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lundi, 04 mai 2009

Intervista a Marco Fraquelli

Intervista a Marco Fraquelli

Ex: http://www.centrostudipolaris.org/

Marco Fraquelli, tu sei l’autore di “A destra di Porto Alegre” edito nel
2006 da Rubbettino.
Cosa ti ha spinto ad interessarti di quel mondo che, almeno in passato,
doveva sembrarti ostile, considerata la tua militanza a sinistra negli anni
Settanta?

Intanto, credo che, al di là di ogni militanza, sia importante mantenere un po’ di onestà intellettuale (non ho la presunzione di definirmi onesto al cento percento…). Io non ho cambiato idee politiche, anche se, invecchiando, come tutti, tendo più alla socialdemocrazia che non al massimalismo…, ma registrare l’impegno della destra radicale in senso antiglobale, e soprattutto evidenziarne le radici antiche mi sembrava un esercizio intellettuale del tutto oggettivo. Se poi vuoi sapere più nel dettaglio da dove nasce la mia idea di analizzare questa componente del pensiero radicale di destra (e quindi l’idea del libro), ti dico che c’è anche una data ben precisa, e cioè l’agosto del 2001 quando, leggendo sotto l’ombrellone il famoso No Logo della Klein mi venne spontaneo riandare con la mente alle centinaia di pagine che, da quasi un decennio, Orion andava pubblicando sul tema del mondialismo, tema del quale, peraltro, mi ero già occupato per la mia tesi di laurea su Evola. Da lì la voglia di approfondire il tema.

Cosa ritieni di dover porre in evidenza riguardo l’approccio alla globalizzazione tenuto dalla cosiddetta Destra Radicale?

Sicuramente colpisce il fatto che la destra radicale se ne sia occupata molto prima della sinistra (ancorché, come dico nel libro, ciò possa essere abbastanza intuitivo, perché se è vero che la globalizzazione è per definizione un fenomeno di livellamento e di omogeneizzazione, che cosa ci può essere di più distante – e antagonista – del DNA di un uomo di destra?). Mi colpisce anche il fatto che l’antiglobalismo della destra sia in generale più “integralista” rispetto alla versione new-global della sinistra. Ma mi colpisce soprattutto – e mi ha colpito, approfondendo l’argomento – che la destra radicale abbia offerto un’analisi molto articolata e spesso orginale del fenomeno. Per esempio ha affrontato per prima il problema in termini filosofici e storici, rilevando l’”antichità” della globalizzazione. La visione degli economisti e in generale degli storici di parte opposta ha invece posto sempre l’accento sull’estrema novità del fenomeno. Cosa corretta se per globalizzazione intendiamo l’attuale dinamica soprattutto economica. Ma del tutto parziale se consideriamo, come appunto fa la destra radicale, la globalizzazione nel più complesso insieme delle sue valenze che, lo ripeto, sono di natura filosofica e storica prima ancora che sociale ed economica.

Quali sono invece i difetti d’impostazione, se ne ravvisi qualcuno, che possono impedirle un’articolazione davvero completa di una critica esauriente?

Ma io direi che la critica non è per nulla incompleta. Anzi, come dicevo, è sicuramente più articolata e organica rispetto ad altre. Io credo che il problema sia poi quello delle ricette alternative. La mia sensazione è che l’alternativa alla globalizzazione sia pur sempre – semplifico molto - quella della comunità organica, con quei presupposti di gerarchia e di ordine che qualificano per eccellenza il pensiero di destra (starei per dire reazionario, ma solo in senso oggettivo, senza voler dare al termine alcun giudizio di valore o di merito). Qualcuno ha criticato questa mia valutazione, sostenendo che ho dei preconcetti. Può essere. Ma quando parlo di comunità organica e di gerarchia, mica penso a chissà quale orrenda dittatura, o a un ritorno al medioevo, a una società divisa in caste, ecc. Penso semplicemente a un modello del tutto attuale di società, solo basata su valori che non corrispondono esattamente a quelli della democrazia come noi la intendiamo e la viviamo.

A tuo avviso la critica alla democrazia, al cosmopolitismo e all’internazionalismo, che accomuna il pensiero di un po’ tutta la Destra Radicale, scaturisce in un’univoca opposizione alla globalizzazione o vi riscontri, invece, diverse scuole di pensiero?

Sicuramente le scuole di pensiero sono molte e molto variegate. Io prima, per sintetizzare, citavo il concetto di comunità organica: ecco, in questo caso, le formule sono le più svariate. Io credo sinceramente nella differenza tra comunità chiuse e comunità aperte, così come penso che anche nell’ambito della destra radicale ci sia chi ci crede altrettanto fermamente. Credo che l’attenzione per ogni forma cosiddetta di “antagonismo” espressa da Orion, da cui la forte attenzione per il mondo musulmano, non abbia nulla da spartire con Le Pen (almeno il Le Pen classico, quello di oggi pare curiosamente disponibile ad aperture). Così come le posizioni di De Benoist sembrano distanti anni luce da quelle dei tradizionalisti e così via. E’ vero che io dico che comunque alla base di tutto c’è un filo rosso che attiene al pensiero “reazionario”, ma è un inevitabile punto di partenza comune, voglio dire che sono le radici naturali. Ciascuno poi ha compiuto e sta compiendo il suo percorso. E’ un percorso che in qualche caso marginalizza molto quelle radici, in altri le rivitalizza, in altri ancora le rimuove.

Prima di scrivere questo libro ti cimentasti con “Il filosofo proibito. Tradizione e Reazione nell’opera di Julius Evola”, pubblicato nel 1994 con Terziaria. Come mai questa scelta?

Lo scrivevo nell’introduzione del libro: come hai ricordato, io negli anni ’70 ho cominciato a militare nelle organizzazioni dell’estrema sinistra. Ed ero fermamente convinto dell’assioma proposto da Bobbio, ovvero che cultura e destra fossero termini inconciliabili. Poi, invece, la scoperta – fortuita, avvenuta leggendo alcuni articoli di Filippini su Repubblica – che esisteva non solo un universo culturale di destra ben definito, ma anche autori cult, case editrici ecc. Questo, tra l’altro, avveniva mentre iniziavo la mia avventura professionale a Milano, in un’azienda che aveva la sede a pochi metri dalla “famigerata” sede provinciale dell’MSI di via Mancini (nei nostri slogan “un covo di assassini”…), ed era inevitabile che ogni giorno incontrassi nei dintorni i giovani missini (ricordo anche La Russa, Decorato, ecc.). Devo dire che il sentimento prevalente, durante quegli incontri, non era, come ci si potrebbe aspettare, di sordo rancore, o di odio, quanto piuttosto di una vera e propria curiosità antropologica, forse, non lo nascondo, anche un po’ morbosa. Mi chiedevo, soprattutto, vedendo quei ragazzi che poi mi somigliavano moltissimo anche esteticamente, che cosa davvero ci dividesse. Ti prego di credere che non sto dando una versione “buonista” della situazione. Per me era davvero così. E dunque mi interessava ancor di più esplorare il background culturale dei miei antagonisti. Il caso vuole che allora mi stessi laureando con Giorgio Galli che, per primo, da sinistra, aveva rivalutato Evola come pensatore elitista degno dei più blasonati pensatori che normalmente entravano nei manuali di storia del pensiero politico (da Maistre a Bonald, ecc.). Confesso che io non avevo mai letto nulla né di Evola né su di lui, mi ricordavo solo una brevissima citazione, mi pare di Cantimori, in cui veniva descritto più o meno come “oscuro teorico del razzismo” (figurati che pensavo che fosse tedesco…), ma l’occasione mi sembrò troppo ghiotta, e così chiesi una tesi su di lui, tesi che è appunto diventata il libro che ricordavi.

Quanto Evola ritrovi nell’antiglobalizzazione della destra radicale?

Di primo acchito direi molto, se vogliamo enfatizzare l’aspetto antimodernista dell’antiglobalizzazione espresso dalla destra radicale. Per non parlare delle posizioni antimericane del filosofo. Ma sinceramente l’aspetto fortemente elitista e aristocratico del pensiero di Evola mi sembra distanziarsi dalla visione no global della destra radicale. Anche perché non credo si debba perdere di vista un punto fondamentale, e cioè che la visione della destra radicale è sì antimodernista, ma non necessariamente inattuale. Certo, ancora una volta, bisognerebbe distinguere le varie scuole di pensiero: è ovvio che la destra più tradizionalista è naturalmente più ortodossa, rispetto alle altre, con riferimento al pensiero evoliano. Non dobbiamo poi dimenticare che in Evola il tema noglobal spesso coincide con il tema del complottismo, della guerra occulta (con l’inevitabile corollario antisemita). Da questo punto di vista ritengo che almeno dagli anni ’70 la destra radicale abbia decisamente rotto ogni ponte con Evola. Resta naturalmente l’insegnamento complessivo, ma certamente nessuno più pensa oggi alla globalizzazione come a un complotto ordito da una cerchia di “burattinai” chiusi in una stanza segreta…

In poche parole puoi dirci che differenze riscontri fra la critica alla globalizzazione operata dalla sinistra alterglobal e quella della destra radicale?

Intanto, come scrivo nel libro, l’atteggiamento della destra è molto spesso più radicale. Non mi pare di vedere atteggiamenti new-global (intendo dal punto di vista dottrinario, ma spesso anche nei comportamenti). Ma credo che questo sia il portato naturale delle ipotesi – per così dire – di partenza. La sinistra fa pur sempre riferimento alla sfera democratica, e ritiene quindi che esistano, in questa sfera, elementi correttivi, che possano esistere, per così dire, meccanismi di compensazione. In fondo la democrazia dovrebbe essere proprio questo. La visione antidemocratica non può contare su queste possibilità.

Infine una tua opinione: credi che la “globalizzazione” sia un fenomeno compiuto? E se non lo è, pensi che la sua realizzazione sia ineluttabile?

Devo proprio essere sincero? Io credo sia ineluttabile. Mi ha molto colpito, durante la presentazione del mio libro a Casa Pound, la tua riflessione sul fatto che, invece, non la si debba dare per ineludibile, e che, di conseguenza, si possano immaginare aree di antagonismo, diciamo alternative. Anch’io sono convinto che vi siano aree (o micro-aree) nel mondo che ancora resistono. Io mi chiedo, però, fino a quando. E confesso che da questo punto di vista tendo a essere un po’ new-global, a sperare (non dico credere) che prima o poi si trovi una formula di governance che offra anche opportunità positive, cioè di miglioramento della qualità della vita senza snaturare le identità. Forse è utopia, non so… Di una cosa però sono certo: che quando parlo di qualità della vita non penso affatto al tema dell’esportazione di democrazia. Penso, più materialmente (o se vuoi più materialisticamente) alle condizioni di benessere fisico, intellettuale, ecc. Anche perché non credo che la democrazia sia per forza il massimo della vita. Secondo me fino a oggi non si è trovato nulla di meglio, ma non è detto che in futuro sia ancora così.

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jeudi, 30 avril 2009

Le crépuscule des élites

Le Crépuscule des élites

Cf. : http://www.tatamis.fr 

Préface de Roland Dumas

UN OUVRAGE DECAPANT

Après une carrière riche d’écrivain, de journaliste et de chef d'entreprise, Louis Dalmas consacre son talent à la publication d'un livre intitule de façon amusante “Le crépuscule des élites”.

Mais le plus troublant n’est pas dans le titre, il est dans la lecture de chacun des chapitres. II touche à tout avec une ironie cinglante et des vérités qui sont communicatives. Le tout est bien écrit, de façon agréable, et composé de telle manière qu'on s'y retrouve toujours.

Chacun y découvrira des situations ou bien des problèmes qu'il aura connus dans sa vie, dont il a souffert et sur lesquels il n'a pas toujours conclu ; qu'il s’agisse de l’information, qu'il s’agisse de l'Amérique, qu’il s’agisse du Proche-Orient, qu’il s’agisse de la Yougoslavie dont j’ai cru compren-dre que Louis Dalmas était amoureux (en parti-culier de la Serbie), rien ne manque à cette œuvre.

Mais, le plus drô1e du livre est dans la confection de chaque chapitre. En effet, l’écriture elle-même est composée de personnages qui interviennent et qui disent les choses dans le langage de tout le monde. Madame Sorladon (?) ou Madame Méla-mois (?) dont les noms phonétiquement font déjà rire, sont chargées de nous décrire le cadre dans lequel va se dérouler le prochain chapitre et sont des comparses nécessaires à la bonne marche de cet ouvrage.

On passe de la conversation de tous les jours à quelque chose de plus sophistiqué, de plus recherché, de plus acide aussi. On y trouve des phrases de bon sens, des évidences comme on peut en entendre tous les jours. Celle-ci par exem-ple : “L’évolution des sociétés est lente et l’erreur de certains politiciens est de ne pas s’en rendre compte”. À qui le dites vous, Madame Sorladon ?

Madame Mélamois – au nom si évocateur – est en réalité Madame “Tout le Monde”.

L’information, la presse ne trouvent guère grâce aux yeux de Louis Dalmas. Je ne le lui reproche-rai pas, bien au contraire. J’ai noté ce passage : “Selon ces cuistres (les journalistes !), toute opinion, pour être crédible, doit être aussi en-nuyeuse et difficile à assimiler que possible. Il n'y a qu’à feuilleter le terne oracle de l'intelligentsia française – Le Monde – pour en être convaincu”. C’est une opinion que je partage depuis un grand nombre d’années et que le temps qui passe n’altè-re en rien...
Mais il peut être bien plus sévère encore. Quel spectacle que celui-ci : “L’équipe est sur le terrain. Les joueurs ont les yeux bandés. Comme ils ne voient ni le ballon, ni les buts, ils courent dans tous les sens et shootent dans le vide. Sur les maillots, on distingue le logo du club, un cerveau avec des trous de gruyère sur un plateau de fromages. De temps en temps, deux hommes se heurtent de plein fouet. On les évacue sur une civière marquée ‘offerte par la Banque Mondiale’ et le grand écran à un bout du stade affiche ‘c’est la faute à Milosevic’”. Comme quelqu'un d’autre avait écrit “C'est la faute à Voltaire et à Rous-seau !”...

Tout le texte est à l’avenant, les raccourcis sont saisissants, les images percutantes, mais il res-pecte un certain équilibre quand même dans la critique systématique qui correspond au titre du “Crépuscule des élites”. Le rythme respecte la même cadence tout au long du livre et à chaque chapitre. II est enjoué, équilibré et agréable.
Je recommanderai particulièrement le passage intitulé “Les deux visages de l'Amérique”.
L'ensemble est signifiant. II mérite d’être lu com-me tel. Ce livre connaîtra le succès par son originalité et par la maîtrise de la pensée de l'au-teur.

J’y retrouve à plusieurs occasions ce sentiment d’affection que nourrit l'auteur pour le peuple serbe. Dans le dialogue entre Madame Mélamois et Madame Sorladon, nos deux complices accom-pagnatrices, apparaît cette phrase :
“– Mais ces Serbes, ils ont tout de même commis des atrocités, non ?
– Qu’est ce que vous croyez Madame Mélamois, que la guerre c’est un match de football, déjà que dans les stades on se fout sur la gueule, alors sur les champs de bataille, vous imaginez...”
Et plus loin :
“– Et comme le dit Monsieur, quand on diabolise tout un peuple comme on l’a fait avec les Serbes, ça devient du racisme et c’est d'autant plus triste que ce coup-là, parmi les persécuteurs, se sont trouvés les descendants ou les proches de ceux mêmes qui avaient été persécutés.
– Les juifs ?
– Non, Madame Mélamois, pas les juifs, des juifs...”
Tout cela flaire la bonne humeur en surface. Mais en réalité, on plonge dans la profondeur des choses.
En écrivant cette préface, je ne puis m’empêcher de rapprocher ces pages écrites pour être lues de la période ou je dirigeais le ministère des Affaires étrangères et où le sentiment anti-serbe dominait. En effet, la scène politique internationale, au mé-pris de ce qu'avait été I'histoire de nos deux pays, histoire aux eaux mêlées, en était le reflet.

Roland Dumas
Avocat, ministre des Relations extérieures de 1984 à 1986, ministre des Affaires étrangères de 1988 à 1993, Président du Conseil Constitutionnel de 1995 à 2000.

Prix : 19,90€

00:20 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (1) | Tags : sociologie, politique, actualité, monde contemporain, satire, france | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

dimanche, 26 avril 2009

La tyrannie technologique - Critique de la société numérique

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La Tyrannie technologique :

Critique de la société numérique

Présentation de l'éditeur

Après le travail et le sommeil, la troisième activité des Occidentaux est de regarder la télévision. 80% de la population française possède un téléphone portable contre moins de 5% dix ans plus tôt. Créée en 1998 dans un garage, la société Google est aujourd'hui cotée en bourse et valorisée à plusieurs milliards de dollars. Au cours des dix dernières années, les ventes d'antidépresseurs ont doublé. Les nouvelles technologies, fer de lance et alibi d'une industrie obsédée par la rentabilité, participent chaque jour un peu plus à la destruction du lien social et à la disparition des formes anciennes de sociabilité, d'organisation du travail et de la pensée. Leur diffusion massive et leur omniprésence posent les bases d'une véritable mutation anthropologique comparable à l'apparition de l'écriture. Si l'alphabétisation fut bien souvent la compagne de l'émancipation, les technologies contemporaines préparent et organisent un monde fondé sur la vitesse, l'immédiateté, la superficialité, le profit et la mort. Ecrit par plusieurs auteurs tirant leurs réflexions de leurs travaux militants ou universitaires, La Tyrannie technologique dresse un panorama lucide et percutant de l'emprise des nouvelles technologies sur notre vie quotidienne.

Collectif,
La Tyrannie technologique : Critique de la société numérique, Ed. L'échappée, 2007.

vendredi, 24 avril 2009

Recettes pour assainir l'économie au quotidien

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Recettes pour assainir l'économie au quotidien

 

Ex: http://unitepopulaire.org/

 

« Il est naturel d’adopter un mode de vie économe quand les temps sont durs et que l’on craint pour son emploi. Mais, au Royaume-Uni, aux Etats-Unis et dans d’autres pays, comme l’Espagne et l’Irlande, où l’activité est tirée par la consommation, cette tendance semble annoncer un changement bien plus profond : la fin d’un mode de vie fondé sur une consommation effrénée, alimentée par le crédit facile et l’effet de richesse induit par une valorisation constante des actifs [immobilier et portefeuilles d’actions]. D’ores et déjà, les Américains, naguère si dépensiers, ont relevé leur taux d’épargne personnelle de quasiment zéro – niveau aux alentours duquel il tournait depuis des années – à presque 3 % en novembre. Il devrait prochainement atteindre au moins 8 %, du jamais-vu depuis vingt ans, prévoit David Rosenberg, le chef économiste de la banque Merrill Lynch. A l’image des banques, surendettées et sous-capitalisées, poursuit Rosenberg, les ménages assainissent leur situation en dépensant moins, en épargnant plus et en remboursant leurs dettes. Et, comme dans le secteur financier, cela ressemble de moins en moins à des ajustements temporaires et de plus en plus à un changement d’habitudes durable. […]


A en croire Bob McKee, un analyste d’Independent Strategy, un cabinet de conseil en investissement de Londres, cette prudence ralentira la croissance du crédit et les prêts iront aux entreprises qui produisent et investissent, et non plus aux opérations financières hasardeuses. Cela devrait normalement favoriser une décélération et une stabilisation de la croissance économique. […] Les signes de restriction des dépenses sont partout visibles. La consommation est en berne dans tous les pays industrialisés. […] Dans des pays traditionnellement économes comme la Chine et l’Allemagne, les taux d’épargne déjà élevés ont encore progressé. Les Chinois sont plus que jamais près de leurs sous, alors que des millions de travailleurs ayant perdu leur emploi dans les usines du littoral rentrent dans leur village natal. […] A Hong Kong, les restaurants de luxe sont désertés, tandis que les gargotes de rue sont encore plus bondées que d’habitude. Au Royaume-Uni, la chaîne de supermarchés Sainsbury’s annonce un triplement des ventes de produits à petits prix comme la viande à braiser (le morceau le moins cher) en l’espace d’un an. L’enseigne de cordonnerie minute Timpson signale un bond des réparations de montres et de chaussures dans ses magasins. “Nous voyons défiler des clients d’un genre tout à fait nouveau, des personnes qui n’ont jamais pensé faire réparer quoi que ce soit“ constate le président de la société, John Timpson. “Une nouvelle mentalité s’installe : on se débrouille et on raccommode ses affaires” […] Les entreprises ne gagneront plus rien à lever des capitaux et à s’endetter au maximum. En revanche, celles qui ont des fonds propres solides, des actionnaires patients et une trésorerie saine – celles-là mêmes dont on raillait naguère le côté pépère – disposeront d’un avantage certain. […]


Bien sûr, de nombreux économistes vous diront que la consommation va repartir, entraînant l’économie dans son sillage. Mais, pour David Rosenberg, ce rebond sera bien plus modeste que d’habitude. Car, d’une part, la dévalorisation des logements et des comptes épargne-retraite provoquera un “effet de pauvreté” durable et, d’autre part, le flot de crédit facile qui avait dopé la consommation n’est pas près de couler à nouveau. […] La croissance mondiale finira bien par repartir, mais elle ne sera plus tirée par la consommation des pays occidentaux. Elle a des chances de rester en deçà des 5 % pendant de nombreuses années, notamment parce que, partout dans le monde, les dirigeants politiques ne rateront pas l’occasion de reprendre du pouvoir aux marchés. Cela se traduira, à tort ou à raison, par un interventionnisme accru de l’Etat et des politiques de redistribution, avec un alourdissement de la fiscalité et une baisse des profits des entreprises.


Cette nouvelle frugalité fera peur à mesure que ses effets se propageront à l’économie mondiale, mais s’avérera au final bénéfique. […] Les capitaux se feront plus rares, mais ils seront investis de manière plus efficace. Les profits des entreprises représenteront une part moins élevée du revenu national, mais ils seront plus stables. Ce sera un monde plus ennuyeux, à croissance moins forte. Mais ce sera aussi un monde plus tenable, avec moins de déséquilibres, de déficits et de mauvaises surprises économiques. » 

 

Newsweek, mars 2009 

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jeudi, 23 avril 2009

De totalitaire democratie

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De totalitaire democratie

Geplaatst door yvespernet op 17 april 2009

Vandaag de dagen leven we in een liberale representatieve parlementaire democratie. Iedereen heeft een stem die via een evenredige verdeling zorgt voor een gelijke vertegenwoordiging van de politieke strekkingen in Vlaanderen. Iedereen heeft het recht op vrije meningsuiting, vrijheid van vergaderen, etc… We mogen dus zeggen en denken wat we willen, censuur is er niet meer. Althans, dat is toch de theorie.

Nieuw en oud totalitarisme

Wanneer men over totalitaire regimes spreekt, heeft men direct een beeld voor van regimes met soldaten in de straten, een zichtbare geheime dienst en met regelmatige verdwijningen van politieke tegenstanders. We kunnen echter ook stellen dat wij vandaag de dag in een totalitaire samenleving wonen. Alleen is het regime veel beter geworden in de schijn te bewaren van de vrije mens en worden er ook allerlei misleidende vormen van totalitarisme gebruikt om politieke oppositie tegen het systeem de kop in te drukken. Waar vroeger werd gewerkt met fysiek geweld om de oppositie aan te vallen, werkt men nu veel slimmer. In vroegere tijden werden opposanten nogal zichtbaar en fysiek uitgeschakeld. Ze verdwenen (waardoor iedereen wel kon raden wat ermee gebeurde) of werden gewoon vermoord. Betogingen en opstanden werden met de wapenstok, de bajonet of het geweer neergeslagen of uiteengeschoten.

Het ontstaan van de consumptiemaatschappij heeft het regime echter een machtig wapen gegeven. Door het voeden van het individualisme worden oude sociale verbanden en wordt het sociale middenveld ondermijnd. Mensen worden aangemoedigd om hun eigen belang na te streven, ook als dit ten koste gaat van anderen. En al juich ik uiteraard de materiële vooruitgang tegenover het begin van de 20ste eeuw toe, het materialisme heeft er ook voor gezorgd dat mensen een disproportioneel groot belang hechten aan hun bezittingen. De arbeiders hadden vroeger amper iets te verliezen bij het ondernemen van politieke actie, vandaar ook de term proletariërs.

Totalitarisme in de maatschappij

Een andere eigenschap van de totalitaire staat, althans toch volgens Hanna Arendt (die we niet echt van sympathie kunnen verdenken van radikaal-rechts gedachtegoed), is het ineenstorten van de klassen in de maatschappij. Iets dat we ook vertaald zien in de opbouw van totalitaire bewegingen. Daarin is iedereen gelijk buiten de leider die als een soort nieuwe absolute vorst boven zijn volgelingen zweeft. Ook deze afbraak van de klassen kunnen we herkennen in de huidige maatschappij. Om een totalitaire samenleving te creëeren, is de afbraak van overkoepelende structuren en groepsgevoel immers vitaal. Enkel het individu mag nog bestaan. Duizend individuen zijn immers makkelijker te controleren dan honderd georganiseerde militanten.

Bovenop de afbraak van de groepen en overkoepelende verbanden is er ook nog een andere belangrijke factor; sociale uitsluiting. Opstandelingen tegen het systeem moet men immers niet proberen neer te knuppelen wanneer men een machtig media-apparaat heeft dat het voor het regime doet. Ook fenomenen als “anti-fascisme” dienen enkel voor het overleven van de staat te waarborgen. De grootste successen tegen de oppositie zijn altijd geboekt geweest wanneer de controle van het regime het minst zichbare bleef. Zodra de bevolking zichzelf bespioneert en verdacht maakt, betekentdit voor de staat een enorme verlichting van hun taken.

Door de controle van de media en door de zelfspionage van de bevolking heeft de staat van na WOII ook voor de eerste keer, in een mate dat een dictatuur nooit heeft kunnen doen, zo een grote controle over de mensen. In alle lagen van de maatschappij; media, cultuur, samenleving, etc… wordt er nu gepleit voor een zo “pluralistisch” mogelijke samenstellingen. Buiten uiteraard de regimebedreigende krachten, die zijn naar het schijnt vanuit hun wezen vijandig naar de mens toe. Althans, dat wenst het regime ons wel wijs te maken.

Een nieuw volksfront

Wanneer de politieke klasse zich eensgezind, wat de verschillen onderling zijn wel zeer minimaal te noemen, tegen alle oppositie kant, is het nodig om een nieuwe weg in te slaan. De oppositie moet zich verenigen in een nieuw soort volksfront. Een identitair, anti-globalistisch, anti-kapitalistisch eenheidsfront tegen het cultuurvernietigende, globalistische en kapitalistische volksvijandige kamp. Eenheid tussen radikaal-links en radikaal-rechts. Maar dan moet radikaal-links ook eens gaan beseffen dat ze niet moeten streven naar dingen als meer migratie, aangezien dat net een wapen is van de neoliberale klasse. Die dienen immers om de lonen hier te drukken en het volk op te zetten tegen het grootkapitaal(1).

Maar totdat de radikaal-linkse kant (al zijn er uitzonderingen godzijdank) heeft geleerd dat het belangrijker is om te strijden tegen de volksvernielers en mensenhandelaars (want daar komt de huidige (economische) massamigratie op neer) dan te ijveren voor de emancipatie van zowat alles, zal het regime rustig verder doen met de demonisering van hun grootste bedreiging; de volksnationalisten en solidaristen.

(1) Het grootkapitaal is een kleine groep mensen die geen belang hecht aan het bestaan van naties, voelen zich met niemand buiten hun eigen sociale groep verbonden (en dan nog) en zullen enkel streven naar het eigen geldgewin. Zij zijn niet de burgerij die zich tenminste nog met een cultuur en volk verbond en zijn kapitaal ten minste ook nog gedeeltelijk ten dienste stelde van kunstenaars en musici. Dit grootkapitaal, dat zich steeds verder en verder op een globale schaal organiseert, wilt helemaal niet beperkt worden in hun doen en laten. Zij zullen dan ook altijd streven naar een verdere liberalisering van de economie. Het grootkapitaal produceert op geen enkele manier een meerwaarde aan de samenleving.

Als een parasiet teert het op de rijkdommen van de maatschappij. Rente en de handel in niet-bestaand geld op de beurzen maakt hen stinkend rijk. Wanneer we spreken over een “klassenstrijd” in solidaristische ogen is het beter om te spreken over de strijd tussen productieven en niet-productieven. Productieven zijn iedereen die bijdraagt door arbeid of investeringen aan de maatschappij in zijn geheel, ik heb het dan over veel meer dan pure economische factoren. Niet-productieven zoals het grootkapitaal teren op de maatschappij en haar verwezenlijkingen als een parasiet die zich volzuigt.

lundi, 06 avril 2009

Le G20 et l'épouvantail protectionniste

Le G20 et l'épouvantail protectionniste

Ex: http://unitepopulaire.org

 

« La spirale de la crise se déploie progressivement. Partie d'une catégorie d'actifs financiers, elle s'est étendue à la finance en général, pour atteindre de plein fouet l'économie "réelle". Le ralentissement économique fragilise un nombre croissant d'entreprises, ce qui augmente le chômage et affaiblit les bilans bancaires. La spirale est en place. Le G20 se réunit avec l'ambition affichée de la désamorcer. A-t-il la vision nécessaire pour le faire ?

 

La situation n'est pas seulement compliquée, elle est aussi complexe. La longue liste des choses "à faire" figurant dans le communiqué de la réunion du G20 de novembre est significative. Elle démontre que le G20 manque de vision d'ensemble et d'un diagnostic partagé sur les priorités. Elle accable ce même G20, dont les responsables ont laissé s'accumuler, sans réagir, tant de problèmes pendant les trois dernières décennies d'euphorie économique. Depuis 2007, alors que les pertes accumulées de la valeur d'actifs financiers sont estimées à environ 50.000 milliards de dollars, les pays du G20 ont injecté des sommes colossales dans le soutien aux banques et les plans de relance : pas loin de l'équivalent de 10% du PIB mondial, sans résultat probant. Ces sommes ont été injectées dans l'espoir de "faire repartir"  l'économie mondiale sur le sentier qu'elle aurait quitté sans raison valable, en août 2007.

 

Seulement, si la crise n'était pas un incident mais un accident ; si, pour en sortir, il ne fallait pas "réparer" mais "remplacer", c'est-à-dire infléchir de manière profonde le fonctionnement à venir de l'économie mondiale ? […] Si le G20 entend lutter contre les tentations protectionnistes, il ne précise pas le sens qu'il donne à ces termes. Or, le protectionnisme désigne tout choix qui ne se ferait pas exclusivement sur les critères du rapport qualité-prix. Aujourd'hui, d'autres critères surgissent sans être pour autant ni protectionnistes, ni déraisonnables. Quand les acteurs réduisent le périmètre de leurs activités, ils cherchent à retrouver des circuits économiques plus courts, à diminuer le nombre d'intermédiaires, à ancrer leur activité dans des réseaux de solidarité où le visage humain a sa place. Ces changements de micro-attitudes annoncent probablement une certaine déglobalisation, sans pour autant qu'il s'agisse du protectionnisme au sens propre, mais d'un changement de logique économique. Comment préparer une déglobalisation ordonnée, qui ne débouche pas sur la panique protectionniste ? C'est là encore un des défis du G20.

 

Le G20 a opté pour la voie, politiquement plus prudente, d'une longue suite de microréglages. Ce choix rend peu probables pour le moment les grandes options, dont la planète a plus besoin que jamais. Prendre le risque d'un changement de perspective demanderait, de la part du G20, un courage politique dont sont capables les leaders qui ont conscience d'avoir un rendez-vous avec l'Histoire et non pas seulement avec les caméras de CNN. Alors, vers un rendez-vous raté de plus ? »

 

 

Paul Dembinski, directeur de l'Observatoire de la finance (Genève), La Tribune, 2 avril 2009

 

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mardi, 31 mars 2009

De dubbele bodems van de rechtsstaat - Over macht, elites en geheimtalen

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De dubbele bodems van de rechtsstaat – Over macht, elites en geheimtalen

 

Justitie wil weer ‘begrijpelijk’ en aaibaar overkomen, dichter bij de mensen staan, en dat is goed nieuws. Gedaan met norse magistraten en vonnissen in stadhuistaal, ‘gelet op’, gezien dat’, ‘in hoofde van’… Een vriendelijk schouderklopje en dan de gevangenis in, U passeert niet langs start. Deurwaarders wisselen das en maatpak voor een leuke jeans-outfit en zetten U en Uw huisraad vervolgens met de glimlach op de stoep: het oog wil ook wat. Ach, het is weer eens wat anders, of meer van hetzelfde. Na de ‘Witte Mars’ en de idemkleurige ridders ging het ook allemaal veranderen,- de gerechtelijke achterstand vandaag is nog nooit zo groot geweest en de verjaringstruc werkt perfect met een goede advocaat.  Het nieuwe Antwerpse Justitiepaleis ging een toonbeeld zijn van nederigheid, justitie-dicht-bij-de-mensen en blablabla,- het resultaat is ondertussen gekend: een modernistische mastodont die het Brusselse Poelaertpaleis overtreft. Veel interessanter dan zich te verkijken op de face-lifts, is dan ook om te analyseren hoe het gerecht in de coulissen functioneert, en hoe de discrete maatschappelijk-culturele verbindingslijnen lopen tussen establishment, misdaadmilieu en politiek theater. Een verkenning van de ingewanden van dat wat zich sinds de jaren ’80 de ‘rechtsstaat’ is gaan noemen…

 

Gerecht en ‘milieu’: boswachter en stroper tegen Robin Hood

 

Eerst een paar feiten.

 

Op 22 November 2005 kwam Madani Bouhouche bij het houthakken onder een eik terecht, vlakbij zijn optrekje in de Franse Pyreneeën. Een wat onnozel einde voor dé toplegende uit de Belgische onderwereld. Hij was zijn loopbaan begonnen bij de Belgische OpsporingsBrigade, maar dook al snel voor eigen rekening in het zware milieu, samen met andere (ex-) rijkswachters. Bouhouche werd voor het eerst aangehouden in januari 1986 op verdenking van moord op wapeningenieur Juan Mendez, maar in november 1988 weer vrijgelaten. In 1995 werd hij veroordeeld tot 20 jaar dwangarbeid wegens moord op een Antwerpse diamantair, maar hij kwam 5 jaar later (!) al voorwaardelijk vrij, om dus stante pede naar het zonnige Zuiden uit te wijken. Waar hij companen uit het milieu ongestoord bleef ontmoeten, ondanks de voorwaarden van zijn parool. Bovendien dook zijn naam regelmatig op in het onderzoek naar de overvallen van de ‘Bende Van Nijvel’ tussen 1982 en 1985, en had de cel Jumet (belast met het onderzoek, dat om mysterieuze redenen aan het parket van Dendermonde was onttrokken) alle redenen om Madani met meer dan gewone belangstelling te blijven volgen. Niet dus, men liet hem compleet ongemoeid. Sterker nog: pas in Januari van dit jaar kwamen onze meesterdetectives ‘toevallig’ (sic) op de hoogte van zijn dood en pakten vervolgens hun koffers richting Pyreneeën om wat te gaan snuffelen in de villa van de al twee maanden overleden topgangster. De vraag waarom hij al die tijd rustig in la douce France mocht rentenieren, blijft onbeantwoord, evenals de vraag waarom het onderzoek naar de Bende van Nijvel na 20 jaar niet één serieus spoor heeft opgeleverd. Werk op de plank voor échte speurneuzen en onderzoeksjournalisten. Want met die cel Jumet wordt het nooit wat, zoveel is zeker.

 

Het geval Bouhouche is typisch voor de innige verstrengeling van gerecht en misdaadmilieu, ondanks het vertoon van de spectaculaire razzia's. De aloude kroeggrap dat de criminelen de grootste werkgevers van de politie zijn en dat er een soort gentlemen’s agreement tussen beide bestaat, is eigenlijk nog een understatement: het gaat dikwijls over hetzelfde soort lieden, dat, afhankelijk van de situatie, aan de ene of de andere kant terechtkomt en ook wel eens van kamp wisselt. Het verhaal van de boswachter en de stroper dus,- ook Bouhouche is begonnen als rijkwachter. Hun natuurlijke symbiose staat hen toe om een nieuwe vijand te definiëren: de spelbedervers en outlaws die het systeem zelf in vraag stellen,- om in de beeldspraak van het bos te blijven: de Robin Hoods van deze wereld. De echte schietschijf van het gerecht lijkt dan ook niét de georganiseerde misdaad, maar individuen en groupuscules die als ‘staatsvijandig’ geboekstaafd staan. De ‘politieke’ criminelen dus. De grotendeels non-verbale modus vivendi van justitie en milieu bestrijkt een brede schemerwereld van speurders, tipgevers, verklikkers, drugdealers, junkies, spijtoptanten, infiltranten allerhande, waar het grote publiek geen zaken mee heeft, maar die ideologisch ook tot een ‘rechtse’ onderstroom behoort.

 

Het kat-en-muisspel tussen gerecht en onderwereld heeft iets sportiefs, terwijl het opjagen van politieke dissidentie bittere ernst is. De georganiseerde misdaad levert het alibi voor méér politie, maar ondersteunt de klopjacht bij gelegenheid ook logistiek en operationeel, tot op het niveau van een parallelle militie.

 

Het verschil in strafmaat tussen klassieke criminaliteit en politieke subversie toont aan dat deze stille verstandhouding zich voortzet tot in de rechtszaal. Het valt bijvoorbeeld op dat de vervolgingsijver t.o.v. de Cellules Communistes Combattantes (CCC), eveneens actief medio de jaren ’80, veel groter was, dan de gedrevenheid om een oude rat als Bouhouche te volgen. De leden van die extreem-linkse cel, met twee dode brandweerlui op hun actief, -min of meer een ongeluk, zo zou blijken-  werden vrij snel gearresteerd en kregen een gepeperde rekening: levenslang voor leider Pierre Carette die pas voorwaardelijk vrij kwam in 2003. Zijn ‘medeplichtige’ Pascale Vandegeerde, die alleen maar een pamfletje had getypt en niet eens bij de acties betrokken was, kreeg 25 jaar en verliet in 2000 de gevangenis als een oude vrouw. Men herinnert zich het historische dovemansgesprek op Canvas tussen de wereldvreemde Marxist Pierre Carette kort na diens vrijlating, en zijn gewezen vervolger Wilfried Martens, in die tijd premier. Zelden zo’n ontluisterend psychodrama op TV gezien. Voor de moraliserende katholiek Martens (die het parlement in 1985 heel de tijd had voorgelogen over de kernraketten, dit terzijde) was Carette zelfs geen mens, maar eerder een wild beest, iets Hannibal Lector-achtig.

 

Het verhaal van dierenrechtenactiviste Anja Hermans spreekt ook boekdelen: hoe een rebelse punkster in fanatiek gezelschap terechtkomt, betrokken geraakt bij de aanslag op een hamburgertent en naderhand probeerde de auto van een onderzoeksrechter in brand te steken. Anja is me er eentje. Ooit kalkte ze, daags voor de blijde intrede van Filip en Mathilde, ‘Schijt aan de monarchie’ op het Antwerpse Boudewijnmonument. Normaal spreekt men over graffiti en zelfs straatkunst. Dat Boudewijnmonument is overigens op zich oerlelijk, ik vond Anja's ingreep estethisch zelfs een verbetering. ‘Staatsgevaarlijk’ luidde het verdict. Twee keer de maximumstraf. Uit de verslagen van de onderzoekscel blijkt duidelijk dat niet de materiële schade aan de McDonalds of het monument op zich, maar de symboolwaarde en het motief de speurders interesseerden,- nl. de ‘anti-imperialistische’ (sic) neigingen van Anja die, naar ik kan schatten, minstens zo lang gebromd heeft als Monsieur Bouhouche en die momenteel nog altijd wordt gestalkt door de staatsveiligheid. Haar parool werd wél naar de letter opgevolgd: toen haar nieuw lief een strafblad bleek te hebben, vloog ze terug achter de tralies. Vijf zelfmoordpogingen heeft ze er ondertussen op zitten. Door een extra streng gevangenisregime, inclusief isoleercel, is ze mentaal en fysiek een wrak. Geen politicus die deze schending van de mensenrechten durft aan te kaarten.

 

Twee maten en twee gewichten? Het lijkt erop dat gerecht en milieu tot hetzelfde netwerk behoren en objectieve bondgenoten zijn in het uitbouwen van een sterk politioneel apparaat, gericht op het uitschakelen van lastposten. De wederzijdse infiltratie van gerecht en misdaadmilieu is niet eens abnormaal of pervers, het behoort tot de standaardstrategie van de Belgische Staatsveiligheid. Het kat-en-muisspel tussen gerecht en onderwereld heeft iets sportiefs, terwijl het opjagen van politieke dissidentie bittere ernst is. De georganiseerde misdaad levert het alibi voor méér politie, maar ondersteunt bij gelegenheid ook logistiek en operationeel, tot op het niveau van een parallelle militie. De Bende van Nijvel betekende met haar 28 doden de ontsporing van die logica, en dat Bouhouche er iets mee te maken had, zal ooit aan het licht komen: een para-militair doodseskader dat, via het format van de warenhuis-holdup, een ultrarechtse coup in België moest voorbereiden. Dat het zover niet gekomen is, heeft vooral te maken met externe, macropolitieke omwentelingen zoals de val van de muur en het zgn. ‘einde van het communisme’, waardoor het rechts-Belgicistisch discours à la VDB en Baron de Bonvoisin zijn vijandbeeld compleet de mist in zag gaan.

 

Elites en geheimtaal: het geknetter van de kleine lettertjes

 

Ondertussen zijn we de 21ste eeuw binnengewandeld: andere tijden, andere zeden. Exit Bouhouche. Het 'milieu' is nagenoeg helemaal overgenomen door de Oosteuropese maffia, die voor de rest overigens dezelfde rol van haas speelt. De gangsters van weleer gaan op rust. Murat Kaplan, auteur van een resem gewapende overvallen met dodelijke afloop, is allang weer een vrij man... die onlangs werd betrapt op het jatten van een paar planken voor zijn kiekenkot. De oude villadief Jan Fabre werd gepromoveerd tot decorateur van het Koninklijk Paleis: het establishment biedt volop plaats aan bekeerde stropers.Hoe zit dat postmodern netwerk eigenlijk in elkaar?

 

In zijn boek ‘De Elite van België-Welkom in de club’ (Uitg. Van Halewyck) geeft onderzoeksjournalist Jan Puype een interessante staalkaart van discrete en machtige netwerken in ons land: loges, ‘denktanks’, serviceclubs allerhande, waar schoon volk bijeenkomt en belangrijke deals informeel worden bedisseld, ver van Uw en mijn bed. De geheimzinnigdoenerij van de clubs is méér dan folklore, al lijken de rituelen ons dikwijls archaisch en grotesk: ze wijzen op afscherming en bedekken verregaande normvervaging. Het fenomeen wijst op een verschuiving van de ‘klassieke’ milieu/gerecht-aliantie naar een afgestofte, echte oligarchie waarin adel, academici, topambtenaren, industriëlen, rechters, politici, advocaten, maar ook geaccrediteerde witteboordcriminelen een plaats vinden. Hier en daar mag ook een brave journalist of gesettlede kunstenaar het gezelschap opfleuren. Overigens haast allemaal lui die op de nominatielijst staan voor een ereteken of een adellijke titel: het Hof superviseert en patroneert discreet deze amicale topmilieus. Complot of natuurlijke affiniteit? Of komt van het een het ander? De magistratuur voelt zich in deze afgeschermde cenakels van het establishment in elk geval perfect thuis. Het verklaart bv. de milde vonnissen in de zgn. ‘jachtongevallen’ (een dronken baron die vanop zijn domein een wandelaar afschiet) of, recent nog, de onverwachte vrijspraak in de pedofiliedossiers van het sjieke Brusselse St. Michielscollege, waar de rechter van dienst toevallig ook school had gelopen. Of de zachte behandeling van Paul Nihoul, zakenman, arrangeur en nevenintrige uit het Dutroux-dossier. Klassejustitie dus, zonder twijfel.

 

De hermetische taalcode van de elites vermenigvuldigt zich over alle takken van het establishment en neemt allerlei gedaanten aan: van het onleesbare Belgisch Staatsblad, over het academisch potjeslatijn, de mystificaties van het artistiek modernisme, het Sanskriet van de beursanalyses, tot het abrakadabra van de loges.

 

Het boek van Puype is eigenlijk een uitloper van de Dutroux-affaire die de Witte Beweging op gang bracht: politiek is deze beweging mislukt, maar de maatschappelijke onderstroom, het algemeen onbehagen omtrent zaken die achter onze rug en boven ons hoofd worden bedisseld, is vandaag sterker dan ooit. Het is overigens, o ironie, vandaag vooral het Vlaams Belang dat de vruchten plukt van deze mislukte revolte tegen een systeem dat leeft van de desinformatie. Macht heeft in de moderniteit niets te maken met dwang maar alles met ondoorzichtigheid. De code van de elites vermenigvuldigt zich over alle takken van het establishment en neemt allerlei gedaanten aan: van het onleesbare Belgisch Staatsblad, over het academisch potjeslatijn, de surrealistische mystificaties van het artistiek modernisme, het Sanskriet van de beursanalyses, tot het abrakadabra van de loges. De complexiteit van het geschreven recht (het hermetisch wetboek of ‘codex’) is het model voor al deze geheimtalen. Het is op zijn beurt een transcriptie... van het Bargoens (de geheime dieventaal). Andermaal is de band tussen boven- en onderwereld opmerkelijk. De geheime protocollen van de clubs zijn de afspiegeling van een hermetisch wetboek vol kleine lettertjes,- die dan weer aanleiding geven tot allerlei juridische spitstechnologie, waarvan de ‘verjaring’ de bekendste is. De dingen moeten dus ingewikkeld gemaakt worden om de netwerken intact te houden en om een mistgordijn te creëren voor ontsnappingsroutes van fijne lui die zichzelf wat te enthousiast bediend hebben. De recent gestemde wet Franchimont biedt in dat opzicht een uitgebreid menu van subtiele uitwijkmanoeuvers voor wie 'de weg kent'. Het Belgisch Staatsblad stortte vorig jaar 57.746 bladzijden wet- en regelgeving over onze hoofden uit,- een voor gewone burgers onverteerbaar abrakadabra, enkel toegankelijk voor een beperkte klasse juristen.

 

Het fenomeen fraude zal in belang toenemen: het is de postmoderne reproductievorm van de elites, niet enkel materieel maar ook symbolisch: het 'plukken van de vrucht' van het geheim, kenmerkend ritueel in een esoterische cultus...

 

Witteboordcriminelen als de hormonenmaffia ontsnappen aan vervolging via gesofisticeerde proceduretechnieken. Om dezelfde redenen zullen de miljoenenfraudeurs van KB-Lux en de textieldynastie De Clerck buiten schot blijven: hun advocaten kennen de achterpoortjes en de trucs om een dossier ad infinitum te rekken. Het fenomeen fraude zal in belang toenemen: het is de postmoderne reproductievorm van de elites, niet enkel materieel maar ook symbolisch. Het gaat m.n. niet alleen om illegale verrijking, maar ook om de ritualisering van het netwerkfenomeen. Men plukt a.h.w. de vruchten van het geheim,- iets wat een essentieel element is de esoterische cultus, zie bv. het Laatste Avondmaal, het Graalmysterie etc. Corruptie is de nuttiging van de hermetische code door de genootschap die het geheim intact houdt en daarin ook investeert. Discretie, solidariteit en geheimhouding worden des te belangrijker, naarmate de leden van het genootschap zich in de grijze zone bewegen. Men is verbrand, en men weet het van elkaar. Het klassieke “milieu” blijft daarin de rol vervullen van katalysator en objectief alibi voor het uitwoekeren van een gesofistikeerde regelgeving die evenzovele achterpoortjes bevat. Het kwade geeft een bestaansreden aan het goede, en corrumpeert het tegelijk.

 

Het is overigens opmerkelijk hoe bv. een assisenzaak, zogezegd de voortzetting van het volkstribunaal, gemanipuleerd wordt door de charades van magistratuur en advocatuur die onderling ‘dezelfde taal spreken’. Mediavedetten zoals Jef Vermassen vergroten nog dit theatraal niveau. Het is trouwens sowieso sterk af te raden om zonder advocaat voor de rechtbank te verschijnen –wat strikt genomen nochtans mag-: mensen die zichzelf verdedigen doen dat niét in het jargon en stellen zich op die manier de facto buiten het systeem dat nu net gebaseerd is op een hoge techniciteit van het discours.

 

De magische driehoek van de rechtsstaat komt nu langzamerhand uit de mist: elites, gerecht en onderwereld vormen een soort cirkulair ganzensspel waarin codex (het wetboek), politie-apparaat en fraude elk hun rol spelen in de objectivering van het geheim en de reproductie van het netwerk:

 

De media en de 'openbaarheid'

 

Desinformatie is de nieuwe strategie van de elites en de grondslag voor ongelijkheid. Macht is, in het post-Dutroux-tijdperk, subtiel, discreet, flou, minuscuul. Het fluisterschrift van de paragraaf, de uitzondering, de bijlage, de voetnoot, het glossarium, bevat vandaag de échte toverspreuken, de hefbomen die dingen in gang zetten en achter de schermen processen beïnvloeden. Kennis is macht, dus moet ze geheim blijven. De eeuwige paradox van de pedagoog ligt hieraan ten grondslag, we hebben het allemaal meegemaakt op de universiteit: de prof wordt betaald om zijn kennis door te geven; doch, moest hij daarin compleet slagen, dan zou zijn rol overbodig worden. Hij leeft dus van complexiteit,- de leraar geeft maar een deel van zijn kennis prijs, heel gedoseerd, net genoeg om leerlingen op te werken tot specialisten… die weerom het geheim kunnen bewaren.

 

Men zou kunnen replikeren dat het de kerntaak van de media is om dit obscurantisme te ontmaskeren. Inderdaad, maar dat veronderstelt een analytisch-filosofisch instrumentarium dat tegelijk verstaanbaar en subtiel is,- en daar hebben de massamedia duidelijk niet voor gekozen. Hun taal is onmiddellijk, krachtig en niet-reflexief,- waardoor ze eigenlijk complementair en medeplichtig worden aan de versluiering van de macht binnen de elites. Net door de nivellerende werking van de televisie, en haar ijver om een 'groot publiek' te bereiken, wordt 'universele toegankelijkheid' dé definitieve barrière om de complexe codes te kraken.

 

Het groeiende idee van de mediatieke ‘openbaarheid’, waarin alles getoond en ‘ontsluierd’ kan worden (Big Brother), is gebaseerd op de illusie dat de waarheid simpel is. Het netwerkverhaal wijst op het tegendeel. Hoe dit analyseren? Wie vindt de taal uit die zo rijk is dat ze de geheimen ontmaskert, en zo helder dat ze ook haar eigen code kraakt?

 

Er ontstaat zo een dubbele waarheid, een voor de buitenwereld en een voor ingewijden. Enerzijds is er de taal voor het klootjesvolk, van de commerciële slogans, de politieke on-liners, de vette mediakoppen. Direct, toegankelijk, evident: zeg maar de Stevaert-rethoriek. Daaronder zit een andere waarheid, bestemd voor zij die toegang hebben tot de netwerken: een complexe code, geformuleerd in een subtiel discours waar een leek in verdrinkt.

 

Het groeiende idee van de mediatieke ‘openbaarheid’, waarin alles getoond en ‘ontsluierd’ kan worden (Big Brother), analoog aan het populistisch, gemakkelijk aanslaand discours van politici genre J.M. De Decker, is gebaseerd op de illusie dat de waarheid simpel is. Het netwerkverhaal wijst op het tegendeel. Onder elke bodem zit weer een andere. Wie vindt de taal uit die zo rijk is dat ze de geheimen ontmaskert, en zo helder dat ze ook haar eigen code kraakt?

 

Politiek en magistratuur: de Wetstraat als geheime keuken

 

Op naar de hoogste regionen.

 

Een telling naar opleiding en beroep binnen de Belgische regeringen en parlementen levert opmerkelijke resultaten op: zowat  70 % van het politiek personeel mag zich jurist noemen. Een verontrustend percentage. Het aantal ‘menswetenschappers’ (sociologen, psychologen, filosofen…) of natuurwetenschappers is absoluut te verwaarlozen, zelfs de economisten zijn ver in de minderheid: de Wetstraat is het terrein van de advocatuur. De wetgevende macht is, ondanks alle schijnbewegingen zoals de Kafka-campagne, alleen al door haar juristenpopulatie een pure producent van raadsels, een Sybillijns orakel dat alleen door karkassen als Eliane Liekendael, bedenkster van het Spaghetti-arrest, juist kan geïnterpreteerd worden.

 

De sleutel van de hermeneutiek (‘interpretatiekunst’), voorbehouden aan een kaste van juristen en schriftgeleerden, ligt in de geheime keuken van de Wetstraat, waar de teksten worden gefabriceerd. Dat is een enorme kortsluiting in de klassieke dichotomie van subject (lezer) en object (tekst): de ontcijferaars en de bedenkers van de code zijn dezelfden. Dat is dus per definitie 'obscurantisme', het opzettelijk versluieren van teksten. De acteurs van het justitietheater komen elkaar terug tegen in het parlementair halfrond, ze zitten aan de bron en maken de wetten zelf, zo is het niet moeilijk. Rond deze keuken troept de cameraderie van juristen samen, die posten uitdelen of in ontvangst nemen,- de benoeming van rechters is bij ons sinds het ontstaan van België partijpolitiek. Wat sinds de Franse Revolutie ‘de scheiding der machten’ heet, stort hier traag in elkaar, tot een monocultuur van politici die magistraten benoemen, magistraten die met advocaten optrekken, advocaten die in de politiek gaan en… weerom magistraten benoemen, de cirkel is rond. Politiek trekt blijkbaar de verkeerde mensen aan, het is een fatale spiraal.

 

Wat sinds de Franse Revolutie ‘de scheiding der machten’ heet, stort hier traag in elkaar, tot een monocultuur van politici die magistraten benoemen, magistraten die met advocaten optrekken, advocaten die in de politiek gaan en… weerom magistraten benoemen, de cirkel is rond.

 

De typologie van de 'ambitieuze jurist/politicus' is alomtegenwoordig: carrières die beginnen bij de sloten bier verzettende, populaire praeses van de rechtsfaculteit, om daarna als advocaat snel door te stoten in de partijhiërarchie. Het zijn steevast haantje-de-voorsten die dikwijls ook uit de juiste familie komen en door papa op de goede weg zijn gezet, grote en kleine Cicero’s die vooral drijven op een mateloos ego, niet op interesse voor het algemeen belang. Deze inteelt levert exact op wat men zogezegd wil vermijden: het uiteendrijven van instituties en burgers. De rechtszaal wordt het testlaboratorium van het parlement, het parlement wordt het confectie-atelier van justitie,- de politiek maakt geen wetten vóór, maar tegen het volk. Zo is elke burger, van nature op zoek naar transparantie en billijkheid, een potentiële vijand van het systeem geworden. De frauduleuze verglossing van de tekst tot mistgordijn maakt een einde aan elke mogelijke vorm van kritiek via tekstanalyse, gewoonweg omdat een leek niet meer ‘in de tekst’ geraakt en een deskundige tot het gesloten universum behoort dat de teksten assembleert. Twee werelden: de 'kloof tussen overheid en burger' is syntactisch.

 

Terreur, vrijwillige excommunicatie en beroep op de natuurwet

 

De teksten zijn ondoorzichtig, de media reveleren niet maar maskeren. Naarmate de indigestie van de massa rond deze dubbele verdwijntruc toeneemt, lijkt verzet alleen nog mogelijk door zich helemaal buiten het discours te stellen. De buiknostalgie naar eenvoud zou dan wel eens gevaarlijk groot kunnen worden. Nu al wordt van onderuit geopperd dat een ‘archaisch’ gewoonterecht, minder gebaseerd op dikke boeken en meer op het ‘Gesundes Volksempfinden’, de democratie zou ten goed komen. De Angelsaksische landen huldigen trouwens dat principe, dat ingaat tegen de uitwassen van het Romeinse Recht en de Code Napoléon die de witteboordcriminaliteit en de procedureslagen hebben mogelijk gemaakt. Weg magistratuur en advocatuur, terug naar de vierschaar en de volksrechtspraak onder een oude eik, het is verleidelijk. Misschien ligt de rebellie van de heks Anja Hermans, met haar regimevijandig gekalk en haar strijd voor de tot hamburgers vermalen koeien, wel meer in deze vrouwelijk-matriarchale lijn die voor het leven gaat, en die instinct laat primeren op de kleine lettertjes. De fik erin als het niet deugt, dood aan de thanatocratie.

 

Zowel bij links als rechts breekt het inzicht door dat met de moderne macht niet te discussiëren valt,- het ongelijk van de dissidentie zit in de taal zelf ingebakken. Soms is het belangrijk om niét op de valstrik van de dialoog in te gaan, niét te praten. Wat zich nu aftekent als ‘terreur’, is de extreme consequentie van het verzet tegen elk elitair obscurantisme: het openbreken van alle codes en geheimtalen, waardoor politiek én justitie perplex de feiten achternalopen. Individuen en  los-geassocieerde groepjes zullen zich buiten het netwerk en zijn codes stellen,- een vrijwillige excommunicatie en zelfs nieuw analfabetisme, dat men van binnen het universum als ‘terreur’ zal omschrijven, of daar nu graffiti of fysiek geweld bij komen kijken of wat dan ook.

 

De term ‘terreur’ volgt uit de angst van het machtsdiscours voor externe kritiek. Interne kritiek is slechts smeersel voor de machine,- het is de prietpraat die we in TV-debatten te horen krijgen. De extra-parlementaire dissidentie draait rond rechtvaardigheidsgevoel en verlangen naar een taal zonder dubbele bodems, sociaal, cultureel, taalkundig en sexueel. Oeroude energieën komen het natuurrecht opeisen en herstellen ons intuïtief gevoel van rechtvaardigheid, dat verloren ging door het gebeuzel van sofistische beroepsgoochelaars. Het verdwenen paneel van de Rechtvaardige Rechters uit het ‘Lam Gods’ lijkt symbool te staan voor die degradatie én voor het verlangen naar herstel. Misschien eist de natuur wel zelf, zonder ons, haar rechten op, via rampen en catastrofes. Katrina, Tsunami, krachtig en spontaan, niet te recupereren. Is het nieuwe élan van de natuurwetenschap een verborgen zoektocht naar deze nultaal? Onvoorzienbare breuken in het discours terroriseren de perverse poëtica van de macht. Tiens, werd Madani Bouhouche niet geveld door een oude eik? Er is nog gerechtigheid.

 

Johan Sanctorum


Bron: Visionair België

(Artikel met de toestemming van de auteur overgenomen.)

"Afbeelding: Rechterluik van het schilderij ‘Het Oordeel van Cambyses’ door Gerard David, 1498. Cambyses, koning der Perzen, (6de eeuw voor Chr.) trad hard op tegen corruptie in rechtspraak. Zijn rechter Sisamnes had voor smeergeld een onrechtvaardig oordeel uitgesproken, koning Cambyses had hem betrapt en veroordeelde de rechter tot een gruwelijke straf, hij liet zijn rechter Sisamnes levend villen. Het schilderij vormt een waarschuwing tegen corruptie in justitie."

lundi, 30 mars 2009

Twee handen op een buik

Twee handen op een buik

Kapitalisme en CommunismeDe ultraliberale extremist Dedecker die - zoals algemeen bekend - een hevig tegenstander is van het communisme en het socialisme, heeft in het tv-programma Phara, waar hij in een panel zat met Peter Mertens (de voorzitter van de PVDA), onthuld dat zijn partij LDD de lijstvoordracht van de PVDA met twee handtekeningen van parlementsleden steunt. Dit betekent dat de PVDA (Partij van de Arbeid) zich geen zorgen of moeite moet getroosten om op straat duizenden handtekeningen op te halen om te kunnen deelnemen aan de verkiezingen van juni. Velen zullen verrast zijn door de houding van Dedecker, maar voor ons van het N-SA is het helemaal niet verwonderlijk dat zoiets gebeurt.

Het kapitalisme spreekt altijd in tongen. Soms met een links geluid en andere keren weer met een meer rechts. Maar die tong zit altijd in dezelfde mond, die van de politieke en de kapitaalselites. Als er een boost is in de winstmaximalisatie en de markt boomt, dan roept ze uit het rechterkeelgat dat er nu geen obstructie van de markt mag zijn. De markt is van heilig karakter: de geldgoden beschikken, de gelovigen schikken zich ernaar. En wie niet in de geldgod gelooft, moet zwijgen of verketterd worden. In tijden van economische boom rochelt de linkse tong dat er toch voorzichtigheid aan de dag moet worden gelegd, want dat er anders misschien ongelukjes van komen. Maar de rechtse tong sust het geweten van zijn linkerhelft door met een paar fooien te smijten.

Als dan de onvermijdelijke crash volgt, neemt de linkse tong het deuntje over. Alleen gorgelt die tong nu ineens dat de staat met oplossingen moet komen. Dat kreeg die rechtse tong eerst jaren niet over de lippen. Maar kijk, nu is er symbiose: de linkse tong van het kapitaal heeft zich verzoend met de rechtse tong van het kapitaal om zo hun gezamenlijke slokdarm te redden. Ze maken deel uit van hetzelfde orgaan. Het ene stuk is ervoor te vinden dat de staat alles beheerst (staatskapitalisme zoals in China) en het andere stuk wil de kosten van de crisis liefst rechtstreeks door de gemeenschap laten betalen. De droom van elke maoïst én elke kapitalist! De staat beheert het kapitalisme en zorgt er zo voor dat het onaangetast blijft.

Dedecker zei tijdens een debat  dat hij veel bewondering had voor China en we geloven hem op zijn woord (voor deze ene keer dan). Dat systeem is dan ook het systeem bij uitstek waar elke monopoliekapitalist van droomt. Volk onderdrukt, organisaties en instellingen onder rechtstreekse controle van de staat, afdankingen met behulp van staat en politie, onderdrukking voor iedereen die zijn mening durft te spreken en het belangrijkste: er is een ongecontroleerde en ongehoorde winstmaximalisatie van het kapitaal. De monopolies worden gevormd en beschermd door de maoïstische elite die zelf een deel is geworden van dat kapitalisme. De droom voor elke kapitalist: of het nu een rooie van de PVDA of een blauwe van LDD is. Daarom dat de beide woordvoerders van zowel LDD als PVDA hun partij 'de partij van de kleine man' noemen. Maar eigenlijk bedoelen zij daarmee dat hun beide partijen het perfecte onderdrukkingsapparaat van de kleine man zouden zijn. Dat is waarschijnlijk bedoeld als advertentie naar de grote kapitaalgroepen toe. "Kijk hoe wij de kleine man klein houden, steun ons alstublieft, heren kapitalisten!"

Ook op het vlak van migratie zijn beide partijen zo liberaal als de multiculturele pest. Beiden verdedigen dat iedereen hier mag komen als ze maar willen werken. De PVDA heeft dat deuntje geleerd bij de Nederlandse SP van Marijnissen. Dedecker zingt dat liedje al lang, net zoals Wilders in Nederland. Ze moeten zich wel aanpassen, die vreemdelingen, zeggen de beide tongen van het kapitalisme. Met aanpassen bedoelen ze alleen maar dat de vreemdelingen zich moeten aanpassen aan de kapitalistische maatschappij en niks anders. Zo hebben PVDA en LDD alweer een gezamenlijk doel. Nog meer invoeren van vreemdelingen dus, want die vreemdelingen worden gekoesterd als waren ze pareltjes.

Natuurlijk moet de rechtertong van het kapitaal soms eens stoer doen. Dan roept het met een krakerig geluid dat er moet worden optreden tegen die vreemde mannen die niet braaf naar de fabriek gaan en die hun vrouwen niet laten werken uit religieus principe. Ze mogen dan ook die islam op hun buik schrijven wat betreft mensen als Dedecker, Wilders en copycat Dewinter. Moslimvrouwen aan de slag, dat bedoelen ze bijvoorbeeld met hun Europese vorm van islam. Veel is dat toch niet gevraagd, wel? Maar de linkerhelft sust dan de boel: de immigrant moet tijd krijgen en - wat belangrijker is - de immigrant moet een groot deel van de jobs krijgen van de autochtone kleine man. Eigen volk discrimineren als wapen tegen discriminatie. Ja, zot zijn doet geen pijn, zeggen ze. Alhoewel, als je die beide heren hun tronie bekijkt, zou je soms gaan twijfelen. Arbeidsverdeling noemen ze dat. Niet van hun arbeid en inkomen natuurlijk, maar van het uwe en het mijne.

De conclusie is dus duidelijk: het kapitaal schrikt in deze crisisperiode werkelijk voor niks terug. De meest fanatieke vrije-marktaanhanger steunt de communistische partij van België. Zo hebben ze de taken reeds verdeeld: rechts houdt de poen op zijn plaats, links misleidt het volk zodat er geen protest van komt. De linkse liberalen van de PVDA zijn het schaamlapje (of beter: de schotelvod) van het kapitaal. Om die taak naar behoren te kunnen vervullen krijgt ze steun bij de verkiezingen en mag ze op TV haar gekwijl komen verkondigen. Ze hebben voor deze gelegenheid dan ook een gezamenlijk deuntje ingestudeerd. Elke vorm van nationalisme is uit den boze, laat staan protectionisme, zingen ze in koor. Maar nationalisme betekent zorgen voor het eigen volk en protectionisme betekent werk voor het eigen volk. Wij van het N-SA zijn dan ook de echte beweging van de kleine man: we zijn een beweging van en voor de kleine man.

De LDD en de PVDA zijn alleen maar de parasieten die de kleine man kapotmaken.


Eddy Hermy
Hoofdcoördinator N-SA

dimanche, 29 mars 2009

Idee chiare e giovani speranze per la nazione russa

masha

Ampio risalto in questi giorni è stato dato sul primo canale televisivo nazionale russo alla visita che il presidente Putin ha effettuato in Siberia nella città di Kemererovsk, presso alcune grosse industrie della lavorazione dei metalli pesanti, Putin ha parlato di un piano di sostentamento economico a favore delle grandi industrie, con forti sgravi fiscali per favorire uno sviluppo più dinamico nel settore. Ma anche altri temi di grossa rilevanza sociale sono stati affrontati: la Russia ha dedicato quest’anno per il sostegno dei giovani, dagli studenti alle giovane coppie, aiuti concreti con borse di studio per chi si distinguerà nell’impegno per lo studio, un modo questo per assicurare al paese delle nuove energie altamente specializzate e motivate; poi ingenti somme di denaro sono state stanziati anche in favore delle giovani coppie e non. E ancora, per quanto riguarda il problema degli alloggi, un piano di aiuti statali   per chi ristruttura vecchi alloggi o ne compra di nuovi.
 I Giovani russi come Masha Sergeyeva leader della “Giovani Guardie” (un movimento di sostegno a Putin) hanno le idee chiare e tanta voglia di far rinascere l’orgoglio nazionale russo di fronte all’ assalto della globalizzazione  liberista e delle lobby filo-israeliane. In tema di immigrazione Masha parla chiaro, la Russia ai Russi! Gli immigrati non possono ledere il principio in tema di occupazione “della preferenza nazionale” ovvero gli immigrati possono svolgere solo lavori per cui non sono impiegati i Russi, in caso contrario possono tornare nei loro paesi di origine. Idee chiare anche nell’ analizzare gli oppositori di Putin e più in generale i nemici del popolo russo. Il giudizio  che Masha ad esempio da su  Eduard Limonov, scrittore fondatore del Partito Nazional Bolscevico Russo è lapidario: “uno psicopatico”; e in effetti…pur essendo un personaggio a tratti interessante, stupisce per alcune situazioni a cui dice orgogliosamente di aver partecipato. Leggendo per esempio il suo libro autobiografico “Eddy Baby ti amo” lo si trova partecipare  da ragazzino ad uno stupro di gruppo su una giovane donna…Un ideologo dalle tesi  in parte interessanti  ma che per motivi, incompresibilmente, personali si è schierato contro Putin nonostante per un certo periodo di tempo lo abbia anche sostenuto. Ma oggi la Russia sembra avere nelle nuove  generazioni giovani concreti, che hanno individuato nel presidente Russo uno strumento reale di speranza e resistenza della nazione Russa, una nazione che ritrova milioni di uomini e donne non più deviati dalla demagogia pseudo-umanitaria ed individualista della retorica eversiva “occidentale” dove si esalta spesso una presunta “libertà individuale” per distruggere   una libertà di livello più alto che supera i miseri egoismi umani, ovvero quella della”NAZIONE”.
Nazione come comunità di uomini che lavorano, agiscono per un bene comune superiore, che è l’espressione delle loro radici, della loro identità, come è appunto il caso della Nazione Russa. Alla bella Masha(24 anni) e alle migliaia di giovani patrioti russi auguriamo dunque una lotta coronata di successi in nome del popolo russo figlio della grande stirpe della civiltà europea.

Piero Sciacca
http://www.fiammasicilia.it/Palermo_mondo.htm

mercredi, 25 mars 2009

Gewelddadige spellen

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Gewelddadige spellen

Geplaatst door yvespernet

Naar aanleiding van de schietpartijen in scholen is het debat weer opgelaaid over gewelddadige spellen. Nu zouden er weer extra controlemechanismen moeten komen op spellen en anderen willen dan weer dat gewelddadige spellen gewoon niet meer op de markt komen. De daders van deze gruweldaden zouden immers geïnspireerd zijn door gewelddadige spellen en de oplossing zou dan toch simpel zijn? Gewoon heel die boel afschaffen en de overblijvende spellen sterk laten controleren.

Wel beste mensen, die controlemechanismen op spellen bestaan al. Die controlemechanismen heten verantwoordelijke ouders die weten waarmee hun kinderen bezig zijn. Ouders die interesse tonen in wat hun kinderen doen. Natuurlijk heeft elk kind ook geheimen voor zijn of haar ouders, maar als ouder is het maar een zeer kleine moeite om te zien welke beelden verschijnen op het televisie- of computerscherm. Er zullen altijd zonderlingen zijn die geschift zijn en dan daarenboven ook gewelddadige spellen spelen. Maar volgens mij zijn het eerder de daders van zulke daden die zich aangetrokken voelen tot gewelddadige spellen dan de spellen die mensen zouden aanzetten tot het plegen van extreme gewelddaden. Ouders van zulke figuren kunnen natuurlijk zeer weinig doen tegen de daden van hun kinderen, maar zij kunnen wel een rol spelen bij gewone kinderen om het geweld te kaderen en in te grijpen waar nodig. Ik zeg niet dat bij de schietpartijen ouders hun verantwoordelijkheid hebben ontlopen, verre van zelfs. Maar het waren dan ook personen met grote mentale problemen, niet gewone mensen die na een paar spelletjes te spelen opeens bedachten dat hun school overhoop schieten wel eens “tof” zou kunnen zijn.

Persoonlijk ben ik een relatieve “hardcore gamer”. Ik heb dan ook vele “extreem gewelddadige” spellen gespeeld. Noem ze maar op en er is een grote kans dat ik gespeeld heb en nog steeds in mijn bezit heb. Carmageddon I en II, de GTA-serie, Counterstrike, Diablo I & II, Manhunt, etc… Nooit heb ik echter de neiging gevoeld om mijn school overhoop te gaan schieten, mensen op straat voor punten te gaan dood rijden of andere extreme gewelddaden. Dat sommigen vol overtuiging wijzen naar die spellen is mijn inziens dan ook een ontlopen van verantwoordelijkheden. De beste controlemechanismen zijn de ouders. Als men een spel koopt, staat het al vol met waarschuwingen. Zo ben ik een grote fan van de Europa Universalis-reeks. Daar worden rijken gebouwd, legers de dood ingestuurd en mensen al dan niet vrijwillig tot een bepaalde godsdienst bekeerd. Het is minder grafisch dan een Counterstrike, maar in de kern is het wel pakken erger.

Ook het focussen op Counterstrike is compleet onnodig. Dat is een onschuldige mod van de Half Life-serie waar het er nog heel braafjes aantoe gaat. Het is wel enorm bekend en enorm graag gespeeld, maar om nu te zeggen dat het extreem gewelddadig is… Dan is bv Manhunt of GTA pakken “erger”, maar ik blijf erbij dat zo’n spellen mensen niet aanzetten tot moorden. Een spel als voornoemden kan volgens mij zelf als uitlaatklep dienen. Daarbij, als ze de grote sector van videospellen nog meer willen reglementeren, een sector die trouwens nog wel winst kent, dan gaan ze wel op internet spellen zoeken. Gamefudge.com, kongregate.com, etc… Er zijn nog tonnen meer websteks waar je gratis Flash-spellen kan spelen die bij momenten honderd keer gewelddadiger zijn dan wat je in de winkel kan kopen.

dimanche, 22 mars 2009

Zemmour, une élite comme les autres?

Zemmour, une élite comme les autres ?

Par Karl Hauffen

En lisant la dernière brève de Zemmour dans laquelle il se félicite de la mort des régions françaises, j’ai soudain pris conscience de la béance qui me séparait de ce patriote de plume. Car si la mort de ses régions est une chance pour la France, on est bien en droit alors de se demander ce que revêt exactement le terme de France. Qu’est-ce que la France pour Zemmour et avec lui, pour l’ensemble de l’intelligentsia intra-muros qui postillonne à longueur de temps le mot France comme d’autres celui d’Europe.

On aimerait qu’il nous explique une bonne fois pour toute ce qu’est au juste la France ? Un roman de Balzac ? Une poésie de Victor Hugo ? Napoléon et son code civil ? De Gaulle et sa grandiloquence de brave papi ? Un peu tout ça à la fois sans doute… Difficile donc de ne pas réprimer un certain pincement ironique devant cette vision proprement désincarnée et cérébrale de la nation. Dans ce fatras poussiéreux de bibliothèque, on cherche avec peine un corps vivant doté d’une âme. L’intelligent Zemmour nous offre-là la figure parfaite de l’idiot-savant - cette particularité dont seules les grandes écoles d’État parisiennes ont la recette - qu’il aime pourtant tant à fustiger par ailleurs. Inutile alors de discourir à longueur d’émissions sur le déclin de la France. Car une nation qui n’a pas d’autres points d’ancrage identitaire qu’une liste de bouquins, un carton rempli de textes administratifs et, encadrées de dorure, des photos d’hommes d’État illustres dans de ridicules costumes de parade est forcément une nation condamnée. Ce qu’aime et veut sauver Zemmour, ce n’est pas la France, mais son musée, ou plus exactement son mausolée.

La France meurt de son centralisme bureaucratique et des relations incestueuses qu’entretiennent entre elles les élites parisiennes. Elle meurt à petit feu d’être représentée par un aréopage de parvenus, élus mais sans pouvoir, intarissables bavards mais dénués de la moindre liberté d’initiative. Qui décide ? Les conseillers du président et les hauts-fonctionnaires au crâne d’œuf grouillant dans les couloirs des ministères aux nominations ronflantes et aux compétences à rallonge. Qui les a élus ? Personne. Ils sont là depuis des décennies et survivent inlassablement aux alternances gouvernementales, leurs mille projets de loi à tiroirs sous le bras. Cette caste d’idiots-savants est si savamment idiote qu’on connait à l’avance les solutions qu’elle proposera, que notre président s’appelle Mitterrand, Chirac ou Sarkozy. Pour combler les déficits ? Créons un nouvel impôt. Pour lutter contre le chômage ? Créons une subvention. Pour lutter contre l’insécurité ? Créons une commission. Pour lutter contre la dérive communautariste qu’induit une politique migratoire inconsidérée ? Créons un observatoire ou mieux encore, une Haute autorité de lutte quelconque.

La France de Zemmour est pourrie de la tête, une tête bouffie qu’une thrombose bureaucratique ne fait que rendre plus hideuse encore. La France qui travaille, celle silencieuse qui ne rappe pas, celle industrieuse des ouvriers, des petites gens, des petits entrepreneurs, cette France-là ne circule pas en vélib dans Paris intra-muros, ne lit pas Balzac et n’éprouve aucun orgasme particulier de la lecture emphatique des textes administratifs qu’on oppose quotidiennement à ses velléités de liberté. L’antimondialiste Zemmour qui se plait à moquer l’Europe désincarnée de Bruxelles rêve une France autant désincarnée, si ce n’est même plus. Que tout ceci est tragi-comique ! C’est en aimant la France de cette façon-là, que la petite bande des souverainistes autorisés, celle des Max Gallo, des Henri Guaino et des Villepin, contribue à en aggraver l’agonie. Zemmour ne déroge donc pas à la règle. Ne lui en déplaise, mais la France d’après, celle qui aura définitivement tué ses pays charnels, ne sera ni ce mausolée auquel il rêve, ni même cette ultime tentative de rester fidèle au souvenir du premier consul.

Sans ses régions, la France ne sera qu’une tête décapitée sanguinolente posée sur son propre cadavre en putréfaction. Un État lancé sans entrave sur la voie totalitaire avec tout en haut, un pouvoir qui aura définitivement retiré à ses couches populaires leur dernier outil de contrôle démocratique. La région, on le voit partout en Europe, est le premier espace d’adhésion et d’expression politique. Elle est la première brique sociale par laquelle la collectivité des hommes doit nécessairement passer pour se retrouver et se mettre en situation d’amorcer une action politique. Entre régionaux, on se comprend, on utilise les mêmes mots avec les mêmes accents. Quand on sait y lire, un Alsacien en dit plus en un regard que Zemmour en deux heures d’émission. S’organiser au niveau de la région devient alors plus simple, coule de source. Qu’attend donc Zemmour de ce découpage administratif qui refusera d’entendre les revendications d’hommes de même culture, de même souche sociale, conditionnés par le même contexte économique et moulés par des mœurs communes qui n’ont rien à voir avec celles apprêtées qui se pratiquent dans le monde clos du show-biz parisien ?

La France meurt chaque jour un peu plus de son incapacité à connecter une élite arrogante avec une population réduite au silence et Zemmour, dont on apprécie souvent par ailleurs les analyses pertinentes et affutées, nous dit sans rire que tout ceci est bel et bon. Comment ensuite le croire lorsqu’il prétend aimer la France ? En cela, il nous démontre qu’il fait bien partie, ni plus, ni moins, du même cercle fermé des élites autorisées, malgré le fait qu’il ait fait métier de les brocarder. S’il aime la France, il nous avoue son indifférence pour les Français, c’est-à-dire ce fragile assemblage de peuples européens qui composent la France. Zemmour est tombé amoureux d’un portait, mais il s’interdit d’en regarder l’incarnation vivante dans toute sa nudité. Car la France n’est pas seulement une idée, elle est avant tout une réalité organique complexe et diverse.


[cc] Novopress.info, 2009, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[
http://fr.novopress.info]


 

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Over verlangen en wilskracht, de kleenex en de onthouding

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Over verlangen en wilskracht, de kleenex en de onthouding

vendredi, 20 mars 2009

Sociologie de la violence des jeunes

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Sociologie de la violence des jeunes

 

Ex: http://unitepopulaire.org/

 

« Il y a un manque d'autorité qui structure le caractère. Aujourd'hui, les parents sont souvent les amis-confidents de leurs enfants. Ce qui nie un rapport générationnel indispensable. Avant, on recevait une éducation basée sur l'interdit. Cela permettait d'apprendre les limites. Il est important, entre autres, de pouvoir s'opposer à ses parents à une certaine période de sa vie, de pouvoir se révolter. Cela contribue à structurer son identité et à développer un sens moral mais aussi d'appartenance sociale. […]


Avec l'investissement de la réalité virtuelle, le rapport à la violence des jeunes a profondément changé. La violence est devenue une notion abstraite, désincarnée. Par conséquent, on a moins peur de franchir le pas et le passage à l'acte est plus rapide. Par ailleurs, on subit les conséquences d'une société qui n'a heureusement pas connu la guerre depuis plus d'un demi-siècle si ce n'est à travers les écrans de télévision. Par conséquent, les jeunes n'ont pas de parents qui peuvent leur raconter des souvenirs et les sensibiliser aux conséquences de la violence. Quant aux adolescents qui passent à l'acte, c'est, pour eux, presque un acte de magnificence individuelle. Ils n'arrivent pas à saisir la souffrance de l'autre. 

 

 

Les jeunes vivent de plus en plus devant leurs ordinateurs. Certains parmi eux ont peu de contacts avec l'extérieur, se retrouvent isolés. Les adolescents qui disjonctent sont souvent des personnes inhibées, qui se replient face à l'écran. Ils n'ont plus de relations avec l'autre, ne le sentent plus. Bref, l'autre est désincarné. Par ailleurs, quand on est mal à l'aise avec ses propres sentiments, on peut réagir par la violence ou l'on s'organise autour d'elle. C'est ce qu'on voit dans Orange Mécanique, qui était un film précurseur.


On vit dans une société stressante, avec du chômage et de la précarité qui touchent les jeunes. Ceux qui ont une personnalité très fragile ont la tendance à perdre leurs repères et manifester des comportements inquiétants. »  

 

professeur Panteleimon Giannakopoulos, psychiatre aux Hôpitaux universitaires de Genève, interviewé par Le Matin, 13 mars 2009

vendredi, 13 mars 2009

Interventie van F. Ranson ("Fête des Identitaires")

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Interventie van Frederic Ranson ("Fête des identitaires", Sint-Pieters-Leeuw, 28 februari 2009)

 

Ik heb de eer u vandaag het manifest van het nieuw-solidarisme voor te stellen. In het licht van het onderwerp van vandaag zou ik er twee ideeën in het bijzonder uit willen onthouden, ter overweging door het publiek. Eerst en vooral zou ik de deelnemers en de organisatoren willen bedanken voor hun bijdrage aan een soort gedachtewisseling die men elders in Vlaanderen niet meer kent, ondanks de veel gunstigere voorwaarden dan in Franstalig België. Identitairen die zich vandaag om sociale vraagstukken bekommeren, is al een goede manier om de nieuw-solidaristen te omschrijven.

 

In het kort gesteld is de crisis die we nu beleven deze van meer dan dertig jaar Angelsaksisch neoliberalisme. De naoorlogse internationale financiële architectuur is door de Verenigde Staten en hun hoge bankwezen altijd zodanig uitgedacht dat de lusten voor zichzelf zijn en de lasten voor de rest van de wereld. Sinds de jaren zeventig dient het neoliberalisme als nieuw instrument om hun financiële belangen veilig te stellen. De liberalisering van hun financiële markten heeft hun toegelaten de dollarheerschappij te bestendigen. Vervolgens zijn het Verenigd Koninkrijk en later de Europese Unie hen gevolgd. Het eerste gevolg ervan was dat de “sociale kapitalen” – geaccumuleerd gedurende decennia – getransfereerd zijn naar een geglobaliseerde financiële markt. Het tweede gevolg ervan was de ontwikkeling van de financiële derivaten, tegengewicht voor de risico’s op een gedereguleerde markt. De omvang van de financiële crisis is een goede indicator voor de graad van amerikanisering en globalisering.

 

Men moet goed beseffen op welke manier niet alleen de economische of financiële voorwaarden, maar daardoor evenzeer de politieke voorwaarden zijn veranderd. Ja, ze zetelen nog, onze parlementairen, maar ze zijn bijna gedegradeerd tot gemeenteraadsleden in het grote “werelddorp”. Het nationale kader, basis van ons sociale model en van de consensus arbeid-kapitaal, is bezig te verdwijnen, ondermijnd door het neoliberalisme en de vrijhandel. De verburgerlijking van rechts en links heeft hen totaal onbekwaam gemaakt om alternatieve oplossingen voor te stellen. Tegenover hun onbekwaamheid en tegenover die nieuwe voorwaarden dringen nieuwe antwoorden zich op. De huidige crisis vormt een breuk. Ofwel ziet men in deze crisis een nieuwe fase van concentratie en globalisering. Ofwel ziet men er een gelegenheid in om een legitieme volkswoede te organiseren en alternatieven te formuleren.


Het eerste idee dat ik graag wil onderstrepen is de hernationalisering van sectoren van de staat en de economie, zowel de financiële als de reële economie, van Fortis tot Opel. In de huidige toestand – waarin we worden misleid met eurocratische en andersglobalistische voorstellen die elkaar afwisselen, waarin het eenheidsdenken een “socialisme van de bankiers” aanprijst, enzovoort – is die eis reeds een revolutionaire daad. Het tweede idee om te onthouden, is dat van de monetaire soevereiniteit, wat een herdefiniëring van ons gebruikelijke begrip over geld inhoudt. Ik kom hierop terug bij wijze van kort antwoord aan de heer Robert. De ideale synthese van de tweede ideeën zou de overeenstemming zijn tussen de reële en de financiële economie. Dus: geen zeepbellen meer, geen inflatie, geen deflatie, maar een “euflatie” (neologisme van Antonio Miclavez). Helaas, dat is niet het beleidsdoel van onze centrale banken, die slechts semi-publiek zijn. Zij handelen in het belang van de bankiers en niet in het belang van de volkeren. Dezelfde kritieken – in de traditie van het populisme –  tegen de Amerikaanse Federal Reserve zijn van toepassing op de Europese Centrale Bank. De eerste banken die genationaliseerd zullen moeten worden zijn dus de centrale banken zelf!


De heer Robert heeft net het “economische mirakel” van het nationaal-socialistische Duitsland toegeschreven aan zijn minister van Economie, Schacht, en diens “politiek die zeer veraf stond van het 25-Puntenprogramma”. Anderen zullen het toeschrijven aan Keynes. Welnu, wat was het geheim van dat mirakel? De openbare werken en de Duitse herbewapening werden respectievelijk betaald met Mefo- en Öffa-wissels, dus alternatief of aanvullend geld, uitgegeven zonder de openbare schuld te doen toenemen, dat wil zeggen: gebaseerd op het begrip monetaire soevereiniteit. Deze wissels of bonnen waren op zijn minst een hybride idee, omdat ze effectief al werden voorgesteld in het 25-Puntenprogramma, onder de naam “Staatskassengutscheine” (schatkistbonnen). Vanzelfsprekend gingen de ideeën van zijn auteur, Gottfried Feder, nog veel verder. Zijn ideeën stonden zeer dicht bij de antieke en scholastieke principes die vandaag nog aanwezig zijn in het islamitische financieren. Schacht, ten gronde een bankier, heeft uiteindelijk zelfs de verdere emissie van dat geld zonder schuld geweigerd, zoals een andere beruchte bankier, Necker, méér dan een eeuw vóór hem, de emissie van assignaten had geweigerd. Is alternatief geld een utopie vandaag de dag? Nee! Wie kent bijvoorbeeld niet de dienstencheques of de maaltijdcheques, die eenvoudigweg vormen van alternatieve verloning zijn?


Misschien lijken die enkele voorstellen nog voorbarig of futuristisch, maar wij zijn er zeker van dat de verergerende situatie hen steeds meer aanvaardbaar en aanvaard zal maken. Het is dus vooral belangrijk om deze afspraak met de 21ste eeuw niet te missen of de versterking van het systeem te ondergaan door een toegenomen “global governance” die reeds gemeengoed gemaakt wordt door het eenheidsdenken. Ik dank u voor uw aandacht.

Fight Club als metafoor

Fight club als metafoor

Ik onthecht me van fysieke macht en bezittingen, fluisterde Tyler, want slechts door mezelf te vernietigen kan ik de grotere kracht van m’n geest ontdekken” (Palahniuk, 2007, p. 110). Die ene zin vat eigenlijk de betekenis van Fight Club samen. Het boek van Chuck Palahniuk werd aanvankelijk door sommige recensenten “te duister”, “te gewelddadig”, “te rauw en schril en dogmatisch” bevonden. Veel uitgevers waren aanvankelijk dan ook niet echt happig naar dit of ander werk van de schrijver. Pas sinds de verfilming door David Fincher geniet het boek ook bekendheid bij het grote publiek.

Anarchistisch, boeddhistisch, nihilistisch en fascistisch - zo wordt Fight Club dikwijls omschreven door de gepatenteerde moraalridders. Fascistisch, omdat het standaardcliché wil dat het fascisme de ideologie van het geweld is. Nochtans is geweld voor geen enkele ideologie een doel, maar steeds een middel. Al die elementen brengen ons haast onvermijdelijk bij het werk van Julius Evola - werk dat naarmate de jaren verstreken steeds meer werd beïnvloed door wat hij zelf “het boeddhisme van de oorsprong” noemde. Naast het werk van Evola komt hieronder ook dat van Guy Debord en Slavoj Zizek aan bod.

Traditie

Volgens de Traditie komen het lot van de wereld (macrokosmos) en dat van de mens (microkosmos) met elkaar overeen. De moderne wereld en de moderne mens worden nu meer dan ooit gekenmerkt door een innerlijke verscheurdheid of ontbinding die zo oud is als de geschiedenis zelf, want ze is begonnen met de overgang van mythische naar historische tijden volgens Herodotus. De IJzeren Tijd van de Grieken, de Wolftijd van de Germanen, de Kali Yuga van de Hindoes treedt haar laatste fase binnen. Het verval wordt uitgedrukt door de verwijdering tussen godheid en mens, hemel en aarde, tussen zijn en worden, tussen geest en lichaam. In het christendom krijgt ze de bijzondere, want Semitische vorm van de erfzonde. De orde van een traditionele beschaving beoogt steeds het herstel van de primordiale toestand, zowel in de wereld als in de mens. Deze orde moet volgens Evola worden gezien als het resultaat van de innerlijke gesteldheid van een bepaald menstype dat nu bijna volledig verdwenen is. De pijlers van de traditionele orde worden ook de indirecte weg van de zelfverwezenlijking genoemd: “Het is duidelijk dat de regel om zichzelf te zijn, inhoudt dat men voor eenieder kan spreken van een ‘eigen natuur’ (welke ze ook zij) als iets welomschreven en herkenbaar. Maar dit is problematisch, vooral dezer dagen” (Evola, 1982, p. 59). Op deze pijlers wordt uitvoerig ingegaan in het basiswerk Rivolta contro il Mondo Moderno.[1] Zij vorm(d)en als het ware de bedding voor een rivier die nu volledig overstroomd is.

Gedifferentieerde mens

Die indirecte weg levert een gedifferentieerde mens en maatschappij op - de disciplinering of socialisering en de maatschappelijke geleding is in overeenstemming met de eigen natuur - maar moet nu als een afgesloten weg worden beschouwd volgens Evola. De krachten die in de moderne wereld werkzaam zijn, zijn deze van de overstroming en de ontbinding. Zandzakjes helpen niet meer tegen de dijkbreuk. De kosmos zal terugkeren naar de oorspronkelijke chaos. “De ondersteuning die de Traditie zal kunnen blijven brengen”, aldus Evola, moet daarom vóór alles komen “van de doctrine die er de principes van bevat in de preformele staat - tegelijk verheven boven en voorafgaand aan de bijzondere vormen die zich ontwikkelden in de loop van de geschiedenis” (Evola, 1982, pp 14-15). Het einde van de moderne wereld zal zich het eerst in het Westen - haar bakermat - voltrekken. Het mag niet worden vertraagd door het vastklampen aan versleten historische vormen. De komst van het nulpunt en het nieuwe begin moet worden versneld. Er moet “een nieuwe vrije ruimte, die de preconditie kan zijn van een latere vormende actie” (Evola, 1982, p. 16) worden geschapen. De gedifferentieerde mens is in de huidige uitzonderingstoestand aangewezen op de directe weg, die in normale omstandigheden het karakter heeft van een “interne doctrine” (bijvoorbeeld contemplatie, heroïsche actie, initiatie). In dat alles schuilt ook de betekenis van het oosterse gezegde waaraan diens laatste belangrijke werk, Cavalcare la Tigre, zijn titel ontleent: “Wie de tijger berijdt, kan er zelf niet door worden aangevallen”. Hij kan misschien zelfs nog het rennen van de tijger in de gewenste richting sturen. Ook de oorspronkelijke ondertitel drukt die betekenis goed uit: “Existentiële oriëntaties voor een tijdperk van ontbinding“.

Nihilisme

Friedrich Nietzsche geldt als de ontdekker, maar ook als de eerste bestrijder van het nihilisme. Nietzsche pleit voor een actief nihilisme: het leven aanvaarden zoals het is zonder berusting. Eén paradox van de nietzscheaanse filosofie is volgens Evola dat ze zo sterk de onschuld van het worden (”de eeuwige wederkeer”) benadrukt - ook tegen modern wetenschapsbijgeloof in - dat ze uiteindelijk een nieuwe finaliteit verkondigt: de Übermensch. Een andere paradox van deze filosofie ligt in het feit dat ze de immanentie zo sterk benadrukt dat ze transcendentie veronderstelt, zoals wanneer Nietzsche schrijft: “Geest is leven dat in het leven zelf snijdt”. In de Traditie geldt het ik of het zelf als “immanent transcendent” (lees: in maar niet van de wereld). Dat standpunt leunt nauw aan bij het oorspronkelijke boeddhisme - een “geestelijk realisme” (Romualdi, 1985) - dat volgens Evola in de huidige omstandigheden nog als een directe weg in aanmerking komt voor het raciale en etnische substraat van de Europeanen.[2] Wat de  westerse traditie betreft, zijn gelijkaardige opvattingen terug te vinden in de Duitse mystiek en het Griekse neoplatonisme.[3] Zelfvernietiging en zelfverwezenlijking liggen dicht bij elkaar waar woorden tekortschieten: “Wat het westerse boeddhisme niet wil accepteren, is dus dat het uiteindelijke offer van de ‘reis naar je Zelf’ juist dit Zelf is” (Zizek, 2005, p. 93).

In de Traditie geldt niet de vereenzelviging met het zijn, maar die met het worden als illusoir. Uitgerekend de vereenzelviging met het worden is het hoofdkenmerk van de moderne mens. ‘Bevrijding’ betekent voor de moderne mens niet de vernietiging van de factor worden, maar van de factor zijn - ‘grens’, ‘maat’ of ‘vorm’. De verscheurde natuur van de moderne mens is dus quasi totaal. De psychofarmaca worden nu geacht te waken over de ‘volksgezondheid’ en het ‘zielenheil’ van de moderne mensheid.[4] Tegen een achtergrond van ontketende chaoskrachten zet Evola in Cavalcare la Tigre zijn “existentiële oriëntaties” uiteen voor een gedifferentieerde mens, die opnieuw meester moet zijn over zijn krachten en het gif van de moderne wereld moet gebruiken als een tegengif. De gedifferentieerde mens kiest voor zelfdiscipline en gehoorzaamt zijn eigen wet. Tegen een achtergrond van passief nihilisme - het kuddegedrag van de genotzoekende “laatste mensen” - verkondigt Evola dus zijn eigen actieve nihilisme.[5] Cavalcare la Tigre heeft dan ook Also sprach Zarathustra als uitgangspunt.

Fight Club

“Zo testen boeddhistische tempels al tig jaren gegadigden, zegt Tyler. Je zegt tegen die gegadigde dat ie weg moet gaan, en als z’n vastberadenheid zo groot is dat ie drie dagen bij de ingang wacht zonder eten of beschutting of aanmoediging, dan en dan alleen kan ie binnenkomen en met de training beginnen” (Palahniuk, 2007, 129-130). Zo verloopt de rekrutering bij Fight Club of - beter gezegd - bij Project Mayhem (Project Heibel). Beide kunnen worden beschouwd als een soort directe weg: “De asceet [is] de ‘outcast’ bovenaan, degene die zich onthecht van de vorm, omdat hij afstand doet van het illusoire centrum van de menselijke individualiteit. Hij doet het niet door de trouw aan zijn eigen natuur, hij keert zich direct tot het Principe waaruit elke ‘vorm’ voortkomt” (Evola, 1991, p. 156). De hogere ascese kan de gedaante aannemen van de actie of van de contemplatie.[6] In Fight Club heet de ascese van de actie: “tot op de bodem gaan” of “zelfvernietiging”. Ook een scène uit V for Vendetta drukt iets gelijkaardigs uit - de scène waarin V Evey tot het uiterste op de proef stelt, tot op het ogenblik dat ze haar dood kalm in de ogen kan kijken. De intensiteit van de beproevingen hebben in haar iets gewekt wat haar doet kiezen voor de zelfvernietiging of de zelfopoffering. Sommigen zullen dat ‘actief nihilisme’ noemen, omdat het de absolute bevestiging is van het nietzscheaanse levensbeginsel (’wil tot macht’, ‘leven als lijden’, ‘amor fati‘ enz.). Anderen, zoals Evola, zullen stellen dat dit levensbeginsel maar half is, omdat het enkel immanent is. ‘Leven’ zonder transcendent element wordt beschouwd als een vegetatieve categorie die geen enkele andere ‘zin’ of ‘waarde’ kent dan voortplanting en zelfbehoud. Tot slot markeert Project Heibel ook de overgang van de persoonlijke verlossing naar de maatschappelijke verlossing: “Net zoals Fight Club doet met winkelbedienden en schappenvullers, zo zal Project Heibel de beschaving vernietigen opdat we iets beters van de wereld kunnen maken” (Palahniuk, 2007, p. 125).

Spektakel

Als het over maatschappijkritische films gaat, duiken dikwijls dezelfde titels en thema’s op. In Welkom in de woestijn van de werkelijkheid (Zizek, 2005) bemerken we verwijzingen naar The Matrix - waaraan het boek zijn titel ontleent - en opnieuw Fight Club, als aanklachten tegen de vervreemding van de moderne mens. Het is niet gemakkelijk om de dieperliggende motieven van boeken en films te duiden als het referentiekader ontbreekt, zelfs bij het doelpubliek. De feiten bewijzen nochtans dat er weldegelijk een gemeenschappelijk referentiekader bestaat voor ‘nieuw-linkse’ en ‘nieuw-rechtse’ maatschappijkritieken. De eerste hebben het over ‘vervreemding’ en de laatste over ‘ontbinding’ en “verval’. Een concreet voorbeeld is te vinden in het voorwoord van Chevaucher le tigre - namelijk een kritische lofbetuiging van La société du spectacle van Guy Debord - en de laatste titel sluit dan weer naadloos aan bij Welkom in de woestijn van de werkelijkheid van Slavoj Zizek. Het spektakel neemt bij Debord de plaats in van het warenfetisjisme bij Marx: “Het spektakel is geen geheel van beelden, maar een maatschappelijke verhouding tussen personen door bemiddeling van beelden” (Debord, 2005, 4). De eerste verschuiving die de overheersing van de economie op de maatschappij volgens Debord met zich meebracht, is die van het zijn naar het hebben. Nu is die van het hebben naar het schijnen - “waaraan ieder daadwerkelijk ‘hebben’ zijn onmiddellijke prestige en zijn uiteindelijke functie moet ontlenen” (Debord, 2005, 17) - aan de orde. Nog volgens Debord zijn de moderne levensmodellen verworden tot ‘idolen’. Het idool is de “spectaculaire voorstelling van de levende mens” of de “specialisatie van het schijnbaar geleefde” (Debord, 2005, 60).

Passie voor het reële

Bij Zizek neemt de spektakelmaatschappij de vorm aan van een volledig gedigitaliseerde en gevirtualiseerde werkelijkheid. Bij hem worden alle dingen van hun wezen ontdaan: “Op de hedendaagse markt vinden we een hele reeks producten waaruit de schadelijke stoffen zijn gehaald: koffie zonder cafeïne, slagroom zonder vet, bier zonder alcohol, … en de lijst gaat verder: hoe zit het met virtuele seks als seks zonder seks, de Colin Powell-doctrine van oorlog zonder slachtoffers (aan onze kant natuurlijk) als oorlog zonder oorlog, de tegenwoordige herdefiniëring van politiek als bestuurskunde van experts, tot en met het hedendaagse multiculturalisme als een ervaring van de Ander ontdaan van zijn Andersheid (de geïdealiseerde Ander die fascinerende dansen danst en een ecologisch zuiver, holistische benadering van de werkelijkheid heeft, terwijl praktijken als het slaan van je vrouw buiten zich blijven…)?” (Zizek, 2005, p. 15) Het verzet tegen deze onechte wereld vertaalt zich volgens hem in wat Badiou “la passion du réel” (de passie voor het reële) noemde. Geweld wordt gezien als teken van authenticiteit: “In tegenstelling tot de 19de eeuw van utopische of ‘wetenschappelijke’ projecten en idealen en plannen voor de toekomst, streefde de 20ste eeuw ernaar het Ding zelf tevoorschijn te brengen, een onmiddellijke verwerkelijking van de Nieuwe Orde waarnaar men zo verlangde. Het ultieme en bepalende moment van de 20ste eeuw was de directe ervaring van het reële als tegenpool van de alledaagse sociale werkelijkheid - het reële in zijn uiterste geweld als de prijs die betaald moet worden voor het afpellen van de bedrieglijke lagen van de werkelijkheid” (Zizek, 2005, p. 11). De postmoderne passie voor de schijn moet dus uitmonden in een gewelddadige terugkeer naar de passie voor het reële. Die terugkeer naar de passie voor het reële is als het ware de Nemesis van het postmodernisme en het heersende passieve nihilisme. Fight Club is niets anders dan deze passie voor het reële.

Fetisj

Waar het spektakel een voorstelling is, is de fetisj een voorwerp. Een fetisj is dus iets wat een ‘bovennatuurlijk’ karakter krijgt en de maatschappelijke verhoudingen en tegenstellingen verdoezelt. Ze hebben dus dezelfde maatschappelijke functie. Zo noemt Zizek elektronisch geld de belangrijkste economische fetisj en democratie de belangrijkste politieke fetisj.[7] Het zijn precies de kredietinstellingen - belichamingen van het financiële kapitalisme - die het doelwit zijn van Project Heibel, dat iedereen op nul wil zetten door een einde te maken aan de schuld- en renteslavernij. Om de lijn door te trekken naar de huidige financiële crisis: de deregulering (lees: internationalisering) van het financiële kapitalisme heeft de geldillusie op de spits gedreven. Zo is een absurde derivatenzwendel goed voor maar liefst 1000 triljoen dollar, terwijl het BNP van alle landen ter wereld amper 60 triljoen dollar bedraagt. De financiële crisis is de schijn die werkelijkheid wordt. Die confrontatie met de (schijn)werkelijkheid komt hard aan. De vraag is hoe de in haar diepe slaap verzonken spektakelmaatschappij zal reageren op de omwentelingen die eraan zitten te komen?[8] Want zoals steeds achterhaalt de waarheid vroeg of laat de leugen. Opnieuw is de Nemesis daar, deze keer in de vorm van Project Heibel dat afrekent met het geldfetisjisme.

Discipline

De geconditioneerde burger - de passieve nihilist - zal het scheppende karakter van geweld of het verheffende karakter van discipline moeilijk kunnen begrijpen: “De ware antithese van de bourgeoiswereld is niet de proletariër of - erger nog - het rioolestheticisme van de ‘artiesten’ die doen alsof ze in de soep van de bourgeoisberoemdheden spuwen, maar wél de militaire geest. De ware staat heeft niet de bedoeling de maatschappij in een kazerne te veranderen, maar haar te veranderen op een manier dat een bepaalde militaire ethiek - met haar cultus van eer en trouw, zin voor moed en lichamelijke discipline - zich doet gelden op alle vlakken en in het bijzonder bij de jeugd” (Romualdi, 1985, p. 115). Zizek zegt precies hetzelfde over militaire trouw als hij de zeemzoete westerse afkooksels van het zenboeddhisme bekritiseert.[9] Discipline is - nog volgens Zizek - het enige bezit van hen die niets bezitten.[10] Anders “zit je gevangen in je mooie nestje en de dingen die je vroeger bezat, bezitten nu jou” (Palahniuk, 2007, p. 42). In Fight Club betekent discipline zelfvernietiging en zelfvernietiging discipline. Het naamloze hoofdpersonage, een slapeloze workaholic, breekt met alle illusies die hij heeft: “Destijds leek mijn leven gewoon zo compleet en misschien moeten we alles kapotmaken om iets beters van ons zelf te creëren” (Palahniuk, 2007, p. 51). Ook Cavalcare la Tigre gaat over zelfdiscipline. Het werk breekt ook met de illusies van het kleinburgerlijke conservatisme en traditionalisme. En hoewel het geen politiek werk is, heeft het bij heel wat van zijn politiek geëngageerde lezers gezorgd voor een ommezwaai in (nationaal-) revolutionaire zin. Zo kunnen we de invloed van Cavalcare la Tigre tussen de lijnen terugvinden in Alexander Doegins Metafysica van het nationaal-bolsjewisme. Ook Doegin vertoont trouwens gelijkenissen met de passie voor het reële.[11]

Besluit

Fight Club belichaamt het actieve nihilisme van enkele paria’s tegen het passieve nihilisme van de grote massa’s. Het eerste nihilisme is gewelddadig, maar ook bevrijdend en scheppend. Het andere is minstens even gewelddadig, maar veel minder merkbaar, want geestdodend en verslavend. Het geweld van Fight Club gaat in tegen een geweld waarvan velen zich nog nauwelijks bewust zijn: “Het geweld van het geld dat de zielen koopt, van de politieke leugen die hen beduvelt, van de economische uitbuiting die hen ketent, van de grote media die hen afstompen, van de pornografie die hen verlaagt, van de reclame die hun laagste instincten bespeelt”, zoals Philippe Baillet schrijft in het voorwoord van Chevaucher le tigre. Het spektakel laat ons in een droomwereld met droomverlangens leven, maar de werkelijkheid is sterker dan de schijn. De schijn van orde is - wat onze politieke actie betreft - de belangrijkste belemmering voor de schepping van een nieuwe orde en nieuwe vormen. Die orde of traditie - ingegeven door kleinburgerlijk conformisme of conservatisme - is immers evenzeer een illusie. Cavalcare la tigre leert ons dat er geen positieve structuren meer zijn, tenzij de nieuwe structuren die we zelf moeten scheppen. En waar ze er wel nog zijn, zullen ze niet door de verdediging maar door de aanval worden gered. We moeten durven loslaten om iets nieuws en beters te scheppen en moeten weten dat de verlossing van de schijn niets anders betekent dan een terugkeer van het reële en het essentiële. De essentie komt voort uit een innerlijke gesteldheid en de omstandigheden van de moderne wereld kunnen zelfs bevorderlijk zijn voor de vorming van een dergelijke gesteldheid. Dat is precies de betekenis van Cavalcare la Tigre en Fight Club.

Vbr. cand. rer. pol. Frederik Ranson

Bibliografie

Debord, G. (2005). De spektakelmaatschappij. Amsterdam: de Dolle Hond. Geraadpleegd op 11 november 2008 op http://www.marxists.org/nederlands/debord/1967/1967spektakel.htm

Doegin, A. (2006). Le prophète de l’eurasisme, Paris: Avatar.

Evola, J. (1982). Chevaucher le tigre. Paris: Guy Trédaniel.

Evola, J. (1991). Révolte contre le monde moderne. Lausanne: L’Age d’Homme.

Palahniuk, C. (2007). Fight Club. Breda: De Geus.

Romualdi, A. (1985). Julius Evola: L’homme et l’oeuvre. Puiseaux: Pardès.

Zizek, S. (2005). Welkom in de woestijn van de werkelijkheid. Nijmegen: SUN.

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mercredi, 04 mars 2009

Clint Eastwood heeft gelijk...

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Clint Eastwood heeft gelijk

Geplaatst door yvespernet

Op dit vlak dan toch: http://in.news.yahoo.com/139/20090227/906/ten-eastwood-thinks-political-correctnes.html

London, February 27 (ANI): Acting legend Clint Eastwood , 79, apparently believes that political correctness has rendered modern society humourless, for he accuses younger generations of spending too much time trying to avoid being offensive. The Dirty Harry star insists that he should be able to tell harmless jokes about nationality without fearing that people may brand him “a racist”.

“People have lost their sense of humour. In former times we constantly made jokes about different races. You can only tell them today with one hand over your mouth or you will be insulted as a racist,” the Daily Express quoted him as saying. ”I find that ridiculous. In those earlier days every friendly clique had a ‘Sam the Jew’ or ‘Jose the Mexican’ - but we didn’t think anything of it or have a racist thought. It was just normal that we made jokes based on our nationality or ethnicity. That was never a problem. I don’t want to be politically correct.

We’re all spending too much time and energy trying to be politically correct about everything,” he added. (ANI)

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lundi, 23 février 2009

Le secret américain de Nicolas Sarközy

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Le secret américain de Nicolas Sarkozy

 

Par Philippe Bourcier de Carbon*

Ex: Journal du chaos 7, 2009

Dans les coulisses du pouvoir, il y a ceux mis au devant de la scène, ceux qui restent dans l’ombre
et, surtout, ceux des tréfonds que nul n’entrevoit jamais. Qui connaît Frank George Wisner ? Ce
senior américain, diplomate et homme de réseaux, pourrait bien être la clé pour expliquer
l’ascension fulgurante de Nicolas Sarkozy. Le chef de l’Etat français bénéficie là du meilleur
conseiller occulte pour jouer un rôle dans la marche du monde. A condition que le Président
continue de servir avant tout les intérêts de l’Empire américain, que celui-ci soit dirigé par Bush ou
Obama.

« Un néoconservateur américain à passeport français » : la formule cinglante d’Eric Besson au sujet de
Nicolas Sarkozy, formulée en vue de la campagne électorale de 2007, demeure d’une lucidité
implacable. Le nouveau ministre chargé de l’immigration n’ira sans doute plus remettre en question
le patriotisme de son mentor. Il n’en demeure pas moins que le mystère du succès rapide dans la
conquête du pouvoir suprême par Nicolas Sarkozy passe par l’analyse de son rapport personnel
aux Etats-Unis.

A cet égard, le destin peut s’avérer facétieux lorsqu’il veut avantager un jeune ambitieux désireux
d’atteindre les sommets. C’est vers la fin des années 70 que le jeune loup du RPR saura tirer profit
d’une fortune incomparable : le remariage de sa belle-mère, Christine de Ganay, avec un
personnage prometteur de la vie politique américaine, Frank George Wisner.

Celui-ci avait déjà hérité d’une charge lourde : le patronyme et la carrière sulfureuse d’un homme
exceptionnel, dans ses coups d’éclat comme dans sa folie, Frank Gardiner Wisner (1909-1965),
cofondateur de la CIA. Le père Wisner, impliqué dans les renversements du pouvoir au Guatamala
et en Iran, restera célèbre pour l’opération Mockingbird (un noyautage réussi des médias
américains par des agents de la CIA), avant de se suicider en 1965, victime de démence. Né en
1938 à New York, diplômé de Princeton, le jeune Frank George ne marchera pas exactement dans
les pas de son père mais suivra plus habilement un tracé parallèle : la diplomatie, dont on connaît
les passerelles avec le monde de l’espionnage. Il apprendra ainsi l’arabe au Maroc dans son
détachement effectué pour le compte du Département d’Etat avant un bref passage par Alger
après l’indépendance et un long séjour au Vietnam. De retour à Washington en 1968, il sera chargé
des affaires tunisiennes. Plus tard, après la spécialisation dans les questions asiatiques et arabes,
Frank George Wisner exerça le poste d’ambassadeur en Zambie, en Egypte, aux Philippines et en
Inde.

Derrière ces honorables activités, qui ont culminé par un poste de sous-secrétaire d’Etat sous
Clinton et, plus récemment, dans sa médiation pour la Troïka dans le règlement de la crise au
Kosovo, Frank G. Wisner demeure, selon ses détracteurs, la clé de voûte dans l’exécution de
l’espionnage économique pour le compte de la CIA. Mieux encore, l’homme est la caricature du
personnage multicartes et influent, présent dans tous les centres réels ou fantasmés du pouvoir
parmi lesquels les fameux Council on Foreign Relations ou le groupe Bilderberg. Mais c’est en 1997
qu’un tournant s’opère : après avoir longtemps manoeuvré dans le monde feutré de la diplomatie et
des renseignements, Wisner se risque à mélanger encore plus les genres en rejoignant, au sein de
son conseil d’administration, l’entreprise Enron, la célèbre compagnie énergétique qui fera scandale
quatre ans plus tard et dont la gigantesque fraude en Californie, portant sur des milliards de
dollars, ne sera jamais exactement détaillée, « grâce » à la disparition des milliers de pages
caractérisant la fraude fiscale dans la destruction des bureaux de la SEC, gendarme américain des
opérations boursières , lors de la chute de la Tour 7 du World Trade Center.

Ironie du sort, ou étrange coïncidence, la sécurité de ce gratte-ciel (effondré alors qu’il ne fut pas
percuté par un avion en ce jour du 11 Septembre 2001) relevait de la compagnie Kroll Associates,
qui appartenait alors à l’AIG, assureur dont Wisner est le vice-président . S’il est vrai que les
entreprises prestigieuses sont souvent interconnectées de par leurs administrateurs, il est notable
de constater la récurrence curieuse de Wisner dans les anomalies du 11 Septembre. Ainsi, pour
résumer, l’homme, spécialiste du monde musulman et de l’espionnage économique, responsable
haut placé de Enron et de l’AIG, échappe à toute poursuite judiciaire lors du scandale Enron, jamais
complètement décrypté de par la destruction des détails compromettants lors de la chute
controversée d’un immeuble du World Trade Center qui abritait également, autre heureuse
coïncidence, les bureaux de la CIA dédiés précisément à l’espionnage économique…
Quel rapport dès lors entre ce personnage sulfureux et Nicolas Sarkozy, mis à part le lien familial
d’antan ?

A priori, il serait logique de présumer que le temps et la distance géographique auront
naturellement creusé le fossé entre le chef de l’Etat et la famille de l’ancienne belle-mère. Il n’en est
rien. Pour preuve, la campagne électorale de l’UMP qui a porté triomphalement au pouvoir, et dès
la première tentative, Nicolas Sarkozy, disposait dans ses rangs d’un acteur discret, responsable de
la section anglophone, mais dont le nom est suffisamment éloquent : David Wisner. Celui-ci semble
également reprendre le flambeau de la lignée Wisner puisqu’il a intégré le Département d’Etat en
septembre dernier, après des études d’arabe.

Et au-delà du légitime renvoi d’ascenseur du chef de l’Etat envers le fils de son parrain d’outreatlantique,
un autre fait passé inaperçu mérite d’être évoqué, non comme la preuve mais plutôt
comme l’indice de la volonté présidentielle d’occulter l’existence et les agissements troubles de
Wisner. S’il s’avère à l’avenir que les fameux délits d’initiés opérés à la veille du 11-Septembre ont
été le fait de citoyens américains avertis, dont le point commun serait d’être à la jonction du
renseignement et de la finance, alors il ne serait guère étonnant de voir figurer sur la liste de ces
personnes au vent d’un « attentat terroriste imminent » un certain Frank George Wisner. Outre
qu’il ait bénéficié de la destruction du dossier fiscal Enron tout en étant dans le même temps
responsable de la sécurité du World Trade Center via Kroll Associates ( détenue par AIG), une
réçente réaction de Nicolas Sarkozy pourrait laisser penser que le silence en la matière doit
s’imposer.

En effet, selon le Canard Enchaîné du 24 septembre 2008, le Président avait vivement critiqué le
Pdg de la chaîne info internationale, France 24, pour avoir organisé un débat sur la « théorie du
complot » autour du 11-Septembre. Cette réaction de Nicolas Sarkozy pourrait prêter à sourire si
elle venait simplement confirmer sa propension légendaire à tout régenter, y compris la
programmation audiovisuelle. Mais compte tenu de l’implication éventuelle d’un de ses proches
dans les coulisses logistiques et financières de l’attentat du World Trade Center, la colère
présidentielle prend une tout autre tournure. De par le signal qu’il envoie ainsi aux journalistes
mainstream tentés d’évoquer à l’antenne la question des zones d’ombre du 11-Septembre, le
message relève plus de la censure tacite d’un sujet grave que de l’irritation d’un téléspectateur
capricieux. Sans aller jusqu’à faire de Wisner un des instigateurs du 11-Septembre, il est plus
vraisemblable de supposer que sa position et ses relations l’ont idéalement avantagé pour faire

partie de ceux à avoir, « au mieux » anticipé l’événement, au pire participé par une quelconque
assistance matérielle, en l’occurrence la mise à disposition de la gestion de la sécurité électronique
des 3 tours effondrées, de par l’implosion de bombes pré-installées selon certains scientifiques
spécialistes de la démolition contrôlée.

Au-delà des inévitables spéculations sur le rôle exact de Wisner dans l’opération à multiples
facettes du 11-Septembre, force est de constater que l’homme dispose des diverses relations
accumulées depuis près de 50 ans dans les élites dirigeantes des Etats-Unis et les cercles
internationaux pour pouvoir, si besoin est, favoriser le jeune politicien impétueux que son épouse
française affectionne. Nicolas Sarkozy doit beaucoup à Jacques Chirac pour son maillage lent et
progressif du corps électoral français. Il doit sans doute davantage encore à Frank George Wisner
pour avoir obtenu l’assentiment et la faveur de l’hyper-puissance occidentale.
Les parrains occultes du Président et méconnus du citoyen sont souvent les plus redoutables.

* Philippe Bourcier de Carbon est démographe à l'Ined (Institut national des études démographiques).

dimanche, 22 février 2009

B. Lugan: pour en finir avec la colonisation

Pour en finir avec la colonisation

Ce livre montre que durant la brève parenthèse coloniale, les pays colonisateurs n’ont pas pillé l’Afrique et que les colonies étant un boulet économique, politique et social, la décolonisation était une urgente et impérieuse nécessité ; les Européens d’aujourd’hui et à plus forte raison ceux de demain n’ont de dette ni à l’égard de l’Afrique ni des Africains ; le mythe de la culpabilité coloniale est une arme permettant de désarmer moralement l’Europe face à la contre-colonisation de peuplement qu’elle subit actuellement et que la culture de repentance-soumission risque de faire des Français, de nouveaux ” colonisés “. Ce livre montre également que la colonisation fut d’abord une grande idée de gauche reposant sur les idéaux universalistes de 1789. Il souligne aussi que pour résoudre les insolubles problèmes liés à l’immigration venue de nos anciennes colonies, seules sont proposées les recettes éculées d’assimilation-intégration qui y furent inapplicables et les mêmes impératifs du toujours plus de subventions qui firent capoter toutes les politiques de développement. Or, ce qui a échoué hier en Afrique échoue déjà dans les banlieues où il est impossible de procéder par amputation territoriale comme l’avait fait le général de Gaulle. Ce livre montre enfin que l’histoire n’est jamais écrite. Les Français après 130 ans de présence en Algérie, les Portugais après 400 ans en Angola et les Arabes après 700 ans en Espagne, tous ont appris à leurs dépens que la colonisation n’est pas éternelle dès lors que les indigènes ne sont plus disposés à la subir. Ce livre est illustré de nombreuses cartes et contient un index.

Bernard Lugan est docteur ès Lettres et enseigne l’histoire de l’Afrique à l’université de Lyon III. Il fut professeur à l’université nationale du Rwanda de 1972 à 1983. Il est conférencier au CHEM (Centre des hautes études militaires à Paris), à l’IHEDN (Institut des hautes études de la défense nationale à Paris) et au CID (Collège interarmées de défense à Paris). Il est expert auprès du Tribunal pénal international pour le Rwanda (TPIR), ONU.


 

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mercredi, 18 février 2009

Europe eurasiste contre Europe atlantiste: à nous de choisir!

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EUROPE EURASISTE CONTRE EUROPE ATLANTISTE : A NOUS DE CHOISIR !


Moins de 20 ans après l'effondrement de l'URSS, force est pourtant de constater que le titre du Financial Times est plus que d'actualité alors que le pays se prépare a choisir ses nouveaux dirigeants. Une guerre défensive de cinq jours, habilement gagnée par la Russie dans le sud Caucase suffit a totalement enrayer le processus d'extension de l'OTAN. Pour la première fois, une puissance contrecarrait militairement les Etats-Unis d’Amérique. En ce mois d'août 2008, les tanks russes qui défendirent Tsinvali venaient de faire chanceler le vieux monde, unilatéral et néo-libéral. (...)


Depuis la chute de l'URSS et du mur de Berlin, l'OTAN n'a plus lieu d'être. Incapable de venir a bout des "terroristes" et du trafic d'opium afghan, l'OTAN est devenue une organisation désuète, frappée du sceau de l'échec et qui ne reflète plus les intérêts européens. En effet la menace soviétique et le pacte de Varsovie ayant disparus et la nouvelle menace terroriste (due a un Ben Laden formé par la CIA) considérablement moins élevée (voir inexistante) sans une participation récurrentes aux actions de l'OTAN a travers le monde. Les Européens doivent aujourd'hui se rendre compte que leurs soldats font office de supplétifs de l'armée américaine, se faisant tuer pour des guerres qui ne sont pas les leurs ! Pire, en collaborant avec l'OTAN, l'Europe se met en position conflictuelle avec des acteurs essentiels a la stabilité et la paix que cela soit dans le monde musulman (où l'OTAN est perçue comme une alliance de croisés modernes) mais également dans le monde eurasiatique, ou l'OTAN est vue comme un outil Américain, facteur de trouble, par les grandes puissances de demain comme la Russie, la Chine, l'Inde ou l'Iran, toutes ces puissance étant liées entre elles au sein de l'Organisation de Coopération de Shanghai (OCS).


Ce nouvel ordre multipolaire semble se configurer via l'émergence de grands ensembles civilisationnels et identitaires (UE, Chine, Russie, Inde). Ce phénomene de regroupement sur-régional est a l'opposé du mouvement de morcellement auquel œuvre l'Amérique en Europe, morcellement destiné a la constitution de petits ensembles facilement contrôlables économiquement et dépendants militairement (Yougoslavie, Tchécoslovaquie, projet de morcellement en trois de la Russie..). Morcellements au passage fomentés par l'OTAN et dogmatiquement attribués à l'effondrement post-soviétique. Ces nouveaux regroupements auto-centrés n'ont pas lieu qu'en Eurasie mais bel et bien sur tous les continents, que ce soit en Amérique du Sud (Argentine, Brésil, Venezuela et Bolivie), sur le continent africain, ou dans le monde musulman, arabe ou pan-turc. Ces regroupements s'opèrent via des cœurs historiques, civilisationnels et économiques. Ces cœurs impériaux sont de facon très génerale les grandes capitales ethno-culturelles des zones concernées, à savoir Pékin pour la Chine, Tokyo pour les Japonais, Caracas ou Rio pour l'Amérique du sud, les musulmans hésitants depuis longtemps entre La Mecque, Téhéran et Istanbul, avec une montée en puissance des musulmans d'Asie. Il est à noter la place absolument unique de la Russie, au carrefour de tous les mondes, islamique via sa position a l'OCI, occidental via le COR, européen par essence ou encore asiatique de par sa géographie et sa participation a l'OCS.


De ces ensembles qui représentent de potentiels concurrents économiques voir militaires, l'Amérique en craint un bien plus que les autres : la grande Europe, ce front continental, colosse économique et militaire, gigantesque empire de Reykavik a Vladivostok, étalé sur onze fuseaux horaires et potentiel leader économique et militaire planétaire. La division voulue et souhaitée par les stratèges américains date et va dans ce sens : tout faire pour empêcher tout unité pan-européene ! De John O'Sullivan qui en 1845, dans "Our Manifest Destiny" écrivait : "Avec l'anéantissement de l'Europe, l'Amérique deviendra la maîtresse du monde" ou l'ouvrage de 1890, "Our Country" qui précise que "l'Europe vieillissante n'a plus les moyens de sauvegarder les valeurs civilisatrices de l'Occident, reprises par une Amérique dynamique émergente" et conclut par la fameuse formule "Europe must perish ! " soit l'Europe doit périr. (...)


La Russie endormie sous Eltsine s'est réveillée, devenant aujourd'hui l'hyper-centre de résistance à l'américanisation forcée et à l'extension agressive et criminelle de l'OTAN. La Russie nous a prouvé récemment qu'elle était prête à défendre ses intérêts mais également à collaborer avec l'Europe et à participer activement à un projet de société pacifique, multilatéral et fondé sur la concertation. Comme les Russes de 1999, les Européens de 2008 doivent sortir de leur sommeil et se libérer, tout d'abord des chaines de l'OTAN, qui s'étendent jusqu'aux frontières ukrainiennes et biélorusses et pourrait les mener a un conflit avec leurs frères Russes.


L'Europe se situe sur le continent eurasien, dont elle occupe la façade atlantique, tandis que la Russie elle occupe la majorité des terres, et la façade pacifique. L'Europe et la Russie sont intrinsèquement liés et appartiennent au même continent, l'Eurasie ! L'Eurasie est la maison commune des Européens et des Russes, de Reykavik à Vladivostok. Grâce à la Russie, une autre Europe, eurasiatique se dresse face à la Petite-Europe atlantiste de Bruxelles. Apres Athènes, Byzance, Aix la Chapelle et Constantinople, Moscou est la nouvelle capitale de l'Europe. »



Alexandre Latsa, Dissonance, 29 novembre 2008


QU’EST-CE QUE L’EURASISME ?

dimanche, 15 février 2009

Pourquoi N. Sarközy veut que la France réintègre le commandement de l'OTAN

Pourquoi Nicolas Sarkozy veut que la France réintègre le commandement de l’OTAN

Le Général de Gaulle se retourne dans sa tombe. 43 ans après sa décision de retirer Paris du commandement militaire intégré de l’Organisation du Traité de l’Atlantique Nord (OTAN, créée en 1949, 22.000 employés et 60.000 militaires permanents), son dangereux successeur à l’Elysée multiplie les déclarations (1) pour que la France y reprenne désormais “toute sa place”.

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“Toute sa place” est une formule qui, dans l’approche de Nicolas Sarkozy, signifie clairement un engagement sans réserve aux côtés des Etats-Unis. Fidèle à sa méthode autocratique du “J’écoute mais je ne tiens pas compte”, il fait fi des voix de plus en plus nombreuses qui s’opposent à sa décision (2) et fait dire qu’il n’y aura ni référendum ni même de vote au Parlement sur la question. Il entend bien concrétiser seul son choix stratégique et balayer d’un coup d’un seul un demi-siècle de politique étrangère et d’indépendance française dès les 3 et 4 avril prochain, lors des cérémonies du 60e anniversaire de l’OTAN à Strasbourg et Kehl.

Histoire de confirmer sa volonté d’intégrer la France dans les hautes sphères politico-militaires de l’OTAN, Nicolas Sarkozy a d’ores et déjà pris l’année dernière deux initiatives très applaudies par son ami George W. Bush. Un, il a doublé la présence militaire française en Afghanistan en envoyant un millier de soldats combattre avec les américains contre les Taliban, alors que chacun sait que cette guerre est déjà perdue et que l’enlisement des troupes y est assuré (le nombre de soldats français morts sur le terrain depuis est déjà suffisamment éloquent). Deux, il a soutenu activement le projet de déployer un bouclier antimissile américain en Europe centrale, quitte à braquer sérieusement la Russie (Heureusement Barack Obama semble être en train de déminer cette énième provocation bushiste aux relents de Guerre froide). La récente volonté affichée de rapprocher Paris et Londres, principal allié des Etats-Unis dans ses guerres en Irak et en Afghanistan, est également un signe plus discret, mais tout aussi fort, d’allégeance à Washington. Seule contrariété pour le néo-conservateur de l’Elysée, ce n’est plus son ami fauteur de guerres George W. Bush qui est au pouvoir, mais Barack Obama, à l’évidence moins enclin à semer la terreur partout dans le monde au nom de la lutte anti-terroriste.

Cette rupture dans la politique d’indépendance de la France se drape bien entendu d’arguments à usage médiatique du type “Amis, alliés, mais non inconditionnels”, ou “nécessaire rénovation car nous ne sommes plus en 1966″, ou encore “La France ne perdra rien de sa souveraineté” (3). Nicolas Sarkozy dit vouloir développer avec l’OTAN une “Europe de la Défense efficace”. Depuis son élection, il ne cesse de répéter qu’une Europe de la Défense indépendante et l’ancrage atlantique sont les deux volets d’une même politique de sécurité. Mais quelle OTAN, pour quelle mission de défense européenne ? et la France a-t-elle quelque chose à gagner à réintégrer le commandement militaire de l’organisation, avec lequel elle coopère déjà très bien ? Elle fournit déjà 2.800 soldats pour l’occupation de l’Afghanistan, et maintient actuellement 36.000 soldats dans divers autres pays (Kosovo, Côte d’Ivoire, etc.).

Il est bien illusoire d’imaginer que les Etats-Unis donneront plus de place aux Européens et aux Français dans la nouvelle Alliance. Jaap De Hoop Scheffer a d’ailleurs bien précisé le 12 février 2009 à Paris que, si la France réintégrait le Commandement militaire intégré de l’Alliance atlantique, ce serait de toutes façons toujours à lui qu’il revenait “de gérer les choses au sein de l’OTAN, comme la position française au sein des structures de commandement, les généraux, etc”. Tout au plus les Etats-Unis accorderont-ils quelques commandements militaires sans importance à un ou deux généraux français — on parle vaguement d’un poste à Norfolk (Virginie, USA) ou à Lisbonne (Portugal) — sans que cela puisse réellement permettre à la politique européenne de sécurité et de défense (PESD) de s’affirmer et de de peser significativement sur les décisions de l’OTAN. Dans tous les conflits (Afghanistan, Serbie, Kosovo, etc) où la France s’est retrouvée engagée aux côtés des militaires américains, ce sont systématiquement ces derniers qui décident et contrôlent de façon unilatérale toutes les opérations, en particulier les frappes, reléguant la France et les autres pays alliés au rang de simples exécutants. On ne les imagine guère se plier aux décisions des français dans l’avenir. Il n’est d’ailleurs pas inutile de rappeler que si de Gaulle est sorti de l’OTAN, c’est notamment parce qu’il demandait un directoire partagé de l’Organisation, ce que les Américains lui ont refusé. Et la suite a montré que la France, puissance moyenne disposant de l’arme nucléaire et d’un siège au Conseil de sécurité de l’ONU, existait finalement plus à l’échelle mondiale en s’affirmant de façon autonome qu’en s’effaçant dans ce qu’il appelait le “machin” atlantiste.

Autre risque, la réintégration de Paris dans une OTAN qui sert de plus en plus de caution et de bras armé à l’impérialisme américain, sera sans nul doute perçu dans les grandes capitales du monde non-occidental comme un affaiblissement et un alignement sur les Etats-Unis, ce qui lui fera perdre le peu d’influence qui lui reste encore.

Quant à la “Voix de la France”, qui selon Nicolas Sarkozy deviendrait plus forte dans le concert des Nations si elle réintègre l’OTAN, elle semble jusqu’à présent avoir moins souffert des discours et des choix du Général de Gaulle — ou même de ceux de Jacques Chirac et Dominique de Villepin, par exemple en 2003 à l’ONU lors du refus de la France de suivre les Etats-Unis dans l’invasion de l’Irak — que ceux des “caniches” européens de George W. Bush (Tony Blair, José Manuel Barroso, Nicolas Sarkozy, José-Maria Aznar,…).
Mais l’essentiel n’est pas là. Le projet de Nicolas Sarkozy, cet anti de Gaulle, ne consiste pas en un renforcement de la défense européenne, ou du moins pas pour lui donner plus de pouvoir et d’indépendance comme il le prétend. A travers ses choix diplomatiques et stratégiques il est à l’évidence tout à sa “vision” purement occidentaliste de la France et de l’Europe. Pour lui, la France doit s’affirmer “dans sa famille occidentale” et dans “les valeurs occidentales qui sont pour elle essentielles” (Discours de janvier 2008 devant le corps diplomatique français). Il partage avec son mentor George W. Bush une idéologie qui se fonde avant tout sur la défense d’une civilisation occidentale qui serait aujourd’hui attaquée par le monde islamiste. Lorsqu’il déclare faire en sorte que “Paris et l’ensemble des capitales occidentales parlent désormais toutes d’une seule voix”, c’est surtout pour défendre les causes occidentales que les discours et les aventures guerrières de Bush “contre l’Axe du Mal et la Barbarie” ont totalement galvaudées: la Démocratie, la Liberté, l’universalisme des Droits de l’Homme, la lutte contre le terrorisme. Comme George W. Bush et comme tous les néo-conservateurs islamophobes, Nicolas Sarkozy est dans une logique de guerre contre tout ce qui ne relève pas des “valeurs occidentales” judéo-chrétiennes, tant en matière d’économie que de politique et de religion. Il exècre et ne cesse de diaboliser les partis islamistes qualifiés de terroristes comme le Hezbollah ou le Hamas, n’imaginant pas que son propre occidentalisme est à l’Occident ce que le fondamentalisme islamiste est à l’Islam. Il est au plus près des cercles israélo-américains d’extrême-droite qui, afin de “garantir la paix et la sécurité”, prônent une domination occidentale du monde, quitte pour cela à passer à l’offensive et à se lancer dans une guerre de civilisation “globale”. Pour Nicolas Sarkozy il s’agit de défendre mais aussi désormais d’imposer par tous les moyens, et notamment par la guerre, un nouvel ordre occidental soi-disant “moral” (comprendre surtout “néo-libéral”) qui doit régner sur l’ensemble de la planète.

Cette idéologie d’autodéfense agressive se nourrissant du conflit avec l’islamisme autorise ainsi l’OTAN — qui à l’origine n’a qu’une mission de défense limitée aus territoires occidentaux — à aller porter la guerre aux confins de la planète pour défendre des intérêts géostratégiques essentiellement américains, quand ce n’est pas parfois purement israéliens, à titre d’une soi-disant “légitime défense” contre le terrorisme islamiste. De hauts stratèges et chefs d’état-major de l’OTAN planchent même actuellement sur de réjouissantes nouvelles options militaires. Ces docteurs Folamour réclament en effet le droit d’effectuer des frappes préventives, y compris avec l’arme nucléaire, sans autorisation du Conseil de sécurité de l’ONU. Lorsque l’on connaît le désir insensé des Israéliens et de leurs amis américains — Même avec Barack Obama, il y a peu de chances que les Etats-Unis modifient leur politique de soutien inconditionnel à l’Etat d’Israël — d’aller bombarder l’Iran, on imagine aisément à quoi la sainte alliance transatlantique risque bientôt de servir.

C’est avec cette “vision” guerrière et occidentaliste du monde, ruineuse et extrêmement dangereuse pour la France, que Nicolas Sarkozy entend jouer un rôle international. En infléchissant la doctrine militaire française pour mieux s’aligner sur la politique étrangère américaine, dont on connaît pourtant les errements et l’agressivité aussi inefficace que désastreuse, il commet une erreur diplomatique et stratégique majeure.

Noël Blandin, pour la République des Lettres

Notes
1) Annoncé dès la campagne électorale de 2007, ce projet sarkozyste n’a cessé d’être remis sur la table, tant par Nicolas Sarkozy que par Bernard Kouchner (Ministre des Addaires étrangères) et Hervé Morin (Ministre de la Défense) afin d’y “préparer l’opinion”, notamment pour le Président de la République à travers le Discours de janvier 2008 devant le corps diplomatique français, lors du Sommet de l’OTAN à Bucarest en avril 2008 et la semaine dernière encore lors d’une conférence sur la sécurité à Munich.
2) Parmi les responsables politiques qui s’opposent à la décision autocratique de Nicolas Sarkozy, on note celles de François Bayrou pour qui la réintégration dans le commandement militaire de l’OTAN serait “une défaite pour la France” et un “un aller sans retour” [...] “En nous alignant, nous abandonnons un élément de notre identité, une part de notre héritage, et nous l’abandonnons pour rien”. Il demande que le choix fait par le Général de Gaulle en 1966 “ne soit pas bradé et jeté aux orties”, ajoutant qu’un tel choix ne peut aujourd’hui être modifié “que par un référendum du peuple français”. Dans un entretien au Nouvel Observateur, François Bayrou précise sa pensée. Pour lui, en réintégrant l’OTAN, la France se range “aux yeux du monde” dans un “bloc occidental” [...] “euro-américain d’un côté, le reste du monde de l’autre. Ceci, pour la France et son histoire, son universalité, est un renoncement”. Il affirme que “ce que nous sommes en train de brader, ce n’est pas seulement notre passé mais aussi notre avenir, une partie du destin de la France et de l’Europe”. Pour le Parti Socialiste, qui demande un débat et un vote parlementaire sur la question, “Aucune explication recevable n’est apportée sur l’intérêt pour la France de ce retour” et les “conditions et contreparties de cette réintégration ne sont pas connues”. Jean-Marc Ayrault, chef de file des députés PS, estime que “La France doit garder son autonomie de décision” et que celle-ci “ne peut pas être prise par le président seul”. Les anciens ministres socialistes de la Défense Paul Quilès et Jean-Pierre Chevènement ont également publié des tribunes dans la presse pour exprimer leur rejet de cette décision “très dangereuse pour la sécurité de la France”. [...] “Nous ne devons pas nous laisser entraîner dans des guerres qui ne sont pas les nôtres”, affirment-ils. “Si la France entre dans l’OTAN, il n’y a plus d’espoir de politique étrangère et de sécurité commune, plus d’Europe de la défense”, affirme également le socialiste Jean-Michel Boucheron. La réintégration “limiterait notre souveraineté et serait le signe d’un alignement sur l’administration américaine qui banaliserait la singularité de la France”, estiment pour sa part le Parti Communiste. Du côté de l’UMP, une partie des députés exprime aussi son opposition: Jacques Myard proteste contre ce “retour qui va lier les mains de la France et l’arrimer à un bloc monolithique occidental dirigé par les Etats-Unis” tandis que Lionnel Luca explique que “Pour un grand nombre de pays arabes, le fait que la France soit dans l’OTAN est un mauvais signal”. Jean-Pierre Grand regrette cet “arrimage plein et entier aux Etats-Unis”. “Il y a dans le monde entier des pays qui attendent de la France qu’elle demeure une transition, une passerelle, et qu’elle ne s’aligne pas sur les Etats-Unis”, renchérit Georges Tron. Le gaulliste ex-UMP Nicolas Dupont-Aignan s’engage lui dans une quasi campagne contre le projet et exige un débat parlementaire. Daniel Garrigue, député ex-UMP de la Dordogne, s’est de son côté fendu d’une tribune intitulé “Bonjour, messieurs les traîtres !”. Pour lui, “Rien ne justifie le retour de la France dans l’Organisation du traité de l’Atlantique Nord et la remise en cause de l’un des rares consensus forts de notre pays — voulu en l’occurrence par le général de Gaulle avec la sortie de l’Otan en 1966 et confirmé par ses successeurs, y compris par le socialiste François Mitterrand. Nous y perdrons la considération que nous avions sur la scène internationale et particulièrement notre capacité à être entendus dans un certain nombre de conflits, notamment au Proche et au Moyen-Orient. [...] “Pour tous ceux qui croient en la France et en la construction de l’Europe, cette décision de rejoindre l’Otan qui n’a été ni concertée, ni discutée, ni approuvée par les Français ou par le Parlement, constitue bien une véritable trahison”. Alain Juppé, ancien Premier Ministre de Jacques Chirac, renouvelle lui aussi ses critiques en demandant si la France n’était pas en train de “faire un marché de dupes en rentrant sans conditions” dans le commandement de l’OTAN. Mais le plus farouche opposant à Droite est l’ancien Premier Ministre Dominique de Villepin. Pour lui, la France “va se trouver rétrécie sur le plan diplomatique” et sera plus vulnérable au terrorisme. “Alors que le Sud est en train de s’affirmer, dans un monde qui est en train de basculer, faut-il donner le sentiment de se crisper sur une famille occidentale ?”, s’interroge-t-il. Comme François Bayrou, il estime que si la France avait été intégrée aux structures de commandement de l’OTAN en 2003, elle aurait été obligé de suivre les Etats-Unis de Geoorge W. Bush dans la guerre contre l’Irak.
3) Discours de Jaap De Hoop Scheffer, Secrétaire général de l’OTAN, devant les parlementaires français le 12 février 2009.

jeudi, 05 février 2009

El control de los oceanos del mundo - ?Preludio para la guerra?

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La Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación (PSI) y la Armada de Mil Barcos de EE.UU.
El control de los océanos del mundo, ¿preludio para la guerra?

 

Rick Rozoff
Global Research

 

Traducido del inglés para Rebelión por Germán Leyens : Ex: http://www.rebelion.org/

 

Uno de los esfuerzos más monumentales y arrolladores, aunque sea pasado por alto frecuentemente, del gobierno de Bush por proyectar una dominación militar mundial y al hacerlo pervertir aún más las relaciones internacionales, es lo que su iniciador, John Bolton, en su capacidad de Subsecretario de Estado para Control de Armas y Seguridad Internacional llamó en sus días Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación (PSI).

Lanzada oficialmente el 31 de mayo de 2003, la PSI fue la más amplia aplicación de la proyección internacional del poder por parte de EE.UU. en la era posterior a la Guerra Fría, implicando como lo hace, nada menos que la capacidad de realizar vigilancia naval, interdicción [interdicción marítima, es la negación de acceso a puertos específicos a naves mercantes para la importación/exportación de mercancías a un país determinado o a varios países, N. del T.] y eventualmente acción militar desenfrenada en todos los océanos del mundo.

Después de y como suplemento para la Operación Libertad Duradera y sus seis áreas de responsabilidad desde el sur de Asia al Cuerno de África y del Océano Índico al Mar Caribe, la así llamada Operación Esfuerzo Activo, que colocó durante siete años todo el Mar Mediterráneo bajo su control, fue el preludio de la OTAN y prototipo para la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación. La PSI es una operación militar diseñada e implementada unilateralmente por Washington sin consulta previa con las naciones y pueblos de las áreas en cuestión.

Y como la Operación Libertad Duradera y la Operación Esfuerzo Activo, su autoproclamada misión es ilimitada en su alcance geográfico y en el alcance histórico.

La PSI fue anunciada con el supuesto objetivo de, según el siempre complaciente New York Times, “excluir materiales y contrabando nucleares.” Una norma suficientemente amplia como para incluir casi cualquier operación naval en cualquier sitio y con cualquier propósito real para el que Washington quiera emplearlo.

Y extender simplemente la presencia naval estadounidense y aliada y las capacidades de librar guerras a vías marítimas vitales y codiciadas, vías fluviales, regiones costeras, rutas de tránsito energéticas y militares y a cualesquiera mares en cualesquiera circunstancias en las que hacerlo cumpla con exigencias políticas y estratégicas existentes.

Fue, no obstante, puesta inmediatamente en paralelo con la amalgama manipulativa de Washington de armas de destrucción masiva con ‘terrorismo global’ como veremos más adelante.

En las alusiones predominantes de sus primeros días, el foco principal de la PSI fue Corea del Norte.

Después, Irán fue crecientemente identificado como justificación putativa para extenderla al Golfo Pérsico y, si EE.UU. y sus aliados pudiesen inventar algún método para llegar allí, el lago endorreico que es el Mar Caspio. Por cierto, el ex Secretario de Defensa Donald Misfield fue un ávido propugnador de lo que conceptuó como Guardia del Caspio.

El Mar Caspio es, claro está, una formación rodeada de tierra que no es accesible a las armadas, con la excepción de sus cinco Estados costeros.

Como será demostrado a continuación, la PSI no tardó en salir a la caza de “contrabando norcoreano” en los Mares Egeo y Negro, el Golfo Pérsico y el Mar del Sur de China, entre otros, aunque su mayor concentración sigue estando en Asia.

El mismo 22 de mayo de 2006, el artículo del New York Times, del que emana la cita anterior, también incluyó este apéndice revelador: “La iniciativa también involucra esfuerzos por limitar el financiamiento y transacciones comerciales sospechosas de Irán, Corea del Norte, Siria, Cuba y otros países.”

Los países mencionados son cuatro de los siete acusados por el gobierno de EE.UU. inmediatamente después de los ataques del 11-S de ser “Estados que apoyan el terrorismo,” es decir, Cuba, Irán, Iraq, Libia, Corea del Norte, Siria y Sudán.

Este autor escribió el 12 de septiembre de 2001, que de los siete Estados mencionados, sólo uno, Sudán, tuvo alguna conexión previa con Osama bin Laden, rota más de cinco años antes; que ninguno de ellos había reconocido el orden talibán en Afganistán (aunque los firmes aliados de EE.UU.: Pakistán, Arabia Saudí y los Emiratos Árabes Unidos sí lo habían reconocido, y los Emiratos sean la única nación árabe con un contingente militar en Afganistán para aumentar la ironía); y que tres de los siete países identificados – Irán, Iraq y Siria – habían sido víctimas del mismo extremismo al que se les acusaba de apoyar.

Los “apoyos estatales del terrorismo” fueron suplementados, y en la mayoría de los casos reemplazados, por la entonces Asesora de Seguridad Nacional, Condoleezza Rice, durante su audiencia de confirmación en el Senado como Secretaria de Estado en enero de 2005, cuando desveló la nueva lista de sentenciados, los “puestos avanzados de la tiranía:” Belarús, Cuba, Irán, Myanmar (Birmania), Corea del Norte y Zimbabue.

De las naciones mencionadas, algunas tienen sistemas parlamentarios multipartidarios: algunas son Estados de un solo partido; cinco tienen gobiernos seculares, una tiene un gobierno religioso. Desde el punto de vista de sus antecedentes religiosos: tres son predominantemente cristianas, dos budistas y una musulmana.

El único vínculo concebible que tienen en común es que cada una de ellas ha sido objeto de intensos e incesantes esfuerzos de EE.UU. y Occidente en general para aislarla localmente y estigmatizarla internacionalmente como preparativo por un proyectado “cambio de régimen.”

Y todas las seis tienen estrechas relaciones de Estado a Estado tanto con Rusia como con China.

Hay que suponer que un adversario, una ‘amenaza’ es necesitada en cada continente y región crítica, de modo que Europa tiene a Belarús; África a Zimbabue, Latinoamérica a Cuba; Oriente Próximo a Irán; y Asia, presumiblemente por su tamaño comparativo, a Myanmar y Corea del Norte.

Cuba, Irán y Corea del Norte son los únicos Estados que han pasado de ser “apoyos estatales del terrorismo” a “puestos avanzados de la tiranía.”

Si, como en el caso de las denominaciones urdidas antes mencionadas, la justificación inicial para la PSI fue suficientemente nebulosa como para servir cualquier intención y suficientemente maleable como para ajustarla al deseo de despliegues planificados contra nuevos adversarios por conveniencia, su evolución y extensión desmintieron su mito fundacional y revelaron las verdaderas intenciones de sus propugnadores.

Una breve cronología de la PSI desde su infancia y hasta su estado actual ilustrará que su campo de acción es mucho más amplio que la caza de carga que salga de, o vaya hacia, Corea del Norte,

A medida que la Iniciativa comenzaba a adquirir fuerza hacia su segundo año, el veterano periodista indio,

Siddharth Varadarajan subrayó el escepticismo, si no la sospecha, que despertó entre los principales poderes mundiales, y especialmente asiáticos.

“Más que instrumentos extra-legales para controlar la proliferación como la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación, Rusia y China subrayan la necesidad de sistemas legales multilaterales. Y anticipando que el programa de defensa de misiles de EE.UU. llevará muy pronto a la militarización del espacio, los dos países exigen una prohibición de toda carrera armamentista en el espacio exterior.” (The Hindu, 4 de julio de 2005)

Lo mencionado es una inspirada asociación y yuxtaposición de genuinas preocupaciones por la proliferación a versiones en gran parte ilusorias que sirven objetivos geopolíticos ocultos.

Es decir, EE.UU. regularmente frustra la oposición, por lo demás unánime, en Naciones Unidas a la militarización del espacio mientras agita el fantasma del contrabando en rincones del mundo frecuentemente oscuros que otras naciones, incluyendo las de la región correspondiente, no ven o por el cual no sienten preocupaciones.

Un importante periódico indio comentó sobre la PSI tres días antes de la cita mencionada que:

La PSI [Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación] es una iniciativa multinacional dirigida por EE.UU. que involucra la interdicción de países de terceros países en alta mar. Aparte de su dudosa legalidad, la PSI menoscaba explícitamente un enfoque genuinamente multilateral y equilibrado del problema de la proliferación. Entre los principales países en Asia que se oponen a la PSI están China, Indonesia, Malasia e Irán." (The Hindu, 1 de julio de 2006)

El que dos de los cuatro países recién mencionados limiten con el Estrecho de Malaca que conecta el Océano Índico con el Océano Pacífico no es una coincidencia.

La importancia de ese Estrecho ha sido comentada por importantes dirigentes militares de EE.UU. en relación con el plan de EE.UU. de una armada de 1.000 barcos que examinaremos más adelante en este artículo.

Menos de un año después de la inauguración de la PSI, el primer ministro y ministro de defensa de Malasia de aquel entonces, Najib Razak, dijo de una manifestación regional de la PSI que “esto toca la cuestión de nuestra soberanía nacional.”

El Financial Times de Londres caracterizó la inquietud como sigue:

“Malasia e Indonesia se oponen a una propuesta de Washington de desplegar marines de EE.UU. con embarcaciones de alta velocidad para vigilar el Estrecho de Malaca, una de las rutas marítimas más activas del mundo… “La Iniciativa Marítima Regional de Seguridad fue desvelada durante el testimonio ante el Congreso de la semana pasada del almirante Thomas Fargo, jefe del Comando Pacífico de EE.UU. “La propuesta resulta de la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación (PSI)…

(Financial Times, 5 de abril de 2004)”

Casi dos años después el Ministro de Exteriores de Indonesia, Hassan Wirajuda, al rechazar la participación en la PSI, explicó la oposición de su nación:

“Si Indonesia se uniera a la iniciativa, EE.UU. y otros países grandes podrían realizar una interdicción para controlar si los barcos que pasan por las aguas llevan materiales vinculados a armas de destrucción masiva,” dijo [el Ministro de Exteriores Hassan Wirajuda] "Además, la iniciativa no se originó en un proceso multilateral, sino sólo por un grupo de naciones que tiene un objetivo común de realizar ciertas iniciativas,” dijo Wirajuda. “La iniciativa iba contra la convención de derecho internacional sobre la marina, la Convención de Naciones Unidas sobre la Ley sobre el Mar de 1982, subrayó Wirajuda." (Xinhua News Agency, 17 de marzo de 2006)

No tardó mucho antes de que se confirmaran las aprehensiones de Indonesia y Malasia.

En agosto de 2005, EE.UU., Gran Bretaña, Australia, Nueva Zelanda y Japón realizaron el Ejercicio Sable Profundo como parte de la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación desde la base Naval Changi de Singapur en el Mar del Sur de China.

La Agencia de Noticias Xinhua de China, hizo la siguiente descripción:

“El Ejercicio Sable Profundo (XDS)… involucra una dotación de unos 2.000 miembros de las fuerzas armadas, guardias costeras, aduanas y otras agencias de los 13 países de la PSI, incluidos Singapur, EE.UU., Gran Bretaña y Australia, así como de diez barcos y seis aviones de patrulla marítima.” (Xinhua News Agency, 15 de agosto de 2005)

Otra nación en el Lejano Oriente que se ha negado a sumarse al PSI, que ahora tiene 70 países afiliados, es Corea del Sur.

Teme que su vecino del norte interpretará un bloqueo naval unilateral de sus costas y un ataque por la fuerza y confiscación de sus barcos como lo que son – actos de guerra – y que podría resultar en una nueva guerra peninsular con todas las de la ley.

Hace tres años, los medios estatales norcoreanos presentaron precisamente una perspectiva semejante.

“Corea del Norte advirtió a Corea del Sur contra la provocación de una ‘guerra nuclear’ si se une a un ejercicio internacional dirigido por EE.UU. orientado a interceptar armas de destrucción masiva, informaron los medios estatales. “Corea del Sur dijo el mes que enviaría un equipo a ‘observar’ un ejercicio de la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación (PSI) dirigida por EE.UU., frente a Australia en abril.” “Minju Joson, el periódico publicado por el gobierno del Norte, también advirtió el sábado que la participación de Seúl en el ejercicio “impediría que las relaciones inter-coreanas se desarrollen favorablemente y implicaría… una guerra nuclear en la península coreana.” (Agence France-Presse, 12 de febrero de 2006)

Agence France-Presse de hoy informa sobre un ‘estudio’ del Consejo de Relaciones Exteriores [CFR] de EE.UU. que declara que “EE.UU. y sus aliados podrían tener que desplegar hasta 460.000 soldados a Corea del Norte para estabilizar el país si colapsa y estalla una insurgencia, dijo un estudio privado estadounidense del 28 de enero.”

La cantidad precisa de soldados estipulada sugiere que el análisis del CFR difícilmente puede ser sólo teórico.

Y menciona de modo bastante despreocupado, como de pasada, que:

“Corea del Norte linda con dos grandes potencias – China y Rusia – que tienen importantes intereses en juego en el futuro de la península. Es virtualmente seguro que se involucrarían activamente en cualquier crisis futura que tuviera que ver con Corea del Norte.’”

No se diga que EE.UU. no haya ignorado temerariamente la preocupación de Corea del Sur al presionar a Seúl al respecto.

La PSI es el componente naval internacional de un esfuerzo mucho mayor dominado por EE.UU. por expandir la dominación militar occidental en todo el mundo a través de la OTAN.

Un artículo llamado “EE.UU. quieren que Corea forje vínculos militares con la OTAN,” observó que:

“[Un responsable sudcoreano] dijo que Washington apunta a impedir la proliferación de armas de destrucción masiva por Corea del Norte aprovechando a la OTAN aparte de la PSI…” (Chosun Ilbo, 23 de noviembre de 2006)

En un despacho intitulado “El próximo gobierno puede considerar unirse a un programa de defensa de misiles de EE.UU.,” un periódico sudcoreano informó que:

“Corea del Sur se ha mostrado renuente a unirse a la PSI en el pasado por temor a incitar al Norte, aunque recientemente se informó que el Ministerio de Asuntos Exteriores y Comercio propuso al equipo de transición que se otorgue seria consideración al asunto.” (Hankyoreh, 21 de enero de 2008)

La PSI también ha sido aprovechada para apuntalar a otros componentes de la OTAN en Asia, incluidas Australia y Nueva Zelanda.

En abril de 2006, EE.UU., Australia, Gran Bretaña, Japón, Nueva Zelanda y Singapur realizaron un “ejercicio internacional contra el terror” de tres días de duración en el norte de Australia.

En julio del año pasado, un ejercicio similar fue realizado en Nueva Zelanda, que otrora se enorgullecía de su supuesta neutralidad, sobre el que un periódico local informó:

“En lo que será visto como otro paso en la ruptura de 20 años de suspensión total por EE.UU. de su participación conjunta en ejercicios militares rutinarios, sus militares estarán fuertemente representados en un contingente de más de 30 que llegarán a Auckland para el Ejercicio Maru. “El ejercicio… está siendo expandido como parte del compromiso de Nueva Zelanda con la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación.” (The Dominion Post, 22 de julio de 2008)

En el ínterin entre los ejercicios militares de la PSI australiano y neozelandés, un ejercicio de 41 naciones, Escudo Pacífico 07, fue realizado frente a Japón:

“Barcos y aviones de Australia, Gran Bretaña, Francia, Japón, Nueva Zelanda y EE.UU. fueron desplegados en el primer día del ejercicio de tres días en el Mar de Sagami frente a la Bahía de Tokio… bajo la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación presentada por el presidente de EE.UU.,

George W. Bush en 2003."

Como parte de la incorporación de India a la OTAN asiática y global, también ha sido proyectada su inclusión en la PSI.

Un comentario indio de 2007 señala:

“En los últimos años, Nueva Delhi parece estar haciendo lo imposible por acomodar los “intereses estratégicos” de Washington. Ejercicios militares conjuntos involucrando a los ejércitos de los dos países se han intensificado en su alcance y magnitud desde que comenzaron a mediados de los años noventa. “El deseo de Washington de cercar a China con una alianza favorable a EE.UU. es bien conocido. La dirigencia japonesa ha estado llamando a Nueva Delhi a sumarse a proyectos inspirados por Washington como ser la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación.” (Frontline, 14-27 de julio, 2007)

Y el mismo año Siddharth Varadarajan escribió:

“Aunque India sigue oponiéndose a la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación (PSI), los últimos dos ejercicios navales ‘Malabar’ han visto ejercicios relacionados con la PSI como ser la interdicción marítima y operaciones VBSS (visita, abordaje, busca, confiscación).” (The Hindu, 5 de julio de 2007)

La busca en todo el mundo, en permanente expansión, de “contrabando norcoreano” ha seguido un curioso camino desde el Océano Índico al Golfo Pérsico, el Mediterráneo y el Mar Negro.

En octubre de 2006, barcos de guerra de EE.UU., Gran Bretaña, Francia, Italia, Australia y Bahréin participaron en un ejercicio de la PSI frente a la costa iraní en el Golfo Pérsico.

El sucesor de John Bolton en el Departamento de Estado, Robert Joseph, había preparado antes el trabajo preliminar al haber “visitado recientemente a los vecinos de Irán: Bahréin, los Emiratos Árabes Unidos, Omán, Kuwait, Arabia Saudí y Qatar, aparte de Egipto, para discusiones sobre cómo manejar la amenaza desde Irán. Las consultas tuvieron que ver con el trabajo conjunto dentro del contexto de la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación…” (Departamento de Estado de EE.UU., 21 de abril de 2006)

Cinco meses antes del ejercicio en el Golfo Pérsico, EE.UU. dirigió Sol Anatolio-2006, un ejercicio naval multinacional frente a la costa mediterránea de Turquía.

Una fuente noticiosa italiana publicó el siguiente informe:

“Turquía recibirá un ejercicio militar conjunto con tropas de EE.UU. en el Mediterráneo oriental que comenzará el miércoles – una demostración de fuerza que tiene lugar mientras Washington aumenta la presión sobre Teherán por su programa nuclear. “Ostensiblemente como parte de la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación (PSI) contra Armas de Destrucción Masiva (ADM), funcionarios estadounidenses citados en el periódico New York Times describieron las maniobras como señal de la determinación de Washington de impedir que misiles y tecnología nuclear lleguen a Irán.” (ADN Kronos International, 23 de mayo de 2006)

Refiriéndose a la misma operación, el New York Times agregó que: “EE.UU. está tratando de persuadir a países amigos cerca del Golfo Pérsico, el Mar Arábigo y el Océano Índico para que participen en los ejercicios…” (New York Times, 22 de mayo de 2006)

Más hacia oeste, EE.UU. reclutó a Chipre para la PSI en abril de 2005.

En mayo del año pasado, EE.UU. y Polonia presidieron otra operación de la PSI, Escudo Adriático 08, con sede en Croacia, que incluyó la participación de Bosnia, Croacia, Italia, Montenegro y Eslovenia.

Siete meses después, el Congreso de EE.UU. elogió a Croacia – la misma de la tristemente célebre Operación Tormenta de 1995 dirigida por EE.UU. y con nostalgia persistente por los ustachás colaboracionistas con los nazis – con una resolución que expresa la certeza de EE.UU. de que “Croacia dará una contribución significativa a la OTAN y que ya ha enviado su contingente a Afganistán “como parte de la Fuerza Internacional de Ayuda a la Seguridad dirigida por la OTAN [y] Croacia “participa en la Iniciativa Internacional de Seguridad contra la Proliferación con naciones del mismo parecer de todo el mundo…”

(Hina, 15 de diciembre de 2005)

En la cumbre de la OTAN del año pasado en Rumania, Croacia fue invitada a unirse a la Alianza como miembro pleno y será enlistada como tal en la cumbre del 60 aniversario de la OTAN el 3 y 4 de abril.

Del mismo modo el testaferro estadounidense en Ucrania, Viktor Yushchenko, camino de la OTAN a los 2.400 kilómetros de frontera con Rusia, prometió hace un año que “Ucrania interactuará activamente con Estados miembro de la OTAN dentro de los nuevos mecanismos de cooperación en el cumplimiento y la implementación de tratados fundamentales relacionados con la seguridad internacional. En particular, nuestro Estado ha accedido a la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación…” (ForUm, 16 de enero de 2008).

Respecto al tema general de la relación de la PSI con la OTAN Global, estos pasajes de un discurso de 2005 del Secretario General Jaap de Hoop Scheffer en Japón aclararán las cosas:

“Queremos asegurar que una proporción mucho mayor de nuestras fuerzas militares están rápidamente disponibles para operaciones lejos de casa.”… “También comprendemos perfectamente que afrontar las amenazas globales de la actualidad requiere la cooperación internacional más amplia posible y por lo tanto estamos realzando las relaciones con nuestros países asociados en Europa, el Cáucaso, y Asia Central, y en el Norte de África y Oriente Próximo.” “Y como muchos Aliados de la OTAN, vosotros [Japón] sois también participantes activos en la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación…” (OTAN Internacional, 4 de abril de 2005.)

Lo que precede establece que, igual como en el caso del estacionamiento por Washington de instalaciones de interceptores de misiles con un potencial de primer ataque en una tercera posición en Europa Oriental, Corea del Norte e Irán son más pretexto que causa.

Y la implacable, persistente, estrategia subyacente es expandir y mantener despliegues militares globales para chantajes así como ataques.

Si la Operación Libertad Duradera – Afganistán – de EE.UU. apunta a asegurar entre otras tareas el control naval estadounidense y aliado sobre el Océano Índico; si la Operación Libertad Duradera – Filipinas – lleva el poder naval occidental al Sudeste Asiático; si la Operación Libertad Duradera – Cuerno de África – solidifica el control del Mar Arábigo, el Golfo de Adén y el Mar Rojo, con la reciente ayuda de la OTAN y la UE en Operación Atalanta; si la Operación Esfuerzo Activo de la OTAN controla toda la navegación hacia y a través del Mediterráneo, complementada por el bloqueo naval del Líbano – que pronto será copiado en Gaza - por Alemania y otras naciones de la OTAN; si todas esas operaciones aseguran la dominación de partes críticas de los océanos y mares del mundo, la Iniciativa de Seguridad contra la Proliferación es cada vez más la estructura global que los integra a todos.

Y por debajo de todo y apuntalando la PSI está lo que el actual Presidente del Estado Mayor Conjunto de las fuerzas armadas de EE.UU., Michael Mullen, llamó la Armada de Mil Barcos mientras desarrollaba su estrategia como Jefe de Operaciones Navales, en un artículo del 29 de octubre de 2006 en el Honolulu Advertiser.

La Armada de Mil Barcos, dijo Mullen: “[Es] una cooperación marítima global que une a fuerzas marítimas, operadores portuarios, fletadores comerciales, y agencias internacionales, gubernamentales y no gubernamentales para encarar inquietudes mutuas.”

El año siguiente la publicación de la Armada de EE.UU. Navy Newsstand resumió el asunto:

“El Vicealmirante John G. Morgan, Jr., jefe adjunto de Operaciones Navales para Informaciones, Planes y Estrategia y el Contraalmirante Michael C. Bachman, comandante del Comando de Sistemas de Guerra Espacial y Naval, explicaron que la Armada de Mil Barcos es una red de armadas internacionales asociadas que trabajarán juntas para crear una fuerza capaz de vigilar todos los mares. “Se aproxima una nueva era naval y estamos haciendo cosas apasionantes al prepararnos para ella,” dijo Morgan. “La Armada enfrenta un desafío… La Armada se desplaza y presenta al mundo la idea de una Armada de Mil Barcos para patrullar los mares.” “Esta idea de la Armada de Mil Barcos tiene que ver con una red marítima global, una inmensa red de coparticipación,” dijo Morgan. Es el mayor desafío que enfrentamos: una red de armadas integradas de muchos países con un objetivo común de patrullar los mares del mundo.”

http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=12102

samedi, 31 janvier 2009

"Pour une sociologie de l'ethnicité"

« Pour une sociologie de l’ethnicité » : un sociologue rompt le tabou de l’ethnie

Albert Bastenier est professeur au département des sciences politiques et sociales de l’Université catholique de Louvain (Belgique). Dans le (long) article reproduit ci-dessous, il prend acte des effets de l’immigration massive en Europe de populations issues du tiers-Monde, à la différence de certains démographes et politiques qui s’efforcent de nier cette substitution de population. L’auteur voit dans ce bouleversement démographique un phénomène irréversible et ne cherche pas à dissimuler les implications considérables qu’il génère. Loin du discours publicitaire sur les beautés du métissage, il ne porte aucun jugement de valeur sur ce phénomène qu’il se contente d’enregistrer froidement (avec un indubitable fatalisme) en s’efforçant d’en tirer un certain nombre de conclusions. Affirmant que l’intégration républicaine traditionnelle est morte il propose de réévaluer la notion d’ethnicité, mise à mal par les universalistes républicains qui y voient le syndrome de la « peste communautaire » ou du « racisme ». Un discours en rupture (partielle) avec l’idéologie dominante.

Image Hosted by ImageShack.us Au cours des derniers mois, La vie des idées a publié diverses contributions consacrées au thème de l’identité, dont récemment un texte de Mirna Safi intitulé « L’usage des catégories ethniques en débat ». Il rendait compte du dossier que la Revue Française de Sociologie (2008, 49/1) a consacré aux discussions à propos de l’usage des catégories ethniques dans les sciences sociales. Il y était surtout question de la controverse au sujet du recueil de statistiques ethniques. Dans une perspective complémentaire, nous voudrions revenir sur la question en l’élargissant pour montrer que, comme catégorie d’analyse du social, l’ethnicité est loin de ne concerner que les statistiques.

S’il est vrai que la légitimité de l’instrument de recherche que constituent les statistiques ethniques devrait normalement finir par emporter l’adhésion, à lui seul il ne saurait toutefois prétendre englober l’ensemble des raisons qui justifient une réévaluation de la notion d’ethnicité dans le cadre des discussions que mènent les sciences sociales au sujet des identités. Réduite à cela, la question de l’ethnicité risque même de ne pas voir exploité tout le potentiel intellectuel qu’elle contient. On perdrait en tout cas une grande partie de son bénéfice si on ne voyait pas que, loin de ne permettre qu’un meilleur ciblage des politiques sociales antidiscriminatoires, elle jette aussi les bases d’une réflexion qui permet de mieux comprendre certains des rapports sociaux parmi les plus caractéristiques que génère actuellement l’Europe des migrations.

Comprendre les rapports sociaux caractéristiques de l’Europe des migrations

 

Ce ne sont, en effet, rien moins que les sources du peuplement continental lui-même qui sont occupées à se transformer par le biais des flux de population que la mondialisation intensifie et diversifie. Et parce qu’elle entraîne une recomposition et une requalification des interactions sociales au sein des populations du vieux continent, c’est de cette nouvelle donne démographique qu’il s’agit de saisir tous les enjeux.

Que les sources et les modalités du peuplement européen connaissent actuellement une profonde mutation, même les chercheurs peu enclins à accorder leurs faveurs aux thèses du multiculturalisme, l’admettent : liée au phénomène de leur vieillissement et de leur fécondité faible, la dépendance démographique des sociétés européennes est de plus en plus évidente. Selon Michèle Tribalat [1], ne fût-ce que le maintien de la population à son niveau actuel ne pourra venir que de la permanence d’un apport démographique externe. En outre, les données fournies par Eurostat permettent de dire que même dans le scénario d’une croissance démographique faible de l’Union à l’horizon 2030 (de 463 à 469 millions pour UE-25), celle-ci sera à mettre au seul crédit de l’immigration. On a là un véritable processus de substitution démographique et, en l’absence d’une hypothétique revivification de la fécondité des Européens, l’immigration est donc, selon l’expression suggestive de M. Tribalat, un « médicament à vie ». Elle souligne enfin que l’immigration suppose évidemment des répercussions importantes au sein des sociétés européennes, notamment sur la reconstruction des codes sociaux dans l’espace public.

Les conclusions auxquelles parvient François Héran [2] expriment des choses fort proches quoique avec un accent un peu différent : la démographie, dit-il, fait partie de ces instruments libérateurs qui permettent de s’extraire des vues étroites et voir que la part croissante des migrations dans la population européenne est un phénomène inéluctable. Le brassage des populations est en marche et rien ne l’arrêtera. Il n’y a pas à se demander s’il faut être pour ou contre. La seule question qui vaille est de savoir comment l’aider à se réaliser dans les meilleures conditions. Mieux vaut se préparer à ce brassage des natifs et des immigrés que de s’enfermer dans sa dénégation volontariste. C’est ensemble qu’il leur faudra croître et vieillir et, au lieu d’agiter l’image d’un spectre qu’il faudrait écarter, la sagesse est d’amener les esprits à y faire face.

Mais précisément, pour faire face, de quels discours disposons-nous ? A l’aide de quels concepts et cadre intellectuel cherchons-nous à penser l’avenir et les phénomènes collectifs complexes, souvent mal vécus, qui se développent dans le sillage des flux migratoires ? A ce monde neuf, de plus en plus hétérogène et caractérisé par la coprésence de plusieurs cultures sur le même espace, il faut fournir les moyens de se connaître, de jeter un regard lucide sur la réalité plutôt que de le laisser vivre dans la nostalgie d’un modèle d’intégration sociale qui ne fonctionne que de plus en plus mal.

 

La potentialité analytique des catégories ethniques

 

C’est à cet égard qu’il y aurait avantage à en venir à une prise en considération dépassionnée de la potentialité intellectuelle contenue dans les catégories de l’ethnicité [3]. Dès lors que l’on admet que l’immigration fait partie des sources du peuplement européen, il s’impose de réfléchir, comme le dit M. Tribalat, sur les principes qu’adoptera l’Union dans la gestion de la diversité ethnoculturelle. Toutefois, même si on peut formuler des réserves à l’égard du multiculturalisme radical [4], n’est-ce pas une désinvolture peu propice à une telle réflexion que de se contenter, comme elle le fait, de qualifier les immigrés de simples « pièces rapportées » dans les sociétés européennes ? La théorie politique du multiculturalisme mérite plus qu’une mise en congé expéditive et, en l’occurrence, les catégories de l’ethnicité peuvent contribuer à l’approfondir et problématiser avec lucidité le nouveau monde social auquel nous avons affaire.

Même si elle commence par déplaire à beaucoup qui n’y voient qu’une atteinte à leur modernité et une concession à ce qu’ils appellent la « peste communautaire », l’anthropologie contemporaine – à commencer par la contribution décisive de Fredrik Barth [5] – nous a fourni des motifs suffisants pour revisiter la notion d’ethnicité. En ceci notamment que, si l’on veut bien abandonner la perspective intellectuelle statique et substantialiste qui en fait un quasi-équivalent de la race, on est loin de devoir comprendre cette notion comme une concession au communautarisme qui s’oppose aux idéaux républicains. En envisageant l’ethnicité non pas comme un patrimoine culturel statufié qui enchaîne les individus, mais de manière dynamique comme un processus social – c’est-à-dire comme une forme de l’action- au travers duquel les différents groupes humains devenus coprésents sur un même espace se perçoivent, se maintiennent ou transforment leurs frontières et leurs sentiments d’appartenance, on peut y discerner tout autre chose que l’expression d’un archaïsme cherchant à préserver des traditions culturelles rétives au compromis.

La tradition sociologique nous a tellement persuadés que l’évolution vers la modernité équivalait à un passage des communautés ethniques vers les sociétés nationales, que nous éprouvons quelque difficulté à accepter que l’on puisse aller aujourd’hui de la nation vers l’ethnicité. Et pourtant, il a une logique à ce qu’elle revienne au centre de la réflexion sociale dès lors que la mondialisation nous place dans une séquence historique où la coprésence de multiples cultures sur un même territoire devient un phénomène socialement aussi important que l’ancienne situation où les cultures différentes restaient pour l’essentiel confinées dans des espaces distincts. Ce sont donc les sociétés les plus modernes qui ne sont plus ethniquement homogènes et qui, en cela, diffèrent des sociétés traditionnelles et des tribus qui, elles, pouvaient l’être.

Face à cette situation, il ne s’agit pas de développer une rhétorique enthousiaste sur les beautés de l’hétérogénéité culturelle, mais d’y reconnaître la réalité en se demandant si, en utilisant la notion d’ethnicité, on ne parvient pas à mieux comprendre les enjeux liés à l’hétérogénéisation du vieux continent. Et à intervenir aussi avec plus de lucidité dans des situations et des luttes que l’on rejoint non pas en fonction de ses goûts et préférences, mais en raison de leur existence et de leur urgence.

 

Les implications culturelles de la mondialisation

 

Mais tentons d’abord de définir ces situations et ces luttes. Le dernier quart du XXe siècle, avec la tiers-mondisation des flux migratoires, fut le moment où commencèrent à être perceptibles certaines implications culturelles de la mondialisation. Ces flux ont en effet entraîné une recomposition culturelle de la population plus intense que le vieux continent n’en avait connue depuis longtemps. Ils ont également introduit les ingrédients d’une situation qui peut être qualifiée de postcoloniale parce que, parmi les immigrés, le ressentiment culturel des anciens colonisés parvient à se manifester sur la scène publique. Comme le montrent les « études postcoloniales » [6], c’est sur la trame d’un tel contentieux que se reconstruisent localement les identifications collectives et les rapports entre anciens mentors et pupilles coloniaux. Dans cette nouvelle séquence de l’histoire des sociétés européennes qui se reconfigurent en même temps qu’elles se repeuplent, il ne viendrait évidemment à l’esprit de personne de nier l’importance des composantes économiques et politiques qui hiérarchisent les différents groupes mis durablement en présence. On ne peut néanmoins minimiser l’importance de la dimension culturelle qui s’y adjoint et, surtout, ne pas observer qu’il y a des cultures qui confèrent de la dignité et de la puissance sociale tandis que d’autres confinent dans la faiblesse et la subalternité.

Toutefois, pour une sociologie réaliste qui quitte le terrain de la société conceptuelle pour rejoindre celui de la société réelle, il n’y a à vrai dire pas là une grande découverte : les sociétés humaines sont et restent des ensembles complexes de pratiques économiques, politiques et culturelles enchevêtrées, inégalement et imparfaitement unifiées, impliquant en même temps des solidarités et des antagonismes. Cependant, si un tel ensemble est générateur de conflits, il rend aussi particulièrement délicat tout discours sur l’intégration. Toujours cette dernière est poursuivie comme un bien souhaitable, mais elle n’est jamais qu’une intégration conflictuelle et partielle, à la manière du travail historique de la liberté qui lui-même prend souvent la forme d’une opposition à la domination. Ce qui compte le plus à partir de là, c’est de voir que, dans l’Europe actuelle, les appartenances culturelles en sont venues à jouer un rôle stratégique. Chacun des groupes en présence a tendance à réutiliser dans son patrimoine culturel et son passé – réel ou imaginaire – ce qu’il juge le plus approprié en vue d’affronter les défis du présent. Ceci revient à dire que les rapports de hiérarchisation culturelle dans l’Europe contemporaine résultent d’une coprésence spatiale où aucun des groupes en présence n’est plus à même d’être lui-même indépendamment de l’autre.

 

Société pluriculturelle et paradigme ethnique

 

Ce constat nous place au cœur du processus de catégorisation mutuelle qu’est la logique ethnique. De part et d’autre, les acteurs cherchent à se positionner à l’aide, notamment, des représentations qu’ils se forgent au sujet de leur propre culture et de celle des autres. Les anciens Européens et les nouveaux arrivants suscitent ou transforment des identités, des affiliations et des appartenances en fonction d’objectifs qui ont du sens pour eux. Du côté des uns pour défendre les droits acquis de l’autochtonie. Et du côté des autres pour revendiquer une place respectable dans la société de leur transplantation. A l’aide d’un ensemble de traits culturels, spirituels et matériels parmi lesquels on peut retenir des choses comme la langue, le style de vie, une histoire partagée, la religion ou aussi des critères vus comme ceux de la dignité morale, tous ces acteurs réutilisent les dimensions symboliques de leur mémoire en vue de mieux affronter les enjeux de leur monde actuel. Pourquoi d’ailleurs faudrait-il s’en étonner jusqu’au point de ne pas l’admettre ? Aux côtés des déterminants économiques et politiques, en le combinant avec eux, ne convient-il pas de prendre en compte l’impact du facteur culturel comme source de différenciation et de hiérarchisation sociales ? Et pourquoi dans le domaine des pratiques culturelles davantage que dans celui des pratiques économiques ou politiques faudrait-il postuler que, pour fonctionner, les sociétés devraient disposer d’une assise épargnée par les tensions et les rapports de force ? Ce qui empêche de le penser, ne serait-ce pas le fait que, dans la sociologie française, sur fond d’universalisme abstrait et de jacobinisme, l’idée d’intégration républicaine a intellectuellement joué un rôle comparable à celui qu’avait joué l’idée de dictature du prolétariat dans la sociologie marxiste orthodoxe ?

S’il est exact qu’en adoptant la notion d’ethnicité l’analyse ne se préoccupe plus d’abord de savoir selon quelles procédures les immigrés abandonnent leur identité d’origine en vue de s’intégrer, ce n’est pas pour autant que l’on abandonne l’idée qu’il faut explorer les mécanismes qui président à la réintégration globale des sociétés élargies par l’immigration. La problématique est toutefois renversée : on se demande plutôt pour quelles raisons il ne faut plus s’attendre à ce que les immigrés, par une démarche d’assimilation, se transforment comme autrefois en autochtones. Et ceci non pas parce que, comme catégorie analytique de l’action, la notion d’ethnicité viserait à comprendre la rémanence d’identités intangibles qui auraient été réprimées et demanderaient à être réhabilitées. Ni non plus parce qu’elle affirmerait une volonté de sauvegarde des cultures comme on cherche à assurer la survie d’espèces naturelles menacées. Parce que nous sommes placés tout autrement qu’hier face à la question de la rencontre des cultures, ce que l’on cherche à comprendre, ce sont plutôt les interactions qui se construisent entre des acteurs culturellement différents mais placés dans une situation d’interdépendance irréversible. À l’opposé d’un passéisme, l’ethnogenèse dont il est question est donc synchrone avec la mondialisation qui signe la fin du monoculturalisme et fait passer l’Europe contemporaine dans une situation de pluriculturalité.

Il faudra bien finir par admettre qu’appeler unilatéralement les immigrés à s’intégrer aux sociétés européennes telles qu’elles fonctionnent actuellement, revient à leur demander de rallier la culture dominante comme on se convertirait à une religion. Et pour les sciences sociales, c’est continuer à faire comme si elles ne savaient pas que nombre de sociétés qui ont cherché ou cherchent encore à se bâtir sur la seule affirmation des exigences intégratrices d’une citoyenneté qui n’existe pas vraiment, choisissent en réalité de fonctionner sur l’inégalité, l’injustice et même l’ostracisme contre lesquels elles disent pourtant vouloir lutter. Si ces sciences veulent tenir un discours qui ait du sens, ce devra donc en être un autre, qui parvienne à montrer comment des populations diverses par leurs origines mais rassemblées sur le même territoire, se brassent et s’agrègent tout en développant entre elles les contradictions de la différenciation et de la hiérarchisation sociales où interagissent des différences culturelles, des inégalités économiques et les statuts politiques des uns et des autres. Tant du côté de la majorité que des minorités, les nouvelles solidarités et affiliations surgissent toujours en réponse aux lacunes ou aux échecs de la représentation démocratique, créant pour cela des stratégies de reconnaissance.

 

Les pratiques culturelles dans la construction sociale de la réalité

 

Ce n’est bien entendu que dans la mesure où elles rendent plus intelligibles les pratiques sociales caractéristiques des sociétés où les appartenances culturelles connaissent un nouveau développement que les catégories de l’ethnicité s’avèrent utiles. C’est-à-dire en référence avec un principe d’organisation de la totalité sociale qui fait ressortir la logique structurelle de la saillance ethnique. C’est pour ce faire qu’il faut réinterroger la théorie de l’action et s’enquérir du rôle qu’elle reconnaît à la culture dans la construction des rapports sociaux, c’est-à-dire aux acteurs comme sujets réflexifs et imaginatifs, producteurs de signes et de représentations à l’aide de quoi ils cherchent à orienter leur monde plutôt que de simplement le subir. Dans une visée heuristique, on peut alors appeler société ethnique celle où la dimension culturelle de l’agir humain s’affirme comme un ressort spécifique des processus collectifs et où de nombreux acteurs sont placés dans des rapports qui les incitent à remanier leurs identités, concevoir de nouvelles appartenances symboliques et produire divers dispositifs organisationnels qui en sont l’expression.

Pour expliciter cela d’une manière analogique, on pourrait dire que de la même manière que l’on a pu appeler société de classe celle qui, à partir du XIXe siècle et sur arrière-fond d’industrialisation capitaliste, a organisé socialement la conflictualité des statuts économiques, on peut appeler société ethnique celle qui, à la fin du XXe et sur arrière-fond de mondialisation, organise socialement la conflictualité entre les différents statuts culturels. Et que la conscience que l’on a de cette situation dans les différents segments de la population y supplante celle de la classe comme médium principal à partir de quoi les acteurs systématisent leur condition. Il ne faut pas prétendre que le facteur culturel en vient à se substituer au facteur économique dans la hiérarchisation sociale. Mais admettre qu’il y joue toutefois un rôle de plus en plus important qui complexifie davantage les rapports sociaux. On peut y voir une nouvelle configuration de la question sociale.

Dans le domaine scolaire, par exemple, l’analyse ethnique met en lumière que l’on s’y trouve aux prises avec l’une des institutions emblématiques par excellence des enjeux de la culture. Elle est chargée de la double mission de qualifier culturellement les individus qu’elle instruit en même temps que de disqualifier ceux qui ne répondent pas à ses exigences. Et parce que les établissements scolaires fonctionnent selon une logique de quasi-marché, on sait depuis longtemps qu’ils ne distribuent pas équitablement leurs bienfaits. En reconnaissant la chose, on n’a toutefois encore rien dit à propos des opinions qui expriment leur consternation au sujet d’une baisse du niveau scolaire liée à la présence des enfants d’immigrés. Pourtant, là est perceptible la compétition ethnique pour la captation des ressources éducatives. Les dires majoritaires témoignent d’une transformation de leurs attentes sociales. Ils veulent que les établissements scolaires concrétisent une différenciation entre eux et les « autres ». Leur souci est de garder le contrôle sur l’accès aux établissements les plus convoités, au cœur de la machine ethnonationale distributrice des prestiges de la culture. La préoccupation d’un statut avantageux durable se traduit dans une stratégie scolaire du groupe majoritaire qui vise à entretenir la frontière qui le sépare du groupe minoritaire. Se donne ainsi à voir le jeu des compatibilités et des incompatibilités symboliques au centre du processus ethnique. Par contre, pour nombre d’écoliers issus de l’immigration, les interactions sociales propres à l’enfance qui devaient être leur parcours initial dans la citoyenneté deviennent un détour par l’échec, l’épreuve publique que, jeunes encore, ils font de leur dévalorisation culturelle. L’école, dit Françoise Lorcerie [7], enferme les jeunes minoritaires dans les frontières de leurs origines. Il ne suffit donc pas de dire que l’école voit le processus ethnique pénétrer par capillarité dans ses murs. Elle est elle-même l’un des espaces où, au travers d’expériences scolaires hiérarchisées, ce processus pose les bases de sa construction. Et on ne s’étonnera pas que, pour ces jeunes, l’école soit fréquemment perçue comme une imposition sociale humiliante qu’ils vivent comme la domination culturelle toujours active des sociétés ex-colonisatrices. La considération dérisoire qu’affichent régulièrement les jeunes minoritaires à l’égard de l’école ou, plus gravement, la violence qu’y font exister certains, peut alors être vue comme l’expression réactive à l’humiliation qu’ils y éprouvent.

Que l’affaire du foulard se soit déclarée, elle aussi, dans l’enceinte scolaire n’est pas chose anodine. Ce n’est pas par hasard que ce soit sur cette scène éminemment symbolique que des jeunes filles ont tenté d’introduire cette pièce d’habillement. Elle est, en effet, expressive d’un défi ethnique adressé à la laïcité, elle-même non moins expressive de l’identité ethnique républicaine. Certes, il y a une diversité de motivations dans le port du voile islamique. Il s’agit d’une pratique complexe qu’il serait téméraire de réduire à une univocité de signification. Mais si, ici, on accorde prioritairement l’attention à l’antagonisme identitaire qui s’y manifeste plutôt qu’aux divers contenus que ses partisans ou ses adversaires y discernent, c’est parce que, à partir du paradigme ethnique, la dimension polémique entre les valeurs invoquées de part et d’autre n’a valeur que d’instrument : le motif que l’on se donne pour édifier des frontières et organiser socialement la différence. La pièce vestimentaire que d’un côté on exhibe et à laquelle de l’autre on s’oppose, est surchargée de messages contradictoires et vise, paradoxalement, soit par l’affirmation soit par l’interdiction, d’abolir les sources d’une ségrégation. Les portes de l’école deviennent ainsi la frontière de l’universalisme égalitaire, tandis que le voile devient le symbole frontalier d’une exigence de respect des identités différentes. Aux yeux de la majorité, la perception des minoritaires en est transformée : par leurs filles, ils font publiquement état de ce qu’ils vont jusqu’à prétendre à une renégociation de ce qui définit les sphères du privé et du public. Nacira Guénif-Souilamas [8] a bien mis en lumière l’ambivalence de cette situation, montrant que, lorsque l’interdit est placé sur certaines manifestations symboliques de la dignité culturelle des origines, la domination ethnique des majoritaires est contestée par la confrontation dont ces jeunes filles se font les protagonistes. Dans cette opposition, il n’y a pas ceux qui ont raison et ceux qui ont tort. Il y a deux légitimités culturelles qui s’affrontent et qui prennent les filles à témoin du malentendu en les sommant de prendre parti. On peut penser que, d’abord déchirées par ce choix impossible, elles mettent ensuite en scène à l’école l’ébauche des réponses personnelles actuellement possibles et, sur la ligne de crête entre une ethnicité subie et une ethnicité voulue, elles tentent finalement d’ouvrir un espace de liberté.

Outre le rôle d’acteur ethnique joué respectivement par l’État-nation auquel la religion musulmane répond à la manière d’une « patrie portative », d’autres exemples d’interactions pourraient encore être évoqués. Il en va ainsi des politiques urbaines dans les « villes globales », où la conflictualité entre les classes sociales semble en définitive ne plus être ressentie comme aussi menaçante pour la démocratie que celle entre les cultures. On pourrait parler aussi de l’ethnostratification du marché du travail dont témoignent le différentiel des salaires et la discrimination à l’embauche. Si la rivalité entre salariés autochtones et immigrés n’a pas été sans entraîner des contradictions au sein des organisations syndicales elles-mêmes, c’est parce que la question sociale y est restée durablement posée dans des termes exclusivement socioéconomiques, ce qui postulait que, pour y trouver leur place, les immigrés devaient accepter d’oublier leur identité ethnoculturelle au profit de celle de travailleur.

Ainsi, au cours des dernières décennies, diverses expressions de l’ethnicité ont transparu dans les rapports entre majorité et minorité culturelles [9]. Elles tendent certes à définir des frontières entre « eux » et « nous », mais elles montrent en même temps que cette forme de relations clôturées relève moins d’une pure logique de séparation que d’une tension dans l’interdépendance. Les frontières ne font donc pas que séparer et ségréguer. Elles organisent aussi l’interaction dans la contiguïté dès lors que les différents groupes ne disparaissent pas par la simple absorption de l’un par l’autre. On peut donc dire que, même si c’est dans la rivalité et le conflit, l’ethnicité est un mode d’organisation sociale de la différence. Les acteurs se différencient certes sur base d’un contentieux où s’intriquent des facteurs tout à la fois économiques, politiques et culturels. Mais ce que ce mélange de facteurs révèle, c’est, d’une part, que les frontières ethniques ne sont jamais séparables d’un état global de l’organisation sociale et peuvent donc évoluer en fonction de sa transformation, et, d’autre part, que l’ethnicité est moins liée à la matérialité des ressources culturelles mobilisées par les acteurs qu’à la signification qui leur est donnée dans les interactions actuelles de leur monde. L’ethnicité n’organise donc pas des niches culturelles inexpugnables, mais la dramaturgie d’une société qui doit globalement se réintégrer, reconstituer des rapports sociaux qui apparaissent comme défaits, où chacun est renvoyé à son identité personnelle, mais qui demandent à être réarticulés dans une nouvelle identité collective.

 

Ne pas en rester à un usage partiel

 

S’il est vrai que l’usage des catégories de l’ethnicité va croissant dans les travaux des sciences sociales, on ne manque pas de constater néanmoins que, lorsqu’il n’est pas exclusivement dénonciateur des périls du communautarisme, il en reste le plus souvent à une vision partielle du phénomène où le vocable ethnique désigne exclusivement les autres. L’ethnicisation des relations sociales que l’on y envisage concerne les seules minorités qui ne sont considérées que comme les victimes d’une stigmatisation qu’elles ne font que subir. Un tel usage équivaut en fait à une simple dénonciation de l’imposition identitaire unilatérale dont l’ancien racisme colonial était capable. Or, n’est-on pas dans une nouvelle séquence historique qui, pour les sciences sociales tout au moins, devrait mettre un terme à cet usage unilatéral ? Comme le suggère l’anthropologue indien Arjun Appadurai [10], ne faut-il pas admettre qu’après le colonialisme, la grande question pour les sciences sociales n’est plus principalement de traquer les suites de la colonisation telles qu’elles peuvent se perpétuer dans les discriminations des sociétés européennes, mais d’arriver à une pensée transformée, au-delà de la logique à l’œuvre dans les prétentions intellectuelles de la période coloniale qui substantifiait l’ethnicité et ne l’appliquait qu’aux autres ? Il s’agit, dit-il, non pas de se contenter de penser l’après-colonialisme mais surtout de parvenir à penser après le colonialisme en purgeant la pensée de ce qui reste en elle de son unilatéralisme intellectuel ancien. Ce qui invite à analyser les interactions sociales propres à l’Europe multiculturelle en tenant compte de ce que, comme y insiste F. Barth, on n’assiste jamais à l’apparition d’une affirmation ethnique isolée, mais à un système d’affirmations ethniques indissociables qui, par le truchement d’imputations identitaires croisées, se répondent en vue d’organiser les appartenances, les frontières et les rapports entre les anciens établis majoritaires et les nouveaux entrants minoritaires.

Hélène Bertheleu [11] a fort bien identifié les résistances qu’il y a en France à franchir le pas d’une telle démarche. Elle souligne que tout au long des années 1990, beaucoup d’intellectuels furent convaincus qu’il fallait résister à la montée des particularismes qui équivalaient à leurs yeux à une fragmentation ou une balkanisation de la société française. De leur point de vue, rejeter l’usage de la notion d’ethnicité participait directement au soutien de la pensée républicaine universaliste. Et si au cours des années plus récentes l’expression « ethnicisation des relations sociales » est entrée malgré tout dans le vocabulaire des sciences sociales, ce n’est toutefois qu’au prix d’une sérieuse réduction de sa portée. C’est-à-dire en en restant au seul point de vue de la majorité et des soucis que peut inspirer aux mandataires publics la gestion d’une société de plus en plus composite au sein de laquelle la stigmatisation ethnique des minorités vient anormalement redoubler l’exclusion économique et politique dont elles pâtissent déjà. En creux s’affiche ainsi l’idée que l’on aurait dû normalement en rester à la perspective assimilationniste du traitement de la question migratoire. Mais ce qui est surtout obtenu grâce à cette manière d’utiliser la notion d’ethnicité, c’est que la catégorie nationale française elle-même ne soit pas ramenée au rang de groupe ethnique. Une telle manière de raisonner équivaut cependant à occulter les dimensions constructiviste et interactionniste qui constituaient le principal du potentiel théorique de l’ethnicité comme catégorie analytique de l’action. Elle demeure donc largement impensée dans ce pays, conclut H. Bertheleu.

 

Une réintégration de la société globale

 

Dans l’Europe qui voit s’élargir les sources de son peuplement en même temps que la question des identités y prend une forme inédite, il s’agit de parvenir à gérer une nouvelle configuration de la conflictualité sociale. Et il faut parler d’une réintégration de la société globale parce que l’idée d’intégration n’est pas une idée dynamique, capable de nous éclairer au sujet des processus socioculturels en cours dans une société dont l’histoire n’est pas finie. On ne peut s’en remettre à une conception monumentaliste de la société, qui la voit comme un ensemble achevé et quasi immuable, imposant et admirable dans lequel les immigrés ne pourraient aspirer qu’à faire disparaître leurs identités d’origine. Si pour penser la nouvelle conflictualité sociale il n’y a eu longtemps, particulièrement en France, aucune place pour le paradigme ethnique, c’est notamment parce que la question de la citoyenneté y a été phagocytée par celle de la nationalité qui faisait de l’intégration un impératif capable de dissimuler les modalités complexes de la construction des appartenances collectives. Mais la nationalité, qui est elle-même une notion politico-culturelle historiquement située, n’est plus à même de remplir cette fonction aujourd’hui. Et comme le fait valoir Herman van Gunsteren [12], l’alternative culturelle entre le communautarisme et l’universalisme est précisément ce dont la théorie politique de la citoyenneté doit chercher à sortir aujourd’hui. Car la communauté de destin des individus rassemblés par l’histoire sur un même territoire n’a donné naissance qu’à une « citoyenneté imparfaite ». C’est-à-dire à un type d’accomplissement politique qui, au travers d’une multiplicité d’identifications sociales reliant entre eux les individus en même temps qu’elles les opposent, n’assure que provisoirement une maîtrise du lien collectif jugée acceptable. En d’autres termes, les contenus de la citoyenneté confondus avec la conformité culturelle de la nationalité n’ont jamais constitué une réalité achevée, située en dehors des tensions sociales et des rapports de pouvoir. Ils ne correspondent pas à une norme définitivement établie et font continuellement l’objet de luttes non seulement pour les défendre, mais aussi pour les réinterpréter et les étendre.

Le travail du chercheur n’est pas de juger et de prescrire, mais d’abord de comprendre. Dans la présente note, on a simplement voulu montrer que les catégories de l’ethnicité n’ont pas qu’une utilité statistique et qu’elles peuvent constituer un paradigme fécond qui apporte un nouvel éclairage au moment où, sans qu’il soit nécessaire de prétendre que tous les rapports sociaux relèvent d’elles, dans les sociétés européennes contemporaines elles mettent néanmoins en lumière des clivages basés sur une différenciation sociale autre que celles plus traditionnelles de la classe, du sexe ou de l’âge. La reconnaissance de ces clivages ouvre une perspective supplémentaire à l’étude de l’espace public vu tout à la fois comme espace de risque et espace d’accomplissement social. Les catégories de l’ethnicité permettent de comprendre comment naissent, se croisent et deviennent politiques des pratiques consécutives au rassemblement de différentes identités culturelles dans un même espace. Et que ce n’est pas de la bienveillance des uns pour les autres mais au contraire de l’émoi et des désaccords face à ce qui, de part et d’autre, est perçu comme une menace ou comme un risque, que, dépassant leurs contradictions, les sociétés ethniques s’attèlent à la construction d’un nouveau faisceau de normes communes. C’est par le biais de compromis successifs qu’est donc progressivement rediscutée l’autoréférentialité dont spontanément les différentes cultures se réclament et que se créent des possibilités d’action commune entre des parties qui, au départ, s’évitaient par l’érection de frontières entre elles. Ainsi se prépare la mise en forme d’institutions politiques autres que celles qui régissaient les sociétés monoculturelles.

Il est temps de sortir des faux procès en hérésie culturaliste et cesser d’agiter le spectre du communautarisme que la notion d’ethnicité n’est pas soupçonnable de couvrir. Car elle vise précisément à établir que, si la référence à la culture est distincte et ne peut être réduite à n’être qu’une fausse conscience dérivée de l’économique et du politique, cette référence n’a néanmoins pas d’existence en dehors de ses rapports avec ces autres éléments constitutifs de l’agir humain. Avec l’ethnicité, il ne s’agit pas de privilégier le domaine des pratiques culturelles, mais d’affirmer que la vie est action et qu’elle est, notamment, culturelle dans son action. Il faut conférer sa place à la culture dans l’analyse de la dynamique sociale au sein de laquelle, avec les domaines économique et politique, elle donne sa forme à ce que Marcel Mauss appelle le « fait social total ».

par Albert Bastenier [14-10-2008]

Notes
[1] Michèle Tribalat, « Hétérogénéité ethnoculturelle et cohésion sociale », dans [Futuribles, juillet-août 2007, n°332, pp. 71-84.

[2] François Héran, Le temps des immigrés. Essai sur le destin de la population française, Seuil, La république des idées, 2007.

[3] J’ai tenté de montrer la fécondité intellectuelle de ces notions dans mon ouvrage Qu’est-ce qu’une société ethnique ? Ethnicité et racisme dans les sociétés européennes d’immigration, P.U.F., Coll. Sociologie d’aujourd’hui, 2004.

[4] Citant David Miller (Citizenship and National Identity, Cambridge, Polity Press, 2000), M. Tribalat définit le multiculturalisme radical comme une politique uniquement soucieuse de la préservation des différences sans souci pour l’identification avec la communauté nationale et l’État.

[5] Fredrik Barth, « Les groupes ethniques et leurs frontières », traduction française dans P. Poutignat et J. Streiff-Fenart, Théories de l’ethnicité, PUF, 1995.

[6] Parmi tous les auteurs qu’il faudrait citer, on retiendra Stuart Hall, Paul Gilroy, Achille Mbembe, Homi Bhabha, Arjun Appadurai.

[7] Françoise Lorcerie, L’école et le défi ethnique. Éducation et intégration, INRP-ESF, 2003.

[8] Nacira Guénif-Souilamas, « Les beurettes aujourd’hui », dans F. Lorcerie , 2003, op. cit.

[9] Dans mon ouvrage sur la société ethnique, j’ai consacré de longs développements aux expressions concrètes de la conscience identitaire tant de la majorité que de la minorité ethniques.

[10] Arjun Appadurai, Après le colonialisme. Les conséquences culturelles de la globalisation, Payot, 2001.

[11] Hélène Bertheleu, « Sens et usage de l’ethnicisation. Le regard majoritaire sur les rapports sociaux ethniques », dans Revue Européenne des Migrations Internationales, 2007, vol.23, n°2, pp. 7-26.

[12] Herman van Gunsteren, A Theory of Citizenship. Organizing Plurality in Contemporary Democracies, Westview Press, 1998.

Source : http://www.laviedesidees.fr

 


 

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vendredi, 23 janvier 2009

Autopsie de la crise financière

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AUTOPSIE DE LA CRISE FINANCIÈRE


« Le spéculateur, la crise financière qui secoue l’économie mondiale n’est que l’aboutissement logique d’une évolution qui s’est accélérée. Par son développement même, le capitalisme a atteint des limites qu’il est incapable de dépasser et ne survit que par des subterfuges à la crise de ses trois piliers : l’accumulation du capital, la consommation, le travail.


Du fait des gains croissants de productivité et de la baisse de contenu en travail des produits, la production n’est plus capable de valoriser l’ensemble des capitaux accumulés, une partie croissante de ceux-ci conservant la forme de capital financier. Une industrie financière s’est constituée qui ne cesse d’affiner l’art de faire de l’argent en n’achetant et ne vendant rien d’autres que diverses formes d’argent. C’est cette industrie que nous voyons s’écrouler. Cette impossibilité croissante de valoriser le capital est accentuée par la baisse du pouvoir d’achat dans tous les pays ayant adopté le dogme néolibéral. Le recours à l’endettement massif, dont les subprimes ne sont que le dernier épisode, a servi à masquer cette évidence en poussant des millions de travailleurs à consommer des richesses qu’ils n’avaient pas encore créées. C’est cette course à l’endettement qui vient de s’enrayer. Elle devrait logiquement être suivie par un effondrement de la consommation. Cet effondrement de la consommation sera lui-même accentué par la disparition du travail-emploi-marchandise. Ce n’est pas seulement le plein emploi, c’est l’emploi lui-même que le post-fordisme a entrepris de supprimer. Derrière des taux de chômage flatteurs et très souvent manipulés, cette destruction est visible dans la réalité des chiffres de la durée du travail qui traduit une dégradation très profonde de la qualité des derniers emplois créés. (...)


Par cette évolution, en détruisant ses moteurs, le capitalisme travaille à sa propre extinction et fait naître des possibilités sans précédent de passer à une économie affranchie de la domination du capital sur le mode de vie, les besoins et la manière de les satisfaire. C’est cette domination qui demeure l’obstacle insurmontable à la limitation de la production et de la consommation. Elle conduit à ce que nous ne produisons rien de ce que nous consommons et ne consommons rien de ce que nous produisons. Tous nos désirs et nos besoins sont des besoins et des désirs de marchandises, donc des besoins d’argent. L’idée du suffisant – l’idée d’une limite au-delà de laquelle nous produirions ou achèterions trop, c’est-à-dire plus qu’il ne nous en faut – n’appartient pas à l’économie ni à l’imagination économique. Elle peut par contre appartenir à l’imagination citoyenne. »



TTO, "Crise Financière ou Agonie du Capitalisme ?", Agoravox, 30 septembre 2008

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La ultima mentira del regimen Bush

 

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La última mentira del régimen Bush




En el 1600 de la Avenida Pensilvania, George W. Bush concluye su oprobioso gobierno de dos periodos dejando al país sumido en una profunda crisis social, política, militar y económica.

Diciendo combatir el terrorismo y arrogándose derechos preventivos globales, el Régimen Bush aterrorizó a su propio pueblo, destruyó la confianza, disminuyó la clase media, aumentó la pobreza y el suicidio, arremetió contra los demás poderes, denigró la Constitución, desfalcó las arcas fiscales, acabó con el sistema financiero – como lo conocíamos - debilitó sus fuerzas armadas y sentenció a muerte a miles, quizás millones de personas alrededor del planeta. 

Con amenazas, descalificaciones y ataques personales a sus críticos, el Régimen Bush condujo un gobierno basado en la desinformación, verdades a media y mentiras puras. En Noviembre del 2007, mientras le buscaba un reemplazante a Rumsfeld, Bush continuaba insistiendo en que el Ministro de Defensa se quedaría en su puesto hasta el final de su presidencia. Días más tarde, después de anunciar la partida de Rumsfeld, Bush reconocía haber mentido. Riendo, Bush lo admitió: “La única forma de pasar a otra pregunta fue decirles esa (mentira) respuesta,” dijo.

Llegóß al gobierno anunciado ser un unificador, un conservador compasionado. Pero demostró con hechos reales ser todo lo contrario. Mientras rebajaba los impuestos a los ricos, la inoperancia y negligencia de un gobierno corrupto dejó un déficit fiscal de casi 700 billones de dólares (Al salir, Clinton dejo un saldo fiscal positivo de 100 billones.)
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La dictadura del Ejecutivo

Aprovechándose de debilidades en la ley, Bush arremetió en contra del proceso legislativo al anexar declaraciones firmadas al final de los textos legislativos aprobadas por el Parlamento y que no fueron de su agrado. Son comentarios y agregados extras en donde el Presidente deja constancia de su oposición y su intento de ignorar dicha ley. Según el periódico Boston Globe, Bush “a reclamado su autoridad para sortear mas de 750 estatutos, que son preceptos incluidos en por lo menos 150 leyes o legislaciones.” (B.G. 04-05-06).

Utilizando y abusando de los “privilegios del Ejecutivo,” y neutralizando la autoridad del Congreso, Bush estableció un sistema presidencial dictatorial nunca antes visto. El establecimiento de la Presidencia, del Ejecutivo, como poder absoluto no solo ha subvertido la Constitución, también ha demostrado la fragilidad del sistema político de tres poderes – de vigilancia y de balances - establecido por los padres de la patria en 1789.

Los historiadores podrán recordar estos ocho años como la Era Bush, pero sería injusto acreditarle a George todas las acciones y consecuencias de su régimen.

El Presidente, tejano un tanto ingenuo, falto de carácter, inculto y hasta ordinario, que siempre ocultó sus notas universitarias para evitar la vergüenza de ser pésimo estudiante, fue a su vez gobernado por su cartel de Texas - un círculo impenetrable de leales amigos millonarios - por Karl Rove, su cerebro, y Dick Cheney y su secreta vise presidencia.

Hasta los últimos meses de su presidencia Bush trató de evitar aparecer en actividades sociales privadas con Cheney. Cuando los dos aparecían juntos la gente, naturalmente, cortejaba y reverenciaba a Cheney como el personaje más poderoso del Ejecutivo.

Y fue el propio Cheney quien abrió las puertas a un grupo más poderoso que el Judicial, el Legislativo y el mismo Ejecutivo. Cuando estableció la comisión secreta para determinar las políticas energéticas, las gigantes corporaciones se establecieron como un omnipotente Cuarto Poder, con entrada directa a la oficina de Cheney. 

Al elegir al Presidente en el 2000, el Poder Judicial, la Corte Suprema (por un voto de 5 a 4), le despojo estos poderes del Parlamento. El Congreso ha quedado debilitado. Como nunca antes sus poderes han sucumbido al poder presidencial. El Congreso ya no declara guerras. Solo se necesita una orden presidencial o una resolución parlamentaria (no una declaración de guerra formal) para una misión militar y eso es suficiente para invadir países. 

Con el Acta Patriótica del 2001 el Régimen se apropió de los deberes del poder Judicial, impuso el espionaje a los ciudadanos dándoles de pasada inmunidad a las grandes compañías de la comunicación que colaboran con el espionajes, como Verizon y AT&T entre otras.

La designación “combatiente enemigo” es suficiente para secuestrar y encarcelar a cualquiera, en Guantánamo o en las llamadas cárceles negras mantenidas por la CIA alrededor del mundo. Una vez mas el Ejecutivo – sin la intervención del Congreso - se arroga poderes para despojar a cualquiera de los derechos individuales tan básicos como el habeas corpus, el abogado, y el término inocente hasta que se pruebe culpabilidad. El Régimen canceló los acuerdos de la Convención de Ginebra para torturar y apremiar físicamente a sus prisioneros.

El estrepitoso final estremece a la tierra entera

Al país le costará generaciones enteras recuperar la seguridad, la confianza hacia su sistema económico y la autoridad moral, nacional e internacionalmente malograda por la Era de Bush. El Régimen Bush concluye con un estrepitoso final que estremece a la tierra entera. El legado republicano del libre albedrío esta socavando la médula misma del sistema capitalista estadounidense. El embate que casi acabó con Wall Street erosionó la confianza puesta en el llamado sueño americano y amenaza con el mismo fin del imperio. 

Bajo el Régimen Bush la corrupción y libertinaje de las grandes corporaciones y compañías financieras alcanzó su máxima expresión asestando un duro golpe al sistema financiero nacional e internacional.

En septiembre del 2001, terroristas internacionales derribaron dos edificios, imponentes símbolos del capitalismo, 7 años más tarde, también en septiembre, especuladores terroristas nacionales acabaron con el capitalismo financiero como lo conocíamos.

Las grandes corporaciones y hasta el mercado de valores reinaron sin supervisión alguna. Un desembocado capitalismo premió a los ricos con suculentos descuentos impositivos e hizo vista gorda a los delitos, fraudes, errores y excesos de las corporaciones. El mismo capitalismo que suspende la ayuda social a madres solteras pobres pero que pone en dinero el equivalente a la mitad del presupuesto nacional para salvar a las grandes corporaciones.

Del sueño americano a la pesadilla de la incertidumbre.

Amparados en un Presidente que hizo sus primeros millones especulando con el precio del crudo (con el dinero de su papa, claro está), la descontrolada industria del petróleo acusó billones en ganancias, mientras los especuladores mantuvieron secuestrado el valor de la gasolina, aumentando los precios de los alimentos y de todos los artículos de primera necesidad.

El sistema democrático que Bush enarbolaba después de cada invasión, se ha convertido en un sistema oligárquico que llevó al país a la recesión y la incertidumbre ciudadana. Hoy, como nunca antes, los ciudadanos del sueño americano se enfrentan a la pesadilla de la inseguridad, del miedo y la incertidumbre. 

Abarrotada en deudas, la clase media se encuentra a merced de un insaciable mercado y paga las consecuencias de un Régimen que privatiza asuntos que son del interés público, de un Régimen de beneficencia corporativa, que está en contra del control estatal pero que no escatima esfuerzos por socorrer a las grandes corporaciones, nacionalizando Wall Street con astronómicas sumas de dineros públicos. 

El símbolo más importante del sueño americano y el sustento de la economía familiar - la casa propia - fue agraviado por un mercado especulativo y una industria inmobiliaria delirante de ganancias a toda costa, a cualquier consecuencia. El debacle inmobiliario que convirtió el sueño en pesadilla, continúa - con coletazos globales - desposeyendo a millones de sus casas.

Difícil tarea recobrar la confianza del concierto de naciones

La estrategia de seguridad nacional ideada por los neoconservadores (neocons) que llegaron a Washington con Bush, fue la guía ideológica que este siguió para el establecimiento de la superpotencia militar global. Cuando Bush la firmó en el 2002, esta estrategia se convirtió en política gubernamental, en la amenaza oficial al resto del mundo. Los EEUU se atribuyeron el derecho del ataque preventivo a cualquier nación.

Mucho antes de los ataques del once de septiembre de 2001, los neocons - la expresión ultra-derechista que asumió el control de la política exterior de Bush – ya habían previsto la necesidad de un nuevo Pearl Harbor para justificar un ataque (posiblemente Irak) que justificara la nueva posición de los EE.UU. en la dominación y control global. Los planes para invadir Irak fueron trazados bajo la presidencia de Bush padre.

En cinco años de ocupación, el Régimen Bush deja Irak con un sistema de gobierno incoherente, una sociedad dividida y diezmada por la violencia en donde emigrar es la única alternativa. Irak sufre un imparable éxodo que sobrepasa el diez por ciento de su población. 

La democracia estadounidense, impuesta a la fuerza por el Régimen Bush, convirtió a Irak en un antro de corrupción. Las fuerzas militares privadas, los mercenarios, se las jugaron para ganar a cualquier precio los millonarios contratos del régimen.

De acuerdo a las estadísticas de la organización Transparencia Internacional, después de Somalia, Irak es uno de los países mas corrompidos del planeta, en donde los ministros se niegan a hacer públicos sus ingresos anuales y más de treinta funcionarios que investigan casos de corrupción han sido asesinados.

Al igual como espiaron las oficinas del gobierno de Irak, el Régimen Bush instaló aparatos electrónicos de espionajes en las oficinas de las delegaciones de países miembros de las Naciones Unidas. El desprestigiado proceso que llevó a la invasión a Irak le costó al país no solo la perdida de miles de vidas, sino también la pérdida de credibilidad, el aislamiento, el ostracismo del resto del mundo. Difícil tarea le tocará al próximo presidente para recobrar la confianza del concierto de naciones.

La última mentira del Régimen Bush

Bush está dejando la presidencia tal como la comenzó; encerrado en la misma burbuja en la que vivió aislado por los últimos ocho años.

Durantes estos últimos días, muy cerca del esperado final, los últimos tres sobrevivientes y tercos defensores del régimen, Dick Cheney, Condoleezza Rice y el propio Bush, se lanzaron en una ofensiva publicitaria para tratar de cambiar la imagen que el régimen ya tiene en la historia.

Los “tres amigos” destacaron los logros del Régimen en la guerra contra el terrorismo. Gracias al Régimen Bush el país y el mundo están mas seguros de la amenaza terrorista, dijeron.

El periodista investigador Eric Brewer le pregunta al secretario de prensa subrogante Scout Stanzel: el gobierno “se ha estado jactando sobre el éxito de la guerra en contra del terrorismo del Presidente, pero los datos de RAND Corporation, muestran que los índices del terrorismo global, medidos por el número de personas muertas por año, ha aumentado cinco veces durante la presidencia de Bush. Y según las estadísticas sobre terrorismo del mismo gobierno, 2007, con mas de 22 mil personas muertas alrededor del mundo, fue el peor año. ¿Considera el Presidente esos números un éxito? No fue necesario poner el subterfugio respondido por el funcionario. (
www.rawstory.com. 10/01/09)

En entrevistas exclusivas con timoratos reporteros de televisión estos funcionaron trataron a toda costa de ubicarse en los primeros asientos del teatro de la historia. A última hora trataron inútilmente de cambiarle el tono a la historia y de encontrarle algún lugar “honroso” al Régimen. 

Difícil tarea. Incluso con mentiras. Así es, se siguió mintiendo hasta el final. Al referirse a los últimos prisioneros de Guantánamo estos funcionarios aseguraron que los que quedan son los mas malos “lo peor de lo peor,” o como dijo Cheney en una entrevista radial el pasado martes: “…ahora lo que queda, esos son los incondicionales,” (New York Times. NYT. 18/01/09). 

La última gran mentira del régimen fue desenmascarada el sábado pasado cuando silenciosamente el ciudadano de Afganistán Haji Bismullah, comprobado hombre totalmente inocente, fue enviado a su país en libertad después de seis años de cárcel y torturas. 

De apoco se esta comprobando el hecho de que gran parte de los detenidos en Guantánamo son hombre inocentes encarcelados por una política de venganza a toda costa, de resultados inmediatos, del Régimen. Hasta la fecha, 24 casos de detenidos (el 10% de los 245 prisioneros) han sido expuestos como detenciones indebidas.

En su libro acusatorio de Bush y su presidencia, el fiscal y autor Vincent Bugliosi concluye: “…
durante todo este mar de sangre y los alaridos y llantos que se escuchan desde ese pedazo de infierno creado por él en la tierra - increíblemente durante todo este tiempo - el se ríe, hace bromas, y disfruta cada día de su presidencia. Nos ha dicho voy a tener ‘un día perfecto. Laura y yo hemos tenido un año fabuloso, y la estamos pasando como nunca antes en nuestras vidas.’ … además de su trascendental criminalidad, Bush nos ha dado la foto perfecta de la repugnancia extrema, de un osado y vulgar grosero…” Vincent Bugliosi. El Juicio Contra George W. Bush por Asesinato / The Prosecution of George W. Bush for Murder. Vanguard Press (Mayo 26, 2008)

 

mardi, 20 janvier 2009

Spunti di riflessione sulla crisi economica

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http://www.rinascita.info/

 

Spunti di riflessione sulla crisi economica

  

Mercoledì 14 Gennaio 2009 – 17:50 – Vittoriano Peyrani

  
 



Per risolvere la crisi economica in atto i nostri politici suggeriscono di aumentare i consumi, rimedio pericoloso per l’ecosistema e per il senso morale poiché suggerisce di comprare e discaricare oggetti con maggiore frequenza. Questo, poi, in un sistema globalizzato rischia di far aumentare le importazioni di prodotti finiti da altre nazioni che, sfruttando oltre ogni limite la loro manodopera, possono permettersi una concorrenza sleale. Diversamente, cioè comprando prodotti italiani, si aumenterebbe comunque l’importazione di materie prime generando ugualmente più forti passivi di bilancio con conseguente pericoloso esborso di interessi passivi sul debito. In ultima analisi si avvantaggerebbe solo il sistema bancario.
Gli economisti, invece, suggeriscono di fare investimenti per aumentare la produttività rischiando di far sprecare risorse in quanto la recessione generale mette in forse la possibilità di vendita sia all’interno che all’estero. […]

Si deve evitare di perpetuare il potere delle banche internazionali che si basa su di un grave sfruttamento del lavoro e dei consumatori.

L’economia classica è funzionale al potere parassitario degli attuali signori del denaro e non può portare soluzioni positive ai problemi perché ha già fallito con disastri ancora non del tutto calcolabili.


Economisti e politici, con una modestia che purtroppo non hanno mai dimostrato, studino con attenzione come si fece in Italia ad attenuare la crisi economica del 1929, anche allora iniziata negli Stati Uniti.


L’Italia era stata oggetto di sanzioni gravissime da parte degli stati aderenti alla Società delle Nazioni, angloamericani e francesi in primis. Era stata costretta a ricorrere ad una autarchia dispendiosa e di complessa realizzazione.
Certo allora eravamo governati da un dittatore che in realtà tale non era potendo solo legiferare, come anche ora spesso avviene, per decreti. Questi dovevano essere poi approvati dai due rami del parlamento, Camera della Corporazioni che rappresentava il mondo del lavoro, della cultura e delle arti, e Senato del Regno, di nomina regia e quindi non controllabile dal cosiddetto dittatore. Comunque il sistema era basato su di un consenso popolare di gran lunga superiore a quello dei governi attuali che sono oggetto di grande dissenso e critiche perché non prendono in nessuna considerazione i bisogni delle famiglie.


Il successo fu dovuto alla scelta di leggi e di uomini.
Vediamo che cosa dovrebbero recepire gli studiosi dall’esame del passato per trovare le cause e i rimedi ai guasti di oggi:

1) Innanzitutto lo studio del passato dimostra che un sistema globalizzato non è utile al miglioramento della condizione dei popoli ma è solo un meccanismo favorevole all’accentramento del dominio politico planetario da parte della finanza. Se mai, invece, la globalizzazione porta in sé i germi di mali incontrollabili, come inflazione, stagflazione, deflazione.
il libero mercato non è che una formula ipocrita per favorire i gruppi commerciali più forti e non certo per aumentare il benessere e la libertà di tutti.


In un sistema caratterizzato dal gigantismo e dalla liberalizzazione dei monopoli statali, la concorrenza non può verificarsi per gli incroci di possesso di azioni fra gruppi che dovrebbero confrontarsi sfidandosi con l’abbassamento dei prezzi, ma che non lo fanno perché avvantaggerebbero un’azienda e ne danneggerebbero un’altra, sempre di loro proprietà.


In conclusione gli incentivi alla produzione ed al consumo possono avere effetti solo in mercati circoscritti e che si possano proteggere con sistemi doganali efficaci, cosa che viene demonizzata in ogni modo dal pensiero unico democratico.
Nelle recenti riunioni del “G8” e del “G20” si è stabilito che i rimedi devono essere uguali e concordati in tutto il pianeta ma si attende quanto proporrà il neopresidente Obama non appena sarà integrato nelle sue funzioni. In sostanza si aspetta il verbo del presidente del paese che ha generato la crisi, che ha tutte le intenzioni di farla pagare agli altri, che continuerà sulla strada del liberismo che ha creato questa devastazione per i risparmiatori di tutto il mondo. Egli ha condotto la campagna elettorale (come del resto pure il suo avversario Mac Cain) con i soldi dei banchieri che ora controllano il suo operare.

 
Si parla di una nuova Bretton Wood per mantenere, attraverso una moneta unica di riferimento a livello planetario, ancora il dollaro, il potere finanziario nelle mani di coloro che da queste devastazioni hanno sicuramente ottenuto arricchimenti ancora più veloci. Gli Stati Uniti, attraverso gli enti finanziari in loro potere, come Banca dei Regolamenti Internazionali, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale ed altri ancora, cercano con le buone come aperture di credito. sorvolando sui conseguenti interessi, o con le cattive (guerre, ritorsioni economiche, sanzioni, minacce) di evitare decisioni autonome degli altri paesi mentre stanno strangolandoli e appropriandosi delle loro ricchezze più rapidamente che mai. Sanno benissimo che la prima nazione che si sgancerà dal sistema monetario internazionale ne avrà grandi vantaggi ma sfuggirà alla loro presa.


Studiando la storia si dovrebbe notare che l’Italia, in un breve ventennio, nonostante una crisi economica internazionale di gran lunga superiore a quella che fino ad ora si sta presentando e nonostante una chiusura autarchica imposta dal resto del mondo con le sanzioni, ebbe momenti di una certa prosperità: si studino quali provvedimenti furono presi e li si adattino ai nostri tempi.


E più ancora si studi la Germania Nazionalsocialista che dal 1933 al 1939, cioè in soli sei anni, in un sistema economicamente chiuso, cioè senza sfruttare colonie o mercati altrui, trovò lavoro per quattordici milioni di disoccupati e portò alle famiglie un benessere prima sconosciuto.


Non si vuole studiare quali interventi legislativi e quali modalità di scelte di uomini si attuarono e non si vuole applicare oggi quanto vi era di positivo, con le opportune modifiche imposte dai tempi. Questo implicherebbe, infatti, una drastica riduzione del libero mercato, cioè a dire della libera speculazione, che i signori del denaro non vogliono accettare.
Concludendo la rovina attuale è generata dai seguenti fattori.


La globalizzazione che ha tolto ogni freno alla esagerata cupidigia delle banche e delle multinazionali del commercio. Basti un esempio: il petrolio è salito da 30 a 150 dollari al barile non per la tanto decantata legge della domanda e dell’offerta (non è mai mancato o scarseggiato) e non per aumenti dei costi di produzione ma solo per lo spostamento dell’attenzione e degli investimenti dalle borse, in crisi, al mercato delle materie prime da parte di chi non voleva diminuire i propri usuali enormi guadagni. Tali operazioni sono state pagate dagli automobilisti, oltre cha da tutto il sistema economico, con un tremendo aumento dei prezzi. Questa è una delle concause della attuale crisi.


Le liberalizzazioni. Le aziende nazionalizzate talvolta funzionavano egregiamente come le Poste Italiane, le Ferrovie dello Stato, E.N.I., E.N.E.L, A.G.I.P., S.A.I.P.E.M. e molte altre. Alcune invece avevano un forte passivo. La colpa gravissima della burocrazia politico-amministrativa statale, è che, invece di sistemarle le ha fatte andare peggio per poi svenderle al capitale nazionale o straniero. Non si può ignorare l’evidente corredo di conflitti di interessi e tangenti date a quei politici che hanno deciso l’operazione e che precedentemente erano stati consulenti delle grandi banche acquirenti (sic!).


Il signoraggio della moneta concesso a banche private crea un artificioso debito pubblico perché i governi, invece di stampare in proprio moneta in biglietti di stato, si indebitano con le banche che creano denaro dal nulla (biglietti di banca), senza alcuna copertura o garanzia aurea o in beni immobiliari e lo imprestano agli stati contro interesse. Gli stupidi pensano che se battesse moneta lo stato creerebbe, esagerando nell’emissione, una grave inflazione ed hanno più fiducia nelle banche private. Santa ingenuità! I risultati delle sovranità monetaria ceduta ai privati si vedono nella crisi spaventosa che incombe su di noi tutti. I privati hanno come scopo unico del loro agire il guadagno e siccome non vi è alcun controllo popolare, democratico o di enti appositi, superano ogni limite immaginabile di ingordigia.


Il disordine, l’incapacità, di una classe dirigente inetta, corrotta e meschina non controllata in nessun modo da governo o da enti costituiti al proposito.


Il sistema politico che crea irresponsabilità dei vertici e della gerarchia esponendola al ricatto ed alla corruzione di un sistema finanziario strapotente ed incontrollato che vive sull’equivoco di un potere che salirebbe dal basso, con le elezioni. Il potere invece, da qualche secolo, discende dai poteri forti finanziari internazionali. Prova ne sia che tutti indistintamente i nostri politici della maggioranza ma anche dell’opposizione, si recano negli Stati Uniti, evidentemente per la conferma della investitura nelle loro funzioni. Questo sistema crea poi un’inversione dei valori veramente immorale; si pensi solo al fatto che un qualsiasi maneggione di una cooperativa di prestazioni d’opera può in pratica scegliere chi mandare a lavorare e chi no mentre al datore di lavoro, che paga le tasse, supera la rete di disposizioni paralizzanti, crea lavoro, investe e rischia il proprio denaro, la legge non da questa possibilità! […]


Gli economisti ed i politici, già declassati nella stima generale per non aver previsto questa crisi e per non saper quali provvedimenti prendere per superarla, devono snebbiarsi il cervello dai pregiudizi indotti da un pressione fortissima a favore della globalizzazione: è stata questa a portare la rovina e la porterà sempre più in futuro. Che si debba abbandonare il sistema economico attuale lo prova il fatto che, dopo che gli Stati Uniti hanno immesso in circolazione 700 e più miliardi di dollari, creando le premesse per una grave svalutazione della moneta e quindi della retribuzione del lavoro, l’Europa ed il Giappone sono state costrette a fare altrettanto perché diversamente ci sarebbero state ripercussioni negative sull’equilibrio dell’import-export. […]

Per evitare la iattura dell’abbassamento del nostro tenore di vita senza nemmeno vantaggio per i paesi emergenti ma solo per le multinazionali commerciali, dunque, la soluzione è quella di dimenticare, almeno parzialmente e provvisoriamente, il libero mercato selvaggio. I paesi emergenti devono, in altre parole, consumare la loro superproduzione all’interno, considerato anche che le loro popolazioni hanno bassissimi consumi e sfruttano i loro concittadini creando un danno a loro ed a noi.

E poi, chi andrà a raccontare ai disoccupati che il libero mercato è indispensabile al miglioramento generale dell’economia quando oggi appare evidente che esso serve solo allo sfrenato arricchimento della compagnie commerciali? Il libero scambio dei prodotti è solo funzionale ai poteri forti internazionali che non vogliono mollare la presa per quanto riguarda il loro dominio sul pianeta attraverso il denaro. Studiando il passato si deve ricordare che una cosa sono i sistemi politici, discutibili finché si vuole, altro sono i risultati economici ottenuti con la socializzazione delle imprese e la compartecipazione dei lavoratori agli utili. In questo modo i lavoratori sono innalzati a sentirsi parte attiva e responsabile di un progetto generale con risultati socio-economici inimmaginabili dagli economisti di maniera. L’ideologia liberista ha già dato rovinosa prova della sua applicazione. Occorre un cambiamento radicale.

00:25 Publié dans Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : actualité, crise, finances, usure, usurocratie, économie, banques | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook