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mardi, 14 décembre 2010

Zeev Sternhell: I diritti di Israele hanno bisogno di una guerra perpetua

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I diritti di Israele hanno bisogno di una guerra perpetua

 

 DI ZEEV STERNHELL

(ex: http://www.comedonchisciotte.org/)
Haaretz

Dal punto di vista del diritto, i negoziati sul partizionamento della terra sono un pericolo esistenziale perché riconoscono ai Palestinesi la stessa uguaglianza dei diritti degli Ebrei su Eretz Israel.

I fatti devono essere riconosciuti: i capi dei partiti di destra hanno una visione strategica e una capacita’ di visione a lungo termine, e sanno anche come scegliere gli strumenti giusti per svolgere la loro missione.

La proposta di modifica della nuova legge sulla cittadinanza, che mira a fomentare uno stato di continua agitazione tra gli Ebrei e tutti gli altri, e’ solo un aspetto di un piano di vasta portata il cui portavoce ufficiale e’ il ministro degli esteri Avigdor Lieberman.

L'altro aspetto è la promessa del ministro degli Esteri alle nazioni del mondo che la nostra guerra contro i palestinesi è una guerra eterna. Israele ha bisogno di un nemico interno ed esterno, un senso costante di emergenza, - perche’ la pace, sia con i palestinesi nei territori o con i palestinesi in Israele, rischia di indebolirla al punto di pericolo esistenziale.

E infatti, la verita’, che include la maggior parte dei leader del Likud, è permeata dalla consapevolezza che la società israeliana vive in un costante pericolo di rottura dall'interno. Il virus democratico ed egualitario si abbatte il corpo politico dall'interno. Questo virus si basa sul principio universale dei diritti umani e alimenta un comune denominatore tra tutti gli esseri umani, perché sono esseri umani. E che cosa gli esseri umani hanno di piu’ in comune se non il diritto ad essere padroni del loro destino ed uguali tra loro?

Dal punto di vista della destra, e’ qui dove sta’ il problema: i Negoziati sul partizionamento della terra sono un pericolo esistenziale perché riconoscono ai Palestinesi la stessa uguaglianza dei diritti degli Ebrei, su Eretz Israel. Pertanto, al fine di preparare i cuori e le menti per il controllo esclusivo della popolazione ebraica del paese intero, è necessario aderire al principio che ciò che conta davvero nella vita degli esseri umani non è ciò che li unisce, ma piuttosto ciò che li separa . E cosa separa di piu’ la gente della storia e della religione?

Oltre a ciò, vi è una chiara gerarchia di valori. Siamo prima di tutto Ebrei, e solo se siamo certi che non ci sarà nessuno scontro tra la nostra identità tribale-religiosa e le esigenze del dominio ebraico, da un lato, e dei valori della democrazia, dall'altro, anche Israele puo’ essere democratico. Ma in ogni caso, sara’ sempre data preferenza al suo carattere ebraico. Questo fatto garantisce una lotta senza fine, perché gli arabi si rifiutano di accettare la sentenza di inferiorità che (il Ministro degli Esteri) Lieberman e il ministro della giustizia Yaakov Neeman intendono per loro.

Questo è il motivo per cui questi due ministri, con il tacito sostegno del primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno respinto la proposta che il giuramento di fedeltà dice essere "nello spirito della Dichiarazione di Indipendenza". Per come lo vedono, la Dichiarazione di Indipendenza, che promette l'uguaglianza per tutti, indipendentemente dalla religione e dall’origine nazionale, è un documento il cui vero scopo e’ distruttivo, e che in quel momento lo scopo reale era quello di calmare i non ebrei e di essere aiutati nella loro guerra di indipendenza. Oggi, in un Israele che è armato fino ai denti, solo i nemici del popolo vorrebbero dare uno status giuridico di una dichiarazione che in ogni caso pochi hanno mai preso sul serio.

Qui è dove la dimensione religiosa entra nell’immagine. Proprio come ha fatto tra i conservatori rivoluzionari del 20 ° secolo ed i nazionalisti neoconservatori dei nostri giorni, la religione gioca un ruolo decisivo nel cristallizzare la solidarietà nazionale e preservare la forza della società.

La religione è percepita, naturalmente, come un sistema di controllo sociale senza contenuto metafisico. Pertanto, le persone che odiano la religione e il suo contenuto morale possono essere al fianco di gente come Neeman, che spera un giorno di imporre la legge rabbinica su Israele. Dal loro punto di vista, il ruolo della religione è quello di imporre l'unicità ebraica e spingere i principi universalioltre il limite di esistenza nazionale.

In questo modo, la discriminazione e la disuguaglianza etnica e religiosa e’diventata la norma qui, e il processo di delegittimazione di Israele si è innalzato. E tutto questo è opera di mani ebraiche.

Titolo originale: "Israel's Right Needs Perpetual War"

Fonte: http://www.haaretz.com
Link
15.10.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di JACKALOPE


La stratégie américaine pour influencer les minorités en France

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La stratégie américaine pour influencer les minorités en France

Confirmation du diagnostic

Ex: http://www.polemia.com/

 

Wikileaks a permis de lever le voile sur ce qui était déjà une évidence : les Américains sont clairement engagés dans une stratégie d’influence de vaste ampleur vis-à-vis des minorités en France. Pour les lecteurs de ce blog, et notamment de l’article du 16 septembre dernier (« Les banlieues françaises, cibles de l’influence culturelle américaine »), il ne s’agit pas là d’une découverte mais d’une confirmation : oui, il y a une claire et nette entreprise de manipulation des minorités en France par les Américains. Les opérations mises en œuvre sont scrupuleusement planifiées, suivies et évaluées.

Tel est le constat auquel on parvient à la lecture du rapport de l’actuel ambassadeur des Etats-Unis en France, Charles Rivkin, envoyé le 19 janvier 2010 au Secrétariat d’Etat américain, sous le titre : EMBASSY PARIS – MINORITY ENGAGEMENT STRATEGY (Ambassade de Paris – Stratégie d’engagement envers les minorités). Je vous propose donc une sélection et une traduction d’extraits de ce rapport.

Voici le plan de ce rapport dont le vocabulaire offensif ne laisse pas de doute sur l’ambition des actions initiées :

a. Résumé
b. Arrière-plan : la crise de la représentation en France
c. Un stratégie pour la France : nos objectifs
d. Tactique 1 : S’engager dans un discours positif
e. Tactique 2 : Mettre en avant un exemple fort
f. Tactique 3 : Lancer un programme agressif de mobilisation de la jeunesse
g. Tactique 4 : Encourager les voix modérées
h. Tactique 5 : Diffuser les meilleures pratiques
i. Tactique 6 : Approfondir notre compréhension du problème
j. Tactique 7 : Intégrer, cibler et évaluer nos efforts.

Lire la suite de l’article, en pdf, à l’adresse suivante :
http://www.polemia.com/pdf_v2/RapportRivkin.pdf

Benjamin PELLETIER
04/12/2010
http://gestion-des-risques-interculturels.com/risques/la-...
L’article original comporte le texte anglais des citations.

Voir : Vol A 93120 : Washington-La Courneuve
http://www.polemia.com/article.php?id=2820

Correspondance Polémia 09/12/2010

"Homo Americanus, rejeton de l'ère postmoderne" de T. Sunic

« Homo americanus, rejeton de l'ère postmoderne » de Tomislav Sunic

Ex: http://www.polemia.com/ 

 

homo%20americanus.jpg« (…) Tout dans l’Amérique est une copie grotesque de la réalité », constate l’universitaire et géopoliticien Tomislav Sunic dans Homo americanus, rejeton de la postmodernité, passionnante étude que viennent de publier les éditions Akribeia. « L’Amérique postmoderne fonctionne depuis 1945 comme une photocopie géante de la métaréalité ; non l’Amérique telle qu’elle est, mais l’Amérique telle qu’elle devrait être dans le monde entier. La seule différence est que, au XXIe siècle, l’histoire (…) est passée à la vitesse supérieure. Les événements se succèdent de façon désordonnée et foncent à toute allure vers un chaos total » – ce « chaos total » que l’idéologue néo-conservateur Michael Ledeen, pilier de la World Jewish Review et l’un des principaux inspirateurs de George W. Bush dans la guerre contre l’Irak, appelait de ses vœux dès 2001 car il y voyait le seul moyen d’instaurer un gouvernement mondial.

De l’Ancien Testament au totalitarisme mou

Les Européens de l’Est sont-ils les meilleurs observateurs de « l’hyperréalité » américaine ? Le philosophe hongrois Thomas Molnar avait jeté voici plus de trente ans un fameux pavé dans la mare atlantiste avec un livre prémonitoire, Le Modèle défiguré : l’Amérique de Tocqueville à Carter (PUF 1978) avant de récidiver en 1991 avec L’Américanologie : Triomphe d’un modèle planétaire ? paru aux éditions de l’Age d’homme.

Né en 1921, Thomas Molnar s’est éteint en juillet 2010, mais la relève est assurée par Tomislav Sunic qui, comme son grand ancien magyar, a longtemps enseigné aux Etats-Unis et connaît parfaitement son sujet, l’Homo americanus. Un spécimen dont les gênes s’inscrivent dans ceux des Pères Fondateurs, fondamentalistes puritains nourris de l’Ancien Testament et qui s’empressèrent donc d’ « enlever au christianisme les éléments transcendants et sacrés qu’il avait hérités du paganisme », réduisant « le message chrétien aux seuls préceptes moraux élémentaires d’une bonne conduite ». Ce qui amène tout naturellement à l’adoration d’une déesse démocratie d’ailleurs phantasme et au culte de la Political Correctness, le Politiquement Correct, fondement de la Pensée Unique et donc de l’autocensure.

Mais les origines bibliques de l’Homo americanus ont d’autres conséquences. Pour Sunic, en particulier depuis la Guerre de Sécession et la défaite du Vieux Sud encore si européen à tant d’égards, « le rêve américain est le modèle de la judaïté universelle, qui ne doit pas être limitée à une race ou à une tribu particulière (…) L’américanisme est conçu pour tous les peuples, toutes les races et les nations de la terre. L’Amérique est, par définition, la forme élargie d’un Israël mondialisé (…) Cela signifie-t-il que notre fameux Homo americanus n’est qu’une réplique universelle de l’Homo judaicus ? »

En tout cas, cela le conduit à accorder, souvent au mépris de ses propres intérêts vitaux, un « soutien inconditionnel à Israël ». « C’est en Europe – poursuit le géopoliticien croate – et dans son centre, l’Allemagne, que la politique parabiblique américaine atteignit son paroxysme durant la Seconde Guerre mondiale » – et d’abord, souligne-t-il, parce que « l’Allemagne était sur le point de jouer un rôle majeur en Europe et en Asie et de contester à l’Amérique l’accès aux sources d’énergie des pays du pourtour méditerranéen et du bassin pacifique ». Six décennies et demie plus tard, estime-t-il, « il n’est pas étonnant que l’islamisme soit la cible de l’Amérique postmoderne », laquelle menace l’Iran chiite après avoir anéanti l’Irak laïc.

Vers « l’américanisation du monde » ?

Tomislav%20Sunic%20Radio%20(small).jpg« Pendant que les Juifs russes inventent le socialisme et que les Juifs autrichiens découvrent la psychanalyse, les Juifs américains participent, au tout premier rang, à la naissance du capitalisme américain et à l’américanisation du monde », a reconnu, cité par Sunic, Jacques Attali dans Les Juifs, le monde et l’argent (Fayard 2002). Il est donc logique que Homo americanus et Homo sovieticus aient présenté tant de points communs tels le non-respect des Conventions de Genève sur les prisonniers de guerre ou l’envoi des dissidents dans des hôpitaux psychiatriques – sort réservé en 1945 à Ezra Pound, le plus grand poète états-unien jugé trop favorable au fascisme italien. Et logique aussi que « l’américanisation du monde », y compris du monde ex-soviétique (par le truchement de certains oligarques patrons de presse), soit menée tambour battant.

On sait le travail de sape effectué dans nos banlieues (*) par l’ambassade des Etats-Unis en France dont le locataire actuel est Charles Rivkin qui, dans un câble du 5 janvier 2010 envoyé à Washington, se réjouissait du fait que « la France, sur une longue période, ne réussit pas à améliorer les perspectives de ses minorités et à leur offrir une véritable représentation politique ». On sait aussi les efforts des media et des maîtres du prêt-à-penser pour imposer les mœurs et les lois américaines dans les domaines législatif, judiciaire, culturel, architectural ou économique ainsi que dans la vie courante afin d’aboutir à l’avènement et à la généralisation de ce que Sunic appelle « la variante tardive d’Homo americanus, l’Homo americanus européen », « non seulement à l’Ouest mais aussi dans l’Est postcommuniste ».

Toutefois, ajoute avec impartialité l’universitaire croate, « on aurait tort de rejeter uniquement sur l’Amérique et l’américanisme la responsabilité du climat de “politiquement correct” qui a englouti la scène intellectuelle européenne. L’atmosphère d’inquisition actuelle (…) est due aux propres divisions idéologiques européennes, qui remontent à la Seconde Guerre mondiale et même à la Révolution française ».

Bien vu, mais celle-ci ne fut-elle pas due en grande partie aux « idées nouvelles » venues d’outre-Atlantique après l’engagement de la France et de certaines de ses élites (La Fayette entre autres) auprès des Insurgents américains voulant briser les derniers liens avec l’Europe pour assumer leur destin de « peuple élu » ? A nous aujourd’hui de tout mettre en œuvre pour assumer notre destin d’Européens, héritiers d’Athènes et de Rome, mais aussi de la Reconquista, contre tous les totalitarismes messianiques.

Claude Lorne
06/12/2010

Tomislav Sunic, Homo americanus. Rejeton de l’ère postmoderne, avant-propos de Kevin MacDonald, professeur de psychologie à l'Université d'Etat de Long Beach en Californie, traduit de l’anglais par Claude Martin (édition originale : Homo americanus. Child of the Postmodern age, BookSurge Publishing, 2007), Edition Akribeia, 2010, 288 pages, 25 €, ou 30 € franco.

A commander à Akribeia, 45/3 route de Vourles, 69230 St-Genis-Laval ou sur www.akribeia.fr.

Note de la rédaction :
(*) « Vol A 93120 : Washington-La Courneuve »
et « La stratégie américaine pour influencer les minorités en France. Confirmation du diagnostic »
 

Correspondance Polémia -  06/12/2010

"Groen" kapitalisme al even weinig respect voor de volkeren

"Groen" kapitalisme al even weinig respect voor de volkeren
 
Ex: Nieuwsbrief Deltastichting, n°42 (dec. 2010)
  
  
journal61.jpgAan het kapitalisme, liever: aan het liberalisme, gaan de volkeren ten onder, schreef de grote Duitse conservatieve auteur Arthur Moeller van den Bruck al. Dat het kapitalisme in zijn meest primitieve vorm inderdaad moordend is geweest voor heel wat originele culturen, wordt sinds decennia door niemand meer in twijfel getrokken. Het volstaat de wereld rond te trekken om er hier en daar bewijzen van te ontdekken.
  
De nieuwe vormen van energiewinning, die de basis van het oude kapitalistische systeem, de fossiele brandstoffen, aan het vervangen zijn, die nieuwe vormen zouden zorgen voor respect. Dit is toch wat ons werd voorgehouden. Groene, duurzame energie: dat was haast synoniem met de energiebronnen van de ‘goede mens’, van de mens die met respect naar de andere mensen keek, de energiebron van de multiculturele mens, zeg maar. De energie was ‘moreel goed’, het systeem dat erachter zat en dat het geheel stuurde, zou dus ook ‘moreel goed’ zijn, dacht men.
 
Om de vraag naar biodiesel bij te houden, wou de Indonesische regering de productie opdrijven. Indonesië is, samen met Maleisië, zowat de grootste palmolieproducent ter wereld. Samen zijn ze verantwoordelijk voor ruim 80% van alle productie wereldwijd. Door de export van palmolie haalde Indonesië in 2009 zo’n 10,4 miljard dollar binnen: cijfers die het belang van deze industrietak voor het land schetsen.
 
Voor de productie van palmolie is er natuurlijk grond nodig, heel veel grond. Indonesië verdreef dus heel wat inheemse volkeren van hun land, alleen om haar winst veilig te stellen. Om de nefaste gevolgen van de palmolieproductie – de ontbossing, de verschraling van de bodem, en andere – tegen te gaan, zou de regering van Djakarta een ontbossingsstop hebben afgekondigd. Maar nu blijkt dat de concessies aan grote bedrijven daar niet eens onder vallen. Gevolg van dit alles is, dat steeds vaker rechtszaken worden ingespannen. In 2004 werden er 174 rechtszaken over landconflicten geregistreerd in Indonesië, een cijfer dat in 2009 op 666 kwam en voor 2010 wordt zelfs een cijfer boven 3.000 rechtszaken uitgesproken.
 
Roofdierkapitalisme kan dus ook met groene energie. De regering van Indonesië zou plannen hebben om de oppervlakte voor de palmolieindustrie nog uit te breiden van 7,5 miljoen hectare naar 20 miljoen hectare. Een dialoog met de inheemse volkeren staat niet op het programma van de regering…


Peter Logghe

lundi, 13 décembre 2010

Turkije wil Europa islamiseren via lidmaatschap EU

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Ex: http://xandernieuws.punt.nl/?id=613934&r=1

 WikiLeaks (8):

Turkije wil Europa islamiseren via lidmaatschap EU

'Wraak op Europa vanwege nederlaag bij Wenen'

Erdogan woedend vanwege onthulling 8 geheime bankrekeningen in Zwitserland

Tayyip Erdogan: 'De moskeeën zijn onze kazernes, de koepels onze helmen, de
minaretten onze bayonetten en de moslims onze soldaten.'

Uit diverse door WikiLeaks gelekte documenten blijkt dat binnen de heersende
AK Partij van de Turkse premier Erdogan de wijdverspreide opvatting heerst
dat het de opdracht is van Turkije om Europa te islamiseren en om 'Andalusië
(Zuid Spanje) te heroveren en de nederlaag bij Wenen in 1683 te wreken.' De
verspreiding van de islam in Europa is volgens de belangrijkste denktank van
de AKP het werkelijke hoofddoel van het beoogde Turkse lidmaatschap van de
EU. (1)

Binnen de AKP zijn er echter ook stemmen die bang zijn dat het lidmaatschap
van de EU zal leiden tot een 'verwaterde' versie van de islam en de daarbij
behorende Turkse tradities. 'Als de EU 'ja' zegt (tegen het Turkse
lidmaatschap) zal alles er een korte tijd rooskleurig uitzien. Maar dan
ontstaan de echte moeilijkheden voor de AKP. Als de EU 'nee' zegt dan zal
dat aanvankelijk lastig zijn, maar op de lange termijn veel gemakkelijker,'
als AKP prominent Sadullah Ergin.

Erdogan wordt omschreven als een machtswellusteling die iedereen wantrouwt
en streeft naar totale alleenheerschappij. 'Tayyip (Erdogan) gelooft in
God... maar vertrouwt hem niet,' zou zijn vrouw Emine het treffend hebben
uitgedrukt. Erdogan stelt zich in het openbaar weliswaar pragmaitisch en
'gematigd' op, maar heeft wel degelijk een islamistische achtergrond. Als
burgemeester van Istanbul noemde hij zichzelf in 1994 de 'imam van Istanbul'
en een 'dienstknecht van de Sharia.' (2) In 1998 verbleef hij zelfs vier
maanden in de gevangenis vanwege het voordragen van een extremistisch
islamitisch gedicht dat sprak van de verovering van alle niet-moslimlanden
door de islam: 'De moskeeën zijn onze kazernes, de koepels onze helmen, de
minaretten onze bayonetten en de moslims onze soldaten...' (3)

De Turkse premier reageerde woedend toen uit een WikiLeaks document uit 2004
naar voren kwam dat hij maar liefst acht geheime bankrekeningen in
Zwitserland heeft waar hij regelmatig grote sommen geld naar wegsluist (4).
Vanzelfsprekend ontkende Erdogan alle aantijgingen, noemde hij de documenten
'geroddel' en dreigde hij om gerechtelijke stappen tegen de onthullers te
nemen. Verder omschrijven Amerikaanse diplomaten Erdogan als iemand die
Israël haat en zich omringt met gluiperige adviseurs. Ook zou hij enkel en
alleen islamistische kranten lezen. Tevens wordt zijn minister van
Buitenlandse Zaken Ahmet Davutoglu omschreven als 'extreem gevaarlijk'.

Recent schreven we al dat uit eerdere gelekte documenten blijkt dat Turkije
zowel indirect als actief het moslimterrorisme in Irak (en tevens
Afghanistan) steunt met wapens en geld. De verwijzing binnen de AKP naar
Andalusië en de Ottomaanse nederlaag bij Wenen in 1683 is geheel volgens het
islamitische principe dat landen en streken die ooit onder moslim controle
stonden voor altijd islamitisch grondgebied blijven en verplicht moeten
worden heroverd. Alle Nederlandse politieke partijen -met uitzondering van
de PVV en de SGP- besloten onlangs om de Turkse doelstelling om Europa en
dus ook Nederland te islamiseren niet tegen te gaan.

(1) Statelogs http://statelogs.owni.fr/index.php/memo/2010/11/30/225/
(2) Statelogs http://statelogs.owni.fr/index.php/memo/2007/03/21/ANKARA...
(3) Atlas Shrugs
http://atlasshrugs2000.typepad.com/atlas_shrugs/2009/10/s...
n-of-europe-rally-december-13th-spread-the-word-save-the-world.html
(4) Ynet News http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3992628,00.html

http://xandernieuws.punt.nl/?id=612882&r=1&tbl_ar...

WikiLeaks (3):

Vooral Saudi's willen aanval op Iran; Turkije onbetrouwbaar

Erdogan omringt zich met 'parasitaire bedriegers' - Veel Arabische landen
zien Iran als 'existentiële bedreiging' - Geen schokkende onthullingen over
Israël

WikiLeaks 'Shocker'(?): Het enige continent waar Barack Obama nog populair
is, Europa, laat de Amerikaanse president nu juist volkomen koud.

Uit de ruim 250.000 geheime documenten die WikiLeaks op internet heeft gezet
blijkt dat vooral Saudi Arabië -nog meer zelfs dan Israël- herhaaldelijk
aandringt op een Amerikaanse militaire aanval op Iran, en dat het hoofd van
de gevreesde Israëlische geheime dienst Mossad, Meir Dagan, hier juist op
tegen is en meer ziet in strenge sancties en undercover operaties om het
regime Ahmadinejad -die onder diplomaten de bijnaam 'Hitler' heeft gekregen-
omver te werpen.

De Saudische koning Abdullah heeft de laatste jaren regelmatig van de VS
geëist Iran aan te vallen. In 2008 kreeg de Amerikaanse generaal David
Petraeus van de afgevaardigde van Abdullah in Washington te horen dat
Amerika 'het hoofd van de slang moet afhakken'. De Saudi's vrezen een Iran
met kernwapens misschien wel nog meer als Israël, waar minister van Defensie
Barak weliswaar regelmatig eveneens pleitte voor militair ingrijpen (4),
maar het machtige hoofd van de Mossad, Meir Dagan, hier juist heel
pessimistisch over was en zich wilde concentreren op het omverwerpen van het
huidige Iraanse regime door middel van sancties en geheime operaties.

Naast Saudi Arabië hebben ook officials uit Jordanië en Bahrain Amerika
openlijk opgeroepen om desnoods met militaire middelen een einde te maken
aan het Iraanse nucleaire programma. Ook de leiders van de Verenigde
Arabische Emiraten en Egypte zien Iran als 'het kwaad' en een 'existentiële
bedreiging', die 'ons in een oorlog zal doen storten'. Israëlische officials
zeggen al jaren dat wat de Arabische leiders publiekelijk meedelen iets heel
anders is dan wat ze een privé gesprekken zeggen.

Turkije onbetrouwbaar
Gisteren meldden we al dat de Arabische krant Al-Hayat schreef dat uit de
WikiLeaks publicaties blijkt dat Turkije door middel van het smokkelen van
wapens en geld steun geeft aan de moslimterroristen in Irak en zelfs
betrokken is bij het opblazen van een brug in de hoofdstad Baghdad.

Volgens het Duitse blad Der Spiegel, één van de internationale media die
vooraf inzage kreeg in de geheime documenten, karakteriseren Amerikaanse
diplomaten Turkije dan ook als onbetrouwbaar. De Turkse premier Erdogan zou
weinig begrijpen van de politiek buiten Ankara en het Turkse leiderschap is
verdeeld door de infiltratie van radicale islamisten. 'Erdogan heeft zich
omringd met een ijzering kring van sycofante (sycofant = gemene bedrieger,
beroepsverklikker, parasiet) (maar minachtende) adviseurs,' aldus een gelekt
diplomatiek bericht.

Geen schokkende onthullingen over Israël
Waar veel Israëlhaters vanzelfsprekend op hoopten, namelijk dat de Joodse
staat in de gelekte documenten bevestigd zou worden als de boeman en de
grote instigator van het kwaad in de wereld, is totaal niet uitgekomen,
precies zoals de Israëlische premier Netanyahu al voorspeld had. Er is zelfs
nauwelijks iets noemenswaardigs te vermelden, behalve dat hoge Israëlische
officials regelmatig hun grote zorg uitspreken over Iran en zeggen dat
Israël het zich niet kan veroorloven zich te laten verrassen.

Over Iran gesproken: tijdens de tweede Libanonoorlog in 2006 smokkelde het
regime Ahmadinejad onder de vlag van de Iraanse Rode Maansikkel (de
Arabische variant van het Rode Kruis) wapens en geheime agenten naar
Libanon. Dit zou blijken uit een bericht uit Dubai dat gebaseerd is op een
ontmoeting in 2008 tussen een Amerikaanse diplomaat en een niet bij name
genoemde bron.

Ander interessante onthullingen
- Donors uit Saudi Arabië blijven de belangrijkste financiers van het (Al
Qaeda) Soennitische moslimterrorisme. Het Arabische Golfstaatje Qatar blijkt
het slechtst mee te werken met anti-terreuroperaties.

- Een bijna conflict tussen de VS en Pakistan over mislukte Amerikaanse
pogingen om Pakistaans verrijkt uranium veilig te stellen voor terroristen.

- Zuid Koreaanse en Amerikaanse diplomaten speculeren over de vereniging van
de beide Korea's na het eventuele instorten van Noord Korea. China, dat hier
mordicus op tegen is, zou moeten worden overgehaald met aantrekkelijke
handelsovereenkomsten.

- Amerikaanse diplomaten deden aan handjeklap om andere landen te overtuigen
gevangenen van Guantanomo Bay over te nemen. Slovenïe kreeg te horen dat
Obama alleen (officials van) het land wilde ontmoeten als ze een gevangene
zouden overnemen. Het onafhankelijke eiland Kiribati kreeg miljoenen dollars
aangeboden voor een hele groep gedetineerden, en België kreeg te horen dat
het een goedkope manier was om een prominente plaats in Europa te verwerven.

- De Afghaanse regering wordt verdacht van corruptie. De autoriteiten van de
Verenigde Arabische Emiraten ontdekten dat de op bezoek zijnde Afghaanse
vice-president $ 52 miljoen bij zich had, van onbekende herkomst en met
onbekende bestemming. Besloten werd om het maar zo te laten. Natuurlijk
ontkent Massoud alles.

- Zoals velen al vermoedden blijkt het Chinese Politburo inderdaad achter
het blokkeren van Google in dat land te zitten. Tevens heeft de Chinese
overheid zowel eigen medewerkers als experts van buitenaf en onafhankelijke
hackers ingezet om in te breken in de de computersystemen van de Amerikaanse
overheid en andere Westerse landen. Ook de Dalai Lama en het Amerikaanse
bedrijfsleven zijn sinds 2002 het doelwit.

- Een bizarre alliantie: Amerikaanse diplomaten beschrijven de 'buitengewoon
nauwe' relatie tussen de Russische premier Vladimir Putin en de Italiaanse
premier Silvio Berlusconi -liefhebber van 'wilde feesten'-, inclusief
lucratieve energiecontracten en overdadige cadeaus. Berlusconi zou in
toenemende mate de spreekbuis van Putin in Europa aan het worden zijn.

- Over Putin zelf: alhoewel hij inderdaad met afstand de machtigste man van
Rusland is, wordt hij in toenemende mate ondermijnd door een onhandelbaar
bureaucratisch systeem dat zijn bevelen vaak negeert. Putin wordt door
diplomaten omschreven als een 'alpha mannetje'. Andere aardige bijnamen voor
wereldleiders: Angela 'Teflon' Merkel (overigens gekarakteriseerd als iemand
die geen besluiten durft te nemen), 'keizer zonder kleren' Nicolas Sarkozy
en 'lichtgewicht' David Cameron (3). De Noord Koreaanse leider Kim Jong il
zou lijden aan epilepsie en de Libische leider Muammar Gaddaffi zou zich 24
uur per dag laten verzorgen door een 'hete blonde' verpleegkundige.

- Als laatste: ontnuchterend nieuws voor de vele Obama liefhebbers in
Europa, het enige continent waar de meerderheid nog blij met hem lijkt te
zijn: volgens het Amerikaanse ministerie van Buitenlandse Zaken heeft Obama
helemaal niets met Europa en kijkt hij veel liever naar het Oosten dan naar
het Westen. Amerika ziet de wereld als een conflict tussen twee
supermachten, waar de Europese Unie slechts een bijrolletje in speelt.
 
(1) Jerusalem Post http://www.jpost.com/International/Article.aspx?id=197130

(2) Arutz 7 http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/140882
(3) DEBKA http://www.debka.com/article/20402/
(4) DEBKA http://www.debka.com/article/20404/

http://xandernieuws.punt.nl/?id=612703&r=1&tbl_ar...

WikiLeaks:

Turkije steunt moslimterroristen Irak

In 2007 werd de belangrijke Sarafiya brug in Baghdad door terroristen
opgeblazen. Turkije blijkt nu direkt betrokken bij het opblazen van
tenminste één brug in de Iraakse hoofdstad.

De ontmaskering van Turkije als anti-Westerse extremistische moslimstaat
krijgt een extra ontluisterende dimensie nu uit de nieuwe documenten die
WikiLeaks zal publiceren blijkt dat de Turken zorgden dat er wapens naar Al
Qaeda in Irak werden gesmokkeld en dat ze zelfs zowel direkt als indirekt
betrokken zijn geweest bij terreuraanslagen in Baghdad.

Volgens de Arabische krant Al-Hayat bewijzen de geheime officiële documenten
dat de Turkse autoriteiten toestemming gaven voor de smokkel van wapens en
geld naar de Al Qaeda terroristen in Irak. Ook laten de documenten zien dat
Turkije betrokken was bij onder andere het opblazen van een brug in Baghdad
en werd er in 2009 bij terroristen munitie in beslag genomen dat gemarkeerd
was met 'made in Turkey'.

Eén van de documenten die door Al Hayat worden genoemd bevat een gecodeerd
bericht dat zo te zien door een Amerikaanse inlichtingendienst werd
verzonden. De tekst 'Uit Turkije zijn grote hoeveelheden water aangekomen.
Over een paar uur zullen grote golven Baghdad treffen. Sommige mensen zijn
de irrigatiekanalen aan het verbreden' lijkt te wijzen op het arriveren van
wapens uit Turkije, bedoeld voor aanslagen en andere terreuracties in
Baghdad.

De VS probeert in het licht van de komende nieuwe WikiLeaks publicaties de
diplomatieke schade te beperken.'Deze onthullingen brengen de VS en onze
belangen schade toe. Ze zullen over de hele wereld spanning creëren in de
relaties tussen onze diplomaten en onze vrienden... Als het vertrouwen (van
andere overheden) beschadigd wordt en op de voorpagina van de kranten of in
het nieuws van radio en tv belandt, heeft dat een impact,' aldus P.J.
Crowley, woordvoerder van het Amerikaanse minister van Buitenlandse Zaken.

Het is echter maar de vraag of Amerika en Europa aandacht zullen durven
besteden aan de Turkse steun voor de moslimterroristen in Irak. Hierdoor zou
immers de conclusie moeten worden getrokken dat Turkije geen betrouwbare
bondgenoot is, dubbelspel speelt en de recente aansluiting van Turkije bij
het extremistische islamitische blok Iran-Syrië-Hezbollah-Hamas daarom
bloedserieus is en een direct gevaar oplevert voor de NAVO en het Westen.
Ook moet dan definitief worden toegegeven dat de Turken absoluut niet bij de
Europese Unie horen. (1)

(1) Arutz 7  http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/140843

Brave New War - Forever

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Brave New War

Forever

 

As the young Napoleon Bonaparte ventured into Egypt in 1798, his aspiration to world-transforming power was already apparent. In the shadow of the pyramids, the future Emperor and his men made short work of the antiquated Mamluk cavalry that had once repulsed the Mongol Horde. He would later relate his grand vision:

I was full of dreams…I saw myself founding a new religion, marching into Asia riding an elephant, a turban on my head, and in my hand the new Koran.

While Napoleon’s desire to recast the East in his own image is understandable in the context of his megalomania, Western ruling classes have no such alibi for entertaining similar delusions. Their technocratic language is much less inspiring than that offered by Le Petit Caporal, mired as it is in the blandest incantations of “development”, “good governance” and “civil society”, but the same carnage results. Our policy establishment sends men to die in far-off mountains and deserts so that Muslims may discover the New Koran of liberty, equality and progress. In Europe and the United States its dictates are already enforced to the letter.

Since the time of Bonaparte, armed proselytism of the new religion has received an upgrade. Grenadiers and dragoons have given way to special operators, precision-guided munitions and killer drones, all in the service of a united humanity marching toward a bright new tomorrow. For confirmation of such deadly flights into fantasy, one can read a recent article on the UK’s new Chief of the Defense Staff, General Sir David Richards. Britain’s top strategist seems quite committed to imposing the Open Society upon various benighted tribes in the wilder corners of our world. He acts at the behest of his political masters, of course, but is resolute about the need to occupy Afghanistan for another 30 or 40 years. As Richards articulates:

The national security of the UK and our allies is, in my judgment, at stake – that is why we are engaged in a global struggle against a pernicious form of ideologically distorted form of Islamic fundamentalism.

Why must NATO maintain indefinite deployments of forces in the Hindu Kush, the Horn of Africa and elsewhere, fighting against this ‘pernicious form of ideologically distorted form of Islamic fundamentalism’? The reason behind the interminable Long War goes beyond maneuvers to secure control over Eurasia and its energy corridors. The contemporary West is engaged in a global counterinsurgency campaign as a final, desperate effort to affirm the permanence of the liberal order, to prove that history has indeed come to an end. Yet no more than savage bands of Pashtun mountain men have exploded that myth, as well as its pretensions to universal validity.

As long as the elites retain a level of material power, though, they will be unrepentant and undeterred in their redemptive materialism. There may be disagreements among them on Western courses of action in the Muslim world, though never on the necessity of the latter’s evolution toward secular democracy. In this the modern is as devoted to his doctrines as the Mohammedan. Phenomena essential to Islam’s origins and nature (such as jihad) are just a big misunderstanding, you see; changing the Ummah’s cultural and historical norms only requires the right calibration of social engineering policies:

Education, prosperity, understanding and democracy, he argues passionately, are the weapons that would ultimately turn people away from terrorism, although he admitted that to believe that such an undertaking could be achieved "within the time frame of the Second World War would be naive in the extreme".

It would be naive in the extreme to imagine that NATO will succeed where other empires failed catastrophically. General Richards may argue passionately for further international police action and welfare programs, but such measures are the last, dying gasp of Enlightenment rationalism applied to its logical end-point. Of still greater concern must be the destruction wrought by these ideas in our own lands, for enlightening the Muslim nations is only half of the equation. In a striking echo of Anglo-American designs on the ruins of the Old Order after the Great War, the Long War’s crowning achievement would be to eradicate the very last vestiges of European Christendom. Thus is the world made safe for democracy.

Salvation through government by “The People”, in turn composed of atomized market units, is the message of a false faith. To drive home the absurdity of this proposition, The American People today amuse themselves with celebrity escapades and video games as the predators of high finance and Empire carry on their machinations to the tune of nearly $14 trillion in national debt. And while geopolitical and economic conflicts define the character of Western interventions and Muslim terrorism, the bloodshed and chaos we witness ultimately derive from a crisis of the spirit.

Whether or not weary and passionless moderns are inclined to admit so, the current war is a religious one and centers upon Europe, the heart of the West. At the end of the 19th century, the great Russian philosopher Vladimir Soloviev compared the development of the two most powerful threats to Christendom, heresies both born in some measure from perversions of Christian teaching. On the frontiers of the Eastern Roman Empire arose Islam, collective submission to the divine will of an inhuman despot. In the Occident humanism would eventually prevail- the integrity of the individual superseded every higher reality and led to man’s self-worship. Despite their radical incompatibilities, the adherents of the New Koran and the old both seek to wipe out the memory, specifically the European memory, of Christ the God-Man who in noblest sacrifice conquered death.

With traditional Europe long ago overpowered by the Revolution, the counterfeit prophecies of humanism and Islam now move into active confrontation. From the clash emerges a strange dialectic. As the West sets out to modernize Dar-al-Islam, democratic universalism has produced the conditions for its own societies’ Islamization. Whereas our ancestors fought heroically to prevent the Continent’s subjugation by Moors and Turks, today our governments, champions of “human rights” all, throw the gates wide open to millions of them and enable the rise of Muslim power in places where Ottoman sultans could barely have dreamed of invading.

How much longer must Pakistani rape-gangs roam Britain? And how many more Britons will meet an early death fighting in Afghanistan to uphold this state of affairs? Answering on behalf of transatlantic elites, General Richards was remarkably frank: the occupation of Afghanistan and other expeditions will continue effectively forever. Never can multiculturalism, mass immigration, and secular pluralism be questioned under the regnant ideology that made the present nightmare even possible.

In its advanced stages of development, the liberal project reveals a totalitarian nature. Postmodern imperialism lays claim not simply to mere territories and resources; it asserts itself as the sole arbiter of humanity’s future and fate. The managerial regime will attend to organizing its vision of happiness on earth. In return, and as a gesture of gratitude, you need only relinquish a few minor things: the cultural and blood-inheritance bequeathed to you by your fathers, your faith, and the destiny of your nation.

You, children of Europe, are but ethnographic material to be indoctrinated, demoralized, exploited and dissolved in a new enterprise more magnificent and equitable than anything ever conceived by your invisible, forgotten God. Besides, relax; you’re all consumers now! Enjoy a football game and some pornography, or just go shopping for life’s meaning.

Or you can revolt. For the sake of true justice, such an act would necessitate solidarity not only with our unborn descendants, but also with our dead- the generations past who made Europa uniquely beautiful even amidst the fratricide of a fallen world. Love and honor carry zero market value; of what use are valor and charity against the coercive mechanisms of Leviathan? Yet these principles transcend earthly power, for they reach back into eternity itself. It is in the dark hours of spiritual struggle, not in self-compromising electoral success, that liberalism will finally be shattered. On that day let us raise skyward the banner of the once and future West.

Mark Hackard

Mark Hackard

Mark Hackard has a a BA in Russian from Georgetown University and an MA in Russian, East European, and Eurasian Studies from Stanford University.

J. Parvulesco: Sur la mise en oeuvre d'une liturgie cosmique finale

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Archives - 2008

Jean Parvulesco, le secret de la romance

Ex: http://talvera.hautetfort.com/

L’œuvre de Jean Parvulesco est une quête absolue du roman et de son double. Que le « roman occidental de la fin » soit le roman de l’entre-roman et qu’il doive s’écrire par son milieu, tel est l’héritage que Parvulesco a reçu d’Abellio, ce grand liseur de Bible. Commencer à écrire le roman par son centre nous renvoie à l’intervalle entre la vie et la mort, le lieu où se joue le destin de l'homme. D’où l’obsédante figure métabolique de la narration romanesque : secret de la dissimulation et dissimulation du secret.
 

Chacun des romans de Parvulesco est filtré par le suivant, à revers, car le futur enfante le présent aussi vrai que notre destinée de demain moule nos gestes d’aujourd’hui. On ne s’étonnera donc pas que, Dans la forêt de Fontainebleau, son ultime œuvre romanesque (1), ait été publiée avant l’antépénultième dont seul le titre, Un voyage en Colchide, a été divulgué.
On ne lit pas un roman de Jean Parvulesco sans crainte ni tremblement : la voie « chrétienne » qui s’y découvre est celle de la main gauche, un tantrisme marial aux limites de la transgression dogmatique. Le style de Parvulesco crée dans notre langue française une langue étrangère au phrasé hyperboréen. Mon ami, le romancier Jean-Marc Tisserant, qui pourtant l’admirait, me disait que Parvulesco était l’ombre portée de la contrelittérature en son midi : « Vous ne parlez pas de la même chose ni du même lieu », me confia-t-il lors de la dernière conversation que j'eus avec lui. Il est vrai que Parvulesco a toujours persisté à orthographier « contre-littérature », sauf dans le petit ouvrage, Cinq chemins secret dans la nuit, paru en 2007 aux éditions DVX, qu'il m'a dédié ainsi : " Pour Alain Santacreu et sa contrelittérature". En fait ce qu'il appelle "contre-littérature" reste dans la sphère de ce que j'ai appelé "littérature contraire". De toute façon nos divergences sont bien réelles et le plus souvent essentielles. Je reconnais cependant l'influence qu'il a pu exercer sur moi et déplore que son oeuvre reste si méconnue.
 
Parvulesco fit en son temps une critique de mon premier roman, Les Sept fils du derviche – récemment réédité au Grand Souffle – que je donne ici « en miroir », comme une invitation à une lecture dédoublée avec son dernier roman. Pour mieux comprendre de quoi il retourne, il faudra attendre la parution de mon second roman – qui sera en réalité le premier – dont Parvulesco, dans son dernier roman, a repris, à travers la figure de Jean-Paul II, le personnage dédoublée du narrateur.

SUR LA MISE EN ŒUVRE D’UNE LITURGIE COSMIQUE FINALE

par Jean Parvulesco

On sait qu’ayant à son tour lui aussi succombé à l’attrait de l’Orient, Gustave Flaubert avait écrit – ou manifesté le dessein d’écrire – un conte dans le goût oriental, Les Sept Fils du Derviche, dont il ne nous reste malheureusement que le titre, le texte s’en étant égaré – mais a-t-il jamais existé ce texte-fantôme ?
C’est en reprenant à son compte le titre de cette œuvre à l’orientale de Flaubert, aujourd’hui perdue, pour en quelque sorte – peut-être – réparer une ébréchure, une défaillance du destin intime de la grande littérature française, qu’Alain Santacreu nous livre à présent ce roman de haute facture initiatique et occultiste, dont la conclusion débouche, à travers un double suicide rituel, sur l’annonce à peine chiffrée d’une très prochaine fin du monde qui, d’ailleurs, ainsi que nous serons amenés à le comprendre, n’en sera pas tout à fait une, puisqu’une fin du monde déguisée en autre chose.

L’action du roman d’Alain Santacreu se passe à Toulouse, à Istanbul et en Asie Mineure, ce qui de toutes façons nous vaut des évocations de ces trois hauts lieux prédestinés qui sont autant d’invocations en dédoublement par l’écriture, recréant la réalité symbolique et supratemporelle de leur présence-là, devant nous, d’une manière qui est peut-être assez mystérieusement celle – et je mesure bien mes mots – de l’action magicienne même, œuvre de haute magie opérative en action.

e12d641a61ccea52eeb5d9bbd6dc2df0.jpg« Les allées de Brienne, qui longent ce canal que fit construire Loménie, sont douces quand s’y mêlent un parfum de miel à celui des réglisses.
Au printemps, les platanes que l’autan saoûle deviennent les peintres les plus fous, projetant leurs ombres folles sur les murailles rougies des maisons. »

 

Et, de même que le récit intérieur du roman d’Alain Santacreu se referme sur lui-même, à travers le mystère suractivant du double suicide rituel de ses deux personnages principaux – dédoublement sans doute d’Alain Santacreu lui-même, car ce roman est avant tout une expérience personnelle des gouffres intimes de l’auto-dépassement –, ce récit s’entrouvrira finalement à un recommencement d’outre-histoire, recommencement véhiculant, lui, le mystère de la double caverne apocalyptique des Sept Dormants d’Éphèse : la caverne qui se trouve encore de nos jours face aux ruines de l’Ancien Artémision, à Éphèse, en Asie Mineure, et la caverne qui se trouve dans « un certain lieu en France », en Occident.
 
Car la correspondance opérative occulte des deux cavernes aux Sept Dormants, celle d'Anatolie et celle d’en France, constitue à la fois le sujet profond du roman d’Alain Santacreu, le secret cosmique fondamental de l’ultime aboutissement de l’actuelle histoire du monde et le dernier acte de la grande liturgie apocalyptique à l’heure présente en cours d’achèvement. Quand les sept s’enferment dans leur caverne orientale, en Anatolie, à Éphèse, pour leur long sommeil dogmatique, leur sept « pareils de lumière » en ressortent, vivants, intacts, transfigurés, de leur caverne occidentale d’en France – et ce sera la « suprême  heure », l’heure du « renversement du sept de la nuit et du sept du jour », quand le jour se fera nuit, et la nuit jour.
Il s’agit, en fait, ainsi que l’on vient de le dire, de la mise en œuvre d’une liturgie cosmique finale, fondée sur l’immolation et l’échange sacrificiel de « sept dormants » destinés à racheter, à alimenter sacrificiellement l’apparition occidentale de leurs « pareils de lumière », les sept ressuscités apocalyptiques de la « suprême heure ».
C’est bien cet échange sacrificiel qui constitue l’acte apocalyptique final, ce que j’appelais une Apocalypse déguisée, parce qu’elle se trouve tenue d’avoir lieu d’une manière occulte, sa liturgie abyssale se passant dans l’invisible, hors de l’atteinte de toute attention non hautement prévenue, initiatiquement habilitée.
Mais suivons, à présent, le texte même d’Alain Santacreu :

« - Connaissiez-vous cette légende des Sept Dormants d’Éphèse ? C’étaient sept jeunes chrétiens qui, pour avoir refusé de renier leur foi, furent emmurés vivants dans une caverne, lors des persécutions déclenchées par l ‘empereur Dèce, en l’an deux cent cinquante de notre ère.
[…]
- Le texte coranique qui relate la légende est la sourate dix-huit. Une des particularités les plus remarquables de cette tradition des Sept Dormants, c’est qu’elle est commune au Christianisme et à l’Islam. »


Et plus loin :
« - L’entrée de la grotte, dit-il, est situé au nord de la montagne. On y descend par sept marches. Il ne faut pas que vous vous retourniez. Vous entendez ? Cela est très important : quand vous verrez l’entrée de la grotte, marchez, et ne vous retournez plus !
[…]
Mais quand Loménie s’avance, au moment où il va descendre la première marche, il se retourne et ce qu’il voit l’épouvante : il reste pétrifié, livide comme une statue de sel. »

C’est la raison pour laquelle, Loménie, de retour à Toulouse, devra se suicider, en se pendant – la pendaison mystagogique d’Odin et de Gérard de Nerval.
Ce double suicide des deux personnages principaux du roman d’Alain Santacreu libèrera l’espace propre de l’écriture ; le renversement de l’espace intérieur de la non-écriture, marqué par le suicide du narrateur – du personnage du narrateur –, étant appelé à constituer l’écriture même du roman, à la rendre possible, à la faire apparaître. Le renversement, l’échange sacrificiel de la non-écriture en écriture correspond à l’échange liturgique des Sept Dormants en leurs « pareils de lumière » ; et cet échange, ce renversement d’état exige le sacrifice fondationnel, le suicide rituel du personnage du narrateur, de celui qui, dans l’espace intérieur du roman, se trouve être la source même de la narration, sa source vive.

« J’ai gardé, le temps de mon agonie – qui a été celui de l’écriture – la sensation qu'en moi vivait quelqu ‘un d’autre, d’une dimension différente des êtres et des choses qui évoluent au dehors. Peu à peu, en mourant, je suis devenu ce quelqu’un d’autre, en même temps que ce livre prenait racine en moi, s’écrivait de mon dernier souffle, un livre dont je serai l’unique lecteur. Je comprends que mon âme se compose des personnages de ce livre qui ne verra jamais le jour. »

Et qui, néanmoins, devait voir le jour à partir, précisément, de l’agonie et de la mort du personnage du narrateur, qui en même temps était, aussi, quelqu’un d’autre – son agonie et sa mort constituant l’écriture même du roman en cours de nativité, émergeant ainsi du cadavre de sa propre fiction, qui devenait réalité, réalité, je veux dire, de sa propre écriture en voie d’achèvement.
Tout, ici, est échange, tout, ici, se trouve fondé sur le mystère originel de l’échange. Et c’est ainsi que l’on aboutira, à la fin de ce roman, au passage à niveau de « la suprême heure », l’heure du « renversement du sept de nuit en sept du jour », qui marque à la fois la fin et le commencement apocalyptique du monde – d’un monde – par le renversement des Pôles, ou plutôt par leur contre-renversement – si c’est le premier renversement des Pôles qui avait marqué le début du Kali-Yuga, actuellement à sa fin.
Aussi l’actuel Pôle Sud est-il entrain de redevenir , métasymboliquement, et dans le plus grand des secrets, à nouveau, le Pôle Nord. Même si le processus en cours est sans doute bien loin encore de son terme, il n’est pas moins certain que personne ne saurait en connaître l’heure même et que, celle-ci venue, tout se fera en un seul instant, sans autre forme de préavis, d’annonciation, fût-elle dissimulée, sous-entendue, ; le temps d’un éclair, d’un seul éclair, comme en un rêve éveillé, au bord de quelques abîmes ultimes.
Dans la conception littéraire d’Alain Santacreu, la réalité immédiate n’est que la part visible – « la petite part » – de l’invisible, et l’écriture n’est censée porter témoignage que sur cette « petite part » qui passe pour la réalité immédiate de ce monde et de nous-mêmes.
Ce que l’on nous donne à voir, ce que l’on nous dit dans Les Sept Fils du Derviche, n’est que la fragile écorce chiffrée de ce qui ne saurait être ni vu ni dit. Il nous faudra donc nous contenter de peu, mais d’un peu qui disposera d’une extraordinaire puissance de signification, chargé à outrance comme il se trouve par le trop plein dont il est appelé à charrier en avant l’invisible surprésence.
Obscur, difficile à comprendre, ce roman d’Alain Santacreu ne l’est donc qu’au tout premier abord, tant que l’on n’aura pas su saisir la dialectique profonde de son mécanisme intérieur, la dialectique de la mise en œuvre d’une liturgie cosmique finale, de la très prochaine ouverture apocalyptique d’un monde déjà à sa fin.
De plus, le récit même du roman est truffé d’entailles symboliquement actives, mais à la signification dissimulée. Comme cette lettre que le narrateur a écrite mais non envoyée en poste restante, à Istanbul, comme de convenu, à Loménie, et qui de par leur double suicide ne peut s’ouvrir qu'à la fermeture du livre  – lettre écrite et non lue, « non-lettre », trou noir ; ou, encore, comme la scène où le narrateur est surpris par sa mère en train de se masturber, et qui tournera, au second degré, en scène d’inceste entre le fils et la mère, scène détenant d’évidence une des clefs majeures de ce livre ; ou, comme la profusion de jeux de mots d’une consternante imbécillité, et l’insupportable vulgarité, mais concertée, voulue à dessein, d’un personnage comme Aziz, porteur en même temps d’une charge tout à fait décisive, initiatique et prophétique, d’une véritable charge sacerdotale secrète.
Et il y en a bien d’autres de ces entailles. Le cours du récit en est surchargé, qui en frémit en permanence, bien aidé. Cet essaimage d’intances de signification dissimulées au cours du récit est une procédure initiatique courante, bien connue, qui conduit en quelque sorte oniriquement l’action du roman vers ses deux points de mobilisation en force, celui de la séance où ceux du groupe opératoire des sept, rangés en cercle, accèdent à leur supra-conscience à l’aide d’une drogue majeure, et celui de leur entrée dans la caverne des Sept Dormants d’Éphèse et de leur endormissement en cercle, quand le cercle constitué par eux « encore une fois, redevient conscient de son centre ». Ces deux mises en cercle se répondent et s’identifient. Tout en ce roman se répond, s’identifie et se neutralise, tend à l’auto-effacement, à la disparition, à l’oubli, à l’immémoire qui se trouve au-delà de l’oubli et au-delà, aussi, de toute mémoire.
Aussi en vient-on à la question fondamentale : ce roman est-il celui du récit des aventures eschatologiques secrètes de Loménie, est-il le roman du narrateur en train de se dissoudre lui-même dans l’écriture inaccessible de son roman intérieur, est-il seulement un roman d’Alain Santacreu ? La réponse ne saurait qu’être ambiguë, et il se peut même qu’il n’y ait pas de réponse, suivant la marche du soleil qui apparaît et disparaît, successivement et en même temps.

( paru dans le n° 1 de Contrelittérature, juin 1999)

 

(1) Jean Parvulesco, Dans la forêt de Fontainebleau
Alexipharmaque, 2007, 432 pages, 23 €.

dimanche, 12 décembre 2010

Grüne Energie verblasst - die Wall Street verliert das Interesse

Grüne Energie verblasst – die Wall Street verliert das Interesse

F. William Engdahl

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Während die Delegierten bei der Global-Warming-Konferenz in Cancun – Hoppla! Entschuldigung, wir sollen ja jetzt »Klimawandel«-Konferenz sagen – zu keinem Einvernehmen darüber kommen, ob drastische wirtschaftliche Maßnahmen zur Senkung der Emissionen von fossilen Brennstoffen ergriffen werden sollen oder nicht, lässt die Wall Street das Geld sprechen und wettet darauf, dass die Aktien alternativer Energieunternehmen, wie beispielsweise der Hersteller von Wind- und Sonnenenergieanlagen, in Zukunft fallen. Das sagt uns viel mehr über den Global-Warming-Schwindel, als Politiker preisgeben wollen.

In Amerika hört man häufig den Ausdruck: »Folge der Spur des Geldes« – das heißt, wer wissen möchte, was in einer bestimmten Frage wirklich vor sich geht, der solle prüfen, wohin das seriöse Geld fließt. Bei den alternativen oder sogenannten »grünen« Energieformen wetten die Banken an der Wall Street und die mit ihr verbundenen Hedgefonds jetzt darauf, dass es auf dem Markt für Sonnen- und Windenergie – beide waren noch vor einem Jahr Lieblinge der Spekulationsfonds –mittlerweile trostlos aussieht.

Laut einem Bericht von Bloomberg betreiben Hedgefonds in letzter Zeit in einem Ausmaß wie seit einem Jahr nicht mehr Leerverkäufe der Aktien von Herstellerbetrieben für erneuerbare Energien. Infolgedessen wird zunehmend gegen entsprechende Unternehmen gewettet, wie beispielsweise die First Solar Inc. aus Arizona, dem größten Hersteller von Sonnenkollektoren, gegen Tesla Motors Inc., den kalifornischen Produzenten von Elektroautos, oder Hersteller von Carbonfaser-Rotorblättern für Windkraftanlagen.

Leerverkauf bedeutet, dass man Aktien verkauft, die man gar nicht besitzt, sondern sich nur leiht mit dem Versprechen, dieselbe Anzahl Aktien zu einem festgelegten oder vereinbarten Zeitpunkt zurückzugeben. Der Leerverkäufer wettet darauf, dass bis dahin – in einem Jahr, in sechs Monaten oder auch in drei Monaten – der Marktpreis der Aktie deutlich niedriger sein wird; aus der Differenz ergibt sich sein Gewinn. Das heißt »leerverkaufen«: man wettet dafür, dass die Aktienpreise in den nächsten Monaten fallen.

Ein großes Problem liegt darin, dass die Subventionen der US-Regierung für schadstoffarme Technologien dramatisch zurückgefahren werden, angesichts der angespannten Haushaltslage, die durch Rekorddefizite und eine immer stärker in die Depression abrutschende Wirtschaft verursacht wird. Zudem sind »grüne« Bundesstaaten wie Kalifornien technisch bankrott und deshalb gezwungen, die Förderung für Solar- und Windanlagen zu kürzen. Ohne staatliche Subventionen rechnet sich die Sonnen- und Windtechnologie aber nicht.

Bei der Vorbereitung der globalen Klimagespräche im mexikanischen Cancun haben Leerverkäufer auch Aktien der Hersteller von Windturbinen, Sonnenkollektoren und Elektroautos in Europa ins

Visier genommen, während gleichzeitig mehrere EU-Regierungen die Subventionen für grüne Technologien drastisch kürzen. Das wäre natürlich ein durchaus positives Ergebnis der ansonsten drakonischen Sparmaßnahmen, die überall verhängt werden, um die Banken auf Kosten der Steuerzahler zu retten. Da die Kosten für den Bailout Griechenlands und nun auch Irlands täglich steigen, kürzen europäische Regierungen, die kämpfen müssen, um die Ausgaben im Griff zu behalten, die Vergütung für die Einspeisung von Strom aus Fotovoltaik-Kollektoren.

Wie aus Meldungen an die US-Börsenaufsicht SEC hervorgeht, haben die Deutsche Bank, Goldman Sachs und die große BlackRock-Gruppe im dritten Quartal ihre Long-Positionen (bei denen ein Preisanstieg erwartet wird) für erneuerbare Energien eingeschränkt; ein Anzeichen dafür, dass sie für die nächste Zukunft fallende Preise erwarten.

Ziemlich genau vor einem Jahr fand in Kopenhagen ein großer Klimagipfel statt – und gleichzeitig entbrannte der sogenannte Klimagate-Skandal um den E-Mail-Verkehr zwischen führenden amerikanischen und britischen Klimaforschungszentren, aus dem hervorging, dass die dort tätigen Wissenschaftler bewusst Klimadaten manipuliert hatten, um einen alarmierenden Temperaturanstieg zu beweisen. In der Zwischenzeit ist nach einem Sexskandal vom Global-Warming-Guru Al Gore nichts mehr zu hören und zu sehen, und gegen den Chef des UN-Klimarats IPCC wird wegen Amtsmissbrauchs zum Zwecke persönlicher Bereicherung ermittelt.

 

Extremistische moskeeganger blijkt FBI infiltrant

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Extremistische moskeeganger blijkt FBI infiltrant

Ex: http://georgeorwell1984.wordpress.com/

Een bezoeker van een Californische moskee putte zich zo uit in het promoten van de Heilige Oorlog tegen de VS, dat de andere moskeegangers zich een beetje zorgen begonnen te maken. Men besloot om de extremist aan te geven bij de FBI, maar hij bleek een informant te zijn. Dat meldt de Washington Post.

 

De FBI had ‘Farouk al-Aziz’, die de codenaam Oracle meekreeg, naar de moskee gestuurd in de hoop om extremisten en kandidaat-terroristen uit hun tent te lokken. De man woonde op regelmatige basis diensten bij in het islamitisch centrum in Irvine, in ware spionagestijl uitgerust met een cameraatje in een knoopsgat en een microfoontje aan zijn sleutelhanger.

Nu de operatie aan het licht is gekomen, doet de devote Aziz – in werkelijkheid is hij de veroordeelde valsemunter Craig Monteilh ! – een boekje open over de feiten. Hij beschuldigt de FBI ervan dat ze een grote samenzwering op touw zette om de moskee aan te pakken. “Men heeft me over een periode van 15 maanden 177.000 dollar betaald, belastingvrij”, zegt hij. “Mijn opdracht was bewijs te vinden voor een strafzaak waarmee men een lid van de moskee kon vervolgen, maar men heeft alles gewoon laten vallen.”

De bekentenissen van de man zorgden voor beroering in de plaatselijke moslimgemeenschap. “We voelen ons verraden”, zegt Shakeel Syed, hoofd van een koepelvereniging van zo’n 75 Californische moskeeën. “De FBI huurt een veroordeelde crimineel in, leidt hem op en stuurt hem als infiltrant naar onze moskeeën. Toen de operatie mislukte, lieten ze hem vallen. Het lijkt wel een scenario van een slechte soapserie!”

FBI-verantwoordelijken proberen de gemoederen te bedaren. “Dit is niet onze gewone manier van werken”, verzekert een woordvoerder. “Onze meest beproefde werkwijze is nog steeds rekenen op steun, samenwerking en het vertrouwen van de verschillende gemeenschappen die we dienen en trachten te beschermen.”

The Total Control Society is Here: Iris Scanners

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The Total Control Society Is Here: Iris Scanners

by John W. Whitehead

Ex: http://www.lewrockwell.com/

 
   

"In the future, whether it's entering your home, opening your car, entering your workspace, getting a pharmacy prescription refilled, or having your medical records pulled up, everything will come off that unique key that is your iris. Every person, place, and thing on this planet will be connected [to the iris system] within the next 10 years."

Jeff Carter, CDO of Global Rainmakers

The U.S. government and its corporate allies are looking out for you — literally — with surveillance tools intended to identify you, track your whereabouts, monitor your activities and allow or restrict your access to people, places or things deemed suitable by the government. This is all the more true as another invasive technology, the iris scanner, is about to be unleashed on the American people.

Iris scanning relies on biometrics, which uses physiological (fingerprint, face recognition, DNA, iris recognition, etc.) or behavioral (gait, voice) characteristics to uniquely identify a person. The technology works by reading the unique pattern found on the iris, the colored part of the eyeball. This pattern is unique even among individuals with the exact same DNA. It is read by projecting infra-red light directly into the eye of the individual.

The perceived benefits of iris scan technology, we are told, include a high level of accuracy, protection against identity theft and the ability to quickly search through a database of the digitized iris information. It also provides corporations and the government — that is, the corporate state — with a streamlined, uniform way to track and access all of the information amassed about us, from our financial and merchant records, to our medical history, activities, interests, travels and so on. In this way, iris scans become de facto national ID cards, which can be implemented without our knowledge or consent. In fact, the latest generation of iris scanners can even capture scans on individuals in motion who are six feet away. And as these devices become more sophisticated, they will only become more powerfully invasive.

At the forefront of this effort is the American biometrics firm Global Rainmakers Inc. (GRI), which has partnered with the city of Leon — one of the largest cities in Mexico — to create "the most secure city in the world." GRI plans to achieve this goal by installing iris scanners throughout the city, thus creating a virtual police state in Leon.

The eye scanners, which can scan the irises of 30—50 people per minute, will first be made available to law enforcement facilities, security check-points, police stations, detention areas, jails and prisons, followed by more commercial enterprises such as mass transit, medical centers and banks and other public and private locations. As the business and technology magazine Fast Company reports:

To implement the system, the city is creating a database of irises. Criminals will automatically be enrolled, their irises scanned once convicted. Law-abiding citizens will have the option to opt-in.

However, as Fast Company points out, soon no one will be able to opt out:

When these residents catch a train or bus, or take out money from an ATM, they will scan their irises, rather than swiping a metro or bank card. Police officers will monitor these scans and track the movements of watch-listed individuals. "Fraud, which is a $50 billion problem, will be completely eradicated," says Carter. Not even the "dead eyeballs" seen in Minority Report could trick the system, he says. "If you've been convicted of a crime, in essence, this will act as a digital scarlet letter. If you're a known shoplifter, for example, you won't be able to go into a store without being flagged. For others, boarding a plane will be impossible."

Mark my words: the people of Leon, Mexico, are guinea pigs, and the American people are the intended control subjects.

In fact, iris-scanning technology is already being implemented in the U.S. For example, the Department of Homeland Security ran a two-week test of the iris scanners at a Border Patrol station in McAllen, Texas, in October 2010. That same month, in Boone County, Missouri, the sheriff's office unveiled an Iris Biometric station purchased with funds provided by the U.S. Department of Justice. Unknown by most, the technology is reportedly already being used by law enforcement in 40 states throughout the country.

There's even an iPhone app in the works that will allow police officers to use their iPhones for on-the-spot, on-the-go iris scanning of American citizens. The manufacturer, B12 Technologies, has already equipped police with iPhones armed with facial recognition software linked to a statewide database which, of course, federal agents have access to. (Even Disney World has gotten in on the biometrics action, requiring fingerprint scans for anyone entering its four Orlando theme parks. How long before this mega-corporation makes the switch to iris scans and makes the information available to law enforcement? And for those who have been protesting the whole-body imaging scanners at airports as overly invasive, just wait until they include the iris scans in their security protocol. The technology has already been tested in about 20 U.S. airports as part of a program to identify passengers who could skip to the front of security lines.)

The goal of the corporate state, of course, is to create a total control society — one in which the government is able to track the movements of people in real time and control who does what, when and where. In exchange, the government promises to provide security and convenience, the two highly manipulative, siren-song catchwords of our modern age.

Again, as Fast Company reports:

For such a Big Brother-esque system, why would any law-abiding resident ever volunteer to scan their irises into a public database, and sacrifice their privacy? GRI hopes that the immediate value the system creates will alleviate any concern. "There's a lot of convenience to this — you'll have nothing to carry except your eyes," says Carter, claiming that consumers will no longer be carded at bars and liquor stores. And he has a warning for those thinking of opting out: "When you get masses of people opting-in, opting out does not help. Opting out actually puts more of a flag on you than just being part of the system. We believe everyone will opt-in."

So who's the real culprit here? While we all have a part to play in laying the foundations for this police state — the American people due to our inaction and gullibility; the corporations, who long ago sold us out for the profit they could make on us; the federal government, for using our tax dollars to fund technologies aimed at entrapping us; lobbyists who have greased the wheels of politics in order to ensure that these technologies are adopted by government agencies; the courts, for failing to guard our liberties more vigilantly; the president, for using our stimulus funds to fatten the pockets of technology execs at the expense of our civil liberties — it's Congress that bears the brunt of the blame. Our so-called elected representatives could and should have provided oversight on these technologies in order to limit their wide-spread use by corporations and government agencies. Yet they have done nothing to protect us from the encroaching police state. In fact, they have facilitated this fast-moving transition into a suspect society.

Ultimately, it comes back to power, money and control — "how it is acquired and maintained, how those who seek it or seek to keep it tend to sacrifice anything and everything in its name" — the same noxious mix that George Orwell warned about in his chilling, futuristic novel 1984. It is a warning we have failed to heed. As veteran journalist Walter Cronkite observed in his preface to a commemorative edition of 1984:

1984 is an anguished lament and a warning that vibrates powerfully when we may not be strong enough nor wise enough nor moral enough to cope with the kind of power we have learned to amass. That warning vibrates powerfully when we allow ourselves to sit still and think carefully about orbiting satellites that can read the license plates in a parking lot and computers that can read into thousands of telephone calls and telex transmissions at once and other computers that can do our banking and purchasing, can watch the house and tell a monitoring station what television program we are watching and how many people there are in a room. We think of Orwell when we read of scientists who believe they have located in the human brain the seats of behavioral emotions like aggression, or learn more about the vast potential of genetic engineering. And we hear echoes of that warning chord in the constant demand for greater security and comfort, for less risk in our societies. We recognize, however dimly, that greater efficiency, ease, and security may come at a substantial price in freedom, that "law and order" can be a doublethink version of oppression, that individual liberties surrendered for whatever good reason are freedoms lost.

November 16, 2010

Constitutional attorney and author John W. Whitehead [send him mail] is founder and president of The Rutherford Institute. He is the author of The Change Manifesto (Sourcebooks).

Copyright © 2010 The Rutherford Institute

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Le Bulletin célinien n°325

Le Bulletin célinien n°325

 
Décembre 2010
 
Vient de paraître : Le Bulletin célinien n°325 de décembre 2010.
 
Au sommaire :

- Marc Laudelout : Bloc-notes
- M. L. : Lucien Descaves au « Club du Faubourg »
- Claude Duneton : Céline et la « tourbe » du langage populaire
- V. M. : Une adaptation théâtrale exemplaire
- Benoît Le Roux : Anouilh et Céline
- Laurence Viala : Illustrer le texte célinien (1)
- Ramon Fernandez : « L’Église » (1933)
- Les souvenirs de Maurice Gabolde
- Willy de Spens : Un après-midi chez L.-F. Céline

Un numéro de 24 pages, 6 € frais de port inclus à :
Le Bulletin célinien
Bureau de poste 22
B. P. 70
B 1000 Bruxelles
 
Bloc-Notes:
 
À propos du « refus de parvenir », expression (rendue célèbre par Albert Thierry et les syndicalistes révolutionnaires) traduisant une volonté d’être fidèle à ses origines populaires, Paul Yonnet trace un parallèle avec la figure de Céline : « ...C’est une exigence du même ordre qui traverse Voyage au bout de la nuit, mais aussi l’œuvre entière de Céline, jusque dans les images qu’il nous donne de lui, durant les dix dernières années de sa vie, asilaires (1)». Et de renvoyer aux pages que le psychiatre Yves Buin consacre à ce thème : « Sa déshérence, Céline tient à la montrer. Plus qu’au clochard exhibé, au hâbleur volontaire du déclin, c’est à l’asilaire que Céline fait penser si l’on s’en réfère aux photographies de l’ère Meudon se déroulant tel un film. Un asilaire ? C’est-à-dire un de ses falots personnages d’hospice, de foyer social hors le monde, et plus encore des grandes concentrations carcérales où, au milieu des déments et des agités que l’on enferme, subsistent des êtres atones, ravinés, habitacles d’une vie éteinte, des êtres lassés, revenus de tout et de nulle part, que rien ne dérange plus et qui ne dérangent plus personne. (…) Il est de l’humanité invisible. Le Céline des trois ou quatre dernières années est de cette confrérie d’abandonnés. Probablement n’y siège-t-il pas en permanence. Aux parutions de ses livres, et entre elles, il doit concéder à la représentation mais avec les habits de scène qu’il s’est choisis pour le dernier acte et, l’asilaire, en lui, affleure (2). » En d’autres termes, Céline donnerait à voir, de manière spectaculaire, qu’il n’est pas parvenu, qu’il a refusé de parvenir, qu’il a tout fait pour qu’il en soit ainsi.
 
Cette vision du Céline de la fin contraste avec celle d’un autre biographe, Philippe Alméras, qui voit en l’ermite de Meudon un épigone de Chodruc-Duclos : « Sous la Restauration, Chodruc-Duclos, l’“homme à la longue barbe”, exhibait chaque jour au Palais-Royal sa misère et sa saleté pour exposer l’ingratitude des Bourbons. Céline, aidé par l’incurie des artistes, et grâce à Match ou à L’Express, confronte route des Gardes ses contemporains d’une façon pas tellement différente (3). »
 
Et si au lieu de voir l’intention de témoigner de ceci ou de cela, il ne fallait pas tout uniment constater chez lui une totale indifférence à son aspect vestimentaire ? Sauf durant une brève période – des années vingt au début des années trente –, Céline ne s’est jamais préoccupé de sa mise. Certains le lui reprochaient d’ailleurs (4). Exilé au Danemark, il s’en est encore moins soucié et cette attitude, qui n’était nullement une pose, n’a fait que s’accentuer durant les dix dernières années de sa vie. Cela en fit un personnage aussi pittoresque que Paul Léautaud avec, comme autres points communs, un attachement profond pour les animaux allant de pair avec une misanthropie foncière (5). Et surtout une volonté farouche de demeurer libre.

Marc LAUDELOUT

1. Paul Yonnet, « La sortie de la révolution » in Le Débat, n° 160, mai-août 2010, pp. [37]-46. Rappelons que Paul Yonnet est l’auteur du Testament de Céline (Bernard de Fallois, 2009).
2. Yves Buin, Céline, Gallimard, coll. « Folio biographies », 2009, pp. 436-437.
3. Philippe Alméras, « Céline vu de gauche, vu de droite » in Nouvelle École (« Les écrivains »), n° 46, automne 1990, pp. 40-48.
4. « On me fait volontiers grief de bouder les assemblées… (…) On m’y trouve mal habillé… N’est-ce pas, Monsieur Ménard ? » (Lettre à Jean Lestandi, 10 septembre 1942. Reprise dans Cahiers Céline 7, 2003 [rééd.], p. 171.)
5. Sur ce parallèle, voir Pierre Lalanne : « Louis-Ferdinand Céline et Paul Léautaud » sur le blog L’ombre de Louis-Ferdinand Céline à la date du 15 février 2010. À Jacques Chancel, en juillet 1957, il confie : « Je ne suis qu’un bouffon. Paul Léautaud est mort. Il fallait un pauvre qui pue. Me voilà. ». Repris dans Cahiers Céline, 2 (« Céline et l’actualité littéraire, 1957-1961 »), 1993 (rééd.), pp. [95]-99.

 

Geopolitische Hintergründe der NATO Intervention im Kosovo

Archives - 2000

 GEOPOLITISCHE HINTERGRÜNDE

DER NATO INTERVENTION IM KOSOVO

Serge TRIFKOVIC

 Ex: http://trifkovic.mystite.com/

Aussage vor dem  ständigen Komitee für auswärtige Angelegenheiten und internationalen Handel im kanadische Unterhaus, Ottawa, 17. Februar 2000

corridor8.gifDer Krieg der Nato gegen Jugoslawien im Jahre 1999 markiert einen deutlichen Wendepunkt, nicht nur für Amerika und die NATO sondern auch für den  gesamten Westen. Das Prinzip der nationalen Souveränität und sogar das Prinzip der Rechtstaatlichkeit wurde Namens einer angeblichen humanitären Ideologie untergraben. Tatsachen verdrehte man zu Erfindungen und sogar diese Erfindungen, die ausgegeben wurden um die eigene Handlungsweise zu rechtfertigen, erheben keinen Anspruch auf Glaubwürdigkeit mehr.

 

Traditionelle Systeme für den Schutz nationaler Freiheiten auf politischer, rechtlicher und wirtschaftlicher Ebene sind jetzt in Instrumente für deren Zerstörung umgewandelt worden. Aber weit entfernt davon, dass die westlichen Regierungseliten mit ihrem rücksichtslosen Durchsetzen der Ideologie einer multiethnischen Gesellschaft und internationalen Menschenrechten ihre Vitalität zeigen, könnte ihr Engreifen im Balkan möglicherweise der verstörende Ausdruck des kulturellen und moralischen Zerfalls eben dieser herrschenden Eliten sein. Ich werde darum meine Anmerkungen den Folgen des Krieges widmen, in Hinblick auf das sich bildende neue internationale System und die letztendliche Auswirkung auf die Sicherheit und Stabilität selbst der westlichen Welt.

 

Fast ein Jahrzehnt trennte Wüsten-Sturm von der Bombardierung aus humanitären Gründen. 1991 war der Vertrag von Maastricht unterzeichnet, und mit der Verlauf des restlichen Jahrzehnts hat die stückweise Usurpierung der traditionellen europäischen Souveränität durch ein Regime von kontrollierenden Körperschaften in Brüssel und nicht gewählten Beamten platzgegriffen, die sich mittlerweile dreist genug fühlen Osterreich vorschreiben zu können, wie es seine eigenen Angelegenheiten zu führen hätte. Auf dieser Seite des Ozeans (der Autor spricht in Ottawa. d. Übers.) Gab es die Einsetzung der NAFTA und 1995 brachte die Uruguay-Runde des GATT  die WTO. Die neunziger Jahre waren somit ein Jahrzehnt in dem nach und nach die neue internationale Ordnung begründet wurde. Das Anschwärzen nationaler Souveränität hypnotisierte die Öffentlichkeit derart, dass sie dem Prozess der Demontage gerade der Institutionen applaudierten, die noch alleiniger Ausdruck der Hoffnung auf Volksvertretung waren. Der Prozess ist soweit fortgeschritten, dass Präsident Clinton behaupten kann (in: Ein gerechter und notwendiger Krieg, New York Times, 23. Mai 1999): Hätte die NATO Serbien nicht bombardiert, wäre sie selbst in Hinblick auf gerade die Werte, für die sie selbst steht, unglaubwürdig geworden.

 

Tatsächlich aber war der Krieg sowohl unrecht als auch unnötig. Aber das bemerkenswerte an Clintons Aussage lag darin, dass er vor aller Öffentlichkeit das internationale System, das seit dem Westfälischen Frieden (1648) besteht, für null und nichtig erklärt hat. Es war zwar ein unvollkommenes System, dass oftmals gebrochen wurde, es  stellte aber die Grundlage für internationale Verständigung dar, an die sich lediglich einge wenige rote und schwarze Totalitaristen offenkundig nicht gehalten haben. Seit dem 24. März 1999 wird es mit der sich immer deutlicher abzeichnenden Clinton Doktrin ersetzt, die eine Blaupause der Breschnev Doktrin der eingeschränkten Souveränität darstellt und die seinerzeit die sowjetische Invasion in der Tschechoslowakei 1968 rechtfertigte. Wie sein sowjetischer Vorgänger gebrauchte Clinton eine abstrakte und weltanschaulich befrachtete Vorstellung - die der universellen Menschenrechte- als Vorwand für die Verletzung des Rechts und der Tradition. Die Clinton Doktrin hat ihre Wurzeln in der beiden Parteien eigenen Hybris der Washingoner aussenpolitischen "Elite", der ihr eigens Gebräu von ihrer Rolle als "letzter und alleiniger Supermacht" zu Kopf gestiegen ist. Rechtliche Formalitäten sind passé und moralische Vorstellungen - die in internationalen Angelegenheiten niemals sakrosankt sind - werden durch einen zynischen Gebrauch einer situationsgebundenen Moral ersetzt, je nach Lage der im Bezugsystem der Supermacht handelnden.

 

Nun ist also wieder imperiales Grossmachtdenken zurückgekehrt, aber in neuer Form. Alte Religion, Fahnen und nationale Rivalitäten spielen keine Rolle. Aber das starke Verlangen nach Aufregung [exitement] und Wichtigkeit, das die Briten bis nach Peking, Kabul und Khartum, die Franzosen nach Faschoda (s. Fussnote#1 d. Übers.)  und Saigon, die Amerikaner nach Manila trieb ist jetzt wieder aufgetaucht. Das Resultat war, dass ein unabhängiges Land mit einem Krieg überzogen wurde, weil es sich weigerte, fremde Truppen auf seinem Boden zuzulassen. Alle anderen Rechtfertigungen sind nachträgliche Rationalisierungen. Die Mächte, die diesen Krieg geführt haben, haben es begünstigt und dazu aufgehetzt, dass eine ethnische Minderheit die Loslösung betreiben konnte, eine Loslösung, die, wenn sie einmal formal vollzogen ist, manch eine europäische Grenze in Frage stellen wird. In Hinblick auf jede andere europäische Nation würde diese Geschichte surreal klingen. Die Serben wurden jedoch so weitgehend dämonisiert, dass sie nicht mehr davon ausgehen können, dass man sie so wie andere behandelt.

 

Doch die Tatsache dass der Westen mit den Serben machen kann, was er will, erklärt noch nicht, warum er das tun soll. Es ist kaum Wert, dass man es widerlegt, und dennoch: Die fadenscheinigen Ausreden für eine Intervention. Humanitäre Gründe wurden angeführt. Aber was ist mit Kaschmir, Sudan, Uganda, Angola, Sierra Leone, Sri Lanka, Algerien? Feinsäuberlich auf Video aufgenommen und amanpourisiert [s. Fussnote#2 d. Übers.], jedes hätte zwölf Kosovos leicht aufgewogen. Natürlich gab es keinen Völkermord. Verglichen mit den Schlachtfeldern der Dritten Welt war das Kosovo ein unbedeutender Konflikt auf niedriger Ebene, etwas schmutziger vielleicht als in Nordirland vor einem Jahrzehnt, aber weit geringer als Kurdistan. Bis Juni 1999 gab es 2108 Opfer auf allen Seiten im Kosovo, in einer Provinz von über 2 Millionen Menschen. Es schneidet selbst im Vergleich zu Washington D. C. (Bevölkerung: 600 000) mit seinen 450 Selbstmorden besser ab. Leichen zählen ist unanständig, aber wenn man die Brutalität und ethnischen Säuberungen bedenkt, die von der NATO ignoriert oder, wie die 1995 in Kroatien oder die in der Osttürkei, sogar geduldet wurden, dann wird deutlich, dass es im Kosovo nicht um universale Prinzipien ging. In Washington gilt Abdullah Ocalan als Terrorist, aber die UCK sind Freiheitskämpfer.

 

Worum ging es dann? Die Stabilität der Region, wurde als nächstes behauptet. Wenn wir den Konflikt jetzt nicht stoppen, greift er auf Mazedonien, Griechenland, die Türkei und praktisch den ganzen Balkan über. Gefolgt von einem  grossen Teil Eurpopas. Aber die Kur - Serbian solange bombardieren bis ein ethisch reines albanisches Kosovo unter den wohlwollenden Augen der NATO an die albanische UCK Drogen-Maffia übergeht - wird eine Kettenreaktion in der exkommunstischen Hälfte Europa auslösen.

 

Sein erstes Opfer wird die frühere jugoslawische Republik Mazedonien sein, in der die widerspenstige albanische Minderheit ein Drittel der Gesamtbevölkerung ausmacht. Wird denn das Modell Pristina nicht auch von den Ungarn in Rumänien, (die dort zahlreicher sind als Albaner im Kosovo), und in der Südslowakei gefordert werden? Was soll die Russen in der Ukraine, in Moldavien, in Lettland und im Norden Kasachstan davon abhalten sich dem anzuschliessen? Oder die Serben und Kroaten im chronisch instabilen Dayton - Bosnien? Und wenn schliesslich, die Albaner auf Grund ihrer Anzahl ihre  Trennung bekommen, trifft dass selbe dann auch auf die Latinos in Südkalifornien oder Texas zu, sobald die ihre angelsächsischen Nachbarn zahlenmässig überwiegen und eine zweisprachige Staatlichkeit verlangen könnten die zu einer Wiedervereinigung mit Mexiko führen würde? Sollen Russland und China die Vereinigten Staaten mit Bombardierung drohen, wenn es nicht einlenkt?

 

Das was jetzt im Kosovo herausgekommen ist, stellt ein äusserst unvollkommenes Modell einer neuen Balkanordnung dar, das die Ambitionen aller ethnischen Gruppen des früheren Jugoslawiens, mit Ausnahme der Serben, zu befriedigen sucht. Das ist für alle Betroffenen eine zerstörerische Strategie. Auch wenn man sie jetzt mit Gewalt zum Gehorsam gezwungen hat, sollen die Serben bei der entstehenden künftigen Ordnung der Dinge nichts einzusetzen haben. Früher oder später werden sie darum kämpfen, den Kosovo zurück zugewinnen. Der Frieden von Karthago, den man heute Serbien auferlegt, wird für künftige Jahrzehnte zu chronischer Instabilität und Streit führen. Er wird den Westen auf dem Balkan in einen Morast verstricken und, sobald Mr. Clintons Nachfolger kein Interesse mehr daran haben, für die auf üblem Wege gewonnenen Erwerbungen ihrer Balkanverbündeten gerade zu stehen, garantiert einen neuen Krieg geben.

 

Die NATO hat jetzt gewonnen, aber der Westen hat verloren. Der Krieg hat genau die Prinzipien unterminiert, die den Westen ausmachen, nämlich, die Herrschaft des Rechts. Der Anspruch auf Menschenrechte kann weder für die Herrschaft des Rechts noch der Moral jemals die Grundlage bilden. Universelle Menschenrechte, die von ihrer Verwurzelung im jeweiligen Ort und der Zeit losgelöst sind, öffnen jedem Hauch einer Empörung und jeder Laune des Augenblicks darüber, wer gerade ein Opfer darstellt, den Weg. Die fehlgeleitete Bemühung, die NATO von einer Verteidigungs-gemeinschafft in eine Mini-U.N. zu verwandeln, mit selbstverfassten Verantworlichkeiten über das Gebiet seiner Vertragspartner hinaus, ist ein sicherer Weg zu weiteren Bosniens und Kosovos. Jetzt, da die Clintonistas und die NATO im Kosovo erfolgreich waren, können wir mit weiteren neuen und noch gefährlicheren Abenteuern anderswo rechnen. Aber beim nächsten Mal werden die Russen , die Chinesen, Inder und andere schlauer sein und uns nicht mehr die Sprüche über Freie Märkte und demokratische Menschenrechte abkaufen. Die Zukunft des Westens wäre in einem dann womöglich unvermeidlichen Konflikt unsicher.

 

Kanada sollte die Folgen eines solchen Kurses gut bedenken und um seinetwillen und den Frieden und die Stabilität der ganzen Welt seinen Mut zusammentun und Nein zum weltweiten Eingreifen sagen. Muss es wirklich in widerspruchsloser Unterwerfung zusehen, wie ein langdauerndes gefährliches militärisches Experiment gestartet wird, dass uns in einen wirklichen Krieg um Zentralasien hineinzieht? Soll es demnächst neue UCKs entlang Russlands islamischen Rand gegen "Völkermord" "verteidigen", darunter ethnische Gruppen deren Namen heute noch keine westliche Presse kennt und die eine Reihe guter Begründungen für eine Intervention hergeben könnten, gut genug, soll heissen so schlecht wie die der Kosovo-Albaner.

 

War Kanadas Geschichte als Teil des englischen Weltreiches so süss, dass es ein Herrschaftszentrum in Washington braucht, als Ersatz für das verlorene London? Fühlt sich Kanada bei der Wahrheit, die sich heute langsam herausschält, wohl, dass es über Krieg und Frieden weniger die Wahl hat, als in der Zeit, als es ein freies Dominion unter dem alten Statut von Westminster war? Denn ganz ohne Zweifel kann derKrieg, den die NATO im April und Mai 1999 geführt hat von etwas, das "die Allianz" genannt werden kann, weder beabsichtigt noch gewollt worden sein, wenn 1998 innerhalb des Ringes (der oberen Kommandoebene d. Übers.) der Einsatz von Gewalt ausgeheckt worden war.

 

Wert zu fragen wäre auch, wie diese Zurückstufung Kanadas und anderen NATO-Mitglieder auf den Status einer zweitrangigen imperialen Macht, einen von den Medien angeführten politischen Prozess in Gang setzt, der dazu führt, dass nationale Meinungsbildung- und Beschlussfassung, ausser einer rein formalen Einpeitschfunktion [Cheer-leader funktion], bedeutungslos werden. Es wäre auch zu fragen wie es dazu kommen konnte, dass das Hauptkriegsziel der Nato war "die Allianz zusammen zu halten", und welche Disziplinen damit gemeint waren und wie leicht und blutig sich das wiederholen lässt. Der moralische Alleinvertretungsanspruch der von den Befürwortern der Intervention als Ersatz für eine rationale Argumentation gegeben wurde kann nicht länger aufrechterhalten werden. Ein echter Zwiespalt in Hinblick auf unsere gemeinsame menschliche Verantwortung, sollte nicht dafür herzuhalten haben, um den Virus Imperialismus eines sich wiedererweiternden Westen zu reaktivieren. Je arroganter die neue Doktrin auftritt, um so grösser die Bereitschaft für die Wahrheit zu lügen. Die Fähigkeit etwas zu tun, unterstützt die moralische Selbstachtung, wenn wir den Gedanken von uns weisen können, dass wir weniger moralisch Handelnde als Verbraucher von vorgekauten Wahlmöglichkeiten sind. Am Aufgang des Jahrtausends leben wir in einem virtuellen Collosseum in dem exotische und finstere Unruhestifter nicht von Löwen sondern von mystischen Flugapparaten des Imperiums getötet werden. Während die Kandidaten für die Bestrafung - oder das Martyrium - in die Arena gestossen werden, reagieren viele der Bevölkerung im Westen auf die Show wie imperialen Konsumenten und nicht wie Bürger mit einem parlamentarischen Recht und einer demokratischen Verpflichtung, die Vorgänge zu hinterfragen. Mögen die Ergebnisse ihrer gegenwärtigen Untersuchungen erweisen, dass ich unrecht habe. Vielen Dank.

 

FUSSNOTEN DES UEBERSETZERS  (Hartmut Gehrke-Tschudi)

 

FUSSNOTE #1: Faschoda: Stadt im Südsudan, am weissen Nil. 1898 war es der Schauplatz des Faschoda Konflikts der Frankreich und England an den Rand eines Krieges brachte und 1899 zum englisch-französischen Grenzabkommen führte, das die Grenze zwischen dem Sudan und franz. Kongo entlang der Wasserscheide des Kongo und Nil Beckens festlegte. Die Bildung einer englisch-französischen Entente 1904 veranlasste die Briten dazu, den Namen der Stadt in »Kodok« umzuändern, in der Hoffnung die Erinnerung an diesen Vorfall zu vertuschen.

FUSSNOTE #2: ein Sarkasmus des Autors, betr.: Christiane Amanpour die Leni Riefenstahl der USA, seit Golfkriegszeiten Kriegsberichterstatterin des CNN und Frau von US-Stabschef James Rubin. A. wollte wenige Wochen vor Kriegsbeginn in den Kosovo reisen, um für die westliche Wertegemeinschaft den "Beweis" zu bringen, dass dort ethn.Vertreibungen und Völkermord stattfinden. Die jugosl. Regierung erlaubte ihr aber nicht die Einreise. Sie hatte A. Art der manipulativen Berichterstattung schon kennengelernt und wollte der NATO keinen Vorwand zum Krieg geben.

samedi, 11 décembre 2010

ATTAC, le politique autrement? Pas vraiment...

Attac, la politique autrement ? Pas vraiment…

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

Publié en 2007 par le sociologue Raphaël Wintrebert, l’ouvrage Attac, la politique autrement ? Enquête sur l’histoire et la crise d’une organisation militante aux éditions La Découverte, est passionnant d’un bout à l’autre.

En effet, l’auteur, spécialiste de la question (sa thèse porte justement sur Attac France), nous fait vivre de l’intérieur toute l’évolution de cette association pas comme les autres durant une petite dizaine d’années. Le livre fourmille de témoignages, tant des principaux dirigeants que des simples militants de base. Petite anecdote, afin de garder l’anonymat de certains témoins, il leur attribue des pseudonymes des plus agréables à la lecture : M. Hêtre, M. Sapin, M. Bleuet, Mme Marguerite etc. Nous sentons bien que Raphaël Wintrebert a été tout ce temps un témoin privilégié au cœur du système. Son analyse, loin d’être partisane, nous a semblé des plus objectives et honnêtes.

Tout commence avec la création de l’Association pour la taxation des transactions financières pour l’aide aux citoyens (Attac) à l’initiative du Monde diplomatique en 1998 et regroupant divers titres de presse, syndicats et associations. Son but premier est de produire et diffuser des informations économiques et financières à visées antilibérales. Dès le début, Raphaël Wintrebert nous fait ressentir combien Attac répond à une attente de militants et suscite des espoirs. Enfin, “un autre monde est possible” pour reprendre le fameux slogan. Le succès de l’opération surprend même ses fondateurs. Très vite, le nombre d’adhérents ne cesse d’augmenter. De 1999 à 2003, l’association compte environ 10 000 adhésions nouvelles chaque année ! C’est un véritable succès sans équivalent jusqu’à présent. Sur la scène altermondialiste nationale et internationale, Attac devient dès lors inévitable.

Cependant, rapidement, les premiers craquements apparaissent. Opposition entre les militants locaux et la direction nationale, organisation interne complexe et fonctionnement peu démocratique avec dérive autoritaire, difficile équilibre entre les différentes associations et les différents syndicats composants l’association, gestion financière suspecte, recherche d’un nouveau souffle, et, surtout, rivalité croissante entre les dirigeants qui conduira directement à la crise de 2006. Celle-ci fait suite à la campagne interne pour des élections où deux principaux camps vont s’affronter, celui du nouveau président de l’association Jacques Nikonoff et de l’ancien président Bernard Cassen d’un côté, et celui de Pierre Khalfa et Susan George de l’autre. Comme l’avait prévenu un des dirigeants : « ça va saigner ! ». Et ça a effectivement saigné. Les masques vont tomber et toutes les haines accumulées vont apparaître au grand jour. La violence verbale atteindra son paroxysme avec son lot d’injures quotidiennes, ses mensonges, ses insinuations. Cerise sur le gâteau, l’élection elle-même sera entachée d’une fraude prouvée de manière irréfutable. En quelques mois, toute l’aura d’Attac est balayée d’un revers de la main. Désormais, plus rien ne sera comme avant et l’association ne s’en relèvera jamais complètement.

Plus largement, l’échec d’Attac nous interroge sur l’échec plus global de cette gauche de la gauche, notamment lors de la présidentielle de 2007 où, après de nombreux déchirements, elle a été incapable de présenter une candidature commune. Certes, bien que nous ne partageons pas ses idées, nous ne pouvons pas nier qu’Attac a sûrement été l’organisation qui a su critiquer le plus finement les travers du libéralisme. De même, il est indéniable que l’association a ouvert ses portes à des personnes intellectuellement très brillantes. Pourtant, au fil de la lecture, un malaise subsiste. Comment faire confiance à des individus qui, à part critiquer, ne savent rien faire d’autre ? Pour avoir des idées, ils sont très forts, mais ils sont incapable de les appliquer ou de construire concrètement un modèle alternatif viable qui ne sombre pas rapidement dans le chaos. Par exemple, promoteurs de la démocratie participative, elle n’a jamais été pratiquée au sein d’Attac. C’est même complètement l’inverse qui est en usage tellement le fonctionnement de l’association est compliqué. Le livre nous montre parfaitement le comportement infantile de ces apparatchiks professionnels de la contestation aveuglés par leur soif du pouvoir, et dont l’idéologie sert le plus souvent de prétexte à leurs ambitions personnelles. Ces gens là, tout comme les politiciens, sont complètement décalés de la vie réelle, n’exercent plus vraiment d’activité professionnelle puisqu’ils passent leur vie uniquement dans le milieu associatif ou syndical en imaginant “un autre monde“, une “autre gauche“, une “autre politique” qu’ils sont bien incapables de mettre en œuvre car pris dans leurs petits conflits internes nombrilistes. Et tout comme les politiciens, ils ne savent créer rien d’autre que de la déception, du dégoût, de l’écœurement pour les simples militants lorsque ces derniers refusent d’entrer dans ce système.

Alors, au final, pour rependre le titre de l’étude, faire de la politique autrement, c’est possible ? Peut être, mais pas au sein d’Attac…

Source : Enquête & Débat.

Der grosse Flirt mit Israel

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Der große Flirt mit Israel

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

ASKALON. Eine Delegation europäischer Rechtspolitiker führt derzeit in Israel politische Gespräche. Sie soll dort auf Einladung israelischer Politiker „Strategien gegen den islamischen Terror“ beraten, berichtet die österreichische Tageszeitung Der StandardUnter ihnen befinden sich Heinz-Christian Strache (FPÖ), Philip Dewinter (Vlaams Belang) und René Stadtkewitz (Die Freiheit). 

Der Pro-NRW-Vorsitzende Markus Beisicht lobte die Initiative als Beitrag zur Enttabuisierung. Der Gegensatz, den „weite Teile der Altrechten“ gegen Israel aufbauten, sei überholt. „Die große Bedrohung heißt heute Islamisierung, und in diesem Punkt sind Israel und Europa mit den gleichen Problemstellungen befaßt.

Wilders will mehr Siedlungen im Westjordanland

Zwar befasse sich Pro NRW nicht mit außenpolitischen Themen, so Beisicht, dennoch „begleiten wir diese Schritte schon jetzt mit großem Interesse und haben uns auch sehr über die herzlichen Grüße von Philip Dewinter aus Israel gefreut, die uns am Wochenende per Handy erreicht haben“, hieß es in einer Mitteilung. Spätestens zur Europawahl 2014 wolle sich Pro NRW aber auch mit diesen Fragestellungen beschäftigen.

Unterdessen berichtet Die Welt, daß der niederländische Islamkritiker Geert Wilders Israel auf einer Konferenz in Tel Aviv aufgefordert habe, den Siedlungsbau zu verstärkten. In seine Rede bei der Hatikva-Partei sagte Wilders: „Die Bauarbeiten müßten fortgesetzt werden, damit Israel eine Grenze erhalte, die zu verteidigen sei, sagte Wilders. Die jüdischen Siedlungen im Westjordanland seien kein Hindernis für den Frieden. Sie seien der Ausdruck des jüdischen Rechts, in diesem Land zu leben. Wilders forderte, das benachbarte Jordanien müsse die 2,5 Millionen Palästinenser aufnehmen, die im Westjordanland leben.“ (rg)

30 Years of Laibach: Total Totalitarian Retro-Avantgardists

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30 Years of Laibach:
Total Totalitarian Retro-Avantgardists

Felix MENZEL

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Andreas Faust

Editor’s Note:

Although the author of this article does not like Laibach as much as I do, this is just the first of several pieces occasioned by Laibach’s recent 30th anniversary. Stay tuned.

The most recent (November) edition of the art magazine MONOPOL is devoted to collectives, and the title story concerns the Slovenian industrial band Laibach, who understand themselves as a “Gesamtkunstwerk.” To document the 30th anniversary of their group this year, the controversial musicians have held an exhibition, a symposium, and several concerts.

Daniel Völzke and Martin Fengel of MONOPOL traveled to the festivities in Slovenia at the end of September. They could have saved their money, however. Their report consisted mainly of opinions and insights about the provocative band which have accumulated over the decades. On one side is the accusation that Laibach help propagate a fascist aesthetic. On the other is the explanation: It’s merely an “über-identification” with totalitarian systems, which in the end reduces them to an ad absurdum.

The art critic Boris Groys speaks of a production “more totalitarian than totalitarianism.” Laibach themselves have said little on the topic. Either they give statements which the media expect, for instance:

“We are fascists to the extent that Hitler was a painter.”

Or they announce general facts without any specifics. Thus they babbled to Daniel Völzke:

“We believe in an art which advances social, political and economic reforms, but also an art which tests the boundaries of aesthetic experience. In collectively organized movements these two goals can develop more organically.”

Such statements leave us clueless.

The principle of retro-avantgardism, which the Slovenians make use of, consists in steering for the most sensitive parts of our identity, with countless historical backdrops (NS propaganda, socialist realism, Christian iconography). Yet the aim is not a political one. Rather, it’s about the maximum energetic mobilization of the observer. This can manifest as indignation, frenzied jubilation, or even physical ecstasy.

At the same time, Laibach are aware of the greatest problem currently facing them. At the symposium, founding member Ivan Novak stressed:

“It’s easy to be New when one is new, but hard when one is as old as we are.”

Put plainly: provocation wears thin over time. The industrial band’s highpoint is probably behind them, and they are even aware of this. In December they will give several concerts in Germany. On YouTube one can sign up for a fascistic “Dance Course with Laibach.” After that, anyone — far from politics — will know how a fascistic aesthetic affects them.

Source: http://euro-synergies.hautetfort.com/archive/2010/11/18/3...

The Empire Embarrassed

 
 

SpiegelWikileaksTitel.jpgWikileaks released another 250,000 classified documents over the weekend, this time from the Department of State. Since the details concern the everyday workings of U.S. diplomacy, the leaks have much greater potential for scandal than the previous series on Iraq and Afghanistan. Few of the files are currently available at the organization’s site (due to denial of service attacks from you-know-who), but major media outlets have deigned to provide us the most “shocking” revelations:

  • Saudi King Abdullah and other Gulf potentates have been exhorting the White House to attack Iran. The Israelis have already seized this opportunity to justify their own pressure campaign on Washington.
  • Iranian President Mahmud Ahmadinejad is just like Hitler.
  • Secretary of State Hillary Clinton ordered the collection of biometrics and other intelligence on foreign diplomats working at the UN in New York.
  • Pakistan teeters on the brink of chaos and its nuclear arsenal isn’t fully secure (Surprise!).
  • Clinton views the friendship between Italian PM Silvio Berlusconi and his Russian counterpart Vladimir Putin with deep suspicion, and wants tabs kept on their business ties.
  • Putin is an alpha dog, and Russia a “virtual mafia state”. It is well known the Kremlin uses mob assets overseas for its own purposes, but this allegation is especially rich coming from the United States of Goldman Sachs.

While there are doubtless many interesting details to be sifted through in this batch, such as U.S. and Turkish double games in Iraqi Kurdistan or Russian-Israeli bargaining over weapons sales to Iran, there don’t appear to be any earth-shaking disclosures emerging from its substance. These are, after all, State Department cables mostly at the secret level of classification that reflect the conventional wisdom of the American foreign policy establishment. They are written by FSOs (Foreign Service Officers) who graduated from mid-level and elite universities, tend to read The Economist for inspiration and think all the right thoughts on matters cultural and political. Such people generally have a high opinion of themselves and their capacity for free thinking, all the while stringently observing the doctrines of political correctness as they work to bring the light of democracy to the world.

Prominent, but perhaps not unexpected, in the documents is the gossipy and frivolous tone of their content. Diplomatic telegrams have long relayed these sorts of minutiae, though now we have the generation raised on E! Television, Bravo and TMZ composing them.

What’s been unveiled isn’t so much the stuff of espionage novels as People Magazine for diplomats and policymakers. So Russian President Dmitry Medvedev plays Robin to Putin’s Batman, Berlusconi stays up too late with the ladies, and Azeri leader Ilham Aliev’s wife has received multiple facelifts. The secrets exposed by the leak pale in comparison to the utter vapidity and decadence of the class at the helm of the self-proclaimed “last, best hope for mankind”. Washington suffers embarrassment from such a massive hemorrhage of sensitive information, but what’s most embarrassing is the emptiness of it all. The Postmodern Empire is like Oakland- there’s no there there.

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Ezra Pound, maître d'une poésie romanesque et brutale

Ezra Pound, maître d'une poésie romanesque et brutale

Ex: http://racinescharnelles.blogspot.com/

Qu'on ne s'y trompe pas. Malgré son prénom aux consonances bibliques et les airs de prophète qu'il prenait volontiers vers la fin de sa vie, Ezra Pound n'a été ni dans son œuvre ni dans son existence l’enfant de cœur tourmenté par la notion de péché ou d'humilité. Dis­sident de l'Amérique, du mauvais goût et des valeurs approximatives d'un pays où la Bible et le dollar tiennent lieu de référence, Pound l'est déjà dès son plus jeune âge. « J'écrirai, déclare-t-il à l'âge de 12 ans, les plus grands poèmes jamais écrits ». En cette fin de XIXe siècle, en plein Wild West américain, il se découvre une vocation poétique pour le moins incongrue si l'on en juge par les préoccupations de ses compatriotes de l'époque, plus soucieux de bâtir des empires financiers que de partir en guerre contre des moulins à vent. Pendant des années, en subissant les vexations des cuistres, il va se consacrer à l'étude du provençal et à l'art des ménestrels et troubadours précurseurs de la littérature moderne.

Des poèmes comme "L'arbre", témoins, comme le note Tytell, d'un paga­nisme croissant, et sa haine de l'Amérique sont le signe avant-coureur que sa vie entière allait devenir un défi lancé aux systèmes occidentaux et une dénonciation de la religion moderne qu'il tenait pour la servante de ces systèmes. Les conflits incessants avec le monde universitaire qui lui refuse quelque chaire, l'ordre moral et l'étroitesse d'esprit de ses contemporains vont avoir pour conséquence le départ de Pound pour l'Europe. Venise, tout d'abord, où il s'exerce au dur métier de gondolier, puis Londres, où son talent va enfin éclore. C'est pour lui le temps des amitiés littéraires avec George Bernard Shaw, puis James Joyce, T.S. Eliot.

Le Londres aux mœurs victo­riennes ne nuit en rien pour l'heure à l'effervescence d'un génie que l'on commence à voir poindre ici et là dans les revues auxquelles il collabore. La guerre de 14 éclate et nombre des amis de Pound n'en reviendront pas. « C'est une perte pour l'art qu'il faudra venger », écrit-il, plus convaincu que quiconque que cette guerre est une plaie dont l'Europe aura bien du mal à cicatriser. Peu après, il se met à travailler à un nouveau poème, « un poème criséléphan­tesque d'une longueur incommen­surable qui m'occupera pendant les quatre prochaines décennies jusqu'à ce que cela devienne la barbe ». Les Cantos, l'œuvre maîtresse et fondamentale de Pound, était née.

Puis, las de la rigueur anglaise et des Britanniques qu'il juge snobs et hermétiques à toute forme d'art, Pound décide de partir pour la France.

Il débarque dans le Paris léger et enivrant de l'après-guerre lorsque brillent encore les mille feux de l'intelligence et de l'esprit. Les phares de l'époque s'appellent Coc­teau, Aragon, Maurras et Gide. Pound s'installe rue Notre-Dame­-des-Champs et se consacre à la littérature et aux femmes. À Paris toujours, il rencontre Ernest Hemingway, alors jeune joumalis­te, qui écrira que « le grand poète Pound consacre un cinquième de son temps à la poésie, et le reste a aider ses amis du point de vue matériel et artistique. Il les défend lorsqu'ils sont attaqués, les fait publier dans les revues et les sort de prison. »

La France pourtant ne lui convient déjà plus. À la petite histoire des potins parisiens, il préfère l'Histoire et ses remous italiens. L'aura romanesque d'un D'Annun­zio et la brutalité de la pensée fas­ciste l'attirent comme un aimant.


Pound obtient une tribune à la radio de Rome. L'Amérique, « Jew York » et Confu­cius vont devenir ses chevaux de bataille. Pendant des années, le délire verbal et l'insulte vont tenir lieu de discours à Pound, un genre peu apprécié de ses compatriotes...

En 1943 le régime fasciste s'écroule, mais la République de Salo, pure et dure, mêlera la tragédie au rêve. Les GI's triomphants encagent le poète à Pise avant de l'expédier aux États-Unis pour qu'il y soit jugé. « Haute trahison, intelligence avec l'ennemi », ne cessent de rabâcher ses détracteurs nombreux. Pound échappe à la corde mais pas à l'outrage d'être interné pendant douze ans dans un hôpital psychiatrique des environs de Washington. Lorsqu'on lui demanda de quoi il parlait avec les toubibs, il répondit : « D'honneur. C'est pas qu'ils y croient pas. C'est simplement qu'ils n'en ont jamais entendu parler. »
Le 9 juillet 1958, le vieux cowboy revient à Naples et dans une ultime provocation répond à l'attente des journalistes par le salut fasciste, dernier bras d'honneur du rebelle céleste.

• Ezra Pound, le volcan solitaire, John Tytell, Seghers.

vendredi, 10 décembre 2010

Mondialisation, délocalisations, dumping

Mondialisation, délocalisations, dumping

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Tribune libre de Paysan Savoyard, faisant suite à celles parues les 08 avril 2010, 13 juin 2010 et 24 septembre 2010, ces différents articles composant une série consacrée aux politiques économiques et sociales suivies depuis cinquante ans.

Le processus de libéralisation entrepris dans les pays industrialisés à la fin des années 1970 (voir la tribune parue le 24 septembre 2010) s’est accompagné de la mondialisation de l’économie de marché. La mondialisation est le processus qui conduit d’une part la plupart des pays de la planète à adopter l’économie de marché et qui les amène d’autre part à développer entre eux des échanges économiques croissants, échanges qui concernent les biens, les services et les capitaux.

  • La mondialisation : une application des thèses libérales

La mondialisation constitue une application des thèses économiques libérales :

- Le libéralisme préconise en effet que les différents marchés nationaux soient ouverts les uns aux autres. L’ouverture des marchés est profitable pour deux raisons. Elle accroît la concurrence, puisque les acteurs sont plus nombreux, en bénéficiant aux entreprises efficaces à qui elle permet une augmentation du nombre de leurs clients. Elle permet également à ces entreprises des « économies d’échelle » dans le processus de production. Pour ces raisons, le libéralisme prohibe le système inverse : le protectionnisme.

 

- La théorie économique libérale, en second lieu, considère comme souhaitable que s’organise une spécialisation des différents pays en fonction de leurs « avantages comparatifs ». Par exemple il sera profitable aux différents acteurs de l’économie mondiale que les activités industrielles utilisant une main d’oeuvre nombreuse soient concentrées dans les pays où les salaires sont faibles.

Dans la pratique, les États peuvent être tentés de profiter de l’ouverture des autres pays, tout en pratiquant à leurs frontières un protectionnisme plus ou moins discret (c’est le cas des États-Unis, du Japon et de la Chine notamment).

 

  • Les étapes de la mondialisation : diminution des barrières douanières et libération des mouvements de capitaux

La libéralisation des échanges commerciaux va être mise en oeuvre après la guerre entre occidentaux, à l’inspiration des États-Unis. Dès la conférence de Bretton-Woods (1944), un cycle de négociations s’engage pour libéraliser le commerce mondial : il s’agit de procéder à un abaissement des droits de douane et de faire disparaître les normes nationales à effet protectionniste. Ces négociations, cependant, ne concernent pour l’essentiel que les occidentaux et quelques pays non occidentaux membres de l’OCDE, comme le Japon.

La libéralisation du commerce international va changer de dimension et devenir vraiment mondiale à compter du moment où la Chine décide, au début des années 1980, tout en restant dirigée sur un mode autoritaire par le parti communiste, de participer elle aussi progressivement à la mondialisation de l’économie. La chute du « Mur » (1989) et la disparition des blocs accentuent à leur tour la mondialisation. L’économie libérale, qui ne concernait jusque-là que l’occident, va dès lors être adoptée par la quasi-totalité des pays de la planète.

Dans ce contexte d’élargissement géographique de la mondialisation, les États vont prendre à partir des années 1980 deux types de décisions pour développer les échanges commerciaux internationaux :

- Ils vont d’abord décider d’accentuer la libéralisation du commerce extérieur. Les cycles de négociation du GATT, devenu OMC, ne concernent plus cette fois les seuls occidentaux mais la majorité des pays. Ces négociations aboutissent à la poursuite de la politique d’abaissement des droits de douane et des barrières non tarifaires d’une part ; et à l’ouverture de secteurs jusque-là protégés de la concurrence internationale (comme le textile) d’autre part.

Un nouveau cycle de négociation est en cours depuis plusieurs années («  Doha round »), qui a pour objectif de libéraliser les échanges dans le secteur des services et dans celui de l’agriculture (si cette négociation aboutit, elle devrait se traduire notamment par une profonde modification de la politique agricole commune européenne, PAC, et par un abaissement des subventions et garanties dont bénéficient jusqu’à présent les agriculteurs européens).

- Les États participant à la mondialisation vont décider d’autre part de libéraliser les mouvements internationaux de capitaux. Jusqu’aux années 1980 il existait dans la plupart des pays un « contrôle des changes » : toute opération de change de monnaie (par exemple la conversion de francs en marks) ne pouvait s’effectuer qu’avec l’accord des autorités publiques, l’objectif du contrôle des changes étant d’empêcher les sorties massives de capitaux hors du territoire national et de protéger la valeur de la monnaie nationale (en France le contrôle des changes prenait en pratique la forme suivante : au-delà d’un certain montant, la sortie de capitaux nécessitait une autorisation administrative ; en deçà, l’opération de sortie de capitaux faisait l’objet d’une pénalisation financière sous forme d’une obligation de dépôts non rémunérés à la Banque de France).

Dans les années 1980, conformément aux principes de l’économie libérale, les États (occidentaux du moins) qui pratiquaient un contrôle des changes ont décidé de le supprimer et de libéraliser les mouvements de capitaux. En France la décision de supprimer le contrôle des changes est prise par le gouvernement (socialiste) en 1985, avec effet au 1er juillet 1986. Dans le cadre de l’Union européenne, cette décision prend la forme d’une directive adoptée par les gouvernements des États membres le 24 juin 1988).

Ces différentes décisions vont permettre, comme c’était l’objectif, une forte augmentation du commerce mondial, qui va croître à un rythme toujours nettement supérieur à celui de la production (voir les données de l’OCDE).

Ces politiques de libéralisation vont également avoir trois autres conséquences majeures : le développement des délocalisations ; la mise en œuvre d’un processus mondial de dumping ; et la financiarisation de l’économie (il sera traité de ce dernier point dans le cadre du prochain article de la présente série).

 

  • Les conséquences de la mondialisation : délocalisations, désindustrialisation, chômage

Les politiques de libéralisation vont tout d’abord conduire au phénomène des délocalisations. Une partie importante des industries utilisant une main-d’œuvre nombreuse vont être délocalisées dans les pays à bas coûts (concrètement la délocalisation s’effectue de la façon suivante : l’entreprise, française par exemple, qui veut délocaliser sa production crée une filiale dans le pays dans lequel elle veut délocaliser, ferme une unité de production en France, puis transfère la production dans une unité créée ou rachetée par sa filiale ; la production est donc sous-traitée à la filiale ; l’entreprise rapatriera ensuite la partie de la production qu’elle souhaite vendre sur le marché français. Le rapatriement de cette production délocalisée sera considéré par la comptabilité nationale française comme une importation ; du point de vue de l’entreprise il ne s’agira que d’un « échange intra-firme »).

Indice de l’ampleur des délocalisations, le commerce intra-firme représente une part croissance des échanges internationaux (actuellement environ un tiers).

La délocalisation présente pour les entreprises un quadruple avantage : les salaires directs versés dans les pays destinataires sont nettement plus faibles (une délocalisation en Chine permet couramment de diviser le coût salarial par dix) ; la protection sociale, qui augmente le coût salarial, y est faible ou inexistante ; le droit du travail y est peu contraignant ou inexistant ; il en est de même des contraintes environnementales.

Depuis une décennie, ce sont maintenant une partie des emplois de services qui font également l’objet de délocalisations. Sont concernés notamment les centres d’appel ou encore les opérations d’administration des entreprises comme l’affacturage ou l’établissement de la paie.

Ce phénomène de délocalisation stricto sensu (sous-traitance à une filiale d’une production jusque-là située sur le sol national) se double d’un second phénomène d’effet identique : l’importation de biens produits dans des pays à bas coûts par des entreprises étrangères (et non plus, comme dans le cas des délocalisations au sens strict, par des filiales d’entreprises françaises). Ces importations viennent évincer les productions nationales devenues non compétitives (par exemple les centrales d’achat des hypermarchés sont au premier rang des importateurs de produits chinois en France).

De nombreuses zones ont été destinataires de ces opérations de délocalisation (Asie, Maghreb, Europe de l’est…). Cependant le principal acteur du mouvement est la Chine devenu comme on le sait en moins de 20 ans le principal « atelier du monde » (selon un analyste, la part de la Chine dans la production manufacturière mondiale est passée de 7,5 % en 1999 à 18,6 % en 2009 ; Le Monde du 22/11/10)

 

Quels sont les effets des délocalisations ?

Les délocalisations et les importations en provenance de pays à bas coût entraînent dans des pays comme la France un important phénomène de désindustrialisation. La part occupée par le secteur industriel dans le PIB s’est ainsi fortement réduite (elle est passée de 44 % en 1959 à 30 % en 2006 ; sce Insee Première n°1136 mai 2007) ; la part de l’emploi industriel dans l’emploi total s’est contractée encore plus fortement, en raison notamment de l’ampleur des investissements de productivité dans l’industrie, et n’est plus que de 14 % ; voir ce document de l’INSEE ). (Sans que cela change la signification de ces données, il convient d’apporter certaines nuances : par exemple de nombreuses entreprises sous-traitent désormais à des sociétés de service des fonctions périphériques, comme le nettoyage des locaux, qu’elles effectuaient elles-mêmes par le passé ; ce phénomène a pour effet de gonfler la part des services dans le PIB sans incidence sur la réalité de l’activité).

La conséquence majeure reste la suivante : il est extrêmement probable que ce phénomène de délocalisation et de désindustrialisation soit la cause principale du chômage massif auquel un pays comme la France est confronté depuis plusieurs décennies.

 

Il faut ici évoquer les thèses des partisans de la mondialisation, qui affirment tout au contraire que, dans les pays « développés », le commerce international aboutit à créer davantage d’emplois qu’il n’en supprime (voir par exemple INSEE Économie et statistiques 427-428, 2009, p.21 et suivantes). Leur argumentaire repose en particulier sur les éléments suivants :

-Les partisans de la mondialisation considèrent que des pays comme la France sont en effet nécessairement conduits, en raison des inévitables délocalisations, à abandonner les productions « traditionnelles » fortement utilisatrices de main d’œuvre. Ces pays peuvent en revanche – et le doivent – se spécialiser sur des productions « à forte valeur ajoutée » et utilisant des technologies avancées.

Les délocalisations et la croissance des échanges permettent en effet le développement des pays émergents, leur enrichissement et la création dans ces pays d’une classe moyenne et d’un marché intérieur de consommation : ces pays constituent dès lors un débouché pour nos exportations de biens d’équipement et de biens de consommation.

Si elle conduit des pays comme la France à perdre les emplois ouvriers traditionnels, l’économie mondialisée leur permet donc en revanche de développer des emplois qualifiés (conception, marketing, commerce…) dans les secteurs à forte valeur ajoutée. Ce processus de remplacement d’emplois peu qualifiés par des emplois hautement qualifiés correspond à la logique du développement économique des pays avancés.

-Les partisans de la mondialisation font valoir deuxièmement que la délocalisation de certaines productions n’empêche pas la valeur ajoutée attachée à ces productions de rester localisée pour l’essentiel dans les pays développés (en effet dans le prix de vente des produits distribués en Europe ou aux États-Unis, la part correspondant aux coûts de production est devenue faible ; en raison des délocalisations l’essentiel du prix est désormais constitué de la valeur du brevet, de celle du logiciel, du marketing et de la commercialisation. Or ces différentes valeurs restent produites dans les pays occidentaux, dont elles alimentent le PIB).

-Les zélateurs de la mondialisation ajoutent que les salaires et les revenus élevés distribués par l’économie mondialisée sont également à l’origine de la création, dans les pays riches, de nouveaux emplois de service (services à la personne notamment ; par exemple un trader peut créer un emploi de femme de ménage à domicile, ce que ne pouvait faire un ouvrier smicard).

-Les économistes que la mondialisation séduit expliquent enfin que le développement des pays émergents va conduire leurs salariés à obtenir des hausses de salaires, lesquelles égaliseront progressivement les conditions de concurrence et supprimeront à terme les processus de délocalisations.

 

Cet argumentaire mondialiste nous paraît fortement contestable (et pour tout dire grossièrement mensonger) :

-Le scénario de la mondialisation heureuse suppose tout d’abord que des pays comme la France soient à même de maintenir durablement leur position dans les secteurs à forte valeur ajoutée. Or il n’est pas assuré que des pays comme la Chine ou l’Inde ne soient pas capables à terme de développer eux aussi (et à moindre coût) une production dans les domaines de haute technologie (informatique, télécommunications, biotechnologies, nanotechnologies…).

-L’argumentaire pro mondialisation n’est pas recevable, en second lieu, parce que le nombre des emplois supprimés par la désindustrialisation est de toute évidence très supérieur au nombre des emplois générés par la nouvelle économie mondialisée (dans les secteurs de la haute technologie, de la finance …). Le constat découle mécaniquement de la nature même du processus de délocalisation. Les activités à haute valeur ajoutée incorporent davantage de technologie, c’est-à-dire qu’elles requièrent davantage de « facteur capital ». Les types de productions délocalisées sont celles qui au contraire utilisent un « facteur travail » important. Pour le pays qui délocalise et se spécialise sur la production fortement capitalistique, le solde en emplois liés directement à la spécialisation internationale est donc nécessairement négatif.

- En outre les emplois créés par l’économie mondialisée ne sont pas de même nature que les emplois détruits. L’économie mondialisée génère dans nos pays deux types d’emplois, des emplois fortement qualifiés d’une part et des emplois d’exécution sans qualification d’autre part (transport et livraison, services à la personne…). Or les emplois industriels s’adressaient eux à une population à qualification intermédiaire, souvent acquise « sur le tas » au sein de l’entreprise. La désindustrialisation risque donc de se traduire par le « déclassement » d’une partie des emplois et par le basculement d’une partie importante de la population active vers des emplois sans qualification.

-Il faut voir en outre que les emplois industriels supprimés et les emplois de la nouvelle économie ne sont pas situés au même endroit sur le territoire national (du moins dans le cas de la France). On voit mal comment les régions touchées par la désindustrialisation (qui ne sont généralement pas, qui plus est, des régions touristiques) vont pouvoir bénéficier des emplois de haute technologie et de services qui, eux, sont concentrés dans les grandes agglomérations.

-Les partisans de la mondialisation insistent, on l’a vu, sur le fait que les pays développés, s’ils doivent abandonner les emplois industriels peu qualifiés au processus de délocalisation, peuvent en revanche conserver les emplois qualifiés liés aux activités hautement technologiques. Or l’on constate que la délocalisation concerne désormais également des emplois qualifiés. C’est ainsi que les activités de recherche-développement des entreprises font désormais également l’objet de délocalisations.

-L’argument selon lequel le rattrapage progressif des salaires dans les pays émergents supprimera à terme l’intérêt de procéder à des délocalisations ne nous paraît pas davantage recevable. Le processus de rattrapage, en effet, s’il se produit jamais, sera d’une durée telle qu’il n’empêchera pas la désindustrialisation complète des pays occidentaux de se produire d’ici là. On peut de toute façon parier qu’il existera encore longtemps des pays à bas coût qui pourront constituer des réceptacles pour les délocalisations (c’est ainsi par exemple que lorsque les dragons d’Asie du sud-est sont devenus des pays développés, le Japon a automatiquement déplacé ses délocalisations sur le Vietnam).

-Enfin l’argument mondialiste selon lequel les pays d’accueil de nos délocalisations pourront constituer des zones de débouché pour nos exportations est parfaitement illusoire. Les pays dont il s’agit sont en effet fortement protectionnistes (leurs importations représentent une part faible de leurs exportations). Ces pays n’ont de cesse que de développer, à l’abri du protectionnisme et grâce aux transferts de technologie que nous leur consentons, un secteur industriel qui sera à même, le moment venu, de se passer de nos exportations (on se doute bien par exemple que les ventes d’avions, de TGV ou de centrales nucléaires resteront des opérations one shot ; grâce au transfert de technologie que nous accordons, dans une logique d’avidité court-termiste, grâce au copiage et à la contrefaçon, grâce à l’espionnage industriel intense auquel se livrent les chinois, notamment par le biais de leurs étudiants disséminés en occident, la Chine devrait être rapidement en mesure de développer ses propres productions, qui viendront à terme concurrencer les nôtres sur le terrain des prix. Le plus farce, dans le cas de la France du moins, est que les grands contrats d’exportations que nous obtenons à grands renforts de cocoricos sont assortis non seulement de transferts de technologie suicidaires mais également de crédits-acheteurs avantageux supportés par le Trésor français – et in fine le plus souvent par le contribuable – et même parfois d’aides budgétaires aux États acquéreurs). Cette réflexion attribuée à Lénine prend ici tout son sens : « Ils nous vendront jusqu’à la corde avec laquelle nous les pendrons ».

 

Ajoutons ce dernier élément. Les partisans de la mondialisation et des délocalisations s’appuient sur l’exemple de l’Allemagne pour illustrer le fait que la mondialisation peut tout à fait permettre aux anciens pays industriels de rester compétitifs et de dégager d’importants excédents de leur commerce extérieur. L’argument, là encore, ne nous paraît pas probant :

-Le succès du commerce extérieur allemand, en premier lieu, repose sur le fait que les produits allemands bénéficient d’une image de marque qui conduit les consommateurs à accepter d’acquitter un prix élevé (« l’effet qualité l’emporte sur l’effet prix »).  Il reste à démontrer que cet avantage pourra subsister sur le long terme, lorsque les producteurs des pays émergents auront pu, le temps passant, construire eux-aussi des effets de marque.

-Le succès allemand est fondé également sur la politique de contraction salariale qui a été conduite par l’Allemagne cette dernière décennie (alors que le coût salarial allemand était en 2000 encore supérieur à ce qu’il était en France, il est aujourd’hui nettement inférieur ; cf. ce document de l’INSEE). Cette politique constitue une application de la concurrence par le dumping, engendrée par la mondialisation, au détriment des salariés (cf. le paragraphe suivant). La généralisation de cette politique à toute l’Europe se traduirait pour la majorité de la population, par une régression sociale significative.

-Il faut prendre en compte, en outre, le fait que l’Allemagne construit sa compétitivité en procédant elle-même à des délocalisations massives dans les pays à bas coût, notamment dans les pays d’Europe centrale nouveaux adhérents de l’UE. Les produits sous-traités sont packagés et marketés sous marque allemande tout en ayant été fabriqués pour l’essentiel dans les pays à bas coûts. Là encore l’Allemagne utilise les techniques offertes par la mondialisation au détriment des salariés des autres pays européens.

-Enfin l’essentiel des excédents allemands résulte des échanges commerciaux de l’Allemagne avec ses voisins européens. Le succès isolé de l’Allemagne, au détriment des pays européens qui ne se sont pas adaptés au même degré à la nouvelle donne économique, ne signifie donc pas que les pays « développés » pourront collectivement tirer parti de la mondialisation.

 

Le dossier des délocalisations soulève cette dernière question. Si les conséquences de la mondialisation sur l’emploi dans un pays comme la France paraissent fortement négatives, peut-on soutenir que les consommateurs ont toutefois profité de la baisse des prix des produits fabriqués à bas coût ? Les ouvriers devenus chômeurs sont-ils du moins des consommateurs heureux ?

L’appréciation de l’évolution des prix des produits en question est rendue délicate par le fait que, grâce aux progrès techniques, les industriels ont pu introduire dans leurs productions des améliorations qui profitent au consommateur (à prix égal la qualité des voitures, par exemple, s’est améliorée et les prestations se sont étendues). Même si nous n’avons pas de données chiffrées à faire valoir, il nous paraît cependant possible d’affirmer, en écho à ce que ressentent la plupart des consommateurs, qu’à l’évidence les producteurs n’ont pas intégralement répercuté dans leurs prix la très importante baisse des coûts de production engendrée par les délocalisations intervenues ces deux dernières décennies, augmentant par là-même, de façon sans doute significative, leur taux de profit.

 

 

  • Les conséquences de la mondialisation : dumping social, fiscal et environnemental

La seconde conséquence majeure de l’évolution initiée depuis une trentaine d’années est la suivante : la mondialisation débouche sur une généralisation des phénomènes de dumping, à la fois social, fiscal et environnemental, en raison du mécanisme suivant :

Dans l’économie non mondialisée et fortement encadrée par les États qui préexistait à la mondialisation, la puissance publique, comme on l’a vu dans un article précédent, pratiquait des politiques de régulation et d’intervention (impôts élevés, contraintes sociales et fiscales sur les entreprises…). Les détenteurs de patrimoines, propriétaires et dirigeants des entreprises, étaient contraints de s’inscrire dans ce cadre : ils ne pouvaient échapper à ces règles et à ces prélèvements puisque, en raison du contrôle des changes, il leur était impossible de transférer leurs capitaux hors de leur pays de résidence (sauf à tenter en fraude de placer le contenu de « valises de billets » dans des paradis fiscaux, opération dont la nature limitait nécessairement l’ampleur). A compter du moment où le contrôle des changes a été supprimé, les détenteurs de capitaux ont pu décider librement de les transférer dans les pays les plus « accommodants », pratiquant une fiscalité faible et appliquant des règles sociales (niveau de salaires, droit du travail) peu contraignantes pour les employeurs.

Va alors s’exercer un effet de dumping général. Afin que tous les capitaux et hauts revenus ne soient pas transférés dans les pays « accommodants » (ce qui ruinerait et bloquerait l’activité économique des pays « développés », d’Europe occidentale en particulier), ces pays développés sont conduits à aligner dans une certaine mesure leurs standards fiscaux et sociaux sur ceux des pays pratiquant le dumping. Pour ces pays développés, l’abaissement des standards sociaux est également nécessaire pour que les productions restant localisées en Europe conservent une certaine compétitivité face aux importations des pays à bas coûts.

Cet effet de dumping social et fiscal contribue à expliquer l’ensemble des mesures qui ont été prises par les pouvoirs publics dans les pays d’Europe occidentale depuis le début des années 1980, et dont la précédente « tribune », consacrée à la politique de libéralisation, dressait une liste : baisse générale des impôts sur les hauts revenus, sur les patrimoines et sur les bénéfices des sociétés ; libéralisation des conditions d’utilisation du travail à temps partiel, en intérim et des contrats à durée déterminée…

De leur côté les entreprises se sont efforcées de réduire la masse salariale par des investissements de productivité et par la limitation des salaires (c’est ainsi que, comme on l’a vu plus haut, les efforts salariaux demandés aux salariés allemands depuis une décennie contribuent à expliquer le maintien d’un important excédent commercial de l’Allemagne).

 

 

  • La mondialisation a été décidée et organisée par les dirigeants occidentaux

Il faut ici insister sur un point décisif. La mondialisation, contrairement à ce que cherchent à faire croire les politiciens et les oligarques, ne s’est nullement imposée aux pays occidentaux. Ce ne sont pas la disparition du bloc de l’Est et le changement de politique de la Chine qui expliquent, à eux-seuls et au premier chef, les délocalisations et l’effet de dumping général qui les accompagne. Délocalisations et dumping n’ont été rendue possibles que grâce aux décisions stratégiques évoquées plus haut, prises en toute conscience par les dirigeants occidentaux, sous l’influence des Etats-Unis : l’abaissement des barrières douanières et la libération des mouvements de capitaux.

Sans liberté des mouvements internationaux de capitaux, en effet, il n’y a pas de délocalisation possible, car une délocalisation suppose une conversion de fonds en monnaie étrangère. Par exemple un industriel qui souhaite fermer une unité de production en France pour la transférer à l’étranger doit, pour y financer l’achat d’une unité de production, convertir des francs (aujourd’hui des euros) en la monnaie étrangère pratiquée dans le pays d’implantation (il s’agit le plus souvent du dollar). En système de contrôle des changes, cet industriel doit obtenir l’autorisation de l’Etat, qui peut la refuser soit pour protéger la monnaie soit précisément pour éviter les délocalisations. L’opération est en revanche sans contrainte en système de liberté des changes.

Les délocalisations supposent d’autre part un abaissement suffisant des droits de douane. En effet les produits fabriqués de façon délocalisés sont le plus souvent consommés dans les anciens pays de production, l’Europe et les Etats-Unis, les populations des pays émergents ne disposant pas, pour l’heure, d’un pouvoir d’achat suffisant pour les acquérir. Les produits délocalisés sont donc importés par les pays de consommation. Cette importation n’est réalisable que si les droits de douane sont faibles.

On le voit, les deux types de décision étaient nécessairement liées, l’une supposant nécessairement l’autre : sans décision de procéder à la libération des mouvements internationaux de capitaux et sans décision de réduire les barrières douanières, il n’y avait pas de délocalisations possibles.

*

Nous terminerons en soulignant ces trois points :

- Redisons d’abord que la mondialisation est directement liée à la politique de libéralisation qui a été décrite dans le précédent article, et ce doublement :

La mondialisation, tout d’abord, est la mondialisation de l’économie de marché, gérée de façon libérale (en rupture avec le système d’économie mixte pratiquée en Europe occidentale jusqu’au début des années 1980). Mondialisation et libéralisation sont en quelque sorte les deux faces d’une même pièce.

D’autre part les deux phénomènes, comme on l’a vu, s’alimentent et se renforcent l’un l’autre. Un système mondialisé n’est possible que si des mesures de libéralisation sont prises au préalable (baisse des droits de douane, suppression du contrôle des changes). Une fois mis en place, la mondialisation pousse à son tour à de nouvelles mesures de libéralisation (par effet de dumping généralisé).

- Second élément de conclusion: la catégorie des salariés (c’est-à-dire la grande majorité de la population) a pâti de la mondialisation à de nombreux égards (c’est également le cas par voie de conséquence des artisans, commerçants ou agents des services publics situés dans les régions désindustrialisées) : chômage massif ; déqualification d’une partie du stock d’emplois ; pression à la baisse sur les salaires et les conditions d’emploi ; report sur les salariés des charges d’impôt dont se sont débarrassés, à la faveur du phénomène de dumping fiscal, les titulaires de hauts revenus et les détenteurs de patrimoines… Voulue par une petite minorité, la mondialisation n’a profité qu’à celle-ci.

- Autorisons-nous pour finir à quitter quelque peu le registre de la pondération formelle et la tournure d’expression distanciée qui sied au traitement de ces sujets controversés. Les gouvernants qui se succèdent depuis le début du processus de mondialisation (restons ici sur le cas de la France) viennent, à tour de rôle, dire leur désolation devant les conséquences sociales du phénomène, compatir aux malheurs du temps et promettre avec résolution des mesures énergiques pour que les lendemains se remettent à chanter. La caste des journalistes serviles est, elle, chargée de monter en épingle, pour désarmer les critiques et calmer la plèbe, les quelques cas de relocalisation qui paraît-il se produisent (et qui portent sur une poignée d’emplois). La preuve la plus patente de l’hypocrisie de ces oligarques est qu’aucun d’entre eux, jamais, ne songe à remettre en cause la mondialisation. Mieux, leur priorité absolue est de condamner sans relâche « les tentations protectionnistes ».

Appuyons une fois encore sur ce point nodal : la mondialisation n’est en rien le fruit d’évolutions qui échappaient quoi qu’ils fissent aux gouvernements des pays développés ; elle ne constitue aucunement une évolution naturelle qui nolens volens s’imposait. Les mutations géopolitiques (ouverture économique de la Chine, disparition des blocs) ont certes accentué et donné toute sa dimension au processus de mondialisation : mais celui-ci, insistons-y, n’a été rendu possible que par la volonté exprès des gouvernements occidentaux.

La libéralisation et la mondialisation de l’économie revêtent également un autre aspect, celui de la financiarisation, qui constituera le sujet du prochain article.

"Wir sind nicht das Weltsozialamt" - Interview mit Udo Ulfkotte

»Wir sind nicht das Weltsozialamt«

Exklusiv-Interview mit Udo Ulfkotte

Michael Grandt / Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Noch immer schlagen die Wellen in Sachen Migration hoch. Der Publizist Udo Ulfkotte hat schon vor Jahren vor Missständen gewarnt, aber niemand wollte auf ihn hören. In seinem neuen Buch präsentiert er dort Fakten, wo Sarrazin nur Aussagen macht.

Zur Person:

Dr. Udo Ulfkotte ist Jahrgang 1960. Er studierte Kriminologie, Islamkunde und Politik. Von 1986 bis 2003 arbeitete er für die Frankfurter Allgemeine Zeitung – zumeist im Nahen Osten. Er ist Sicherheitsfachmann und wendet sich gegen die schleichende Islamisierung. In zahlreichen Büchern, die Bestsellerauflagen erreichten, hat der Autor über die von den Medien verschwiegene Entwicklung aufgeklärt. Der Schweizer Journalist Beat Stauffer nannte Ulfkotte 2007 einen der »härtesten deutschen Islamismus-Kritiker« und berichtete: »(…) auch erklärte Gegner anerkennen, dass sich Ulfkotte auf der Ebene der Fakten nicht so leicht widerlegen lässt.« Viele muslimische Mitbürger haben zur Ermordung von Ulfkotte und seiner Familie aufgerufen, die nun an einem geheimen Ort lebt. Zuletzt erschien im Kopp Verlag sein Buch Kein Schwarz. Kein Rot. Kein Gold., über das in der Mainstreampresse bereits kontrovers diskutiert wird.

Michael Grandt: Warum sind Sie überhaupt zu einem der hartnäckigsten Islam-Kritiker in Deutschland geworden?

Udo Ulfkotte: Ich bin mit einem ziemlich naiven Weltbild nach einem Studium von Jura, Politik und Islamkunde zur Frankfurter Allgemeinen Zeitung gekommen, wo ich 17 Jahre aus der islamischen Welt berichtet habe. Zwischen dem, was mir deutsche Universitäten über die islamische Welt und Muslime vermittelten, und der Realität bestand ein Unterschied wie zwischen Tag und Nacht. Der aus unserer westlichen Sicht so friedfertige Islam begegnete mir überall in der islamischen Welt absolut unfriedlich. Überall dort, wo Muslime und Christen oder Muslime und Nicht-Muslime zusammenleben, gibt es irgendwann Bürgerkrieg oder Krieg. Nach 17 Jahren Realitätserfahrung vor Ort habe ich feststellen müssen, dass auch meine europäische Heimat durch die Zuwanderung von immer mehr Muslimen in genau das abgleitet, worüber ich viele Jahre aus fernen Ländern berichtet habe: Parallelgesellschaften, der Vormachtanspruch und das Überlegenheitsgefühl der Muslime, die Beanspruchung von Sonderrechten, wie Migrantenbonus vor Gericht, die Behandlung von Nicht-Muslimen, also ethnischen Europäern als Menschen zweiter Klasse, und vor allem: horrende Kosten, die wir für vergebliche Integrationsversuche ausgeben. Jegliche Kritik an diesen Zuständen wird oder besser gesagt wurde in Europa über Jahre brutal mit der Nazi-Keule unterdrückt.

Zum Islam-Kritiker hat mich die Bundesregierung gemacht. Ich habe viele Sachbücher geschrieben und wäre nie Islam-Kritiker geworden, hätte mir dieser Staat nicht sechs Hausdurchsuchungen verordnet. In den Durchsuchungsbeschlüssen stand jedes Mal, ich hätte möglicherweise »Dienstgeheimnisse« verraten. Ich hatte ganz normal über das Verhalten von Muslimen berichtet – allerdings über das Verhalten jener Muslime, die von der Bundesregierung hofiert und zu Islam-Gipfeln eingeladen werden. Ich hatte von Sicherheitsbehörden Unterlagen zugespielt bekommen, die das wahre Gesicht einiger dieser Menschen deutlich zeigten. Und dann kam die Rache dieses Staates – die Hausdurchsuchungen. Der Überbringer der Botschaft wurde geköpft, die Wahrheit galt als »Dienstgeheimnis«. Seither interessiert mich politische Korrektheit nicht mehr. Lange vor Sarrazin habe ich die Dinge beim Namen genannt und auch belegt. Ich habe bei den Durchsuchungen gemerkt, dass wir Bürger für die Herrschenden nur Stimmvieh sind, das alle paar Jahre ein Kreuzchen machen darf. Und ich habe erfahren müssen, dass die Regierenden die schleichende Islamisierung Europas schlicht nicht interessiert. Die Parteien interessiert nur das nächste Kreuzchen des Stimmviehs. Und ob das Stimmvieh in ein paar Jahren in einem islamischen oder aber einem anderen Staatswesen lebt, das interessiert die da oben ganz bestimmt nicht. Auf dem Gebiet, auf dem ich mich auskenne – dem Islam und der Islamisierung Europas – mache ich also den Mund auf, damit unsere Kinder einmal später sehen, dass nicht alle geschwiegen haben.

Michael Grandt: Ihre Gegner werfen Ihnen eine »Islamophobie« und ein eingeengtes Weltbild vor, was sagen Sie dazu?

Udo Ulfkotte: Islamophobie ist nach der Wortbedeutung eine an Wahn grenzende Angst vor dem Islam. Islamophobie ist heute vor allem unter Muslimen verbreitet, etwa unter Sunniten, die Schiiten hassen, oder unter Schiiten, die Sunniten hassen. Überall in der islamischen Welt werden täglich Muslime Opfer dieser hasserfüllten islamophoben Wahnvorstellungen. Die weisen Politiker der westlichen Welt haben keine Erklärung dafür, warum es Islamophobie unter Muslimen gibt. Sie nennen es vielmehr nur Islamophobie, wenn Europäer nicht freudig erregt ihre eigene Verdrängung durch Muslime in Europa begrüßen. Wenn Hunderttausende Türken im Frühjahr 2007 in ihrer Heimat gegen die Islamisierung ihres Landes demonstrieren, dann ist das aus westlicher Sicht keine Islamophobie, sondern ein friedlicher Massenprotest. Zeitgleich wird jegliche Kritik am Islam in westlichen Staaten von Muslimen unter dem Beifall von Intellektuellen als »Islamophobie« bezeichnet. Das ist schizophren. Das zeigt, wie krank unsere Politiker und Intellektuellen sind. Der Begriff »Islamophobie« stammt übrigens von der terroristischen islamischen Gruppe Hizb ut-Tahrir, die in Deutschland verboten ist. Wenn mir also jemand »Islamophobie« vorwirft, dann ist das bei näherer Betrachtung so, als ob mir ein Nazi vorwirft, dass ich seine Ideologie nicht teile. Ich habe tiefstes Mitleid mit jenen, die so dumm sind und Kampfbegriffe wie »Islamophobie«, die von islamischen Terrorgruppen kreiert worden sind, unkritisch nachplappern.

Michael Grandt: Was unterscheidet Ihre neue Publikation Kein Schwarz. Kein Rot. Kein Gold. von dem Buch Sarrazins?

Udo Ulfkotte: Zu jeder Aussage des Buches gibt es die Originalquellen. Insgesamt rund tausend Quellen, die man im Internet mühelos anklicken kann. Wenn man also schlicht nicht glauben will, dass Migranten aus den deutschen Sozialversicherungssystemen schon bis 2007 mehr als eine Billion (!) Euro mehr herausgenommen als in diese einbezahlt haben, dann klickt man auf der zum Buch gehörenden Website die Fundstelle an und kann sich vom Wahrheitsgehalt dieser Aussage überzeugen. Wer nicht glaubt, dass wir Steuerzahler gewalttätigen Migranten Boxkurse finanzieren, anatolischen Frauen Kurse, in denen sie lernen, einen Tampon zu benutzen oder wie man ein Hemd bügelt, dann schlägt man die Originalquelle nach. Und dann wird einem schnell klar, dass ethnische Europäer längst schon Menschen zweiter Klasse sind, die immer öfter nur noch dafür arbeiten, die unglaublichen Leistungen für Migranten zu finanzieren. Wussten Sie, dass wir seit Jahrzehnten Türken und Mitglieder von Balkan-Großfamilien, die noch nie in Europa gewesen sind, kostenlos und ohne einen Cent Zuzahlung, in der gesetzlichen deutschen Krankenversicherung mitfinanzieren? Davon können ethnische Deutsche, deren Krankenkassenbeiträge ständig erhöht werden, nur träumen. Wussten Sie, dass die Bundesregierung seit 2003 versprochen hat, diese Benachteiligung ethnischer Deutscher endlich zu beenden, es aber bis heute nicht getan hat? Wussten Sie, dass schon mehr als 40 Prozent der Sozialhilfebezieher in Deutschland Ausländer sind und die von ihnen verursachten Kosten für die Steuerzahler pro Jahr (!) höher sind als die Kosten der Finanzkrise? Der Unterschied zum Sarrazin-Buch besteht in der Dichte der Fakten und den direkt präsentierten Belegen. Tausend unglaubliche Fakten – und tausend Quellen. Da kann man nicht mehr sagen, dies oder das ist »rechtsextrem«, denn es sind Fakten. Sarrazin trifft Aussagen, ich präsentiere Fakten. Die Resonanz der Medien ist aufschlussreich: All jene, die über Sarrazin diskutiert und sich aufgeregt haben, schweigen zu meinem Buch. Ist doch klar: Sie kommen an den Fakten nicht vorbei. Wie wollen Journalisten denn den Bürgern da draußen erklären, dass es gut für uns ist, wenn Türken, die noch nie in Deutschland gewesen sind, in Anatolien in der deutschen Gesetzlichen Krankenversicherung versichert sind? Während wir Deutsche ständig neue Zusatzzahlungen für die Krankenversicherung leisten müssen, sind türkische Familienangehörige in der Türkei kostenlos mitversichert. Das erklären Sie mal einem deutschen Beitragszahler …

Michael Grandt: Wie lautet die zentrale Aussage Ihres Buches?

Udo Ulfkotte: Migranten aus islamischen Staaten sind Wohlstandsvernichter. Weil wir nicht das Weltsozialamt sind, müssen wir unsere Gastarbeitslosen wieder zum Gehen auffordern. Sonst bricht der Sozialstaat in weniger als 48 Monaten zusammen. Denn wir finanzieren das gerade schon mit den Steuergeldern unserer noch nicht einmal gezeugten Kinder.

Michael Grandt: Sehen Sie Unterschiede in der Wahrnehmung Ihrer kritischen Publikationen zwischen der intellektuellen Elite, dem medialen Establishment und dem Normalbürger?

Udo Ulfkotte: Da gibt es ganz gewaltige Unterschiede. Wenn man sich vor Augen hält, dass ein normales Sachbuch zu dieser Thematik von mir in kurzer Zeit irgendwo zwischen 60.000 und 100.000 Mal verkauft wird, meine Bücher allerdings in Medien fast nie erwähnt werden, dann zeigt das den volkspädagogischen Charakter unserer Medien und intellektuellen Eliten. Bücher, die kaum 2.000 Mal verkauft werden, werden überall besprochen, wenn sie nur politisch korrekt sind. Mich stört das allerdings nicht. Denn jene, die meine Bücher kaufen, bestellen die Zeitungen, die sich so verhalten, irgendwann ganz einfach ab. Die Qualitätsmedien schaufeln sich ihr eigenes Grab, indem sie ihre Kunden vergraulen. Eigentlich schade, aber wenn sie so dumm sind, kann ich es auch nicht ändern.

Michael Grandt: Haben Sie Drohungen erhalten?

Udo Ulfkotte: Ich kann die nicht mehr zählen. Von 2002 bis Ende 2003 hatte meine Familie wegen der vielen Morddrohungen Polizeischutz. Wir sind nach Angriffen mehrfach umgezogen. Wir haben heute zum Schutz scharfe Wachhunde. Ein Angreifer wäre in Sekundenbruchteilen Hackfleisch. Die letzte Morddrohung stammt übrigens von einem Produzenten von Xavier Naidoo. Der hatte vor wenigen Wochen öffentlich einen Preis für denjenigen ausgesetzt, der mir den Kopf abschneidet. Das Verfahren ist derzeit bei der Staatsanwaltschaft Hamburg anhängig. Es gibt leider immer mehr von diesem Bodensatz unserer Gesellschaft, der sich selbst dabei auch noch witzig findet, um den sich die Staatsanwaltschaften kümmern müssen.

Michael Grandt: Sie sind ebenfalls sehr kritisch, wenn es um die Politik islamischer Staaten geht. Wie verhält es sich im Falle Israels, das immer wieder Menschenrechte bricht und sich um keine UN-Resolutionen schert?

Udo Ulfkotte: Ich habe nicht das geringste Problem damit, den Staat Israel zu kritisieren. Wo Kritik angebracht ist, da muss man sie auch offen äußern.

Michael Grandt: Ich danke Ihnen für dieses Gespräch.

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Publikationen von Udo Ulfkotte:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La génération de l'échec

La génération de l'échec

Par Michel Geoffroy

Ex: http://www.polemia.com/ & http://fortune.fdesouche.com.

La génération au pouvoir dans les pays européens depuis la fin du XXe siècle restera devant l’histoire comme la génération de l’échec. C’est la génération de mai 1968, fille spirituelle des lanceurs de pavés, des fumeurs de joints et des idolâtres de Mao et de Che Guevara.

Car elle a tout raté, sauf précisément parvenir à cumuler les pouvoirs médiatiques, culturels, politiques et économiques en Occident et en profiter. Mais quel usage a-t-elle fait de son pouvoir sans précédent ?

 

Elle prend le pouvoir au moment où l’Europe voit disparaître la menace soviétique et, avec elle, la coupure entre l’Est et l’Ouest : une chance historique pour notre continent de retrouver son unité et son indépendance.

Mais nos soixante-huitards n’ont eu de cesse de se placer sous le giron des Etats-Unis et de l’OTAN. Nos pacifistes ont embarqué sans remords les Européens, transformés en valets d’armes américains, dans la guerre du Golfe, dans la guerre contre la Serbie, contre l’Irak, « contre le terrorisme » et envoyé nos soldats dans le guêpier afghan. Ils s’efforcent aussi d’isoler la Russie, pour le plus grand profit des intérêts stratégiques américains.

L’Europe disposait d’atouts économiques puissants et, en particulier, de la perspective d’un grand marché préférentiel. Les soixante-huitards, à la remorque des Britanniques, nous ont précipités dans l’impasse du libre–échange mondialiste.

Résultat : l’Union européenne est le seul espace économique au monde qui ne se protège pas, avec pour conséquence la désindustrialisation, l’immigration de peuplement, le chômage structurel, la stagnation et l’explosion des charges sociales pesant sur la collectivité.

Au seuil du dernier quart du XXe siècle, les Etats européens étaient solides, les finances publiques équilibrées et, le système politique, démocratique à l’Ouest. La génération de l’échec a sabordé en quelques années, sur l’autel de la supranationalité européenne, mille ans d’héritage européen : le respect des frontières, la suprématie de la loi, la maîtrise de la monnaie, le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes.

Résultat : elle a instauré un système post–démocratique reposant sur la coupure entre le peuple et la super-classe dirigeante, et la réduction permanente des libertés pour les autochtones.

Et tout cela pour rien. Car elle a aliéné nos libertés nationales au profit d’une entité sans forme, qui n’est ni une fédération, ni une confédération, ni un Etat et qui ne sait même pas définir où est sa frontière, ni qui est européen. Qui n’a pas le droit de venir en aide aux Etats en crise. Qui est un néant impolitique, impuissant et verbeux.

L’Union européenne n’assure ni la prospérité, ni la sécurité, ni la liberté des Européens. Ce n’est qu’une bureaucratie, machine à détruire les identités et les libertés.

Les soixante-huitards ont ouvert les portes de l’immigration de peuplement au nom de l’idéologie des Droits de l’homme et de la repentance antiraciste. Ils pensaient enfin avoir trouvé un prolétariat à défendre !

Résultat : l’Europe est désormais confrontée au communautarisme, au problème noir et à l’islamisme, mais pour le plus grand bénéfice des entreprises transnationales dirigées par la génération de l’échec.

La génération de l’échec a présidé à la mise en place d’un système économique qui augmente les inégalités sociales, alors qu’elles se réduisaient au XXe siècle. Elle a démantelé toutes les institutions qui faisaient la société, au nom du dogme de la libération de l’individu réputé libre dans un marché ouvert, et des vertus de la dérégulation.

Résultat : les sociétés européennes, réduites au marché, implosent. Les finances publiques des Etats européens sont aujourd’hui toutes en déficit, car elles croulent sous les dettes et les charges sociales, conséquence du libre-échangisme mondialiste et de la dénatalité.

L’Europe disposait d’une culture riche, ancienne, vivante et rayonnante.

La génération de l’échec, au nom de l’avant-gardisme et de la révolution culturelle, a tout cassé. L’Europe s’est, certes, peuplée de musées, mais c’est parce que sa culture a été tuée par la génération de l’échec, justement. Elle est morte et c’est pour cela qu’elle est remisée dans des vitrines.

La génération de l’échec a instauré un nouvel académisme : celui de l’art déraciné marchand. Elle a ouvert la culture européenne à la déferlante des produits standardisés américains et à la tyrannie de l’anglais. Elle a laissé sombrer les écoles et les universités en imposant ses théories pédagogiques libertaires.

La génération de l’échec n’a aucune excuse. Elle n’a été confrontée ni à la guerre, ni à la décolonisation, ni à la misère. Elle a hérité, au contraire, d’un monde en paix, vivant dans l’aisance et l’espoir de lendemains encore meilleurs.

Au surplus, elle est restée sourde aux inquiétudes qu’exprimaient de plus en plus fortement les peuples européens, face aux orientations qu’elle faisait prendre à nos sociétés. Sa seule réponse a été le mépris, la répression et la censure des voix dissidentes.

Car la génération de l’échec, du haut de sa prétention qui n’a d’égale que son inculture, prétendait posséder seule les secrets du bonheur et de la fin de l’Histoire. Elle se dit cosmopolite, mais en réalité elle ne connaît pas le monde, ni sa géographie, ni son Histoire.

C’est une génération d’enfants gâtés, qui s’est comportée en héritier frivole qui dilapide le capital familial en menant grand train – le capital de tous les Européens.

Mais voici que les créanciers sonnent à la porte.

Et que s’avance le tribunal de l’Histoire.

Polémia

Was Julian Assange treibt

Was Julian Assange treibt

Michael WIESBERG

Ex: http://www.jungefreiheit.de/

wikileaks-julian-assange.jpg„Mächtige spüren die Macht der Hackerethik“ übertitelte Christian Stöcker Ende letzter Woche einen Artikel für Spiegel-Online, in dem er unter anderem auf den Hacker-Guru Steven Levy zu sprechen kam. Levy brachte 1984 mit seinem Buch „Hackers. Herores of the Computer Revolution“ der Welt zum ersten Mal die Hackerszene nahe, deren Anfänge bereits in den 1950er Jahren lagen. Beschrieben wird, wie sich mit der schrittweisen Entwicklung des Computers „etwas Neues verdichtete ...: eine neue Lebensweise mit einer Philosophie, einer Ethik und einem Traum“.

Levy war es, der wohl als erster so etwas wie eine „Hackerethik“ entwickelte, die unter anderem im Beitrag von Boris Gröndahl zu dem Buch „Netzpiraten. Die Kultur des elektronischen Verbrechens“ (Hannover 2001, S. 145) nachgelesen werden kann. In Kürze lautet die sechs ethischen Prinzipien der Hackerszene:
1. Der Zugang zu Computern sollte unbegrenzt und umfassend sein.
2. Alle Informationen sollten frei sein.
3. Mißtraue Autorität – fördere Dezentralisierung.
4. Hacker sollten nur anhand ihres Hackens beurteilt werden.
5. Mit einem Computer kann Kunst und Schönheit erzeugt werden.
6. Computer können das Leben verbessern.
 

Offenere Formen des Regierens

Julian Assange, Gründer von WikiLeaks mit einschlägiger Hacker-Vergangenheit, hat aus diesem Kanon der Hackerethik insbesondere die Regel 2 radikal ausgelegt, wie Stöcker feststellt: Wenn alle Information öffentlich sei, so Assange, könne das für die Menschheit nur vorteilhaft sein. Dies deshalb, weil man nur so auf enthüllte Ungerechtigkeit antworten bzw. nur so die Ungerechtigkeit in der Welt bekämpfen könne.

Assange überbietet Levy indes in einem ganz bestimmten Punkt: er äußerte nämlich die Überzeugung, „ungerechte Systeme“ mit Datenlecks kippen zu können – damit sie durch „offenere Formen des Regierens ersetzt werden können“. In diesem Zusammenhang stellt sich unter anderem die Frage, wer darüber entscheidet, was ein „ungerechtes System“ ist. Nimmt man Assange beim Wort, fällt darunter wohl auch die USA, deren „Datenlecks“ er und seine Mitstreiter ohne Beachtung irgendeines Datenschutzes radikal ausnutzten. Assange nimmt in Kauf, daß durch sein Vorgehen unterschiedslos Politiker, Journalisten, Informanten, Botschaftspersonal etc. mit möglicherweise gravierenden Konsequenzen denunziert werden.

Die totale Informationsfreiheit

Polithacker wie Assange wollen – dieser Eindruck drängt sich zumindest auf – eine grundsätzlich andere Welt bzw. andere, „neue“ Menschen. Ein Hebel dazu ist die „totale Informationsfreiheit“. Dafür gibt es bereits einen Begriff, der sich „postprivacy“ nennt. Ein Vertreter dieser Szene, nämlich Michael Seemann, erklärt denn auch ganz lakonisch: „Wir steuern auf eine Gesellschaft zu, in der es keine Geheimnisse mehr gibt. Das wird nicht der Weltuntergang sein, wir müssen uns nur darauf einstellen.“

Stöcker resümiert den dahinterliegenden Kerngedanken wie folgt: „Wenn alles offen ist, muß sich niemand mehr vor Veröffentlichungen fürchten.“ Dieser „ideologische Ansatz“, so urteilte Christian Malzahn in einem Beitrag für Welt-Online, machen den „digitalen Revolutionsführer“ [Assange] „zu einem klassischen Anarchisten. Je mehr Leaks der Internet-Guevara produzieren kann, umso effektiver die digitale Revolution“.

Das Ende der Öffenlichkeit

Es bedarf keiner großen Phantasie, um zu erkennen, daß dieses Szenario nicht zu einer „offeneren Form des Regierens“ führt, sondern in eine menschenfeindliche Gesellschaft, die keine Abgrenzung mehr zwischen dem privaten und dem öffentlichen Raum zuläßt. Wo befürchtet werden muß, daß letztlich alles „öffentlich“ werden kann, gibt es keine Privatsphäre mehr. Es zerfällt dann aber auch die „Öffentlichkeit“ als Forum gesellschaftlicher Erfahrung und kulturellen Austauschs, der auf der Basis bestimmter Konventionen stattfindet.

Ein Austausch indes, der einzukalkulieren hat, daß all das, was auf der Basis gegenseitigen Vertrauens ausgetauscht wird, öffentlich werden kann, findet nicht mehr statt. Was das für die menschliche Kommunikation insgesamt bedeutet, mag man sich unschwer ausmalen. „Cablegate“, also die unterschiedslose (aktuell ins Stocken geratene) Veröffentlichung vertraulicher Diplomatendepeschen durch WikiLeaks, ist vor diesem Hintergrund ein erster Schritt in diese Gesellschaft, in „der es keine Geheimnisse mehr geben soll“.

Michael Wiesberg, 1959 in Kiel geboren, Studium der Evangelischen Theologie und Geschichte, arbeitet als Lektor und als freier Journalist. Letzte Buchveröffentlichung: Botho Strauß. Dichter der Gegenaufklärung, Dresden 2002.

Machtansprüche

Machtansprüche

Panajotis_Kondylis.gifDer existenzielle Ernst der Lage macht ... den Diskurs nicht nur unmöglich, sondern auch überflüssig, es sei denn, einer der Feinde zeigt sich geneigt, seine Identität (teilweise) aufzugeben bzw. die Objektivierung seiner Entscheidung zurückzunehmen.... Diesen Grundgegebenheiten kann niemand entgehen, so sehr er auch die Notwendigkeit des ’vernünftigen' Diskurses hervorhebt. Selbst dieser Akt hat aber einen polemischen Sinn, er... drückt... die Machtansprüche derjenigen aus, die die eigene starke Seite im Debattieren und Argumentieren erblicken, d.h. er artikuliert in sublimierter Form die Hoffnungen der Kleinbürger des Geistes, sie könnten härteren Kampfformen ausweichen, denen sie nicht gewachsen sind und in denen ihre Stimme und Existenz völlig bedeutungslos wäre.

Panajotis Kondylis, Macht und Entscheidung. Die Herausbildung der Weltbilder und die Wertfrage. Stuttgart, 1984.
 
Gefunden auf: http://rezistant.blogspot.com/

La triade homérienne

La triade homérienne

par Dominique VENNER

Ex: http://engarda.hautetfort.com/

homere.jpgPour les Anciens, Homère était « le commencement, le milieu et la fin ». Une vision du monde et même une philosophie se déduisent implicitement de ses poèmes. Héraclite en a résumé le socle cosmique par une formulation bien à lui : « L’univers, le même pour tous les êtres, n’a été créé par aucun dieu ni par aucun homme ; mais il a toujours été, est et sera feu éternellement vivant… »

1. La nature comme socle

Chez Homère, la perception d’un cosmos incréé et ordonné s’accompagne d’une vision enchantée portée par les anciens mythes. Les mythes ne sont pas une croyance, mais la manifestation du divin dans le monde. Les forêts, les roches, les bêtes sauvages ont une âme que protège Artémis (Diane pour les Romains). La nature tout entière se confond avec le sacré, et les hommes n’en sont pas isolés. Mais elle n’est pas destinée à satisfaire leurs caprices. En elle, dans son immanence, ici et maintenant, ils trouvent en revanche des réponses à leurs angoisses :

« Comme naissent les feuilles, ainsi font les hommes. Les feuilles, tour à tour, c’est le vent qui les épand sur le sol et la forêt verdoyante qui les fait naître quand se lèvent les jours du printemps. Ainsi des hommes : une génération naît à l’instant où une autre s’efface » (Iliade, VI, 146). Tourne la roue des saisons et de la vie, chacun transmettant quelque chose de lui-même à ceux qui vont suivre, assuré ainsi d’être une parcelle d’éternité. Certitude affermie par la conscience du souvenir à laisser dans la mémoire du futur, ce que dit Hélène dans l’Iliade : « Zeus nous a fait un dur destin afin que nous soyons plus tard chantés par les hommes à venir » (VI, 357-358). Peut-être, mais la gloire d’un noble nom s’efface comme le reste. Ce qui ne passe pas est intérieur, face à soi-même, dans la vérité de la conscience : avoir vécu noblement, sans bassesse, avoir pu se maintenir en accord avec le modèle que l’on s’est fixé.

2. L’excellence comme but

A l’image des héros, les hommes véritables, nobles et accomplis (kalos agatos), cherchent dans le courage de l’action la mesure de leur excellence (arétê), comme les femmes cherchent dans l’amour ou le don de soi la lumière qui les fait exister. Aux uns et aux autres, importe seulement ce qui est beau et fort. « Etre toujours le meilleur, recommande Pelée à son fils Achille, l’emporter sur tous les autres » (Iliade, VI, 208). Quand Pénélope se tourmente à la pensée que son fils Télémaque pourrait être tué par les “prétendants” (usurpateurs), ce qu’elle redoute c’est qu’il meurt « sans gloire », avant d’avoir accompli ce qui ferait de lui un héros à l’égal de son père (Odyssée, IV, 728). Elle sait que les hommes ne doivent rien attendre des dieux et n’espérer d’autre ressource que d’eux-mêmes, ainsi que le dit Hector en rejetant un présage funeste : « Il n’est qu’un bon présage, c’est de combattre pour sa patrie » (Iliade, XII, 243). Lors du combat final de l’Iliade, comprenant qu’il est condamné par les dieux ou le destin, Hector s’arrache au désespoir par un sursaut d’héroïsme tragique : « Eh bien ! non, je n’entends pas mourir sans lutte ni sans gloire, ni sans quelque haut fait dont le récit parvienne aux hommes à venir » (XXII, 304-305).

3. La beauté comme horizon

L’Iliade commence par la colère d’Achille et se termine par son apaisement face à la douleur de Priam. Les héros d’Homère ne sont pas des modèles de perfection. Ils sont sujets à l’erreur et à la démesure en proportion même de leur vitalité. Pour cette raison, ils tombent sous le coup d’une loi immanente qui est le ressort des mythes grecs et de la tragédie. Toute faute comporte châtiment, celle d’Agamemnon comme celle d’Achille. Mais l’innocent peut lui aussi être soudain frappé par le sort, comme Hector et tant d’autres, car nul n’est à l’abri du tragique destin. Cette vision de la vie est étrangère à l’idée d’une justice transcendantale punissant le mal ou le péché. Chez Homère, ni le plaisir, ni le goût de la force, ni la sexualité ne sont jamais assimilés au mal. Hélène n’est pas coupable de la guerre voulue par les dieux (Iliade, III, 161-175). Seuls les dieux sont coupables des fatalités qui s’abattent sur les hommes. Les vertus chantées par Homère ne sont pas morales mais esthétiques. Il croit à l’unité de l’être humain que qualifient son style et ses actes. Les hommes se définissent donc au regard du beau et du laid, du noble et du vil, non du bien ou du mal. Ou, pour dire les choses autrement, l’effort vers la beauté est la condition du bien. Mais la beauté n’est rien sans loyauté ni vaillance. Ainsi Pâris ne peut être vraiment beau puisqu’il est couard. Ce n’est qu’un bellâtre que méprise son frère Hector et même Hellène qu’il a séduite par magie. En revanche, Nestor, en dépit de son âge, conserve la beauté de son courage. Une vie belle, but ultime du meilleur de la philosophie grecque, dont Homère fut l’expression primordiale, suppose le culte de la nature, le respect de la pudeur (Nausicaa ou Pénélope), la bienveillance du fort pour le faible (sauf dans les combats), le mépris pour la bassesse et la laideur, l’admiration pour le héros malheureux. Si l’observation de la nature apprend aux Grecs à mesurer leurs passions, à borner leurs désirs, l’idée qu’ils se font de la sagesse avant Platon est sans fadeur. Ils savent qu’elle est associée aux accords fondamentaux nés d’oppositions surmontées, masculin et féminin, violence et douceur, instinct et raison. Héraclite s’était mis à l’école d’Homère quand il a dit : « La nature aime les contraires : c’est avec elle qu’elle produit l’harmonie. »

Dominique Venner, « La Nouvelle Revue d’Histoire », n°43, juillet-août 2009. Mis en ligne sur le site de Dominique Venner.

 

jeudi, 09 décembre 2010

Rechtspopulisten auf dem rechten Weg?

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Rechtspopulisten auf dem rechten Weg?

Eigentlich  hatte die europäische Einigung nach amerikanischem  Muster das  ehrgeizige Ziel, das Modell National  zu überwinden.  Das ist nachweislich mißlungen. Die Europäische Union hat, im Gegenteil, mit ihrer verrückten Politik die nationalen Geister, die man verbannen wollte, vorerst zu neuen Taten erweckt. Es ist vor allem der rechte Populismus, der in diesem Europa ohne Grenzen seine Aktionsbasis gefunden hat, von der aus Fragen von nationalem Interesse und solche der Identitäten  in Angriff genommen werden konnten. Was man auch reichlich genützt hat und weiter nützt.                                           

Von Portugal bis Bulgarien, von Schweden bis Italien haben sich populistische Parteien und Organisationen mit unterschiedlichem Erfolg etabliert. Diesen  Erfolg verdankt man politischen Fehlern und ökonomischen Problemen der herrschenden Eliten, vermehrt aber der Gefahr einer Islamisierung durch ungezügelte Zuwanderung. Letzteres Problem hat nun eine weitere außereuropäische Kraft auf den Plan gerufen: die israelische Rechte und deren Ableger in Europa. Erst durch das stille bis offene Engagement dieser  an der Seite einiger rechten Parteien und Gruppieren hat sich die Lage für die bisher eher als Antisemiten und Ausgegrenzte geltenden Populisten entscheidend verbessert. Jetzt  sieht man sie, mit dem Segen der einen israelischen Reichshälfte ausgestattet, endlich regierungsfähig.                                                                                                                             

Ehe ich in einem späteren Kommentar auf diese  merkwürdige Kooperation  und  auf einige zu Philosemiten gewandelte Akteure näher zu sprechen komme, doch einige klärende Bemerkungen zum rechten Populismus  an sich.                                                                                                                                                                                                  Ein wichtiges  Merkmal dieser populistischen Bewegungen sehe  ich darin, daß sie als wählbare  und demokratische Kraft  anerkannt werden wollen. Also als  politische Organisation innerhalb des Verfassungsbogens in gleicher Weise respektiert zu werden  wie die etablierten großen  Parteien.  Die Populisten wollen das System gewiß nicht beseitigen, sondern nur dessen Auswüchse, dazu eben die unkontrollierte Einwanderung, die Ideologie der Globalisierung oder die Spekulation gehören.  Allerdings können oder wollen sie nicht begreifen, daß die von ihnen angeprangerten Fehler und Mißstände unentwirrbar mit dem so hoch gepriesenen demokratischen System universellen Zuschnitts verknotet  sind.                                                                                                   

Insofern  können  wir einen Widerspruch feststellen, der eben darin besteht, daß man nicht Vollmitglied und Stütze des Systems und gleichzeitig dessen entschiedener Kritiker sein kann, ohne früher oder später unglaubwürdig zu werden.  Außerdem  fehlt den Populisten, nicht selten sehr einfache Gemüter, das nötige in sich gefestigte ideologische oder weltanschauliche Brecheisen, eine Doktrin,  um die herrschenden Denkzirkeln und Ideologien aus den Angeln zu heben. Es ist jedoch, wie gesagt, unmöglich ein System zu ändern oder auszuwechseln, wenn man selbst zum Räderwerk des herrschenden gehört. Wenn überhaupt, müßte in diesem Fall  eine solche Initiative aus dem innersten Kern des Systems selbst kommen, um Erfolg zu haben. Diesem Kern aber gehören die rechten Populisten nicht an und werden ihm auch nicht angehören  können ohne sich selbst oder die Ideale, für die man angetreten ist, ganz aufzugeben.

Es ergibt sich also, daß alle rechten populistischen Bewegungen nur Erfolg haben können, wenn  sie die selbe politische und demokratische Philosophie vertreten und im Grunde das selbe materielles Glück verheißende  Ziel anstreben wie ihre das System stützenden Konkurrenten am Platz. Da stellt sich natürlich für andere die Frage: soll man an Wahlkämpfen gar nicht teilnehmen. Man soll, unter der Voraussetzung, daß man sich nicht in den Fängen des Systems  wiederfindet, daß man nicht (wie jetzt die linken Populisten in Wien) über den  Tisch gezogen wird (von welcher Seite auch immer) und daß man  nicht als nützliche Idioten  am pseudodemokratischen Spiel teilnimmt.                                              

Die Teilnahme an Wahlen oder an einer Regierung darf nicht dazu führen, daß das korrupte  System dadurch funktionsfähig bleibt oder gestärkt wird, sondern hat einzig und allein im Sinne der Sache des Volkes und der eigenen Philosophie den Interessen der Organisation  oder Partei  zu dienen. Die Möglichkeiten dazu sind mannigfaltig und hängen von den jeweiligen Umständen ab. Auf keinen Fall soll es dazu führen, daß jene, die ein Mandat errungen haben, nichts Besseres zu tun haben, als ihre guten Ideen so einzubringen, daß sie  dem kritisierten System zu gute kommen und sich zuletzt als Waffe gegen die Urheber erweisen.  Der Geist, der  eine gute Idee umsetzt, ist schließlich ein anderer  als jener der sie  ersonnen hat.                                                                                        

Nun ist der rechte Populismus an sich nicht in jedem Fall etwas Schlechtes, er ist vielfach  eine Art Hilfeschrei  der überfremdeten oder ausgebeuteten  europäischen Völker, Opfer der Globalisierung und Einwanderung, zuletzt auch der Wirtschafts- und Finanzkrise.  Eine sanfte Revolte gegen das „Establishment“, aber mehr  ist es nicht. Sicher, besser als gar nichts, doch am Ende eben nur ein symbolischer Akt eines Papiertigers , dem der entscheidende Biss, eine revolutionäre Doktrin also, fehlt. Eine solche haben aber jene sehr wohl, denen jetzt rechte Populisten anscheinend ihr  politisches Schicksal  anvertraut haben. Dazu ist, wie gesagt, demnächst an dieser Stelle noch einiges zu sagen.

Ne pas détruire les banques: les saisir!

Ne pas détruire les banques : les saisir !

Par Frédéric Lordon

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Il faut peut-être prendre un ou deux pas de recul pour admirer l’édifice dans toute sa splendeur : non seulement les marchés de capitaux libéralisés, quoique les fabricateurs de la crise dite des dettes souveraines (voir « Crise : la croisée des chemins »), demeurent le principe directeur de toutes les politiques publiques, mais les institutions bancaires qui en sont le plus bel ornement sont devenues l’unique objet des attentions gouvernementales.

Albrecht Dürer – Némésis ou La grande fortune (1501)

Les amis du « oui » au Traité constitutionnel de 2005 trouvaient à l’époque trop peu déliées à leur goût les dénonciations de « L’Europe de la finance » mais si le slogan ne sonne en effet pas très raffiné, c’est que la réalité elle-même est grossière à ce point.

L’entêtement à soumettre les politiques économiques aux injonctions folles des créanciers internationaux, telles qu’elles s’apprêtent à nous jeter dans la récession, trouve ainsi son parfait écho dans la décision, qui ne prend même plus la peine de se voiler, de mobiliser le surplus d’emprunt européen de l’EFSF (1)… pour le sauvetage des banques irlandaises bien méritantes d’avoir savamment ruiné les finances publiques du pays (2).

Le cas de l’Irlande a ceci d’intéressant que la connexion entre finances bancaires privées et finances publiques y est plus directe et plus visible qu’ailleurs, mais il ne faut pas s’y tromper : pour la Grèce déjà, et pour tous les autres candidats au sauvetage qui suivront, il s’agit toujours in fine moins de sauver des États que d’éviter un nouvel effondrement de la finance – et l’on attend plus que le barde européen de service qui viendra célébrer l’Europe en marche d’après ses plus hautes valeurs : solidarité et humanisme, car après tout c’est vrai : nous voilà, contribuables citoyens européens (3), solidaires des banques de tous les pays, et les banquiers sont des hommes comme les autres.

Il y a pourtant quelque part un point de réalité où les fables déraillent et les voiles se déchirent. Manifestement nous nous en approchons. Et, Némésis incompréhensible de tous ceux qui, l’ayant voulue ainsi, l’ont défendue envers et contre tout, l’Europe commise à la finance contre ces citoyens mêmes est sur le point de périr par la finance.

La croyance financière à la dérive

 

En univers financiarisé, il n’y a pas de signe de crise plus caractéristique et plus inquiétant que la perte des ancrages cognitifs collectifs qui, en temps ordinaires, régularisaient les jugements et les comportements des investisseurs. Or tout vole en éclat et la croyance financière n’est plus que dérive erratique.

Inutile de le dire, la perte de toute régularité interprétative et comportementale rend impossible la conduite des politiques économiques toujours exposées au risque d’être reçues à l’envers des effets qu’elles pensaient produire, et même d’être systématiquement rejetées puisque, quelle que soit la proposition, les jugements de la finance sont écrasés par un affect directeur de panique et que, littéralement parlant, plus rien ne va – énoncé qu’il faudrait d’ailleurs lire en remettant les mots dans leur ordre adéquat : rien ne va plus.

Ainsi le 30 septembre l’agence Moody’s a-t-elle le front de dégrader la note souveraine espagnole au motif… d’une insuffisante croissance, alors même qu’elle a si bien concouru au printemps à faire adopter les politiques de rigueur… qui tuent la croissance.

L’opinion financière, agence et opérateurs ici confondus, réclament donc à cors et à cris la rigueur, et vendront les dettes publiques s’ils ne l’ont pas. Mais ils ne veulent pas des conséquences de la rigueur et vendront la dette publique s’ils les ont.

Sans même en venir à des considérations de principe tenant pour une espèce de crime contre la souveraineté démocratique (4) que l’on évince les réquisits des citoyens par ceux des créanciers, sorte d’effet d’éviction (5) qui incidemment n’a jamais empêché les économistes standard de dormir, n’importe quel décideur politique tant soit peu rationnel arrêterait qu’il est simplement inenvisageable de se soumettre à une tutelle aussi désarticulée, qui lui fera faire tout en lui demandant au surplus son contraire.

Mais quelqu’un a-t-il entendu le moindre commencement de l’évocation d’un éventuel projet d’émancipation européenne en cette matière ?

L’union monétaire est donc vouée à dévaler, avec les investisseurs auxquels elle a lié son sort, la pente du chaos cognitif collectif, et il n’y aura plus qu’à s’étonner de l’étonnement de ceux qui découvrent affolés que « plus rien ne marche » : car en effet les conditions sont maintenant en place pour que rien ne marche plus.

Dans une tentative héroïque de réplication d’une opération-vérité à la suédoise, la banque centrale irlandaise a décidé d’annoncer en mars les besoins « véritables » (6) – colossaux (7) – de recapitalisation d’un système bancaire privé dont la taille relativement au PIB du pays était déjà en soi un signe de déraison manifeste (8) (proposée à la réparation de l’Europe entière…).

Las, les autorités irlandaises qui escomptaient les profits d’admiration généralement accordés au stoïcisme et le prix de son « courage » sous forme de détente des taux d’intérêt, n’ont reçu qu’un surplus de panique et la mise en cause de leurs finances publiques devenues solidaires des finances privées pour des montants il est vrai affolants.

Ceux qui espéraient le retour au calme du sauvetage de l’Irlande ont vite compris à quoi s’en tenir : dès lundi matin sitôt l’annonce faite, les taux d’intérêt irlandais se détendaient très légèrement sur les échéances inférieures à deux ans… et se tendaient à dix ans, attestation indirecte de ce que l’EFSF n’est vu que comme une parenthèse sans pouvoir de résolution durable ; lundi soir c’était la débâcle obligataire.

Et l’on tiendra pour un symptôme très caractéristique de la destruction des repères cognitifs de la finance le fait que quelques jours avant l’annonce du plan de sauvetage irlandais, 35 milliards d’euros étaient jugés par les analystes comme un volume tout à fait à la hauteur des besoins de recapitalisation bancaire alors que dès l’après midi de son annonce il était trouvé notoirement insuffisant…

L’Union dans son ensemble est logée à la même enseigne. Elle croyait le sauvetage de la Grèce et la constitution de l’EFSF propres à impressionner l’opinion financière et à la raisonner pour de bon. Il n’en a rien été comme l’atteste la recherche frénétique par la finance du nouveau maillon faible sitôt le précédent réparé.

Formellement semblable en cela à la séquence qui à partir du printemps 2008 avait vu l’inanité des sauvetages ponctuels, Bear Stearns, Fannie, Freddie, jusqu’au point de bascule Lehman, la succession des bail-outs européens n’arrête plus rien mais a l’effet exactement opposé d’allonger sans fin la liste des suspects – la seule chose dont débat maintenant la finance étant l’ordre dans lequel il faut les « prendre ».

On pourrait être tenté de filer le parallèle avec l’automne 2008 pour en tirer la conclusion que, la formule des sauvetages ponctuels épuisée, seule une solution globale frappant fort un grand coup a quelque chance de produire l’effet de choc propre à modifier brutalement la configuration des anticipations collectives de la finance.

La menue différence, trois fois rien, tient au fait qu’à l’époque les finances publiques étaient fraîches et disponibles pour tirer d’affaire ces messieurs de la banque. Or, le sauvetage de la finance privée et les coûts de récession sur le dos, les budgets sont désormais aux abonnés absents, la situation ayant d’ailleurs si mal tourné que les finances publiques sont passées du côté du problème et ne font décidément plus partie des solutions.

Misère du fonds de secours européen

C’est cet état de fait que l’EFSF s’emploie à masquer autant qu’il le peut. Mais l’illusion qu’il avait congénitalement vocation à produire, et celles qu’il entretient sur son propre compte, finiront bientôt par craquer. Il y a d’abord qu’on n’est pas très au clair sur l’extension véritable des sollicitations dont il peut faire l’objet, et il reste comme une incertitude sur la nature de la « facilité » qu’il est censé apporter.

Est-il simple « facilité intermédiaire » destinée à faire d’ici 2013 les soudures de trésorerie des Etats temporairement en délicatesse avec les marchés ? Si tel est le cas, la force de frappe du fonds s’apprécie d’après les besoins de financement des États, c’est-à-dire la somme des déficits courants et des échéances de dette arrivant à maturité sur la période.

L’Irlande et le Portugal à eux deux devront trouver 60 milliards en 2011 et 40 pour 2012. L’Espagne à elle seule aura besoin de 190 milliards d’euros pour 2011 et 140 autres milliards pour 2012 (9) – 330 milliards et encore : un an en avance de l’échéance de l’EFSF, plus les 100 des deux précédents, 430 milliards à eux trois… pour une enveloppe globale de l’EFSF de 440 milliards (10) – et plaise au ciel que tout aille bien pour l’Italie et la France, les deux têtes de turc d’ores et déjà inscrites dans la file.

Il y a ensuite que l’EFSF n’a pas exactement les moyens qu’il dit avoir. Car pour obtenir la notation triple-A qui lui permet de lever des fonds à coût moindre que les États en difficultés, l’EFSF a été contraint de sur-collatéraliser à 120% ses actifs (11).

La chose signifie que tout euro prêté doit être adossé à 1,2 euros de fonds levé par l’EFSF (en fait par les Etats contributeurs) – et sur les 440 milliards nominaux seuls donc 366 sont réellement disponibles. La logique de la sur-collatéralisation n’est pas autre chose que celle de la garantie que l’EFSF prétend apporter et du coût de défaut qu’il prendrait à sa charge puisqu’il en soulage les créanciers internationaux.

Mais l’enveloppe est en fait bien plus petite encore.

Car d’une part disparaissent (assez logiquement) de la liste des Etats contributeurs au fonds les Etats devenus suppliants du fonds – on peut sans doute tenir le manque pour surmontable quand il s’agit des 12 milliards d’euros d’apport de la Grèce et des 7 de l’Irlande, mais le trou commencera à se voir si jamais il faut se passer d’un coup des 52 de l’Espagne…

Et s’y ajoute d’autre part que l’EFSF pour conserver son triple-A devra n’être abondé que par des États eux-mêmes triple-A, avec risque de casse majeur si d’aventure l’un des « gros » se trouvait être dégradé – vienne la France, au hasard, à perdre son sésame, l’EFSF trépasserait vraisemblablement dans l’instant.

Il y a enfin que l’EFSF n’a été dimensionné que dans la logique des sauvetages ponctuels (au surplus en petit nombre) et qu’il serait strictement incapable de faire face à un épisode de défauts souverains simultanés par contagion foudroyante – ce ne serait plus les besoins de financement publics à deux ou trois ans qu’il faudrait regarder mais les encours mêmes de dette, et l’ordre de grandeur change d’un coup du tout au tout.

Affolés par ces perspectives qu’ils ont eux-mêmes si bien contribué à créer, les investisseurs sont maintenant obsédés par une quête de la sécurité parfaite que, curieusement ils ne leur viendraient pas à l’idée d’exiger d’un débiteur privé, et dans le monde particulier des sovereigns (12), « senior » est implicitement tenu pour synonyme de « garanti » (13) ! (comme l’atteste le plan irlandais qui a pris grand soin d’épargner ces créanciers-là).

Or ce n’est pas du côté de l’augmentation des moyens du fonds que viendra la solution parce que régler les problèmes des plus endettés en surendettant ceux qui le sont moins finira par se voir.

Il est utile de redire que la solution du bootstrapping par laquelle le baron de Münchausen s’extrait de la boue en se tirant lui-même par les cheveux ne fonctionne que dans les contes. Dans la réalité européenne présente, plus il y a de secourus moins il y a de secouristes, et plus ces derniers se préparent à rejoindre les précédents dans leur catégorie.

Le syllo de Canto

A la question de savoir comment tout ceci peut se finir, la réponse est donc : mal. Et ceci d’autant plus que les corps sociaux commencent à sérieusement renauder.

Sans doute l’enchaînement des faits est-il compliqué à suivre dans son détail technique mais le tableau d’ensemble lui est des plus clairs, et tout le monde en voit maintenant parfaitement les couleurs dégueulasses :

1) la finance privée est l’auteur de la plus gigantesque crise de l’histoire du capitalisme ;

2) les banques ne doivent d’avoir forcé les pouvoirs publics à les secourir qu’au fait d’occuper cette place névralgique dans la structure d’ensemble du capitalisme qui leur permet d’enchaîner le corps social tout entier à leurs intérêts particuliers ;

3) cette situation qui a tout de la parfaite prise d’otage aurait dû conduire sitôt le sauvetage de 2008, non seulement à fermer largement le jeu de la finance de marché (14), mais à recommunaliser le système bancaire en tant précisément qu’il est de fait le dépositaire de biens communs vitaux (15) à savoir : la sûreté des encaisses monétaires du public et les conditions générales du crédit à l’économie réelle ;

4) infestés par les représentants des puissances d’argent, les États n’en ont rien fait et donné le secours pour rien, ou plutôt pour un double bras d’honneur, qui a d’abord pris la forme du maintien des rémunérations exorbitantes et surtout, plus grave, celle de l’application de la férule des marchés aux finances publiques, saignées soit d’avoir sauvé directement les banques, soit de faire face aux coûts de la récession ;

5) les splendides mécanismes des marchés de capitaux concourent avec une rare élégance à l’organisation du pire en rendant insoluble la crise des dettes qu’ils ont eux-mêmes fait naître ;

6) et ceci jusqu’à ce que cette crise-là devienne irrémédiablement la leur à nouveau, menaçant d’un deuxième effondrement du calibre de 2008 ;

7) pendant quoi l’Europe invente à la hâte de nouvelles institutions supposées venir en aide « aux États » là où tous voient bien qu’il s’agit de sauver les banques pour la deuxième fois. Or, pour ainsi dire, c’est la deuxième fois de trop – car on se demande encore comment la première a été avalée si facilement par les corps sociaux décidément d’un calme olympien. Jusqu’ici.

Jusqu’ici, car maintenant ça commence à glouglouter méchamment dans la marmite et les populations hors de leurs gonds cherchent légitimement de quoi se passer les nerfs sur les banques.

Le succès de la vidéo Cantona n’a pas d’autre origine, et il faudrait le fin fond de l’ineptie politique pour n’en pas saisir le sens réel qui dit l’arrivée aux limites de ce que les populations sont prêtes à tolérer de scandale.

Pour tout le bien-fondé de la colère qu’il exprime, il y a pourtant de quoi s’effrayer de son implacable syllogisme qui dit en gros : « les banques et les banquiers sont la cause de tous nos maux » – schématique mais vrai –, « or les banques ne vivent que de nos dépôts » – partiellement vrai encore –, « par conséquent, pour abattre les banques et se débarrasser du fléau il suffit de leur retirer nos dépôts » – techniquement vrai… mais in fine catastrophiquement faux.

Bank run : il n’y en aura pas pour tout le monde !

Parce que Canto, tu retires tes économies et puis tu en fais quoi ? Matelas ? Lessiveuse ? Tâche aussi de te présenter au guichet parmi les tout premiers car il n’y en aura pas pour tout le monde. À chaque instant, en effet, les banques sont strictement incapables de faire face à l’exercice généralisé de la convertibilité inconditionnelle des dépôts à vue en espèces.

Sur leurs larges populations de déposants, la loi des grands nombres leur assure en temps ordinaires une régularité statistique des comportements de retrait dont la moyenne globale ne représente qu’une fraction minime des dépôts réels, et n’appelle donc qu’un taux de couverture équivalent – bas.

Évidemment tout change lorsque des circonstances exceptionnelles modifient brutalement les comportements de retrait, en les corrélant intensément, par exemple sous l’effet d’une panique collective qui conduit à la ruée des déposants. Planifiant sa propre détention d’espèces sur la base des comportements moyens ordinaires, la banque se retrouve incapable de faire face à des demandes de retrait brutalement modifiées.

De là le ravissant spectacle des files de déposants, éclusées délibérément au compte-goutte pour donner le temps à la banque de s’alimenter en liquidités – quand elle le peut. Le rationnement, pour dire les choses en termes pudiques, fait donc nécessairement partie d’un bank run, c’est pourquoi il arrive que la queue au guichet soit un peu tassée, parfois même qu’on s’y marche légèrement dessus, car d’emblée on sait que tous ne récupéreront pas leurs billes.

Lessiveuses et patates

Mais les vraies joyeusetés commencent après. Car, les banques mises au tapis dans un bel ensemble, il faut tâcher de se figurer de la plus concrète des manières ce à quoi peut bien ressembler la vie matérielle. Manger par exemple. C’est-à-dire aller acheter à manger. Payer par chèque ? Plus possible : plus de banques. Tirer de l’argent au distributeur ? Plus possible : plus de banques. Obtenir un crédit ? Plaisanterie ! Plus de banques. Reste l’argent liquide au fond des poches. Canto qui se sera présenté parmi les premiers aura sa lessiveuse pour tenir. Mais pour les 90% rationnés, ça leur fera quatre à cinq jours d’horizon, en forçant plutôt sur les pâtes, et juste le temps de se mettre à l’art du jardin potager, car après…

Parce qu’il détruit instantanément le système des paiements et du crédit, l’effondrement bancaire général est l’événement extrême en économie capitaliste, arrêt des productions incapables de financer leurs avances, impossibilité même des échanges puisque la circulation monétaire a perdu ses infrastructures, une sorte de comble du chaos matériel, et le monde social n’a pas belle allure lorsque les individus en sont réduits à lutter pour leur survie matérielle quotidienne.

Le syllo de Canto commet donc ce qu’on pourrait appeler une erreur de métonymie : il prend l’accident pour la substance, ou la réalisation particulière pour la généralité.

La vérité, si elle manque sans doute de poésie, est que nous avons besoin de banques, nous en avons même un besoin vital.

Mais dire que nous avons besoin de banques est une chose, et la question de savoir de quelles banques nous avons besoin en est une autre. Car des systèmes bancaires il en existe de toutes sortes, des pires et des meilleurs. Et l’on pourrait en dire ce qu’on dit déjà de cet autre générique inconsistant, « L’Europe » : ce ne sont pas les banques, c’est cette forme de banque qu’il faut détruire.

On trouvera la nuance bien mince et de peu d’implications concrètes. Elle signifie pourtant que la ruine totale n’est pas une option attrayante, encore moins la ruine organisée de propos délibéré.

Dans les banques, il y a les infrastructures des systèmes de paiement et de tenue des comptes, c’est-à-dire les prérequis à tout échange possible dans une économie monétaire à travail divisé. Il y a aussi des gens (plus ou moins) capables de prendre des décisions de crédit, pour les ménages, les entreprises, et puis quelques autres choses encore que nous avons sacrément intérêt à garder.

Faire tomber les banques, mais par le défaut souverain…

Il faut bien reconnaître cependant qu’il n’est pas facile de décourager les plans naufrageurs du public en colère quand le système bancaire lui-même travaille si bien à son propre effondrement… Car voilà où en est la magnifique Europe des traités, celle-là même qui voulait tant qu’on ne l’appelle pas « L’Europe de la finance », et voilà ce qui lui pend au nez comme un sifflet de deux ronds : le défaut généralisé.

Désormais les uns entraînent les autres sans qu’on n’ait plus idée ni de la cause ni de l’effet. Dans l’atmosphère de panique qui emporte les marchés obligataires, le fait marquant est en effet la solidarité (dans la déveine) des financials et des sovereigns, c’est-à-dire des titres bancaires et des titres publics.

La corrélation de leurs primes de CDS (16) et de leurs spreads (17) respectifs donne une idée du degré auquel les destins des finances publiques et des finances bancaires privées sont désormais intriqués puisque sauver les banques ruine les Etats et que le possible défaut des Etats ruinera les banques.

C’est l’emballement collectif des investisseurs qui se charge de déployer cette dynamique fatale, la croyance financière au défaut souverain faisant advenir le défaut souverain – et puis juste après le défaut bancaire ! Et la synergie des faillites combinées s’annonce d’une telle magnitude que tous les EFSF de la terre peuvent d’ores et déjà aller se rhabiller.

Entre faire tomber les banques par un run de déposants en colère et les voir tomber d’elles-mêmes sous l’effet de leurs propres turpitudes, la différence, à résultat concret équivalent, est celle qui laisse au capitalisme financier et à ses « élites » l’entière responsabilité historique de la ruine finale.

Et si vraiment, plutôt que de simplement regarder tomber les banques, on voulait activement les faire tomber, la meilleure option à tout prendre consisterait bien plutôt à ce que, par inversion des rôles dans la comédie du bras d’honneur, ce soit l’État qui s’en charge en déclarant souverainement le défaut sur sa dette publique.

Car pour produire tous ses effets, le défaut « nu », celui du simple bank run citoyen, ne suffit pas, et la manœuvre ne prend tout son sens politique possible que :

1. de signifier par un geste unilatéral de souveraineté à qui revient le pouvoir en dernière analyse : aux peuples, pas à la finance ;

2. par répudiation de tout ou partie de la dette publique, de soulager aussitôt les populations de la contrainte d’austérité et de récupérer des marges pour des politiques de croissance ;

3. de s’armer d’une politique publique de transformation radicale, prolongement nécessaire du simple défaut, visant, d’une part, l’affranchissement du financement des déficits publics des marchés de capitaux (18) (seul moyen que le défaut maintenant ne vaille pas sur-pénalisation par les marchés plus tard), et, d’autre part, la refonte complète des structures bancaires (de toute façon mises à bas par le défaut même)

Il y a fort à parier que, parmi les gouvernements commis d’aujourd’hui, il ne s’en trouvera aucun capable de l’insolence affirmative qui est la marque de la souveraineté, et de revendiquer par le défaut l’état de guerre ouverte avec la finance – car après tout le problème est bien plus symétrique qu’on ne croit : la finance peut sans doute nous prendre en otages mais, dès lors qu’il est suffisamment débiteur, l’Etat a aussi les moyens de la ruiner, avec au surplus, derrière, le pouvoir de la ramasser à la petite cuillère et à sa façon.

Qu’à cela ne tienne : c’est le développement endogène de la dynamique financière présente qui se chargera de faire le travail, et le défaut que les Etats pourraient endosser dans un geste de rupture délibéré s’imposera à eux comme à des boutiquiers déconfits.

Nous n’avons de toute façon plus le choix que de penser sous l’hypothèse de l’effondrement bancaire consécutif à des dénonciations souveraines, revendiquées ou subies, c’est-à-dire sous l’hypothèse resurgie de « l’automne 2008 » – mais avec cette différence par rapport à 2008 que la solution par le sauvetage d’Etat est désormais barrée.

… et les saisir !

A l’honneur (ou au déshonneur) près, toutes les possibilités ouvertes par le défaut combiné des Etats et des banques restent offertes.

Car pour tous ses dangers réels, la faillite technique des banques a au moins un effet intéressant : elle permet de leur mettre la main dessus. Et à pas cher en plus. Les arguments de principe pour une recommunalisation du système du crédit abondent ; la situation de faillite leur offre leurs conditions de réalisation – et même de réalisation modique.

Car si la nationalisation intégrale est la première étape du processus de recommunalisation du bien commun bancaire, avant la mutation ultérieure en système socialisé du crédit (19), la situation critique de la faillite générale offre la possibilité d’opérer cette nationalisation par simple saisie.

A l’inverse des pratiques ordinaires du redressement des entreprises en difficulté, il n’y a pas de solution privée à l’effondrement global des institutions bancaires qui condamne dès lors irrémédiablement leurs actionnaires à la vitrification.

Le sauvetage public, quelle qu’en soit la modalité, n’a donc aucun compte à tenir de cette population spéciale qu’on peut d’ores et déjà tenir pour annihilée, conformément d’ailleurs à l’esprit même du capitalisme des sociétés par actions : les apports en fonds propres ne sont pas récupérables et les actionnaires n’acquièrent leur part de propriété (et les droits afférents aux dividendes) qu’en contrepartie d’accepter une perte définitive en cas de faillite – nous y sommes.

Saisir les banques faillies n’a donc aucun caractère d’attentat à la propriété puisque la propriété a été anéantie par la faillite même, la faillite étant de ce point de vue l’équivalent capitaliste de la bombe à neutrons qui tue les droits de propriété en laissant intacts les bâtiments, les équipements et même, quoique pendant un temps relativement court, les humains salariés capables de les faire marcher. C’est tout cela qu’il faut récupérer.

À l’instant tau plus upsilon qui suit le passage des neutrons, les pouvoirs publics ne se penchent sur le cas des banques à terre que parce qu’il y va d’un bien commun vital pour la société et pour cette raison seule.

Le jeu normal du marché anéantit les actionnaires et cette partie-là du jeu ne sera pas modifiée. Le sauvetage public n’a aucune vocation à les ressusciter, il n’a pas d’autre finalité que de nous éviter le désastre collectif qui suit particulièrement d’une faillite bancaire.

L’alternative qui naît de cet événement est alors des plus simples et, selon que l’État fait ou ne fait pas, ne laisse le choix qu’entre, d’une part, des banques à terre, des actionnaires morts et nous morts avec très peu de temps après, ou bien d’autre part, des banques redressées, des actionnaires laissés morts mais nous vivants par le fait même de la saisie-redressement.

On constatera que dans ces deux états du monde possibles les actionnaires meurent identiquement, et que la différence notable tient au seul fait que dans l’un nous mourrons avec eux, dans l’autre pas, raison pour quoi il ne devrait pas y avoir à réfléchir trop longtemps avant de choisir la bonne solution.

La banque centrale, ultime recours

Mais une faillite ne laisse pas que des actionnaires sur le carreau : des créditeurs aussi. Le droit ordinaire des faillites et ses résolutions concordataires offrent cependant à ces derniers une chance de récupérer une partie de leur mise. Mais ce droit-là est privé et la logique du défaut souverain lui est hétérogène.

Mis à part les dettes souveraines, le gros du problème tient dans le réseau des dettes-créances interbancaires. On peut imaginer leur partiel netting (20) sur le territoire pertinent – dont on réserve de dire quelle doit être la circonscription (voir infra).

Ce netting « interne » peut s’accompagner d’un défaut sur les engagements « externes » (i. e. avec les institutions financières situées hors du « territoire pertinent »), à la façon dont les banques islandaises se sont remises bien plus vite que prévu du fait de n’avoir pas hésité à dénoncer les passifs non-résidents (21) – et mieux encore d’avoir fait valider ce geste de dénonciation par un référendum populaire !

Au rang des créditeurs internes, il faut compter également tous les épargnants individuels, détenteurs de titres publics par assurances-vie et Sicav interposées. Disons tout de suite que le défaut souverain a spontanément de bonnes propriétés de justice sociale puisqu’il frappe proportionnellement les plus gros épargnants qui sont aussi les plus riches, même si l’on peut envisager de garantir ces créditeurs-là à hauteur d’un certain plafond qui ne ferait plonger que les plus fortunés.

En remontant l’ordre de séniorité, viennent enfin les déposants dont il est assez évident que les dépôts à vue et à terme doivent être garantis – hors de quoi le sauvetage des banques est simplement privé de sens.

Mais dans tous les cas de figure il y aura des pertes colossales à prendre et des recapitalisations tout aussi importantes à opérer du fait de la prévisible destruction des bases de fonds propres.

C’est bien pourquoi les plans de 2008 étaient à double détente : concours de la banque centrale pour assurer la liquidité vitale des banques et permettre au moins la continuité d’opération du système des paiements, « plans de redressement » à la façon du TARP des Etats-Unis, de la NAMA irlandaise, de la SFEF française, etc. Ces volets « redressement » étaient indispensables pour, au-delà de la simple survie, remettre le système bancaire en état de reprendre ses activités de crédit.

À ceci près qu’ils ont été assurés sur les finances publiques et que maintenant c’est fini. Le redressement peut être amorcé par cessions massives d’actifs (quoique dans la situation envisagée, on se demande bien qui pourrait en être preneur…), ou à tout le moins voir son ampleur diminuée par une réduction brutale des périmètres d’activité : les banques en saisie-redressement abandonneront tout ou partie de leurs activités de marché et seront priées de se reconcentrer sur ce qui est historiquement leur métier, à savoir le crédit à l’économie et l’offre de formules d’épargne simples – l’une des opportunités offertes par la faillite étant donc de permettre de médiocriser la finance (22).

À ce stade critique cependant, c’est-à-dire quand les possibilités financières d’intervention de l’Etat ont été épuisées, il ne reste de toute façon plus qu’un seul instrument significatif mobilisable : la banque centrale.

Ça n’est pas la peine de commencer à hurler à l’inflation, car, en cette situation-là, il n’y a plus qu’à choisir entre le risque de l’inflation future et la certitude de la mort matérielle tout de suite – alternative qui normalement ne laisse pas le loisir d’hésiter très longtemps. À court terme au moins les fonds de reconstruction d’un système bancaire ne pourront donc plus venir que de la création monétaire.

Quant à ceux qui pousseront de grands cris à l’idée que la banque centrale pourrait abonder de cette manière le capital des banques à reconstruire, on leur fera observer qu’ils ont gardé un délicat silence lorsque la Réserve Fédérale s’est transformée en gigantesque hedge fund [pour] racheter tous les actifs pourris des banques privées en pleine déconfiture – ceci dit au moment précis où la Fed révèle la liste des récipiendaires des 3300 milliards de dollars de concours variés qu’elle a mis à leur disposition, comme quoi, dirait l’adage populaire, pas faux en l’occurrence, quand on veut, on peut…

Salut, souveraineté, territoire

Et voilà où se pose pour de bon la question du « territoire pertinent ». Est pertinent le territoire sur lequel existe une banque centrale décidée à accomplir toutes ces actions. Il y a malheureusement toutes les raisons de redouter que ce ne soit pas la zone euro. Jamais ni les représentants allemands à la BCE, ni le gouvernement de Bonn ni la cour constitutionnelle de Karlsruhe ne consentiraient la chose qui leur apparaît comme le comble de l’horreur.

Il est vrai que sauf les mythologies du « couple franco-allemand », faire une Europe monétaire avec l’Allemagne était d’emblée une entreprise impossible (23) – et en même temps, dans l’hypothèse retenue, les banques privées allemandes seraient au tapis comme les autres et il faudra bien que l’Allemagne invente quelque chose…

L’Allemagne mise à part, on peut craindre également que la BCE elle-même se refuserait à une intervention massive de cette sorte, en effet en violation flagrante de tous les textes qui encadrent son action.

On dira qu’on reconnaît précisément ces moment de souveraineté pure à l’envoi au bain des textes, encre sur du papier susceptible d’être rayée par une autre encre derrière laquelle de toute façon il n’y a jamais que de la force, la force politique du corps social souverain, en dernière analyse l’unique force motrice de tout l’univers politique.

Les Argentins, au cœur de la crise de 2001-2002, ne se sont-ils pas débarrassés en une nuit du currency board dont ils avaient pourtant gravé les termes dans le marbre de la constitution ?

Mais ces reprises de souveraineté supposent des conditions d’unité politique qui n’existent pas dans le cas européen où les traités demandent deux ans pour être modifiés là où il s’agit d’agir en deux jours, quand ça n’est pas en deux heures – et les pétaudières de l’intergouvernemental à 27 ne sont pas exactement ce qu’on appelle une force de réaction rapide….

On peut être tout à fait sûr que si besoin était vraiment, le gouvernement des Etats-Unis n’hésiterait pas un instant à envoyer valser le Reserve Federal Act pour reprendre en mains les contrôles et les latitudes qu’appelle impérieusement la situation d’exception.

Cette possibilité n’existe même pas dans la navrante construction européenne dont on sait bien qu’elle est un barbarisme au regard de la grammaire fondamentale de la souveraineté – et seule la mauvaise foi européiste, cette dégénérescence de l’idée européenne, comprendra ici que souveraineté ne rime qu’avec « nation », au sens des nations présentes, là où il s’agissait d’envisager les conditions de possibilité d’un véritable redéploiement de souveraineté à une nouvelle échelle : pour ainsi dire de refaire nation mais « à l’étage supérieur ».

Aussi, et comme le salut impose impérieusement ses réquisits, on peut imaginer que la zone euro se fracturerait selon une ligne de découpe séparant ceux qui s’accorderont à l’exercice d’une souveraineté commune dictée par la nécessité du geste monétaire massif et ceux qui ne le voudront pas.

Ou bien qu’elle céderait à de très fortes pressions à la « renationalisation » de l’action publique, c’est-à-dire à un retour à l’échelle territoriale où, pour l’heure, en existe en fait les réels moyens de souveraineté.

Réapparition de banques centrales nationales ou bien de sous-blocs monétaires, à partir de l’euro et avec les problèmes transitoires de double circulation, inutile de dire qu’on sera là entré dans un monde non-standard…

Notre heure

Mais quels choix reste-t-il vraiment quand les marchés auxquels les États se sont livrés gaiement s’apprêtent à faire leur ruine ?

Quand la collusion des élites politiques et économiques a atteint le degré que nous lui connaissons, quand le gouvernement est devenu le fourrier du capital à un point de caricature qui ferait rougir Marx (jusqu’à faire nommer sans discontinuer des chefs d’entreprise ministre des finances depuis dix ans…), quand l’asservissement des politiques publiques aux intérêts de la finance est tel que même la plus grande crise à l’échelle d’une génération ne parvient pas à obtenir le moindre commencement de régulation, quand tous les mécanismes institutionnels du présido-parlementarisme organisent la parfaite coupure d’avec le peuple et la capture de fait du pouvoir par une oligarchie séparée qui ne répond plus de rien ni à personne – comme l’attestent à propos des retraites une désapprobation de masse balayée d’un revers de main –, quand n’existe plus nulle part aucun mécanisme institutionnel de réelle représentation, aucune force de rappel politique, alors il est avéré qu’il n’est plus de solution de transformation à froid de l’ordre social – à l’encontre même de la (fausse) promesse « démocratique » (24) d’ingénierie politique ordonnée du changement.

Ce sera donc à chaud.

La question est alors celle de savoir en quels lieux précisément faire monter la température – en ne cachant pas que « température augmentée » signifie qu’il y a aura des bris de quelque chose quelque part. Marx en son temps avait parfaitement perçu que la convulsion est la modalité privilégiée par l’histoire de dépassement des contradictions.

Le nexus présent des contradictions de ce qu’il faut bien appeler avec Badiou le capitalo-parlementarisme, contradictions mêlées d’un système économique conduit au désastre par la finance libéralisée et d’un système politique institutionnel qui, en tous les sens du terme, ne répond plus, et n’est donc plus l’instance possible de transformation du premier, ce nexus a épuisé le spectre de ses solutions internes.

Si vraiment on en arrive en ce point où, les possibilités d’accommodation « régulière » du système évanouies, ne reste plus que le choix de son renversement, alors il y a cependant quelques raisons de préférer le soulèvement politique à l’insurrection bancaire.

Car la seconde nous abat nous-mêmes dans le même mouvement où elle abat ses ennemis, alors que le premier conserve la Banque comme principe mais nous rend les moyens de lui donner la forme que nous voulons – et dont nous avons besoin.

Cantona pense faire la révolution sans violence en effondrant les banques. Mais c’est qu’il n’a pas idée des violences du chaos matériel qui suivrait. Si le blocage institutionnel et le verrouillage par le bloc hégémonique rendent chaque jour un peu plus probable l’issue qu’un « bon » système politique a normalement pour vocation de tenir aussi éloignée que possible, à savoir le débordement insurrectionnel, toutes les insurrections ne se valent pas.

Et si vraiment violence il devait y avoir, plutôt celle qui permet de reprendre les institutions confisquées (ou d’inventer de nouvelles institutions) que celle qui nous jetterait les uns contre les autres dans des luttes pour la survie matérielle.

Qu’elle le dise de travers n’empêche pourtant pas la sortie de Cantona d’avoir son fond de justesse : les tyrannies ont rarement le bon goût de quitter d’elles-mêmes la scène de l’histoire et seuls des rassemblements de force adéquats peuvent les en expulser. La finance a régné 25 ans, c’est plus qu’il n’en faut pour dresser un bilan, et le bilan dit : c’est assez.

La particularité de l’époque réside en ceci que la tyrannie impersonnelle de la finance collabore activement à son propre renversement puisque, par une sorte de nécessité interne qui confirme, en la poussant à son comble, sa vocation à la destruction sociale, elle est sur le point de tout engloutir et paradoxalement jusqu’à elle-même.

Les Romains disaient que « ceux que Jupiter veut perdre, il commence par les rendre fous » – nous y voilà. La perspective de chocs immenses n’est pas gaie, mais qu’à la face de l’histoire il revienne entièrement aux fous de l’avoir fait advenir.

Et que les autres en tirent le meilleur parti, celui du moment décisif où leur joug se lève, éventuellement de s’être autodétruit, et où ils peuvent enfin se dire que « c’est notre heure ».

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Notes :

(1) European Financial Stability Facility, le fonds de secours établi lors du sommet de Bruxelles du 9 mai 2010 à la suite du plan de sauvetage de la Grèce.

(2) Sur les 85 milliards d’euros du « paquet irlandais », 35 sont explicitement destinés aux banques.

(3) Sur qui reposeront in fine les éventuelles pertes de l’EFSF.

(4) Pour un développement de cet argument, voir « Le point de fusion des retraites », 23 octobre 2010, et « Crise européenne, deuxième service (partie 1) », 8 novembre 2010.

(5) Car les économistes standard sont surtout très préoccupés de cet effet d’éviction par lequel les emprunts d’Etat assèchent les marchés obligataires au détriment des émetteurs privés.

(6) Dont on découvre d’ailleurs aujourd’hui qu’ils sont encore un peu sous-estimés : Sharlene Goff et Patrick Jenkins, « Irish banks remain on a tightrope », Financial Times, 29 novembre 2010 ; mais seul le mensonge grec sur le déficit public est haïssable, le mensonge permanent des banques privées, lui, est véniel.

(7) 28,5 milliards d’euros au moment de l’annonce de mars.

(8) Le total des passifs bancaires irlandais est de 360% du PIB – le modèle-frère anglais faisant d’ailleurs encore mieux : 450%… voir « The real lesson about Ireland’s austerity plan », e21 Economic Policies for the 21st Century.

(9) Données Bloomberg, FMI, The Economist.

(10) Il est vrai compte non tenu des 60 milliards d’euros de l’EFSM (European Financial Stability Mechanism) et des 250 milliards d’euros apportés par le FMI lors du sommet du 9 mai 2010.

(11) Voir sur ce point Wolfgang Münchau, « Could any country risk a eurozone bail-out ? », Financial Times, 26 septembre 2010.

(12) Les titres obligataires souverains.

(13) La séniorité désigne l’ordre de priorité des créanciers à être servis en cas de défaut. Plus un titre est senior plus il vient haut dans cet ordre et plus ses créanciers seront remboursés prioritairement. Mais il se peut très bien que le défaut soit tel que même les créanciers seniors prennent des pertes, comme l’a montré le cas des tranches seniors des CDO et des MBS de subprimes.

(14) Voir « Quatre principes et neuf propositions pour en finir avec les crises financières », 23 avril 2008, et « Si le G20 voulait… », 18 septembre 2009.

(15) Cette recommunalisation prenant la forme d’urgence de la nationalisation puis, à terme, de la mutation en un système socialisé du crédit, voir « Pour un système socialisé du crédit », 5 janvier 2009.

(16) C’est-à-dire ce qu’il en coûte de faire assurer un titre obligataire contre d’éventuelles dévalorisations liées à un « événement de crédit ».

(17) C’est-à-dire l’écart de taux qui les sépare d’une obligation de référence jugée sans risque, en Europe le Bund allemand pour les titres souverains.

(18) Voir « Commencer la démondialisation financière », Le Monde diplomatique, mai 2010 ; « Crise européenne, deuxième service (partie 2) », 15 novembre 2010.

(19) « Pour un système socialisé du crédit », 5 janvier 2009.

[20] C’est-à-dire la compensation mutuelle des dettes croisées à des taux évidemment à définir en fonction de leurs taux d’intérêt facials, de leur maturité, etc.

(21) Et ceci même s’il est exact qu’à moyen terme, les banques islandaises, et l’Etat qui les a couvertes, se retrouveront engagés dans de nombreuses procédures judiciaires aux Etats-Unis, au Royaume-Uni, aux Pays Bas, etc.

(22) Voir « Si le G20 voulait… », 18 septembre 2009.

(23) Voir « Ce n’est pas la Grèce qu’il faut exclure, c’est l’Allemagne ! », 29 mars 2010.

(24) On veut dire : dans les formes présentes de la « démocratie ».

La pompe à phynance

00:25 Publié dans Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : banques, système bancaire, économie, finances, crise | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook