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samedi, 27 mars 2010

Il male atlantista

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Il male atlantista

di Fabio Falchi

Fonte: fabiofalchicultura

 

L'egemonia americana è conquistata in ambito culturale: è per questo che oltre alla critica socioeconomica, c'è bisogno di una "battaglia culturale".



Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

anti_nato_tshirt.jpgE' noto che il filosofo tedesco Carl Schmitt, interpretando la famosa tesi di von Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ritiene che la politica sia, in un certo senso, la continuazione della guerra con altri mezzi. Categorie decisive per comprendere il Politico sarebbero pertanto due: amico o nemico. Una visione del Politico certamente realistica, che forse ha il difetto di fondarsi, in parte, su una antropologia tutt'altro che convincente come quella di Hobbes, poiché Schmitt condivide l'idea del filosofo inglese secondo cui "auctoritas non veritas facit legem". Il che implica che "auctoritas" sia contrapposta, e non solo distinta, da "veritas"; ossia un'idea che pare trascurare il nesso tra "cosmo" ("veritas") ed agire rettamente orientato ("auctoritas", diversa dalla mera potenza, dalla "potestas" che è la facoltà di imporre la propria volontà mediante la legge), che rende ragione del fatto che Roma (della cui efficienza politica e militare nessuno può seriamente dubitare) fosse sempre attenta a seguire una linea politica conforme alla propria "tradizione" ed a ciò che, ad esempio, gli stoici (non a caso, perlopiù, difensori della concezione imperiale romana) consideravano l'ordine divino del mondo.


Ciononostante, la dicotomia amico vs nemico ha il pregio di farci comprendere sia la dimensione conflittuale che di necessità contraddistingue il Politico, sia che lo Stato è essenzialmente un "campo di forze", il cui equilibrio dipende in ultima analisi dalla capacità di una classe dirigente di usare "misure e proporzioni" largamente condivise e (senza che sia esclusa la possibilità di un ricambio dei membri della élite, né di una partecipazione del popolo alla gestione degli affari pubblici, secondo forme e gradi differenziati) tali da impedire, da un lato, il formarsi tra i "governati" di gruppi così forti da poter mutare l'equilibrio (inteso come la "forma attuale" dello Stato) a loro favore; e, dall'altro, che questo equilibrio venga mutato da entità politiche "esterne", che possono essere Stati, ma anche potentati economici. Anzi, oggi pare siano proprio questi ultimi, con tutte le loro "diramazioni" (fondazioni, think tanks etc.) ad esercitare la maggiore pressione sui singoli Stati nazionali , in modo da determinarne o condizionarne gravemente la politica. Sì che la funzione dei partiti sembra essere quella di non consentire, proprio con il meccanismo delle elezioni "democratiche", ai governati di partecipare effettivamente alla vita politica ed economica del proprio Paese e, riguardo ai popoli europei, in particolare, di prendere coscienza dell'alienazione allo "straniero" della propria "sovranità". Tuttavia, è impossibile trascurare il ruolo fondamenatle che l'America, in quanto Stato, svolge non solo in Occidente ma su scala planetaria , nonostante la crisi del modello unipolare che gli americani hanno cercato di realizzare dopo il crollo dell'Urss (con il pressoché totale e servile consenso dell'Europa). Una crisi dovuta soprattutto all'emergere di nuove potenze quali la Cina e l'India, alla "nuova" Russia di Putin e alla resistenza coraggiosa di altri Paesi, come, ad esempio, l'Iran e il Venezuela (e adesso, per fortuna, anche la Turchia di Erdogan).


E' essenziale quindi comprendere il rapporto tra i "poteri forti" e la politica statunitense, essendo evidente che, comunque sia, vi è ancora necessità di un apparato statale (per motivi militari, ma anche socali, giuridici, di cultura politica, di comunicazione etc.) per occupare "posizioni dominanti" sul piano politico ed economico a livello mondiale. Senza un "potere statale forte", che avalli, sostenga, promuova l'azione dei "privati", nessun "potere forte" sarebbe possibile. Se ciò spiega la lotta tra le varie e più potenti lobbies per assicurarsi il controllo della macchina statale americana, non pregiudica però in alcun modo, piuttosto la rafforza, la "logica di sistema" che caratterizza tanto la politica interna (governo/lobbies vs popolo/cittadini) quanto la politica estera (Usa/lobbies vs altri Paesi, divisi in "amici o nemici"), sia pure con tutti i doverosi distinguo. E' alla luce di questo schema che si può capire, a mio avviso, la rilevanza della lobby ebraica internazionale (si badi, "non" gli ebrei in generale, altrimenti si confonde il tutto con la parte, con conseguenze deleterie, facilmente immaginabili) e la "copertura" quasi assoluta di cui gode ormai Israele, che si può perfino permettere di ricattare gli Usa; tanto che non è esagerato affermare che talvolta "la coda può muovere il cane". Certo gli Usa non sono un'appendice di Israele, né vi è una sola lobby che conti in America. Ma la lobby ebraica, grazie alle sue "ramificazioni multinazionali", è di fatto l'unica che può garantire l'unità di azione a "livello sistemico" dell'imperialismo economico americano e del "mercato globale" (che altro non sono che due facce della stessa medaglia), vuoi perché "attiva"nei gangli vitali di ogni Paese occidentale , vuoi perché è riuscita ad ottenere una vera e propria egemonia culturale, che consente all'atlantismo di presentarsi come la sola espressione dell'humanitas, come unico veicolo di civiltà contro ogni forma di barbarie, nonché come vero erede della cultura europea. Una egemonia culturale che si è imposta facilmente in Europa dopo la definitiva sconfitta del comunismo, considerato anch'esso, come il nazismo, il fascismo ed ora pure l'islamismo, il nemico del genere umano, il "male".
Il fatto è che troppo spesso i crtiici dell'imperialismo americano tendono a sottovalutare gli aspetti propriamente culturali, per concentrarsi esclusivamente su quelli economici e/o politici. Ed è invece questa egemonia culturale, estremamente articolata e "pervasiva", che può "legittimare" la subalternità delle classi dirigenti europee alle direttive atlantiste agli occhi delle masse e perfino agli occhi degli "scettici". In questi ultimi decenni si è addirittura assistito alla nascita di una sorta di nuova "religione", superiore a tutte le altre, la cosiddetta "religio holocaustica", fondata sull'assoluto divieto di studiare anche la persecuzione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale secondo una metotologia scientifica . Chi infrange questo divieto o perfino chi si limita a criticarlo pubblicamente rischia il carcere (in Germania, Austria e Svizzera) oppure, se vive in Francia, una sanzione economica, ma viene comunque sempre "messo al bando"( si viene espulsi dall'Università, licenziati, messi alla gogna, denigrati dai mass media senza avere la possibilità di difendersi etc.). Una "religio" che ha i suoi dogmi, i suoi riti, i suoi sacerdoti, i suoi zelanti servitori e i suoi, più o meno in malafede, fedeli. E che è l'altra faccia dell'atlantismo: simul stabunt simul cadent.
Infatti, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo si può "rappresentarla" come la lotta tra il bene e il male, tra la Grande Israele e gli Imperi del male o gli Stati canaglia, solo se la si interpreta mediante uno schema a priori, che fornisca la "regola" per "ordinare e sistemare" gli eventi, in modo da invalidare ogni critica al "sistema" in quanto tale. Democrazia liberale di tipo angloamericano, liberismo, "culto" del mercato, "fede" nella tecno-scienza, diritti universali "ricalcati "su quelli made in Usa, american way of living devono essere esportati in tutto il mondo anche con la forza, non perché si ha la possibilità di farlo, ma perché è "giusto" farlo e se non vi è ancora la capacità di farlo ovunque, ci se ne dovrebbe rammaricare. Insomma, il "sistema" non funziona o non funziona "bene" senza il consenso delle masse (poco importa che sia un consenso passivo). Perciò occorrono "persuasori" (ma non "occulti", sebbene ci siano, ovviamente, anche questi ) e "cultura" che persuada, che "formi" (si pensi alla scuola , all'Università ed ai mass media) ed in-formi, che orienti e che (questa sì!) soprattutto "occulti". Il vero potere lo si detiene quando si può fare a meno di usare il bastone (che pur si deve avere e meglio se è un "grosso bastone"). Per questo motivo è necessaria l'egemonia culturale. Anche se, o meglio proprio perché non è la nostra "cultura", ma la "cultura" del mercante occidentale, del suo denaro e delle sue banche che ci viene imposta, in quanto il giudeo-cristianesimo sarebbe la "radice"dell'Europa (tesi che è ben differente dal riconoscere che il cristianesimo - nelle sue molteplici e contraddittorie "voci" - è stato la lingua spirituale - "sincretistica", per così dire - dell'Europa durante il Medioevo). Da ciò, tra l'altro, consegue che la civiltà classica, greca e romana, non la si debba "vedere" se non attraverso il prisma del giudeo-cristianesimo e che vi sia netta separazione ed opposizione tra Oriente (la "Terra") e Occidente (il "Mare"). Si vuole così ignorare non solo che Occidente è una parola che da (relativamente ) poco tempo designa la civiltà europea, ma che l'Europa è la "Terra di Mezzo", la "congiunzione fra Terra e Mare". Una congiunzione, una "e", che invece ci indica , contrariamente a quanto ritengono gli atlantisti, da dove proveniamo e dove dovremmo far ritorno, "risalendo" al nostro autentico "inizio", ora che il "Mare" minaccia di sommergerci.
Nulla di più "incapacitante" allora di una critica del capitalismo che prescinda dai "fattori culturali" o che, fraintendendo radicalmente il "senso" del legame sociale, li intenda come "semplice" sovrastruttura della struttura economica. Il capitalismo è un "ismo", un modo di agire e pensare che "fa si-stema", in cui, appunto, "tutto si tiene". Ma si "tiene" secondo la logica dello "sradicamento", della negazione delle "differenze", per veicolare l'ideologia della "merce", dell'equivalenza universale delle "cose" e delle persone ( la "cosificazione" o mercificazione che dir si voglia), dell'astrazione quantitativa che dissolve ogni "esperienza"del tempo qualitativo, non lineare ed uniforme, e dello spazio gerarchicamente orientato. Il che spiega perché tanto più emerge la consapevolezza che la "secolarizzazione" del giudaismo (di cui lo stesso sionismo è un effetto) e del cristianesimo, al di là di ogni considerazione sugli aspetti "sapienziali e tradizionali" certamente presenti in entrambe le religioni, è a fondamento della modernità, vale a dire delle condizioni sociali e culturali per la nascita del capitalismo, nel senso stretto del termine, tanto più diventa evidente il ruolo preponderante, sotto qualsisi profilo, della "forma mentis" dell'homo oeconomicus ed il progressivo adeguarsi della cultura occidentale agli "schemi concettuali" propri del "mercante errante", senza "oikos" ed "abitatore" del tempo.
Se vi è dunque la necessità di decifrare, di volta in volta, l'azione delle lobbies atlantitste (non necessariamente americane) per smascherare i reali obiettivi della politica degli Usa, mostrandone le mistificazioni e le "incongruenze" sempre più gravi (al punto che si impiegano termini per denotare realtà esattamente opposte rispetto a quelle che dovrebbero denotare), vi è ancor più la necessità di una battaglia culturale, un "Kulturkampf", per non ripetere l'errore di privilegiare un'analisi di tipo socio-economica (ripeto, a scanso di equivoci, indubbiamente necessaria), che non può cogliere la specificità dell' "anima capitalistica", il suo carattere proteiforme, che le consente di rimanere sé medesima mutando continuamente "maschera". Una "lacuna" che, in qualche modo, è causa o, se si preferisce, una delle cause della crisi fallimentare del comunismo e del "collasso" delle politiche di stampo socialdemocratico, dal momento che non soltanto ha impedito una comprensione dei "presupposti culturali" del capitalismo, che non fosse basata su una "ingenua " e sovente "volgare" concezione progressista, ma ha addirittura favorito l'affermarsi della "cultura" dell'homo oeconomicus, che è la "conditio sine qua non" del capitalismo occidentale (sotto questo aspetto, di gran lunga più coerente dei suoi "nemici"; per usare un "linguaggio schietto", il peggiore difetto della sinistra si potrebbe designare così: volere l'arancio ma non le arance!).
Vero è che si deve pure tener conto che occidentalizzazione ed atlantismo non sono necessariamente sinonimi, ma è innegabile che attualmente siano i circoli atlantisti che perseguono il disegno di occidentalizzare l'intero pianeta, annientando "identità", lingue, costumi e qualunque complessa "iconografia" - altro termine caro a Schmitt - che non sia quella (israelo)angloamericana. Si tratta di un processo di livellamento e massificazione che può essere contrastato solo dal sorgere di un nuovo equilibrio mondiale policentrico, premessa anche per costruire un'alternativa, "razionale" e credibile, ad ogni forma di occidentalizzazione. Purtuttavia, è lecito pensare che, fino a quando l'Europa non saprà orientare il proprio "asse" geo-politico e geo-filosofico in senso eurasiatista, difficilmente l'atlantismo conoscerà una crisi irreversibile: l'illimitato "Wille zur Macht" dell'Occidente può, come il "Mare", arretrare temporaneamente, per poi ritornare con ancor maggiore forza e impeto. Non dovrebbe destare meraviglia dunque che il sistema capitalistico occidentale più "si occulta" ed "occulta" e più, brandendo la spada vendicatrice del "dio" veterotestamentario per far trionfare il "bene" sulla Terra, lasci venire allo scoperto la sua volontà di potenza. E' questo non il segno accidentale della sua "sostanza", bensì il segno più chiaro della sua vera "natura".

 

 

vendredi, 26 mars 2010

Le "Plan Bernard Lewis"

Mansur KHAN (*) :

Le « Plan Bernard Lewis »

 

Bernard_Lewis.jpgL’orientaliste Bernard Lewis (photo) a la réputation, en Occident, d’être un expert des questions islamiques. Lewis a été jadis un agent de ce département des services  secrets britanniques que l’on appelle le « Bureau arabe ». Plus tard, on l’a muté aux Etats-Unis où il a reçu des chaires de professeur au « Princetown Center for Islamic Studies » et au CSIS de l’Université de Georgetown, un institut avec lequel Henry Kissinger entretenait des contacts très étroits. Mais ses principales couronnes de laurier, Lewis les a gagnées au service d’un institut de grande notoriété, l’ « Aspen Institute ». C’est de cette instance-là que notre célèbre expert en questions islamiques a reçu la mission officielle d’élaborer un plan permettant à terme de remodeler tout le Moyen Orient pour qu’il convienne enfin aux intentions de l’élite au pouvoir aux Etats-Unis. C’est ainsi qu’est né le fameux « Plan Bernard Lewis ». Il contient des propositions détaillées pour éliminer les Etats musulmans du Proche Orient et de les remplacer par une mosaïque de petits Etats gouvernés par des régimes dictatoriaux.

 

Ce plan, toutefois, ne se limitait pas au seul Proche Orient. Il proposait également, et dans le détail, de diviser et de balkaniser toute la région s’étendant du Proche Orient au sous-continent indien. Dans les coulisses du ministère britannique des affaires étrangères, le Plan Lewis circulait allègrement et était considéré comme un programme “officieux” du gouvernement. Ce Plan recevait l’appui de l’élite au pouvoir dans le Royaume-Uni et représentée dans la Haute Chambre, autour de personnalités comme Lord Cayser, Lord Victor Rothschild et d’autres figures en vue de la maçonnerie britannique de rite écossais, sans compter le Duc de Kent. On a commencé à le traduire dans la réalité en favorisant l’implosion du Liban en 1975, sous l’impulsion du ministre américain des affaires étrangères Henry Kissinger. La mise en place du régime de Khomeiny à Téhéran fait partie intégrante de ce plan diabolique: l’Aspen Institute a constitué l’instance principale qui agissait dans le sens de ce projet, ayant notamment favorisé le prise du pouvoir par Khomeiny en Iran (1). La décision de se débarrasser du Shah est tombée lors du “Sommet de la Guadeloupe” en janvier 1979. Le Plan devait favoriser une escalade dans les tensions déjà existantes entre l’Iran et l’Irak et préparer une guerre entre les deux pays. On espérait du régime de Khomeiny qu’il accélèrerait le processus général de dissolution dans la région, comme le préconisait le Plan Lewis. Dans un document significatif, on pouvait lire ce qui suit : « Les Chiites se dresseraient contre les Sunnites et les musulmans modérés contre les groupes fondamentalistes ; des mouvements séparatistes et des entités régionales propres comme le Kurdistan ou le Baloutchistan verraient le jour » (2).

 

Khan---Geheime-Geschic.gifLors d’une conférence ultérieure du Groupe des Bilderberger, qui eut lieu en mai 1979 en Autriche, le Plan Lewis a été adopté de manière plus ou moins officielle. Il poursuivait l’objectif de « balkaniser » l’ensemble du Moyen Orient par le truchement du fondamentalisme islamique et de le fragmenter en de nombreuses petites entités étatiques. Lewis proposait à l’Occident d’encourager tous les groupes ethniques ou minorités autonomes comme les Kurdes, les Arméniens, les Maronites libanais et les peuples de souche turque à se dresser contre leurs gouvernements. Le chaos, qui en résulterait, créerait automatiquement un « arc de crise », dont les Etats-Unis pourraient profiter car la déstabilisation s’étendrait rapidement aux régions mahométanes du flanc sud de l’URSS (3). Un expert soviétique de la CIA, occupant un rang élevé dans la hiérarchie, a déclaré à l’époque et sans circonlocutions diplomatiques que la déstabilisation de l’Union Soviétique était devenue l’un des objectifs majeurs de la politique étrangère américaine et « que l’islam était le grand géant endormi de l’Union Soviétique qui attendait son heure pour se réveiller… et Khomeiny se sentait obligé de prêcher l’islam à ses frères au-delà de ses frontières ». Et Khomeiny, de fait, a apporté son soutien aux moudjahiddins afghans, en leur livrant des armes et en leur fournissant protection contre les Russes ; il a mis ensuite des émetteurs puissants en œuvre pour exporter la révolution islamique dans les régions musulmanes de l’URSS » (4).

 

Le Plan Lewis s’accommodait parfaitement avec les calculs sur le long terme du lobby pétrolier américain. Depuis longtemps, ce lobby cherchait à s’approprier les ressources pétrolières de l’Union Soviétique. Une déstabilisation de l’URSS permettrait aux consortiums pétroliers d’atteindre enfin les gisements de gaz et de pétrole, tant convoités, qui se trouvaient alors dans les régions méridionales de l’ « Empire du Mal ».  C’est dans cette perspective qu’il faut aussi analyser la première guerre d’Afghanistan (5). L’un de ceux qui fomentèrent cette guerre, Zbigniew Brzezinski, qui fut pendant quelques décennies l’un des principaux conseillers à la sécurité aux Etats-Unis, l’avouera expressis verbis de très longues années après son déclenchement et au moins dix ans après son épilogue : le conflit dans les montagnes de Hindou Kouch avait été prévu et fomenté par les Etats-Unis pour amorcer le déclin de l’Union Soviétique.

 

Le Plan Lewis constituait un instrument génial entre les mains de l’élite occulte anglo-américaine car sa mise en œuvre entrainait toute une série de conséquences avantageuses. Le conflit de longue durée qu’il fallait escompter pour tout le Moyen Orient se laissait instrumentaliser sans difficulté et permettait de gagner du terrain et de faire avancer les intérêts américains. La mise en place de Khomeiny en Iran porte tout spécialement la marque de ce plan car il était de notoriété publique que Khomeiny entendait exporter par tous les moyens sa révolution islamiste au-delà des frontières iraniennes (6). De cette façon, d’autres conflits dans l’ensemble de la région pouvaient être préprogrammés. Y compris une guerre entre l’Iran et l’Irak car avec la prise du pouvoir par Khomeiny à Téhéran, une telle conflagration s’avérait plus envisageable que du temps du Shah ; Washington verrait ce conflit comme la solution idéale, vu qu’il mettrait hors combat deux puissances régionales qui contrecarraient, par leur existence même, les visées des Américains. L’Iran se verrait ainsi éliminé car la révolution islamique s’opposait de plus en plus clairement aux intérêts bancaires et pétroliers américains, de même que l’Irak, dont l’industrie pétrolière avait été étatisée dès 1972. Aucun des deux pays ne permettait plus aux consortiums américains de faire des bénéfices. Dans les bureaux de Washington, où l’on planifiait le sort du Proche et du Moyen Orient, on élaborait déjà des scénarios sur le plus long terme, prévoyant un nouveau renversement de pouvoir en Iran, car Khomeiny menaçait de plus en plus dangereusement les intérêts monétaires des Etats-Unis (7).

 

Ce qui s’ensuivit se déroula selon le schéma habituel. Washington réarma en secret les deux camps et à grande échelle pour permettre aux deux belligérants de se doter d’un potentiel militaire suffisant pour une offensive. L’industrie américaine de l’armement en profita largement, avant même que le premier coup ne fut tiré.

 

Mansur KHAN.

(extrait du livre de l’auteur « Das Irak-Komplott mit drei Golfkriegen zur US-Weltherrschaft », pp. 54-56, Grabert Verlag, Tübingen, 2004, ISBN 3-87847-213-7 ; traduction française : Robert Steuckers).

 

Notes :

(*) Mansur U. Khan est né en 1965 à Kaiserslautern. Dès ses plus jeunes années, il s’est vivement intéressé à l’histoire. Il a fréquenté l’Université de Maryland, où il a obtenu un diplôme de sciences politiques et d’économie politique, puis l’Université de Boston, où il a obtenu MA en relations internationales. Il a ensuite travaillé à une thèse de doctorat sur la seconde guerre du Golfe. Il a publié Das geheime Geschichte der amerikanischen Kriege (1998 & 2003, 3ième éd.) et Das Kosovo-Komplott (2001).

 

(1)     Peter BLACKWOOD, Das ABC der Insider, Diagnosen, Leonberg, 1992, p. 378 & ss, p. 293.

(2)     Ibidem, p. 303 & ss.

(3)     William F. ENGDAHL, Mit der Ölwaffe zur Weltmacht – Der Weg zur neuen Weltordnung, Böttiger, Wiesbaden, 1997 (3ième éd.), pp. 265 & ss.

(4)     Peter BLACKWOOD, Die Netzwerke der Insider – Ein Nachslagewerk über die Arbeit, die Pläne und die Ziele der Internationalisten, Diagnosen, Leonberg, 1986, p. 183.

(5)     Rainer RUPP, Burchard BRENTJES u. Siegwart-Horst GÜNTHER, Vor dem Dritten Golfkrieg – Geschichte der Region und ihrer Konflikte. Ursachen und Folgen der Auseinandersetzungen am Golf, Edition Ost, Berlin, 2002, p. 133.

(6)     Klaus-Dieter SCHULZ-VORBACH, Mohammeds Erben – Die Fundamentalisten auf dem Weg zum Gottesstaat, Goldmann, München, 1994, p. 53.

(7)     Rainer RUPP (et alii), op. cit., p. 128.

Khan, Mansur
Die geheime Geschichte der amerikanischen Kriege
[100 103]

 


 

Verschwörung und Krieg in der US-Außenpolitik



3. Auflage
624 Seiten
17x24cm
Lexikonformat
Leinen
80 Abbildungen
Register
ISBN-10: 3-87847-208-0
ISBN-13: 978-3-87847-208-7

Euro: 29,80

Kurztext:

Amerikas Kriegspolitik: 200 Jahre blutiger Imperialismus! Obwohl die USA noch nie von einem Gegner direkt bedroht waren und niemals einen äußeren Feind im eigenen Lande hatten, waren sie weltweit an allen größeren Händeln dieses Jahrhunderts beteiligt und gaben meist den Ausschlag. Mansur Khan gibt einen ausführlichen und mit mehr als 1100 Anmerkungen abgestützten Überblick über die US-Kriegspolitik.


Langtext:

In rund 200 Jahren stiegen die USA von einer englischen Kolonie an der Ostküste Nordamerikas zur Weltmacht Nummer ein auf, die heute an allen Stellen der Erde eingreift. Wie das durch dauernde Kriege gegen Nachbarn und dann entfernte Staaten geschah, schildert dieses Buch. Dabei waren die USA – wie insbesondere im Ersten und Zweiten Weltkrieg, in Korea, Vietnam oder am Golf – nie unmittelbar selbst bedroht, sondern es standen stets große wirtschaftliche Interessen hinter Washingtons Drang zum Krieg, der teilweise erst durch klassische Provokationen – z.B. ›Lusitania‹-Versenkung, Pearl Harbor-Angriff, Tonkin-Zwischenfall – für die zunächst kriegsunwillige US-Bevölkerung annehmbar gemacht werden mußte. Besonders in Zeiten ausbrechender wirtschaftlicher Rezession griffen US-Präsidenten zu kriegerischen Auseinandersetzungen, um ihrer Wirtschaft durch Rüstungsaufträge neuen Auftrieb zu geben. Besonders die Motive und Hintergründe der einflußreichen US-Machtelite werden untersucht.

Klappentext:

Seit dem Zusammenbruch des Sowjetimperiums sind die Vereinigten Staaten von Amerika unbestritten die Weltmacht Nummer eins, und sie sind in der Lage, überall auf der Erde ihre Interessen durchzusetzen. Daß sie dazu auch gewillt sind, haben sie im letzten Jahrzehnt durch mehrmaliges militärisches Eingreifen auf den verschiedenen Kontinenten bewiesen. Dabei haben sie stets vorgegeben, für die Stärkung der Demokratie und die Sicherung der Freiheit eingetreten zu sein, obwohl es in Wahrheit eher um harte wirtschaftliche und materielle Vorteile ging.

Wie ein roter Faden zieht sich durch die Geschichte der USA die rücksichtslose Durchsetzung eigener Macht. Aus einer Kolonie wurde in rund zweihundert Jahren durch fast pausenlose Kriege und weiträumige Eroberungen eine imperiale Macht, die heute die ganze Erde kontrolliert und andere Völker wirtschaftlich ausbeutet, die mit dem von ihr geschaffenen Instrument der Vereinten Nationen (UNO) Strafexpeditionen in den verscheidenen Teilen der Welt unternimmt und mit der NATO auch in Europa entscheidenden Einfluß ausüben kann.

Dieses Buch gibt einen Überblick über die Kriegsgeschiche der USA von den Anfängen bis zur Gegenwart und hellt die Hintergründe dieser Entwicklung auf. Es beschreibt die Landnahme, die mit dem Völkermord an den Indianern und der Ausbeutung von Millionen schwarzer Sklaven verbunden war, die Eroberung des riesigen Landes bis zum Pazifik, den amerikanischen Bürgerkrieg und die Auseinandersetzungen mit Mexiko um die großen Territorien im Südwesten. Ausführlich wird das imperiale Ausgreifen seit Ende des vorigen Jahrhunderts behandelt, werden die Kriege um Kuba und die Philippinen, das Eingreifen in Mittelamerika wie in Europa im Ersten und Zweiten Weltkrieg geschildert. Die dann folgenden Kriege in Korea, Vietnam, am Persischen Golf, in Afghanistan oder Somalia setzen diese militärische Linie über kleinere Einsätze in Haiti, Grenada oder Nicaragua bis zur Gegenwart fort.

Dabei stehen vor allem die Motive und Hintergründe der US-Politik im Vordergrund. Ist es Zufall, daß fast jeder größere Krieg der letzten hundert Jahre gerade dann in Washington vom Zaun gebrochen wurde, wenn eine wirtschaftliche Rezession die Vereinigten Staaten heimsuchte, die dann erfolgreich durch die neuen Aufträge für die Rüstungsindustrie behoben werden konnte? Hat die US-Regierung nicht stets den kommenden Gegner über längere Zeit zu beabsichtigten Reaktionen provoziert, um selbst als der Angegriffene zu erscheinen und die kriegsunwillige eigene Bevölkerung zur Befürwortung eines Krieges zu treiben? Wie kam es, daß die USA im Ersten Weltkrieg von einer tief verschuldeten Nation zum Gläubigerstaat wurden und im Zweiten Weltkrieg das britische Empire beerbten, indem sie beide Male einen möglichen früheren Verständigungsfrieden in Europa durch ihr Eingreifen verhinderten?

Die These des Buches ist, daß eine ›Machtelite‹ in den USA das Sagen hat und die jeweiligen Präsidenten als Ausführungsgehilfen benutzt. Wenn diese das Gewünschte nicht ausführen wollen, wie Lincoln oder Kennedy, schreckt man auch nicht vor Mord zurück, um sie zu beseitigen. Kriege dienen dem Profit dieser Machtelite, werden teilweise künstlich verlängert, um zum einen viel Kriegsmaterial zu verbrauchen und zum anderen große Zerstörungen zu verursachen, an deren Beseitigung anschließend noch einmal verdient werden kann. Die von Präsident Theodore Roosevelt kultivierte ›Politik des großen Knüppels‹ ist durch Männer wie Kissinger und Reagan nun auf die ganze Welt erweitert worden, und Washington sieht seine unmittelbaren Interessen heute in fast allen Ländern der Erde berührt.

Wer die Politik unseres Jahrhunderts verstehen will, muß diese Zusammenhänge kennen, muß wissen, wo die Drahtzieher des wirklichen Geschehens sitzen, und sich nicht mit der üblichen oberflächlichen Darstellung nach dem Geschichtsbild der Sieger – und das ist eben die US-Machtelite – zufriedengeben. In diesem Sinne ist dieses Werk ein Aufklärungsbuch und dient dem historischen Revisionismus.

Inhaltsverzeichnis:

Vorwort 9

Einleitung 11

Kapitel 1
Die formenden Jahre der US-Außenpolitik 17
Die Ausrottung der Indianer und die Versklavung der Schwarzen: ›Manifest Destiny‹ bis zum bitteren Ende (ca. 1692-1890) 17
Expansionsdrang und Eroberungskriege: vom richtigen Umgang mit den Nachbarstaaten (1775-1818) 22
Der Befreiungskrieg 1776-1783: Krieg gegen das Mutterland 22
Inoffizieller Kaperkrieg mit Frankreich (1798-1800) 29
Der erste Berberkrieg gegen Tripolis (1801-1805) 31
Die Besitzergreifung von Louisiana und Florida (1803-1819) 32
Der Krieg von 1812 mit Großbritannien 36
Imperialismus in Vollendung oder: die Eroberung von Texas und der Krieg gegen Mexiko (1819-1848) 39
Der amerikanisch-mexikanische Krieg (1846-1848) 44

Kapitel 2
Krieg gegen das eigene Volk: der Amerikanische Bürgerkrieg (1861-1865) 52
Die scheinheilige Demokratie oder die Machtergreifung auf amerikanisch 69
Die Ermordung amerikanischer Präsidenten oder Staatsputsch auf amerikanisch (Lincoln und Kennedy) 74

Kapitel 3
Der Aufstieg zur Weltmacht 90
Pax Americana: Das amerikanische Jahrhundert und seine Kanonenboot Diplomatie 90
»Liefern Sie Bildmaterial, ich liefere den Krieg« - der spanisch-amerikanische Krieg (1898) 91
Erneuter Eingriff in Mexiko oder: wie der lateinamerikanische Hinterhof entdeckt wurde 105

Kapitel 4
Wirtschaftskriege auf amerikanisch 112
Der ›Große Krieg‹ und das große Geld: der Erste Weltkrieg und die USA 113
Der Erste Weltkrieg schuf die Voraussetzungen für den Zweiten Weltkrieg. 132
Wer finanzierte Hitler? 149

Kapitel 5
Die Provokation Japans oder: wie man in einen Weltkrieg eintritt 166
Der manipulierte Angriff auf Pearl Habor 194
Und Deutschlands Schicksal 226

Kapitel 6
Vom Kalten Krieg zum Koreakrieg 237

Kapitel 7
Vietnam, das zweite Gewaltopfer, und andere Eskapaden 264
Kambodscha: Dominostein im Kreuzzug gegen Vietnam 289
Laos: ein weiteres Opfer des Kreuzzuges 295

Kapitel 8
Kleinere Kriege 298
Grenada 1983: Ein Inselstaat bedroht die USA! 298
Libyen 1980-1986: Reagan sieht rot 308 Invasion Panamas 1989 oder: Wie Bush seinen ›Krieg gegen die Drogen‹ gewann 312
Die afghanische Tragödie: eine russische Aggression? 1979-1988 319

Kapitel 9
Der erste Golfkrieg oder: wessen Stellvertreterkrieg war er? 333
Ein Plan für den Mittleren Osten? 335
Amerikanisch-israelische Geheimverbindungen im ersten Golfkrieg 345
Saddam war siegessicher 348
Die Lage in Europa 1989 und die US-Außenpolitik 350

Kapitel 10
Die Vorbereitung der Golfkrise 352
Die Beziehungen USA-Irak nach dem ersten Golfkrieg 352
Irakisch-kuwaitische Beziehungen nach dem ersten Golfkrieg 356
Vorbereitungen der USA auf die Krise am Golf 359
Die Beziehungen zwischen den USA und Kuwait vor dem Golfkrieg 362
Die Wirtschaftslage in den USA 365

Kapitel 11
Die Inszenierung der Golfkrise und die Golfkriegsversehwörung der Bush-Regierung 369
Katastrophen-Diplomatie 383
Warum griff der Irak Kuwait an? 392

Kapitel 12
Der Weg in den Krieg 396
Warum waren die USA am Golfkrieg interessiert? 399
Die Vorbereitungen der Bush-Regierung auf den Golfkrieg 403
Die Zeitabstimmung für den US-Angriff auf den Irak 410
Der Propagandafeldzug der Bush-Regierung: die Medien in den USA und ihr Einfluß auf den Golfkrieg 411
Der Sprachenmord des Pentagons und der Medien 415
Die Ausschaltung der Opposition in den USA 417
Die Brutkasten-Lüge 417

Kapitel 13
Die Gründe der Bush-Regierung für den Golfkrieg 420
Saddam Husseins Machtergreifung mit freundlicher Unterstützung des CIA 420
Die Lüge über das Atomprogramm des Iraks 425
Der Mythos des unterbrochenen Ölflusses 429
Die Bush-Regierung behauptete, der Irak werde Saudi-Arabien angreifen 431
Der Krieg am Golf: Völkermord im Namen der UNO 438
Washingtons verdeckter nuklearer Krieg 442

Kapitel 14
Somalia: Ein bißchen humanitäre Intervention ›The American Way‹ (1993-1994) 445

Kapitel 15
Jugoslawien: Humanitäre Intervention Teil II oder: die verheimlichte Rolle der USA bei der Zerstückelung eines Staates 452
Die USA beherrschen die Region durch Wirtschaftssanktionen 467

Kapitel 16
Irak Teil 11 oder: Wer besitzt Waffen der Massenvernichtung? 470

Nachwort
Ziel erreicht, globale Weltherrschaft der USA? 486

Nachtrag
Der Kosovo-Krieg als Komplott. Humanistische Hegemonie? 498
Das Racak-Massaker - eine bewußte Eskalation zum richtigen Zeitpunkt 500
Das Diktat von Rambouillet 506
Ziele der Machtelite vor und nach dem Kosvovo-Krieg 508
Nachwirkungen des Kosovo-Krieges 510

Anhang I
Amerikanische militärische Interventionen und Kriege seit Gründung der USA 514
Amerikanische Kriege, militärische Interventionen und CIA-Operationen seit 1945 528

Anhang II
Attentatskomplotte der US-Regierung 539

Anhang III
US-Atomwaffenpolitik 545

Anmerkungen 548

Kommentiertes Literaturverzeichnis 582

Personenverzeichnis 611

Über den Autor:

MANSUR U. KHAN, geboren 1965 in Kaiserslautern, interessierte sich schon sehr früh für Geschichte. Besuch der University of Maryland (Diplom in Politikwissenschaften und Volkswirtschaftslehre) und der Boston University (MA im Fach ›Internationale Beziehungen‹). Zur Zeit arbeitet er an einer Dissertation über den Zweiten Golfkrieg. Veröffentlichungen: Das Kosovo-Komplott, 2001; Das Irak-Komplott.

jeudi, 25 février 2010

Implicacion directa norteamericana en la crisis de Grecia

Implicación directa norteamericana en la crisis de Grecia

Revelan nuevas complicidades de EE.UU contra economía griega

griechenland.jpgGrecia reveló hoy a través de su Centro Nacional de Inteligencia nuevas complicidades contra su economía de inversores internacionales, especialmente de empresas financieras de Estados Unidos.

El periódico To Vima divulgó que las compañías Moore Capital, Fidelity Internacional, Paulson & Co y Brevan Howard, que operaran en Europa vendieron bonos estatales y los revendieron a precios reducidos en una misma jornada.

Atenas descubrió las operaciones especulativas de esas inversoras estadounidenses en coordinación con los servicios secretos de España, Francia y Reino Unido.

El primer ministro griego, Giorgos Papandreu, había denunciado que los ataques especulativos contra su país también estaban dirigidos a afectar al euro como moneda única de la región.


Grecia acumuló un elevado déficit público que provocó la rápida decisión de la Unión Europea de someterla a una fuerte supervisión, con el fin de asegurarse del cumplimiento de su severo plan de austeridad y ajuste fiscal.

Un programa aprobado por Bruselas pretende que Atenas reduzca su déficit público del 12,7 por ciento del Producto Interior Bruto al 8,7 a fines de 2010, hasta llegar a un 2,8 por ciento hacia 2012.

El domingo pasado revelaciones del diario The New York Times, indicaron que Wall Street y el grupo de inversiones Goldman Sachs realizaron acciones que al final perjudicaron a las finanzas de la nación mediterránea.

La principal bolsa de valores estadounidense extendió préstamos a Grecia presentados como intercambio de divisas, los cuales incluyeron a otras naciones del viejo continente desde 2001.

La información significó que cuando Grecia presentaba una severa crisis fiscal, bancos de Wall Street y Goldman Sachs buscaron mecanismos para evitar preguntas incómodas por parte de Bruselas y de los países de la zona euro.

Tales acciones sirvieron para que durante 10 años se enmascararán miles de millones de euros de la deuda griega y así pudiera cumplir los niveles de déficit establecidos por el Pacto de Estabilidad de la Unión Europea, mientras gastaba por encima de sus ingresos.

Extraído de Prensa Latina.

~ por LaBanderaNegra en Febrero 21, 2010.

dimanche, 21 février 2010

Lawrence of Arabia - the conflicted colonialist

Lawrence of Arabia - the conflicted colonialist

by Simon KORNER - http://21stcenturysocialism/

lawrence_of_arabia.jpgT.E. Lawrence’s book Seven Pillars of Wisdom is on the syllabus at the elite US army training college at Fort Leavenworth, Kansas. Seen as the man who “cracked fighting in the Middle East”, Lawrence is a “kind of poster boy” of how to do colonial rule, according to writer-presenter Rory Stewart, in The Legacy of Lawrence of Arabia (BBC2, Jan 16 and 23 2010).

No wonder Lawrence is regarded with suspicion by the contemporary Arab world.

Lawrence was born in 1888 and went to Oxford.  His boyish enthusiasm for medieval knights led him to walk across Syria and the Middle East in 1909, studying crusader castles for his university thesis, the fortresses that formed a chain of foreign, Christian domination over the local population.

Lawrence’s first job was as an archaeologist in a remote area of Syria, managing a huge native workforce for the Palestine Exploration Fund, an archaeological society whose survey of the region served as cover for British intelligence-gathering during the build-up to war with the Ottoman empire and Germany.  Lawrence, with his excellent Arabic and local knowledge, drew up an ethnic map that detailed the many different tribal and religious areas.

During the First World War the Ottomans called for a jihad against the British.  In response, Lawrence promised the Emir of Mecca, leader of the 1916 anti-Ottoman Arab revolt, support for a pan-Arab empire after the war if he launched a counter jihad against the Turks.  It was this ability to “walk into the crowd” and harness Arab nationalism that marked him out as a first rate colonial soldier, according to leading British Arabist and former MI6 officer Sir Mark Allen.

Understanding the Ottomans’ difficulties in effectively patrolling the vast expanse of their desert territories, Lawrence used highly mobile Bedouin troops to ambush the enemy in a new form of guerilla warfare, targeting the Damascus-Medina railway, the sole supply line to the Ottoman garrison of Medina in Arabia.  Using locals to do the bulk of the fighting, he went on to capture the strategically important Red Sea port of Aqaba, an exploit that shot him to fame and set the template for future special forces operations.

When British general Allenby marched as a modern crusader into Jerusalem in 1917, with Lawrence by his side as a Major, it was through the symbolically important Jaffa Gate, the ‘Conquerors’ Gate, and on foot rather than horseback because Christ had walked not ridden.  This was for Lawrence “the supreme moment of his career.”

Yet when he learned of the secret British and French deal to divide the Arabian kingdom into two imperial possessions after the war, Lawrence wrote to his commanding officer:  “We’ve asked them to fight on a lie, and I can’t stand it.”

Lawrence rushed his Arab fighters, who were loyal to the Emir and his son Faisal Hussein, to Damascus with the aim of taking it from the Ottomans before the British army arrived, gambling that once Faisal was established as king in this capital of the Arab world, it would be hard for Britain to topple him.

On October 1st 1918, wearing Arab clothes and riding in a Rolls Royce, Lawrence was cheered by a Damascus crowd of up to 150,000 people, having “inspired and ignited” their revolutionary fervour, according to Syrian historian Sami Moubayed.  Faisal Hussein, a hero of the Arab revolt, followed two days later.  But Lawrence had underestimated his own imperialism.

Under the infamous Sykes-Picot agreement the Middle East was divided “from the E of Acre to the last K of Kirkuk” in a straight, diagonal line across the map.  France got Syria, Britain oil-rich Mosul and Palestine.  It was a moment that “still rankles in the Arab psyche”, says Jordan’s foreign minister, a moment when “the western countries succeeded in … demolishing the hopes of the Arabs.”  Bin Laden’s description of the deal as one which “dissected the Islamic world into fragments” underlines its contemporary resonance.

The Damascus meeting in 1918, at which Faisal was read out the Foreign Office telegram outlining the betrayal by France and Britain, marked “the start of the next 90 years of antagonism between the West and the Arab world.  Lawrence left Damascus immediately, a failure, having delivered the Arabs to his British masters,”  says Stewart.

Lawrence tried to break the Sykes-Picot agreement at Versailles in 1919, acting as Faisal’s adviser, but he merely became an embarrassment to the establishment.  Defeated, he returned to England, where over a million people went to see a show at Covent Garden featuring ‘Lawrence of Arabia’.

When the British occupied Iraq, dropping bombs and gas to quell the insurgency, Lawrence wrote to the Times in 1920: “The people of England have been led into a trap in Iraq… it’s a disgrace to our imperial record”.  Then in 1921, with the occupation failing, he was called on to advise Churchill, the Colonial Secretary, and Faisal was installed as a puppet ‘king’.  The “last relic of Lawrence’s vision” lives on today in the shape of the pro-British kingdom of Jordan, still ruled by Faisal’s family.

What should we make of Lawrence today?  Sami Moubayed describes him as “a British officer serving his nation’s interests.  He was one of the many foreigners… who definitely does not deserve the homage you see nowadays.”

Stewart takes a different view, seeing Lawrence as a prophetic figure for our times.  Stewart himself was deputy governor of two Iraqi provinces in 2003, where he initially “thought we could do some good”.  He tried to “bring some semblance of order and prepare the country for independence,”  but in the face of the insurgency he came to share Lawrence’s disillusionment with colonial rule.

Similarly disillusioned is Carne Ross, Britain’s former key negotiator at the UN, who resigned over the WMD issue.  He tells Stewart:  “I found it a deeply embittering experience… I think I was naïve about it…Ultimately my conclusion is one of deep skepticism of the state system and indeed of this place [the UN].”

These men’s disappointment is revealing.  Stewart believes that “if generals and politicians now could see what Lawrence saw we would not be in the mess today”.  He condemns the American misuse of Lawrence – troops shown David Lean’s swashbuckling film and made to read Lawrence’s 27-point guide to “try to… enter the Arab mindset”.  He exposes the hollowness of General Patraeus’ new counter-insurgency manual enjoining troops “to work with local forces” by walking round Baghdad in the company of a US officer who speaks no Arabic and is ignorant of local politics.

Stewart, like Lawrence, rejects foreign occupation of the Middle East as unsustainable.  “However much you do to overcome these cultural divides, in the end you don’t have the consent of the people; it’s not your country,”  he says, echoing Lawrence, who called for “every single British soldier” to leave, creating “our first brown dominion, not our last brown colony.”

But unlike the hero of Avatar, (see
Going traitor: Avatar versus imperialism) Lawrence never fully broke with his own imperialist masters.  Caught between the demands of colonial rule and his admiration for the ‘natives’, he could never resolve the contradiction and died a broken man.

Stewart, following in Lawrence’s footsteps, walked across Asia as a young man and found in the dignity of the locals “a great deal about how to live a meaningful life.”  But though admiring the people and recognizing the failings of colonial rule, he remains wedded to the power of which he is part.  A prospective Tory candidate, ex-Etonian, diplomat’s son, he has set up a school in Kabul to teach Afghan craftsmen skills to restore old buildings, a pet project of Hamid Karzai’s.  Though he calls for troops out of Iraq and Afghanistan, he implicitly believes imperialism capable of arranging the world in gentlemanly fashion, if only it would take on board Lawrence’s “political vision”.  Lawrence didn’t question imperialism itself, and Stewart’s Orientalist vision suffers from the same limited horizon.

mardi, 02 février 2010

Nato-Ue: le nuove strategie degli Usa

Nato-Ue: le nuove strategie degli Usa

La Clinton e la Albright sostengono che l’Europa e l’Alleanza Atlantica devono rafforzare la collaborazione

Andrea Perrone

clintonsarkozy.jpgLa Nato chiede all’Unione europea una più stretta collaborazione militare nell’ambito di una nuova visione strategica per il XXI secolo.
A promuovere l’operazione sono stati l’attuale segretario di Stato americano, Hillary Rodham Clinton (nella foto con Sarkozy), e la sua omologa - ormai ex - Madeleine Albright, che ora guida il gruppo di saggi dell’Alleanza Atlantica. La Clinton, giunta venerdì a Parigi, ha incontrato il capo dell’Eliseo Nicolas Sarkozy, il suo consigliere alla sicurezza nazionale, Jean-David Levitte e il ministro degli Esteri Bernard Kouchner, a un anno dal rientro del Paese nel Consiglio militare integrato della Nato, per discutere come verrà presieduto dalla Francia, a partire dal prossimo 1 febbraio, il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Per l’occasione il segretario Usa ha pronunciato un discorso all’École Militaire di Parigi sul concetto di sicurezza europea considerato un pilastro per la politica estera degli Stati Uniti. Il segretario Usa ha così riconfermato “l’impegno di Washington a lavorare con gli alleati della Nato e con la Russia per rafforzare la sicurezza dinanzi alle nuove minacce emerse nel 21mo secolo, dal terrorismo ai cyberattacchi fino alle catastrofi naturali”. Nel corso del suo intervento poi la Clinton ha cercato di indorare la pillola affermando che gli Usa sono “impegnati a esplorare i modi in cui la Nato e la Russia possono migliorare la loro partnership, dandoci migliori assicurazioni l’un l’altro sulle nostre rispettive azioni ed intenzioni”. A un certo punto però ha toccato le note dolenti dei rapporti Washington-Mosca, ovvero l’allargamento della Nato e i progetti per lo scudo antimissile. E ha attaccato la politica estera russa affermando che gli Usa si oppongono “a qualsiasi sfera di influenza in Europa” facendo riferimento alla guerra russo-georgiana dell’agosto 2008. A suo dire invece “la Nato e l’Ue hanno aumentato la sicurezza, la stabilità e la prosperità nel continente” e che questo ha accresciuto la sicurezza della Russia. Infine, la Clinton ha superato ogni limite affermando che il dispiegamento di uno scudo antimissile renderà l’Europa un posto più sicuro e questa sicurezza potrebbe estendersi alla Russia, se Mosca deciderà di cooperare con Washington. Un’ipotesi poco probabile visto che lo scudo verrà dislocato soltanto per alzare la tensione e contenere la Russia.
La Albright (72 anni) ha incontrato invece a Bruxelles gli europarlamentari e in quel contesto è stata più esplicita sottolineando la necessità “di massimizzare la collaborazione con l’Ue e fare maggior uso della consultazione politica”.
L’ex segretario di Stato Usa si è occupato di politica estera negli anni 1997-2001, quando la Nato ha lanciato la sua prima azione militare nella ex Jugoslavia, mantenendo stretti rapporti con gli albanesi più estremisti. La Albright è stata nominata lo scorso anno a presiedere un comitato di 12 esperti incaricato di consigliare il segretario generale della Nato, Anders Fogh Ramussen, su una versione aggiornata di “concetto strategico” per l’alleanza militare con la pubblicazione anche di un documento.
La strategia dell’ex segretario ha posto l’accento sulle nuove minacce alla sicurezza che vanno dagli attacchi cibernetici al terrorismo fino ai problemi riguardanti la sicurezza energetica, con un accento particolare al modo in cui l’Alleanza Atlantica dovrebbe saper rispondere. Per la Albright la soluzione ai problemi non dovrebbe essere l’autocompiacimento che, a suo dire, costituisce una grave minaccia, ma la fedeltà al principio fondatore della Nato - la difesa militare dei suoi membri da un attacco armato (art. 5) - dovrebbe rimanere il fulcro dell’organizzazione. Ora che gli Stati membri sono diventati 28 la necessità sarà quella di tener conto delle nuove minacce e in virtù dell’espansione dell’Ue, della riduzione dei bilanci è - secondo la Albright - necessario evitare di dividere o duplicare le attività della Nato e dell’Unione europea. A questo punto il responsabile del team di esperti ha lanciato i suoi strali contro la Russia affermando che è solo un partner della Nato e non ha lezioni da dare. Dal canto suo il servizio stampa dell’Assemblea di Strasburgo ha riportato testualmente le parole dell’ex segretario che ha dichiarato: “La Russia è un partner tra i tanti, e non sarà a lei a insegnare a una vecchia scimmia a fare le smorfie”.
Proseguendo nel suo intervento l’ex segretario americano ha ricordato che il team di esperti da lei guidato sta proseguendo il suo lavoro per elaborare un documento sulla strategia della Nato per il XXI secolo, che sarà pronto prima del vertice di Lisbona del novembre prossimo, quando dovrà essere adottato da tutti i membri dell’Alleanza Atlantica.


30 Gennaio 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=554

Haïti et les Etats-Unis au 20ème siècle

Haïti et les Etats-Unis au 20ème siècle

 

Entre 1849 et 1913, les navires de guerre américains sont entrés vingt-quatre fois dans les eaux territoriales haïtiennes, toujours « pour protéger les vies et les propriétés américaines ».

 

usa46.jpgEn 1914, les Américains placent le président haïtien devant un choix : céder l’administration des douanes aux Etats-Unis ou s’en aller. Le président refuse et l’Amiral Caperton fait débarquer ses marines, bloquer le parlement par des sentinelles américaines ; dans l’hémicycle, des officiers américains surveillent les députés avec des airs menaçants et, du coup, un nouveau président est élu. Ce nouveau président crée aussitôt une nouvelle constitution, adaptée aux circonstances, qui consent notamment aux étrangers le droit d’acheter des terres à Haïti. Selon le « Département d’Etat » américain, il n’avait pas été possible d’agir autrement car : « si notre occupation doit avoir un effet positif pour Haïti et favoriser son progrès, l’arrivée de capitaux étrangers s’avère nécessaire et on ne pourra évidemment pas demander à des Américains d’investir leur argent dans des plantations et des entreprises agricoles sans qu’ils ne puissent disposer de la propriété pleine et entière de ces terres ».

 

Dans la foulée, les marines occupent les bureaux de douane dans les dix escales maritimes les plus importantes du pays. En septembre 1915, les Américains envahissent l’ensemble du territoire haïtien.

 

Un ordre du Haut Commissaire interdit tout discours et tout écrit qui contiendraient « des critiques à l’endroit des forces armées américaines ou tenteraient de fomenter des manifestations contre des fonctionnaires américains ». L’occupation se prolongera jusqu’en 1934.

 

Quand les Américains s’en vont, 92% de la population est analphabète tandis que les énormes ressources naturelles de l’île sont exploitées au bénéfice exclusif des soixante familles américaines qui contrôlent les deux tiers des exportations et les neuf dixièmes des importations à Haïti. 30% des terres arables, qui produisaient auparavant pour le marché local, étaient désormais destinées à une agriculture intensive pour l’exportation. L’inévitable migration des populations rurales vers les centres urbains a mis à la disposition du grand capital une main-d’œuvre prête à travailler une journée entière pour 20 cents de dollar !

 

(article paru dans « Rinascita », Rome, 20 janvier 2010 ; trad.. franc. : Robert Steuckers).

vendredi, 29 janvier 2010

Nation et nationalisme, Empire et impérialisme, dévolution et grand espace

 

500px-Wappen_Deutscher_Bund_svg.png

 

 

Communication de Robert Steuckers

 

au XXIVième Colloque du GRECE, Paris, le 24 mars 1991

 

Nation et nationalisme, Empire et impérialisme, dévolution et grand espace

 

Mesdames, Mesdemoiselles, Messieurs, Chers amis et camarades,

 

Le thème de notre colloque d'aujourd'hui est à la fois intemporel et actuel.

 

Actuel parce que le monde est toujours, envers et contre les espoirs des utopistes cosmopolites, un pluriversum  de nations, et parce que nous replongerons tout à l'heure à pieds joints dans l'actualité internationale, marquée par le conflit, donc par la pluralité antagonistes des valeurs et des faits nationaux.

Intemporel parce que nous abordons des questions que toutes les générations, les unes après les autres, remettent inlassablement sur le tapis. En traitant de la nation et du nationalisme, de l'Empire et de l'impérialisme, nous touchons aux questions essentielles du politique, donc aux questions essentielles de l'être-homme, puisqu'Aristote déjà définissait l'homme comme un zoon politikon, comme un être ancré dans une polis, dans une cité, dans une nation. Ancrage nécessaire, ancrage incontournable mais ancrage risqué car précisément il accorde tout à la fois profondeur, sens de la durée et équilibre mais provoque aussi l'enfermement, l'auto-satisfaction, l'installation, la stérilité.

 

Devant le retour en Europe de l'Est et de l'Ouest d'un discours se proclamant nationaliste, il est impératif de comprendre ce double visage que peut prendre le nationalisme, de voir en lui cet avantage et ce risque, cette assurance que procure l'enracinement et ce dérapage qui le fait chavirer dans l'enfermement. Quant à la notion d'empire, elle a désigné au Moyen Age le Reich centre-européen, sorte d'agence qui apaisait les conflits entre les diverses ethnies et les multiples corps qui le composait; puis elle a désigné, sous Bonaparte, le militarisme qui tentait d'imposer partout en Europe des modèles constitutionnels marqués par l'individualisme bourgeois, qui méconnaissaient les logiques agrégatrices et communautaires des corps de métier, des «républiques villageoises» et des pays charnels; ensuite, elle a désigné l'impérialisme marchand et thalassocratique de l'Angleterre, qui visait l'exploitation de colonies par des groupes d'actionnaires, refusant le travail parce que, lecteurs de la Bible, ils voyaient en lui une malédiction divine; leur aisance, leur oisivité, ils la tiraient des spéculations boursières.

 

Cette confusion sémantique, qui vaut pour le terme «nation» comme pour le terme «empire», il importe que nous la dissipions. Que nous clarifions le débat. C'est notre tâche car, volontairement, nous parions pour le long terme et nous refusons de descendre directement dans l'arène politicienne qui nous force toujours aux pires compromis. Si nous ne redéfinissons pas nous-mêmes les concepts, si nous ne diffusons pas nos redéfinitions par le biais de nos stratégies éditoriales, personne ne le fera à notre place. Et la confusion qui règne aujourd'hui persistera. Elle persistera dans le chaos et de ce chaos rien de cohérent ne sortira.

Commençons par définir la nation, en nous rappelant ce qu'Aristote nous enseignait à propos du zoon politikon  ancré dans sa cité. Le politique, qui est l'activité théorique surplombant toutes les autres activités de l'homme en leur conférant un sens, prend toujours et partout son envol au départ d'un lieu qui est destin. A partir de ce lieu se crée une socialité particulière, étayée par des institutions bien adaptées à ce paysage précis, forcément différentes des institutions en vigueur dans d'autres lieux. Nous avons donc affaire à une socialité institutionnalisée qui procure à sa communauté porteuse autonomie et équilibre, lui assure un fonctionnement optimal et un rayonnement maximal dans son environnement. Le rayonnement élargit l'assise de la socialité, crée le peuple, puis la nation. Mais cette nation, produit d'une évolution partie de l'ethnos  originel, se diversifie à outrance au cours de l'évolution historique. En bout de course, nous avons toujours affaire à des nations à dimensions multiples, qui se déploient sur un fond historique soumis à tous les aléas du temps. Toute conception valide de la nation passe par une prise en compte de cette multidimensionalité et de ce devenir. Le peuple est donc une diversité sociologique qu'il faut organiser, notamment par le truchement de l'Etat.

 

L'Etat organise un peuple et le hisse au rang de nation. L'Etat est projet, plan:  il est, vis-à-vis de la concrétude nation, comme l'ébauche de l'architecte par rapport au bâtiment construit, comme la forme par rapport à la matière travaillée. Ce qui implique que l'Etat n'a pas d'objet s'il n'y a pas, au préalable, la concrétude nation. Toutes les idéologies statolâtriques qui prétendent exclure, amoindrir, juguler, réduire la concrétude, la matière qu'est la nation, sont des sottises théoriques. Le peuple précède l'Etat mais sans la forme Etat, il ne devient pas nation, il n'est pas organisé et sombre rapidement dans l'inexistence historique, avant de disparaître de la scène de l'histoire. L'Etat au service de la concrétude peuple, de la populité génératrice d'institutions spécifiques, n'est pas un concept abstrait mais un concept nécessaire, un concept qui est projet et plan, un projet grâce auquel les élites du peuple affrontent les nécessités vitales. L'Etat  —avec majuscule—   organise la totalité du peuple comme l'état  —sans majuscule—  organise telle ou telle strate de la société et lui confère du sens.

 

Mais il est des Etats qui ne sont pas a priori au service du peuple: Dans son célèbre ouvrage sur la définition du peuple (Das eigentliche Volk,  1932), Max Hildebert Boehm nous a parlé des approches monistes du concept Etat, des approches monistes qui refusent de tenir compte de l'autonomie nécessaires des sphères sociales. Ces Etats capotent rapidement dans l'abstraction et la coercition stérile parce qu'ils refusent de se ressourcer en permanence dans la socialité populaire, dans la «populité» (= Volkheit),  de se moduler sur les nécessités rencontrées par les corps sociaux. Cette forme d'Etat coupée du peuple apparaît vers la fin du Moyen Age. Elle provoque une rupture catastrophique. L'Etat se renforce et la socialité se recroqueville. L'Etat veut se hisser au-dessus du temps et de l'espace. Le projet d'Etat absolu s'accompagne d'une contestation qui ébauche des utopies, situées généralement sur des îles, elles aussi en dehors du temps et de l'espace. Dès que l'Etat s'isole de la socialité, il ne l'organise plus, il ne la met plus en forme. Il réprime des autonomies et s'appauvrit du même coup. Quand éclate la révolution, comme en France en 1789, nous n'assistons pas à un retour aux autonomies sociales dynamisantes mais à un simple changement de personnel à la direction de la machine Etat. Les parvenus remplacent les faisandés au gouvernail du bateau.  

C'est à ce moment historique-là, quand la nation concrète a périclité, que nous voyons émerger le nationalisme pervers que nous dénonçons. Le discours des parvenus est nationaliste mais leur but n'est pas la sauvegarde ou la restauration de la nation et de ses autonomies nécessaires, de ses autonomies qui lui permettent de rayonner et de briller de mille feux, de ses autonomies qui ont une dynamique propre qu'aucun décret ne peut régenter sans la meurtrir dangereusement. L'objectif du pouvoir est désormais de faire triompher une idéologie qui refuse de reconnaître les limites spatio-temporelles inhérentes à tout fait de monde, donc à toute nation. Une nation est par définition limitée à un cadre précis. Vouloir agir en dehors de ce cadre est une prétention vouée à l'échec ou génératrice de chaos et d'horreurs, de guerres interminables, de guerre civile universelle. Les révolutionnaires français se sont servis de la nation française pour faire triompher les préceptes de l'idéologie des Lumières. Ce fut l'échec. Les nationaux-socialistes allemands se sont servis de la nation allemande pour faire triompher l'idéal racial nordiciste, alors que les individus de race nordique sont éparpillés sur l'ensemble de la planète et ne constituent donc pas une concrétude pratique car toute concrétude pratique, organisable, est concentrée sur un espace restreint. Les ultramontains espagnols se sont servis des peuples ibériques pour faire triompher les actions du Vatican sur la planète. Les banquiers britanniques se sont servis des énergies des peuples anglais, écossais, gallois et irlandais pour faire triompher le libre-échangisme et permettre aux boursicotiers de vivre sans travailler et sans agir concrètement en s'abstrayant de toutes les limites propres aux choses de ce monde. Les jésuites polonais ont utilisé les énergies de leur peuple pour faire triompher un messianisme qui servait les desseins de l'Eglise.

 

Ce dérapage de l'étatisme, puis du nationalisme qui est un étatisme au service d'une abstraction philosophique, d'une philosophade désincarnée, a conduit aux affrontements et aux horreurs de la guerre de Crimée, de la guerre de 1870, de la guerre des Boers, des guerres balkaniques et de la guerre de 1914. Résultat qui condamne les nationalismes qui n'ont pas organisé leur peuple au plein sens du terme et n'ont fait que les mobiliser pour des chimères idéologiques ou des aventures colonialistes. Inversément, cet échec des nationalismes du discours et non de l'action concrète réhabilite les idéaux nationaux qui ont choisi l'auto-centrage, qui ont choisi de peaufiner une socialité adaptée à son cadre spatio-temporel, qui ont privilégié la rentabilisation de ce cadre en refusant le recours facile au lointain qu'était le colonialisme.

Pour sortir de l'impasse où nous ont conduit les folies nationalistes bellogènes, il faut opérer à la fois un retour aux socialités spatio-temporellement déterminées et il faut penser un englobant plus vaste, un conteneur plus spacieux de socialités diverses.

 

Le Saint-Empire du Moyen Age a été un conteneur de ce type. En langage moderne, on peut dire qu'il a été, avant son déclin, fédératif et agrégateur, qu'il a empêché que des corps étatiques fermés ne s'installent au cœur de notre continent. La disparition de cette instance politique et sacrée à la suite de la fatale calamité des guerres de religion a provoqué le chaos en Europe, a éclaté l'œkoumène européen médiéval. Sa restauration est donc un postulat de la raison pratique. A la suite des discours nationalistes fallacieux, il faut réorganiser le système des Etats européens en évitant justement que les peuples soient mobilisés pour des projets utopiques irréalisables, qu'ils soient isolés du contexte continental pour être mieux préparés par leurs fausses élites aux affrontements avec leurs voisins. Il faut donc réorganiser le continent en ramenant les peuples à leurs justes mesures. Ce retour des limites incontournables doit s'accompagner d'une déconstruction des enfermements stato-nationaux, où les peuples ont été précisément enfermés pour y être éduqués selon les principes de telle ou telle chimère universaliste.

 

Le retour d'une instance comparable au Saint-Empire mais répondant aux impératifs de notre siècle est un vieux souhait. Constantin Frantz, le célèbre philosophe et politologue allemand du XIXième siècle, parlait d'une «communauté des peuples du couchant», organisée selon un fédéralisme agrégateur, reposant sur des principes diamétralement différent de ceux de la révolution française, destructrice des tissus sociaux concrets par excès de libéralisme économique et de militarisme bonapartiste.

 

Guillaume de Molinari, économiste français, réclamait à la fin du XIXième siècle la construction d'un «marché commun» incluant l'Allemagne, l'Autriche-Hongrie, la France, la Hollande, la Belgique, le Danemark et la Suisse. Il a soumis ses projets aux autorités françaises et à Bismarck. Lujo Brentano envisage à la même époque une union économique entre l'Autriche-Hongrie et les nouveaux Etats balkaniques. L'industriel autrichien Alexander von Peez, par un projet d'unification organique de l'Europe, entend répondre aux projets américains de construire l'Union panaméricaine, qui évincera l'Europe d'Amérique latine et amorcera un processus d'«américanisation universelle». Gustav Schmoller affirme que toute politique économique européenne sainement comprise ne peut en aucun cas s'enliser dans les aventures coloniales, qui dispersent les énergies, mais doit se replier sur sa base continentale et procéder à grande échelle à une «colonisation intérieure». Jäckh et Rohrbach théorisent enfin un projet de grande envergure: l'organisation économique de l'Europe selon un axe diagonal Mer du Nord/Golfe Persique. L'objectif de la théorie et de la pratique économiques devait être, pour ces deux économistes des vingt premières années de notre siècle, d'organiser cette ligne, partant de l'embouchure du Rhin à Rotterdam pour s'élancer, via le Main et le Danube, vers la Mer Noire et le Bosphore, puis, par chemin de fer, à travers l'Anatolie et la Syrie, la Mésopotamie et le villayat de Bassorah, aboutir au Golfe Persique. Vous le constatez, on retombe à pieds joints dans l'actualité. Mais, ce projet de Jäckh et de Rohrbach, qu'a-t-il à voir avec le thème de notre colloque? Que nous enseigne-t-il quant au nationalisme ou à l'impérialisme?

Beaucoup de choses. En élaborant leurs projets d'organisation continentale en zones germanique, balkanique et turque, les puissances centrales de 1914 réévaluaient le rôle de l'Etat agrégateur et annonçaient, par la voix du philosophe Meinecke, que l'ère des spéculations politiques racisantes était terminée et qu'il convenait désormais de faire la synthèse entre le cosmopolitisme du XVIIIième siècle et le nationalisme du XIXième siècle dans une nouvelle forme d'Etat qui serait simultanément supranationale et attentive aux ethnies qu'elle englobe. L'Entente, porteuse des idéaux progressistes de l'ère des Lumières, veut, elle, refaire la carte de l'Europe sur base des nationalités, ce qui a fait surgir, après Versailles, une «zone critique» entre les frontières linguistiques allemande et russe. Nous découvrons là la clef du problème qui nous préoccupe aujourd'hui: les puissances porteuses des idéaux des Lumières sont précisément celles qui ont encouragé l'apparition de petits Etats nationaux fermés sur eux-mêmes, agressifs et jaloux de leurs prérogatives. Universalisme et petit-nationalisme marchent la main dans la main. Pourquoi? Parce que l'entité politique impérialiste par excellence, l'Angleterre, a intérêt à fragmenter la diagonale qui s'élance de Rotterdam aux plages du Koweit. En fragmentant cette diagonale, l'Angleterre et les Etats-Unis de Wilson brisent la synergie grande-continentale européenne et ottomane de Vienne au Bosphore et de la frontière turque aux rives du Golfe Persique.

 

Or depuis la chute de Ceaucescu en décembre 1989, tout le cours du Danube est libre, déverrouillé. En 1992, les autorités allemandes inaugureront enfin le canal Main-Danube, permettant aux pousseurs d'emmener leurs cargaisons lourdes de Constantza, port roumain de la Mer Noire, à Rotterdam. Un oléoduc suivant le même tracé va permettre d'acheminer du pétrole irakien jusqu'au cœur industriel de la vieille Europe. Voilà les raisons géopolitiques réelles de la guerre déclenchée par Bush en janvier dernier. Car voici ce que se sont très probablement dit les stratèges des hautes sphères de Washington: «Si l'Europe est reconstituée dans son axe central Rhin-Main-Danube, elle aura très bientôt la possibilité de reprendre pied en Turquie, où la présence américaine s'avèrera de moins en moins nécessaire vu la déliquescence du bloc soviétique et les troubles qui secouent le Caucase; si l'Europe reprend pied en Turquie, elle reprendra pied en Mésopotamie. Elle organisera l'Irak laïque et bénéficiera de son pétrole. Si l'Irak s'empare du Koweit et le garde, c'est l'Europe qui finira par en tirer profit. La diagonale sera reconstituée non plus seulement de Rotterdam à Constantza mais du Bosphore à Koweit-City. La Turquie, avec l'appui européen, redeviendra avec l'Irak, pôle arabe, la gardienne du bon ordre au Proche-Orient. Les Etats-Unis, en phase de récession, seront exclus de cette synergie, qui débordera rapidement en URSS, surtout en Ukraine, pays capable de redevenir, avec un petit coup de pouce, un grenier à blé européen auto-suffisant. Alors, adieu les achats massifs de blé et de céréales aux Etats-Unis! Cette synergie débordera jusqu'en Inde et en Indonésie, marchés de 800 millions et de 120 millions d'âmes, pour aboutir en Australie et en Nouvelle-Zélande. Un grand mouvement d'unification eurasienne verrait le jour, faisant du même coup déchoir les Etats-Unis, en mauvaise posture financière, au rang d'une puissance de second rang, condamnée au déclin. Les Etats-Unis ne seraient plus un pôle d'attraction pour les cerveaux du monde et on risquerait bien de voir s'effectuer une migration en sens inverse: les Asiatiques d'Amérique, qui sont les meilleurs étudiants d'Outre-Atlantique, retourneraient au Japon ou en Chine; les Euro-Américains s'en iraient faire carrière en Allemagne ou en Italie du Nord ou en Suède. Comment éviter cela? En reprenant à notre compte la vieille stratégie britannique de fragmentation de la diagonale! Et où faut-il la fragmenter à moindres frais? En Irak, pays affaibli par sa longue guerre contre l'Iran, pays détenteur de réserves pétrolières utiles à l'Europe».

 

La stratégie anglo-américaine de 1919, visant la fragmentation des Balkans et du Proche-Orient arabe et projetant la partition de la Turquie en plusieurs lambeaux, et la stratégie de Bush qui entend diviser l'Irak en trois républiques distinctes et antagonistes, sont rigoureusement de même essence. L'universalisme libéral-capitaliste, avatar des Lumières, instrumentalise le petit-nationalisme de fermeture pour arriver à asseoir son hégémonie.

 

Au seuil du XXième siècle comme au seuil du XXIième, la necessité d'élargir les horizons politiques aux dimensions continentales ont été et demeurent nécessaires. Au début de notre siècle, l'impératif d'élargissement était dicté par l'économie. Il était quantitatif. Aujourd'hui, il est encore dicté par l'économie et par les techniques de communications mais il est dicté aussi par l'écologie, par la nécessité d'un mieux-vivre. Il est donc aussi qualitatif. L'irruption au cours de la dernière décennie des coopérations interrégionales non seulement dans le cadre de la CEE mais entre des Etats appartenant à des regroupements différents ou régis par des systèmes socio-économiques antagonistes, ont signifié l'obsolescence des frontières stato-nationales actuelles. Les énergies irradiées à partir de diverses régions débordent le cadre désormais exigu des Etats-Nations. Les pays riverains de l'Adriatique et ceux qui forment, derrière la belle ville de Trieste, leur hinterland traditionnel, ont organisé de concert les synergies qu'ils suscitent. En effet, l'Italie, au nom de la structure stato-nationale née par la double action de Cavour et de Garibaldi, doit-elle renoncé aux possibles qu'avaient jadis concrétisé l'élan vénitien vers la Méditerranée orientale? La Sarre, la Lorraine et le Luxembourg coopèrent à l'échelon régional. Demain, l'axe Barcelone-Marseille-Turin-Milan fédèrera les énergies des Catalans, des Languedociens, des Provençaux, des Piémontais et des Lombards, en dépit des derniers nostalgiques qui veulent tout régenter au départ de Madrid, Paris ou Rome. Ces coopérations interrégionales sont inéluctables. Sur le plan de la politologie, Carl Schmitt nous a expliqué que le Grand Espace, la dimension continentale, allait devenir l'instance qui remplacera l'«ordre concret» établi par l'Etat depuis Philippe le Bel, Philippe II d'Espagne, François I, Richelieu ou Louis XIV. Ce remplacement est inévitable après les gigantesques mutations de l'ère techno-industrielle. Schmitt constate que l'économie a changé d'échelle et que dans le cadre de l'Etat, figure politique de la modernité, les explosions synergétiques vers la puissance ou la créativité ne sont plus possibles. Le maintien de l'Etat, de l'Etat-Nation replié sur lui-même, vidé de l'intérieur par tout un éventail de tiraillements de nature polycratique, ne permet plus une mobilisation holarchique du peuple qu'il n'administre plus que comme un appareil purement instrumental. Sa décadence et son exigüité appellent une autre dimension, non obsolète celle-là: celle du Grand Espace.

 

Si le Grand Espace est la seule figure viable de la post-modernité, c'est parce qu'on ne peut plus se contenter de l'horizon régional de la patrie charnelle ou de l'horizon supra-régional de l'Etat-Nation moderne. L'horizon de l'avenir est continental mais diversifié. Pour pouvoir survivre, le Grand Espace doit être innervé par plusieurs logiques de fonctionnement, pensées simultanément, et être animé par plusieurs stratégies vitales concomitantes. Cette pluralité, qui n'exclut nullement la conflictualité, l'agonalité, est précisément ce que veulent mettre en exergue les différentes écoles de la post-modernité.

 

Cette post-modernité du Grand Espace, animé par une pluralité de logiques de fonctionnement, condamne du même coup les monologiques du passé moderne, les monologiques de ce passatisme qu'est devenue la modernité. Mais elle condamne aussi la logique homogénéisante de l'impérialisme commercial et gangstériste des Etats-Unis et la monologique frileuse des gardiens du vieil ordre stato-national.

 

Pour organiser le Grand Espace, de Rotterdam à Constantza ou le long de toute la diagonale qui traverse l'Europe et le Proche-Orient de la Mer du Nord au Koweit, il faut au moins une double logique. D'abord une logique dont un volet réclame la dévolution, le recentrage des énergies populaires européennes sur des territoires plus réduits, parce que ces territoires ne seront alors plus contraints de ne dialoguer qu'avec une seule capitale mais auront la possibilité de multiplier leurs relations interrégionales. Ensuite une logique qui vise l'addition maximale d'énergies en Europe, sur le pourtour de la Méditerranée et au Proche-Orient.

L'adhésion à la nation, en tant qu'ethnie, demeure possible. Le dépassement de cet horizon restreint aussi, dans des limites élargies, celles du Grand Espace. L'ennemi est désigné: il a deux visages selon les circonstances; il est tantôt universaliste/mondialiste, tantôt petit-nationaliste. Il est toujours l'ennemi de l'instance que Carl Schmitt appelait de ses vœux.

 

Que faire? Eh bien, il faut 1) Encourager les logiques de dévolution au sein des Etats-Nations; 2) Accepter la pluralité des modes d'organisation sociale en Europe et refuser la mise au pas généralisée que veut nous imposer l'Europe de 1993; 3) Recomposer la diagonale brisée par les Américains; 4) Organiser nos sociétés de façons à ce que nos énergies et nos capitaux soient toujours auto-centrés, à quelqu'échelon du territoire que ce soit; 5) Poursuivre la lutte sur le terrain métapolitique en s'attaquant aux logiques de la désincarnation, avatars de l'idéologie des Lumières.

 

Pour conclure, je lance mon appel traditionnel aux cerveaux hardis et audacieux, à ceux qui se sentent capables de s'arracher aux torpeurs de la soft-idéologie, aux séductions des pensées abstraites qui méconnaissent limites et enracinements. A tous ceux-là, notre mouvement de pensée ne demande qu'une chose: travailler à la diffusion de toutes les idées qui transgressent les enfermements intellectuels, le prêt-à-penser.

Je vous remercie.

 

Robert Steuckers.

 

jeudi, 24 décembre 2009

Entrevista al especialista en geopolitica y mundo arabe Mohemmed Hassan

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Entrevista al especialista en geopolítica y mundo árabe Mohammed Hassan

Somalia: De cómo las potencias coloniales mantienen al país sumido en el caos

Somalia tenía todo lo necesario para salir adelante: una situación geográfica privilegiada, petróleo, minerales y, algo raro en África, una sola religión y una única lengua para todo el país. Somalia hubiera podido ser una gran potencia regional. Pero la realidad es muy diferente: hambrunas, guerras, pillaje, piratas, atentados… ¿Cómo se ha desmoronado este país? ¿Por qué no existe un gobierno somalí desde hace casi veinte años? ¿Qué escándalos se ocultan tras los piratas que secuestran nuestros barcos? En esta nueva entrega de la serie “Comprender el mundo musulmán”, Mohammed Hassan nos explica por qué y cómo las potencias imperialistas han aplicado a Somalia la teoría del caos.

¿Cómo se ha desarrollado la piratería en Somalia? ¿Quiénes son los piratas?

Desde 1990, no existe un gobierno en Somalia y el país se encuentra en manos de los señores de la guerra. Los barcos europeos y asiáticos se han aprovechado de la situación caótica para pescar en las costas somalíes sin licencia alguna y sin respetar unas normas elementales. No han respetado las cuotas vigentes en sus países de origen para preservar las especies, y han empleado técnicas de pesca- en especial, dinamita- que han producido graves daños a la riqueza pesquera de los mares somalíes.


Pero eso no es todo. Aprovechándose, asimismo, de esta falta de autoridad política, las empresas europeas, ayudadas por la mafia, han vertido residuos nucleares a lo largo de las costas de Somalia. Europa estaba al corriente, pero ha cerrado los ojos porque esta solución presentaba ventajas prácticas y económicas para el tratamiento de los residuos nucleares. Por otra parte, el tsunami de 2005 depositó gran parte de esos residuos nucleares en las tierras somalíes, lo que ha ocasionado la aparición de enfermedades desconocidas entre la población de Somalia. Este es el contexto en el que se ha desarrollado, esencialmente, la piratería somalí. Los pescadores de Somalia, con técnicas rudimentarias, no estaban en condiciones de faenar, por lo que han decidido protegerse y proteger sus mares. Es exactamente lo mismo que hizo Estados Unidos en su guerra civil contra los británicos (1756-1763): al no disponer de fuerzas navales, el presidente Georges Washington llegó a un acuerdo con los piratas para proteger la riqueza de las costas estadounidenses.

¿Cómo es posible que desde hace casi veinte años no exista un Estado somalí?

Es la consecuencia de una estrategia estadounidense. En 1990, el país estaba conmocionado por los conflictos, el hambre y el pillaje, y el Estado se vino abajo. Ante la situación, Estados Unidos, que había descubierto unos años antes las reservas de petróleo de Somalia, lanzó en 1992 la operación Restore Hope [Restaurar la Esperanza], y por primera vez, los marines estadounidenses intervinieron en África para controlar el país. También por vez primera, una invasión militar se llevó a cabo en nombre de la injerencia humanitaria.

¿Se refiere a los famosos sacos de arroz exhibidos en una playa somalí por Bernard Kouchner?

Sí, todo el mundo recuerda las imágenes, cuidadosamente preparadas. Pero las verdaderas razones eran estratégicas. Un documento del departamento de Estado estadounidense preconizaba que, tras la caída del bloque soviético, Estados Unidos se mantuviera como la única super potencia mundial y, para conseguir este objetivo, recomendaba ocupar una posición hegemónica en África, muy rica en materias primas

Sin embargo la operación Restore Hope fue un fracaso. La película La chute du faucon noir [La caída del halcón negro] impactó a los estadounidenses con sus pobres soldados “asaltados por los perversos rebeldes somalíes”…

Ciertamente, la resistencia nacionalista somalí derrotó a los soldados estadounidenses y desde entonces, la política de Estados Unidos ha sido mantener Somalia sin un verdadero gobierno, es decir, balkanizarla. La antigua estrategia británica, ya aplicada en numerosos lugares: establecer Estados débiles y divididos para manejar mejor el tinglado. Esa es la razón de que no exista un Estado somalí desde hace casi veinte años: Estados Unidos mantiene su teoría del caos para impedir la reconciliación de los somalíes y mantener así al país dividido

En Sudán, tras la guerra civil, Exxon tuvo que abandonar el país después de descubrir la existencia de petróleo. ¿Dejar que Somalia se suma en el caos no es contrario a los intereses de Estados Unidos que no pueden explotar el petróleo hallado?

La explotación del petróleo somalí no es su objetivo prioritario. Estados Unidos sabe que las reservas están ahí y no tienen una necesidad inmediata de ellas. Para su estrategia, son otros dos los factores más importantes. Ante todo, impedir a sus competidores negociar ventajosamente con un Estado somalí rico y fuerte. Ustedes hablan de Sudán, y la comparación resulta interesante. El petróleo que las compañías petroleras descubrieron hace treinta años, ahora se vende a los chinos. Podría ocurrir lo mismo en Somalia. Cuando Abdullah Yussuf era presidente del gobierno de transición se fue a China, a pesar de estar apoyado por Estados Unidos, y los media estadounidenses criticaron ferozmente la visita. El hecho cierto es que EE.UU. no tiene garantía alguna en este tema: si mañana se estableciera un gobierno somalí, con independencia de su color político, podría adoptar una estrategia independiente de la estadounidense y comerciar con China. Así que los Estados occidentales imperialistas no quieren en modo alguno un Estado somalí unido y fuerte. El segundo objetivo, buscado mediante la teoría del caos, está relacionado con la situación geográfica de Somalia, estratégica para los imperialistas de Estados Unidos y Europa.

¿Por qué es estratégica?

Miren el mapa, para controlar el océano Índico. Tal como he dicho antes, las potencias occidentales tiene una gran responsabilidad en el desarrollo de la piratería en Somalia. Pero en lugar de decir la verdad y pagar indemnizaciones por lo que han hecho, criminalizan el fenómeno con el fin de justificar sus actuaciones en la región. Con el pretexto de combatir la piratería, la OTAN sitúa su marina de guerra en el océano Índico.

¿El verdadero objetivo?

Controlar el desarrollo económico de las potencias emergentes, en especial de India y China: la mitad de la flota mundial de transporte de contenedores y el 70% del tráfico total de productos petroleros pasa por el océano Índico. Y, desde el punto de vista estratégico, Somalia ocupa un lugar importante: el país tiene la costa más grande de África (3.300 kilómetros) y se encuentra frente al golfo Árabe y el estrecho de Ormuz, dos de los centros neurálgicos de la economía de la región. Además, si se llegara a una solución pacífica al problema somalí, las relaciones entre África e India y China podrían desarrollarse a través del océano Índico y los competidores de Estados Unidos podrían entonces influir en esta zona de África. Mozambique, Kenia, Madagascar, Tanzania, Zanzíbar, Sudáfrica…, todos ellos unidos por el océano Índico tendrían un fácil acceso al mercado asiático y podrían desarrollar unas relaciones económicas beneficiosas. Nelson Mandela, cuando era presidente de Sudáfrica, ya aludió a la necesidad de una revolución en el Índico con nuevas relaciones económicas. Proyecto que tanto Estados Unidos como Europa no quieren. Y esa es la razón por la que prefieren que Somalia siga sumida en el caos.

Usted afirma que Estados Unidos no quiere la reconciliación en Somalia, pero ¿Cuáles han sido los orígenes de las divisiones somalíes?

Para comprender la actual situación caótica, es preciso remontarse a la historia de Somalia, un país dividido por las fuerzas coloniales. En 1959, Somalia consigue la independencia con la unión de las colonias italiana del sur y británica del norte. Pero los somalíes viven además en ciertas zonas de Kenia, de Etiopía y de Djibuti. El nuevo Estado somalí, en principio, adopta como bandera una estrella, en la que cada punta representa una de las partes de la Somalia histórica. El lema que se incluye tras este símbolo es el siguiente: “Se han reunificado dos Somalias pero todavía quedan tres que siguen colonizadas”.

Ante la legimitidad de sus reivindicaciones, los británicos- que controlaban Kenia- organizaron un referéndum en la región del país que reivindicaba Somalia. El 87% de la población, originaria esencialmente de etnias somalíes se pronunció por la unión con Somalia. Pero al hacerse públicos los resultados, Jomo Kenyatta, líder de un movimiento nacionalista keniano, amenazó a los británicos con la expulsión de sus colonos si cedían una parte del territorio a Somalia. Y Gran Bretaña decidió entonces no tener en cuenta el resultado del referéndum y, todavía hoy, una importante comunidad de somalíes vive en Kenia. Hay que entender que estas fronteras coloniales han sido una verdadera catástrofe para Somalia. Es una cuestión que, por otra parte, ya ha sido motivo de un debate importante sobre el continente africano.

¿Qué estaba en juego en el debate?

En los años sesenta, mientras muchos países africanos alcanzaban la independencia, un debate enfrentó a los países pertenecientes a los grupos de Monrovia y de Casablanca. Este último, formado entre otros por Marruecos y Somalia, aspiraba a que se replantearan las fronteras heredadas del colonialismo, que en su opinión no tenían legitimidad alguna, ya que la mayoría de los países africanos y sus fronteras son producto del colonialismo. Finalmente, la Organización de la Unidad Africana (OUA), antecesora de la actual Unión Africana, puso fin al debate al decidir que las fronteras eran intocables, y volver a sus delimitaciones provocaría guerras civiles en todo el continente. Con posterioridad, uno de los promotores de la OUA, el tanzano Julius Nyerere, confesó que esta decisión fue la mejor pero que se arrepentía de ella en el caso somalí.

¿Cuál fue el impacto de las divisiones coloniales en Somalia?

Produjeron tensiones con los países vecinos. Durante los años en que Somalia reclamaba la revisión de las fronteras, Etiopía se había convertido en un bastión del imperialismo estadounidense que, asimismo, tenía bases militares en Kenia y en Eritrea. Fue entonces cuando Somalia, joven democracia de nómadas, expresó el deseo de tener su propio ejército, con el fin de no ser demasiado débil frente a sus vecinos armados, de ayudar a los grupos somalíes en Etiopía e incluso de recuperar mediante la fuerza algunos territorios. Pero las potencias occidentales se opusieron a la creación de un ejército somalí.

En aquella época, Somalia tenía relaciones tensas con sus vecinos. ¿No era razonable oponerse a la idea de un ejército somalí? ¿No hubiera provocado guerras?

A occidente no le preocupaban los conflictos entre países africanos sino sus propios intereses. Estados Unidos y Gran Bretaña equipaban y formaban a los militares en Etiopía, en Kenia y en Eritrea, países que todavía vivían bajo el yugo de sistemas feudales muy represivos. Pero se trataba de gobiernos neocoloniales sometidos a los intereses de occidente. En Somalia, por el contrario, el poder era mucho más democrático e independiente, por lo que los occidentales no tenían interés alguno en armar a un país que podía escapar a su control.

Por consiguiente, Somalia decidió volverse hacia la Unión Soviética, lo que produjo una gran preocupación entre las potencias occidentales, temerosas de que la influencia de la URSS se extendiera por África. Temores que se acentuaron con el golpe de Estado de 1969.

¿Qué quiere decir?

La ideología socialista se había extendido por el país y, en efecto, una comunidad importante de somalíes vivía en Adén, al sur del Yemen. Es decir, la ciudad a la que Gran Bretaña acostumbraba a enviar al exilio a todas las personas que consideraba peligrosas en la India: comunistas, nacionalistas, etc., que eran arrestadas y enviadas a Adén, donde se desarrollaron rápidamente las ideas nacionalistas y revolucionarias que afectaron después a los yemeníes y también a los somalíes. Con la presión de civiles de ideología marxista, los militares organizaron un golpe de Estado que llevó al poder en Somalia a Siad Barré.

¿Qué motivó el golpe de Estado?

El gobierno somalí era un gobierno corrupto que, sin embargo, tenía en sus manos todos los requisitos para convertir al país en una gran potencia de la región: situación estratégica, una lengua única, una sola religión y demás elementos culturales comunes. Algo que resulta muy raro en África. Pero al fracasar en el desarrollo económico del país, el gobierno creó un clima favorable a la división en clanes. Con el pretexto de dedicarse a la política, las élites somalíes se dividieron y crearon cada una su propio partido sin auténtico programa y reclutando sus electorados según los clanes existentes, lo que acentuó las divisiones y resultó totalmente inviable. Una democracia de tipo liberal no se adaptaba a Somalia: ¡en un momento dado hubo 63 partidos políticos en un país de tres millones de habitantes! Y el gobierno se sintió incapaz, incluso, de establecer una lengua oficial, lo que produjo graves problemas en la Administración. El nivel educativo era muy bajo, pero a pesar de ello se creó una burocracia, una policía y un ejército, que por otra parte, jugaron un papel fundamental en el golpe de Estado progresista.

¿“Progresista” con el ejército?

El ejército era la única institución organizada en Somalia. Como aparato para la represión, se suponía que debía proteger al supuesto gobierno civil y a las élites. Pero para muchos somalíes procedentes de familias de regiones distintas, el ejército era también un lugar de encuentros y de intercambios, en el que no existían fronteras, ni tribus ni división entre clanes… Y así las ideas marxistas traídas desde Adén empezaron a propagarse en el seno del ejército. El golpe de Estado lo prepararon oficiales ante todo nacionalistas que, sin tener buenos conocimientos del socialismo, sentían simpatía por sus ideas. Además, estaban al corriente de lo que ocurría en Vietnam y abrigaban sentimientos anti-imperialistas. Los civiles, buenos conocedores de Marx y Lenin, pero carentes de un partido político de masas, apoyaron el golpe y se convirtieron en asesores oficiales cuando los militares tomaron el poder.

¿Que cambios aportó el golpe de Estado a Somalia?

Un importante aspecto a resaltar fue que el nuevo gobierno adoptó de inmediato una lengua oficial. Además, tenía el apoyo de la Unión Soviética y China; los estudiantes y el pueblo se movilizaron; se mejoraron la educación y la situación social… los años inmediatos al golpe de Estado fueron así los mejores que Somalia haya conocido. Hasta 1977.

¿Qué cambió entonces?

Somalia, dividida por las potencias coloniales, atacó Etiopía para recuperar el territorio de Ogadén, donde los somalíes eran mayoritarios. Pero, en aquella época, Etiopía también era un Estado socialista apoyado por los soviéticos. El país había estado dirigido por el emperador Selassie, pero durante los años setenta la movilización para derrocarle había sido muy intensa y los movimientos estudiantiles- en los yo participé personalmente- planteaban cuatro reivindicaciones principales. La primera, resolver las tensiones con Eritrea de forma democrática y pacífica. En segundo lugar, llevar a cabo una reforma agraria que distribuyera la tierra entre los campesinos. La tercera, establecer el principio de igualdad entre las diversas nacionalidades: Etiopía, era todavía un país multinacional dirigido por una élite no representativa de la diversidad. Por último, abolir el sistema feudal y establecer un Estado democrático. Al igual que en Somalia, el ejército era la única institución organizada en Etiopía, y los civiles se unieron a los oficiales para derrocar a Selassie en 1974.

¿Cómo fue posible que dos Estados socialistas apoyados por la Unión Soviética se enfrentaran bélicamente?

Tras la revolución etíope, una delegación de representantes de la Unión Soviética, Cuba y Yemen del Sur organizó una mesa redonda, con la participación de Etiopía y Somalia, para resolver sus diferencias. Castro fue a Addis Abeba y a Mogadiscio y, según él, las reivindicaciones de Somalia estaban justificadas. Finalmente, la delegación etíope aceptó estudiar seriamente las peticiones de su vecino somalí y ambos países firmaron un acuerdo en el que se estipulaba que no habría provocación alguna mientras se tomaba una decisión. Las cosas parecían bien encarriladas pero Somalia no respetó el acuerdo…

Dos días después del regreso a su país de la delegación etíope, Henry Kissinger, ex ministro del presidente Nixon, desembarcó en Mogadiscio. Kissinger representaba a una organización no oficial: el Safari Club, que agrupaba al Irán del Shah, al Congo de Mobutu, Arabia Saudí, Marruecos y los servicios secretos franceses y paquistaníes. El objetivo de la organización era combatir la supuesta infiltración soviética en el Golfo y en África. Movido por las presiones y las promesas de ayuda del Safari Club, Siad Barré iba a cometer un desastre, un grave error estratégico: atacar Etiopía.

¿Cuáles fueron las consecuencias de esta guerra?

Los soviéticos abandonaron la región, y Somalia, todavía presidida por Siad Barré, se integró en la red neocolonial de las potencias imperialistas. El país había quedado gravemente afectado por el conflicto, y el Banco Mundial y el FMI se encargaron de su “reconstrucción”, lo que iba a agravar las contradicciones en el seno de la burguesía somalí. Cada una de las élites regionales aspiraban a tener sus propios mercados, lo que acentuó las divisiones entre clanes y contribuyó al desmembramiento progresivo del país hasta la caída de Siad Barré en 1990. Desde entonces, no ha habido ningún otro jefe de Estado.

Pero, treinta años después de la guerra de Ogaden, la situación se invierte: Etiopía, apoyada por Estados Unidos, ataca a Somalia…

Sí, tal como ya he dicho, desde el fracaso de la operación Restore Hope, Estados Unidos ha preferido mantener Somalia sumida en el caos. Sin embargo, en 2006, se desarrolló un movimiento espontáneo, que enarbolaba la bandera de los tribunales islámicos, para combatir a los señores de la guerra locales y rehacer la unidad del país. Fue una especie de Intifada. Para impedirlo, Estados Unidos decidió de repente apoyar al gobierno de transición somalí al que nunca había querido reconocer. De hecho, se dieron cuenta de que su plan de una Somalia sin un Estado real ya no era posible, y que un movimiento estaba a punto de conseguir la reconciliación del país, ¡y además era islámico! Con el propósito de sabotear la unidad del país, decidieron entonces apoyar al gobierno de transición. Pero como éste no disponía ni de una base social ni de un ejército, fueron las tropas etíopes, dirigidas por Washington las que atacaron Mogadiscio para acabar con los tribunales islámicos.

¿Lo consiguieron?

No. El ejército etíope fue derrotado y debió abandonar Somalia. Por su parte, los tribunales islámicos se disgregaron en diversos movimientos que todavía hoy controlan buena parte del país. En lo que respecta al gobierno de transición de Abdullah Yussuf, se desmoronó y Estados Unidos lo ha sustituidos por Sheik Sharif, antiguo portavoz de los tribunales islámicos.

¿Entonces Sheik Sharif se ha pasado al “otro bando”?

Él era el portavoz de los tribunales islámicos porque es un buen orador pero no tiene experiencia política, ni idea alguna de qué es el imperialismo o el nacionalismo. Por eso lo han recuperado las potencias occidentales. Era el eslabón más débil de los tribunales islámicos y hoy preside un pseudo gobierno, establecido en Djibuti. Un gobierno sin base social ni autoridad en Somalia y que se mantiene en la escena internacional porque le apoyan las potencias occidentales.

En Afganistán, Estados Unidos dice estar dispuesto a negociar con los Talibán. ¿Por qué no trata de dialogar con los grupos islámicos de Somalia?

Porque estos grupos pretender expulsar a los ocupantes extranjeros y conseguir una reconciliación nacional del pueblo somalí. Así que Estados Unidos quiere acabar con esos grupos, porque una reconciliación – bien sea a través de los movimientos islámicos o bien sea por medio del gobierno de transición- no sirve a los interese de las fuerzas imperialistas. Quieren el caos. El problema es que hoy este caos se extiende también a Etiopía, muy debilitada tras la guerra de 2007. Allí ha aparecido un movimiento de resistencia nacional que lucha contra el gobierno pro-imperialista de Addis Abeba. Con su teoría del caos, Estados Unidos ha provocado problemas en toda la región. Y ahora la emprenden con Eritrea.

¿Por qué?

Este pequeño país mantiene una política nacional independiente. Eritrea tiene también una perspectiva global de la región: el cuerno de África (Somalia, Djibuti, Etiopía, Eritrea) no necesita la injerencia de las potencias extranjeras, y sus riquezas deben permitirles establecer unas relaciones económicas nuevas, basadas en el respeto mutuo. Para Eritrea, esta región debe ponerse a la tarea y sus miembros deben discutir sus problemas. Pero está claro que esa política asusta a Estados Unidos que teme que otros países sigan el ejemplo. Por eso, acusan a Eritrea de enviar armas a Somalia y de promover disturbios en Etiopía.

En su opinión, ¿Eritrea no envía armas a Somalia?

¡Ni un solo cartucho! Eso es propaganda pura y dura, como la que se montó contra Siria en relación con la resistencia iraquí. La visión global de Eritrea se ajusta al proyecto de revolución para el océano Índico de la que hemos hablado antes. Las potencias occidentales no lo aceptan y aspiran a meter a Eritrea en el círculo de los Estados neocoloniales que controlan, como Kenia, Etiopía o Uganda.

¿No hay terroristas en Somalia?

Las potencias imperialistas siempre califican de terroristas a los pueblos que luchan por sus derechos. Los islandeses eran terroristas hasta que firmaron un acuerdo. [Mahmud]Abbas era un terrorista, ahora es un amigo.

Sin embargo se habla de la presencia de Al Qaeda

Al Qaeda está por todas partes, ¡desde Bélgica a Australia! Esta Al Qaeda invisible es un logotipo destinado a justificar ante la opinión pública las operaciones militares. Si Estados Unidos dijera a sus ciudadanos y a sus soldados: “ Vamos a enviar nuestras tropas al océano Índico por si hay que enfrentarse a China”, por supuesto que la gente tendría miedo. Pero si dicen que se trata de luchar contra los piratas y contra Al Qaeda, no les plantea problemas. En realidad, el auténtico objetivo es otro. Se trata de desplegar fuerzas en la región del Índico que va a ser el escenario de conflictos de más importancia en los próximos años. Pero eso lo analizaremos en el capítulo siguiente…

Gregoire Lalieu y Michel Collon

Traducido por Felisa Sastre, extraído de Rebelión.

~ por LaBanderaNegra en Diciembre 13, 2009.

mardi, 22 décembre 2009

Le monothéisme comme système de pouvoir en Amérique latine

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1999

 

 

Le monothéisme comme système de pouvoir en Amérique latine

 

 

Jacques-Olivier MARTIN

 

Considéré comme le bastion traditionnel du catholicisme, l'Amérique latine est actuellement l'enjeu de luttes d'influence entre différents groupes religieux chrétiens dont le prosélytisme atteint son paroxysme. Vivement encouragés par les dirigeants politiques du continent, le développement des sectes protestantes permet d'assurer le contrôle politique de populations misérables qui constituent le terreau des guérillas anti-américaines et dont quelques prêtres catholiques, adeptes de la Théologie de la Libération ont pris la défense. Particulièrement visés par cette stratégie, les Indiens constituent en effet une menace pour le système car ils associent revendications sociales et défense de leur identité culturelle et religieuse. D'où l'intéret d'une religion associant individualisme, universalisme et soumission à I'ordre établi, valeurs par excellence d'une société soumise à I'hégémonie américaine.

 

Un continent soumis depuis cinq siècles à l'hégémonie européenne, puis américaine

 

Avec l'accession à l'indépendance des anciennes colonies de la couronne d'Espagne, l'Amérique latine connaît tout le contraire d'un processus d'émancipation durant le XIXième siècle. Ses élites politiques, essentiellement espagnoles, ne parviennent pas à contrer les plans de l'Angleterre qui impose le morcellement de l'empire en une kyrielle de petits États. C'est ainsi qu'ils font échouer, en 1839, le projet de Grande-Colombie initié par Simon Bolivar, et font exploser les Provinces-Unies d'Amérique centrale en plusieurs petits États de taille ridicule. Conformément à sa logique de thalassocratie, l'Angleterre empêche ainsi la constitution de toute puissance continentale qui pourrait contester les règles commerciales et financières qu'elle impose facilement à de petits États clients.

 

Les États-Unis, malgré la politique de solidarité panaméricaine annoncée par la doctrine de Monroe datant de 1823, se méfient aussi de l'émergence d'une puissance ibéro-américaine. La création du micro-Etat panaméen en 1903 est la mise en application la plus éloquente de ce principe, les Américains fomentant une révolte contre la Colombie pour obtenir la sécession du Panama, afin de se faire concéder la souveraineté sur le canal par un régime panaméen faible et soumis à l'Oncle Sam.

 

L'éclatement de l'Amérique latine en une vingtaine d'États ouvre pour le continent une ère de chaos et d'anarchie entretenue par les grandes puissances. Des conflits meurtriers opposent ainsi de jeunes nations; tels que la guerre du Pacifique des années 1880, entre le Pérou et la Bolivie d'une part, et le Chili d'autre part. Les dépôts de nitrate du désert d'Atacama suscitaient en effet la convoitise des trois États mais les capitalistes européens ont soutenu financièrement le Chili, vainqueur du conflit, car le gouvernement péruvien avait appliqué une politique spoliatrice à leur égard. La stratégie américaine du Big Stick  (gros bâton) et de la diplomatie du dollar vient concurrencer les Européens, surtout vers la fin du XIXième siècle, lorsque les Etats-Unis chassent les Espagnols de Porto-Rico et de Cuba, îles dans lesquelles ils avaient investi dans les plantations de canne à sucre. En 1901, l'amendement Platt voté par le Sénat transforme Cuba en un protectorat de fait, Haïti et Saint-Domingue subissant le même sort en 1916 et en 1923. Quant à la diplomatie du dollar, elle s'applique aux États plus solides ou plus éloignés de la sphère d'influence américaine.

 

Le sous-développement endémique dont a toujours souffert l'Amérique latine s'explique donc en partie par sa dépendance politique. La composition ethnique des États de la région, héritage de la colonisation espagnole, ne fait qu'aggraver le phénomène car, face à une masse indigène, noire ou métisse, une élite créole affiche un sentiment de supériorité sociale et ne montre guère d'intérêt pour le développement économique. Lorsqu'une mine est exploitée à l'aide de capitaux et d'ingénieurs européens, il est fréquent que la ligne de chemin de fer qui achemine le minerai destiné à l'exportation vers le port ne soit même pas connectée à la ville la plus proche.

 

Eralio%20Gill%20et%20Nicolarapa.jpgLa Révolution mexicaine de 1912 est sans doute la première réaction notable à cette situation de pillage du pays par les capitalistes étrangers et leurs collaborateurs locaux. Le Mexique était en effet dépossédé de ses champs pétrolifères dont la concession était accordée aux compagnies anglo-saxonnes; tandis que lrs terres se concentraient entre les mains de quelques familles au détriment des communautés indiennes. Cette Révolution est l'aboutissement d'un mouvement pour l'émancipation des Indiens et contre le capital étranger, s'accompagnant de la lutte contre le clergé catholique qui est considéré comme le meilleur allié du régime. Le rôle de ce dernier a été déterminant dans les conflits qui ont ponctué l'histoire de l'Amérique latine, surtout au XXième siècle, période de remous et de mutations pour l'Église catholique.

 

L'Église catholique dans la tourmente révolutionnaire.

 

Les sociétés latino-américaines ont longtemps été dominées par la trilogie Evêque-Général-Propriétaire terrien. Cette alliance du sabre et du goupillon est conforme à la définition de la religion, certes restrictive  —mais particulièrement pertinente lorsque l'on analyse le rôle de l'Église catholique sur ce continent—  du sociologue français Pierre Bourdieu. Selon lui, le religieux se caractérise par sa fonction de conservation et de légitimation de l'ordre social. Si les diverses religions polythéistes traditionnelles encore pratiquées à travers le monde ont rarement pour objectif de conquérir et d'influencer le pouvoir, les monothéismes chrétien et musulman ne font quant à eux pas preuve de la même faiblesse, s'appuyant largement sur les régimes politiques en place, quelle que soit leur nature.

 

Le Vatican joue d'ailleurs un rôle direct dans la politique latino-américaine, tel le nonce apostolique négociant la reddition de Noriega à Panama ou le cardinal de Managua qui œuvre à la recomposition politique d'une opposition au gouvernement sandiniste. Si l'Église a constitué la première force d'opposition au régime du général Pinochet, la majorité de la hiérarchie catholique conservatrice du Brésil contribue à la chute du président J. Goulard en 1964 et à l'instauration du gouvernement militaire. En organisant «une marche avec Dieu pour la famille et la liberté»,en mars 1964, avec le financement de la CIA et du patronat, elle assène un coup décisif au régime civil. Son but est en effet de mettre un terme aux réformes sociales entamées par le régime, assimilées à une évolution vers le communisme et soutenues par la minorité réformiste du clergé s'inspirant de Dom Helder Camara.

 

L'Église est aussi au centre des conflits qui ensanglantent l'Amérique centrale depuis des années, où elle torpille le projet réformiste du président Arbenz au Guatemala. Au nom de l'anti-communisme, le Congrès eucharistique réunit 200.000 personnes en 1951dans une croisade pour la «défense de la propriété». Par la suite, le cardinal Casariego restera muet sur les atrocités commises par les juntes au pouvoir à partir de 1954. Quant à la famille Somoza, elle a bénéficié aussi du soutien de l'Église nicaraguéenne, l'archevêque de Managua sacrant, en 1942, la fille du dictateur reine de l'armée avec la couronne de la Vierge de Candelaria.

 

La Théologie de la libération rompt avec l'attitude traditionnelle de l'Église catholique.

 

Le changement d'attitude de l'Église date de la fin des années cinquante, à la suite du choc causé par la révolution cubaine de 1958. Bien avant la convocation du Concile Vatican II, le pape Jean XVIII manifeste en effet la volonté que l'épiscopat latino-américain sorte de son inertie et s'adapte aux réalités du continent, soulignant l'urgence d'une réforme des structures sociales. Selon lui, l'Église doit retrouver l'appui des masses en adoptant un discours différent de celui de l'acceptation des rapports sociaux, idée développée lors du congrès de Medellin de 1968.

 

Le Concile Vatican II développe ainsi plusieurs thèmes devant réconcilier le peuple et son Église, qui doit désormais se considérer comme le «peuple de Dieu». Le rôle du laïc est revalorisé afin de rendre plus active la parti­ci­pa­tion de tous les fidèles aux célébrations liturgiques et à l'enseignement du catéchisme. Les paroisses sont décentralisées pour que des «commu­nautés de base» s'auto-organisent dans le monde rural et dans les bidon­villes. L'intérêt que présentent ces communautés est double: d'une part elles intègrent dans les chants et les rituels certains éléments de la reli­gio­si­té populaire, d'autre part elles sont le lieu où les populations pau­vres dis­cu­tent des problèmes quotidiens avec des animateurs.

 

En Amérique centrale, ces théologiens de la libération sont même à l'origine du développement de plusieurs mouvements révolutionnaires, effectuant un travail de conscientisation des masses et brisant le tabou de l'incompatibilité entre chrétiens et marxistes. Che Guevara est le symbole de cette pensée christo-marxiste qui reconnaît le droit à l'insurrection. En outre, le “Che” fait figure de martyr dans les églises populaires. En disant que la révolution latino-américaine serait invincible quand les chrétiens deviendraient d'authentiques révolutionnaires, il prouvait que ce basculement idéologique de l'Église risquait de déstabiliser des régimes politiques privés de réels soutiens populaires.

 

Au Nicaragua, où les communautés de base diffusent la propagande du front sandiniste, le Père Ernesto Cardenal est converti par les Cubains aux thèses révolutionnaires et prône l'idée que le royaume de Dieu est de ce monde. Les chrétiens seront d'ailleurs représentés dans le gouvernement san­diniste dans lequel ils auront quatre ministres. Au Guatemala, la jeunes­se d'action catholique rurale se rapproche des communautés paysannes in­diennes en révolte dans les années soixante, l'accentuation de la ré­pres­sion militaire contribuant à ce phénomène.

 

C'est au Salvador que la solidarité entre les guérilleros et les chrétiens progressistes est la plus frappante, ces derniers étant plus nombreux que les marxistes dans le mouvement de guérilla. Le réseau des centres de for­ma­tion chrétienne mobilise les paysans salvadoriens, combinant évan­gé­li­sa­tion, alphabétisation, enseignement agricole et éveil socio-politique. Le par­cours de Mgr Romero, l'archevêque de San Salvador constitue presque l'ar­chétype de cette prise de conscience politique de certains hommes d'É­glise. L'élection au siège archiépiscopal de cet évêque conservateur proche de l'Opus Dei avait enchanté les dirigeants du pays, le Vatican l'ayant choisi pour faire contrepoids à son prédécesseur, Mgr Chavez, qualifié d'«ar­che­vê­que rouge». Mais, suite à l'un des nombreux assassinats de prêtres par les militaires survenu en 1977, il rejoint les rangs des révolutionnaires avant de se faire à son tour assassiné. Étant devenu le martyr de la révolution sal­va­dorienne, il est l'un des symboles d'un phénomène qui inquiète de plus en plus le Vatican.

 

La mise à pieds des chrétiens progressistes par Jean-Paul II

 

folklore.jpgLa Théologie de la libération, impulsée par des intellectuels occidentaux et par des prêtres latino-américains venus étudier dans les universités euro­péen­nes, a donc trouvé dans les réalités socio-politiques du continent le ter­reau favorable à son expansion. Dès le début des années 80, Jean-Paul II, pa­pe farouchement anticommuniste, tente cependant de juguler ce mou­ve­ment. En 1984, une “instruction sur quelques aspects de la Théologie de la li­bération” fait le point sur ce phénomène en évitant de le condamner en bloc mais en critiquant certaines de ses dérives. Dans ce document, le car­di­nal Ratzinger, préfet de la congrégation de la foi met en garde contre le ris­que de perversion de l'inspiration évangélique par la philosophie mar­xiste.

 

Par peur de se couper définitivement d'un mouvement dont il espère toujours récupérer les bénéfices, il ne condamne pas ouvertement les prêtres progressistes mais il adresse des critiques régulièrement à ceux qui confondent christianisme et marxisme. C'est ainsi qu'il avait demandé, sans succès, de se retirer aux quatre prêtres membres du gouvernement sandiniste. De même, il entretenait des relations difficiles avec Mgr Romero à qui il reprochait son zèle excessif dans l'action sociale, demandant quand même au président Carter de cesser son aide à une armée salvadorienne “qui ne sait faire qu'une chose: réprimer le peuple et servir les intérêts de l'oligarchie salvadorienne”. Au Nicaragua, alors qu'il célèbre une messe à Managua en 1983, il fait une prière pour les prisonniers du régime mais passe sous silence les crimes des contras.

 

Dans son “instruction sur la liberté chrétienne et la libération” en 1986, le cardinal Ratzinger ne renie pas la préférence de l'Eglise pour les pauvres, le discours du Vatican tentant en fait de s'approprier la théologie de la li­bé­ra­tion mais en aseptisant le discours de ses aspects les plus révolution­nai­res. La seconde stratégie adoptée par Jean-Paul II consiste à nommer systé­matiquement des évêques conservateurs de l'Opus Dei à la tête des diocèses progressistes. En Equateur, il a ainsi contenu l'influence grandis­sante d'une partie du clergé catholique qui militait en faveur de la cause indigène, incarné depuis les années 50 par Mgr Leonidas Proano, sur­nom­mé l'“évêque des Indiens”.

 

Le catholicisme latino-américain subit la concurrence croissante des sectes protestante.

 

L'engagement d'une partie du clergé en faveur des guérillas d'Amérique centrale ou de ceux qui luttent contre les latifundistes en faveur des paysans sans terres au Brésil a généré de nouvelles formes de religiosité convenant mieux aux intérêts des régimes pro-américains de la région. Il s'agit essentiellement d'églises relevant du pentecôtisme (assemblée de Dieu, Eglise de Dieu, de l'Evangile complet, Prince de la paix) ou de diverses variétés du néo-pentecôtisme (Eglise Elim, du Verbe, Club 700 de Pat Robertson ou club PTL). Ces mouvements reçoivent donc une aide importante de leur nation d'origine, les Etats-Unis, où ils sont dirigés par les anticommunistes les plus fanatiques formant l'aile droite du parti républicain.

 

On comprend dès lors pourquoi les oligarchies et les militaires ont favorisé ces sectes protestantes dont l'influence grandit sans cesse auprès des couches populaires les plus misérables. Leur message va dans le sens d'un désengagement vis-à-vis de la sphère publique en prônant une interprétation individualiste du christianisme, centré sur le perfectionnement de l'individu. Comme les protestants européens, ils assèchent la religion qui se réduit à un simple moralisme, fondé sur l'honnêteté, le refus de l'alcoolisme. Ce désintérêt pour le salut collectif se double d'une action efficace menée en direction des populations déshéritées à qui les protestants prodiguent des aides grâce à l'argent venu des Etats-Unis. Le soutien apporté aux victimes du tremblement de terre qui a frappé le Guatemala en 1976 s'est accompagné d'une vaste campagne de conversion, Jerry Faldwell et Pat Robertson venant évangéliser les foules dans les stades de football. La même année, l'Alliance évangélique se range du côté d'un régime qui a massacré entre 100.000 et 200.000 Indiens en prônant le respect des autorités. En 1982, c'est un chrétien conservateur de l'Eglise du Verbe, le général Rios Montt, qui accède au pouvoir à la suite d'un coup d'Etat. Avec lui, répression et massacres d'Indiens s'accentuent tandis que des hameaux stratégiques poussent comme des champignons. Bâtis sur le modèle des villages stratégiques de la guerre du Viet Nam, ces hameaux ont pour but de déstructurer les communautés indiennes afin de détruire les bases de la guérilla. Les Etats-Unis jouent un rôle actif en fournissant capitaux et experts à l'armée guatémaltèque.

 

Au Salvador, les militaires se servent également des évangélistes pour donner un contenu idéologique à leur action contre-révolutionnaire. Ces sectes protestantes font aussi une percée dans des pays où règne la paix. Au Brésil, ils ont supplanté les adeptes de la Théologie de la libération. Leur succès auprès des pauvres est immense car on estime qu'ils représentent près de 14% des électeurs contre seulement 2% pour les prêtres progressistes. En 1994, ils contribuent à la défaite électorale du candidat de gauche, Lula, qui est assimilé au diable. En constituant un groupe parlementaire évangélique, ils sont ainsi en mesure de négocier des aides pour leur église.

 

Un christianisme de plus en plus négateur de l'identité indienne

 

Les églises protestantes mènent aussi une politique d'éradication du «paganisme» indien avec lequel les catholiques avaient dû composer. Ce syncrétisme indien-chrétien est visible dans toutes les manifestations de la vie religieuse et dans les lieux de culte, telle l'église du village de Mixtèque s'appelant «maison du soleil» et les saints étant appelés les dieux, alors que seul le mot espagnol désigne Dieu. Les rites et les offrandes pratiqués sont d'ailleurs souvent à mi-chemin entre le sacrifice et la prière chrétienne.

 

Chez les Afro-Brésiliens, le catholicisme s'est transformé en une religion magique faite de croyance en des êtres surnaturels, de communication avec les âmes des défunts. Un rôle important est donné à l'interférence des saints dans la vie terrestre, le Dieu ne revêtant pas l'image du Père dominateur et puissant habituel.

 

Les catholiques, qui s'érigent en défenseurs des Indiens, poursuivent aussi leur vieille stratégie d'acculturation, obligeant ainsi les Amazoniens récemment convertis à adopter un mode de vie sédentaire, prélude à leur prolétarisation. Le mythe de Bartolomé de las Casas, fondateur de la pensée indigéniste, illustre l'ambiguité de ce rôle de protecteur, car, selon lui, il n'existait ni Espagnols ni Indiens, mais un seul populus christianus.  La défense des Indiens se limitait donc au domaine social mais se gardait bien d'aborder le problème de l'identité.

 

Le monothéisme latino-américain a donc été le complément indispensable à la domination socio-politique des Indiens dont la renaissance ne pourra se réaliser que par un retour aux sources de leur religion, ce que les révolutionnaires marxistes n'ont jamais compris.

 

Jacques-Olivier MARTIN.

dimanche, 01 novembre 2009

El socialismo del siglo XXI en su contexto historico

El socialismo del siglo XXI en su contexto histórico

Introducción

La victoria electoral de gobiernos de centro-izquierda en al menos tres países de América Latina y la búsqueda de una nueva identidad ideológica con que justificar su poder, ha conducido a ideólogos y gobernantes a abrazar la idea de que representan una nueva versión del socialismo, propia del siglo XXI. Destacados escritores, académicos y portavoces de estos gobiernos celebran una variante totalmente nueva del socialismo, completamente distinta de lo que llaman el fallido socialismo del siglo XX, es decir, el socialismo de estilo soviético. Los defensores y publicistas del socialismo del siglo XXI aseguran que se trata de un nuevo modelo político-económico, basado en lo que ellos consideran una ruptura radical tanto con el neoliberalismo de libre mercado de los gobiernos precedentes, como con la anterior versión estatista del socialismo, encarnada por la antigua Unión Soviética, China y Cuba.

En este trabajo procederemos a examinar las diferentes críticas planteadas por el nuevo socialismo tanto al neoliberalismo como al socialismo del siglo XX, la autenticidad de sus afirmaciones de novedad y originalidad, y realizaremos un análisis crítico de su desempeño real.


La crítica del neoliberalismo

El aumento del número de gobiernos que se adscriben al socialismo del siglo XXI fue resultado de la crisis y desaparición de los gobiernos neoliberales que dominaban América Latina desde mediados de la década de 1970 hasta finales de la década de 1990. Su desaparición se vio acelerada por una serie de levantamientos populares que impulsaron el ascenso de gobiernos de centro-izquierda con programas de rechazo de las doctrinas socioeconómicas neoliberales y la promesa de cambios fundamentales a favor de las grandes mayorías. Si bien existen importantes diferencias programáticas entre los diferentes gobiernos de este grupo, todos comparten una crítica común a seis características de las políticas neoliberales:

(1) rechazan la idea de que el mercado deba tener prioridad para el Estado y dominar a éste, es decir, que la lógica de la clase capitalista de maximización del beneficio deba dar forma a las políticas públicas. El colapso del capitalismo de mercado en la recesión de 2000-2002 y el empobrecimiento masivo desacreditaron la doctrina de los mercados racionales, a medida que crecían las quiebras empresariales y bancarias, que la clase media perdía sus ahorros, y las calles y plazas se llenaban de obreros y campesinos desempleados;

(2) los gobiernos del socialismo del siglo XXI condenan la desregulación de la economía que condujo al auge de los especuladores en detrimento del capitalismo productivo. Bajo la égida de los dirigentes neoliberales, la legislación reglamentaria adoptada desde la Gran Depresión fue derogada y en su lugar las políticas de control de capitales y la supervisión financiera se suspendieron en favor de un sistema de autorregulación, en el que los agentes del mercado establecieron sus propias normas, lo que condujo, según sus críticos, a la especulación, las estafas financieras y el saqueo de las tesorerías públicas y privadas;

(3) el predominio de las finanzas sobre la producción es la pieza central del discurso anticapitalista de los gobiernos del socialismo del siglo XXI. Hay implícita una diferenciación entre el mal capitalismo, que obtiene riquezas sin producir bienes, y el buen capitalismo que supuestamente produce valor de utilidad social;

(4) relacionada con esta crítica global del neoliberalismo, hay una crítica concreta de la reducción de las barreras arancelarias, la privatización de empresas públicas por debajo de su valor real de mercado, la desnacionalización de la propiedad de los recursos estratégicos, y el crecimiento masivo de la desigualdad;

(5) el socialismo del siglo XXI asegura que los gobiernos neoliberales entregaron las palancas de la economía a banqueros privados y extranjeros (como el FMI) que impusieron medidas deflacionarias en lugar de reflotar la economía a través de transfusiones de gasto público. Los dirigentes políticos de centro-izquierda utilizan esta crítica del neoliberalismo y la promesa implícita de una ruptura futura decisiva con el capitalismo neoliberal, sin comprometerse a una ruptura concreta con el capitalismo de otras variedades;

(6) mientras que la crítica de los gobiernos de centro-izquierda atrajo a las clases populares, su rechazo al socialismo del siglo XX iba dirigido a la clase media y a tranquilizar a las clases productivas (empresarios), asegurando que no iban a invadir la propiedad privada en su conjunto.

Crítica al socialismo del siglo XX

En una especie de acto de equilibrio político a su oposición al neoliberalismo, los defensores del socialismo del siglo XXI también se distancian de lo que denominan socialismo del siglo XX. En parte como una táctica política para desarmar o neutralizar a los numerosos y poderosos críticos de los gobiernos socialistas del pasado, en parte como afirmación de un socialismo en sintonía con los tiempos, el socialismo del siglo XXI hace la siguiente crítica del anterior socialismo, a la vez que pone de relieve sus diferencias con el mismo:

(1) el socialismo del pasado estaba dominado por una burocracia de mano dura, que realizaba una mala asignación de recursos y ahogaba la innovación y la elección personal;

(2) el viejo socialismo era profundamente antidemocrático, tanto en la forma de gobierno, como en la organización de elecciones y el Estado de partido único. La represión de los derechos civiles y de todo tipo de mercado forma parte de la narrativa del socialismo del siglo XXI;

(3) el socialismo del siglo XXI relaciona la democracia como sistema con la vía electoral al poder o la alternancia en el gobierno; condena los cambios de gobierno producidos por la lucha armada, y especialmente los movimientos guerrilleros, aunque los tres gobiernos adscritos al socialismo del siglo XXI llegaron al poder mediante elecciones que siguieron a levantamientos populares;

(4) uno de los principales argumentos de los gobiernos del socialismo del siglo XXI es que en el pasado, los socialistas no tenían en cuenta las especificidades de cada país. Concretamente, destacan las diferencias en materia racial, étnica, geográfica, cultural, de tradiciones y práctica histórica, etc. que ahora son tenidas en cuenta en la definición de socialismo del siglo XXI;

(5) en relación con el punto anterior, el socialismo del siglo XXI hace hincapié en la nueva configuración global de poder del presente siglo, que da forma a las políticas y potencialidades del nuevo socialismo. Entre los nuevos factores citan la desaparición de la antigua URSS y la conversión de China al capitalismo; el descenso relativo de una economía mundial centrada en EE.UU.; el crecimiento de Asia, especialmente China; la emergencia de iniciativas regionales promovidas por Venezuela; el aumento de los gobiernos de centro-izquierda en toda América Latina, y unos mercados diversificados, en Asia, en América Latina, Oriente Próximo y otros lugares;

(6) los gobiernos del socialismo del siglo XXI afirman que la nueva configuración de la sociedad y el Estado no es una copia de otros Estados socialistas, pasados o presentes. Es casi como si cada medida, política o institución fuese un diseño del actual régimen. La originalidad o novedad es un argumento que permite reforzar la legitimidad del régimen ante las críticas externas e internas de la derecha anticomunista, y permite también descartar las críticas de fondo de la izquierda;

(7) los gobiernos del socialismo del siglo XXI hacen hincapié en el hecho de que el liderazgo no tiene vínculos pasados o presentes con el comunismo, y en el caso de Bolivia y Ecuador rechazan abiertamente el marxismo como instrumento de análisis o como base de formulación de políticas. La excepción es el presidente Hugo Chávez, cuya ideología es una mezcla de marxismo y nacionalismo vinculado al pensamiento de Simón Bolívar. Tanto Rafael Correa como Evo Morales evitan las divisiones de clase, y les contraponen la revolución ciudadana contra una oligarquía de partidos corrupta, en el caso del primero, y las comunidades indígenas andinas culturalmente oprimidas contra una oligarquía “europea”.

Crítica de los gobiernos socialistas del siglo XXI

Si bien los gobiernos del socialismo del siglo XXI afirman, más o menos claramente, lo que no son y lo que rechazan del pasado, a izquierda como a derecha, a la vez que plantean en términos generales lo que son, sus prácticas, políticas y configuraciones institucionales arrojan serias dudas sobre sus pretensiones revolucionarias, su originalidad y su capacidad para satisfacer las expectativas de su electorado popular.

Aunque una serie de ideólogos, líderes políticos y publicistas se refieran a sí mismos como socialistas del siglo XXI, hay entre ellos una gran variedad de diferencias en la teoría y la práctica. Un examen crítico de las experiencias de cada uno de los países pondrá de relieve tanto las diferencias entre los gobiernos como la validez de sus pretensiones de originalidad.

Venezuela: la cuna del socialismo del siglo XXI

El presidente Hugo Chávez ha sido el primer y principal defensor y practicante de socialismo del siglo XXI. Aunque otros presidentes y publicistas de América Latina, América del Norte y Europa se hayan subido a este carro, no hay una práctica uniforme que coincida con la retórica pública.

En muchos sentidos, el discurso del presidente Chávez y las políticas del gobierno venezolano definen los límites radicales del socialismo del siglo XXI, tanto en términos de su política exterior, que desafía las políticas de guerra de Washington, como en términos de las reformas internas de tipo socioeconómico. Sin embargo, aunque el modelo venezolano de socialismo del siglo XXI tiene rasgos innovadores y novedosos, tiene también fuertes semejanzas con las reformas de anteriores regímenes populistas-radicales de América Latina y Europa que configuraron estados de bienestar.

La novedad más llamativa y rasgo más original de la versión venezolana del socialismo del siglo XXI es la fuerte mezcla de nacionalismo histórico bolivariano, marxismo del siglo XX y populismo latinoamericano. La concepción del nuevo socialismo que tiene el presidente Chávez tiene su origen intelectual y se legitima en una escrupulosa lectura de los escritos, los discursos y las acciones de Simón Bolívar, padre fundador de la independencia de Venezuela en el siglo XIX. La concepción de una ruptura profunda con las potencias imperiales, y su dependencia del apoyo de las masas en contra de las élites nacionales poco fiables capaces de vender al país para defender sus privilegios está profundamente arraigada en sus lecturas de la ascensión y caída de Simón Bolívar. Sin pretextar una identificación entre Bolívar y marxismo, el presidente insiste en el carácter endógeno y las raíces nacionales de su ideología y su práctica. Si bien apoya a la revolución cubana y mantiene una estrecha relación con Fidel Castro, es evidente que no hace ningún esfuerzo por asimilar o copiar el modelo cubano, aunque adapte a la realidad venezolana determinadas características de sus organizaciones de masas.

Su práctica económica incluye la nacionalización y la expropiación (con indemnización) de amplios sectores de la industria del petróleo; la nacionalización de empresas clave sobre la base de consideraciones políticas pragmáticas, entre otras los conflictos entre trabajadores y capital (sectores del acero, cemento, telecomunicaciones); y la búsqueda de una mayor seguridad alimentaria (reforma agraria). Su programa político incluye la formación de un partido socialista de masas que compita en el marco de un sistema pluripartidista, y la convocatoria de referéndums libres y abiertos para asegurar las reformas constitucionales. La novedad consiste en el fomento del autogobierno local, mediante la formación de consejos comunales no partidistas, basados en los barrios, con el fin de evitar el peso muerto de una burocracia ineficiente, hostil y corrupta. El objetivo de Chávez parece ser el de la sustitución de unas políticas electorales “representativas”, dirigidas por la clase política profesional, por un sistema de democracia directa basado en la autogestión en fábricas y barrios. En términos de política social, se ha financiado una gran cantidad de programas destinados a elevar el nivel de vida del 60% de la población, que incluye a la clase obrera, los trabajadores autónomos, los pobres, los campesinos y las mujeres cabeza de familia. Estas reformas incluyen la atención médica y la educación hasta la universidad, ambas con carácter universal y gratuito. Asimismo, la contratación de más de 20.000 médicos, dentistas y técnicos cubanos, y un programa masivo que abarca la construcción de clínicas, hospitales y unidades móviles que circulan por todo el interior del país y prioriza los vecindarios de bajos ingresos, ignorados por los anteriores gobiernos capitalistas privados y los médicos privados. El régimen de Chávez ha construido y financiado una amplia red de supermercados de gestión pública que venden alimentos y artículos domésticos a precios subvencionados a las familias de bajos ingresos. En materia de política exterior, el presidente Chávez se ha opuesto sistemáticamente a las guerras de EE.UU. en Oriente Próximo y Asia Meridional, y a toda la justificación de las guerras imperiales basada en la doctrina de la Guerra contra el terrorismo.

¿Qué hay de nuevo en el socialismo del siglo XXI venezolano?

Varias preguntas surgen en relación con la versión venezolana de socialismo del siglo XXI: primera, ¿es realmente socialista o, mejor aún, representa una ruptura con el socialismo del siglo XX en todas sus variantes?; segunda: ¿cuál es el “equilibrio” entre los rasgos capitalistas anteriores y actuales de la economía, y las reformas socialistas introducidas durante el decenio de Chávez?; tercera, ¿en qué medida los cambios sociales han reducido las desigualdades y proporcionan una mayor seguridad a la masa de la población en este período de transición?

Hoy Venezuela es una economía mixta, con un sector privado que sigue siendo predominante en bancos, agricultura, comercio y comercio exterior. La propiedad estatal ha crecido, y las prioridades sociales nacionales dictan la asignación de los recursos petroleros. Si bien la economía mixta de Venezuela se asemeja a las economías de la primera época posterior a la Segunda Guerra Mundial en Europa, hay una diferencia clave: el Estado posee el sector de exportación más lucrativo y la principal fuente de ingresos de divisas.

Aunque el gobierno ha incrementado el gasto social en magnitudes comparables o superiores a algunos de los primeros gobiernos socialdemócratas, no ha reducido la gran concentración de la riqueza ni los ingresos de las clases altas por medio de altos tipos impositivos progresivos, como en Escandinavia y otros lugares. Las desigualdades siguen siendo mucho mayores que las que existían en siglo XX, y son comparables a las restantes sociedades latinoamericanas de hoy. Además, los niveles medio-alto y alto de la burocracia estatal, especialmente en el sector del petróleo e industrias afines, tienen niveles de remuneración que son comparables a sus homólogos capitalistas, como sucedió con las industrias nacionalizadas en Gran Bretaña y Francia.

La autogestión de las empresas públicas, una idea relativamente nueva en Venezuela, ha ido más allá de los límites de los programas de coparticipación socialdemócrata aplicados en Alemania, y se limita a menos de media docena de grandes empresas, muy lejos de las extensas redes a escala nacional existentes en la Yugoslavia socialista entre los años 1940 y 1980.

Las propuestas de reforma agraria del régimen, aunque radicales en su intención y promovidas por la fuerza por el presidente Chávez, no han podido cambiar la relación entre los trabajadores agrícolas, los campesinos y los grandes terratenientes. Cuando se han hecho progresos en la distribución de la tierra, la burocracia gubernamental no ha proporcionado a los beneficiarios de la reforma los servicios de extensión, financiación, infraestructuras y seguridad.

La Guardia Nacional, por acción u omisión, no ha conseguido poner fin a los asesinatos de dirigentes y defensores de la reforma agraria a manos de pistoleros a sueldo de los terratenientes. A finales de 2009, hay más de 200 asesinatos de campesinos sin resolver.

Mientras que los publicistas de socialismo del siglo XXI han hecho hincapié en las nacionalizaciones de las empresas de petróleo de los anteriores propietarios, no dan cuenta del creciente número de nuevas empresas conjuntas establecidas con compañías transnacionales de China, Rusia, Irán y la Unión Europea. En otras palabras, mientras que el papel de algunas transnacionales de EE.UU. ha disminuido, la inversión de capital extranjero en los sectores de la minería y el petróleo se ha incrementado, especialmente en los extensos yacimientos del Orinoco. Aunque el cambio de socios de inversión en el ámbito del petróleo reduce la vulnerabilidad estratégica de Venezuela a las presiones de EE.UU., no por ello se potencia el carácter socialista de la economía. Las empresas conjuntas añaden peso al argumento de que la economía basada en empresas de propiedad público-privada se aproxima al modelo de la socialdemocracia de mediados del siglo XX.

El aspecto más cuestionable de la autoafirmación de Venezuela en el socialismo es su ininterrumpida dependencia de un único producto –el petróleo– en un 70% de sus ingresos de exportación, y su dependencia de un mercado único –Estados Unidos–, un socio comercial abiertamente hostil y desestabilizador. Los esfuerzos del gobierno venezolano por diversificar sus socios comerciales adquieren mayor urgencia tras el pacto militar de Obama con el presidente colombiano Álvaro Uribe, de instalación en siete bases militares. Igualmente amenazador para la base de masas de la vía de Chávez al socialismo es la altísima tasa de delincuencia basada en el crecimiento de un lumpenproletariado, y en sus vínculos con el narcotráfico colombiano y funcionarios civiles y militares. En muchos barrios populares, los delincuentes compiten con los líderes de los consejos comunales por la hegemonía, utilizando los disturbios y la violencia para ejercer su dominio. La ineficacia del Ministerio del Interior y de la policía, y la falta de una estrecha relación de trabajo con las organizaciones de barrio representan una seria debilidad en la movilización de la sociedad civil, y marcan una limitación en la eficacia del movimiento de los consejos comunales.

Las importantes reformas introducidas por el gobierno de Chávez y la original síntesis de anticolonialismo de emancipación bolivariano con el marxismo y el antiimperialismo marcan una ruptura con las prácticas neoliberales predominantes generalizadas en América Latina en el cuarto de siglo anterior, que siguen vigentes en numerosos gobiernos contemporáneos de otro signo.

Lo qué es dudoso, sin embargo, es si todos estos cambios equivalen a una nueva versión del socialismo, dado el predominio de las relaciones de propiedad capitalista en los sectores estratégicos de la economía, y las desigualdades de clase persistentes tanto en el sector público y privado.

Sin embargo, se debe tener en cuenta que el socialismo no es un concepto estático, sino un proceso continuo, y que la mayor parte de las medidas recientes tienden a ampliar el poder popular en las fábricas y los barrios.

Ecuador

En Ecuador, el presidente Correa ha adoptado la retórica del socialismo del siglo XXI y ha ganado credibilidad con varias de sus iniciativas de política exterior, entre otras la terminación del contrato de arrendamiento a EE.UU. de la base militar de Manta, el cuestionamiento de una parte de la deuda externa contraída por los gobiernos anteriores, la crítica de las incursiones transfronterizas de Colombia y el asalto militar de un campamento clandestino de la guerrilla colombiana, así como su crítica a los tratados de libre comercio con EE.UU. y su apoyo al programa de integración regional de Venezuela, el ALBA (Alternativa Bolivariana para las Américas). Numerosos medios, entre otros el New York Times, el Financial Times y periodistas de izquierda, del Norte y el Sur, han calificado al presidente Correa como parte de una “nueva ola de presidentes izquierdistas.”

En cuanto a los asuntos de política interna, la pretensión del presidente Correa de ser miembro fundador del socialismo del siglo XXI se basa en su crítica de los partidos de derecha tradicionales y de la oligarquía. En otras palabras, su socialismo se define por aquellos a los que se opone, más que por ningún cambio social estructural.

Sus principales logros nacionales giran en torno a su denuncia de los principales partidos electorales, su apoyo y el liderazgo del movimiento ciudadano, y su éxito en el derrocamiento del gobierno derechista respaldado por EE.UU. de Lucio Gutiérrez, su convocatoria de una Asamblea Constituyente, y la redacción de una nueva constitución. Estas transformaciones jurídicas y políticas definen el límite exterior del radicalismo de Correa y conforman las bases sustantivas de su pretensión de ser un socialismo del siglo XXI. Si bien estas decisiones de política exterior y estos cambios políticos nacionales, especialmente si se observan en el contexto de un aumento de los gastos sociales durante sus primeros tres años de mandato, permiten calificar al gobierno ecuatoriano como de centro-izquierda, no son suficientes o no equivalen a un programa socialista, en particular al observarlos en una matriz estructural socioeconómica más amplia.

Crítica del socialismo del siglo XXI ecuatoriano

La diferencia más notable respecto a cualquier reivindicación creíble del socialismo es la persistencia y la expansión de la propiedad privada capitalista extranjera de los recursos estratégicos minerales y energéticos: el 57 por ciento del petróleo ecuatoriano lo producen transnacionales extranjeras. Se han firmado o renovado contratos de gran escala y largo plazo que garantizan el control mayoritario por parte de empresas transnacionales de los sectores que proporcionan la mayor parte de los ingresos por exportaciones. Y lo que es peor, Correa ha reprimido y rechazado violentamente las reclamaciones de larga data de las comunidades indígenas amazónicas y andinas que viven y trabajan en las tierras otorgadas a las transnacionales mineras. Al rechazar las negociaciones, Correa ha descalificado a los cuatro grandes movimientos indígenas y sus aliados ecologistas tildándolos poco menos que de ser un puñado de elementos atrasados, si no algo peor. La contaminación de las aguas, el aire y la tierra, que produce graves enfermedades y muertes, por las compañías petroleras extranjeras ha quedado demostrado en los tribunales de EE.UU., donde Texaco se enfrenta a una denuncia que puede costarle millones de dólares. A pesar de las sentencias judiciales adversas, Correa ha continuado su esfuerzo para hacer de la explotación minera de exportación el elemento central de su estrategia de desarrollo.

A la vez que ha atacado vigorosamente a la clase capitalista agroexportadora de la costa, centrada en Guayaquil, Correa ha apoyado decididamente y subvencionado a los capitalistas de Quito (zona andina). Su retórica antioligarquíca no es ciertamente una retórica anticapitalista, como su respaldo del socialismo del siglo XXI pudiera indicar.

El éxito del presidente Correa en la creación de un movimiento electoral ciudadano de masas se mide por sus impresionantes victorias electorales, que le han asegurando mayorías presidenciales en competencia multipartidista, y de más del 70 por ciento en las elecciones constitucionales. A pesar de su popularidad, el respaldo popular de Correa se basa principalmente en concesiones a corto plazo, en forma de aumentos salariales y concesión de créditos a la pequeña empresa, medidas que no son sostenibles en esta fase de comienzos de la recesión mundial. La concesión de monopolios de telecomunicaciones a empresas privadas, su oposición a la reforma agraria, y las restricciones a los movimientos huelguistas, aunque no han provocado problemas sistémicos han producido un número creciente de huelgas y protestas. Más importante aún, el fortalecimiento capitalista, sobre todo de propiedad extranjera, del control estratégico de la banca; la exportación comercial; y los sectores mineros, reducen las pretensiones de socialismo del siglo XXI a un ejercicio meramente simbólico, retórico. Lo que es evidente es que la base del nuevo socialismo se basa en decisiones de política exterior (susceptibles de ser revertidas), en lugar hacerlo en cambios en las relaciones de clase, la propiedad y el poder popular. El socialismo del siglo XXI, en el caso de Ecuador, aparece como una forma conveniente de combinar unas acciones innovadoras de política exterior con una estrategia de desarrollo neoliberal de modernización. Por otra parte, las medidas radicales iniciales no se oponen a un posterior retroceso conservador, como se evidencia en el cuestionamiento de la deuda externa, que causó una explosión prematura de alegría por parte de la izquierda, y un posterior regreso a los pagos completos de la deuda.

El socialismo boliviano: capital blanco, trabajo indio

El mayor contraste entre el socialismo del siglo XX y el del XXI se observa entre el régimen actual de Evo Morales (2005-) y la presidencia de corta duración Juan José Torres (1970-1971).

Mientras que el primero ha invitado, abierta y públicamente, a las compañías transnacionales de los cinco continentes a explotar el gas, el petróleo, el cobre, el hierro, el litio, el zinc, el estaño, el oro, la plata y una larga lista de otros minerales; en el siglo, el corto gobierno de Torres nacionalizó y expropió las empresas capitalistas nacionales y extranjeras. Mientras que en la actualidad se han repatriado miles de millones de beneficios durante y después del boom de los productos básicos, en tiempos de Torres, el control estatal sobre los flujos de capital y el comercio exterior limitó la descapitalización del país. A la vez que Evo Morales ofrece cientos de millones en préstamos, subvenciones a la exportación e incentivos fiscales a los exportadores agrícolas más ricos, y expulsa de las grandes propiedades a los ocupantes indígenas sin tierra, en la presidencia de Torres se fomentó la toma de tierras, como medio de profundizar las políticas de reforma agraria. Hay una abundancia de datos socioeconómicos que demuestran que las políticas socialistas emprendidas durante la presidencia de Torres son diametralmente opuestas a las políticas sociales liberales practicadas por el régimen de Morales. En las secciones siguientes se destacan las principales políticas sociales y liberales del régimen de Morales, a fin de evaluar el verdadero significado del autoproclamado socialismo del siglo XXI en Bolivia.

Los cambios sociales

En sus primeros cinco años en el poder (2005-2009), el gobierno de Evo Morales ha llevado a cabo numerosos cambios sociales. La cuestión es si estos cambios equivalen a alguna de las definiciones más generosas de socialismo, o incluso a medidas de transición conducentes al socialismo en un futuro cercano o lejano, dado el alcance y la profundidad de las políticas económicas liberales adoptadas.

Morales ha implementado cambios sociopolíticos en nueve ámbitos. El cambio interno más significativo es en el ámbito político, cultural y de derechos jurídicos de los pueblos indígenas. El régimen ha reconocido derecho de autogobierno a los municipios indígenas, ha reconocido y promovido el bilingüismo en los asuntos locales y la educación, y ha dado rango nacional a las celebraciones de religiosas y festivas indígenas, a la vez que promueve la persecución de los que violen o vulneren los derechos civiles de los indígenas.

Con Morales, el Estado ha aumentado ligeramente su cuota de ingresos provenientes de las empresas conjuntas establecidas con corporaciones transnacionales, ha aumentado el precio del gas vendido a Brasil y Argentina, y también el porcentaje del ingreso destinado al gobierno estatal por encima y en detrimento de los gobiernos provinciales. Dados los precios récord de las exportaciones agrícolas y mineras de Bolivia entre 2005 y 2008, los municipios locales aumentaron su flujo de ingresos, si bien en realidad las inversiones en los sectores productivos y de servicios se han retrasado a causa de obstáculos burocráticos.

Morales autorizó aumentos sustanciales del salario mínimo y los salarios en general, con lo que ha mejorado marginalmente las condiciones de vida. Los aumentos, sin embargo, estaban muy por debajo de las promesas electorales de Morales de duplicar el salario mínimo, y ciertamente no son equiparables a los beneficios extraordinarios obtenidos como resultado del auge de las materias primas.

El juicio abierto a funcionarios locales y al gobernador provincial de Pando, así como a los terroristas de derecha, por el ataque y asesinato de activistas indígenas ha puesto fin a la impunidad de las agresiones contra los ciudadanos indígenas.

El éxito del que más satisfecho está el gobierno es la acumulación de reservas de divisas por un monto de 6.000 millones de dólares, en lugar de las anteriores de 2.000 millones; la disciplina fiscal y el control estricto del gasto social; y una balanza de pagos favorable. En este sentido, las prácticas de Morales han estado más en consonancia con el FMI que con nada remotamente parecido a las prácticas expansivas de los gobiernos socialistas y socialdemócratas.

Triplicar las reservas ante una continuidad de los niveles de pobreza del 60 por ciento de la población indígena, en su mayoría rural, es una política nueva para cualquier gobierno que se pretenda socialista. Ni siquiera otros países capitalistas contemporáneos de América del Norte y la Unión Europea han sido tan ortodoxos como el régimen político revolucionario de Morales.

Morales ha promovido las organizaciones sindicales y sobre todo ha evitado la represión de los movimientos mineros y movimientos campesinos, pero al mismo tiempo ha cooptado a sus dirigentes, disminuyendo así el número de huelgas y demandas colectivas independientes, a pesar de las persistentes desigualdades sociales. De hecho, una mayor tolerancia va acompañada por una relación corporativista creciente entre el régimen y los sectores populares de la sociedad civil.

La estrategia económica del gobierno se basa en una triple alianza entre las transnacionales agroindustriales y de minerales, los capitalistas de las pequeñas y medianas empresas, y los movimientos indígena y sindical. Morales ha invertido millones de dólares en subvencionar a las denominadas cooperativas, que son en realidad propiedades privadas de minas de pequeño y mediano tamaño que explotan el trabajo asalariado con remuneraciones iguales o inferiores al salario normal de los mineros de las grandes explotaciones.

Los principales cambios se dan en su política exterior y en la retórica internacional. Morales se ha alineado con Venezuela en apoyo a Cuba, se ha incorporado a ALBA, ha desarrollado los lazos con Irán, y, sobre todo, se ha opuesto a la política de EE.UU. en varias áreas importantes. Asimismo, se opone al embargo de este país contra Cuba, a sus siete bases militares en Colombia, al golpe de Estado en Honduras y al levantamiento de las preferencias arancelarias. Igualmente importante, Bolivia ha puesto fin a la presencia de la Drug Enforcement Agency (DEA), organismo oficial estadounidense de lucha contra la droga, ha reducido algunas de las actividades de la US Agency for International Development (AID) por subvencionar a organizaciones sociopolíticas de derecha, y realizar actividades de desestabilización. Morales se ha pronunciado enérgicamente contra las guerras de EE.UU. en Afganistán e Irak, ha condenado los ataques de Israel contra los palestinos, y se ha manifestado firme partidario de la no-intervención, salvo en el caso de Haití, donde Bolivia sigue enviando tropas.

Crítica del socialismo del siglo XXI boliviano

El aspecto más llamativo de la política económica boliviana es el mayor volumen y alcance de las inversiones de empresas transnacionales extranjeras en capital de extracción. Cerca de un centenar de transnacionales explotan en la actualidad los minerales de Bolivia y sus recursos energéticos, en condiciones muy lucrativas, dados los bajos salarios y las pocas regulaciones ambientales. Por otra parte, en un discurso leído en Madrid, en septiembre de 2009, Morales invitó a una audiencia de élite de banqueros e inversores a invertir en Bolivia, siempre y cuando no intervinieran en la política interna y estuvieran dispuestos a aceptar la propiedad conjunta. Con independencia de los resultados de estas estrategias de explotación minera basada en el capital extranjero –que en la actualidad no son muy alentadores–, el esquema da un toque peculiar a este socialismo del siglo XXI: la sustitución del proletariado y los campesinos por los ejecutivos extranjeros y los tecnócratas locales es una novedad en la practica del socialismo de cualquier siglo, y está más adecuadamente asociada con el capitalismo de libre mercado.

De acuerdo con las políticas de Morales de puertas abiertas al capital minero, el gobierno ha fortalecido y subvencionado generosamente y otorgado préstamos a bajo interés al sector agroindustrial, incluso en aquellas provincias, como la Media Luna, donde la agroindustria ha apoyado a grupos de extrema derecha para desestabilizar el régimen. La voluntad de Morales de pasar por alto la hostilidad política de la elite agroindustrial, y de financiar su expansión es un claro indicio de la alta prioridad que da al crecimiento capitalista ortodoxo por encima de cualquier preocupación por el desarrollo de un polo alternativo en torno a los campesinos y los trabajadores agrarios sin tierra.

Una visita a las zonas rurales y los barrios urbanos confirma los informes publicados acerca de la naturaleza inmutable de las desigualdades de clase. Las cien familias más ricas de Santa Cruz siguen poseyendo más del 80 por ciento de las tierras fértiles, y más del 80 por ciento de los campesinos y los indígenas rurales están por debajo del umbral de pobreza. La propiedad de las minas, el comercio mayorista y minorista, la banca y el crédito continúan concentrados en una oligarquía que en los últimos años ha diversificado su cartera en otros sectores económicos, creando así una clase dirigente más integrada y con una mayor vinculación con los actores del capitalismo mundial.

Morales ha cumplido su promesa de proteger y fortalecer a la élite económica multisectorial tradicional, pero también ha sumado y promovido a recién llegados, privados y burocráticos, sobre todo altos ejecutivos extranjeros y altos funcionarios, muy bien pagados, que dirigen las empresas conjuntas.

Aunque la mayoría de los socialistas de cualquier siglo estarían de acuerdo en que los grandes propietarios no son los mejores fundamentos posibles para una transición socialista, Morales se ha apoyado y ha promovido la producción agraria destinada a la exportación en lugar de la agricultura familiar de producción local de alimentos. Peor aún, las condiciones de vida de los trabajadores agrícolas apenas ha mejorado, y, en un caso extremo, algunos miles de indígenas seguían siendo explotados como mano de obra esclava tres años después de la llegada de Morales al poder. La dura explotación de los trabajadores agrícolas es una preocupación menor que el aumento de la productividad, las exportaciones y los ingresos del Estado. Si bien se ha aprobado una legislación laboral que facilita la actividad sindical, ésta no se aplica en el campo, sobre todo en las provincias de la Media Luna, donde los inspectores laborales evitan enfrentarse con las asociaciones de propietarios, bien afianzadas. Las ocupaciones de tierras por algunos trabajadores rurales sin tierra han sido denunciadas por el gobierno. Los movimientos de base que presionan por una reforma agraria en extensas fincas infracultivadas han sido decididamente rechazados por el gobierno, que viola con ello sus propias declaraciones que sólo las granjas cultivadas no serían expropiadas.

Dado el énfasis del gobierno en los aspectos cultural y político de su versión de socialismo del siglo XXI, no es sorprendente que se hayan dedicado más tiempo y más recursos a la celebración de fiestas, cantos y danzas indígenas que a la expropiación y distribución de tierras fértiles a la masa de indígenas desnutridos.

El esfuerzo del régimen para desviar la atención de la reforma agraria, mediante la solución de instalar a los indígenas sin tierra en las tierras públicas tropicales alejadas ha sido un desastre. Este plan de colonización, organizado por el llamado Instituto de Reforma Agraria, arrojó a los indígenas del altiplano a unas tierras asoladas por las enfermedades y sin preparación de la tierra, sin las herramientas, las semillas y los fertilizantes necesarios, e incluso sin viviendas. Huelga decir que en menos de dos semanas, los indígenas exigieron su transporte de vuelta a sus pobres aldeas, que resultaban mejores en comparación que las zonas infestadas de malaria de aquellos remotos asentamientos improvisados. Para compensar la falta de un amplio programa de redistribución de la tierra, Evo Morales de vez en cuando organiza, con pompa, ceremonia y mucha publicidad, regalos de tractores a los agricultores medianos y pequeños, en lo que es más un acto de clientelismo político que no parte de un movimiento social transformación.

Los dos aspectos más llamativos de la estrategia económica y política de Morales son el énfasis en las exportaciones tradicionales de minerales y la construcción de una maquinaria electoral de tipo corporativista y clientelista clásico.

En el quinto año de su gobierno, las empresas conjuntas establecidas con las transnacionales extranjeras han extraído y exportado materias primas con poco valor añadido. Resulta sorprendente el bajo nivel de industrialización y transformación en productos finales, que podrían generar un mayor empleo industrial. La misma historia se aplica a las exportaciones agrarias: la mayor parte de los cereales y otros productos agrarios no se procesan en Bolivia, lo que proporcionaría miles de puestos de trabajo a la masa pobre de indígenas sin tierra. El régimen ha acumulado grandes reservas, pero no ha conseguido financiar o fomentar la industria local de sustitución de las importaciones de capital, bienes intermedios y bienes de consumo duradero.

Esta estrategia política se asemeja mucho a la adoptada hace medio siglo por el Movimiento Nacionalista Revolucionario (MNR), gracias a la cual los sindicatos y, especialmente, los movimientos campesinos se incorporaron al Estado. A falta de cambios socioeconómicos relevantes, el gobierno se ha basado en el patrocinio público, canalizado a través de sindicatos y dirigentes campesinos e indígenas, que fluye en forma de favores a elementos locales leales al partido. El clientelismo, estilo Morales, está constantemente reforzado por una serie de gestos simbólicos de afirmación de la identidad étnica indígena, y la solidaridad entre el donante y el receptor en la relación de clientelismo político.

El socialismo del siglo XXI, en la práctica política de Evo Morales es mucho menos innovador y socialista, y está mucho más cerca en su estilo político de sus predecesores corporativistas del siglo XX. Los observadores que tengan poco conocimiento del pasado político en Bolivia, los periodistas “impresionistas” enamorados de las políticas simbólicas, y los escritores de asuntos financieros que colocan de forma indiscriminada la etiqueta de socialista sobre políticos que sólo cuestionan de manera retórica la doctrina del libre mercado, han reforzado la imagen radical o de socialismo del siglo XXI del gobierno de Morales. Teniendo en cuenta lo que hemos descrito sobre las prácticas reales de los gobiernos socialismo del siglo XXI, resulta útil ubicarlos en un marco histórico comparativo más amplio a fin de poder discernir su posible impacto en la sociedad latinoamericana.

Análisis histórico comparativo de tres casos de socialismo del siglo XXI

A pesar de las afirmaciones de los publicistas gubernamentales, el aspecto más llamativo de los gobiernos del socialismo del siglo XXI es lo escasamente nuevo o específico de sus políticas. La adopción de una economía mixta y un juego político acorde a las normas institucionales de un estado capitalista liberal, difiere poco de las prácticas de los partidos socialdemócratas europeos de fines de la década de 1940 hasta mediados de 1970. En la medida en que el socialismo del siglo XXI persigue una política nacionalista (y debemos tener en cuenta que nacionalización significa expropiación y propiedad pública), las políticas son un pálido reflejo de las medidas adoptadas desde la década de 1930 hasta mediados de los 70. Con la excepción del régimen de Chávez, el resto de lo que pasa por socialismo del siglo XXI ha nacionalizado en el mejor de los casos empresas privadas en quiebra, ha aumentado sus participaciones en empresas conjuntas, y ha aumentado los impuestos a los exportadores de minerales y productos agrarios.

El “indigenismo”, que se expresa con más fuerza expresadas en los dos gobiernos andinos, Bolivia y Ecuador, reproduce la retórica del “indoamericanismo” de la década de 1930, expresada principalmente por el teórico peruano marxista José Carlos Mariátegui y el líder político del APRA Haya de la Torre; así como el Partido Socialista de Chile; algunos teóricos de Bolivia y México; Augusto Sandino, el líder guerrillero nicaragüense; y el líder revolucionario salvadoreño Farabundo Martí. En llamativo contraste con los indigenistas del socialismo del siglo XXI, sus predecesores centroamericanos impulsaron profundas reformas agrarias, con la restauración de millones de hectáreas de tierras fértiles confiscadas, y un profundo rechazo del modelo de exportación agroindustrial. La versión anterior del indigenismo combinaba una identificación simbólica junto a profundos cambios de fondo, a diferencia de los indigenistas contemporáneos que dependen sobre todo de los gestos simbólicos y la política de identidad.

Las actuales políticas basadas en las empresas conjuntas recuerdan las alternativas reformistas a la revolución cubana, que encontraron su expresión en la política de Alianza para el Progreso, impulsada por John F. Kennedy, y recogidas por los regímenes cristianodemócratas y socialdemócratas contrainsurgentes de la década 1960. En oposición a los socialistas y comunistas del siglo XX, que estaban a favor de la socialización de la economía, el gobierno demócrata-cristiano de Chile (1964-1970) promovió una “chilenización” alternativa similar a las empresas conjuntas creadas por Evo Morales y Rafael Correa. En otras palabras, el modelo económico del socialismo del siglo XXI se acerca mucho más al modelo antisocialista reformista promovido por EE.UU. en la década de 1960 que a cualquier variante socialista del pasado.

Socialismo del siglo XXI y socialdemocracia del siglo XX

Si bien el alcance y la profundidad de los cambios socioeconómicos perseguidos por el socialismo del siglo XXI no se aproximan a los cambios estructurales de socialismo del siglo XX, podemos analizar en qué medida se equiparan a la variante reformista o socialdemócrata.

Tres casos de gobiernos social-democráticos, de base electoral, vienen a la mente: el régimen de Jacobo Arbenz en Guatemala (1952-1954), el régimen de Joao Goulart en Brasil (1962-1964) y el régimen de Salvador Allende en Chile (1970-1973). Estos tres gobiernos socialdemócratas emprendieron reformas agrarias de mayor calado, que beneficiaron a miles de campesinos, que las iniciadas por el socialismo del siglo XXI contemporáneo. Y también se produjeron más nacionalizaciones sustanciales reales de empresas extranjeras que en dos de los tres gobiernos socialdemócratas del socialismo del siglo XXI (Venezuela ha expropiado un número comparable de las empresas).

En cuanto a las posturas y práctica en materia de política exterior y la retórica política antiimperialista, son similares, pero los primeros socialdemócratas eran más propensos a expropiar el capital extranjero. Por ejemplo, Arbenz expropió tierras de la United Fruit; Goulart nacionalizó la ITT, empresa telefónica; y Allende expropió Anaconda, la gran empresa del cobre. En cambio, nuestros socialistas del siglo XXI han fomentado la explotación de la tierra y los recursos minerales por las transnacionales extranjeras. Las diferentes políticas económicas exteriores corresponden a la diferente composición interna de clase y a los diferentes alineamientos económicos de las socialdemocracias de los siglos XX y XXI. En contraste con las ideas erróneas convencionales, el socialismo del siglo XXI ha consumado los pactos entre los tecnócratas del régimen, las transnacionales y las elites agro-mineras nacionales, todos los cuales tienen un peso mucho mayor en los centros de toma de decisiones que la base electoral de masas de indígenas y obreros. En comparación, los movimientos campesinos y obreros tenían una mayor representación e independencia de acción dentro y fuera de los gobiernos socialdemócratas del siglo XX.

El socialismo del siglo XXI: ¿una historia nueva, o un proceso político cíclico?

Un examen de los pasados 60 años de historia latinoamericana revela un patrón cíclico constante y alterno, de una oleada de gobiernos de izquierda tras una de gobiernos de derecha. La constante subyacente ha sido la lucha entre, por un lado, las proyecciones imperialistas de EE.UU., sea a través de la intervención directa, las dictaduras militares o los gobiernos civiles satélites, y, por otro lado, los movimientos y gobiernos populares y socialistas. La cuestión es saber si esta última oleada de centro-izquierda es simplemente la última expresión de este patrón cíclico, o si las modificaciones de base en relaciones estructurales internas y externas subyacentes están operando para facilitar un proceso más sostenible. Vamos a proceder a esbozar la evolución cíclica izquierda-derecha del pasado, y a continuación debatir algunos cambios clave contemporáneos a escala mundial y regional que podrían conducir a una mayor sostenibilidad de la hegemonía política de la izquierda.

Desde la Segunda Guerra Mundial, América Latina ha experimentado globalmente cinco ciclos de predominio izquierda-derecha.

El período inmediatamente posterior a la Segunda Guerra Mundial, tras la derrota del fascismo, fue testigo en todo el mundo del avance de la democracia, la lucha contra el colonialismo y las revoluciones socialistas. América Latina no fue la excepción. Gobiernos de centro-izquierda, socialdemócratas y nacionalistas-populistas de frente popular asumieron el poder en Chile, Argentina, Venezuela, Costa Rica, Guatemala, Brasil y Bolivia, entre 1945 y 1952. Juan Domingo y Eva Perón nacionalizaron los ferrocarriles, legislaron uno de los programas de bienestar social más avanzados, y elaboraron a escala regional una tercera vía en política exterior independiente de EE.UU. Una coalición de socialistas, comunistas y radicales ganó las elecciones de 1947 en Chile con la promesa de amplias reformas laborales y sociales. En Costa Rica, un levantamiento político llevó al desmantelamiento del ejército nacional. En Venezuela, un partido socialdemócrata (Acción Democrática) se comprometió a extender el control público sobre los recursos del petróleo y a incrementar los ingresos fiscales. En Guatemala, el recién elegido presidente Arbenz expropió los campos no cultivados de la United Fruit Company, puso en práctica una amplia legislación laboral que promovía el crecimiento de los sindicatos, y acabó con el peonaje por deudas de los indígenas. En Bolivia, una revolución social dio lugar a la nacionalización de las minas de estaño, una profunda reforma agraria, la desaparición del ejército y de la formación milicias obreras y campesinas. En el Brasil de Getulio Vargas se promovió la propiedad estatal, una economía mixta y la industrialización nacional.

La puesta en marcha de la doctrina Truman en la década de 1940, la invasión por EE.UU. de Corea (1950), y el fomento agresivo de la Guerra Fría comportaron una intervención enérgica de EE.UU. contra los gobiernos democráticos de centro-izquierda y nacionalistas en América Latina. Con el visto bueno de Washington, las oligarquías de América Latina y los intereses empresariales de EE.UU. respaldaron una serie de golpes militares y de dictaduras durante toda la década de 1950. En Perú, el general Odría tomó el poder, el general Pérez Jiménez hizo lo propio en Venezuela, el general Castillo Armas fue instalado en el poder por la CIA en Guatemala, el presidente elegido Juan Domingo Perón fue derrocado por los militares argentinos en 1955, y el presidente brasileño Vargas fue empujado al suicidio. EE.UU. logró forzar la ruptura del frente popular y la ilegalización del Partido Comunista de Chile, y dio su apoyo al golpe de Fulgencio Batista en Cuba, y las dictaduras de Papá Duvalier en Haití y de Rafael Trujillo la República Dominicana. El ascenso de la extrema derecha, el derrocamiento de gobiernos de centro-izquierda y la sangrienta represión de sindicatos y movimientos campesinos consiguieron asentar la hegemonía de EE.UU., la aceptación de las políticas de Guerra Fría de este país, y abrió la puerta a la invasión económica de las corporaciones.

A finales de la década de 1950, el extremismo de la dominación y explotación de EE.UU., la represión brutal de todos los movimientos sociales democráticos y partidos de izquierda, y el saqueo a cargo de las oligarquías del tesoro público condujo a levantamientos populares y un retorno a la hegemonía de la izquierda.

Entre 1959 y 1976, regímenes de izquierda gobernaron o estuvieron a punto de gobernar en todo el continente, con diferentes grados de éxito y duración. La revolución social cubana de 1959 y una revolución política en Venezuela en 1958, fueron seguidas por la elección de los gobiernos nacional-populistas de Joao Jango Goulart en Brasil (1962-1964); Juan Bosch (1963), restablecido brevemente en 1965; Salvador Allende en Chile (1970-1973); y Perón en Argentina (1973-1975). Militares nacional-progresistas populistas tomaron el poder en Perú (Velasco Alvarado, 1968), Guillermo Rodríguez en Ecuador (1970), Ovando (1968) y Juan José Torres (1970) en Bolivia, y Omar Torrijos en Panamá. Todos ellos desafiaron en mayor o menor grado la hegemonía estadounidense. Todos fueron respaldados por movimientos populares de masas, que exigían radicales reformas socioeconómicas. Algunos gobiernos nacionalizaron sectores económicos estratégicos y aplicaron medidas anticapitalistas de largo alcance.

Sin embargo, todos menos la revolución cubana tuvieron corta vida. Incluso en pleno giro a la izquierda de los años 60 y 70, EE.UU. y sus satélites militares intervinieron enérgicamente para revertir la perspectiva de los cambios sociales progresistas. El gobierno del brasileño Goulart cayó ante un golpe militar respaldado por EE.UU., en 1964; éste fue precedido por el derrocamiento de Juan Bosch en 1963 y seguido por la invasión militar estadounidense contra la revolución restauradora dominicana de 1965-66; un golpe militar respaldado por EE.UU. en Bolivia derrocó a Torres en 1971; y Salvador Allende fue derrocado por un golpe conjunto CIA-militares en 1973, seguido por Velasco en 1974, y Perón en 1976. La prometedora y profunda oleada de izquierda había terminado por el resto del siglo XX.

Entre 1976 y 2000, con la notable excepción de la victoria de la revolución sandinista en 1979, la derecha fue en ascenso, y su largo mandato se realizó por medio de la peor oleada de represión en todo el continente en la historia de América Latina. Los gobiernos militares y los gobiernos civiles neoliberales autoritarios posteriores desmantelaron todas las barreras arancelarias y los controles de capitales en una zambullida salvaje en el libre mercado más extremista y dañino, y en sus políticas económicas imperiales. Entre 1976 y 2000, más de cinco mil empresas públicas fueron privatizadas y la mayoría fueron adquiridas por transnacionales extranjeras; asimismo, más de un billón y medio de dólares fueron transferidos al extranjero en concepto de beneficios, regalías, pagos de intereses, pillaje de fondos públicos, evasión fiscal y blanqueo de dinero. Sin embargo, esta edad de oro del capital estadounidense, durante la década de 1990, fue un período de estancamiento económico, polarización social y creciente vulnerabilidad a las crisis. El escenario estaba listo para las revueltas populares de los primeros años del nuevo milenio y el ascenso de la última oleada de gobiernos de centro-izquierda en la región, lo cual nos lleva a la cuestión de la sostenibilidad de este nuevo grupo de gobiernos.

Algunos cambios histórico-estructurales mundiales

Uno de los factores clave para revertir las pasadas oleadas de gobiernos de izquierda en América Latina fue el poder económico y la capacidad intervencionista de EE.UU..

Hay pruebas sólidas que muestran que en ambos aspectos el poder estadounidense ha sufrido una disminución relativa. EE.UU. ya no es un país acreedor, ya no es el primer socio comercial con Brasil, Chile, Perú y Argentina, y está perdiendo terreno en el resto de América Latina, excepto México. Washington ha perdido influencia incluso en su patio trasero: el Caribe y América Central, donde varios países han firmado un acuerdo de petróleo subsidiado venezolano (Petrocaribe). Washington, como para compensar su pérdida de influencia económica, manifestada en el rechazo de su propuesta de un acuerdo de libre comercio de alcance latinoamericano, ha aumentado su presencia militar, mediante la implantación en siete bases militares en Colombia, el apoyo al golpe de estado en Honduras contra un presidente social-liberal, y con la presencia de la IV Flota frente a las costas de América Latina. A pesar de la proyección “del poder militar”, circunstancias fuera de América Latina se han debilitado la capacidad de EE.UU. intervencionistas, a saber, la prolongada costosas guerras sin fin en Irak, Afganistán, Pakistán y la confrontación militar con Irán. Los ya altos niveles de agotamiento del público y de la oposición, hace que sea difícil para Washington para lanzar la guerra cuarto en América Latina. Por lo tanto, se basa en las finanzas y militar cliente local – configuraciones de poder civil, para desestabilizar y derrocar de centro-izquierda adversarios. El aumento en los mercados mundiales, especialmente en Asia, ha permitido a los gobiernos de América para diversificar sus mercados y socios de inversión, lo que limita el papel de EE.UU. MNC y limita su posible papel político como proveedores de las políticas del Departamento de Estado. La financiarización de la economía de EE.UU. ha erosionado su base industrial y ha limitado su demanda de productos agrarios y minerales de América Latina, desplazando la dependencia de esta región a las nuevas potencias emergentes. Además, por haber sufrido las consecuencias de las crisis financieras, los gobiernos de América Latina han impuesto normas relativas a los movimientos de capital, lo que limita el funcionamiento de los bancos de inversión estadounidenses especuladores, principales impulsores de la economía de EE.UU. A pesar de la cháchara de Washington sobre los mercados libres, su aplicación de medidas proteccionistas y subsidios a la agricultura (azúcar, etanol) han contrariado a los principales países de América Latina, como por ejemplo Brasil. En tanto que principal exponente de la fallida doctrina neoliberal de libre mercado, EE.UU. ha sufrido una gran pérdida de influencia ideológica en la región como consecuencia de la recesión mundial de 2007 a 2010.

Por estas razones, una de las principales partes interesadas (el imperialismo estadounidense), responsable de los ciclos de auge y caída de los gobiernos de izquierda, se ha debilitado estructuralmente, lo que potencia la posibilidad de una mayor duración. Sin embargo, sigue siendo un factor importante que actúa con potentes recursos basados en sus estrechos vínculos con las principales fuerzas militares y económicas de derecha de la región. En segundo lugar, por la naturaleza misma de las estrategias de desarrollo elegidas por los gobiernos de centro-izquierda, éstos son muy vulnerables a las crisis, en particular las políticas de exportaciones agrarias y mineras basadas en las élites económicas extranjeras y nacionales y afectadas por las fluctuaciones de la demanda mundial. En tercer lugar, los gobiernos de centro-izquierda no han podido resolver los desequilibrios regionales de base: reducir significativamente las desigualdades sociales y recuperar la propiedad y el control de sectores económicos estratégicos. Estas consideraciones ponen en duda la durabilidad a medio plazo de los actuales gobiernos de centro-izquierda.

Hay pocos cambios internos en la naturaleza del aparato estatal y la estructura de clases que puedan impedir una vuelta atrás a las políticas neoliberales. La cuestión básica de si los actuales gobiernos del socialismo del siglo XXI son peldaños hacia la socialización o simplemente gobiernos transitorios que abren camino para la restauración neoliberal pro estadounidense en la región, sigue estando abierta a discusión aun cuando se están acumulando pruebas de que el resultado citado en último lugar es más probable que el primero.

Conclusión

La cuestión de si el socialismo del siglo XXI es mejor o peor que el del siglo XX depende de qué versiones de cada uno elijamos como términos de comparación, y qué dimensiones políticas seleccionemos en nuestra evaluación comparativa.

En primer lugar no existe un modelo único del socialismo del siglo XX, a pesar de la ecuación fácil que lo identifica con la variante soviética. Ha habido fundamentalmente cuatro tipos radicalmente diferentes de regímenes socialistas en el siglo XX, que a su vez tenían una composición interna variada:

(1) los gobiernos revolucionarios de partido único, que incluyen Cuba, Corea del Norte, China, Vietnam y la URSS. Los cuatro primeros combinaron las luchas por el socialismo y las luchas de liberación nacional, y se configuraron en forma independiente de la URSS, a la vez que mostraron en diferentes momentos un grado mayor y menor de apertura al debate y las libertades individuales. Los cuatro tuvieron que combatir invasiones de EE.UU. y todos estuvieron sujetos a embargos y fuertes campañas de desestabilización que requirieron medidas de seguridad de alto nivel;

(2) los gobiernos revolucionarios socialistas con elecciones multipartido: Chile (1970-1973), Granada (1981-1983), Guyana (1950), Bolivia (1970-1971) y Nicaragua (1979-1989). Fomentaron la competencia partidista y las cuatro libertades incluso a expensas de la seguridad nacional. Todos fueron objeto, con éxito, de intervenciones militares, golpes militares y embargos económicos promovidos por Estados Unidos;

(3) el socialismo autogestionario fue puesto en práctica en las fábricas de Yugoslavia desde finales de 1940 a mediados de la década de 1980, y fue brevemente experimentado en Argelia entre 1963-1964. Movimientos separatistas promovidos por EE.UU. y Europa disolvieron el estado de Yugoslavia, y un golpe militar puso fin al experimento de Argelia;

(4) la socialdemocracia basada en programas sociales de gran escala y larga duración vinculada a la gestión estatal de la política macroeconómica se llevó a cabo en los países escandinavos, especialmente en Suecia.

El estereotipo del modelo soviético de socialismo autoritario impuesto desde el exterior era aplicable sólo a Europa Oriental, e incluso estaba sujeto a cambios y momentos democráticos, como en 1968 en Checoslovaquia y Hungría en el decenio de 1980.

Asimismo hay variaciones significativas entre los socialismos del siglo XXI.

Venezuela ha nacionalizado las principales empresas extranjeras y nacionales (petróleo, acero, cemento, banca, telecomunicaciones), ha expropiado grandes extensiones de tierras de cultivo donde ha establecido más de 100.000 familias, ha financiado programas generales de salud pública universal y educativos, y ha fomentado los consejos comunales y la autogestión de los trabajadores, en unos algunos los casos.

Bolivia ha expropiado pocas de las grandes empresas, si es que ha expropiado alguna. En cambio, Evo Morales ha promovido la formación de empresas conjuntas público-privadas, y ha abierto la puerta a decenas de consorcios de empresas mineras extranjeras, ha apoyado reformas que mejoran y amplían los derechos civiles de los indígenas, y ha aumentado el gasto social en vivienda, infraestructura y alivio de la pobreza. No se ha producido ni está prevista ninguna reforma agraria.

La tercera y más conservadora variante de socialismo del siglo XXI se halla en Ecuador, donde importantes concesiones a las empresas mineras y petroleras han acompañado a la privatización de las concesiones y subvenciones a las empresas de telecomunicaciones y las élites empresariales regionales. En lugar de una reforma agraria, Correa ha transferido algunas tierras indígenas a empresas mineras para su explotación. Los principales rasgos de socialismo se encuentran en unos más altos niveles de gasto social, la revocación de la utilización por EE.UU. de la base militar de Manta, y una crítica general de las políticas comerciales y militares de EE.UU. Correa mantiene la economía dolarizada, lo que limita las políticas fiscales expansionistas.

Recurriendo a los criterios comúnmente aceptados para evaluar el carácter socialista tanto del socialismo del siglo XX como el del siglo XXI, podemos formar un juicio bien fundamentado sobre su desempeño en el logro de mayor independencia económica, justicia social y libertad política.

Propiedad pública

Todas las variantes del socialismo siglo XX –excepto el modelo escandinavo– lograron un mayor control público sobre las principales palancas de la economía que sus contrapartes del siglo XXI. Venezuela es la aproximación más cercana a la experiencia del siglo XX. El desempeño comparativo de los modelos públicos, público-privados y privados varía: en términos de crecimiento y productividad, las empresas públicas del siglo XX han tenido resultados dispares, de alto crecimiento que ha derivado en estancamiento; las empresas conjuntas, sujetas a los caprichos del mercado y la demanda mundial, alternan entre un crecimiento elevado en tiempos de auge, y depresión en los periodos de bajos precios agrícolas.

En términos de relaciones sociales, los beneficios sociales y las condiciones de trabajo en el sector público en general son más generosos que en las empresas conjuntas y las de propiedad privada, aunque la remuneración salarial pueda ser mayor en las segundas.

Reforma agraria

El socialismo del siglo XX tuvo mucho más éxito en la redistribución de la tierra y la quiebra del poder de la clase terrateniente que el socialismo del siglo XXI con ninguna de las medidas aplicadas. Las reformas redistributivas del socialismo del siglo XX contrastan con las agroestrategias de exportación del nuevo socialismo contemporáneo, que ha promovido una mayor concentración de la propiedad y la desigualdad entre las élites de la agroindustria y los campesinos y trabajadores rurales sin tierra. Las reformas agrarias, sin embargo, estuvieron mal gestionados, especialmente en el caso de Cuba y China, y condujeron a una segunda transformación, la redistribución de las granjas estatales entre agricultores familiares y cooperativas.

En general, los socialistas del siglo XX tuvieron mucho más éxito en la reducción de las desigualdades en los ingresos –sin llegar a eliminarlas– que sus colegas contemporáneos. Debido a que los capitalistas del siglo XXI, especialmente los propietarios de grandes minas, la agroindustria capitalista, y los banqueros, todavía controlan las palancas fundamentales de la economía, las desigualdades históricas entre el cinco por ciento superior de la sociedad y el sesenta por ciento inferior siguen sin cambios.

En términos de bienestar social, el socialismo del siglo XXI ha aumentado el gasto social, el salario mínimo, pero, con la notable excepción de Venezuela, sus programas educativos y de salud pública gratuita no están a la altura de los programas financiados por el socialismo del siglo XX.

Aunque hubo desequilibrios regionales entre el campo y la ciudad en el socialismo siglo XX, la población rural del siglo pasado tuvo acceso a una atención médica gratuita, una seguridad social y una atención sanitaria básica que aún falta en la mayoría de los gobiernos de socialismo del siglo XXI.

En términos de luchas antiimperialistas, las acciones del siglo XX fueron muy superiores a las del socialismo del siglo XXI. Por ejemplo, Cuba envió tropas y ayuda militar al sur de África (especialmente a Angola) para rechazar una invasión del régimen racista de Sudáfrica. China envió tropas en solidaridad con Corea y defendió la mitad septentrional del país del ejército invasor de EE.UU. La URSS suministró armas esenciales y misiles de defensa antiaérea en apoyo a la lucha vietnamita de liberación nacional, y proporcionó a Cuba los subsidios económicos y la ayuda militar que le permitió sobrevivir al embargo estadounidense.

A día de hoy, con la excepción parcial de Venezuela, el socialismo del siglo XXI no ha proporcionado apoyo material a las luchas de liberación en curso. Al contrario, Brasil, Bolivia, Chile y Argentina siguen proporcionando fuerzas militares de apoyo a la ocupación de Haití, patrocinada por Estados Unidos. En el mejor de los casos, el socialismo del siglo XXI ha condenado el golpe de Estado, respaldado por EE.UU., en Honduras (2009), Venezuela (2002) y las bases militares en Ecuador y Colombia, y rechazan los acuerdos de libre comercio propuestos por Estados Unidos.

La única área en la que el socialismo del siglo XXI tiene una ventaja evidente es en la promoción de las libertades individuales y los procesos electorales. Hay una mayor tolerancia del debate público, las elecciones competitivas y los partidos políticos de la que se toleró en algunas variantes de socialismo del siglo XX.

No obstante, la democracia económica o el poder de los trabajadores fue mucho más avanzado en el socialismo del siglo XX en Chile y Yugoslavia que en el socialismo del siglo XXI de elecciones parlamentarias. Por otra parte, en el pasado había una mayor preocupación por las opiniones de los trabajadores en la formulación de políticas, incluso en los sistemas autoritarios, que la que hay en el actual socialismo agro-minero del siglo XXI. La mayor apertura de socialismo del nuevo siglo está relacionada con el hecho de que se enfrentan a amenazas militares de menor intensidad, en parte debido a que no han alterado la naturaleza básicamente capitalista de su economía.

En comparación con el del siglo anterior, el socialismo del siglo XXI es en general más conservador, opera más estrechamente con las transnacionales, es menos antiimperialista, y se basa en coaliciones interclasistas que abarcan todo el espectro de clases, vinculando a los sectores pobres y de clase media a las poderosas élites mineras. Aunque el socialismo del siglo XXI de vez en cuando pueda hacer referencia a los análisis de clase, en tiempos de crisis de sus conceptos operativos oscurecen las divisiones de clase mediante el uso no vago y poco específico de categorías “populistas”.

Tal vez la imagen radical del socialismo del siglo XXI sea el resultado de su contraste con los anteriores gobiernos extremistas de derecha que gobernaron durante el cuarto de siglo anterior. La etiqueta socialista colocada a estos gobiernos por Washington y los medios de comunicación occidentales representa una nostalgia de un pasado de sumisión política sin trabas, saqueo económico no reglamentado y fuerte represión de los movimientos populares, en lugar de un análisis empírico de sus políticas socioeconómicas.

A pesar de que el socialismo del siglo XXI es menos radical y tal vez diste de las definiciones comúnmente aceptadas de la política socialista, sigue siendo un dique de contención del militarismo e intervencionismo de EE.UU., ha puesto un tope al control de los recursos naturales y proporciona una mayor tolerancia para la organización de movimientos sociales.

James Petras

Traducido por S. Seguí, extraído de Rebelión.

~ por LaBanderaNegra en Octubre 22, 2009.

vendredi, 30 octobre 2009

Iraq, Afganistan y la doctrina Obama en "el tablero de ajedrez" eurasiatico

Iraq, Afganistán y la doctrina Obama en “el tablero de ajedrez” euroasiático

El teniente coronel Eric Butterbaugh, oficial del Pentágono a cargo de la vocería del Comando Central norteamericano, manifestó que en Iraq, territorio medioriental de 437.072 Km2, permanecen 120 mil soldados estadounidenses, aunque no se enviarán -dijo- los 4 mil previstos que reemplazarían los equivalentes de la Guardia Nacional de EEUU apostados en Bagdad.

Ello significa que en el país medioriental hay, por cada 3,6 kms cuadrados de territorio iraquí, un soldado ocupante de la más agresiva potencia mundial, lo cual es una proporción que pone en duda la legitimidad de cualquier proceso electoral, legislativo o presidencial en un país que aspire a ser reconocido como legal, ocupado por tropas extranjeras.

Sobre esas condiciones muy reales y precisas, el primer ministro iraquí, Nuri al-Maliki se encuentra realizando una visita a Washington para buscar “apoyo político” del gobierno de Barack Obama y así garantizar -ante las diversas fuerzas políticas iraquíes- las mejores condiciones que permitan avalar el reconocimiento legítimo de las próximas elecciones parlamentarias a celebrarse en el 2010, en un país desvastado por la guerra de agresión, desestructurado por los ocupantes norteamericanos y necesitado de apoyo internacional para su reconstrucción.


Se recordará que la tal ‘reconstrucción de Iraq’ nunca pasó de declaraciones altisonantes del dúo Bush-Cheney y que derivó -más que en un hecho positivo para los iraquíes- en el enriquecimiento de empresas privadas del grupo económico estadounidense al cual pertenecen los ex-mandatarios de la Casa Blanca, que se introdujo en Iraq para saquearlo con jugosos contratos firmados “a punta de fusil y de mirillas laser”.

De aquí que ahora el Pentágono haya informado de la cancelación del envío de unos 4 mil soldados estadounidenses y a su vez, haya comunicado que los elementos de su Guardia Nacional estacionados en Bagdad, regresarán a EEUU dentro de cuatro meses, según precisó el alto oficial del Comando Central, en lo que parece ser ‘una lavadita de cara’ de frente a las elecciones parlamentarias iraquíes que proporcionalmente tendrán varios militares norteamericanos por cada urna de votación.

Tales declaraciones, tanto del gobernante iraquí Malikí, como del militar estadounidense Butterbaugh, están inscritas en la actual doctrina estratégica de los EEUU, comenzada a denominarse “Doctrina Obama”, la cual en sus delineamientos iniciales previó “la salida militar” paulatina de Iraq y la ampliación de la ocupación del estratégico territorio de Afganistán con las consiguientes acciones sobre los países fronterizos como Irán, Pakistán, la India, Uzbequistán, Turkmenistán, el occidente de China, Turquía, Armenia y el propio Iraq, y controlar un acceso directo a Rusia a través del Mar Caspio, también fronterizo con Afganistan.

Eric Butterbaugh, al iniciarse la ocupación de Irak, ostentaba el cargo de Mayor de la Fuerza Aérea y Vocero del Comando de Defensa Aeroespacial norteamericano en Colorado Springs. Luego de transcurrir seis años de guerra en Irak donde han muerto más de 4 mil militares estadounidenses, el ahora Teniente Coronel Buterbaugh, como Vocero del Comando Central, parece ser que será quien anuncie otro probable desastre estadounidense, ahora en Afganistán, donde ya la cifra de estadounidenses muertos sobrepasa los 400.

Sin dudas, consolidar esa posición de alta estima geopolítica, por estar en el centro del ”tablero de ajedrez” euroasiático, es lo que parece ser la obsesión de Barack Obama para enfrentar militarmente en un futuro no previsible, a sus más potentes adversarios: China y Rusia.

De manera que Irak, podría a pasar a un segundo plano y entonces pasar al primero, no la guerra en Afganistán, sino el incremento de las contradicciones entre EEUU y todos esos países fronterizos con la nación euroasiática, varios de ellos ya incorporados a la potente Organización de Cooperación de Shanghai OCSh, la cual celebrará en estos días una nueva Cumbre.

Ernesto Wong Maestre

Extraído de ABN.

~ por LaBanderaNegra en Octubre 22, 2009.

mardi, 27 octobre 2009

Eduardo Galeano: Basi militari dell'EE.UU in Colombia

eduardo-galeano.jpgIntervista al giornalista e scrittore uruguayano


EDUARDO GALEANO :

“LE BASI MILITARI DELL’EE.UU. IN COLOMBIA OFFENDONO LA DIGNITA’ COLLETTIVA DELL’AMERICA LATINA”.

Di Fernando Arellano Ortiz

 

Traduzione di Erika Steiner –italiasociale.org

Nell’Avenita Amazonas, a Quito, a pochi passi dall’hotel dove alloggiamo, incontriamo come una qualsiasi viandante nella notte del 9 agosto Eduardo Galeano, che è arrivato nella capitale ecuadoregna per assistere come invitato speciale all’insediamento del presidente Rafael Correa, cerimonia prevista per il 10 agosto.
Lo abbiamo fermato, ci siamo presentati e gli abbiamo chiesto di rilasciarci un’intervista, cosa che ha accettato con piacere.
“Adesso non si può fare, ma vediamoci domani dopo la cerimonia di insediamento di Correa” ci dice l’autore di “Las venas abiertas de América Latina” (Le vene aperte dell’America Latina) e di “Espejos” (Specchi).
Come sempre, Galeano risponde con ironia a con umorismo, per questo le sue osservazioni vanno oltre la banalità. Come esperto latino americanista lo scrittore uruguaiano intervistato da CRONICON.NET fa una particolare analisi della realtà sociopolitica del nostro emisfero.

PORTE APERTE ALLA SPERANZA


- Dopo 200 anni dall’emancipazione dell’America Latina, si può parlare di una riconfigurazione del soggetto politico di questa regione, tenendo conto dei cambiamenti politici che si traducono in governi progressisti e di sinistra nei vari paesi latinoamericani?

- Sì, lasciamo le porte aperte alla speranza; vediamo una forma di rinascimento che è degna di essere festeggiata in paesi che non hanno ancora raggiunto la piena indipendenza, ma che hanno appena cominciato il loro cammino. L’indipendenza è un compito che non è ancora completato per quasi tutta l’America Latina.

- Con tutto la rinascita del sociale che si sta sviluppando in tutto il mondo, si può dire che c’è un’accentuazione dell’identità culturale dell’America Latina?

- Sì, credo di sì. E questo passa senza dubbio dalle riforme costituzionali. Offese la mia intelligenza, a parte altre cose che sentii, l’orrore del colpo di stato in Honduras, che si disse causato dal peccato commesso dal Presidente che volle consultare il popolo sulla possibilità di riformare la Costituzione, perché quello che voleva in realtà Zelaya era consultare il popolo sul modo di essere consultato, per lo meno era una riforma diretta. Supponendo anche che fosse una riforma costituzionale, che fosse la benvenuta! Le Costituzioni non sono eterne e perché si possano realizzare pienamente gli Stati le devono riformare. Io mi domando: “Che ne sarebbe degli Stati Uniti se i suoi abitanti continuassero osservano la loro prima Costituzione? La prima Costituzione degli Stati Uniti stabiliva che un negro corrispondeva a 3/5 di una persona. Obama non potrebbe essere Presidente perché nessun paese può dare un mandato a tre quinti di una persona.

- Lei parla della condizione razziale del presidente Barack Obama, però il fatto di mantenere o di ampliare le basi militari in America Latina, come sta succedendo in Colombia con l’installazione di sette piattaforme di controllo e di spionaggio, non evidenzia le vere intenzioni di questo mandatario del partito democratico, che semplicemente segue alla lettera i piani di espansione e di minaccia di una potenza egemonica come gli Stati Uniti?

- Il fatto è che Obama finora non ha chiarito bene quello che intende fare né in rapporto all’America Latina, le relazioni con noi, tradizionalmente problematiche, e nemmeno in altri temi. In alcuni settori c’è una volontà di cambio espressamente dichiarata, ad esempio per quel che riguarda il sistema sanitario è scandaloso che se tu ti rompi una gamba devi pagare fino alla fine dei tuoi giorni i debiti contratti per curarti per questo incidente.
Però in altri settori no, Obama continua a parlare della nostra “leadership”, del nostro “stile di vita”, con un linguaggio che assomiglia troppo a quello dei suoi predecessori. A me sembra molto positivo che un paese così razzista come quello, e con episodi di razzismo colossali, scandalosi e fuori dal comune che capitano ogni quarto d’ora abbia un presidente semi-nero.
Nel 1942, cioè mezzo secolo fa, praticamente ieri, il Pentagono proibì le trasfusioni di sangue di cittadini neri e il direttore della Croce Rossa si dimise, o lo fecero dimettere, perché non accettò questo ordine dicendo che tutto il sangue era rosso, e che era una stupidaggine parlare di sangue nero, ed egli era nero, ed era un grande scienziato, fu colui che rese possibili le trasfusioni di plasma su scala universale, Charles Drew.
Quindi per un paese che fece la stupidaggine di proibire il sangue nero avere Obama per presidente è un gran miglioramento. Però, d’altra parte, finora io non vedo un cambiamento sostanziale, basta vedere come il governo ha affrontato la crisi finanziaria, ah, non vorrei essere nei loro panni, però la verità è che alla fine furono ricompensati gli speculatori, i pirati di Wall Street che sono molto più pericolosi di quelli della Somalia, perché questi assaltano solo delle barchette lungo la costa, al contrario quelli della Borsa di New York assaltano il mondo.
E alla fine furono ricompensati; io volevo dar vita ad una campagna in loro favore, inizialmente commosso dalla crisi dei banchieri, con lo slogan “adotta un banchiere”, però ho abbandonato il mio proposito perché ho visto che lo Stato si è fatto carico di questa incombenza. (Risate). E lo stesso avviene con l’America Latina, non hanno ben chiaro quello che vogliono fare. Gli Stati Uniti hanno passato più di un secolo confezionando dittature militari in America Latina, e nel momento di difendere una democrazia, come l’Honduras, di fronte ad un evidente colpo di Stato, vacillano, danno risposte ambigue, non sanno cosa fare, perché non hanno pratica, mancano di esperienza, da un secolo lavorano in modo opposto, quindi capisco che il loro compito non sia facile.
Il caso delle basi militari in Colombia non solo offende la dignità collettiva dell’America Latina, ma anche l’intelligenza di ognuno, perché si dice che la loro funzione è quella di combattere la droga, ma per favore..! Così tutta l’eroina che si consuma nel mondo viene dall’Afganistan, anzi, quasi tutta, dati ufficiali delle Nazioni Unite che si possono facilmente trovare su internet. E l’Afganistan è un paese occupato dagli Stati Uniti, e come si sa i paesi occupanti hanno la responsabilità di quello che succede nei paesi occupati, quindi gli Stati Uniti hanno qualcosa a che fare con questo narcotraffico su scala universale e sono degni eredi della regina Vittoria che era una narcotrafficante.


eduardo-galeano-las-venas-abiertas-de-latinoamerica-copia3.jpgNON SI PUO’ ESSERE COSI’ IPOCRITI

- La regina britannica che nel secolo XIX introdusse con tutti i mezzi l’oppio in Cina attraverso commercianti inglesi e americani….

- Sì, la celeberrima regina Vittoria di Inghilterra impose l’oppio in Cina durante la guerra dei trent’anni, uccidendo una quantità immensa di cinesi perché l’impero cinese non voleva accettare questa sostanza proibita all’interno delle sue frontiere. E l’oppio è il padre dell’eroina e della morfina, per l’appunto. E questo alla Cina costò caro, perché la Cina era una grande potenza che avrebbe potuto competere con l’Inghilterra sia nei commerci che nella rivoluzione industriale, era l’officina del mondo, e la guerra dell’oppio li rovinò, tolse loro il nerbo, e da lì entrarono i giapponesi, in casa loro, in quindici minuti. Vittoria era una regina narcotrafficante e gli Stati Uniti, che usano la droga come pretesto per giustificare le loro invasioni militari, perché di questo si tratta, sono degni eredi di questa brutta tradizione. A me sembra che sia ora che ci svegliamo un po’, non si può essere così ipocriti. Se devono essere ipocriti che almeno lo facciano con un po’ di attenzione.
In America Latina abbiamo buoni professori di ipocrisia, se vogliono possiamo organizzare un accordo di aiuto reciproco e scambiarci gli ipocriti.

- Esattamente nove anni fa, in un’intervista concessaci a Bogotà, lei disse la seguente frase: “Dio salvi la Colombia dal Plan Colombia”. Qual è oggi la sua riflessione rispetto a questo paese andino gestito da un governo autoritario, legato agli interessi degli Stati Uniti, con un’allarmante situazione di violazioni dei diritti umani e con un conflitto interno che si ingrandisce sempre più?

- Permangono problemi gravissimi che il tempo ha reso più acuti. Io non so, non sono qui per dare consigli alla Colombia o ai colombiani, sono sempre stato contrario a questo modo di chi si sente in condizione di decidere su cosa un paese debba fare.
Non ho mai commesso questo imperdonabile peccato e non voglio commetterlo adesso nei confronti della Colombia, voglio solo auspicare che i colombiani trovino il loro cammino, sì, che lo trovino, nessuno può imporlo loro da fuori, né a destra né a sinistra, né al centro, né da nessuna parte, saranno i colombiani che dovranno trovarlo. Quello che posso fare io è dare testimonianza. Se mai ci sarà un tribunale che giudicherà la Colombia per quello che della Colombia si dice: paese violento, narcotrafficante, condannato alla violenza perpetua, testimonierò che no, che non è così, è un paese amabile, allegro e che merita un destino migliore.

RIVENDICANDO LA MEMORIA DI RAUL SENDIC

- Molti anni fa, forse quaranta, c’era un personaggio in Montevideo che si incontrava con un giovane chiamato Eduardo Hughes Galeano, con il proposito di dargli delle idee per le sue caricature, questo personaggio era Raul Sendic, l’ispiratore del Frente Amplio dell’Uruguay…

- e capo guerriero dei Tupamaros, anche se a quel tempo non lo era ancora. E’ vero, quando ero un ragazzino di circa 14 anni e cominciavo a disegnare caricature, lui si sedeva vicino a me e mi dava delle idee...era un uomo più grande di me, con una certa esperienza, e non era ancora ciò che diventò dopo: il fondatore, l’organizzatore e il capo dei Tupamaros.
Ricordo che disse di me al sig. Emilio Frugoni, che era il capo del Partito Socialista e direttore del settimanale dove io pubblicavo qualche caricatura: “Questo diventerà o un presidente o un gran delinquente”. E’ stata una buona profezia e alla fine sono diventato un gran delinquente. (Risate).

- Il fatto che oggi il Frente Amplio stia governando l’Uruguay e che un guerrigliero come Pepe Mujica abbia la possibilità di vincere le elezioni presidenziali è un omaggio alla memoria di Sendic?

- Sì, e di tutti quelli che parteciparono alla grande lotta per rompere il monopolio a due, il bi-polio, esercitato dal Partido Colorado e dal Partido Nacional per quasi tutta la vita indipendente del paese. Il Frente Amplio è arrivato da poco nello scenario politico nazionale e mi sembra un successo che adesso stia governando, anche se non sono sempre d’accordo con quello che fa e credo anche che non faccia tutto quello che bisognerebbe fare.
Però questo non c’entra perché alla fine la vittoria del Frente Amplio è anche la vittoria della diversità politica e io credo che questo significhi democrazia. Nel Frente coesistono molti partiti e movimenti diversi, uniti per l’appunto in una causa comune ma con le loro diversità e differenze, che io rivendico, per me questo è fondamentale.

- Cosa significa per lei come uruguaiano il fatto che un dirigente emblematico della sinistra come Pepe Mujica, ex guerrigliero tupamaro, abbia forti possibilità di arrivare alla Presidenza delle Repubblica del suo paese?

- Non sarà semplice, vedremo cosa succederà, giustamente la gente si riconosce in Pepe Mujica perché è completamente diverso dai politici tradizionali, nel linguaggio, nell’aspetto e in generale in tutto, anche se cerca di vestirsi come un uomo elegante non gli riesce bene ed è l’espressione di una volontà popolare di cambiamento. Credo che sarebbe una buona cosa se arrivasse alla Presidenza, vediamo se succede o no, in ogni caso il dramma dell’Uruguay, come quello dell’Ecuador, sicuramente, paese dove stiamo conversando in questo momento, è l’emorragia della sua popolazione giovane.
Ossia, la nostra patria pellegrina; nel suo discorso di insediamento il presidente Rafael Correa parlò di esiliati della povertà e la verità è che c’è un’enorme quantità di uruguaiani emigrati, molti più di quello che si dice perché le cifre non sono ufficiali, almeno 700 mila, 800 mila, in una popolazione piccolissima perché noi nell’Uruguay siamo 3 milioni e mezzo, questa quantità di gente fuori, tutti o quasi giovani, che hanno lasciato qui i vecchi o le persone che ormai hanno concluso la tappa della vita nella quale uno vuole che tutto cambi per poi rassegnarsi che non cambia niente o molto poco.

TESSERE COLORATE PER COMPORRE MOSAICI

- Partendo dai suoi libri di successo, “Las venas abiertas de América Latina pubblicato nel 1970, y Espejos, nel 2008, che raccontano storie di infamia, il primo nel nostro continente, l’altro nel mondo, c’è ancora spazio per continuare a credere nell’utopia?

- Espejos recupera la storia universale in tutte le sue dimensioni, nei suoi orrori ma anche nelle sue feste, è molto diverso da “Las venas abiertas de América Latina” che fu l’inizio del cammino. Las venas abiertas è quasi un saggio di economia politica, scritto in un linguaggio non molto tradizionale, per questo non ha vinto il concorso Casa de las Americas, perché la giuria non l’ha considerato serio.
Era un’epoca nella quale la sinistra pensava che il serio era quello che era noioso, e siccome il mio libro non era noioso non era serio, però è un libro con un concentrato di storia di politica economica e dei danni che questa storia ci portò, di come ci deformò e strangolò.
Al contrario Espejos tenta di affacciarsi al mondo intero raccogliendo tutto, le notti e i giorni, le luci e le ombre, tutte storie piuttosto corte, e c’è anche una differenza di stile, Las venas abiertas ha una struttura tradizionale, e partendo da qui io vorrei trovare un mio linguaggio, che è quello del racconto corto, tessere colorate per comporre grandi mosaici, e ogni racconto è una tesserina piena di colore, e uno degli ultimi racconti di Espejos evoca un vero ricordo della mia infanzia, io, da piccolo, credevo che tutto quello che si perdeva sulla terra andasse a finire sulla luna, ero convinto di questo e rimasi sorpreso quando arrivarono gli astronauti sulla luna perché non trovarono né promesse tradite, né illusioni perdute, né speranze vane, e allora mi domandai: “se non sono sulla luna dove sono? Non sarà che sono qui sulla terra e ci stanno aspettando?”.

Di Eduardo Gaelano ricordiamo: “Le vene aperte dell’America Latina” Ed. Sperling e Kupfer-
 

02/10/2009

lundi, 19 octobre 2009

The Anglo-US Drive into Eurasia and the Demonization of Russia

264515072_small2.jpgThe Anglo-US Drive into Eurasia and the Demonization of Russia
Reframing the History of World War II


Global Research, October 2, 2009

As tensions mount between the U.S. and the North Atlantic Treaty Organization (NATO) on one side and Moscow and its allies on another, the history of the Second World War is being re-framed to demonize Russia, the legal successor state and largest former constituent republic (pars pro toto) of the Union of Soviet Socialist Republics (U.S.S.R.). In 2009, the U.S.S.R. and the Nazi government of Germany started being portrayed as the two forces that ignited the Second World War.

The historicity behind such a narrative is incorrect and nothing can be further from the truth in regards to Moscow. The security of the European core of the Soviet Union was the main objective of the Kremlin as well as the recovery of lost territory. The Soviet government was also aware of war plans against the Soviet Union. Adolph Hitler thought Britain would join Germany in war against the Soviets, even until the latter part of the Second World War.

This discourse in itself is part of a broader roadmap to control Eurasia through the encirclement of any rival powers, such as Russia and China. To understand the geo-politics and strategic nature of the encirclement of Russia and China by the U.S. and NATO, as well as the Eurasian alliance being formed by Moscow and Beijing as a counter-measure, one must look at the historic Anglo-American drive to cripple and contain any power in Eurasia.

Geography is the basis of the social evolution of traditional power, whether in feudal societies or in industrial societies. For example the property ownership of the landed class, which originally was the nobility, gave rise to the factory system. The rise of financial power is somewhat different, but yet it is also tied to geography.

The United States, India and Brazil are all “natural great powers” — a term coined herein. Natural great powers are states that are bound, with time, to develop or evolve into major hubs of human production because of their geographic configuration or nature’s blessings. In the Eurasian landmass, above all others, there are three states that we can call natural great powers; these states are Russia, China, and India. They have large territories and vast resources and, due to the two former factors, possess great human capacity that can lead to major productivity.

Without human capacity, however, geography and resources are meaningless, and therefore any impairment of population growth or social development through war, civil strife, famine, political instability and/or economic instability can obstruct the emergence of a natural great power. This is exactly what has been happening in the Russian Federation and its earlier predecessors, the U.S.S.R. and the Russian Empire, for the last two hundred years - from the numerous episodes of civil war, the First World War, and the Second World War, to the Yeltsin era and the problems in Caucasia. This is also why the declining population of Russia is a major worry for the Kremlin. If left undisturbed, such nation-states like China and Russia, would dominate the global economy and, by extension, international politics.

This is exactly what Anglo-American foreign policy has been trying to prevent for almost three centuries, first strictly under British clout and then later through combined British and American cooperation. In Europe, the containment policy was first applied to France for centuries and later, after German unification under Prince Otto von Bismarck, to Germany. Later the policy was expanded in scope to all Eurasia (the proper geographic extension of Europe or the “Continent”, as the British called it).

Part of this policy included the prevention of Russian access to the shores of the Mediterranean Sea or the Persian Gulf, which would threaten British trade and eventually maritime supremacy. This is one of the main reasons that the British and French played Czarist Russia and Ottoman Turkey against one another and militarily supported the Ottoman Empire in the Crimean War, when the possibility of Russia, under Catherine II, gaining Ottoman territory on the Mediterranean Sea seemed real.

Why did the Soviets and Chinese Bear the Brunt of the Burden in the Second World War?

The U.S.S.R. and China suffered the greatest material, demographic and overall losses in the Second World War. A quantitative comparative overview and cross-examination of the casualty figures of Britain, the United States, the Soviet Union and China will show the staggering differences between the so-called “Western Allies” and the so-called “Eastern Allies.”

Britain suffered 400,000 casualties and the U.S. suffered just over 260,000 casualties. U.S. civilian casualties were virtually non-existent and no U.S. factories were even touched. On the other hand, the U.S.S.R. had about 10 million military casualties and 12 to 14 million civilian casualties, while China had about 4 to 5 million military casualties and civilian casualties that have been estimated in the range of 8 to 20 million deaths.

Suffering can not be qualified or quantified, but much is overlooked in regards to the Soviet Union and China. Without question the Soviet Union and China lost the greatest ratio of their populations amongst the major Allies. In many cases the casualties of the series of civil wars in the Soviet Union (which saw foreign involvement and even intervention) and the casualties of the Japanese invasion of China (30 million people, starting before 1939) are not counted as Second World War casualties by many historians in Western Europe and the Anglosphere

Most the fighting in the Second World War also took place in the territories of China and Russia. Both Eurasian giants also faced the greatest destruction of infrastructure and material loss, which set their development back by decades. The agricultural and industrial capacity of China alone was cut in half. The Axis, specifically Germany and Japan (two economic rivals of the U.S. and Britain), also were crippled. In contrast, the U.S. was virtually untouched, while Britain as a state was totally depended on U.S. patronage. [1]

U.S. Economic Expansion: Global Wars and the Growth of U.S. Industrial and Economic Might

Both the First World War and the Second World War managed to eliminate any economic rivalry or challenge to U.S. corporations. While Europe and Asia were ravaged by war, the U.S. inversely grew economically. U.S. industrial might grew by leaps and bounds, while the industrial capacities of Europe and Asia were destroyed by both Allied and Axis sides in the Second World War and by the Allies and the Central Powers in the First World War.

By the end of the the Second World War, the U.S. literally owned half the global economy through loans, American foreign investment and war debts. U.S. economic expansion and the American export boom were unprecedented in the scale that took place during the period from 1910-1950, all of which was tied to the Eurasian warscape. Also, it was also only the U.S. that had the economic resources to rebuild the economies and industrial capacities of Europe and Asia, which it did with strings attached. These strings involved favourable treatment of U.S. corporations, preferential trade with the U.S., and the setting up of U.S. branch plants.

1945 was the beginning of Pax Americana. Even much of the foreign aid provided by the U.S. government (with the approval of Congress), to facilitate the reconstruction of European states, flowed back into the private bank accounts of the owners of U.S. corporations, because American firms were awarded many reconstruction-related contracts. War had directly fuelled the industrial might of the United States, while eliminating other rivals such as the Japanese who were a major economic threat to U.S. markets in Asia and the Pacific.

Just to show the extent of the American objectives to handicap their economic rivals one should look at the handling of Japan from 1945 till about October 1, 1949. After the surrender of Tokyo to the U.S. on the U.S.S. Missouri and the start of the American occupation and administration of Japan, the Japanese economy began to rapidly decline because of the calculated neglect of the U.S. through the office of the Supreme Commander of the Allied Powers (SCAP). In economic terms, the Japanese case was initially very similar to that of Anglo-American occupied Iraq.
 
In late-1949 all this began to change. Almost overnight, there was literally a complete change, or a flip-flop, in U.S. policy on Japan. It was only after October 1, 1949 when the People’s Republic of China was declared by Mao Zedong and the Communist Party of China that the U.S. began to allow Japan to recover economically, so as to use it as a counter-weight to China. As a side note, in a case of irony, the quick change in American policy regarding Japan allowed the U.S. to overlook the Japanese policy of not allowing foreign investment, which is one of the reasons for the economic success of Japan and one of the reasons why the financial elites of Japan form part of the trilateral pillar of the global economy along with the elites of the U.S. and Western Europe.

The “Open Doors” Policy of the Anglo-American Establishment

Anglo-American elites also made it clear that they wanted a global policy of “open doors” through the 1941 Atlantic Charter, which was a joint British and American declaration about what post-war international relations would be like. It is very important to note that the Atlantic Charter was made before the U.S. even entered the Second World War. The events and description above was the second clear phase behind the start of modern neo-liberal globalization; the first phase was the start of the First World War. In both wars the financial and corporate elite of the U.S., before the entry of the U.S. as a combatant, had funded both sides through loans and American investment, while they destroyed one another. This included the use of middlemen and companies in other countries, such as Canada.

The creation of the U.S. Federal Reserve in 1913, before the First World War and the U.S. domestic (not foreign, because of the regulations of other states) de-coupling of the gold standard from the U.S. dollar in 1933, before the Second World War, were required beforehand for the U.S. domination of other economies. Both were steps that removed the limits and restrains on the number of U.S. dollars being printed, which allowed the U.S. to invest and loan money to the warring states of Europe and Asia.

Norman Dodd, a former Wall Street banker and investigator for the U.S. Congress, who examined  U.S. tax-exempt foundations, revealed in a 1982 interview that the First World War was anticipated by U.S. elites in order to further manage the global economy. [2] War or any form of large-scale traumatic occurences are the perfect events to use for restructuring societies, all in the name of the war effort and the common good. Civil liberties and labour laws can be suspended, while the press is fully censored and opposition figures arrested or demonized, while corporations and governments merge in close coordination and under the justification of the war effort. This was true of virtually all sides in the First World War and the Second World War, from Canada to Germany under Adolph Hitler.
 
In contrast to the views of its own citizens, the American government was never really neutral during both the First World War and the Second World War. The U.S. was funding and arming the British at the start of the Second World War. Also before the American entry in the Second World War, the U.S., Canada, and Britain started the process of joint war planning and military integration. Before the Japanese attacked Pearl Harbour on December 7, 1941 the U.S. and Canada, which was fighting Germany, on  August 17, 1940 signed the Ogdensburg Agreement, which was an agreement that spelled out joint defence through the Permanent Joint Board of Defence and joint war planning against Germany and the Axis. In 1941, the Hyde Park Agreement formally united the Canadian and American war economies and informally united the U.S., Canadian, and British economies. The U.S. and British military command would also be integrated. In part, the monetary arrangement that was made through these war transactions between the U.S., Canada, and Britain would become the basis for the Bretton Woods formula.
 
Also, the empires of Britain, France, and other Western European states were not dismantled just due to the fact that they were all degraded because of the Second World War, but because of Anglo-American economic interests. The imperialist policies of these European states made it mandatory for their colonies to have preferential trade with them, which went against the “open doors” policy that would allow U.S. corporations to penetrate into other national economies, especially ones that were ravaged by war and thus perfect for U.S. corporate entrance.
 

The Reasons for the German-Soviet Non-Aggression Pact
 
Britain and the U.S. also deliberately delayed their invasion of Western Europe, calculating that it would weaken the Soviets who did most the fighting in Europe’s Eastern Front. This is why the U.S. and Britain originally invaded North Africa instead of Europe. They wanted the Third Reich and the Soviet Union to neutralize one another.

The German-Soviet Non-Aggression Pact or the Ribeentrop-Molotov Pact caused shock waves in Europe and North America when it was signed. The German and Soviet governments were at odds with one another. This was more than just because of ideology; Germany and the Soviet Union were being played against one another in the events leading up to the Second World War, just as how previously Germany, the Russian Empire, and the Ottoman Empire were played against one another in Eastern Europe [3]

This is why Britain and France only declared war on Berlin, in 1939, when both the U.S.S.R. and Germany had invaded Poland. If the intentions were to protect Poland, then why only declare war against Germany when in reality both the Germans and the Soviets had invaded? There is something much deeper to be said about all this.

If Moscow and Berlin had not signed a non-aggression agreement there would have been no declaration of war against Germany. In fact Appeasement was a deliberate policy crafted in the hope of allowing Germany to militarize and then allowing the Nazi government the means, through military might, to create a common German-Soviet border, which would be the prerequisite to an anticipated German-Soviet war that would neutralize the two strongest land powers in Europe and Eurasia. [4]

British policy and the rationale for the non-aggression pact between the Soviets and Germans is described best by Carroll Quigley. Quigley, a top ranking U.S. professor of history, on the basis of the diplomatic agreements in Europe and insider information as an professor of the elites explains the strategic aims of British policy from 1920 to 1938 as:

[T]o maintain the balance of power in Europe by building up Germany against France and [the Soviet Union]; to increase Britain’s weight in that balance by aligning with her the Dominions [e.g., Australia and Canada] and the United States; to refuse any commitments (especially any commitments through the League of Nations, and above all any commitments to aid France) beyond those existing in 1919; to keep British freedom of action; to drive Germany eastward against [the Soviet Union] if either or both of these two powers became a threat to the peace [probably meaning economic strength] of Western Europe [and most probably implying British interests]. [5]

In order to carry out this plan of allowing Germany to drive eastward against [the Soviet Union], it was necessary to do three things: (1) to liquidate all the countries standing between Germany and [the Soviet Union]; (2) to prevent France from [honouring] her alliances with these countries [i.e., Czechoslovakia and Poland]; and (3) to hoodwink the [British] people into accepting this as a necessary, indeed, the only solution to the international problem. The Chamberlain group were so successful in all three of these things that they came within an ace of succeeding, and failed only because of the obstinacy of the Poles, the unseemly haste of Hitler, and the fact that at the eleventh hour the Milner Group realized the [geo-strategic] implications of their policy [which to their fear united the Soviets and Germans] and tried to reverse it. [6]

It is because of this aim of nurturing Germany into a position of attacking the Soviets that British, Canadian, and American leaders had good rapports (which seem unexplained in standard history textbooks) with Adolph Hitler and the Nazis until the eve of the Second World War.

In regards to appeasement under Prime Minister Neville Chamberlain and its beginning under the re-militarization of the industrial lands of the Rhineland, Quigley explains:

This event of March 1936, by which Hitler remilitarized the Rhineland, was the most crucial event in the whole history of appeasement. So long as the territory west of the Rhine and a strip fifty kilometers wide on the east bank of the river were demilitarized, as provided in the Treaty of Versailles and the Locarno Pacts, Hitler would never have dared to move against Austria, Czechoslovakia, and Poland. He would not have dared because, with western Germany unfortified and denuded of German soldiers, France could have easily driven into the Ruhr industrial area and crippled Germany so that it would be impossible to go eastward. And by this date [1936], certain members of the Milner Group and of the British Conservative government had reached the fantastic idea that they could kill two birds with one stone by setting Germany and [the Soviet Union] against one another in Eastern Europe. In this way they felt that two enemies would stalemate one another, or that Germany would become satisfied with the oil of Rumania and the wheat of the Ukraine. It never occurred to anyone in a responsible position that Germany and [the Soviet Union] might make common cause, even temporarily, against the West. Even less did it occur to them that [the Soviet Union] might beat Germany and thus open all Central Europe to Bolshevism. [7]

The liquidation of the countries between Germany and [the Soviet Union] could proceed as soon as the Rhineland was fortified, without fear on Germany’s part that France would be able to attack her in the west while she was occupied in the east. [8]

In regards to eventually creating a common German-Soviet, the French-led military alliance had to first be neutralized. The Locarno Pacts were fashioned by British foreign policy mandarins to prevent France from being able to militarily support Czechoslovakia and Poland in Eastern Europe and thus to intimidate Germany from halting any attempts at annexing both Eastern European states. Quigley writes:

[T]he Locarno agreements guaranteed the frontier of Germany with France and Belgium with the powers of these three states plus Britain and Italy. In reality the agreements gave France nothing, while they gave Britain a veto over French fulfillment of her alliances with Poland and the Little Entente. The French accepted these deceptive documents for reason of internal politics (...) This trap [as Quigley calls the Locarno agreements] consisted of several interlocking factors. In the first place, the agreements did not guarantee the German frontier and the demilitarized condition of the Rhineland against German actions, but against the actions of either Germany or France. This, at one stroke, gave Britain the right to oppose any French action against Germany in support of her allies to the east of Germany. This meant that if Germany moved east against Czechoslovakia, Poland, and eventually [the Soviet Union], and if France attacked Germany’s western frontier in support of Czechoslovakia or Poland, as her alliances bound her to do, Great Britain, Belgium, and Italy might be bound by the Locarno Pacts to come to the aid of Germany. [9]

The Anglo-German Naval Agreement of 1935 was also deliberately signed by Britain to prevent the Soviets from joining the neutralized military alliance between France, Czechoslovakia, and Poland. Quigley writes:

Four days later, Hitler announced Germany’s rearmament, and ten days after that, Britain condoned the act by sending Sir John Simon on a state visit to Berlin. When France tried to counterbalance Germany’s rearmament by bringing the Soviet Union into her eastern alliance system in May 1935, the British counteracted this by making the Anglo-German Naval Agreement of 18 June 1935. This agreement, concluded by Simon, allowed Germany to build up to 35 percent of the size of the British Navy (and up to 100 percent in submarines). This was a deadly stab in the back of France, for it gave Germany a navy considerably larger than the French in the important categories of ships (capital ships and aircraft carriers), because France was bound by treaty to only 33 percent of Britain’s; and France in addition, had a worldwide empire to protect and the unfriendly Italian Navy off her Mediterranean coast. This agreement put the French Atlantic coast so completely at the mercy of the German Navy that France became completely dependent on the British fleet for protection in this area. [10]

The Hoare-Laval Plan was also used to stir Germany eastward instead of southward towards the Eastern Mediterranean, which the British saw as the critical linchpin holding their empire together and connecting them through the Egyptian Suez Canal to India. Quigley explains:

The countries marked for liquidation included Austria, Czechoslovakia, and Poland, but did not include Greece and Turkey, since the [Milner] Group had no intention of allowing Germany to get down onto the Mediterranean ‘lifeline.’ Indeed, the purpose of the Hoare-Laval Plan of 1935, which wrecked the collective-security system by seeking to give most Ethiopia to Italy, was intended to bring an appeased Italy in position alongside [Britain], in order to block any movement of Germany southward rather than eastward [towards the Soviet Union]. [11]

Both the Soviet Union, under Joseph Stalin, and Germany, under Adolph Hitler, ultimately became aware of the designs for the planning of a German-Soviet war and because of this both Moscow and Berlin signed a non-aggression pact prior to the Second World War. The German-Soviet arrangement was largely a response to the Anglo-American stance. In the end it was because of Soviet and German distrust for one another that the Soviet-German alliance collapsed and the anticipated German-Soviet war came to fruition as the largest and deadliest war theatre in the Second World War, the Eastern Front.

The Origins of the Russian Urge to Protect Eurasia

With this understanding of the Anglo-American strategic mentality of weakening Eurasia the ground can be paved for understanding the Russian mentality and mind frame for protecting themselves through protecting their European core and uniting  Eurasia through such organizations as the Warsaw Pact, the Collective Security Treaty Organization (CSTO), and the Shanghai Cooperation Organization (SCO), and such Russian policies as the Primakov Doctrine and allying Moscow with Iran and Syria.

As spheres of influence were carved in Europe, it was understood that Greece would fall into the Anglo-American orbit, while Poland, Bulgaria, Romania, Albania, Yugoslavia, and Czechoslovakia would fall within the Soviet orbit. Due to this understanding the Red Army of the Soviet Union watched as the Greek Communists were butchered and the British militarily intervened in the Greek Civil War. The reason for these agreements involving spheres of influence in Europe was that the Soviets wanted a buffer zone to protect themselves from any further invasions from Western Europe, which had been plaguing the U.S.S.R. and Czarist Russia.

In reality, the Cold War did not start because of Soviet aggression, but because of a long-standing historic impulse by Anglo-American elites to encircle and control Eurasia. The Soviet Union honoured its agreement with Britain and the U.S. not to intervene in Greece, which even came at the expense of Yugoslav-Soviet relations as Marshal Tito broke with Stalin over the issue. This, however, did not stop the U.S. and Britain from falsely accusing the Soviets of supporting the Greek Communists and declaring war on the Soviets through the Truman Doctrine. This move was a part of the Anglo-American  bid to encircle the Soviet Union and to control Eurasia. Today this policy, which existed before the First World War and helped spark the Second World War, has not changed and Anglo-American elites, such as Zbigniew Brzezinski, still talk about partitioning Russia, the successor state of the Soviet Union.

Mahdi Darius Nazemroaya is a Research Associate of the Centre for Research on Globalization (CRG) specializing in geopolitics and strategic issues.

NOTES

[1] British elites, however, had managed to incorporate themselves into the economic livelihood of the U.S., forming an Anglo-American elite and effectively separating themselves from the interests of the majority of British citizens.

[2] Mahdi Darius Nazemroaya, Plans for Redrawing the Middle East: The Project for a “New Middle East”, Centre for Research on Globalization (CRG),
November 18, 2006.

[3] Mahdi Darius Nazemroaya, The “Great Game”: Eurasia and the History of War, Centre for Research on Globalization (CRG),
December 3, 2007.


[4] China at this time was already being limited by Japan and before that by combined Japanese, Russian, and Western European policies. This would leave Germany and the U.S.S.R. as the two main threats to Anglo-American interests.

[5] Carroll Quigley, The Anglo-American Establishment: From Rhodes to Cliveden (San Pedro, California: GSG & Associates Publishers, 1981), p.240.

[6] Ibid., p.266.

[7] Ibid., p.265.

[8] Ibid., p.272.

[9] Ibid., p.264.

[10] Ibid., pp.269-270.

[11] Ibid., p.273.



mercredi, 14 octobre 2009

EE.UU. reactivarà radar y financiarà baseen Costa Rica

EE.UU. reactivará radar y financiará base en Costa Rica

Estados Unidos reactivará un radar y financiará la construcción de una base naval en Costa Rica, como parte de un plan rechazado hoy en la región por las amenazas a la soberanía y la seguridad.

El subcomandante del Comando Sur del ejército norteamericano, Paul Trivelli, anunció la decisión de poner nuevamente en operación un moderno radar en la provincia de Guanacaste, con el supuesto objetivo de combatir el narcotráfico.

Según Trivelli el aparato funcionará en el mismo lugar donde estuvo instalado hasta 1995, cuando fue cerrado tras varios años de operación.


El poderoso radar estará en Cerro Azul de Nandayure, un sitio de difícil acceso, protegido las 24 horas por la policía, precisó el subcomandante.

En una entrevista al diario La Nación, Trivelli informó también sobre la inversión de 15 millones de dólares en una base naval que ya se está construyendo en la localidad de Caldera, de la provincia de Puntarenas.

Allí funcionará, además, una escuela para el adiestramiento de oficiales de guardacostas.

Aunque según el responsable del Comando Sur estas acciones forman parte de la lucha contra el narcotráfico, el anuncio causó preocupación por el renovado interés de Washington de implantar más bases en la región.

En una reciente reunión celebrada en Argentina, varios presidentes de la Unión de Naciones Sudamericanas expresaron su rechazo al pacto militar que permitirá a Estados Unidos usar siete enclaves militares en Colombia.

El ministro de Gobierno y Justicia de Panamá, José Raúl Mulino, declaró recientemente que Washington planeaba también establecer bases en las provincias de Darién y Veraguas, pero la información fue negada por el gobierno istmeño poco después.

Extraído de Radio Mundial.

samedi, 10 octobre 2009

Francia y Espana al rescate del imperialismo yanqui

soldados_espanoles_afganistan.jpgFrancia y España al rescate del imperialismo yanqui

Volverán a la base aérea en Kirguistán

Kirguistán dio pasos el lunes para permitir que soldados franceses y españoles vuelvan a su base área de Manas, un puesto de paso para las operaciones militares encabezadas por Estados Unidos en Afganistán.

Kirguistán canceló los acuerdos con Francia y España en marzo, cuando rechazó un pacto similar con Estados Unidos para el uso de la base. El personal de Francia y España tenía que salir del país para el 13 de octubre.

“Se ha decidido aprobar los acuerdos (con Francia y España) y enviarlos al Ministerio de Exteriores”, dijo Erik Arsaliyev, responsable del comité parlamentario para asuntos internacionales, a los periodistas.


La base, que sirve como punto de repostaje para aviones usados en Afganistán, es importante para Washington y sus aliados de la OTAN porque sustituye a rutas que atraviesan Pakistán y que han sido atacadas por los integristas.

El viceministro de Exteriores, Ruslan Kazakbayev, dijo que el Parlamento revisaría los acuerdos tras la aprobación gubernamental.

El Parlamento está dominado por los leales al presidente Kurmanbek Bakiyev, lo que deja poca duda de que los acuerdos se aprobarán.

Bakiyev anunció la cancelación del acuerdo con el Ejército de EEUU en una visita a Moscú, donde Rusia dijo que ofrecería 2.000 millones de dólares en ayuda para el empobrecido país, en lo que los analistas consideraron una batalla entre Moscú y Washington para ganar influencia en el Asia Central.

Washington renegoció después una renta mayor y continuará usando la base para sus operaciones en Afganistán.

Según los borradores a los que tuvo acceso Reuters, Francia podrá tener 40 efectivos y un avión de repostaje en Manas. El acuerdo no da detalles sobre el número de personas o equipamiento que se permitirán a España.

Extraído de SwissInfo.

mercredi, 30 septembre 2009

Chavez busca unir Africa y Sudamérica con el antiimperialismo

Chávez busca unir África y Sudamérica con el antiimperialismo

El presidente venezolano, Hugo Chávez, tratará de vender su “revolución antiimperialista” como el cemento para forjar la unión Sudamérica-África, aunque para muchos es Brasil, con su política moderada y poderosa economía, la llamada a conducir la incipiente integración “Sur-Sur”.

Tres años después de su primera cumbre, líderes de ambos continentes se vuelven a reunir el sábado y domingo en la isla de Margarita, en el caribe venezolano, para estrechar lazos políticos y comerciales que les permitan crear un frente común de países emergentes en foros e instituciones globales.

La reforma de Naciones Unidas, un mayor peso en el Fondo Monetario Internacional y el Banco Mundial o acercar posturas para enfrentar las estancadas conversaciones comerciales globales se unirán con compromisos de una cooperación más amplia en materia energética, comercial y cultural entre ambas regiones.


Para Chávez, declarado admirador del fallecido presidente Gamal Abdel Nasser -quien encabezó la revolución egipcia e inspiró movimientos anticoloniales en Argelia, Libia e Irak- esa voz común puede surgir de un rechazo común al imperio estadounidense, al que culpa de la inequidad mundial.

“Todos los imperios le cayeron al África, todos. No hay un solo imperio que no haya pasado por África”, dijo recientemente en una de sus frecuentes alocuciones televisivas.

“Nosotros queremos que Caracas se convierta en un centro de llegada, de actividades y de conexiones con otros países de Sudamérica, del Caribe, de Centroamérica para África”, agregó el mandatario, quien busca emular al líder cubano Fidel Castro como referencia latinoamericana en la “madre patria África”.

Sin embargo, su dura retórica antiestadounidense encuentra un difícil obstáculo en la figura de Barack Obama, primer afroamericano en llegar a la Casa Blanca, mientras que el poco peso económico de Venezuela en África le resta atractivo para los heterogéneos países de esa región.

Y más cuando su enemistad con Washington le lleva a forjar lazos con controvertidos líderes como el libio Muamar Gadafi, el zimbabuense Robert Mugabe y, sobre todo, con el sudanés Omar Hasan al Bashir, invitado a la cumbre pese a estar reclamado por tribunales internacionales.

“Gadafi y Mugabe todavía tienen apoyo en África, mientras que Al Bashir es ampliamente detestado y visto en la mayor parte de África como un paria total, responsable por los asesinatos en masa en Darfur”, dijo Patrick Smith, editor del boletín África Confidential.

BRASIL, ¿EL GRAN JUGADOR?

Como uno de los mayores exportadores mundiales de crudo, Venezuela ha desplegado parte de su petrodiplomacia en África, prometiendo una refinería a Mauritania y acuerdos energéticos con países como Mali y Níger. Pero los bajos precios petroleros este año han limitado su acción.

“Venezuela no es muy visible en África, aunque existen ciertas aspiraciones”, dijo Alex Vines, experto en África en el instituto Chatham House de Londres.

Dado que el crudo es prácticamente su único producto de exportación, Caracas se ha quedado muy rezagada frente a otros países latinoamericanos como Brasil, Argentina y México en la creación de vínculos comerciales con África.

Por eso, analistas creen que los pesos pesados africanos, especialmente Sudáfrica, ven más pragmático trabajar con el líder brasileño Luiz Inacio Lula da Silva, al frente de una potencia emergente y popular entre pobres y empresarios, que con el controvertido militar retirado.

“Brasil y Sudáfrica tienen una relación comercial en auge y son las dos potencias regionales por excelencia. Todo intento por fortalecer las relaciones entre Sudamérica y África tiene que partir de las iniciativas de estos países”, dijo Patrick Esteruelas, analista de riesgo político en Eurasia Group.

Sin embargo, algunos observadores ven en Brasil menos voluntad política por liderar la llamada integración regional “Sur-Sur”, un proceso político, comercial y cultural que requeriría de grandes esfuerzos diplomáticos para combinar la gran disparidad de voces dentro de ambos bloques.

Pero muchos países africanos se sienten atraídos por las políticas de nacionalismo sobre los recursos energéticos que ha desarrollado el mandatario venezolano, quien ha estatizado amplios sectores de la economía en pos de la construcción de su llamado “socialismo del siglo XXI” en el país petrolero.

“Los países de África están revisándose, así me consta, y muchos están retomando la tesis del socialismo africano”, aseveró Chávez.

Enrique Andrés Pretel

Extraído de SwissInfo.

vendredi, 18 septembre 2009

Les espions de l'or noir

Les espions de l’or noir

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Le pétrole, « maître du monde » ? Oui, mais comment en est-on arrivé là ? Des rivalités pour contrôler la route des Indes à l’émergence des Etats-Unis comme puissance mondiale, les pays anglo-saxons ont su étendre leur influence en Asie centrale, dans le Caucase et au Proche-Orient, avec, au final, leur mainmise sur les principales ressources pétrolières mondiales.

Gilles Munier remonte aux origines du Grand jeu et de la fièvre du pétrole pour raconter la saga des espions de l’or noir et la malédiction qui s’est abattue sur les peuples détenteurs de ces richesses. Il brosse les portraits des agents secrets de Napoléon 1er et de l’Intelligence Service, du Kaiser Guillaume II et d’Adolphe Hitler, des irréguliers du groupe Stern et du Shay – ancêtres du Mossad – ou de la CIA, dont les activités ont précédé ou accompagné les grands bains de sang du 19ème et du début du 20ème siècle.

Parmi d’autres, on croise les incontournables T.E Lawrence dit d’Arabie, Gertrude Bell, St John Philby et Kermit Roosevelt, mais aussi des personnages moins connus comme Sidney Reilly, William Shakespear, Wilhelm Wassmuss, Marguerite d’Andurain, John Eppler, Conrad Kilian. Puis, descendant dans le temps, Lady Stanhope, le Chevalier de Lascaris, William Palgrave, Arthur Conolly et David Urquhart.

« On dit que l’argent n’a pas d’odeur, le pétrole est là pour le démentir » a écrit Pierre Mac Orlan. « Au Proche-Orient et dans le Caucase », ajoute Gilles Munier, « il a une odeur de sang ». Lui qui a observé, sur le terrain, plusieurs conflits au Proche-Orient, montre que ces drames n’ont pas grand chose à voir avec l’instauration de la démocratie et le respect des droits de l’homme. Ils sont, comme la guerre d’Afghanistan et celles qui se profilent en Iran ou au Darfour, l’épilogue d’opérations clandestines organisées pour contrôler les puits et les routes du pétrole.

Contact : gilmunier@gmail.com [1]

* Editions Koutoubia – Groupe Alphée-Editplus, 11 rue Jean de Beauvais – 75005 PARIS

Source : http://espions-or.noir.over-blog.com/ [2]


Article printed from :: Novopress Québec: http://qc.novopress.info

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[2] http://espions-or.noir.over-blog.com/: http://espions-or.noir.over-blog.com/

jeudi, 17 septembre 2009

Acuerdo bilateral Kosovo-EEUU sobre ayuda economica

Acuerdo bilateral Kosovo-EEUU sobre ayuda económica

Kosovo y Estados Unidos firmaron este lunes su primer acuerdo bilateral de ayuda económica, centrado en las infraestructuras, aunque el monto no fue precisado, anunciaron fuentes oficiales en Pristina.

“La ayuda se destinará al desarrollo (de Kosovo) y en particular a las diferentes infraestructuras, y en consecuencia a la economía, los transportes y la educación”, declaró el presidente kosovar, Fatmir Sejdiu.

El canciller kosovar indicó en un comunicado que otro acuerdo de 13 millones de dólares fue firmado con Estados Unidos para reforzar el Estado de derecho en Kosovo.

El ministro de Relaciones Exteriores, Skender Hyseni, indicó que la ayuda sería empleada en crear “una estructura legal estable” en Kosovo.


Estados Unidos fue uno de los primeros países en reconocer la independencia de Kosovo, proclamada de manera unilateral en febrero de 2008.

Belgrado no reconoce la independencia y considera que Kosovo es una provincia serbia.

Extraído de Univisión.

~ por LaBanderaNegra en Septiembre 14, 2009.

mercredi, 16 septembre 2009

Comment la CIA pénètre nos médias

Comment la CIA pénètre nos médias

 

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Par Maxime Vivas

Est-il permis, sans se voir clouer au pilori des « conspirationnistes », de dire que les consommateurs de la « grande » presse française devraient réfléchir à ce qu’ils vont lire ici ? Que sait-on (de sources sûres) de l’infiltration de nos médias par la CIA ?

 

Prenons le cas d’une richissime ONG que j’ai étudiée de près depuis quelques années et qui inonde les médias français d’un millier de communiqués par an, informations qui seront reprises, souvent sous forme de coupé-collé. Ainsi va se façonner l’opinion française, rendue méfiante à l’égard des pays dont les choix politico-économiques dérangent l’Oncle Sam.

Mais d’abord, laissons la parole à des témoins peu suspects d’imprégnation marxiste :

« La CIA contrôle tous ceux qui ont une importance dans les principaux médias. » William Colby, ancien directeur de la CIA.

« On trouvait des journalistes pour moins cher qu’une bonne call-girl, pour deux cents dollars par mois. » Un agent de la CIA, sur le recours aux journalistes pour propager des articles de la CIA. « Katherine The Great », de Deborah Davis, Sheridan Square Press, 1991.

« Les Etats-Unis et l´Union européenne contrôlent 90% de l´information de la planète ; sur les 300 principales agences de presse, 144 ont leur siège aux Etats-Unis, 80 en Europe, et 49 au Japon. Les pays pauvres, où vit 75% de l´humanité, possèdent 30% des journaux du monde. » Ana Delicado (journaliste), « Les médias racontent un seul monde, sans le Sud ». In : Agence internationale d’informations Argos, 28 novembre 2004.

Et enfin un mot du journaliste New Yorkais John Swinton qui, le 25 septembre 1880, refusa de porter un toast à la liberté de la presse et s’en expliqua ainsi :

« Il n’existe pas, à ce jour, en Amérique, de presse libre et indépendante. Vous le savez aussi bien que moi. Pas un seul parmi vous n’ose écrire ses opinions honnêtes et vous savez très bien que si vous le faites, elles ne seront pas publiées. On me paye un salaire pour que je ne publie pas mes opinions et nous savons tous que si nous nous aventurions à le faire, nous nous retrouverions à la rue illico. Le travail du journaliste est la destruction de la vérité, le mensonge patent, la perversion des faits et la manipulation de l’opinion au service des Puissances de l’Argent. Nous sommes les outils obéissants des Puissants et des Riches qui tirent les ficelles dans les coulisses. Nos talents, nos facultés et nos vies appartiennent à ces hommes. Nous sommes des prostituées de l’intellect. Tout cela, vous le savez aussi bien que moi ! » (Cité dans : « Labor’s Untold Story », de Richard O. Boyer and Herbert M.Morais, NY, 1955/1979).

L’ONG que j’ai étudiée s’appelle Reporters sans frontières. Peut-on mesurer son indépendance à l’égard des USA et des entreprises états-uniennes chargées d’intoxiquer l’opinion mondiale ? Voici quelques éléments qui conduisent à répondre par l’affirmative.

Au moment où cet article est rédigé (30 août 2009), les comptes de RSF pour l’année 2008 ne sont toujours pas connus, en violation de la loi relative aux organisations reconnues d’utilité publique. Cependant, deux rubriques du site Internet de RSF sont intéressantes. L’une est intitulée « Comptes 2007 » et la seconde « Agir avec nous ».

Dans la première, nous lisons : « Les entreprises qui aident Reporters sans frontières sont principalement Sanofi aventis et la CFAO, tandis que la liste des fondations privées contient la Fondation Soros, le Center for a Free Cuba, la National Endowment for Democracy, le Sigrid Rausing Trust, la Overbrook Foundation et la Fondation de France ».

Dans la seconde, à la sous-rubrique : « Les entreprises partenaires des actions et des campagnes de Reporters sans frontières » et dans le chapitre « Les Fondations », nous trouvons : La Fondation Ford, la National Endowment for Democracy, l’Open Society Institute et enfin Sigrid Rausing Trust sur laquelle on est mal renseignés (appel aux lecteurs futés !) mais dont RSF nous dit qu’elle « soutient les activités de Reporters sans frontières pour défendre la liberté de la presse et faire reculer la censure au Maghreb, au Moyen-Orient et en Iran ». Pas en Colombie, au Mexique ou au Pérou, les potes des USA, donc. Regardons ensemble ce que sont les sponsors étrangers de RSF :

La fondation Soros,

Le Center for a free Cuba (CFC),

L’Open Society Institute (de Soros, cité plus haut),

L’overbrook Foundation,

La National Endowment for democracy (NED),

La Fondation Ford.

Pour faire court, je renvoie le lecteur au livre « Les Etats-Unis de mal empire » (D. B., Viktor Dedaj, Maxime Vivas) et à mon livre « La face cachée de reporters sans frontières. De la CIA aux Faucons du Pentagone » (les deux sont publiés par Aden Editions) pour ce qui est de la NED et du CFC. Les liens quasi-directs de la NED avec la CIA y sont irréfutablement démontrés, voire confessés par des responsables de ce sponsor. Le CFC a pour mission de renverser le gouvernement cubain.

Voyons les autres, dont on a peu parlé à ce jour :

Soros et son Open Society Institute.

George Soros est partenaire du célèbre Carlyle Group, nid de Républicains et d’anciens membres de la CIA, dont l’un, Frank Carlucci, en fut le sous-directeur. Soros a sauvé George W. Bush de la faillite quand ce dernier dirigeait une société de prospection pétrolière. On ne compte plus les pays où l’Open Society Institute est intervenue (avec succès), en Amérique latine et en Europe de l’Est, pour favoriser la mise en place des dirigeants pro-états-uniens.

L’overbrook Foundation

Pendant la guerre froide, pour contenir l’influence des Soviétiques, la CIA avait créé Radio Free Europequi émettait en direction des pays de l’Est.

Parmi les promoteurs de cette radio, on trouvait un certain Frank Altschul.

Parallèlement, afin de préparer son opinion publique à une éventuelle intervention contre le bloc socialiste européen, l’Administration états-unienne avait organisé une opération d’intoxication médiatique sur son propre territoire. Une organisation prétendument formée de citoyens apolitiques (The Committee on the Present Danger) fut créée à cet effet.

Parmi ses principaux animateurs, figuraient Frank Altschul et William J. Donovan.

Qui est William J. Donovan ? Un officier états-unien qui, à la veille de la Seconde Guerre mondiale, avait fondé l’OSS (Office of Strategic Services) l’ancêtre de la CIA (Central Intelligence Agency). Pendant la guerre, il dirigea les services secrets US. L’OSS forma les futurs directeurs de la CIA. Parmi eux : William Casey. C’est sur recommandation de ce William Casey que la NED a été fondée par l’Administration Reagan au début des années 1980.

Mais revenons un instant sur ce Frank Altschul qui travailla à Radio Free Europe pour la CIA avec William Donovan, futur chef des services secrets US et fondateur de l’OSS, l’ancêtre de cette CIA dont un directeur fut William Casey, instigateur de la NED, paravent de la CIA. Frank Altschul est aussi le fondateur d’« Overbrook Fondation », ce nouveau sponsor de RSF.

La Fondation Ford.

Le 20, puis le 25 août 2006, j’adressai à Robert Ménard, deux mails dans lesquels je l’invitais à souscrire à ses obligations légales en répondant à un certain nombre de mes questions. Par exemple, je demandais si, outre la NED dont les subventions sont affichées et le CFC (dont les subventions ont été cachées plusieurs années) RSF avait d’autres sponsors US. Ménard me fit répondre par Jean-François Julliard, aujourd’hui patron de RSF : « … nous avons fait une demande auprès de la Fondation Ford qui a été refusée. Par ailleurs, nous avons reçu pour l’année 2006 une dotation de 30 000 dollars de la Fondation Overbrook (première dotation). Et en 2003 de la Fondation Real Networks (26 000 euros, dotation qui n’a pas été renouvelée). C’est tout pour les Etats-Unis ».

On voit aujourd’hui que la demande à la Fondation Ford a été renouvelée avec succès et ce, après la publication de mon livre, lu attentivement à RSF (Robert Ménard le critique à trois reprises dans son livre « Des libertés et autres chinoiseries » (Robert Laffont)).

Or, que révélais-je dans mon livre ? Ceci que j’ai cueilli sous la plume d’Alain-Gérard Slama dans le mensuel « Lire » de mai 1995 : « Raymond Aron raconte, dans ses Mémoires, son embarras lorsqu’il découvrit, à la fin des années 60, que le Congrès pour la liberté de la culture, officiellement financé par la fondation Ford et par quelques crédits européens, et dont il était un des phares, était soutenu, en coulisse, par la CIA. Pour un mouvement international censé réunir, en totale indépendance, la fleur de l’intelligence occidentale contre le stalinisme, et dont les revues Liberté de l’esprit et surtout Preuves, furent, en France, le bras séculier, on se serait passé de la caution. »

Presque cinquante ans plus tard, et alors qu’il n’est plus possible d’être trompé, RSF recherche à deux reprises cette caution et finit par l’obtenir.

Le 6 avril 2006, en réponse à une interview que j’avais donnée la veille au quotidien Métro, RSF me menaça d’un procès et nia toutes les subventions états-uniennes (qui étaient pourtant affichées sur son site). Pourquoi le fit-elle si ces sponsors étaient avouables ?

Mon lecteur en aurait-il une petite idée ?

Source: Mecanopolis [1]


Article printed from AMI France: http://fr.altermedia.info

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[1] Mecanopolis: http://www.mecanopolis.org/?p=9413

mardi, 15 septembre 2009

Al-Qaeda: una util herramienta de guerra para el Imperio

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Al-Qaeda: una útil herramienta de guerra para el Imperio

Ex: http://antimperialista.blogia.com/

(Extracto del artículo "Ex secretario de seguridad de Bush revela dato clave del uso imperial del terrorismo" publicado en IAR noticias)

En el libro "La prueba de nuestro tiempo: Estados Unidos asediado... y cómo podemos estar nuevamente seguros" Ridge (Ex secretario de seguridad de Bush ) cuenta que pese a los pedidos del ex secretario de Defensa, Rumsfeld, y del entonces secretario de Justicia John Ashcroft, él se opuso a elevar el nivel de alerta y, finalmente, no fue elevado, aunque le costó el cargo.

Semanas antes de las elecciones de 2004 habían sido difundidas dos grabacioness de Al-Qaeda: una con Osama Bin Laden y la otra con un hombre llamado "Azzam el estadounidense’’. La CIA -como lo hace siempre- reconoció la "autenticidad" de las amenazas. "El aumento de la alarma terrorista en EEUU poco antes de las presidenciales de 2004 pretendía  influir en los resultados y favorecer a George W. Bush", afirma Ridge en su libro.

"Bush y el candidato contrincante demócrata John Kerry -señala- estaban muy igualados en las encuestas y los funcionarios claves de Bush  afirmaban que el video de Bin Laden, incluso sin elevar el nivel de alarma, contribuiría a una victoria final de Bush por un resultado abrumante."

Pese a todo se tomaron grandes prevenciones de seguridad en edificios públicos y en lugares claves de Nueva York, lo que ayudó a recrear el "clima terrorista" que lo llevó a Bush a ganar las elecciones y ser reelecto en el cargo presidencial.   

En pleno despliegue del aparato de seguridad para prevenir el "ataque terrorista", Ridge renunció el 30 de noviembre del 2004.

Desde el punto de vista geopolítico y estratégico, el   "terrorismo" no es un objeto diabólico del fundamentalismo islámico, sino una herramienta de la Guerra de Cuarta Generación que la inteligencia estadounidense y europea vienen utilizando (en Asia y Europa) para mantener y consolidar  la alianza USA-UE en el campo de las operaciones, para derrotar a los talibanes en Afganistán, justificar acciones militares contra Irán, antes de que se convierta en potencia nuclear, y generar un posible 11-S para distraer la atención de la crisis recesiva mundial.

A nivel geoeconómico se registra otra lectura:  Si se detuviera la industria y el negocio armamentista centralizado alrededor del combate contra el "terrorismo" (hoy alimentado por un presupuesto bélico mundial de US$ 1,460 billones) terminaría de colapsar la economía norteamericana que hoy se encuentra en una crisis financiera-recesiva de características inéditas.

Esta es la mejor explicación de porqué Obama, hoy sentado en el sillón de la Casa Blanca, ya se convirtió en el "heredero forzoso" de la "guerra contraterrorista" de Bush a escala global.

La "guerra contraterrorista" no es una política coyuntural de Bush y los halcones neocon, sino una estrategia global del Estado imperial norteamericano diseñada y aplicada tras el 11-S en EEUU, que ya tiene una clara  línea de continuidad con el gobierno demócrata de Obama.

La "simbiosis" funcional e interactiva entre Bush y Al Qaeda tiñó 8 años claves de la política imperial de EEUU. A punto tal, que a los expertos les resulta imposible pensar al uno sin el otro. Durante 8 años de gestión, Bin Laden y Al Qaeda se convirtieron casi en una "herramienta de Estado" para Bush y los halcones neocon que convirtieron al "terrorismo" ( y a la "guerra contraterrorista") en su principal estrategia de supervivencia en el poder.

Hay suficientes pruebas históricas en la materia: El 11-S sirvió de justificación para las invasiones de Irak y Afganistán, el 11-M en España preparó la campaña de reelección de Bush y fue la principal excusa para que EEUU impusiera en la ONU la tesis de "democratización" de Irak legitimando la ocupación militar, el 7-J en Londres  y las sucesivas oleadas de "amenazas" y "alertas rojas" le sirvieron a Washington para instaurar el "terrorismo" como primera hipótesis de conflicto mundial,  e imponer a Europa  los "planes contraterroristas" hoy institucionalizados a escala global.

Decenas de informes y de especialistas -silenciados por la prensa oficial del sistema- han construido un cuerpo de pruebas irrefutables de que Bin Laden y Al Qaeda son instrumentos genuinos de la CIA estadounidense que los ha utilizado para justificar las invasiones a Irak y Afganistán y para instalar la "guerra contraterrorista" a escala global.

La "versión oficial" del 11-S fue cuestionada y denunciada como "falsa y manipulada" por un conjunto de ex funcionarios políticos y de inteligencia, así como de investigadores tanto de EEUU como de Europa, que constan en documentos y pruebas presentados a la justicia de EEUU que nunca los investigó aduciendo el carácter "conspirativo" de los mismos (Ver: Documentos e informes del 11-S. / Al Qaeda y el terrorismo "tercerizado" de la CIA / La CIA ocultó datos y protegió a los autores del 11-S / Ex ministro alemán confirma que la CIA estuvo implicada en los atentados del 11-S / Informe del Inspector General del FBI: Más evidencias de complicidad del gobierno con el 11-S / Atentados del 11-S: 100 personalidades impugnan la versión oficial )

El establishment del poder demócrata (que ejerce la alternancia presidencial con los republicanos en la Casa Blanca) jamás mencionó la existencia de estas investigaciones y denuncias en una complicidad tácita de ocultamiento con el gobierno de Bush.

Simultáneamente, y durante los ocho años de gestión de Bush, los demócratas no solamente avalaron las invasiones de Irak y de Afganistán y votaron todos los presupuestos de la "guerra contraterrorista", sino que también adoptaron como propia la "versión oficial" del 11-S.

Este pacto de silencio y de encubrimiento entre la prensa y el poder imperial norteamericano preservó las verdaderas causas del  accionar terrorista de Bin laden y Al Qaeda, cuyas "amenazas" periódicas son publicadas sin ningún análisis y tal cual la difunden el gobierno y  sus organismos oficiales como la CIA y el FBI.

dimanche, 30 août 2009

Une conspiration anglo-saxonne

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UNE CONSPIRATION ANGLO-SAXONNE

 

 

Aux Journées du Soleil 2009, dans le Jura, la leçon de la deuxième matinée a été dispensée par Jean-Patrick Arteault. Il  l’a intitulée ‘Le mondialisme de l’idée anglophone. Ce n’est en effet que dans sa première phase que l’impérialisme anglo-saxon se limite à fédérer au Royaume-Uni les dominions de l’Empire britannique, Nouvelle-Zélande, Australie, Canada, Afrique du Sud, qu’il convient de réunir naturellement aux Etats-Unis. Dans la phase suivante, le messianisme des protestants (leur surconsommation de la Bible les élève de fait au rang de Juifs de désir) a tôt fait de les investir de la mission d’étendre au monde entier le modèle indépassable de la démocratie anglaise.

 

Ils s’accommodent par ailleurs d’être des prédestinés, parmi un petit nombre d’élus, pour qui la réussite matérielle et sociale est le signe de l’approbation divine. Pragmatique, cette élite a la sagesse, pour éviter la révolte des masses, de prôner un socialisme non-marxiste. On se souviendra que c’est en observant la scandaleuse exploitation de leur prolétariat par les Anglais que Marx a pu prédire une irrésistible révolution. Pragmatique encore, le mouvement messianique anglo-saxon va s’ordonner à accélérer l’avènement de son règne mondial.

 

Le mouvement va éclore au XIXe siècle dans le compagnonnage amical d’étudiants des quatre collèges d’Oxford, Oriel, Balliol, New College et All Souls. Ils ont pour initiateur et père spirituel le poète, sociologue et historien d’art John Ruskin (1819-1900). Homme complet, celui-ci a fait le voyage de Rome et l’Italie et le passage des Alpes l’a marqué, lui inspirant une pensée profondément panthéiste. Il est sinon chrétien et socialiste, rattaché en fait dans un premier temps au mouvement chrétien socialiste, qui est un variante anglaise du socialisme non marxiste. Critique d’art, il est fort lié au peintre préraphaélite Dante Gabriel Rossetti. Ardent protecteur du patrimoine architectural, il est opposé à l’idée de Viollet-le-Duc de restituer l’ancien dans son état d’origine.

 

Professeur à Oxford, John Ruskin éduque des promotions de jeunes disciples, nés de la classe dirigeante, sélection naturellement destinée dans son esprit à gouverner suivant le modèle platonicien. A gouverner dans le souci de sauvegarder la haute culture anglo-saxonne, selon lui le summum de l’évolution humaine, en élevant le niveau de la masse laborieuse, afin d’éviter qu’elle ne détruise dans une révolution cette culture, en même temps que la classe dirigeante.

 

Le message de Ruskin a été particulièrement bien reçu par un de ses étudiants, un certain Cecil Rhodes (1853-1902), jeune homme attachant, d’autant plus dynamique que, se sachant de santé fragile, il agit toujours avec le sentiment qu’il peut mourir sous peu. Rongé d’asthme, il doit abandonner Oxford pour le climat plus salubre de l’Afrique du Sud, qui se révèlera effectivement excellent pour lui. Il y arrive au moment où on découvre des diamants dans la région et, très entreprenant en affaires, il se charge de fournir les chercheurs en matériel, équipements et subsistance. Alors qu’il n’a encore que dix-sept ans, il fait rapidement fortune. Sa santé s’est rétablie suffisamment pour qu’il reprenne ses études à Oriel College, tout en menant ses affaires minières, qui l’amèneront deux ans plus tard à fonder la De Beers et à contrôler la production du diamant. Il entre alors dans la franc-maçonnerie à Oxford.

 

A partir de condisciples choisis, avec lesquels il entretient des liens étroits d’amitié, il s’applique à constituer un groupe organisé. Il va bientôt donner à celui-ci la forme d’une société secrète, structurée sur le modèle de la Société jésuite, qu’il entend affecter au service de la Sainte Eglise que constitue pour lui l’Empire britannique. Il est bien sûr le Général de la Société. Assisté d’une Junte de Trois, il vise à réunir et organiser des sujets brillants à placer dans la politique, l’université et le journalisme. Parallèlement au cercle interne de sa Société des élus, il institue, au départ avec le soutien de Nathan Rothschild, un cercle externe, l’Association des bienfaiteurs. Seuls les Elus sont tenus au secret et à l’engagement. Ils sont les seuls à connaître tous les buts de la Société.

 

La junte est assez réservée à l’égard des rituels d’initiation et de fonctionnement auxquels Rhodes incline. Comme se montrera également réservé Nathan Rothschild, premier baron du noml, qui recommandera même la distance à son gendre, Lord Rosebery, ministre puis premier ministre, qui lui est des Elus. Dans le même temps, pour renforcer la fidélité de ceux-ci, la Société les encourage à créer entre eux des liens familiaux par mariage et elle obtient pour eux des titres nobiliaires. Elle suscite entre eux des activités de club, qui vont donner lieu à la mise en place à Chatham House (du nom de l’Hôtel de William Pitt où il se réunit) du club qui deviendra, en 1919, le RIIA (Royal Institute of International Affairs), avec son pendant américain le CFA (Council on Foreign Relations), organisations non-gouvernementales de politique étrangère. L’une comme l’autre applique, pour préserver la liberté de parole de chacun, la règle de confidentialité selon laquelle il est permis de révéler ce qui s’y est dit, mais pas qui l’a dit. La Société prend le contrôle du quotidien The Times, qui ne tire qu’à 50.000 exemplaires, mais est l’organe officieux du Foreign Office.

 

Cecil Rhodes, qui comme nombre d’autres personnages marquants de la Société des Elus considère l’argent comme un moyen et non comme un objectif, affectera une partie importante de sa fortune à constituer une fondation qui a comme objet d’accorder à de jeunes Anglais prometteurs, et à de jeunes Américains, une bourse pour étudier à Oxford. La fondation fonctionne toujours. Bill Clinton est un boursier Rhodes comme le Général Wesley Clark, comme le sont également six membres de l’équipe d’Obama.

 

La première Junte des Trois est constituée par trois personnalités remarquables : Stead, Milner et Brett. Rhodes avait dès l’abord éprouvé un coup de foudre pour le journaliste William T. Stead. Celui-ci, qui a un don évident de prémonition (Il va mourir sur le Titanic après avoir écrit un roman dont le héros est sauvé par le navire Titan d’un naufrage causé par un iceberg !), pense de Rhodes qu’il rêve d’être à la fois César et Ignace de Loyola. Il estime fort, par ailleurs, Milner qu’il juge capable de succéder à Rhodes.

Alfred Milner (1854-1925), qui est d’origine allemande, est pénétré de l’idée qu’il faut réorganiser l’Empire britannique aux fins de développer la vie spirituelle par l’éducation des masses à formater. Il aspire à réaliser l’Union anglo-américaine, avec au besoin sa capitale aux Etats-Unis, qui devra être le modèle d’une fédération mondiale qui regroupera la civilisation autour de la langue anglaise. L’Afrique du Sud servira de laboratoire d’essai de l’opération. Mais Rhodes, qui veut réaliser la liaison ferrée Le Cap-Le Caire, va trouver des Allemands encombrants dans son chemin, comme Milner trouve des Boers réfractaires. Les objectifs hautement moraux de l’un et l’autre viennent heureusement justifier l’immoralité des atrocités de la guerre, ce qui n’ira pas sans frictions internes. Pour réaliser les objectifs de la société, Milner recrute des jeunes gens à qui il confie très vite, avec succès, des postes à responsabilité. On appellera ‘affectueusement’ son groupe le Kindergarten ! Milner met en place une revue-laboratoire d’idées autour de groupes de réflexion : La Table Ronde. Idéologue, il veut installer une fraternité de type religieux unie autour du sens du devoir et du service de l’Etat. Il est significatif qu’il sera un des cinq membres du cabinet de guerre à partir de 1915.

Alfred Brett se charge du bon fonctionnement interne de la Société et de ses relations avec la Couronne. Tout comme Milner, il préfère son influence au sein de l’organisation, plutôt qu’un poste officiel (il déclinera l’offre de devenir Vice-Roi des Indes .

 

Mais l’idée d’une fédération mondiale est trop lente à percer. Aussi, dès avant 1914, Milner s’applique avec Lionel Curtis, le penseur de loin le plus profond du groupe, à lancer l’idée d’un Commonwealth des Nations, dont la Société des Nations (1919) sera un produit dérivé. L’objectif avoué de Curtis est rien moins que faire mourir l’Empire, pour qu’en renaisse un système mondial intégré, dont l’objet est d’éduquer aux libertés démocratiques et de porter la plupart des populations du globe au niveau de responsabilité de l’homme blanc.

 

Le groupe Milner va s’adjoindre Alfred Zimmern, un Juif allemand converti qui enseigne à Oxford et pour qui Athènes est le modèle de l’Occident. Mais Athènes a trahi le modèle athénien en devenant brutalement impérialiste, une voie que ne doit pas suivre l’Empire Britannique s’il veut ensemencer le monde avec ses idées démocratiques. Zimmern sera à l’origine de la mise en place du RIIA et de son correspondant américain le CFR, et bientôt par la suite de l’Unesco.

 

Philippe Kerr, 11e marquis de Lothian, succède à Milner. Ambassadeur du Royaume-Uni aux Etats-Unis, il y a préparé la Charte de l’Atlantique, qui consacre le transfert de l’influence à Washington. Il est l’auteur d’une étude, réalisée avant la guerre de 1914, sur les collectivités noires aux Etats-Unis censée applicable à l’Afrique du Sud.

 

Robert Henry Brand est l’économiste du Milners Kindergarten. Directeur du Times et de la Lloyd Bank, il rejoint finalement Lazard Brothers & Cy. Il est le beau-frère du financier américain Astor, qui sera fait vicomte. Il exerce une influence sur l’abandon de l’étalon-or. Il sera par ailleurs favorable à la politique d’apaisement avec le Reich.

 

Leo Amery (journaliste d’origine juive au Times) et Herbert Samuel (1er vicomte Samuel) s’attachent à concilier mondialisme WASP et sionisme, pour éduquer les Arabes à l’anglais. Ils interviendront (Amery surtout) dans la rédaction de la Déclaration Balfour, qui soutient les prétentions des Sionistes à un foyer national juif en Terre Sainte. Samuel sera Haut Commissaire en Palestine.

 

Walter Lippmann, Juif américain d’origine allemande, est journaliste au New York Herald Tribune. Il est en contact étroit avec Philippe Kerr et avec la Table Ronde dès le premier voyage de Kerr aux Etats-Unis. Il est secrétaire général de The Inquiry, qui est l’équivalent des groupes de réflexion de la Round Table britannique et qui débouchera sur la constitution du CFR. Bien qu’ayant soutenu le candidat Théodore Roosevelt, perdant contre Wilson, il anime le think tank de la politique extérieure américaine avant et durant la première guerre mondiale. Il intervient dans la rédaction des Quatorze Points de Wilson, lesquels sont l’écho des idées de la Round Table, et dans celle du Traité de Versailles. Il participe également à la mise en place de la Société des Nations, mais celle-ci est plutôt l’œuvre de Curtis, et le Traité de Versailles celle de Milner. Communicateur avant la lettre, Lippmann invente la notion de ‘fabrique du consentement’ et, à partir des réactions des soldats des tranchées de 14-18 aux pilonnages d’artillerie, introduit la terreur dans la manipulation des opinions publiques.

 

Les rejetons ultérieurs du RIIA et du CFR ont nom Groupe de Bilderberg, Commission Trilatérale, Forum de Davos.

mercredi, 01 juillet 2009

Contra la ocupacion yanki - Por una cultura de la resistencia

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Contra la ocupación yanki. Por una cultura de la resistencia

[Fernando Márquez, Director de "El corazón del bosque", revista para otra gente.]

Ex: http://antecedentes.wordpress.com/

 

El director de Nosotros me pidió hace unos días una reflexión crítica sobre la penetración yankee en nuestro suelo. Espero que estas notas valgan la pena.

 

Es una obviedad que el modelo usaco (por usar la expresión del divisionario Carlos Mª Ydígoras) condiciona de manera sustancial la existencia de nuestro país: literalmente, con la ocupación militar y logística de partes de nuestro suelo (bases de Rota, Torrejón, Zaragoza o Gibraltar) y con la integración de España en la estructura de la OTAN (cuyo ejemplo más vergonzoso de colaboración se da en la figura del propio secretario-títere de dicho organismo, el felipista Javier Solana); política y económicamente, con la obediencia española a los protocolos de Maastricht que condicionan de un modo draconiano nuestro actuar hasta extremos impensables desde el punto de vista de la soberanía (así, hoy no gobierna el PP propiamente dicho, sino un gestor de Maastricht -que bien pudiera haber sido, con unos pocos votos más el pasado marzo, el PSOE-) y con la venta en saldos de nuestro potencial económico iniciada por Felipe González en el 82 y que hoy continúa a un ritmo día a día más vertiginoso. En cuanto a la cultura, lo que vemos en cine o TV, lo que comemos en establecimientos de comida rápida o lo que compramos en hipermercados (dentro de poco, añadiremos a la basura habitual la basura transgénica en un salto escatológico importante), lo que leemos en prensa o en obras de consumo, lo que escuchamos en música de hit-parade, lo que bailamos en las salas de moda, incluso lo que protestamos (hasta las protestas antiyankees) lleva en un altísimo porcentaje la etiqueta made in USA.

 

Por mi parte, y ateniéndome a este último aspecto de que, por robarnos, los ocupantes nos han expoliado hasta el genuino impulso de contestación, no voy a repetir por enésima vez el manido discurso entre quejumbroso e impotente con que suelen plantearse este tipo de artículos. No tengo humor ni paciencia para verbalismos, retoricismos, simulacros o coreografías antiamericanas.

 

Sólo existe un modo de acabar con esta situación: educar al personal para la guerra contra el ocupante, para la resistencia, para asumir el inevitable y descarnado conflicto (con sangre, sudor y lágrimas -como todo conflicto que se precie de sser real y no virtual-). Un hombre lo intentó más que nadie, desde el punto de vista de diseño de estrategias antiamericanas: Jean Thiriart. Un hombre que, superando todo sectarismo, defendió la convergencia en un Frente Común de terceristas e izquierdistas europeos para luchar contra el ocupante usaco y sus lacayos. Un hombre que mantuvo contactos con comunistas alemanes, chinos, rumanos, así como con terceristas árabes (egipcios, palestinos, libios) e iberoamericanos (es notable su encuentro con Perón), que creó publicaciones de combate tan notables como La Nation Europeenne y organizaciones como la transnacional Joven Europa, cuya sección italiana, una de las más activas, desarrollaría un frente común con el maoísta PCI-ML, fruto del cual surgirían experiencias como Lotta di Popolo o las Brigadas Rojas (inspiradas en el proyecto thiriartiano de Brigadas Europeas de resistencia armada al ocupante USA).

 

Recordemos algunas de sus consignas:

«La guerra revolucionaria comenzará atacando los bienes industriales americanos. Luego, las familias de los militares americanos. Luego, a los mismos militares. Mucho antes de que hablen las armas hay que poner en ghettos al ejército americano. Que la actitud de las poblaciones civiles sea tal que, apenas abandonen ya sus acantonamientos, eviten incluso mezclarse con las poblaciones locales.»

 

«Se trata de expulsar de Europa a los Estados Unidos. Por todos los medios.»

 

En nuestro país, a raíz de las convulsiones rusas que darán lugar al resurgimiento de las dinámicas nacional/comunistas (prácticamente dormidas en su acepción más pura desde la caída de la república de Weimar), Thiriart comienza a difundirse como moda ideológica en diversos círculos (algo nada casual teniendo en cuenta que este agitador belga es uno de los teóricos más valorados hoy por el nacional-comunismo ruso). El propio devenir de estos círculos (salvemos uno, anterior a «la moda Thiriart», que intentó difundir esta línea de pensamiento de un modo más serio: hablo de la desaparecida Asociación Sin Tregua) ha demostrado lo veleidoso de estas querencias: el único español que creyó al ciento por ciento en las intuiciones de Thiriart, José Cuadrado Costa, desarrolló su labor política fuera de España (por considerar inepto el panorama local presuntamente afín), hace más de una década que murió y hoy sus reflexiones (algunos opúsculos sueltos o la colección de escritos Ramiro Ledesma Ramos, un romanticismo de acero) no se difunden entre la Tercera Posición con la urgencia que sería deseable (un ejemplo triste de ello: hay material de Cuadrado Costa inédito en nuestro país y, sin embargo, publicado en Francia y Bélgica).

Dejando aparte la figura de Thiriart, pero manteniéndonos en su línea de pensamiento, otra forma de contribuir a una cultura de resistencia antiUSA sería la de valorar todos aquellos acontecimientos (teóricos y fácticos) insertos en esa dinámica. Resulta descorazonador pensar que la única secuencia activista químicamente pura de combate europeo contra el ocupante USA (las acciones armadas de la alemana Fracción del Ejército Rojo contra instalaciones de la OTAN) no ha sido nunca valorada o asumida por los terceristas españoles (bueno, a excepción de un servidor -ver narraciones como El triunfo de la voluntad y Escenas del fin de siglo en El Corazón del Bosque o el artículo Ulrike Meinhof, una patriota alemana en PVO) mucho más ocupados en considerar suyos (por abstractas consideraciones doctrinales) a elementos vinculados a la red atlantista Gladio o a similares operaciones de contrainsurgencia. Siguiendo el modo de razonar de Thiriart, en un combate como el que supone la liberación europea de la presencia norteamericana, debemos valorar a quienes actúan en nuestra dirección (sin importarnos su pedigree ideológico) y debemos considerar enemigos a quienes actúan a favor del enemigo (aunque su discurso sea afín al nuestro). Eso es educar de veras en una cultura de la resistencia, no con protestas rutinarias de boletín extraparlamentario ni con shows (como aquella escena imbécil del miembro de Greenpeace emulando a Spiderman sobre la coronilla del Rey en la cumbre macroeconómica celebrada en Madrid en otoño ‘94 (está claro que, de haberse celebrado dicha cumbre en Argel o en Moscú, las acciones de protesta habrían sido mucho más rotundas).

 

Optemos seriamente por una Europa Libre o por un continente sometido. Pero basta de payasadas o de marear la perdiz.

 

[Nosotros N° 15]

mercredi, 24 juin 2009

Iran's Election: None of America's Business

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Iran’s Election: None of America’s Business

 

So far, we're staying out of it – but for how much longer?

by Justin Raimondo - http://original.antiwar.com/ 

Was it Daniel Pipes’ endorsement of President Mahmoud Ahmadinejad that put the Holocaust-denying hard-liner over the top in Iran’s recent presidential "election"? Or was it the massive – and fairly obvious – fraud committed by the Ahmadinejad camp?

Joking aside, at least for the moment, one has to wonder: what else did anybody expect? Iranian elections have hardly been models of democratic governance in the past. The supreme leader, Ayatollah Khamenei, prefigured the probable upshot of all this when he announced that a victory for leading opposition candidate Mir Hossein Mousavi would amount to a repudiation of him personally – and the crackdown we are witnessing could only have come about as a direct result of Khamenei’s order.

The U.S. government – or, at least, one branch of it – didn’t help matters much. Their fast-tracking of draconian new sanctions on Iran right before Iranians went to the polls could only have helped Ahmadinejad. How’s that for timing?

In any case, the Mousavi challenge was a frontal assault on the legitimacy of the current regime, and they have responded just as tyrannical elites have always responded, with deadly force and brazen fraud.

Ahmadinejad has led his country into an economic dead end, with record unemployment, gas shortages, and a high inflation rate. That, combined with U.S. President Barack Obama’s remarkable outreach to the Iranians – a video message of friendship, an offer to negotiate with Iranian leaders without preconditions, and an unprecedented acknowledgment of the U.S. government’s role in overthrowing Mohammed Mossadegh’s democratically elected government in 1953 – would have sounded the death knell of the current gang if the election had been allowed to proceed unobstructed. As it was, the hard-liners sealed off Iran from the rest of the world as Mousavi’s overwhelming victory became apparent, placed the candidate under house arrest (or so it seems from numerous unconfirmed news reports), shut down the Internet, and unleashed their "Revolutionary Guards" on student-led protest demonstrations.

The swiftness of the hard-liner response, however, can be deceiving. Apparently, there was confusion in the Ahmadinejad camp as Mousavi’s victory loomed large. We are getting reports that the authorities informed Mousavi of his impending election victory before the polls had even closed, and he was advised to "moderate" his victory speech for fear of provoking a violent response from Ahmadinejad’s supporters, many of whom are members of the "revolutionary" militias. The reformist newspapers, too, were told they were not allowed to use the word "victory" in reference to Mousavi when reporting election results – but at least they were allowed to report it. Or so they thought.

Shortly afterward, however, these same newspapers were taken over by armed assailants, Mousavi’s election headquarters were surrounded by military forces under the hard-liners’ command, and the regime’s thugs were called out into the streets – where they met Mousavi’s mostly youthful supporters in bloody clashes throughout the country.

Like Juan Cole, I will readily admit that I may be wrong about the veracity of the hard-liner coup narrative, and I may very well have fallen for what some are calling the "North Tehran Fallacy" – the idea that Western reporters were lured into believing that Mousavi was the winner because they are all based in a relatively affluent and Westernized part of the Iranian capital. (Cole, by the way, denies the validity of the North Tehran thesis, though it seems plausible to me.) Yet that really has no relevance to the main point of this column, which is this: America has no business intervening in Iran’s internal affairs, including its presidential election. Period.

To do so would play right into the hands of Iran’s hard-liners – and their neoconservative cheerleaders (both overt and covert) in this country. Whatever support the kooky Ahmadinejad had managed to garner – according to leaked and unconfirmed reports, about 30 percent of the total – was due almost entirely to external factors, principally the U.S.-led campaign to strangle the Iranian economy and rile up ethnic and religious minorities. This, in turn, has redounded to the hard-liners’ benefit, as anti-Americanism – long a staple of Iranian politics – has reached record levels throughout the region.

So far, the Obama administration has kept its collective mouth shut pretty tight – except, of course, for Joe Biden – and that’s a good thing. What isn’t so good is that the White House will almost surely be forced to pronounce some sort of verdict or judgment on the apparently fraudulent election results. Criticism, however mild, coming from Washington, will surely be used by Ahmadinejad & Co. as a pretext to declare a state of "emergency" and engineer a total crackdown. And the possibility of a dramatic showdown between the two Iranian camps is increasing by the moment: Mousavi is reportedly calling for his followers to take to the streets in protest – although there is some fear that this may be a trap set by the regime – and what follows may very well turn out to be an Iranian replay of what happened in China’s Tiananmen Square, at least as far as the rest of the world sees it.

What this means, in terms of U.S. foreign policy, and the building "crisis" around U.S.-Iranian relations, is that the prospects for a negotiated settlement of the outstanding issues between the two countries have darkened considerably. Yes, I know Obama has declared his intention to soldier on in the "outreach" effort, but this will become increasingly untenable – and make it fairly easy for him to backtrack – as the authority and legitimacy of the Iranian government continues to deteriorate, as it will.

And we should not forget that, in spite of public assurances from the U.S. president that the administration wants peace, is prepared to negotiate, and that it’s time for "a new beginning," the Americans continue their covert action operations directed at Tehran – as recent bombings and other disturbances in the eastern non-Persian provinces have shown. Is the U.S. involved in the current street fighting in Tehran and other major cities? I wouldn’t be at all surprised to have this suspicion confirmed in coming days. After all, in 2007 Congress appropriated $400 million to destabilize the Iranian regime, and who’s to say this program isn’t bearing fruit?

U.S. military leaders are vehemently opposed to launching yet another war in the Middle East, and their stubborn resistance to the idea – floated by Bush’s neocon camarilla in the latter days of the Decider’s reign – scotched the War Party’s attempts to make sure Obama inherited a Middle East aflame. Yet their efforts will have reached beyond the previous administration’s grave – and succeeded in dragging Obama down with them into hell – if events in Iran provoke an ill-considered response from the U.S.

Whenever there are election "irregularities" anywhere outside the U.S., American government officials have a bad habit of getting up on their high horses and lecturing the rest of the world on how best to conduct their own internal affairs. Never mind that the U.S. itself has only two officially recognized political parties, both of which are subsidized with tax dollars, and that any potential rivals must jump through a number of hoops to even get on the ballot. We’re a legend in our own minds – the world’s greatest "democracy" – and anyone who questions this dubious claim is immediately charged with "anti-Americanism."

Yet even if that were not the case – even if our democratic procedures were flawless – that still wouldn’t give the U.S. government any standing to pass judgment, because how Iran conducts its presidential elections is not a legitimate concern of the U.S. government. The idea that the occupant of the Oval Office must pass moral judgment on all events, including other countries’ elections, is a byproduct of America’s imperial pretensions and delusions of "world leadership."

The Israel lobby, which has been pushing for a U.S. confrontation with Iran, is revving up its engines even now to push harder for increased sanctions and other provocative moves by the U.S. Obama, I fear, will prove unable to resist all that pressure, though I’d love to be proven wrong.

lundi, 22 juin 2009

Dé-dollarisation: le démantèlement de l'empire militaire et financier américain

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Dé-dollarisation : le démantèlement de l’empire militaire et financier américain
par Michael Hudson - http://contreinfo.info/

Les membres de l’Organisation de Coopération de Shanghai, réunis à Iekaterinbourg avec l’Inde et le Brésil, n’ont guère d’autre choix que de rechercher une alternative au dollar, juge l’économiste Michael Hudson. Continuer à financer à crédit la consommation américaine, les dépenses du Pentagone et de ses 750 bases à l’étranger, en accumulant des dollars et des bons du Trésor équivaudrait pour eux à accumuler en parallèle les risques tant financiers que militaires. Ils sont désormais contraints, estime-t-il, d’inventer une voie de sortie du dollar. L’heure est venue pour un monde multipolaire a affirmé le Président russe Medvedev, et le président de la Banque centrale chinoise lui fait écho en déclarant que l’objectif est désormais de créer une une monnaie de réserve internationale qui ne serve pas les intérêts exclusifs des USA. Hudson indique que les autorités américaines se sont vues infliger une fin de non recevoir à leur demande d’assister au sommet de l’OCS. Ce non, dit-il, c’est un mot que les américains vont entendre beaucoup plus souvent à l’avenir.

Par Michael Hudson, 13 juin 2009

La ville Russe de Iekaterinbourg, la plus importante à l’est de l’Oural, pourrait désormais être connue comme le lieu où sont morts non seulement les tsars mais aussi l’hégémonie américaine. Non pas uniquement l’endroit où le pilote américain Gary Powers a été abattu en 1960, mais aussi celui où l’ordre financier international dominé par les USA a été mis à bas.

La remise en cause de l’Amérique sera le thème principal des réunions élargies de Iekaterinbourg, en Russie (ex-Sverdlovsk) des 15 et 16 Juin rassemblant le président chinois Hu Jintao, le président russe Dmitri Medvedev et les représentant les six pays de l’ Organisation de Coopération de Shanghai (OCS). Cette alliance regroupe la Russie, la Chine, le Kazakhstan, le Tadjikistan, le Kirghizstan et l’Ouzbékistan. L’Iran, l’Inde, le Pakistan et la Mongolie y ont le statut d’observateurs. Mardi le Brésil s’y joindra pour les discussions commerciales entre les pays du BRIC (Brésil, Russie, Inde et Chine). 

Les participants ont assuré à des diplomates américains que leur objectif n’était pas le démantèlement de l’ empire financier et militaire des États-Unis. Ils veulent simplement discuter de l’aide mutuelle, indépendamment du rôle des États-Unis, de l’OTAN ou du dollar américain en tant que support du commerce international. Les diplomates américains se demandent ce que cela signifie vraiment, si ce n’est une étape visant à rendre l’hégémonie américaine obsolète. C’est ce que signifie « monde multipolaire », après tout. Pour commencer, en 2005, l’OCS avait demandé à Washington d’établir un calendrier de retrait de ses bases militaires en Asie centrale. Deux ans plus tard, les pays de l’OCS se sont ralliés officiellement à la position des ex-républiques de la CEI appartenant à l’Organisation du Traité de Sécurité Collective (OTSC), qui avait été fondée en 2002 en tant que contrepoids à l’OTAN. 

Pourtant, la réunion n’a suscité que le désintérêt collectif de la presse aux États-Unis et même en Europe, bien que l’ ordre du jour y soit de remplacer le standard mondial du dollar par un nouveau système financier, ainsi qu’un nouveau système de coopération pour la défense. Un porte-parole du Conseil des Relations Extérieures (Un institut d’études géopolitiques américain, ndt) a déclaré qu’il pouvait difficilement imaginer que la Russie et la Chine puissent surmonter leurs rivalités géopolitiques [1], suggérant que l’Amérique peut pratiquer le « diviser pour régner » que la Grande-Bretagne a si habilement utilisé durant de nombreux siècles pour fragmenter les opposition dans son propre empire. Mais George W. Bush ( qui déclarait « Je suis un rassembleur, non un diviseur ») s’est placé dans la continuité de l’administration Clinton pour pousser la Russie, la Chine et leurs voisins à trouver un terrain d’entente, lorsqu’il s’agit de trouver une alternative au dollar, et du même coup à la possibilité pour les Etats-Unis de prolonger indéfiniment leur déficit de la balance des paiements.

Cette séquence, qui pourrait représenter les dernières manifestations de l’hégémonie américaine, a débuté dès le mois d’avril lors de la conférence du G-20, et est devenue encore plus explicite à Saint-Pétersbourg au Forum économique international du 5 Juin, lorsque M. Medvedev a demandé à la Chine, la Russie et l’Inde de « construire un ordre mondial de plus en plus multipolaire. » Ce qui signifie en clair : nous avons atteint nos limites en ce qui concerne les subventions à l’encerclement militaire de l’Eurasie par les Etats-Unis, tout en les laissant s’approprier nos exportations, nos entreprises, les actifs et les biens immobiliers en échange d’une monnaie de papier de valeur douteuse. 

« Le système unipolaire maintenu artificiellement » dont a parlé M. Medvedev [2], est fondé sur « un seul grand centre de consommation, financé par un déficit croissant, et donc de plus en plus de dettes, une monnaie de réserve jadis forte et une domination dans le système de l’évaluation des actifs et des risques. » A la racine de la crise financière mondiale, a t-il conclu, il y a le fait que les États-Unis produisent trop peu et dépensent trop. Leurs dépenses militaires sont particulièrement choquantes, comme par exemple le renforcement de l’aide militaire américaine à la Géorgie annoncé la semaine dernière, le bouclier de l’OTAN en Europe de l’Est, et la mainmise des États-Unis dans les régions riches en pétrole comme le Moyen-Orient et l’Asie centrale. 

Le point de friction avec tous ces pays est celui de la capacité qu’ont les États-Unis de faire fonctionner indéfiniment la planche à billets. Le surplus de dépenses d’importations des consommateurs américains par rapport aux exportations, les rachats par les USA de quantités de sociétés étrangères et de biens immobiliers, les dépenses que le Pentagone effectue à l’étranger : tous ces dollars aboutissent dans les banques centrales étrangères. Elles sont ensuite confrontées à un choix difficile : soit recycler ces dollars aux États-Unis en achetant des bons du trésor américains, soit laisser le « marché libre » déterminer le cours de leur monnaie par rapport au dollar - et par là même à déterminer le prix de leurs exportations sur les marchés mondiaux, créant ainsi du chômage et provoquant la faillite d’entreprises.

Lorsque la Chine et d’autres pays recyclent leurs flux de dollar US en achetant des bons du Trésor pour « investir » aux États-Unis, cette accumulation n’est pas vraiment volontaire. Cela ne reflète pas une foi en l’économie américaine qui rémunèrerait l’épargne des banques centrales, ni une quelconque préférence d’investissement, mais tout simplement un manque d’alternatives. Les « marchés libres » à la mode des USA piègent les pays dans un système qui les obligent à accepter indéfiniment des dollars. Mais désormais, ils veulent en sortir.

Cela implique la création d’une nouvelle alternative. Plutôt que de faire simplement « des changements cosmétiques comme certains pays et peut-être les organisations financières internationales pourraient le vouloir », comme l’a dit M. Medvedev à Saint-Pétersbourg : « ce dont nous avons besoin, ce sont des institutions financières d’un type tout à fait nouveau, où ne domineraient ni les problèmes politiques et les motivations [sous-jacentes], ni aucun pays en particulier. »

Lorsque les dépenses militaires à l’étranger ont provoqué le déficit la balance des paiements US et ont conduit les Etats-Unis à abandonner l’étalon or en 1971, les banques centrales se sont trouvées démunies de cet actif traditionnellement utilisé pour solder les déséquilibres des paiements. La solution par défaut a consisté à investir les flux issus des paiements ultérieurs en obligations du Trésor américain, comme si celles-ci étaient « aussi fiables que l’or ». Les banques centrales détiennent maintenant pour 4 000 milliards de dollars de ces obligations dans leurs réserves internationales. Ces prêts ont également financé la plupart des déficits budgétaires du gouvernement américain depuis maintenant plus de trois décennies ! Etant donné que la moitié environ des dépenses discrétionnaires du gouvernement américain est consacrée aux opérations militaires - dont plus de 750 bases militaires à l’étranger et dans des opérations de plus en plus coûteuses dans les pays producteurs de pétrole et ceux qui permettent son transit - le système financier international est organisé de manière à financer le Pentagone, ainsi que les rachats par les États-Unis d’actifs étrangers censés rapporter beaucoup plus que les bons du Trésor que les banques centrales étrangères détiennent.

La principale question à laquelle sont confrontées les banques centrales mondiales est donc de savoir comment éviter d’ajouter encore plus de dollars US à leurs réserves et, par conséquent, de financer encore plus les dépenses qui creusent le déficit des États-Unis - y compris les dépenses militaires à leurs propres frontières ? 

Pour commencer, les six pays de SCO et les pays du BRIC ont l’intention de commercer dans leurs propres monnaies afin de bénéficier mutuellement du crédit que les États-Unis avait monopolisé jusqu’à présent à son profit. À cette fin, la Chine a passé des accords bilatéraux avec l’Argentine et le Brésil pour effectuer leur échanges commerciaux en renminbi, la monnaie chinoise, plutôt qu’en dollar, en livre sterling ou en euros [3] . Il y a deux semaines, la Chine a également conclu un accord avec la Malaisie pour que les deux pays commercent en renminbi [4]. L’ancien Premier ministre, le Dr. Tun Mahathir Mohamad, m’a expliqué en janvier qu’en tant que pays musulman la Malaisie voulait éviter de faire tout ce qui pourrait faciliter l’action militaire américaine contre les pays islamiques, y compris la Palestine. La nation a trop d’actifs en dollars, ont expliqué ses collègues. Le gouverneur de la Banque centrale chinoise, Zhou Xiaochuan, a écrit officiellement sur son site Internet que l’objectif est maintenant de créer une monnaie de réserve « indépendante d’une nation particulière » [5]. C’est l’objet des discussions à Iekaterinbourg.

En plus d’éviter de financer la prise de contrôle par les États-Unis de leur propre industrie et l’encerclement militaire américain de la planète, la Chine, la Russie et d’autres pays voudraient certainement se développer comme l’Amérique l’a fait. En fait, ils considèrent les États-Unis comme une nation hors-la-loi, financièrement et militairement. Comment caractériser autrement une nation qui promulgue un ensemble de lois pour les autres - sur la guerre, le remboursement de la dette et le traitement des détenus - mais n’en tient pas compte elle-même ? Les États-Unis sont maintenant le plus grand débiteur mais ont évité la punition des « ajustements structurels » imposés à d’autres pays endettés. Les taux d’intérêt US et les réductions d’impôt, alors les déficits commerciaux et budgétaires explosent, sont considérés comme le comble de l’hypocrisie, lorsqu’ils sont comparés à l’austérité que les programmes de Washington imposent aux autres pays par le biais du FMI et des officines de Washington.

Les États-Unis demandent aux pays endettés de vendre leurs services publics et leurs ressources naturelles, d’augmenter leurs taux d’intérêts et d’augmenter les impôts au détriment de la paix sociale pour dégager un maximum d’argent et payer les créanciers.

Et aux USA, le Congrès a empêché la société Chinoise CNOOK d’acheter Unocal pour des raisons de sécurité nationale, tout comme il a empêché Dubaï d’acquérir des exploitations portuaires américaines et empêché des fonds souverains d’acheter des infrastructures clés. Les étrangers sont invités à imiter les japonais qui avaient investi dans des « éléphants blancs » comme le Rockfeller Center, sur lequel les investisseurs ont rapidement perdu un milliard de dollars puis ont fini par se retirer. 

À cet égard, les États-Unis n’ont pas vraiment laissé à la Chine et aux autres pays en situation d’excédent de la balance des paiements d’autres choix que de devoir trouver un moyen d’éviter de nouvelles accumulations de dollars. À ce jour, la Chine tente de diversifier ses avoirs en dollars ailleurs qu’en bons du Trésor US, qui ne se sont pas révélés très fructueux. Hank Paulson, qui venait de la banque Goldman Sachs, avait conseillé à la banque centrale chinoise d’investir dans les titres à haut rendement émis par Fannie Mae et Freddie Mac, en expliquant que ceux-ci étaient de facto des obligations publiques. Ces titres se sont effondrés en 2008, mais au moins, le gouvernement américain a repris ces deux organismes de prêt hypothécaire, augmentant de facto de 5 200 milliards de dollars la dette nationale. En fait, ce renflouement a été rendu nécessaire en grande partie à cause des investissements effectués par les Etats étrangers.

Infliger des pertes aux investisseurs gouvernementaux étrangers aurait quelque peu atteint la réputation des bons du Trésor, non seulement en détruisant la crédibilité des États-Unis, mais aussi parce que les émissions d’obligations par le gouvernement étaient insuffisantes pour absorber les dollars qui coulaient à flot dans l’économie mondiale avec la montée en flèche du solde déficitaire de la balance des paiements des États-Unis. 

En recherchant de nouveaux actifs pour protéger la valeur de leurs avoirs en dollars alors que la bulle de crédit de la Réserve fédérale se traduisait par une baisse des taux d’intérêt, les fonds souverains chinois ont cherché à se diversifier à la fin de 2007. La Chine a pris des participations dans les fonds d’ investissement Blackstone et Morgan Stanley à Wall Street, Barclays en Grande-Bretagne, dans la Standard Bank d’Afrique du Sud (qui fut affiliée à la Chase Manhattan du temps de l’apartheid dans les années 1960) et dans le conglomérat financier belge Fortis proche de l’effondrement. Mais le secteur financier américain s’écroulait sous le poids de sa dette phénoménale, la valeur des actions des banques et des firmes d’investissement a plongé dans le monde entier.

Les étrangers voient le FMI, la Banque mondiale et l’Organisation Mondiale du Commerce comme les représentants de Washington dans un système financier soutenu par les bases militaires américaines et les porte-avions qui entourent la planète. Mais cette domination militaire est un vestige d’un empire américain qui n’est plus en mesure de régner par sa force économique. La puissance militaire américaine est basée davantage sur des armes atomiques et les frappes aériennes à longue distance que sur les opérations au sol, qu’il est devenu politiquement trop impopulaire de monter sur une grande échelle. 

Sur le front économique, on ne voit pas comment les États-Unis pourraient trouver les 4 000 milliards de dollars qu’ils doivent aux gouvernements étrangers, à leurs banques centrales et aux fonds souverains mis en place pour écluser la surabondance de dollars. L’Amérique est devenue un mauvais payeur et de fait, une mauvais payeur agressif sur le plan militaire, car elle cherche à conserver le pouvoir sans pareil jadis gagné sur le plan économique. La question qui se pose est de savoir comment peser sur son comportement. Yu Yongding, un ancien conseiller de la banque centrale de Chine désormais membre de l’Académie des Sciences chinoise, a proposé de faire remarquer au secrétaire américain au Trésor Tim Geithner que les États-Unis devraient « épargner » d’abord et avant tout en pratiquant une réduction de leur budget militaire. « Les recettes fiscales des Etats-Unis ne sont pas susceptibles d’augmenter à court terme en raison de la faible croissance économique, de la rigidité des dépenses et du coût de mener deux guerres. » [6

À l’heure actuelle, c’est l’épargne étrangère, et non pas celle des américains, qui finance le déficit budgétaire américain en achetant la plupart des bons du Trésor. Cela se traduit par un impôt levé sans la contrepartie d’une représentation des électeurs étrangers sur la manière dont le gouvernement des États-Unis utilise leur épargne forcée. Pour les « diplomates » du système financier , il est donc nécessaire d’élargir le champ d’application de leurs politiques, au-delà du seul marché de secteur privé. Les taux de change sont déterminés par de nombreux facteurs, en plus de celui des « consommateurs brandissant des cartes de crédit » , pour reprendre l’euphémisme habituel qu’utilisent les médias américains à propos du déficit de la balance des paiements. Depuis le 13ème siècle, la guerre a été un facteur dominant dans la balance des paiements des grandes nations - et de leurs dettes. Les obligations d’Etat financent essentiellement des dettes de guerre, dans la mesure ou en temps de paix les budgets ont tendance à être équilibrés. Ceci relie directement le budget de la guerre à la balance des paiements et aux taux de change. 

Les pays étrangers se voient encombrés de reconnaissances de dette qui ne seront pas honorées - dans des conditions telles que s’ils agissent afin de mettre fin au festin américain, le dollar va plonger et leurs avoirs en dollars vont chuter par rapport à leur monnaie nationale et aux autres devises. Si la monnaie chinoise s’apprécie de 10% par rapport au dollar, sa banque centrale enregistrera l’équivalent de 200 milliards de dollars de pertes sur ses 2 000 milliards de dollars.

Cela explique pourquoi, quand les agences de notation envisagent que les titres du Trésor des États-Unis puissent perdre leur notation AAA, elles ne veulent pas signifier que le gouvernement ne serait pas en mesure d’imprimer des dollars papier pour honorer ses dettes. Elles indiquent plutôt que la valeur du dollar va se déprécier internationalement. Et c’est exactement ce qui se passe en ce moment. Lorsque M. Geithner prit un visage grave pour déclarer devant un auditoire à l’Université de Pékin au début du mois de Juin qu’il croyait en un « dollar fort » et que les investissements de la Chine aux États-Unis étaient sûrs, il a été accueilli par des rires sarcastiques [7]. 

L’anticipation d’une hausse des taux de change de la Chine incite les spéculateurs à chercher à emprunter des dollars pour acheter du renminbi et bénéficier de la hausse. Pour la Chine, le problème est que ce flux spéculatif deviendrait une prophétie auto-réalisatrice en faisant grimper sa monnaie. De ce fait, le problème des réserves est intrinsèquement lié à celui des contrôles de capitaux. Pourquoi la Chine devrait-elle voir ses compagnies rentables vendues pour des dollars fraîchement créés, que la banque centrale doit utiliser pour acheter à faible taux des bons du trésor américain ou perdre encore plus d’argent à Wall Street ? Pour éviter ce dilemme, il est nécessaire d’inverser la philosophie de l’ouverture des marchés de capitaux que le monde a adopté depuis Bretton Woods en 1944.

A l’occasion de la visite de M. Geithner en Chine, « Zhou Xiaochuan, directeur de la Banque populaire de Chine, la banque centrale du pays, a déclaré que c’était la première fois depuis que les pourparlers semestriels ont commencé en 2006, que la Chine avait besoin d’apprendre des erreurs de l’Amérique tout comme de ses succès » lorsqu’il fut question de la déréglementation des marchés de capitaux et du démantèlement des contrôles. 

Une ère est donc arrivée à son terme. Face à des dépenses démesurées des Etats-Unis, la dé-dollarisation menace de forcer les pays à revenir aux doubles taux de change, qui furent fréquents entre les deux guerres mondiales : un taux de change pour le commerce des produits, un autre pour les mouvements de capitaux et les investissements, tout au moins pour les économies de la zone dollar [8].

  Même sans contrôle des capitaux, les pays réunis à Iekaterinbourg prennent des mesures pour éviter de recevoir involontairement de plus en plus de dollars. Voyant que l’hégémonie globale des États-Unis ne peut pas se poursuivre en l’absence du pouvoir d’achat qu’ils leur procurent eux-mêmes, ces gouvernements cherchent à hâter ce que Chalmers Johnson a nommé dans son ouvrage « les douleurs de l’empire » : la faillite de l’ordre mondial financier et militaire américain. Si la Chine, la Russie et leurs alliés non-alignés suivent leur propre chemin, les États-Unis ne pourront plus vivre grâce à l’épargne des autres (sous la forme de leurs propres dollars recyclés), ni disposer de cet argent pour financer des dépenses militaires illimitées. 

Des responsables américains voulaient assister à la réunion de Iekaterinbourg en tant qu’observateurs. On leur a répondu : non. C’est un mot que les américains vont entendre beaucoup plus souvent à l’avenir. 

Michael Hudson est un économiste spécialisé dans le domaine de la balance des paiements. Il a été le conseiller économique en chef du candidat Démocrate à la présidentielle Dennis Kucinich. Il est l’auteur de nombreux ouvrages, dont : « Super Imperialism : The Economic Strategy of American Empire »


Publication originale Michael Hudson, traduction Madeleine Chevassus pour Contre Info


[1] Andrew Scheineson, “The Shanghai Cooperation Organization,” Council on Foreign Relations, Updated : March 24, 2009 : “While some experts say the organization has emerged as a powerful anti-U.S. bulwark in Central Asia, others believe frictions between its two largest members, Russia and China, effectively preclude a strong, unified SCO.”

[2] Kremlin.ru, June 5, 2009, in Johnson’s Russia List, June 8, 2009, #8.

[3] Jamil Anderlini and Javier Blas, “China reveals big rise in gold reserves,” Financial Times, April 24, 2009. See also “Chinese political advisors propose making yuan an int’l currency.” Beijing, March 7, 2009 (Xinhua). “The key to financial reform is to make the yuan an international currency, said [Peter Kwong Ching] Woo [chairman of the Hong Kong-based Wharf (Holdings) Limited] in a speech to the Second Session of the 11th National Committee of the Chinese People’s Political Consultative Conference (CPPCC), the country’s top political advisory body. That means using the Chinese currency to settle international trade payments ...”

[4] Shai Oster, “Malaysia, China Consider Ending Trade in Dollars,” Wall Street Journal, June 4, 2009.

[5] Jonathan Wheatley, “Brazil and China in plan to axe dollar,” Financial Times, May 19, 2009.

[6] “Another Dollar Crisis inevitable unless U.S. starts Saving - China central bank adviser. Global Crisis ‘Inevitable’ Unless U.S. Starts Saving, Yu Says,” Bloomberg News, June 1, 2009.

[7] Kathrin Hille, “Lesson in friendship draws blushes,” Financial Times, June 2, 2009.

[8] Steven R. Weisman, “U.S. Tells China Subprime Woes Are No Reason to Keep Markets Closed,” The New York Times, June 18, 2008.

vendredi, 05 juin 2009

!Liberate!

¡Libérate!