins d’invalider purement et simplement les thèses sur le réchauffement anthropique — démonstration impossible s’il en est à l’échelle d’un journaliste — que de pointer le traitement quasi hallucinatoire de ce sujet.

L’intérêt principal de l’information sur le changement climatique est sa capacité à refaire sa propre histoire, à oublier ses erreurs, approximations, ses prédictions fausses, et recréer de façon continue une cohérence illusoire dans sa vocation unique. Cette « vocation », l’objectif de l’information sur le climat, n’est pas de parler du climat en tant que tel, mais des catastrophes que celui-ci, en se modifiant à cause de l’activité humaine, va provoquer. De façon « certaine ». D’où les annonces permanentes de prévisions d’augmentation de la température du globe, à 10 ans, 15 ans, 30, 50 ou 100 ans.

Si l’information d’il y a 15 ans, pour la période actuelle, s’avère fausse, à propos de la hausse générale de température prévue, cette information n’est pas ou peu franchement traitée, et quand c’est le cas, elle est balayée d’un revers de main par un expert officiel du « consensus », qui quand il admet que la hausse n’est pas franchement là (le hiatus), laisse entendre que, certes, la chaleur n’est pas autant là que prévu, mais qu’elle existe quand même (théorie de la chaleur captive des océans). De la même manière, les années plus chaudes sont relayées de façon massive, mais lorsque des années plus froides surviennent, cette information n’est pas relayée, ou cataloguée dans le registre « météo ». Une année très chaude est une information climatique, une année froide est de la météo, et écartée. Ou bien encore, elle trouve une explication par le « forçage naturel » du climat.

Le principe de l’histoire [de l’information] revisitée en permanence — pour le traitement du changement climatique — est central. Le terme de réchauffement a d’ailleurs été modifié en « changement », en quelques années (alors que le phénomène de réchauffement est le cœur du sujet, les conférences le stipulent toutes, comme les différents rapports du GIEC). La courbe qui a affolé la communauté scientifique (courbe de Mann en crosse de hockey) dans les années 2000, bien que déclarée fausse, tronquée, et admise comme telle par la communauté scientifique (puis corrigée) — n’a rien changé à l’information sur l’évolution du climat [et des prévisions de changements de température au cours du temps]

Tout comme les 9 mensonges d’Al Gore dans son film « Une vérité qui dérange » (et reconnus comme tels par un tribunal anglais) ne l’ont pas empêché d’obtenir un Nobel de la paix. Les mêmes types d’information contenues dans le le film d’Al Gore, circulent toujours, sont relayées.

go044f.jpgCette information revisitée, ré-évaluée en permanence — quasi amnésique — est logique puisque le but n’est pas d’informer sur le réchauffement climatique, mais de démontrer — à tout prix — la réalité d’un réchauffement anthropique. Ceux qui se penchent sur les ré-écritures de cette histoire, sur les prévisions ratées, sur les jeux de données choisis de façon univoque [avec l’écartement des études ou jeux de données ne collant pas bien avec la démonstration anthropique], ou simplement qui pointent des incohérences ou émettent des doutes sur la connaissance parfaite du climat par la science actuelle — sont donc taxés de climato-sceptiques.

Ce qui ne signifie rien en soi, puisque personne « ne doute de la réalité du climat ». Mais le terme a cette capacité à créer deux camps : ceux du consensus scientifique sur le changement climatique anthropique (le consensus scientifique n’existe QUE pour le changement climatique, et nulle part ailleurs en sciences) et les climato-sceptiques. Le premier camp est celui de ceux qui veulent sauver l’humanité de ses propres errements, et l’autre, ceux de ceux qui osent douter, questionner l’information sur le changement climatique. Le procès de Galilée n’est pas loin. Sachant que de nombreux « climato-sceptiques » sont avant tout des chercheurs qui tentent [encore] de comprendre quelque chose qui ne leur semble pas « fini » en l’état de la science. Les modèles, les informations manquantes, les méthodes, la manière de « prendre la température de la planète » etc…

La plupart ne contestent pas la hausse de 0,8°c en 150 ans. Ni le ralentissement de cette progression depuis 17 ans. Ils ne cherchent pas non plus forcément à démontrer qu’il n’y a aucune influence de l’homme dans cette élévation, mais contestent les rapports du GIEC et son discours univoque, tout comme l’information générale actuelle sur le réchauffement climatique anthropique. Mais cette (petite) information qui met en cause la validité intégrale des rapports du GIEC et de son relais journalistique, qui doute de l’influence unique des gaz à effets de serre dans le réchauffement, n’a simplement plus droit de cité, elle est désormais condamnée, suspecte, considérée comme propagandiste. Le plus étonnant (et ironique) est de voir les pires propagandistes de la planète, à la tête des plus grandes nations, des plus grandes entreprises, des plus grands médias, pointer du doigt une fraction d’individus comme étant ceux pratiquant la propagande.

La liberté c’est l’esclavage

L’intégrisme est devenu un fonctionnement partagé par le plus grand nombre. Intégrisme religieux, politique, intellectuel, informatif. La capacité des individus de la société de l’information à douter, questionner [l’information] se raréfie et mène à une radicalisation des esprits. Le flot continu d’actualités anxiogènes, décousues mais martelées en permanence semble forcer les spectateurs du monde à tenir une position radicale face à celui-ci.

Le doute et le questionnement n’ont donc plus véritablement de valeur : ils mèneraient à une forme d’inconsistance, de mollesse dangereuse, d’un manque de positionnement affirmé. La servitude à l’information est devenue la règle, que cette information soit médiatique ou par échanges de points de vue, d’opinions sur les réseaux [informatiques].

L’éducation est censée avoir progressé et pourtant le nombre d’adultes ne connaissant l’histoire de leur propre pays, ou du monde, que par fragments totalement superficiels est devenu la norme. Jamais la liberté de déplacement, d’apprentissage, de s’informer n’a été aussi grande qu’aujourd’hui pour les populations occidentales, et jamais le servage (aux technologies, à la distraction, à la consommation industrielle) de ces mêmes populations n’a été aussi important. L’homme et la femme actuels des pays industrialisés sont pourtant convaincus de leur libre arbitre, de leur capacité à s’émanciper par l’accès aux technologies de l’information, à s’affirmer par celles-ci, alors qu’en réalité, il n’ont jamais été autant asservis. Leur autonomie est réduite à très peu de choses, leur indépendance, quasi nulle. Paris, si elle n’est plus ravitaillée de l’extérieur, possède une autonomie alimentaire de 5 jours. Elle était de 60 jours en 1960 avec la ceinture verte, qui a disparu. Les réseaux de téléphonie mobile s’arrêtent ? C’est la panique pour une grande majorité des individus actuels qui dépendent à tous les niveaux de leurs smartphones.

Un télécran pour tous ?

Le principe d’une surveillance constante de la population par un dictateur via des écrans nommés « télécrans » et placés dans les logements, les entreprises, les lieux publics, était inquiétant dans le roman « 1984 ». Mais s’il était difficile d’imaginer une population acceptant de se soumettre à ce diktat de l’image, imposé par un pouvoir un place, la réalité de 2015 a trouvé bien plus fin et acceptable : le télécran auto-géré, auto-imposé et valorisé.

La dictature la plus insidieuse et la plus durable est celle des esprits, et elle passe par l’enfermement volontaire d’une majorité des individus dans un écosystème informatif propagandiste et délassant, le tout sous surveillance d’une administration invisible mais en capacité légale et affichée de fouiller la vie privée de tout un chacun. Sachant que les citoyens en redemandent, consomment chaque jour un peu plus de leur télécran, les pouvoirs en place ne peuvent qu’être incités à utiliser cet outil de contrôle pour affirmer et maintenir leur position. Orwell était bien en dessous des possibilités totalitaires qu’une société technologiquement avancé peut mettre en place. Bien en dessous…

Le monde orwellien est celui de 2015. Il est le monde orwellien de l’information .

Er zijn geen rationele argumenten pro-migratie

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Door: Miel Swillens

Ex: http://www.doorbraak.be

De arrogantie van de onmacht

Er zijn geen rationele argumenten pro-migratie

De fictie van de grenzenloze solidariteit... en onze regenten hébben Scheffer nooit gelezen

Bij het opruimen van wat oude mappen met krantenknipsels stootte ik bij toeval op een artikel uit NRC Handelsblad van januari 2004. De titel luidt: De fictie van grenzeloze solidariteit. Verzorgingsstaat en immigratieland verdragen elkaar niet. Het is van de hand van Paul Scheffer, de bekende publicist die eerder met zijn essay Het multiculturele drama een steen had geworpen in de politiek-correcte kikkerpoel in Nederland. Beide zijn nog altijd het lezen waard. Scheffer stelt de vraag waar het heen moet met de migratie in Nederland. Bij het lezen ervan gingen voortdurend belletjes aan het rinkelen, want de auteur laat maar weinig heel van de bekende pro-migratie argumenten. Ik zet dat even op een rijtje:

- Het netto profijt van de immigratie voor de economie is klein, zo niet verwaarloosbaar (conclusie van de Wetenschappelijke Raad voor het Regeringsbeleid).
- Voor de arbeidsmarkt vallen geen positieve effecten te verwachten van grootschalige immigratie (conclusie van het Centraal Plan Bureau).
- Immigratie op grote schaal is geen effectief middel om de financiële gevolgen van de vergrijzing te verlichten. Dat zou enkel mogelijk zijn indien Nederland tegen 2050 39 miljoen inwoners telt, waarna er opnieuw een vergrijzingsprobleem ontstaat.
- Verbazingwekkend is het argument dat arbeidsmigratie de illegale migratie zal tegengaan. Wat heeft de aanwerving van een Indiase computerdeskundige te maken met de beslissing van iemand in Marokko om in een gammel bootje de Straat van Gibraltar over te steken?
- De instituties in de grote steden kunnen de instroom van laaggeschoolde migranten zoals die in de afgelopen 40 jaar heeft plaatsgevonden niet of nauwelijks aan. Gegeven de problemen rond de integratie waarmee de grote steden worstelen, is het desastreus om nu opnieuw te kiezen voor een omvangrijke immigratie van laaggeschoolden.

ref160_F.jpgDat was, lezer, 2004. Wat hebben de politici in Nederland en in België met bovenstaande inzichten gedaan? Welke conclusies hebben ze daaruit getrokken? De vraag stellen is ze beantwoorden. In dit dramatische jaar 2015, nu een nooit eerder geziene volksverhuizing richting Europa op gang is gekomen, hoor je nog steeds hetzelfde versleten discours. En wordt de waarheid gemanipuleerd in de ijdele hoop bij de bevolking een zogenaamd 'draagvlak' te creëren. Zo willen politici en journalisten ons doen geloven dat die volksverhuizing uit alleen maar oorlogsvluchtelingen bestaat, uit hoogopgeleide Syriërs, dokters en ingenieurs. Terwijl het voornamelijk gaat om een eindeloze stroom jonge moslims op zoek naar een Europees eldorado - in meerderheid laagopgeleiden met daarbij een vijftien à twintig procent analfabeten.

Nu rationele argumenten pro-migratie alle geloofwaardigheid hebben verloren, komen regeerders en politici op de proppen met de mantra: die mensen komen toch, of we dat nu willen of niet, migratie valt niet te beheersen.

Hierover zei Paul Scheffer in 2004 al het volgende: 'Dit zelfverklaarde onvermogen, deze arrogantie van de onmacht, heeft vergaande gevolgen voor onze democratische cultuur. Wie op zo een vitaal gebied zichzelf niet meer bevoegd verklaart, raakt aan de wortels van het staatsburgerschap.'

De eerst taak van de staat is namelijk de bescherming van zijn burgers. Wanneer Angela Merkel verklaart dat ze de Duitse grenzen niet kan controleren of sluiten, dan betekent dat een abdicatie van de Duitse staat. Een staat zonder grenzen houdt op een staat te zijn en wordt een soort Far West. Dat die hooghartige vrouw op dit cruciale moment in de Europese geschiedenis kanselier van Duitsland is, is niets minder dan een ramp. Maar het moet ook gezegd dat die arrogantie van de onmacht de Europese Unie typeert, en in deze crisis wellicht de oorzaak van haar ondergang zal worden.

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samedi, 24 octobre 2015

Le terrorisme de synthèse

Orage d'acier #5:

"Le terrorisme de synthèse"

Cette semaine et après quelques ratés, Orages d'acier vous propose un aperçu sur une question qui suscité moults débats : le terrorisme de synthèse. L'émission sera retransmise sur Kebeka liberata ce soir et demain matin à 9h00 ainsi qu'en podcast sur MZ mardi prochain.

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Pour écouter:

http://cerclenonconforme.hautetfort.com/archive/2015/10/18/orange-d-acier-5-le-terrorisme-de-synthese-5702862.html

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Regard sur l'actu: La géopolitique pour les Nuls

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Regard sur l'actu: La géopolitique pour les Nuls

Ex: http://cerclenonconforme.hautetfort.com

Le Nouveau Contexte Mondial pour les Nuls

Dur, dur la géopolitique... C'est ce qu'on pourrait penser à la lumière des événements récents. Pour mémoire, on nous annonce depuis des années le début de la Troisième Guerre mondiale autour de la question iranienne. Pourtant, après plus d'un an et demi de pourparler entre l'Iran et le groupe 5+1 (Etats-Unis, Russie, Chine, France, Royaume-Uni et Allemagne), le dégel entre l'Oncle Sam et la Perse 2.0 a eu lieu, y compris sur le nucléaire, et ce malgré l'hostilité des Israéliens et d'une partie du Congrès des Etats-Unis. Cet accord, qui permettra entre autre le retour de General Motors en Iran, est un des éléments qui correspond à ce que Brzezinski et ses proches nomment sur Foreign Affairs « The New Global Context » (NGC), expression utilisée à Davos 2015 et qui désigne la nouvelle ère économique qui s'ouvre. Cette nouvelle ère est également une réalité géopolitique. Les Etats-Unis, sous l'administration Obama, ont mené une politique qui se révèle différente de celle de l'administration Bush au Moyen-Orient. Une partie non négligeable de l'opinion publique reste pourtant bloquée à la politique étrangère néo-conservatrice de Bush et au NWO (New World Order), c'est à dire à la situation en 1991 à la suite de la chute de l'URSS où les Etats-Unis étaient devenus une hyperpuissance. Cette politique hégémonique, renforcée par les velléités de Bush Jr à partir du 11 septembre 2001 est arrivée à son terme. Depuis 2011 cette parenthèse se referme et ce pour plusieurs raisons.

Les Européens ont traité seuls le cas libyen (avec le désastre qu'on connaît) et ont été des acteurs majeurs des accords de Minsk dans le conflit ukrainien. De leur côté, les Etats-Unis ont revu leurs rapports avec Israël et sous traité aux Irakiens, puis aux Kurdes et aux Iraniens la lutte contre l'Etat Islamique. En 2012, les Etats-Unis ont lancé le « US « pivot » to East Asia », théorisé dès 2011 sur Foreign Policy (lire un article du Figaro). Il consiste à replacer les troupes et les forces vers l'Asie-Pacifique plutôt qu'au Moyen-Orient. Le Pacifique, l'océan qui borde la Chine, deuxième puissance économique et première puissance commerciale mondiale, mais aussi le Japon, Taïwan, les Philippines ou l'Australie est en effet un enjeu majeur pour les Etats-Unis, comme l'illustre le traité de libre-échange transpacifique. Les Etats-Unis se considèrent comme une puissance Pacifique. En revanche, les Yankees ont eu une politique très timide au Moyen-Orient. Obama sera le président qui n'aura pas mis les pieds en Israël lors de son premier mandat et qui aura permis le dégel avec l'Iran. Sur son propre continent, il aura mis fin à l'embargo avec Cuba, ce qui n'est pas vraiment anecdotique... Les Etats-Unis se perçoivent comme une puissance Pacifique et considèrent le Pacifique comme la clef du XXIeme siècle. La Russie, quant à elle, a renforcé sa politique en direction de l'Asie et du Moyen-Orient, et les BRICS se sont peu à peu renforcés même si leur puissance est relative et leur modèle économique peu enviable (voir et ). Pour faire simple : la multipolarité coïncide à mon sens avec une réorientation des préoccupations « américaines » en direction du Pacifique. Les Etats-Unis lâchent donc du lest un peu partout pour contrer la Chine, leur principal rival.

La « russophobie » pour les Nuls

Certains comme Gabriele Adinolfi ont parlé de « nouveau Yalta » dans le cas ukrainien. Il est certain que la Russie de Poutine a réussi à s'octroyer une région complète (la Crimée) et à en rendre une autre ingérable pour Kiev : le Donbass. Si certains considèrent que Poutine a échoué en Ukraine, je fais partie de ceux qui pensent qu'il a plutôt réussi. Quel pays pourrait prétendre aujourd'hui ne pas respecter des accords internationaux sur les frontières sans que cela ne suscite de réaction militaire réelle ? Quant on voit de quoi est parti 14-18, on pourrait penser qu'une telle annexion aurait pu déclencher une déflagration mondiale à une autre époque. L'embargo sur la vodka pour les uns et sur le camembert pour les autres, c'est tout de même gentillet comme réaction. Le niveau d'hystérie que manifestent certains alors que les relations internationales entre puissances sont plutôt correctes, quoi que viriles, me laisse assez pantois... Les Russes font leur retour sur la scène internationale avec l'accord, pour ne pas dire l'assentiment, des Etats-Unis. Brzezinski, malgré sa ligne anti-Kremlin, préconise d'éviter les stratégies frontales avec les Russes et de les convaincre d'agir avec les Etats-Unis pour régler les différents problèmes, dont la grave crise syrienne. Moscou est donc parvenu à s'entendre avec la coalition étatsunienne pour éviter des incidents dans la lutte contre l'Etat islamique. Ces frappes russes, qui font tant rêver les poutinôlatres ont été possibles, ne leur en déplaise, que grâce au dégel avec l'Iran, et aux discussions avec Israël, la Turquie et l'Arabie-Saoudite. Sur ce dernier point Serguei Lavrov a déclaré lors d'une rencontre avec le ministre saoudien de la défense: « Nous travaillons avec l'Arabie saoudite sur la question syrienne depuis plusieurs années. Aujourd'hui, le président a confirmé que les buts que l'Arabie saoudite et la Russie poursuivent en Syrie coïncident ». Autant dire que personne ne semble vraiment réagir aux frappes russes, pas plus les Etats-Unis, qu'Israël et la Ligue arabe... Impressionnante « russophobie » ... Plus qu'un nouveau Yalta, qui correspondrait à un partage, je dirais que les événements actuels ne font que confirmer que la multipolarité proclamée constitue plutôt une phase de mutation du mondialisme.

Ottomans et islamistes à nos portes : l'eurasisme pour les Nuls

L'armée russe revient donc aux affaires en Syrie mais cela n'est pas une nouveauté. Elle est proche de l'Etat syrien et multiplie les contacts dans la région depuis plusieurs années. Récemment un événement a suscité des réactions contrastées : l'inauguration de la Mosquée de Moscou par Poutine, accompagné du président turc Erdogan et du président de l'autorité palestinienne, Mahmoud Abbas. La mouvance nationale, pourtant si prompte à bouffer du Turc lorsqu'il s'agit de se rappeler de Lépante ou de s'indigner du meeting d'Erdogan à Strasbourg est resté très mesurée sur la présence d'Erdogan à Moscou. Comme si s'adjoindre le soutien du président turc, dont les prétentions ottomanes sont évidentes, était anecdotique lorsqu'on s'adresse aux musulmans de son pays. A ma connaissance, seul Julien Langella, dans une tribune que je considère courageuse, est monté au créneau sur ce sujet. Aymeric Chauprade, dont on connaît les sympathies pour la Russie poutinienne, fut prompt à s'indigner pour Strasbourg, où Erdogan proclamait en filigrane qu'il fallait une cinquième colonne turque dans notre Parlement, autant qu'il fut muet sur la Mosquée de Moscou. Poutine a pourtant déclaré à cette occasion que « La Russie est un pays multiconfessionnel dans lequel, je tiens à le souligner, l’islam est une des religions traditionnelles ». Récemment Novorossia.today se faisait le relais d'un article d'un certain Alexandre Artamonov, de Rossia Segodnia, nouveau pôle média officiel de la Russie pour l'international. Celui-ci déclare : « Donc il faut que la Russie renoue avec ses origines et se reconnaît un pays multiethnique et multiconfessionnel, porteur d’un message d’amitié pluriethnique et culturel basé sur les grandes religions du monde, à savoir l’orthodoxie et l’islam. » Tout un programme.

Cette politique qui place l'islam au cœur de l'identité de la Fédération de Russie n'est pas du tout incompatible avec une axe « droitier » valorisant la Patrie, la Famille et l'Armée. Encore une fois, seule la question ethnique permet de déterminer qui est sur une position identitaire européenne et qui ne l'est pas. Poutine semble avoir entamé depuis au moins 2011 un virage clairement eurasiatique, qui correspond à l'émergence de l'union économique eurasiatique et au renforcement de l'OCS (Organisation de Coopération de Shanghai). Poutine fait-il un bon calcul en s'associant avec Erdogan ? Pas sûr. Il est contraint à cette politique, car c'est probablement la seule possible pour faire passer les gazoducs et contrôler les populations musulmanes, notamment dans un Caucase toujours aussi instable. Mais d'un autre côté, la Turquie est une puissance versatile. Erdogan est embourbé dans des problèmes internes avec les élections et la rébellion kurde. Au-delà, il se verrait bien profiter d'une Europe divisée et submergée pour placer ses pions. Surtout, la politique turque vis-à-vis de la Syrie favorise le développement d'un islam fort peu « humaniste » en Syrie et en Irak qui pourrait à terme contaminer les républiques caucasiennes de la Fédération de Russie. Encore une fois, les permanences géopolitiques vont replacer les relations russo-turques et l'avenir pour toutes les populations qui en dépendent, au cœur des débats. Le génocide arménien, en arrière plan de conflit russo-turc, c'était il y a un siècle...

La bataille navale pour les Nuls

Cette redéfinition des aires d'influence est pourtant perçue par certains comme le prélude d'un conflit mondial. Pour preuve ? Les Chinois ont envoyé un porte-avion et les Etats-Unis en ont retiré un ! L'ours du Kremlin, nouveau messie cosmique, a fait fuir la marine US ! Sauf que tout cela n'est qu'un énième tissus de mensonges. Il n'y a pas plus de renfort chinois en Syrie que de débâcle US. Voila ce que nous pouvons lire au sujet du porte avion chinois sur sputniknews : « Récemment, plusieurs médias ont annoncé qu'un porte-avions chinois se dirigeait vers la base militaire de Lattaquié (dans l'ouest de la Syrie) afin de lutter contre l'EI. Cependant, ce matin la Chine a démenti cette information: "Ce ne sont que des rumeurs erronées", a déclaré à ce sujet l'expert militaire et membre de la marine chinoise Zhang Junshe cité par la presse chinoise. »

Des medias ? Une rapide recherche Google nous permet de trouver les trois premiers résultats en français à la recherche « navire chinois syrie » qui mentionnent un prétendu porte-avion chinois, il s'agit sans surprise de www.wikistrike.com , lesmoutonsenrages.fr et reseauinternational.net . Je ne sais pas combien je dois encore écrire d'article pour qu'enfin je ne trouve plus dans mon fil Facebook des camarades postant du wikistrike ou du reseauinternational... Bref. Un autre site, http://www.meretmarine.com indique entre autre que « Des sources militaires occidentales, qui surveillent en permanence les mouvements dans la région et plus particulièrement ce qui se passe en Syrie et au large de ses côtes, confirment que le Liaoning ne s’y trouve pas. » Le reste de l'article permet de se faire une idée du comique de la situation.

Mais comme une rumeur n'était pas suffisante, il en fallait une autre ! Jamais rassasié, le pro-Kremlin a besoin de nourrir ses fantasmes. Le départ de l'USS Theodore Roosevelt a été considéré entre autre sur Breizatao.com comme une défaite géostratégique pour les Etats-Unis. Sauf que... un article de CNN du 6 août 2015 indiquait que l'USS Theodore Roosevelt allait quitter le Golfe Persique en octobre pour subir des travaux de maintenance et que son successeur, l'USS Harry Truman, ne le remplacerait pas avant l'hiver. Cette manœuvre, prévue de longue date, n'a donc rien à voir avec l'offensive russe. On peut même imaginer le contraire : les Etats-Unis auraient pu changer leur fusil d'épaule suite à l'intervention russe. Mais ils ont maintenu leur plan de rotation, quitte à retirer un bâtiment à proximité de la zone de conflit et à se priver pendant deux mois d'un porte-avion et ce malgré l'offensive russe en Syrie. Au final, on pourrait penser que les Etats-Unis sont sûrement plutôt satisfaits de laisser ce nid de frelons aux Russes. Conformément au « Pivot vers l'Asie » affirmé en 2011 et acté en 2012, le Moyen-Orient est aujourd'hui une région secondaire pour les Etats-Unis. Israël pour ne citer que ce pays cherche donc de nouveaux partenaires, parmi lesquels la Russie et la Chine.

Et nous ?

Cette nouvelle ère géopolitique qui est désormais ouverte et que nous sommes peu nombreux à décrypter avec toute la distance nécessaire est source de nombreux rebondissements depuis plusieurs mois. Les positions des uns et des autres ne sont pas figées mais des tendances se dessinent. Plus que jamais, la question nous est posée de savoir comment nous positionner vis à vis des velléités turques, russes et du « Pivot vers l'Asie » des Etats-Unis ? Quelle place dans le Nouveau Contexte Global pour la France et plus généralement, pour l'Europe ?

Jean / C.N.C.

Note du C.N.C.: Toute reproduction éventuelle de ce contenu doit mentionner la source.