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vendredi, 26 novembre 2010

Ernst Jünger - La civiltà come maschera

Ernst Jünger. La civiltà come maschera

Autore: Marco Iacona

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

La prima figura in ordine cronologico estrapolabile dai lavori giovanili di Ernst Jünger, (ma probabilmente prima anche per importanza) è quella del soldato. Il combattente nella terra di nessuno, il giovane che in solitudine affronta con invidiabile coraggio le truppe e che osserva con lungimiranza l’affermarsi della guerra dei materiali, è già in grado di assumere una propria posizione ideologica che influenzerà parte della cultura tedesca negli anni a venire. Le azioni e le idee del giovane Ernst (qualunque significato assumano) costituiscono, in questi primi anni, un esempio che verrà trasmesso per mezzo delle opere scritte, alla gioventù tedesca e in particolare alle migliaia di reduci insoddisfatti. Tuttavia nello stesso periodo, agli scritti di guerra Jünger alternerà opere di carattere più marcatamente psicologico, e ciò fino agli inizi degli anni ‘30 quando dando alle stampe Der Arbeiter, concluderà oltre un decennio di studi e riflessioni. Nei paragrafi che seguono ci occuperemo di approfondire l’attività del grande scrittore negli anni del primo dopoguerra.

A diciannove anni i sogni africani di Ernst Jünger sono arrivati dinanzi ad un bivio. «Il tempo dell’infanzia era finito» afferma il giovane Berger, alla fine dell’avventura nella Legione Straniera, si può rimanere, cominciare una vita borghese, fatta di agi, piccole e vecchie corruzioni, o si può continuare non fuggendo ma agendo, per soddisfare una incancellabile voglia di protagonismo e scacciare l’horror vacui della crisi. Forte di queste convinzioni, soltanto un cuore avventuroso avrà il coraggio di raggiungere il fronte, poiché è alla ricerca di uno stile di vita maledettamente non-borghese, di un antidoto alla insoddisfazione, di un ideale per cui battersi fino all’estinzione. Accadrà che nel corso della guerra, il fuoco causerà quattordici ferite al corpo del giovane Ernst, ma il pericolo stesso finirà col correggere l’acerba vitalità della recluta: la Grande guerra trasformerà il giovane tenente in un uomo, ne scolpirà il carattere, permetterà lo sviluppo di un pensiero audace.

Nel dopoguerra Ernst Jünger, «soffre la pace» e l’inattività, decide di chiudersi in se stesso, e dopo l’elaborazione dei diari di guerra, «butta giù» numerose riflessioni in forma di schizzo che più tardi comporrà in volume, ama leggere gli scrittori «maledetti», autori dallo spirito fortemente irrequieto, poeti e narratori che sente «propri», è alla ricerca di qualcosa e «crede alla fine di trovarla nell’ascesa della politica tedesca a cui prenderà parte». Le riviste nazionaliste lo attraggono, sceglie l’opposizione alla borghesia e al liberalismo e agli inizi degli anni ‘30 pubblica due fra le più importanti opere del primo periodo: Die totale Mobilmachung e Der Arbeiter ove sviluppa le proprie idee frutto degli anni di riflessione e studio. Si tratta di opere che indagano la realtà con sguardo fermo, a volte spinto agli eccessi, ma guidato dall’onestà intransigente dell’ex combattente.

In tutto il primo periodo, Jünger dimostra di poter abbracciare, grazie ad una scrittura facile e dal contenuto sempre «a fuoco», vari temi: è passato, via via, dai resoconti di guerra, alle riflessioni psicologiche e biografiche per approdare infine, negli anni ‘30, al saggio teorico «impersonale». È agevole notare una natura di scrittore «poco regolata», desiderosa di espressione continua per mezzo di forme diverse e in grado di soddisfare una varietà di esigenze mai fissate a priori. Se la guerra lo ha costruito come uomo, il dopoguerra lo costruisce come scrittore, la scrittura viene utilizzata (secondo alcuni critici, in modo assolutamente inconscio) per superare le crisi del combattente e del reduce e le conseguenze psicologiche ad esse legate. Tuttavia se volessimo tentare una lettura organica degli scritti di cui si è detto, si rende opportuna la ricerca di un leitmotiv che percorra tutta l’opera jüngeriana, costituendone, per così dire, una spina dorsale ideale. Date le premesse, questo tentativo facilita la costruzione di basi idonee a liberare il pensiero di Ernst Jünger da quell’indeterminatezza che alcuni hanno evidenziato, accostandolo ad un tempo ad un ben individuato filone intellettuale e politico.

Per Marcel Decombis la ricerca di un solido punto di vista ha, in Ernst Jünger (malgrado la mancanza di uno specifico metodo) «principi assolutamente fissi», postulati da una forza eminentemente rivoluzionaria; vale a dire lo scrittore manifesta nelle proprie opere una volontà di rottura dello status quo coerentemente sostenuta da un atteggiamento negazionista. D’altro canto, Jünger non può essere annoverato tra i pensatori nihilisti: egli manterrebbe infatti un atteggiamento perennemente (anche se simbolicamente) positivo. Affrontando ogni difficoltà ma mai certo della propria sopravvivenza egli ha dimostrato di intendere l’esistenza, descritta prevalentemente nelle forme del diario-romanzo, nei termini di una vita che nasce dalla morte. Questo capovolgimento dottrinario della natura, già utilizzato da Hölderlin ma presente anche in Wagner e Nietzsche, rappresenta un omaggio sia alla viva forza come sostantivo imperituro, sia alla mortalità generatrice come presupposto di un’idea di immortalità. «Penetrato da questa convinzione, Jünger, chiede [...]che si faccia tabula rasa del passato, prima di porre le basi del futuro». Pertanto le durissime, tragiche prove contenute in ogni esistenza, servono soltanto da prologo al compiersi di uno spirito rigeneratore: guerra, caos, anarchia, non possono che rafforzare la volontà di ciò che è già forte, «la distruzione [non può che avere] un effetto creativo». Riassumendo: le crisi degli anni ‘20 conducono all’elaborazione di opere distruttive, prima di crudo realismo, poi di opposizione interiore, la rigenerazione si rivela nell’opera politica degli anni ‘30, quando tutte le difficoltà precedenti assumono la forma di una nuova dottrina.

Sulla scorta di quanto ha scritto Langenbucher, si può operare un’importante distinzione tra i grandi artisti che presero parte alla guerra nel 1914. Alcuni come George, al momento dello scoppio del conflitto erano adulti, con una personalità formata in pieno e dunque «già carichi di pregiudizi»; altri, Jünger fra questi, erano giovanissimi e molto più adatti a descrivere la nuova esperienza di cui erano così intensamente partecipi; questi ultimi saranno pronti a narrare i trascorsi avvenimenti con una «purezza di intenzioni» che caratterizzerà in modo netto l’intreccio narrativo di numerosissime opere.

Sebbene di diari di guerra, dotati di crudo e visibile realismo, la letteratura del primo dopoguerra abbondi, l’opera di Jünger «è unica nel suo spirito». Decombis individua in essa uno spirito ricco di certezze; i diari jüngeriani sono memorie «spogliate di ogni carattere soggettivo al punto da apparire come dei semplici documenti». In Stahlgewittern è un libro contenente un’elencazione di fatti, spesso identici, che si susseguono nella loro concreta monotonia, è un’opera senza censure, o convenienti omissioni che presenta pagina dopo pagina, un freddo spettacolo di estinzione ed un dietro le quinte fatto di snervante attesa. È il libro che riassume quattro anni di guerra. Das Wäldchen 125 mostra invece un particolare essenziale della lunga esperienza del fronte: la difesa di una postazione di prima linea, è un episodio che in sé riassume la violenza degli attacchi e dei contrattacchi. Feuer und Blut è la narrazione di un giorno al fronte: la controffensiva tedesca del 21 marzo 1918 (evento che Jünger non dimenticherà mai); il soggetto è, dunque, ancora una volta la Grande guerra.

Der Kampf als inneres Erlebnis, può essere considerato un ponte tra le opere narrative di cui si è testé detto ed i lavori successivi. Si apre con essa il periodo di grande riflessione ed elaborazione intellettuale dell’esperienza vissuta. In quest’opera lo scrittore di Heidelberg riflette sul bisogno psicologico di uccidere e sulla distruzione come legge «essenziale» della natura; ma le azioni dell’uomo qui assumono il valore di «flagello necessario» che alimenta un salutare spirito di rinascita. La guerra è «il più potente incontro tra i popoli», ogni principio tra le genti si è affermato attraverso la guerra, essa viene accettata (così come non viene rimosso il ricordo di quattro anni di trincea) perché inevitabile, ed anzi l’accettazione è legata intimamente allo studio delle tecniche di offesa. Una procedura indispensabile per «non rimanere vittima dell’evento», affrontarlo senza soccombere, e dare un’idea di cosa la guerra sia e quale sforzo straordinario il combatterla comporti.

Dunque, a ben vedere, la scelta dello scrittore è di non cantare le lodi della guerra in modo dissennato, bensì di rappresentarla con totalizzante realismo, tentando di ricercarne «un’anima» che possa superare l’emergere delle contraddizioni che la ragione stenta a spiegare. Così egli ha registrato la Materialschlacht, ha convissuto per anni con l’assoluta impotenza del soldato in trincea, ed andando alla ricerca di un proprio «ruolo da protagonista», ha inteso dare alla materialità proprie regole e confini. Jünger accetta la guerra tecnologica («il regno della macchina dinnanzi alla quale il soldato deve annullarsi [...]»), non c’è rimpianto per un passato fatto di eroismi, non c’è insoddisfazione per un presente ove le virtù eroiche non trovano posto; egli ricerca un ordine, un equilibrio tra uomo e macchina, consapevole del ruolo di assoluta importanza che la tecnica occupa, anzi rivolgendo la massima attenzione a quest’ultima, prevedendo già che nuovi comportamenti e nuove mansioni attenderanno l’uomo «prigioniero» della tecnica. Scopriamo cosi uno Jünger materialista che si «sforza di respingere tutte le illusioni dello spirito al fine di ritrovare il linguaggio dei fatti». Tuttavia l’uomo vuole restare «superiore» alla forza potenzialmente distruttiva della tecnica, egli può allora utilizzare quest’ultima come medium per «riaffermare la potenza dell’essere»; così il materialismo, che allontana dalla volontà dello scrittore qualunque superstizione idealista, diviene materia per operare personalissimi adattamenti: la realtà bellica si tramuta in evento estetico ove l’eroismo del singolo convive, in una continua ricerca d’armonia, con lo «strapotere» delle macchine. E poiché Die Maschine ist die in Stahl gegossene Intelligenz eines Volkes, le diverse forze della modernità amano procedere parallelamente.

In Stahlgewittern è un diario-romanzo pubblicato due anni dopo la fine della grande guerra. Come si è detto, costituisce la non breve ouverture di oltre ottant’anni di continua produzione letteraria; per anni la critica, a causa dei contenuti e delle intenzioni del giovane autore, la etichetterà come l’opera principe dell’anti-Remarque della cultura europea. Protagonista unico del libro è il Soldato-Jünger che sconosce le decisioni prese dai superiori e soprattutto le motivazioni di largo respiro strategico delle azioni intraprese. La guerra viene rappresentata in modo parziale attraverso gli occhi del protagonista, l’opera descrive dunque soltanto l’evento in quanto evento e non fatto storico che porta con sé, innumerevoli risvolti e significati. Kaempfer vi ha scorto una lettura degli eventi bellici di comodo, data cioè una tesi aprioristica, l’intreccio narrativo si svilupperebbe con l’intento unico di confermarla, omettendo i dati che con essa contrasterebbero. D’altra parte Prümm ha visto in questo approccio un filo conduttore dell’opera jüngeriana: l’accettazione della realtà in quanto oggetto «che si sviluppa indipendentemente dal singolo individuo». Di conseguenza secondo alcune tesi abbastanza diffuse, vero protagonista dell’opera non si rivelerebbe il soggetto scrivente, bensì un oggetto:

-L’immagine dei corpi straziati, vale a dire la cruda realtà dei morti giacenti sulla superficie delle campagne.

Ovvero uno spirito-guida:

-Il respiro della battaglia che aleggia intorno alle truppe.

In proposito, scrive Jünger:

«Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità tutti sentivamo l’irresistibile attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli [...] la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini [...]» Accenti forti, espressi anni prima in terra francese anche da F.T. Marinetti, accenti forti ma così poco inusuali nella storia delle moderne nazioni. Pertanto In Stahlgewittern, concesse al lettore poche battute iniziali, mostra senza perifrasi, le vere conseguenze dei conflitti moderni: primo inverno di guerra, Champagne, villaggio di Orainville, un bombardamento, tredici vittime, una strada arrossata da larghe chiazze di sangue e la morte violenta che rimescola i colori della natura. Segue il terribile resoconto di una forzata convivenza con la morte e con le azioni di belliche, ove «l’orrore della guerra viene estetizzato in incantesimo demonico e trasfigurato in veicolo estetico di accesso ad una sfera superiore [...]».

La vita comincia al crepuscolo in trincea e continua nelle buche scavate nel calcare e coperte di sterco. Si combatte una guerra di posizione che richiede un davvero difficile eroismo tanto da lasciare poco spazio alle illusioni: l’importante non è la potenza o la solidità delle trincee, ma il coraggio e l’efficienza degli uomini che le occupano. Bohrer sostiene che la rappresentazione dell’orrore in Ernst Jünger, serve a fornire della guerra una «immagine critica», vale a dire l’estetizzazione della stessa sarebbe il solo metodo in grado di darne un’idea reale. D’altro canto, la realtà medesima della guerra diviene realtà «superiore» poiché ogni valore e modello tradizionale è stato da lungo tempo dimenticato.

La scoperta della battaglia dei materiali è l’evento cardine nel processo di formazione delle idee jüngeriane: il valore individuale è annullato dallo strapotere della tecnica. La meccanizzazione della guerra e le conseguenze che ne discendono, sono comprese dal Soldato in tutta la loro forza epocale. È la controffensiva inglese sulla Somme a segnare la fine di un primo periodo di guerra e l’esordio di un nuovo tipo. Questo registra le battaglie dei materiali e subentra col suo gigantesco spiegamento di mezzi, al «tentativo di vincere la guerra con battaglie condotte alla vecchia maniera, tentativo inesorabilmente finito nella snervante guerra di posizione». Già Spengler aveva capito come il valore e il ruolo dell’individuo sarebbero stati ridotti dall’andamento della guerra moderna; ma dalla sua prospettiva Jünger continua ad insistere sulle capacità del soldato, sforzandosi di dare ai compiti del combattente un accento da molti considerato irresponsabile. Tuttavia l’ideale eroico prussiano che Jünger manifesta nel suo diario, sconta anch’esso una lettura di tipo “psicanalitico”. Si tratterebbe, a parere di alcuni, di un tentativo di fuga dal mondo reale, ove il Soldato è costretto ad affrontare gli echi del destino simboleggiati dal Trommelfeuer. L’eroismo diviene la necessità o il calcolo razionale di chi ha pochissimo spazio per combattere una propria guerra, e finisce col dissimulare azioni e comportamenti necessari dettati da tempi meccanici fuori da ogni controllo.

In tutto il resoconto c’è un’impronta magico-fiabesca, una coincidenza degli opposti, che unisce all’esplosione di forze elementari una continua ricerca della quiete cosmica: la battaglia viene sovente destorizzata e calata in una superficie mitica, al di sotto della quale la scrittura jüngeriana edifica possenti colonne, così si legge infatti: «La guerra aveva dato a questo paesaggio [davanti al canale di Saint Quentin] un’impronta eroica e malinconica». In mezzo ai colori della natura «anche un’anima semplice sente che la sua vita assume una profonda sicurezza e che la sua morte non è la fine».

Il tentativo di esorcizzare la guerra, minimizzando gli eventi tragici e costruendo a propria difesa un mondo magico, condurrebbe in tal modo Jünger alla creazione di figure irreali, è questo il caso dell’immagine classica dell’eroe immortale, immerso nella contemplazione di una natura amica. D’altra parte anche l’amatissima letteratura apparirebbe, e non di rado, come incredibile via di fuga. Scrive Jünger, durante un assalto:

«L’elmetto calato sulla fronte, mordevo il cannello della pipa, fissando la strada, dove le pietre lanciavano scintille all’urto con le schegge di ferro; tentai con successo di farmi filosoficamente coraggio. Stranissimi pensieri mi venivano alla mente. Mi preoccupai di un romanzo francese da quattro soldi, Le vautour de la Sierra, che mi era capitato fra le mani a Cambrai. Mormorai più volte una frase dell’Ariosto: “Una grande anima non ha timore della morte, in qualunque istante arrivi, purché sia gloriosa!” Ciò mi dava una specie di gradevole ebbrezza, simile a quella che si prova volando sull’altalena al luna park. Quando gli scoppi lasciarono un po’ in pace i nostri orecchi, udii accanto a me risuonare le note di una bella canzone: la Balena nera ad Ascalona; pensai tra me che il mio amico Kius era impazzito. A ciascuno il suo spleen».

La guerra diventa strumento di intima e eterna vittoria, epifania dell’arte. L’uomo Jünger, traghetta il guerriero in un kunstwald: i pensieri fanno da sfondo ad una tragedia che conosce un’eroica, ma mai sinistra, tristezza. Repentinamente lo sguardo indagatore si affaccia a scrutare gli abissi della guerra ove la passione umana trascolora all’urto di invincibili forze ctonie, leggiamo: «È una sensazione terribile quella che vi si insinua nell’animo quando vi trovate ad attraversare, in piena notte, una posizione sconosciuta, anche se il fuoco non è particolarmente nutrito; l’occhio e l’orecchio del soldato tra le pareti minacciose della trincea sono messe in allarme dai fatti più insignificanti: tutto è freddo e repellente come in un mondo maledetto». Il mondo maledetto è forse soltanto l’arena della tecnica e delle tecniche di guerra? Osservato dalla trincea, il Welt jüngeriano assume i contorni della fabbrica. Compiuto da schiavi-stregoni, l’apprendistato diventa giorno dopo giorno, utilizzo produttivo della paura: la fusione dei materiali in forze onnipotenti.

Lo spirito-guida, la battaglia che non concede vere soste, non cessa di essere protagonista: quando nei primi mesi del 1918, si parla di una immensa offensiva sull’intero fronte occidentale, annota Jünger: «La battaglia finale, l’ultimo assalto sembravano ormai arrivati, lì si gettava sulla bilancia il destino di due interi popoli; si decideva l’avvenire del mondo». La micro-storia di alcuni villaggi di confine, assurge a Macro-storia, la tragedia a Schicksal di un’epoca. Decisione e azione si trasmutano nel faro ideologico degli anni a venire. La guerra indagata con sguardo lungimirante sarà prologo e continuazione di una ventennale politica europea. In definitiva: le aspre reazioni emotive (i «lati oscuri» jüngeriani) emerse dall’animo umano quali effetti avranno sulla ripresa della quotidianità nel dopoguerra? La «rivincita del brutale sul sentimentale» come ha scritto Decombis, quali effetti avrà sugli anni a venire? L’idea che rimane è che la guerra abbia riscoperto ciò che persiste immutabile nell’animo umano: gli istinti primitivi, allo stesso modo il fuoco ha rimosso quella sottile vernice che ricopriva il fondo della natura umana. Nel corso di quattro indimenticabili anni essa ha strappato la maschera della civiltà permettendo all’uomo di apparire nella sua armonica totalità.

El Reich neoconservador de Edgar J. Jung

EL REICH NEOCONSERVADOR DE EDGAR J. JUNG

Alexander Jacob
 
 
El movimiento neo-conservador en la República de Weimar fue una empresa política elitista que pretendía devolver a Alemania a su mundo espiritual original y posición como líder del Sacro Imperio Romano-Germánico medieval de la nación alemana. Constituido por intelectuales como Oswald Spengler, Arthur Moeller van den Bruck, y Edgar Julius Jung, los neo-conservadores estaban destinados a destruir la situación socio-política y ética de la República de Weimar liberal que se había impuesto a Alemania por sus enemigos. La mayoría de los neo-conservadores eran miembros de los clubes de élite de la época, el Juniklub, fundada por Moeller van den Bruck, y su sucesor, el Herrenklub, y se oponían tanto a todos los populistas de los sistemas democráticos liberales.
De los neo-conservadores, tal vez el más influyente teórico y activista político fue, sin duda, el abogado de Munich, Edgar Julio Jung. Jung no era solamente un pensador y propagandista, sino también un político activo en la República de Weimar, después de haber comenzado su carrera política al mismo tiempo que su práctica jurídica poco después de la primera Guerra Mundial. Jung nació en 1894 en el Palatinado bávaro y sirvió como voluntario en la guerra. Después de la guerra, se unió a una unidad del Cuerpo Libre y participó en la liberación de Munich de la República Soviética de Baviera en la primavera de 1919. Antes de la ocupación franco-belga del Ruhr (1923-25), Jung había terminado su doctorado en Derecho y comenzó la práctica en Zweibrücken. Sus actividades políticas durante este tiempo incluyen la organización de la resistencia y de las actividades terroristas contra la ocupación del Ruhr, formando parte del directorio del Deutsche Volkspartei.
Después de la crisis del Ruhr, Jung se estableció como abogado en Munich, donde vivió hasta su muerte. Jung adquirió fama a través de su política de varios escritos en el Deutsche Rundschau, y su tratado político más importante, Die Herrschaft der Minderwertigen (segunda edición, 1929, 30), que, según Jean Neuhrohr, fue considerado como una especie de "biblia del neo- conservadurismo".
En enero de 1930, Jung se unió a la Volkskonservative Vereinigung, un partido de extrema derecha formado inicialmente por doce diputados del Reichstag, que se habían separado de la Volkspartei Deutschnationale dirigido por Alfred Hugenberg. La actitud de Jung frente al Partido Socialista Nacional de Hitler era tibia, a pesar de su admiración por las "energías positivas" del movimiento. Hitler se había postulado a la nación como un ídolo para hipnotizar a las masas ignorantes, mientras que un cierto movimiento conservador trataba de elevar a las masas mediante la invocación de la santificación de su liderazgo. Los partidos de extrema derecha sin embargo estaban demasiado divididos para formar una alternativa sólida a las fuerzas nacionalistas, especialmente después de una segunda secesión de la DNV, que creó otro partido escindido, el Volkspartei Konservative.
El intento de Jung para imponer su propia marca de 'conservadurismo revolucionario' en la VKV se reunió con poco éxito, y cuando la DNV y KVP unieron fuerzas en diciembre de 1930 la dirección de la nueva coalición fue entregada no a Jung, pero sí a Pablo Lejeune-Jung. En enero del año siguiente, Jung y algunos de los conservadores de Baviera formaron la «Bewegung zu Volkskonservative Bewegung deutscher 'como una política de origen"para todos aquellos que, al margen de las consignas y las fórmulas mágicas de la vida política partidaria, estaban dispuestos a mirar los problemas políticos contemporáneos desde la perspectiva exclusiva de la misión histórica del pueblo alemán".
Sin embargo, la negativa de Jung a cooperar con los conservadores más moderados como Heinrich Brüning y los recursos de Treviranus, a fin de promover su propia marca de conservadurismo revolucionario, no ayudó a su movimiento, que había perdido casi toda la fuerza política en la primavera de 1931. La carencia de entusiasmo de Jung por el canciller Brüning fue explicada por él en un borrador de una carta a Pechel de fecha 14 de agosto 1931:
"Sólo cuando el gobierno está en camino de volver al concepto de autoridad y se libera de la esterilidad del parlamentarismo alemán, puede que estas fuerzas se pongan al servicio de la nación en su conjunto. En la reorganización del gabinete, el objetivo debe ser el abandono total de su base del partido. No es la aprobación de las partes, pero la práctica y la competencia profesional deben determinar la selección de aquellos a quienes usted, canciller respetado, tendrán que ayudarle en el dominio de estas tareas difíciles."
Cuando Hitler y el Partido Nacional Socialista obtuveron las victorias masivas en la región y las elecciones estatales del 24 de abril de 1932, Jung dio la bienvenida a la realidad jurídica de la adhesión de los nazis al poder. Porque, aunque Jung estaba temeroso de las tendencias extremistas de los nazis, esperaba que con este proceso legal, se evitaría la debacle de un ataque forzoso a la voluntad política mayoritaria. Además, la marea de entusiasmo nazi en el país era imparable y la alianza conservadora se vió impotente cuando el NSDAP obtuvo una resonante victoria en las elecciones del Reichstag de noviembre de 1932. Jung quedó naturalmente sorprendido cuando Hitler astutamente unió fuerzas con el conservador Von Papen para formar un gobierno de coalición en enero de 1933. Jung siempre mantuvo una actitud de superioridad con el populismo de Hitler, y creía que, puesto que los conservadores eran "responsables de que este hombre llegase al poder, ahora tenemos que deshacernos de él".
Así que, cuando Franz von Papen fue nombrado vicecanciller de Brüning, en 1933, Jung escribió a Papen que ofrecía sus servicios como escritor de discursos y asesor intelectual. Por consejo de su estrecho colaborador, Hans Haumann, Papen invitó a Jung a unirse con su gobierno en una organización con capacidad de asesoramiento. La intención de Jung en el servicio a la administración de Papen fue "para proteger [a Papen] con una pared de los conservadores" que proporcionaría el rector un enriquecimiento moral necesario frente a un rápido ascenso de Hitler al poder. Con la esperanza de frenar el extremismo de Hitler con su ideología conservadora, Jung se destacó como redactor de los discursos para Papen, cuando éste, Hugenberg y Seldte Franz de la Stalhelm se unieron para formar el conservador Kampfront Schwarz-Rot-Weiss. Sus discursos fueron diseñados para impresionar a la nueva coalición de fuerzas de extrema derecha con un sello conservador en lugar del extremista nazi. Jung defendió el gobierno de Papen contra los nazis "de las acusaciones de reaccionarios”, haciendo hincapié en el carácter revolucionario de la nueva derecha y poniendo de relieve lo espiritual y los defectos ideológicos de Hitler y su partido.
Mientras Papen trataba de luchar contra el movimiento nazi desde un punto de vista conservador, Jung escribió una crítica del fenómeno nazi en su Sinndeutung der deutschen Revolución (1933), en el que reiteró sus acusaciones de neoliberalismo y democratismo, al tiempo que destacaba que "el objetivo de la nacional-revolución tiene que ser la despolitización de las masas y su exclusión de la dirección del Estado".
Jung llama a un nuevo estado basado en la religión y en el mundo visto universalmente. No las masas, sino una nueva nobleza, o una élite auto-consciente, debe informar al nuevo gobierno, y el cristianismo debe ser la fuerza moral en el estado. La propia sociedad debe ser organizada jerárquicamente y más allá de los límites del nacionalismo, a pesar de que debe basarse en "una base völkisch indestructible”. La referencia a ir más allá de los límites del nacionalismo fue, por supuesto, motivada por su deseo de restituir un Reich federalista europeo. El conservadurismo de Jung se distinguió también por su llamamiento para la creación de una monarquía electiva y el nombramiento de un regente imperial como el director espiritual del nuevo Reich europeo-germánico. Sin embargo, tanto el proyecto de Reich como el énfasis puesto en las asociaciones völkisch, se llevaron a cabo de forma más dramática y temeraria por Hitler que por cualquiera de los líderes conservadores.
La oposición de Jung a Hitler tomó una forma más concreta a principios de 1934, cuando emprendió numerosos viajes por toda Alemania para desarrollar una red de simpatizantes conservadores que ayudasen a derrocar el régimen de Hitler. El propio Papen no estaba al tanto de los esfuerzos de Jung en esta dirección y la asistencia de Jung vino de Herbert von Bose, Günther von Tschirschky y Ketteler. Jung incluso contemplaba personalmente asesinar a Hitler, a pesar de los temores de que esta acción drástica podría descalificarlo para asumir un papel protagonista en la nueva dirección. Después adoptó la alternativa académica de escribir otro discurso para Papen, última entrega que se desarrolló en la Universidad de Marburg el 17 de junio de 1934. Los repetidos ataques sobre la ilegitimidad del régimen de Hitler y los fracasos políticos de este régimen en este discurso, obligaron a Hitler, bajo el consejo de Goering, Himmler y Heydrich, su asistente, para deshacerse de la amenaza planteada por Jung. Así, junto con Röhm y los oficiales SA, que se había convertido en rebeldes para los nazis, Jung perdió la vida en la "Noche de los cuchillos largos", el 30 de junio de 1934.
Retrospectivamente, podemos considerar la carrera política de Jung como ambivalente. Motivado por un lado, por su filosofía y la visión de un Reich alemán neo-medieval que debía destruir el sistema parlamentario nocivo de los liberales, la oposición de Jung a Hitler y su negativa a comprometerse con sus compañeros conservadores de la derecha fueron, claramente, impulsados por su ambición personal y, tal vez incluso, por la envidia de los éxitos políticos de Hitler. De hecho, el proyecto conservador propuesto por Jung difería de un extremista como Hitler sólo en grado y no en especie. La comunidad en que Jung deseaba convertir al pueblo alemán, en realidad se presentaba, de una forma similar a la diseñada por de Hitler, como un gigantesco movimiento de masas. Por supuesto, este populismo carecía de la sustancia espiritual que Jung había estipulado para la comunidad, pero los nazis, al menos, podían argumentar que fueron ellos los que sentaron las bases völkisch necesarias para una cultura espiritual uniforme. Además, la dramática política extranjera de Hitler, después de la muerte de Jung, en realidad se parecía demasiado al imperialismo cultural propuesto por Jung para el Reich alemán que debía liderar al resto de Europa.

jeudi, 25 novembre 2010

Jean Parvulesco nei cieli

Jean Parvulesco nei cieli

Ex: http://centrostudinadir.org/

 

Jean Parvulesco nacque in Valachia, Romania, nel 1929.
Nel 1948, non ancora ventenne, questo grande ammiratore di Codreanu sfuggì il comunismo attraversando il Danubio a nuoto. Fu catturato in Jugolsavia dove rimase prigioniero per due anni in un campo di lavoro prima di raggiungere Parigi nel 1950.
Si legò ad alcune componenti golliste ma sostenne l’Oas e collaborò con la Nouvelle Droite del Grece. Amico di Raymond Abélio, di Aurora Cornu, di Louis Powell, questo guenoniano che conobbe Ava Gardner, Carole Bouquet e tante altre belle donne, dialogò con  Martin Heidegger, Ezra Pound, Julius Evola e fu amico di cuore di Guido Giannettini.
Giornalista, politico, metafisico, mistico, Parvulesco ha lasciato un’impressionante mole di romanzi intrisi di mistero – esistenziale ma anche cosmico e simbolico – i cui personaggi oscillano tra il meraviglioso e l’autobiografico.
Tanto che fu notato e ammirato da registi francesi di primo piano quali  Eric Rohmer, Jean-Luc Godard o Barbet Schroeder. In “A bout de souffle” Goddard fece impersonare il vero Parvulesco dall’attore Jean-Pierre Melville.
Per l’occasione, Parvulesco, alla domanda su quali fossero le sue ambizioni, replicò: “diventare immortale e poi morire”.
Nell’ultima uscita pubblica, in studio televisivo lo scorso giugno,  ostentò invece uno straordinario silenzio.
Era evidentemente pronto all’ultimo passaggio e all’immortalità e decise di lasciarci il segnale più rumoroso e incisivo: il silenzio appunto.
Nel suo ultimo libro, Un retour en Colchide, appena pubblicato dalla Guy Trédaniel, scrisse  “non siamo noi che decidiamo l’ora. Io faccio quel che posso ma non so se sarò presto costretto ad abdicare. D’altronde ho l’impressione che il momento della fine stia sopraggiungendo”.
E’ asceso ai cieli la sera di domenica  nella sua Parigi.

Gabriele Adinolfi

Un front clandestin pour la libération de l'Europe

Extraits de "La confirmation boréale" de Jean PARVULESCO

Ex: http://www.ledesobeissant.over-blog.com/

Tout se passe comme si, à l’abri d’un écran protecteur, aussi invisible qu’impénétrable, des évènements considérables se produisent, dramatiquement, dont on ne parviendrait à saisir, à l’extérieur, que des fragments en ordre dispersés, inintelligibles parce que leur terrifiante cohérence intérieures se trouve occultée, rigoureusement maintenue en dehors de toute attention étrangère au secret central des choses qui s’y font et s’y défont et qui décident du sort de ce monde dans une obscurité extrême.

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(…) A nous autres, derniers témoins de l’être, tout nous est prohibé. Nous nous trouvons irrémédiablement exclus de la grande édition, de la grande presse, de la radio, de la télévision ; le théâtre et le cinéma sont subversivement maintenus hors de notre portée, une violente campagne permanente et exhaustive de dénigrement, d’interdit formel et d’empêchement suractivé se poursuit inlassablement, à tous les niveaux, contre nos positions, contre nos œuvres et jusque contre les personnes mêmes qui se reconnaissent dans nos rang, atteintes, poursuivies jusque dans leurs existences même, jusqu’à leur dernier souffle.

(…) Car les choses du présent, sans distinction, sont devenues intolérables. La haute trahison spirituelle de certains, responsables et lucides ceux-là, et même plus que lucides, ainsi que le crétinisme, glorieux et moutonnier à la fois, d’une intelligentsia fermement décidée à ne pas en perdre une, qui s’obstine à s’enfoncer toujours plus avant dans l’écœurante misère de la médiocrité d’état et qui étouffe tout et nous a étouffé tous sous la lourde chape de boue de ses basses œuvres, n’en finissent plus de dévier, de souiller et d’empêcher toute vie spirituelle en devenir, et jusqu’à la vie elle-même dans les choix de sa conscience et dans la conscience de ses choix.

(…) Nous ne sommes déjà plus rien d’autre que le seul honneur de notre fidélité, si notre honneur s’appelle fidélité, si nous sommes les survivants hallucinés des serments antérieurs, fondement occultes des grands serments à venir avec les prochains renouvellements de la foi impériale.

(…) Dans la conjoncture politique actuelle, dont la caractéristique décisive est celle d’une de l’installation préventive d’une vaste conspiration mise subversivement en place et dirigée, dans l’ombre, par la « superpuissance planétaire des Etats-Unis », les combats pour la libération de l’Europe ne peuvent plus être, aujourd’hui, que des combats souterrains, les combats désespérés d’une résistance clandestine. Car il y a un front de libération de l’Europe, qui reste, à présent, la dernière chance d’une nouvelle liberté politico-historique européenne face à la conspiration mondiale qui se bat pour la fin de l’Europe, et de ses libertés géopolitiques impériales et supra historiques.

(…) Les forces régressives et désertificatrices à l’œuvre, suractivées, engagées en avant avec les glissements politiques négatifs opérés par le pouvoir encore en place, et qui imposent ainsi, en direct, dans les termes même de la terreur démocratique montante, leur loi de renversement et de prise de possession négative, satanique. Car tel est le signe de haute provocation qui sont les nôtres, l’obligation devant laquelle on se trouve tenu d’utiliser ce terme aux résonances bien anciennes, étrangères à nos actuelles habitudes de discours.

(…) Le renversement fondamental du front de la bataille décisive pour la libération de la conscience européenne fera que la conspiration mondiale américaine sera alors réduite à la défensive, et que c’est nous qui conduirons l’offensive du désencerclement et de l’affirmation finale de nos propres positions grand-européenne.

(…) Ainsi, désormais, seul l’inconcevable commande. Et l’inconcevable, en l’occurrence, étant l’action révolutionnaire totale du petit nombre de ceux qui ayant réussi à franchir pour eux-mêmes, pour leur propre compte, clandestinement, la ligne de passage entre l’être et le non-être, se trouvent déjà en état d’assumer la tâche de veiller sur un nouveau retour à l’être, d’un nouveau recommencement révolutionnaire de l’histoire française de l’Europe, de la plus Grande Europe.

(…) Raymond Abellio fait dire à un de ses personnages de son roman Les Yeux d’Ezechiel sont ouverts : « Aujourd’hui je le sais. Aucun homme ayant un peu le goût de l’absolu  ne peut plus s’accrocher à rien. La démocratie est un dévergondage sentimental, le fascisme un dévergondage passionnel, le communisme un dévergondage intellectuel. Aucun camp ne peut plus gagner. Il n’y a plus de victoire possible ». Il nous faudra donc qu’à partir de la ligne actuelle du néant, nous recommencions, à nouveau, tout, que nous remettions tout en branle par le miracle supra historique d’une nouvelle immaculée conception révolutionnaire. C’est la tâche secrète de nous autres.

(…) Et il n’est pas impossible que l’épreuve de force entre le pouvoir et les forces de contestation qui vont s’élever alors contre l’état de fait puisse prendre aussitôt les allures d’une guerre civile, les choses apparaissant ainsi d’autant plus étranges que les forces de contestation se levant contre la dictature démocratique à la fois sournoise et totalitaire du pouvoir seront tout à fait inconnues, n’ayant encore fait état, ouvertement, de leur existence, et ne manifestant donc aucune relation avec ce que l’on appelle, sans doute par dérision, « l’opposition nationale » – soi-disant « gaulliste » – et autres formations de la même frime, salement complices, à la traine, et dans l’imitation honteuse du pouvoir en place – « opposition nationale » dont les positions affichées font ouvertement assaut d’allégeance aux mots d’ordre de la conspiration mondialiste se tenant présente dans l’ombre.

(…) Aussi de nouveaux rapports de puissance et de destin, absolument imprévisibles, des glissements tectoniques en profondeur viendront définir et imposer, à l’heure prévue, une conjoncture politico-historique tout à fait autre.

(…) La conspiration mondialiste peut très certainement prétendre, à l’heure actuelle, d’être en état de tout verrouiller, de neutraliser toute velléité de résistance européenne, cette prétention trouvant posée dans les termes mêmes de la dialectique offensive de ses propres intérêts d’ensemble, de ses propres desseins, désormais à découvert, de la domination planétaire. La conspiration mondialiste s’y croit déjà.

Mais l’histoire n’est absolument pas la somme des circonstances : au contraire, c’est l’histoire qui décide, invente et impose irrationnellement les circonstances de sa propre marche en avant. A la terreur de la raison démocratique totalitaire, nous opposons la ligne de front de l’irrationalité dogmatique de l’histoire elle-même.

Jean Parvulesco

Extraits de La confirmation boréale,

Alexipharmaque, 2010

Source :Mecanopolis

 

Cercle Aristote: l'amitié franco-russe - passé, présent, avenir

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LE CERCLE ARISTOTE

vous invite à un colloque sur le thème


« L'amitié franco-russe: passé, présent, avenir »


La manifestation se déroulera à L’INSTITUT DE LA DÉMOCRATIE ET DE LA COOPÉRATION, 63 bis, rue de Varenne, 75007 PARIS

le 3 décembre 2010, de 10 h 00 à 19 h 00.


Programme:

10h – 10h30 : Pierre-Yves ROUGEYRON, président du Cercle :  Introduction. 

10h30 – 11h30 : Valérie HALLEREAU, universitaire : « La réception de l’œuvre d'Alexandre Soljenitsyne en France ».

11h30 – 12h30 : Viatcheslav AVIOUTSKIY, docteur en géopolitique: «La diarchie au sommet du pouvoir russe ». 

PAUSE DEJEUNER

13h30 – 14h30 : Xavier MOREAU, Courrier de Russie: «Histoire et géopolitique franco-russe ».

14h30 – 15h30 : Marc ROUSSET, ancien directeur général d’entreprise: « L'axe Paris-Berlin-Moscou ».

15h30 – 16h30 : Ekaterina NAROTCHNITSKAÏA, Directrice du Département 'Europe et Amérique' au sein de l’Institut de l’Information scientifique en Sciences Sociales, Académie Russe des Sciences, Moscou : «Politiques et perceptions franco-russes ».

16h30 – 17h30 : Romain BESSONNET, Cercle Aristote : « La russophobie dans les médias français ».

17h30 – 18h30 : David MASCRÉ, docteur en mathématiques et en philosophie : « L’actualité de l’alliance franco-russe ».

18h30 – 19h : John LAUGHLAND, Directeur des Etudes de l’IDC: Conclusion générale.


Inscription obligatoire.  Veuillez confirmer votre présence en écrivant à romain.bessonnet@sfr.fr

 

L'Europe aveuglée par ses certitudes

L'Europe aveuglée par ses certitudes

Par Jean-Luc Gréau - Ex: http://fortune.fdesouche.com/

 

Plus cela change, plus c’est la même chose.

Deux années après la chute dans la pire récession de l’après-guerre, les dirigeants de l’Europe demeurent accrochés aux schémas de pensée qui ont guidé leur action depuis l’avènement du marché unique, puis de l’euro. Ils reprennent sans ciller des mots d’ordre ayant jalonné la période critique qui s’est achevée, en septembre 2008, par un double fiasco américain et européen.

Tout se passe comme si les faits, dont certains assurent qu’ils sont têtus, ne recelaient aucune leçon nouvelle grâce à laquelle l’Europe pourrait changer certaines de ses orientations antérieures.

 

On pourrait pourtant s’interroger sur le regard qu’on a eu jusqu’à présent en matière de surveillance des dettes. Car les critères de Maastricht, valables pour l’ensemble de l’Union européenne, ne traitent que des dettes publiques. Et la période récente a révélé leur arbitraire, puisque deux Etats parmi les moins endettés en 2007, l’Irlande (25% du PIB) et l’Espagne (40% du PIB), sont respectivement en faillite non déclarée et en faillite virtuelle.

La première est victime, après la chute de son secteur immobilier, de l’accumulation de mauvaises créances au sein de ses banques désormais nationalisées : les pertes bancaires remontent mécaniquement dans les comptes du Trésor public de Dublin, pris au piège de la folie de ses banquiers.

La deuxième, sinistrée elle aussi par son secteur immobilier et par les excès de l’endettement privé, s’est résolue, comme l’Etat irlandais, à une diète de la dépense publique que lui intiment les marchés financiers et que lui recommande une Commission européenne attachée à ses préceptes de bonne gestion comme à un fétiche. Mais elles ont déjà renoué avec une récession qui devrait ruiner leurs efforts.

Faut-il rappeler que les deux commissaires « compétents » pour les questions financières et budgétaires, durant la période critique, se nommaient Charles McCreevy, citoyen irlandais, et Joaquin Almunia, ressortissant espagnol ? A l’évidence, l’un et l’autre ignoraient ce qui était en jeu.

La cotation de l’euro fournit le deuxième thème de réflexion. Les Américains ont ouvert un conflit avec la Chine en autorisant l’administration à mettre en oeuvre une politique de protection commerciale destinée à rééquilibrer les échanges commerciaux avec les pays dotés d’un avantage monétaire disproportionné.

Or, les autorités européennes restent muettes sur le sujet, au prétexte qu’une banque centrale n’a pas compétence pour traiter de la question du change, et que, l’essentiel résidant dans la stabilité interne des prix, on doit s’accommoder du reste. Moyennant quoi, l’esquisse d’embellie économique en Europe est menacée, y compris dans les pays mieux armés.

L’Europe aurait pourtant deux leçons évidentes à tirer des derniers événements.

Premièrement, que les dettes privées sont à surveiller tout autant – sinon plus – que les dettes publiques, car ce sont elles qui ont fait le malheur de l’Irlande et de l’Espagne.

Deuxièmement, que la cotation de la monnaie reste un élément essentiel de la compétitivité. A l’ignorer, on précipitera le déclin du Vieux Continent.

Mais, pour que l’Europe puisse tirer ces leçons, il lui faudra sans doute d’autres « têtes » que celles qui la conduisent aujourd’hui.

L’Expansion

Union européenne... des aveugles

Stijgend aantal stadsbendes in Brussel

 Stijgend aantal stadsbendes in Brussel
 
BRUSSEL 17/11 (BELGA) = In het Brussels gewest zijn 24 stadsbendes actief, waarvan 14 in de stad Brussel. In 2008 waren dat er respectievelijk 18 en 12. Dat verklaarde Stefaan Van Belle, commissaris van de sectie Stadsbendes bij de politiezone Brussel-Elsene, woensdag tijdens een studiedag rond stadsbendes en media.

thumb_act_20090713revolver.jpgBurgemeester Freddy Thielemans betreurde woensdag het effect dat sommige media hebben op de stadsbendes. Door het fenomeen al te vaak op te blazen, zorgen ze volgens hem voor een opbod tussen de bendeleiders.

"Het gaat om een reactie", aldus Thielemans. "De bendes doen zich tegoed aan wat gezegd wordt in de pers." Hij wees erop dat de kern van het probleem het gebrek aan opleiding bij de jongeren is.

Tachtig procent van de stedelijke bendes situeert zich in de politiezone Brussel-Elsene. Het merendeel van de resterende 20 procent heerst in Evere, Schaarbeek en Sint-Joost.

"In het Brussels gewest hebben 450 jongeren de status van 'harde kern' of 'wannabe' binnen een stadsbende. Die laatste vormen de tweede cirkel van de groep", zegt commissaris Stefaan Van Belle. De bendeleden hebben een gemiddelde leeftijd van 27 jaar.

Dagelijks analyseren 5 agenten van de sectie stadsbendes ongeveer 300 pv's op bekende namen. "Een groep krijgt de naam 'stadsbende' gedurende 14 maanden na twee delicten gepleegd in een periode van zes maanden", aldus nog Van Belle. EBA/KWO/

Club Med Brussel

 Club Med Brussel
Eddy Hermy
 
bellevie.jpgTerwijl de meerderheid van onze werkende mensen tussen de 80 en 120 euro bruto per dag verdienen. Terwijl uitkeringstrekkers 50 euro of minder per werkdag ontvangen, zijn er in dit land toch gelukkige zielen die zonder uitkering of zonder zelfs maar te werken kunnen genieten van Club Med-faciliteiten. De plaats van gebeuren: Brussel.

Daar genieten 1200 asielzoekers in 24 verschillende hotels die zijn aangesloten bij de FOD-afdeling vertier van een welverdiende pretvakantie. Elke maand kosten die hotelkamers 1,3 miljoen euro. Elke maand! Natuurlijk is de ene asielzoeker niet de andere. Je hebt ook asielzoekers die niet zo tuk zijn op een simpele kamer en die graag ietsje vrolijker en chiquer van hun verblijf in Brussel willen genieten. En om dat te realiseren hebben we onze gilde van advocaten...

Als echte bookmakers schuimen die advocaten de asielscène af op zoek naar meerwaarde zoekende asielanten. Het spel zit als volgt in elkaar: een advocaat belooft een asielzoeker dat hij er voor kan zorgen dat hij tot 500 euro per dag kan ontvangen zonder te moeten stelen en zonder te moeten werken. De buit wordt bij een eventuele toekenning van schadevergoeding wegens gebrek aan opvang verdeeld tussen de racketeer van de advocatengilde en de asielzoeker.

Het grappige aan het spel is bovendien dat deze schadevergoedingen worden toegekend door de ARBEIDSRECHTBANKEN. Kunt u zich dat voorstellen, een instelling die over arbeidsconflicten en arbeidsgeschillen gaat en die beslist over een toelage voor iemand die nog nooit van zijn leven een klop gedaan heeft en die niet eens over papieren beschikt?

Ik begrijp die linkse belgicisten soms wel: wie wil er nu een landje afschaffen dat dergelijke kluchtige toestanden kent? Dat is nog eens wat anders dan Cuba of China waar je papieren moet hebben om in een andere stad dan de eigen stad te mogen gaan werken.

Als het geld niet vlug wordt opgedokt, dan helpen de raceteers van de advocatengilde een handje. Zo is het geval bekend van een Congolees (handige gasten die Congolezen!) die Fedasiel een deurwaarder op het dak stuurde om zo 15 000 euro aan prijzenpot af te dwingen. In een stuk in Knack wordt onthuld dat deze Congolees daarvoor beslag liet leggen op auto’s en computers van de dienst Vreemdelingenzaken. Geen wonder dat de achterstand in het verwerken van asielaanvragen steeds meer oplopen als hun boel zo nu en dan wordt aangeslagen door een ontevreden klant.

Intussen is de prijzenpot gewonnen met het bingospel georganiseerd door de advocatengilde en uitbetaald aan asielzoekers opgelopen tot 300 000 euro dit jaar. BINGO! De blijde boodschap van een “Win for Life in Belgium” heeft zich dan ook wereldwijd verspreid. Wat tot een recordaantal van 2000 asielaanvragen in oktober heeft geleid.

In de hotels is het intussen elke dag feest: er is thuisverzorging, er zijn verpleegsters die komen kijken of er geen vakantiekwaaltjes verzorgd moeten worden.  En bij dit alles wordt een gedurfde en progressieve mix van vakantiegangers aangehouden. Om een jeugdige sfeer aan te houden hebben ze in die hotels ook een pak minderjarigen gelogeerd. Nu moet u zich als minderjarige maar eens proberen in te schrijven in een hotel. U zult nogal een gang gaan!

Maar die jeugdige asielzoekers hebben daar geen last van. In een verslag van de dienst Fedasiel wordt gewag gemaakt van een verregaande vorm van promiscuïteit (iedereen neukt met iedereen) in sommige van de vakantieverblijven, waar dus ook die jongere minderjarige vriendinnen of vrienden op bezoek krijgen. Maar we zijn een modern land, een milde vorm van hedonisme mogen we die jongens en meisjes niet ontzeggen, tenslotte is het voor hen vakantie.

Uit getuigenissen van hoteluitbaters blijkt dat die minderjarigen (van wie de meesten Marokkanen zijn) zich goed hebben geïntegreerd en dat ze zichzelf nuttig vermaken. Ze kunnen gratis naar school, ze hebben een gratis verblijf, het eten is kosteloos en ze skypen en sms’en naar de vrienden in Marokko dat het een lieve lust is. En een prettige bezigheid staat garant voor een verlengd verblijf in die hotels. Seks hebben om kindjes te maken, want niks is zo efficiënt om een verlengd verblijf af te dwingen als een kindje produceren. En iedereen weet dat een vakantiestemming bijdraagt aan seksuele activiteit. Dan maar van een nood een deugd maken!

Als asielzoekers te moe worden van het vakantie vieren, dan hebben zij nog mogelijkheden. Er zijn gevallen bekend van asielzoekers die plots verdwijnen uit hun Brusselse vakantiehotel om na twee of drie weken terug in te checken. En wat blijkt? Die mensen waren met vakantie gegaan naar het land van waaruit ze gevlucht waren! Effekes uitblazen van de stress die het vluchtelingschap met zich meebrengt. In het land waar je zogezegd vervolgd wordt. Is dat niet mooi!?

Les Européens prennent conscience de la toxicité de leur alimentation

pesticides_combinaison.jpgLes Européens prennent conscience de la toxicité de leur alimentation

PARIS (NOVOpress) – Selon une toute nouvelle étude de l’Union Européenne sur la perception que les citoyens européens ont de la sécurité alimentaire, 72% de ces Européens sont inquiets des résidus de pesticides présents dans les fruits, les légumes ou les céréales.

Par ailleurs, 69% des Européens sondées se disent inquiets des polluants que peuvent contenir le poisson ou la viande (contre 80% de français). Et enfin, 48% des personnes interrogées estiment que les autorités publiques de l’Union européenne ne prennent pas assez de mesure pour protéger les consommateurs de ces risques.

Les François sont pour leur part à la pointe de cette prise de conscience de la toxicité de l’alimentation industrielle.

Une inquiétude plus que fondée car de nombreuses études démontrent que l’alimentation est contaminée par de nombreuses substances toxiques : plomb, mercure, pesticides, nitrates. Les produits chimiques utilisés dans l’industrie et l’agriculture intensive se retrouvent dans nos assiettes. Les taux de substances toxiques autorisés dans les denrées alimentaires sont certes règlementés, mais pas toujours respectés.

Ainsi à l’échelle mondiale, 50 millions de personnes sont intoxiquées par le mercure, présent dans les poissons et les crustacés et qui provoque des troubles neurologiques, tout particulièrement chez le fœtus.

Fait aggravant et particulièrement inquiétant à l’heure de la mondialisation, en Chine, les entreprises agroalimentaires ne font pas d’études ou presque sur la teneur en produits toxiques des denrées alimentaires qu’elles produisent et exportent : 60 % des entreprises agroalimentaires chinoises ne testent jamais leurs produits.


[cc [1]] Novopress.info, 2010, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
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Il fascino eterno della femme fatale

Il fascino eterno della femme fatale

Mario Bernardi Guardi

Ex: http://www.mirorenzaglia.org/

femmefaltae.jpg“Non lo fo per piacer mio, ma per dare un figlio a Dio”, garantivano in rima baciata i camicioni da notte delle nostre trisavole. E diamo pure per buoni pudori e rossori di quelle spose e madri esemplari: ma non ci si venga a dire che tutte le signore dello stupido XIX secolo, con novecentesche appendici, erano così devote e vereconde. Non lo era sicuramente la celeberrima contessa di Castiglione, cugina di Cavour, e scelta dal conte per convincere Napoleone III a scendere a fianco dei piemontesi nella guerra contro l’Austria. Lei, «bocca sdegnosa, occhi grigi dal fascino inesplicabile» non se lo fece ripetere due volte e «in una camera tappezzata di Damasco di seta azzurra del castello di Compiegne» lo sedusse, convertendolo alla buona causa del patriottismo italico. Ma così come non era mai stata fedele al marito, «un ingenuo galantuomo ingannato ‘prima, durante e dopo’, non si consacrò certo a un esclusivo amore imperiale e concesse lo stropicciato fiore della sua (poca) virtù a una numerosa schiera di amanti, non disdegnando l’amore mercenario. Visto che per una notte di fuoco chiese a Lord Hertford un milione di franchi. Va detto anche che la vocazione libertina della nostra contessa era ben nota. Tanto è vero che un gentiluomo della corte di Napoleone, vedendola succhiare un sorbetto di fiori d’arancio, le chiese in tono pesantemente allusivo: “Le piace succhiare, contessa?”, e lei rispose ridendo: “Dipende da cosa…”».

Donne, donne eterni dèi! E davvero fascinose, voluttuose, vampiresche divinità sciupamaschi sono quelle (ventidue, tra grandi dame, grandi cortigiane, attrici, muse ispiratrici, intellettuali salottiere e militanti ecc.)  ritratte da Giuseppe Scaraffia in un libro uscito l’anno scorso, ma che, in questo delirio di escort piuttosto sgraziate, volgarotte e urlanti da cui siamo afflitti, può essere recuperato, a insegna di altri tempi e altre, più eleganti e galanti, atmosfere (Femme fatale, Vallecchi, pp.175, euro 15).

Andiamo di fiore in fiore. Cristina di Belgioioso, avvezza a ricevere gli spasimanti «in un salotto tappezzato di velluto scuro ricamato di stelle d’argento» dove si mostrava mollemente «allungata su un sofà vicino a un narghilè, la testa incoronata di fucsie, il suo fiore preferito», era tanto sicura di sé da dividere gli uomini in tre categorie: «Mi ama, mi ha amato, mi amerà». E la amarono, tra alterne vicende, Balzac, Bellini, Heine, Liszt e de Musset. Non fece in tempo ad amarla, invece, il garibaldino Goffredo Mameli che, ferito mentre combatteva contro i francesi sul Gianicolo, spirò tra le braccia di Cristina, mentre lei gli sussurrava “Fratelli d’Italia”.

Sciupamaschi d’eccezione fu anche l’attrice Sarah Bernhardt di cui si diceva che dormisse «in una bara di raso bianco, tra una funebre abbondanza di fiori». Ma anche che dietro i suoi pallori anoressici occultasse bulumici appetiti: in pubblico rifiutava sdegnosamente il cibo, ma solo dopo essersi «rimpinzata coscienziosamente» in privato. La amarono, a lei si ispirarono, per lei si entusiasmarono Hugo, Proust, James, Rostand, Lawrence, Shaw: chissà se sapevano che la Divina «nei periodi di penuria non esitava a prostituirsi per congrue cifre, come testimoniano le note della polizia parigina».

Anche Jeanne Duval, la creola «bruna come la notte», la «strega dai fianchi d’ebano», che ammaliò il bello, dannato e fragilissimo Baudelaire, era adusa a procurarsi i soldi nei modi più spregiudicati. E amava troppo «bere e fare l’amore» per recitar la parte della Musa devota e dell’amante fedele. Lui, ovviamente, pativa, implorava, malediceva. Ma, cotto com’era, continuava a venerare quella mulatta ignorante che se ne fregava dei suoi versi.  «Anche quando cammina si direbbe che danzi», scriveva trasognato. E dopo aver beccato la sifilide.

Fior di danzatrice e “femme fatale” per eccellenza fu Mata Hari che diceva di essere nata nel sud dell’India, figlia di un bramino e di una baiadera. Quel nome esotico, aggiungeva, significa “pupilla dell’aurora”. Fosse vero o meno, quando appariva in palcoscenico, «ondeggiando sinuosamente sotto i veli che la nascondevano e la rivelavano», il pubblico andava in estasi e immergeva lo sguardo goloso in quel corpo che, tentatore, si arrotolava e si srotolava, fino a lasciarsi scivolare a terra, spossato, coperto soltanto da un minuscolo “cache-seins” e, sul pube, da un invitante triangolino tempestato di pietre preziose. Anche lei fu amata e venerata. Nell’aureo “carnet”, tra gli altri, Céline e Filippo Tommaso Marinetti. E un appuntamento con la morte, la mattina del 15 ottobre 1917. Fucilata dai francesi con l’accusa di spionaggio a favore degli Imperi Centrali. Ma gli elementi a suo carico erano ridicoli e inconsistenti. Forse, più che la spia, chi la condannò volle ammazzare la “femme fatale”. Che bella morte, però. Che stile. Che movimenti eleganti e ondulati da magnifica pantera non profanata dalla prigionia. E che concede un’ultima rappresentazione: «Si lasciò docilmente legare al palo. I due gendarmi le fecero una legatura finta, da teatro, da cui si sarebbe potuta liberare facilmente, ma non lo fece. Non doveva uscire dalla parte che la storia le aveva assegnato. Guardò negli occhi il comandante del plotone: “Monsieur, vi ringrazio”. Non volle che le bendassero gli occhi. Mata Hari non significava ‘luce del mattino’?».


MARIO BERNARDI GUARDI

Entrevista com Guillaume Faye

Entrevista com Guillaume Faye

por François Delancourt
http://legio-victrix.blogspot.com/

warrior_girl.jpgJornalista, escritor, polemista, produtor de rádio, roteirista, Guillaume Faye foi um dos principais entusiastas da corrente conhecida como Nova Direita, movimento que abandonou em meados dos anos 80. Depois dirigiu a publicação mensal J'ai tout compris.

Na atualidade, enquanto continua sua carreira jornalística, analisa a situação e lança novos dardos ideológicos que correm o risco de acertar no alvo em todos os instantes.

- Français d'abord: Poderias dar-nos uma definição do "politicamente correto" e explicar como funciona?

- Guillaume Faye: O "politicamente correto" é, antes de nada, uma censura social do pensamento e da inguagem imposto nos Estados Unidos pelos meios liberais-radicais, os grupos feministas, homossexuais, e por certas minorias étnicas, com o fim de paralizar a expressão da direita republicana. Porém na França, o "politicamente correto", adquire um perfil mais severo que nos Estados Unidos, é uma velha história. Leva ao ostracismo aos que não seguem a linha e os discursos oficiais da ideologia hegemônica. Na universidade dos anos 60 e 70, o antimarxismo era politicamente incorreto e seus detratos diabolizados como "fascistas".

O "politicamente correto" é a condição sine qua non para ter acesso aos grandes meios de comunicação e não ser socialmente satanizado. É o "politicamente chip". Dizer "jovens rebeldes" ao invés de marroquinos amotinados. Falar de "incidentes" e não de saques. Evocar os "efeitos colaterais" das Forças Aéreas estadunidenses na Sérvia, porém evitar a todo custo o tema incorreto dos bombardeios dos bairros civis do norte de Belgrado. Dizer "fratura social", ao invés de pauperização e, acima de tudo, esforçar-se, se quer ser admitido para jantar no andar térreo da Casa Lipp, Boulevard Saint Germain, para deixar entender que detesta os "franchutes" (*gíria depreciativa para fazer referência aos franceses étnicos). Para ser politicamente correto, é necessário ser etnomasoquista, é indispensável.

- Qual é, então, o lugar dos que têm coisas para dizer e verdadeiras perguntas para fazer?

- Acima de tudo não é necessário que se auto-censurem e adociquem seus discursos. Para forçar a barreira do politicamente correto eu prego o pensamento radical; quer dizer, o pensamento verdadeiro e afirmativo, do qual falava Nietzsche em seu "Crepúsculo dos Ídolos". Frente ao sistema é necessário aparecer como um verdadeiro inimigo, e não como um falso amigo. Como escreveu Solzhenitsyn, somente sendo radical o discurso poderá desafiar a censura e alcançar o ouvido do povo.

- Por quê a extrema esquerda não representa uma alternativa?

- Porque suas idéias e seus homens, os do trotskismo internacionalista e cosmopolita, já estão no poder. Porque seu discurso social está obsoleto e centrado na imigração e na xenofobia, sem ter em conta a defesa e a proteção do verdadeiro povo francês.

- O que é que lhe permite afirmar que o livre-comércio cairá em breve?

- Minhas posições são as de Maurice Allais, prêmio Nobem de economia. O mundialismo livrecambista não é viável a médio prazo pois descuida das diferenças de fatores de produção entre as distintas zonas e suprime as regulações econômicas. É um semi-reboque com o motoristo adormecido. Agora bem, em uma auto-estrada, uma coisa é certa: sempre há uma curva em alguma parte.

Para ser breve, eu sou favorável à teoria da autarquia dos grandes espaços: um espaço europeu de economia de mercado, sem fiscalismo nem estatismo, porém operando contingentemente sobre as importações exteriores, sobre todos os fluxos, quer sejam financeiros, materiais ou humanos.

- Você pôs em evidência os perigos da ascenção do integrismo religioso, não crês que possa existir uma forma moderada de Islã?

- Não, o Islã laico e moderado não existe. O Islã é uma civilização teocrática em que a fé se confunde com a lei. Quando o Islã é majoritário sobre um território, os cristãos e os judeus passam a ter um status de inferioridade. O Islã não conhece nem a tolerância, nem a reciprocidade, nem a caridade para com o não-muçulmano, excluída a umma (comunidade dos crentes do Islã). A esse respeito a ingenuidade dos políticos e dos sacerdotes é anestesiante.

- Para você, a imigração não é uma invasão, mas sim uma colonização populacional. Não estamos diante de uma diferença puramente semântica?

- França, em sua história, sofreu invasões totais ou parciais por parte de alemães, ingleses, russos, etc. Ainda assim, continuou sendo ela mesma. Uma invasão tem caráter militar e a sorte das armas pode mudar. A imigração atual é uma colonização populacional, com frequência consciente e vivida como um revanche contra a civilização européia. Pretende-se ademais, definitiva. A colonização das maternidades, como assinalava o general Bibeard, é muito mais importante que a das fronteiras porosas.

- Regressemos, se quiseres, à política. Como explica os ataques que a Frente Nacional vem sofrendo desde quinze anos?

- Como dizia Jean Baudrillard em 1997, em Libération, se minha memória não me engana (o que serviu para ser satanizado pelo terrorismo intelectual de seus colegas), "a Frente Nacional é o único partido que faz política, ali onde outros fazem marketing eleitoral". Agora bem, o sistema detesta os que fazem política, e os que têm idéias ou projetos alternativos de sociedade. Por outro lado, a Frente Nacional parece-se a um médico que ousa dizer a seu paciente que este em câncer e que deveria ser operado. É sempre desagradável de ouvir e entender.

A acusação neutralizadora de "racismo" e "fascismo" (em outro momento lançada contra Raymond Aron, lá por 1968, porque não era nem stalinista, nem marxista) não é nem se quer postura séria para os que a proferem. São anátemas para-religiosos, excomunhões lançadas contra todo grupo constituído que conteste os dogmas oficiais da classe político-midiática-intelectual no poder.

- Se o entendo bem, os partidos do governo formariam uma sorte de partido único ao que poderíamos chamar também Frente republicana?

- Vivemos dentro de um regime totalitário ao estilo ocidental, mais sutil, porém aparentado com os regimes soviético ou iraniano. A maioria e a oposição oficiais não discutem mais do que pontos de doutrina secundários, porém seguem pertencendo à mesma ideologia, a única autorizada. Diferem um pouco sobre os meios, porém não sobre os fins. Dita "Frente republicana" (que na realidade usurpou escandalosamente este belo vocábulo romano de res publica, assim como o conceito grego de demokratia) inclui várias frentes. Sobre as opções gerais, estão todos de acordo. Na atualidade, e emprego para isso personagens de Hergé, o senhor Chirac se assemelha ao capitán Haddock, o comandante bêbado e sem poder à cargo do Karaboudjian que transporta o ópio, e o senhor Jospin ao teniente Allen, que é o verdadeiro chefe a bordo. Que chege logo Tintin!

- A Frente Nacional seria então a única novidade política depois de 50 anos...

- Isso são os historiadores do ano 2050 que dirão. Nós chegamos a um ponto em que, como tratei de explicar em meu ensaio L'archéofuturisme, vivemos uma convergência de catástrofes. Pela primeira vez desde a queda do Império Romano, nossa civilização está globalmente ameaçada (étnica, demográfica, cultural, ecológica, economicamente...). É o "caso de urgência", a Ernstfall da qual falava Carl Schmitt. Vivemos tempos e apostas mais cruciais, por exemplo, que a derrota de 1940. Trata-se de salvar um povo e uma civilização. Nesse sentido, a missão e a ambição de movimentos como este devem ser de ordem histórica mais do que política. Trata-se de "Grande Política" no sentido nietzscheano. Nesses tempos crepusculares, um movimento político não pode ter futuro se não se afirma como o único defensor de um projeto revolucionário, que se reivindica (como foi a genial tática de Charles de Gaulle em 1940) como o último recurso.

O essencial não está em ser uma "novidade política", o essencial é, em verdade, impôr-se como uma novidade "histórica".


Tradução por Raphael Machado

mercredi, 24 novembre 2010

Jean Parvulesco ou la conspiration permanente - In memoriam Jean Parvulesco

Christopher Gérard - http://archaion.hautetfort.com/

Jean Parvulesco ou la conspiration permanente

In memoriam Jean Parvulesco 

Vous allez nous manquer, vieux conspirateur!

Sit tibi terra levis

 "Notre solitude est la solitude des ténèbres finales"

 

JPmanteau.jpgNous retrouvant il y a peu dans son pigeonnier du XVIème, un spritz à la main, nous refaisons l'Empire, et le voici qui s'exclame: "je suis un conjuré depuis… 1945". Tout est dit de cet écrivain énigmatique (près de quarante volumes publiés, et toujours clandestin comme en 62) qui, livre après livre, creuse le même sillon pourpre, celui du gaullisme de la Forêt Noire, un gaullisme mâtiné de tantrisme et de géopolitique eurasienne. L'homme a connu Heidegger et Pound; il a fréquenté l'amiral Dönitz (après le 8 mai 45, semble-t-il) et Maurice Ronet; il a été l'ami et le confident d'Abellio et du regretté Dominique de Roux. Godard l'a fait apparaître dans A bout de souffle sous les traits de Melville, Rohmer lui a donné un rôle dans L'arbre, le maire et la médiathèque. De son perchoir, le Prêtre Jean reste en contact avec les activistes des profondeurs, de Moscou à Buenos Aires. Mieux, il suit à la trace les écrivains secrets d'aujourd'hui, la fine fleur de l'underground: Dupré, d'Urance, Mata, Bordes, Novac, Mourlet, Marmin et quelques autres rôdeurs.

Deux livres imposants marquent son retour sur la scène, un roman, Un Retour en Colchide, et un recueil d'essais, La Confirmation boréale. Deux aérolithes que nous devons au courage d'éditeurs qu'il convient de saluer. La démarche de Jean Parvulesco peut se définir comme suit: irrationalité dogmatique. Roman de cape et d'épée, journal intime, programme d'action révolutionnaire: le Prêtre Jean mêle le tout pour révéler ses intuitions et poursuive le combat contre "le gouffre noir de l'aliénation ". Comprenne qui devra.

Que faire des sept cents cinquante pages qu'il lance parmi nous comme des grenades à l'assaut? En parler? Difficile, même si Michel d'Urance nous propose une pénétrante préface au Retour en Colchide. Les lire en sirotant un pur malt. Retrouver Vladimir Dimitrijevic et le "sous-sol conspiratif de la rue Férou" en rêvant à la revanche de Nicolas II. Se rendre compte à quel point L'Age d'Homme est une oasis dans un milieu éditorial où toute œuvre non subalterne est impitoyablement neutralisée. Comprendre le message subversif de L'Anglaise et le Duc, de L'Astrée, précieux chefs d'œuvre de son ami Eric Rohmer. Imaginer la résurgence du bloc continental et l'avènement de l'impensable. Repérer les arrière-pensées des théoriciens du meurtre du père. Divaguer sur la conversion du monde orthodoxe à un catholicisme hyperboréen. Oser dire que l'Islam, en tout cas dans sa version exotérique, constitue "le danger absolu, le danger de l'extinction finale de tout ce qui a fait et fait encore l'Histoire européenne du monde, depuis Rome jusqu'à nos jours". Rome, justement, celle que Parvulesco arpentait la nuit après ses visites à Julius Evola. Mémoriser quelques citations, dont celle-ci, de H. Carossa: "cacher et conserver, c'est aux sombres époques le seul office sacré". Invoquer l'Archange Michel, vainqueur des ténèbres, afin qu'il nous guide sur le sentier de l'Etre, le "sentier aryen".

Allez, le missile est tiré.

 

Christopher Gérard

 

Jean Parvulesco, La Confirmation boréale. Investigations, Alexipharmaque, 396 p., 27 euros. Et Un Retour en Colchide, Trédaniel, 356 p., 23 euros.

 

Qui était donc Jean Parvulesco?

Etrange et attachant personnage que cet écrivain mythiquement né à Lisieux en 1929, compatriote d'Eliade, ami d'Abellio (voir son essai Le Soleil rouge de Raymond Abellio, Ed. Trédaniel) comme de Dominique de Roux, lecteur de Bloy, Meyrink, Lovecraft. De Jean Parvulesco un expert en clandestinité tel que Guy Dupré a pu écrire qu’il témoignait de "l'entrée du tantrisme en littérature". Et en effet, chacun des romans de Jean Parvulesco peut aussi être lu comme un rituel de haute magie. C'est dire si l'œuvre reste dans l'ombre, d'autant que son auteur ne mâche pas ses mots sur notre présente déréliction. A ses vaticinations qui prédisent sans trembler un cataclysme purificateur Parvulesco ajoute des visions géopolitiques d'une troublante acuité. Avec une habileté démoniaque, l'écrivain passe d'un registre à l'autre, tantôt aux lisières du burlesque (camouflage?), tantôt prophétique - et toujours servi par une écriture hypnagogique.

050-LES-BLAH_i.jpgEternel conjuré, Jean Parvulesco est surtout un infatigable travailleur: il signe aujourd'hui son dixième roman depuis 1978, parmi lesquels le mythique Les Mystères de la Villa Atlantis (L'Age d'Homme), qui, avec tous les autres, forme une somme où l'ésotérisme et l'érotisme se mêlent au Grand Jeu. Fidèle au mot de son ami de Roux, Parvulesco aura appliqué Nerval en politique …et vice versa. L'homme a survécu aux camps de travail staliniens, s'est évadé d'une geôle titiste, a traîné ses bottes dans les décombres de Vienne, avant de suivre les cours de Jean Wahl à la Sorbonne, d'approcher Heidegger, Evola et Pound.

Jean Parvulesco ou la littérature de l'extrême.

Ses deux récents livres, publiés par Alexipharmaque, l'étonnante maison d'Arnaud Bordes, illustrent bien les obsessions de cet auteur qui incarne une tradition mystique et combattante. Le Sentier perdu nous fait rencontrer Ava Gardner et Dominique de Roux, tout en évoquant (invoquant?) Thérèse de Lisieux ou Leni Riefenstahl. Tout Parvulesco se retrouve dans ces couples improbables. Est-ce un journal, un essai sur le gaullisme révolutionnaire, un roman chiffré, un programme d'action métapolitique? Le sujet: la fin d'un monde en proie à la grande dissolution dans l'attente d'un embrasement cosmique. Une spirale prophétique, pour citer l'un de ses essais. Dans la Forêt de Fontainebleau se présente lui (faussement) comme un roman stratégico-métaphysique sur le rôle messianique de la France, clef de voûte du bloc continental, et du catholicisme comme unique voie de salut. J'ignore ce que pensent les évêques de ce catholicisme mâtiné de tantrisme et de tir au Beretta, mais après tout qu'importe. Enfin, Parvulesco actualise le mythe du Grand Monarque, en l'occurrence Louis XVI, miraculeusement sauvé du néant par une conspiration d'élus. Rites érotiques et meurtres rituels, cisterciens et barbouzes, Versailles et le Vaucluse: pas un temps mort dans ce roman sans pareil!

11:48 Publié dans Actualité, Hommages, Jean Parvulesco | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : jean parvulesco, hommages | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Een plan N voor Vlaanderen (en Brussel)

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Ex: http://vlaamseconservatieven.blogspot.com/

Een plan N voor Vlaanderen (en Brussel)

Matthias STORME

Een van de chantagemiddelen die de voorbije maanden regelmatig werd
aangevoerd tegen voorstanders van Vlaamse onafhankelijkheid bestaat daarin,
dat een Vlaanderen dat zich zou afscheuren van België daardoor automatisch
buiten de Europese Unie zou liggen en, mocht het daarvan deel willen
uitmaken en de voordelen willen genieten, zijn toetreding als lidstaat zou
moeten aanvragen, waarbij de Franstaligen er wel voor zouden zorgen dat er
draconische toetredingseisen zouden worden gesteld.

Op de eerste plaats gaat deze chantage eraan voorbij dat die stelling
impliceert dat in zo'n geval de rest van België wel automatisch lid zou
blijven van de Unie, als zijnde de lidstaat België. Waarbij men nogal licht
vergeet dat wie België wil voortzetten, ook gehouden is tot de gehele
Belgische staatsschuld. Ook wordt daarbij door sommige juristen een zeer
specieus onderscheid gemaakt tussen een afscheiding en een opheffing van het
land. Op deze vragen wil ik hier vooralsnog niet ingaan, omdat er hoe dan
ook voor Vlaanderen nog een erg interessante mogelijkheid bestaat om de
chantage te beantwoorden, een Plan "N".

De grondslag voor dat plan "N" is te vinden in art. 355 lid 3 van het VWEU
(Verdrag betreffende de werking van de Europese Unie), gekoppeld aan het
zgn. Statuut voor het Koninkrijk der Nederlanden. Dat Statuut is een Wet van
28 oktober 1954 van het Koninkrijk der Nederlanden later meermaals gewijzigd
(1), waarnaar ook verwezen wordt in de Europese verdragen.

Dat Statuut is bij ons vrij onbekend en daardoor allicht onbemind, maar
houdt kort gezegd het volgende in. Het regelt de relaties tussen "Nederland"
(in het enkelvoud), Aruba, Curaçao en Sint-Maarten als vier landen die
overeengekomen zijn om een gemeenschappelijk buitenlands beleid en een
gezamenlijke defensie te voeren, een gezamenlijke Nederlandse nationaliteit
te verschaffen aan de burgers van die landen en gezamenlijk een koninkrijk
te vormen onder het huis van Oranje. Andere onderwerpen kunnen in gemeen
overleg tot aangelegenheden van het Koninkrijk worden verklaard (art. 3 van
het Statuut). Met andere woorden, dit Koninkrijk vormt een confederatie
tussen Nederland en drie kleinere landen.

Vlaanderen zou dan ook kunnen toetreden als een verder land bij dit Statuut
van het Koninkrijk der Nederlanden met behoud van alle bevoegdheden behalve
de zonet genoemde. Het leger zou moeten samengesmolten worden en de
buitenlandse betrekkingen overgedragen aan de Koninkrijksinstellingen. En we
zouden kunnen genieten van onze natuurlijke nationaliteit, het
Nederlanderschap.

Een dergelijke toetreding zou meteen ook het Europa-chantage-probleem
oplossen. Vlaanderen zou als Europees deel van het Koninkrijk zonder
onderbreking deel blijven van de Europese Unie. Het statuut van Vlaanderen
zou daarbij ook niet terugvallen op dat van Aruba, Curaçao en Sint-Maarten.
Die drie landen zijn geassocieerde leden van de Europese Unie als "landen en
gebieden overzee" (LGO)(2) -waardoor zij deel uitmaken van de
Gemeenschappelijke Markt maar niet in alle opzichten onder het
gemeenschapsrecht vallen. Vermits Vlaanderen evenwel een Europees gebied is
en geen gebied overzee (LGO), zou hierop art. 355 lid 3 van het VWEU van
toepassing zijn. Dat bepaalt immers dat "De bepalingen van de Verdragen zijn
van toepassing op de Europese grondgebieden welker buitenlandse betrekkingen
door een lidstaat worden behartigd."

Ook voor Nederland is dit zeker aantrekkelijk: men krijgt er 6 miljoen
Nederlanders bij en zowat de helft van zijn economisch potentieel; het
Koninkrijk komt daarmee terug in de buurt van de grote landen waarmee het
toch graag op wat meer gelijke voet zou komen. Waar een meerderheid van
Nederlanders zelfs een volledige een Unie met Vlaanderen niet uitsluit, zal
deze tussenoplossing in het Noorden zeker voldoende steun vinden.

Bovendien zou dit plan "N" niet enkel voor Vlaanderen aantrekkelijk zijn,
maar ook voor Brussel. Brussel zou als een apart land kunnen toetreden tot
het Koninkrijk zonder meer bevoegdhende over te dragen dan de genoemden,
zonder deel van Vlaanderen te worden, en met behoud van een aparte inspraak
in het Koninkrijk. Toetreding tot het Koninkrijk vereist al evenmin dat
Brussel officieel ééntalig Nederlands zou moeten worden; het Frans zou mede
officiële taal blijven.

Overigens zou het ook voor Wallonië geen slecht idee zijn om over de
toetreding tot het Koninkrijk der Nederlanden na te denken, als een apart
land natuurlijk.

Is dit voor Vlaanderen het ideale scenario ? Niet op alle vlakken, bv. omdat
dit ons geen apart stemrecht in Europa zou opleveren, en daarvoor inderdaad
een herziening van de Verdagen zou moeten worden onderhandeld. Maar het
maakt ons wel grotendeels immuun voor de hierboven aangegeven vorm van
francobelgische chantage.

(1) Zie http://wetten.overheid.nl/BWBR0002154 , ook op
http://nl.wikisource.org/wiki/Statuut_voor_het_Koninkrijk...
(2) Zie
http://europa.eu/legislation_summaries/development/overse...
ories/index_nl.htm

Où va la ville? Entretien avec P. Le Vigan

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Où va la ville ?

Entretien avec Pierre Le Vigan

Jean-Marie Soustrade : De l’après-guerre aux années 60, la France a été dans l’obligation de développer son parc de logements pour répondre aux besoins de la reconstruction, au Baby Boom et aux flux migratoires (retour des pieds-noirs et immigration du Maghreb notamment). Quelle politique du logement a été mise en œuvre ?  Et plus largement quelle politique d’urbanisme ?

Pierre Le Vigan : La France a été très lente à mettre en place une politique du logement d’autant plus nécessaire après 1945 qu’aux destructions de la Guerre 39-45 s’ajoutaient les effets du retard pris dans l’entre deux guerres, malgré les lois Loucheur, les constructions de pavillons et de quelques cités-jardins. L’essor réel de la construction après guerre date du Plan Courant de 1953, du nom de Pierre Courant, ministre de la Construction. La construction s’est accélérée à partir des Z.U.P. (zones à urbaniser en priorité). Comme dans beaucoup de domaines c’est la IVe République qui a initié les choses mais c’est la Ve qui en a récolté les fruits. Du moins à l’époque du général de Gaulle. À cette époque, en effet, on a vu les bénéfices de la politique de construction de masse de logements mais on n’en a pas vu les conséquences à long terme. Les bénéfices, c’est loger plus de familles – suite au Baby Boom commencé en 1942 – et dans plus de confort. Les conséquences à long terme c’est un urbanisme sans âme, sans enracinement, des quartiers sans repères, souvent éloignés des moyens de transports, isolés des vieux centre-villes, et c’est la création de quartiers anonymes et dévalorisés.

Comment en est on arrivé là ? C’est la politique de Paul Delouvrier grand commis à l’urbanisme nommé par de Gaulle qu’il faut incriminer. Les zones à urbaniser (Z.U.P.) étaient choisies en « sautant » par-dessus les banlieues existantes. Donc en lointaine périphérie. On a préféré faire du neuf dans des endroits vierges plutôt que d’améliorer les territoires de vieilles banlieues. Il est vrai que celles-ci étaient communistes pour une bonne part et que le régime gaulliste voulait les contourner. En outre l’idéologie urbaine « fonctionnaliste » plus ou moins proche de Le Corbusier se prêtait plus à des constructions dans de l’espace vide plutôt qu’à des « retricotages » fins de la ville dans des territoires déjà urbanisés. On a été au plus simple à court terme, au plus facile, au plus technocratique, et au plus mauvais à long terme.

J.-M.S. : On s’accorde généralement sur les erreurs dans la politique du logement qui ont  été commises dans les années 50-60 à 70, de la reconstruction à la fin des « Trente Glorieuses » pour résumer. Mais on reste souvent dans le flou concernant ces erreurs, comme avec la formule « trop de béton », qui ne veut pas dire grand-chose. Quelles ont été les vraies erreurs ? Ont-elles concerné d’abord le domaine architectural, ou urbanistique, ou les deux ?

P.L.V. : Parmi les graves erreurs, il y a le manque de transports : peu de gares, pas de tramway, pas assez de bus dans les nouveaux quartiers. Il y a l’isolement par rapport aux centre-villes, il y a des constructions de cités à cheval sur plusieurs villes, qui favorisent l’irresponsabilité des élus. Il y a l’interventionnisme d’État hors de toute concertation avec les élus locaux. Force est de constater que De Gaulle ne connaissait et ne comprenait rien aux questions de la ville et qu’il n’était inspiré qu’en politique extérieure. Ce qui plaide entre parenthèses contre le pouvoir personnel et contre une présidence omnipotente.

L’architecture des grands ensembles est contestable par sa monotonie, par l’équivalence du devant et du derrière des immeubles, par sa dimension souvent excessive. Je ne crois pas souhaitable de construire des immeubles au-delà de sept ou huit étages qui ne permettent guère de loger plus de gens à moins de réduire les règles de prospects donc de rapprocher les immeubles d’une manière excessive. Les immeubles de plus de huit ou dix étages  obligent en outre à avoir plusieurs ascenseurs, et rendent plus complexes les règles de sécurité (incendie et autre).

Toutefois, dire cela, c’est déjà être plus dans la volumétrie et le rapport entre les volumes que dans l’architecture stricto sensu. Nous sommes donc dans l’urbanisme. Des voies trop larges sont aussi à incriminer, des espaces non appropriés, trop d’espaces verts qui ressemblent à des terrains vagues. Pas assez de densité, c’est à mon avis, le reproche principal à faire. Les banlieues lointaines, les villes nouvelles sont cinq à dix fois moins denses voire encore moins (en nombre de logements à l’hectare) que les centre-villes haussmanniens. Exemple : Paris compte 20 000 habitants/km2, Sarcelles 7000 habitants/km2, Villiers-le-Bel 3700 habitants/km2, Bièvre en Essonne 500 habitants/km2. La faible densité rend difficile le maillage social, donne aux bandes de jeunes une forte visibilité, rend trop coûteuse la création de transports collectifs, favorise donc la voiture comme mode de déplacement, avec ses nuisances y compris en terme de paysage urbain (immenses parkings au pied des H.L.M.). Les erreurs sont donc avant tout urbanistiques.

J.-M.S. : Les politiques en ont-ils tenus compte des erreurs (voire des horreurs !) des années 60-70 lors des politiques ultérieures d’urbanisation ?

P.L.V. : À partir de 1975, la réponse est oui. Bien entendu, tout n’est pas parfait à partir de cette époque mais il se trouve que le très net ralentissement de la construction à partir de 1975, absurde à certains égards alors que le gouvernement encourageait l’immigration familiale qui amenait donc des familles nombreuses en France, ce ralentissement a mené à faire des opérations plus petites, mieux concertées, surtout à partir de la décentralisation de 82 – 83, et mieux intégrées dans l’existant. En outre, un véritable corps professionnel des urbanistes a fini par exister et la culture des architectes a changé elle aussi avec la fin partielle de la domination des idéaux modernistes et fonctionnalistes. Ce qui ne veut pas dire que tout ce que l’on appelle post-moderne forme un ensemble cohérent (ce n’est pas le cas) ou convaincant (Ricardo Bofill est parfois assommant de mauvais goût). Un exemple de ré-urbanisation assez réussi est le centre-ville de Saint-Denis, dans le 93, avec des rues étroites, le tramway, le métro, à une erreur près, avoir installé un grand supermarché dans le centre au lieu d’une multitude de boutiques.

J.-M.S. : Quelles ont été les politiques de rénovation et de réhabilitation urbaine  menées en France à partir de la fin des années 70 et sur la base du constat d’une crise des grands ensembles ? Quel bilan peut-on en tirer notamment sur le plan du « vivre-ensemble » ? Que pensez vous de la politique de la ville ?

P.L.V. : Le début des politiques de la ville, en fait la politique des quartiers « à problèmes » est Habitat et Vie sociale (H.V.S.). C’est en 1977 et c’est un peu une idée de la « Deuxième Gauche », la gauche « social-démocrate » anti-étatiste de Rocard et autres. Il se trouve que c’est aussi à ce même moment que la politique de l’aide à la pierre est remplacée par l’aide à la personne (par Raymond Barre en 1977). À ce moment, les loyers des logements sociaux deviennent trop chers pour les classes moyennes, qui sont poussés à quitter les H.L.M., ce qui nuit bien sûr à la mixité sociale. L’aide à la personne (les A.P.L.) rend solvables des gens qui ont de faibles revenus, ou ont des revenus de transferts sociaux, ou travaillent au noir. Cela amène à changer la composition des H.L.M. : des familles monoparentales de plus en plus nombreuses, des familles issues de l’immigration aussi de plus en plus nombreuses. En trente ans elles sont devenues majoritaires dans beaucoup de quartiers de banlieues ou en tout cas de quartiers H.L.M. Les réhabilitations qui ont été menés l’ont généralement été sérieusement. Le gain en confort est souvent réel même si esthétiquement l’aspect hybride des interventions n’est pas toujours très heureux. Mais les habitants vivent dans les immeubles avant de les regarder.

Le problème est l’ampleur des dégradations et atteintes aux biens et personnes commises par une petite minorité d’habitants, qui instaure un climat de peur et de complaisance vis-à-vis des trafics, vols, dégradations dont les autres habitants, eux-mêmes en bonne part issus de l’immigration sont les premières victimes. Après H.V.S., en 1981, le gouvernement Mauroy a mis en place la politique de D.S.Q. (Développement social des quartiers). Il s’agit alors avant tout de faire un travail éducatif et de prévention de la délinquance. Les études d’évaluation se sont succédées et les nouvelles mesures de politique de la ville aussi, en fonction des gouvernements. Elles se ressemblent toutes étant définies par les mêmes hauts fonctionnaires souvent assez autistes et munis d’une culture de type « fonction publique », respectable mais parfois bien naïve, culture associée à une formation sociologique de base amenant bien souvent à la « culture de l’excuse ». À cela s’ajoute le souci de ne pas « faire de vagues ».

D’une manière générale la situation ne s’est pas améliorée sauf dans certaines villes de province car l’échelle plus petite de l’urbain et l’implication de certains élus locaux a permis des réussites. Ailleurs, dans les grandes métropoles, le « mal vivre ensemble » gagne. Chômage, dévalorisation du travail, relations conflictuelles entre jeunes et police jouent, mauvaises relations entre jeunes et parents, entre jeunes et adultes jouent aussi. Les contrôles au faciès sont une réalité mais dans le même temps l’agressivité de certaines bandes de jeunes vis-à-vis de tout ce qui est public, des pompiers aux médecins, et en somme vis-à-vis de tout ce qui extérieur au quartier est réelle.  Cette logique du ghetto est dramatique et n’a été cassée par aucune loi même bien intentionnée comme la Loi d’orientation sur la ville (L.O.V.) de 1991.

J.-M.S. : Comment s’est passée la reconstruction dans les autres pays européens ? Comment ont-ils fait face à l’urbanisation massive de l’après-guerre ?

P.L.V. : Je ne suis pas spécialiste de ces questions à l’échelle européenne, questions au demeurant passionnantes. En Allemagne, il y a eut beaucoup de reconstructions qui respectaient l’usage des parcelles avant les destructions (peu à Berlin par contre) et peu ou prou la volumétrie des immeubles détruits, très nombreux outre-Rhin (des millions de sans abris). L’influence de Le Corbusier est venue plus tard. En Grande-Bretagne la reconstruction a été plus rapide qu’en France. Dans tous les cas l’arrivée en ville de populations rurales puis immigrés a été l’occasion de production de logements de masse comparables (grandes cités-dortoirs) mais le phénomène a été plus marqué en France parce que l’urbanisation était plus tardive que dans beaucoup d’autres pays européens.

J.-M.S. : Qu’est ce qui fait qu’un quartier devient un quartier de relégation ? En quoi et comment se fait ce processus de relégation ?

P.L.V. : Un quartier de relégation est un quartier qui donne une mauvaise image sur les C.V. mais c’est aussi et surtout un quartier où on rencontre surtout des gens « paumés », sans repères, sans projet. Dans un quartier de relégation, il n’y a pas une dynamique sociale positive, ascendante. C’est un quartier-ghetto, ghetto de pauvres mais aussi ghettos d’immigrés. Il manque une culture commune à laquelle s’agréger. Parfois, cette culture, c’est l’islam. Mais ce n’est pas ce qui aide le plus à l’intégration. Souvent l’adoption de l’islam correspond à une réaction identitaire. « Puisque vous me rejetez, moi aussi je rejette votre Occident consumériste. » On peut le comprendre, mais ce n’est pas très constructif et c’est d’ailleurs très artificiel, d’où la nécessité de  ne pas trop se braquer sur ces questions.

J.-M.S. : Le port de la burqa se développe dans ces quartiers. Ajoute-t-il à la relégation ?

P.L.V. : Ce n’est pas un phénomène majeur. Il faut dire simplement : « La République n’admet que l’on dissimule son visage dans l’espace public » (qu’il s’agisse de burqa, casque de motard, bonnet, déguisement, etc.) ». Point. La polygamie est plus complexe – sans doute beaucoup plus massive aussi que le port de la burqa – et pose des problèmes plus graves. En outre, elle coûte cher aux caisses sociales alors que la burqa ne coûte rien ! La burqa est un peu un chiffon rouge si je puis dire. On n’est pas obligé face à cela de se sentir une mentalité de taureau.

J.-M.S. : Les services publics au sens large et autres acteurs indispensables (médecins par exemple) sont-ils suffisamment présent dans ces quartiers ?

P.L.V. : Ils ne sont pas assez nombreux, regardez par exemple le taux de médecins, mais les conditions de séjour dans certaines banlieues ne sont pas très attractives. Quand un médecin doit calmer un toxico qui s’agite, ou cherche à voler, dans sa salle d’attente et en plus faire son boulot, on peut comprendre qu’il finisse par avoir envie d’autre chose comme conditions de travail. Tant que la sécurité n’est pas rétablie, ces sous-effectifs de professions libérales sont inévitables. Les professions libérales, à quelques remarquables exceptions près, vont là où il y a de l’argent. Quant aux policiers, ils sont beaucoup moins nombreux en banlieue qu’à Paris. Il faut plus de policiers mais aussi et surtout plus de police de proximité et moins d’interventions « à la cow-boy ». Les opérations coups de poing sont faites pour être médiatisées mais ne résolvent pas grand-chose. Sarkozy a trop développé ce genre de choses : la primauté de la communication sur l’action réelle. Il semble qu’on aille vers un peu plus de travail de fond des services de police depuis quelque temps. Il est vrai que le banditisme violent venu des banlieues prend des proportions de plus en plus inquiétantes. Il faut instaurer une insécurité quotidienne pour les dealers et les brûleurs de voitures. Actuellement, c’est plutôt l’insécurité quotidienne pour les honnêtes gens qui, rappelons-le, sont la grande majorité des habitants des banlieues.

J.-M.S. : Les diverses zonages opérées par la politique de la ville et manifestés par les sigles comme Z.U.S., Z.E.P., Z.R.U., Z.F.U. … ont-elles contribué, selon vous, à stigmatiser ces quartiers ?

P.L.V. : Zones urbaines sensibles, zones d’éducation prioritaire, zones de redynamisation urbaine, zone franches urbaines : tous ces sigles visent à désigner des politiques publiques prioritaires et sur des territoires qui ne se recoupent pas tous. C’est une machinerie complexe et parfois utile. Il n’est pas sûr que les choses ne seraient pas pires sans un certain nombre de ces mesures à propos desquelles il est trop facile de ricaner. Ceci dit, elles ne sont pas à la hauteur des problèmes. Déléguer la gestion des quartiers aux « associations », cela a ses limites. La vraie question est que beaucoup de quartiers ne sont plus des quartiers de travailleurs et que, quand il y a des travailleurs ils n‘ont qu’une idée en tête : en partir le plus vite possible pour échapper à un climat malsain pour eux, pour leur femme, leurs enfants. Les travailleurs d’origine immigrés sont les premiers à dire, bien souvent, « pas question pour moi de m’installer dans le “ 9-3 ”» (la Seine – Saint-Denis). Et ils ajoutent souvent, n’ayant pas l’habitude de la langue de bois : « Il y a trop de racaille ».

Je crois que ces quartiers se sont « stigmatisés » tout seul, du fait d’une partie de leur jeunesse et de la faiblesse du civisme en général en France y compris bien entendu chez les Français d’origine.

Pour ce qui est des zonages, ils ont cherché à résoudre des problèmes caractéristiques des quartiers sensibles en mettant plus de moyens. Cela peut être nécessaire. Les Z.E.P. donnent plus de moyens, c’est plutôt un atout d’être en Z.E.P. de ce point de vue mais ensuite si la norme sociale de la jeunesse de tel quartier en Z.E.P. est de ne rien faire à l’école, au collège, au lycée et au contraire de vivre de petites magouilles (ou grandes magouilles), qui empoisonnent la vie du quartier, alors cela ne suffit pas. Il y a alors un terrorisme de la majorité : croire à l’école et au savoir, c’est ringard, c’est « bouffon ». Ce ne sont pas, en tout cas, les intitulés des politiques publiques qui ont créé les problèmes.

J.-M.S. : Quelles sont les grandes orientations données par l’actuel ministère de la ville pour les quartiers sensibles ? Comment la politique de la ville entend-elle lutter, présentement et à l’avenir contre la délinquance ?

P.L.V. : Le logement est rattaché au vaste ministère de l’Écologie de Jean-Louis Borloo. Fadela Amara est secrétaire d’État à la ville. Cette dernière a des idées, mélange de volontarisme, de connaissance du terrain et de réalisme (elle ne se fait pas trop d’illusions). Elle est assez bien inspirée mais marginalisée. Le gouvernement a cherché en la nommant un effet d’affichage avant l’efficacité. En fait, pour comprendre, au-delà des mots et des discours quasi-interchangeables d’un ministre à l’autre, la vraie politique du gouvernement pour les banlieues, il faut regarder le projet du Grand Paris de Christian Blanc, sans même parler des extrapolations de Jacques Attali sur Paris prolongé jusqu’au Havre, Attali jouant comme Alain Minc le rôle de ballon d’essai de Sarkozy. Or c’est un projet du même ordre que celui de De Gaulle et Delouvrier dans les années 60 que ce projet gouvernemental du Grand Paris. À savoir un très mauvais projet. Non qu’il n’y ait pas matière à créer une instance fédérative entre Paris et surtout les trois départements de la Proche Couronne. Cela, c’était le projet de Philippe Dalier, un sénateur U.M.P., c’était aussi l’idée de beaucoup d’autres comme, depuis longtemps, Georges Sarre, alors maire du XIe arrondissement de Paris. Mais le Grand Paris de Blanc se résume au super-métro, le « Grand Huit » de 130 km, qui ne répond aucunement aux besoins des habitants. Là encore, on saute par dessus la banlieue existante pour aller créer des problèmes ailleurs en développant plus encore l’urbanisation en très grande banlieue, donc une urbanisation en tâche d’huile. Une nouvelle catastrophe urbaine se prépare.

J.-M.S. : Est-ce que démolir des tours pour faire des banlieues pavillonnaires améliore automatiquement la vie collective et fait reculer la délinquance ?

P.L.V. : Il est sidérant de voir que l’on va détruire des tours porte de Clignancourt (tours qui ne sont pas horribles ni en mauvais état du reste, même si je n’ai aucun goût pour les tours) au moment où on parle d’en construire Porte de la Chapelle soit à deux pas, et à un endroit où il y en a déjà dont on peut faire le bilan : elles fonctionnent très mal sauf quand elles sont hyper-sécurisées (donc très coûteuses) et destinés à des classes moyennes ou supérieures, celles qui n’ont… pas la moindre envie d’habiter Porte de la Chapelle. On marche sur la tête. Une nouvelle fois – et c’est le mal contemporain – ce qui compte pour les politiques, c’est l’image. Alors que l’efficace, l’utile pour les habitants, souvent, ce n’est pas le spectaculaire. C’est du terre à terre dont on a besoin. Et dans tous les sens du terme. Démolir des tours, dans certains cas, pourquoi pas ? Mais ce n’est pas la panacée. Trop souvent on ajoute du traumatisme à du traumatisme, la destruction est vécue comme une dévalorisation rétroactive. Bien souvent, il vaut mieux densifier, construire autour des immeubles, ou modifier leur accès, leur entrée, leur façade, etc.

Quand aux tours, de quoi parle-t-on ? Dix étages ? Quinze étages ? Quand ce sont des tours résidentielles, cela ne pose pas de problèmes particuliers, chacun respecte les espaces communs. Quoique… Les incivilités existent aussi chez les bourgeois. Pour les logements sociaux, les tours, c’est tout à fait inadapté mais il y a en fait peu de tours de logements sociaux en banlieues, en tout cas assez peu de tours de logements de plus de dix étages. Quand il y en a, comme à Bagnolet, il vaut sans doute mieux faire de l’urbanisme reconstructeur, restructurant plutôt que destructeur, améliorer les transports, les créer à différentes échelles, pour petits et grands déplacements, amener des emplois, décloisonner plutôt que détruire. Dire que l’on détruit des tours pour faire des quartiers pavillonnaires n’est par ailleurs  pas très exact. En général, on détruit des tours pour reconstruire des petits immeubles, ce qui peut être réussi, et est tout différent des pavillons.

J.-M.S. : Quelles solutions d’urbanisme et d’architecture pourraient être mises en œuvre pour améliorer la situation des quartiers en difficultés ?

P.L.V. : Urbanisme, architecture, oui, mais on ne peut évacuer la question de la crise de civilisation : le manque de motivation pour le travail, et pour la création. La France qui était une nation d’artistes est devenue une nation de téléphages et de consommateurs d’Internet, et pour ce qu’Internet a de moins intéressant. La France et l’Occident en général, et toute la planète, tend à entrer dans cette post-civilisation qui rétrécit les horizons et atrophie les sensibilités. Seule une minorité échappe à cela. Une minorité privilégiée par la culture, l’éducation et le niveau économique. Heureusement en un sens que cette minorité existe mais pourra-t–elle résister à la montée de la barbarie ? Les quartiers en difficulté, habités par des gens eux-mêmes souvent déshérités, moins du reste au plan strictement financier qu’au plan culturel, souffrent au premier chef de cette crise de civilisation. Les quartiers de grands ensembles, ceux ciblés par la politique de la ville – terme ambitieux : il vaudrait mieux dire plus modestement « l’infirmerie des banlieues » – nécessitent à mon sens de la modestie, continuer de travailler avec les associations même s’il ne faut pas en attendre des miracles, et de l’ambition surtout dans un domaine : les transports.

Il faut absolument que les gens bougent de ces quartiers, n’en soient pas prisonniers, puissent aller voir ailleurs donc, il faut des transports, y compris le soir et même la nuit. Il faut aussi des entreprises locales, tout un tissu de P.M.E. Il faut aussi renforcer les effectifs permanents de police mais aussi d’éducateurs. Il faut refuser la victimisation des délinquants. Ils ne sont pas victimes; ils pourrissent la vie des travailleurs. Bien des Maghrébins qui « s’en sortent », bien des « Noirs », – et non pas des « Blacks » -, Africains ou Antillais qui eux aussi s’en sortent le montrent : les jeunes, avec de l’énergie, peuvent trouver une formation, un travail, une voie, un avenir, une espérance, une place dans la société. La République française est généreuse, l’éducation gratuite, les soins gratuits, ce n’est pas rien, il faut le dire et le rappeler. Et, en contrepartie, il faut être sévère avec ceux qui pourrissent la vie de ces quartiers, et qui ne sont pas les porteurs de voiles « islamiques ». Ce sont les canailles qui vivent de trafics de drogue, de vols, d’escroqueries, qui harcèlent les filles, etc.

J.-M.S. : Pourquoi arrive-t-on si peu à faire de la mixité sociale dans les quartiers sensibles ? Comment expliquer qu’en dépit de la politique de la ville, les habitants fuient ces quartiers ?

P.L.V. : On arrive plus facilement à mettre quelques pauvres dans des quartiers riches que quelques riches dans des quartiers pauvres. La mixité sociale a reculé. Il y avait des bourgeois dans beaucoup de quartiers de banlieue nord il y a cent ans. Combien en reste-t-il ? Et puis, le caractère multi-ethnique des banlieues fait fuir beaucoup de classes moyennes et a fortiori supérieures. Tout le monde est pour l’immigration  mais chacun préfère habiter un quartier où il n’y a « pas trop » d’immigrés. Il y a beaucoup d’hypocrisie là dedans.

Les deux questions de l’immigration et de l’occupation du logement social sont par ailleurs de plus en plus liées puisque les immigrés ont en moyenne de faibles revenus et compte tenu du nombre assez élevé d’enfants qu’ils ont, sont prioritaires pour les H.L.M. Il n’y avait que les élus communistes jusque dans les années 80 à habiter dans des H.L.M. et encore pas tous !

J.-M.S. : Le problème d’anomie (au sens de désagrégation des règles de vie en collectivité et du lien social) des quartiers sensibles, s’il existe,  est-il résoluble uniquement par des politiques étatiques ? Où est-ce un problème qui va bien au-delà ?

P.L.V. : L’anomie ou encore la perte de la décence commune dont parlait George Orwell est une réalité. Elle concerne particulièrement les jeunes de ces quartiers. C’est la conséquence du déracinement du à l’immigration de masse. C’est la conséquence d’une perte d’identité ou d’une impossibilité de construction identitaire dans la tolérance, le respect des autres, qu’ils soient issus d’autres communautés immigrées ou qu’ils soient Français de souche. La société multiraciale est devenue multiraciste. Les injures sont très souvent raciales. Mais en outre, l’américanisation des mœurs – et pour faire court la fascination par le fric, par exemple les joueurs de foot, trop souvent arrogants  et pleins aux as – joue un rôle très déstructurant.

L’intégration par les valeurs de l’effort, du travail, de la République qui ne reconnaît aucune communauté, ne marche plus. Il n’y a pourtant pas d‘autre voie que l’assimilation et le retour à ces valeurs qui n’ont, faut-il le rappeler, jamais impliqué de renier ses ancêtres et ses traditions. Mais est-ce que cela peut marcher avec une immigration de masse ? En tout cela, si cela ne marche pas, rien d’autre ne marchera car il n’y a pas de communautés en France, de cadres communautaires réellement capables de prendre le relais et on ne peut les créer artificiellement dans les populations d’Afrique noire ou celles originaires du Maghreb. C’est d’ailleurs précisément parce que, dans leurs pays d’origine, le lien social était en crise que ces gens là sont venus en France, alors comment peut on imaginer que, une fois venus en France, leurs attaches d’origine fonctionnent de manière communautaire, ce qu’elles ne faisaient pas dans leur pays ? C’est pourquoi l’intégration communautaire, je n’y crois pas.

Pour revenir à la question centrale qui est celle des jeunes des quartiers, ce qui doit être géré est, ajouté au problème de l’identité, un problème « hormonal ». C’est ce qu’a bien vu Luc Bronner dans La loi du Ghetto. Les jeunes garçons ont pris le pouvoir. Le culte de l’enfant-roi de nos sociétés n’a rien arrangé. Quand un parent donne une fessée à son enfant les services sociaux le réprimandent. Les immigrés ne comprennent pas cela. Ils ont l’impression qu’on leur casse leur boulot d’éducateur et de parent. Ils n’ont pas complètement tort là-dessus.

Mais surtout il y a l’absence fréquente du père ou la dévalorisation de la figure du père. C’est souvent un chômeur. Nombre d’immigrés ont été licenciés de leur travail à quarante-cinq ans, cela n’aide pas à donner une image forte. Quant aux familles monoparentales, le garçon seul face à sa mère est roi dans certaines cultures. Il y a une asymétrie de la délinquance entre garçons et filles. Difficile donc de dissocier les questions de la banlieue des questions culturelles liées à l’immigration. Ce qui ne veut pas dire que, sans problème de l’immigration, il n’y aurait plus de problème de la banlieue.

J.-M.S. : Quel est l’état du lien social dans les quartiers sensibles ?

P.L.V. : On constate un mauvais état du lien social. Je n’ai pas suffisamment d’expérience de terrain pour en dire plus bien qu’ayant longtemps vécu en banlieue y compris dans des quartiers dits « sensibles ». Restaurer la valeur travail, restaurer l’accès concret au travail, mais aussi développer l’idée que le travail n’est pas la lutte de tous contre tous, que c’est aussi la solidarité entre les hommes. Et aussi développer un autre imaginaire que la consommation, voilà ce qu’il faudrait sans doute faire. Programme vaste et complexe.

J.-M.S. : Quelles sont les caractéristiques des habitants des quartiers en difficultés, comment y vit-on ? Famille monoparentales, fort taux de chômage, jeunes déscolarisés, modes de vies différents en raison des origines immigrés des habitants, d’autres facteurs… ?

P.L.V. : Là-dessus il y a des études sociologiques. On trouve effectivement les caractéristiques que vous évoquez.  Mais je ne suis pas spécialiste de ces questions, aussi je vous renvoie aux sociologues de profession.

J.-M.S. : Quel rapport ont les habitants des quartiers sensibles avec leurs lieux de vie ?

P.L.V. : Vous voulez dire : aiment-ils leurs lieux de vie ? Je ne sais pas. Je crois qu’ils ne les détestent pas dans bien des cas, mais qu’ils regrettent les problèmes de transport, la délinquance excessive, l’irrespect des lieux, de l’hygiène, les gens qui urinent dans les ascenseurs, etc. Les gens aimeraient aimer leurs quartiers. Ils n’y arrivent pas bien souvent. Ceci dit, il me parait difficile de généraliser. Choisy-le-Roi n’est pas Bagnolet, qui n’est pas Bondy, qui n’est pas la banlieue de Saint-Étienne, ni de Perpignan, etc.

J.-M.S. : Quelles furent les grandes évolutions sociologiques dans les quartiers sensibles ces trente dernières années ? Y a-t-il eu une ethnicisation de ces quartiers, un appauvrissement ? Une fuite des classes moyennes vers le périurbain ou le centre-ville pour les classes moyennes supérieures ?

P.L.V. : Depuis trente ans et même plus il y a clairement une « ghettoïsation » des quartiers, une pauvreté endémique, un désœuvrement, une défrancisation qui touche notamment les mœurs, un développement des trafics de drogue, bref toute une série de ruptures culturelles, dans des domaines très divers,  qui favorisent les amalgames et qui font que pour beaucoup la seule chose de sûr à propos de la banlieue c’est qu’ils ne veulent pas y habiter.

Il y a bien sûr un départ de tous ceux qui peuvent partir notamment les Français de souche des classes moyennes mais aussi les immigrés qui accèdent à la classe moyenne. Quand aux classes supérieures elles n’ont jamais habité les quartiers sensibles et n’ont donc pas l’occasion de les fuir…

J.-M.S. : Le rôle des « créateurs de lien social » (animateurs sociaux, gardiens d’immeubles…) dans ces quartiers a-t-il évolué ? Ont-ils plus de difficultés à remplir ce rôle ? Si oui pourquoi ?

P.L.V. : Je crois qu’il faut leur demander leur avis. C’est un sujet que je connais mal.

On a renforcé le rôle des gardiens et souvent leur nombre et on a eu raison. C’est devenu un métier très complexe que d’être gardien dans les grands ensembles, entre la pression des jeunes du quartier et celle du bailleur, de la police, etc.

J.-M.S. : Comment expliquer le fort taux de délinquance dans ces quartiers sensibles ? D’où vient l’origine du malaise et des conduites déviantes ?

P.L.V. : C’est une question de civilisation. Ce qui joue, c’est la séduction de l’argent facile (les sportifs dont on parle à la télé, les traders…), le goût des objets technologiques sophistiqués, et coûteux, la fin du respect de la culture, de toutes les cultures y compris celles d’origine mais aussi de toutes les institutions pourtant au service des gens  (maintenant on brûle les écoles, les M.J.C., les bibliothèques, les gymnases…). On vole dans les magasins de fringues, de chaussures de marque… On ne vole pas les livres de la Pléiade. Mais aussi il y a, comme je l’ai déjà dit, la crise hormonale de ces jeunes garçons qui n’ont pas de défouloir, qui ne font plus leur service militaire, qui ne peuvent plus canaliser leur énergie. C’est le problème principal. Ce n’est pas l’immigré de quarante ans qui brûle des voitures, me semble-t-il. Ce n’est pas celui qui bosse sur les chantiers dans le bâtiment et qui part tôt le matin. C’est le gamin de 14 – 18 ans qui en plus de détruire son quartier et d’y brûler les voitures des honnêtes gens qui sont ses voisins, pourrit la vie de son école. Cette jeunesse des émeutiers explique la peur des bavures qu’a la police. Il y a une dimension nihiliste là dedans, comment le nier ?

J.-M.S. : Comment les pouvoirs publics répondent-ils aux problèmes des banlieues dans le cadre de la politique de la ville ? Les dispositifs en place soulagent-ils les habitants de ces quartiers en difficulté sociale ? Peut-on faire mieux ?

P.L.V. : On connaît les actions de la politique de la ville avec le soutien aux associations. Cela joue sans doute dans le bon sens mais à la marge. L’isolement des quartiers arrange tout le monde : ils « mettent le bordel » chez eux et pas ailleurs. On ne met pas le paquet en éducation, prévention, répression, encadrement. La République ne croit plus en elle. Respecter les gens, c’est s’occuper d’eux, les cadrer et les encadrer si possible, mais la vérité est peut-être que la République préfère abandonner les banlieues. J’espère me tromper.

J.-M.S. : D’une manière plus générale, est-ce que ce sont les habitants qui font le lieu de vie ou le lieu de vie qui fait les habitants, ou est-ce un peu des deux ?

P.L.V. : C’est une excellente question. La misère a trouvé son décor. Mais c’est moins une misère matérielle - les gens ne meurent pas de faim ni de manque de vêtements – qu’une misère morale. La délinquance des  jeunes  ajoute à cette misère morale.

Je crois que l’urbanisme pourrait changer beaucoup de choses mais pas tout car il faut que change aussi l’imaginaire de nos sociétés hypermarchandes.

Ceci dit, il y a des pistes et il faut bien commencer par quelque chose : des petites rues interdisant la vitesse, des immeubles suffisamment petits pour permettre des relations de proximité. À terme, il faudrait peut-être aussi envisager la création d’une garde civique – sorte de nouvelle « garde nationale » – en liaison avec la police nationale. Il faut refaire un urbanisme de proximité, d’immeubles de taille moyenne, quatre à six étages, avec des rues adaptées c’est-à-dire de taille modeste (exemple : le quartier de « l’Orme-Seul » de l’architecte Catherine Furet à la Courneuve) et des axes plus grands mais jamais disproportionnés avec des bus, des tramways, des métros, aériens de préférence (c’est tout de même plus gai que de passer des heures sous terre). En résumé, il faut arriver à une densité beaucoup plus forte que dans les banlieues actuelles tout en évitant les tours. C’est parfaitement possible : regardez le Xe, ou le XIe arrondissement de Paris ! Il y a une forte densité et pas de tours.

Il faut penser l’urbanisme pour le lien social et aussi – ne soyons pas naïfs – pour la sécurité (on le fait déjà mais dans la perspective d’interventions ponctuelles plus que dans le registre d’une sécurité quotidienne). Cela coûtera cher mais pas plus que des milliers de voitures brûlées chaque année. Et si on ne sauve pas la banlieue du plongeon, on plongera tous.

Propos recueillis par Jean-Marie Soustrade.


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39-45: les dossiers oubliés, retour sur les crimes soviétiques et américains

39-45 : les dossiers oubliés - retour sur les crimes soviétiques et américains

VARSOVIE (NOVOpress) – Boguslaw Woloszanski, journaliste polonais, continue dans son nouvel ouvrage, 39-45 : les dossiers oubliés, aux Editions Jourdan, d’explorer les faces méconnues de la Seconde Guerre mondiale, sur la base notamment de la récente ouverture des archives de l’ex-Union Soviétique.

Le premier chapitre du livre est d’ailleurs consacré aux manœuvres de l’un des plus grands criminels de l’histoire du XXème siècle : Joseph Staline. Où comment l’ami de Lénine [1] liquida en 1937 le chef de son armée, Mikhaïl Nikolaïevitch Toukhatchevski, danger pour son pouvoir absolu, avec l’aide… du régime hitlérien, trop heureux de priver l’Armée Rouge de son officier le plus talentueux.

Boguslaw Woloszanski rappelle aussi les coups tordus perpétrés par les démocraties occidentales durant ce conflit qui saigna à blanc le continent européen. L’auteur souligne pourquoi des centaines de Canadiens furent sacrifiés à Dieppe le 19 août 1942 alors que seulement 50 Américains débarquèrent sur le sol normand ce jour là.

Les Etats-Unis mirent le paquet en revanche pour s’attaquer à des cibles non militaires. Boguslaw Woloszanski revient sur les raids aériens américains sur Tokyo [2] en 1945. Celui du 9 au 10 mars fut le plus meurtrier des bombardements de la Seconde Guerre mondiale : 100 000 victimes, pour la plupart brûlées vives. Il dépassa en nombre de victimes les bombardements d’Hambourg en juillet 1943 ou de Dresde en février 1945 [3]. Au cours des sept derniers mois de cette campagne, ce type d’actions a provoqué la destruction de 67 grandes villes japonaises, causant plus de 500 000 morts et quelque 5 millions de sans abri. Pourtant, aucun général américain ne fut traduit devant un tribunal international pour ces crimes de guerre.


[cc [4]] Novopress.info, 2010, Dépêches libres de copie et diffusion sous réserve de mention de la source d’origine
[http://fr.novopress.info [5]]


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[1] l’ami de Lénine: http://fr.novopress.info/16199/russie-une-statue-de-lenine-dynamitee-a-saint-petersbourg/

[2] raids aériens américains sur Tokyo: http://les3abeilles.lefora.com/2010/09/23/les-bombardements-sur-tokyo-2/

[3] Dresde en février 1945: http://fr.novopress.info/466/dresde/

[4] cc: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.0/fr/

[5] http://fr.novopress.info: http://fr.novopress.info

The Tyrant who is Obama's Role Model

 

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The Tyrant who is Obama's Role Model

Jan von FLOCKEN

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

When Barack Obama was officially inaugurated as President of the United States, the ceremony was charged with symbolism. The figure of Abraham Lincoln, assassinated in 1865, seemed omnipresent. Remember that 2009 is the 200th anniversary of the birth of Lincoln, who has become a kind of patron saint of Western democracy. Obama was not merely content to retrace Lincoln’s route, in the spring of 1861, departing from Philadelphia, passing through Baltimore, to arrive at the White House in Washinghton D.C. When he took the oath of office, Obama also insisted on placing his hand on the 156 year old velvet-covered Bible that “Old Abe” had used, swearing “to preserve, protect and defend the Constitution of the United States.”

No one, though, has violated the Constitution more than Lincoln . . .

These attempts to draw parallels between the legendary statesman and the young president who is now America’s new hope, inadvertently stirred up all sorts of uncomfortable memories. Indeed, no President of the United States in the last 220 years has violated the Constitution and suppressed the basic rights of citizens more than Lincoln. His mandate was deployed under the bloody banner of a civil war between the Northern and Southern states. The latter left the Union in 1860–61 and founded their own state, the Confederacy. The American Constitution by no means prohibited secession of this type since it was only in 1868 that the Supreme Court ruled to the contrary. Initially, the two parties accepted the secession of the South. Thus it was that Horace Greeley, the influential editor of the New York Tribune and political friend of Lincoln, wrote in his newspaper, on November 9th, 1860: “I hope we will never have to live in a Republic maintained by bayonets.”

But it was these very bayonets that Lincoln used shortly after taking office. He seized the first excuse he found: in fact, an exchange of fire around Fort Sumter, which actually belonged to the Confederacy. This incident, which caused only some slight injuries, was used as pretext for a de facto declaration of war against the South, namely an appeal for 75,000 volunteers on April 15th, 1861. Lincoln then ordered an economic embargo against the Confederacy. The appeal and embargo were two serious political errors because they prompted the immediate secession of four hitherto neutral states: Virginia, Arkansas, North Carolina, and Tennessee.

In Maryland—which, by tradition, leaned toward the Confederacy, but which was to remain in the Union because of its proximity to Washington, D.C.—the population protested en masse against Lincoln’s warmongering. Lincoln immediately suspended the Constitutional principle of “Habeas Corpus” which protects the citizen from arbitrary arrest and guarantees his right to be heard by a judge within a short time. Annapolis, the capital of Maryland, and Baltimore, where Barack Obama went to follow Lincoln’s footsteps, were placed under martial law. On May 13th, 1861, the mayor of Baltimore, the chief of police, and all the members of the city council, were arrested, without any legal pretext, and were imprisoned until the end of the war in 1865. Ironically, among these political prisoners was the grandson of Francis Scott Key, who had composed the American national anthem, which sings the praises of “the land of the free and the home of the brave.”

When the Maryland legislature condemned these illegal and tyrannical actions, Lincoln immediately arrested 31 legislators, who were imprisoned from three to six months without trial. This forceful action clearly violated the sixth amendment to the Constitution, according to which any defendant is entitled to an immediate public trial by an independent jury. The Chief Justice of the Supreme Court, Roger B. Taney, the man before whom Lincoln had officially sworn his oath on the Bible, ordered the President make null and void these arrests because they too obviously violated the principles of the Constitution. The President had arrogated powers that are the sole prerogative of Congress. Following the admonitions of Roger B. Taney, Lincoln issued an order encouraging all public authorities to purely and simply ignore the judgment of the Supreme Court, which itself constitutes, obviously, a manifest violation of the Constitution. One observer, otherwise favorable to Lincoln, the German democrat Otto von Corvin, correspondent of the Times, noted at the time that Lincoln’s antics reminded him of a “village schoolmaster.”

In the course of the war, there were other infringements of the Constitution. The most notable of these occurred in June 1863, when Virginia was partially occupied by Northern soldiers, and a new state, West Virginia, was proclaimed, in violation of the Constitution’s stipulation that no new state can be created or established out of the territory of another.

All these assaults on the Constitution are excused today under pretext that Lincoln liberated the slaves. However, in the summer of 1862, a half year before the official proclamation of their emancipation, the President still held that: “If I could save the Union, without having to free even one slave, I would do it.”

Maintaining the Union eventually cost the lives of 600,000 people.

Americans should hope that in the future, Obama will be satisfied to imitate Lincoln only on festive occasions. For let us not forget that shortly after taking office in January, Obama said: “My politics consists in not having politics.”

Originally published in German in Junge Freiheit, no. 16, 2009

00:15 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : etats-unis, obama, histoire, abraham lincoln, démocratie, tyrannie | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

30 Jahre Laibach (2)

Laibach2.jpg

30 Jahre Laibach (II)

Martin LICHTMESZ - Ex: http://www.sezession.de/

Noch ein paar Anmerkungen zum 30-Jahres-Jubiläum von Laibach, als deren Fan ich mich neulich in diesem Blog bekannt habe. Seit ihrer Gründung im Jahr 1980 hat sich nicht nur die Welt, sondern auch die Gruppe stark verändert (musikalisch eher zu ihren Ungunsten), von deren Originalbesetzung zur Zeit eigentlich nur noch Frontmann Milan Fras und Ivan Novak übriggeblieben sind. 

In einem gewissen Sinne ist die slowenische Formation seit zwei Jahrzehnten nur mehr ein Recycler ihres eigenen Mythos, dessen Wirkungsmacht eben eng verknüpft war mit dem Entstehungskontext des Projekts im post-titoistischen Jugoslawien (1980 war auch das Todesjahr des kultisch verehrten Staatspräsidenten, damit auch das Jahr, in dem der durch Blut und Eisen zusammengeschusterte Vielvölkerstaat langsam auseinanderzubröckeln begann).

Schon die Wahl des deutschen Namens für Ljubljana war eine gezielte Provokation der damaligen jugoslawischen Autoritäten. Diese waren nun in den Achtziger Jahren bereits lax und vom liberalen Rückenmarkschwund befallen genug (in der DDR wurde zur gleichen Zeit jede harmlose Amateur-Punk-Combo von der Stasi plattgemacht), daß die Band sich mühelos als „totalitärer“ als das herrschende Regime inszenieren konnte, „päpstlicher als der Papst“ sozusagen. In der Art und Weise, wie es Laibach taten, wollte der Staat zu diesem Zeitpunkt eigentlich gar nicht mehr beschworen und glorifiziert werden.

In Slowenien und Kroatien hatte man es zu einem relativen Wohlstand gebracht, und wenig ahnte man von dem verheerenden Krieg, der nur ein Jahrzehnt später ausbrechen sollte. Um 1983 herum waren Laibachs martialische Beschwörungen und Über-Emphasen der alten kommunistischen Kampf-, Askese-, Aufopferungs- und Hauruck-Rhetorik, untermalt mit aufpeitschender Krachmusik, peinlich, unheimlich, irritierend, angriffig. Der ästhetische Mix aus kommunistisch-stalinistischen mit faschistischen und nationalsozialistischen Elementen, der sich in der Mitte der Dekade noch verstärken sollte, wirkte natürlich zusätzlich subversiv, und dekonstruierte durch Annäherung und Amalgamierung den „antifaschistischen“ Mythos der kommunistischen Ideologie. Laibach attackierten indirekt den sozialistischen Staat, indem sie ihn scheinbar von rechts überholten, und ihn in Beziehung setzten zum feindlichen Bruder Nationalsozialismus.

In einem berüchtigten frühen TV-Auftritt setzte sich die Gruppe mit sinistrer Beleuchtung, blanken Stiefeln, undefinierbaren Uniformen und Armbinden mit schwarzen Kreuzen in Szene, schwieg mit eisernen Mienen, während der Frontmann die tribunalartigen Fragen des Interviewers beharrlich ignorierte, und stattdessen lange, komplizierte Manifeste vorlas: „Laibach behandelt die Beziehung zwischen Kunst und Ideologie, die Spannungen, die durch Expression subliminiert werden. Darum wird jeder direkte ideologische Diskurs eliminiert. Unsere Aktivität steht über direktem Engagement… wir sind komplett unpolitisch.“ Und so weiter und so fort.  Zur selben Zeit konnte man im Jugo-TV Pop-Videos (siehe hier, hier und hier) sehen, die sich in nichts von dem unterschieden, was gerade im Westen „in“ war.

Mit dem Album Opus Dei von 1987 begannen Laibach ihre berüchtigte Serie „faschisierter“ oder auf „martialisch“ getrimmter Cover-Versionen von populären Songs, für die sie am besten bekannt sind (darunter Titel von den Beatles, den Rolling Stones, Prince, Status Quo und, als Meta-Pop-Witz, DAF). Fanfaren und Trompeten, epischer Sound, militärisch stampfendes Schlagzeug, ins Deutsche übertragene Texte und der forciert markige Gesang an der Grenze zur Selbstparodie (den später Rammstein kopierten) verfremdeten bekannte Melodien auf eine verblüffende Weise.

Der Klassiker schlechthin ist ihre Version des Superhits „Life is live“ („Nananana“) der österreichischen Gruppe Opus, der damals in den Diskotheken weltweit ad nauseam rauf und runter lief.  Zusammen mit dem Video, in dem Laibach durch die Berge stapfen und vor monumentalen Wasserfällen posieren, voller zur Schau getragenem Sendungsbewußtsein und mit kultischem Gestus, hatte das einen ganz besonderen Touch, der die Gruppe von nun an definieren sollte.

Der Reiz ergibt sich aus dem Ineinander von verschiedenen widersprüchlichen Komponenten: einerseits handelt es sich hierbei natürlich offensichtlich um einen schreiend komischen Witz und um bewußt auf die Spitze getriebenen Camp. Andererseits hat es auch eine hin- und mitreißende Wirkung: der charismatische, kraftstrotzende Sänger mit dem Schnauzbart, der seltsamen Wüstenlegionärs-Kopfbedeckung und dem schmucken Alpen-Trachten-Outfit vor der Kulisse schneebedeckter Gipfel und rückwärts (!) strömender Wasserfluten – das geht weit über den bloßen „dekonstruktiven“ Gag hinaus. Die heroisch-teutonische Ästhetik wird ebenso zelebriert wie ironisiert. Es ist komisch und parodistisch, aber eben auch – geil.

Laibach demonstrierten, wie mit wenigen Handgriffen ein banaler Popsong einen „faschistischen“ Sound und Subtext erhalten kann. In der Alternativ-Version „Leben heißt Leben“ haben sie den englischen Originaltext eingedeutscht und nur geringfügig verändert:

When we all give the power
We all give the best
Every minute of an hour
Don’t think about the rest
Then you all get the power
You all get the best
When everyone gives everything…

Wann immer wir Kraft geben,
geben wir das Beste,
All unser Können, unser Streben
und denken nicht an Feste,
Von jedem wird alles gegeben,
und jeder kann auf jeden zählen,
Leben heißt Leben!

Life is life, when we all feel the power
Life is life, come on, stand up and dance
Life is life, when the feeling of the people
Life is life, is the feeling of the band!

Leben heißt Leben -
Wenn wir alle die Kraft spüren!
Leben heißt Leben -
Wenn wir alle den Schmerz fühlen!
Leben heißt Leben!
Heißt die Mengen erleben
Leben heißt Leben -
Heißt das Land erleben…

Auf analoge Weise verwandelten Laibach  „One Vision“ von Queen zu „Geburt einer Nation“, der einen ähnlichen „Klassiker“-Status wie „Life is live“ hat. Da mußte der Text lediglich wörtlich übersetzt werden.

One man, one goal
One mission,
One heart, one soul
Just one solution,
One flash of light
One God, one vision
One flesh, one bone,
One true religion,
One voice, one hope,
One flesh one bone
One true religion
One race, one hope
One real decision
Wowowowo oh yeah oh yeah oh yeah

Ein Mensch – ein Ziel
und eine Weisung.
Ein Herz – ein Geist,
nur eine Lösung.
Ein Brennen der Glut.
Ein Gott – ein Leitbild.

Ein Fleisch – ein Blut,
ein wahrer Glaube.
Eine Rasse, ein Traum,
und ein starker Wille
Gebt mir ein Leitbild! Ja, Ja, Jawoll, Jaaa!!

Und nun sehe man sich an, wie Queen 1985 in Rio de Janeiro ein Stadion mit zigtausend Menschen zum Mitstampfen von „We will rock you“ bringen, während Frontmann Freddie Mercury mit nacktem, muskulösem Oberkörper, in einen Union Jack gehüllt, vor den Massen auf und ab gockelt und sie dabei beherrscht wie ein schriller Glamrock-Mussolini:

Laibach haben also natürlich auch die unterirdischen Beziehungen zwischen Pop als Massenphänomen und totalitären Massenbewegungen angesprochen, die schon David Bowie in den Siebzigern in das berüchtigte Bonmot „Hitler war der erste Popstar“ faßte. Man kann auch an Jean Genet denken, der einmal bemerkte, der Faschismus sei „essentielment“ Theater.

Im Pop ist es auch kein notwendiger Widerspruch, eine Pose ausgiebig zu genießen und abzufeiern, und gleichzeitig ihre Künstlichkeit und ihren augenzwinkernden Showcharakter zu betonen. Man denke etwa an die prunkvollen Phantasie-Uniformen und den Erlösergestus von Michael Jackson. Rockstars befriedigen in demokratischen Zeiten tief sitzende monarchische Bedürfnisse, sind in ihren Welten Könige, Absolutisten, Messiase, Diktatoren, Fabeltiere, die die Huldigungen der Fanmassen entgegennehmen, über die sie Kraft ihrer Kunst herrschen, und die sich ihrerseits willig dem regressiv-wonnigen Rausch der Fan-Volks-Gemeinschaft hingeben.

In Umkehrung zu Genet läßt sich fragen, inwiefern die Kanalisierung „totalitärer“ Versatzsstücke und Ansprüche in eine Bühnenshow und ein Kunstprodukt wie den NSK-“Staat“, das, was Armin Mohler die „monumentale Unternährung“ nannte, gleichsam entpolitisieren, entschärfen und auf einer rein ästhetischen Ebene befriedigen kann. Denn wären Laibach auf reine Parodie und Dekonstruktion aus gewesen, wäre ihr Appeal nicht so stark und dauerhaft gewesen.

Mir schien es jedenfalls eher immer so, daß Laibach, sobald sie von den westlichen Intellektuellen nach einer gewissen Irritationsphase als „Kunst“ akzeptiert wurden, auch ein Ventil für jene boten, die endlich einmal guten Gewissens ihren lang verdrängten „inneren Faschisten“ ausleben wollten. Wenn die Gruppe Mitte der Neunziger in Wien auftrat, dann waren die Konzerte voll mit Lesern von alternativhippen linksliberalen Blättern wie Standard und Falter, die nun die unterdrückte Fascho-Sau rauslassen konnten und mit ausgestrecktem rechten Arm der Bühne entgegensalutierten: „Und dann feiern wir Vereinigung, die ganze Nacht! Jawollll, Jaaaa!!“ Und in der damaligen Gothic-und Wave-Nacht im Wiener U4 konnte man schon mal erleben, daß sich zu „Life is Live“ spontan ganze Marschformationen auf der Tanzfläche bildeten, die im Gleichschritt zu tanzen begannen.

Ich habe mich oft gefragt, wie sehr die hysterische Kontaminationsangst mancher Zeitgenossen vor riefenstahl’scher oder speer’scher Ästhetik auf einer uneingestandenen Faszination beruht, die man in streng puritanischer Weise nicht einmal vor sich selber zuzugeben wagt. Mit Sicherheit spüren aber sehr viele Menschen immer noch die spezifische Anziehungs- und Suggestionskraft dieser Bilder, die offenbar tiefsitzende, unausrottbare Gefühle ansprechen. Oder wie ein Soziologe in den Siebziger Jahren, dessen Namen mir entfallen ist, einmal sinngemäß und in anprangernder Absicht sagte: Faschismus befriedigt menschliche Grundbedürfnisse. (Wenn das stimmt, was folgern wir daraus? Und was ist dann noch „Faschismus“?)

Mit dem Zerfall des Ostblocks verloren Laibach den Reibungskontext, in dem sie sich ursprünglich bewegten. Ihr Ansatz geriet zunehmend zur Masche, und man merkte, daß sie nun mit Alben wie „Kapital“ (1992) und „Nato“ (1994) auf der Suche nach neuen zu unterwandernden Angriffsflächen waren. (Der Liberalismus jedoch ist im Gegensatz zum National- und Internationalsozialismus leider ein allzu elastischer Gegner, der jede Opposition wie ein Schwamm aufzusaugen vermag.) Das wirkte dann ein wenig wie eine etwas verräterische, weil dem undurchsichtigen Image der Band abträgliche Ideologie-Revue, die aber mit der Methode Laibach nicht so recht zu knacken war.

Am wenigsten überzeugend geriet dabei das Album „Jesus Christ Superstars“ (1996),  das sich nun dem „ideologischen“ Rahmen der Religion widmete und Milan Fras im Gewand eines Pilgers oder Predigers präsentierte.  Das war nun doch etwas zu einfach. „Tanz mit Laibach“, eine Art Remake des DAF-Hits „Tanz den Mussolini“ ging nochmal „back to the roots“, aber wie die Nazistiefel-Dauerschleife in dem Video war das kaum mehr als ein altgewordener, auf der Stelle tretender Witz.

Gelungener (und bei weitem die interessanteste Veröffentlichung der letzten eineinhalb Jahrzehnte) war da schon das 2006er Album „Volk“, das ausschließlich Interpretationen von Nationalhymen enthielt. Das geschah mit quasi-“ethnopluralistischer“ Verve und einem Minimum an Ironie, trotz der Herdenschäfchen auf dem Cover. Hier ist die „dekonstruktive“ Absicht deutlich zurückgetreten, und hier zeigt sich auch, daß Laibach sich doch nicht so einfach in einen „linken“ Kulturbetrieb eingemeinden und abhaken lassen, wie manche voreilig beschwichtigend meinen.

Darin schließe ich mich dem Urteil von Dominik Tischleder in der JF an:

Ganz ohne interpretatorisch doppelten Boden wird hier ein „Denken in Völkern“ als popmusikalisches Panorama entfaltet. Nationale Identität scheint als politischer Faktor ersten Ranges identifiziert.Nicht zuletzt deshalb ist „Volk“ ein intellektuell stimulierendes Album geworden, bei dem die eigentliche Musik fast schon Nebensache ist. Laibach selbst drücken es so aus: „Pop ist Musik für Schafe, und wir sind die als Schäferhunde verkleideten Wölfe.“

30 Jahre Laibaich: Total totalitäre Retro-Avantgardisten

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30 Jahre Laibach: Total totalitäre Retro-Avantgardisten

Felix MENZEL - Ex:

Das Kunstmagazin MONOPOL setzt in der aktuellen November-Ausgabe einen Schwerpunkt auf Kollektive und beschäftigt sich in der Titelgeschichte mit der slowenischen Industrial-Band Laibach. Diese versteht sich selbst als „Gesamtkunstwerk“. Um dies zu dokumentieren, haben die umstrittenen Musiker dieses Jahr zum 30. Geburtstag ihrer Band eine Ausstellung, ein Symposium und mehrere Konzerte durchgeführt. 

Daniel Völzke und Martin Fengel von MONOPOL durften Ende September zu den Feierlichkeiten nach Slowenien reisen. Der Aufwand hat sich jedoch nicht gelohnt. Hauptsächlich trägt ihre Reportage die Meinungen und Erkenntnisse zu der provokanten Band zusammen, die sich in den letzten Jahrzehnten so angehäuft haben. Auf der einen Seite steht dabei der Vorwurf, Laibach würden sich faschistischer Ästhetik bedienen. Auf der anderen dann die Erklärung: Das ist nur „Über-Identifikation“ mit totalitären Systemen, mit der diese letztendlich ad absurdum geführt werden.

Der Kunstwissenschaftler Boris Groys spricht von einer Inszenierung, die „totaler als der Totalitarismus“ sei. Laibach selbst sagen dazu wenig. Entweder geben sie Statements ab, auf die die Presse nur so wartet. Zum Beispiel:

Wir sind genauso Faschisten, wie Hitler ein Maler war.

Oder sie erklären allgemeine Sachverhalte ohne jegliche Spezifik. Daniel Völzke haben sie vorgeträllert:

Wir glauben an eine Kunst, die soziale, politische und wirtschaftliche Reformen voranbringt, aber auch an Kunst, die die Grenzen ästhetischer Erfahrung austestet. In kollektiv organisierten Bewegungen entwickeln sich diese beiden Vorhaben organischer.

Damit sind wir genauso klug wie vorher.

Das Prinzip der Retro-Avantgarde, das die Slowenen anwenden, besteht darin, mit unzähligen historischen Versatzstücken (NS-Propaganda, Sozialistischer Realismus, christliche Ikonographie) die empfindlichsten Stellen unserer Identität anzusteuern. Das Ziel ist dabei kein politisches. Es geht vielmehr um die maximale energetische Mobilisierung des Betrachters. Dies kann sich in Empörung, frenetischem Jubel oder gar körperlicher Ekstase ausdrücken.

Laibach sind sich dabei bewußt darüber, was ihr derzeit größtes Problem ist. Auf dem Symposium betonte Gründungsmitglied Ivan Novak:

Es ist leicht, neu zu sein, wenn man neu ist, aber es ist schwer, wenn man alt ist wie wir.

Im Klartext: Provokation nutzt sich mit der Zeit ab. Wahrscheinlich hat die Industrial-Band daher ihren Höhepunkt schon hinter sich und weiß das sogar. Im Dezember gibt sie mehrere Konzerte in Deutschland. Bei Youtube kann man außerdem einen faschistischen Tanzkurs mit Laibach belegen. Danach wird jeder – fernab jeglicher Politik – wissen, wie faschistische Ästhetik auf ihn wirkt.

 

O trabalho na era da informàtica - Trabalho total e declive do salàrio

O trabalho na era da informática - Trabalho total e declive do salário
 
por Edouard Legrain
 
Ex: http://legio-victrix.blogspot.com/

travailinformatique.jpgA condição de assalariado, que é hoje o destino de quase todos os trabalhadores, nos anos cinqüenta apenas concernia a 60% da população ativa. Foi durante os três decênios seguintes à Segunda Guerra Mundial quando começou a generalizar-se. Naquela época descansava sobre dois pilares. Primeiro, um salário direto e crescente, fruto de uma economia estimulada pelo produtivismo fordista e o consumismo importado dos Estados Unidos. Depois, um salário indireto assegurado pelo Estado keynesiano, dispensador de seguridade social, a qual incitava os indivíduos a comportarem-se no mercado como trabalhadores e consumidores "livres", quer dizer desligados das solidariedades tradicionais. Êxodo rural, crescimento urbano, deslocamento das comunidades: este foi o preço que se teve que pagar pela americanização do modo de vida que caracterizou os Trinta Gloriosos, como denominou a estes anos Jean Fourastié.

Sem embargo, ao final dos anos 60 este regime começa a desinflar-se. Os protestos em cadeia por trabalho e as reivindicações para "viver e trabalhar no próprio país" provocaram uma primeira redução dos benefícios por produtividade. Acima de tudo, a abertura ao mercado internacional, impulsionada pelo Tratado de Roma, rompeu aquele círculo virtuoso do crescimento que até então havia descansado sobre economias relativamente fechadas. A partir desse momento, as exportações massivas permitirão aglutinar benefícios sem que para isso seja necessário aumentar os rendimentos do dinheiro, enquanto que a busca de economias de escala aumentará a fragilidade de algumas empresas que se defendiam desde fortificações cada vez mais estreitas: havia nascido a "coação exterior". E por todas as partes se começaram a explorar caminhos semelhantes para diminuir as "rigidezes" do mercado: diminuição do salário direto e abandono parcial da planificação, lenta destruição do salário indireto, acentuação do dever de mobilidade dos trabalhadores em prejuízo de seu "direito ao trabalho".

Nesse contexto começou a febril busca de um modelo produtivo capaz de suceder ao fordismo. De fato, desde aproximadamente quinze anos começaram a desenhar-se diversas alternativas. As novas formas de organização do trabalho se inspiram em modelos americanos (neo-tayloriano, californiano ou saturniano), escandinavos (grupos polivalentes, rotações de posto, equipes semi-autônomas) ou japoneses (principalmente o toyotismo). Todos apelam às novas tecnologias para encontrar uma saída para a crise do fordismo. Isso, por outra parte, não implica que as reorganizações em curso caiam no determinismo técnico: as mesmas tendências pesadas se declinam em estruturas de organização muito diversificadas. Porém, em quê medida constituem estas o protótipo da sociedade industrial avançada? O quê significa aprofundar no que se chama "racionalidade"? Por quê a figura do trabalhador assalariado está destinada a entrar em decadência? E antes de tudo, quais são os traços que caracterizam à empresa pós-fordista?


Tendências do pós-fordismo

O primeiro aspecto comum às novas fórmulas produtivas é que o conteúdo de uma tarefa está cada vez menos determinado pela atividade profissional e cada vez mais pela tecnologia secundária utilizada para intermediar a relação com o produto. Esta informatização - pois disso se trata - guarda claras consequências. Primeiro, ao substituir a percepção pelo dado e a manipulação pelo programa, reduz toda atividade a uma combinação de funções (geralmente com ajuda de "menús" colocados na tela). O que os especialistas chamam desrealização pode então trazer efeitos perversos, como a fabricação cega de peças defeituosas, ainda que tecnicamente perfeitas e portanto dificilmente detectáveis, ou a erosão da vigilância e a desresponsabilização que exemplificam os cracks que periodicamente provocam alguns banqueiros investidos de poderes exorbitantes. Uma tendência que a "realidade virtual" e o "ciberespaço" acentuarão, verossimilmente, ao apagar ainda mais a fronteira entre realidade tangível e simulação.

O trabalho se desmaterializa: "Ao final da jornada, o operador (...) não fez nada. Porém esse nada o esgotou: durante seu dia (ou noite) de trabalho, se impôs essa ascese que é a repressão em si mesmo de sua existência sensível". De modo que esse processo generalizado de abstração se vive antes de tudo como violência contra o corpo. E se estende à experiência acumulada pelo trabalhador com o passar do tempo. Pois a informática já não repousa somente em algoritmos; com a inteligência artificial e os sistemas avançados, encapsula também as heurísticas, quer dizer, as lógicas que subjazem às habilidades práticas. A ampliação do campo da sistematização formal chega hoje a um campo que o fordismo se havia obstinado em ignorar: o saber fazer dos executantes.

Uma segunda propriedade das novas fórumas produtivas concerne às modificações na coordenação da ação. É verdade que o crescimento da complexidade, o peso da incerteza e a brevidade dos prazos constituem outros tantos obstáculos para a planificação, porém, para dar apenas este exemplo, a proliferação de avarias que inevitavelmente afetam a aparatos fortemente integrados engloba a necessidade de coordenar competências à margem de qualquer esquema centralizado. Esta "desprescrição" das tarefas exige dos agentes um compromisso mútuo para prestar quando seja preciso a intervenção requerida. Este acordo obrigado se presta por sua vez a que os intercâmbios recíprocos fiquem racionalizados sob forma de contrato. Aqui as mensagens telefônicas proporcionam a ferramente sonhada. Por uma parte, pode memorizar automaticamente os convênios entre os interlocutores: "Utilizando as facilidades das mensagens de áudio - se lê em uma circular destinada aos diretores - nenhum sócio poderá dizer que não recebeu uma mensagem". Por outra, permite expurgar o discurso, por exemplo "anulando a primeira seqüência de uma comunicação onde os interlocutores tomam contato falando de tudo e de nada, do tempo, da saúde ou da família". As comunicações se transmutam assim em proposições depuradas, como se estivesse preenchendo uma espécie de formulário oral padronizado. Para codificar as interações verbais entre os membros de uma mesma equipe se recorre às filosofias da linguagem - em particular anglo-saxãs - baseadas no registro do performativo. Tais filosofias inpiram lógicas consagradas à análise das conversações e ao registro das promessas (commitments) que contraem as partes.

Toda essa importância que se dá à pragmática é um traço distintivo do pós-fordismo. A extensão do diálogo interativo homem/máquina requer, em efeito, um protocolo onde não fique ambigüidade alguma: a língua natural se vê assim obrigada a dobrar-se perante códigos sintéticos que até agora lhe estavam submetidos. Radical inversão que cumpre a profecia de Heidegger, pois agora "são as possibilidades técnicas da máquina que prescrevem como a língua pode e deve ainda ser língua". Tal seria o último e mais ladino desafio lançado pela modernidade: "Se, indo no sentido da dominação da técnica que a tudo determina, tomamos a informação como a forma mais alta da linguagem por causa de sua univocidade, de sua segurança e de sua rapidez na comunicação de informações e de diretivas, então resultará disso a correspondente concepção do ser-homem e da vida humana". É assim como o pensamento fica subjugado pelo instrumento com o que pretendia dar forma ao mundo: "A capacidade para conceber máquinas termina concebendo-se a si mesma como máquina; o espírito, capaz já de funcionar como uma máquina, se reconhece na máquina que é capaz de funcionar como ele - sem advertir que em verdade a máquina não funciona como o espírito, mas sim tão somente como o espírito que aprendeu a funcionar como uma máquina".

Uma terceira faceta do pós-fordismo reside na recomposição de tarefas, provocada pela disjunção de homem e máquina. Enquanto a automatização clássica atava o operador ao seu posto, a rapidez dos automatismos desconecta hoje o agente de sua ferramenta, favorecendo sua relocalização em funções de vigilância, de verificação e de manutenção. "A partir do momento em que estas máquinas são programáveis à vontade, a partir do momento em que são alimentadas automaticamente e dotadas de dispositivos que permitem mudar seu uso- todos esses truques que tendem para o trabalho flexível - o tempo de trabalho dos operadores já não está determinado pelo ciclo da máquina. Enquanto a máquina funciona os operadores podem fazer outra coisa, controlar a qualidade das peças já fabricadas, cuidar da manutenção das equipes ou antecipar-se às avarias".

Ao esfumar as fronteiras entre as diversas qualificações, esta polivalência acentua a substitutibilidade do pessoal e deslegitima as qualificações. O desaparecimento dos ofícios dissolve a identidade do trabalhador nas figuras genéricas do operador de instalação automatizada ou do técnico de oficina. A fadiga física dá lugar ao stress, ao isolamento perante a máquina, ao sentimento de decomposição. O estar em todas as partes ao mesmo tempo, como um bip, constantemente disponível, engrendra um estranho esgotamento: "Eu? Eu sou mais que flexível, sou completamente flácido, sou líquido", explica um trabalhador da Peugeot. A renovação contínua dos procedimentos, estimulada pela acelerada obsolescência dos produtos e das técnicas, mantém a precariedade. As pressões acumuladas em nome da eficácia se exercem em detrimento da consciência e do orgulho profissionais.

"Não se pode parar o progresso!". Esta sensação de inevitabilidade faz com que a técnica apareça como uma implacável potência alheia ao homem. A técnica sufoca toda resistência à mudança e alimenta um individualismo conformista, pois se a orientação do desenvolvimento não sofre nenhuma inflexão, não sobre remédio além de acomodar-se o melhor possível nas estruturas existentes - impotência que debilita o valor da experiência e do juízo como princípios de ação". Sem embargo, todos parecem de acordo em subordinar a eficiência da organização à existência de "relações sociais mobilizadoras". O consentimento passivo dos empregados não basta; há que lograr sua adesão. Por isso a missão do novo gestor se transforma em trabalho de convicção: trata-se de "fabricar o consenso" em torno à "utopia mobilizadora do mito racional". E é garantido que, ao não haver alternativa, o inevitável termina convertendo-se no desejável ao se impôr como a única opção possível, a única que é possível pensar.

Os assalariados, intercambiáveis no seio da empresa, se vêem também empurrados à mobilidade no mercado de trabalho. "Assim que se põem a perseguir o trabalho: ali onde haja trabalho, para lá se deslocam. Voltam a ser como nômades". Com a diferença de que o nômade autêntico nunca se deslocava sem sua comunidade. Exílio do corpo, desvanecimento dos sentidos, obliteração do espírito: o trabalhador do pós-fordismo é antes de tudo um indivíduo "vazio". "Um trabalhador que trabalhe em uma máquina-útil com comandos numéricos - observa Jean Chesneaux - está 'usado' muito antes que um lenhador que trabalhava sem problemas até os 65, a seu ritmo e com suas mãos".

Nos três planos que constituem toda cultura: a relação com o mundo, a relação com os outros e a relação do homem consigo mesmo, o pós-fordismo se caracteriza, pois, por um conjunto de traços interrelacionados: uma subjetividade maleável, sempre disposta a qualquer projeto imprevisível; uma socialidade transacional moldada pelo modelo do contrato; uma onipotência da técnica que consagra a preeminência do computador.


Da racionalidade comunicacional

Pelo papel que joga na esfera produtiva, a informática imprime sua pegada no regime da racionalidade. Na fábrica ou no escritório, tanto como na vida quotidiana, numerosas atividades já percebidas como essencialmente cognitivas estão em vias de informatização: desde o tratamento de textos até a composição gráfica, desde o pagamento automático até o diagnóstico médico. O computador é hoje a máquina universal. Assim como o cavalo-vapor inspirou uma concepção energética do mundo, as disciplinas cientificas reformulam hoje seus objetos em termos de tratamento da informação. Os fenômenos físicos, os organismos vivos, os sistemas sociais e até a psiquê se percebem e definem como campos "entapetados por redes e processadores". O poder inaugural do verbo, sob o qual se abrigavam antanho as representações coletivas, é hoje substituído pela capacidade resolutiva da operação, o qual cimenta o poder da tecnocracia. A inquietude por interpretar o universo deixa lugar para uma perspectiva de dominação. A busca do sentido, fundadora de toda cultura, parece desvanecer-se na fascinação pela máquina. "Ocidente - escreve Pierre Levy - calcula cos mitos das outras culturas e os seus próprios". Efetivamente. Por acaso Levy-Strauss não propunha, em 'A Antropologia Estrutural', "recorrer às fichar perfuradas e à mecanografia" para elucidar o funcionamento do pensamento mítico? Assim terminaria a História: amodorrada no aperfeiçoamento indefinido da técnica.

Sem embargo, ainda que os logros tecnológicos explodam, a ciência progrediu pouco desde vinte anos para cá. E a ascenção da informática não é sem dúvida alheio a este estancamento: por exemplo, quando permite o desenvolvimento de métodos estatísticos (como a análise fatorial de correspondências) que nos evitam ter que seguir formulando hipóteses sobre as relações estudadas. A ciência moderna, sustenta René thom, "no ponto em que se encontra, é uma torrente de insignificância propriamente dita". Quer se trate de física estatística ou de segmentação do mercado, os modelos não nos proporcionam chaves de inteligibilidade, mas simplesmente correlações.

Na ausência de garantias objetivas que assegurem a adequação das teorias aos fatos, a verdade somente se remete à opinião dominante, o quê conduz a nos perguntarmos como esta se formou. "A própria ciência - sublinha Feyerabend - serve-se do método escrutínio-discussão-voto, ainda que não tenha apreendido claramente seu mecanismo e ainda que o use com uma parcialidade muito marcada". A atenção se desloca então para o procedimento empregado para organizar o debate e extrair uma conclusão. René Guénon denunciava esta deriva estigmatizando a forma como "alguns filósofos modernos têm desejado transportar para a ordem intelectual a teoria 'democrática' que faz prevalecer o juízo da maioria, fazendo do que chamam de 'consentimento universal' um pretendido 'critério de verdade'". Tal é precisamente o projeto de um Jürgen Habermas: em efeito, o teórico da ação comunicativa se esforça por dar à verdade uma fundação supostamente democrática reformulando-a como verificação, quer dizer como processo mediante o qual os argumentos se intercambiam sob a presunção, supostamente inscrita na estrutura mesma da linguagem, de que poderá triunfar um acordo unânime. O livre câmbio argumentativo e o veredito majoritário se convertem assim nos pilares de um neo-positivismo.

Coincide ao menos a aparição de tal epistemologia com o desenvolvimento de vastas infra-estruturas comunicacionais para favorecer a discussão argumentada? Ainda que as publicações científicas sigam sendo um poderoso motor das carreiras universitárias, a verdade é que, em geral, decrescem proporcionalmente o aumento dos investimentos financeiros. Nos setores de ponta como a informática, as telecomunicações, a supercondutividade ou as biotecnologias, os resultados das investigações coparticipadas por formas privadas e programas governamentais sofrem retenções sistemáticas. As telecomunicações favorecem a aparição de redes privadas que consagram alianças entre sócios dispersos em laboratórios do mundo inteiro: cada um deles elabora normas específicas em matéria de propriedade intelectual e industrial, de maneira que um inextricável bosque jurídico protege a valoração comercial das descobertas: "O conhecimento científico é cada vez menos um bem público acessível a todos, e cada vez mais um capital precioso que há que proteger e fazer frutificar tão discretamente como seja possível".

Em princípio, quanto mais irrefutável seja em razão de um conteúdo, mais necessária deveria ser sua exibição. Porém, hoje, quanto maior é a carga argumentativa incorporada em qualquer terreno, mais estrito é o controle que sobre ele exerce o aparatdo. E assim, tanto os freios para a livre circulação da argumentação científica como a difusão massiva de mercadorias espetaculares contribuem para alimentar esquemas de pensamento muito pouco racionais. A modernização não significa tanto a expansão da racionalidade como a extensão, mais sistemática, de um modo de dominação.


Trabalho total e homem novo

Esta dominação adota o veículo da técnica, cujos princípios fundamentais, à força de infiltrar-se nos costumes quotidianos, terminam por se impôr como modelos. Porém enquanto que o produtivismo fordista organizava a exploração do homem e da natureza, o pós-industrialismo tenta reconstruir (com benefícios) o entorno, a socialidade e a subjetividade sobre uma base eminentemente técnica. Esta reconstrução do mundo germina nos modelos produtivos do pós-fordismo; por isso não é surpreendente ver como suas tendências atuam na sociedade global: "A acumulação de capital e a acumulação de saber - que hoje serve mais ainda que ontem de relevo para a primeira - somente se produzem em um pólo exterior ao próprio trabalhador, a partir de racionaldiades produtivistas e economicistas que ele não pode dominar e que o dominam, incluída sua vida fora do trabalho".

Este desaparecimento progressivo da distinção vida no trabalho/vida fora do trabalho, característica da sociedade pós-industrial, é parcialmente imputável ao polimorfismo do computador, que substitui as antigas e múltiplas relações dos homens com suas atividades por uma tecnologia padronizada: "Na sociedade digital, as mesmas telas e painéis, a mesma modelização, a mesma linguagem codificada, os mesmos procedimentos mentais permitem "gerir" atividades que até agora não tinham nada a ver entre si: o trabalho na fábrica ou no escritório, os jogos em família, o seguimento da economia mundial, a gestão dos serviços públicos, a criação musical, as contas domésticas, a especulação financeira... A informática homogeneiza e normaliza o campo social". A sistematização da vida corrói assim fragmentos inteiros da socialidade, substituindo a experiência das relações interpessoais por rotinas mecânicas - os rituais sociais deixam lugar aos protocolos técnicos - e vem acompanhada pelo darwinismo econômico (somente merecem "sobreviver" os espécimens mais inovadores), a segregação informacional (seleção dos indivíduos mais ricos em dados) e a discriminação social (desqualificação dos que se subtraem destes imperativos). Em definitiva, o integrismo modernista passa pela purificação técnica ("uma nova raça de empresários", de usuários, de clientes, etc): "A universalização da relação social anunciada pelas filosofias da história é já um fato consumado: não há mais que um único espaço das técnicas e da política, da comunicação e das relações de poder. Porém esta universalização não é nenhuma humanização nem uma racionalização: coincide com exclusões e cisões mais violentas que as de antes".

Sherry Turkle mostrou como, mais além dessa reformulação empírica, a informática se converte também em pedra angular de um tecnopopulismo segundo o qual será possível mudar a sociedade sem modificar as relações sociais. Por acaso já não nos apresentaram os computadores como uma "arma de guerrilha na batalha da democratização" sob pretexto de que estão descentralizados e são baratos? Dez anos depois, nos foi dito que o departamento americano de Defesa havia encomendado 300.000 computadores. Desde Servan-Schreiber até Lokjine, de Toffler a Guattari, transita a mesma convicção de que a reapropriação do saber passará pela utilização de novas tecnologias que poram em si a transversalidade. Hoje o ciberespaço se recicla em "projeto democrático", enquanto as autoestradas da informação nos são apresentadas como o próximo "vetor do laço social". Essa mesma utopia da "aldeia global" justifica também a DAO (delinqüencia assistida por computadores): "Os ciberpunks querem esmigalhar o poder redistribuindo informações confidenciais, como os documentos do Estado e das empresas transnacionais. Os mais radicais, os ciberterroristas, sonham com (...) paralizar o conjunto do sistema bancário mediante um 'motim eletrônico'".

Enquanto núcleo paradigmático, a informática reformula a relação com o mundo através da afirmação de que "tudo é processável" - e, portanto, reprodutível mecanicamente. Entre tanto alvoroço, alguns propõrem inclusive reprensar as culturas em termos de logicidade, quer dizer de "sistema operacional de tratamento da informação". Ao dar crédito à idéia de que o "jogo concretiza processos e organiza melhor o campo social que os fundamentos absolutos", esta tese concorre na decadência do sentido comum, quer dizer uma normatividade ancorada em um horizonte compartilhado, e mantém a ilusão de que é possível reconstruir o laço social sobre uma base técnica. (É a esse reformismo por baixo que se opõe a via metapolítica).

A corrente de análise estratégica animada por Michel Crozier, que preconiza pôr-se de acordo sobre as práticas fora de qualquer debate acerca das finalidades, se inscreve na mesma perspectiva. Similarmente, Alain Touraine quer romper com uma sociologia dos valores suspeita de legitimar os "garantidores metassociais". E, assim, define a sociedade pós-industrial por sua aptidão para a auto-transformação, a qual se mede segundo a capacidade de mobilização de atores exclusivamente articulados em torno à ação. Desgraçadamente, o antagonismo entre a tecnocracia e os "movimentos sociais", que deveria imprimir uma direção ao desenvolvimento, se esgotou já na oposição estéril entre organismos estatais ou supra-estatais aderidos aos grupos de pressão e a ONGs reduzidas ao simples protesto. Enquanto às instituições políticas, já se ouve seus representantes "falarem de 'engenharia democrática' e remeterem cada vez mais competências aos juristas, os advogados, os cientistas", em uma palavra, aos especialistas. Agora bem, quanto mais se tecnifica a democracia, menos apta será para fundar uma cultura autêntica. Ao pretender basear-se em "princípios abstratos, condição necessária de uma cidadania desgarrada das origens e das pertenças étnicas ou culturais", abre mais uma espécie de axiomática do vazio que pressupõe a existência de indivíduos purgados de sua interioridade - e por isso dispostos a serem industrialmente informados. Agora que as mídias eletrônicas conquistam um lugar cada vez mais preponderante, aumentam as possibilidades de ver "como os pais e os avós são substituídos, como moldes para a reconstrução, por celebridades e outros modelos condicionados, saídos diretamente dessas mídias". A longo prazo, as biotecnologias deixam entrever a oportunidade de "liberar-se das cadeias do passado e dos códigos genéticos hereditários". Uma produção midiática de álibis identitários: tal é o beco sem saída em que desemboca a ilusão de uma cidadania refundada sobre a pura intelecção, quando se conjuga com os milagres da técnica.

Porém, para dizer a verdade, é o edifício social inteiro que se encontra afundado no nível das organizações. E quanto mais invade o econômico as relações sociais, mais ficam estas situadas sob o signo do contrato: a educação parece não se conceber já sem "contratos pedagógicos", a integração social sem "contratos de inserção", etc.

Os Estados Unidos são o exemplo mais acabado dessa involução. Quando a democracia se confunde com a arquitetônica do Direito, o laço social se reabsorve como contrato. Por essa via, em uma paisagem social intrínsecamente congelado, os grupos que se afirmam desfavorecidos (mulheres, homossexuais, negros e outras minorias étnicas) se esforçam em modificar o statu quo. Em um país em que prosperam 40% dos juristas do planeta, a hipertrofia procedimental vem acompanhada pela erosão da moral e da responsabilidade e pelo declive da convivência. O amor se gere como um negócio entre outros, e é em qualidade de sujeitos de direito como os cônjuges chegam à alcova onde devem cumprir seus compromisos mediante as prestações correspondentes. Tudo quanto por excesso ou por defeito - desfalecimento sexual, galanteios desconsiderados - turbe a execução do contrato, se expõe a uma sanção penal. Daí esses regramentos universitários que dispõem que cada etapa de uma relação física ou amorosa entre entre estudantes deve previamente ter sido objeto de consentimento oral explícito. Os libertarians, advogados do proxenetismo, do trabalho infantil e da falsificação da moeda, não fazem nada a não ser radicalizar essa postura segundo a qual não há maior legalidade que o consentimento mútuo. O qual engorda a litigation society - quer dizer, a guerra de todos contra todos.

Em uma sociedade que "funciona sobre bases puramente contratuais e utilitárias - escreve Julius Evola - exigir que um dos agentes se sacrifique muito ou pouco por interesse comum e, mais ainda, pelo interesse de outro agente, pareceria um puro absurdo, porquê o conjunto, o elemento comum, tem por fundamento e por única razão suficiente o interesse utilitário do indivíduo". Morre, pois, a solidariedade. Evidentemente, quanto mais se distendem os laços orgânicos, mais se estende a colonização jurídica de terrenos espontaneamente estruturados pela compreensão mútua, em particular a família e a escola. A ingerência estatal nos conflitos que aí aparecem - pela via das intervenções judiciais e de suas prolongações psicoterapêuticas - tem por primeiro efeito o coisificar os agentes submetendo-os a regras formais, de sorte que o objetivo inicial da integração social se converte em desintegração dos contextos de ação. Irônicamente, o herdeiro da Escola de Frankfurt compartilha aqui dos temores de Thomas Molnar, para quem a ideologia liberal havia terminado por despedaçar a família. Esta, sublinha Molnar, "é um grupo natural e não uma organização signatária do contrato social. Porém a tendência atual é reduzi-la a isso, e na direção desse objetivo se dirigem as disposições legais".

Tal quadriculamento do mundo vivo pelo sistema de racionalização dominante supõe um trabalho constante sobre o indivíduo. Daí a necessidade de apresentar a este como um substrato perfeitamente plástico. Com essa finalidade se emprega Jean-Marc Ferry, avançando o conceito de identidade reconstrutiva: os sujeitos se inclinariam a remodelar-se tomando dos diversos discursos culturais aos quais estão expostos os sintagmas mais próximos aos princípios universais da moral e do direito, sem que se saiba, sem embargo, em virtude de quais critérios poderiam exercer corretamente seu juízo, salvo aqueles critérios originais que ainda conservem em seu fundo. As culturas dos povos são assim apresentadas como agregados modeláveis à vontade, cujos fragmentos, judiciosamente recombinados, comporiam um fruto mais elevado - fiel transposição da maneira em que Taylor empreendeu a reorganização "científica" da fábrica a partir de procedimentos já existentes, porém considerados demasiado pouco racionais. Os sujeitos, reduzidos a suas competências cognitivas, são assim assimilados a mecanismos "complexos de processamento de informação, que produzem informação nova, destróem a informação antiga e acima de tudo transformam a que recebem."

Naturalmente, tal postura não carece de intenções ocultas, pois em realidade as respectivas argumentações sempre jogam um papel menor no que concerne a relação das forças em presença - começando pela capacidade da cultura hegemônica (a técnica) para impor a abstração teórica como indicador do grau de humanização. "A regra se transforma em astúcia, o bem se converte em monstruosidade e o povo fica perplexo", versificava Lao-Tsé. Tal perplexidade deve ser vencida, e por isso o trabalho consiste desde agora, em boa medida, em romper as resistências psicológicas e sociais. Eurodisney, o túnel sob o Canal da Mancha, as autoestradas da informação...os exemplos de technology push abundam, e em todos eles a propaganda se afirma como um componente intrínseco da modernização. Hoje não se poderia produzir a demanda sem a colusão dos poderes públicos e dos trusts, que cavalgam sobre sutis estratégias de gabinetes especializados para superar a indiferença, dissolver as reticências e persuadir os futuros usuários. Apesar desses esforços, as investigações mostram que o mais determinante à hora de aceitar as tecnologias segue sendo o temor ao desemprego e ao rebaixamento social. "Onde tudo já foi vencido, só resta convencer", exclamava Raoul Vaneigem. Porém bastará a pedagogia para impôr durante muito mais tempo ainda os quadros tecnológicos dominantes?

Papel emblemático do computador em um universo reduzido a processos, contratualização do laço social compreendido como um mercado de transações, indivíduos remodeláveis à vontade: a sociedade pós-industrial é amplamente homotética com a empresa pós-fordista. E é nesse contexto em que se opera o trabalho indefinido de reconstrução integral do mundo.


Reconstrução e declive do salários

A modernização transforma a sociedade em uma empresa geral de reconstrução que mobiliza todos os recursos - materiais, sociais, psíquicos - e que se estende a todos os setores. Ao meio de vida: enquanto que na ecologia tradicional dos poetas, a exemplo de Virgílio, mantinham o amor pela natureza assimilando-a a uma paisagem da alma, o ecossistemista pretende regular a relação com o entorno com a ajuda de punções fiscais e de programas tecnocráticos. À socialidade: as funções de subsistência e de regeneração do tecido social, que não faz tanto tempo eram assumidas pelas comunidades locais (em particular rurais), são hoje monetarizadas pelo capitalismo e regulamentadas pelo Estado - preocupado este por reforçar seu poder, aquele por estender seus mercados. Ao indivíduo: quer se trate do rebuilding psíquico ou do lifting identitário (em três fases: determine o quê você quer ser, elabore um plano de ação, viva segundo sua nova identidade), a preocupação maior dos psicoterapeutas é favorecer a circulação dos signos sobre o modelo do livre-câmbio.: o homem são já não é o homem enraizado, mas sim "o homem que corre como um rio cujo fluxo não é travado por obstáculos mortos."

Tudo deve ser reconstruído. A alimentação, mediante a dietética ou a nutrição artificial, para ser "mais produtivo, eficaz e ter melhores performances comendo". A solidariedade, pelo trabalho social; a educação, pela 'pilotagem' dos sistemas de educação". Paralelamente, há que reordenar o ócio para dar saída aos novos produtos de consumo (espetáculos, multimídia, videogames), restaurar a fecundidade masculina danificada pela desvirilização, salvar a democracia ameaçada pela televisão.

A feminista americana Hite interpreta como um fenômeno positivo a atual desintegração da família nuclear. Juízo que compartilha uma comadre francesa, socióloga acionalista, que quer "ajudar às mulheres a desatar-se da célula familiar tradicional, alienante". Amanhã, a paternidade será dissociada em três funções: biológica (reprodução), social (patrimonial) e psicológica (educação), cada uma das quais será objeto de remodelação técnica - respondendo assim aos desejos de Betty Friedman, que aspira a "reconstruir o ciclo da vida". A procriação medicamente assistida permitirá à mulher parir na idade da menopausa sem ter tido que sacrificar sua carreira: por fim a igualdade! Germaine Greer vai mais longe: "Meu filho - escreve - não tem necessidade de saber se sou eu sua verdadeira mãe". Será todavia seu filho, ou o da sociedade do espetáculo? Os assalariados, observava Guy Debord, "são inclusive separados de seus filhos, que antes eram a única propriedade de quem não tem nada. Lhes é arrebatado, em tenra idade, o controle dessas crianças, já convertidos em rivais, que não escutam as opiniões informes de seus pais e sorriem perante o seu flagrante fracasso: desprezam não sem razão sua origem, e se sentem mais filhos do espetáculo reinante do que desses domésticos que por azar os engendraram: sonham com ser os mestiços desses negros". (O fato de que a lei corânica ofereça um marco normativo estável para a relação entre os esposos, apartando o espectro de uma colonização tecnológica da paternidade, não é sem dúvida alheio à atração que o Islã exerce sobre um Ocidente extenuado pela guerra dos sexos).

Quanto mais se aprofunda na destruição, mais floresce o slogan da reconstrução. Como escreve um órgão mutualista, "Reconstruir a sociedade é lutar", quer dizer, mobilizar - contra a exclusão, pela igualdade de oportunidades, pelo direito à moradia, pela justiça fiscal, pela seguridade social, pela criação de emprego, pela distribuição de empregos, por serviços assistenciais, etc. Marcha forçada na direção do "desenvolvimento", que se assemelha cada vez mais a aspereza e ceticismo a medida que progride. Faz-se assim preciso manter um exército de assalariados para curar os mutilados da guerra econômica e aos aleijados pelo progresso.

Ao considerar o ente como objeto disponível para seu emprego, a técnica moderna, segundo explica Heidegger, termina inevitavelmente concebendo o indivíduo como um material de construção - um recurso humano. Tal engolimento do homem se refrata na competição, na arte ou na filosofia. Há vinte anos, Jean-Marie Brohm descrevia já o esporte como " matematização permanente do corpo humano e de suas capacidade"; o laboratório ou a organicidade natural se submetem à artificialidade técnica para fabricar uma máquina humana eficaz. Esse era precisamente o motor que movia a Andy Warhol, segundo confessava o próprio maestro da Factory: "O que me incita a pintar desse modo é que desejo ser uma máquina, e tenho a impressão de que tudo que faça como uma máquina, será o que quero fazer". O performer australiano Sterlac expressa indubitavelmetne esta pretensão ao pôr em cena uma simbiose entre o humano e a técnica: "A nova perspectiva - explica - é que o corpo pode ser colonizado por organismos sintéticos". E inclusive o desenho antropomorfo lhe parece obsoleto: "Já não há nem homem nem natureza, mas sim unicamente um processo que produz o um no outro e conecta as máquinas - explicam Deleuze e Guattari - : eu e não-eu, exterior e interior, são termos que já não querem dizer nada".

"Tudo começou com esta frase de campo de concentração -protesta o poeta ginebrino Chappaz - este edito dos ministros (ministros das futuras fomes e prostituições): sobram um milhão de camponeses na Europa". O trabalho de modernização consiste, em efeito, na destruição deliberada das relações específicas com o mundo, com o próximo e com si mesmo que os povos haviam instaurado, e em sua substituição por tecnologias industriais, produtos culturais e próteses psicológicas padronizadas. Trata-se de promover um cosmos objetivado, de congelar a maravilhosa abundância do universo omde sempre acaba germinando alguma metafísica suspeita, de assignar ao último homem "um mundo distinto ao da vida, da natureza e da história". E ao final, é a própria cultura a que, ao invés de fundar e ordenar o econômico, converte-se em sua criada e em seu brinquedo: "O Ocidente inventou um estranho sistema onde a economia não está emoldurada nas relações sociais, mas sim que são as relações sociais que estão emolduradas na economia. As outras civilizações haviam evitado cuidadosamente essa inversão. Porém este sistema, ao ser fundamentalmente irracional, não pode durar muito mais tempo".

Hoje, a expansão indefinida da categoria trabalho e a concomitante tecnificação do mundo estão cevando a decomposição da sociedade salarial. Por uma parte, sua própria inflação termina por dissolver a noção mesma de trabalho, com as conseqüências de que a distribuição do emprego assalariado parece arbitrário, a distinção entre desempregados e remunarados parece sem fundamento, e a hierarquia dos salários resulta ilegítima, assim como os estatutos que levam consigo. Por outra parte, a relação salarial tramada em torno à classe trabalhadora se beneficiou de um legado onde a tradição provia ainda um mínimo vínculo social através da gratuidade das prestações domésticas. Porém o impulso da sociedade mercantil vem a desagragar até tal ponto a socialidade, que não consegue financiar sua reconstrução total pelo trabalho, e o sistema vacia sob o peso da uma carga tão gigantesca.

"O que temos perante nós - profetizava Hanna Arendt - é a perspectiva de uma sociedade de trabalhadores sem trabalho, quer dizer, privados da única atividade que lhes resta. Não se pode imaginar nada pior". A previsão parece exata - e o termo, justificado - salvo em um ponto: não vai ser o trabalho, mas sim o salário que vai faltar cada vez mais. E essa crise do sistema salarial vai deixar um número crescente de homens vagando em meio às ruínas.


Tradução por Raphael Machado

mardi, 23 novembre 2010

Derniers livres de Jean Parvulesco

Derniers livres de Jean Parvulesco: le roman fantastique "Un retour en Colchide» et le volume des enquêtes géopolitique "La confirmation boréale"

Ex: http://roncea.ro/

Ganditorul roman de geniu Jean Parvulesco a murit la Paris, la varsta de 81 de ani. Acestea sunt ultimele sale carti, publicate in 2010:

La confirmation boréale – volum aparut pe 08.01.2010

Tendintele actuale ale conspiratiei mondialiste comanda efectelor circumstantiale ale istoriei vizibile. Ai nostri, cei care suntem dincolo de “Europa ca mister”, noi comandam cauzelor, pentru ca sunt cauzele cele care ne comanda, in mod direct. Cauzele invizibile, abisale, escatologice si providentiale, “cauzele primare”. Terorii ratiunii democratice totalitare, noi opunem linia de front a irationalitatii dogmatice a istoriei insasi.

Un retour en Colchide – aparut pe 10.10.2010

Prophétique et activiste, l’oeuvre romanesque de Jean Parvulesco est le vecteur d’un engagement personnel total contre le ” mystère d’iniquité ” et pour l’avènement de l’être sur les décombres apocalyptiques de l’Histoire.
Jusqu’à présent, tous ses romans auront été comme autant de modalités de ce combat final, comme autant de dévoilements de son enjeu mystique. Mais avec Un retour en Colchide, Jean Parvulesco procède à un fantastique retournement de perspective : ce n’est plus dans le monde réel, ou prétendument tel, que tout se joue, mais dans celui des essences pures et de leurs épiphanies, cette Colchide idéale dont l’auteur, troquant la plume du romancier ” noir ” pour le calame du chroniqueur ” blanc “, invente et inventorie ici les voies d’accès, les passes (et aussi les impasses).

Celles-ci ne laissent pas d’être extrêmement singulières (et dangereuses), puisque c’est dans les songes qu’elles se trouvent offertes au noble voyageur. Roman ou chronique, peu importe d’ailleurs puisque le monde des songes est le vrai monde, celui où les puissances infernales tombent le masque et où la Vierge, sous les espèces les plus délicates et les plus inattendues, montre le chemin de son doigt consolateur.

N’hésitons pas à le dire, Un retour en Colchide inaugure un nouveau cycle de la grande littérature occidentale, comme l’Odyssée avait inauguré celui que Jean Parvulesco a lui-même liquidé avec Dans la forés de Fontainebleau. Roman d’extrême avant-garde, donc, qui rompt avec toutes les formes avérées du genre en faveur d’une multiplicité de possibles (dont celui d’une littérature kamikaze). Car les décombres de l’Histoire sont évidemment aussi ceux du roman même, du roman qui a oublié l’être, c’est-à-dire, en fin de compte et tout bien pesé, à peu près tout ce que la littérature de fiction a produit depuis Chrétien de Troyes.
On aura compris qu’avec Un retour en Colchide, Jean Parvulesco ne s’adresse pas aux esprits paresseux et frileux, mais à tous ceux que grisent le vin blanc de l’Antarctique et les grands vents de la bonne aventure. Ceux-là ne seront pas déçus ! Ils verront des corbeaux en veille aux frontières polaires de la Jérusalem céleste, ils franchiront le Dniepr avec Nicolas II dans toute sa gloire, ils liront des dépêches d’agences delphiques, ils rencontreront des putains célestes, Vladimir Poutine et Robert Bresson.
Et une fois la dernière page lue, ils ne pourront résister au désir de revenir à la première et de recommencer.

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Jean Parvulesco a rejoint la Terre du Milieu

Jean Parvulesco a rejoint la Terre du Milieu

anrdh87s.jpgDans son Ouverture de la Chasse publiée en 1968, Dominique de Roux évoque la spécificité géopolitique et eschatologique de la Roumanie en ces termes : "Comme le Tibet, la Roumanie est un pays circulaire, un pays central - une Fondation du Milieu - qui tourne catastrophiquement sur lui-même, de gauche à droite dans ses périodes amères ou fastueuses, de droite à gauche dans les Temps de ses ordalies. Evidemment, les notions eidétiques de gauche, de droite, se trouvent utilisées, là, dans leur sens le plus intérieur, le plus interdit". Et puis, plus loin : "Bucarest c'est l'Assomption de l'Europe comme le dirait Raymond Abellio, une latinité antérieure, innocente ou peut-être pure, dans ses profondeurs interdites, et choisir l'Europe n'est-ce pas choisir cette plus grande latinité".
Après avoir évoqué les grandes lignes de la dynamique de la Tradition, je consacrai la seconde partie de ma conférence donnée le 14 octobre dernier au Doux Raisin sur "l'Esotérisme Révolutionnaire" à l'indication de voies de salut pour ré-orienter soi-même et le monde. Parmi ces voies possibles, j'évoquai l'Empire Eurasiatique de la Fin cher à Jean Parvulesco, ce Roumain du néolithique. Au-delà de ses engagements politiques, centrés sur la volonté de construction d'un pôle carolingien franco-allemand, Parvulesco savait qu'ils se devaient d'être accompagnés d'une nouvelle religion dont un des prophètes était Saint Maximilien Kolbe. Il voulait s'opposer à la conspiration mondiale contre la Vierge, en renouant avec l'orthodoxie russe et en intégrant le shintoïsme minéral à l'Europe johannique intérieure : Jean Parvulesco brûlait du désir de voir un jour la statue de la Vierge au Kremlin, et il se mettait à genoux devant la très sainte figure d'Amaterasu qu'il assimilait à Marie. Il savait que le Graal se trouve dans une des grottes du Fujiyama.
Je l'avais eu au téléphone ce 14 octobre, quelques minutes avant ma conférence : il était excessivement essouflé, et sa voix avait un son rauque et spectral. Il m'avait dit avant de raccrocher : "Je suis couché, je ne peux plus me relever". Avant-hier, alors que je discutai de son oeuvre avec Pierre Hillard à Toulon, j'ai réellement senti une aile de corbeau m'assombrir le visage. Je ne sais pas si Jean Parvulesco lisait Edgar Poe.
 
 Trop tard, on arrive toujours trop tard, tout arrive toujours trop tard.
 
 La personne de Parvulesco était idéalement modelée par Dieu pour servir de phare à une génération assoiffée, la nôtre. Mais nous sommes trop jeunes pour avoir côtoyé Eustache, Parvulesco et Pasolini, et nous sommes trop vieux pour nous trouver d'autres maîtres.

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Le décès de Jean Parvulesco

Le décès de Jean Parvulesco

L’écrivain Jean Parvulesco, né en Roumanie en 1929, est décédé le dimanche 21 novembre à l’âge de 81 ans.

984949610.jpg« Devenir immortel… et puis mourir ». C’était la grande ambition que lui confiait Jean-Luc Godard dans À bout de souffle, qui lui prêtait les traits de Jean-Pierre Melville. L’écrivain d’origine roumaine, Jean Parvulesco s’est éteint le 21 novembre à l’âge de 81 ans. Entre littérature, cinéma, et engagement politique, sa trajectoire artistique se distingue par sa singularité. Il n’a pas 20 ans lorsqu’il fuit le régime communiste de son pays et réussit à rejoindre Paris. Il y fréquente différents milieux artistiques, dont celui de la Nouvelle Vague. Son personnage apparaît dans À bout de souffle, et il a un petit rôle dans un film d’Éric Rohmer. En politique, Parvulesco est proche de la Nouvelle Droite, lié à certains gaullistes, ainsi qu’à l’Organisation de l’Armée secrète (OAS). Il commence à écrire dans les années 1960 et entame une carrière de journaliste. De nombreux articles sont publiés notamment dans le quotidien Combat. Son entrée en littérature ne s’effectue qu’à la fin des années 1970. Le recueils de poèmes, Traité de la chasse au faucon (L'Herne, 1978), est très remarqué. Une dizaine d’essais et une trentaine de romans, dont La servante portugaise (éd. L’âge d’homme), suivront. Un retour en Colchide, son dernier roman, est paru en 2010 chez Guy Trédaniel.

Jean Parvulesco est mort...

Jean Parvulesco est mort...

JeanParvulesco_Paris2000-217x300.jpgJean Parvulesco est né en Roumanie (Valachie) en 1929 et vient de mourir à Paris le soir du dimanche 21 novembre 2010. De la Nouvelle Vague à la littérature, sa vie très singulière a représenté une trajectoire personnelle à la fois solitaire et engagée collectivement.

 

Avant l’âge de 20 ans, vers 1948, il décide de fuir le régime communiste et traverse le Danube à la nage. Il est emprisonné dans des camps politiques de travaux forcés en Yougoslavie et parvient à rejoindre finalement Paris, en 1950, qu’il ne quittera presque plus. Il suit les séminaires de Jean Wahl à la Sorbonne puis fréquente les milieux les plus divers, dans une pauvreté contre laquelle il se débattu toute son existence.

 

Débute alors ce destin étrange et riche, où se mêleront l’écriture et l’action, et de nombreuses rencontres avec des cinéastes, des écrivains, des activistes, et des personnalités de zones différentes de l’échiquier politique. Proche de certains milieux de la Nouvelle Droite, il fut également lié à certains gaullistes, mais aussi à l’OAS, chiraquien atypique, apologiste du traditionalisme de René Guénon, influença le politologue russe Alexandre Douguine… Personnalité indépendante, il fut ami avec Raymond Abellio, Aurora Cornu, avec Louis Pauwels, discuta avec Martin Heidegger, Ezra Pound, Julius Evola… et connut Ava Gardner, Carole Bouquet et bien d’autres. Journaliste, il commence à écrire dans les années 60 et jusqu’à sa mort en passant de Combat à Pariscope, de Nouvelle Ecole à l’Athenaeum, de Rébellionà la Place royale ou Matulu : La tendance politique, l’objet ou la diffusion d’un média ne le préoccupait jamais. Pour lui, seul comptait ce qu’il appelait la littérature, l’acte de dire par le texte, véritable « expérience de la clandestinité».

 

Il mena cette expérience jusqu’à des retranchements personnels toujours mystérieux, où l’écrivain ne se distinguait plus vraiment du personnage, et le personnage de l’homme lui-même. Ce caractère unique, cet esprit qui semblait au-delà de toutes les difficultés du quotidien, à la vitalité exceptionnelle, à la culture secrète et souvent magnifique, lui valut d’être remarqué et apprécié par Eric Rohmer, Jean-Luc Godard ou Barbet Schroeder. Dans A bout de souffle, Jean-Luc Godard fait interpréter par Jean-Pierre Melville le rôle de Parvulesco (voir notre vidéo ci-dessous), qui aura cette réplique restée célèbre à une question sur son « ambition dans la vie » : « Devenir immortel… et puis mourir ». Dans L’Arbre, le maire et la médiathèque d’Eric Rohmer, il joue le rôle de « Jean Walter », proche de celui qu’il était en vrai, au côté d’Arielle Dombasle et de François-Marie Banier.

 

Au-delà de cette présence au cinéma, l’œuvre qui restera est son œuvre littéraire. Il commence à écrire des livres vers 50 ans, avec notamment leTraité de la chasse au faucon (L’Herne, 1978), recueil de poèmes remarqué, et un premier roman, La servante portugaise (L’Age d’Homme, 1987), publié récemment en Russie. Une trentaine de romans et une dizaine d’essais composent son œuvre. Deux éditeurs jouèrent un rôle primordial dans la publication de celle-ci : Guy Trédaniel et Vladimir Dimitrijevic. Sa façon d’écrire, rejetée ou adulée, intéressa fortement des personnalités comme Guy Dupré, pour qui elle constitue « l’entrée du tantrisme en littérature », Dominique de Roux, Michel Mourlet, Michel Marmin, Jean-Pierre Deloux ou Olivier Germain-Thomas (qui lui consacra une émission « Océaniques » sur FR3 en 1988).

 

Le 8 juin 2010, il est invité sur le plateau de l’émission « Ce soir (ou jamais!) » par Frédéric Taddéï sur France 3. Auprès de Dominique de Villepin, de Marek Halter ou Philippe Corcuff, il restera étonnamment silencieux. Son dernier livre, Un retour en Colchide, vient de paraître chez Guy Trédaniel. Il y notait, à sa façon, que « ce n’est pas nous qui décidons de l’heure. Moi, par exemple, je fais tout ce que je peux faire, mais je ne sais pas s’il ne faudra pas que je sois obligé d’abdiquer. D’ailleurs, j’ai l’impression que le moment de la fin arrive ».

 

 

Source Mécanopolis

15:50 Publié dans Actualité, Hommages, Jean Parvulesco | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : jean parvulesco, hommages | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

Guillaume Faye / Dr. Gérard Zwang: Sur la sexualité

Bonjour à tous,

Le libre Journal des Lycéens a été consacré, samedi 20 novembre 2010, à la sexualité et son évolution. Pour nous éclairer sur le sujet, nous avons reçu le Dr Gérard Zwang et Guillaume Faye.
Vous pouvez également vous rendre sur notre blog afin d'écouter les dernières émissions.
A très bientôt, sur Radio Courtoisie bien sûr.

Romain LECAP
Pour écouter Radio Courtoisie :
Paris 95,6 MHz   Caen 100,6 MHz   Chartres 104,5 MHz
Cherbourg 87,8 MHz   Le Havre 101,1 MHz   Le Mans 98,8 MHz ;
pour toute la France, en clair, sur le bouquet satellite Canalsat (canal 526) ;
pour le monde entier sur www.radiocourtoisie.fr.
 

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Au cours de cette émission, les animateurs évoqueront la question de la sexualité confronté à la modernité. Comment évoluent nos comportements sexuels en France et en Europe? En quoi le matérialisme et l'individualisme de notre temps ont pu la transformer? Et si au contraire elle n'avait jamais été aussi forte et saine?

Autant de questions que nous poserons à nos deux invités, le Dr gérard Zwang, sexologue mais aussi militant anti-mutilation et Guillaume Faye, pamphlétaire bien connu qui publiera prochainement l'ouvrage Sexe et dévoiement.

De la pornographie à la publicité, des comportements amoureux et personnels à la morale publique et religieuse, nous aborderons toutes les grands sujets relatifs à la sexualité afin de mieux la définir.

A propos du "Petit traité des vertus réactionnaires" d'Olivier Bardolle

A propos du « Petit traité des vertus réactionnaires » d'Olivier Bardolle

par Christopher Gérard

Ex: http://www.polemia.com/ 

 

« Je n’appartiens pas à un monde qui disparaît. Je prolonge et je transmets une vérité qui ne meurt pas. » Nicolás Gómez Dávila

Gainsborough_The_Blue_Boy-wr400.jpg« Apologie du courage, sens de l’honneur, individualisme aristocratique, ampleur de vue, goût du risque, perception du tragique, conscience de sa responsabilité, affirmation de soi, sens de l’Histoire », telles sont ces vertus que, depuis la fin des Grandes Conflagrations et l’entrée en dormition de notre continent, un surmoi progressiste a diabolisées à l’extrême pour mieux castrer intellectuellement et spirituellement les fils d’Europe.

Disciple du regretté Philippe Muray, ce contempteur de l’homo festivus dont les charges contre l’imposture aux mille faces nous font tant défaut aujourd’hui, Olivier Bardolle incarne un singulier paradoxe, puisque ce publicitaire passé par les milieux du cinéma américain se révèle lecteur attentif de Céline et de Cioran, de Baudelaire et de Nietzsche ! Un martien dans le monde aseptisé du divertissement de masse, doublé d’un hoplite qui, manifestement, en a soupé de progresser masqué. Un combattant qui jette le gant avec panache … non sans avoir pris la sage précaution de fonder sa maison d’édition (*) !

Son essai ? Une courageuse démolition de notre modernité finissante ; une exhortation passionnée au sursaut individuel et collectif, nourrie de références historiques et littéraires, que les puristes jugeront parfois journalistiques (quelques approximations, quelques affirmations contestables en effet), mais à l’allégresse communicative.

L’essentiel : Bardolle sonne le tocsin sans poser au scrogneugneu ranci (la droite des boites de nuit), mais en héritier effaré par notre déclin, en amoureux déçu d’une civilisation en pleine liquéfaction. Ne pousse-t-il pas la provocation jusqu’à se réclamer, au début comme à la fin de son pamphlet, du héros de Gran Torino, ce film de et avec Clint Eastwood, belle défense et illustration de l’homme de droite ?

Le mot est lâché. Droite (passéisme, réaction,…). Depuis plus d’un demi-siècle, il suffit à ostraciser sans appel, à précipiter le démon dans la géhenne, à le condamner au Non-Etre (qui « n’est pas », pour citer le confrère Parménide) et ce au nom de la doxa bohémienne-bourgeoise, mixte de conformisme et de délire sécuritaire, de « désir du pénal » (Muray) et de puritanisme mesquin. Ce sera d’ailleurs l’une de mes critiques : trop indulgent à l’égard des Etats-Unis, Bardolle ne voit pas assez à quel point l’infection qui nous ronge prend sa source dans l’idéologie biblique telle que mise en pratique par les rescapés du Mayflower. S’il avait, par exemple, lu L’Interrogatoire de Vladimir Volkoff, magistrale description de la perversion yankee, sa démonstration aurait gagné en profondeur. Mais ne lui cherchons pas de poux dans la tête, à notre héraut d’un conservatisme sans illusions ni complexe ; suivons-le plutôt dans son salubre jeu de massacre.

Qu’est-ce qu’être conservateur aujourd’hui (réactionnaire, antimoderne, etc.), sinon refuser de toute son âme ce bestial enthousiasme qui saisit les croisés du Bien (éventuellement en version techno-festive : Fesse-Bouc, Haïpode et autres vecteurs d’aliénation), tout entiers à leur volonté impie de changer et/ou de sauver le monde ? Conscient de la fragilité d’équilibres payés au prix de la sueur et du sang, le conservateur entend préserver l’héritage pour le transmettre sans fanfare ni imprécations. Comme disait Burke, to conserve in order to preserve (**). Posture éminemment tragique, dénuée d’illusions sur un homo sapiens vu pour ce qu’il est : un prédateur – homo homini lupus – dont les instincts doivent être bridés, notamment par un sévère dressage. Sagesse de la réaction, fondée sur l’expérience, et donc sur la mémoire, car le conservateur est « un lyrique doublé d’un mémorialiste impénitent », empli d’une saine méfiance pour l’avenir (surtout quand il est présenté comme radieux) aux antipodes de l’utopiste qui, dans son refus du réel, en vient à haïr l’homme de chair et de sang qui ose résister à la mise au pas. Nostalgique du monde d’avant une déchéance d’ampleur quasi cosmique (l’Age d’or, la Chute, 1789, 1968, …), le conservateur porte son regard en amont avec le sentiment diffus d’être né trop tard dans un siècle de limaces. Idéaliste certes, moins dangereux toutefois que l’illuminé progressiste, friand de chasses aux sorcières. Désespéré par refus des chaleureuses impostures, sceptique, et tenant d’un temps alluvial, - qui n’est jamais celui de la table rase. Tel est le conservateur (« un mot qui commence mal », disait Thierry Maulnier).

Bardolle décrit bien cet état d’esprit sans craindre de pousser le bouchon assez loin, ce qui le rend d’autant plus sympathique. Ainsi, quand il écrit, impavide : « le risque réactionnaire – le fascisme à l’ancienne – n’existe plus. La société occidentale, furieusement matérialiste, n’en a plus la capacité spirituelle, elle n’en a pas non plus les nerfs ni le courage. » Décidément, le « mental de planqué » de notre société l’écœure au point de lui faire proférer des horreurs, voire de citer avec jubilation Georges Steiner qui, dans Libération, s’exclame : « je préfère un SS cultivé à un beach boy ».

Ce grand désenchanté - Bardolle, pas Steiner – saisit bien à quel point notre modernité est allergique à l’autorité, par haine du père (figure évacuée de notre univers) et par désir infantile d’une liberté sans bornes (« jouir sans entraves », le pire des esclavages !). Aversion pour toute hiérarchie, c’est-à-dire pour tout principe, toute sacralité (archè et hiéros en grec), analysée en son temps par un auteur que Bardolle ne cite pas, René Guénon, dans La Crise du monde moderne, lumineuse description de la soumission moderne du supérieur à l’inférieur. Le corollaire en est le refus de l’effort, qui mène au gâtisme précoce, celui du grand jardin d’enfants qu’est devenu notre monde : « L’individu contemporain ne veut plus apprendre, ne veut plus souffrir, ne veut plus subir ». Autre conséquence de cette paresse fondamentale, la hantise du risque, de la responsabilité… et de la mort qui tout emporte. Tel est sans doute le clivage essentiel : le progressiste, sinistre amateur de pyramides et de triangles, est affolé par l’idée même de la mort, qui pour le réactionnaire est une compagne de chaque instant, une inspiratrice.

Nostalgie de la verticalité, dégoût pour le catéchisme rose bonbon, regard critique posé sur le mythe foncièrement progressiste – donc utopique - de la croissance indéfinie dans un monde fini, attachement viscéral pour ce qui perdure (pérenne est un mot de droite, éphémère évoque la gauche ; durable relevant lui de l’escroquerie pure), Bardolle passe en revue les grands thèmes de la vision du monde conservatrice. Ses propos sur l’Islam divergent, Dieux merci, de la mélasse que nous servent les notaires de la parole : « Jusqu’où iront la mauvaise conscience et la veulerie de l’homme blanc repentant à l’égard d’un Islam conquérant ? ». Sur ce sujet, Bardolle se prétend optimiste, sans doute parce que, en raison des dogmes républicains, il a tendance à minimiser le caractère ethnique de la fracture. Toutefois, il n’hésite pas à rompre quelques lances bienvenues contre le mythe du métissage rédempteur – dogme absolu de notre modernité festive – comme sur le pullulement anarchique de l’espèce.

Avec un réjouissant bon sens, vertu réactionnaire par essence, Bardolle propose quelques « conseils de survie » à l’hypermodernité : le odi profanum vulgus et arceo (« je déteste la foule infâme et m’en écarte ») du confrère Horace, « laisser les autres à leur propre enfer et tenir le vôtre à distance », vivre en hoplite et, last but not least, rayer le mot bonheur de son vocabulaire au profit d’un pessimisme ironique (que les bonnes âmes, tant pis pour elles, prendront pour du cynisme).

Son essai se termine par un appel à retrouver la virtus des Stoïciens, manifestement préférée au masochisme galiléen, une excellence tempérée par la bonté, vertu conservatrice soulignée naguère par un auteur que Bardolle semble ignorer, le colombien Nicolas Gomez Davila : « Traiter l’inférieur avec respect et tendresse est le syndrome classique de la psychose réactionnaire ».

Christopher Gérard
12/11/2010
http://archaion.hautetfort.com/

  • (*) Ollivier Bardolle, Petit traité des vertus réactionnaires, L’Editeur, sept. 2010, 216 pages. Préface (critique) d’Eric Naulleau, 12€
  • (**) M. Bardolle me permettra ce léger coup de patte : comment E. Burke, disparu en l’an de grâce 1797, pourrait-il avoir pris position sur Auschwitz ?

Voir aussi la critique de Didier Marc sur « Porte Louise », le dernier roman de Christopher Gérard;
et celle de GT sur le « Songe d’Empédocle » du même Christopher Gérard.

Salut à Bruno de Cessole, auteur d’un beau papier sur Bardolle dans Valeurs actuelles (23 septembre 2010).

Correspondance Polémia – 17/11/2010