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vendredi, 19 novembre 2010

Miglio: "Un nuovo Federalismo per le identità"

Così Gianfranco Miglio rispondeva, nel 1993, a Massimo Cacciari
“Un nuovo Federalismo per le identità”
Per secoli la cultura europea ha ossessivamente coltivato i miti del centralismo statale

Questa lettera fu scritta nel 1993 da Gianfranco Miglio a Massimo Cacciari, nell’ambito dell’incalzante dibattito sul Federalismo.

Ex: http://www.leganord.org/

miglio.jpgGIANFRANCO MIGLIO
Caro Massimo, ho gradito la tua lettera, anche perché mi conferma che il nuovo impegno in campo amministrativo non cancellerà la tua preziosa partecipazione ai dibattiti in tema di pensiero politico.
Quello che ormai la cultura americana chiama il “nuovo federalismo “, è (come del resto anche tu riconosci) una vera e propria “rivoluzione”: è forse la più importante delle molteplici rivoluzioni che si intrecciano a illuminare la meravigliosa “fine secolo” in cui viviamo. Mentre il vecchio “federalismo” era uno strumento (tollerato) per generare, presto o tardi, uno Stato unitario il “nuovo federalismo” è un modello istituzionale creato per riconoscere, garantire e gestire le diversità. Per quattro secoli la cultura europea ha, ossessivamente, coltivato i miti dell’unità e dell’omogeneità, funzionali allo “Stato moderno”. Dentro lo Stato tutti uniti e solidali, nell’ordine e nella pace; fuori dello Stato la guerra e la legge della jungla. Prestissimo, nei miei “Arcana Imperii”, uscirà la traduzione dei libro di Patrick Riley sulla Volontà generale, in cui si scoprono le origini teologiche del mito dell’unità.
Con il declino dello Stato “unitario” (“nazionale”) tramontano anche i miti della sovranità e dei confini.
Circa la prima, ciò che contrassegna il vero ordinamento federale è la presenza di una pluralità di “sovranità”; almeno due: quella degli Stati- membri e quella dello Stato-federazione. Ma pluralità di sovranità equivalenti significa: nessuna sovranità.
Circa i “confini” essi sono uno sciagurato prodotto dello “Stato moderno” (e, prima ancora, dell’egemonia degli agrimensori nella costruzione del diritto romano di proprietà): prima del Seicento, e sopra tutto nel mondo medioevale, i confini non erano un “destino”.
Ma il flauto che guida la danza del cambiamento, è il (periodico!) declino del “patto politico” (fedeltà) e l’emergere del contratto-scambio. Il “federalismo”(dai tempi di Giovanni Althusio!) è sempre stato legato al primato del “contratto”: e un contratto non crea mai un potere “sovrano”, perché l’efficacia di un sistema di contratti riposa sul fatto che i contraenti hanno interesse ad osservarli, sotto pena di essere esclusi dalla convivenza di coloro i quali “scambiano”. La fortuna attuale del diritto internazionale “privato” nasce da qui, e non dal fatto che esista la Corte dell’Aja.
Noi stiamo entrando in un’età caratterizzata dal primato del “contratto” e dall’eclissi del patto di fedeltà (pensa alla fine dell’indissolubilità` del matrimonio!). Dopo due secoli di ossessivo e crescente appello al patto di fedeltà (e alla “politica”) il pendolo della storia ci porta verso l’individualismo e la libertà di contratto.
Già oggi dappertutto l’esercizio del potere decisionale ha perso il suo carattere di “Machtspruch”, di “pronuncia di potenza”, e ha preso la forma di “arbitrato” e di “negoziato”. E gli ordinamenti “federali” sono sistemi in cui si tratta e si negozia senza soste.
Un altro punto cruciale: poiché le “diversità” continuano ad evolversi e ad emergere, le Costituzioni federali saranno sempre più “a tempo determinato”, e non “atemporali” come il vecchio Stato unitario (fondato per l’eternità): saranno Costituzioni modificabili ogni trenta-cinquant’anni.
Ma la più grande rivoluzione che si compie sotto i nostri occhi, con il declino dello “Stato unitario” (sovrano e “nazionale”) è la ricomposizione della originaria “convivenza delle genti”: prima che nascesse lo “Stato moderno”, e la così detta “Comunità internazionale”, sul piano giuridico e concettuale, non c’era un “dentro” e un “fuori” – un “dentro” legittimo e legale, e un Risposta a Cacciari di Gianfranco Miglio Annttoollooggiiaa 142 - Quaderni Padani Anno VIl, N. 37/38 - Settembre-Dicembre 2001 “fuori” abbandonato alla legge del più forte (o del più fortunato) -. Tutte le regole erano prodotto non di istanze “sovrane” (pensa alla debolezza delle pronunce papali o imperiali) ma di relazioni contrattuali. Oggi la gestione dei problemi interni degli Stati tende sempre più ad assomigliare a quella delle controversie un tempo chiamate “internazionali”; e la svolta è stata rappresentata dalla fine del “bipolarismo”: apogeo dell’”ordine” statal-internazionale, e quindi dei vecchio sistema.
Sono queste considerazioni che vanno tenute presenti se si vuole capire il “nuovo federalismo” ed il suo significato storico: sopra tutto se si vuol distinguere il vero federalismo dal vari “autonomismi” e “regionalismi” in circolazione, che rappresentano soltanto travestimenti del vecchio Stato unitario.
Io sto concentrando tutte le mie idee a proposito di questi temi, in una “plaquette” Costituzione federale. La ragione contro il pregiudizio; ma la farò uscire dopo le elezioni: quando si aprirà (se si aprirà!) il dibattito sulle riforme costituzionali (che tu, giustamente, giudichi indispensabile).
Sono convinto che, fra quarant’anni, tutti gli ordinamenti dei paesi civili (tranne forse quello italiano) saranno “neofederali”.
Certo (come sempre) decisivo è il problema di fissare (riconoscere) i due punti di aggregazione (“cantone”, o come lo si vorrà chiamare, versus “autorità federale”) per fondare il rapporto dialettico permanente su cui poggerà il sistema. Non per attribuire all’uno o all’altro una inutile “sovranità”: perché il potere di decidere le controversie sarà intermittente e suscitato da una clausola del contratto di fondazione.
Tu hai ragione quando avverti che è molto importante determinare le funzioni e le strutture delle aggregazioni interne (a valle) dei soggetti membri della federazione (Municipi, Regioni, eccetera). È un capitolo tutto da inventare.
Ma qui debbo rivelarti un dubbio che mi rattrista: come si atteggerà la tecnica dell’antico “jus publicum europaeum” (vulgo: cosa faranno i giuspubblicisti) davanti al compito enorme di “reinventare” il nuovo modello di ordinamento politico europeo? Ho paura che la capacità creativa della nostra cultura giuridica sia ormai spenta, e che arrivi quindi priva di forze all’appuntamento con la storia. Spero di sbagliarmi.

Articolo tratto da laPadania del 14/02/2008

Se vogliamo le riforme dobbiamo farcele, perché nessuno le farebbe al nostro posto.
Numerose saranno le riforme della Costituzione che io intendo far partire dalla devoluzione.
Non è difficile sognare. È difficile, invece, sognare confrontandosi con la realtà per cambiarla.

Umberto Bossi

jeudi, 18 novembre 2010

Colloque "Localisme et identité, la réponse au mondialisme" - Paris, 4 déc. 2010

Colloque « Localisme et identité, la réponse au mondialisme ». Paris, 4 décembre

Organisateurs :
Associations alternatives, localistes, démocrates et identitaires (Coopérative Parisienne ; Ti Breizh, la maison Bretonne ; Académie pour la défense des êtres humains ; Projet Apache ; Parti des Français Progressistes ; Terres Arvernes ; Lien en Pays d’Oc ; Terroirs et Productions de France).

Programme :

9h00 : accueil
9h30 : ouverture des travaux, présentation de la journée.
9h45 : exposés
- Georges GOURDIN, communication et médias : les fêtes enracinées ou le cadeau planétaire jetable? L’exemple de Noël.
- Dominique LAMBERT, ingénieur en environnement, Londres : l’urbanisme, les transports et l’énergie au service de la relocalisation des activités humaines.
- Jacques DAUDON, enseignant retraité, maraicher bio : les conditions alimentaires et environnementales pour rétablir santé et bien être de notre population.
- Philippe MILLIAU, responsable de formation : l’alternative économique et fiscale du localisme face à l’ordre mondial et à la destruction de la terre.
11h00 pause
11h15 : table ronde avec les orateurs de la matinée et questions écrites de la salle. Animateur : Arnaud NAUDIN, journaliste.
- à quelle échelle pertinente peut on appliquer les préconisations et propositions des conférenciers ?
- crise mondiale, ou crise du système mondialiste ?
- du concret au quotidien, ou l’attente du  » grand soir » de la fin du mondialisme
- la relocalisation, une vision archaïque, ou futuriste ?
- questions écrites.
12h30 déjeuner

14h30 : exposés :
- Arnaud GOUILLON, ingénieur et responsable d’ONG : localisme, écologie, démocratie, actions humanitaires et valeurs humaines : la synthèse identitaire.
- Philippe CONRAD, historien : identité et devenir de la civilisation Européenne.
- Philippe PERCHIRIN, consultant et dirigeant de PME dans un cadre Européen : face à la régression totalitaire mondialiste, demain la démocratie directe.
- Isabelle LARAQUE, professeur de philosophie : de la cité Grecque au citoyen du monde, un chemin à l’envers.

16h00 pause
16h15 : table ronde avec les orateurs de l’après midi, et questions écrites de la salle. Animateur : Xavier DELAUNAY, journaliste.
- l’argent roi, une incompatibilité avec la démocratie…
- l’histoire de l’Europe est elle écrite ? Le monde peut il se passer de l’Europe?
- l’explosion démographique Africaine et musulmane : un danger pour l’équilibre du monde ?
- la démocratie directe et les libertés locales : inciter le citoyen à se prendre en charge
- questions écrites
17h45 : synthèse et conclusions.

Lieu : NOVOTEL Pont de Sèvres, 13 grande rue, 92 310 Sèvres
Date : Samedi 4 Décembre, de 9h à 18h
Prix d’entrée : 10 euros.
Repas de midi facultatif et UNIQUEMENT sur réservation : 30 E. Règlements auprès du service accueil du colloque, sur place.

Inscriptions à faire parvenir avant le 2 Décembre à :

Ti Breizh, milin coz, 29650 GUERLESQUIN
mail : milin.coz@gmail.com [1]
tel : 02 98 72 89 33 et 06 01 15 92 37


Article printed from :: Novopress.info France: http://fr.novopress.info

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Türkei: Oberster Religionswächter muss abtreten

Oberster Religionswächter muß abtreten

 Ex: http://www.jungefreiheit.de/

Diyanet-Chef Ali Bardakoglu: Wegen zu liberaler Ansichten zum Rückzug gezwungen Foto: Wikipedia/Elke Wetzig

ANKARA. Der Chef der türkischen Religionsbehörde (Diyanet), Ali Bardakoglu, muß nach einem Streit mit der Regierung sein Amt aufgeben. Grund sei dessen liberale Auslegung des Islams, berichtet die Welt unter Berufung auf die türkische Tageszeitung Milliyet.

Der oberste Relgionswächter hatte der türkischen Führung eine klare Stellungnahme zum Streit um das islamische Kopftuch verweigert. Die radikalislamische Regierungspartei AKP will das in der laizistischen Türkei herrschende Kopftuchverbot auflockern, was Kritiker als weiteren Schritt zu einer Islamisierung der türkischen Gesellschaft sehen.

Kopftuch für Frauen keine islamische Pflicht

Bardakoglu hatte das Tragen des Kopftuchs lediglich als die persönliche Entscheidung der Frau und nicht als islamische Pflicht bezeichnet. Auch der Genuß von Alkohol sei zwar im religiösen Sinne eine Sünde „egal ob am Steuer eines Autos oder in den Bergen“, jedoch sei es eine politische Frage, wann er eine Straftat darstelle.

Erst vor kurzem sorgte Bardakoglu auch außerhalb der Türkei für Aufsehen, als er überraschend ankündigte, christliche Gottesdienste in der St.-Pauls-Kirche in Tarsus zuzulassen. Gleichzeitig bekannte sich der Diyanet-Chef zur Sicherung der Religionsfreiheit als Aufgabe seiner Behörde.

„Radikale Veränderungen“ angekündigt

Womöglich könnte sich dies rasch ändern. Der türkische Staatsminister Faruk Celik kündigte bereits „radikale Veränderungen“ in der Religionsbehörde nach dem Abtritt Bardakoglus an. Nachfolger wird sein bisheriger Stellvertreter Mehmet Görmez. (FA)

Les femmes devant le déclin démographique

Les femmes devant le déclin démographique

 

par Jean-Yves Le Gallou

Ex: http://www.polemia.com/

femme_hdef.jpgFondateur de l’Institut de géopolitique des populations, Yves-Marie Laulan a une préoccupation majeure : il craint que les déséquilibres démographiques entre Français de souche européenne et immigrés ne déstabilisent la société. Un sujet tabou. Mais un vrai sujet qu’il aborde avec constance sous ses deux faces : l’immigration étrangère d’un côté, la fécondité euro-française de l’autre. Lors d’un colloque, organisé à l’Assemblée nationale le 28 mai 2010 (1), Yves-Marie Laulan à donné la parole à des femmes, partant du principe que ce sont les femmes qui au premier chef donnent la vie.

Disons le tout de suite ce colloque dont Polémia met en ligne les actes (2) est une formidable réussite. Incontestablement Yves-Marie Laulan a réuni un panel de femmes exceptionnelles : de belles intelligences, des cœurs généreux, des corps féconds. Et une approche polyphonique de la question posée.

Catherine Rouvier : le caractère divin de la fonction maternelle

D’emblée Catherine Rouvier pose le problème du sens de la maternité : « l’incommensurable noblesse, le caractère essentiel et quasi divin de la fonction maternelle, encore perceptibles dans les sociétés moins développées, moins matérialistes, moins mécanisées, ne sont plus perçus dans nos pays présumés civilisés. »

« Pire, elle est cachée comme une survivance des temps anciens, une faute de goût, que ne commettent plus des femmes libérées, une occupation subalterne pour femmes désœuvrées, une preuve d’esclavage, la conséquence désastreuse d’une éducation encore fondée sur le schéma périmé de la différence homme/femme. »

« C’est cette mutation de l’idée de maternité qui, autant et peut-être plus encore que les causes matérielles, scientifiques et techniques, est à l’origine de cette baisse drastique de la natalité. »

Catherine Rouvier énumère ensuite ce qui lui paraît nécessaire à la restauration de l’image de la maternité : « dire la sensualité de la maternité ; refuser la dictature du préservatif ; refuser le risque de la (trop) longue attente du « quand je veux » ; refuser d’être complice de la disparition de notre civilisation bimillénaire ; refuser la disparition programmée du dimanche ; refuser la solitude individualiste des sociétés urbanisées. »

Jeanne Smits : l’image matérialiste de la maternité dans les médias

C’est évidemment une image différente de l’amour, de la famille, de la maternité, de la vie qui est donnée dans les médias. Et d’abord par le premier d’entre eux : le livre scolaire qui dissocie radicalement sexualité (pour le plaisir individuel et quelque soit le ou la partenaire) et procréation ; et c’est ce message tronqué et faux qui est constamment répété depuis l’âge de 12/13ans.

Jeanne Smits poursuit sa critique en analysant les magazines féminins. Elle y trouve que « L’image de l’enfant et de la maternité (y) est plutôt positive, mais (qu’) elle privilégie l’image d’un enfant objet. C’est l’enfant pour soi.(…) Si on regarde l’image de l’enfant dans les médias, il ne s’agit pas d’un autre qui est accueilli, mais de celui que l’on peut se permettre d’avoir, que l’on va habiller et élever selon des normes qui en font ce que les Anglais appellent un status object (un objet de statut). »

Enfin « Il y a une image de la maternité qui est complètement ignorée, médiatiquement parlant, que ce soit dans la presse glamour, dans les émissions télévisées, dans les téléfilms ou au cinéma : l’image positive de la mère au foyer, de la mère de famille nombreuse. »

Janine Chanteur : un individualisme insensé

Pour Janine Chanteur, du « Deuxième sexe » de Simone de Beauvoir à « l’absurde révolte de 1968 », « un profond bouleversement des idées et des mœurs » est survenu : « Il en est sorti une justification insensée de l’individualisme. Or l’individualisme est un ennemi majeur de la natalité. Les femmes, en grand nombre – et les hommes avec elles –, ont confondu la liberté avec l’individualisme, d’où une subtile rupture entre l’homme et la femme, devenus deux individus qui n’avaient plus, a priori, d’intérêt commun. Il est vrai que chacun de nous est un individu. Mais, sans liens avec les autres, est-il possible de survivre en être que l’on peut dire humain ? Que l’égalité des devoirs et des droits soit commune à l’homme et à la femme n’implique pas la guerre des sexes, ni leur assimilation. Aujourd’hui, la justification déplorable de l’individualisme et de l’indistinction des sexes d’une part, de la primauté du plaisir sexuel devenu d’autre part le but de la vie, a barré la perspective d’un avenir construit dans l’espérance pour les générations suivantes. Aussi pouvons-nous avancer l’idée que le déclin démographique est peut-être moins imputable aux crises financières que nous avons traversées et que nous traversons encore, qu’à l’atmosphère de négativité qui asphyxie, en Occident, les femmes – sans oublier les hommes – et qui fait redouter les naissances. »

Janine Chanteur continue ainsi son propos : « Avec un moral livré au Désenchantement du monde, pour reprendre le beau titre d’un livre de Marcel Gauchet, beaucoup d’hommes et de femmes pensent qu’ils n’ont pas le droit de procréer une nouvelle victime. »

« Il faut donc poser la question: qu’est-ce que mettre au monde un enfant ? La réponse est simple : un enfant, c’est une espérance, un pari confiant sur l’avenir. » Et cela ne peut se faire que dans la confiance de l’homme et de la femme dans la durée du couple.

Joëlle-Anne Robert : la femme au foyer, modèle incontournable

C’est l’image de la femme au foyer que défend sans complexe Joëlle-Anne Robert en dénonçant d’abord quelques pieux mensonges du « familialement correct » : « Faire croire qu’il est facile de concilier travail et famille ; faire croire que la femme s’épanouit nécessairement au travail, faire croire que la femme est un homme comme un autre. »

Joëlle-Anne Robert avance ensuite les arguments positifs en faveur de sa thèse : « Donner la vie, un désir profond auquel on ne renonce pas si facilement ; le rôle de la famille dans l’éducation (La famille, et plus encore la famille nombreuse, est une micro-société fournissant un apprentissage irremplaçable) ; l’intérêt de l’enfant ; l’avenir de nos retraites ».

Rappelons au passage à ceux qui seraient tentés d’écarter cet argument matérialiste que l’équilibre démographique repose largement sur les familles de trois enfants (sinon plus) et que dans ces familles plus de 50% des femmes sont au foyer. Encore un mot de statistique : « 600 000 parents ont bénéficié du congé parental. 3 millions de femmes au foyer en 2010, c’est 2 fois moins qu’il y a vingt ans. Mais, en 1999, elles n’étaient que 2,2 millions. Ce choix a été assumé par 57 % des femmes qui souhaitent voir grandir leur enfant. »

Hélène Richard : N’oubliez pas l’homme !

C’est une vision autre et hors des sentiers battus que défend Hélène Richard : celui de la mère de famille nombreuse assumant sa vie de femme libre « loin du modèle d’Henri Bordeaux ». D’où paradoxalement l’importance du père. Laissons la parole à Hélène Richard. « Une femme fera un enfant avec un homme digne, c’est-à-dire capable de doter de qualités génétiques élevées cet enfant qui viendra au monde. La femme choisit le père de ses enfants. Et ce père n’est pas forcément ni l’amant idéal ni le plus grand amour de sa vie. C’est juste l’homme qui sera capable d’être le meilleur père possible pour sa descendance. Biologiquement, paternellement, affectivement, moralement, etc. C’est une question de lignée, une question d’immortalité. (…) De là, l’ineptie du divorce, qui brise cette lignée, qui remet en cause cette immortalité et rend esclave la femme. Accepter de façon simple et évidente qu’on fait des enfants à deux, qu’on les élève donc à deux, quoi qu’il arrive, qu’on est là pour transmettre et pas pour se comporter de façon versatile, remettre donc à l’endroit la notion d’engagement serait, à mon sens, une bonne chose :«  on ne s’engage pas vis-à-vis de sa femme, de son mari mais vis-à-vis de sa lignée, de sa descendance. »

« Le seul moyen de donner aux femmes et aux hommes l’envie d’avoir des enfants est de montrer aux femmes que la maternité ne les empêchera pas de vivre et de rester avant tout des femmes et de montrer aux hommes que la paternité leur permettra de devenir un homme. »(…)

« Oui, il est possible d’être une maman de cinq, six, sept enfants et d’être aussi, voire même avant tout, une femme. Il est possible d’harmoniser gravité et insouciance, sagesse et grains de folie, attention et légèreté, etc. C’est possible à une condition : que nos enfants aient un père, un papa, pas un mari-de-maman-jaloux qui refuserait qu’elle sorte ; pas un père-qui-gagne-beaucoup-de-sous mais qui n’est jamais là ; un père par correspondance en quelque sorte, qui signerait les relevés de notes, distribuerait les félicitations et les punitions, arbitrerait les bagarres ; mais ne serait jamais là pour jouer, pour câliner ; pour préparer des pizzas quand maman n’est pas là ; raconter des histoires le soir quand maman est sortie avec ses copains et ses copines et qu’elle ne rentrera peut-être pas cette nuit ; préparer un gâteau pour quand maman rentrera ; partir en balade le week-end quand maman travaille… »

Par delà les choix personnels d’Hélène Richard, son texte souligne un point majeur : les hommes partagent avec les femmes la responsabilité de donner la vie et de construire l’enfant. Et ils sont parfois aussi, sinon plus, égoïstes et malthusiens que les femmes : pour une raison simple, ils vivent dans le même bain de valeurs dominantes.

Gabrielle Cluzel : culpabilisation et dévalorisation

« Dans les sondages, une femme sur deux avoue qu’elle aurait aimé avoir un enfant de plus » remarque Gabrielle Cluzel. Si ces enfants ne naissent pas c’est que « culpabilité et dévalorisation sont (…) un frein à la maternité ».

Gabrielle Cluzel observe que « les femmes au foyer sont des « sentinelles invisibles ». Elles sont transparentes aux yeux de l’administration, elles n’ont pas de statut, ce sont des sortes de sous-femmes, elles sont comme réduites à une sorte de dhimmitude de fait, une dhimmitude à l’occidentale ».

Et Gabrielle Cluzel de noter ce paradoxe étonnant, celui de deux voisines qui décideraient d’échanger leurs enfants : « Tu gardes les miens, je me charge des tiens » –, elles auraient dans ce cas un statut, une couverture sociale propre, une retraite d’assistante maternelle. Parce que les enfants dont elles s’occupent sont les leurs, elles sont comme punies. Elles n’ont droit à rien, aucune reconnaissance matérielle ou sociale, et les enfants qu’elles ont mis au monde paieront les retraites des autres. »

Paradoxe extraordinaire de la société marchande : la mère mercenaire (qui, il est vrai, augmente le PIB) est reconnue alors que la mère affective ne l’est pas !

Marie-Thérèse Hermange : l’aide à la garde des jeunes enfants

Le colloque a aussi traité les questions économiques et pratiques. Le sénateur Hermange a souligné les contradictions des politiques officielles et affirmé que « notre système de prise en charge de l’enfant, lorsque la femme travaille, est un système pervers ». En effet, les Caisses d’allocation familiale et les mairies privilégient pour l’aide à la garde des enfants le système des crèches : système qui présente le double inconvénient d’être le plus coûteux et moins adapté aux besoins de l’enfant qu’une garde familiale. D’où l’intérêt de la prestation d’allocation différentielle pour garde d’enfant, PAJE, créée par la ville de Paris à la fin du mandat de Jean Tibéri : davantage de bénéficiaires d’un mode de garde plus adapté.

Un point de vue de bon sens hélas largement ignoré des décideurs politiques !

Dominique Marcilhacy : la retraite des mères

« En consacrant de leur corps et de leur temps à la mise au monde et à l’éducation des enfants, les mères préparent les retraites de leur génération » affirme Dominique Marcilhacy. Et pourtant à chaque réforme des retraites, les avantages particuliers dont elles bénéficient sont remis en cause !

Dominique Marcilhacy estime que la prise en charge financière de l’enfant est faite à 40% par la collectivité et à 60% par la famille. Mais au final les familles qui ont contribué au renouvellement démographique bénéficient de retraités moins élevées que les couples inféconds ou à fécondité réduite.

Une aberration doublée d’une injustice que Dominique Marcilhacy propose de corriger en réformant l’allocation des points de retraite de façon à prendre en compte la contribution des familles au renouvellement démographique. Un statut parental viendrait compléter le dispositif.

Christian Vanneste : le poids des idéologies, relativiste, culturaliste, marxiste

Dans ce colloque par les femmes et pour les femmes, deux hommes sont, malgré tout, intervenus Yves-Marie Laulan et Christian Vanneste. Député mais aussi philosophe. Christian Vanneste a mis en exergue du colloque trois causes idéologiques à la situation actuelle:

  • - Le relativisme «c’est à dire la volonté, quasiment entropique, de nier toutes les différences»;
  • - La mécanique marxiste qui, appliqué au féminisme, «a remplacé la lutte des classes par la lutte des sexes»;
  • - Le culturalisme «qui tend à nier complètement la dimension biologique, génétique; naturelle de l’humanité pour prétendre que tous nos comportements sont dictés par l’éducation, par l’environnement culturel».

Et le député philosophe de conclure son propos par deux recommandations, « deux mariages » : celui de la génétique et de l’éducation celui de l’égalité et de la différence.

Christian Vanneste a aussi, comme beaucoup des intervenantes traité du sujet de l’avortement et noté que « chacun aura remarqué qu’entre la loi Veil et aujourd’hui, l’avortement, qui était un droit de la détresse, est devenu un tabou. On n’a plus le droit de contester le droit à l’avortement comme étant l’expression la plus forte de la liberté féminine ». Et Christian Vanneste de rappeler qu’il y a quelques années, il avait été diabolisé simplement pour avoir défendu « l’idée de l’IIG (interruption involontaire de grossesse) qui prend en compte la situation d’une femme qui perd un enfant du fait d’un autre ». Or comme disait Pierre Chaunu « le monde est condamné si la femme répudie son désir d’enfant ».

Yves-Marie Laulan : transcendance et dépassement de l’instant présent

Il revenait à Yves-Marie Laulan – père du colloque ! - de le conclure et de revenir sur les causes de la chute de la fécondité « Il faut y voir, sans doute et avant tout, la disparition du sens de la transcendance, à savoir le souci de vivre au-delà du moment présent et des individus que nous sommes. Or l’enfant, au sein de la famille, est précisément la seule passerelle que l’homme peut jeter entre le passé et un futur par définition inconnu, le seul véhicule inventé à ce jour pour dépasser l’instant présent et se survivre à soi-même (en dehors de l’espoir de la vie éternelle pour le croyant, bien entendu). Ajoutons au passage que s’expliquent ainsi les attaques forcenées contre l’Église catholique qui dérange, qui interpelle, qui remet fâcheusement en question les certitudes confortables et sécurisantes apportées par les médias complaisants.

Un changement de paradigmes

Par delà les différences d’approches – philosophiques, sociologiques,religieuses, idéologiques, économiques, morales, personnelles – des différents intervenants, il apparaît très clairement que le redressement démographique français et européen passe par un changement radical des paradigmes dominants. Une révolution conservatrice est nécessaire.

Jean-Yves Le Gallou
Polémia
02/11/2010

Notes :

1) – INSTITUT DE GEOPOLITIQUE DES POPULATIONS
Colloque du 28 mai 2010 à l’Assemblée nationale
Les femmes devant le déclin démographie

2) – Actes du colloque :
http://www.polemia.com/pdf_v2/colloquefemme.pdf
Les intertitres pour chaque intervention sont de la rédaction

Big Brother et Mickey Mouse

Big Brother et Mickey Mouse

Par François Bousquet

La gauche a toujours aimé se faire peur en se jouant des films d’horreur. Le ventre est encore fécond d’où a surgi la bête immonde, n’est-ce pas !

On connaît le refrain, il scande un demi-siècle d’antifascisme parodique. On le croyait inusable, mais il a vieilli. Il faut dire que la bête immonde a profondément mué. Elle ne porte plus des cornes, mais des Ray Ban. La chirurgie esthétique a adouci ses traits. Chemin faisant, on est passé des années 40 au CAC 40. C’est beaucoup plus fun. Il manquait un nom à cette nouvelle bête. Raffaele Simone lui en a trouvé un, c’est « le Monstre doux », titre de son dernier livre***, qui a fait pas mal de remous en Italie à sa sortie en 2009, dans un pays berluscosinistré. L’ouvrage n’est pas sans intérêt, même s’il n’apporte rien de nouveau, en tout cas rien qui n’ait déjà été dit par Tocqueville. Ce monstre doux, c’est l’Occident qui virerait à droite, selon Simone, mélange de Big Brother et de Mickey Mouse.

On a beau savoir qu’on ne prête qu’aux riches (et donc à la droite), on ne voit pas trop ce qu’elle vient faire ici, fût-elle génétiquement modifiée. Certes, la gauche a perdu la main, on le concède volontiers à l’auteur, mais elle a encore presque toutes les cartes. Ceux d’entre vous qui travaillent dans l’édition, le journalisme, l’éducation, la culture, en savent quelque chose. Elle est le pays légal figé dans une posture avant-gardiste, montrant la voie à des populations contrariées qui la désavouent dans les urnes. Ce désaveu attriste Raffaele Simone. Il ne le comprend pas. C’est pourtant bien simple : la gauche est confrontée à l’usure du pouvoir. Comme toutes les machines idéologiques longtemps dominantes, elle parle dans le vide. Pour autant, on ne sache pas que la droite l’ait remplacée, ou alors une droite aux hormones made in USA. Non, ce qui triomphe aujourd’hui, c’est la société du spectacle, le marché, l’hyperconsommation, l’obésité, le télévoyeurisme, etc. Qu’est-ce que la droite a à voir avec ça ? Raffaele Simone ne nous le dit pas.

Notre monde est résiduellement politique. Les libéraux et les libertaires, longtemps minoritaires de part et d’autre de l’échiquier politique, ont vampirisé ce qu’il restait de droite et de gauche historiques. Leurs mots d’ordre sont devenus notre quotidien. Jouissez, consommez, panurgez. L’un des maîtres à penser de la géopolitique américaine, Zbigniew Brzezinski, a appelé cela l’âge du « tittytainment », contraction d’« entertainment » (divertissement) et de « tit » (le sein, au sens d’allaitement maternel). Mais Juvénal, qui était meilleur poète que Brzezinski, a donné pour toujours la formule à succès des empires sur le déclin : panem et circenses. Des barres chocolatées et des jeux télévisés, ça a moins de gueule que les jeux du cirque, mais ça n’est guère différent.

François Bousquet

Source : Le Blog du Choc du Mois [1].

*** Raffaele Simone, « Le Monstre doux. Pourquoi l’Occident vire-t-il à droite ? », « Le Débat », Gallimard, 192 p. 17,50 €.


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[1] Le Blog du Choc du Mois: http://blogchocdumois.hautetfort.com/archive/2010/10/25/big-brother-et-mickey-mouse.html#more

Bundesverwaltungsgericht: Einbürgerung können rückgängig gemacht werden

Bundesverwaltungsgericht: Einbürgerungen können rückgängig gemacht werden

Udo Ulfkotte - Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Im vergangenen Jahr wurden in Deutschland knapp 100.000 Menschen eingebürgert. Manche Neu-Deutsche werden dann kriminell, weil sie sich nun sicher vor Abschiebung fühlen. Das Bundesverwaltungsgericht hat dem nun einen Riegel vorgeschoben.

 

 

 

klatsch.jpgEine Einbürgerung kann in Deutschland künftig auch wieder rückgängig gemacht werden, wenn der eingebürgerte Ausländer die Behörden getäuscht hat. Etwa über seine kriminelle Vergangenheit. Wer den Behörden bei der Einbürgerung verschweigt, dass er ein Krimineller ist, der kann selbst dann wieder ausgebürgert werden, wenn er dadurch staatenlos wird. Geklagt hatte ein Geschäftsmann, der den Behörden bei seiner Einbürgerung in Deutschland verschwiegen hatte, dass in seinem Geburtsland Ermittlungen wegen Betruges gegen ihn liefen. Der 54-Jährige sitzt in Deutschland eine sechs Jahre währende Haftstrafe wegen Anlagebetruges ab. Vor zehn Jahren war er hier eingebürgert worden. Aber er war eben auch schon in seinem Herkunftsland kriminell in Erscheinung getreten, hatte das bei den deutschen Behörden aber nicht angegeben. Die Leipziger Richter des Bundesverwaltungsgerichts, die ihn nun mit ihrer Entscheidung zum Staatenlosen machten, entschieden sogar, ihr Vorgehen sei mit dem Europarecht vereinbar. Nach dieser Entscheidung könnten nun viele Migranten, die straffällig geworden sind und das bei ihrer Einbürgerung verschwiegen haben, wieder ausgebürgert werden.

Pétain & De Gaulle: Two Figures of a Tragic Destiny

Pétain & De Gaulle:
Two Figures of a Tragic Destiny

Dominique Venner

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

marechal_petain.jpgPétain, De Gaulle . . . Let us think for a moment about those personages from a far-off time.

First, what a astonishing destiny for Marshal Pétain! To have risen so high and fallen so low! In the long history of France, other great personages were admired, but surely none was loved more before being denigrated so much.

His misfortune was to inherit not only a defeat in which he played no part, but also a people, once great, that had fallen terribly low. Yet, he never gave up on his people.

General De Gaulle, whose destiny so often crossed his, did not nourish the same hopes or the same illusions: “I bluffed,” he confided to Georges Pompidou around 1950, “but the 1st army, they were Negroes and Africans [he meant to say “pied-noirs”]. The Leclerc division had 2,500 engaged in Paris. Actually, I saved face, but France did not follow. They collapsed! From the bottom of my heart, I tell you: all is lost. France is finished. I will have written the last page.” [1]

Even at his worst moments, Pétain could not have thought that.

He was born in 1856 to a peasant family in Picardy, under the reign of Napoleon III, before the automobile and electricity. Three times, he saw his fatherland invaded, in 1870, in 1914, and in 1940. The first time, he was a teenager, and his dream of revenge made him a soldier.

In 1914, he was 58 years old. His independence of mind had put the general’s stars out of reach. A mere colonel, he prepared to retire. The assassination of an Austrian archduke in Sarajevo and the conflagration of Europe decided otherwise. In the crucible, he was suddenly revealed. Four years later, he was that commander and chief of the victorious French Armies of 1918 and received the baton of Marshal of France. Of all the great leaders of this atrocious war, he was the only one loved by the soldiers. Unlike so many of his peers, he did not see his men as raw material. The victor of Verdun was one of the few who understood there is no point in winning if one’s own country is bled to death.

There are many explanations of the defeat of 1940, but for the old Marshal, one of the main causes was in the appalling bloodletting of 1914 to 1918. The holocaust of a million and half of young men had killed the energy of a whole people.

General-Charles-De-Gaulle.jpgThus the first priority was to keep these people as safe as possible from another slaughter. At the same time, Pétain hoped for a future renaissance through a “national revolution.” He has been attacked for that. Admittedly, all would be mortgaged by the Occupation. But really he had no choice. The “national revolution” was not premeditated. With all its ambiguities, it emerged spontaneously as a necessary remedy to the evils of the previous regime.

Today, in the safety and the comfort of a society at peace, it is easy to pass categorical judgments on the men of this that time. But those brutal, pitiless days could not be appeased by moral petitions. At every moment, they required decisions with cruel consequences that could lead to, as so often in times of war, to saving some lives by sacrificing others.

In Cangé, in the Council of Ministers, on June 13rd, 1940, having taken the full measure of the disaster, Marshal Pétain, his voice broken, outlined the policy he followed to the end, in 1944: “I declare that as far as I am concerned, outside of the government, if need be, I refuse to leave French soil. I will remain among the French people to share their sorrows and miseries.”

For those who did not assume the responsibility of government, it was permissible to take another side and symbolically raise the challenge of arms. And it is salubrious that some brave men made this choice. But what does that take away of the nobility to the sacrificial resolution of Marshal Pétain?

General De Gaulle’s adversaries try to minimize the scope and nobility of his own gesture, the call to open resistance. They point out that the Marshal’s former protégé had not jumped into the adventure without a parachute. They add that facing the Germans from London, behind a microphone, was less perilous than doing so in France in dramatic, unequal, daily interactions. Perhaps. But, parachute or not, the General’s choice to rebel was of rare audacity. The fruit of an unrestrained ambition, his detractors reply. Surely. But what can one accomplish without ambition?

This type of ambition, however, was lacking in Marshal Pétain. At the age of 84, with his record, he had nothing more to prove and everything to lose.

If our time were less intoxicated with petty politics and base resentments, we would have long ago celebrated the complementarity of two men who redeemed, each in his own fashion, that which is small, vile, and abject in our times.

Note:

1. Georges Pompidou, Pour rétablir une vérité (Paris: Flammarion, 1982), p. 128.

Source: Nouvelle Revue d’Histoire, no. 50, http://www.dominiquevenner.fr/#/edito-nrh-50-petain-de-ga...

mercredi, 17 novembre 2010

EU und China knüpfen engere Verbindungen, USA unterstützen Indien

EU und China knüpfen engere Verbindungen, USA unterstützen Indien

F. William Engdahl / ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

In den vergangenen Wochen hat die Volksrepublik China einzelnen EU-Ländern bemerkenswerte wirtschaftliche Offerten unterbreitet. Im Lichte der offenen Kritik, die China an der amerikanischen Zentralbank Federal Reserve und am US-Finanzministerium wegen deren jüngster abenteuerlicher Geldpolitik erhebt, ist diese Öffnung ein deutliches Anzeichen dafür, dass sich China, die am schnellsten wachsende Wirtschaftsnation der Welt, von einer Orientierung, die bislang hauptsächlich auf die USA ausgerichtet war, nun in Richtung EU bewegt. Dies würde weitreichende Auswirkungen haben.

 

 

Chinas Staatspräsident Hu Jintao hat soeben dreitägige Gespräche mit dem französischen Präsidenten abgeschlossen, bei denen sich beide Seiten auf neue Wirtschafts- und Handelsverträge in einem bisher noch nie erreichten Umfang von über 20 Milliarden Euro geeinigt haben. Es geht um Kernenergie, Luftfahrt, Finanzen, Energieeffizienz und Umweltschutz. Ein wichtiger Bereich ist die Beteiligung Frankreichs an Chinas ehrgeizigem Programm zur Ausweitung der Nutzung der Kernenergie. Nach Angaben des beteiligten französischen Kraftwerkbauers Areva werden die Beziehungen zu den chinesischen Partnern auf dem größten Kernkraftmarkt der Welt durch diese Verträge auf eine neue Stufe gehoben. China wird außerdem 100 neue Airbus-Maschinen kaufen.

Frankreich rollt für Chinas Präsident Hu den roten (!) Teppich aus, während China engere Verbindungen zur EU knüpft.

Präsident Hu folgte einer Einladung des französischen Präsidenten, der Anfang dieses Jahres China besucht hatte. In Paris trafen die beiden Staatschefs innerhalb von drei Tagen fünf Mal zu Gesprächen zusammen. Frankreich hat Hu buchstäblich einen »roten Teppich« ausgerollt und ihn mit allen Ehren empfangen. Die beiden Präsidenten unterzeichneten eine umfassende Erklärung, in der sie sich zur Festigung der strategischen Partnerschaft zwischen den beiden Ländern verpflichten.

Beide Länder sind ständige Mitglieder des UN-Sicherheitsrates mit Vetorecht, was politisch von großer Bedeutung ist. China ist darauf bedacht, Verbündete zu finden, um bestimmte Initiativen der USA blockieren zu können, wie beispielsweise zusätzliche Sanktionen gegen den Iran, der ein wichtiger Erdöllieferant für China ist. Außerdem wolle man sich gemeinsam mit Frankreich der Frage des iranischen Atomprogramms, der Entnuklearisierung der koreanischen Halbinsel und des Konflikts in Afghanistan annehmen. In Washington wird man darüber sicher nicht erfreut sein.

Die jetzt getroffene Vereinbarung stellt auch für Sarkozy und Frankreich eine bedeutende Wende dar, denn noch vor den Olympischen Spielen vor zwei Jahren hatte Frankreich für die amerikanischen Destabilisierungsversuche in China Partei ergriffen und den Dalai Lama und die mit amerikanischer Hilfe angefachten Unruhen in Tibet unterstützt. Eindeutigerweise schätzt die französische Wirtschaft bessere Beziehungen zu China jedoch als wichtiger ein als solche zu den USA, denn die US-Wirtschaft rutscht immer tiefer in die Depression, während China boomt.

 

Anschließend in Portugal

Im Anschluss an den Frankreich-Besuch reiste Präsident Hu nach Lissabon, wo er mit dem portugiesischen Premierminister José Sócrates Gespräche über die Entwicklung einer umfassenden strategischen Partnerschaft beider Länder führte. Dabei wurde über die Vertiefung der bilateralen Wirtschafts- und Handelsbeziehungen gesprochen. Hu unterstrich, er betrachte Portugal als potenziellen Alliierten in der Strategie zum Ausbau einer strategischen Partnerschaft zwischen China und Europa.

Den Staatsbesuchen des chinesischen Präsidenten in Frankreich und Portugal war die beispiellose Unterstützungsaktion Chinas für den griechischen Anleihemarkt vorausgegangen. Wie ich Anfang Oktober an dieser Stelle geschrieben habe, war der chinesische Premierminister zu einem überraschenden Staatsbesuch nach Griechenland gereist, in ein Land also, das normalerweise eines so hochrangigen Besuchs nicht würdig wäre. China bot Griechenland damals seine Hilfe bei der Schuldenkrise an. Bei einer Pressekonferenz Anfang Oktober in Athen erklärte Wen Jiabao: »Wir besitzen bereits griechische Staatsanleihen und werden solche auch in Zukunft kaufen. Wir werden Anstrengungen unternehmen, den Ländern der Eurozone und Griechenland zu helfen, die Krise zu überwinden.«

Insgesamt gesehen wird nun deutlich, dass man sich in Peking entschlossen hat, eine politische Wende in Richtung auf die Europäische Union zu vollziehen und sich schrittweise aus einer zu großen Abhängigkeit von Washington zu lösen. Bezeichnenderweise hält sich US-Präsident Barack Obama, der darum kämpft, seine angeschlagene Präsidentschaft nach der vernichtenden Niederlage bei den Zwischenwahlen zum US-Kongress zusammenzuhalten, derzeit zu einem Besuch in Indien auf, wo das Pentagon ausdrücklich seine eigene Version einer »militärisch-strategischen Partnerschaft« aufbaut. Wenn die USA Indien militärisch umgarnen, so haben sie dabei ein Land im Auge, das zu einer strategischen Bedrohung werden könnte: China. Doch China antwortet jetzt mit einer Gegenstrategie, sodass man in Washington die eigenen Initiativen vielleicht schon bald bereuen wird. Bleiben Sie dran …

 

Neo-liberaal denken: de kanker in onze samenleving

Neo-liberaal denken: de kanker in onze samenleving

3 november 2010 - Ex: http://www.zonnewind.be/
Door Joachim Sondern

arton2345.jpgOnze samenleving wordt van dag tot dag onmenselijker. De mensen wordt - geheel naar Amerikaans voorbeeld - steeds meer voorgehouden dat er alleen nog top of flop bestaat, met niets er tussenin. Geheel volgens het kapitalistische contrastdenken is er blijkbaar geen plaats meer voor de normale, menselijke middelmaat. Hoe ironisch is dat? Want de luidop zwijgende massa, die zonder vraagtekens deze anti-menselijke trend ondersteunt, heeft diep van binnen juist zeer veel behoefte aan meer menselijkheid. Maar men durft als individu niet zijn kop boven het maaiveld uit te steken, nieuwe accenten te zetten. Men wil tonen dat men wel-opgevoed is en zijn reputatie niet in gevaar brengen. Anderen met de vinger wijzen is natuurlijk ook veel gemakkelijker dan zelf eens in de spiegel te kijken. 

De Duitse TV-show 'Supertalent' was daarvan onlangs weer een goed voorbeeld. Door het zich als een kanker in de wereld verspreidende neo-liberalisme is het vroeger best 'gezellige' programma verworden tot een podium voor spot, hoon en haat. Maar na 1000 jaar moderne, Westerse geschiedenis zou de mens toch inmiddels moeten hebben geleerd waar het toe leidt wanneer we onze gevoelens van medemenselijkheid en empathie laten varen?

In het Duitse programma, een talentenjacht waarin jonge artiesten zich blootstellen aan het publiek en een zogenaamde vakjury, kwam kort geleden Michael Hemmersbach aan bod; een sympathieke straatmuzikant. Geheel conform onze materialistische maatschappij was de eerste vraag waar hij van leefde en of dat lukte van de straatmuziek. Het tafereel wat zich vervolgens ontspon was de moderne, neoliberale samenleving in een notendop. Met een sociale samenleving had het niets meer van doen. Groot was het gapende gat tussen de TV-show en de kenmerken van echte mede-menselijkheid.

Gestuurd door hun vooroordelen begon een deel van het publiek de jonge muzikant uit te joelen. Een man stond zelfs op, vouwde zijn handen rond zijn mond en riep "Donder op!". De regisseur gaf close-ups van het publiek nadat de jonge man op de vraag '"wie dat allemaal betaalde" had geantwoord: "Jullie met zijn allen". Op het TV-scherm verschenen beelden die men niet licht vergeet: hard, afwijzend, onmenselijk. Uit de gezichtsuitdrukkingen van het publiek was af te lezen dat deze kandidaat maar helemaal niets vonden. Binnen enkele seconden veranderde het boe-geroep echter in toejuichingen en applaus. Straatmuzikant Michael leverde een zeer goed optreden af en overtuigde met zijn muzikaal talent. Wat was er echter gebeurd als zijn optreden middelmatig was geweest? Er zaten slechts enkele minuten tussen, maar de dubbele moraal van onze Westerse samenleving werd nog maar een heel fijntjes duidelijk. De bijstandstrekkende straatmuzikant wordt per definitie afgewezen, is voor het publiek waardeloos. Dan blijkt hij over een groot talent te beschikken en lap! het publiek is om.

Het is een val waar de meeste mensen om ons heen steeds weer zeer snel in trappen. Het publiek kende straatmuzikant Michael niet, ze wisten niets van zijn achtergrond en hoe hij in de situatie waar hij in verkeerde terecht was gekomen. En dus werd er geoordeeld aan de hand van het opgedrongen beeld dat men heeft van een straatmuzikant: lui, laag opgeleid, arm en talentloos. Hoe goed was het dat Michael ze van het tegendeel wist te overtuigen? Waarom had men niet sowieso respect voor de keuze van een jonge muzikant? Waarom werd er meteen met de beschuldigende vinger gewezen naar een mens die nog niet veel succes had gehad in zijn leven?

Eern zelfde reactie was te zien bij een optreden van Robert Fröhlich en Sinan Aydin. De laatste begeleidde de eerste als beat box. De jury oordeelde dat Robert talent had maar dat hij alleen een ronde verder zou komen wanneer hij zonder Sinan Aydin verder zou gaan. De beat boxer moest zich daarnaast nog een aantal schandalige beledigingen van de jury laten welgevallen. Robert Fröhlich deed vervolgens het enige juiste: hij vond de vriendschap van jaren belangrijker dan zijn persoonlijke succes en liet de kans op de volgende ronde aan zich voorbij gaan. De jury maakte hem onmiddellijk uit voor "idioot", maar een deel van het publiek had waardering voor Roberts beslissing. De jury legde vriendschap echter uit als zwakte. Is dat vreemd in een samenleving met overwegend systeemzombies?

Echte vriendschap, familieleven, samenleven in een maatschappij van zich wederzijds respecterende burgers. Bestaat het nog? Meer en meer sluiten mensen zich op in hun kooitjes, lijken zichzelf te dwingen menselijke basiswaarden op te geven voor een klein beetje glitter. Glitter die menselijk gezien vaak helemaal niets waard is en die bijna altijd weer snel in rook opgaat.

Onze Westerse media geven graag een vertekend beeld. Maar de anti-menselijke tendens is ook in ons dagdagelijkse leven goed zichtbaar, wanneer men met de ogen open over straat loopt. Al wat telt is welke status een mens bereikt heeft, welke materiële waarde men vertegenwoordigt en hoeveel maskers men kan opzetten om iedereen welgevallig te zijn. Het kan en mag niet zo zijn dat de schijn die men wekt van groter belang is dan het eigenlijke wezen achter een mens. Uitgaande van de oorspronkelijke staat van de mens zijn we van alle levende wezens op deze planeet de minst onafhankelijke, autonome wezens. De aarde, het water, de lucht, de planten en de dieren - de mens heeft het allemaal nodig om te overleven. En toch hebben we ons ertegen gekeerd, vernietigen we de natuur - niet alleen door zeer onverstandig om te gaan met onze levensruimte, maar ook nog eens door ons wederzijds het leven zuur te maken. Elk mens heeft zijn eigen talent en zijn eigen waarde, zijn eigen manier van denken. Wie mensen op basis daarvan begint te classificeren lijkt zich niet bewust van de gruwelijke gevolgen die uit dergelijke boosaardigheid kunnen voortkomen.

Jammer.

Nog steeds hebben we niet geleerd uit de laatste duizend jaar moderne geschiedenis wat het lot van dergelijke mensen is. Zoals altijd gaat het nog steeds alleen maar om status en macht, en laten de mensen zich leiden door het angstaanjagende spelletje dat onze media heel bewust met ons spelen.

Misschien daarom een citaat om te besluiten:

"Gevangen in een vernietigende denkwijze, niet in staat de natuurlijke drijfveer van de mens te herkennen, steeds bezig de eigen dwangneuroses aan te wakkeren, zal hij op een dag ten onder gaan aan wat hij zelf gezaaid heeft, uit angst zijn eigen spiegelbeeld onder ogen te zien"

Faut-il sauver la ville des architectes?

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Faut-il sauver la ville des architectes ?

par Pierre LE VIGAN

Les architectes sont-ils coupables ? Bonne question. Encore faudrait-il savoir de quoi ? D’avoir tué la ville ? De ne pas avoir construit des villes à la campagne ? D’avoir trop pensé à leurs bâtiments et pas assez aux lieux alentours ? L’opprobre jetée sur les architectes est une vieille antienne. Et il est vrai que les architectes sont emblématiques de certains maux. La « starisation », la médiatisation, les architectes les plus connus y participent. Pour autant, qui fait la ville ? Qui produit de l’urbain, ou, bien souvent, de l’anti-urbain ? Les architectes un peu, mais plus encore les élus, et les hauts fonctionnaires, et les promoteurs immobiliers. Les architectes ne seraient rien – et surtout ne pourraient rien – sans les maîtres d’ouvrage, ceux qui sont à l’origine de la commande de tel bâtiment, immeuble, bureaux, école, campus, etc.

Architecte de formation, Franco La Cecla tonne contre l’architecture médiatique qui oublie que la ville est un bien public. Les architectes croient contrôler quelque chose mais « leurs œuvres sont immanquablement englouties dans l’indifférence du shopping ». L’architecture de l’hypercapitalisme, du « capitalisme de casino » produit des marques mais non pas des lieux, des vitrines plus que des habitats.

La pratique de la ville a été longtemps à  l’échelle de l’homme. Dans la marche en ville, le corps devient manuscrit. La ville était un long apprentissage. Or, le gigantisme urbain tue la marche au profit des transports individuels ou collectifs. Les trajets disparaissent au profit des déplacements dans un immense réseau sans lisibilité globale.

Face à la perte des repères en ville, les solutions radicales sont parfois aussi inappropriées que l’ont été les constructions des années 50 à 70. « Faut-il raser les grands ensembles ? » s’interrogeait Le Monde il y a déjà presque une génération, le 23 janvier 1982. Si la question de démolir et de reconstruire autrement ne peut être taboue, encore faut-il ne pas repeindre le cadre de la misère ni simplement la déplacer. La ville demande de la durée. Les grands ensembles ont généralement été construits en déplaçant des populations issues de quartiers insalubres où les logements étaient souvent très exigus. C’était une mauvaise réponse à un vrai besoin. Mais un traumatisme nouveau ne répare pas un ancien traumatisme, il l’aggrave. Quels que soient les défauts de conception des grands ensembles, la destruction est encore une hybris. Franco La Cecla s’insurge : « La démolition est bien devenue le plus grand business urbain de ces vingt dernières années et, selon moi, il est fort probable qu’elle déferle sur l’Europe avant même qu’on ait fini de s’interroger sur le sort des banlieues. » Dans la construction comme dans la destruction, la banlieue se fait ainsi sans et contre ses habitants. « Il s’agit, au fond, d’une élaboration consciente de la laideur, d’une injure faite aux savoirs et aux pratiques millénaires de l’architecture et de l’habitat. » Face à cela, c’est à l’inventivité sociale des habitants eux-mêmes qu’il faut recourir, afin de trouver des alternatives aux lieux monofonctionnels, si prisés des politiques et des planificateurs, car ils simplifient la gestion, mais si contraires aux besoins multiformes des hommes.

C’est pour laisser place aux initiatives des habitants que Franco La Cecla propose donc « moins d’architecture », une décroissance de l’architecture, seul moyen de faire naître une autre architecture, qui ne soit plus une architecture d’accompagnement de la marchandisation du monde, mais soit au service de la ville comme bien public appartenant à tous ses habitants. Une architecture de la sobriété heureuse ?

Pierre Le Vigan

• Franco La Cecla, Contre l’architecture, Arléa, 175 p., 15 €.


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Remembering René Guénon

Remembering René Guénon

Edouard RIX

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

Editor’s Note:

This essay and the one that follows are presented in commemoration of René Guénon’s birth on November 15, 1886.

rene_guenon.jpgOn January 7th, 1951, the Frenchman René Guénon, one of the principal representatives of Traditional thought in the 20th century, died in Cairo.

From Occultism to Esotericism

Guénon was born in Blois, on November 15, 1886, to a strongly Catholic family. In 1904, after a pilgrimage to Lourdes, he went to Paris to continue his education. A dawdler, he only obtained his license when he was 29, then at 32 he failed his aggregation in philosophy when his doctoral thesis, devoted to “A General Introduction to the Study of Hindu Doctrines,” was rejected.

Parallel to his studies, Guénon frequented, from his arrival in the capital, the occultist milieu, launching himself headlong into a series of affiliations and initiations. He entered the Hermetic School, was received into the Martinist Order, attended various occultist Masonic organizations, was initiated in the Tebah Lodge of the Grand Lodge of France. In 1908, he was secretary of Second Spiritualistic and Masonic Congress and became Sovereign Grand Commander of the Order of the Renovated Temple. At the age of 23, he was consecrated “bishop of Alexandria” of the Gnostic Church of France, under the name of Palingénius and became editor of La Gnose, “the monthly review devoted to the study of esoteric sciences.”

After several disappointing experiences in the occultist milieu, he turned to the East to find the right path, that of “initiatory Knowledge.” After being interested in Taoism, he was initiated in 1912 into Sufism, an Islamic initiatory current, without embracing the Islamic religion, as he would later explain to a correspondent. Having learned Chinese and Arabic, reading the original texts, he tried to work with initiates in each tradition.

While giving his own lessons and courses of philosophy, René Guénon wrote many articles for Catholic publications like the Revue universelle du Sacré-Cœur Regnabit and Traditionalist publications like the Le Voile d’Isis (Veil of Isis), which became Etudes traditionnelles. He also published books.

The Tradition Against the Modern World

In his Introduction to the Study of Hindu Doctrines (1921), and the Man and His Becoming According to the Vedanta (1925), he defined the criteria of universal traditional metaphysics. For Guénon, Tradition means the whole of “metaphysical” knowledge of order: it admits a variety of forms, while remaining one in its essence.

He insists on the idea, already formulated before him by Joseph de Maistre and Fabre d’ Olivet, of a primordial Tradition, which goes back to a supreme Center, the repository of all spiritual knowledge, which diffuses it by the means of “initiatory chains” present in the various religious paths. In Perspectives on Initiation (1946), he defended the need to attach oneself to  a “chain,” to a “regular organization,” but hardly offers an alternative to those who refuse to defer, like him, to Muslim or Oriental ones. But in all fairness, he recognizes that in spite of its degeneration Freemasonry remains in theory a conduit of genuine initiation.

The most interesting aspect of Guénon’s work lies in his radical criticism of the modern world, to which he opposes the world of Tradition as a positive foil. According to him, traditional civilization,which was realized in the Orient as well as the West—India, Medieval Catholicism, Imperial China, the Islamic Caliphate—rests on metaphysical foundations. It is characterized by the recognition of an order higher than anything human and the authority of elites which draw from this transcendent plane the principles necessary to found an articulated social organization.

This rests on the division of society into four castes or functional classes: at the top representatives of spiritual authority, then a warlike aristocracy, a middle-class of the merchants and craftsmen, and finally the toiling masses. This concept of caste refers obviously to the Hindu, Indo-Aryan system, divided between the Brahmins, Kshatriyas, Vaishyas, and Shudras. In the same way, ancient Iran, Greece, and Rome also had somewhat analogous social organizations, which one finds, moreover, in the political doctrines of Plato. The ultimate revival of this system in the West was the feudal Middle Ages, the clergy corresponding to the Brahmins, the nobility to the Kshatriyas, the third estate with the Vaishyas, and the serfs with the Shudras.

The polar opposition of the world of the Tradition is held to be modern civilization, which is characterized by desacralization, ignorance of all that is higher than man, materialism, frenzied activity.

Two major books, The Crisis of the Modern World (1927) and The Reign of Quantity and the Signs of  the Times (1946) contain the essence of this critique, to which one can add East and West (1924), which holds that the only remaining Traditional civilizations are in the East. This led Guénon to move to Cairo in 1930, where he took the identity of Sheik Abdel Wahid Yahia.

The Regression of the Castes

René Guénon was never politically active, although he moved in the Parisian circles of Action française, because he believed that “at present, there is no movement deserving one’s adherence.”

For him, we are at the end of a cycle, in the Kali Yuga or “Dark Age” of the ancient Hindu texts or Hesiod’s “Iron Age.” His interpretation of the course of History as decline, resolutely anti-Marxist and reactionary, rests on the idea of the “regression of the castes.” In quasi-mythical times, society is ruled by sacred Kings ruling by divine right selected from the first caste. This is followed by the reign of the warlike caste, secular monarchs, military chiefs, or lords of temporal justice, which comes about in Europe with the decline of great monarchies. Then comes rule by the third estate, the middle-class, aristocracy giving way to plutocracy. Finally comes rule by the last caste, the working class, which finds its logical conclusion in Communism and Sovietism.

The idea of the regression of the castes was taken up by Julius Evola in his masterpiece, Revolt Against the Modern World, published in 1934. Guénon, moreover, allowed the publication of his writings in the cultural page edited by Evola from 1934 to 1943 in the daily newspaper Il Regime Fascista.

Knowledge and Action

Although Evola is indebted to Guénon in many ways, they differ on one point: the relationship of spiritual authority and temporal power, i.e., priesthood and royalty. In its book Spiritual Authority and Temporal Power published in 1929, Guénon affirms the primacy of the priesthood over royalty. For him, the Brahmin is higher than the Kshatriya because knowledge is higher than action and the “metaphysical” domain higher than the “physical.” Even if the members of the sacerdotal caste no longer appear worthy of their function, the validity in principle of their superiority cannot be denied lest one risk the disintegration of the socio-political system. Evola, however, who thought that Western culture is rooted in a “tradition of warriors,” defends the opposite thesis, claiming that Guénon’s reasoning is marked by “brahmanico-sacerdotal point of view of an Oriental.”

Faithful to his nature as a Brahmin, as a sage, René Guénon was more a witness of the Tradition than an actor in his time, contrary to the Kshatriya, the warrior Julius Evola, the 20th century’s only true rebel against the modern world.

Source: “Un témoin de la Tradition: René Guénon,” http://www.voxnr.com/cc/ds_tradition/EpZpkZVVlAJuBArRHD.s...

mardi, 16 novembre 2010

Washington treibt Pakistan in Allianz mit China

Washington treibt Pakistan in Allianz mit China

F. William Engdahl / http://info.kopp-verlag.de/

 

Sollte es das Ziel von Hillary Clintons State Department sein, die Bildung einer wachsenden Allianz von Staaten zu forcieren, die die US-Außenpolitik ablehnen, dann ist diesem Bemühen glänzender Erfolg beschieden. Das jüngste Beispiel ist Pakistan: Die USA machen Druck, weil Pakistan angeblich zu »sanft« mit den Taliban und al Qaida (oder was die USA so bezeichnen) umgeht. Der Effekt ist, dass Pakistan in eine engere Allianz mit China, dem einstigen Partner in der Zeit des Kalten Krieges, gedrängt wird, und zu den USA auf Abstand geht.

 

 

Im Im vergangenen Monat hat Obamas Präsidialamt dem US-Kongress einen Bericht übermittelt, in dem der pakistanischen Armee vorgeworfen wurde, sie vermeide »militärische Einsätze, die sie in direkten Konflikt mit den afghanischen Taliban oder mit al-Qaida-Kämpfern bringen würden«, dies sei eine »politische Entscheidung«. Der Druck, den die USA in den vergangenen Monaten erzeugt haben, um den Krieg in Afghanistan auf das benachbarte Kirgisistan und jetzt auch Pakistan auszuweiten, birgt die Gefahr, dass in der gesamten Region, die ohnehin zu den instabilsten und chaotischsten der ganzen Welt zählt, ein Krieg ausgelöst wird, bei dem zwei Atommächte, nämlich Indien und Pakistan, in eine direkte Konfrontation geraten könnten. Die Politiker in Washington scheinen nicht den geringsten Schimmer von der komplizierten, historisch gewachsenen Kluft zwischen den Stämmen und Ethnien in der Region zu haben. Anscheinend glauben sie, mit Bomben ließe sich alles lösen.

Wenn die Regierung in Pakistan nun verstärkt unter Druck gesetzt wird, so werden dadurch allem Anschein nach die militärischen und politischen Bindungen an Washington nicht etwa gefestigt, wie es noch unter dem Ex-Präsidenten, dem »Starken Mann« Musharraf in gewisser Weise der Fall gewesen war. Vielmehr wird Pakistans jetziger Präsident Asif Zardari China, dem geopolitischen Verbündeten aus der Zeit des Kalten Krieges, in die Arme getrieben.

Laut einem Bericht in Asian News International hat Zardari in Washington bei einem Treffen mit Zalmay Khalilzad, dem ehemaligen US-Botschafter in Pakistan und neokonservativen Kriegsfalken, die US-Regierung beschuldigt, sie »arrangiere« die Angriffe, die den Taliban in Pakistan angelastet werden, um einen Vorwand zu schaffen, unbemannte Drohnen auf pakistanisches Gebiet abzufeuern.* Angeblich habe Zardari gesagt, die CIA habe Verbindungen zu den pakistanischen Taliban, die als Tehrik-e-Taliban-e-Pakistan oder TTP bekannt sind.

Obwohl das Militär in Pakistan von der Unterstützung der USA abhängig ist, herrscht Berichten zufolge im Land eine stark anti-amerikanische Stimmung, die weiter angeheizt wird, wenn Zivilisten bei amerikanischen Drohnenangriffen verletzt oder getötet werden. Auch über die wachsenden militärischen Kontakte Washingtons zu Pakistans Rivalen Indien herrscht große Empörung.
Angesichts der stärkeren Hinwendung Washingtons zu Indien setzt die pakistanische Elite im einflussreichen Sicherheits-Establishment verstärkt auf die Beziehungen zwischen Islamabad und Peking. Pakistan und China verbindet eine, wie oft gesagt wird, »wetterfeste« Freundschaft: eine Allianz aus der Zeit des Kalten Krieges, die aus der geografischen Lage und der beiderseitigen Antipathie gegen Indien erwachsen ist.

Anfang dieses Jahres hat China angekündigt, in Pakistan zwei Atomkraftwerke bauen zu wollen, eine strategische Antwort auf das Nuklearabkommen zwischen Indien und den USA. Dem Vernehmen nach verhandelt der staatliche chinesische Atomkonzern China National Nuclear Corporation zurzeit mit den pakistanischen Behörden über den Bau eines Atomkraftwerks mit einer Leistung von einem Gigawatt.

China hat Pakistan für die Zusammenarbeit bei der Bekämpfung potenzieller muslimischer Aufstände in der Unruheprovinz Xinjiang an der Grenze zu Pakistan und Afghanistan gewonnen. Außerdem baut China Dämme und Anlagen zur Erkundung von Edelmetallen. Von größter strategischer Bedeutung ist der von China betriebene Bau eines Tiefseehafens in Gwadar am Arabischen Meer in der pakistanischen Provinz Belutschistan, von dem aus Öl aus dem Nahen Osten über eine neue Pipeline in die chinesische Provinz Xinjiang transportiert werden soll. Washington betrachtet dies beinahe als kriegerische Handlung gegen die US-Kontrolle über den strategisch lebenswichtigen Ölfluss aus dem Nahen Osten nach China. Die Unruhen ethnischer Uiguren in Xinjiang im Juli 2009 trugen eindeutig die Handschrift amerikanischer NGOs und Washingtoner Geheimdienste, anscheinend sollte damit die wirtschaftliche Tragfähigkeit der Pipeline untergraben werden.

China dringt auch in Süd- und Zentralasien weiter vor, verlegt Pipelines über das Gebiet ehemaliger Sowjetrepubliken und erschließt die Kupferfelder in Afghanistan.
Nach Aussage des pensionierten indischen Diplomaten Gajendra Singh »zeigt Hintergrundmaterial in britischen Archiven, dass London sich ein schwaches Pakistan als Verbündeten im Süden Sowjetrusslands geschaffen hat, um die westlichen Ölfelder im Nahen Osten zu schützen, denn die sind noch immer der Preis, um den der Westen im Irak, im Iran, in Saudi-Arabien und anderen Gebieten am Golf, am Kaspischen Becken und in Zentralasien kämpft«.

Nouvelle revue d'histoire, n°51: Les Années 30 - Rêves et révolutions

 

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CIA-tactieken binnenkort ook in Europa?

CIA-tactieken binnenkort ook in Europa?
Wie pleegt de bomaanslagen in Irak?


22 juli 2010 - Ex: http://www.zonnewind.be/

Door Christopher King

voitures-piegees-explose-quasi.jpgAutobommen en andere soorten aanslagen zijn dagelijkse kost in Irak, ondanks officiële retoriek dat het geweld is afgenomen. Op 18 juli vernamen we het nieuws dat er 43 doden vielen en 40 mensen gewond raakten door een zelfmoordaanslag in het zuid-westen van Bagdad. Volgens Christopher King is het zeer waarschijnlijk dat de CIA - of Israël in opdracht van de CIA - verantwoordelijk is voor de aanslagen, om zo de bezetting van Irak te mogen voortzetten en verder uit te bouwen, net als de andere aanslagen het werk zijn van de CIA of Israël, om de militaire aanwezigheid in het Midden-Oosten en zuid-oost Azië te rechtvaardigen.

Op 10 mei waren er meer dan tien bomaanslagen en schietpartijen in Irak. Daarbij kwamen 85 mensen om het leven en raakten meer dan 300 personen gewond. Dit waren gecoördineerde aanslagen, duidelijk gepleegd door één en dezelfde organisatie.

Het antwoord van de Verenigde Staten op deze en andere aanslagen was de plannen voor een terugtrekking van zijn troepen uit Irak uit te stellen. Eén van Obama's verkiezingsbeloften was om de Amerikaanse troepen uit Irak terug te trekken tegen mei 2010. Het is inmiddels niet alleen vrij duidelijk dat dat niet gebeurd is, maar tevens kwamen we na de verkiezingen te weten wat "terugtrekking" inhield: 50.000 manschappen zullen achterblijven als 'instructeurs', naast 4.500 speciale eenheden en tienduizenden huurlingen.

Op dit moment wordt zelfs de beloofde terugtrekking heroverwogen omdat men zich zorgen maakt om de veiligheid van de Iraakse burgers. Denkend aan de meer dan 1 miljoen Iraakse burgerslachtoffers en de vier tot vijf miljoen mensen die op de vlucht zijn voor de ellende van de bezetting is het moeilijk voor te stellen dat men in Washington zo diep getroffen is door een paar honderd slachtoffers door 'binnenlandse' schermutselingen. Sommigen noemen dat een vooruitgang in de Amerikaanse benadering...

Terwijl de aanslagen van de laatste maanden de VS een excuus geven om de symbolische terugtrekking verder uit te stellen, moeten we eens nadenken over wie er achter de aanslagen kunnen zitten.

Er wordt al langer beweerd dat de CIA, met behulp van lokale groeperingen achter de aanslagen zit. Het zijn de typische smerige trucs van deze duistere organisatie, die bovendien worden gefinancierd door de Amerikaanse regering. Zolang er olie in de grond zit in Irak zullen de VS het land nooit verlaten, en mede daarom is het ongelooflijk dat de Westerse media en zelfs de vredesbewegingen nog geloven in een terugtrekking van de Amerikaanse troepen. Terugtrekken was nooit de bedoeling van de VS. Een leger dat maar tijdelijk wil blijven bouwt geen versterkte legerbases zoals de VS dat in Irak - en elders in Azië - hebben gedaan en nog steeds doen. Het is daarom zeer vervelend voor de VS dat de verkiezingen in Irak eerder dit jaar niet de gewenste trekpop aan de macht hielpen.

De recente serie aanslagen, naast een lange reeks kleinere - maar niet minder dodelijke - aanslagen is niet het werk van een klein groepje extremisten. Het gaat hier om een grote, goed georganiseerde organisatie met veel financiële middelen en uitgebreide Westerse ondersteuning.

De gebruikelijke, niet nader genoemde regeringsmedewerkers van onduidelijke nationaliteit beweren uiteraard dat 'Al-Qaeda' verantwoordelijk is voor de aanslagen. Waarom ook niet, niet waar? Maar werd generaal David Petraeus niet geëerd voor zijn succes in het volledig elimineren van die spookorganisatie in Irak? Of was dat slechts het gevolg van zijn betalingen aan de Awakening Councils zodat die het klusje klaarden? Was 'Al-Qaeda' überhaupt ooit in Irak? Aangezien de hele aanval op Irak gebaseerd was op een dik pak leugens hebben we namelijk sowieso geen enkele reden om ook maar iets te geloven van wat de Amerikaanse regering, het leger of de Westerse gevestigde media over Irak of enig ander conflict waar Westerse landen bij betrokken zijn te geloven.

Ook de mensen die actief zijn in Irak weten vaak niet wie wat doet, en de loyaliteiten veranderen dagelijks. Daarnaast is het zeer aannemelijk dat 'Al-Qaeda' helemaal niet wil dat de VS uit Irak vertrekken, omdat de aanwezigheid de Amerikanen grote schade berokkent. Er zijn zelfs Iraakse groeperingen die munt slaan uit de Amerikaanse aanwezigheid en die willen dat ze blijven. Of dergelijke groeperingen in staat of zelfs bereid zouden zijn aanslagen op een dergelijke schaal te plegen is zeer twijfelachtig.

Daarnaast is het zeer waarschijnlijk dat dat hele 'Al-Qaeda' niet bestaat. Het is de Amerikaanse boeman, gebruikt om de mensen angst aan te jagen. Maar er zit sleet op. Net als op de pauzeloze beschuldigingen aan het adres van Iran dat zij achter de vele aanslagen in Irak zouden zitten. Niet dat daar ooit enig bewijs voor geleverd wordt. Daarbij is met Irak ook een Iraanse concurrent tijdelijk of voorgoed uitgeschakeld. Het is allemaal onzinnige propaganda - net zoals Saddam's nucleaire programma, zijn massavernietigingswapens, zijn ondersteuning van 'Al-Qaeda' en zijn mobiele chemische laboratoriums dat waren. Inmiddels is uitgebreid aangetoond dat dat allemaal verzinsels waren.

Wat wel zeker is? Het feit dat de Amerikaanse invasie van Irak ongekende vernietiging heeft veroorzaakt en dat de voortdurende aanwezigheid van de Amerikanen het grootste probleem van de Iraakse bevolking is - en die van Israël uiteraard.

Ja, de Israëliërs zijn ook in Irak, en ze zijn niet zo gek op Arabieren. In 2005 hoorden we dat ze in Noord-Irak de Koerden trainen. Brigade-Generaal Janis Karpinski, aangeduid als hoofdverantwoordelijke voor de mishandeling van gevangenen in Abu Ghraib zei dat ze geschokt was toen ze zag dat er Israëlische ondervragers werkzaam waren in Irak. Er valt dus genoeg te ontkennen voor de Amerikanen en voor de CIA, wanneer er zo nu en dan vragen gesteld worden. Wanneer Amerikanen en Israëliërs ergens samenwerken is dan ook alles mogelijk. Zagen we onlangs geen Israëlische 'instructeurs' in Georgië?

De Israëliërs, de CIA, het Amerikaanse en het Britse leger vermoorden allemaal met regelmaat verdachte 'militanten' en tegelijkertijd grote aantallen onschuldige burgers - vrouwen en kinderen. Niemand is in hun ogen onschuldig. Het zijn moslims, ziet u... In scene gezette aanslagen zijn dat ook niet iets waar de Amerikaans-Israëlische broederschap zijn hand voor omdraait. We weten allemaal hoe Israël op 8 juni 1967 probeerde de USS Liberty tot zinken te brengen, en hoe het Amerikaanse ministerie van Defensie vervolgens (zoals zo vaak) samenspande met de Israëliërs om de aanslag in de doofpot te stoppen. Opvarenden van de Liberty werden bedreigd om niet over het incident te spreken. De meeste Amerikanen hebben geen weet van het incident, dat met toestemming van de Amerikanen plaatsvond om later de Syriërs of de Egyptenaren de schuld te kunnen geven. De Amerikaans-Israëlische broederschap gaat veel verder dan de meeste burgers bereid zijn te onderkennen en het is daarom belangrijk om te proberen de manier van denken die bereid is tot het offeren van de eigen soldaten te doorgronden.

Waarom zouden we geloven dat de pleger van de 'aanslag' op Times Square, Faisal Shahzad dat deed in opdracht van de Pakistaanse Taliban – ook al denkt hij dat zelf? Hebben ze hem misschien hun lidkaarten getoond? Of waren deze Taliban misschien eerder van een Pakistaanse organisatie die gesteund werd door de CIA en Israël om Amerikanen te laten denken dat er een Pakistaanse Taliban bestaat die de VS willen aanvallen - allemaal om de Westerse misdaden te rechtvaardigen en de oorlog aan de praat te houden?

Faisal Shahzad simplistische constructie explodeerde niet en dat was ook nooit de bedoeling. Het was zelfs geen bom, slechts enkele jerrycans benzine, een paar gasflessen, wat vuurwerk en de verkeerde soort kunstmest. Volledig onschadelijk, maar zeer deugdelijk om de gemiddelde burger in de VS en Europa de stuipen op het lijf te jagen.

Je kunt geen wereldrijk opbouwen zonder collaborateurs in de bezette gebieden. Ze worden echter makkelijk gevonden, en Faisal Shahzad was er zo een. Net als Mahmoud Abbas, de Sjah van Perzië, Karzai in Afghanistan, Maliki in Irak, Tony Blair en Gordon Brown in Groot-Brittannië en Jan-Peter Balkenende en Maxim Verhagen in Nederland. Naast dergelijke kopstukken is uiteraard de medewerking van het grootste deel van het politieke establishment nodig om militaire bases in de bezette gebieden te kunnen vestigen - zie waar de bijna 800 militaire bases gevestigd zijn en je kent de vazalstaten van het Amerikaanse Rijk.

We krijgen een constante stroom tegenstrijdige berichten van de Amerikanen en onze eigen medeplichtige, onderworpen oorlogsmisdadigers te verwerken: ze gaan zich terugtrekken uit Irak en Afghanistan, maar tegelijkertijd zal het een lange oorlog worden. Het doel van deze onzin is om iedereen iets te geven dat ze kunnen geloven en tegelijkertijd iets om te negeren. Het is geavanceerde psychologie.

Maar goed, het zijn barre tijden en er is zeer dringend behoefte aan eerlijke, oprechte mensen die bereid zijn op te treden om Europa te redden. Europa redden betekent eerst en vooral een terugtrekking van alle Europese troepen uit Azië en niet langer betrokken zijn bij de Amerikaanse misdaden tegen de mensheid. Maar het is niet gemakkelijk. Enkele vazalstaten hebben al mogen ondervinden hoe lastig het is van de Amerikaanse bloedzuigers af te komen. Japan wil af van de Amerikaanse bases op Okinawa, maar de Amerikanen weigeren te vertrekken. Duitsland, Nederland en België willen de Amerikaanse kernwapen van hun grondgebied verwijderd zien. Maar de VS stellen dat dat een NAVO-kwestie is en de inmiddels bekende niet nader genoemde regeringsmedewerkers zeggen dat "individuele staten geen standpunt moeten innemen over unilaterale vraagstukken". Wat moet je dan?

Met de NATO First Act of the United States, zal het virtueel onmogelijk zijn om de Amerikaanse legerbases en de Amerikaanse kernwapens uit Europa te verwijderen, hoezeer Europese landen dat nu of in de toekomst ook zouden willen. Want hoewel de First Act zegt dat op verzoek van Europese landen bases gesloten kunnen worden en kernwapens verwijderd, blijkt in de realiteit dat de VS dat helemaal alleen beslissen. En dat is logisch. Zouden de Romeinen uit Gallië vertrokken zijn op verzoek van de lokale bevolking?

Nu denkt u misschien dat de huidige economische crisis en de situatie in het Midden-Oosten slecht zijn. Fout. Het is nog veel erger. Denk niet dat wat de VS en Israël uitspoken in het Midden-Oosten niet ook in Europa zou kunnen gebeuren. Denk niet dat er geen Europese vredesactivisten naar Guantanamo zullen verdwijnen wanneer het verzet tegen Amerikaanse bases en kernwapens in Europa groeit. Ons Europese politieke establishment collaboreert met de Amerikaanse bezetter en zal u zonder meer uitleveren wanneer Washington daarom vraagt. Uiteraard voelt het niet als een bezetting - zolang we meewerken. Met Amerika onder toenemende (zelf gecreëerde) economische en geopolitieke druk ziet de toekomst voor Europa er even somber uit als de toekomst van de andere gebieden die de VS hebben bezet.

Nu al zien we onze vrijheden ernstig aangetast als het gaat om gevoelige kwesties. Protest tegen oorlogen en kernwapens is ook in Europa nauwelijks nog mogelijk zonder te stuiten op bruut optreden van de overheden c.q. politie. Wie 'The End of America' van Naomi Wolf heeft gelezen weet dat de stap van willekeurig politiegeweld tijdens vreedzame demonstraties zoals we het nu zien, naar een stadion met 7.000 opgesloten tegenstanders van het regime (Pinochet, 1973) niet zo groot is. De bomaanslagen in Irak en Afghanistan zijn dus wellicht niet zo ver weg, en de vraag wie er werkelijk achter zit verdient wel degelijk uw aandacht.

La ballade de Marc Hanrez

La ballade de Marc Hanrez

9782888920588.jpgLes lecteurs de ce blog (*) n'ignorent pas que Marc Hanrez fut l’un des pionniers de la recherche célinienne. Auteur en 1961 d’une des premières monographies sur Céline (1), il a publié, il y a quatre ans, une somme réunissant ses principaux articles sur l’écrivain (2). Il fut aussi le maître d’œuvre d’un important cahier de L’Herne sur Drieu La Rochelle (3). Et l’auteur d’innombrables études sur ses écrivains de prédilection, d’Abellio à Nimier en passant par Proust ou Genet. Ce que l’on sait moins, c’est qu’il est aussi, et depuis longtemps, poète. Poète discret puisque son premier recueil, La Grande chose américaine, a paru en 1992 (4), le suivant, Colomb, Cortex & Cie, datant de 2004 (5). Jamais deux sans trois. Voici que paraît Chemin faisant, ballades (en vers libres) remontant le temps.
Marc Hanrez avait dix ans en 1944. Dans la première partie de ce recueil, « Grandir en guerre », il fait revivre son enfance bruxelloise sous l’occupation, puis à la Libération. Prodigieuse puissance de la mémoire ! Mille et une images gravées et autant d’émotions. L’humour aussi qui affleure parfois :
« dans notre tram ce jour-là monte
en culotte de cheval
un officier allemand
quelle mouche alors me pique
avant-bras levé de faire un salut
que l’autre par réflexe rend au polisson »

La partie intitulée « L’Europe se lève à l’est » évoque trois villes, Vienne, Budapest et Prague, bousculées par l’histoire au siècle précédent :

« Vienne en première vision
l’année du Troisième Homme
ce film-culte avant la lettre
aussitôt vénéré pour son
thème à la cithare et son tournage
en clairs-obscurs
la ville entière me servant de cadre
au visage idole d’Alida Valli
et voir sourire Orson Welles causant
guerre et paix version suisse
au pied de la Grande Roue »

La force du texte, c’est, en quelques mots sobres, de ressusciter toute une époque enfouie mais à jamais vivante sous la plume imagée du poète. La troisième partie, « À verbe d’oiseau », nous le montre en observateur attentif de la nature. Le meilleur Jules Renard, celui du Journal, trouve ici un épigone inattendu. Et de conclure par un hommage à Hergé, immortel créateur de Tintin, tous deux « Bruxellois de souche » — comme l’est aussi Marc Hanrez.

Marc LAUDELOUT

• Marc Hanrez, Chemin faisant (Ballades), Xénia Éditions, 2010.
Note:
(*) http://lepetitcelinien.blogspot.com/

1. Céline, Éd. Gallimard, coll. « La Bibliothèque idéale », 1951 (éd. révisée en collection de poche, 1969). Robert Poulet le considérait comme « un ouvrage consciencieux, intelligent, d’un jugement qui semble parfaitement libre » (Pan, 20 décembre 1961 ; compte rendu repris dans Le Bulletin célinien, n° 254, juin 2004). Voir aussi Le Bulletin célinien, n° 279, octobre 2006 qui comprend un dossier consacré à Marc Hanrez.
2. Le Siècle de Céline, Dualpha, coll. « Patrimoine des lettres », 2006.
3. Drieu La Rochelle, Les Cahiers de l’Herne, n° 42, 1982.
4. La Grande chose américaine (illustrations de Paul Hanrez), Cadex Éditions, 1992.
5. Colomb, Cortez & Cie, Cadex Éditions, 2004.

The Primordial Tradition: A Tribute to Ananda Coomaraswamy

The Primordial Tradition:
A Tribute to Ananda Coomaraswamy

by Ranjit Fernando

Ex: http://www.freespeechproject.com/ 

Ananda_Coomaraswamy_80232_200.jpgAnanda Coomaraswamy once suggested that Buddhism has been so much admired in the West mainly for what it is not; and he said of Hinduism, that although it had been examined by European scholars for more than a century, a faithful account of it might well be given in the form of a categorical denial of most of the statements that have been made about it, alike by European scholars and by Indians trained in modern modes of thought.

In the same way, it could perhaps be said of Coomaraswamy himself, that he is admired in Lanka, as in India, almost entirely for what he was not, and that a true account of his ideas might well take the form of a denial of most of the statements made about him in the land of his birth.

Coomaraswamy has long been presented, both in India and in Lanka, as a patriot, a famous indologist and art historian, an eminent scholar and orientalist; it would be as well to examine the validity of these widely-held beliefs about a man who was undoubtedly one of the greatest figures of our time.

The subject matter of all Coomaraswamy's mature writings can be placed under one heading, namely, Tradition. The Tradition that he writes about has little to do with the current usage of this term to mean customs or social patterns that have prevailed for some time. Coomaraswamy's theme is the unchanging Primordial and Universal Tradition which, as he shows, was the source from which all the true religions of the present as well as the past came forth, and likewise the forms of all those societies which were molded by religion.

The particular aspect of Tradition which Coomaraswamy chose as his own specialty -- the one best suited to his own talents -- was, of course, the traditional view of art, now mainly associated with the East, but once universally accepted by East and West alike, as also by the civilizations of antiquity and, indeed, by those societies which we are pleased to call primitive. Coomaraswamy never tired of demonstrating that the traditional view of life and of art was always the universal and normal view until the Greeks of the so-called classical period first introduced a view of life and of art fundamentally at variance with the hitherto accepted view.

In his aversion to what has been called 'the Greek miracle', Coomaraswamy is at one with Plato whose attitude to the changes that were taking place in his time was, to say the least, one of the strongest disapproval. Coomaraswamy shows, as Plato did, that the view of life and of art invented and glorified by the Greeks, and subsequently adopted by the Romans was, in the context of the long history of mankind, an abnormal view, an aberration; and that although this view lost its hold on men's minds with the rise of Christendom in the Middle Ages, it was to re-establish itself with greater force at the Renaissance thus becoming responsible for the fundamental ills of the modem world.

In all traditional societies, quite apart from his ability to reason, man was always considered capable of going further and achieving direct, intuitive knowledge of absolute truth which, as the traditionalist writer, Gal Baton says, "carries with it an immediate certainty provided by no other kind of knowledge."

"In the modem world," he continues, "we think in terms of "intellectual progress", by which we mean a progress in the ideas which men formulate with regard to the nature of things; but, from the point of view of traditional knowledge, there can be no progress, except in so far as particular individuals advance from ignorance to reflected or rational know ledge, and from reason to direct intuitive knowledge which, we might add, by its nature cannot be defined, but which, nevertheless stands over and above all other forms of knowledge being nothing less than knowledge itself.

From a traditional point of view, the fault of the Greeks lay in their substitution of the rational faculty for the supra-rational as the highest faculty of man, and in the words of Coomaraswamy's distinguished colleague, Rene Guenon, "it almost seems as if the Greeks, at a moment when they were about to disappear from history, wished to avenge themselves for their incomprehension by imposing on a whole section of mankind the limitations of their own mental horizon." Since the Renaissance, as Baton points out, the modem world has, of course, gone much further than did the Greeks in the denial even of the possibility of a real knowledge which transcends the narrow limits of the individual mentality." Moreover, as we are all aware, that which, from a traditional point of view, appears to be a serious narrowing of horizons, is seen from our modem point of view as an unprecedented intellectual breakthrough!

While it is hardly possible in a brief summary, such as this, to further discuss the issues involved, we might usefully ponder on Plato's story of the subterranean cave where some men have been confined since childhood. These men are familiar only with the shadows cast by a fire upon the dark walls of the cave, which they have all the time to study, and about which they are most knowledgeable. They know nothing of the outside world and therefore do not believe in its existence.

Coomaraswamy, like Plato, would have us realize that we, too, are in darkness like these men, and that we would do well to seek the light of another world above by concerning ourselves with those things, which our ancestors knew and understood so well. He constantly points out, that modem or anti-traditional societies are shaped by the ideas men develop by their own powers of reasoning, there finally being as many sets of ideas as there are men; he also tries to show that traditional societies, on the other hand, were based on perennial ideas of quite another order -ideas of divine origin and revealed -- whereby all the aspects of a society were determined.

A recurrent theme in Coomaraswamy's writings was the traditional view of art. When referring to European art, he repeatedly stressed that Graeco-Roman art and Renaissance art, like all the more modern schools of European art, were of earthly inspiration and therefore of human origin like the philosophies that went with them, whereas traditional art, like traditional philosophy, was related to the metaphysical order and therefore religious in character and divine in origin.

We now see that in his earliest works such as the monumental Medieval Sinhalese Art, Coomaraswamy did not as yet fully understand the difference between these two contrasting points of view which were to form the basis of his later and more significant work; in his early writings, his profound understanding of the traditional arts of Greater India, as indeed his already considerable grasp of the true meaning of religion, was a little clouded with modernistic prejudice, the outcome, no doubt, of his early academic training in England which was of a kind that he had, even then, begun to despise. But later, following his association with the French metaphysician, Rene Guenon, Coomaraswamy's writings assumed the complete correctness of exposition and the great authority, which we associate with his most mature work.

Insofar as we are able to see that a universalist approach to the study of the world's religions, coupled with an understanding of the true meaning of Tradition, have, at the present time, a special importance for the modern world, we shall also see that two men, the Frenchman, Rene Guenon, and Sri Lanka's Ananda Coomaraswamy, stand out as the greatest thinkers of the first half of this century. A great gulf separates their thought from the thought of nearly all their contemporaries. The second half of this century has witnessed the emergence of a whole school founded on their pioneering work and on the Perennial Philosophy, a movement which has found acceptance in many parts of a confused and bewildered world.

It will now be apparent that, if we are to regard Coomaraswamy as an eminent orientalist and art historian, it must first be clearly understood that he stands apart from almost all those other scholars who can be similarly described, in that while they approach the life and art of traditional societies from a modern standpoint {which is both "skeptical and evolutionary", to use his own words), Coomaraswamy, like his few true colleagues and collaborators, takes the view that takes the view that Tradition can only be understood by a careful consideration of its own point of view however inconvenient this may be. Once this is realized, it would certainly be true, not only to say that Coomaraswamy was an eminent scholar but, as Marco Pallis has said, a prince among scholars.

Coomaraswamy saw that a feudal or hierarchical society based on metaphysical principles is essentially superior to the supposedly egalitarian systems held in such high esteem today. Like Plato, he maintained that democracy was one of the worst forms of government, nor did he view any other materialistic system with more favour. His enthusiasm for such institutions as caste and kingship was based, not on sentiment, but on a profound understanding of the vital relationship between spiritual authority and temporal power in society and government. He would hardly have approved of the road which India and Lanka have taken since achieving their so-called independence, although he would have regarded it as inevitable.

It is well known that, from the very beginning, Coomaraswamy deplored the influence of the West on Eastern peoples, and especially the consequences of British rule in Greater India. He has therefore been placed alongside those who in India and Lanka have been regarded as national leaders in the struggle for independence. But here again, a complete difference of approach separates Coomaraswamy from his contemporaries, for it was not imperialism or the domination of one people by another that he was concerned about, but rather the destruction of traditional societies by peoples who had abandoned sacred forms. It was what the British stood for and not the British that he detested; on the contrary, there is no doubt that he loved England because he knew another, older England which in form as well as spirit was so much like the oriental world he understood so well.

It would, in conclusion, be appropriate to quote the words of that highly respected English artist-philosopher, Eric Gill, who in his autobiography paid Coomaraswamy this great tribute:

"There was one person, to whose influence I am deeply grateful; I mean the philosopher and theologian, Ananda Coomaraswamy. Others have written the truth about life and religion and man's work. Others have written good clear English. Others have had the gift of witty exposition. Others have understood the metaphysics of Christianity and others have understood the metaphysics of Hinduism and Buddhism. Others have understood the true significance of erotic drawings and sculptures. Others have seen the relationships of the true and the good and the beautiful. Others have had apparently unlimited learning. Others have loved; others have been kind and generous. But I know of no one else in whom all these gifts and all these powers have been combined. I dare not confess myself his disciple; that would only embarrass him. I can only say that I believe that no other living writer has written the truth in matters of art and life and religion and piety with such wisdom and understanding."

lundi, 15 novembre 2010

El neoliberalismo, la derecha y lo politico

El neoliberalismo, la derecha y lo político

Jéronimo MOLINA

Ex: http://www.galeon.com/razonespanola/

minerve.jpg1. Aquello que con tanta impropiedad como intención se denomina «a la derecha» se ha convertido, como el socialismo utópico y el liberalismo político en el siglo XIX, en el chivo expiatorio de la política superideologizada que se impuso en Europa desde el fin de la I guerra mundial. Entre tanto, «la izquierda», como todo el mundo sabe, se ha erigido en administradora «urbi et orbe» de la culpa y la penitencia del hemisferio político rival. La izquierda, consecuentemente, ha devenido el patrón de la verdad política; así pues, imperando universalmente la opinión pública, su infalibilidad no puede tomarse a broma. Por otro lado, la retahíla de verdades establecidas y neoconceptos políticos alumbrados por el «siglo socialista» no tiene cuento.

Removidas en su dignidad académica las disciplinas políticas polares (el Derecho político y la Filosofía política), caracterizadas por un rigor y una precisión terminológicas que hoy se nos antojan, al menos de momento, inigualables, el problema radical que atenaza al estudioso de la Ciencia política tiene una índole epistemológica, pues las palabras fallan en lo esencial y ni siquiera alcanzan, abusadas, a denunciar realidades. Agotado hasta la médula el lenguaje político de la época contemporánea, nadie que aspire a un mínimo rigor intelectual debe apearse del prejuicio de que «ya nada puede ser lo que parece». En esta actitud espiritual, dolorosamente escéptica por lo demás, descansa probablemente la más incomprendida de las mentalidades políticas, la del Reaccionario, que casi todo el mundo contrapone equívocamente al vicio del pensamiento político conocido como progresismo.

2. En las circunstancias actuales, configuradoras, como recordaba no hace mucho Dalmacio Negro, de una «época estúpida», lo último que se debe hacer, por tanto, es confiar en el sentido inmaculado de las palabras. Todas mienten, algunas incluso matan o, cuando menos, podrían inducir al suicidio colectivo, no ya de un partido o facción, sino de la «unidad política de un pueblo». Hay empero raras excepciones en la semántica política que curiosamente conducen al pensamiento hacia los dominios de la teología política (politische Theologie) cultivada por Carl Schmitt, Alvaro d'Ors y unos pocos más escritores europeos. Parece que en dicha instancia todavía conservan los conceptos su sentido. De la importancia radical de lo teológico político, reñida con la consideración que estos asuntos merecen de una opinión pública adocenada, pueden dar buena cuenta los esfuerzos del llamado republicanismo (Republicanism) para acabar con toda teología política, uno de cuyos postulados trascendentales es que todo poder humano es limitado, lo detente el Amigo del pueblo, el Moloch fiscal, la Administración social de la eurocracia de Bruselas o los guerreros filantrópicos neoyorquinos de la Organización de las Naciones Unidas. Este nuevo republicanismo, ideología cosmopolítica inspirada en el secularismo protestante adonde está llegando en arribada forzosa el socialismo académico, no tiene que ver únicamente con el problema de la forma de gobierno. Alrededor suyo, más bien, se ha urdido un complejo de insospechada potencia intelectual, un internacionalismo usufructuario de los viejos poderes indirectos, cuya fe se abarca con las reiterativas y, como recordaba Michel Villey, antijurídicas declaraciones universales y continentales de derechos humanos. Todo sea para arrumbar la teología política, reducto ultramínimo, junto al realismo y al liberalismo políticos tal vez, de la inteligencia política y la contención del poder. Ahora bien, este republicanismo cosmopolítico, que paradójicamente quiere moralizar una supuesta política desteologizada, no es otra cosa que una política teológica, íncubo famoso y despolitizador progeniado por Augusto Comte con más nobles intenciones.

3. A medida que el mito de la izquierda, el último de los grandes mitos de la vieja política, va desprendiéndose del oropel, los creyentes se ven en la tesitura de racionalizar míticamente el fracaso de su religión política secular. Una salida fácil, bendecida por casi todos, especialmente por los agraciados con alguna canonjía internacional, encuéntrase precisamente en el republicanismo mundial y pacifista, sombra ideológica de la globalización económica. Vergonzantes lectores del Librito Rojo y apóstatas venales de la acción directa predican ahora el amor fraternal en las altas esferas supraestatales y salvan de la opresión a los pueblos oprimidos, recordando a Occidente, una vez más, su obligación de «mourir pour Dantzig!». Estas actitudes pueden dar o acaso continuar el argumento de las vidas personales de los «intelectuales denunciantes», como llamaba Fernández-Carvajal a los «soixante huitards», mas resultan poca cosa para contribuir al sostenimiento de la paz y la armonía mundiales. Tal vez para equilibrar la balanza se ha postulado con grande alarde la «tercera vía», postrera enfermedad infantil del socialismo, como aconsejaría decir el cinismo de Lenin. Ahora bien, esta prestidigitante herejía política se había venido configurando a lo largo del siglo XX, aunque a saltos y como por aluvión. Pero no tiene porvenir esta huida del mito hacia el logos; otra cosa es que el intelectual, obligado por su magisterio, lo crea posible. Esta suerte de aventuras intelectuales termina habitualmente en la formación de ídolos.

Aunque de momento no lo parezca, a juzgar sobre todo por los artistas e intelectuales que marcan la pauta, la izquierda ha dejado ya de ser sujeto de la historia. ¿Cómo se explica, pues, su paradójica huida de los tópicos que constituyen su sustrato histórico? ¿A dónde emigra? ¿Alguien le ha encomendado a la izquierda por otro lado, la custodia de las fronteras de la tradición política europea? La respuesta conduce a la inteligencia de la autoelisión de la derecha.

Suena a paradoja, pero la huida mítico-política de la izquierda contemporánea parece tener como meta el realismo y el liberalismo políticos. Este proceso, iniciado hace casi treinta años con la aparición en Italia de los primeros schmittianos de izquierda, está llamado a marcar la política del primer tercio del siglo XXI. No cabe esperar que pueda ventilarse antes la cuestión de la herencia yacente de la política europea. Ahora bien, lo decisivo aquí, la variable independiente valdría decir, no es el derrotero que marque la izquierda, pues, arrastrada por la inercia, apenas tiene ya libertad de elección. Como en otras coyunturas históricas, heraldos de un tiempo nuevo, lo sustantivo o esencial tendrá que decidir sobre todo lo demás.

El horizonte de las empresas políticas del futuro se dibuja sobre las fronteras del Estado como forma política concreta de una época histórica. El «movimiento», la corrupción que tiraniza todos los asuntos humanos, liga a la «obra de arte» estatal con los avatares de las naciones, de las generaciones y, de manera especial, a los de la elite del poder. La virtud de sus miembros, la entereza de carácter, incluso el ojo clínico político determinan, como advirtió Pareto, el futuro de las instituciones políticas; a veces, como ha sucedido en España, también su pasado.

4. Precisamente, el cinismo sociológico paretiano -a una elite sucede otra elite, a un régimen otro régimen, etcétera- ayuda a comprender mejor la autoelisión de la derecha. La circulación de las elites coincide actualmente con el ocaso de la mentalidad político-ideológica, representada por el izquierdismo y el derechismo. En términos generales, la situación tiene algún parangón con la mutación de la mentalidad político-social, propia del siglo XIX. Entonces, las elites políticas e intelectuales, atenazadas por los remordimientos, evitaron, con muy pocas excepciones, tomar decisiones políticas. Llegó incluso a considerarse ofensivo el marbete «liberal», especialmente después de las miserables polémicas que entre 1870 y 1900 estigmatizaron el liberalismo económico. Son famosas las diatribas con que el socialista de cátedra Gustav Schmoller, factótum de la Universidad alemana, mortificó al pacífico profesor de economía vienés Karl Menger. Así pues, aunque los economistas se mantuvieron beligerantes -escuela de Bastiat y Molinari-, los hombres políticos del momento iniciaron transición al liberalismo social o socialliberalismo. La defección léxica estuvo acompañada de un gran vacío de poder, pues la elite europea había decidido no decidir; entre tanto, los aspirantes a la potestad, devenida res nullius. acostumbrados a desempeñar el papel de poder indirecto, que nada se juega y nada puede perder en el arbitrismo, creyeron que la política era sólo cuestión de buenas intenciones.

El mundo político adolece hoy de un vacío de poder semejante a aquel. La derecha, según es notorio, ha decidido suspender sine die toda decisión, mientras que la izquierda, jugando sus últimas bazas históricas, busca refugio en el plano de la «conciencia crítica de la sociedad». En cierto modo, Daniel Bell ya se ocupó de las consecuencias de este vacío de poder o «anarquía» en su famoso libro Sobre el agotamiento de las ideas políticas en los años cincuenta (1960). Al margen de su preocupación por la configuración de una «organización social que se corresponda con las nuevas formas de la tecnología», asunto entonces en boga, y, así mismo, con independencia de la reiterativa lectura de esta obra miscelánea en el sentido del anuncio del fin de las ideologías, Bell se aproximó a la realidad norteamericana de la izquierda para explicar su premonitorio fracaso. El movimiento socialista, del que dice que fue un sueño ilimitado, «no podía entrar en relación con los problemas específicos de la acción social en el mundo político del aquí y del ahora, del dar y tomar». La aparente ingenuidad de estas palabras condensa empero una verdad política: nada hay que sustituya al poder.

6. El florentinismo político de la izquierda, que en esto, como en otros asuntos, ha tenido grandes maestros, ha distinguido siempre, más o menos abiertamente, entre el poder de mando o poder político en sentido estricto, el poder de gestión o administrativo y el poder cultural, espiritual o indirecto. La derecha, en cambio, más preocupada por la cuestiones sustanciales y no de la mera administración táctica y estratégica de las bazas políticas, ha abordado el asunto del poder desde la óptica de la casuística jurídica política: legitimidad de origen y de ejercicio; reglas de derecho y reglas de aplicación del derecho; etcétera. La izquierda, además, ha sabido desarrollar una extraordinaria sensibilidad para detectar en cada momento la instancia decisiva y neutralizadora de las demás -pues el dominio sobre aquella siempre lleva implícito el usufructo indiscutido de la potestad-. De ahí que nunca haya perdido de vista desde los años 1950 lo que Julien Freund llamó «lo cultural».

En parte por azar, en parte por sentido de la política (ideológica), la izquierda europea más lúcida hace años que ha emprendido su peculiar reconversión a lo político, acaso para no quedarse fuera de la historia. Lo curioso es que este movimiento de la opinión se ha visto favorecido, cuando no alentado, por la «autoelisión de la derecha» o, dicho de otra manera, por la renuncia a lo político practicada sin motivo y contra natura por sus próceres.

La izquierda europea, depositaria del poder cultural y sabedora de la trascendencia del poder de mando, permítese abandonar o entregar magnánimamente a otros el poder de gestión o administrativo, si no hay más remedio y siempre pro tempore, naturalizando el espejismo de que ya no hay grandes decisiones políticas que adoptar. Resulta fascinante, por tanto, desde un punto de vista netamente político, el examen de lo que parece formalmente una repolitización de la izquierda, que en los próximos años, si bien a beneficio de inventario, podría culminar la apropiación intelectual del realismo y del liberalismo políticos, dejando al adversario -neoliberalismo, liberalismo económico, anarcocapitalismo- que se las vea en campo franco y a cuerpo descubierto con la «ciencia triste». Aflorarán entonces las consecuencias del abandono neoliberal de lo político.



Jerónimo Molina

Giorgio Freda: Nazi-maoïste ou révolutionnaire inclassable?

Archives - 2003

 

Giorgio Freda : Nazi-maoïste ou révolutionnaire inclassable?

 

Edouard Rix

 

 

Freda.jpg«Je hais ce livre. Je le hais de tout mon coeur. Il m’a donné la gloire, cette pauvre chose qu’on appelle la gloire, mais il est en même temps à l’origine de toutes mes misères. Pour ce livre, j’ai connu de longs mois de prison, (...) de persécutions policières aussi mesquines que cruelles. Pour ce livre, j’ai connu la trahison des amis, la mauvaise foi des ennemis, l’égoïsme et la méchanceté des hommes. C’est de ce livre qu’a pris naissance la stupide légende qui fait de moi un être cynique et cruel, cette espèce de Machiavel déguisé en cardinal de Retz que l’on aime voir en moi». Ces quelques lignes, écrites par Curzio Malaparte en introduction à son célèbre essai Technique du coup d’Etat, l’auteur de La désintégration du système, Giorgio Freda, aurait pu les faire siennes. Car, pour avoir rédigé cette modeste brochure qui, en une soixantaine de pages très denses, sape à la base le système bourgeois, ce jeune éditeur a subi des années de persécutions judiciaires et mediatiques.

LES EDIZIONI DI AR

Le 26 octobre 1963, le sénateur Umberto Terracini, membre influent de la communauté juive et du Parti communiste italien, dénonce publiquement auprès des ministres de l’Intérieur et de la Justice la diffusion, à Padoue, «d’un immonde opuscule portant le titre Gruppo di Ar qui, reprenant les plus ignobles thèses racistes du nazisme italien, qualifie ouvertement les auteurs éditeurs comme les partisans d’une idéologie antidémocratique», et demande «si des mesures et lesquelles ont été proposées et prises afin de cautériser la plaie fétide et purulente avant qu’elle n’étende la sphère de son action».

A l’origine du groupe ainsi publiquement stigmatisé, l’on trouve un jeune juriste platonicien et évolien, Giorgio Freda. Le terme d’Ar, choisi comme dénomination, se veut éminemment symbolique, puisqu’il s’agit, dans de nombreuses langues indo-européennes, de la racine sémantique connotant l’idée de noblesse, d’aristocratie.

Dès 1964, Freda doit affronter un procès pour avoir dénoncé dans une brochure la politique sioniste en Palestine. Ce n’est que le premier d’une longue série. La même année, les Edizioni di Ar, qu’il vient de fonder, publient leur premier livre, l’Essai sur l’inégalité des races d’Arthur de Gobineau. Suivront des écrits mineurs de Julius Evola, et les oeuvres de Corneliu Codreanu. Chaque titre est tiré à 2000 exemplaires.

Deux constantes dans l’engagement militant de Freda : la lutte contre le sionisme international, dont Israël, estime-t-il, n’est que la partie émergée, et le combat contre le Système libéral bourgeois, expression de l’impérialisme américain en Europe depuis 1945. Concernant l’antisionisme, Freda est l’éditeur qui, le premier en Italie, a soutenu les combattants palestiniens, alors même que la Droite, incarnée par le MSI, exaltait Israël, «rempart de l’Occident contre les Arabes asservis à Moscou». C’est lui qui organisera, en mars 1969, à Padoue, en liaison avec le groupe maoïste Potere Operairo, la première grande réunion en Italie de soutien à la résistance palestinienne, en présence de représentants du Fatah de Yasser Arafat. Le lobby sioniste ne lui pardonnera jamais. En outre, ne se contentant pas d’un simple soutien verbal, comme tant d’intellectuels distingués, il se procurera des minuteries en vus de les remettre à un représentant supposé du Fatah.

LA DÉSINTÉGRATION DU SYSTEME

Disintegrazionesistema.jpgMais Giorgio Freda est avant tout l’homme d’un texte. Et quel texte ! Il s’agit de La désintégration du système, qui voit le jour en 1969, en pleine contestation étudiante. L’Italie subit alors, non une explosion soudaine et aussi vite retombée comme en France, mais un «mai rampant». Convaincu de l’impérieuse nécessité d’une subversion radicale du monde bourgeois, Freda estime que tout doit être tenté, au moment où beaucoup de jeunes cherchent à donner un contenu véritablement révolutionnaire à la révolte étudiante, pour éviter que celle-ci ne soit récupérée par les tenants de l’orthodoxie marxiste ou du réformisme social-démocrate. C’est à ces jeunes que s’adresse La désintégration du système, qui loin d’être le programme personnel du seul Freda, synthétise des exigences communes à tout un milieu national-révolutionnaire, de Giovane Europa à Lotta di Popolo.

Le ton du texte est résolument offensif. Disciple d’Evola, Freda est le premier à ne pas se contenter de commenter doctement ses écrits, mais à passer de la théorie à la pratique, à tel point que l’on peut voir dans La désintégration du système la pratique politique de la théorie exposée dans Chevaucher le tigre, le dernier essai d’Evola. Avec cet ouvrage, le baron a donné le cadre intellectuel dans lequel s’inscrit l’action de Freda en affirmant qu’il ne saurait y avoir de compromis avec le système bourgeois. «Il y a une solution, écrit Evola, qu’il faut résolument écarter: celle qui consisterait à s’appuyer sur ce qui survit du monde bourgeois, à le défendre et à s’en servir de base pour lutter contre les courants de dissolution et de subversion les plus violents après avoir, éventuellement, essayé d’animer ou de raffermir ces restes à l’aide de quelques valeurs plus hautes, plus traditionnelles». Et le baron d’ajouter : «Il pourrait être bon de contribuer à faire tomber ce qui déjà vacille et appartient au monde d’hier, au lieu de chercher à l’étayer et à en prolonger artificiellement l’existence. C’est une tactique possible, de nature à empêcher que la crise finale ne soit l’oeuvre des forces contraires dont on aurait alors à subir l’initiative. Le risque de cette attitude est évident : on ne sait pas qui aura le dernier mot».

Dans La Désintégration, Freda n’est pas tendre avec les valeurs et les idoles de la société bourgeoise. Ordre pour l’ordre, sacro-sainte propriété privée, capitalisme, conformisme moral, anticommunisme viscéral et aveugle, pro-sionisme et philo-américanisme, mais aussi Dieu, prêtres, magistrats, banquiers, rien ni personne n’échappe à sa critique. A ce modèle marchand dominant, il propose une véritable alternative, réaffirmant la doctrine traditionnelle de l’Etat, opposée intégralement aux pseudo-valeurs bourgeoises, et élaborant un projet étatique cohérent, dont l’aspect le plus spectaculaire est l’organisation communiste de l’économie -un communisme spartiate et élitiste, qui doit plus à Platon qu’à Karl Marx -.

Homme d’action, Freda vomit les pseudo-intellectuels évolo-guénoniens enfermés dans leur tour d’ivoire. Il a des mots très durs pour certains évolomanes, «stériles apologètes du discours sur l’Etat», «adorateurs d’abstractions», «champions des témoignages conceptuels», qui ne sont, à ses yeux, que des chevaucheurs de tigres de papier. «Pour nous, écrit-il, être fidèle à notre vision du monde - et donc de l’Etat - signifie se conformer à elle, ne rien laisser de non entrepris pour la réaliser historiquement». Dans cette perspective, il manifeste clairement l’intention d’aller à la rencontre des secteurs objectivement engagés dans la négation du monde bourgeois, y compris l’ultra-gauche extra-parlementaire à laquelle il propose une stratégie loyale de lutte unitaire contre le Système. Il est alors en contact avec divers groupes maoïstes, comme Potere Operaio et le Parti communiste d’Italie-marxiste léniniste.

«Chez un soldat politique, la pureté justifie toute dureté, le désintérêt toute ruse, tandis que le caractère impersonnel imprimé à la lutte dissout toute préoccupation moraliste». C’est sur ces fortes paroles que se clôt le manifeste.

VICTIME DE LA DEMOCRATIE

Le 12 décembre 1969, une bombe explose dans la Banque nationale de l’agriculture, Piazza Fontana, à Milan, tuant 16 personnes et en blessant 87. La section italienne de l’Internationale situationniste d’ultra-gauche diffuse un manifeste intitulé Le Reichstag brûle, qui dénonce le régime comme le véritable organisateur du massacre. Les situationnistes ne cesseront de répéter que la bombe de Piazza Fontana n’était «ni anarchiste, ni fasciste».

Giorgio Freda, quant à lui, poursuit sa lutte intellectuelle contre le Système. En 1970, dans une préface à un texte d’Evola, il envisage favorablement la possibilité d’une guérilla urbaine en Italie. En avril 1971, les Edizioni di Ar publient officiellement, pour la première fois dans la péninsule depuis 1945, Les Protocoles des Sages de Sion. Le même mois, Freda est arrêté et accusé d’ «avoir diffusé des livres, des imprimés et des écrits contenant de la propagande ou instigation à la subversion violente». La machine répressive se met en branle. Pour la première fois depuis la fin du régime fasciste, un magistrat entend appliquer l’article 270 du Code Rocco. Peu après, les Edizioni di Ar publient L’ennemi de l’homme, un recueil de la poésie palestinienne de combat, provoquant la fureur des sionistes.

En juillet 1971, le juge d’instruction modifie les chefs d’accusation et reproche à Freda d’avoir fait «de la propagande pour la subversion violente de l’ordre politique, économique et social de l’Etat» par l’intermédiaire de La désintégration du système , «où il est fait allusion à la nécessité de la subversion, par des moyens violents, de l’Etat démocratique et bourgeois et de son remplacement par un organisme étatique défini et caractérisé comme Etat populaire».

Nullement impressionné par la répression, les Edizioni di Ar publient, en novembre 1971, la traduction italienne du Juif international d’Henry Ford.

Le 5 décembre 1971, Freda est de nouveau arrêté. Il n’est plus seulement poursuivi pour délit d’opinion, mais on l’accuse carrément d’avoir organisé le massacre de Piazza Fontana. Puisqu’on ne réussit pas à coincer les «anarcho-fascistes», on coincera les «nazi-maoïstes». Les accusations contre Freda reposent sur deux types d’indices: il aurait acheté des minuteries dont les débris furent retrouvés dans la banque, ainsi que les sacs de voyages dans lesquels furent déposées les bombes. Or, Freda avait bel et bien acheté des minuteries, remises à un capitaine des services secrets algériens qui les lui avait demandées pour les Palestiniens. L’hebdomadaire Candido, qui menera une enquête en RFA auprès du fabricant, recueillera les preuves que les minuteries vendues en Italie n’étaient pas 57 , comme le soutenait le juge - Freda en avait acheté 50 -, mais plusieurs centaines, et que les modèles achetés par l’éditeur différaient de ceux utilisés pour l’attentat. De plus, la commerçante de Bologne qui avait vendu quatre sacs de voyage semblables à ceux utilisés pour l’attentat ne reconnaîtra pas comme acheteur Freda, mais deux officiers de police... Bien entendu, le juge d’instruction ne tiendra aucun compte de ces preuves à décharge. Freda commence son tour des prisons italiennes Rien que pour 1972, Padoue, Milan et Trieste. Puis Rome, Bari, Brindisi, Catanzaro.

Traité de «maoïste» ou d’«agent de la Chine communiste» par la Droite, en particulier les néo-fascistes du MSI, de «raciste fanatique» ou d’«antisémite délirant» par la gauche légaliste et les milieux sionistes, rejeté peureusement par certains hommes d’ultra-gauche avec lesquels il avait collaboré activement, Giorgio Freda est alors affublé par la presse de l’étiquette, qui se veut infamante, de «nazi-maoïste». Seul point positif, grâce au battage mediatique, les 1500 exemplaires de La désintégration du système sont rapidement épuisés. Quelques années plus tard, Freda admettra que ce texte a été plus pris en considération par les ultras de gauche que par ceux de droite.

LE PROCES

En janvier 1975 s’ouvre, devant la Cour d’Assises de Catanzaro, le procès-fleuve de Piazza Fontana. Sont jugés l’anarchiste Pietro Valpreda et onze complices, le néo-fasciste Giorgio Freda et douze coinculpés. Arrivé au terme de la détention préventive, Freda est remis en liberté et assigné à résidence en août 1976. Ses convictions sont demeurées intacts. C’est ainsi qu’en 1977, alors qu’il risque une condamnation à perpétuité, il n’hésite pas, dans un entretien qu’il accorde à son camarade Claudio Mutti, à parler de la lutte armée comme de la meilleure forme d’opposition au Système en Italie !

Convaincu que les dés sont pipés et que sa condamnation ne fait aucun doute, Freda s’enfuit en octobre 1978. Il est capturé, pendant l’été 1979, au Costa-Rica, dont il n’est pas extradé, mais ramené de force par la police politique italienne.

La farce judiciaire se poursuit. En décembre 1984, s’ouvre à Bari le quatrième procès pour le massacre de Piazza Fontana. Après seize ans d’enquête, Freda est finalement acquitté de ce crime, son incarcération n’étant maintenue que pour délit d’opinion, «association subversive» selon le jargon juridique italien, qui lui vaut une condamnation à quinze ans de prison.

A sa libération, Freda fera encore parler de lui dans les media en lançant le Fronte nazionale, ce qui lui vaudra d’être une nouvelle fois arrêté et poursuivi, en juillet 1993. Décidément, bon sang ne saurait mentir !

Edouard Rix, Le Lansquenet, printemps 2003, n°17.

dimanche, 14 novembre 2010

El organicismo de Maetzu

El organicismo de Maeztu

Pedro Carlos Gonzàlez Cuevas

Ex: http://www.galeon.com/razonespanola/

1. EL CORPORATIVISMO INGLES

maeztu.jpgEn 1912, Maeztu había empezado a interesarse por las ideas sindicalistas y corporativistas que comenzaban a dominar en algunos círculos intelectuales europeos. No encontró, desde luego, el sindicalismo revolucionario de raíz soreliana un simpatizante en Maeztu, quien rechazó de plano sus actitudes violentas y, sobre todo, un irracionalismo tomado de Bergson; era «antiintelectual y antiinteligente», heredero de la «sofistería moderna»1. Se equivocaban, además, Sorel y sus acólitos en la percepción de la realidad social, al sostener, como el marxismo, la visión dicotómica de las clases sociales; lo que suponía, tanto a nivel teórico como práctico, una enorme simplificación, que prescindía de sectores tan decisivos como el campesinado y toda la clase media -comerciantes, industriales, pequeños rentistas, intelectuales, etc.-. El fundamento real del sindicalismo, por el contrario, era la pluralidad de las clases sociales, que, a través de sus organizaciones sindicales, se disponían a defender sus intereses. «Se funda en que las clases sociales son muchas. Y en esta multiplicidad de intereses de clase es necesario precisar y concretar los de la clase obrera, si ha de evitarse que los trabajadores tomen por propios los intereses de otras clases sociales2.

Al lado del sindicalismo revolucionario existía otro, de carácter conservador, defendido en Gran Bretaña por Hilaire Belloc y los hermanos Chesterton; en Francia por León Duguit. Maeztu consideraba a esta tendencia mucho más seria que la anterior. No obstante, rechazaba, por entonces, los planteamientos de Duguit, cuyo «solidarismo» tanto influiría en la gestación de La crisis del humanismo. El corporativismo de Duguit significaba, para el Maeztu todavía liberal, un intento de retorno a la Edad Media, ya que pretendía reducir al individuo a una mera dimensión profesional, aboliendo la individual y política, es decir, la subjetividad, producto de la emancipación lograda desde el Renacimiento3. Chesterton y Belloc eran comparables a Charles Maurras y León Daudet4.

Con todo, tanto los sindicalistas revolucionarios como los conservadores incidían en aspectos reales de la vida social; en particular su insistencia en el carácter objetivo de las clases sociales como portadoras de intereses materiales específicos, que los parlamentos de las sociedades liberales, anclados todavía en una filosofía social profundamente individualista, se obstinaban en ignorar, incluso en marginar: «La idea política se trueca en retórica que cubre un interés; el interés rapaz se cubre con piel de cordero. Todo por no reconocer al hombre su doble carácter de profesional y de hombre, de miembro de una clase y de miembro de la comunidad»5.

Como ya habían propugnado los krausistas, el corporativismo podía servir de correctivo al individualismo liberal; y, por otra parte, a la racionalización del pluralismo social. En ese sentido, Maeztu abogaba por un sistema de tipo bicameral, que diera asiento diferenciado a la representación corporativa. Una de las cámaras se organizaría mediante el sufragio universal; mientras que la otra se basaría en la representación por clases, profesiones y grupos de interés, «hacendados, industriales, comerciantes, labradores, obreros, abogados, médicos, personal pedagógico, etc»6.

A este tipo de corporativismo tampoco era ajeno su contacto con los intelectuales reunidos en torno a la revista «The New Age», que dirigía el antiguo fabiano Alfred Richard Orage; quien, con la ayuda económica del dramaturgo Bernard Shaw, había logrado sacarla a la luz en 19077. «The New Age» se convirtió en el órgano doctrinal del socialismo guildista, iniciado bajo la inspiración de William Morris y John Ruskin; y cuyo origen más próximo se encontraba en los escritos del arquitecto Arthur Joseph Penty, sobre todo en The Restoration of the guild system, en donde abogaba por el retorno del artesanado, y la producción simple bajo la inspiración reguladora de los «gremios». Dos miembros de «The New Age» Samuel George Hobson y Alfred Richard Orage -su director- aprovecharon las ideas de Penty, que también colaboraba en la revista, convirtiéndolas en algo diferente. Ninguno de ellos compartía el medievalismo de Penty; y eran partidarios de las nuevas formas de producción y concebían los gremios como grandes agencias democráticamente controladas para encargarse de la industria8.

El «guildismo» se oponía tanto al marxismo como al socialismo de raíz fabiana, cuyo estatismo rechazaba. Sobre la base de empresas organizadas en cooperativas de producción elevaba un sistema social que confiaba al Estado un papel subsidiario, es decir, el cuidado de las funciones de interés general, dejando la solución de los otros problemas a las comunidades inferiores. Así, las funciones que abandonaba el Estado eran ocupadas por la guilda, que era, en la concepción de Hobson, una asociación de todos los trabajadores, de todas las categorías de la administración, de la dirección y de la producción en la industria. Dentro de la revista existían, sin embargo, diferentes orientaciones y tendencias. Mientras Hobson y Orage defendían una estructura gremial que controlase y organizase la producción bajo la inspección del Estado; otros, como Cole, se mostraban contrarios a la idea de Estado soberano y proponían la doctrina del «pluralismo», basada en el principio de «función»9.

Esta teoría, sobre la que Maeztu edificaría su doctrina de la sociedad defendida en La crisis del humanismo, suponía indudablemente un desafío a las ideas dominantes sobre el sistema demoliberal y el gobierno representativo y, según reconocería el propio Cole, podía armonizarse perfectamente tanto con el liberalismo como con un ideario de carácter antiliberal10.

Para Maeztu, el guildismo era, y así lo expresó en una carta a su amigo Ortega, un auténtico reto intelectual, dado que aún no estaba suficientemente teorizado, tarea que él se proponía abordar: «El socialismo gremial tiene una ventaja y una desventaja. No está aún pensado. Hay que inventarlo»11.

«The New Age» se convirtió en un importante centro de discusión sobre temas económicos, sociales y filosóficos, donde acudían y colaboraban intelectuales de distinta militancia política e ideológica. Allí conoció al poeta Ezra Pound12, a los hermanos Chesterton, Percy Widham Lewis, Hilaire Belloc, Orage, Penty, etc. Maeztu simpatizó con Orage, a quien consideraba un pensador carente de originalidad, pero de gran capacidad de divulgación, que «pulió, fijó y dio esplendor a cuantas percibió y le parecían interesantes por ser nuevas»13. La influencia de Penty fue mucho mayor en Maeztu, sobre todo, por sus críticas a la civilización industrial. Penty le enseñó «la necesidad de restaurar la supremacía del espíritu sobre el culto supersticioso de las máquinas a que fian los modernos sus esperanzas de un mundo mejor»14.

De la misma forma, el «distributismo» de Belloc, que insistía como Penty, en la restauración de la pequeña propiedad, del artesanado y de los gremios, mediante la creación de juntas de oficios y profesiones, tuvo influencia en la ulterior trayectoria política e intelectual de Maeztu. Se trataba del «mayor enemigo que ha encontrado en Inglaterra la propaganda socialista y el defensor más brillante de la única alternativa democrática al colectivismo, a saber: el Estado distributivo, es decir, un Estado en que la riqueza se halle distribuida entre la inmensa mayoria de los ciudadanos»15.

Mención aparte merece, por su impronta en Maeztu, la figura de otro de los colaboradores de «The New Age», el escritor y filósofo Thomas Ernst Hulme. Miembro de una comoda familia, Hulme había nacido en Endon, en 1883; y se educó en prestigiosos colegios de Cambridge, de donde fue expulsado por su carácter pendenciero y bohemio. Luego, residió en Canadá y Bruselas. Amigo de Henri Bergson, gracias a su ayuda logró la readmisión en Cambridge16. Hulme era conocido entonces como traductor de las obras de su amigo Bergson y de las Reflexiones sobre la violencia de George Sorel. Amigo de Ezra Pound y colaborador de «The New Age», su perspectiva ideológica era deudora del intuionismo de Bergson, de las ideas estéticas de Charles Maurras y Pierre Lasserre, y de las críticas de Sorel al hedonismo y relativismo característicos de la sociedad finisecular. Hulme sostenía que la cultura moderna, cuyos orígenes se encontraban en el Renacimiento, llevaba a la Humanidad hacia un callejón sin salida. El humanismo renacentista supuso la eliminación radical del distanciamiento medieval del hombre con la civitas terrena y del mundo natural con respecto al sobrenatural. Y, en consecuencia, su principal error consistió en destruir la objetividad de los valores, interpretándolos «en términos de categorías de vida»; lo que conducía a un peligroso relativismo ético17. Por contra, el pensamiento medieval, a diferencia del humanismo, tenía por base la objetividad de los valores y la imperfección radical del hombre; y ello en virtud de los principios religiosos que le servían de fundamento. A la luz de los principios religiosos, el hombre aparecía, no como la medida de todas las cosas, sino como un ser radicalmente imperfecto, lastrado por el pecado original, al que solo mediante la disciplina y la religión podía conseguirse algo de valor. Ello tenía su manifestación en el arte, en las diferencias entre la vitalidad del arte renacentista y la tendencia a la abstracción del medieval. El resurgir de la abstracción, con su simbolismo geométrico y desantropomorfizado, presagiaba el ocaso del humanismo y la vuelta a los principios tradicionales de servidumbre a supuestos suprahumanos.

Tanto el humanismo como la ética medieval habían sufrido, a lo largo del XVIII y XIX, una renovación, que llevaba a una contínua confrontación entre el romanticismo, como concreción estética y política del sinuoso proceso de desarrollo de la subjetividad que arranca del Renacimiento, y el clasicismo, con su perspectiva pesimista, que llevaba a supuestos políticos de carácter conservador, como habían propugnado Charles Maurras y Pierre Lasserre. En ese sentido, Hulme estaba convencido de que se iba gestando en el interior de la cultura contemporánea un profundo cambio ideológico que llevaba a un renacimiento del espíritu clásico frente a los supuestos relativistas del proyecto de la modernidad; y ello era visible en los escritos de George Sorel: «Hay muchos -señalaba- que empiezan a estar desilusionados de la democracia liberal y pacifista, aunque huyan de la ideología opuesta a causa de sus asociaciones reaccionarias. Para estas gentes, Sorel, revolucionario en economía, pero clásico en ética, puede resultar un liberador»18.

Fiel a sus ideas, Hulme murió luchando en Francia durante la Gran Guerra, cerca de Newport el 28 de septiembre de 1917. Comentando la huella que Hulme dejó en su pensamiento, Maeztu afirmó que su influencia no se redujo al ámbito doctrinal y filosófico; fue importante también su ejemplo de heroismo y valor cívico «sobreponiéndose a las flaquezas de la carne»19.

La huella de Hulme fue perceptible igualmente en figuras cimeras de la intelectualidad inglesa: T.S. Eliot, Ezra Pound, David H. Lawrence, etc20.





2. «LA CRISIS DEL HUMANISMO», O EL APOCALIPSIS DE LA MODERNIDAD



Así, el estallido de la Gran Guerra sorprendió a Maeztu en plena evolución ideológica. Su opción, sin embargo, no fue dudosa, y a pesar de su admiración intelectual por Alemania, estuvo en todo momento a favor de Inglaterra. El vasco nunca dudó de la victoria final de Gran Bretaña y sus aliados: «Inglaterra -dirá a Ortega en una carta- ha estado dormida en estos años, pero empieza a despertar. Y, no lo dude usted, acabará por ganar la guerra»21. No obstante, celebraba que España permaneciese neutral en el conflicto; hecho que atribuyó a la presión de los intelectuales y de las clases populares frente «a la germanofilia de las clases conservadoras22»

Su progresivo cambio de perspectiva ideológica tuvo su concreción en la fundamentación religiosa-católica de su militancia aliadófila. Alemania era la representante de la «herejía germánica», consecuencia directa de la Reforma protestante y su doctrina de la justificación por la fe, frente a la doctrina católica del pecado original y la justificación por las obras. El luteranismo había afirmado la dominación del sujeto en lo relativo a la capacidad de atenerse a sus propias intelecciones; y en consecuencia, dejó al hombre libre de ataduras de orden ético y moral. La consecuencia lógica de aquel proceso fue la independencia del Estado en relación a la autoridad ética de la Iglesia, debido a los principios subjetivistas que le servían de base. Libre de cualquier poder ajeno a sí mismo, se convirtió con Hegel en un valor completamente autónomo; lo cual explicaba la crueldad de los alemanes a lo largo del conflicto23.

Pero la guerra no era sólo producto de esa mentalidad religiosa; y mucho menos de las disputas entre imperios rivales. Ni Francia, ni Gran Bretaña, ni Rusia habían amenazado el poder de Alemania. El estallido de la guerra había sido, muy al contrario, producto de la voluntad de la nobleza, el Ejército y el Kaiser para conservar su hegemonía en el interior de Alemania frente al empuje de la burguesía, los intelectuales y la clase obrera24.

Enviado como corresponsal al frente, Maeztu se mostró, en algunas de sus crónicas, entusiasmado por el espectáculo de la guerra. Y es que pensaba que las consecuencias sociales del conflicto podían ser, a la larga, positivas, porque la convivencia en las trincheras contribuiría poderosamente al establecimiento de vínculos permanentes entre las distintas clases sociales. Además, la guerra enseñaría a «trabajar mejor y más deprisa, y con mejor organización, disciplina y solidaridad25. El propio Ejército se había convertido en el modelo de sociedad jerárquica, estable y disciplinada: «No es lo justo que los hombres desiguales sean tratados como iguales. Lo justo es que se dé lo suyo a cada uno y el respeto a todos. Aquí, en el Ejército, el soldado es soldado y el general es general». Al mismo tiempo, volvía a aparecer en sus escritos el elemento nietzscheano de su juventud. La guerra era incluso un factor de regeneración moral, tanto a nivel individual como colectivo, porque suscitaba el impulso heroico: «El cañoneo entiende la sangre. Se vive como un redoble permanente. Se recupera el sentido de la aventura. Las historias dejan de ser historias. Se es uno mismo historia. Y aunque no se vea nada desde nuestro agujero, se siente uno mismo centro de la Historia»26.

Bajo la impresión del desarrollo del conflicto, Maeztu redactó en 1916, a partir de una serie de escritos publicados en «The New Age» y otros diarios y revistas, Autority, liberty and function in the light of the war, traducido posteriormente, en 1919, al español con el título de La crisis del humanismo. Los principios de autoridad, libertad y función a la luz de la guerra27.

El punto de partida de la obra era la dramática situación en la que se debatían las sociedades europeas, cuya raíz se encontraba en el subjetivismo y relativismo característicos de la modernidad. En el Renacimiento se había generado un sentimiento fuertemente mundano del hombre, que comenzaba a hallarse confinado en la esfera y dimensión de lo puramente corporal, en los acontecimientos vitales; y, en consecuencia, tuvo lugar la aparición de un nuevo tipo de hombre, seguro de su individualidad, que lo define todo, y, por lo tanto, cada vez más alejado de la transcendencia. La individualidad se encontró libre de frenos, y la ética se antropoformizó, relativizándose. El hombre se convirtió, pues, en «un esclavo de sus propias pasiones». Y en este relativismo ético se encuentra la génesis de los dos errores característicos de la modernidad, dominante en las sociedades contemporáneas: el liberalismo y el socialismo. El liberalismo tenía como sustrato el individualismo atomista que no contemplaba otra fuente de certeza y de moralidad que el individuo aislado; sobre la cual era imposible fundamentar una sociedad bien organizada. De la misma forma, el socialismo, a pesar de sus diferencias ideológicas con el liberalismo, tenía su raíz última en el relativismo subjetivista, sustituyendo la arbitrariedad individual por la del Estado, error en el que igualmente habían caído Hegel y la mayoría de la intelligentsia alemana. El proyecto socialista convertía en el único propietario de los medios de producción al Estado, que, de esta forma asumía en relación a la sociedad civil las funciones de juez y parte, encarnados en una burocracia despótica, cuya situación era, en el fondo, análoga, incluso más tiránica, a la de la vieja oligarquía del dinero.

Frente a todo ello, Maeztu propugnaba la superación del relativismo inherente al proyecto de la modernidad, mediante el retorno al principio de la «objetividad de las cosas». Continuando su evolución ideológica iniciada en su interpretación de la filosofía kantiana, en la que, como sabemos, encontró los supuestos absolutos que transcienden a la relatividad asociada al mundo empírico, Maeztu se decide por el intento de renovación de la vieja pretensión ontológica de entender el mundo bajo el signo de un idealismo objetivo y de volver a ensamblar metafísicamente los momentos de la razón disociados en la evolución cultural del mundo moderno, como medio para poner coto a la desintegración de la jerarquía de los valores comúnmente aceptados. Como ya hizo Hulme. Maeztu toma, para ello, de George E. Moore la noción de «bien objetivo», de valor intrínseco de la objetividad de los principios morales. La objetividad de las cosas abre a los hombres el acceso al mundo suprahistórico. Cuando Maeztu hace referencia a la «primacía de las cosas» se refiere a los valores eternos, que se encuentran por encima de la subjetividad y del mundo material, tales como la Verdad, la Justicia, el Amor y el Poder, cuya unidad se encarna en Dios. Desde esta perspectiva, se llega a la conclusión de que el hombre no se encuentra en el mundo para seguir su personal arbitrio, sino como servidor de esos valores objetivos. Tal es el supuesto en el que descansa el «clasicismo cristiano», debelador del romanticismo y del humanismo, de su ilusoria creencia, sobre todo, en la bondad natural del hombre. El catolicismo era consciente de que el optimismo antropológico conducía a la disolución social; y sólo mediante la autoridad que domeñara su naturaleza corrupta, consecuencia del pecado original, podía conseguirse la armonía y la estabilidad.

Sobre la base de esté moral objetiva, era posible edificar una teoría objetiva de la sociedad. Maeztu se sirve para ello, de las aportaciones de León Duguit, en cuanto éste negaba la noción de derecho subjetivo individual y admite los derechos objetivos, nacidos de la función de cada uno en el conjunto social. La organización de la sociedad en torno al principio de «función» puesta al servicio de los valores objetivos conduce a una estructura gremialista. El conflicto entre autoridad y libertad, individuo y sociedad es superado mediante la restauración de los gremios, que servirían de corrección tanto al individualismo anárquico de los liberales como a la burocracia despótica de los socialistas y estatistas.

Maeztu entiende por «gremio» una asociación autónoma e independiente del Estado, en la que se encuentran organizadas todas las clases sociales y grupos de interés. La razón de ser del gremialismo es la pluralidad de clases sociales y sus respectivos intereses. El principio «funcional» comprende todas las actividades del hombre y sanciona cada una de ellas con los derechos correspondientes a la «función». En el reparto de funciones y competencias se encuentra la garantía de las libertades reales. Maeztu se inclina por las tesis propias del «pluralismo» británico frente al concepto de soberanía estatal. No había razón alguna para dar por buena la tesis del poder soberano del Estado, ni nadie que mirara con los ojos la realidad social podía admitir la existencia de la voluntad general de Rousseau o la estatolatría de Hegel. Antes al contrario, la sociedad ofrecía el espectáculo de una multitud de grupos y corporaciones, dueños cada uno de su propia esfera y servidores de sus diversos fines y funciones. De esta forma, Maeztu se muestra partidario de una cierta forma de anarquismo legal, es decir, de la relativa disolución de los poderes del Estado, donde pueden ser ejercidos directamente por los ciudadanos y las instituciones gremiales.

El contenido de La crisis del humanismo en modo alguno pasó inadvertido para sus contemporáneos. Quizá fue Salvador de Madariaga, amigo de Maeztu por aquel entonces e igualmente relacionado con los escritores de «The New Age»28, el primer comentarista de la obra, que no dudó en calificar de «excelente»29. En un sentido igualmente elogioso, se manifestó el escritor catalán Eugenio d'Ors, que vio en La crisis una «excelente y nueva teorización del gremialismo»30. Años después, Antonio Sardinha, líder intelectual del Integralismo Lusitano, la consideró breviario de pensamiento tradicionalista, por su insistencia en el principio del pecado original y en la instauración de un sistema gremial31.

La crisis del humanismo despertó igualmente el interés de los católicos. No era para menos; dado que hasta entonces Maeztu había sido uno de los representantes del liberalismo intelectual en España. Pero la valoración de sus contenidos fue, en gran medida, ambivalente. Así, Rafael García y García de Castro -futuro obispo de Granada- vio en ella el afortunado abandono por parte de Maeztu de los principios liberales; pero también le reprochó una insuficiente asimilación de la dogmática católica. Maeztu valoraba en mayor medida los factores menos transcendentes del catolicismo, es decir, la jerarquía, el culto y la propagación de los sentimientos de identidad y de comunidad. En el fondo, parecía que para Maeztu la religión brotaba más de una «necesidad de coherencia social» que de «las relaciones del hombre con Dios»32.

La crítica de las izquierdas fue más dura. Luis Araquistain le reprochó sus objeciones al socialismo. Lejos de configurar un absolutismo de Estado, era un absolutismo de la sociedad. No obstante, la idea más combatida por Araquistain fue la de objetividad de las cosas y su primacía, cuya consecuencia podía ser, a su juicio, una regresión hacia un sistema de carácter teocrático, «a una civilización como la china, o a una sociedad tan estéril y terrible como algunas congregaciones religiosas»33. Otro socialista, Fernando de los Ríos, se apresuró a dejar bien claro que su interpretación del Renacimiento -sustentada en su obra El sentido humanista del socialismo- era por entero diferente a la de Maeztu. Por otra parte denunciaba el principio de «función» como puramente «formalista», sin contenido real, pues resultaba incompatible tanto con el sistema capitalista como con el socialista34.

Con mayor acritud se expresó el discípulo de Giner de los Ríos e institucionista de pro, Francisco Rivera Pastor, quien, recordando la anterior compenetración de Maeztu con el pensamiento moderno, consideró La crisis como una regresión intelectual. Ahora, Maeztu aparecía como un auténtico tradicionalismta negador del progreso y defensor del pecado original; todo lo cual equivalía políticamente al «ruralismo, a los arcaicos latifundios patriarcalistas, a la concepción pseudoaristocrática de una decadente república platónica…»35.

Más recientemente, La crisis del humanismo ha sido vista, al menos por algunos historiadores del pensamiento español contemporáneo, como precedente ideológico del fascismo e incluso del régimen del general Franco. Así, José María de Areilza calificó la obra como «lejana predicción de los fascismos europeos»36. Posterioremente, Salvador de Madariaga -cuyas alabanzas a La crisis del humanismo ya conocemos- sostendrá una tesis semejante en su discutible ensayo España. La obra de Maeztu era «una de las primeras y mejores definiciones del Estado autoritario funcional que se ha escrito en Europa»; y llama al escritor vasco «precursor del falangismo y aún quizás del fascismo»37. En la misma línea, el historiador marxista Manuel Tuñón de Lara afirma que Maeztu, se adelanta a Mussolini en la concepción de una «sociedad sindicalista»38.

¿Qué decir de tales aseveraciones? Ante todo, destacar su superficialidad. En el caso de Areilza, su opinión era comprensible en un momento, como 1941, de exaltación totalitaria, tras el final de la guerra civil. Madariaga, por su parte, fue siempre un historiador sumamente superficial, que, salvo en su célebre biografía de Bolívar, no pasó del afán divulgativo39. La opinión de Tuñón de Lara, como de costumbre en la obra de este autor, era más política que propiamente historiográfica. Se trataba, en el fondo, de interpretar a Maeztu como fascista; y con él al sistema político nacido de la guerra civil.

En ninguno de los casos, hubo un análisis mínimamente serio de la obra. Y es que, a diferencia de lo sustentado por estos autores, la concepción corporativista de Maeztu dista mucho de ser favorable a cualquier forma de totalitarismo, pues uno de sus aspectos centrales consiste en la limitación del poder estatal, que se reduce, en la práctica, a la función de armonizar la vida social. De hecho, uno de los grandes teóricos del totalitarismo, Carl Schmitt, vio en el guildismo y en el pluralismo británicos, base de la concepción social de Maeztu, una teoría que encubría el dominio político de los «poderes indirectos» frente a la soberanía estatal40.

Por otra parte, las reflexiones de Maeztu se inscribían claramente en la crisis del Estado liberal de Derecho característica del período posterior a la Gran Guerra, que implicó la creación de nuevos marcos institucionales de distribución de poder que llevaban a un desplazamiento en favor de las fuerzas sociales organizadas de la economía y la sociedad en detrimento de un parlamentarismo debilitado41. Como en el resto de Europa, la sociedad española -si bien con cierto retraso, dado su menor desarrollo económico- comenzó a articularse en organizaciones que representaban, desde distintos prismas ideológicos, los diversos grupos e intereses sociales. Este proceso de «corporativización» fue clave tanto por el desarrollo que experimentaron como por el protagonismo que lograron las distintas asociaciones42.



Pedro Carlos González Cuevas

Communal Freedom and Democracy

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Communal Freedom and Democracy

Adolf Gasser’s attempt of a conceptual clarification

by Dr phil René Roca, historian, Switzerland

Ex: http://www.currentconcerns.ch/

The historian Adolf Gasser (1903 – 1985) suggests that democracy is a historically evolved but rather fragile achievement. In his major work “Gemeindefreiheit als Rettung Europas” (Communal freedom as the salvation of Europe)1 and in many further contributions he reflects on a definition of the term “democracy” which should be as comprehensive as possible. For Gasser the term has a historical, an ethical and an educational dimension. The term “communal freedom” is at the center of his considerations. Starting point of his theoretical considerations is a historical paper on “sound and fragile democracies” in Europe after World War I.

In 1919 all European states up to the Russian border were characterized by democratic structures. But during the next two decades the democratic beginnings disappeared in favor of authoritarian or totalitarian systems of government in many states. This could particularly be observed in states, which had introduced a democracy for the first time after World War I. Gasser does not consider the principal reason for this “widespread dying of European democracies” a foreign problem, but a domestic one. Democracy particularly failed in those states, in which it did not succeed to combine freedom and order to an “organic compound”. Those states, which had a specifically shaped democratic tradition, resisted the totalitarian temptation despite the world economic crisis and World War II. Among them were, besides the Anglo-Saxon countries USA and Great Britain, the Scandinavian states, Holland and Switzerland. This, Gasser says, proves that there are two kinds of democracies, sound ones and fragile ones:

“Therefore we are to refrain from claiming that somehow democracy as such or an interlinked economic system has failed. We rather have to keep in mind that the uniform term ‘democracy’ is a quite unrealistic abstraction. In reality the term democracy, like all other social auxiliary terms, reveals a different trait from country to country. ‘Democracy’ and ‘democracy’ can be rather different things despite corresponding constitutional features; particularly, its nature is determined by the spiritual-political attitude of the individual people. In other words: After all, democracy is not a matter determined by the kind of state order, but a matter determined by the people’s convictions.”2

Thus Gasser describes a feature, which makes it possible to differentiate clearly between the sound and the fragile democracies at any time. The terms “spiritual-political attitude” and “people’s convictions” illuminate an ethical dimension of democracy. To Gasser, this dimension is not ideationally inflated or ideologically curtailed, but linked with a fundamental structural feature. The feature is the organization of the communal and regional autonomy. All sound democracies, as different as they may be, have a

“traditional and extremely lively self-governing system of their local and regional subsidiary associations. Widespread decentralization of the administration: that is the essential characteristic of these ‹old and free people’s states›.”3

Gasser considers the contrast between decentralized and centralistic administrative systems to be the key to the problem, which explains why some democracies were successful and sustainable and others were not.
For Gasser, the starting point for decentralized public administration is the “free”4 commune, which has cooperative roots. The cooperative as “a particularly finely-woven organizing element”5 defines itself by the three so-called “selves”: self-governing, self-determination and self-help. If free communes, organized in such a manner, come together to build a state, this state is federal, thus structured in a decentralized way. The human dimension in this structure must be based on certain ethical principles. The people, based on their specific cultural background, develop into these socio-economic structures; they shape and advance them. The ethical principles provide the stability, security and predictability:

“State formations, which grew from bottom to top and which represent the concept of self-governing, are usually communities of a very special kind; because they are primarily held together by spiritual and ethical forces while power-political braces are subordinate.”6

The ethical dimension of communal freedom

With the description of different principles Gasser tries to define the ethical dimension more clearly. In this context, he speaks of a kind of “synthesis of civic watchfulness on the one hand and civic self-discipline on the other”7. This mental-moral dimension cannot simply be introduced by a written constitution. It does also not follow automatically, if a commune is free. In order to make this dimension humane, moral values are required, which are to be taught in education and set as an example within the political level. The free commune, Gasser writes, educates the citizens not to a quantitative, but to a qualitative way of civic thinking. This important element shows the commune as “autonomous small-scale organization”, as “a school for citizenship”8 in an educational context, which is both founded on values and creates them.
In the following Gasser’s different ethical principles will be described in more detail.

The principle of co-ordination

Civic community life is only possible in the context of an organizing principle. The two possible organizing principles are the principle of subordination and that of co-ordination. In other words, the principle of administration by authoritarian dominance opposes that of co-operative self-governing.

“Either the stately order becomes secured by an authoritarian command and power apparatus, or it is based on the free social will of a people’s collectivity.”9

In the first case the structure of the state develops essentially from top to bottom, in the second case from ground to top. Either the people have to get used to being commanded or (most of them) to obeying, or they are guided by the will to co-operate freely. In this context, Gasser mentions that there are of course mixed forms; however, all the examples show a certain tendency towards one of the two organizing principles.
For Gasser, the contrast “rule vs. cooperative” is the most important contrast social history knows. It sheds light on the most elementary foundations of human community life and has mental and moral consequences.

The principle of voluntariness

Co-operatively organized communes require free, social co-operation. The working together represents a synthesis of freedom and order and is possible only if the will to free collective co-operation is inseparably combined with the will to free collective integration. The free acceptance of voluntary and adjunct work in addition to the regular duties results in a militia system, which is indispensable for the smoothest possible social procedures on all national levels.

“A sound development of democracy on a large scale will only be possible where it is practiced and realized on a small scale every day.”10

The principle of shared responsibility

16.jpgThe voluntary cooperation, which is practiced within the manageable area of the commune, naturally leads to a further ethical principle, the principle of the shared responsibility. It develops, as Gasser expresses, an “internal bond to reality”,11 i.e. primarily to the commune, which shapes a “system of collective readiness to share responsibility and to political tolerance”.12 Freedom must combine itself with a feeling of duty for the public matters, because

“[…] where there is a lack of genuine will for responsibility, for shared responsibility, there is an immediate threat that freedom will dege nerate into bare individualism and egoism.”13

However, the individual does not completely dissolve in the collective; it must not subordinate to the community:

“Starting point of the cooperative, decentralized states is not the individual freedom, but the communal freedom. But there is a seed of individual freedom to be found inevitably in the communal freedom […].”14

The principle of the collective respect for law

A collective conviction of what is right is central to the communal freedom. Those national state systems that were developed from bottom to top, that are based on communal freedom, show a completely different development of the law than centralistic authoritarian states. The “ancient right” (or also the “ancient freedom”) developed in co-operative and decentralized political systems has become a tradition throughout the centuries, and in conflict situations it represents an important point of reference in each case. The old civic and legal education – often verbally delivered and condensed in a kind of customary law – was of great importance, because it was backed by the collective. This backing of the existing order, often expressed in rituals and symbols, is only possible if the order is considered to be absolutely legal in its basic outlines. If this legal order is to be changed and adapted, it is usually developed, but not destroyed.

The principle of collective confidence

According to Gasser, the co-operative combination of freedom and right creates forces of “outrageous moral strength”15. For Gasser, this is above all general political and social confidence. The individual’s readiness for confidence is a prerequisite for a collective fundament of trust. Under these circumstances, no communal citizen must fear a political breach of law by fellow citizens. This “being free from fear” represents a substantial characteristic of all co-operative and decentralized communities for Gasser. Where the communal freedom exists, people steadfastly stick to the decentralized organizing, self-governing principle, and usually native confidants are entrusted with certain executive functions. So bi-partisan readiness for confidence can develop, which leads to the acceptance of the democratic majority principle:

“Only from deep-rooted confidence in communalism, i.e. to the free community will, one is able to generally take it as natural that a majority considers the free will of a minority if possible – and a minority is for its part morally obliged to submit by its own free will to the free will of a people’s and a parliament majority.”16

The principle of collective tolerance

In the free commune, Gasser says, everyone is forced to compromise with the political opponent. If the communal citizen gets accustomed to being responsibly moderate in this small, assessable area, then “from the beginning strong forces of reconciliation and mediation are involved.”17
The “communal freedom” is not able to manufacture heavenly conditions. Human passions and feeling of hate remain components of human nature. However, these often destructive forces repeatedly encounter “wholesome barriers” in the free commune, which “diminish their political explosive effects”, Gasser states.18 One of these “barriers” is the readiness to compromise:

“Striving for clear compromises backed by genuine consideration for the justified vital interests and attitudes of our fellow citizens, also of those organized in other parties, must become second nature somehow, if the liberal democracy were to become a firmly rooted way of life.19

From this collective tolerance emerges a high readiness to accept good faith as a guiding value. Thus one cannot absolutely guarantee but effectively secure the inner and outer peace of a community nevertheless.

Conclusion: the principle of ethical collectivism

Gasser’s term “communal ethics” is determined by the described mental and moral principles, to which the individual must feel bound. For its existence and advancement, the free commune requires such a “collective will to bind oneself”20 or, expressed differently, an “ethical collectivism”21. Gasser thus sheds light on the “internal nature”22 of democracy and gives his definition a socio-psychological dimension by including ethical principles.
Gasser always refers to this dimension in his texts. He starts out from a positive concept of man: Man is good by nature.23 As a person, each human being has certain rights and duties and can establish his necessary social relations at best in the surroundings of a free commune. Thus people develop their skills and forces and are able to solve the problems together with others. Thus, the autonomous small areas form the basis, and take influence on greater stately regions, regardless of their structure.
“Moral bonds” secure the peace of a society against inside threats as well as threats from outside. All communal and federal democracies, built from bottom to the top, have a basically pacifist tendency, Gasser claims. With its synthesis of freedom and order, the decentralized structure including free communes reaches a degree of social justice, which curbs militarist and expansive forces. The individual is more content, feels safe and cannot easily be seduced to foreign policy war adventures.

Educational dimension of communal freedom

Finally the “educational dimension” of communal freedom is to be presented briefly, as Gasser repeatedly mentions it. For him, the commune is a “humanitarian school for citizenship”24 and in a lively democracy it serves an educational purpose which should not be underestimated:

“Only in an assessable, natural community the normal citizen is able to acquire what we use to call political sense of proportion, a feeling for the human proportions. It is the only place where he can learn to understand and consider the justified requests of his neighbors and their different ideas and interests in the daily discussion; it is the only place where the necessary minimum of communal structure develops on the ground of freedom, which is able to effectively impede the tendency to authoritarianism as well as to anarchy. In this sense autonomous small areas remain irreplaceable schools for citizenship, without which the free democratic state would wither from the roots.”25

A lively democracy does not only require educated humans, who master cultural techniques and who acquire certain abilities and skills and develop them. A democracy also requires as it were the people’s “emotional intelligence”.26 This intelligence must develop in the family first, as well as in the assessable, natural community first; later on it can also be effective beyond that sphere. As far as educational issues are concerned, Gasser always refers to the work of Heinrich Pestalozzi (1746 – 1827). In digesting and summarizing the different historical aspects and the ideas of progressive thinkers, Gasser can be called the actual discoverer of the “small region” and “assessability” as the basic conditions of a working democracy. Therefore it is certainly worthwhile to apply his ideas, modified by new research, to the question how direct democracy was historically developed in Switzerland.•

Translation Current Concerns

1 Adolf Gasser, Gemeindefreiheit als Rettung Europas. Grundlinien einer ethischen Geschichtsauffassung, Second, grossly extended edition, Basel 1947, p. 7–12.
2 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 10.
3 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 10f.
4 Gasser uses the term “free” or “freedom” in the context of a national political category of the “commune” quite comprehensively. He does not limit it to the political rights of co-determination. Those were limited in Switzerland in the “ancient régime” to the citizens of a single commune, i.e. they were exclusive. Only in times of the Helvetica and then again during Regeneration the rights of co-determination were extended on a cantonal level. Women were excluded longest.
5 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 15.
6 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 17.
7 Adolf Gasser, Bürgermitverantwortung als Grundlage echter Demokratie, in: Gasser,A., Staatlicher Grossraum und autonome Kleinräume, Basel 1976, p. 43
8 Adolf Gasser, Staatlicher Grossraum und autonome Kleinräume, Basel 1976, p. 147
9 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 12
10 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 11
11 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 19
12 Adolf Gasser, Der europäische Mensch in der Gemeinschaft, in: Gasser, A., Staatlicher Grossraum und autonome Kleinräume, Basel 1976, p. 4
13 Gasser, Bürgermitverantwortung, p. 33
14 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 27
15 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 20
16 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 97
17 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 24
18 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 24
19 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 24
20 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 16
21 Gasser, Der europäische Mensch …, p. 4
22 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 10
23 Gasser, Gemeindefreiheit, p. 255
24 cf. Adolf Gasser, Die Schweizer Gemeinde als Bürgerschule (1959), in: Gasser, A., Staatlicher Grossraum und autonome Kleinräume, Basel 1976, p. 85–91
25 Adolf Gasser, Zum Problem der autonomen Kleinräume. Zweierlei Staatsstrukturen in der freien Welt, in: Aus Politik und Zeitgeschichte, Attachment to the weekly magazine Das Parlament, vol. 31/77, p. 4
26 cf. Daniel Goleman, Emotional Intelligence, New York, 1996

Adolf Gasser

The Swiss historian Adolf Gasser (1903–1985) completed his studies in Heidelberg and Zurich with doctorates in history and classical philology. From 1928 to 1969 he taught as a grammar school teacher in Basel. In the course of his lectureships he became private lecturer in 1936 and an adjunct professor in 1942; from 1950 to 1985 he taught as an extraordinary professor for constitutional history at the University of Basel. After World War II he started an active lecturing activity in the Federal Republic of Germany. Gasser was joint founder of the Council of European Municipalities and Regions, from 1953 to 1968 he was a Liberal member of the Grand Council of Basel, and he was a president of the FDP of the canton Basel.
 

His works include (published in German language, all titles are translated here for better understanding):
– The territorial development of Switzerland. Confederation 1291–1797, 1932
– History of the People’s Freedom and Democracy, 1939
– Communal freedom as salvation of Europe, 1943
– On the foundations of the state, 1950

Les trotskystes rouge-bruns du MNR

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 2002

 

Les trotskystes rouge-bruns du MNR

 

Edouard Rix

 

JNP.gifSeptembre 1938 : le congrès fondateur de la Quatrième Internationale, regroupant les partisans de Trotsky, se tient à Paris. En France, deux groupuscules trotskystes rivaux s’agitent : d’un côté le Parti communiste internationaliste (PCI) de Raymond Molinier et Pierre Franck, qui édite le journal La Commune, de l’autre, le Parti ouvrier internationaliste (POI) de Jean Rous et Yvan Craipeau, chacun privilégiant le travail d’infiltration au sein du Parti socialiste ouvrier et paysan (PSOP) de Marcel Pivert. Juin 1940 : la France est vaincue et occupée par les Allemands. Les Trotskystes hexagonaux sont totalement désorientés : la guerre n’a pas provoqué la révolution attendue, le pacte germano-soviétique a scellé l’alliance d’Hitler et de Staline, et la Quatrième Internationale s’est révélée inutile. C’est dans un tel contexte que certains, convaincus de la victoire durable de l'Allemagne nationale-socialiste, élaborent une sorte de «trotskysme rouge-brun».

Les militants regroupés autour de La Commune décident de poursuivre leur travail d’entrisme. Les partis «ouvriers» étant tous interdits, ils jettent leur dévolu sur les mouvements collaborationnistes et créent une fraction clandestine au sein du Rassemblement national populaire (RNP) de Marcel Déat, qui incarne l’aile gauche de la collaboration et regroupe nombre d’anciens socialistes, notamment pivertistes. C’est ainsi que le frère de Raymond Molinier, Henri, présentera un rapport et prendra la parole dans un congrès du RNP. Autre taupe trotskyste, Roger Foirier, qui avait avant-guerre noyauté les jeunesses du PSOP au point de devenir membre de leur bureau fédéral de la Seine. Il réalisera, sous le pseudonyme de Roger Folk, les affiches des Jeunesses nationales populaires (JNP) pendant que sa femme, Mireille, donnera des cours de gymnastique aux jeunes filles du mouvement.

L’autre groupe trotskyste, le Parti ouvrier internationaliste, tente lui aussi de s’intégrer au paysage politique collaborationniste. En juillet 1940, ses membres créent le Mouvement national révolutionnaire (MNR), qui opte pour une stricte clandestinité, ses réunions se tenant sous le couvert d’une association des Amis de la Musique. Proche des thèses de Marcel Déat et des collaborateurs de gauche, le MNR édite deux journaux clandestins : La Révolution Française, puis Combat national-révolutionnaire. Dans son n°1 de septembre-octobre 1940, La Révolution Française, tout en s’affirmant «ni pro-Allemand, ni pro-Anglais, ni pro-Français», se déclare «partisan de la collaboration européenne avec l’Allemagne». Un slogan proclame d’ailleurs : «Collaborer ? Oui, mais pas sous la botte». Il est vrai que le MNR se rallie ouvertement aux orientations de l’Ordre nouveau européen voulu par les Allemands : «L’Etat et la nation doivent se défendre (...) contre les tentatives de domination occulte, qu’elles proviennent du judaïsme, de la maçonnerie ou du jésuitisme». Le n°1 de mars 1941 de Combat national-révolutionnaire précise que le MNR «souhaite un Etat fort, hiérarchisé, où la régulation entre les divers éléments de la population soit établie par des corporations». Outre son leader Jean Rous, qui a participé à la gauche du PSOP et à la direction du POI, l’on croise au MNR nombre de trotskystes. C’est le cas de Lucien Weitz, qui fut le principal animateur de la gauche révolutionnaire au sein de la SFIO socialiste, puis de l’aile gauche du PSOP, ou encore Fred Zeller, ancien proche de Trotsky et membre de la SFIO, futur grand-maître du Grand Orient de France. Ce dernier commentera son engagement au MNR dans son autobiographie Trois Points c’est tout, et, jouant de l’ambiguïté du groupe, insistera sur ses prises de position anti-allemandes.

L’expérience originale du MNR est totalement interrompue dès juin 1941 par les autorités allemandes qui ont introduit deux espions dans l’organisation. Jean Rous est condamné à six mois de prison, une peine mesurée pour l’époque. L’attaque de l’URSS par l’Allemagne, le 22 juin 1941 modifie radicalement la situation. La Commune cesse son entrisme au sein du RNP. La plupart des membres du MNR rallie la Résistance ou les partis de gauche, tandis qu’une poignée s’engage franchement dans la collaboration avec les Allemands.

Une page d’histoire à rappeler aux actuels boutiquiers trotskystes, Krivine, Laguiller et Lambert, qui font profession d’antifascisme.

Edouard Rix, Le Lansquenet, printemps 2002, n°15.

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samedi, 13 novembre 2010

L'antiracisme: une arme au service de l'oligarchie

L'antiracisme : une arme au service de l'oligarchie

par Yvan BLOT - Ex: http://www.polemia.com/

 

1945621319_small_1.jpgDans l’histoire, les oligarchies se sont toujours opposées au peuple sur le thème du déracinement. Il importe que l’homme soit une matière première mobile pour l’économie et toute racine est considérée comme une contrainte, que ce soit pour un empereur multinational comme celui des Perses de l’Antiquité, que ce soit pour un dictateur moderne à la Staline ou que ce soit pour des oligarques marchands.

 

Antiracisme et culte de l’argent

Dans notre monde actuel, suite aux excès du matérialisme nazi, l’antiracisme est devenu la base idéologique sur laquelle l’oligarchie espère fonder son autorité. L’antiracisme forme un couple indissociable avec le culte de l’argent car la seule discrimination autorisée dans un monde matérialiste est précisément celle de l’argent. Si vous fondez un club de Blancs exclusifs se retrouvant entre eux (ou un club de Noirs, d’ailleurs, mais c’est moins grave car ils sont une « minorité »), la réprobation, voire la loi s’abattra sur vous et vous serez « puni » ! Mais si vous fondez un club dont la seule condition d’admission est de payer 1.000 voire 5.000 euros par mois, cela ne posera aucun problème aux bonnes consciences officielles. Seul l’argent a le droit de discriminer les hommes.

L’antiracisme, cœur de l’idéologie du déracinement

L’antiracisme est le cœur de l’idéologie du déracinement et de ce que Heidegger appelle « la destruction de la Terre », c’est-à-dire la destruction de la base sur laquelle se fonde un habitat humain spécifiquement humain. Le racisme n’est pas la réponse à l’antiracisme car il se meut dans la même sphère du matérialisme : l’homme est une chose au service de la volonté de puissance et doit donc être traité comme une matière première interchangeable. La seule variante est que le racisme espère obtenir l’interchangeabilité des hommes par l’homogénéité biologique obligatoire alors que l’antiracisme espère obtenir l’interchangeabilité grâce au mélange obligatoire. Dans les deux cas figure le mot « obligatoire » car le matérialisme du Gestell (mot de Heidegger pour désigner le système qui arraisonne les hommes à l’utilitarisme) est en fait autoritaire et destructeur des libertés. On le voit bien, le racisme comme l’antiracisme obligatoires, lorsqu’ils sont au pouvoir, étouffent les libertés, à commencer par la liberté d’expression malmenée en France par les lois Gayssot et consorts.

Religion de l’ego et religion des droits de l’homme

Antiracisme comme socle et culte de l’argent comme idéal (comme « ciel », dirait Heidegger), le système oligarchique s’oppose aussi à la divinité et à l’humanité. Il s’oppose à la Divinité car la religion est un marqueur ethnique puissant et gêne la volonté de transformer les hommes en matière première interchangeable. Le Gestell divinise l’ego humain car en flattant l’ego des citoyens on peut arriver à les manipuler. C’est ce qu’ont fait les faux prophètes (ouvrage d’Yvan Blot à paraître chez Jean Picollec prochainement) : Voltaire dit aux hommes : soyez votre Dieu ! Rousseau, soyez votre Roi ! Marx, soyez votre patron ! Freud, soyez Don Juan ! La religion de l’ego pompeusement baptisée religion des droits de l’homme a pour but de permettre à l’oligarchie de manipuler les hommes en leur retirant tout sens du sacré.

La dictature molle : le contrôle des âmes par les médias

Dès lors, l’homme devient, comme l’écrit Heidegger, un « animal technicisé », un être qui profite de la technique pour satisfaire ses instincts animaux (pas seulement sexuels, il y a aussi la volonté de puissance, par exemple). Sois heureux et tais-toi : tu seras interdit de référendum et d’initiative populaire, tu devras voter pour des hommes choisis par des oligarques que sont les bosses des partis, tu auras une liberté d’expression limitée (censure si tes idées gênent et prison et amende si le juge te juge arbitrairement raciste). Le régime n’est démocratique qu’en façade. Sa réalité est celle d’une oligarchie qui pratique une dictature molle (on recourt le moins possible à la contrainte physique mais on veut s’assurer par les médias le contrôle des âmes).

L’oligarchie antiraciste est antiraciste comme l’URSS était une démocratie « populaire » : le mot « antiraciste » comme le mot « populaire » sont là pour indiquer qu’on a affaire à une notion taboue : on n’a pas le droit de remettre en cause le pouvoir PARCE QUE il est « populaire » ou « antiraciste ». Par contre, donner la parole au peuple comporte un risque de « populisme » (de remise en cause du pouvoir oligarchique), donc de « racisme » supposé, ce qui permet de verrouiller le système politique en toute bonne conscience.

Grégariser en déculturant

Enfin, quatrième caractéristique de l’oligarchie antiraciste : elle veut grégariser à tout prix les hommes et en faire des masses incultes donc manipulables. Inculte ne veut pas dire sans savoir. On veut bien des jeunes spécialisés pour servir l’économie sans broncher. Mais il faut absolument essayer de leur retirer la faculté de juger et pour cela s’attaquer à la culture générale. Le marxisme a servi cet objectif en traitant la culture générale de bourgeoise et créatrice d’inégalités. Mais le système oligarchique marchand exècre aussi la culture générale qui risque de former des hommes libres, des « personnalités ». On ne forme alors plus que des spécialistes, des rouages pour le système au pouvoir : anglais et informatique d’abord !

On obtient en utilisant les schémas en croix de Heidegger pour approcher l’être du système le schéma suivant :

Culte de l’argent
_
Ego divinisé _ oligarchie_ masse grégaire
_
Antiracisme

Sur ce schéma, on voit bien que le socle du pouvoir oligarchique est l’antiracisme, lequel à la limite n’a plus grand-chose à voir avec la race puisqu’on parlera de racisme anti-jeunes ou anti-vieux ou anti-féminin ou anti-ouvrier, etc.

L’argent, idéal du système

L’idéal du système est incarné par l’argent qui se substitue aux autres formes d’idéaux ; la religion est évacuée au profit du culte de l’ego et l’humanisme classique, qui forme des citoyens libres, est détruit au profit d’une formation technique de spécialistes appelés à devenir des rouages du système. L’aliénation, pour reprendre un mot juste, une fois n’est pas coutume, du marxisme, est alors à son comble. L’idéal est que le citoyen dénationalisé, consommateur matérialiste et interchangeable, aime le régime dans lequel il vit, accepte de ne pas être associé au pouvoir sinon par des simulacres (élections contrôlées étroitement par les chefs de parti) et s’agite au jour le jour, comme l’écrivait Tocqueville dans un écrit prophétique, pour « se procurer de petits et vulgaires plaisirs ». Quant aux oligarques, ils se réservent les plaisirs les plus grands, ceux qui satisfont leur volonté de puissance. C’est ainsi que sur la base de l’antiracisme (faux nez finalement de l’égalitarisme totalitaire), l’oligarchie contrôle les âmes de ceux qu’elle a le culot de nommer encore « citoyens » alors qu’ils sont des sujets, mieux encore, des objets manipulés par le système utilitariste et matérialiste du Gestell. Sans trop de contraintes physiques, le système réussit ainsi à faire de l’homme libre un « animal technicisé », à détruire l’humanisme édifié au cours des siècles en Occident par la synthèse du christianisme et de l’héroïsme antique. Le système est à sa façon totalitaire, même si les formes les plus brutales et primitives du totalitarisme ont aujourd’hui disparu de nos contrées.

Yvan Blot
16/10/2010

Correspondance Polémia – 25/10/2010

Note de la rédaction : « L’immigration de masse est une absurdité dans un pays avec 4 millions de chômeurs et il est très difficile de la justifier avec des arguments rationnels. L’oligarchie en tire cependant bénéfice. Tout propos qui attente au dogme immigrationniste est donc immédiatement sorti du champ du débat pour être frappé d’anathème. L’oligarchie finance notamment pour cela une myriade de micro-associations dites antiracistes dont les indignations sont complaisamment relayées par son appareil médiatique. » (Commentaire sur Le Monde .fr, à propos de l’affaire Guerlain, 25/10/2010)

 

Yvan Blot

How the Left Won the Cold War

How the Left Won the Cold War

 
 
fascist-leftists.jpgThe following address was delivered to the HL Mencken Club's annual meeting in Baltimore, October 22, 2010.
I’m often asked why there is need for an independent or non-aligned Right. Aren’t Sean Hannity, Sarah Palin and Rich Lowry covering all our bases? Why should we create a movement on the right when FOX and those middle-aged people marching around at Tea Parties with costume-store wigs, are doing our job? Why give ammunition to the Democrats by showing that our side is divided? We should be pulling together so we can pummel Nancy Pelosi and Harry Reid in next month’s referendum on Obamacare.

Engaging this question fully would require more than a ten-page exposition. Indeed there is no way to address it without being in this instance a Hegelian. It was the great German philosopher Hegel who argued that the true definitions of concepts and movements are necessarily genetic. Such definitions can not be dealt with properly, unless we go back to the origin of what is being defined. A tree is not what it first appears to be, but the history of that object, from the time it was a seedling. So too there is no way to understand where we are at the present time without noticing where we were before. The present state of any institution or movement reflects a dialectical process teeming with strife. It is only when, according to Hegel, conflicting forces can be brought together in a permanent synthesis that the inherent contradictions are resolved. Before that point is reached, the dialectic must go on, as something integral to what is being formed.

My intention is not to belabor you with Hegelian concepts. It is rather to bring up the unfinished dialectic of the right, for understanding why we do not belong to the authorized “conservative movement” and why that movement has become an echo of the Left. Allow me then to start with this generalization. In the second half of the 20th century, the other side, from our perspective, won almost everywhere in the West. But the Left that prevailed was not the gerontocracy and garrison socialism associated with Soviet rule. This Left had little to do with occupation armies in baggy pants, with inefficiently distributed goods and services, and with an arsenal of atomic missiles. The Left that triumphed was a truly radical one, and it celebrated its victories in Western countries that were straining to practice more egalitarian forms of democracy.

Whether the American civil rights movement and its later implications for feminists, gays, transvestites, and illegals, the ascent of antifascism and tiers-mondialisme in France, Italy, Spain and the Lowlands, or the morbid preoccupation of Germans with their undemocratic past and troubling Sonderweg, the post-Communist Left has had a constant task. It seeks to right the wrongs of the past, and specifically those wrongs that are blamed on White Christian, Indo-European civilization.

It may be superfluous to go over here the characteristics of this Left, since most of you are aware of what is being described. I might also recommend my book The Strange Death of European Marxism, which shows how the present Left differs from both Marxism in theory and Communism in practice. This movement is conventionally referred to as cultural Marxism, and it is now at war with anything that is not sufficiently radical in the social sphere. It adherents blame bourgeois society for such evils as “racism,” “sexism,” “homophobia,” and the horrors of Hitler’s Third Reich. This post-Marxist Left appeals to the guilty conscience of the West for having held down everyone else and for not having fought with enough determination against “fascism.”

Though in Europe this Left defends Communist regimes and typically plays down the crimes of Stalin’s Russia, it is not primarily interested in socialism. It is interested above all in reconstructing society, in integrating Western nation states into global organizations and in opening Western countries to Third World immigration and to popularizing non-Christian or non-Judeo-Christian religions. For those who may have noticed, the EU has become a major instrument for this desired social experiment in Europe.

Where this Left overlaps Christian theology is in its stress on guilt and the need for atonement. But the Christian attitudes have been recycled into a replacement theology, one that develops a cult of revolutionary saints and victims, and one that produces a liturgical calendar centered on politically correct remembrance. In this replacement theology victimizing groups are expected to exhibit unconditional atonement toward those considered historical victims.

This post-Marxist Left began to supplant Communism as the major leftist ideology in the West before the fall of the Soviet Empire. Already in the 1960s, a youth culture rejecting bourgeois standards of conduct and in close alliance with anti-colonial Third World revolutionaries, had taken root in Europe. Energy began to flow in the large Communist parties in France and Italy away from traditional party cadres toward young radicals. This rising elite were concerned with combating discrimination against women and immigrants and the marginalization of gays more than they were with the nationalization of productive forces. Although the emerging order became more apparent after the violent demonstrations of the soixante-huitards in Paris in May 1968 and the organization of Red Brigades in Germany and Italy, signs of a changing guard were present before.

In a perceptive work, Sognando la rivoluzione: La sinstra italiana e le origini dei sessantottanti, the Milanese political historian Danilo Breschi shows how Communist youth organizations and workers’ strikes fell into the hands of what the old cadre called “decadent bourgeois adolescents.” While those who showed up for strikes in the 1960s in Turin, Genoa, Milan, Bologna and other cities in the northern industrial belt were self-proclaimed anti-capitalist radicals, recruited from Catholic Action, Trotskyist factions, and ethnic minorities, for the under-30 demonstrators, the real agenda was more ambitious -- but also more feasible. It was a social-cultural transformation to be engineered from above. Longtime advocates of Marxism, like film-maker P.P. Pasolini and Marx-scholar Lucio Colletti, raged against these usurpers, and they called for ousting them from respectable leftist gatherings. Colletti went so far as to call the police to eject these “decadents” from his office; and Pasolini saw their agitation on the Italian Left with growing apprehension and referred to their statements as a “verbal disease.”

This post-Marxist, anti-bourgeois Left had less sympathy for Communist parties than they do for other socialist groups, and they have gotten on particularly well with the Greens. As the Greens shifted their focus from environmentalism to filling Western countries with the Third World poor and with promoting alternative lifestyles, they became indistinguishable from the post-Marxist Left. By the end of the Cold War, Communism in the West had become obsolete because the cultural Marxist Left had taken its place and because this replacement Left was shaping the left side of the political spectrum in western Europe.

The Communist parties in France, Italy, and Germany continued to function as one of several bastions of Cultural Marxism but not usually as its vital center. A similar process unfolded in the Soviet empire more slowly. Under the noses of Communist officials in East Germany, cultural radicals, and most prominently Stasi informant and now head of the German Party of the Democratic Left, Gregor Gysi, were coming into their own. The DDR’s collapse allowed these radicals to join those in the West who were pushing the same antibourgeois projects, namely, gay and feminist rights, harping on fascist dangers, and turning nation states into branches of a global managerial regime.

One might try to challenge the eventual direction of my argument by insisting this has nothing to do with FOX or Glenn Beck. The conservative movement proclaims itself to be anti-leftist. It mocks the glorification of Islam and upholds Western democratic and feminist ideas; and it defends the sovereignty of the American state against international organizations. A well-paid GOP satirist, Mark Steyn, actually derides Europeans and Canadians nonstop for catering to anti-Western fanatics. I could not therefore be suggesting that our official conservatives represent cultural Marxist or liberal Christian quirks.

In fact I am suggesting precisely this view.

And I would make the further point that what separates our authorized right-center from the post-Marxist Left, in Europe and on the American and Canadian Left, is mostly quantitative. While the Left pushes Political Correctness without buts or ifs, the conservative movement expresses it in a less extreme form. But both groups reflect in varying degrees the same general cultural movement. Like our Left and like the dominant ideology in Western Europe, our 30- and 40-some conservative publicists are immersed in a leftist culture. And the result is something that all of them believe things that adults in the 1950s, including Communist sympathizers, would barely have understood.

It would be no exaggeration to say that Sarah Palin, who is an outspoken advocate of anti-discrimination laws for women, is more radical socially than were French and Italian Communist leaders sixty years ago. While old-fashioned CP members favored a centrally controlled economy and rooted for the Soviet side in the Cold War, unlike Sarah, they were not eager to punish sexists. And they didn’t give a hoot about gays, up until the time Communist parties were under siege from the post-Marxist Left. It is inconceivable that Communists of this era would have followed Jonah Goldberg, Charles Krauthammer, John Podhoretz, the neocon New York Post and the WSJ in affirming government-enforced “gay rights.” Two historians of the post-World War Two Communist movements in France and Italy, Annie Kriegel and Andrea Ragusa, depict a party leadership that belonged, even in spite of itself, to a bourgeois age. They stress the degree to which Communist parties embodied the social attitudes of the pre-Vatican Two Church.

Acceptable critics of the Islamic invasion of Europe like Steyn and Christopher Caldwell are targeting (and this must be noted) a specifically European experiment in multiculturalism. America’s willingness to take in and naturalize just about anybody does not bother these critics; presumably our big tent can hold lots more than we already have. By declaring ourselves to be a “propositional nation” held together by human rights and the belief in universal democratic equality, we are opening our doors to the world, or at least to those in the world who affirm our universalist creed.

I’ve also learned over the last two decades thanks to movement conservative celebrities: that Martin Luther King was acting specifically as a conservative Christian theologian when he spearheaded the civil rights revolution; that gay marriage, properly understood, may be a conservative “family value;” and that we are duty-bound to convert Muslims to our current notion of women’s rights and gay rights. It is precisely these ideas that make us “Western”; and if we truly value the glories of our civilization, which came into existence during some recent phase of late modernity, we should work to spread everywhere our high ideals. Equally relevant, those who have challenged our human rights beliefs, and most outrageously 19th-century counterrevolutionaries were actually “liberals.” Otherwise these mislabeled conservatives would have embraced the American creed of democratic equality!

A striking example of how deeply leftist thought patterns have affected the Right can be discerned in William F. Buckley responses to the attacks in the liberal/neocon press against the “anti-Semites” Joe Sobran and Pat Buchanan. In National Review in December 1991 and March 1992 and in his subsequent In Search of Anti-Semitism, Buckley distinguishes between those who are anti-Semites by conviction and those who are “contextually” anti-Jewish. His key distinction goes back to the Marxist notion of being an “objective reactionary,” meaning someone who challenges the preferences of the Communist Party. Buckley’s argument from context likewise recalls the charge in Europe against those who challenge multiculturalism, as greasing the skids for neo-Nazis.

From this standpoint, it does not matter whether or not one says something that is objectively correct. What counts is not upsetting certain VIPs. In Buckley’s brief, neither the malefactors nor the victims have anything to do with the European Holocaust. The catastrophe is being placed at the doorstep of anyone who allows himself to be intimidated into accepting it. Furthermore, the blame in this instance affects American Christians, who are required to show prescribed sensitivity toward particular American Jews. There are surrogate victims and surrogate victimizers, the first being Buckley’s dinner companions and those journalists who felt outraged, and the second being those who made offending remarks but who had nothing to do with Nazi crimes. Offenders had to be driven off the pages of National Review and out of polite society. They are or were the equivalent of what the Communists used to call “social fascists” and what the European guardians of PC consider “fascistoid.” Such antisocial types are contextually dangerous and therefore must be ostracized lest they do harm.

Note that our two contextual anti-Semites were not abetting violence against Jews, any more than European critics of Muslim immigration or German scholars who question the exclusive blame of their country for every major war are trying to unleash pogroms. They have simply run afoul of certain elite groups, by reopening an inconvenient debate. The conservative movement plays this game by declaring any question it doesn’t want raised forever closed. Such questions now include, among a myriad of other things, objecting in any way to the major congressional legislation of the 1960s.   

 

What did remain in the conservative movement from the 1950s through the 1980s was anti-Communism. American conservatives throughout this period were in favor of resistance to Communist expansion and generally viewed the Soviets as an evil empire. But the movement’s arguments against the evil empire changed over the decades, from defending Western civilization against a godless foe to standing up for global democratic values against a reactionary homophobic Russian enemy.

And these changing reasons for an anti-Soviet stand tell much about the movement’s leftward drift. This drift became a forced march after the neoconservatives ascended to power, and its consequences help explain why there is an independent Right. We more than others have resisted the post-Marxist Left. We remain at war with the cultural and political forces that reshaped the Left in the 1960s; the conservative movement by contrast has made its peace with those forces -- while emphatically denying what has happened.

The authorized conservative movement has worked to blur this truth. The “victory of the West” in the Cold War is placed into an invented series of conservative triumphs, going from Reagan’s “conservative revolution” in the 1980s through the presidency of Bush II. In the Heritage Foundation’s embellishment, even the Clinton presidency belonged to an “ongoing conservative revolution” that began with Reagan and culminated in Dubya’s democratic crusading. Like Reagan and Bush I and II, Clinton supposedly practiced fiscal conservatism and advanced American concepts of human rights, albeit not as effectively as his Republican rivals. There have also been “good” Europeans who aided this conservative march, including an otherwise run-of-the-mill social leftist Tony Blair, who rallied to the Bush administration. Thatcher and Kohl were two other friends, who supported us during the Cold War. The German chancellor Kohl was obsequious enough, that is, “conservative” enough in the current Pickwickian sense, to make sure that his country’s unification would be a passing stage in his country’s merger with an international body. “Conservative” outside the U.S. means going along with neoconservative policies.

 

Movement conservatives have also applied the “C” label to things that have nothing to do with any genuine Right. Democratic equality and moderate feminism are two such preferred values that the conservative movement has claimed for itself. Conservative think-tanks have also reinvented self-described leftists as men and women of the Right. The reinventions of King, Joe Lieberman, and Pat Moynihan as “conservative” heroes all exemplify this practice. And such manipulations have their use. The movement can claim to be doing well, even when the Left triumphs.

Conservative publicists have also reconstructed the 1960s, by divorcing its cultural radicalism from its politics. Although nasty hippies, we are told, fouled the air by not brushing their teeth and by smoking pot, the 1960s also produced legislative reforms that would have pleased Edmund Burke. It was the Civil Rights Act that according to Jonah Goldberg bestowed on our country economic freedom -- for the first time. And the Voting Rights Act was another “conservative” landmark, because thereafter the federal government made sure that all citizens would be able to vote. In fact it kept certain parts of the country under perpetual federal surveillance, lest the Black-voting proportion fell below certain expected turnouts. After all, voting for one or both of our two institutionalized parties is a “conservative” practice. And presumably the more people of different pigmentation vote, the more “conservative” we become. And equally important, the Immigration Reform of 1965 filled the U.S. with a “conservative” Catholic electorate, the benefits (or conservatism) of which have still to be ascertained.

In the 1950s and 1960s conservatives held markedly different views. While they held no brief for those who were occupying university buildings or taking drugs, they were at least equally unhappy with that era’s political reforms. Not even in their wildest dreams could most of them have imagined that such far-reaching attempts at remaking our country attitudinally and ethnically would one day be declared conservative. And I would make the obvious point that one doesn’t have to applaud Jim Crow laws (and I for one don’t) in order to recognize that measures that were taken to end “discrimination” have created a permanent governmental straightjacket from which we’re not likely to extricate ourselves. There was nothing “conservative” about the congressional and bureaucratic measures by which that straightjacket was constructed.

But today’s conservative movement is about preserving the 1960s. It has turned that decade’s transformative legislation into the cornerstone of “conservative” politics. And then there was that other questionable triumph for the Right. Supposedly the collapse of the Soviet Empire belonged to a series of conservative victories in the West, associated with Reagan, Thatcher, and their successors. But the end of Soviet hegemony in Eastern Europe did not cause the ideological shift that is sometimes ascribed to it. The Soviets left the stage of History after a more radical Left had taken over; and this occurred preeminently in the West, which had never suffered the fate of a Soviet occupation. This replacement Left reshaped Communist organizations long before the collapse of the Soviet Empire, and in its milder form, it determined the general political culture in Western countries, including that of a transformed American Right.

One cannot complete the story of why there is an independent Right without also looking at the big picture. We are part of that picture, as much as those who now oppose us. But unlike those movement conservatives who do know the truth, we are not given to manipulating the facts. In the West, there were no conservative victors in the Cold War; such victors, if they existed, were the renascent nations of Eastern Europe. And even these deserving victors may be threatened with moral defeat, if the Left that has triumphed in the West, including this country, continues to gain ground.

Paul E. Gottfried

Paul E. Gottfried

Paul Gottfried has spent the last thirty years writing books and generating hostility among authorized media-approved conservatives. His most recent work is his autobiography Encounters; and he is currently preparing a long study of Leo Strauss and his disciples. His works sell better in Rumanian, Spanish,Russian and German translations than they do in the original English, and particularly in the Beltway. Until his retirement two years hence, he will continue to be Raffensperger Professor of Humanities at Elizabethtown College in Elizabethtown, PA.

Por qué somos jovenes conservadores: a modo de manifiesto

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Por qué somos jovenes conservadores: a modo de manifiesto

 

 por Giovanni B. Krähe

Ex: http://geviert.wordpress.com/

Hay lectores que leen este blog y se entusiasman por sus temas, pero luego se desaniman por culpa de los significados comunes y corrientes que escuchan del término conservador: un derechista, viejo, reaccionario, facho, burgués, liberal, ultramontano, pro-sistema, extremista, pasadista, filo-monárquico, ultra-derecha, anti-moderno, derechista “cavernario”, uno que “no quiere cambiar las cosas”, un defensor del status quo, del mundo de los “adultos”, de la iglesia, uno que le gusta la “mano dura”, un plebiscitario, un nacionalista, decisionista, un schmittiano, uno que se pasó “a lado oscuro de la fuerza” (que tal boludez), un “lobo de arriba”, uno lacayo de los “poderes fácticos”, etc, etc, etc. Dejo a la fantasía del lector realizar todas las posibles combinaciones que se usen en su país.

Estas etiquetas hábilmente utilizadas por anquilosados ideólogos de alcoba, llevan a nuestro lector a la duda, logrando que abandone ese primer entusiasmo que descubrió inicialmente. Nuestro lector termina claudicando espiritualmente frente a las sirenas del progresivismo, lo neo-, lo post-, lo “revolucionario”, lo “anti-sistema”, la “contra-cultura”, “la emancipación”, “el feminismo igualitario”, lo “glocal”, lo anti-. Todo lo que encuentre a la mano y le permita decir No, termina seduciéndolo. El primer prurito gratuito que encuentra es pasar por ateo. Al parecer, todas esas sirenas parecen ser las únicas formas que tienen los más jóvenes para hacerse aceptar por los propios coetáneos, para diferenciarse del grupo o para mendigar reconocimiento (a esto lo llaman con un nombre a efecto “militancia”, “compromiso”). Si colocamos juntos a todos los desencantados por igual, la derrota generacional es tan general y profunda a nivel espiritual que es típico encontrar una masa descarriada de escépticos, ateos, dandys libertarios, anarquista á la Ciorán, Gramscianos 2.0, de “rebeldes anti-sistema”, todos aglomerados al mejor postor. Muy raro es encontrar a un sólo joven de 20 – 25 años que se declare joven-conservador, de nueva derecha y sin pelos en la lengua, sin temor. “Soy de derecha y soy de sociales” parece ser la áurea consigna de aquellos universitarios solitarios que se resisten a vender su alma al prurito colectivo del momento, al novismo, al automatismo del Anti-. Ser un “libertario”, un “anarquista” un “post-moderno”, un “filósofo-pop”, querer pasar ahora, en tiempos de religión civil y catequismo liberal, por ser “menos” comunista, menos “utópico” y más “de neo-izquierda”, querer pasar siendo, en una palabra, un radical chic, se ha convertido en un automatismo, en una cuestión antropológica (Umberto Eco dixit).

La vieja derecha

En el caso de las posturas de vieja derecha, el vicio y las sirenas no son muy diferentes: las sirenas en este caso tienen que ver con la “tradición”, la “Überlieferung”, los caprichos de Sissí y Barbarossa, la capa del torero y la espada. En una palabra, el viejo derechista en LA cultiva el abolengo pseudo-ibérico en privado y el dandismo criollo en público. Peor aún si a todo esto se añade el anhelar un abolengo europeo, pues todo resulta tres veces lejano: de espíritu, de carácter y de distancia. En el peor de los casos, la sirena para el viejo derechista en LA es el entusiasmo por la “mano dura” o la nostalgia pasadista por viejos experimentos autoritarios. Para el viejo conservador en LA, es literalmente imposible ser conservador sin ser católico. Si las jóvenes generaciones tienen todos esos prejuicios mencionados al inicio sobre lo que es ser conservador, se debe en gran parte a esta miopía confesional de la vieja derecha latinoamericana autoritaria y ultramontana. Debido a esta miopía de los padres, las nuevas generaciones – no pudiendo negar su propia fe – tienen que crearse un Dios mundano a medida, un deísmo a medida, una fe a medida, una curiosidad por lo trascendente o lo religioso (o su rechazo, que vincula por igual) a medida de la propia subjetividad e intimidad. Hasta la primera rebeldía de estas generaciones a la segunda socialización (las instituciones, la ciudadanía) es menos que un remedo de las aporías y sinsabores de la primera rebeldía identitaria hacia los padres.  Gracias a esta intolerancia católico-confesional en LA, el joven termina abrazando, primero, el vicio meramente reactivo y gratuito del ateismo, para pasar luego al anti-modelo religioso por antonomasia: el mito político-romántico, (neo-) marxista o el dandismo del mito libertario-anarquista. Entre un polo viciado y el otro, el modesto, el discreto, encuentra el ocasionalismo liberal, el patriotismo humanista. Es suficiente que el jovencito ateo, el neo-izquierdista, pasen apenas los treinta años para descubrirse poco a poco un liberal “moderado”, un socialdemócrata blando, un liberal universalista astuto y movedizo (Vargas Llosa es el bio-pic por antonomasia). A partir de los treinta o se es un apocalíptico o un integrado (Eco). Dos mundos generacionales en LA, padres teístas e hijos deístas, que terminan siendo exactamente dos caras precisas de la misma moneda.

Después de todo, tanto en el caso del radicalismo chic de izquierda como en el dandismo criollo de vieja derecha, se trata de mendigar diferencia, definir estilos, pedir reconocimiento o fugar hacía la ideología culturológica de la otredad. ¿por qué la dureza? porque en sentido estrictamente politológico e político-sociológico, la dicotomía izquierda y derecha ya no explica nada del fenómeno de lo político. Decir “nueva derecha”, es más bien limes identitario, un inicio, una orientación para el lector atento. Frente a todo lo afirmado, nuestro lector se vuelve a preguntar ¿por qué debería ser, entonces, joven conservador? En un post anterior formulé rápidamente algunas ideas sobre el significado del ser conservador, del espíritu conservador, del ser joven conservador. Retomo lo escrito en aquel post. Quien leyó con atención, notó que no se trató de introducir una pauta sobre el pensamiento conservador como doctrina político-filosófica (se hará en su momento). Se trató simplemente de compartir una regla y un símbolo vivo, una bandera en alto, que represente el ser conservador como carácter. A esa regla, a esa bandera en alto, la definiremos con la siguiente imagen:

El espíritu conservador es la pura y simple admiración alrededor de nuestra propia finitud. Es aquella admiración permanente que conserva, en el tiempo, los frutos de aquella experiencia finita. El espíritu conservador cosecha el símbolo anunciado en ese evento y lo conserva en el íntimo misterio de su revés perpetuo, hace de aquel revés finalmente su piedad y su entusiasmo, su regla. El joven conservador sabe que la fuga permanente hacia “lo nuevo”, hacia el “mañana”, no es menos ingenua de esconderse detrás de un símbolo viejo del ayer, de un símbolo muerto. Solo un mito vivo puede pedirle que vuelva la mirada hacia el pasado, nunca un mito muerto. Porque solo el Ahora (Nun) es guía para el conservador, sólo ante el Ahora se postra y solo en el Ahora escrito claudica. Si alguna vez su corazón temblará de temor, dará dos pasos hacia atrás para observar mejor cómo crece el horror o la belleza de aquella verdad que lo espera al borde de sí mismo. Nunca fugará hacia el pasado muerto y sus fantasmas, nunca hacia un mañana innecesario. El tiempo del conservador es tiempo kairológico. El joven conservador es un peregrino del absoluto.

El espíritu conservador es un espíritu íntimamente joven, jungkonservativ y joven Romántico por antonomasia. A diferencia del aburridísimo (muchas veces incompetente) analista ideológico que no distingue entre conceptos básicos como poder y autoridad, el joven conservador es una alma silenciosa, sabe donde se oculta el poder, conoce la miseria del necesitado (no la hace parte de su identidad ideológica). El joven conservador no teme expresar sus sentimientos, su subjetividad, cuando es un símbolo, y no los fantasmas del intelecto práctico o racional, a guiar su Ahora. El pensamiento joven-conservador resulta ser, entonces, finalmente joven, porque es simplemente honorado por todos aquellos retos que la vida misma le exige y exalta. En este sentido, el joven conservador o la joven conservadora no claudican jamás ante la finitud de la existencia, sabiéndola inevitable: ambos conservan lo vivido en ella con suma admiración, haciendo de aquella experiencia un fruto reflexivo e intelectivo, pero también un estandarte silencioso, entre un Ahora y otro, entre un abismo y otro. Harto de pastar abismos, el pensamiento del joven-conservador es un pensamiento necesariamente fuerte, no por esto indelicado, sin virtud, sin gracia.

Descubrir el admirar jungkonservativ

Expresado mejor con las últimas palabras de una joven de 22 años, poetisa de origen francés, una joven conservadora y radical-aristocrática del Siglo XVIII, decapitada por rebelde un día de aquelarre, cerca del cementerio de Montrouge, en París. Antes de morir, escribió exaltada y visionaria lo siguiente. Se recupere el entusiasmo juvenil por la vida, el símbolo, más allá de la imagen, el tono o la metáfora (paráfrasis nuestra a partir de un manuscrito apócrifo):

Ser joven conservadora, radical, extremista, es dejarse atravesar por el viento, dejar que la existencia raye con los márgenes de nuestra propia libertad, que lo más intenso y descabellado nos escoga en yugo para siempre. Es sentir con la piel en flor los límites del ser al punto de toparse cara a cara con nuestros más íntimos límites, con la ruptura fatal que nos desnuda la piel. Mi canto es el canto ebrio, la gloria puntual, la llamada de la esclavitud más dura de lo justo y necesario, el espejo nuestro en el castigo esperado, el yugo que invade todo desde el cariño perpetuo. Que nuestros enemigos nos lancen ya, desde lo más alto y con el más íntimo desprecio, la sucia moneda de cobre con la mirada más rencorosa, siendo nosotros mismos la moneda, la mano, el desprecio, la súplica, el enemigo, la altura, la SED, el perdón. Porque salvaje e indómito es aquel Dios que enciende toda locura clarividente en nuestra llama VIVA, en nuestro AHORA, en nuestro mirar perpetuo, en nuestro admirar sincero; indómito es aquel Dios extraño que enciende exacto y puntual, de carmesí inapagable, nuestros corazón, deshojándose por esto, en su osadía, de rubor humano.

¡Desde la más ínfima ilusión de Libertad en cada ser humano individual, en cada albor que sopla centelleante sobre nosotros, por obra de la conciencia servil al borde de su próxima y amada oscuridad, se restaurará la legítima esclavitud del Espíritu en coro unánime y con la máxima y cruda imposición, porque lo más BELLO, lo más esplendoroso, lo más tierno, lo más sincero, OS perseguirá puntualmente a azotes sobre vuestro miserable JUBÓN de piel, curtido de tiempo…! Antes de recibir vuestro castigo humano, antes de entregar mi cuerpo a la oscuridad más sublime, yo les impogo a ustedes mi PERDÓN. Mi odio no está hecho de la medida de vuestra mundana cobardía. La gracia del acto puro en el perdón se desparramará en su luz sobre todos vuestros sucios cráneos y el yugo restaurará la legítima esclavitud del Espíritu, aquella que posee sin ninguna miserable liberalidad, ninguna, fuera de la oscura y amorosa coacción del Ahora, fuera de la corrupción de los principios en el ayer y el mañana! ¡La cima crecerá más aún por vosotros, seres que saben únicamente crecer horizontalmente, en VIL cópula; cada uno de ustedes seguirá en silencio, desde la volición unánime del Dios que llega del viento y nunca desde el desierto infame, la fe humana, aquella que será arreada por última vez a besos, a pesar de las guerras que vendrán después de mí. Se escuchará cantando finalmente, en procesión, mi nombre oculto!

Si el Dios se mantiene vivo, de pie, con la cabeza en alto, con el pie fijo y certero sobre la cerviz infame del Dios que viene del desierto, conservando intacto su dignidad celeste en el Ahora, es porque respira en el aire la profunda certeza de que un sólo joven conservador, UNO solo, y una sola joven conservadora, UNA sola, dignos de él y sólo de ÉL, existen.

Quien de antemano niega la grandeza y la capacidad del Dios, la inconmensurabilidad de la belleza que él reviste cuando decide arbitrariamente posarse en una sola hebra de mis cabellos al viento, en los labios del extraño o en la mirada misma de quien me recordará mañana, le cava una tumba al propio corazón: le forja un hoyo negro donde vivirá agonizando de Amor ausente. La fe y la voluntad en armonía perfecta mueven montañas inamovibles, derriban murallas y desconocen de todo límite, y por virtud del viento y del rubor, son omnipotentes. Porque aquel que se niega a dar camino a sus miserables pasos, se niega a soñar. Aquel que, en cambio, no aprende a seguir los pasos del Dios, se niega a ser el SUEÑO mismo. Solo el viento en el ahora es el camino, donde no mora Dios alguno.

El cielo está repleto de estrellas y cualquier zarza común cae ardiente llena de Dios hacia la tierra; y sólo aquel que ya ve llegar el fuego lento sobre la propia piel desnuda, se descalza completamente de Amor; los demás se sientan en torno a las cenizas del último corazón en llamas y arrancan contritos, en espera, las moras.

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imágenes:

Imagen: John Willian Waterhouse, Psyche Opening the Golden Box.

The Rebel: An Interview with Dominique Venner

dominique_venner.jpgThe Rebel:
An Interview with Dominique Venner

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Michael O’Meara

Czech translation based on this English translation: here

The noted French nationalist and historian speaks to the personal imperatives of white liberation.

Translator’s Note:

It’s a testament to the abysmal state of our culture that hardly one of Dominique Venner’s more than forty books have been translated into English. Venner is more than a gifted historian who has made major contributions to the most important chapters of modern, especially twentieth-century European history. He’s played a key role in both the development of the European New Right and the “Europeanization” of continental nationalism.

It is his “rebel heart” that explains his engagement in these great struggles, as well as his interests in the Russian Revolution, German fascism, French national socialism, the US Civil War, and the two world wars. The universe found in his works is one reminiscent of Ernst von Salomon’s Die Geächteten — one of the Homeric epics of our age.

The following interview is about the rebel. Unlike the racial conservatives dominant in US white nationalist ranks, European nationalism still bears traces of its revolutionary heritage — opposed as it is not merely to the alien, anti-national forces, but to the entire liberal modernist subversion, of which the United States has been the foremost exemplar.

Question: What is a rebel? Is one born a rebel, or just happens to become one? Are there different types of rebels?

Dominique Venner: It’s possible to be intellectually rebellious, an irritant to the herd, without actually being a rebel. Paul Morand [a diplomat and novelist noted for his anti-Semitism and collaborationism under Vichy] is a good example of this. In his youth, he was something of a free spirit blessed by fortune. His novels were favored with success. But there was nothing rebellious or even defiant in this. It was for having chosen the side of the National Revolution between 1940 and 1944, for persisting in his opposition to the postwar regime, and for feeling like an outsider that made him the rebellious figure we have come to know from his “Journals.”

Another, though different example of this type is Ernst Jünger. Despite being the author of an important rebel treatise on the Cold War, Jünger was never actually a rebel. A nationalist in a period of nationalism; an outsider, like much of polite society, during the Third Reich; linked to the July 20 conspirators, though on principle opposed to assassinating Hitler. Basically for ethical reasons. His itinerary on the margins of fashion made him an “anarch,” this figure he invented and of which after 1932 he was the perfect representative. The anarch is not a rebel. He’s a spectator whose perch is high above the mud below.

Just the opposite of Morand and Jünger, the Irish poet Patrick Pearse was an authentic rebel. He might even be described as a born rebel. When a child, he was drawn to Erin’s long history of rebellion. Later, he associated with the Gaelic Revival, which laid the basis of the armed insurrection. A founding member of the first IRA, he was the real leader of the Easter Uprising in Dublin in 1916. This was why he was shot. He died without knowing that his sacrifice would spur the triumph of his cause.

A fourth, again very different example is Alexander Solzhenitsyn. Until his arrest in 1945, he had been a loyal Soviet, having rarely questioned the system into which he was born and having dutifully done his duty during the war as a reserve officer in the Red Army. His arrest and then his subsequent discovery of the Gulag and the horrors that occurred after 1917, provoked a total reversal, forcing him to challenge a system which he once blindly accepted. This is when he became a rebel — not just against Communist, but capitalist society, both of which he saw as destructive of tradition and opposed to superior life forms.

The reasons that made Pearse a rebel were not the same that made Solzhenitsyn a rebel. It was the shock of certain events, followed by a heroic internal struggle, that made the latter a rebel. What they both have in common, what they discovered through different ways, was the utter incompatibility between their being and the world in which they were thrown. This is the first trait of the rebel. The second is the rejection of fatalism.

Q: What is the difference between rebellion, revolt, dissent, and resistance?

DV: Revolt is a spontaneous movement provoked by an injustice, an ignominy, or a scandal. Child of indignation, revolt is rarely sustained. Dissent, like heresy, is a breaking with a community, whether it be a political, social, religious, or intellectual community. Its motives are often circumstantial and don’t necessarily imply struggle. As to resistance, other than the mythic sense it acquired during the war, it signifies one’s opposition, even passive opposition, to a particular force or system, nothing more. To be a rebel is something else.

Q: What, then, is the essence of a rebel?

DV: A rebel revolts against whatever appears to him illegitimate, fraudulent, or sacrilegious. The rebel is his own law. This is what distinguishes him. His second distinguishing trait is his willingness to engage in struggle, even when there is no hope of success. If he fights a power, it is because he rejects its legitimacy, because he appeals to another legitimacy, to that of soul or spirit.

Q: What historical or literary models of the rebel would you offer?

DV: Sophocles’ Antigone comes first to mind. With her, we enter a space of sacred legitimacy. She is a rebel out of loyalty. She defies Creon’s decrees because of her respect for tradition and the divine law (to bury the dead), which Creon violates. It didn’t mater that Creon had his reasons; their price was sacrilege. Antigone saw herself as justified in her rebellion.

It’s difficult to choose among the many other examples. . . . During the War of Secession, the Yankees designated their Confederate adversaries as rebels: “rebs.” This was good propaganda, but it wasn’t true. The American Constitution implicitly recognized the right of member states to secede. Constitutional forms had been much respected in the South. Robert E. Lee never saw himself as a rebel. After his surrender in April 1865, he sought to reconcile North and South. At this moment, though, the true rebels emerged, those who continued the struggle against the Northern army of occupation and its collaborators.

Certain of these rebels succumbed to banditry, like Jesse James. Others transmitted to their children a tradition that has had a great literary posterity. In The Unvanquished, one of William Faulkner’s most beautiful novels, there is, for example a fascinating portrait of a young Confederate sympathizer, Drusilla, who never doubted the justice of the South’s cause or the illegitimacy of the victors.

Q: How can one be a rebel today?

DV: How can one not! To exist is to defy all that threatens you. To be a rebel is not to accumulate a library of subversive books or to dream of fantastic conspiracies or of taking to the hills. It is to make yourself your own law. To find in yourself what counts. To make sure that you’re never “cured” of your youth. To prefer to put everyone up against the wall rather than to remain supine. To pillage whatever can be converted to your law, without concern for appearance.

By contrast, I would never dream of questioning the futility of seemingly lost struggles. Think of Patrick Pearse. I’ve also spoken of Solzhenitsyn, who personifies the magic sword of which Jünger speaks, “the magic sword that makes tyrants tremble.” In this Solzhenitsyn is unique and inimitable. But he owed this power to someone who was less great than himself. That should give us cause to reflect. In The Gulag Archipelago, he tells the story of his “revelation.”

In 1945, he was in a cell at Boutyrki Prison in Moscow, along with a dozen other prisoners, whose faces were emaciated and whose bodies broken. One of the prisoners, though, was different. He was an old White Guard colonel, Constantin Iassevitch. He had been imprisoned for his role in the Civil War. Solzhenitsyn says the colonel never spoke of his past, but in every facet of his being it was obvious that the struggle had never ended for him. Despite the chaos that reigned in the spirits of the other prisoners, he retained a clear, decisive view of the world around him. This disposition gave his body a presence, a flexibility, an energy that defied its years. He washed himself in freezing cold water each morning, while the other prisoners grew foul in their filth and lament.

A year later, after being transferred to another Moscow prison, Solzhenitsyn learned that the colonel had been executed.

“He had seen through the prison walls with eyes that remained perpetually young. . . . This indomitable loyalty to the cause he had fought had given him a very uncommon power.”

In thinking of this episode, I tell myself that we can never be another Solzhenitsyn, but it’s within the reach of each of us to emulate the old White colonel.

French Original: “Aujourd’hui, comment ne pas être rebelle?