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vendredi, 15 octobre 2010

Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

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Come l'Occidente ha devastato l'Afghanistan

Ex: http://www.massimofini.it/

Testo integrale dell'articolo pubblicato sul Fatto il 12 ottobre 2010 e ridotto per ragioni di spazio:

Ogni volta che muore un soldato italiano in Afghanistan ci chiediamo «Che cosa ci stiamo a fare lì?». Ma c'è un'altra domanda da farsi: cosa abbiamo fatto in Afghanistan e all'Afghanistan?

1) Dismesse le pelose giustificazioni che siamo in Afghanistan per regalare le caramelle ai bambini, per "ricostruire quel disgaziato Paese", per imporre alle donne di liberarsi del burqua, perché, con tutta evidenza, quella in Afghanistan, dopo dieci anni di occupazione violenta, non può essere gabellata per un'operazione di "peace keeping", ma è una guerra agli afgani, l'unica motivazione rimasta agli Stati Uniti e ai loro alleati occidentali, per legittimare il massacro agli occhi delle proprie opinioni pubbliche e anche a quelli dei propri soldati, demotivati perché a loro volta non capiscono «che cosa ci stiamo a fare quì», è che noi in Afghanistan ci battiamo "per la nostra sicurezza" per contrastare il "terrorismo internazionale".

È una menzogna colossale. Gli afgani, e quindi anche i talebani, non sono mai stati terroristi. Non c'era un solo afgano nei commando che abbatterono le Torri gemelle. Non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda. Nei dieci, durissimi, anni di conflitto contro gli invasori sovietici non c'è stato un solo atto di terrorismo, tantomeno kamikaze, né dentro né fuori il Paese. E se dal 2006, dopo cinque anni di occupazione si sono decisi ad adottare contro gli invasori anche metodi terroristici (dopo un aspro dibattito al loro interno: il leader, il Mullah Omar, era contrario perché questi atti hanno delle inevitabili ricaute sui civili e nulla può convenire meno ai Talebani che alienarsi la simpatia e la collaborazione della popolaione sul cui appoggio si sostengono) è perché mentre i sovietici avevano almeno la decenza di stare sul campo, gli occidentali combattono quasi esclusivamente con i bombardieri, spesso Dardo e Predator senza equipaggio, ma armati di missili micidiali e comandati da Nells nel Nevada o da un'area "top secret" della Gran Bretagna. Contro un nemico invisibile che cosa resta a una resistenza? Nei rari casi in cui il nemico si fa visibile i Talebani, nonostante l'incomparabile inferiorità negli armamenti, lo affrontano con classiche azioni di guerriglia com'è stata quella che è costata la vita ai quattro soldati italiani. Azione definita "vigliacca" dal ministro La Russa. Chi è vigliacco? Chi ci mette il proprio corpo e il proprio coraggio o chi stando fuori portata schiaccia un bottone e lancia un missile e uccide donne, vecchi, bambini, com'è avvenuto mille volte in questi anni ad opera soprattutto degli americani ma anche, quando è il caso, degli altri contingenti?

Nel 2001 in Afghanistan c'era Bin Laden che, con l'appoggio degli americani, si era introdotto nel Paese anni prima in funzione antisovietica. Ma Bin Laden cotituiva un problema anche per il governo talebano, tanto è vero che quando ne 1990 Bill Clinton propose ai Talebani di farlo fuori, il Mullah Omar, attraverso il suo numero due Waatki inviato appositamente a Washington dove incontrò due volte il presidente americano, si disse d'accordo purchè la responsabilità dell'assassinio del Califfo saudita se la prendessero gli americani perché Osama godeva di una vasta popolarità nel Paese avendo fatto costruire con i suoi soldi, ospedali, strade, ponti, infrastrutture, avendo fatto cioè quello che noi abbiamo detto che volevamo fare e non abbiamo fatto.

Ma Clinton, nonostante fosse stato il promotore dell'iniziativa, all'ultimo momento si tirò indietro. Tutto ciò risulta da un documento del Dipartimento di Stato americano dell'agosto 2005.

Comunque sia oggi Bin Laden non c'è più e in Afghanistan non ci sono più nemmeno i suoi uomini. La Cia, circa un anno fa, ha calcolato che su 50 mila guerriglieri solo 359 sono stranieri. Ma sono ubzechi, ceceni, turchi, cioè non arabi, non waabiti, non appartenenti a quella Jihan internazionale che odia gli americani, gli occidentali, gli "infedeli" e vuole vederli scomparire dalla faccia della terra. Agli afgani, e quindi ai Talebani, interessa solo il loro Paese. Il Mullah Omar, come scrive Jonathan Steel, inviato ed editorialista del Guardian nella sua approfondita inchiesta "La terra dei taliban" più che un leader religioso è un leader politico e militare. A lui (come ai suoi uomini) interessa solo liberare la propria terra dagli occupanti stranieri così come aveva già fatto combattendo, giovanissimo, contro i sovietici, rimediando la perdita di un occhio e quattro gravi ferite. E sarà pur lecito a un popolo o a una parte di esso esercitare il legittimo diritto di resistere ad un'occupazione straniera, comunque motivata. L'Afghanistan, nella sua storia, non ha mai aggredito nessuno (caso mai è stato aggredito: dagli inglesi, dai sovietici e oggi dagli occidentali) e armato rudimentalmente com'è non può costituire un pericolo per nessuno.

2) Per avere un'idea delle devastazioni di cui siamo responsabili in Afghanistan bisogna capire perché i Talebani vi si sono affermati agli inizi degli anni Novanta. Sconfitti i sovietici i leggendari comandanti militari che li avevano combattuti (i "signori della guerra"); gli Ismail Khan, i Pacha Khan, gli Heckmatjar, i Dostum, i Massud, diedero vita a una feroce guerra civile e, per armare le loro milizie, si trasformarono con i loro uomini in bande di taglieggiatori, di borseggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più pieno arbitrio e vessavano in ogni modo la popolazione (un camionista, per fare un esempio, per attraversare l'Afghanistan doveva subire almeno venti taglieggiamenti). I Talebani furono la reazione a questo stato di cose. Con l'appoggio della popolazione che non ne poteva più, sconfissero i "signori della guerra", li cacciarono dal Paese e riportarono l'ordine e la legge nel Paese. Sia pur un duro ordine e una dura legge, quella coranica, che comunque non è estranea alla cultura e alla tradizione di quella gente come invece lo  per noi. In ogni caso la popolazione afgana dimostrò di preferire quell'ordine e quella legge al disordine e agli arbitri di prima.

a) Nell'Afghanistan talebano c'era sicurezza. Vi si poteva viaggiare tranquillamente anche di notte come mi ha raccontato Gino Strada che vi ha vissuto e vi ha potuto operare con i suoi ospedali anche se doveva continuamente contrattare con la sessuofobia dei dirigenti talebani che pretendevano una rigida separazione dei reparti a volte impossibile (medici e infermieri donne per i reparti femminili). Gli occidentali gli ospedali li chiudono come è avvenuto a Laskar Gah.

b) In quell'Afghanistan non c'era corruzione. per la semplice ragione che la spiccia ma efficace giustizia talebana tagliava le mani ai corrotti e, nei casi più gravi, anche un piede. Per la stessa ragione non c'erano stupratori. La carriera di leader del Mullah Omar comincia proprio da qui. Una banda aveva rapito due ragazze nel suo piccolo villaggio, Zadeh, a una ventina di chilometri da Kandahar, e le aveva portate in un posto sicuro per farne carne di porco. Omar, a capo di altri "enfants de pays", raggiunse il luogo, liberò le ragaze, sconfisse i banditi e ne fece impiccare il boss all'albero della piazza del Paese). Ancora oggi, nella vastissima realtà rurale dell'Afghanistan, la gente, per avere giustizia, preferisce rivolgersi ai Talebani piuttosto che alla corrotta magistratura del Quisling Karzai dove basta pagare per avere una sentenza favorevole.

c) Nel 1998 e nel 1999 il Mullah Omar aveva proposto alle Nazioni Unite il blocco della coltivazione del papavero, da cui si ricava l'oppio, in campio del riconoscimento internazionale del suo governo. Nonostante quella di boicottare la coltivazione del papavero fosse un'annosa richiesta dell'Agenzia contro il narcotraffico dell'Onu la risposta, sotto la pressione degli Stati Uniti, fu negativa. All'inizio del 2001 il Mullah Omar prese autonomamente la decisione di bloccare la coltivazione del papavero. Decisione difficilissima non solo perché su questa coltivazione vivevano moltissimi contadini afgani, a cui andava peraltro un misero 1% del ricavato totale, ma perché il traffico di stupefacenti serviva anche al governo talebano per comprare grano dal Pakistan. Ma per Omar il Corano, che vieta la produzione e il consumo di stupefacenti, era più importante dell'economia. Aveva l'autorità e il prestigio per prendere una decisione del genere. Una decisione così efficace che la produzione dell'oppio crollò quasi a zero (si veda il prospetto del Corriere della Sera 17/6/2006). Insomma il talebanismo era la soluzione che gli afgani avevano trovato per i propri problemi. Se poi, alla lunga, non gli fosse andata più bene vrebber rovesciato il governo del Mullah Omar perchè in Afghanistan non c'è uomo che non posssieda un kalashnikov. Noi abbiamo preteso, con un totalitarismo culturale che fa venire i brividi (per non parlare degli interessi economici) di sostituire a una storia afgana la storia, i costumi, i valori, le istituzioni occidentali. Con i seguenti risultati.

Sono incalcolabili le vittime civili provocate, direttamente o indirettamente dalla presenza delle truppe occidentali. Le stime dell'Onu non sono credibili perchè una recente inchiesta ha rilevato che in almeno 143 casi i comandi alleati hanno nascosto gli "effetti collaterali" provocati dai bombardamenti indiscriminati sui villaggi. Vorrei anche rammentare, in queste ore di pianto per i nostri caduti, che anche gli afgani e persino i guerriglieri talebani hanno madri, padri, mogli e figli che non sono diversi dai nostri. Inoltre in Afghanistan sono tornati a spadroneggiare i "signori della guerra" alcuni dei quali, i peggiori come Dostum, un vero pendaglio da forca, sono nel governo del Quisling Karzai.

La corruzione, nel governo, nell'esercito, nella polizia, nelle autorità amministrative è endemica. Ha detto Ashrae Ghani, un medico, terzo candidato alle elezioni farsa di agosto, il più occidentale di tutti e quindi al di sopra di ongi sospetto: «Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo una nostro moralità. Questo profluvio di dollari che si è riversato sull'Afghanistan ha distrutto la nostra integrità e ci ha reso diffidenti gli uni verso gli altri».

Infine oggi l'Afghanistan "liberato" produce il 93% dell'oppio mondiale.

Ma c'è di peggio. Armando e addetrando l'esercito e la polizia del governo fantoccio di Karzai noi abbiamo posto le premesse, quando le truppe occidentali se ne saranno andate, per una nuova guerra civile, per "una afganizzazione del conflitto" come si dice mascherando, con suprema ipocrisia, la realtà dietro le parole. La sola speranza è che il buon senso degli afgani prevalga. Qualche segnale c'è. Ha detto Shukri Barakazai, una parlamentare che si batte per i diritti delle donne afgane: «I talebani sono nostri connazionali. Hanno idee diverse dalle nostre, ma se siamo democratici dobbiamo accettarle». Da un anno, in Arabia Saudita sotto il patrocinio del principe Abdullah, sono in corso colloqui non poi tanto segreti fra emissari del Mullah Omar e del governo Karzai. Ma prima di iniziare una seria trattativa ufficiale Omar, di fatto vincitore sul campo, pretende che tutte le truppe straniere sloggino. Non ha impiegato trenta dei suoi 48 anni di vita a combattere per vedersi imporre una "soluzione americana". E, come ha detto giustamente il comandante delle truppe sovietiche che occuparono l'Afghanistan: «Bisogna lasciare che gli afgani sbaglino da soli». Bisogna cioè rispettare il principio, solennemente sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti gli Stati del mondo, dell'autodeterminazione dei popoli.

E allora perché rimaniamo in Afghanistan e anzi il ministro della Difesa Ignazio La Russa, un ripugnante prototipo dell' "armiamoci e partite", vuole dotare i nostri aerei di bombe? Lo ha spiegato, senza vergognarsi, Sergio Romano sul Corriere del 10 ottobre: perché la lealtà all' "amico americano" ci darà un prestigio che potremo sfruttare nei confronti degli altri Paesi occidentali. Gli olandesi e i canadesi se ne sono già andati, stufi di farsi ammazzare e di ammazzare, per questioni di pretigio. Gli spagnoli, che hanno affermato che nulla gli interessa di meno, che portare la democrazia in Afghanistan, se ne andranno fra poco. Rimaniamo noi, sleali, perché fino a poco tempo fa abbiamo pagato i Talebani perché ci lasciassero in pace, ma fedeli come solo i cani lo sono. Gli Stati Uniti spendono 100 miliardi di dollari l'anno per qusta guerra insensata, ingiusta e vigliacchissima (robot contro uomini). L'Italia spende 68 milioni di euro al mese, circa 800 milioni l'anno. Denaro che potrebbe essere utilizzato per risolvere molte situzioni, fra cui quelle di disoccupazione o di sottoccupazione di alcune regioni da cui partono molti dei nostri ragazzi per guadagnare qualche dollaro in più e farsi ammazzare e ammazzare senza sapere nemmeno perché.

Massimo Fini

Absurdistan - A State of Mind

Absurdistan

A State of Mind

 
 
 
Absurdistan
 

The Pentagon has begun field testing for a new and devastating experimental weapon still shrouded under a cloak of secrecy. A spin-off of anti-gravity technologies, the highly anticipated platform operates on the latest developments in the realm of “anti-logic”. Its use will enable our information warriors to defy reason and intellect, paralyzing an opponent with unrelenting streams of contradiction as well as sheer nonsense.

DOD’s anti-logic weapon underwent its first trial run this summer, as it was rushed into action amidst the Koran-burning controversy. An obscure Florida pastor’s plan to barbecue the Muslim holy book on September 11th was foiled, one suspects, largely due to the intervention of General David Petraeus, commander of U.S. and Coalition forces in Afghanistan. Deploying the anti-logic technology, Petraeus spoke against such an act, since it would “endanger troops” in his theater of responsibility. While the wisdom of the pastor’s step was very doubtful, Petraeus in his victory managed to obliterate truth and standards of reason. After all, the actual threat to U.S. troops stems not from a small Florida church’s play at publicity, but from occupying Afghanistan.

In the Postmodern Empire, news serves not so much to inform, but to blind, distract and intimidate. Our much-celebrated information age is defined by an incoherence that permeates society. Welcome to Absurdistan.

 

Russian traditionalist and science-fiction author Natalya Irtenina accurately diagnoses this disorder as the logical outcome of a culture’s flight from the Transcendent into revolutionary fantasies of liberty, equality and progress. She goes on to analyze the anti-traditional worldview and its manifestations, specifically within the domain of mass media.

 

Contemporary information technologies are founded, as a rule, on the rejection of

1) Principles of hierarchy, i.e. division of information into categories of important, secondary and negligible;

2) Principles of binary logic- the very significance of the antithesis “important – unimportant”, “necessary- unnecessary”, etc. is lost, and in the applications of mass media these concepts are made meaningless;

3) Unique connections- any information can undergo endless transformations and interpretations, thereby creating various pictures of the world, and any fact can be replaced by any other- the field of possibilities is limitless, and cultural conventions allow for it.

The collapse of values and ideas into an endless net-like structure can be viewed not only as the triumph of relativism, but also as a culminating moment of the liberal project. Where absurdity envelops what is left of a civilization, wars to impose democracy and today’s fashion tips enjoy equal value. The most varied images and sounds emanate through our televisions and internet newsfeeds in transitory fragments, and just as quickly they disintegrate into our subconscious. Western managerial elites wield data flows not to impart knowledge, but rather to impress certain emotions upon readers and viewers for profit and political control.

This jarring discontinuity surprises no one and registers with few, and perhaps nowhere is it more evident than in America’s spiral of decadence and imperial decline. President Obama chats up the women of a day-time talk show, The View, and perhaps within only hours of his appearance approves the movements of U.S. forces positioned across the world. GOP presidential hopeful Sarah Palin recites talking points on the sacred cause of Washington’s global supremacy, and then appears with her celebrity-seeking daughter on the program Dancing with the Stars. The surreal has swallowed our civilization, and any remaining distinctions between parody and public life melt away.

Discourse shifts within seconds from the sexual narcissism of average Americans to scenes of death and destruction abroad, and back. The latest market research, for example, has determined that women feel “sexy” when carrying Victoria’s Secret handbags; only a click away is a report on ongoing U.S. efforts to suborn Kandahar. We learn in passing that sixteen American soldiers have been killed in the course of operations there, and that a number of Taliban fighters and Pashtun villagers in Pakistan’s northwest were recently blown apart by Predator drones. Conservative, God-fearing Fox News tells us the CIA is carrying out these strikes to disrupt a plot by terror cells across Europe. Simultaneously Fox, the flagship of Rupert Murdoch’s News Corporation conglomerate, hoists a ringing endorsement of pornography and masturbation underneath the terrorism story. Fellow-citizens take daily excursions into what Irtenina terms our virtual apocalypse, where endurance of the Last Judgment is swapped out for a record total of kills in a game or the successful resolution to a sitcom.

For an observer of only moderate discretion, the rapidity and volume of what amounts to a continuous tidal wave of trivia and garbage is striking. Even more crucial is to recognize its underlying function. The self-isolating liberation of desire in individuals both drives and facilitates U.S. Empire, at least for a time. And the profligacy and consumption lifestyle so intensively marketed to Americans by Wall Street are directly related to the quest to lock down energy resources in Eurasia.

Facing Muslim militancy from the sands of the Maghreb to the peaks of Afghanistan, Washington capitalizes on the situation by expanding its sphere of control. The ideological justification given for this is the call to share the Gospel of the Open Society, with science diplomacy and generous foreign aid to outright bombardment, invasion and occupation the methods of proselytism.

Like Marxism-Leninism, liberal democracy has a universal mandate- it must spread to the ends of the Earth or perish. The regnant ideology behind American power allows for no higher value than platitudes on “free nations, open markets and social progress”, and even the frenzy of missionary wars and so-called institution-building cannot conceal the gaping meaninglessness beneath it all. Any substantive opposition rooted in religious faith, culture and ethnic identity must be delegitimized and wiped out, as the Serbs experienced just over a decade ago under the shadow of NATO cruise missiles.

Also ironically akin to Soviet Communism, the Open Society could be meeting the beginning of its end in the treacherous valleys of the Hindu Kush. Why are U.S. troops sent to foster “good governance” in Helmand Province and elsewhere, besides effectively running protection for pederast warlords who make a killing in the global heroin trade?

The answer to this question is multifaceted but rather straightforward. U.S. interventions in the Islamic world will continue so that our deluded nations may prolong the liberal dream, that the Brave New World will overcome any and all resistance from the East or West. So that Muslim demographics and power in our lands will only grow in strength, with churches made into mosques, death threats to cartoonists in hiding and interminable terror alerts. So that the emptying-out of the Western soul may proceed, that the bearers of our blessed and honorable heritage are condemned to dissolution, and that the chaos at the hollow core of the Postmodern Empire shall overrun us. And all of this will doubtless be covered in real-time on Fox & Friends, with today’s scoreboard highlights brought to you by Cialis.

Absurdistan is not just a label for one of Washington’s trillion-dollar carnage-laden adventures in the wilds of Central Asia; it is a state of mind. We are all in some degree subject to its power, but duty-bound to resist its seductions and lies. By lies and fantasies the regime may sustain itself, yet under their weight it will also implode. The struggle to affirm Truth will hasten that day.

Noi, Celti e Longobardi

Michele Fabbri:

Noi, Celti e Longobardi

http://www.centrostudilaruna.it/

Nel 1997 Gualtiero Ciola pubblicava un’opera, poi ristampata, che costituiva un originale punto di riferimento per un’adeguata considerazione delle origini etniche dei popoli italiani. Nel suo corposo studio Noi, Celti e Longobardi, Ciola analizza le testimonianze archeologiche e linguistiche che hanno segnato il territorio della penisola italica, fornendo utili indicazioni per seguire nuovi percorsi di ricerca.

Il libro di Ciola è un’opera dal carattere decisamente militante che vuole mostrare le tracce lasciate, soprattutto nei territori settentrionali della penisola, da popolazioni di origine celtica e germanica. Si tratta quindi di un testo particolarmente importante per favorire la ricostituzione di una coscienza identitaria dei popoli padani. Infatti la classe dirigente italiana, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, ha utilizzato massicci flussi migratori di meridionali e di extracomunitari con l’intento di sottoporre la Padania a un processo di denordizzazione che rischia di cancellarne per sempre l’identità etnica.

In una vera e propria controstoria dell’Italia etnica, Ciola col suo libro indica la via della liberazione dai tabù e dai pregiudizi che vengono inculcati dalla cultura di regime, particolarmente insistente nel contesto del mondialismo.

A partire dal secondo millennio a.C. si verifica l’irruzione nella penisola italica di genti ariane che segneranno in modo indelebile le culture del territorio, sebbene a macchia di leopardo, come Ciola mostra nel suo libro. La differenza più evidente fra i nuovi venuti e le popolazioni preesistenti è nel fatto che gli Indoeuropei si caratterizzavano per i culti solari e patriarcali, mentre gli autoctoni celebravano culti matriarcali riferiti alla Madre Terra. Gli Etruschi sono probabilmente gli eredi dei culti matriarcali, anche se la civiltà etrusca fu di gran lunga la più avanzata fra quelle italiche delle origini, e assorbì elementi culturali di civiltà indoeuropee, soprattutto di quella greca.

L’espansione etrusca nella pianura padana venne subito fermata dai Celti che si affermarono in tutta la zona lasciando un vasto patrimonio di toponimi nonché di parole che sono arrivate fino all’italiano moderno. Ciola elenca in tavole apposite una lunga serie di lemmi di origine celtica, di cui i dialetti padani sono letteralmente infarciti. Proprio per cancellare queste tracce di cultura nordica la classe dirigente italiana ha sempre cercato di oscurare le culture dialettali, soprattutto settentrionali, sia col regime liberale, sia con quello fascista, soprattutto con quello democristiano, e ancora di più con l’attuale sistema mondialista. Assai più ampia tolleranza, invece, è stata mostrata verso i dialetti meridionali…

La parte nord-orientale della penisola era abitata dai Veneti, popolazione di origine indoeuropea che l’autore ritiene ascrivibile anch’essa all’ethnos celtico. Si tratta di una questione storiografica ancora dibattuta, sulla quale Ciola propone numerosi spunti di approfondimento.

Molte feste popolari sono chiaramente ispirate alle feste solstiziali celebrate dai Celti, e talune sono state cristianizzate, come la festa della Candelora, che originariamente era la festa della dea celtica Brigit.

Purtroppo in Italia è sempre esistito un malanimo anticeltico che risale ai tempi dei Romani e che si è perpetuato nel Risorgimento e nel fascismo, che hanno cercato di inculcare l’idea di un’Italia “schiava di Roma”: un dogma che ancora oggi viene propagandato dai governi italiani, con l’aggravante del mondialismo, di cui la classe politica è totalmente succube.

Un altro momento importante per la formazione delle identità etniche italiane è l’arrivo dei Germani col crollo dell’Impero Romano. L’invasione dei “Barbari” rappresenta un significativo apporto di sangue nordico nella penisola: i Germani si caratterizzavano per un solido senso della stirpe e per una più accentuata divisione in caste della società. Tuttavia nessuna tribù germanica riuscì a dare un assetto stabile al territorio, aprendo la strada alla riconquista bizantina e alla formazione del territorio pontificio.

L’invasione longobarda fu l’ultima occasione di instaurare un regno “nordico” in Italia. La questione, com’è noto, fu ampiamente dibattuta al tempo del Risorgimento, suscitando l’interesse anche di personalità importanti come Alessandro Manzoni. Sta di fatto che la strenua resistenza bizantina, la diplomazia papale e l’intromissione dei Franchi resero impossibile ai Longobardi la conquista dell’Italia.

Tuttavia l’apporto culturale longobardo ha lasciato tracce significative in numerosi vocaboli, nei toponimi, nonché nelle caratteristiche razziali soprattutto nel Nord Italia e in Toscana.

La diffusione dei Longobardi in Toscana ha dato origine anche a particolari teorie sul Rinascimento. Lo studioso tedesco Ludwig Woltmann sosteneva che il Rinascimento, che ebbe in Toscana la sua sede privilegiata, era un fenomeno essenzialmente nordico: un’aspirazione alla libertà e alla curiosità intellettuale che è molto meno sentita nelle culture mediterranee. In effetti l’arte toscana di quell’epoca presenta caratteri assai poco meridionali: simbolo del Rinascimento fiorentino sono le Grazie e la Venere del Botticelli, che hanno un aspetto decisamente ariano!

L’ultima parte del libro passa in rassegna tutte le regioni italiane delineandone la composizione etnica che è chiaramente celtico-germanica al Nord, con un consistente apporto celtico nelle Marche e con influenze umbre che, secondo Ciola, sono da far risalire a elementi proto-celtici. L’elemento etrusco è diffuso al Centro, ma in Toscana è frammisto a una consistente presenza longobarda. Nel Sud, invece, nonostante alcuni insediamenti longobardi e normanni, durarono a lungo le occupazioni musulmane, e ancor oggi prevalgono elementi di origine meridionale e levantina che determinano le tipiche caratteristiche psicorazziali della popolazione locale.

Il saggio di Ciola è opera di notevole erudizione, ricca di indicazioni che possono essere utili anche in ambito accademico, ma soprattutto è un invito a non dimenticare i valori delle culture nordiche che hanno segnato per tanti secoli la nostra civiltà: la sete di libertà, l’aspirazione alla giustizia, la fedeltà alla parola data, il coraggio, il senso dell’onore…

Si tratta di espressioni che rischiano di scomparire dal vocabolario, in un contesto come quello del mondialismo, dove dominano la menzogna, l’inganno, la truffa, il doppio gioco: gli ingredienti della società multicriminale.

Noi, Celti e Longobardi è un libro che ha il sapore di una boccata di aria fresca nell’ambiente asfittico della cultura ufficiale, e ha potenzialità dirompenti per la mentalità dominante, bigotta e conformista al di là di ogni ragionevole immaginazione.

* * *

Gualtiero Ciola, Noi, Celti e Longobardi, Edizioni Helvetia, Spinea (VE) 2008, pp.416, € 27,00.

jeudi, 14 octobre 2010

Attaques inutiles contre le yuan

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Attaques inutiles contre le yuan

Alors que de nombreux pays pratiquent la dévaluation compétitive, dans la guerre des monnaies c’est la Chine qui se trouve dans le rôle du méchant.

 

Alors même que plusieurs pays – Japon, Suisse, Corée du Sud, Brésil – sont intervenus sur le marché des changes pour faire baisser la pression sur leur monnaie, et d’autres – Israël, Inde, Thaïlande, Australie – s’apprêtent à en faire autant, elle se trouve dans le rôle du principal accusé d’avoir volontairement sous-évalué sa monnaie. Une forme de concurrence déloyale qui lui permet d’inonder le monde de produits à prix cassés et de constituer des excédents commerciaux gigantesques. Aussi, au lieu d’investir et de dynamiser l’activité économique tant au pays qu’à l’étranger, elle se constitue une montagne de réserves.

C’est sur cette toile de fond que des nombreux politiciens, économistes et faiseurs d’opinion exigent une réponse musclée contre le géant asiatique.

Surtout aux États-Unis qui, au cours des sept premiers mois de l’année, ont importé du «Made in China» pour 193 milliards de dollars, contre des exportations de seulement 48,6 milliards. Dans un pays qui peine à se relever de la récession, où le chômage dépasse les 10% et qui, de surcroît, est à la veille des élections nationales, l’idée est populaire. Une fois n’est pas coutume, les démocrates se sont alliés à l’opposition républicaine et ont voté une loi qui prévoit de surtaxer les produits chinois.

Rien ne dit que Washington passera aux actes. Des menaces brandies maintes fois sont restées sans suite. Et pour cause: deux tiers des exportations chinoises sont le fait des multinationales américaines et Washington n’agira pas contre leurs intérêts. Les entreprises comme Apple, HP, Nike et Wal-Mart en seraient les plus grands perdants. Puis, sanctionner les produits en provenance de Chine serait un autogoal (but marqué contre son camp, NDLR); les consommateurs américains paieront quatre fois plus pour les produits fabriqués aux États-Unis.

 

Un désastre pour le monde

L’arrêt des importations chinoises ramènerait-il les emplois aux pays? Fred Bergsten, du Peterson Institute for International Economics, à Washington, estime qu’un demi-million de places de travail pourraient être créées aux États-Unis si Pékin ne manipulait pas sa monnaie. Nancy Pelosi, la présidente du Congrès, a parlé d’un million.

Faux, rétorque Andy Xie, économiste chroniqueur au New Century Weekly de Pékin. Les nouvelles places de travail partiront dans d’autres pays à bas coûts de production. Dans les années 80, lorsque le Japon avait doublé la valeur du yuan par rapport au dollar, aucun emploi n’était revenu aux États-Unis.

Kevin Hasset, directeur des études de politiques économiques à l’American Enterprise Institute, un centre de réflexion et d’analyse conservateur, refuse de faire du géant asiatique un bouc émissaire. «S’en prendre à la Chine pourrait donner lieu à une guerre commerciale du même genre que celle dans les années 30. Une telle attitude ne serait qu’une distraction pour ne pas voir la réalité en face.» Comme Kevin Hasset, plusieurs économistes affirment que la perte de compétitivité est la source du mal américain.

Les faiblesses de l’économie américaine ne devraient pas pour autant cacher le fait que la politique monétaire chinoise pose problème. Le premier ministre de la République populaire, Wen Jiabao, l’a ouvertement admis lors du Sommet Europe-Chine cette semaine à Bruxelles. Il a reconnu qu’une réforme est nécessaire, mais que cela se fera pour servir d’abord les intérêts chinois. Une mesure brutale, selon lui, serait un désastre pour la Chine et pour le monde.

Et pour cause, l’économie chinoise dépend toujours trop des exportations. Celles-ci représentent près de 40% du produit intérieur brut. Une réévaluation rapide les ferait chuter, fermerait des centaines d’usines et jetterait des milliers d’ouvriers dans la rue. Sans sa politique d’exportation agressive, l’économie chinoise ne pourrait pas absorber les 15 millions de jeunes qui arrivent chaque année sur le marché du travail. Il y va de la stabilité sociale et politique de l’Empire du Milieu.

La Chine n’est pas réfractaire à modifier sa politique monétaire, mais veut aller à son propre rythme. La bonne nouvelle est qu’elle s’y prépare activement. Depuis une semaine, le yuan est échangé librement, en quantité limitée et de façon expérimentale sur la plate-forme électronique d’ICAP et de Thomson Reuters. Pékin teste sa volatilité dans un marché libre.

Le Temps

Etats-Unis et Europe attanquent la Chine et son yuan sous évalué: pourtant le monde a tout à perdre d'une guerre des monnaies

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Etats-Unis et Europe attaquent la Chine et son yuan sous-évalué. Le monde a pourtant tout à perdre d'une guerre des monnaies

Ex: http://www.polemia.com/

 

Populisme. La fragilité de la reprise économique conjuguée aux prochaines échéances électorales a fait craquer le gouvernement Obama. La Chine et son yuan sous-évalué servent de bouc émissaire et d’exutoire pour récupérer un électorat tenté par les sirènes extrémistes du Tea Party.

Les Etats-Unis ne sont pas les seuls à céder à ces sirènes populistes. Les Européens viennent de les rejoindre. Mercredi, le Fonds monétaire international leur a même offert sa caution.

Derrière la guerre des mots se prépare celle des monnaies, qu’Américains et Européens veulent plus faibles pour tirer leurs exportations. Et derrière cette attitude jaillit ce que le G20 avait jusqu’ici contenu, le protectionnisme.

Le problème est grave. Trop rapides et trop forts, les mouvements de changes empêchent les entreprises de s’y adapter. En Suisse, certains estiment que le bénéfice des PME exportatrices a fondu de 20% depuis janvier, en raison de la force du franc.

Le monde a changé. Le dollar, ce n’est plus seulement le problème des autres, mais aussi celui des Américains.

Editorial
7 octobre 2010
Frédéric Lelièvre
Le Temps

Correspondance Polémia – 10/10/2010

00:21 Publié dans Actualité, Affaires européennes, Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Voorzitter CSU pleit voor immigratiestop

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Voorzitter CSU pleit voor immigratiestop

Ex: http://yvespernet.wordpress.com/

Wanneer politici die niet tot de gevestigde partijen uitspraken doen m.b.t. immigratiestops op basis van etnische afkomst, dan schreeuwen de traditionele politici moord en brand. Processen volgen en men wordt, in voorbereiding van de juridische lynching, alvast op journalistiek vlak afgemaakt. Maar in Duitsland heeft nu een “onaangebrand” iemand net gepleit voor een immigratiestop voor mensen uit landen “met een andere cultuur” (lees: moslims). Dit deed hij in het magazine Focus, net wanneer de Turkse premier Erdogan Duitsland bezoekt. Dit bezoek is in het kader van een onderzoek naar mogelijkheden om de naar schatting twee miljoen Turken beter te doen integreren in de Duitse maatschappij.

Wie is deze man vraagt u? Het gaat over Horst Seehofer, voorzitter van de CSU (de Beierse christen-democraten die 46 jaar lang de absolute meerderheid in Beieren hadden), minister-president van Beieren, voormalig minister van volksgezondheid en voormalig minister van landbouw.

Uiteraard schreeuwt links ondertussen moord en brand. Zo hebben twee Groenen, Claudio Roth en Renate Künast, reeds gezegd dat Seehofer zich moet excuseren bij alle Turkse en Arabische migranten. En ook de minister van justitie van de FDP (de liberalen), Sabine Leutheusser, verwerpt zijn uitspraken. Een peiling van de krant Bild am Sonntag toont echter aan dat de meerderheid van Duitsers ook van mening is dat de moslims niet willen integreren en dat Seehofer gelijk heeft. Het zou dan ook logisch zijn dat politici een logische verdere stap nemen: pleiten voor remigratie.

Wordt vervolgd?

Dead Right : The Infantilization of American Conservatism

Dead Right

The Infantilization of American Conservatism

 
 
 
Dead Right
 

Commentaries published on this website, most notably by Richard Spencer and Elizabeth Wright, have underlined the problems with the Tea Party movement and its most prominent representatives. These pointed observations about Glenn Beck, Rand Paul, Sarah Palin, and Christine O’ Donnell have all been true; and if I have more or less defended some of these figures in the past, I’ve done so, while conceding most of the argument made against them. I agree in particular with Elizabeth Wright’s brief against Rand Paul’s stuttering attempt to object to the public accommodations clause in the Civil Rights Act and her withering attack on Glenn Beck’s recent “carnival of repentance” in Washington.

Elizabeth concludes that such soi-disant critics of the Left cannot bring themselves to find fault with any excess in the Civil Rights movement -- and especially not with its far leftist icon Martin Luther King. “Conservatives” are so terrified of being called “racists” or for that matter, sexists or homophobes, that they devote themselves tirelessly to showing they are just as sensitive as the next PC robot. Indeed, they often go well beyond anyone on the left in genuflecting before leftist icons. This was the purpose of the Martin Luther King-adoration rally held by Beck in Washington.

And even more outrageously, such faux conservatives accuse long-dead Democratic presidents, who were well to the right of the current conservative movement, of being more radical than they actually were. It would be no exaggeration to say that Wilson and FDR were far more reactionary than any celebrity in the Tea Party movement. One could only imagine what such antediluvian Democrats would have said if they had heard last year’s “Conservative of the Year,” chosen by Human Events, Dick Cheney, weeping all over the floor about not allowing gays to marry each other. And what would that stern Presbyterian and Southern segregationist Wilson have thought about the cult of King or the attempts by Tea Party leaders Palin and McDonnell to impose feminist codes of behavior on business and educational establishments. Wilson had to be dragged even into supporting the extension of the franchise to women.

The Tea Party sounds so often like the Left because it is for the most part a product of the Left. Its people were educated in public schools, watch mass entertainment, and have absorbed most of the leftist values of the elite class, to whose rule they object only quite selectively. From the demonstrators’ perspective, that elite isn’t patriotic enough in backing America’s crusades for human rights and in looking after the marvelous welfare state we’ve already built. The Tea Party types are understandably upset that their entitlements may be imperiled, if the current administration continues to run up deficits. This is the essence of their anti-government rant. And above all they don’t want more illegals coming into the country who may benefit from the social net and who may be receiving tax-subsidized medical care.

But this, we are assured, has nothing to do with race or culture. In fact the Tea Party claims to be acting on behalf of blacks and legally resident Latinos, in the name of Martin Luther King and all the civil rights saints of the past. It just so happens that almost all these activists are white Christians. Nonetheless, they are also people, as Elizabeth perceptively notices, who would like us to think they’re acting in the name of other ethnic groups, even if those groups don’t much like them. As four “young conservatives” explained to the viewers of the Today show last week, the Right wishes to lower taxes, specifically “to make jobs available to black Americans.” Unfortunately black Americans loathe those reaching out to them, presumably as a gesture of repentance as well as in pursuit of votes.

Those “conservatives” who want a moderate but not excessive welfare state and who act in the name of blacks, Latinos and dead leftist heroes, are fully tuned in to the conservative establishment. According to polls, these folks love FOX-news and avidly read movement conservative publications. Palin, Sean Hannity and Karl Rove, all FOX contributors, are among their favored speakers; and the Tea Party’s likely candidate for president, Sarah Palin, is now surrounded by such predictable neocon advisors as Randy Scheuermann and Bill Kristol. Even with her insipid, ungrammatical phrases about reducing the size of government, Palin already looks like an updated, feminine and feminized version of what the GOP has been running for president for decades, with neocon approval.

Actually one shouldn’t expect anything else from the Tea Party. In the 1980s the conservative movement witnessed a monumental sea change, when the neoconservatives assumed full power and proceeded to kick out dissenters. This development shaped the future of the Right, and its effects are still with us. The neoconservatives not only neutralized any real Right but also managed to infantilize what they took over. An entire generation of serious conservative thinkers were bounced out and replaced by either lackeys or by those who were essentially recycled liberal Democrats. The latter had recoiled from the anti-Zionist stands of the leftwing of the Democratic Party and then were given as a consolation prize carte blanche to swallow up the conservative movement.

Afterwards the establishment Right began to move in the direction of the Left, and it did so while limiting the range of disagreement with its opponents to a few acceptable talking points. The emphasis was on Middle Eastern intervention, disciplining anti-Semitic nations, and spreading “democratic values.” Internally the neocon Herrenklasse had no real interest, except for being able to do favors for corporations that financed them and for the Religious Right, which is fervently Zionist. The notion the neocons bestowed depth on the conservative movement may be the most blatant lie ever told. What they brought was agitprop, of the kind practiced by Soviet bureaucrats, and armies of culturally illiterate adolescents to turn out their party propaganda.

In all fairness, it must be said that the master class tolerated other points of view, for example from Catholic Thomists or Evangelicals, as long as these religiously inspired positions didn’t interfere with what counted for the neocons. Those who called the shots would also occasionally demand from their dependents certain favors, in return for subsidies and publicity, e.g., stressing the compatibility of Christian theology with neocon policies. Freeloading intellectuals could only be tolerated for so long.

This hegemony had two noticeable effects on the current Right, aside from the unchanged role of the neocons as the main power-players. The rightwing activists shown on TV and those they support in elections include badly educated duds, and these are individuals who often don’t sound like anything an historian might recognize as conservative. Their yapping about human rights (supposedly there is now a human right to own a gun) and their outpouring of the politics of guilt, as noted by Elizabeth Wright, are just two of their weird characteristics. About ten years ago I gaped with astonishment when I read a commentary by Jonah Goldberg explaining that the Catholic counterrevolutionary Joseph de Maistre was really a far leftist. It seems that Maistre questioned the idea of universal human rights und dared to note that human beings were marked by different national and ethnic features. These quirks, according to Goldberg, belong exclusively to the left, like “liberal fascism.” When the intellectual Right can come up with such nonsense and then parley it into a fortune, it is hard to imagine any lower depths of cultural illiteracy to which it could sink.

The “conservative wars” of the 1980s, which involved mostly a mopping up operation, also led to a hard Right that is unrelated to any other American intellectual Right. Those associated with this Right wish to have nothing to do with the failed or decimated Old Right that was smashed decades ago. It has found its home among the thirty-some generation and even more, among younger conservatives who are not part of the DC neocon network. One finds among these militants an almost primitive counterrevolutionary mentality. It is one that has taken form as an impassioned reaction to the Left’s masquerading as the Right, which began with the neoconservatives’ ascendancy to total domination. Although I have my reservations about what I’m describing, it must be seen as a spirited response to a fraud as well as to something that is intellectually and aesthetically vulgar.

Clearly this youthful Right is in no way influenced by Russell Kirk or by other “cultural conservatives” of an earlier generation. Its advocates reject a Right that was co-opted by the neocons and by those who are thought to have failed to resist that fateful takeover. Nor would most of those in the “culturally conservative” camp (Jim Kalb may be the exception here) feel comfortable with the exuberant reactionaries of the rising generation. Many of them sound like neo-pagans because they are convinced that the Western religious tradition has given rise to what they condemn as “the pathology of egalitarianism.” The French New Right, Nietzsche, and Carl Schmitt have all shaped this still inchoate youthful American Right. In their case Europe has cast its shadow on the US, unlike the multicultural Left, which, as I have argued in several books, is our poisonous gift to the Europeans.

The emergence of this anti-egalitarian Right and the infantilization of movement conservatism indicate what can not be undone. The American Right has changed irreversibly because of what occurred during the Reagan years and in the ensuing decade. We shall continue to live with the consequences.  

Ludwig Woltmann: la obsesion por la hegemonia germanica

 
Sebastian J. Lorenz
Ex: http://imperium-revolucion-conservadora.blogspot.com/

ludwig-woltmann.jpgComenzamos por señalar la corriente darwinista que reinterpretó la lucha de clases como una lucha de razas, en la que destaca la obra de Ludwig Gumplowicz (Der Rassenkampf), judío de origen polaco que, casualmente, sería considerado como maestro sociológico por el germanista radical Ludwig Woltmann. Precisamente, increpado Gumplowicz por su discípulo Woltmann al haber abandonado el concepto de raza, el sociólogo nostálgico respondió en los siguientes términos: «Me sorprendía … ya en mi patria de origen el hecho de que las diferentes clases sociales representasen razas totalmente heterogéneas; veía allí a la nobleza polaca, que se consideraba con razón como procedente de un tronco completamente distinto del de los campesinos; veía la clase media alemana y, junto a ella, a los judíos; tantas clases como razas … pero, en los países del occidente de Europa sobre todo, las distintas clases de la sociedad hace ya mucho tiempo que no representan otras tantas razas antropológicas y, sin embargo, se enfrentan las unas a las otras como razas distintas …».
Woltmann, sin embargo, representa ya un modelo racista más avanzado en el tránsito hacia el racismo biológico, apropiándose, al mismo tiempo, de ciertas elucubraciones de Gobineau y De Lapouge. Ludwig Woltmann, un ex-marxista que abandonó la lucha de clases y se convirtió a la lucha de razas, representa, en definitiva, un racismo que aparece ahora revestido como una ciencia de la antropología que se dirige a establecer los caracteres de los pueblos superiores y dominadores, capaces de asegurar la primacía y la potencia de las civilizaciones. Curiosamente, en su famoso “manual”, Armin Mohler incluye a Woltmann entre los autores völkischen (rama del “campesinado”) de la Revolución Conservadora alemana.
Para ello, Woltmann define un tipo biológico, puramente antropológico y morfológico en sus descripciones, y después, lo asocia a una serie de cualidades espirituales: «el hombre de alta estatura, de cráneo desarrollado, con dolicocefalia frontal y de pigmentación clara –la raza nord-europea- representa el tipo más perfecto del género humano y el producto más alto de la evolución orgánica». Otto Hauser, su discípulo, definía a los pueblos indoeuropeos como «pueblos rubios, bien definidos, que llegaron por sí mismos a una cultura cuyo nivel será admirado siempre, mientras circule en un pueblo, en un individuo, sangre nórdica afín».
Insiste Woltmann en que, mientras a las razas nórdicas les corresponde mayores cualidades intelectuales y facultades creativas, a las razas inferiores les resulta imposible acoger elementos de las civilizaciones que, como la nórdico-mediterránea tan próxima a sus áreas geográficas, pudieron adoptar para su propio beneficio, pero no lo hicieron, sumiéndose finalmente en la barbarie. Sin embargo, las razas germánicas se adueñaron rápidamente de las culturas griega y romana, mientras que, ni griegos ni romanos asimilaron la hebraica. «La transmisión de una civilización superior a razas inferiores no es posible sin una mezcla de sangre, a través de la cual los elementos de la raza más dotada se fundan con los de las razas menos dotadas». Pero el cruce de razas no es un factor de progreso duradero, sino cuando se trata de dos razas afines y del mismo valor biológico y espiritual: «es así como los germanos y los romanos se sintieron recíprocamente como de igual valor».
A pesar de reiterar la tradicional advertencia sobre los peligros de la mezcla de razas, Woltmann se aparta del pesimismo gobiniano para abrazar el difuso concepto de la “desmezcla de razas” que luego reinterpretarían Rosenberg y Darré para el nacionalsocialismo. Según esta teoría, debía atribuirse una importancia capital al fomento artificial de la raza a través de cruzamientos endogámicos (esto es, entre individuos supuestamente pertenecientes a la misma raza), con «la modesta esperanza de poder conservar y salvaguardar la sana y noble existencia de la raza actual por medio de medidas higiénicas y políticas encaminadas a protegerla».
291208_152955_PEEL_QZBZNe.jpgLas tesis iniciales de Woltmann, no obstante lo anterior, irían cobrando un intenso matiz germanista, hasta el extremo de no tolerar la unión de los alemanes con otras ramas de la familia nord-europea. Es más, una posible asimilación de los otros pueblos germánicos –daneses, holandeses, etc- la condicionaba a su dominio por parte de una gran Alemania. La extravagancia de Woltmann, que partía de la idea según la cual el valor de una civilización depende de la cantidad de raza rubia germana que contenga, le hizo asegurar que los grandes hombres (nobles, políticos, artistas, filósofos, etc) más representativos de la cultura y la sociedad italiana, francesa y española eran, sin duda alguna, de ascendencia germánica, pensando que sus cualidades anímicas y espirituales revelarían siempre los caracteres antropológicos del germano, dolicocéfalo y rubio, aun cuando su apariencia física externa fuera la de un alpino braquicéfalo o la de un oscuro mediterráneo.
Poseído por la obsesión del “racismo rubio”, veía en las élites intelectuales y artísticas de las naciones europeas a hombres de cabello rubio y ojos azules. Hasta un teórico racista de la talla de Hermann Wirth llegaría a decir que «por un error singular de observación, Woltmann y sus partidarios descubrieron en tantos genios y talentos europeos rasgos germánicos. Para ojos imparciales, los retratos que Woltmann agregó como explicación muestran precisamente lo contrario: tipos baskiros, mediterráneos y negros».
Evidentemente, ningún historiador serio pondrá en duda que en todos los países europeos, en mayor o menor medida, existen elementos raciales –o más exactamente antropológicos- del tipo germánico o, en general, indoeuropeo, debidos a las continuas y sucesivas invasiones de estos pueblos. Así, Max van Gruber podrá decir que «cuando examinamos las características físicas de nuestros más grandes hombres en cuanto a su pertenencia, encontramos, es verdad, caracteres nórdicos, pero en ninguno exclusivamente nórdicos … pero a las cualidades de los nórdicos han tenido que agregarse ingredientes de otras razas para producir tan feliz composición de cualidades».
El sueño de una hegemonía germánica mundial de Woltmann tenía, sin embargo, un obstáculo históricamente reiterado y constatado: el hombre germánico es el gran enemigo –y el más peligroso- del hombre germánico. Alemania necesitaba “una regeneración espiritual y una purificación racial internas” destinadas a la lucha final y definitiva, para lograr un grado de civilización superior a todos los precedentes, contra todas las familias de raza germánica.
Unas décadas más tarde, la Gross Deutschland conseguiría la anhelada “unidad racial germánica” (Germanische Blutseinheit) sometiendo, no sólo a los baltos y eslavos parcialmente germanizados (lituanos, letonios, checos, polacos, ucranios), sino también a otros pueblos germanos, como daneses, noruegos, holandeses, flamencos, y enfrentándose, especialmente, con los anglosajones –británicos y norteamericanos- por la conquista del mundo, pero el resultado final fue muy distinto al de la premonición de Woltmann.

mercredi, 13 octobre 2010

Francis Bergeron: une conférence sur Tintin et Hergé...

Francis Bergeron sera jeudi soir au Local pour donner une conférence sur Tintin et Hergé...

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Maurice Allais: la mort d'un dissident

Maurice Allais : la mort d'un dissident

 

"Ceux qui détiennent le pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs" (Maurice Allais)

arton2301.jpgEx: http:://www.polemia.com/

Seul Français prix Nobel d’économie, Maurice Allais, est mort à 99 ans dimanche 10 octobre. Esprit universel, économiste et physicien, il était à la fois couvert d’honneurs et réduit au silence. Car il s’était attaqué aux tabous du temps. Critiquant notamment le libre-échangisme mondial, la financiarisation de l’économie, l’immigration incontrôlée. Annonçant dès 1998 la crise financière, il avait été ensuite réduit au silence : en 2005, le Figaro lui avait même refusé un article critique sur la Constitution européenne que ce grand économiste libéral (libéral-socialiste, aimait-il à dire) avait dû publier dans …l’Humanité.

Rappelons quelques uns de ses axiomes tels que ceux qu’il avait énoncés dans sa « Lettre aux Français contre les tabous indiscutés », publiée - une fois, hélas, n’était pas coutume – dans Marianne du 5 décembre 2009 :

« Le point de vue que j'exprime est celui d'un théoricien à la fois libéral et socialiste. »

« Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l'économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d'autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n'est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C'est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d'avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c'est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l'Europe. »

« Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m'apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d'aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d'un contresens incroyable. » (…) Nous faisons face à une ignorance criminelle. »

« Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s'unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l'est de l'Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d'Afrique ou d'Amérique latine. »

« Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu'une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. »

« Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l'intelligence, par le fait d'intérêts particuliers souvent liés à l'argent. Des intérêts qui souhaitent que l'ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu'il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d'un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu'il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale. »

« Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu'aux sphères de la politique. »

Polémia qui, à plusieurs reprises, a rendu hommage au Prix Nobel d'économie 1988, signale ici quelques recensions, mises sur son site, de l’œuvre récente de Maurice Allais.

Maurice Allais : les causes du chômage français
Maurice Allais : le coût de l’immigration
Maurice Allais flingue le néo-libéralisme dans une revue financée par Bercy
Les analyses prophétiques de Maurice Allais

Polémia
12/10/2010

Maurice Allais: la crise financière mondiale

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La crise financière mondiale
 
par Maurice Allais
31 octobre 2008

Ex: http://contre-info.info/

« L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile. Jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais sans doute il n’est devenu plus difficile d’y faire face. Jamais sans doute une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général. » En 1998, le prix Nobel d’économie Maurice Allais tirait les conclusions de la grave crise financière qui venait de frapper l’Asie. Aujourd’hui, cette analyse de l’instabilité de la mondialisation financière carburant au crédit s’avère prémonitoire.

Publié à l’origine en octobre 1998 dans le Figaro à l’occasion de la crise asiatique, ce texte a été ensuite repris dans l’ouvrage « La crise mondiale d’aujourd’hui », paru en 1999. Nous reproduisons ici un extrait où Maurice Allais décrit les causes de la crise financière qui préfigurait celle que nous connaissons aujourd’hui.

Maurice Allais, La crise mondiale d’aujourd’hui, 1999

À partir de juin 1997 une crise monétaire et financière s’est déclenchée en Asie et elle se poursuit actuellement. Le déroulement de cette crise, dont nul n’avait prévu la soudaineté et l’ampleur, a été très complexe, mais en 1997 et 1998, et pour l’essentiel, on peut distinguer trois phases : de juin à décembre 1997, de janvier à juin 1998 et de juin 1998 à octobre 1998 [1] .

· La première phase, de juin à décembre 1997, purement asiatique, a débuté avec une très forte spéculation à la baisse de la monnaie thaïlandaise, aboutissant à sa dévaluation de 18 % le 2 juillet 1997. Cette période a été marquée par la chute des monnaies et des Bourses des pays asiatiques : la Thaïlande, la Malaisie, l’Indonésie, les Philippines, Taïwan, Singapour, Hongkong, la Corée du Sud. La chute moyenne de leurs indices boursiers a été d’environ 40 %. Par rapport au dollar, les monnaies de la Thaïlande, de la Corée, de la Malaisie et de l’Indonésie se sont dépréciées respectivement d’environ 40 %, 40 %, 50 % et 70 %.

· La deuxième phase, de décembre 1997 à juin 1998, a donné lieu, après une courte reprise en janvier-février, à de nouvelles chutes des Bourses asiatiques. Pour l’ensemble de la période, la chute moyenne des cours a été d’environ 20 %.

Le fait marquant de cette période a été le rapatriement aux États-Unis et en Europe des capitaux prêtés à court terme en Asie, entraînant par-là même des hausses des cours de bourse aux États-Unis et en Europe. La hausse a été particulièrement marquée à Paris, où le CAC 40 a augmenté d’environ 40 % de décembre 1997 à juillet 1998, hausse deux fois plus forte qu’à New York.

La fin de cette période a été marquée par une très forte baisse des matières premières et un effondrement de la Bourse de Moscou d’environ 60 %. Au cours de cette période, les difficultés des intermédiaires financiers au Japon se sont aggravées et le yen a continué à se déprécier. De fortes tensions monétaires se sont également manifestées en Amérique latine.

· La troisième phase a débuté en juillet 1998, avec de très fortes tensions politiques, économiques et monétaires en Russie [2]. Le rouble n’a plus été convertible. Le 2 septembre, il avait perdu 70 % de sa valeur et une hyperinflation s’était déclenchée.

Cette situation a suscité de très fortes baisses des actions aux États-Unis et en Europe. La baisse à Paris du CAC 40, d’environ 30 %, a été spectaculaire. Elle s’est répandue rapidement dans le monde entier. Personne aujourd’hui n’apparaît réellement capable de prévoir l’avenir avec quelque certitude.

· Dans les pays asiatiques, qui ont subi des baisses considérables de leurs monnaies et de leurs Bourses, les fuites spéculatives de capitaux ont entraîné de très graves difficultés sociales. Ce qui est pour le moins affligeant, c’est que les grandes institutions internationales sont bien plus préoccupées par les pertes des spéculateurs (indûment qualifiés d’investisseurs) que par le chômage et la misère suscités par cette spéculation.

La crise mondiale d’aujourd’hui et la Grande Dépression. De profondes similitudes

· De profondes similitudes apparaissent entre la crise mondiale d’aujourd’hui et la Grande Dépression de 1929-1934 : la création et la destruction de moyens de paiement par le système du crédit, le financement d’investissements à long terme avec des fonds empruntés à court terme, le développement d’un endettement gigantesque, une spéculation massive sur les actions et les monnaies, un système financier et monétaire fondamentalement instable.

Cependant, des différences majeures existent entre les deux crises. Elles correspondent à des facteurs fondamentalement aggravants.

· En 1929 , le monde était partagé entre deux zones distinctes : d’une part, l’Occident, essentiellement les États-Unis et l’Europe et, d’autre part, le monde communiste, la Russie soviétique et la Chine. Une grande part du tiers-monde d’aujourd’hui était sous la domination des empires coloniaux, essentiellement ceux de la Grande-Bretagne et de la France.

Aujourd’hui, depuis les années 70, une mondialisation géographiquement de plus en plus étendue des économies s’est développée, incluant les pays issus des anciens empires coloniaux, la Russie et les pays de l’Europe de l’Est depuis la chute du Mur de Berlin en 1989. La nouvelle division du monde se fonde sur les inégalités de développement économique.

Il y a ainsi entre la situation de 1929 et la situation actuelle une différence considérable d’échelle, c’est le monde entier qui actuellement est concerné.

· Depuis les années 70, une seconde différence, majeure également et sans doute plus aggravante encore, apparaît relativement à la situation du monde de 1929.

Une mondialisation précipitée et excessive a entraîné par elle-même des difficultés majeures. Une instabilité sociale potentielle est apparue partout, une accentuation des inégalités particulièrement marquée aux États-Unis, et un chômage massif en Europe occidentale.

La Russie et les pays de l’Europe de l’Est ont rencontré également des difficultés majeures en raison d’une libéralisation trop hâtive.

Alors qu’en 1929 le chômage n’est apparu en Europe qu’à la suite de la crise financière et monétaire, un chômage massif se constate déjà aujourd’hui au sein de l’Union européenne, pour des causes très différentes, et ce chômage ne pourrait qu’être très aggravé si la crise financière et monétaire mondiale d’aujourd’hui devait se développer.

· En fait, on ne saurait trop insister sur les profondes similitudes, tout à fait essentielles, qui existent entre la crise d’aujourd’hui et les crises qui l’ont précédée, dont la plus significative est sans doute celle de 1929. Ce qui est réellement important, en effet, ce n’est pas tant l’analyse des modalités relativement complexes, des « technicalities » de la crise actuelle, qu’une compréhension profonde des facteurs qui l’ont générée.

De cette compréhension dépendent en effet un diagnostic correct de la crise actuelle et l’élaboration des réformes qu’il conviendrait de réaliser pour mettre fin aux crises qui ne cessent de ravager les économies depuis au moins deux siècles, toujours de plus en plus fortes en raison de leur extension progressive au monde entier.

La création et la destruction de moyens de paiement par le mécanisme du crédit

· Fondamentalement, le mécanisme du crédit aboutit à une création de moyens de paiement ex nihilo, car le détenteur d’un dépôt auprès d’une banque le considère comme une encaisse disponible, alors que, dans le même temps, la banque a prêté la plus grande partie de ce dépôt qui, redéposée ou non dans une banque, est considérée comme une encaisse disponible par son récipiendaire. À chaque opération de crédit il y a ainsi duplication monétaire. Au total, le mécanisme du crédit aboutit à une création de monnaie ex nihilo par de simples jeux d’écriture [3]. Reposant essentiellement sur la couverture fractionnaire des dépôts, il est fondamentalement instable.

Le volume des dépôts bancaires dépend en fait d’une double décision, celle de la banque de s’engager à vue et celle des emprunteurs de s’endetter. Il résulte de là que le montant global de la masse monétaire est extrêmement sensible aux fluctuations conjoncturelles. Il tend à croître en période d’optimisme et à décroître en période de pessimisme, d’où des effets déstabilisateurs.

En fait, il est certain que, pour la plus grande part, l’ampleur de ces fluctuations résulte du mécanisme du crédit et que, sans l’amplification de la création (ou de la destruction) monétaire par la voie bancaire, les fluctuations conjoncturelles seraient considérablement atténuées, sinon totalement supprimées [4] .

· De tout temps, on a pu parler des « miracles du crédit ». Pour les bénéficiaires du crédit, il y a effectivement quelque chose de miraculeux dans le mécanisme du crédit puisqu’il permet de créer ex nihilo un pouvoir d’achat effectif qui s’exerce sur le marché, sans que ce pouvoir d’achat puisse être considéré comme la rémunération d’un service rendu.

Cependant, autant la mobilisation d’« épargnes vraies » par les banques pour leur permettre de financer des investissements productifs est fondamentalement utile, autant la création de « faux droits » par la création monétaire est fondamentalement nocive, tant du point de vue de l’efficacité économique qu’elle compromet par les distorsions de prix qu’elle suscite que du point de vue de la distribution des revenus qu’elle altère et rend inéquitable.

Le financement d’investissements à long terme avec des fonds empruntés à court terme

Par l’utilisation des dépôts à vue et à court terme de ses déposants, l’activité d’une banque aboutit à financer des investissements à moyen ou long terme correspondant aux emprunts qu’elle a consentis à ses clients. Cette activité repose ainsi sur l’échange de promesses de payer à un terme donné de la banque contre des promesses de payer à des termes plus éloignés des clients moyennant le paiement d’intérêts.

Les totaux de l’actif et du passif du bilan d’une banque sont bien égaux, mais cette égalité est purement comptable, car elle repose sur la mise en parallèle d’éléments de nature différente : au passif, des engagements à vue et à court terme de la banque ; à l’actif, des créances à plus long terme correspondant aux prêts effectués par la banque.

De là résulte une instabilité potentielle permanente du système bancaire dans son ensemble puisque les banques sont à tout moment dans l’incapacité absolue de faire face à des retraits massifs des dépôts à vue ou des dépôts à terme arrivant à échéance, leurs actifs n’étant disponibles qu’à des termes plus éloignés.

Si tous les investissements dans les pays sous-développés avaient été financés par les banques, grâce à des prêts privés d’une maturité au moins aussi éloignée, et si le financement des déficits de la balance des transactions courantes des États-Unis était uniquement assuré par des investissements étrangers à long terme aux États-Unis, tous les déséquilibres n’auraient qu’une portée beaucoup plus réduite, et il n’existerait aucun risque majeur.

Ce qui, par contre, est éminemment dangereux, c’est l’amplification des déséquilibres par le mécanisme du crédit et l’instabilité du système financier et monétaire tout entier, sur le double plan national et international, qu’il suscite. Cette instabilité a été considérablement aggravée par la totale libération des mouvements de capitaux dans la plus grande partie du monde.

Le développement d’un endettement gigantesque

À partir de 1974, le développement universel des crédits bancaires et l’inflation massive qui en est résultée ont abaissé pour une décennie les taux d’intérêt réels à des valeurs très faibles, voire négatives, génératrices à la fois d’inefficacité et de spoliation. À des épargnes vraies se sont substitués des financements longs à partir d’une création monétaire ex nihilo. Les conditions de l’efficacité comme celles de l’équité s’en sont trouvées compromises. Le fonctionnement du système a abouti tout à la fois à un gaspillage de capital et à une destruction de l’épargne.

· C’est grâce à la création monétaire que, pour une large part, les pays en voie de développement ont été amenés à mettre en place des plans de développement trop ambitieux, et à vrai dire déraisonnables, et à remettre à plus tard les ajustements qui s’imposaient, tant il est facile d’acheter, dès lors qu’on peut se contenter de payer avec des promesses de payer.

Par nécessité, la plupart des pays débiteurs ont été amenés à se procurer par de nouveaux emprunts les ressources nécessaires à la fois pour financer les amortissements et les intérêts de leurs dettes et pour réaliser de nouveaux investissements. Peu à peu, cependant, la situation est devenue intenable.

· Parallèlement, l’endettement des administrations publiques des pays développés en pourcentage du produit national brut et la charge des intérêts en pourcentage des dépenses publiques ont atteint des niveaux difficilement supportables.

Une spéculation massive

Depuis 1974, une spéculation massive s’est développée à l’échelle mondiale. La spéculation sur les monnaies et la spéculation sur les actions, les obligations et les produits dérivés en représentent deux illustrations significatives.

· La substitution, en mars 1973, du système des changes flottants au système des parités fixes, mais révisables, a accentué l’influence de la spéculation sur les changes alimentée par le crédit.

Associé au système des changes flottants, le système du crédit tel qu’il fonctionne actuellement a puissamment contribué à l’instabilité profonde des taux de change depuis 1974.

Pendant toute cette période, une spéculation effrénée s’est développée sur les taux de change relatifs des principales monnaies, le dollar, le deutschemark et le yen, chaque monnaie pouvant être achetée à crédit contre une autre, grâce au mécanisme du crédit.

· La spéculation sur les actions et les obligations a été tout aussi spectaculaire. À New York, et depuis 1983, se sont développés à un rythme exponentiel de gigantesques marchés sur les « stock-index futures », les « stock-index options », les « options on stock-index futures », puis les « hedge funds » et tous « les produits dérivés » présentés comme des panacées.

Ces marchés à terme, où le coût des opérations est beaucoup plus réduit que sur les opérations au comptant et où pour l’essentiel les positions sont prises à crédit, ont permis une spéculation accrue et généré une très grande instabilité des cours. Ils ont été accompagnés d’un développement accéléré de fonds spéculatifs, les "hedge-funds".

En fait, sans la création de monnaie et de pouvoir d’achat ex nihilo que permet le système du crédit, jamais les hausses extraordinaires des cours de bourse que l’on constate avant les grandes crises ne seraient possibles, car à toute dépense consacrée à l’achat d’actions, par exemple, correspondrait quelque part une diminution d’un montant équivalent de certaines dépenses, et tout aussitôt se développeraient des mécanismes régulateurs tendant à enrayer toute spéculation injustifiée.

· Qu’il s’agisse de la spéculation sur les monnaies ou de la spéculation sur les actions, ou de la spéculation sur les produits dérivés, le monde est devenu un vaste casino où les tables de jeu sont réparties sur toutes les longitudes et toutes les latitudes. Le jeu et les enchères, auxquelles participent des millions de joueurs, ne s’arrêtent jamais. Aux cotations américaines se succèdent les cotations à Tokyo et à Hongkong, puis à Londres, Francfort et Paris.

Partout, la spéculation est favorisée par le crédit puisqu’on peut acheter sans payer et vendre sans détenir. On constate le plus souvent une dissociation entre les données de l’économie réelle et les cours nominaux déterminés par la spéculation.

Sur toutes les places, cette spéculation, frénétique et fébrile, est permise, alimentée et amplifiée par le crédit. Jamais dans le passé elle n’avait atteint une telle ampleur.

Un système financier et monétaire fondamentalement instable L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile. Jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais sans doute il n’est devenu plus difficile d’y faire face. Jamais sans doute une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général.

Toutes les difficultés rencontrées résultent de la méconnaissance d’un fait fondamental, c’est qu’aucun système décentralisé d’économie de marchés ne peut fonctionner correctement si la création incontrôlée ex nihilo de nouveaux moyens de paiement permet d’échapper, au moins pour un temps, aux ajustements nécessaires. Il en est ainsi toutes les fois que l’on peut s’acquitter de ses dépenses ou de ses dettes avec de simples promesses de payer, sans aucune contrepartie réelle, directe ou indirecte, effective.

Devant une telle situation, tous les experts sont à la recherche de moyens, voire d’expédients, pour sortir des difficultés, mais aucun accord réel ne se réalise sur des solutions définies et efficaces.

Pour l’immédiat, la presque totalité des experts ne voient guère d’autre solution, au besoin par des pressions exercées sur les banques commerciales, les Instituts d’émission et le FMI, que la création de nouveaux moyens de paiement permettant aux débiteurs et aux spéculateurs de faire face au paiement des amortissements et des intérêts de leurs dettes, en alourdissant encore par là même cette charge pour l’avenir.

Au centre de toutes les difficultés rencontrées, on trouve toujours, sous une forme ou une autre, le rôle néfaste joué par le système actuel du crédit et la spéculation massive qu’il permet. Tant qu’on ne réformera pas fondamentalement le cadre institutionnel dans lequel il joue, on rencontrera toujours, avec des modalités différentes suivant les circonstances, les mêmes difficultés majeures. Toutes les grandes crises du XIXème et du XXème siècle ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation.

Particulièrement significative est l’absence totale de toute remise en cause du fondement même du système de crédit tel qu’il fonctionne actuellement, savoir la création de monnaie ex nihilo par le système bancaire et la pratique généralisée de financements longs avec des fonds empruntés à court terme.

En fait, sans aucune exagération, le mécanisme actuel de la création de monnaie par le crédit est certainement le "cancer" qui ronge irrémédiablement les économies de marchés de propriété privée.

L’effondrement de la doctrine laissez-fairiste mondialiste

Depuis deux décennies, une nouvelle doctrine s’était peu à peu imposée, la doctrine du libre échange mondialiste, impliquant la disparition de tout obstacle aux libres mouvements des marchandises, des services et des capitaux.

· Suivant cette doctrine, la disparition de tous les obstacles à ces mouvements serait une condition à la fois nécessaire et suffisante d’une allocation optimale des ressources à l’échelle mondiale.

Tous les pays et, dans chaque pays, tous les groupes sociaux verraient leur situation améliorée.

Le marché, et le marché seul, était considéré comme pouvant conduire à un équilibre stable, d’autant plus efficace qu’il pouvait fonctionner à l’échelle mondiale. En toutes circonstances, il convenait de se soumettre à sa discipline.

Les partisans de cette doctrine, de ce nouvel intégrisme, étaient devenus aussi dogmatiques que les partisans du communisme avant son effondrement définitif avec la chute du Mur de Berlin en 1989. Pour eux, l’application de cette doctrine libre-échangiste mondialiste s’imposait à tous les pays et, si des difficultés se présentaient dans cette application, elles ne pouvaient être que temporaires et transitoires.

Pour tous les pays en voie de développement, leur ouverture totale vis-à-vis de l’extérieur était une condition nécessaire et la preuve en était donnée, disait-on, par les progrès extrêmement rapides des pays émergents du Sud-Est asiatique. Là se trouvait, répétait-on constamment, un pôle de croissance majeur pour tous les pays occidentaux.

Pour les pays développés, la suppression de toutes les barrières tarifaires ou autres était une condition de leur croissance, comme le montraient décisivement les succès incontestables des tigres asiatiques, et, répétait-on encore, l’Occident n’avait qu’à suivre leur exemple pour connaître une croissance sans précédent et un plein-emploi [5]. Tout particulièrement la Russie et les pays ex-communistes de l’Est, les pays asiatiques et la Chine en premier lieu, constituaient des pôles de croissance majeurs qui offraient à l’Occident des possibilités sans précédent de développement et de richesse.

Telle était fondamentalement la doctrine de portée universelle qui s’était peu à peu imposée au monde et qui avait été considérée comme ouvrant un nouvel âge d’or à l’aube du XXIeme siècle.

Cette doctrine a constitué le credo indiscuté de toutes les grandes organisations internationales ces deux dernières décennies, qu’il s’agisse de la Banque mondiale, du Fonds monétaire international, de l’Organisation mondiale du commerce, de l’Organisation de coopération et de développement économiques, ou de l’Organisation de Bruxelles.

· Toutes ces certitudes ont fini par être balayées par la crise profonde qui s’est développée à partir de 1997 dans l’Asie du Sud-Est, puis dans l’Amérique latine, pour culminer en Russie en août 1998 et atteindre les établissements bancaires et les Bourses américaines et européennes en septembre 1998.

Cette crise a entraîné partout, tout particulièrement en Asie et en Russie, un chômage massif et des difficultés sociales majeures. Partout les credo de la doctrine du libre-échange mondialiste ont été remis en cause. Deux facteurs majeurs ont joué un rôle décisif dans cette crise mondiale d’une ampleur sans précédent après la crise de 1929 :

-  l’instabilité potentielle du système financier et monétaire mondial ;

-  la mondialisation de l’économie à la fois sur le plan monétaire et sur le plan réel [6].

En fait, ce qui devait arriver est arrivé. L’économie mondiale, qui était dépourvue de tout système réel de régulation et qui s’était développée dans un cadre anarchique, ne pouvait qu’aboutir tôt ou tard à des difficultés majeures.

La doctrine régnante avait totalement méconnu une donnée essentielle : une libéralisation totale des échanges et des mouvements de capitaux n’est possible, elle n’est souhaitable que dans le cadre d’ensembles régionaux groupant des pays économiquement et politiquement associés, et de développement économique et social comparable.

· En fait, le nouvel ordre mondial, ou le prétendu ordre mondial, s’est effondré et il ne pouvait que s’effondrer. L’évidence des faits a fini par l’emporter sur les incantations doctrinales.


Publication originale Maurice Allais, texte établi par Etienne Chouard


 

 

[1] Je rappelle que mon analyse ne porte ici que sur la période juin 1997-octobre 1998. La rédaction de ce chapitre s’est achevée le 1er novembre 1998.

[2] L’échec de l’économie soviétique n’était que trop prévisible. Le passage brutal, suivant les conseils d’experts américains, à une économie de marchés de propriété privée après soixante-douze ans de collectivisme ne pouvait qu’échouer. Dans mon mémoire du 3 avril 1991, La construction européenne et les pays de l’Est dans le contexte d’aujourd’hui présenté au troisième symposium de la Construction, j’écrivais :

« On ne saurait sans danger se dissimuler tous les risques qu’implique le passage, même graduel, à une économie de marchés de propriété privée : l’apparition pratiquement inévitable de nouveaux riches, la génération d ’inégalités criantes et peu justifiées que le marché ne pourra réellement réduire que lorsque la concurrence deviendra suffisante, des formes plus ou moins brutales de gestion des entreprises privées, le chômage, l’inflation, la dissolution des moeurs, etc. Ce sont là des risques majeurs à l’encontre desquels les Pays de l’Est doivent se prémunir.

(...) Ce passage doit faire l’objet d’un Plan de décollectivisation. Il peut sembler paradoxal, au moins à première vue, que le libéral que je suis puisse préconiser une planification pour sortir de la planification collectiviste centralisée. Cependant, c’est là une nécessité éclatante. (...) »

C’est là ce qu’il aurait fallu faire au lieu de la chienlit laisser-fairiste qui a été appliquée. Aujourd’hui encore, je suis convaincu que seule une planification pourrait sortir la Russie de la crise profonde où elle se trouve.

[3] Ce n’est qu’à partir de la publication en 1911 de l’ouvrage fondamental d’Irving Fisher, The purshasing power of money, qu’il a été pleinement reconnu que le mécanisme du crédit aboutit à une création de monnaie.

[4] Comme les variations de la dépense globale dépendent à la fois de l’excès de la masse monétaire sur le volume global des encaisses désirées et des variations de la masse monétaire, le mécanisme du crédit a globalement un effet déstabilisateur puisqu’en temps d’expansion de la dépense globale la masse monétaire s’accroît alors que les encaisses désirées diminuent et qu’en temps de récession la masse monétaire décroît alors que les encaisses désirées s’accroissent.

[5] Les taux de croissance élevés des tigres asiatiques étaient mal interprétés. En fait, pour l’essentiel, ils résultaient du fait que ce économies étaient en retard par rapport aux économies développées et qu’une économie se développe d’autant plus vite qu’elle est en retard. Sur la démonstration de cette proposition tout à fait essentielle, voir mon ouvrage de 1974 « L’inflation française et la croissance. Mythologie et réalité », chapitre II, p. 40-45.

 

 

 

 

[6] Voir mon ouvrage, Combats pour l’Europe, 1994, Éditions Juglar

 

 

 

Maurice Allais: Il faut protéger le travail contre les délocalisations

Il faut protéger le travail contre les délocalisations
 
par Maurice Allais, prix Nobel d’économie
 
16 janvier 2010

« Tout libéraliser amène les pires désordres », constate le prix Nobel d’économie Maurice Allais, qui se définit comme « libéral et socialiste », préoccupé à la fois par « l’efficacité de la production » et de « l’équité de la redistribution des richesses ». Il est « fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières », tonne-t-il, car le commerce international est un moyen et non une fin en soi : le « chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires... À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. » Déplorant la quasi unanimité en faveur de la mondialisation qui prévalait avant la crise, Maurice Allais dénonce « un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent », et rappelle que malgré ses demandes répétées, les médias ont toujours refusé de donner la parole au seul Nobel d’économie français.

Par Maurice Allais, Marianne, 5 décembre 2009

Le point de vue que j’exprime est celui d’un théoricien à la fois libéral et socialiste. Les deux notions sont indissociables dans mon esprit, car leur opposition m’apparaît fausse, artificielle. L’idéal socialiste consiste à s’intéresser à l’équité de la redistribution des richesses, tandis que les libéraux véritables se préoccupent de l’efficacité de la production de cette même richesse. Ils constituent à mes yeux deux aspects complémentaires d’une même doctrine. Et c’est précisément à ce titre de libéral que je m’autorise à critiquer les positions répétées des grandes instances internationales en faveur d’un libre-échangisme appliqué aveuglément.

Le fondement de la crise : l’organisation du commerce mondial

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme » , dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années » (1). Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres. Inversement, parmi les multiples vérités qui ne sont pas abordées se trouve le fondement réel de l’actuelle crise : l’organisation du commerce mondial, qu’il faut réformer profondément, et prioritairement à l’autre grande réforme également indispensable que sera celle du système bancaire.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres - si ce n’est des écarts plus importants encore - pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas. Particulièrement face à des concurrents indiens ou surtout chinois qui, outre leur très faible prix de main-d’œuvre, sont extrêmement compétents et entreprenants.

Il faut délocaliser Pascal Lamy !

Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m’apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d’aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d’un contresens incroyable. Tout comme le fait d’attribuer la crise de 1929 à des causes protectionnistes constitue un contresens historique. Sa véritable origine se trouvait déjà dans le développement inconsidéré du crédit durant les années qui l’ont précédée. Au contraire, les mesures protectionnistes qui ont été prises, mais après l’arrivée de la crise, ont certainement pu contribuer à mieux la contrôler. Comme je l’ai précédemment indiqué, nous faisons face à une ignorance criminelle. Que le directeur général de l’Organisation mondiale du commerce, Pascal Lamy, ait déclaré : « Aujourd’hui, les leaders du G20 ont clairement indiqué ce qu’ils attendent du cycle de Doha : une conclusion en 2010 » et qu’il ait demandé une accélération de ce processus de libéralisation m’apparaît une méprise monumentale, je la qualifierais même de monstrueuse. Les échanges, contrairement à ce que pense Pascal Lamy, ne doivent pas être considérés comme un objectif en soi, ils ne sont qu’un moyen. Cet homme, qui était en poste à Bruxelles auparavant, commissaire européen au Commerce, ne comprend rien, rien, hélas ! Face à de tels entêtements suicidaires, ma proposition est la suivante : il faut de toute urgence délocaliser Pascal Lamy, un des facteurs majeurs de chômage !

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires... À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. Depuis plus de dix ans, j’ai proposé de recréer des ensembles régionaux plus homogènes, unissant plusieurs pays lorsque ceux-ci présentent de mêmes conditions de revenus, et de mêmes conditions sociales. Chacune de ces « organisations régionales » serait autorisée à se protéger de manière raisonnable contre les écarts de coûts de production assurant des avantages indus a certains pays concurrents, tout en maintenant simultanément en interne, au sein de sa zone, les conditions d’une saine et réelle concurrence entre ses membres associés.

Un protectionnisme raisonné et raisonnable

Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s’unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l’est de l’Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d’Afrique ou d’Amérique latine.

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts, comme cela a été le cas dans le secteur des pneumatiques pour automobiles, avec les annonces faites depuis le printemps par Continental et par Michelin. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services.

De ce point de vue, il est vrai que je ne fais pas partie des économistes qui emploient le mot « bulle ». Qu’il y ait des mouvements qui se généralisent, j’en suis d’accord, mais ce terme de « bulle » me semble inapproprié pour décrire le chômage qui résulte des délocalisations. En effet, sa progression revêt un caractère permanent et régulier, depuis maintenant plus de trente ans. L’essentiel du chômage que nous subissons -tout au moins du chômage tel qu’il s’est présenté jusqu’en 2008 - résulte précisément de cette libération inconsidérée du commerce à l’échelle mondiale sans se préoccuper des niveaux de vie. Ce qui se produit est donc autre chose qu’une bulle, mais un phénomène de fond, tout comme l’est la libéralisation des échanges, et la position de Pascal Lamy constitue bien une position sur le fond.

Crise et mondialisation sont liées

Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu’une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. Régler seulement le problème monétaire ne suffirait pas, ne réglerait pas le point essentiel qu’est la libéralisation nocive des échanges internationaux, Le gouvernement attribue les conséquences sociales des délocalisations à des causes monétaires, c’est une erreur folle.

Pour ma part, j’ai combattu les délocalisations dans mes dernières publications (2). On connaît donc un peu mon message. Alors que les fondateurs du marché commun européen à six avaient prévu des délais de plusieurs années avant de libéraliser les échanges avec les nouveaux membres accueillis en 1986, nous avons ensuite, ouvert l’Europe sans aucune précaution et sans laisser de protection extérieure face à la concurrence de pays dotés de coûts salariaux si faibles que s’en défendre devenait illusoire. Certains de nos dirigeants, après cela, viennent s’étonner des conséquences !

Si le lecteur voulait bien reprendre mes analyses du chômage, telles que je les ai publiées dans les deux dernières décennies, il constaterait que les événements que nous vivons y ont été non seulement annoncés mais décrits en détail. Pourtant, ils n’ont bénéficié que d’un écho de plus en plus limité dans la grande presse. Ce silence conduit à s’interroger.

Un prix Nobel... téléspectateur

Les commentateurs économiques que je vois s’exprimer régulièrement à la télévision pour analyser les causes de l’actuelle crise sont fréquemment les mêmes qui y venaient auparavant pour analyser la bonne conjoncture avec une parfaite sérénité. Ils n’avaient pas annoncé l’arrivée de la crise, et ils ne proposent pour la plupart d’entre eux rien de sérieux pour en sortir. Mais on les invite encore. Pour ma part, je n’étais pas convié sur les plateaux de télévision quand j’annonçais, et j’écrivais, il y a plus de dix ans, qu’une crise majeure accompagnée d’un chômage incontrôlé allait bientôt se produire, je fais partie de ceux qui n’ont pas été admis à expliquer aux Français ce que sont les origines réelles de la crise alors qu’ils ont été dépossédés de tout pouvoir réel sur leur propre monnaie, au profit des banquiers. Par le passé, j’ai fait transmettre à certaines émissions économiques auxquelles j’assistais en téléspectateur le message que j’étais disposé à venir parler de ce que sont progressivement devenues les banques actuelles, le rôle véritablement dangereux des traders, et pourquoi certaines vérités ne sont pas dites à leur sujet. Aucune réponse, même négative, n’est venue d’aucune chaîne de télévision et ce durant des années.

Cette attitude répétée soulève un problème concernant les grands médias en France : certains experts y sont autorisés et d’autres, interdits. Bien que je sois un expert internationalement reconnu sur les crises économiques, notamment celles de 1929 ou de 1987, ma situation présente peut donc se résumer de la manière suivante : je suis un téléspectateur. Un prix Nobel... téléspectateur, Je me retrouve face à ce qu’affirment les spécialistes régulièrement invités, quant à eux, sur les plateaux de télévision, tels que certains universitaires ou des analystes financiers qui garantissent bien comprendre ce qui se passe et savoir ce qu’il faut faire. Alors qu’en réalité ils ne comprennent rien. Leur situation rejoint celle que j’avais constatée lorsque je m’étais rendu en 1933 aux États-Unis, avec l’objectif d’étudier la crise qui y sévissait, son chômage et ses sans-abri : il y régnait une incompréhension intellectuelle totale. Aujourd’hui également, ces experts se trompent dans leurs explications. Certains se trompent doublement en ignorant leur ignorance, mais d’autres, qui la connaissent et pourtant la dissimulent, trompent ainsi les Français.

Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale.

Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu’aux sphères de la politique.

Deuxième question : qui détient de la sorte le pouvoir de décider qu’un expert est ou non autorisé à exprimer un libre commentaire dans la presse ?

Dernière question : pourquoi les causes de la crise telles qu’elles sont présentées aux Français par ces personnalités invitées sont-elles souvent le signe d’une profonde incompréhension de la réalité économique ? S’agit-il seulement de leur part d’ignorance ? C’est possible pour un certain nombre d’entre eux, mais pas pour tous. Ceux qui détiennent ce pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs.

(1) L’Europe en crise. Que faire ?, éditions Clément Juglar. Paris, 2005.

(2) Notamment La crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999, et la Mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance : l’évidence empirique, éditions Clément Juglar, 1999.


Publication originale Marianne, via Etienne Chouard (pdf)

Regering moet banken redden - anno 1934

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Regering moet banken redden, anno 1934

 
Met de bankencrisis en de grote regeringsinspanningen om de banken te redden is ons vaak wijsgemaakt dat dit een uniek, eenmalig en vooral precedentloos gebeuren was. Daarbij wordt echter wel vergeten dat in 1934 in België een ongeveer gelijk fenomeen plaatsvond. In die tijd werd België geregeerd door de toenmalige “bankiersregering” Theunis II (*). In het boek “De Jaren ’30 in België: de massa in verleiding”, uitgegeven door nota bene de toenmalige ASLK, kan men op pagina’s 148 en 149 het volgende lezen:

Enkele spectaculaire faillissementen in de banksector bewezen hoe precair de toestand van de Belgische economie was geworden. De bankdeposito’s die eind 1930 meer dan 23 miljard frank bedroegen, waren eind 1933 tot 25 miljard frank gedaald. De deposito’s namen bovendien voortdurend verder af door oppotting en door kapitaalvlucht naar het buitenland, veroorzaakt door de sfeer van wantrouwen. Banken die door slinkende deposito’s en door de algemene achteruitgang van het zakenleven ernstig werden getroffen kwamen in zware liquiditeitsmoeilijkheden. Vaak hadden zij immers hun kortlopende deposito’s aangewend voor het verlenen van ruime kaskredieten en voorschotten aan de door hen gepatroneerde bedrijven. Veel bedrijven slaagden er echter niet langer in hun financiële verplichtinge nna te komen. De banken konden evenwel moeilijke een onmiddellijke vereffening van de achterstallige betalingen eisen. Daardoor zouden de bedrijven immers onvermijdelijk het faillissement worden ingejaagd en zouden de banken hun vaak aanzienlijke participaties en kredieten zien verloren gaan. In de loop van 1932 en 1939 stond de Nationale Bank aan meerdere banken voorschotten als overbrugginskrediet toe. Deze hulp bleek echter vaak onvoldoende om onhei lte voorkomen. [...]

Op 28 maart 1934 moest de socialistische Bank van de Arbeid haar loketten sluiten. [...] Om de algemene onrust te temperen en panische reacties te voorkomen, vaardigde de regering enkele ingrijpende maatregelen uit. Door het Koninklijk Besluit van 22 augustus 1934 werd de splitsing van de gemende banken in portefeuillemaatschappijen en depositobanken beter te beschermen, het vertrouwen in het bankwezen te herstellen en een algemene bankcrisis te voorkomen. [...]

In de loop van 1934 werd steeds duidelijker dat de Algemeene Bankvereeniging, de grootste Vlaamse bank, enorme verliezen had geleden in riskante beleggingen. In haar val dreigde zij de Belgische Boerenbond mee te sleuren. Deze dominerende landbouworganisatie had immers via haar Middenkredietkas, centrale kas van 1200 landelijke Raiffeissenkassen, circa 85% van de aandelen in handen. Om paniek te vermijden liet de regering op 7 december 1934 een wet goedkeuren waarbij een nieuwe instelling, het  Centraal Bureau voor de Kleine Spaarders, werd opgericht met een werkkapitaal van één miljard frank. Het moest hulp bieden in het volksspaarwezen. In realiteit moest het in de eerste plaats de spaargelden van de Raiffeisenkassen redden, een delicate opdracht waarin het ook slaagde.

Het is maar dat u weet dat bankcrisissen geen uniek gebeuren zijn, maar in een systeem van speculatie met een zekere regelmaat zullen voorkomen.

(*) Het kabinet van Georges Theunis, dat de regering van de bankiers wordt genoemd wegens de aanwezigheid in haar schoot van Francqui (Société Générale), Gutt (Groep Lambert) benevens Theunis zelf (Groep Empain), is één van de meest verwenste ministeries geweest die ons land ooit heeft gehad. Bron

Spirit and Resistance - Vive la contre-révolution!

Spirit and Resistance

Vive la Contre-Révolution

 
 
 
Spirit and Resistance
 

Traditionalists are often painted as partisans of lost causes. The ideologues of modernity and “progress” thus consign actual rightist movements to history’s dark remnants, all the while leading humanity’s march into a radiant future of equality and liberty.

We have witnessed their future, and all its supposed radiance is but an artifice. Modern civilization offers a plethora of material goods to mask the denial of the one true Good; it creates virtual worlds of distractions and amusements to convince man to forget how he abandoned the one true God.

Ivan Ilyin, the philosopher and premier theorist of the White Russian movement, saw this earlier than most. The Whites were first into battle in the confrontation with one particularly savage program of the Revolution, Soviet Bolshevism. As an unabashedly faithful Christian, monarchist and patriot, Ilyin understood the full gravity of the threat and how to combat it; above all else, he knew victory could only be achieved through the will to spiritual resistance, in a war beginning in our own hearts.

Ilyin’s notions may have seemed fantastic at the time of his speech below, but where is Soviet power today? The immutable principles of faith, loyalty and honor show themselves ultimately triumphant over the destruction wrought by the materialist ideologies of our age. Contemporary Russia’s survival, like that of any nation, cannot be guaranteed, but she also shows signs of hope and rebirth. We in the West would do well to remember that not all lost causes are lost.

***

The Sovereign Meaning of the White Army

Speech delivered by Ivan A. Ilyin in Berlin, November 19th, 1923 (The 6th Anniversary of the  Russian Volunteer Army). Translated by Mark Hackard from the text "Rodina i My"; italics are from the original.

One of the most genuine and spiritually significant victories accomplished in the history of man is the triumph of the Russian White Army. If we can take everything from this victory that was laid into it, then Russia will soon be reborn in power and glory and evince still unseen greatness. And this greatness will be a living edification and support for the rebirth of other nations. This is the primary meaning of our “White” existence and suffering.

Strategic naivete, historical ignorance, the inertia of prejudice or reactionary stubbornness are nowhere behind this claim. Our opponents and enemies can be sure that we are fully possessed of sufficient factual knowledge, historical cognition and political realism to understand the elementary and superficial, what they “understand”. But the fates of nations and states have yet a different, deeper dimension open to the religious spirit and closed to the heart without God. And to abide in this dimension allows the discovery of unique meaning behind all strategic, historical and political events…

First, we shall establish that the entire struggle of Russian patriots, both military and civilian, who attempted to prevent Russia’s defeat in the Great War and her complete decomposition in the Revolution, who attempted by armed force to overturn the power of internationalist adventurers, did not reach its direct goal. The war prematurely ended with the opening of the front, and the Revolution flooded into the entire country and sank, both in quality and intensity, to the very bottom. All of Russian culture, all Russian people, and all the land were made to stand face to face with revolutionary possession: with the blasphemy of the godless, the assault of bandits, the shamelessness of the madman, the attempts at murder. All of us had to look into the eyes of Satan, tempting us with his latest seductions and frightening us with his newest terrors.

Behind the entire external appearance of the Revolution- from documentation to execution, from the ration to the tribunal, from round-up to exile and emigration, from torture by hunger, cold, degradation and fear to stolen wealth and pretension to world power - behind all this is concealed the Revolution’s single and central reason, in relation to which all of these phenomena are but changing forms, a shell, the outer shape of things. This reason is given through the words spiritual seduction and religious inquiry.

The secret and deepest meaning of the Revolution is held in the fact that it is most of all a great spiritual seduction; a harsh, cruel test; it burns through souls and tempers them by fiery trial.

This test posed to every Russian soul the same direct question: Who are you? By what do you live? What do you serve? What do you love? Do you love that which you “love”? Where is the center of your life? And are you devoted to it, and are you loyal to it? The hour has struck. There are no more delays and there’s nowhere to hide. And there are not many paths before you- only two: to God or against God. Stand up and reveal yourself. For if you do not do so, you will be made to stand and show who you are: the tempters will find you in the fields and at home, at the mill and at the altar, in your property and in your children, in the spoken word and in silence. They’ll find you and place you in the light- that you announce without ambiguity whether you are with God or against Him.

And if you are against God, then you’ll be left to live. They won’t take everything from you, and they’ll make you serve the His enemies. They’ll feed you, indulge you and reward you; they’ll let you harm others, torment them and take away their property; they’ll give you power, profit and all the appearance of disgraceful esteem.

And if you are for God and choose the path to God, then your property will be seized, and your wife and children will be disinherited. And you will be wearied with deprivations, humiliations, darkness, interrogations and terror; you’ll see how your mother and father, your wife and children slowly, like a candle, melt away in hunger and disease- and you can’t help them. You will see how your obstinacy will not save your Motherland from downfall, souls from corruption, or churches from abuse. You will gnash your teeth in powerlessness and slowly grow feeble. And if you openly resist, then you will be killed in a basement and buried, unrecognized, in some unmarked pit.

Choose and decide…

No one in Russia escaped this trial; this test overtook every man: from the Tsar to the soldier, from the Most Holy Patriarch to the last atheist, from the rich to the destitute. And each was put to an unprecedented test- to stand before the face of God and testify: either by the word, which became equivalent to the deed, or by the deed, which became equivalent to death.

The ordeal was fiery and deep, for what began and took place- and what still takes place- is not based upon party or class, or even the whole people, but is an inquiry of man across the world, a spiritual division, a religious selection, a religious differentiation of humanity. This differentiation is still far from finished, and it has only just begun; Europe, already associated with it, will sooner or later see it roaring through her own depths. The twentieth century has only just begun its business of purification and settling accounts.

In this religious trial, taking the form of a world cataclysm, the victor will be neither the man who seizes power for a time somewhere, nor he who occupies some territory; for power can expose, can compromise and ruin an invader. And the occupation of territory can turn out to be fatal for the occupier. But the one who resists, who has already withstood the storm; that endured the trial and remained loyal; who found within himself love and the force of love for his choice; that found within himself a word equivalent to action, and committed an action equivalent to the resolve to die.

The victor is neither he who temporarily and physically overcame, and perhaps in so doing condemning himself; nor is it the man who became strong on another’s weakness, another’s nothingness and failure, the baseness of the mob and the darkness of the masses. For the true man of strength is strong within himself, by his creation, which opens in him ever newer power from the original charge of life; no, the victor is he who rose against: rose against seduction, not falling to it, and rose against terror, not taking fright.

It is he who in that terrible moment of choosing, that moment of great solitude- when no one will decide for you, and no one will notice when another’s advice is of no help- in that moment of great solitude, when man stands, longing- choosing between a shameful life and an honorable death; when man inquires into his own last darkness and depth- and instinct begs for life, even a shameful one, and the spirit demands loyalty, even in death; so the victor is he who in this moment of solitude before the face of God would not accept the dishonor of life.

And it is possible that death will not come, and that he will keep living, but namely then and therefore his life will not be shameful, and he will be a conqueror

He triumphs who agrees to lose everything to save something of God’s.

Nietzsche contra Wagner - Etica contra estética

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NIETZSCHE CONTRA WAGNER

ÉTICA CONTRA ESTÉTICA

Sebastian J. Lorenz
 
Con sus concepciones sobre la “voluntad de poder”, su visceral anti-cristianismo –que consideraba una creación del judaísmo-, sus anuncios sobre el advenimiento del “super-hombre” (Übermensch) y la formación de una casta aristocrática superior, Nietzsche es, sin lugar a dudas, el filósofo más determinante en la construcción ideológica del nazismo y, desde luego, un pilar fundamental en la formación intelectual de Hitler, el cual, según la opinión mayoritaria, se apropió de la doctrina nietzscheana para legitimar su nueva concepción del mundo, si bien podemos adelantar que, colocado en la disyuntiva entre Nietzsche y Wagner, el Führer nunca ocultó su admiración por la Weltanschaung de este último, mucho más acorde con sus ideales estéticos.
La importancia de la filosofía de Nietzsche en la formación de la ideología nazi no es un tema pacífico. César Vidal, que no alberga dudas sobre la conexión nietzscheana con el nazismo, examina la exposición que efectúa Nietzsche sobre la antítesis entre una “moral de señores”, aristocrática, y una “moral de esclavos”, de resentimiento, correspondiendo la primera a los valores superiores de las razas germánicas, y la segunda a la moral judeo-cristiana (Judea contra Roma). Otros, como Ferrán Gallego, consideran que la manipulación del filósofo sólo pudo realizarse ejerciendo una profunda violencia sobre el sentido de la obra de Nietzsche. «A sabiendas de que nunca conseguirían ponerse a la altura de Nietzsche, se resignaron a falsificar la de Zaratustra».
El “mensajero del nihilismo” fue, desde luego, un predicador militante contra el orden caduco y la moral convencional, pero lo hacía desde un profundo individualismo que se oponía a las distintas formas de dominio ejercidas sobre las masas con el oscuro objetivo de anular toda personalidad. «Los buenos conocedores de la cultura alemana rechazaron la caricatura de un Nietzsche pangermanista, oponiendo su feroz individualismo a las tesis nacionalistas raciales que desembocarían en el nazismo». De hecho, Nietzsche sentía un auténtico desprecio por la cultura alemana de su tiempo, admirando en cambio la rusa, la francesa, la italiana, la española y, especialmente, la cultura clásica grecolatina, pero las alabanzas dedicadas a las bestias rubias germánicas de los vándalos y los godos fueron finalmente manipuladas por los teóricos nacional-racistas.
Desde luego, no cabe duda alguna de que Nietzsche identificaba al hombre ario y a la bestia rubia con la nobleza y la aristocracia, con la moral de señores propia de los conquistadores, si bien resultaría desproporcionado identificar a los arios rubios con su prototipo de hombre superior. Sin embargo, el filósofo utiliza comparativamente a las razas oscuras y a las razas rubias para distinguir lo malo y lo vulgar de los hombres de rasgos oscuros –los pre-arios en Europa- de lo noble y lo aristocrático que define, según él, al hombre ario. «Resulta imposible no reconocer, en la base de todas estas razas nobles, al animal de rapiña, la magnífica bestia rubia que vagabundea codiciosa de botín y victoria», escribirá Niezstche, reconociendo además «el derecho a no librarse del temor a la bestia rubia que habita en el fondo de todas las razas nobles …». Pues es “la bestia rubia”, una horda de hombres depredadores y conquistadores, el sinónimo de grandeza y nobleza.
Nietzsche utiliza su “bestia rubia” para enfatizar y ejemplarizar la antítesis entre la «humanidad aria, totalmente pura, totalmente originaria» y el «cristianismo, brotado de la raíz judía, que representa el movimiento opuesto a toda moral de la cría, de la raza, del privilegio: es la religión antiaria per excellence …», para finalizar con una inquietante duda sobre el futuro de la supuesta raza aria: «¿Quién nos garantiza … que la raza de los conquistadores y señores, la de los arios, no está sucumbiendo incluso fisiológicamente?». El filósofo alemán se remonta, obviamente, a la civilización indo-aria para ejemplarizar su sistema jerárquico racial, en cuya cúspide sitúa a la “bestia rubia” germánica, antítesis de los representantes degenerados del judeo-cristianismo, dividiendo su sociedad ideal en “brahmanes”, guerreros y sirvientes, además de los “chandalas”.
En definitiva, una sociedad elitista y aristocrática basada en la desigualdad que debe asumir la raza germánica frente a la mediocridad impuesta por el cristianismo, “hijo espiritual del judaísmo”. Nietzsche anuncia el “nuevo hombre” aristocrático, anticristiano, antijudío, que sólo responde a su “voluntad de poder”, el hombre sobrehumano que es, en realidad, el hombre superado en una evolución ascendente. Por eso, Hitler dirá tiempo después que el nacionalsocialismo no es un movimiento político, ni siquiera una religión, sino “la voluntad de crear un nuevo hombre”.
Nietzsche no fue propiamente un antisemita, si bien su inicial relación-admiración por Wagner le hizo alabar su visión espiritual de la vida, de la que los alemanes corrientes habían sido arrebatados por la mísera y agresiva política del judaísmo. Desde luego, el filósofo consideraba la ética judía como una “moral de esclavos” (Sklaven-Moral), el pueblo del que Tácito pensaba que había nacido para la esclavitud, siendo manifestaciones de la misma el cristianismo y el socialismo que propugnan la igualdad. Por eso, el judío se rebela contra las razas aristocráticas: «Roma vio en el Judío la encarnación de lo antinatural, como una monstruosidad diametralmente opuesta a ella, y en Roma fue hallado convicto de odio a toda la raza humana y con toda la razón para ello, por cuanto es correcto enlazar el bienestar y el futuro de la raza humana a la incondicional supremacía de los valores aristocráticos, de los valores romanos». Los judíos, según Nietzsche, habían falseado de tal forma la historia universal y los valores de la humanidad, que incluso resultaba inconcebible que el cristiano albergase sentimientos antijudíos: “Dios mismo se ha hecho judío!”.
El pensamiento aristocrático se confunde, en numerosas ocasiones, con el determinismo biológico que clasifica jerárquicamente a las razas según unos supuestos cánones creativos. La nueva raza de los super-hombres, la raza superior procedería –mediante el dominio de la voluntad- a la transmutación de los valores, creando otros nuevos que regirían para sí mismos y para las razas destinadas a la esclavitud. Nietzsche estaba de acuerdo con Gobineau, Wagner y Chamberlain, cuando calificaba la raza aria como “raza genuina, fisiológicamente superior a las otras razas y hecha para gobernarlas”. «Toda elevación del tipo “hombre” ha sido siempre obra de una sociedad aristocrática y así será siempre … una sociedad creyente en una larga escala de graduaciones de rango y diferencias en una forma u otra».
Como se ha apuntado, Nietzsche y Wagner, una vez superado su idilio artístico inicial, mantuvieron un crudo enfrentamiento ideológico, controversia que luego se reproduciría, en el seno del nacionalsocialismo, entre los seguidores del filósofo y del compositor, aunque sería la doctrina nietzscheana la que obtendría la mayoría de adhesiones, puesto que la concepción del mundo wagneriana se refugió en restringidos círculos intelectuales y artísticos que le restaron popularidad en la Alemania nazi, pese a contar con el apoyo incondicional del propio Hitler. Mientras Rosenberg, Darré o Himmler rechazaban la visión ética y mística del compositor y utilizaban el “superhombre” de Nietzsche para justificar el sometimiento de los más débiles –cruel filosofía que tuvo nefastas consecuencias en las generaciones de la época- los minoritarios círculos wagnerianos hacían de la compasión de los fuertes hacia los menos dotados una virtud ennoblecedora.

mardi, 12 octobre 2010

Maurice Allais, prix Nobel d'économie, meurt à 99 ans

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Maurice Allais, prix Nobel d'économie français, meurt à 99 ans

Le seul Français à avoir reçu le prix Nobel d’économie est décédé samedi à son domicile à l’âge de 99 ans.

 

Né le 31 mai 1911 à Paris, polytechnicien et membre de l’Institut, Maurice Allais a en particulier enseigné à l’École des mines de Paris et dirigé le Centre d’analyse économique.

Il a reçu le prix Nobel en 1988 pour ses contributions à la théorie des marchés et de l’utilisation des ressources.

Maurice Allais n’a pas toujours été bien compris, loin s’en faut. «Beaucoup de lecteurs le considèrent comme un champion du protectionnisme», ce qui est un «jugement profondément inexact», soulignait, lors de la même cérémonie, l’enseignant et chercheur Thierry de Montbrial.

Mais il est vrai qu’à force de vouloir que l’union politique précède l’union économique, Maurice Allais s’était affirmé comme un farouche défenseur d’une Communauté européenne d’abord soucieuse d’assurer sa propre sécurité économique, ce qui l’avait fait passer pour celui qui voulait bâtir une forteresse autour de l’Europe.

Il rappelait ainsi l’an dernier , qu’«un protectionnisme raisonné entre des pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire».

Il se définissait lui-même comme un «libéral socialiste». C’est, expliquait-il cette position qui lui faisait souhaiter par exemple, pour éviter une destruction de l’agriculture et de l’industrie françaises, le rétablissement de préférences régionales au sein du commerce international dès lors que les écarts de salaires devenaient trop importants.

Le Figaro

Alerte aux attentats: désinformation, manipulation, réalité?

Alerte aux attentats : désinformation, manipulation, réalité ?

 

Ex: http://www.polemia.com/

garde_n4.jpg« A propos du plan vigipirate qui concerne les risques liés à la menace terroriste en France, le ministère de l’intérieur, de l’outre-mer et des collectivités territoriales rappelle que la France est actuellement au niveau d’alerte "rouge". »

Le quotidien genevois, Le Temps, s’interroge sur le véritable objectif de la « mise en garde pratiquement sans équivalent » lancée par les autorités américaines et britanniques pour alerter leurs nationaux en voyage touristique en Europe afin qu’ils évitent tout particulièrement la Tour Eiffel et la Hauptbannof de Berlin.
Polémia

Le domaine de la lutte

Une mise en garde pratiquement sans équivalent pour alerter qui? Les touristes américains, afin qu’ils évitent les environs de la tour Eiffel et de la Hauptbahnhof de Berlin? Les Européens eux-mêmes, pour qu’ils ne sous-estiment pas l’enjeu de la guerre en cours en Afghanistan et au Pakistan? Les terroristes en devenir, pour qu’ils se sentent traqués et commettent ainsi un faux pas?

La mise en garde des Etats-Unis contre un risque d’attentats en Europe a fini par susciter craintes et désarroi. Les autorités américaines ont raison, bien sûr, de prévenir leurs concitoyens en cas d’informations crédibles et concordantes, comme elles le font depuis des années à l’égard de la Somalie, de l’Afghanistan ou, plus récemment, du Mexique. Mais ici, le caractère diffus de la menace ne fait qu’augmenter la confusion, ajoutant la peur de l’impuissance à celle d’une action meurtrière éventuelle.

Cette décision américaine est en réalité au croisement de deux tendances lourdes de la lutte contre le terrorisme telle qu’elle a vu son origine à Manhattan, après l’écroulement des deux Tours jumelles. Le monde n’est plus le même, et chacun est prié d’en prendre note. «Si tu vois quelque chose, dis quelque chose», proclament sans cesse depuis neuf ans les messages dans le métro et les autobus new-yorkais. Chacun, partout, est ainsi converti en agent particulier d’un combat global. Les Américains ne font aujourd’hui qu’étendre le domaine de la lutte à l’Europe. Ce ne sont pas eux, mais les Européens qui se sentent choqués par cette évolution.

En outre – et c’est la deuxième tendance à l’œuvre – tous les attentats doivent désormais pouvoir être déjoués, même les plus improbables, veulent croire les Américains. Caméras de surveillance dans chaque coin, contrôles interminables aux aéroports et, maintenant, établissement progressif de zones à risque autour des lieux les plus fréquentés. L’approche est erronée, elle aura toujours un coup de retard. Mais qui en défend une autre?

Luis Lema
Editorial 
Le Temps
06/10/2010

Correspondance Polémia –07/10/2010

Image : les paras de la Légion sous la Tour Eiffel

Toute coopération militaire plus étroite entre pays membres de l'UE ne doit pas servir les intérêts américains

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Toute coopération militaire plus étroite entre pays membres de l’UE ne doit pas servir les intérêts américains

Première chose à faire : développer une politique de sécurité et de défense indépendante de Washington

Ensuite : l’Autriche ne peut en aucun cas renoncer à sa neutralité pour satisfaire les intérêts d’une puissance extra-européenne

Si jamais nous parvenons à établir une coopération militaire plus étroite entre pays membres de l’UE, alors nous devons préalablement mettre en œuvre une politique de sécurité et de défense européenne autonome, a déclaré Andreas Mölzer, chef de la délégation FPÖ au sein du Parlement européen, à l’occasion de la clôture de la réunion informelle, à Gand en Flandre, des ministres de la défense de l’UE. « Lorsqu’il s’agira de fédérer les ressources militaires au sein de l’UE, cela ne pourra nullement se faire dans l’intérêt exclusif des Etats-Unis et de l’OTAN. Il y a toutefois lieu de craindre que la coopération militaire plus étroite que l’on prévoit serve en ultime instance ce but-là », a insisté Mölzer.

 

Ensuite, a ajouté le mandataire FPÖ, toute politique de sécurité et de défense européenne devra concentrer ses efforts sur l’Europe. « Une coopération militaire plus étroite entre pays européens ne doit pas servir à aider encore davantage les Etats-Unis, comme par exemple dans la guerre qui sévit en Afghanistan. Il faut que ce soient les Balkans qui demeurent le centre majeur des préoccupations européennes en matières de défense et de sécurité, car cette région d’Europe reste toujours, comme auparavant, agitée par une série de conflits irrésolus qui sont toujours susceptibles de s’amplifier. Si l’UE n’est pas capable de veiller à asseoir une sécurité dans son propre environnement géographique, alors elle demeurera objet de moqueries et de sarcasmes », a constaté Mölzer en toute clarté.

 

En ce qui concerne toute coopération plus étroite des pays membres de l’UE en matières militaires, l’Autriche doit rester en position d’attente, a demandé le député européen de la FPÖ. « Aussi longtemps qu’il n’existera pas une communauté de défense et de sécurité commune et autonome en Europe, qui soit complètement indépendante des Etats-Unis, l’Autriche doit demeurer fidèle à sa neutralité. En aucun cas, il ne faudra renoncer à cette neutralité, car cela nous entrainerait à servir les intérêts d’une puissance extra-européenne », a conclu Mölzer.

 

Source : http://www.andreas-moelzer.at/

Een nieuwe macht Centraal-Azië?

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Een nieuwe macht Centraal-Azië?

De nieuwsbrief van de DeltaStichting staat meestal vol met zeer interessante informatie. Wanneer men echter de laatste nieuwe nieuwsbrief bekijkt, vindt men een zéér interessant artikel van de hand van Peter Logghe. Hieronder alvast de integrale versie. Wie zich wil inschrijven op deze nieuwsbrief, kan dat ->hier<- doen.
 

Een nieuwe macht Centraal-Azië in opbouw? En vooral: wélke macht in opbouw?  De jaren 80 en 90 van de vorige eeuw hebben in Europa, maar niet alleen daar, enorme politieke energie vrijgemaakt. Het verdwijnen van de Muur en van het IJzeren Gordijn hebben een aantal oude Europese verwanten bijvoorbeeld dichter tot elkaar gebracht, en hebben bijvoorbeeld wat verdeeld was, terug aaneengesmeed – alhoewel bepaalde voegen nog niet helemaal juist zitten).

Want in de 19de en de 20ste eeuw zou het islamitische, nog Middeleeuws aanvoelende Turkije – de zieke man van Europa – door Mustafa Kemal pardoes, en onder de harde leiding van het Turkse leger, in de moderne en laïcistische wereld zijn binnengebracht. Turkije ging vrij snel de weg op van Frankrijk: een jacobijnse eenheidsstaat, die er alles aan deed om een Turkse eenheidsidentiteit aan alle bewoners van het Turkse grondgebied op te dringen. Daar werd onder andere de kiem gelegd van het nog steeds durende conflict met de Koerdische minderheid, maar ook met andere minderheden werden spanningen voelbaar: de keuze voor het hanafitisch soennisme als staatsreligie zorgde er bijvoorbeeld voor dat de Alevieten zich als tweederangsburgers beschouwden – of bekeken werden. In 1928 bijvoorbeeld wordt godsdienstonderwijs al helemaal afgeschaft, wat pas in 1950 teruggedraaid wordt.

Turkije was in 1949 het eerste islamitische land dat Israël zou erkennen, waarmee we eventjes ook het buitenlandse politiek beleid van Turkije aanraken. Het zou jarenlang doorgaan als een van de trouwste leden van het NAVO-bondgenootschap, een veilige haven voor Amerikaanse vliegtuigen en vloot, en dit tot ver in Eurazië.

Turkije en Rusland: een gespannen verhouding, want buurlanden. De verhouding werd nog moeilijker toen Amerika in de Iraakse oorlog aan Turkije een sleutelrol in de regio verschafte. Of wou verschaffen. Amerika wou volop de Turkse kaart trekken, zette bijvoorbeeld ook de Europese Unie onder druk om Turkije lid van de EU te laten worden, en steunde ook volop andere Turkische volkeren in Rusland en China.

Het weer stond nochtans reeds op fundamentele verandering. In dezelfde jaren 80 en 90 van de vorige eeuw stak het islamitische reveil zowat overal de kop op, ook in Turkije, en daarmee kwam ook de geopolitieke rol, die de VSA voor Turkije hadden uitgeketend, onder druk te staan. Een eerste poging van Erbakan met zijn Refahpartij (met als programma: één grote islamitische gemeenschap van Marokko tot Indonesië) werd in 1997 hardhandig gestopt door het Turkse leger, dat in het verleden ook nooit verlegen zat om een staatscoup meer of minder.

Even later was het de politieke beurt aan de opvolger van Erbakan, Erdogan, en de islamitisch religieuze partij AKP, die in 2001 was opgericht. Ze legden het iets slimmer aan boord. Erdogan wist dat het pleit slechts te winnen was, dat hij slechts aan de macht kon komen, als hij erin slaagde zijn naam nooit te noemen en als hij – in schijn althans – gehecht bleef aan het Westers bondgenootschap. Zo beloofde Erdogan aan de Amerikaanse neoconservatieven de banden met Amerika te zullen versterken.

 

Nochtans konden de breuken met het verleden niet lang verborgen blijven. In 2003 bijvoorbeeld weigerde de Turkse regering om Amerikaanse vliegtuigen in hun oorlog tegen Irak boven Turks grondgebied te laten vliegen. Een fundamentele rol in de wijziging van het Turks buitenlands beleid speelt de Turkse minister van Buitenlandse Zaken, Achmed Davutoglu. Hij zou eigenlijk volledig willen breken met de politiek van de oude natie-staat om terug aan te knopen met de lijn van het rijk, in casu het Ottomaanse Rijk. Voor Davutoglu is het duidelijk dat Kemal Ataturk er eertijds niet in was geslaagd om het Turkse identiteitsbesef uit te breiden tot de grenzen zelf van de Turkse staat. Daarom wil hij het nieuwe Turkse Rijk opbouwen rond het nieuwe bindmiddel: de islam. Want, zo redeneert hij, zelfs islamitische Koerden hebben massaal voor de AKP gestemd om op die manier de goddeloze marxisten van de PKK van de macht te houden. Als er momenteel één bindmiddel is dat er mogelijkerwijze in kan slagen alle Turkssprekende onder één gezag te brengen, dan misschien wel de islam.

Een tweede breuklijn die zich aan het aftekenen is binnen de grenzen van Turkije, is die van de houding tegenover Israël. Gedurende decennia heeft het Turkse leger – en bij uitbreiding het Turkse establishment – met Israël een zeer goede band opgebouwd. Maar stilaan doet zich een ontdubbeling voor in Turkije: een bepaalde Turkse elite, inbegrepen het leger, een deel van de administratie en de magistratuur, wil de goede relaties met Israël behouden, terwijl de regering van AKP er absoluut geen graten in ziet dat de relaties gaandeweg minder hartelijk worden. Ook dat is een bouwsteentje in het nieuwe neo-Ottomaanse bouwwerk: de Turken krijgen in de Arabische wereld stilaan de naam van “verdedigers van het ware geloof”, en bouwen voor zichzelf veel goodwill op als bemiddelaar tussen allerlei rivaliserende islamitische kampen en strekkingen.Hoeft het gezegd dat dit allemaal niet van aard is om geruststellend te werken in de rest van de wereld? Er is onrust bij de Amerikaanse overheden ontstaan omtrent de betrouwbaarheid van hun trouwste Aziatische bondgenoot. Maar ook in de islamitische wereld zelf groeit de ongerustheid bij deze sterkere rol voor Turkije. Concurrentie is altijd een constante geweest in de islamitische wereld: de soennitische wereld, Egypte, Marokko, Saoudie-Arabië, maar vooral Iran kijkt met onverholen vijandschap naar Turkije. Iran ziet met de dag zijn invloed in de rest van de islamwereld verzwakken ten voordele voor Turkije.

Turkije zit ergens wel in een tang: het wil zijn rol binnen de NAVO behouden (als islamitisch land), maar wil tezelfdertijd zijn invloed binnen de islamitische wereld versterken. Wat als die twee in een vijandig spel terechtkomen, kan men zich afvragen. Maar Turkije gaat nog verder: in de jongste jaren heeft deze Aziatische reus-in-de-kiem een tiental nieuwe ambassades in Afrika en Latijns-Amerika geopend. Op diplomatiek veld heeft het nieuwe gesprekken met Rusland aangevat, want het wil Washington in elk geval duidelijk maken dat het géén loutere pion van Amerika meer wil zijn in het gebied. Turkije wil meespelen met de grote staten. Het is lid van de G-20, op economisch vlak steeg het van de 28ste naar de 17de plaats in de ranglijst van het IMF. Het ligt strategisch zeer goed tussen Amerika, Rusland en China en bevindt zich op een scharnierplaats ten opzichte van het Continentaal Plateau. Het zal, als islamitisch land, zijn rol willen spelen in dit werelddeel.

Peter Logghe

Carl Schmitt: A Dangerous Man

Carl Schmitt (part IV)

 A Dangerous Man

by Keith PRESTON
 
 
Carl Schmitt (part IV)
 

When Hitler first came to power, Carl Schmitt hoped that President von Hindenburg would be able to control him, and dismiss him from the chancellor’s position if necessary. But within days of becoming chancellor, Hitler invoked Article 48 and began imposing restrictions on the freedoms of speech, press, and assembly. Within a month, all civil liberties had essentially been suspended. Within two months, a Reichstag dominated by the Nazis and their allies (with the communists having been purged and subject to repression under Hitler’s emergency measures) passed the Enabling Act, which, more or less, gave Hitler the legal right to rule by decree. The Enabling Act granted Hitler actual legislative powers, beyond the emergency powers previously provided for by Article 48. Schmitt regarded the Enabling Act as amounting to the overthrow of the constitution itself and the creation of a new constitution and a new political and legal order.

The subsequent turn of events in Schmitt’s life remains the principal, though certainly not exclusive, source of controversy regarding Schmitt’s ideas and career as a public figure and intellectual. Schmitt remained true to his Hobbesian view of political obligation that it is the responsibility of the individual to defer to whatever political and legal authority that becomes officially constituted. On May 1, 1933, Carl Schmitt officially joined the Nazi Party.

Despite his past as an anti-Nazi, Schmitt’s prestigious reputation as a jurist and legal scholar heightened his value to the party. Herman Goering appointed Schmitt to the position of Prussian state councilor in July, 1933. He then became leader of the Nazi league of jurists and was appointed to the chair of public law at the University of Berlin. While occasionally including a racist or anti-Semitic comment in his writings and lectures during this time, Schmitt also hoped to strike a balance between Nazi ideology and his own more traditionally conservative outlook.

Schmitt’s hopes for such a balance were dashed by the Night of the Long Knives purge on June 30, 1934. Not only were hundreds of Hitler’s potential rivals within the party killed, but so were a number of prominent conservatives, including Schmitt’s former associate, General Kurt von Schleicher. Even Papen, who had initially been vice-chancellor under the Hitler regime, was placed under house arrest.

In response to the purge, Schmitt published the most controversial article of his career, “The Fuhrer Protects the Law.” On the surface, the article was merely a sycophantic and opportunistic effort at defending Hitler’s brutality and lawlessness. While Schmitt likely regarded the killing of rival Nazis as little more than a dishonorable falling out among thugs, he also included within the article subtle references to unjust murders that had been committed during the course of the purge, meaning the killing of his friend General Schleicher and others outside Nazi circles, and urged justice for the victims. The wording of the article pretended to absolve Hitler of responsibility while dropping very discreet and coded hints to the contrary.

Though Schmitt enjoyed the protection afforded to him by his associations with Goering and Hans Frank, he never exerted any influence over the regime itself. The purge of the SA leadership had the effect of empowering within the Nazi movement one of its most extreme elements, the SS. The SS soon concerned itself with the presence of “opportunists” and the ideologically impure elements, which had joined the party only after the party had seized power for the sake of being on the winning side. These elements included many middle-class persons and ordinary conservatives whose actual commitment to the party’s ideology and value system were questionable.

Schmitt was a prime example of these. His efforts to revise his theories to make them somewhat compatible with Nazi ideology were subject to attacks from jurists committed to the Nazi worldview. Further, former friends, professional associates, and students of Schmitt who had emigrated from the Third Reich were incensed by his collaboration with the regime and began publishing articles attacking him from abroad, pointing out his anti-Nazi past during his association with Schleicher, his prior associations with Jews, his Catholic background, and the fact that he had once referred to Nazism as “organized mass insanity.”

Schmitt attempted to defend himself against these attacks by becoming ever more virulent in his anti-Semitic rhetoric. When the Nuremberg Laws were enacted in September of 1935, he defended these laws publicly. His biographer Bendersky described the political, ethical, and professional predicaments Schmitt found himself in during this time:

No doubt at the time he tried to convince himself that he was obligated to obey and that as a jurist he was also compelled to work within the confines of these laws. He could easily rationalize his behavior with the same Hobbesian precepts he had used to explain his previous compromises. For he always adhered to the principle Autoritas, non veritas facit legem (Authority, not virtue makes the law), and he never tired of repeating that phrase. Authority was in the hands of the Nazis, their racial ideology became law, and he was bound by these laws.

Schmitt further attempted to counter the attacks hurled at him by both party ideologues and foreign critics by organizing a “Conference on Judaism in Jurisprudence” that was held in Berlin during October of 1936. At the conference, he gave a lecture titled “German Jurisprudence in the Struggle against the Jewish Intellect.” Two months later, Schmitt wrote a letter to Heinrich Himmler discussing his efforts to eradicate Jewish influence from German law.

Yet, the attacks on Schmitt by his party rivals and the guardians of Nazi ideology within the SS continued. Schmitt’s public relations campaign had been unsuccessful against the charges of opportunism, and Goering had become embarrassed by his appointee. Goering ordered that public attacks on Schmitt cease, and worked out an arrangement with Heinrich Himmler whereby Schmitt would no longer be involved with the activities of the Nazi party itself, but would simply retain his position as a law professor at the University of Berlin. Essentially, Schmitt had been politically and ideologically purged, but was fortunate enough to retain not only his physical safety but his professional position.

For the remaining years of the Third Reich, Schmitt made every effort to remain silent concerning matters of political controversy and limited his formal scholarly work and professorial lectures to discussions of routine aspects of international law or vague and generalized theoretical abstractions concerning German foreign policy, for which he always expressed outward support.

Even though he was no longer active in Nazi party affairs, held no position of significance in the Nazi state, and exercised no genuine ideological influence over the Nazi leadership, Schmitt’s reputation as a leading theoretician of Nazism continued to persist in foreign intellectual circles. In 1941, one Swiss journal even made the extravagant claim that Schmitt had been to the Nazi revolution in Germany what Rousseau had been to the French Revolution. Schmitt once again became fearful for his safety under the regime when his close friend Johannes Popitz was implicated and later executed for his role in the July 20, 1944, assassination plot against Hitler (though, in fact, Schmitt himself was never in any actual danger.)

When Berlin fell to the Russians in April 1945, Schmitt was detained and interrogated for several hours and then released. In November, Schmitt was arrested again, this time by American soldiers. He was considered a potential defendant in the war crimes trials to be held in Nuremberg and was transferred there in March 1947. In response to questions from interrogators and in written statements, Schmitt gave a detailed explanation and defense of his activities during the Third Reich that has been shown to be honest and accurate. He pointed out that he had no involvement with the Nazi party after 1936, and had only very limited contact with the party elite previously. Schmitt provided a very detailed analysis and description of the differences between his own theories and those of the Nazis. He argued that while his own ideas may have at times been plagiarized or misused by Nazi ideologists, this was no more his responsibility than Rousseau had been responsible for the Reign of Terror. The leading investigator in Schmitt’s case, the German lawyer Robert Kempner, eventually concluded that while Schmitt may have had a certain moral culpability for his activities under the Nazi regime, none of his actions could properly be considered crimes warranting prosecution at Nuremberg.

Schmitt’s reputation as a Nazi, and even as a war criminal, made it impossible for him to return to academic life, and so he simply retired on his university pension. He continued to write on political and legal topics for another three decades after his release from confinement at Nuremberg, and remained one of Germany’s most controversial intellectual figures. For some time, his pre-Nazi works were either ignored or severely misinterpreted. A number of prominent left-wing intellectuals, including those who had been directly influenced by Schmitt, engaged in efforts at vilification.

An objective scholarly interest in Schmitt began to emerge in the late 1960s and 1970s, even though Schmitt’s reputation as a Nazi apologist was hard to shake. Interestingly, the framers of the present constitution of the German Federal Republic actually incorporated some of Schmitt’s ideas from the Weimar period into the document. For instance, constitutional amendments that alter the basic democratic nature of the government or which undermine basic rights and liberties as outlined in the constitution are forbidden. Likewise, the German Supreme Court may outlaw parties it declares to be anti-constitutional, and both communist and neo-Nazi parties have at times been banned.

Schmitt himself returned to these themes in his last article published in 1978. In the article, Schmitt once again argued against allowing anti-constitutional parties the “equal chance” to achieve power through legal and constitutional means, and expressed concern over the rise of the formally democratic Eurocommunist parties in Europe, such as those in Italy and Spain, which hoped to gain control of the state through ordinary political channels.

 

Schmitt’s Contemporary Relevance

 

The legacy of Schmitt’s thought remains exceedingly relevant to 21st-century Western political and legal theory. His works from the Weimar period offer the deepest insights into the inherent weaknesses and limitations of modern liberal democracy yet to be discussed by any thinker. This is particularly significant given that belief in liberal democracy as the only “true” form of political organization has become a de facto religion among Western political, cultural, and intellectual elites. Schmitt’s writings demonstrate the essentially contradictory nature of the foundations of liberal democratic ideology. The core foundation of “democracy” is the view that the state can somehow be a reflection of an abstract “peoples’ will,” which, somehow, rises out of a mass society of heterogeneous individuals, cultural subgroups, and political interest groups with irreconcilable differences.

This is clearly an absurd myth, perhaps one ultimately holding no more substance than ancient beliefs about emperors having descended from sun-gods. Further, the antagonistic relationship between liberalism and democracy recognized by Schmitt provides a theoretical understanding of the obvious practical truth that as democracy has expanded in the West, liberalism has actually declined. The classical liberal rights of property, exchange, and association, for instance, have been severely comprised in the name of creating “democratic rights” for a long list of social groups believed to have been excluded or oppressed by the wider society. The liberal rights of speech and religion have likewise been curbed for the ostensible purpose of eradicating real or alleged “bigotry” or “bias” towards former out-groups favored by proponents of democratic ideology.

The contradictions between liberalism and democracy aside, Schmitt’s work likewise demonstrates the ultimately self-defeating nature of liberalism taken to its logical conclusion. A corollary of liberalism is universalism, yet liberal universalism likewise contradicts itself. Liberalism, as Westerners have come to understand it, is a particular value system rooted in historic traditions and which evolved within a particular civilization and was affected by historical contingencies (the Protestant Reformation, the Enlightenment, and Modernism being only the most obvious.)

Schmitt’s definition of the essence of the political as the friend/enemy dichotomy simultaneously exposes the limitations of liberalism’s ability to sustain itself. Robert Frost’s quip about a liberal being someone who is unable to take his own side in a fight would seem to apply here. The principal weakness of liberalism is its inability to recognize its own enemies. Even in the final months of the Weimar republic, liberals, socialists, and even Catholic centrists held so steadfastly to the formalities of liberalism that they were unable to perceive the imminent destruction of liberalism that lurked a short distance ahead.

This insight of Schmitt would seem to go a long way towards explaining the behavior of many present day zealots of Liberal Democratic Fundamentalism. It is currently the norm for liberals to react with a grossly exaggerated, almost phobic, sense of urgency concerning the supposed presence of elements espousing “racism,” “fascism,” “homophobia,” and other illiberal or ostensibly illiberal ideas in their own societies. In virtually all Western countries, elements espousing the various taboo “isms” and “phobias” with any degree of seriousness are marginal in nature, often merely eccentric individuals, tiny cult-like groups, or politically irrelevant subcultures.

And yet, liberals who become hysterical over “fascism,” typically express absolutely no concern about the importation of unlimited numbers of persons from profoundly illiberal cultures into their own nations. Indeed, criticizing such things has itself become a serious taboo among liberals, who somehow believe that such values as secularism, feminism, and homosexual rights can never be threatened by the mass immigration of those from cultures with no liberal tradition, where theocratic rule is the norm, or where the political and social status of women has not changed in centuries or even millennia, where there is no tradition of free speech, where capital punishment is regularly imposed for petty offenses, and where homosexuality is often considered to be a capital crime.

A related irony is that liberals have embraced “Green” consciousness in a way comparable to the enthusiasm and adulation shown to pop music stars by teenagers, while remaining oblivious to the demographic and ecological consequences of unlimited population growth fueled by uncontrolled immigration.

Schmitt’s steadfast opposition to legal formalism as a method of constitutional interpretation and as an approach to legal theory in general is also interesting when measured against the standard complaints about “judicial activism” found among “mainstream” American conservatives. Schmitt’s view that laws, even constitutional law itself, should be interpreted according to the wider essence or deeper substance of the laws and constitutions in question and according to the concrete realities of specific political situations would no doubt make a lot of American conservatives uncomfortable. Of course, an important distinction has to be made between Schmitt’s seemingly open-ended approach to legal theory and the standard ideas about a “living constitution” found among American liberal jurists. Schmitt was concerned with the very real and urgent question of the need to preserve civil order and political stability in the face of severe social and economic crisis, civil unrest, and threats of revolution, whether through direct violence or cynical manipulation of ordinary political and legal processes. The various legal theories involving a supposed “living constitution” or “evolving standards” advanced by American liberals represents the far more dubious project of simply replacing the traditional Montesquieu-influenced American constitution with an ostensibly more “progressive” democratic socialist one.

That said, one has to wonder if it would not be appropriate for American anti-liberals to initiate an ideological move away from advocating strict adherence to the principle of legal or judicial neutrality towards a perspective that might be called “defensive judicial activism,” e.g. the advocacy of the use of the courts at every level to resist the encroachments of the present therapeutic-managerial-multiculturalist-welfare state in the same manner that liberals have used the courts to impose their own extra-legislative agenda. This would be an approach that is more easily discussed than implemented, of course, but perhaps it is still worthy of discussion nevertheless.

The political theory of Carl Schmitt likewise aids the development of a more thorough understanding of the nature of the state itself. Contrary to the prevailing view that political rule can be rooted objectively in sets of formal legal rules and institutional procedures, or that the state can be a mere reflection of the idealized abstraction of “the people,” Schmitt recognized that ultimately political rule is based on the question of “Who decides?” Ideological pretenses to the contrary, there will be a “sovereign” (whether an individual or a group) who possesses final authority as to what the rules will be and how they will be interpreted or applied.

Schmitt’s friend/enemy thesis likewise contains the recognition that the prospect of lethal violence defines the essence of politics. Political rule is about force, and about possessing the ability to exercise the necessary amount of physical violence to maintain a system of rule. The truth of these observations and of Schmitt’s broader critique of liberalism and democracy do not by themselves eliminate the problematical nature of Schmitt’s own Hobbesian outlook. Clearly, Schmitt’s own life and career illustrate the limitations of such a view. Indeed, after his purge by the Nazis, Schmitt reflected on Hobbes more extensively and modified his views on political obligation somewhat. He concluded that political obligation must be reciprocal in nature. Hobbes taught that the individual was obligated to obey political authority for the sake of his own protection. Schmitt argued in light of the Nazi experience that the individual’s obligation of obedience is negated when the state withdraws its protection. Schmitt’s concern with the primacy of order and stability could well be summarized by the Jeffersonian principle that “prudence, indeed, will dictate that governments long established should not be changed for light and transient causes.”

Yet, there is the wider question of the matter whereby the malignant nature of a particular state is such that the state not only fails to provide protection for the individual but threatens the wider culture and civilization itself, a situation for which Dr. Samuel Francis coined the term “anarcho-tyranny.” Clearly, in such a scenario, it will seem that the obligation of political obedience, individually or collectively, becomes abrogated.

Keith Preston

 

12 octobre 1943: les Alliés anglo-saxons occupent les Açores

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12 octobre 1943 : les Alliés anglo-saxons occupent les Açores

 

Les Alliés pourront occuper les Açores, y établir des bases aéronavales et faire relâche dans les ports de l’île, suite à des accords secrets anglo-portugais où Londres force la main à Lisbonne, en lui rappelant un traité signé au 19ème siècle et scellant une alliance entre les deux pays. Par cet accord, plusieurs centaines de kilomètres sur le territoire océanique ne seront plus livrés au bon vouloir des sous-marins allemands. Hitler perd définitivement la bataille de l’Atlantique. Rétrospectivement, nous pouvons en conclure que les Açores sont un archipel de très grande importance stratégique pour l’Europe et pour le contrôle de l’Atlantique à partir des côtes du Vieux Continent. Elles permettent notamment de contrôler la route vers les Amériques et de surveiller les côtes marocaines. Il ne s’agit pas seulement de « confettis d’Empire », de résidus de la grandeur passée du Portugal mais d’une position stratégique de toute première importance qu’il ne s’agit pas de perdre.

La influencia de la Nueva Derecha en los partidos "neopopulistas" europeos

 

LA INFLUENCIA DE LA NUEVA DERECHA EN LOS PARTIDOS "NEOPOPULISTAS" EUROPEOS

Joan Antón Mellón
Profesor de Ciencia Política de la UB
INTRODUCCIÓN
Los partidos neopopulistas europeos han consolidado su posición electoral ensus respectivos sistemas de partidos, e incluso en Italia la (LN) o en Austria el (FPÖ) han alcanzado el poder en coalición con otros partidos de derecha. Al respecto es ilustrativo los 5,5 millones de votos obtenidos por J.Mª Le Pen en la primera vuelta de las elecciones presidenciales francesas del 2002 o el 26,6% de votos obtenidos por el partido neopopulista suizo UDC en las elecciones parlamentarias de octubre del 2003. Su banderín de enganche es la xenofobia: «preferencia nacional» defienden los franceses FN y MNR; «Austria primero» propugna el FPÖ; hundir a cañonazos las embarcaciones de los emigrantes ilegales es la «propuesta política» que expuso en un mitin Umberto Bossi, líder de la LN italiana y ministro del gobierno italiano de S. Berlusconi; pero su influencia va más allá de su directa capacidad en las labores de gobierno o en la oposición, están influyendo decisivamente en las propuestas de otras subfamilias políticas de derechas1 al competir por la misma posible clientela electoral en unos mismos mercados políticos, es la denominada lepenización de los espíritus2. En última instancia rentabilizada políticamente por las organizaciones neopopulistas que se presentan como el original de las propuestas y no como remedos vergonzantes de éstas. Las organizaciones neopopulistas europeas han sido bien estudiadas en susvertientes sociológicas, organizativas e ideológicas. En mi opinión las tesis más incisivas y reveladoras se deben a las investigaciones de H.G. Betz, P.Perrineau, N. Mayer y R. Griffin, con una modesta contribución de quien escribe estas líneas3. Del profesor británico R. Griffin destaquemos su brillante análisis de que las propuestas neopopulistas pueden ser calificadas de «liberalismo etnocrático» y que constituyen una inteligente reconversión adaptativa (en una época de hegemonía de los valores democráticos) de los clásicos idearios de la extrema derecha. Sabemos quién vota a estas formaciones políticas y bastante del porqué, sin embargo está bastante inexplorado el terreno de cuáles son los referentes filosófico-ideológicos de los presupuestos xenofóbicos de las organizaciones neopopulistas. A esta relevante cuestión esta dedicado el presente artículo, si sabemos a partir de qué parámetros piensan los partidos xenofóbicos podremos contrarrestar su discurso desmontando sus argumentos base. He aquí nuestro objetivo central.
La Nueva Derecha Europea son los ideólogos que han actualizado los caducos discursos fascistas y ultranacionalistas del primer tercio del siglo XX. Son los revolucionarios conservadores del siglo XXI. Proporcionan, como veremos, legitimidad ideológica, entre otras, a las formaciones políticas neopopulistas.
I. ¿QUÉ Y QUIÉNES SON LA NUEVADERECHA EUROPEA?
La Nueva Derecha Europea (ND) está constituida por asociaciones cultural-políticas que se crean a imitación de la francesa Groupement de Recherche et dÉtudes pour la Civilisation Européenne (GRECE). Desde su fundación en1968 la ND francesa ha sido el faro teórico de sus homólogas europeas y su «maître à penser» Alain de Benoist el líder intelectual indiscutido. Dado que el combate de la ND es metapolítico, cultural los buques insignia de la flota de la ND siempre son revistas y, derivadas de ella, editoriales. En Francia la revista oficial es Éléments pour la culture européenne, en Italia, Trasgressioni, liderada por el politólogo Marco Tarchi, en Bélgica, Vouloir, dirigida por R.Steuckers, en el Reino Unido, Scorpion, con su hombre fuerte M. Walker y en España el alto funcionario del Ministerio de Educación Javier Esparza, director entre 1993 y 2000 (fecha del último número) de Hespérides. Todos ellos comparten unos mismos criterios culturales y políticos y, por ello, sus artículos más emblemáticos son intercambiados, traducidos y publicados por sus respectivas revistas. El núcleo central de sus convicciones radica en que tienen una visión de la naturaleza humana radicalmente opuesta a la tradición ilustrada. Para la ND el hombre es naturalmente desigual, agresivo, territorial y jerarquizado. No nace libre sino que la libertad es una conquista sólo alcanzable por los mejores, los cuales deben dirigir a la comunidad. Y ésta forja su destino en un combate constante contra todo tipode adversidades. Se es libre por superación personal y por pertenecer a una determinada comunidad que ha logrado preservar su soberanía. Para la ND los protagonistas de la Historia son los pueblos étnicamente homogéneos. De ahí que el enemigo principal, superado un visceral anticomunismo calificado de juvenil, sea el cristianismo por sus concepciones igualitarias y universalistas y el liberalismo por su radical visión individualista y anti-holística 4 del hombre. EE.UU como líder occidental mundial y potencia única, tras 1989, es el demonio a vencer, mientras que, en un terreno más abstracto, los Derechos Humanos son el gran objetivo a derribar.
En su opinión, obsoleta la frontera clásica entre la derecha y la izquierda, la nueva división radica entre los colaboradores y/o funcionarios del Sistema o tecno-estructura mundial y los partidarios de la recuperación de las raíces culturales de los diferentes pueblos del mundo para superar la decadencia y anomia actuales. En este heroico combate el papel que se otorga a si misma la ND es metapolítico, ser un laboratorio de ideas, agitar culturalmente y disputar al Sistema la hegemonía 5 ideológica (en cualquiera de las formas que adopta) para preparar unos nuevos planteamientos políticos rupturistas. Europa y el Tercer Mundo frente a EE.UU. Todo ideario político articulado elabora una utopía en la que se ven reflejados sus objetivos. La utopía de la ND sería una Europa libre de inmigrantes (o residiendo éstos temporalmente como ciudadanos sin acceso ala nacionalidad). Un mundo plural, heterogéneo, formado por comunidades homogéneas. Recuperada de la catástrofe igualitaria del cristianismo y su laicización racionalista ilustrada en cualquiera de sus manifestaciones: humanismo, liberalismo, marxismo 6; que se reconociera en su pasado indoeuropeo precristiano para decidir, libremente, su glorioso destino al recuperar su espiritualidad y su afán de lucha, sepultada por siglos de hegemonía de los valores mercantiles burgueses (materialistas y prosaicos) e igualitaristas.Fiel a estos planteamientos metapolíticos la ND se mantiene alejada de la lucha política partidista e incluso marca distancias y descalifica muchas de las propuestas de las formaciones políticas que más tienen en cuenta sus criterios de base: las formaciones políticas neopopulistas. Evidenciándose con ello queen el terreno de las ideas políticas es más relevante el uso político que se hacede ellas que las propias ideas.
II. ¿CUÁLES SON LOS OBJETIVOS DE LA ND?
La ND europea nace en Francia en la década de los sesenta del pasado siglo como un intento de reformulación del tradicional ultranacionalismo francés, traumatizado por las derrotas de los procesos de descolonización y deslegitimado por el colaboracionismo de Vichy. Además, sus planteamientos iniciales están también condicionados por la explosión ideológica y cultural de Mayo del 68 (7) y por la luz europeista que continua proyectando el Nacionalsocialismo en el universo ideológico de la extrema derecha y derecha radical, a pesar de su desaparición como régimen político en 1945. El ideario del Fascismo Clásico alemán proyecta su luz de estrella muerta igual que la proyecta el magma cultural que hizo posible, entre otros factores, su toma del poder en 1933 y su legitimación ideológico-cultural. Perdida la capacidad de seducción de los derrotados mitos fascistas es necesario substituirlos por otros. Es necesario una nueva Revolución Conservadora adaptada a una muy dura realidad para las Extremas Derechas y Derechas Radicales europeas: La Europa que resurge de sus cenizas despuésde 1945 se construye a partir de valores y criterios políticos antifascistas y profundamente democráticos; y la revelación propagandística de los horrores de los campos de exterminio ha evidenciado la intrínseca perversidad de los idearios fascistas.8 Dicha nueva Revolución Conservadora asume la radical crítica de la modernidad efectuada por los revolucionarios conservadores alemanes del primer tercio del Siglo XX: desprecian a Kant tanto como admiran a Nietzsche 9 y leen detenidamente los conservadores planteamientos metafísicos deHeidegger. Pero no sólo leen estos autores, sino todo aquello que pueda ser útil 10 ante su enorme tarea: redefinir la modernidad, ya que eso supone, en la segunda mitad del siglo XX, redefinir los conceptos de libertad y democracia en contra de las hegemónicas acepciones liberal-democráticas y socialdemócratas. En un largo proceso de estrategias y tácticas metapolíticas de destilación de ideas, alambicamiento de análisis 11 y proceso sincrético de síntesis global. Teniendo como objetivo que una cosmovisión alternativa a la ilustrada-burguesa se imponga en el mundo 12 y como medio el combate cultural-ideológico, en una muy inteligente, en mi opinión, utilización de un sistema ecléctico de disonancia cognitiva cultural. Se asume todo aquello que apoya,«demuestra» o «legitima» una determinada concepción del hombre y de la naturaleza y de las potencialidades de los seres humanos. Juzgados en su esencia como unos entes esencialmente: comunitarios, desiguales, agresivos, jerárquicos y territorializados. Condicionados por sus características biológicas, socialbiológicas y etnoculturales, pero libres para forjar su destino sino renuncian a su voluntad de poder como comunidades e individuos. La amplitud del objetivo estratégico de la ND (redefinición de la modernidad) y de la opción táctica escogida (intervención metapolítica) comportan una renuncia a la actividad política directa. Pueden permanecer puros, fieles a sus ideas. Dedicados a leer pensar y propagar. Algunos se cansan en este largo viaje, pero los auténticos representantes de las esencias de la ND como A. de Benoist, M. Tarchi o J. Esparza permanecen y no ingresan en los partidos neopopulistas o liberal-conservadores que, desde un primer momento, los esperan con los brazos abiertos, ávidos de intelectuales solventes. E incluso la ND francesa se permite despreciar al FN en general y a su líder J.Mª Le Pen de forma pública desde 1990 en particular por su populismo y su asunción del liberalismo.13 Tanto da; como la clase política sabe muy bien -y así lo apuntábamos previamente- más importante que las propias ideas es el uso político que se hace de ellas. En este sentido, conceptos como el «Derecho a la Diferencia»; planteamientos políticos como la «necesidad» de la creación de amplios movimientos comunitarios superadores de factores ideológicos y de clase; su visión del capitalismo como un sistema de producción idóneo si se lo supedita a control político; su óptica patriarcal; el planteamiento estratégico-táctico ninista (definirse como ni de derechas ni de izquierdas); la distinción jurídica entre ciudadano y nacional, entre otros factores, son asumidos de una determinada manera, política, por quienes los asimilan en sus planteamientos programáticos. De ahí que el mencionado «Derecho a la Diferencia» de la ND se convierte en la propagandística consigna del FN y el MNR «Preferencia Nacional».14 Al defenderse posturas radicales diferencialistas y antimulticulturales se potencia un racismo espiritual que se vulgariza en la xenofobia de los planteamientos políticos, culturales y jurídicos de las organizaciones neopopulistas. O la crítica radical de la ND al conjunto deideologías 15 se transforma, en su adaptación política de las organizaciones neopopulistas, en el rechazo de éstas a los otros partidos políticos en bloque,descalificando así la consustancial pluralidad de la democracia representativa.Son las concepciones nucleares de una Derecha Radical renovada, adaptada a las cambiantes realidades de los inicios del siglo XXI. La ND, por tanto, no ha transversalizado a la derecha y a la izquierda, «superándolas». Este análisis encierra, ideológicamente, una intencionalidad política que es más un deseo que una realidad: su análisis es que el fin tecnocrático de las ideologías (en la postmodernidad de un mundo globalizado) ha permitido resucitar una visión alternativa a la modernidad liberal- burguesa a la vez tradicional (pagana e indoeuropea) y futurista, aristocrática y armonicista. Una tercera vía 16 capaz de reconciliar, como la Ilustración no ha podido hacer, pares antagónicos.
La lúcida crítica que efectúan a las miserias de las sociedades occidentales (por ejemplo el papel mundial que juega lo que denominan Tecno-estructura, el déficit democrático, el anómico egotismo o la infantilización de la sociedad) no debe obnubilar nuestra capacidad de análisis del ideario de la ND francesa y de sus más débiles sucursales europeas. Denuncian y rechazan cualquier totalitarismo17 (cuyo origen, en su opinión, es el monoteísmo) pero lo hacen desde una perspectiva de superhombre nietzscheano, más allá del bien y el mal. Creen, como sus padres espirituales, que la sangre vale más que el oro; que la «forma de estar en el mundo» legitima cualquiera de sus actos, más allá del bien y el mal; que la libertad es un concepto práctico y político y que la voluntad de poder, como ley universal de la vida, establece quien es superior capaz y quien es débil e impotente.18 Y todo esto es lo que el antifascismo ha considerado como fascismo. Por tanto, mientras se escuchen ideas fascistas habrá que levantar la bandera del antifascismo y convencer a P.A. Taguieff recordándole que es suyo el siguiente análisis, tras comentar la ruptura explícita entre GRECE y el FN a partir de 1990 al calificar Benoist al FN de Extrema Derecha tradicional: «(...) cette rupture nimplique pas lannulation de limprégnation «greciste» du discours de certains responsables du Front National, formés dans la mouvance de la «Nouvelle droite».19 Igual opina M.Florentín: « (...) el Frente Nacional francés ha bebido muchos principios ideológicos en las fuentes del GRECE (...)» 20 A la ND no le gustarán las políticas que propugnan los partidos neopopulistas pero muchos de los cuadros neopopulistas comparten la cultura política de las publicaciones de la ND. Las ideas abstractas todo el mundo entiende que hay que darles forma y contenido para que puedan concretarse. Lo selecto se convierte en práctico no selecto al intentarse aplicarlas a la realidad. Por eso, inspirándonos en una reflexión de R. Griffin, podríamos preguntarnos si todo el inmenso horror de lo sucedido recientemente en la ex-Yugoslavia ¿no es el intento de construir sociedades etnicamente homogéneas, mediante una férrea y combativa voluntad de poder de una comunidad que recuerda su mítico pasado y quiere forjarse un destino como comunidad? 21 En última instancia la vieja propuesta del fascismo clásico de conseguir la armonía mediante una revolución cultural, espiritual y «nacional» es la propuesta, renovada, de la ND. Aunque ahora se acepte incluso la democracia, redefinida. Lo importante es acabar con la hegemonía del universalismo y del igualitarismo. De ahí que las propuestas liberales etnocráticas de las organizaciones neopopulistas sean la concreción política real de estas propuestas metapolíticas.22 El ideario de la ND, por tanto, es la filosofía política de la Derecha Radical europea actual, como en su día las concepciones de la Revolución Conservadora Alemana fueron uno de los decisivos basamentos ideológicos del ideario nazi. La misma inmensa diferencia que se dio entre E.Jünger y A. Hitler es la inmensa diferencia que existe hoy entre A. de Benoisty J.Mª Le Pen o B.Mégret. Todos ellos compartían y comparten una visión del mundo alternativa a la concepción ilustrada-liberal-socialista que afirma que es una verdad por sí misma que los hombres nacen iguales.
NOTAS:
1Véase Hainswort, P.: The Politics of the Extreme Right, Tiper, Londres, 2000.
2Véase Tevain, P. y Tissot, S.: Dictionaire de la Lépenisation des esprits, LEsprit Frappeur,2002.
3Antón Mellón, J.: «El neopopulismo en Europa occidental. Un análisis programáticocomparado: MNR (Francia), FPÖ (Austria) y LN (Italia), en Antón Mellón, J.(edit.): Las ideaspolíticas en el siglo XXI, Ariel, Barcelona, 2002.
4Las doctrinas holísticas propugnan que el todo es superior a la suma de las partes y poseecaracterísticas que le son propias.
5En el sentido en que da a este término el filósofo marxista italiano A. Gramsci.
6Recordemos al respecto que en capítulo 11 de Mi lucha A. Hitler descalifica como ideas modernas tanto al liberalismo como la democracia y el socialismo.
7La editorial de GRECE Le Labyrinthe ha publicado una obra al respecto: Le mai 68 de laNouvelle Droite.
8Por eso ha aparecido la corriente historiográfica denominada Negacionismo. Negando laexistencia del Holocausto se reafirma la no maldad intrínseca del ideario nazi.
9El objetivo general de Nietzsche y de la ND es idéntico: la substitución de los valores aluso, hegemónicos en Occidente, por otros que se creen superiores.
10«Practicando una lectura extensiva de la historia de las ideas, la ND no duda en recuperar aquellas que le parecen acertadas en cualquier corriente de pensamiento.» Benoist, A. de y Champetier, Ch.: Manifiesto: la Nueva Derecha en el año 2000.
11Por ejemplo para la ND el racismo (que denuncian en paralelo a una defensa de los inmigrantes aunque propugnan su regreso a sus países de origen) es un producto patológico delideal igualitario.
12Se pretende que lo espiritual predomine sobre lo material; lo idealista/altruista sobre lopragmático; lo heroico sobre lo prosaico; la generosidad sobre el cálculo constante; locomunitario sobre lo individual; el sacrificio sobre el hedonismo; el espíritu de aventura sobrela comodidad; el ánimo guerrero sobre el pacifismo; la jerarquía sobre la igualdad.
13Véase las publicaciones francesas Le Choc du mois, nº31(1990) y Les Dossiers delHistoire, nº82(!992).
14Analogía que ofrece pocas dudas. « (...) les formulations récents du national-populisme sonttributaires de lidéologie de la différence mise au point par la Nouvell droite.» Taguieff, P.A.:Sur la Nouvelle droite, Descartes, Paris,1994, p. 98.
15«Del marxismo al conservadurismo ultraliberal, pasando por todas las variedades del centrismo y de la socialdemocracia, uno se encuentra en presencia de la misma visión de lasociedad, del Estado y del hombre.» Benoist, A. de y Faye, G.: Las ideas de la Nueva Derecha,Ediciones Nuevo Arte Tor, Barcelona, 1986, p. 450.
16«(el Estado (...) dirige políticamente la economía sin intervenir administrativamente en sugestión. Esta concepción de una «economía dirigida» constituye la tercera vía entre el liberalismo del Estado mínimo y el socialismo del Estado nacionalizador y poli-intervencionista.» Benoist,A. de y Faye, G.: Las ideas de la Nueva Derecha, Op. Cit. 387.
17Véase Benoist, A.de: Communisme et nazisme 25 réflexions sur le totalitarisme au Xxesiècle(1817-1989). Le Labyrinthe, París,1989.
18En palabras del propio Nietzsche: «Aquí resulta necesario pensar a fondo y con radicalidady defenderse contra toda debilidad sentimental: la vida misma es esencialmente apropiación,ofensa, avasallamiento de lo que es extraño y más débil, opresión, dureza, imposición de formaspropias, anexión y al menos, en el caso más suave, explotación».Apud Tugendhat, Problemas,Gedisa, Barcelona, 2002, p. 86.
19Taguieff, P. A.: Sur la Nouvelle droite, Op. Cit. 346.
20Florentín, M.: Guía de la Europa Negra, Op.Cit.,82.
21Con independencia del hecho que, probablemente, S. Milosevic nunca haya leído nada deA. de Benoist.
22«Es necesario replantear el mundo en términos de conjuntos orgánicos de solidaridad real:de comunidades de destino continentales, de grupos nacionales coherentes y ópticamentehomogeneos por sus tradiciones, su geografía y sus componentes etnoculturales (...) Estas asociaciones de naciones son geopolíticamente posibles y supondrían la destrucción del marco económico-estratégico actual.» Faye, G.: «Pour en finir avec la civilisation occidentale», Éléments, núm. 34 (1980), 8-9.

lundi, 11 octobre 2010

Sur le "sauvetage" de la Grèce par la Chine

Sur le « sauvetage » de la Grèce par la Chine

Le Petit Poucet grec, étranglé par sa dette, sera-t-il sauvé par le géant chinois ? « La Chine est l’amie de la Grèce, et c’est dans les moments difficiles que l’amitié s’éprouve ».  Un bel exemple de fraternité. En visite à Athènes, le premier ministre Wen Jibao a annoncé que la Chine « participera à l’achat de nouvelles obligations grecques » quand le pays reviendra sur les marchés financiers, dès l’an prochain.

Ce n’est pas tout. Les deux partenaires prévoient de porter à 8 milliards de dollars (contre 4 aujourd’hui) leurs échanges commerciaux d’ici 2015. Outre deux accords cadre pour développer les investissements chinois en Grèce, Pékin et Athènes ont signé 11 accords commerciaux privés.

Pour la Grèce, actuellement sous perfusion du FMI et de l’Union européenne, ce « vote de confiance » (dixit l’ambassadeur de Chine en Grèce) est une sorte de miracle. Jusque là, tout le monde s’attendait à ce qu’elle fasse défaut dans quelques mois.

Mais la Chine n’apporte pas son aide par amitié ou philanthropie. D’abord, elle met la main sur un certain nombre de secteurs stratégiques (ports, marine marchande, chemins de fer, transport routier, construction, télécommunications, tourisme, matières premières, etc.), qu’elle avait déjà commencé à investir en 2008 avec notamment la concession pour 35 ans de 2 quais du Pirée, le port d’Athènes, au groupe chinois Cosco. Ensuite, la Chine achètera des obligations grecques très juteuses et dont le risque est presque nul grâce à la garantie financière de l’Union européenne. Ce qui fait dire à certains que c’est l’Europe qui finance des investissements chinois qu’elle-même n’a pas su – et aurait dû – faire. Le loup est entré dans la bergerie avec le consentement des moutons eux-mêmes.

En effet, la Chine veut faire de la Grèce sa « porte d’entrée » (son cheval de Troie) en Europe et dans les Balkans. Athènes est la tête de pont des ambitions chinoises sur le Vieux Continent. Non seulement sur le plan industriel et commercial, mais également sur le plan monétaire. Car il sera difficile désormais pour un gouvernement européen d’adresser des critiques à Pékin sur la sous-évaluation du yuan !

Sans compter que ce soutien apporté à la Grèce est peut-être aussi le moyen pour les Chinois de faire sauter le verrou qui empêche l’euro de monter davantage. Et donc de mieux enfoncer l’Europe… Ils l’ont déjà fait avec leurs concurrents japonais en achetant des bons du Trésor pour faire monter le yen, ils le feront également avec les pays périphériques de la zone euro : Grèce, Irlande, Portugal, Espagne, etc.

C’est en tout cas la thèse de Marc Fiorentino. Affaire à suivre !

Gli Osseti e la cinica Europa

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Gli osseti e la cinica Europa

di Giulietto Chiesa

Fonte: megachip [scheda fonte]

Tzkhinval, cos’era?, o cos’è? Se uscite di casa e, una volta superate le asperità della pronuncia, chiedete ai primi dieci passanti se hanno un’idea a proposito di questa parola, nessuno saprà rispondere. La risposta è: la capitale dell’Ossetia del Sud. Resta da chiarire dov’è e cos’è questo paese. Si trova sul versante sud del Caucaso ed era, fino a 20 anni fa, nei confini della Repubblica Socialista Sovietica di Georgia.


Il 20 settembre l’Ossetia del Sud ha celebrato i suoi 20 anni di indipendenza dalla Georgia. Ma c’è un problema: la Georgia non ha mai accettato la loro indipendenza e, in tutto il secolo XX, ha ripetutamente cercato di schiacciare gli osseti, sia cacciandoli da quella terra, sia assoggettandoli, sia - quando non gli è riuscita nè l’una nè l’altra cosa - sterminandoli.

 

Il perché è complicato da spiegare e da raccontare in poche righe, ma forse basta elencare alcune specificità.

La prima è che gli osseti non sono mai stati “georgiani”.

La seconda è che parlano una lingua che non ha nessuna parentela con il georgiano (ed è questa una discreta prova che provengono da un’altra storia, alla quale non vogliono rinunciare, avendone pieno diritto).

La terza è che sono stati divisi in due parti, gli osseti, da una storia crudele e più forte di loro: la parte più grande è rimasta dentro i confini della attuale Federazione Russa, è una repubblica autonoma, con capitale Vladikavkaz, e sta a nord della imponente catena montuosa del Caucaso. La parte più piccola è invece a sud del Caucaso, con una popolazione di circa 70 mila persone, esseri viventi all’incirca uguali a noi (anche se facciamo finta di non saperlo). Fino a che i due pezzi fecero parte di un unico Stato, l’Unione Sovietica, la divisione fu meno dolorosa e i piccoli “sudisti” si sentirono relativamente protetti dal Grande Fratello ortodosso. I guai riesplosero con la fine dell’Urss.

Chiesero, ma non ottennero, la autonomia da una Georgia che si dichiarava ora “democratica”, cioè non più socialista, ma che si proponeva ancora una volta di liquidarli. Subirono tre massacri, l’ultimo dei quali nella “guerra dei tre giorni” scatenata contro di loro la notte tra il 7 e l’8 agosto del 2008 dal “democratico” presidente della Georgia, con l’aiuto dell’allora presidente, anche lui molto democratico, dell’Ucraina.

La Russia di Medvedev e Putin, che molto democratici (secondo i nostri metri) non sono, intervenne in forze e, sconfitta la Georgia, riconobbe la Repubblica dell’Ossetia del Sud come sovrana e indipendente e mise la sue armata a presidio di un tale riconoscimento. Che, allo stato dei fatti elenca solo quattro paesi: Russia, Nicaragua, Venezuela, Nauru (chi vuole saperne di più vada a vedere dalle parti della Nuova Zelanda).

Ma non ha molta importanza, perchè nessuno è ora in condizione di cambiare il mazzo di carte.

Come testimone diretto delle guerre di questi ultimi venti anni sono stato invitato a partecipare ai festeggiamenti. Il problema è che l’Europa e gli Usa, e con loro tutto l’Occidente, non riconoscono nè l’esistenza dell’Ossetia del Sud, nè quella, parallela e contemporanea, dell’Abkhazia, altra regione che non ne vuole più sapere della Georgia. Entrambi pezzi non dell’ambizione russa, ma della stupidità sesquipedale dei leader georgiani. Perché?

Ufficialmente per il principio della intangibilità delle frontiere, sancito dalle Nazioni Unite. In realtà perché gli Usa vogliono includere la Georgia nella Nato, estendendo a sud l’accerchiamento della Russia, che perseguono dal momento della caduta dell’Urss.

L’Europa, come al solito, segue fedelmente. Gli altri, variamente ricattati, fanno altrettanto. Eppure c’è un altro principio che sarebbe utile non dimenticare, anche quando la Realpolitik impone di seguire il dettato dell’Impero: quello dell’autodeterminazione dei popoli.

 Chi non ha la memoria troppo corta si ricorderà che fu proprio questo principio che venne invocato, pochi mesi prima della guerra contro l’Ossetia del Sud, da tutti i paesi occidentali che avevano una gran fretta di riconoscere la indipendenza del Kosovo dalla Serbia.

 


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Indo-European Esperanto?

Indo-European Esperanto?

Ex: http://www.counter-currents.com/

The fragmentation of prehistoric Proto-Indo-European (PIE) into a bewildering array of mutually unintelligible European (and, more broadly, Caucasian—Armenian, Iranian, Indic, Tocharian, and Anatolian) languages has severely hobbled the cause of white survival. Language and cultural differences have divided an essentially homogeneous population into separate nationalities and sub-nationalities incapable of networking effectively, rendering all of them easy prey to the depredations of hostile organizations and governments. It is ironic that aliens are regarded as fellow citizens by the vast majority of whites, while many whites, including their own cousins in the old country or the new lands, are categorized as “foreigners.” Insurmountable language barriers play a large role in this.

How to remove these barriers while simultaneously preserving robust local and regional identities poses a problem. But the first order of business is to establish effective cross-cultural communication between concerned racialists presently speaking a Babel of incomprehensible languages.

In this light, a quixotic proposal from a handful of Spaniards calling themselves the Dnghu Group—also known as the Indo-European Language Revival Group—to revive Proto-Indo-European as the lingua franca of the European Union merits examination. The Dnghu Group has established a presence on the World Wide Web to promote its objectives.

A thousand or more planned languages have existed over the past two centuries, approximately a dozen of which developed a community of speakers of some kind, however small.

The most successful artificial language is the globalist-oriented Esperanto, invented by Ludwig L. Zamenhoff (1859-1917), a Jewish ophthalmologist who, like Carlos Quiles, the creator and prime mover behind the current proposal, developed his system while a medical student. A street in Tel Aviv, Israel, is named in Zamenhoff’s honor (redaction: and in Brussels also,.. although the road is awful and the architecture appaling...).

Despite its “success,” Esperanto has not exactly caught on. According to one estimate, in 1927 there were 128,000 Esperanto speakers (0.006% of the world’s population), while today there are 2 million, or 0.033%—an increase, to be sure, but still a negligible number of people.

Modern Indo-European (MIE)

The proposed language, “Modern Indo-European” (MIE)—or, interchangeably, “Europaio”—is a reconstructed, auxiliary language derived from work originally done in 2006 by Quiles and María Teresa Batalla. Quiles, a native Spaniard in his late twenties, is currently a medical student at the University of Extramadura (Universidad de Extramadura), which is located in a remote region of west central Spain bordering Portugal. Maria Batalla was a fellow Extramdura student at the time.

In October 2009 Carlos Quiles published the 824-page second edition of A Grammar of Modern Indo-European, issued by CreateSpace, a print-on-demand subsidiary of Amazon.com and described as “a complete reference guide to a modern, revived Indo-European language.” The outdated first edition of Quiles’ grammar can be downloaded for free here.

The Dnghu Group hopes that Modern Indo-European will become the official language of the European Union in twenty to forty years, much as revived Hebrew became Israel’s official language after a similar span of time. The Revival Group also hopes that eventually MIE will become the dominant auxiliary language globally. Initially, however, it would be taught to Europeans as a second language.

According to the Dnghu website, if Europaio has not been accepted by 2050, “it would possibly mean that Indo-European is becoming another language revival failure,” as happened with “Latin in the European Union after its abandonment in the 19th c. (the ‘recent Latin’ revival, promoted in the Congrès International pour le latin vivant, 1956, now mostly abandoned and forgotten), Ancient/Classical Greek in Greece (also ‘puristic’ Greek, the so-called Katharevousa), or Classic Coptic in Egypt in the 19th c., promoted by the Coptic Church.”

Quiles writes:

We obviously knew before beginning with this that it is very difficult to [make] happen, but it could happen—as it did with Hebrew—and we work on this because it is a possibility, because we are Europeanists and want a country united under a common language. . . . We know we are not experts, and that there are lots of people more prepared than us to work on PIE reconstruction, but we have been saying since we started in 2004 that our objective is IE [Indo-European] revival, not to impose our ideas on PIE; we want experts to collaborate.

The Indo-European Language Revival Group recommends that people interested primarily in learning a second language not study Modern Indo-European, but rather English. “However, a good intermediate choice would be to learn Sanskrit, Old Greek or Latin, or even early Germanic or Balto-Slavic dialects, as they are all natural approaches to older PIE [Proto-Indo-European] and to modern languages alike.”

Occidental Linguistics

As expected, the group’s members are oblivious to the urgent racial problems touched upon in the introductory paragraphs. Modern Indo-European, they assert, “is not about Indo-European speakers’ race or genetics.” Instead, in the words of prime mover Quiles, it is “a dream about a future United Europe under one common language, Indo-European. A common country where we can move and communicate with others as US citizens do in their country, not just as exchange students or workers, or to sell or buy things.”

Despite such sincere disclaimers, jaded readers will not be surprised to learn that at least one obsessive individual has rabidly attacked the Dnghu idea as “racist” and “Nazi.” Based upon his name, physiognomy, psychological quirks, totalitarian proclivities, and thinly-disguised anti-white bigotry, he is most likely Jewish.

A glance at the historical record reveals that Modern Indo-European has some unacknowledged but intriguing predecessors, quite possibly unknown to its proponents. In addition to various constructed “pan-” tongues—pan-Teutonic, pan-Slavic, pan-Celtic—it has been maintained by some that Germany intended to establish a kind of “Basic German” as the international language of a postwar, united Aryan Europe.

The most consequential predecessor of MIE, however, is Occidental (known after WW II as Interlingue), a planned language created in 1922 by Baltic German naval officer Edgar de Wahl (1867-1948). It was exceptionally popular in Europe prior to the Second World War, ranking as the fourth most prevalent planned language. Occidental emphasized European linguistic forms coupled with a Eurocentric philosophy.

WahlAccording to the late Donald J. Harlow, director of the Esperanto League of North America (ELNA), Edgar de Wahl, one of the first to learn Esperanto, “became the proponent of the only modification to the language’s structure that [Esperanto founder] Zamenhof found worthy of adoption after publication of the First Book.” However, Wahl grew disenchanted with Esperanto: “it simply was not Western enough for him.”

In Harlow’s opinion

the worst thing about Wahl’s language was the apparent philosophy of those who supported it. Wahl and his disciples were interested in the West, and to him the rest of the world was unimportant; it was doomed, or destined, to play, not merely a minor role, but no role at all. Civilization was a European phenomenon; only Europeans could be interested in international communication (plus those few Asians—Africans may not have entered into his world-view at all—who would consciously adopt the trappings of the West: seersucker suits, neckties, Catholicism and a Romance language), and so an international language should be intended only for Europeans. More specifically: Western Europeans; Wahl’s followers, like many Westerners of his day, generally expressed a cordial detestation for things Slavic, and this may have been the Estonian Wahl’s attitude, as well.

Whether this is an accurate depiction of Wahl’s or a majority of Occidental speakers’ views is impossible to say. Occidental’s last periodical, Cosmoglotta, ceased publication in 1985.

The Indo-European Language Revival Group’s proposed “Modern Indo-European” is not really an artificial, constructed language like Esperanto or Volapük, but rather a reconstructed historical language like Modern Hebrew. Although it is unlikely ever to see the light of day as envisaged, it is perhaps an instructive, if unconscious and unintentional, response to a real and pressing need: transnational white linguistic comprehensibility.

TOQ Online, November 2, 2009