Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

samedi, 15 mai 2010

Intervista a Francesco Polacchi (Blocco Studentesco)

Intervista a Francesco Polacchi



Francesco Polacchi è nato a Roma nel 1986. Studente di Scienze storiche presso l’università di Roma Tre, è responsabile nazionale del Blocco Studentesco.

Quali sono i miti, gli autori e le esperienze che consideri parte integrante del tuo bagaglio politico-culturale?


Cercherò di essere sintetico... Trovo la Storia molto divertente: credo che sia molto più simpatica e meno noiosa di come ce la si voglia far passare di questi tempi; credo cioè che nulla avvenga mai per caso e che il passato esista sia perché debba riproporsi sia perché gli uomini debbano carpire gli insegnamenti degli avi in situazioni completamente differenti da come si erano proposte in precedenza.
I periodi storici in cui più ritrovo lo spirito e le linee guida della mia azione sono l’Impero Romano, anche se sono consapevole che in mille anni di storia (considerandolo quindi dall’atto della fondazione di Roma quale Imperium) tanti sono stati i momenti e i motivi che lo hanno portato alla sua implosione; l’Impero di Federico II quale più longeva e fresca espressione della nuova sintesi delle idee Imperium, popolo e rivoluzione sociale e amministrativa nell’artecrazia e infine, ovviamente, il Fascismo. Inoltre ci sono altri momenti quali il Risorgimento, il periodo napoleonico o alcuni altri imperatori «medioevali» (uso le virgolette perché odio la parola «medioevo» in quanto vorrei sapere quale epoca non è un passaggio tra due epoche???). Come autori ho sempre svariato: da Degrelle a Palahniuk, da Sun Tzu a Bunker, da Omero e Virgilio a Fante e Bukowski...


Che cosa è stato secondo te sinteticamente il Fascismo? Alcune sue intuizioni e proposte possono essere valide ancora oggi?

In senso lato il fascismo è stata la grande poesia del XX secolo; l’originale sintesi tra la moderna idea di Stato, le nuove esigenze della società con una visione del mondo lontana dall’essere contingente e immanente. In senso stretto fu ciò che trasformò l’Italia da un paese agricolo a una nazione industriale.
Molte sono le intuizioni che possono essere ancora valide, come la politica sulla casa di proprietà, sulla socializzazione delle imprese, su un’economia guidata (non bloccata) dallo Stato, sulla costruzione di grandi infrastrutture, la lotta alla mafia... tutte cose che ormai sono tristemente cadute nel dimenticatoio perché il fascismo è oggetto di una damnatio memoriae che non concede sconti.


Come e perché nasce il Blocco Studentesco? Qual è la sua «missione»?

Non siamo religiosi, quindi in un certo senso non crediamo alle «missioni»... però accetto la provocazione e dico che la nostra volontà è quella di riportare la partecipazione politica tra i giovani in un periodo storico in cui si fa di tutto per andare nella direzione opposta; d’altronde: meno domande e meno curiosi = meno problemi. Questo è un po’ il perché. Sul come la cosa è molto divertente. Ufficialmente il Blocco Studentesco nasce il 12 settembre del 2006 a CasaPound, ma l’idea era nata qualche mese prima sulle scale quando mi ritrovai con Davide di Stefano a parlare con Gianluca Iannone il quale ci disse un po’ per gioco: «perché non fate un movimento studentesco?». Detto fatto e, così come in altre situazioni, la nascita del Blocco non deve essere vista come chissà quale operazione studiata nelle segrete da chissà quanto tempo... Sicuramente però è stato proprio il momento giusto per partire!


In che stato si trova l’attuale sistema dell’istruzione nazionale?

Non bene. Troppi finanziamenti alle scuole private e poca attenzione al settore pubblico in cui molto spesso gli addetti non fanno il loro dovere avvalorando la tesi di chi vorrebbe privatizzare anche l’aria che si respira.


Come giudichi le ultime riforme della Gelmini in materia di scuola e università?

Non sono poi così negative. A me fa sorridere il fatto che tutte le manifestazioni di protesta che furono fatte nell’autunno 2008, a parte pochi interlocutori tra cui noi!!!!, non avevano idea su cosa andare a parare. Noi volevamo bloccare la legge 133, gli altri al massimo il grembiule e il maestro unico: assurdo. Tornando a bomba: la riforma sugli accorpamenti dei licei era necessaria così come il riordino degli istituti tecnici; altre cose come le norme antibullismo e il voto in condotta sono palliativi populistici. Sull’università, fermo restando la nostra assoluta contrarietà alla legge 133 voluta dalla finanziaria del 2008, gli interventi contro il baronato e in favore della maggiore trasparenza di assegnazioni e fondi non possono che farmi piacere.


Tu conosci molto bene gli interessi politici che gravitano intorno alla scuola. Quali sono i veri centri di potere che dettano l’agenda in fatto di istruzione?

Con la legge 133 si concede la possibilità a terzi di entrare nei consigli di amministrazione degli atenei. Il problema è che così facendo le materie umanistiche andrebbero ovviamente a soccombere e materie più tecniche a essere favorite. In più la mia grande paura è relativa alla possibile intromissione delle multinazionali farmaceutiche.


Che modello di scuola/università propone il Blocco? Come intende realizzarlo?

La scuola e l’università devono essere i luoghi in cui si formano le coscienze delle nuove generazioni e la professionalità della classe dirigente del futuro. Anche se non devono essere viste come scuole di lavoro, è chiaro che devono rappresentare la piattaforma di lancio per gli studenti nella società civile, cioè in quella dei «grandi». Oggi assistiamo purtroppo alla distruzione della comunità scolastica in nome di una più proficua e con meno problemi scuola-azienda che nell’università è già diventata una realtà. Per raggiungere questo obiettivo puntiamo sulla ricostruzione di un movimento che sia al tempo stesso una vera e propria comunità di giovani dediti quotidianamente alle attività politiche seguendo i nostri princìpi basilari. È nell’azione quotidiana che si possono gettare le fondamenta per il futuro e, nel frattempo, concorrere a qualsiasi tipo di elezione dove far valere le nostre idee riportando lo spirito di trincea che ci contraddistingue.


Ultimamente stiamo purtroppo assistendo a un continuo crescendo di tensione con le formazioni della cosiddetta «sinistra antagonista», tanto che alcuni – probabilmente in maniera esagerata – fanno paragoni con gli anni piombo. A chi e a cosa giova questa situazione?

Il paragone con gli anni di piombo è assolutamente esagerato... qualcosa è cambiato, non tutto, ma qualcosa sì. Questa situazione giova moltissimo all’estrema sinistra in quanto, essendo ormai sconfitti dalla Storia, possono trovare un motivo per continuare a esistere solo nel cannibalismo politico, cioè solo nutrendosi delle altrui battaglie per avere qualcosa da contraddire, qualcosa contro cui opporsi. In più questa situazione fa gola a tutti i finti democratici che trovano l’occasione per poter aprire bocca e darle fiato, usando il linguaggio politichese per affermare cose banalissime e avere un minimo di visibilità nonostante la loro inconsistenza politica.


Questa domanda è quasi d’obbligo. Che significato ha avuto l’ormai celebre manifestazione anti-Gelmini dell’autunno 2008? All’inizio sembrava che si fosse veramente riusciti a realizzare una protesta corale e trasversale, al di là delle vecchie contrapposizioni politiche. Poi che cosa è successo?

C’era una volta una manifestazione studentesca... il Blocco e le incredibili vicende di piazza Navona. Nelle due settimane precedenti al 29 ottobre il nostro movimento era impegnato in una vera e propria agitazione studentesca partecipando a manifestazioni, cortei, sit-in, assemblee straordinarie, occupazioni di innumerevoli scuole per contestare la legge 133 (che fa parte della finanziaria 2008) e tutto questo ovviamente con studenti di qualsiasi opinione politica... il 29 ottobre era l’ultimo giorno.


Il Blocco Studentesco si sta espandendo in tutta Italia, contando numerosi militanti e decine di migliaia di simpatizzanti. Qual è il segreto di questo successo? Che cosa rappresenta il Blocco per le nuove generazioni?

Il Blocco è il nuovo che avanza, è l’irrazionale voglia di vivere, è un’esplosione di vitalità che non tutti riescono a capire, ma con cui tutti devono fare i conti. Credo che il segreto del successo vada rintracciato nell’impegno costante dei militanti che con i loro sacrifici portano «avanti la baracca» e nell’organizzazione scientifica del da farsi. Quando a questi due elementi si aggiunge un contenuto rivoluzionario il resto vien da sé.


In cosa invece il Blocco, secondo te, deve ancora migliorare?

Si deve sempre migliorare in tutto, la perfezione non è di questo mondo, ma tendendo costantemente ad essa si migliora tutti i giorni.


Feste, sport, concerti. Che importanza rivestono questi eventi per la politica del Blocco?

Sono mezzi importanti per dimostrare realmente la nostra essenza. Mostriamo a tutti come ci divertiamo ai nostri concerti e alle nostre feste, condividendo con gli altri la nostra innata propensione al sorriso e al divertimento. Insomma tutto il contrario di quello che dicono alcuni giornali descrivendoci come pazzi asociali assetati di sangue. Senza tralasciare poi l’importanza economica che rivestono tali eventi, essendo quasi l’unica fonte di autofinanziamento per il gruppo.


Che ruolo giocano le nuove tecnologie all’interno della militanza politica del nuovo millennio?

Un ruolo importantissimo, basti pensare che subito dopo gli scontri di Piazza Navona abbiamo messo su youtube il nostro video-verità che ci ha permesso di mostrare a tutti come erano andate realmente le cose. Per non parlare dell’importanza che riveste la grafica nei nostri manifesti e nei nostri volantini. È un altro campo in cui dimostriamo di essere avanguardia.
Se nel ’900 era il cinema l’arma più forte, nel terzo millennio è internet a rivestire il ruolo di protagonista indiscusso.


È nato da poco «Idrovolante», il trimestrale del Blocco Studentesco all’università. Quanto è importante la battaglia culturale per un’organizzazione come il Blocco? Quali sono le linee-guida e le idee-forza della nuova cultura che si intende proporre?

La battaglia culturale è la battaglia più importante. Tramite il nostro giornalino, le nostre assemblee e le nostre conferenze stiamo di fatto portando avanti una piccola rivoluzione culturale. In Italia, purtroppo, dal secondo dopoguerra in poi la sinistra ha monopolizzato questo settore servendosi di case editrici, cantanti, autori, comici, per far credere a tutti che la «cultura sta a sinistra». Si sono volutamente criminalizzati autori come Pound, Céline, La Rochelle e gettati nel dimenticatoio avvenimenti storici come la tragedia delle foibe. Tutto ciò che non piaceva all’intellighenzia salottiera era considerato non cultura. CasaPound ha rivoluzionato tutto questo, diventando un vero e proprio laboratorio culturale dove si parla di tutto e tutti possono parlare.
Inevitabilmente questo dà fastidio a qualcuno che ha smarrito ormai presa sulle masse e vivacità culturale.
Passando alle linee-guida e alle idee-forze credo che i manifesti dell’
EstremoCentroAlto e della Neoterocrazia raffigurino in versi la nostra «idea di mondo».


Quali sono i prossimi obiettivi del Blocco? Quali le prospettive?

Gli obbiettivi sono molti e le sfide più grandi sono quelle che ci entusiasmano di più. Quest’anno abbiamo raggiunto risultati importanti alle elezioni della Consulta Provinciale degli studenti, prendendo 4 presidenti e una marea di voti, poi ci saranno le elezioni universitarie, le prime a cui partecipa il Blocco e ogni anno ci sono le elezioni all’interno dei vari licei. Abbiamo organizzato una festa con quasi mille persone al Piper, storico locale romano, e il 7 Maggio staremo in piazza per la Giovinezza al potere. L’obbiettivo principale è quello di risvegliare questa generazione dallo stato confusionale in cui è stato trascinato dall’attuale società dei consumi, ma soprattutto vogliamo volere e affermare!


Che cosa ti aspetti dalla manifestazione nazionale del 7 maggio?

Immagino migliaia di persone che colorano la città con fumogeni e bandiere, allegria incontenibile mista a rabbia da urlare in faccia a chi ci dice che va tutto bene e a chi ci vorrebbe morti. Dimostrare a tutti che siamo noi la meglio gioventù.

En économie, l'imagination doit prendre le pouvoir!

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1993

En économie, l'imagination doit prendre le pouvoir!

Entretien avec Nicolas Franval,

universitaire, économiste, animateur du «Cercle de Réflexion pour une économie alternative» qui travaille au sein de la nébuleuse «Nouvelle Droite»

 

Propos recueillis par Arnaud Guyot-Jeannin

 

Avec l'effondrement du communisme, le capitalisme libéral semble être le remède miracle qui apporterait aux peuples op­primés le «bien être» et leur procurait une liberté dont ils ne disposaient pas jusqu'à présent. Ne s'agit-il pas de récu­ser ce point de vue?

 

Comment ne pas se réjouir de l'effondrement des régimes staliniens de l'Est? Mais cette joie n'em­porte nullement une adhésion au capita­lisme libéral. A cet égard, révélatrices furent les images que nous ont déversées les télévisions lors de la chute du mur de Berlin. Nous pouvions voir une masse d'individus se précipitant vers les supermarchés de Berlin-Ouest, s'émer­veil­lant devant la diversité des déter­gents, goûtant ces fruits terriblement exotiques que sont l'o­ran­ge et la banane. Ce fut le même émoi télévisuel quand, à Moscou, s'est installé le premier fast-food; enfin triomphaient les droits de l'homme. Car que reprochaient véritablement les «bonnes consciences» au communisme? D'être ineffica­ce, de ne pas satisfaire les besoins de la popu­la­tion, de ne pas offrir une consomma­tion de mas­se. Ainsi, le totalitarisme stalinien était con­dam­né non parce qu'il était un totalita­risme mais parce qu'il faisait régner la pénurie. Et de proposer le modèle libéral comme remède à tous les maux dont souffraient ces peuples.

 

Cela appelle quelques brèves remarques. En pre­mier lieu, je doute très sérieusement que le ca­pitalisme occidental soit une référence, ce sys­tè­me économique qui génère le chômage, ex­clut un part croissante de la population de la sphère so­ciale, etc. Comment penser un seul instant que la France de Monsieur Mitterand puisse susciter la moindre admiration? En se­cond lieu, nombre de pays de l'Est ne sont pas en mesure et ce, pour des raisons économiques, so­ciales, historiques, d'ins­taurer un régime capi­taliste libéral. On ne passe pas aussi facilement d'une régulation pénurique à une régulation concurrentielle, on n'instaure pas aussi aisé­ment des mécanismes de marché et de crédit. Et la BERD ne fera pas de miracles et nul ne peut douter que son rôle sera négatif. La troisième remarque est que les peu­ples de l'Est ont actue­lement d'autres batailles à mener, notamment un combat politique pour leur indépendance. Il est à noter que les bons esprits occidentaux qui condamnaient le communisme au nom des peuples opprimés, condamnent au­jour­d'hui ces mêmes peuples en lutte pour leur indépendance, pour leur droit à exister. Evidem­ment, on meurt plus facilement pour défendre son identité que pour un taux de profit. Enfin, pou­vons-nous sou­haiter qu'à un totalitarisme (com­muniste) suc­cède un autre totalitarisme (libéral) certes plus confortable? Pouvons-nous souhaiter que les peuples de l'Est se noient «dans les eaux glacées du calcul égoïste» (Marx)? Par contre, même si certaines craintes subsistent, nous devons être attentifs à l'évolution de ces pays et, qui sait, voir émerger des formes na­tionales de développement économique qui re­jettent le communisme et le li­béralisme.

 

Selon vous, libéralisme économique et défense des identités collectives sont-ils compatibles?

 

Il est étrange de voir certains affirmer mener un combat identitaire et, dans un même temps, dé­fendre avec un bel enthousiasme le libéralisme économique. Les causes d'une telle incohérence m'échappent. Le libéralisme économique consti­tue une négation absolue de toute identité collec­tive. Réduisant, au nom de l'individualisme, tou­te communauté à une somme d'individus é­goïstes et calculateurs (i.e. aptes rationnelle­ment au calcul économique) dont la seule fonc­tion serait de pro­dui­re/­con­som­mer, le libéra­lis­me évacue, détruit toute spé­ci­ficité culturelle, his­torique des peuples. Le libéralisme écono­mique dé­truit les liens sociaux et organiques des com­mu­nautés humaines, interdisant tout projet col­lec­tif, historique ou national. Nul n'a loué à ce jour les mérites du FMI  —haut lieu du libéra­lis­me— dans sa dé­fen­se des identités collectives. En outre, nombre de penseurs libéraux, s'ins­pi­rant du modèle rosto­wien, estiment que certains cultures ou religions sont des obstacles au déve­loppement économique et d'encourager les peu­ples à renoncer à leur spécificité culturelle pour accéder, en opérant le fameux «take off», aux joies de la «civilisation». Dès lors, défendre les identités collectives, le droit des peuples à dis­poser d'eux-mêmes et à préserver leur identité, est incompatible avec une défense du libéralisme économique qui a montré sa pleine capacité eth­nocidaire. A l'inverse, le cosmopolitisme est un pur produit du libéralisme, l'homo oeconomicus  étant un individu (et non une personne) indiffé­rencié, interchangeable, déculturé, déraciné, cir­cu­lant telle une vulgaire marchandise de ter­ritoire en territoire.

 

Plus trivialement dit et n'en déplaise à certains «nationaux-libéraux», il est difficile d'être si­mul­­ta­nément pour le bourreau et ses victimes.

 

Face à l'utilitarisme marchand des dé­mocraties bourgeoises qu'induit la théo­rie néo-classique, existe-t-il des alterna­tives?

 

Il est exact que la théorie néo-classique est actuel­lement dominante, surtout dans le monde anglo-saxon, les écoles libérales ou néo-libérales proli­férant. Il est tout aussi vrai que les politiques éco­nomiques mises en œuvre dans le monde oc­ci­den­tal, s'inspirent très largement de cette théo­rie. Force est de constater que cette théorie offre une remarquable rigueur formelle et que les théo­ries concurrentes se sont effacées. A moins de confondre Karl Marx et les Marx Brothers, le marxisme est globalement mort même si subsis­tent ici et là quelques chapelles marxisantes. Quant au keynésianisme, les politiques de re­lan­ce qu'il a inspirées, ont échoué. C'est ainsi que, faute de combattants, la théorie libérale triom­phe et la science économique semble être occupée par la seule théorie néo-classique. Néan­moins cette théorie est dans l'incapacité de ren­dre compte, d'expliquer la crise actuelle où les mécanismes de marché sont bloqués notam­ment par l'existence de monopoles et de groupes d'in­térêts, où les consommateurs et les salariés ont des comportements irrationnels dûs en partie à l'illusion monétaire, où persistent l'inflation, etc.

 

Ainsi avons-nous une théorie dominante et scien­tifiquement impuissante. Cela ne signifie nullement une fin de la science économique. En effet, à toute époque, se sont affirmés certains es­prits originaux, des «hérétiques» c'est-à-dire des économistes qui, s'écartant du corpus théorique dominant, ont exploré de nouveaux espaces de connaissance, ont trouvé des réponses aux ques­tions qui concrètement se posaient. Citons les noms de List, Sombart, Schumpeter, Veblen, Per­roux,… Globalement, ces économistes furent des critiques du libéralisme. Actuelle­ment cer­taines questions économiques demeu­rent sans réponse, faisant apparaître un inaltérable écart entre le monde réel et la théorie, mettant à jour une crise de la théorie écono­mi­que. Mais dans ce climat de crise, de nouveaux courants apparais­sent, de nou­velles pensées naissent. L'école de la régu­lation en est un parfait exemple.

 

Un socialisme élitaire impose de réfuter le dogme capitaliste comme le dogme col­lectiviste. Les concepts de participation et d'intéressement qui réintroduisent une vision communautaire et organique dans l'entreprise, suppriment-ils réel­lement la lutte des classes?

 

Je doute que la lutte de classes existe encore et je regrette parfois qu'il n'y ait pas un affrontement héroïque entre bourgeois et prolétaires. Nous as­sistons plutôt, dans le règne de la quantité qui est le nôtre, à des querelles entre catégories so­ciales en vue d'obtenir une plus grande part du revenu national. En outre, il faut se méfier des confu­sions langagières. Certes le terme de participa­tion est très en vogue et, faute d'audace, certains n'hésitent pas à invoquer le fondateur de la V° République à l'appui de leur thèse qu'ils vou­draient novatrices. Préalablement, je me ris­que­rai à un constat. Actuellement se développe, pa­ral­lèlement au culte du marché, un culte de l'en­treprise, sorte de nouvelle religion. Cela n'a rien de surprenant dans une société où régnent les va­leurs marchandes. Ainsi l'entreprise qui est, rappelons-le, un reflet, un condensé de l'orga­nisation sociale et économique de la so­ciété, se­rait devenue ce lieu où, par une étrange magie, tous les acteurs sociaux communieraient dans un même culte: celui de l'efficacité, de la ren­tabilité, de la compétitivité. L'entreprise se­rait devenue ce lieu où s'élaborerait une nouvelle convivialité générée par un discours unifiant (cette fameuse «culture d'entreprise»). Et suc­combant à ce culte de l'unité retrouvée, certains soutiennent l'idée de participation. Soyons pré­cis. La participation peut prendre trois formes: participation à la gestion (co-gestion), participa­tion au résultat (intéressement) et participation au capital (actionnariat). Quelle que soit la forme retenue, la participation m'apparaît com­me étant un excellent moyen technique pour que le système perdure. Prenez la participation au résultat de l'entreprise. Nul ne peut nier qu'ils s'agisse là d'un excellent instrument pour moti­ver le personnel. Mais cette participation si­gni­fie: soyez plus rentables, vous gagnerez plus et ainsi vous consommerez plus, vous serez plus heureux. Tout cela relève d'un système de va­leurs qui n'est pas le mien. C'est pourquoi l'idée de participation actuellement m'apparaît comme une douce illusion. Par contre, si l'on exclut le gadget idéologique, il est possible de penser au­trement l'organisation de la production, d'envi­sager l'entreprise comme une commu­nauté de travail où s'associeraient le capital et le travail. Encore faut-il préciser qu'une telle or­ganisation suppose une rupture avec le système économique actuel qui s'accommode fort bien de la partici­pa­tion. Pour être plus précis, je préfère nettement l'idée de coopération à celle de partici­pation.

 

Le corporatisme offre-t-il encore une cer­taine actualité?

 

Là aussi, il faut se méfier des mots. Le terme de corporatisme est devenu peu flatteur; pour cer­tains, c'est même une insulte. Plus sérieuse­ment, nous pouvons concevoir une organisation nouvelle de la production tant au niveau macro-économique qu'au niveau micro-économique voi­re méso-économique (les secteurs d'activité) et ce, sans pour autant supprimer certains méca­nismes du marché. Pourquoi ne pas envisager, nationalement ou sectoriellement, des instances de représentations des «métiers» qui seraient des lieux de négociations entre employeurs et em­ployés et où seraient élaborés des projets/plans de développement. Pourquoi la planification serait-elle la chasse gardée des technocrates dont se­raient exclus les producteurs? Si cette utopie (réaliste) doit se nommer corporatisme, pourquoi pas?

 

Ne faut-il pas supprimer les syndicats de classe?

 

La question syndicale doit s'apprécier pays par pays, le monde du travail ayant des traditions et spécificités nationales. En ce qui concerne la France, je doute qu'il existe des féodalités syndi­cales et des syndicats inféodés à des partis poli­tiques. Quant à savoir s'il faut les supprimer, la réponse est apportée par les travailleurs eux-mê­mes. Actuellement la France a le plus faible taux de syndicalisation parmi les pays membres de l'OCDE. Par exemple, le taux de syndicalisa­tion n'est que de 5,6% dans le secteur privé. Les syn­dicats n'ont pas besoin d'être supprimés, ils se suppriment d'eux-mêmes. Par contre, il est évi­dent qu'un syndicalisme est à réinventer, un syn­dicalisme qui ne soit pas uniquement préoc­cupé par la recherche d'intérêts quantitatifs, un syndicalisme qui prenne toute sa place dans une nouvelle organisation de la production telle que je l'esquissais précédemment.

 

Comment distingueriez-vous dirigisme et étatisme?

 

Actuellement il est un débat centré sur le rôle de l'Etat. Les libéraux montrent que les interven­tions économiques et administratives de l'Etat sont inefficaces et coûteuses, et prônent une vaste déréglementation. Les keynésiens montrent que l'Etat se doit d'intervenir et prônent une politique de relance par la demande publique. Ce (vieux) débat sur les mérites comparés de l'Etat-Gen­dar­me et de l'Etat-Providence m'apparaît être sans intérêt. Nul ne peut nier que l'Etat, fut-il très li­béral, intervient notamment par la monnaie et le crédit. La question n'est donc pas de savoir s'il faut plus ou moins d'Etat. La ques­tion n'est pas économique mais politique. Libéraux, keyné­siens, marxistes considèrent que l'Etat est un agent économique qui participe comme tel à l'ac­tivité économique; ils ne se sé­parent que sur le degré de l'intervention. En ce sens, tous sont éta­tistes. J'ai tendance à penser que l'Etat est de nature politique et qu'il existe un primat du po­litique sur l'économique; dès lors, l'Etat en tant qu'instance du politique, est en droit d'assigner des buts, de fixer des orienta­tions à l'économie. En ce sens, je suis dirigiste. Quant à déterminer quelles doivent être les formes d'intervention de l'Etat, interventions qui doivent générer le moins de bureaucratie possible, il n'existe pas de formules toutes faites. Pour une fois, mettons l'imagination au pouvoir.

 

vendredi, 14 mai 2010

Les brillantes suggestions de Cohn-Bendit

Imperium / Epifanie dell'idea di impero (Esp.)

Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di impero

aigleimperial.jpgClaudio Mutti
Imperium. Epifanie dell’idea di impero
Prefacio de Tiberio Graziani
Effepi, Génova 2005

Prefacio

El imperio es, según la generalidad de los estudiosos de ciencias políticas, y, en particular, de los estudiosos de geopolítica, una construcción política de difícil y compleja definición. Los rasgos del “mayor cuerpo político conocido por el hombre” [1] que en mayor medida impactan al observador son, sin duda, los referentes a las características físicas; en primer lugar, la gran extensión territorial (el gigantismo imperial), la variedad de los climas y la heterogeneidad del paisaje geográfico. Ulteriores signos distintivos que contribuyen a definir la fisonomía del imperio, como unidad geopolítica, son la plurietnicidad, la autosuficiencia económica y un poder político y militar cohesionado.

Los caracteres anteriormente citados, sin embargo, no logran describir plenamente el imperio. De hecho, existen naciones, estados federados o confederaciones de estados que pese a presentar estos mismos elementos, no son un imperio. A tal respecto, Philippe Richardot, en su Les grands Empires. Histoire et géopolitique [2], indica el caso de Brasil, Canadá y de la Unión India, a los que podríamos añadir el de los Estados Unidos de América, de Rusia y, en cierta medida, también el de la Confederación de Estados Independientes. Estos modernos sistemas políticos se extienden sobre amplias superficies, son pluriétnicos, poseen las condiciones para ser económicamente autosuficientes, pero ciertamente no son clasificables en la actualidad como imperios. Sin embargo, comparten con el imperio semejantes problemas estratégicos, en particular, los conectados con la defensa de las fronteras y la disolución de la potencia militar.

Si del plano meramente descriptivo pasamos al más especulativo, analítico, tratando de identificar la dinámica que anima y sostiene esta particular unidad geopolítica, también el modelo hoy académicamente más acreditado, el expresado por las parejas “centro-periferia” y “dominadores-dominados” [3], que Richardot juzga determinista, pero seductor por su fuerza simplificadora, no parece ser apropiado para dar una definición o explicación del imperio. Los casos indicados del ya citado Richardot que hacen ineficaz la aplicación de este modelo, con referencia a la comprensión del imperio, son los clásicos del Imperio de Alejandro Magno, del Imperio romano y del ruso. El Imperio de Alejandro sobrevive a la muerte de su fundador, desplazando su centro al Egipto de los Tolomeos, por tanto, a una región periférica del edificio realizado por el Macedonio; Roma, a partir del siglo III, ya no tiene una sede cierta, sino itinerante. De hecho, como observa Richardot, del año 284 al 305 ya no hay ni centro ni periferia, al ser el imperio descentralizado en cuatro regiones militares. Después, Bizancio, rebautizada en el año 330 Constantinopla, se convierte en la segunda capital del Imperio, hasta transmutarse en 1453, de ciudad periférica del antiguo imperio romano a centro de irradiación del sistema imperial otomano. Otro caso en el que el modelo “centro-periferia” no nos ayuda en la comprensión de la construcción y en el mantenimiento de la ecúmene imperial lo proporciona el imperio ruso, ya se haga remontar su origen a la Rus de Kiev, la capital de la actual Ucrania, que propiamente significa Marca, es decir…periferia, o ya se presente como un resto del antiguo imperio “nómada” de Gengis Khan [4].

El imperio no es, por tanto, definible por su gigantismo territorial, ni por su heterogeneidad étnica y cultural, ni por un centro geográfico definido y su correlativa periferia. La definición de tal entidad geopolítica ha de encontrarse, por tanto, en otro lugar. El término latino imperium expresa el ejercicio de la autoridad de un jefe militar, pero el imperio, como entidad geopolítica concreta, aunque funde, en la generalidad de los casos, su propio poder en la clase militar, no siempre sigue lógicas militares o exclusivamente de fuerza, como sostenía en la primera mitad del siglo XIX Leopold von Ranke (Die Grossen Machte).

Lo que distingue y cualifica al imperio respecto a las otras construcciones políticas, o más precisamente geopolíticas, parece ser, en cambio, la función equilibradora que este tiende a ejercer en el espacio que lo delimita. Toda construcción imperial, de hecho, persigue el objetivo de regular las relaciones entre las naciones, los pueblos y las etnias que la constituyen concretamente, de modo tal que las particularidades y especificidades concretas no se vean comprometidas unas en perjuicio de otras, sino que al contrario sean salvaguardadas y “protegidas”, en particular allí donde las modestas dimensiones o la escasa fuerza militar o económica de una especificidad dada sitúen a la misma en condiciones tales que pueda ser fagocitada y destruida por sus enemigos. El imperio asume tal función en un espacio circunscrito y continuo, y la continuidad espacial es ciertamente uno de sus rasgos distintivos.

La función reguladora asumida por el imperio encuentra su propia razón de ser, además de en la conciencia del común espacio habitado, sobre todo, en la común visión espiritual, aunque distintamente entendida y expresada en las culturas de las diferentes poblaciones del imperio. Todo edificio imperial, de hecho, expresa una unidad espiritual que, aunque transmitida según formas particulares, siempre hace referencia a un único sistema de valores. Por ejemplo, el macedonio Alejandro que se proclama Rey de Reyes y heredero del imperio persa de los Aqueménidas o el Sultán Mehmet II que, recién conquistada Constantinopla, se hace con el título de Qaysar-i-Rum, César romano, dan testimonio de este único sistema de valores del que ahora ellos son los protectores, los garantes y, sobre todo, los continuadores.

Precisamente a tal unidad espiritual, expresada históricamente en la realización de unidades geopolíticas imperiales o en la tendencia a constituirlas, dirigen la atención los ensayos de Claudio Mutti recogidos en Imperium, epifanie dell’idea di impero. Una unidad que las distintas escuelas historiográficas racionalistas han contribuido a ocultar y fragmentar según el reduccionismo, generalmente de raíz iluminista, que las han distinguido. En particular, tal y como es evidenciado en los diferentes ensayos de Mutti, es afirmada la continuidad del mito (o idea) del Imperio en las vicisitudes del espacio eurasiático, continuidad asegurada en la realidad histórica por protagonistas de diversa cultura o etnia y por su explícita voluntad de unificar Oriente y Occidente, es decir, Asia y Europa, casi como si quisieran, con tal afirmación heroica, reivindicar una unidad que el devenir histórico (la entropía o el desorden de la manifestación histórica) había lacerado. Paralelamente a la función reguladora y en conformidad con esta, el Imperio desempeña también otra, que podríamos definir “religiosa” en su significado etimológico y más profundo: la que precisamente consiste en “reunir” dentro del limes de un mismo espacio los componentes, materiales y espirituales, que contribuyen a calificarlo como una unidad geopolítica coherente, armónica y orgánica. Desde esta perspectiva la fase “expansiva” del Imperio, lejos de reducirse a un mero expansionismo territorial, motivado sólo por las preocupaciones materiales ligadas a todo política de poder, reproduce en el plano histórico una necesidad de orden metafísico, doctrinal, es decir, la reabsorción en un orden superior, en este caso generalmente supranacional, de realidades geopolíticas incompletas, separadas y antagonistas. La realización histórica del edificio imperial es, por tanto, la reproducción, en el dominio político-social, del kosmos por oposición al caos del devenir histórico.

El imperio, por tanto, además de ser “el mayor cuerpo político conocido por el hombre” es, esencialmente, la más alta síntesis geopolítica conocida por toda la humanidad.

La continuidad de la idea del Imperio y la subyacente unidad espiritual, que Mutti subraya con escrupulosidad científica, bien sea  tratando la función histórica y metahistórica de figuras imperiales como las del Emperador Juliano, Federico “el Sultán Bautizado” o Atila “el Siervo de Dios”, o bien evidenciando el significado político y cultural del Imperio “romano-turco-musulmán”, o bien poniendo de relieve en el lenguaje de Antelami temas y argumentos que, en ámbitos culturales lejanos, reproponen el mismo sistema de valores, refuerzan –en el plano de la historia interpretada como tentativa de realizar unidades imperiales –la hipótesis ya enunciada en el siglo pasado por el tibetólogo Giuseppe Tucci con respecto al descubrimiento de la “unidad espiritual eurasiática”: sintagma que expresa, en parte, lo que en términos tradicionales se puede traducir mejor como “unidad esencial de las tradiciones”.

También un etnólogo y antropólogo de escuela sociológica como Marcel Mauss reconocía, por otra parte, y es significativo que quien nos lo recuerde sea un estudioso de geopolítica, el francés François Thual, que “de Corea a Bretaña existe una única historia, la del continente eurasiático” [5]. Esta única historia que se despliega en el paisaje eurasiático es la historia antigua y actual de los esfuerzos imperiales por unificar el continente. Como cierre de un texto [6] que no aparece en esta compilación, que sería su precioso y útil corolario, nuestro autor, a propósito de Alejandro el Bicorne, unificador de Europa y Asia, campeón de la idea imperial y, por tanto, podríamos decir, eurasiatista ante litteram, escribe: “su figura se coloca en el trasfondo del espacio eurasiático, que constituye no sólo el escenario histórico, sino la proyección espacial misma correspondiente a la idea de Imperio”.

Unidad espiritual eurasiática e idea del Imperio están por tanto indisolublemente ligadas, un vínculo que Imperium de Mutti tiene el loable mérito de volver a proponer a nuestra atención, en un momento histórico particular que ve a nuestra patria mayor, Eurasia, agredida por las potencias talasocráticas del otro lado del Océano. Ciertamente este libro no pasará inadvertido. 

Tiberio Graziani

Director  de la revista “Eurasia”.

direzione@eurasia-rivista.org

www.eurasia-rivista.org

 

(Traducido del italiano al español por Javier Estrada)

Notas
1. Philippe Richardot, Les grands empires. Histoire et géopolitique, Ellipses. Edition marketing, París 2003, p.5.
2. Philippe Richardot, op.cit., p. 5 y siguientes.
3. Samir Amin, Lo sviluppo ineguale. Saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico, Einaudi, Turín 1973.
4. N. S. Trubeckoj, L’eredità di Gengis Khan, SEB 2005, Milano. Véase también del mismo autor, Il problema ucraino, in “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitica”, a. II, n. 2, abril-junio de 2005.
5. François Thual, Une entreprise de résistance, prefacio a Pierre Biarnés, Pour l’Empire du monde, Ellipses. Edition marketing, París 2003, p. 7.
6. Claudio Mutti, Ulisse, Alessandro e l’Eurasia, www.eurasia-rivista.org.

 

Dix bonnesraisons d'abandonner Facebook

10 bonnes raisons d’abandonner Facebook

Voici notre top 10 des raisons pour lesquelles vous feriez mieux d’arrêter d’utiliser Facebook avant qu’il ne soit trop tard:

10. La politique de confidentialité de Facebook s’arroge tous les droits
Commençons par le commencement. La déclaration des droits et responsabilités de Facebook précise que vos contenus leur appartiennent (lisez la section 2.1): “vous nous accordez une licence non-exclusive, transférable, sous-licenciable, sans redevance et mondiale pour l’utilisation des contenus de propriété intellectuelle que vous publiez sur Facebook”.

9. Le PDG de Facebook s’est illustré à plusieurs reprises pour comportement non éthique
Des questions se posent sur l’éthique de Mark Zuckerberg depuis les débuts de Facebook. D’après BusinessInsider.com, il a utilisé des données utilisateurs de Facebook pour deviner des mots de passe d’e-mails et lire des correspondances privées pour discréditer ses rivaux.

Ces allégations, si elles n’ont pas été prouvées et datent un peu, posent néanmoins des questions troublantes sur l’éthique du PDG du plus gros réseau social au monde. C’est d’autant plus gênant que Facebook a par ailleurs déboursé plus de 65 millions de dollars pour mettre fin à une poursuite judiciaire arguant que Mark Zuckerberg aurait volé l’idée de Facebook.

8. Facebook a déclaré la guerre à la vie privée
Le fondateur et PDG de Facebook justifiait en janvier dernier les changements relatifs à la vie privée sur Facebook en expliquant que: “les gens sont devenus vraiment à l’aise avec le fait de partager non seulement plus d’information, mais aussi de manière plus ouverte et avec plus de gens. Cette norme sociale est simplement quelque chose qui évolue au fil du temps”.

En d’autres termes, non seulement vos données appartiennent à Facebook, mais en plus ils ont le droit de les montrer à tout le monde. En soi, ce n’est pas nécessairement non éthique, sauf que…

7. Facebook encourage l’accès à vos données
Ils expliquent aux développeurs comment accéder à vos données avec les API, mais sont beaucoup moins diserts quand il s’agit d’en expliquer les implications aux utilisateurs. Facebook vous incite à partager des informations qu’ils rendent ensuite disponibles publiquement.

Dans la mesure où leur fonds de commerce consiste à monétiser les informations vous concernant dans un but publicitaire, cela revient à gruger les utilisateurs pour qu’ils fournissent des informations à propos d’eux-mêmes aux publicitaires. Voilà pourquoi Facebook est bien pire que Twitter: Twitter a adopté l’attitude la plus simple (et donc la plus crédible) en déclarant tout de go que tous les tweets de tous les utilisateurs étaient publics. Difficile d’être plus clair. Mais pas Facebook. Voilà pourquoi la FTC américaine s’en mêle et les gens les poursuivent (et obtiennent gain de cause).

L’EFF a dressé un excellent historique qui documente précisément les changements de la politique de confidentialité de Facebook.

6. Facebook ne veut pas que ça se sache
Lorsque Pete Warden a démonté à quel point leur système fonctionne (en fouillant parmi toutes les données que les changements de paramétrage de vie privée de Facebook avaient rendues publiques) ils l’ont poursuivi en justice. Pourquoi poursuivre un développeur indépendant? Parce qu’ils ne veulent pas que leurs membres sachent à quel point leurs données sont accessibles.

5. Même vos données privées sont partagées avec les applications

A l’heure actuelle, toutes vos données sont partagées avec les applications que vous installez. Ce qui signifie que vous faites non seulement confiance à Facebook, mais aussi aux développeurs d’applis. Sachant que bon nombre d’entre eux n’ont pas nécessairement votre vie privée comme priorité. En clair, vous devez considérer que vos données -toutes vos données- sont publiques, sauf si vous n’utilisez jamais aucune appli Facebook. Couplé avec l’API OpenGraph, cela signifie que vous ne faites plus simplement confiance à Facebook, mais à tout l’éco-système Facebook.

4. Facebook n’est pas assez compétent techniquement pour qu’on leur fasse confiance
Au delà des questions éthiques, la compétence technique de Facebook ne parait pas suffisante pour pouvoir leur confier des données personnelles. Leur récent bouton “Like” a facilité la tâche des spammeurs. Et ce n’est pas la première fois que Facebook est considéré comme une pépite pour la collecte de données.

Soit ils se fichent un peu du caractère privé de vos données, soit leurs ingénieurs ne sont pas très bons. Ou peut-être les deux.

3. Facebook rend incroyablement difficile la suppression de votre compte
Le jour où vous décidez d’arrêter Facebook, le site ne vous facilite pas la tâche. Ceux qui ont tenté l’expérience savent qu’il n’est plutôt pas évident de vraiment détruire son compte. C’est aussi compliqué que probablement volontaire. De guerre lasse, vous accepterez peut-être de désactiver votre compte. C’est différent d’une suppression pure et simple. Désactiver s’apparente à une déconnexion prolongée, pendant laquelle vos données restent dans le système.

2. Facebook n’aime pas vraiment le web ouvert
Leur API Open Graph n’a d’open que le nom, comme pour mieux dissimuler sa nature fermée. Elle est en réalité complètement propriétaire. Vous ne pouvez utiliser aucune de ses fonctionnalités si vous n’êtes pas sur Facebook. Une implémentation véritablement ouverte fonctionnerait sur n’importe quel réseau social. Dans le même esprit, ils implémentent a minima OpenID pour pouvoir dire qu’ils le supportent, juste pour mieux promouvoir leur alternative propriétaire, Facebook Connect.

1. Facebook ne sert à rien
Entre les applis pourries, les vieux camarades de classe dont vous n’avez surtout pas envie d’entendre parler et les boulets dont vous aviez oublié l’existence, Facebook est plus pénible qu’utile au quotidien.

Facebook est clairement lancé dans une course aux fonctionnalités avec tous les réseaux concurrents. Comme la grenouille avec le boeuf, Facebook n’est pas sans rappeler AOL qui voulait absorber tout le web, à une époque où leurs CD pleuvaient littéralement du ciel. Au moins Twitter sait rester à sa place ne veut pas être omniprésent dans votre vie numérique.

Vous feriez bien de prendre un peu de recul sur ce que vous apportent vraiment les réseaux sociaux, sur la manière dont vous les utilisez, et aussi sur la manière dont eux vous utilisent.

(Source : http://www.gizmodo.fr)

Via Novopress Paris [2]


Article printed from :: Novopress Québec: http://qc.novopress.info

Evola e gli altri

Evola e gli altri

di Marco Iacona - 09/05/2010

Fonte: secolo d'italia

http://www.controcorrentedizioni.it/images/Evola-Maestro-cop.jpg
Siamo oramai giunti alla terza edizione del tradizionale convegno di studi sulla figura e l’opera di Julius Evola (quest’anno dal 7 all’8 maggio e dal titolo: “Evola e la filosofia”), organizzato dalla Scuola romana di filosofia politica insieme alle fondazioni “Evola” e “Abbadia” e al Comune di Alatri, il paese della ciociaria che ha sempre ospitato il seminario. Dal 2006, con cadenza biannuale, studiosi e curiosi di mezz’Italia si danno infatti convegno per seguire e mettere a confronto opinioni sul “maestro della tradizione” e in generale su ciò che potrebbe essere accostato – idee e personaggi – al pensatore di origini siciliane, morto nel 1974 dopo più di mezzo secolo di attività intellettuale.
Quest’anno molte le defezioni. Da quella di due importanti studiosi evoliani come Piero Di Vona e Renato Del Ponte, autori e curatori di saggi fondamentali a quella di Giano Accame scomparso come si sa da poco più di un anno. Intervistato al Tg1 durante il convegno del 2008, Accame aveva rilasciato alcune importanti dichiarazioni circa la rilevanza acquisita dal pensiero evoliano: «Franco Volpi, uno dei più interessanti filosofi della nuova generazione, professore all’università di Padova, collaboratore di Repubblica, ha detto che bisogna ormai mettersi d’accordo, i grandi del pensiero italiano del ‘900 sono tre: Croce, Gentile e Evola». Ci mancherà... Unica delle tre storiche “D” (de Turris-Del Ponte-Di Vona) sarà invece presente Gianfranco de Turris, segretario della fondazione “Evola” e artefice e promotore di studi e pubblicazioni sul filosofo dell’“individuo assoluto”. Lo abbiamo sentito e ci ha anticipato parte della sua relazione introduttiva: «Si tratterà come sempre di un seminario di studi seri ma non formalisti. L’aggettivo “serio” varrà in due direzioni: nei confronti di una cultura, come quella italiana che nonostante i passi avanti non sembra accettare completamente un pensatore così eterodosso come Evola; e dall’altra quegli ambienti, spesso giovanili e facili agli entusiasmi, che vedono qualche volta con fastidio il lavoro di chi si dedica ad approfondire le complesse tematiche di Evola». Il convegno di quest’anno sembra muovere da un tema sottinteso, il raffronto fra il pensiero evoliano – oramai abbondantemente “sdoganato” in seno all’Accademia – e quello di altri noti studiosi, e da un suo corollario: il “maestro della tradizione” fu tutt’altro che un pensatore naif. Evola fu isolato per il contenuto delle sue speculazioni (spesso in anticipo sui tempi), per la sua “equazione personale” eccessivamente critica e per una serie di circostanze che attesero alla sue scelte nel primo e nel secondo dopoguerra; ma Evola fu soprattutto un uomo libero – sovente costretto a difendersi da attacchi precipitosi – il cui pensiero fin dai primi anni non poté non indirizzarsi verso quella “libertà” di cui ha scritto con grande acutezza Massimo Donà.
Di un Evola come anticipatore di tematiche “aspre” si occuperà Vitaldo Conte presente ad Alatri con una relazione dal titolo I nudi di Evola come “metafisica del sesso”, uno studio che strizza l’occhio all’attività pittorica di Evola (ma non quella degli anni Dieci, bensì la ripresa degli anni Sessanta) e a uno dei libri più importanti del filosofo – ma meno letti – pubblicato per la prima volta nel 1958: Metafisica del sesso. Per Conte curatore dell’imminente mostra leccese “Eros parola d’arte”, i quadri del secondo periodo evoliano presentano una loro attualità di pensiero: «la figura femminile emerge dal precedente astrattismo con evidenti allusioni e simbologie erotico-sessuali e possono essere letti «come una sorta di manifesto visivo delle peculiarità della donna».
I parallelismi fra Evola e altri studiosi ben accreditati cominciano poi a partire da due mostri sacri della filosofia: Hegel pensatore di orizzonti quasi sterminati (a seguire queste tracce sarà lo scrittore Giandomenico Casalino) e l’antintellettualista Nietzsche (protagonista sarà invece Domenico Caccamo dell’università “la Sapienza” della Capitale); il saggista Stefano Arcella relazionerà poi su un Evola “vicino” a Gianbattista Vico e il sociologo Carlo Gambescia lo accosterà a Vilfredo Pareto teorico delle élite. Giuliano Borghi dell’università di Teramo metterà a confronto Evola e Ernst Jünger o meglio Evola e la figura dell’anarca jüngeriano, mentre Giovanni Sessa ancora della “Sapienza”, parlerà della coppia Evola-Andrea Emo, filosofo morto nell’83, allievo di Gentile e molto vicino a Cristina Campo. Per Sessa, come già per Roberto Melchionda storico interprete del pensatore romano, Evola e Emo costruiscono «una via filosofica che porta a moderna compiutezza quella negazione nichilistica che è presente in forma potenziale nelle categorie dell’idealismo, ma che i più (tra i critici) non avvertono». Un accostamento che continuerà a far discutere, sembra evidente. Fra i relatori anche Davide Bigalli dell’università di Milano, Claudio Bonvecchio dell’università dell’Insubria, Gian Franco Lami della “Sapienza”, Agostino Carrino della “Federico II” di Napoli (il titolo del suo studio sarà: Evola filosofo della politica?) e i saggisti Giuseppe Gorlani, Marco Rossi, Sandro Giovannini e Hans Thomas Hakl che tratterà della collaborazione evoliana al periodico Antaios, un’importante rivista uscita dal ‘59 al ’71, curata da Mircea Eliade e Jünger. Un periodico che approfondiva «argomenti mitologici, simbolici, scientifico-esoterici e letterari» per il quale Evola scrisse cinque articoli, uno dei quali ebbe parecchia influenza sul conte di Dürckheim. Infine Giampiero Moretti storico delle religioni dell’“Orientale” di Napoli, presenterà il volume appena uscito in una nuova edizione Le madri e la virilità olimpica (Mediterranee) di J. J. Bachofen, un autore tradotto e introdotto in Italia dallo stesso “maestro della tradizione”.

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Questions à Karel Dillen (1994)

dillen1.jpgArchives du CRAPOUILLOT - 1994

Questions à Karel Dillen

 

1) Pendant la dernière guerre, vous avez été un jeune homme sage et studieux, qui ne s'est pas engagé, ni dans la résistance ni dans la collaboration. Les injustices et la vio­lence de l'épuration ont fait de vous un nationaliste dur et pur. Pouvez-vous nous expli­quer cette grande mutation personnelle?

 

Cette mutation n'a pas été aussi dramatique que vous le laissez sous-entendre. L'athénée (équivalent du lycée) que je fréquentais baignait dans une atmosphère nationaliste fla­mande. Bon nombre de professeurs étaient des nationalistes convaincus et engagés. Leur enseignement s'en ressentait. N'ayant rien eu à voir avec la collaboration, après le départ des Allemands, je n'ai eu aucun ennui et j'ai conservé mes droits politiques. Autour de moi, la répression frappait cruellement certains de nos anciens professeurs, comme Reimond Rens ou le romancier Oswald Everaert. Quelques-uns de mes condis­ciples plus âgés, dont Herman Pauwels, ont été jetés en prison, battus, torturés et sont sortis brisés des cachots belges. La plupart des professeurs inquiétés ont été chassés de nos écoles et collèges, ce qui, à long terme, a eu des conséquences sur la qualité globale de l'enseignement. Pour moi, ce fut un contraste horrible par rapport à la relative tolérance qui règnait dans l'école pendant les trois premières années de la guerre: on savait perti­nemment bien qui était, parmi les professeurs et les élèves, en faveur des alliés et qui soutenait l'«Ordre Nouveau» pro-allemand. Mais la discussion demeurait ouverte et courtoise. En 1943, les choses ont mal tourné. Dans la région d'Anvers, des professeurs pro-alliés ont été arrêtés et internés à Buchenwald. Seuls les communistes ont survécu à cet effroyable univers concentrationnaire et sont revenus. Après avoir servi de traduc­teur dans les services annexes de l'armée britannique et effectué mon service militaire, je me suis engagé dans un mouvement de jeunesse nationaliste, le mouvement «Sint-Arnoutsvendel», même si, à 22 ans, je n'avais plus aucune prédisposition pour ce type d'activité! J'étais fasciné par le courage de ses animateurs qui affirmaient haut et clair leur nationalisme en dépit de la tourmente. Dans ce cadre, j'ai commencé ma vie de mi­litant, en organisant des manifestations de souvenir et d'hommage aux victimes de l'épuration. J'ai également organisé le premier meeting à Anvers en faveur de l'am­nistie. J'ai ensuite tout naturellement participé aux premiers combats de la Vlaamse Concentratie,  le premier parti nationaliste flamand d'après 1945. Le nationalisme de cette époque-là se portait mal: il avait été décapité, ses principaux animateurs croupis­saient dans les geôles belges, les autres étaient privés de leurs droits civils ou devaient trimer dur pour se refaire une situation. Pour sortir de l'isolement la VC était contrainte de tenter une ouverture vers des milieux qui n'étaient pas nationalistes (indépendants et paysans). Un travers dans lequel la Volksunie,  le parti qui devait succéder à la VC, allait tomber à son tour, surtout sous l'impulsion du «centriste» Hugo Schiltz et par le no­yautage des éléments gauchistes, de plus en plus nombreux pendant les années 60.

 

2) La fidélité aux principes, l'éthique de la continuité, le refus des bricolages politiciens et des compromissions qui ne mènent à rien constituent les principales caractéristiques de votre vision de la politique. Nous aimerions que vous nous donniez quelques préci­sions...

 

En effet, je refuse catégoriquement de conclure des compromis qui menacent ou ruinent les principes clairement définis, adoptés par un parti ou un mouvement prenant son en­vol. Sur le long terme, la succession ininterrompue des compromis et des concessions ne permet plus de mener une politique cohérente. L'électeur n'y trouve plus son compte. Rien ne peut être décidé, tranché. Rien ne peut être fait, aucun problème ne peut être ré­solu. C'est le règne de l'indécision. L'histoire du mouvement flamand dans notre après-guerre illustre parfaitement ce type d'enlisement. Certes, il a des circonstances atté­nuantes parce qu'il a été brisé par la répression. Le calcul des nationalistes prêts aux compromis s'explique tout simplement parce que ces hommes ne voulaient pas rester dans la marginalité; sans alliances, aucune victoire électorale, même minime, n'était possible. La Volksunie  a connu cet état d'esprit dès le début des années 60, l'aile cen­triste du mouvement, celle de Schiltz, désirait partager ne fût-ce qu'une parcelle du pou­voir. Elle a été renforcée, avant et après 68, par des éléments gauchistes qui, auparavant, n'avaient jamais trouvé leur place dans le mouvement flamand. Nationalistes purs, centristes prêts à toutes les compromissions et gauchistes messianistes se côtoyaient ainsi dans un parti qui naviguait au pifomètre, sans suivre de ligne directrice. Les na­tionalistes pourtant n'ont pas réagi devant les dérives centristes ou gauchistes. Moi-même, au départ, je ne voulais pas lâcher le seul parti nationaliste flamand ayant sur­vécu aux tourmentes du siècle. Comme les autres, je suis resté parce que je ne voyais pas d'autres solutions. A l'époque, créer un nouveau parti aurait été suicidaire. Les accords du Palais d'Egmont (1977), où la Volksunie  a jeté par dessus bord les principes du mou­vement flamand pour obtenir quelques misérables strapontins, ont été la goutte qui a fait déborder le vase. J'ai franchi le pas. J'ai lancé le VNP, devenu, après quelques avatars, le Vlaams Blok.

 

3) Vous êtes député européen depuis cinq ans. Quel est votre jugement sur l'Europe de Bruxelles et de Strasbourg? Quelle Europe souhaiteriez-vous voir advenir?

 

Mon jugement est facile à formuler: l'Europe de Bruxelles est une catastrophe pour les Européens. Ils risquent de tomber sous la coupe d'une eurocratie subtilement autoritaire, qui régentera leur vie comme le Big Brother  d'Orwell régentait la vie des habitants d'Oceana dans ce célèbre roman prémonitoire que fut 1984.  Les eurocrates n'ont plus que le mot de «subsidiarité» à la bouche. La «subsidiarité», en théorie, c'est donner un pou­voir de décision aux plus petits échelons de la politique. En pratique, nos bons eurocrates ne se soucient pas davantage de cette théorie qu'un poisson d'une pomme. L'eurocratie se mêle de tout, de la longueur des saucissons ou de la grosseur des petits pois. Elle parle du respect des «différences», mais ne leur laisse plus aucune place. Et quand on me parle d'une Europe fédérale, je ne vois pas de quel fédéralisme on parle; je m'insurge contre ce faux fédéralisme qu'on cherche à nous imposer de force car il n'est que le masque pu­blicitaire d'une monstruosité centralisatrice, sèchement administrative, autoritaire et mondialiste. Face à ce fédéralisme malhonnête, je lutte pour une Europe confédérale qui, dans un deuxième temps, dirigera son attention sur ces faits concrets, historiques et éternels que sont les peuples. Tous les peuples d'Europe ont droit à l'auto-détermination. En ce qui nous concerne, la Flandre doit encore devenir Etat.

 

4) Comment appréciez-vous le travail de la “fraction technique des droites européennes” que vous animez notamment avec Jean-Marie Le Pen?

 

Je rappellerais que nous sommes une fraction “technique” et non pas un groupe qui ras­semble des partis porteurs d'une vision du monde monolithique et standardisée. Certes, nous avons tous énormément de points communs. Mais aussi des différences. La con­ception française et la conception flamande du nationalisme sont très différentes. Le Vlaams Blok  avait plus d'affinités avec nos collègues allemands qui, comme nous, sont animés par un nationalisme qui place le peuple, le Volk,  au-dessus de l'Etat. Alle­mands et Flamands ont élaboré un nationalisme ethnique, dérivé de la philosophie de Herder. Les Français ont développé un nationalisme d'adhésion, comme l'a théorisé Renan. Les autres différences sont secondaires. Par exemple, la problématique de la peine de mort: le FN français est inconditionnellement en faveur de la peine de mort. Le Vlaams Blok  est moins catégorique. Personnellement, je suis contre. Mais la problé­matique n'est pas close au sein de notre parti. Le souvenir de l'épuration et de nos mar­tyrs m'incline à rejeter la peine de mort. Je reste séduit par les arguments de Maître Jac­ques Isorni, le défenseur de Pétain et de Brasillach.

 

Au sein de la “fraction technique”, la coopération est bonne, même si, au départ, nos col­lègues français ont dû s'étonner de la nature du nationalisme flamand. Sur le plan hu­main, l'expérience est très positive. Les qualités intellectuelles et politiques de mes col­lègues français sont exceptionnelles. Leurs compétences nous apportent beaucoup. La survie de cette fraction dépendra des résultats en Allemagne. Si nos amis y dépassent la barre des 5% en dépit de leurs querelles intestines, nous recommencerons l'expérience sans hésiter. Flanqués sans doute par de nouveaux collègues néerlandais et danois.

 

5) Vous êtes un lecteur attentif de la presse française de droite. Vous avez connu person­nellement des hommes aussi différents que Maurice Bardèche et Olier Mordrel, aux­quels vous demeurez inébranlablement fidèle. Pouvez-vous nous dire deux mots sur ces amitiés indéfectibles?

 

Mon intérêt pour la France remonte aux temps de la répression. L'avocat Walter Bouche­ry, un nationaliste d'après 1945, peu compromis dans la collaboration, très critique à son égard, s'engage tout de suite sur la brèche, dès la fin des hostilités, et publie une revue in­titulée Wit en Zwart  (Blanc et Noir) qui ne dura que trois numéros, avant d'être inter­dite. J'y ai découvert un article sur Robert Brasillach, qui a aussitôt éveillé mon intérêt. Je n'ai plus cessé, depuis lors, de m'intéresser passionnément à ce personnage tragique de l'histoire et des lettres françaises. J'ai entamé une quête, que je poursuis toujours d'ailleurs, dans les publications, revues, journaux et livres français qui évoquent ce martyr de la cause nationale. C'est ainsi que j'ai découvert les revues de droite qui s'in­surgeaient contre les rigueurs de l'épuration: les Ecrits de Paris  et Défense de l'Occi­dent.  Bardèche, armé de son immense culture, comprenait bien quels étaient les ressorts du nationalisme flamand, ce qui est rare chez nos amis français. Le nationalisme eth­niste était pour lui une valeur positive, y compris celui des Bretons. Finalement, j'ai ap­pris à le connaître personnellement, je lui ai posé des tas de questions sur Brasillach, il m'a prêté sa collection de Je suis partout,  pour que je la consulte. Plus tard, il est venu prononcer une conférence à Anvers sur «L'Europe entre Washington et Moscou».

 

J'ai connu Olier Mordrel quand il était encore interdit de séjour en France. Mordrel a fait ainsi la navette entre tous les pays voisins de la France. C'est ainsi qu'un jour il est venu loger chez moi. Le lendemain, il s'est adressé à Bruxelles à un auditoire d'une quarantaine de Bretons qui souhaitaient rencontrer leur célèbre exilé. Mordrel était pro­che depuis longtemps du mouvement flamand, qui lui a toujours manifesté un indé­fecti­ble attachement et s'est montré solidaire de ses initiatives. Avant guerre, il avait connu Hector De Bruyne de la Volksunie,  un nationaliste de pure eau devenu par la suite mi­nistre du commerce extérieur de l'Etat belge.

dillenbardèche.jpg

 

Mais je voudrais aussi évoquer la figure de Robert Poulet, que les nationalistes français connaissent bien pour ses chroniques dans Rivarol  et Ecrits de Paris.  Le contact s'est établi à la suite d'une recension de Ce n'est pas une vie,  un récit autobiographique où il évoque notamment les longs mois qu'il a passés dans sa cellule de condamné à mort à Bruxelles. J'avais écrit cette recension dans l'hebdomadaire satirique et nationaliste anversois 't Pallieterke,  auquel j'ai collaboré pendant de très longues années. Cette re­cension a enchanté Poulet et a fait que nous nous sommes liés d'amitié. L'homme m'a séduit par son intégrité. Sa culture immense, ses conseils, ses souvenirs ont été pour moi un enrichissement personnel inestimable. L'année de sa mort, en 1989, le journaliste flamand Manu Ruys a lancé une initiative visant sa réhabilitation et a adressé une mis­sive au Palais de Laeken. La première réaction du Palais a donné un faible espoir au no­nagénaire. La deuxième réaction a été un refus poli mais froid. Poulet a été terriblement déçu. Il est mort quelques mois plus tard, après m'avoir légué les documents re­latifs à cette affaire. Je les ai publiés dans 't Pallieterke. Cette affaire a conforté mon républi­canisme.

 

6) Le directeur du Belgisch Israelitisch Weekblad (Hebdomadaire Israëlite Belge) d'Anvers, Monsieur Louis Davids, a pris votre défense contre les “progressistes anti-fascistes” qui sévissent en dedans et en dehors de la communauté juive d'Anvers, de Bruxelles et de Belgique. Expliquez-nous donc cet état de choses à peine croyable pour les Français d'aujourd'hui...

 

C'est simple. J'ai derrière mois 45 années d'activisme politique. J'ai écrit des milliers de pages. J'ai prononcé des centaines de discours. Pas un mot, pas une ligne dans tout ce­la qui soit qualifiable d'antisémite. Les rapports entre les nationalistes flamands et la communauté israëlite à Anvers et en Belgique ne sont pas conflictuels, hormis le petit incident que vous signalez et qui émane de marginaux qui veulent singer les modes de Paris. Ces rapports varient entre la sympathie et la neutralité. Qui plus est, le mouve­ment nationaliste flamand a eu ses héros, ses martyrs et ses militants juifs. Je pense surtout à cette figure sublime que fut Marten Rudelsheim, mort dans une prison belge en 1920. Cet intellectuel brillant, issu des milieux nationaux-libéraux, avait milité dès son plus jeune âge pour la séparation administrative et pour la flamandisation de l'Univer­sité de Gand, dans une Belgique qui ne connaissait aucune université flamande, alors que nous formons la majorité de la population. En 1914-18, les autorités allemandes a­vaient appuyé et concrétisé ce projet par solidarité inter-germanique. Rudelsheim a été condamné pour collaboration et interné, ses juges n'étant sans doute pas exempts de ré­flexes antisémites plus ou moins conscients. Rudelsheim est mort en héros, pour notre cause. Notre reconnaissance sera éternelle. Je pense aussi au dévouement du Professeur Wenger, qui a multiplié les initiatives culturelles à Anvers et n'a jamais cessé de sou­te­nir l'Université de notre ville. Je pense aussi au Dr. Schaap, israëlite hol­landais, dont les convictions sont très ancrées à droite, qui mène un combat pour la sau­vegarde de l'i­dentité de la Flandre méridionale, qui fait partie aujourd'hui du départe­ment du Nord (France).

 

Louis Davids, que vous mentionnez, est le rédacteur en chef du principal hebdomadaire israëlite d'Anvers, la ville qui compte la plus forte communauté juive de Belgique, une communauté solidement ancrée dans notre passé et notre tissu industriel, notamment dans le secteur de la taille du diamant. Louis Davids et son équipe n'ont jamais participé aux attaques habituellement lancées contre le mouvement flamand par quelques cénac­les minoritaires de la communauté juive de Bruxelles, fortement influencés par l'idéo­logie anti-identitaire que distillent certains philosophes juifs de la place de Paris, qui ne se souviennent pas des leçons sublimes de Simone Weil, la jeune et poignante philosophe décédée à Londres en 1942 et dont l'ouvrage principal s'intitule L'enracinement.  Pour ces “penseurs” à la mode, toute affirmation d'une identité est suspecte d'antisémitisme. Généralisation qui est évidemment fausse. Il fallait remettre les pendules à l'heure. En­suite, ce journal ne participe pas à la campagne hostile à l'amnistie que mènent les mê­mes cénacles bruxellois. En effet, le combat pour l'amnistie a rebondi en Flandre: on pense enfin réviser le procès d'une fermière innocente, mère de plusieurs enfants, fusil­lée en 1945 pour une délation qu'elle n'avait jamais commise et qu'aucune preuve sé­rieuse n'étayait. Louis Davids est un honnête homme: je crois donc qu'il ne voit aucun inconvénient, en tant qu'israëlite, en tant que ressortissant d'une communauté qui a pourtant très injustement souffert lors de la dernière guerre, à ce que l'on réexamine le dossier de cette pauvre femme.

 

 

jeudi, 13 mai 2010

La Grèceest victime d'une guerre menée par les Anglo-Saxons

«La Grèce est victime d'une guerre menée par les Anglo-Saxons»

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Evidemment, tous les pessimistes finissent un jour par avoir raison : une catastrophe survient qui fait triompher leur mauvais augure. Mais Franck Biancheri a annoncé la crise déclenchée par les subprimes plus de deux ans avant qu’elle n’arrive, les désordres sociaux qui en sont nés (manifestations telles qu’on en voit en Grèce, Bossnapping [séquestration de patrons]) plusieurs mois avant qu’ils ne se réalisent.

Ambrose Evans-Pritchard, dans le «Daily Telegraph» du 13 décembre 2009

On accorde donc de plus en plus de crédit à ses analyses, et on le taxe de moins en moins de paranoïa. Aujourd’hui, son LEAP (Laboratoire européen d’anticipation politique) met en garde contre les bombes à retardement que sont l’Angleterre et les USA.

La Grèce est au plus mal et vous, vous vous focalisez sur le Royaume-Uni…

La Grèce ne pouvait plus continuer ainsi, c’est évident, et ce qui lui arrive maintenant sera à terme salutaire pour le pays. Mais tout le monde le savait depuis longtemps, et ses chiffres ne sont pas si désastreux. Il faut donc se demander «pourquoi maintenant» ? Tout a, en fait, commencé par une série d’articles en début d’année, publiée dans le Financial Times, la voix de la City, qui soulignait les problèmes du pays, laminait et laminait en parlant du danger que représentait sa situation économique. Il y a eu un travail de sape de longue haleine, qui a évidemment poussé les autres médias à couvrir ce thème. La crise de la Grèce est avant tout née d’une guerre psychologique : c’est une crise de confiance, une prophétie auto-accomplie.

Pourquoi le Royaume-Uni s’amuserait-il à faire cela ?

Parce que, suite à la crise, les Etats sont en situation de guerre économique. En Suisse, vous avez été les premiers à en prendre conscience, puisque les Britanniques et les Américains s’en sont pris à votre place financière très vite et très violemment, pour protéger et avantager les leurs. Les Européens commencent tout juste à comprendre ce qui leur arrive.

La Suisse était en concurrence directe avec ces deux pays, mais pourquoi s’en prendre à la Grèce ?

Ce n’est pas la Grèce qui est visée, mais la zone euro et sa monnaie. La Grèce est une cible facile parce que son économie n’est pas très importante – elle n’a donc pas les mêmes moyens pour se défendre que l’Allemagne ou la France. Couler l’euro, c’est intéressant pour la livre et le dollar. Créer cette diversion, c’est aussi un moyen de cacher ses problèmes.

C’est-à-dire ?

Le Royaume-Uni et les Etats-Unis sont dans une situation d’endettement privé et public insoutenable. Or, il y a actuellement trop de pays qui veulent se financer – d’ici décembre, il va falloir trouver entre 150 et 200 milliards d’euros – et pas assez d’argent à disposition. Ça ne va donc pas être simple pour les Anglo-Saxons. D’autant plus qu’une partie des emprunts arrive à maturité pour les Etats-Unis, qui vont devoir les refinancer. Dans ce contexte de forte concurrence, vous avez tout intérêt à apparaître comme un bon candidat, et à couler les autres candidats.

Vous pensez que d’autres pays, l’Espagne ou le Portugal par exemple, risquent d’être touchés ?

Ce qui a permis aux agences de notation de changer la note de la dette grecque, est la découverte que certains chiffres étaient faux – c’est certes un prétexte, mais dans le cas des deux pays que vous citez, elles auront de la peine à en trouver un. Je crois d’autant moins à une contamination que ces pays ne sont pas des gros opérateurs dans l’économie européenne. Zapatero a eu raison de s’énerver, parce qu’il n’y a aucune raison de retirer sa confiance à l’Espagne.

Vous dites que cet épisode aura des conséquences positives. Lesquelles ?

Pour la Grèce, ce sera l’occasion de moderniser son économie et d’entrer dans le XXIème siècle. Les Européens, eux, ont compris depuis un mois que la grande amitié occidentale est un mythe – les USA et le Royaume-Uni ne sont clairement pas dans le même camp. Cet épisode aura aussi fait apparaître la nécessité d’une véritable gouvernance économique au niveau européen, qui puisse prendre des mesures contraignantes – on est enfin en train de prendre la bonne direction, après les tergiversations de l’Allemagne. Enfin, les gens sont de plus en plus critiques face aux conseils des agences de notation, et des thermomètres que les Anglo-Saxons ont imposés à tous les pays pour mesurer la santé de leur économie. Ils reconnaissent leur partialité.

La prochaine catastrophe, c’est quoi ?

Le Royaume-Uni. Ce qui va se passer prochainement dans ce pays, en termes de révélations sur la réalité économique, va définitivement ouvrir les yeux des Européens. Des chiffres commencent à sortir dans la presse. Le Guardian a, par exemple, titré le 5 mai sur le fait que le déficit budgétaire du Royaume-Uni risque bien d’être plus élevé encore que celui de la Grèce, comparativement à leurs PIB respectifs. Les gens ne sont pas idiots : ils savent que si le pays a des soucis, c’est que sa place financière a de plus gros soucis…

Le Matin

Toespraak v. E. Langerock, Praeses Kasper

Diner-debat – No to war, stop USA-imperialism: onze toespraak

Op 24 april woonde KASPER het diner-debat “No to war, stop USA-imperialism” bij.

Toespraak van Erik Langerock, Praeses KASPER-Gent 2009-2011, op 24 april 2010 te Antwerpen.

Dames en heren,

We hebben het nu gehad over het kapitalistische wangedrocht de Verenigde Staten, hun imperialisme en alle zionistische kwalen die hieruit voortvloeien. De tijd is nu gekomen om te spreken over oplossingen, om maatregelen te vinden die ervoor kunnen zorgen dat dit imperialisme kan ophouden. Uiteraard zal het aan ons zijn om ons te weren, ons te verzetten tegen deze anti-Europese dominantie, maar dit is echter niet voldoende. Het zal ook aan de Amerikanen zijn om deze praktijken een halt toe te roepen.

 

Want, dames en heren, het Amerikaanse volk, in zoverre wij dit een volk mogen noemen – het stamt namelijk af van mensen die zich niet konden aarden in een traditioneel Europa – heeft ook te lijden. Ik heb het dan niet over die klasse die het zich kan veroorloven om buitenverblijven in Dubai te kopen, maar wel over die mensen die moeten werken opdat die klasse kan genieten van haar weelde. De mensen die moeten werken voor hun brood en in de vergetelheid raken wanneer ze dat niet kunnen. De mensen die als eerste worden bestraft wanneer enkele rijken monsterwinsten maken door het gehele economische systeem te ontregelen. De mensen die zomaar uit hun huizen worden gezet omdat de Amerikaanse banklobby en de Amerikaanse regering overdaad en overconsumptie aanmoedigen. De mensen die als eerste worden uitgestuurd naar het oorlogsgebied waar ze moeten vechten voor diezelfde rijken. Dit, ironisch genoeg, ten koste van de plaatselijke bevolking die in dezelfde situatie zit als zij.

 

Vandaag de dag lijdt de Amerikaanse bevolking dan ook aan 3 kwalen: het is getraumatiseerd, gedrogeerd en gedegouteerd. Getraumatiseerd door de politiek van angst die het ondergaat en de oorlogen die het als dienstplichtige soldaat moet meemaken. Gedrogeerd dankzij de farmaceutische industrie die de pas gestemde verplichte gezondheidszorg alleen maar kan toejuichen en dankzij de voedselindustrie die de Amerikanen volpropt met het meest ongezonde voedsel. Gedegouteerd omdat de Amerikanen beseffen dat hun inspraak, hun stem, hun geloof in verandering elke keer weer wordt gefnuikt.

 

Want welke president het roer ook overneemt, hetzelfde beleid zal worden gevoerd. Een zoveelste bewijs daarvoor is president Obama, die erin slaagde om Guantanamo open te blijven houden en als teken van ‘goodwill’ Europa het vuile werk laat opknappen door moeilijke gevangenen in onze gevangenissen te plaatsen, oorlogen blijft voeren en zelfs intensifieerde en tot slot de farmaceutische industrie een groot plezier deed door 18 miljoen gezonde en welgestelde Amerikanen, die ervoor kozen geen ziekteverzekering af te sluiten, voor de leeuwen te gooien.

 

Over dat laatste punt, de ziekteverzekeringen in de VS, is trouwens nog niet alles gezegd. Want wij dienen goed te beseffen, beste kameraden, dat een verplichte ziekteverzekering in de VS niet ten goede komt van de burger, zoals dit in Europa doorgaans het geval is, maar enkel ten goede komt van de verzekeringsindustrie in Amerika. Deze immorele en onethische industrie kondigde nu reeds aan dat de prijs van hun premies de hoogte in zal gaan omwille van de massa’s nieuwe schadeclaims die ze nu gaan binnenkrijgen. Een verplicht verzekeringssysteem dat de private en kapitalistische lobby’s in de VS ten goede komt, dit kunnen wij niet anders dan afwijzen. Wij zijn wel te vinden voor een ziekteverzekeringssysteem georganiseerd door de nationale en soevereine staat, een ijdele hoop in de Verenigde Staten.

 

Het Amerikaanse volk is zelfs zo gedegouteerd dat het zijn eigen bewegingen probeert op te richten. Het fenomeen van de Tea Parties is dan ook uitgegroeid tot een geduchte concurrent van zowel Republikeinen als Democraten en falende politici zoals Sarah Palin zien hierin een tweede kans om het volk zand in de ogen te doen strooien. Maar wat houdt de Tea Party samen? Een uitgewerkt politiek programma en gemeenschappelijke standpunten zijn moeilijk te vinden. Ze willen slechts verandering van het bestaande politiek systeem, door het systeem te infiltreren  om het zo van binnenuit te veranderen.

 

Dames en heren, we hebben dit al vaker meegemaakt, ook in België. Was het niet de Volksunie die in het begin vooral als een zweeppartij de vroegere CVP wilde bewerken? Die daarna zo is gegroeid dat ze besliste om haar ware standpunten op te offeren voor de macht en dan uiteindelijk een stille dood is gestorven? Was het niet het Vlaams Blok, dat als zweeppartij op zijn beurt de Volksunie wilde bewerken, nu al zijn vroegere standpunten heeft opgegeven om een beleidspartij te kunnen worden, met als gevolg dat het nu uit elkaar valt omdat niet iedereen meer een postje kan krijgen? Dit enkel nog maar in Zuid-Nederlandse context. Daar waar er demo-liberale chaos heerst, ziet men deze wanorde. Het partijpolitieke systeem staat symbool voor deze wanorde en met dit systeem dient dus ook op alle mogelijke wijzen gebroken te worden!

 

Wij moeten dan ook niet geloven dat de Tea Party Amerika zal veranderen. We moeten evenmin geloven dat een nieuwe en andere president het tij zal doen keren. Men zal ofwel zich overgeven aan het partijpolitieke systeem en zichzelf ideologisch uithollen ofwel een zoveelste marionet zijn voor de ware machthebbers in de Verenigde Staten, de industriële lobbyisten, zionisten en de daarmee verwante banken.

 

En wil het Amerikaanse volk vermijden om in zijn neerwaartse spiraal te blijven, dan zal het deze volksvreemde machthebbers moeten bekampen. Maar om dat te doen moeten we eerst het volk mee krijgen, het uit de illusie helpen dat een nieuwe president of zelfs een nieuwe politieke partij niets zal veranderen aan hun problemen. Het systeem moet niet veranderd, maar gebroken worden. Eens men daarin slaagt, kan het Amerikaanse volk waarlijk vrij zijn.

 

Wij moeten daarom het ware Amerikaanse volk niet laten vallen. Wij moeten de resterende nationale en waarachtig sociale krachten in de VS steunen. Als zij er niet meer zijn, dan moeten wij ze gaan inplanten. Eens wij de Amerikaanse bezetter uit ons Europees Avondland weggejaagd hebben, eens wij de morele en intellectuele superioriteit hebben bereikt en het kapitalisme en zionisme voorgoed wegbranden uit de Europese geest, eens wij Europa zijn traditioneel katholieke geest opnieuw laten vinden en de Europese Orde hersteld hebben op nationaal-solidaristische basis, dán zal het aan de nationale en sociale krachten binnen het Amerikaanse volk zijn om de volksvreemde bestuurlijke klasse in de VS de laatste interne genadeslag toe te dienen en zijn definitieve vernietiging in te luiden.

 

Vanuit KASPER besluiten wij dan ook met de woorden: CHRISTUS REX en EUROPA VRIJ!

Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

di Alessio Stilo - 09/05/2010

Fonte: eurasia [scheda fonte]


Il ruolo strategico del Pakistan nel conflitto afghano

La peculiare posizione strategica rende il Pakistan un “perno geografico”, per dirla alla Mackinder, di assoluto valore nella contesa afghana, dove gli Stati Uniti e i loro alleati si giocano il tutto per tutto rischiando di trasformare la quasi-decennale operazione bellica in un nuovo Vietnam. Peraltro le analogie con la celeberrima disfatta costituiscono un oscuro monito per il Pentagono: anche allora il duo Nixon-Kissinger dispose l’incremento delle truppe con l’obiettivo di recuperare posizioni di forza per trattare con il nemico, lo stesso cui ambiscono i guerriglieri dopo aver dimostrato sul campo di non poter essere battuti.

A detta di analisti autorevoli, la nuova ricetta afghana dell’amministrazione Obama sarebbe riassumibile in tre parole: surge, bribe and run – aumenta le truppe, compra il nemico e scappa. In sostanza, i vertici del Pentagono starebbero allestendo “un’onorevole ritirata” mascherata dall’incremento degli effettivi, non prima di aver convinto il resto del mondo della vittoria degli Alleati sulla frastagliata schiera dei fondamentalisti.

Il ruolo geostrategico

E’ bene tener presente che, nell’ambito della scontro contro i ribelli, Islamabad è ritenuto il paese maggiormente in grado di fornire un aiuto concreto agli Stati Uniti, vuoi per la posizione strategica, vuoi per l’appoggio nemmeno troppo velato di parte dei suoi servizi segreti a taluni gruppi islamici radicali, vuoi perché in Pakistan è operativo il Ttp (Tehrik-e-taliban Pakistan) – gruppo taliban locale, il quale gode di un consolidato sostegno da parte della popolazione.

L’alleato pakistano, nel siffatto contesto, ha ribadito ai vertici della Difesa Usa di voler offrire il suo aiuto volto a sconfiggere i taliban in cambio di poter avere un “ruolo costruttivo nel Kashmir”. Inoltre Islamabad non intende precludersi l’opportunità, una volta cessate le ostilità, di esercitare la sua longa manus sul vicino Paese martoriato dall’instabilità: in considerazione della mai sopita ostilità con l’India, l’obiettivo primario del Pakistan risulta quello di poter fare affidamento su un governo afghano alleato, in maniera tale da potersi avvalere dei territori confinanti nell’eventualità di un scontro con il colosso indiano.

Islamabad brama altresì di concorrere con New Delhi sotto il profilo dell’accaparramento delle risorse energetiche, avendo preso atto degli investimenti indiani – un miliardo e 200 mila dollari – in Afghanistan. L’India ha interesse a proteggere i propri investimenti a Kabul e servirsi dell’Afghanistan come corridoio verso l’Asia centrale, e in una simile congiuntura va inserita la recente visita del primo ministro Manmohan Singh in Arabia Saudita, ufficialmente per stipulare accordi relativamente alle materie prime. In realtà, New Delhi sta tentando di scovare qualche rete che consenta il contatto diretto con i taliban nella prospettiva di poter svolgere il proprio ruolo in Afghanistan all’indomani della ritirata americana; tuttavia nelle cancellerie del potente paese asiatico ignorano che i sauditi hanno ormai poca influenza sul movimento talebano. L’unica via per raggiungere i taliban passa dal Pakistan e, anche a detta degli statunitensi, per gli indiani la strada verso Kabul non può prescindere dal Kashmir.

Alla stregua di quanto accennato, gli interessi nazionali perseguiti dal governo pakistano gli impediscono di collocarsi in maniera netta nella lotta contro i ribelli jihadisti, motivo per il quale la potente Inter-Sevices Intelligence (ISI) si era spinta sino all’appoggiare l’ascesa dei taliban al governo di Kabul.

Benché negli ultimi anni i servizi segreti pakistani, persuasi dai cospicui assegni a stelle e strisce, si siano impegnati al fianco di Washington in alcune operazioni tese a minare le basi organizzative del gruppo estremista islamico, permangono i sospetti di presunti appoggi dell’ISI – o di parte di esso – alla causa talebana, senza contare la crescente ribellione interna originata sia dal malcontento per le politiche dei vari governi, sia dagli attacchi indiscriminati dei droni americani che colpiscono i civili.

Le relazioni tra pashtun afghani e pakistani

Nell’analizzare le relazioni di Islamabad con Kabul è necessario rimembrare la questione del confine tra i due paesi, segnato dalla cosiddetta “Linea Durand”, una frontiera – rimasta inalterata – tracciata dagli allora dominatori britannici che tagliò in due le realtà tribali preesistenti senza tener conto della demografia.

La linea Durand demarca un’area abitata da popolazioni di etnia pashtun, maggioritaria sia in Afghanistan che nella vasta fascia di territorio pakistano sotto la giurisdizione della Provincia della Frontiera del Nord-Ovest (Sarhad) e delle Federally Administred Tribal Areas (Aree tribali di Amministrazione Federale: Khyber, Kurram, Bajaur, Mohmand, Orakzai, Nord e Sud Waziristan), senza contare che tribù appartenenti alla suddetta stirpe si sono stanziate anche nel Belucistan e nella zona di Karachi. Secondo fonti recenti, in totale i pashtun ammonterebbero a 42 milioni di persone – il 42% della popolazione dell’Afghanistan e il 15% di quella pakistana.

Storicamente la massima aspirazione dei pashtun è stata la costituzione di un’unica entità statale che comprendesse le diverse zone ove essi risiedono – grosso modo l’attuale Afghanistan e parte del Pakistan -, detta Pashtunistan. A causa delle diatribe, il confine rappresentato dalla linea Durand ha continuato ad essere una fonte di tensione tra i due paesi confinanti e attualmente i leader pashtun di entrambi gli Stati non riconoscono la legittimità della linea Durand.

La saldatura degli interessi dei pashtun pakistani con quelli dei vicini afghani trae origine, dunque, non solo dal malcontento per le politiche dei governi, ma anche dall’affinità ideologica nonché dal comune obiettivo di istituire un’entità statuale governata dalla Shari’a.

Sebbene il governo pakistano giudichi il confine definitivamente stabilito, tanto da essersi formalmente impegnato – agli occhi degli Stati Uniti – a renderlo più sicuro, il presidente afghano Karzai ha più volte dichiarato di ritenere doverosa una “grande assemblea” per la ridefinizione della frontiera. Altro quesito, consequenziale a quanto esposto circa la linea di demarcazione, è quello che concerne i profughi afghani in fuga dal conflitto e rifugiatisi nel territorio limitrofo: costoro costituiscono la manovalanza per i reclutatori di guerriglieri, i quali li addestrano nei campi profughi situati al confine per inviarli successivamente sul campo di battaglia.

Influenze esterne

A seguito del ruolo centrale riconosciutogli dall’amministrazione Obama nel presentare la “AfPak Strategy”, il Pakistan ha rimpinguato i propri forzieri e ricevuto ulteriori aiuti al suo esercito, ovvero un miglioramento delle capacità anti-terroristiche delle milizie, senza tralasciare l’istituzione di programmi di ricostruzione e sviluppo che vertono su una sorta di “nation building” tale da (ri)avvicinare la popolazione alla causa atlantica.

Nonostante l’evoluzione della strategia atlantista, il Pakistan rimane lontano dall’esimersi dall’intrattenere rapporti con i taliban afghani, i quali permetterebbero ad Islamabad di riconquistare il ruolo di potenza egemone nel momento in cui gli Alleati dovessero abdicare.

La “reinventata partnership strategica Usa-Pakistan” – secondo la definizione degli analisti del South Asia Analysis Group – promette ben poco, considerato che l’esercito pakistano, pur avendo la capacità di raggiungere obiettivi/aspettative statunitensi, non ha interesse a ottemperare in maniera totale ai dettami dell’alleato. I taliban che allignano nelle aree tribali del confine sono, infatti, considerati una vera e propria “risorsa” dall’esercito pakistano; tramite l’intermediazione dell’ISI, taluni generali mantengono contatti diretti con determinati elementi dell’insorgenza, e ciò malgrado recentemente siano stati arrestati schiere di dirigenti talebani.

La cattura di leader del calibro del mullah Abdul Ghani Baradar, del precedente governatore della provincia afghana del Nangarhar, Moulvi Abdul Kabeer, del mullah Abdul Salam – governatore-ombra di Kunduz – e di Mir Muhammad, anche lui un governatore-ombra nell’Afghanistan settentrionale, rischia tuttavia di mutare lo scenario in corso. A detta di un militante qaedista, come conseguenza degli arresti effettuati negli ultimi mesi, i talebani hanno reciso ogni possibilità di dialogo – che sia con l’Afghanistan, col Pakistan o con gli Usa – e adesso potrebbero lavorare più strettamente con Al-Qaeda.

In conclusione bisogna rimarcare il ruolo della Cina nella partita AfPak, che potrebbe palesarsi quale fiancheggiatore indiretto degli Stati Uniti per via del suo coinvolgimento nel contrastare i gruppi taliban, ritenuti da Pechino essere i fomentatori del focolare interno – leggi Xinjiang – sempre pronto a riaccendersi. Il dragone dagli occhi a mandorla è il maggior socio commerciale di Islamabad (nel 2006 i due paesi hanno siglato un accordo sul libero scambio, entrato in vigore nel 2007), oltreché il suo più rilevante alleato nell’area asiatica. La Cina potrebbe, in ultima analisi, puntare sul suo rapporto privilegiato col Pakistan per esortare il governo di Zardari ad un maggiore impegno nella lotta contro il movimento talebano.

* Alessio Stilo è dottore in Scienze politiche (Università di Messina)
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

L'Afrique en manque destratégie face à l'arrivée massive des Chinois

L'Afrique en manque de stratégie face à l'arrivée massive des Chinois

L’arrivée en force des opérateurs chinois sur le continent africain oblige les pays du Nord et d’Afrique à se remettre en question.

« Lorsque je veux construire une autoroute, il me faut cinq ans pour conclure avec la Banque mondiale. Avec la Chine, c’est réglé en quelques jours : je dis oui ou non, et je signe. »

C’est en ces termes que le président sénégalais, Abdoulaye Wade, résumait, lors du sommet Union européenne-Chine de 2007, la nouvelle alliance entre l’Empire du Milieu et les pays africains.

Ces dernières années, les investissements directs chinois en Afrique se sont taillés la part du lion, passant de 327 millions d’euros en 2003 à 5,2 milliards en 2008. Leurs échanges commerciaux, qui se montaient à 12 milliards de dollars en 2002, ont quasi décuplé pour passer aujourd’hui à 107 milliards de dollars. La Chine est devenue, après les USA, la deuxième partenaire de l’Afrique.

Ruée vers le pétrole au Soudan, déferlement des constructions routières et autres infrastructures en Algérie ou en République démocratique du Congo, exploitation tous azimuts des industries minières en Zambie ou en RDC… Les exemples se multiplient à l’infini : la Chine a fait de l’Afrique son « Far West, » selon l’expression de Michel Beuret et de Serge Michel dans leur trépident recueil de reportages intitulé « Chinafrique, Pékin à la conquête du continent noir » (éd. Grasset).

Prises de court, les anciennes puissances coloniales critiquent cette montée en puissance que rien ne semble arrêter, invoquant notamment l’absence d’exigence en matière de respect des droits de l’homme et de lutte contre la corruption chez le partenaire asiatique.

Mais sur quels intérêts reposent cette alliance ? Après la Françafrique, la Chinafrique ? Ces questions brûlantes ont fait l’objet, fin avril, d’un débat animé lors du Salon africain du livre à Genève.

Opacité et pillage

Pour l’économiste congolais Fweley Diangitukwa, auteur de « Les grandes puissances et le pétrole africain » (éd. L’Harmattan), si les Chinois sont aujourd’hui en Afrique c’est parce que les anciens colonisateurs n’ont pas fait correctement leur travail.

Cette vision, quelque peu victimisante à l’égard des pays africains, est nuancée par le journaliste suisse Michel Beuret. C’est en se posant comme exemple enviable pour l’Afrique que la Chine a pu s’imposer comme partenaire, affirme-t-il.

« Une chose que les Chinois ne comprennent pas, c’est bien la vision colonisatrice. Les Africains sont fascinés par ces hommes jaunes qui débarquent et triment jour et nuit dans les mêmes conditions qu’eux, et dorment aussi dans la rue. Cela force le respect. En ce sens, ils ne voient pas forcément les Chinois comme arrogants. »

Une différence de taille avec leur perception du colon occidental.

Exemple à suivre, certes, mais Jean-Claude Péclet, journaliste au quotidien suisse Le Temps et modérateur du débat, a également rappelé que la Chine c’est aussi l’opacité, la corruption, les promesses non tenues, le pillage des ressources naturelles… Ce qui permet à Thierry Bangui, consultant en développement, originaire de la République centrafricaine, d’ironiser :

« Quand les Occidentaux accusent la Chine de piller les matières premières en Afrique, cela fait ricaner les Africains. »

Contrepartie concrète

Pour Thierry Bangui, les critiques des Occidentaux sont démontables. Et de rappeler la masse d’argent africain blanchi en Occident. Un point de vue partagé par Fweley Diangitukwa, qui rappelle que seuls les Occidentaux s’inquiètent de la présence chinoise en Afrique, alors que 90% des armes revendues en Afrique le sont par les pays membres du Conseil de sécurité.

Michel Beuret souscrit :

« La contrepartie proposée par les Chinois consiste en des réalisations très concrètes. Ceux-ci irriguent le continent noir et proposent de le raccrocher à la locomotive de la mondialisation. Mais pour cela, il faut des infrastructures de base. On ne peut pas congeler de la viande sans réfrigérateurs. Les Chinois construisent les barrages, les routes, les ponts, les réseaux électroniques. »

Une façon concrète de proposer de l’aide au développement sans contrepartie visible, avec effet immédiat.

Un réel pouvoir

Mais peut-on pour autant parler d’un partenariat win-win (gagnant-gagnant) ? Thierry Bangui s’interroge :

« Les Chinois ont une stratégie vis-à-vis de l’Afrique. Mais qu’en est-il de la stratégie africaine ? »

Pour l’économiste centrafricain, la relation win-win [gagnant-gagnant] n’existe pas. En exportant sa main-d’oeuvre, la Chine a cherché à résoudre son chômage interne. Maintenant, les Chinois occupent le petit commerce qui était assuré par les Africains.

Les trois intervenants s’accordent pourtant à reconnaître un réel pouvoir de négociation aux pays africains.

« Les Africains peuvent faire valoir leurs intérêts dans les contrats avec leurs partenaires chinois. Mais pour cela, ils doivent se responsabiliser et jouer d’égal à égal non seulement économiquement mais aussi politiquement. »

Rue 89

Sur le même sujet, revoir le documentaire « Drapeau rouge sur continent noir ».

Djihad et Reconquista en France méridionale

Djihad et Reconquista en France méridionale

Ex: http://tpprovence.wordpress.com/

Pour éviter toute repentance inutile et afin de faire face aux multiples problèmes que soulève l’immigration, il convient de revenir à la mémoire de nos premiers contacts avec l’islam qui se déroulèrent précisément dans le Midi.

715 : Après avoir opéré la conquête de l’Espagne, à l’exception des monts Cantabriques d’où partira la Reconquista, les Arabo-Berbères franchissent les Pyrénées orientales et prennent en 719 Narbonne dont ils feront leur place-forte pour une quarantaine d’années. Leur offensive contre Toulouse échoue en 721, ce qui ne les empêche pas de prendre Carcassonne.

En 732 une deuxième invasion par l’ouest des Pyrénées aboutit à la prise de Bordeaux, puis monte vers le nord, appâtée par les trésors de l’abbaye de St-Martin. Vaincus par Charles Martel à Moussais-la-Bataille à 20 km de Poitiers, les Sarrasins battent en retraite, sans pour autant évacuer totalement le Périgord et le Quercy qu’ils continuent à ravager. Il faudra attendre 808 pour que Charlemagne, vainqueur à la bataille de Taillebourg, purge la Charente, la Saintonge et le Poitou de leurs envahisseurs. Le portail roman de la cathédrale d’Angoulême fixe dans la pierre le souvenir des combats libérateurs de la chevalerie franque. En 737 la campagne de Charles Martel, descendu vers la Septimanie par la vallée du Rhône, aboutit à la reprise de Maguelonne, Agde et Béziers mais échoue devant Narbonne qui ne sera reprise, ainsi que Carcassonne, qu’en 759 par Pépin le Bref.

A partir de la seconde moitié du VIIIe siècle le Languedoc et l’Aquitaine se trouvent à l’abri des incursions sarrasines, étant protégés par les avancées de la Reconquista, elle-même secondée par les expéditions en Catalogne de Charlemagne et de son fils Louis le Pieux qui prennent Barcelone en 801.

Le long martyre de la Provence

Les malheurs de la Provence, en revanche, ne font alors que commencer.

A la suite de l’accord conclu en 734 entre le patrice Mauronte, Wisigoth de Marseille, et les Sarrasins de Narbonne, Arles, St-Rémy, Tarascon, Avignon, Cavaillon, Apt et Aix s’effondrent devant les cavaliers d’Allah qui ravagent les côtes jusqu’à Nice (le Cimiez d’autrefois). Cependant ces villes seront libérées en 737 par la campagne de Charles Martel qui, avec l’aide du roi des Lombards Liutprand, écrase les Sarrasins devant Marseille deux années plus tard. Néanmoins ces envahisseurs, réfugiés dans les montagnes et les îles proches de la côte, continuent d’affliger la Provence de leur pression. Des raids fondent sur Marseille en 838 et 842, sur Arles en 842 et 850. Enfin, last but not the least, les Sarrasins installent en 885, entre Hyères et la rivière Argens, au cœur du massif « des Maures » – nom qui perpétue aujourd’hui encore la mémoire de leur occupation séculaire – une forteresse appelée La Garde-Freinet (le Fraxinetum des chroniqueurs), d’où leurs expéditions répétées, fondant sur les habitants d’alentour et les voyageurs, plongent la vallée du Rhône, les cols alpins et la côte voisine dans une dramatique insécurité. Le moine Odilon nous livre à ce sujet un précieux témoignage en 1031 : « A cette époque, la très cruelle et bouillonnante multitude des Sarrasins gagne par mer l’Italie et la Provence, massacrant hommes et femmes. L’abbé de Cluny Mayeul, revenant de Rome et priant pour le salut de tous, tomba en embuscade et ne fut libéré que contre une énorme rançon. » L’événement, qui se situe en 972, provoque le soulèvement de toute une population fortement imprégnée de catholicisme, ce qui permit au roi de Provence Hugues de prendre la Garde-Freinet, laquelle ne sera définitivement détruite qu’en 983, et l’ensemble de la région définitivement purgée des Sarrasins en 990 par les hauts faits d’armes du comte de Provence Guillaume. Mais l’ensemble des côtes françaises de Méditerranée continuera de vivre jusqu’au XIIIe siècle sous la menace d’expéditions marines à partir des nids de pirates fixés dans les îles proches : en Corse, Sardaigne et Sicile jusqu’à leur reconquête par Gênes, Pise et les Normands. Les îles de Lérins sont ravagées en 1047, 1107, 1197, Toulon en 1178 et 1197 avec, à chaque fois, extermination de la population par le massacre ou la réduction en esclavage et la déportation à Almeria (jusqu’à ce qu’elle soit libérée par la Reconquista), Tunis, Tripoli et Alger.

Notre mémoire collective a perdu le souvenir de ces exactions dont ne témoigne, outre l’onomastique, que le site des villages anciens, perchés au sommet des collines pour assurer le guet et servir de refuge en cas d’attaque. Comme le remarque M. Laurent Lagartempe dans son ouvrage Les Barbaresques, « L’insécurité qui régna sur la Provence du fait des rezzous des Sarrasins, cruina durablement, au cours du Moyen Age, les plaines côtières fertiles qui avaient fait la prospérité de l’antique Provincia Romana en raison du retrait de l’habitat vers les régions montagneuses.

Les chansons de geste

A ces témoins muets du passé provençal il faut ajouter le témoignage littéraire des chansons de geste, en particulier le cycle dit de Garin de Monglane composé d’environ 25 chants dont les plus célèbres sont : Le Couronnement de Louis, Le Charroi de Nîmes, La Prise d’Orange, Les Aliscamps, La Mort d’Aymeri de Narbonne, Le Moniage de Guillaume. Le héros central de ces divers poèmes épiques est un personnage mythique dans lequel Gaston Pâris a reconnu un comte de Toulouse nommé Guillaume, qui empêcha les Sarrasins d’envahir la France en leur livrant bataille sur les rives de l’Orbieu en 793. Par la suite, il combattit en Catalogne au côté de Charlemagne, avant de mourir en odeur de sainteté au monastère de St-Guilhelm-du-Désert où il s’était retiré après la mort de son neveu Vivien, tué au combat contre les Infidèles. Les historiens plus récents de la littérature lui associent plus vraisemblablement encore le fameux comte de Provence qui prit La Garde-Freinet et délivra sa province. Guillaume d’Orange apparaît donc comme le héros méridional par excellence qui ravit à l’envahisseur les villes de Nîmes, Orange, Arles, Narbonne, mais sa renommée s’étendit bien au-delà. En effet, une légende le fait apparaître sous les murs de Paris assiégé par des barbares qu’on peut identifier aux Vikings. Guillaume affronte alors victorieusement, en combat singulier, le géant Isoré qui terrorisait la population. La tombe de ce nouvel avatar de Goliath a donné son nom à la rue de la Tombe–Issoire dans le XIVe arrondissement de Paris.

Comme La Chanson de Roland, le cycle de Garin de Monglane, qui tire son nom de celui du père de Guillaume d’Orange, associe la lutte contre l’Infidèle au combat pour l’indépendance nationale : face à l’envahisseur, c’est la foi qui assure la victoire aux chrétiens. Les chansons de geste, qui relatent en les mythifiant des faits historiques attestés du VIIe au Xe siècle, ont été composées aux XIe et XIIe siècles, c’est-à-dire au temps des Croisades. La lutte contre l’islam et l’épopée nationale sont alors les grands thèmes qui mobilisent les chevaliers français : le souvenir des périls affrontés en terre de France par leurs valeureux ancêtres justifient la guerre en Terre sainte contre l’ennemi séculaire de la chrétienté.

La postérité des chansons de geste

Alors que les chansons de geste n’apparaissent plus aujourd’hui que comme des monuments littéraires appartenant au passé, les Romans bretons, légèrement plus tardifs, ont traversé les siècles en servant presque constamment de source d’inspiration aux artistes ; ils sont de ce fait restés beaucoup plus populaires. Pourquoi ? Sans doute parce que les passions amoureuses, les sortilèges plus ou moins païens s’y mêlent plus largement aux exploits chevaleresques. Alors que le cycle de Garin de Monglane est plus étroitement localisé sur la Provence et la France, le cycle arthurien, par contre, appartient aux traditions européennes, de la France celtique à la Grande-Bretagne et à l’Allemagne ; entre autres, il eut la chance d’inspirer les génies de Purcell puis de Wagner qui subjugua les musiciens français du XIXe siècle : bien loin de mettre en musique nos chansons de geste, Ernest Chausson composa le Roi Arthus et Viviane. Vincent d’Indy fait cependant exception à la règle avec Fervaal. Le compositeur ardéchois situe en effet l’intrigue de cet opéra dans une région soumise à la domination d’un émir sarrasin ; son héros s’éprend de la fille de celui-ci, à l’exemple de Guillaume d’Orange qui épousa Orane l’orientale, laquelle fut baptisée sous le nom de Guibourg.

Une autre raison qui nous éloigne d’une pleine compréhension des chansons de geste est notre tradition d’islamophilie qui remonte à François Ier, allié du Grand Turc. Les Lumières allèrent jusqu’à préférer la religion musulmane à la religion chrétienne ; au XIXe siècle, Lamartine rédigea une hagiographie de Mahomet, tandis que le positiviste Auguste Comte jugeait l’islam plus progressiste que le christianisme. Le XXe siècle fait mieux encore, cependant. Inspirés par les écrits de l’orientaliste œcuménique Massignon, des ecclésiastiques inaugurent des mosquées aux côtés des imams, mais des politiciens les surclassent.

La Révolution française nous a forgé une mentalité étrangère à l’idéal qui se dégage de nos chansons de geste : la foi chrétienne, la loyauté envers le chef de l’Etat ont fait place à la religion de la République laÏque, évoluant aujourd’hui vers un vague humanitarisme progressiste, imprégné de la notion de Droits de l’homme universel, indifférent aux intérêts nationaux, aux traditions et à l’indépendance de la Mère patrie. D’où notre passivité et même notre complicité devant les phénomènes d’immigration-invasion et d’islamisation qui menacent notre pays. Notre réveil national devra puiser aux sources de notre patrimoine et à la totalité de notre histoire, dégagée des a-priori du politiquement correct. Qui sait si les chansons de geste n’y retrouveront pas alors une nouvelle actualité ?

Odilon Le Franc

Source : Polémia.

00:10 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : histoire, reconquista, france, provence, moyen âge, islam, europe | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

L'Ecole de la régulation: une hétérodoxie féconde?

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1993

 

L'Ecole de la régulation: une hétérodoxie féconde?

 

par Guillaume d'EREBE

 

«La finalité de l'étude de l'économie n'est pas d'acquérir un ensemble de réponses toutes faites aux questions économiques, mais d'apprendre à ne pas se laisser duper par les économistes»

Joan Robinson.

 

Crise économique,

crise de la théorie économique

 

Années 60, le temps est à l'agitation, au grand cham­bardement, à la critique qui se veut radi­ca­le (cf. Althusser, Foucault,…); les discours aca­dé­miques sont menacés et les quiets terri­toires de la science économique commencent à être enva­his par les «Enfants de Mai». Années 70, la crise frappe les économies industrielles avachies dans le confort de la croissance. Mais cette crise éco­nomique est avant tout une crise de la théorie éco­nomique qui exhibe son impuis­sance à expliquer le phénomène et surtout à l'endiguer. Le marxis­me est en capilotade et toute logodiarrhée conclut à la mort du prophète Marx. Grande débâcle chez les économistes «de gauche»; à l'exception de quel­ques irréductibles croyants tel P. Boccara (1), les économistes or­phelins du «socialisme scien­tifique» se réfu­gient promptement dans un post-keynésianisme; certains audacieux com­men­cent à pactiser avec l'adversaire et s'en­ga­gent dans les bataillons li­béraux. Après le cau­chemar soviétique vient l'éphialte californien. Années 80, les politiques keynésiennes de re­lance ont lamentablement échoué; le bon peuple, électeur/consommateur, menacé par le chômage, commence à douter du sérieux des économistes, ces médicastres qui dé­sespérément s'échinent à trouver une nouvelle politique économique. L'i­ma­gination n'étant pas au pouvoir, il faut res­sor­tir quelques naufra­gés disparus de la théorie éco­nomique. Par une grande opération résurrec­tion­nelle, F. von Hayek, celui-là même que Key­nes avait magis­tralement défait, fait un foutral retour; M. Friedman et ses Chicago Boys  consti­tuent une puissante secte où vont communier en un même credo les Reagan, Pinochet, Thatcher… Mitterand. Le libéralisme, qu'il soit conserva­teur ou social, triomphe avec insolence, faute d'ad­versaire. La mode est aux cavillations d'un J.B. Say ou aux courbes d'un A. Laffer. Certes, dans les pays «développés», la pauvreté s'accroît mais qu'importe; les gouvernements «de droite», bien inspirés par un darwinisme-social de cir­constance, considérant que tout chômeur est un feignant, attendent que le marché fasse son œu­vre: éliminer les faibles; les gouvernements «de gauche», ceux dont la mauvaise conscience obli­ge à la charité, octroient dans un geste large, un RMI (Revenu Minimum d'Indignité). Certes, le Tiers Monde agonise, étouffé par la dette, tor­turé par les politiques du FMI, pillé par les firmes transnationales. Qu'importe ces «dys­fonc­tion­ne­ments» pourvu que triomphe l'Occident libéral et son nouvel ordre.

 

Après les échecs: quitter

les chemins de l'orthodoxie

 

Au-delà de ces simulacres, les analyses tradi­tionnelles, néo-classiques mais aussi keyné­sien­nes et marxistes, sont incapables d'expli­quer le pourquoi et le comment de la crise. Sans dia­gnostic, les iatres économistes font sem­blant de soigner et les taux d'intérêt deviennent l'ul­ti­me cacoergète. Rien ne vaut une bonne sai­gnée pour une économie apoplectique. Les ques­tions de­meurant sans réponses, certains écono­mistes curieux, dont les régulationnistes, quit­tent les che­mins de l'orthodoxie et tentent de ré­pondre à certaines questions essentielles. Pourquoi les éco­nomies capitalistes sont-elles passées d'une croissance forte et régulière à une quasi-sta­gna­tion? La théorie néo-classique ne développant qu'une analyse intemporelle (exit Clio) où le mar­ché assure une prétendue auto-ré­gulation, n'offre aucune place à la crise. Et si crise il y a, elle ne peut s'expliquer que par un malheureux hasard (un choc pétrolier) ou par une cause exo­gène (cf. l'Etat). A l'inverse, affirmer l'iné­luc­ta­bilité des crises et invoquer un épuise­ment du capitalisme, un stade ultime préfigurant le «grand soir», n'est guère plus satisfaisant. Car comment expliquer la croissance sans pré­cédent qu'ont connu les vieux pays industriali­sés après la deuxième guerre mondiale. D'autre part, com­ment expliquer qu'à une même époque histo­ri­que, la crise adopte des formes nationales signi­fiantes? Les économies industrielles réa­gissent diversement; certaines, stimulées par la «ma­la­die», connaissent la prospérité alors que d'autres voient leurs déséquilibres s'aggraver. Enfin pour­quoi, au-delà de certains invariants géné­raux (salariat, production marchande, …), les cri­­ses varient au cours du temps. La crise ac­tuelle n'est pas la petite sœur de celle de 1929, l'é­chec des politiques de relance par la demande le prouvant amplement. Certes, il existe cer­taines ca­ractéristiques communes (baisse de la ren­ta­bi­lité, chômage élevé, forts taux d'intérêts,…) mais aussi de grandes dissem­blances. Si la Grande Crise se singularise par une brutale déflation et une dépression (contraction) cumulative, la crise présente con­naît une inflation permanente et une croissance, certes ralentie, de la production et des échanges. Dans ces conditions, la crise qui poin­te dans les années 70, rend indispensable un re­nou­velle­ment de la théorie économique, la ques­tion cen­trale devenant «celle de la variabilité dans le temps et dans l'espace des dynamiques éco­no­miques» (2). L'analyse des crises oblige à se si­tuer dans la dynamique du capitalisme (3); l'économiste doit retrouver l'histoire que les li­béraux ont évacuée en postulant l'invariance des comportements économiques et que les marxistes ont travestie en édictant, au nom du matéria­lis­me historique, des lois dites «tendancielles». Autrement dit, la science économique redécou­vrant l'histoire et la sociologie, se constitue en science sociale. Les régulationnistes participent à ce renouveau de la théorie économique, propo­sant une alternative au libéralisme et ouvrant cer­tains chemins sur lesquels nous pouvons, non sans prudence, nous engager.

 

Le concept de régulation

 

A la fin des années 70, des économistes vont se réunir autour d'un concept original, celui de ré­gulation. Le terme de «régulation» étant polysé­mique, il convient de se garder contre toute con­fusion sémantique. Dans un premier sens, la ré­gulation est un concept transversal de la théorie des systèmes ou de la théorie du contrôle qui s'ap­pli­que à divers systèmes (biologiques, ther­mody­na­miques, économiques, sociaux) et qui rend pos­sible une théorie de l'auto-organisation. Dans un second sens, le terme de régulation dé­signe une intervention active de la part de l'Etat; ma­cro-économiquement, c'est une politique con­for­me aux dogmes keynésiens (par exemple, le New Deal) se caractérisant par une multiplica­tion des réglementations. Dans l'univers anglo-saxon, «re­gulation» signifie réglementation; ainsi la dé­régulation exigée par les néo-libéraux n'est qu'une déréglementation de la vie écono­mique, une version moderne du «laissez-faire, laissez-passer». Ces deux sens sont rejetés par les régu­lationnistes. Ceux-ci fournissent de nombreuses définitions marquant certaines di­vergences (par exemple, certains admettent des lois tendanciel­les telles la chute des taux de profit ou leur éga­li­sation, d'autres les refusent) mais un accord se dégage sur certains points. La régu­lation peut être définie comme «la conjonction des méca­nis­mes concourant à la reproduction d'ensemble, compte tenu des structures écono­miques et des for­mes sociales en vigueur» (4). Les économistes s'assemblant autour de ce con­cept (M. Aglietta, Ch. André, M.  Basle, H. Bertrand,  R. Boyer, A. Brender, B. Coriat, R. Delorme, A. Lipietz, J. Ma­zier, J. Mistral, J.F. Vidal,…) forment l'école de la régulation qui, à ses débuts, est purement française mais qui rapi­dement, va connaître une renommée internatio­nale malgré une cer­taine résistance du monde anglo-saxon (5).

 

A l'origine, les régulationnistes tentent d'effec­tuer une rénovation critique de l'analyse mar­xis­te, reliant Marx et Keynes; il est vrai que nom­bre de ces économistes travaillent sur mo­dèles macro-économiques (FIFI, DMS, …) (6) dont l'inspiration est nettement keynésienne (cf. J. Robinson, N. Kaldor, M. Kalecki). L'apport de Marx est fondamental même si la lecture qui en est faite est très hétérodoxe. Rejetant toute une vul­gate marxiste, les régulationnistes gardent du marxisme sa méthode holiste (analyse des rap­ports sociaux), sa vision historique des modes de production et l'idée de la périodicité des crises dans une économie capitaliste. Précisons que la référence à Marx est variable selon les auteurs. Ainsi la théorie de la valeur est clairement mar­xiste chez A. Lipietz, elle est implicite chez M. Aglietta mais elle n'est pas spécifiée chez R. Bo­yer et J. Mistral. En outre, certains régula­tion­nistes ont progressivement rejeté la réfé­rence mar­xiste, tel M. Aglietta. Dans sa thèse, Accu­mu­lation et régulation du capitalisme en longue période. Exemple des Etats-Unis (1870-1970) (7), Aglietta part du marxisme mais il en est très éloigné dans Les métamorphoses de la so­ciété salariale (8) où il renonce à la lutte des classes comme moteur de l'histoire, le salariat et le ca­pital étant associés dans un même mouve­ment.

 

Keynes est aussi présent dans la théorie de la ré­gulation, le maître de Cambridge ayant eu de for­tes intuitions. De la théorie macro-écono­mique keynésienne (et plus exactement kale­ckienne), les régulationnistes retiennent le principe de la demande effective, de la monnaie comme insti­tu­tion (9), la possibilité d'un sous-emploi comme équilibre, le rôle de la négociation collective et des syndicats,… Néanmoins le key­nésianisme pré­sente nombre d'insuffisances; ainsi, il situe ses analyses dans le court terme et ne rend pas compte du fondement des régularités qu'il dé­ga­ge.

 

L'institutionnalisme

 

Après Marx et Keynes, la troisième source d'ins­piration des régulationnistes est l'institution­na­lisme même s'ils ne mentionnent pas les pères fondateurs de cette école (Veblen, Commons, Mit­chell,…); nous retrouvons cette même distance avec l'école historique alle­mande (Schmoller, Wagner,…). Il est vrai que l'institutionnalisme fut incapable de constituer un paradigme alter­na­tif, impuissant à présenter un modèle théo­ri­que d'ensemble, se réduisant à décrire le monde.

 

Néo-marxisme, post-keynésianisme, néo-ricar­disme, néo-institutionnalisme… aucune de ces éti­quettes ne semblent convenir à la théorie de la ré­gulation qui est d'autant plus inclassable qu'il existe un éclatement des références théoriques (Marx, Keynes, Kalecki, les institutionnalistes, Girard,…); références multiples aussi en ce qui concerne les analyses et les propositions. Ainsi, en matière de relations internationales, A. Li­pietz est favorable à un certain protection­nisme alors que J. Mistral considère le libre-échange comme un moindre mal. Face à ce manque appa­rent d'unité, certains se sont inter­rogés sur l'exis­tence d'une école de la régula­tion. Nul ne peut nier qu'il existe une opposition sur certains concepts, généralement les plus abstraits (par exemple, la valeur) mais force est de constater qu'il existe un «noyau dur» de con­cepts com­muns à tous les régulationnistes. Dès lors, la théo­rie de la régulation, avant même de consti­tuer une école, est un véritable «programme de recherche» (au sens de Thomas S. Kuhn), un pa­radigme et un ensemble de propo­sitions parta­gées par un groupe de chercheurs et organisant la façon d'aborder le monde réel.

 

Les concepts fondamentaux

 

La théorie de la régulation recèle au moins trois concepts fondamentaux: régime d'accumu­la­tion, forme institutionnelle et mode de régu­la­tion.

 

L'idée de régime d'accumulation est empruntée à à l'analyse marxiste selon laquelle «les forces qui gèrent la croissance sont liées à la reproduc­tion élargie du capital à la fois comme un en­semble de biens de production à mettre en œuvre, comme un rapport entre les classes sociales et comme une quantité monétaire à valoriser» (10). Cette notion permet de résoudre un problème sim­ple: comment un processus contradictoire voire conflictuel peut-il durer sur une longue pé­riode c'est-à-dire pourquoi la crise est-elle l'exception et non la règle? L'analyse historique tend à mon­trer que les contradictions peuvent être surmon­tées, qu'il existe des régularités éco­nomiques et so­ciales rendant possibles l'accumulation, à long terme. Le régime d'accumulation peut se dé­finir comme «l'ensemble des régularités as­su­rant une pro­gression générale et relativement cohérente de l'accumulation du capital, c'est-à-di­re permet­tant de résorber ou d'étaler dans le temps les dis­torsions et déséquilibres qui nais­sent en perma­nence du processus lui-même» (11). Autrement dit, un régime d'accumulation est l'ensemble des régularités économiques et so­ciales permet­tant à l'accumula­tion/­in­vestis­se­ment de perdu­rer, rendant compatibles entre el­les l'évolution des capacités de production et de la demande so­ciale. Sur ce point précis, trois élé­ments sont dé­terminants: le type d'évolution de l'organisation de la production, notamment le rapport des sala­riés aux moyens de production; le partage de la valeur entre les groupes sociaux; une demande sociale validant l'évolution ten­dan­cielle des ca­pacités de production, et plus pré­cisément une norme de consommation (des pra­tiques de con­sommation tendant à s'imposer à l'ensemble de la population).

 

Accumulation extensive et accumulation inten­sive

 

Deux grands régimes d'accumulation peuvent être distingués: extensive et intensive. Le ré­gime d'accumulation extensive (XIXième siècle, début du XXième siècle) se caractérise par une croissance fondée sur une augmentation des fac­teurs de production; la production s'accroît mais les gains de productivité sont faibles. Le partage de la valeur et la valorisation du capital reposent, pour reprendre des termes marxistes, sur la plus-value absolue des profits (12) et ce, par une com­pression des salaires et une augmenta­tion de la durée et de l'intensité du travail. La norme de consommation est fort peu dynamique, la con­som­mation populaire se composant, pour l'es­sen­tiel, de produits en provenance de secteurs non capitalistes (agriculture, artisanat). Il existe une grande diversité entre l'industrie lourde, con­cen­trée et productive, et l'industrie de con­som­ma­tion, parcellisée et peu productive, très peu de relations se nouant entre les deux. Enfin, la con­cur­rence est très forte, le marché régulateur en­gendrant d'importantes fluctuations. Le ré­gime d'accumulation intensive (qui se développe dans les années 20 aux Etats-Unis et connaît son apo­gée dans les années 60) se caractérise par une croissance fondée sur d'importants gains de pro­ductivité dus à des techniques améliorant les mé­thodes de production. La valorisation du capi­tal et le partage de la valeur reposent sur l'extraction de la plus-value relative. Afin de ré­soudre une crise due à une faiblesse des débou­chés (cf. sa­lai­res trop faibles), on assiste à une hausse simulta­née des salaires et des profits. Cette augmen­ta­tion conjointe résulte d'une double indexation des salaires réels sur les gains de productivité et des prix sur les coûts de production. La norme de consommation est dy­namique (cf. la «société de con­sommation»), portant sur les produits issus de branches où pré­valent les nouvelles méthodes de production.

 

Pour fonctionner, ces régimes d'accumulation ont besoin d'un environnement socio-institu­tion­nel permettant le développement des trans­formations économiques et sociales sans qu'il y ait trop de tensions, de conflits. C'est là la fonc­tion du mode de régulation. Le mode de régula­tion peut se définir comme «l'ensemble des for­mes institutionnelles, des réseaux de normes ex­pli­cites ou implicites assurant la compatibilité des comportements dans le cadre d'un régime d'ac­cumulation conformément à l'état des rap­ports sociaux et par-delà leur rapport conflictuel» (13). Autrement dit, un mode de régulation est un ensemble de procédures et de comportements re­produisant les rapports sociaux fondamentaux, sou­tenant le régime d'accumulation, rendant com­patible un ensemble de décisions décentrali­sées (14).

 

Régulation concurrentielle et régulation mono­polistique

 

Pour conceptualiser les mécanismes de régula­tion, cinq formes institutionnelles sont retenues: les formes de la contrainte monétaire (organi­sa­tion de la création monétaire, contrôle de la mas­se…), les formes de la concurrence, les formes de l'Etat (les modes d'intervention de l'Etat,…), les for­mes du régime international (DIT, hiérar­chi­sation de l'économie internatio­nale,…) et, enfin, le rapport salarial qui est l'élément central (15). Ces éléments permettent de définir deux grands modes de régulation (concurrentielle et mono­po­listique), chacun pou­vant correspondre à un régi­me d'accumulation (extensive et intensive). Dans la régulation con­currentielle, les mécanis­mes du marché domi­nent, l'ajustement de la pro­duction et de la de­mande sociale se faisant par les prix. Le rapport salarial a une codification précise, par nature individuelle et limitée dans le temps du contrat de travail. La concurrence en­tre les capitalistes repose sur les prix, même si la structure de pro­duction n'est pas atomistique. L'Etat intervient peu (cf. l'«Etat-gendarme»). Au niveau interne, l'Etat veille au respect des droits acquis par la révolution bourgeoise de 1789 (liberté de circula­tion des biens et des personnes, liberté d'entreprendre,…). Dans le domaine éco­no­­mique et social, son intervention interfère peu avec le jeu du marché; il n'intervient pas sur le fonctionnement des marchés mais sur leurs struc­­tures (par exemple, en développant le sys­tè­me bancaire). Dans la régulation monopolis­ti­que, des formes institutionnelles donnent lieu à des procédures originales de formation des prix et des salaires. Parmi ces formes institution­nel­les, l'extension et la codification des négocia­tions collectives qui modifient le caractère indi­vi­duel du contrat de travail; la multiplication des interventions de l'Etat permet la conclusion d'accords de branches et de conventions natio­na­les. Ainsi, passe-t-on d'un Etat circonscrit à un Etat inséré, celui-ci quittant son rôle arbitral pour participer activement au jeu économique et social (16). Dans la régulation monopolistique, les prix sont «administrés» c'est-à-dire relati­ve­ment déconnectés vis-à-vis des déséquilibres du marché. Cela nécessite des procédures so­ciales de validation de la production et du re­venu.

 

Précisons que l'opposition théorique entre ces deux régulations-types recouvre un processus his­torique long et contradictoire. Les régula­tion­nistes n'ont pas une vision déterministe et li­néai­re de l'histoire; on ne passe pas de façon dé­finitive de la concurrence au monopole, bien au contraire. Certains auteurs (R. Boyer, M. Agliet­ta,…) constatent actuellement un retour en force de la concurrence. Des formes de concur­rence «sau­vage» réapparaissent notamment avec le dé­veloppement de certaines PME. Les cinq NPI de l'Asie du Sud-Est (17) développent des straté­gies «agressives» de conquête des mar­chés exté­rieurs; les Japonais pratiquent des kil­ler's stra­tegies  (18). Dès lors, l'oligopole stabi­lisé est de plus en plus menacé et les dominations devien­nent très temporaires.

 

Le régime d'accumulation et le mode de régula­tion constituent donc un mode de développement du capitalisme. Reste à examiner la cause de l'exis­tence des crises dans les économies capita­listes. Comme nous l'avons déjà évoqué, le mo­dèle néo-classique n'accorde aucun statut théo­rique à la notion de crise, celle-ci étant, au mieux, un choc, un événement dû à une im­per­fec­tion passagère des mécanismes d'ajustement. A l'opposé, les marxistes, déterministes et réduc­teurs, affirment que les économies capitalistes sont, par nature, porteuses d'une crise structu­rel­le qui, à terme, provoquera l'effondrement du mo­de de production. Entre ces deux «extrêmes», la théorie de la régulation présente une analyse réaliste.

 

Les crises

 

Elaborant une typologie, certains animateurs de l'école de la régulation distinguent quatre types de crise. Le premier type regroupe les crises qui sont dues à des facteurs extérieurs au mode de développement (cf. guerre, catastrophes natu­rel­les ou climatiques,…). Le mode de développe­ment intervient en ce que sa forme conditionne le dé­roulement de la crise. Le deuxième type en­globe les crises de régulation. Une crise de régu­lation est provoquée par des facteurs internes au mode de développement; ce type de crise totale­ment en­dogène, fait partie de la régulation. C'est une «pha­se d'apuration des tensions et déséqui­libres accumulés lors de l'expansion» (19). Ces crises sont cycliques comme le montre toute étude du XIXième siècle. Périodiquement, le mode de dé­ve­loppement en vigueur connait des problèmes de surproduction; les capacités excédentaires doi­vent s'ajuster à de nouveaux débouchés sous pei­ne d'une baisse des profits. La crise a alors le mé­rite d'éliminer certains producteurs, d'en in­tro­duire d'autres, de déplacer les investisse­ments, etc. Les efforts de productivité et la pres­sion sur les salaires permettent une reprise de l'ac­cumulation.

 

A côté de ces «petites» crises, on peut constater l'existence de crises plus profondes: les «gran­des» crises ou crises structurelles c'est-à-dire des périodes au cours desquelles «la dyna­mique économique et sociale entre en contradic­tion a­vec le mode de développement qui l'impulse, c'est-à-dire où ressort le caractère contradictoire de la reproduction à long terme du système» (20). Par exemple, la «Grande Dépression» de la fin du XIXième siècle. Ces crises structurelles qui touchent à la régulation et au régime d'accu­mu­lation, sont de deux types: les crises de la régu­la­tion et les crises du régime d'accumulation. Une crise de la régulation cor­respond à une période où les mécanismes de la régulation sont incapables de renverser des en­chaînements conjoncturels dé­favorables alors qu'initialement le régime d'accumulation était viable. Trois circonstances conduisent à ce di­vorce entre la structure éco­no­mique et la régula­tion: des luttes socio-politi­ques, des perturbations externes ou internes d'un type nouveau, l'approfondissement de la logique de régulation, celle-ci étant parvenue à sa pleine maturité. Par exemple, la crise de 1929. Une cri­se du régime d'accumulation est une crise du mo­­de de déve­loppement, celle qui met en cause les formes ins­titutionnelles les plus essentielles, celles qui conditionnent le régime d'accu­mu­la­tion. Ce dernier a atteint ses limites et cesse de fonc­tion­ner. Ce type de crise ressemble à la crise orga­nique dans l'orthodoxie marxiste (la crise finale du mode de production capitaliste) mais la crise de régime d'accumulation, aussi grave soit-elle, ne renverse pas le capitalisme. En ou­tre, cette crise est difficile à distinguer de la précédente car dans les deux cas, il y a une crise de la régu­lation. Actuellement, nous connais­sons une crise du régime d'accumulation.

 

La crise actuelle

 

Après la deuxième guerre mondiale, les écono­mies industrielles connaissent une croissance é­quilibrée et rapide, celle-ci étant permise par un régime d'accumulation intensif et une régula­tion monopoliste. Alors que les libéraux font de la concurrence pure et parfaite un idéal où l'op­ti­mum économique serait atteint, il est inté­ressant de constater que les économies occiden­tales ont connu une croissance sans précédent au moment même où l'on assistait à une dominance des oli­gopoles, à une intervention accrue de l'Etat et à une régulation monopolistique. Ce mode de déve­lop­pement qui peut être ainsi quali­fié de fordiste a atteint aujourd'hui ses limites. Ainsi la crise actuelle est due principalement à un épuisement du fordisme c'est-à-dire  qu'elle est d'abord une crise du rapport salarial.

 

La croissance des «Trente Glorieuses» repose glo­balement sur de forts gains de productivité liés à des transformations de l'organisation de la production, marquées par le recours massif aux formes d'organisation du travail tayloro-for­diste (OST). La modernisation des processus productifs (nouveau régime d'accumulation) fait l'objet d'une très large acceptation d'un com­pro­mis implicite entre les employeurs et les sala­riés. Les patrons ont toute liberté pour organiser la production et accroître la productivité. Par la négociation collective, par des compromis insti­tutionnels, les syndicats récoltent les fruits de la croissance en obtenant des augmentations de sa­laires. Ainsi ce régime d'accumulation s'ac­com­­pagne d'un nouveau rapport salarial; les tra­vailleurs acceptent de nouvelles conditions de tra­vail en échange de hausse du pouvoir d'achat et d'un développement de salaire indirect (cf. la Sé­curité Sociale); désormais, les luttes se con­cen­­trent sur le pouvoir d'achat (salaire nomi­nal). La hausse des salaires réels permet d'ac­croître les débouchés du secteur de la consom­ma­tion où le fordisme triomphe (cf. les biens du­rables asso­ciés au logement, automobile). Une vé­riable con­sommation de masse s'instaure, ce qui stimule les investissements; en permanence, les capaci­tés de production s'adaptent à la de­mande sociale et ce, en incorporant le progrès technique. Globalement, on a «un processus cu­mulatif dans lequel une croissance rapide repose sur des règles stables de partage salaires/profits et con­sommation/investissement» (21). La con­cur­­rence par les prix est faible de par l'im­por­tance des oligopoles stabilisés. Les firmes ayant ac­quis «une certaine maîtrise des micro-fluctua­tions», les prix ne sont plus des données de la concurrence mais le reflet d'une stratégie. Dé­sor­mais, la «guerre» ne se fait plus par les prix mais par la publicité, la différentiation (objective et subjective) des produits. La concur­rence mono­polistique suppose une action directe de la de­mande sociale (cf. la «filière inversée» de J.K. Galbraith) et ce, par diverses pratiques permet­tant la fabrication de différents statuts de sala­riés pour des différents revenus et positions so­ciales (l'OST repose sur une hiérarchisation du travail). Autrement dit, ce type de concur­rence im­plique une différenciation accrue des salaires et donc des inégalités.

 

La régulation monopoliste triomphe, un «cercle  ver­tueux» (R. Boyer) s'instaurant: augmenta­tion de la productivité – croissance (hausse des sa­laires et des profits) – nouveaux débouchés – in­vestissements – hausse de la productivité. La cri­se naît quand ces différentes formes institu­tionnelles de la régulation monopoliste ne fonc­tionnent plus. D'abord il existe une remise en cau­se du rapport salarial fordiste et ce, par la re­cherche d'une plus grande flexibilité de l'emploi, de nouvelles formes d'organisation du travail (cf. la participation), d'individualisation des sa­laires. Depuis la fin des années 60, l'orga­nisa­tion du travail tayloro-fordiste est l'objet d'atta­que de la part des syndicats qui dé­noncent la pei­nibilité du travail. Dans le même temps, on as­siste à un ralentissement des gains de pro­ducti­vité. Dès lors, les mécanismes de la négociation collective fonctionnent de plus en plus mal. Les hausses de salaires tendent à dé­passer les gains de productivité, l'accumulation étant très sérieu­sement remise en cause. Autrement dit, les em­ployeurs ne peuvent oc­troyer des augmentations de salaires. En outre, les entreprises supportent de plus en plus mal le coût du salaire indirect (cf. la protection sociale). Les multiples interven­tions de l'Etat (l'«Etat-Providence») sont aussi en crise (les limites des politiques keynésiennes ne signifient pas qu'il faille se jeter dans les bras du libéralisme). Les formes de la concur­ren­ce se modifient, une cer­taine concurrence «sau­vage» réapparaissant. Les banques natio­na­les contrôlent de plus en plus difficilement la masse monétaire (cf. inflation, développement et prolifération de nouveaux ins­truments finan­ciers,…). Enfin, la crise perma­nente du SMI, depuis la fin des années 60, marque une remise en cause (partielle) de la domination améri­cai­ne, l'économie américaine connaissant un per­pé­tuel déclin. La régulation nationale devient im­possible dans un monde qui tend à l'interna­tio­na­lisation; pis, le régime in­ternational est lui-même en crise.

 

La crise de la régulation renvoie à une crise du régime d'accumulation intensif. C'est ce que ré­vèle la crise du rapport salarial. Le régime in­tensif repose sur les gains de productivité liés à l'OST. Or cette OST connaît actuellement ses li­mites tant sociales (le travail à la chaîne n'est guè­re enthousiasmant) que technique et écono­mi­que (les gains de productivité nécessitent de plus en plus d'investissements et la parcellisa­tion génère de nombreux effets pervers). En ou­tre, seule une croissance continue de la produc­tion (cf. les économies d'échelle) permet des gains de productivité; mais cette croissance se heurte à une certaine saturation des besoins des ménages (cf. les taux d'équipement des ménages en biens durables); la norme de consommation for­diste, autre pilier du régime d'accumulation intensif, s'épuise aussi.

 

Le cercle vicieux stagnationniste

 

Crise du rapport salarial, crise de la norme de con­sommation… tout cela marque une crise glo­ba­le du régime d'accumulation. Au cercle ver­tueux de la croissance fordiste se substitue, fin des années 60, un cercle vicieux stagnationniste. L'OST s'épuisant, les entrepreneurs réagissent en substituant de plus en plus du capital au tra­vail afin de maintenir des gains de productivité. Désormais, plus de machines et moins d'hom­mes (cf. sous-emploi). Mais la producti­vité appa­rente du capital baisse et pèse sur la rentabilité (il y a plus de capital à valoriser mais les profits n'augmentent pas en conséquence); d'où un ra­lentissement des gains de productivité (variables selon les pays). Pourtant, les em­ployeurs vont con­tinuer à augmenter les sa­laires, ce qui grè­vent cruellement leurs profits. Ces hausses de salaires sont, dans un premier temps, compen­sées par des hausses de prix; d'où une poussée des tensions inflationnistes. L'inflation est aussi sou­tenue par le développe­ment de l'endettement des entreprises qui doi­vent financer leurs in­vestis­sements. La crise pétrolière accentue des tensions et fait baisser les investissements. Dès lors, le cercle stagnation­niste qui se met en place est le suivant: faibles gains de productivité – baisse des profits – baisse de l'investissement – fai­ble croissance du pou­voir d'achat – ralentis­sement de la croissance – faibles gains de pro­ductivité.

 

La théorie de la régulation est la cible de nom­breuses critiques, tant des économistes «de gauche» que «de droite» (22). C'est un signe en­cou­rageant. Certes, certaines de ses critiques sont fondées. Ainsi il est reproché aux régula­tionnistes leur incapacité à construire un mo­dèle, de formuler des lois, d'être trop descriptif, de formuler des lois, de ne pas offrir de solutions pour sortir de la crise… Néanmoins, cette école propose une analyse fructueuse de la crise. Mieux, en appréhendant le système économique comme une totalité intégrée dans une histoire et une réalité sociale, rejetant l'individualisme méthodologique, cette école assigne de nouveaux fondements à l'analyse macro-économique, cons­ti­tuant ainsi une alternative à la théorie néo-classique. Dès lors, il appartient à tous ceux qui recherchent de nouveaux outils/armes con­ceptuels de puiser dans l'arsenal régulation­niste. L'heure est désormais aux hérésies.

 

Guillaume d'EREBE.

Notes

 

(1) P. Boccara a développé des thèses sur la suraccumula­tion-dévaluation du capital. Il est un des théoriciens du Capitalisme Monopoliste d'Etat, théorie marxo-léniniste réactualisant la fameuse baisse tendancielle du taux de pro­fit. Cette théorie fut développée en URSS (cf. V. Tche­prakof) et devint, dans les années 70, le credo du Parti Com­muniste Français dont P. Boccara est membre.

(2) Boyer (Robert), La théorie de la régulation: une analyse critique, Paris, La Découverte, coll. Algama, 1987, p. 39.

(3) Cf. la perspective de Karl Polanyi, ce remarquable anti-Hayek, constitue une tentative intéressante.

(4) Boyer (R.), op. cit., p. 30. Il est à noter que G. Des­tan­ne de Bernis, responsable du Groupe de Recherche sur la Régulation de l'Economie Capitaliste (GRREC) est un des premiers à avoir introduit le terme de régulation dans les sciences sociales, utilisant certains éléments de la systémi­que pour réactualiser l'analyse marxiste.

(5) Il est relativement délicat de préciser les frontières de l'école de la régulation. Stricto sensu, cette école se consti­tue autour de Boyer, Aglietta et Coriat, autour du CEPREMAP. On peut y rattacher l'école néo-marxienne de Grenoble (GRREC) animée par Destanne de Bernis. L'é­cole de la régulation entretient certains rapports avec d'au­tres économistes ou courants: l'Allemand J. Hirsch, les ra­dicaux américains Gordon, Bowles, Weiss, Kopf, Piore, Sabel et la Social Structure of Accumulation, certains te­nants de l'école de la dépendance tels R. Haussman (cf. State Landed Property oil Rent and Accumulation in Vene­zuela; an Analysis in Terms of Social Relations;   thèse, Cornell University, août 1981) et C. Minami (cf. Crois­sance et stagnation au Chili: élément pour l'étude de la régu­lation dans une économie sous-développée, thèse, Pa­ris X-Nanterre, 1980; Le Tiers-Monde dans la crise, Paris, La Découverte, 1986).

(6) FIFI, STAR, DMS, METRIC… sont des modèles de prévision. Ainsi DMS est un modèle dynamique multisec­toriel utilisé pour les travaux de planification; FIFI (mo­dèle physico-financier) est un modèle de prévision pour le moyen terme (ZOGOL étant pour le court terme), etc…

(7) Thèse, Paris I, octobre 1974.

(8) Paris, Calman-Levy, 1984.

(9) Cf. Aglietta (M.) et Orlean (A.), La violence de la monnaie, Paris, PUF, 1982.

(10) Mazier (J.), Basle (M.), Vidal (J.F.), Quand les crises durent…; Paris, Economica, 1984, p. 9.

(11) Boyer (R.), op. cit., p. 46.

(12) Karl Marx distingue la plus-value absolue et la plus-value relative. Pour obtenir un surtravail accru de la part du salarié, deux façons sont possibles: d'une part en aug­mentant soit la durée, soit l'intensité du travail (ce qui re­vient au même), c'est la plus-value absolue; d'autre part en diminuant le «temps de travail nécessaire» qui correspond à la valeur des consommations nécessaires au salarié, c'est la plus-value relative. Cette dernière est la résultante d'une liai­son spécifique entre productivité et profit: produire à moindre coût les consommations ouvrières, c'est réduire le coût en travail de la reproduction de la force de travail, c'est donc dégager, sur chaque journée effectuée, davantage de surtravail donc davantage de plus-value.

(13) Lipietz (A.), «Accumulation et sortie de crise: quel­ques réflexions méthodologiques autour de la notion de ré­gu­lation», in Cahiers  du CEPREMAP, n° 8409, p. 2.

(14) Cette noion de mode de régulation est intéressante en ce qu'elle peut se substituer à la théorie des choix indivi­duels (cf. individualisme) et au concept d'équilibre général qui sont actuellement les fondements de l'étude des phé­no­mènes macro-économiques.

(15) Le rapport salarial est la manière dont s'organisent les relations entre l'organisation du travail et le mode de vie des salariés. On y trouve la division sociale et technique du travail, les méthodes utilisées pour attacher les salariés à leur entreprise et obtenir d'eux une mobilisation dans le travail, les règles qui régissent le niveau et l'évolution des salaires (directs et indirects), le mode de vie des salariés. Cf. Boyer (R.), La flexibilité du travail en Europe, Paris, La Découverte, 1986; Coriat (B.), L'atelier et le chrono­mètre, Paris, Bourgois, 1982.

(16) Cf. André (C.) et Delorme (R.), L'Etat et l'économie, Paris, Seuil, 1983.

(17) Corée du Sud, Taiwan, Hong-Kong, Malaisie, Singa­pour.

(18) Les killer's strategies consistent à vendre certains biens incorporant de l'innovation, directement sur de vastes mar­chés sans passer par une phase de hauts prix et ce, afin d'étouffer les concurrents.

(19) Boyer (R.), op. cit., p. 62.

(20) Boyer (R.), op. cit., p. 63.

(21) Boyer (R.), La flexibilité du travail en Europe, Paris, La Découverte, 1986, p. 15.

(22) Cf. Kolm (S.C.), Philosophie de l'économie, Paris, Seuil, 1986.

 

 

mercredi, 12 mai 2010

Les Grecs, un peuple qui a décidé de ne pas se laisser faire...

greecedem.jpg

Les Grecs, un peuple qui a décidé de ne pas se laisser faire...

Le billet de Patrick Parment

 

Ex: http://synthesenationale.hautetfort.com/

 

Les avis sont partagés concernant le soi-disant sauvetage de la Grèce. Tout porte à croire qu'il y a une arnaque derrière tout cela. La dette publique grecque est de 112 % du PIB, c'est un peu excessif, certes, mais l'ensemble des pays européens sont également endettés jusqu'au cou. Même l'Allemagne n'y échappe pas.

 

La bonne question à se poser est : d'où vient cette attaque contre l'euro avec la Grèce comme prétexte ? Des agences de notation qui sont au nombre de trois. Deux sont américaines (tiens, tiens !) Standard & Boss, Moody's et la troisième, curieusement, est française, Fitch, appartenant au groupe Fimalac de Marc Ladreit de Lacharrière. A elles trois, elles contrôlent 90 % du marché. Or, qui rémunère ces agences ? Les émetteurs de dettes eux-mêmes ! Autrement dit, c'est le serpent qui se mord la queue. Ces mêmes agences de notation ont, par ailleurs, largement contribué à la montée en puissance des produits financiers ultra-complexes issus de la titrisation de créances douteuses. Champion de cette roulette russe financière, Goldman Sachs ! Comme par hasard.

 

Il n'en reste pas moins vrai que depuis la Grèce des "colonels", ce pays a été dirigé par deux familles d'escrocs : les Papandréou (gauche) et les Karamanlis (droite) qui ont confondus leurs intérêts personnels avec ceux du pays.

 

La question qui se pose donc est : faut-il vraiment sauver la Grèce ? Et le terme de sauver est-il exact quand on sait qu'il s'agit de la faire entrer dans le moule anglo-saxon ? Je n'en suis pas si sûr. Car une chose est certaine, c'est que le système a repris ses mauvaises habitudes. Ce qui va se traduire par de nouvelles fermetures d'usines et du chômage, en France comme en Europe de l'ouest. Va-t-on continuer de se faire déplumer sans réagir ? Cette Europe-là et ces tristes sires qui nous gouvernent continuent de faire preuve d'irresponsabilité en demeurant attachés au modèle financier anglo-saxon.

 

La révolte des Grecs est salutaire et leur sortie de la zone euro serait peut-être un premier pas vers autre chose. En tout cas, voilà un peuple qui n'est pas avachi et qui descend dans la rue pour manifester sa colère, promettant de tout casser. Quant à sa classe politique, la voilà prévenue, le peuple en a assez de la corruption. Et, sublime réjouissance, ce ne sont pas les ouvriers qui manifestent, mais le peuple. Car c'est bien le peuple qu'il faut toujours défendre. Ce qu'a compris un homme comme Poutine. Et certainement pas Sarkozy !

Problema greco, affare europeo

Griekenland_map.jpg

 

 

Problema Greco, affare europeo

di Roberto Zavaglia - 10/05/2010

Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

Non bisognava essere dei veggenti per indovinare che le draconiane "misure di austerità" imposte dal governo greco in cambio del prestito elargito dalla Ue e dal Fmi avrebbero causato imponenti proteste, con il rischio di violenze più o meno diffuse. E' noto che, ad Atene, la battaglia politica è sempre molto "vivace" e le organizzazioni sindacali piuttosto combattive. Il sangue che è già scorso è stato, probabilmente, causato da quelle frange di estrema sinistra, che in Grecia si riuniscono per lo più sotto le bandiere anarchiche, la cui presenza non va sopravvalutata. Si tratta di poche migliaia di persone che nella capitale stazionano nel quartiere di Exarchia, dove vivono in scalcagnate comunità all'interno di case occupate. Pur essendo un mito per gli "antagonisti" di tutta Europa, dal punto di vista politico questi gruppi radicali, anche se sono in grado di produrre danni, contano poco.


  Sarebbe diverso se una parte della popolazione più indebolita dai piani governativi abbandonasse le forme pacifiche di contestazione. Nel giudicare le mosse del premier Papandreou, gli europei dovranno dunque tenere conto della sua esigenza di mantenere la pace sociale nella nazione. Le misure decise sono così pesanti che avrebbero provocato una reazione non solo nell'esuberante Grecia, ma in qualsiasi altro Paese europeo. Per rientrare dal debito fuori controllo, sono previsti il blocco degli stipendi dei lavoratori pubblici fino al 2014, l'abolizione di tredicesima e di quattordicesima per gli impiegati statali che guadagnano oltre 3.000 euri al mese, la cancellazioni di bonus che sono parte rilevante dello stipendio, l'aumento di altri due punti dell'Iva, con un incremento del 10% delle tasse su benzine, sigarette e alcolici, l'innalzamento dell'età pensionabile.  


  Va detto che quelle che sono state definite le cicale greche non se la passavano poi così bene nemmeno prima. I salari sono già bassi: quello minimo è pari al 60% dei corrispettivi olandese, belga, francese e al 50% dell'irlandese. La divisione della ricchezza, poi, è maggiormente sperequata rispetto agli altri Paesi dell'Eurozona. Il sistema economico greco ha molte colpe per l'attuale crisi. Il settore pubblico è ipertrofico ed inefficiente, essendo stato gonfiato con massicce assunzioni di carattere clientelare, l'evasione fiscale è immensa -perfino per un Paese come il nostro dove, al momento del conto, la domanda rituale è "con o senza fattura?"- la corruzione è ampiamente diffusa a tutti i livelli. Per l'economia greca, però, l'entrata nell'euro, tanto desiderata e poi raggiunta nel 2001, non è stato probabilmente un grande affare. Pur essendo i suoi prodotti  poco competitivi, Atene non può più attuare svalutazioni competitive della moneta al fine di   abbassare i prezzi delle sue merci, ma per rimettere in ordine i conti ha a disposizione solo lo strumento, doloroso, dei tagli e dell'innalzamento delle tasse. 


  Sono state comunque le esitazioni dell'Unione Europea ad aggravare la crisi, incoraggiando la speculazione finanziaria. La cancelliera Merkel, in particolare, ha a lungo tentennato, dando l'impressione di volere abbandonare la Grecia al proprio destino. Se è vero che la Germania non può essere il bancomat dei Paesi in difficoltà, bisogna però aggiungere che sono i tedeschi ad avere maggiormente guadagnato dall'entrata in vigore dell'euro, pur avendo abbandonato l'amato marco, vero e proprio simbolo identitario della nazione nel dopoguerra. Grazie alla parità monetaria, l'industria tedesca, infatti, ha potuto inondare con i suoi prodotti di alta qualità soprattutto i Paesi più deboli dell'area euro.
  Giova inoltre ricordare che una parte consistente del debito greco è detenuto, oltre che da quelle francesi, dalle banche tedesche che, in caso di default, si potrebbero trovare nella condizione di chiedere sussidi governativi. Gli aiuti ad Atene sono dei prestiti al gravoso tasso del 5% che, se rimborsati, produrranno cospicui profitti per i Paesi che li hanno concessi i quali si indebitano a tassi minori. Si calcola che la stessa Germania guadagnerebbe, solo con la prima tranche di prestiti, 622 milioni di euri, la Francia 465 milioni e l'Italia 356 milioni. Comunque, la crisi greca, più di ogni altra cosa, ci ha mostrato che la solidarietà europea è un concetto aleatorio. Le settimane passate nell'incertezza, i toni "nazionalistici", con i quali i vari governi hanno voluto far mostra di difendere i risparmi dei propri cittadini, hanno evidenziato quanto l'Europa sia debole anche rispetto a quella moneta comune che riteneva il suo capolavoro e il suo gioiello.


  Finalmente, la Merkel, mercoledì scorso, in un discorso al parlamento, che la stampa tedesca ha giudicato storico, ha dato l'impressione di assumersi le responsabilità che competono a un Paese così importante. Dopo avere dichiarato che "è in gioco il futuro dell'Europa e della Germania in Europa", la cancelliera ha aggiunto perentoriamente che "l'Europa oggi guarda alla Germania. Senza di noi o contro di noi non si può prendere alcuna decisione". Sembrerebbe la prima rivendicazione del ruolo di guida di Berlino in Europa, dopo decenni in cui la Germania ha messo ogni impegno per diluire la sua forza economica in un europeismo consensuale, negando di volere primeggiare anche politicamente. Ferma da tempo in stazione la locomotiva franco-tedesca, non sarebbe una brutta notizia che la sola Germania si decidesse a fare da traino per l'integrazione europea, abbandonando scrupoli e paure suscitati dal suo passato.


  Sarebbe davvero eccessivo, però, trarre da un discorso parlamentare conclusioni politiche certe.  L'Europa attuale, anche dal punto di vista economico, ha bisogno di rilevanti riforme che metteranno in luce se c'è davvero chi ambisce a fare da sprone agli altri. Oggi, si capisce che è stato sbagliato dotare della stessa moneta Paesi con divari economici troppo marcati. Probabilmente, si pensava di valersi ancora una volta del metodo funzionalista, compiendo un passo importante sul piano economico, nella convinzione che la coesione sociale scaturitane favorisse il rafforzamento delle istituzioni politiche. E' vero che l'integrazione continentale è nata con la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca), ma adesso ci si è spinti a un punto in cui l'iniziativa politica deve precedere ogni altra istanza.


  Anche nel governo dell'economia, senza una politica fiscale comune e senza un coordinamento delle finanze dei vari Paesi, l'euro rappresenterà più una gabbia che un'opportunità, lasciando i  Paesi più deboli nelle grinfie degli avvoltoi alla Soros. In fin dei conti, mentre l'Europa trema per la crisi della Grecia che rappresenta solo lo 0,3% del pil mondiale, gli Usa non sembrano avere le stesse difficoltà per la quasi bancarotta della ben più sostanziosa (economicamente) California. Vale a dire che, senza la politica e senza un governo responsabile, le potenze economiche sono solo tigri di carta.

 

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Lateinamerika-Strategie

MERCOSUR.png

Lateinamerika-Strategie

Rede von Andreas Mölzer im Plenum am 20. April 2010 zur Strategie der EU für die Beziehungen zu Lateinamerika

Ex: http://www.andreas-moelzer.at/

Herr Präsident!

Nachdem über 300 Jahre Kolonialherrschaft Lateinamerika geprägt haben, nachdem der Kontinent zu einem Schauplatz des Kalten Krieges geworden war, hat sich Lateinamerika nunmehr zu einer aufstrebenden Weltregion entwickelt. Dass etwa Russlands Präsident Medwedjew Mittel- und Südamerika bereist hat, beweist, dass er versucht, die Wirtschaftsbeziehungen zu Südamerika zu stärken. Und es zeigt auch, wie richtig die EU mit ihrem Kurs liegt, die Beziehungen zu diesem Kontinent, der ja mehr Einwohner hat als die EU 27, zu stärken.

Dabei gilt es nicht nur, Verhandlungen mit dem wirtschaftspolitischen Block Mercosur aufzunehmen, sondern auch an all jene kleineren Staaten zu denken, die nicht dieser Wirtschaftsregion oder der Andengemeinschaft angehören. Die EU ist ja nicht nur Hauptinvestor oder wichtigster bzw. zweitwichtigster Handelspartner, sondern auch der wichtigste Geber von Entwicklungshilfe. Wir sind bereits aus finanzieller Sicht ein wichtiger Faktor, und es gilt meines Erachtens, diese Poleposition im europäisch-lateinamerikanischen Sinne zu nutzen.

Crise: "le déni de réalité ne pourra se prolonger longtemps"

Crise : « le déni de réalité ne pourra se prolonger longtemps »

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Jean-Luc Gréau n’est pas vraiment un agité altermondialiste. Cadre au CNPF puis au Medef pendant trente-cinq ans, c’est un économiste iconoclaste qui nourrit sa réflexion aux meilleures sources : Smith, Schumpeter et Keynes. A la différence de bon nombre de ses pairs, il a vu venir la crise, comme il la voit aujourd’hui se poursuivre. Un économiste avisé. L’espèce est rare.

Le Choc du mois : Quelles sont selon vous les nouveautés radicales qui caractérisent la globalisation économique mise en place dans les années 1980-1990, et dont vous dites qu’elles ont changé la nature même du libéralisme économique ?

Jean-Luc Gréau : Nous percevons maintenant avec netteté les deux orientations cruciales qui ont ouvert la voie à la transformation économique et financière de ces trente dernières années.

Une première orientation est donnée par la subordination de l’entreprise aux volontés expresses de ces actionnaires puissants que sont les fonds de placement. La personne morale « entreprise » a été instrumentalisée et abaissée au rang de machine à faire du profit (money maker).

Le phénomène est manifeste pour les sociétés cotées qui ne sont pas protégées par un capital familial ou par des actionnaires de référence, mais il affecte aussi beaucoup de sociétés non cotées, contrôlées par des fonds dits de « private equity » qui ont les mêmes exigences que les actionnaires boursiers.

Une deuxième orientation est représentée par le libre-échange mondial qui concerne surtout l’Europe, espace le plus ouvert au monde, et à un moindre degré, les Etats-Unis.

Cette ouverture des marchés des pays riches revêt une importance cruciale du fait que, contrairement au double postulat de suprématie technique et managériale des Occidentaux d’une part, et de spécialisation internationale du travail d’autre part, les pays émergents ont démontré leur capacité à rattraper nos économies et à s’emparer de parts de marché croissantes, y compris dans les secteurs à fort contenu technologique. Sait-on que les Etats-Unis subissent, depuis 2003, un déficit croissant de leurs échanges dans ces secteurs ?

La grande transformation s’est produite quand ces deux orientations ont conjugué leurs effets pour entraîner les économies développées dans une spirale de déflation rampante des salaires qui a été longtemps masquée par l’endettement des particuliers. C’est cela que signifie au premier chef la crise des marchés du crédit déclenchée en 2007 : l’incapacité pour de nombreux ménages occidentaux de rembourser une dette disproportionnée.

Estimez-vous que nous allons vers une sortie de crise comme le prétendent les chefs d’Etat du G-20 ?

Non, la crise du crédit privé n’est pas résorbée, en dépit de ce qu’affirme la communication tendancieuse de la corporation bancaire : elle couve discrètement dans les comptes de nombreux organismes.

Aujourd’hui, nous devons faire face de surcroît à une montée des périls sur la dette publique de la plupart des pays occidentaux, pour ne pas dire tous. L’affaissement des recettes fiscales, le subventionnement des banques en faillite et les mesures de relance ont sapé les fondements de l’équilibre des comptes publics.

Pour conjurer les nouveaux périls, il faudrait que se manifeste une providentielle reprise économique forte et durable redonnant aux Etats les moyens de faire face à leurs obligations financières. Mais les orientations qui ont conduit au séisme sont toujours à l’œuvre et l’on peut craindre au contraire leur renforcement.

Comment interprétez-vous la crise suscitée par l’explosion de la dette publique grecque ?

La faillite virtuelle de la Grèce, qui devrait précéder de peu celle d’autres pays européens, nous enseigne deux choses.

La première est que le choix d’une monnaie unique impliquait le choix corrélatif d’une union douanière. Or, nous avons fait, immédiatement après Maastricht, le choix inverse de l’expérience, en forme d’aventure, du libre-échange mondial et de la localisation opportuniste d’activités et d’emplois dans les sites les moins chers.

Ce choix a fragilisé par étapes les économies les moins compétitives, de la périphérie européenne, mais aussi des économies dignes de considération comme la française et l’italienne. Il a en outre conduit l’Allemagne, puissance centrale, à réduire ses coûts du travail, pour se maintenir à flot grâce à un courant d’exportation croissant, mais au prix d’une consommation chroniquement en berne, qui pèse sur les exportations des partenaires européens vers le marché allemand. L’Europe, s’il n’est pas trop tard, ne sera sauvée que par une remise en cause du dogme libre-échangiste.

Entretien extrait du Choc du mois n° 37, mai 2010

La deuxième est probablement que la monnaie unique a joué, à l’inverse de ce qu’imaginaient ses concepteurs, un rôle d’inhibiteur des faiblesses et des déséquilibres. Avant la crise, tous les pays de la zone euro bénéficiaient de conditions d’emprunt favorables. Les écarts de taux entre l’Allemagne et les pays aujourd’hui directement menacés étaient tout à fait négligeables. C’était là la grande réussite apparente de l’euro.

Mais ce faisant, et avec l’apport complémentaire des fonds dits de cohésion structurels, les pays membres de la zone euro n’ont, en dehors de l’Allemagne et des Pays-Bas, pas pensé leur modèle économique.

Des déficits extérieurs structurels sont apparus partout où l’on n’avait pas les moyens de relever le double défi du libre-échange et de la monnaie forte. Ces déficits structurels n’ont aucune chance de se résorber, sauf dans deux hypothèses : la sortie de l’euro par les pays concernés ou l’entrée en violente dépression de la demande interne. On conviendra que chacune de ces hypothèses renferme la probabilité de la fin de l’Europe, telle que nous l’avons vue vivre depuis les commencements du projet. […]

D’après vous, la crise économique que doit affronter le monde depuis trois ans a-t-elle ébranlé la solidité des dogmes libre-échangistes ?

Hélas, à l’instant présent, les dogmes, les tabous et les interdits qui définissent l’expérience néo-libérale restent en place. On se réjouit officiellement de ce que le libre-échange ait survécu, malgré la gravité de la crise dont il constitue pourtant une cause majeure. On exhorte maintenant les pays sinistrés ou en difficulté à de nouveaux sacrifices, sans prendre en considération le risque de retour en force de la crise de la demande et de rechute consécutive de l’ensemble des marchés financiers.

L’aveuglement persiste et s’aggrave, en dehors de petits cercles de personnes placées en prise directe avec les entreprises ou les territoires sinistrés. Une chape de plomb s’est à nouveau refermée sur les consciences sincèrement ouvertes au débat. Mais le déni de réalité ne pourra se prolonger longtemps. Patience !

A lire : Jean-Luc Gréau, La Trahison des économistes, « Le Débat », Gallimard, 250 p., 15,50 €

Novopress

Les déesses du Panthéon scandinave

freya.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

Les déesses du Panthéon scandinave

 

Origines historiques des divinités féminines

 

Si la religion des Scandinaves de l'Age du bronze et celle de l'Age du fer sont à peu près connues, désormais, la filiation histo­rique des déesses est difficile à préciser. Comme nous l'avions men­tionné par ail­leurs, peu de divinités ont eu une caractère individualisé, jusqu'à la fin de l'Age du fer. La majorité des fonctions féminines se concentrait autour du concept de TERRA-MA­TER. Cependant, dans le cas d'un certain nom­bre de déesses, il est malgré tout possible de repérer les déités archaïques dont elles des­cen­dent et auxquelles elles ont pris leurs attribu­tions.


A l'origine, dans l'Europe du Nord et l'Europe Centrale, la TERRE-MERE se nom­me APIA. Il s'agirait en même temps d'une déesse de l'Eau; les deux archétypes de la femme, l'eau et la terre, qui représentent, chacun, une partie de la ma­trice y sont regroupés alors que l'air et le feu sont les archétypes masculins. Par la suite, cette divi­nité disparaît complètement du culte et de la my­thologie de l'Europe du Nord, du moins, sous le nom d'APIA, et se voit remplacée par plu­sieurs déesses qui se partagent ses fonctions:

 

- JORD représente la terre primitive, incul­te;

- FYORGYN, souvent confondue avec JORD, est la montagne couverte de chênes;

- SIF est la terre productive, déesse de la fertilité dont la chevelure dorée représente la corne d'abondance;

- TAVITI est la terre, lieu d'habitation et de vie sociale, gardienne des lois et de la reli­gion (elle sera remplacée par la suite, d'une part par VOR, personnification des ser­ments, et par SYN, l'allégorie de la justice);

- FRIGG est la mère et l'épouse;

- FREYJA, l'abondance; cette déesse a conservé l'Eau comme archétype alors que les autres sont avant tout des déesses tellu­riques.

 

FRIGG appartient au vieux fond mythique indo-européen car elle est connue sous ce nom ou tout au moins des variantes de ce nom (FRIA, FRU…) dans toute l'aire d'ex­pansion germa­nique. Il est particulièrement frappant de voir que les Anglais, au moment de la colonisation de la Grande-Bretagne par les Vikings, écrivaient le nom de la déesse non pas sous la forme du vieil anglais, FRIGE, mais sous la forme anglicisée du nom danois FRICG ou FRYCG. De nom­breuses sources anciennes la connaissent comme la grande déesse primitive formant avec ODINN le couple archétypal Terre-Ciel. Descendant direc­tement d'une Déesse Mère, elle est sans doute de conception antérieure à celle de son époux qui n'a pris la place qu'il occupe dans la mythologie nordique que tardivement.

 

FULLA, la servante de FRIGG semble être, elle aussi, relativement ancienne; elle serait la sœur VOLLA d'une certaine FRIIA men­tionnée dans une incantation du «Char­me de MERSEBURG»:

 

«…Alors SINTHGUNT et sa sœur SUNNA

Prononcèrent sur lui des incantations;

De même FRIIA et sa sœur VOLLA,

De même WOTAN, avec tout l'art qu'il possédait…».

(in «les Conjurations de MERSEBURG»).

 

Parmi les déités proches de la TERRE-MERE, il faut aussi considérer les DISES, fort an­ciennes en tant que groupe de divinités représentant les es­prits de la maison et de la famille. De même, la déesse Gete THIUTH, disparaît de la mythologie nordique, en tant que déesse de la famille, de la tribu, de la nation, pour être simplement rem­placée par un personnage allégorique, SJOFN, qui n'est qu'une facette de la déesse SIF.

 

Parmi les divinités indo-européennes de la ferti­lité, nous retrouvons l'origine historique du mythe d'IDUNN (fig.4), avec celui des pommes de l'immortelle jeunesse, de la plupart des tradi­tions européennes. Tou­tefois, les pommes sont un ajout tardif au mythe d'IDUNN: l'introduction des pom­mes en Scandinavie ne s'est faite que vers la fin du Moyen-âge, et le terme «epli» signi­fie non seulement «pomme» mais aussi, tous les fruits ronds. TJOTHOLF de HVIN dans son poème «Haustlong», rédigé vers 900, décrit d'ailleurs IDUNN comme pratiquant la vieille médecine des dieux et non comme gardienne de la jeunesse divine.

 

Par la suite, ce rôle de médecin sera repris par la déesse EIDR dont le nom signifie «cure» et qui n'appartient pas au vieux fond mythologique.

 

L'origine de FREYJA est très mal connue et il existe plusieurs théories. Boyer (1973) pense que, par ses attributions guerrières, FREYJA est, avec ODINN, l'une des divinités les plus proches du monde indo-européen. Ce n'est pas l'avis de Re­naud-Krantz (1972) qui constate que cette déesse est inconnue en dehors de la zone d'expansion de la Civilisation Viking; dans le reste du monde germanique, elle se confond avec FRIGG. Il pen­se qu'il pourrait s'agir d'une divinité d'ori­gi­ne pré-indo-européenne. Appar­te­nant à la race des VANES qui sont des dieux de la Ferti­lité et de la Fécondité, elle aurait acquis les as­pects d'une di­vinité indo-européenne par son rôle de déesse de la guerre et de la mort.


Chez les Scythes, comme chez les Gètes, la déesse de la Lune (Skalmoskis chez les Gètes) est à la fois une déesse de la Production, de la Famille  et de la Fécondité, et une divinité de la Destruc­tion et de la Mort. Les morts étaient censés sé­journer sur la Lune.


A cette déesse se substitueront, plus tard, chez les Scandinaves, trois personnages, un dieu MANI qui devient le dieu lunaire, FREYJA qui ac­capare les fonctions de production mais qui de­vient, en même temps, déesse de la mort, fonc­tion qu'elle partage avec HALIA qui se trans­forme alors en HEL.

 

Les WALKYRIES semblent avoir été à l'origine, non pas les belles jeunes filles décrites dans les textes du XIème-XIIème siècles et surtout dans les opéras de Wag­ner, au XIXème siècle, mais de redoutables génies de la mort, voire même des prê­tresses de quelques cultes sanglants, pro­gres­­sivement divinisées,  qui connais­saient le destin et que l'on appelait les ALHI-RUNES. Lorsque, au IIIème siècle P.C., ODINN prend la place de TYR en tant que seigneur de la guerre et de SKAL­MOSKIS dans ses attributions de divinité des tré­passés, il prend à son service les WAL­KYRIES calquées sur les ALHI-RUNES, prê­tresses au ser­vice du dieu de la guerre. C'est à cette occasion qu'elles prennent leurs aspects de belles jeunes filles blondes, servant au WALHALLA, les EIN­JEHARS (morts au combat) qu'elles sont allées choisir sur les champs de bataille. Le terme WALKYRIES signifie d'ailleurs étymologi­que­­ment «celles qui choisissent ceux qui vont tom­ber». Les Germains païens des pre­miers temps croyaient à des esprits féminins féroces, appli­quant les ordres du dieu de la guerre, ranimant les discordes, prenant part à la bataille et dévorant les cadavres.

 

La prophétie et l'art divinatoire, donc la magie étaient réservées aux femmes et plus particuliè­rement aux vierges. De ce fait, comme les WAL­KYRIES, les NORNES, maîtresses de la destinées, ont été calquées sur des personnages historiques, en parti­culier, les prophétesses telles que VE­LEDA chez les Bructères. Dès lors, elles sont de­venues, dans la tradition, le type et l'idéal des de­vineresses norroises.

 

La notion de NORNE d'après Boyer (1981, pp 217) est concentrée sur URDR qui serait la seule des trois à être vraiment ancienne. «Le nom pro­vient du verbe verda (arriver, se passer) qui ren­voie à l'idée indo-européenne pour laquelle des­tin et temps se confondent.»

 

Le terme de norn paraît remonter à la notion indo-européenne traduite par le préfixe ner- qui signifie tordre… ce qui serait corroboré dans la strophe 3 du «Hel­gakvida Hundingsbana I»

 

«…tressèrent à force

Les fils du destin…» (fig.15)

 

Le personnage de la déesse SKADI est à isoler. En effet, les Scandinaves songeant à associer au dieu des Eaux et de la Pêche, une déesse de la Chasse et ne la trouvant pas dans leur propre mythologie, l'emprun­tèrent aux Finnes et la nommèrent SKADI, qui, à l'origine, était un nom épithétique de FREYJA. Elle est considérée comme hé­ritière de l'ancienne VAITU SKURA (la chas­se) ou de VINDRUS et présente les as­pects d'une déesse lunaire souhaitant épou­ser un dieu solaire (BALDER).

 

Il s'agit, en fait, d'une déesse éponyme (3), pu­rement terrienne, de la Scandinavie.

 

Pour être complète, cette recherche de l'origine historique des déesses, ne saurait ignorer diffé­rents textes, qui font appel à l'évhémérisme, entre autres, ceux de Snorri (Prologue de l'«Edda prosaïque», sagas…) ou encore, ceux de Saxo Grammaticus («Gesta Danorum»).

 

Le mythe de la séduction de RIND par ODINN en est un exemple: Saxo Gramma­ticus la dit prin­cesse slave. Il en est de même pour le mythe de la mort de BAL­DER, fils de FRIGG et d'ODINN, et de son épouse NANNA.

 

récit mythologique: BALDER protégé par tous sauf par le gui, à qui il n'a pas demandé de prêter serment, est tué par son frère HODR (dieu aveugle) sur l'instigation de LOKI. Lors de la crémation du corps de son mari, fils de FRIGG, NANNA le cœur brisé, se jette sur le bûcher.
Explication évhémériste: HOTHERUS (HODR) est un héros qui se bat contre BALDR, demi dieu pour les beaux yeux de NANNA.

 

Cette tentation de transposer les mythes dans le réel n'aboutit pas à grand chose. Quelques per­sonnages (héros…) ont cer­tainement été divini­sés (les WALKYRIES, ou BRAGI, dieu de la poé­sie et ancien scalde), mais il est fort peu pro­bable que les grandes divinités du Panthéon nor­dique aient été des personnages historiques. Il s'agit plutôt de figurations des grandes forces na­turelles. Ils restent, toutefois, très proches du monde des humains. C'est ce que nous allons es­sayer de démontrer en comparant le rôle des déesses dans la religion et la vie quotidienne des Scandinaves du Xème s., après les avoir repla­cées dans la mythologie.

 

mardi, 11 mai 2010

Il bombarolo di Times Square legato a terroristi controllati dalla CIA

Il bombarolo di Times Square legato a terroristi controllati dalla CIA

di Paul Joseph Watson - 09/05/2010

Fonte: megachip [scheda fonte]


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Time%20Square.jpgUn uomo arrestato in Pakistan in relazione al fallito attentato dell'autobomba di Times Square (che aveva viaggiato con l'accusato dell'attentato, Faisal Shahzad), è membro di un'organizzazione terroristica controllata dall'Agenzia di intelligence britannica MI6 e dalla CIA.  Lo riferisce il «Los Angeles Times»:

 Sheik Mohammed Rehan, che è stato arrestato martedì a Karachi, «presumibilmente viaggiava con Shahzad da Karachi a Peshawar il 7 luglio 2009, su un pickup, hanno detto le autorità. I due rientrarono a Karachi il 22 luglio. Non si sa perché sono andati a Peshawar né se lì abbiano incontrato qualcuno».

Rehan è un membro del gruppo militante Jaish-e-Muhammad, un'organizzazione terroristica venuta alla ribalta a metà degli anni Novanta, ed è stato coinvolto in attacchi nella regione di confine del Kashmir contesa tra India e Pakistan. Il gruppo ha inoltre contribuito a realizzare, a dicembre del 2001, l'attacco contro il Parlamento indiano che ha portato l'India e il Pakistan sull'orlo della guerra nucleare, tensione che si è rivelata molto redditizia per i produttori di armi inglesi e americani che hanno venduto armi a entrambe le parti.

«Gli attacchi terroristici del dicembre 2001 al parlamento indiano - che hanno contribuito a spingere l'India e il Pakistan sull'orlo della guerra - sono stati condotti da due gruppi di ribelli con sede in Pakistan: Lashkar-e-Taiba e Jaish-e-Muhammad, entrambi segretamente sostenuti dall'ISI (Inter-Services Intelligence) pakistano» scrive Michel Chossudovsky. «Inutile dire che questi attacchi terroristici supportati dall'ISI servono agli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Non solo contribuiscono a indebolire e a spaccare l'Unione Indiana, ma anche a creare le condizioni che favoriscono lo scoppio di una guerra regionale tra Pakistan e India».

Jaish-e-Muhammad, il gruppo emerso ora in merito alla vicenda di Times Square, è stato fondato da Ahmed Omar Saeed Sheikh, “l'uomo con la valigetta dell'11/9” che consegnò 100mila dollari dagli Emirati Arabi Uniti a Mohammed Atta per volere del generale Mahmud Ahmed, allora capo dell'ISI. Mahmud Ahmed, l'uomo che ordinò ad Ahmed Omar Saeed Sheikh di finanziare gli attacchi al Pentagono e al World Trade Center, incontrò il parlamentare repubblicano Porter Goss e il senatore democratico Bob Graham a Washington DC la mattina del'11/9. Nei giorni prima e dopo l'attacco, Ahmed incontrò anche il capo della Cia George Tenet, nonché l'attuale vice-presidente Joe Biden, allora presidente della Commissione Esteri del Senato.

In un rapporto sul coinvolgimentodel gruppo Jaish-e-Muhammad nell'omicidio di Daniel Pearl, che stava indagando sull'ISI, il «Pittsburgh Tribune-Review» ha riferito che il governo pakistano, «ritiene che il potere di Saeed Sheikh provenga non dall'ISI, bensì dai suoi legami con la CIA».

L'ex Presidente del Pakistan Pervez Musharraf ha inoltre dichiarato che Sheikh fu assoldato dal MI6 mentre studiava a Londra per il tentativo di destabilizzare la Bosnia. Durante il conflitto in Bosnia del 1992-1995, la CIA ha aiutato Osama Bin Laden e Al-Qa‛ida ad addestrare e armare i musulmani bosniaci

Nel 2002, il «Times» di Londra ha riferito che Sheikh «non è un terrorista comune, ma un uomo che ha connessioni che arrivano in alto nelle élites militari e dell'intelligence del Pakistan e negli ambienti più vicini a Osama Bin Laden e all'organizzazione di al-Qaeda».

Nonostante il coinvolgimento intimo di Sheikh in numerosi atti di terrorismo e in sequestri politici, compreso il massacro di Mumbai del 2008, è stato sempre protetto sia dalla CIA sia dall’intelligence britannica.

Insomma, questo è l'uomo che ha fondato il gruppo che ora emerge in relazione con il pasticciato attentato di Times Square: una risorsa della CIA e del MI6.

«Gli esperti ritengono che il gruppo Jaish-e-Muhammad benefici tuttora dei legami con la potente cerchia dell'intelligence del governo del Pakistan. Alcuni esperti reputano che l'Inter-Services Intelligence (ISI) del Pakistan abbia facilitato la formazione del gruppo» afferma l’articolo del «Los Angeles Times» del 5 maggio 2010.

La maggior parte degli analisti geopolitici concorda sul fatto che l'ISI pakistano non è in realtà nient'altro che un avamposto della CIA. L'ISI non fa nulla che la CIA non abbia approvato. Sin dall'11/9 la CIA ha versato milioni di dollari all'ISI, pari a non meno di un terzo dell'intero bilancio dell'ISI, a dispetto della nota storia dell'agenzia di spionaggio straniera che finanzia e arma gruppi terroristici come Jaish-e-Muhammad e a dispetto del fatto che finanziò i dirottatori dell'11/9.

Dal momento che le impronte digitali della CIA si trovano ovunque in quasi tutti i gruppi terroristici mediorientali, non sorprende che ora venga a galla un legame fra la CIA e l'attentatore di Times Square. Non ci siamo ancora imbattuti in un terrorista che non sia stato addestrato, equipaggiato, radicalizzato, incastrato o provocato da una agenzia di intelligence occidentale o di un gruppo terroristico controllato da un agenzia di intelligence occidentale.

 

Traduzione per Megachip a cura di Manlio Caciopo.

 

Russie et Danemark: coopération énergétique

DANEMARK.gifAndrea PERRONE:

Russie et Danemark: coopération énergétique

 

Medevedev en visite officielle à Copenhague: renforcement du partenariat stratégique et énergétique entre la Russie et le Danemark

 

Le Président russe Dmitri Medvedev a entamé un voyage en Europe du Nord dans le but de souder un partenariat énergétique, de renforcer les relations bilatérales et multilatérales dans la zone arctique et la coopération en matières de haute technologie et d’énergies renouvelables.

 

Mercredi 28 avril 2010, Medvedev se trouvait au Danemark. Le chef du Kremlin y a atterri et y a été accueilli par la Reine Margarete II et par le Premier Ministre Lars Lokke Rasmussen. Le thème privilégié de cette rencontre au sommet, qui doit sceller la coopération russo-danoise, a été l’énergie, plus particulièrement la construction du gazoduc North Stream.

 

Le Président russe, en participant à un sommet d’affaires russo-danois, a souligné qu’il s’avère surtout nécessaire “de créer un critère général et des réglementations pour la coopération énergétique du futur”. Ensuite: “Il s’avère nécessaire de mettre à l’ordre du jour des normes et des réglementations internationales pour la coopération énergétique”, a poursuivi le chef du Kremlin, “parmi lesquelles une nouvelle version de la Charte de l’énergie”. La Russie a déjà présenté à ses interlocuteurs un document de ce type, dans l’espoir que les Danois feront de même, de leur côté. Medvedev a ensuite rappelé que le secteur énergétique représente un secteur clef de la coopération entre la Russie et le Danemark. Moscou et Copenhague, a souligné le Président russe, ont désormais visibilisé leur contribution à la sécurité énergétique en Europe et leur souhait de voir se diversifier les routes d’acheminement du gaz, dont le gazoduc North Stream. Il a ensuite adressé ses meilleurs compliments au Danemark, premier pays à avoir participé à la construction du gazoduc et à avoir permis son passage à travers sa propre zone économique. La réalisation du gazoduc North Stream, a poursuivi Medvedev, rendra possible, non seulement la satisfaction des besoins en gaz du Danemark, mais aussi son rôle d’exportateur de gaz vers les autres pays européens, tandis que les contrats à long terme dans les secteurs du pétrole et du gaz naturel pourront garantir le partenariat énergétique russo-danois pour les trente prochaines années. Medvedev a également mis en exergue la participation des entreprises danoises dans les programmes de mise à jour et de rentabilisation des implantations énergétiques dans diverses régions de Russie. Le premier ministre danois et le chef du Kremlin ont ensuite signé, au terme de la rencontre, une série d’accords portant pour titre “partenariat au nom de la modernisation” et visant la coopération dans le secteur de la haute technologie et le développement de l’économie russe dans certaines régions de la Fédération de Russie, comme le Tatarstan.

 

Andrea PERRONE,

a.perrone@rinascita.eu

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 29 avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers; http://www.rinascita.eu ).

Medvedev à Buenos Aires - Nucléaire et multiculturalisme

medvedev-argentina-2.jpgAlessia LAI:

Medvedev à Buenos Aires

 

Nucléaire et multilatéralisme

 

Revenant du sommet sur la sécurité nucléaire qui s’était tenu à Washington, le président russe Dmitri Medvedev s’est rendu le 14 avril 2010 à Buenos Aires, capitale de l’Argentine. Son objectif? Renforcer les relations entre la Russie et ce pays d’Amérique latine. Il est ainsi le premier chef d’Etat russe à rendre visite à l’Argentine depuis les 125 ans que les deux pays entretiennent des relations bilatérales. Medvedev a offert à l’Argentine “l’occasion de coopérer dans le secteur énergétique”. Outre la signature d’accords portant sur la coopération culturelle ou sur les domaines de la recherche spatiale, de l’exploitation forestière, du sport, des hydrocarbures et des transports, les pourparlers russo-argentins ont surtout mis l’accent sur la coopération nucléaire à des fins pacifiques.

 

Le directeur général du consortium d’Etat russe pour l’énergie atomique “Rosatom”, Sergueï Kirienko, au cours d’une rencontre entre Medvedev, d’autres représentants du gouvernement russe et des entrepreneurs argentins, a eu l’occasion d’annoncer l’offre russe à l’Argentine de construire “une troisième centrale nucléaire”, tout en ajoutant que le gouvernement de Cristina Fernandez “décidera l’année prochaine comment répondre” à cette offre. Il faut savoir que déjà “un quart de l’énergie argentine est générée à l’aide de turbines russes”, a rappelé Medvedev. Russes et Argentins ont profité de l’occasion pour renforcer quelques liens politiques et stratégiques, ce qui a certes troublé le sommeil des anciens patrons du pays, liés aux Etats-Unis. Cristina Fernandez a souligné, pour sa part, que “le monde a changé, que la tension Est-Ouest appartient désormais au passé; outre de nouveaux acteurs globaux, nous avons de nouveaux dirigeants en Amérique du Sud qui sont animés par une vision différente de ce que doivent être les relations internationales, c’est-à-dire être axées justement sur ce multilatéralisme que cherche à promouvoir l’actuel gouvernement argentin”.  

 

Nous avons donc affaire à un nouvel élément clef dans la construction du futur monde multipolaire: le processus d’intégration latino-américain qui a généré des institutions comme l’UNASUR, l’ALBA, Pétrocaribe, qui agissent et interagissent pour mener à l’union de toutes les nations latino-américaines, lesquelles veulent devenir actrices à part entière sur la scène internationale et non plus être exclues des décisions qui affectent le sort de la planète ou reléguées au rang d’actrices de seconde zone.

 

“Nous ne sommes l’arrière-cour de personne, nous voulons des relations sérieuses et normales avec tous les pays du monde”, a souligné la Présidente d’Argentine.

 

Alessia LAI,

a.lai@rinascita.eu

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 16  avril 2010; trad. franç.: Robert Steuckers; http://www.rinascita.eu/ ).

Presseschau Mai 2010/02

journaux_egypte432.jpg

Presseschau

Mai 2010 / 02

Einige Links. Bei Interesse anklicken...

###

Die Behauptung, daß es während der Kämpfe in der Normandie mehr deutsche als alliierte Kriegsverbrechen gab, darf man getrost bezweifeln …

Schreie in der Kraterlandschaft
Der D-Day war die größte Landungsaktion der Geschichte, nun sind neue, blutige Details der Aktion bekanntgeworden: Ein britischer Autor hat die Invasion in der Normandie von 1944 rekonstruiert und ist dabei auf zahlreiche Kriegsverbrechen gestoßen – auch durch die Alliierten Von Klaus Wiegrefe
http://einestages.spiegel.de/external/ShowTopicAlbumBackground/a7901/l8/l0/F.html#featuredEntry

Passend zu obenstehender Artikelempfehlung von letzter Woche ein etwas längerer Auszug aus Teil 2 der Lebenserinnerungen von Wolfgang Venohr über die Kampfverhältnisse an der Invasionsfront im Juni und Juli 1944:

Am 15. Juni [1944] melden Lindenhahn und ich uns in Caen auf dem Divisionsgefechtsstand der HJ-Division bei Panzermeyer, unserem alten Abteilungskommandeur. Er ist inzwischen Standartenführer (Oberst) und hat am Tag zuvor die HJ-Division übernommen, anstelle von Brigadeführer Witt, der gefallen ist. Wir treffen ihn in einem gefleckten Kampfanzug, aus dem oben das Ritterkreuz mit Eichenlaub herausschaut, wie er gerade Hauptsturmführer Olboetter etwas zuruft, der in einem Schwimmwagen durch wahnsinniges Feuer feindlicher Schiffsartillerie am Gefechtsstand vorbeijagt. Wir fühlen uns sofort heimisch.
Die HJ-Division, so erfahren wir, steht schon seit zehn Tagen in schwersten Abwehrkämpfen gegen Briten, Polen und Kanadier. Obersturmführer Meitzel, Ordonnanzoffizier bei der HJ-Division, erzählt Lindenhahn, daß sie schon zwanzig Prozent der Gefechtsstärke an Toten und Verwundeten abbuchen müssen. Die Angloamerikaner werden bei der HJ-Division sehr negativ beurteilt. Gleich am 6. Juni haben amerikanische Luftlandetruppen dreihundert deutsche Kriegsgefangene ermordet. Das hat sich mit Windeseile von den Franzosen zu unseren Leuten herumgesprochen. Auch die Melder des Divisionsstabes sprechen verbittert über die britischen und kanadischen Gegner: „Die haben schon mehrere unserer Jungens, Verwundete und Gefangene, massakriert! Darin sind sie groß.“ Ich muß an Panzermeyers Ansprache vor einem Jahr in Charkow denken, über den angeblich so ritterlichen Gegner im Westen.
Wir richten uns direkt neben dem Divisonsgefechtsstand ein. Merkwürdig ist, daß meine Gedanken oft nach Osten in die Ukraine wandern. Es ist erst ein Jahr her, daß wir uns zur großen Panzerschlacht bei Kursk bereitstellten, daß wir am Donez entlangfuhren, daß wir in Stalino glaubten, es ginge wieder Richtung Stalingrad. Und nun stehen wir dreitausend Kilometer westlich in der Hauptstadt der Normandie! Ja, wir bewegen uns auf einem riesigen Bogen rund um das Reich; mal im Osten, mal im Süden, mal im Westen. Es gilt, die Heimat nach allen Seiten zu schirmen.
In den nächsten vier Wochen sind Lindenhahn, sein Fahrer Wessel und ich mit unserem Schwimmwagen im Einsatzraum der „Hitlerjugend“-Division wie auch der 21. Panzerdivision des Heeres unterwegs. Und zwar Tag und Nacht: zur Verbindungsaufnahme, zur Koordination, zur Befehlsübermittlung, zur Aufklärung, Erkundung und Berichterstattung. Wir bekommen einen tiefen Einblick in die Kampfverhältnisse an der Invasionsfront. Schon nach wenigen Tagen ist uns unbegreiflich, wie die deutsche Abwehrfront angesichts der verheerenden feindlichen Luftüberlegenheit überhaupt existieren kann. Über sämtlichen Gefechtsabschnitten kreisen von morgens bis abends feindliche Jabos und stürzen sich mit vernichtender Wirkung auf jedes Fahrzeug, auf jeden Mann, eben auf jedes „Objekt“, das sich am Tage außerhalb einer Deckung bewegt. Tausende feindlicher Flugzeuge beherrschen den Luftraum. Von deutscher Seite sehen wir in diesen Tagen zwei Jäger vom Typ Me 109, die im Tiefflug über die Hecken der Normandie springen.
Am Tage ist das Gelände wie ausgestorben; größere taktische Bewegungen, Verstärkungen, Ablösungen und Nachschubzuführungen finden nur nachts statt. Unser Fahrzeug allerdings ist auch am Tage ständig unterwegs, und ich entwickle mich notgedrungen zu einem perfekten Luftbeobachter. Nicht ein einziges Mal erwischen uns die feindlichen Jabos. Sobald ich „Anflug“ schreie, ist unser Fahrer schon mit dem Schwimmer in der nächsten Hecke, und zwei Sekunden später liegen wir zu dritt bereits „in voller Deckung“.
Zum pausenlosen Luftterror der Jabos kommt das Vernichtungsfeuer schwerster feindlicher Schiffsartillerie. Aber daran gewöhnen wir uns schnell. Hat man ein Panzerdeckungsloch erreicht, ist es einem ziemlich egal, welche Kaliber rundherum in den Boden wuchten, läßt man sich selbst von 38-cm-Granaten wenig beeindrucken. Auch ein Großangriff feindlicher Viermot-Bomber auf den Raum Caen, bei dem die Erde zu bersten scheint, bewirkt nichts. Ich hocke in meinem Panzerdeckungsloch, blinzle zum Himmel hoch und versuche die „silbernen Vögel“ zu zählen. (Später heißt es, es seien etwa 1.200 Bomber gewesen.) Mein 1,50 Meter tiefes Loch schaukelt bei den serienweisen Bombenabwürfen wie die Koje eines Schiffes, das sich auf hoher See in einem Sturmtief befindet. Ich habe aber nie das Gefühl, daß es mich „erwischen“ könnte. Die Jabos mit ihren Bordwaffen bleiben unsere Hauptsorge. Sie jagen selbst einzelne Meldegänger, die von Hecke zu Hecke springen.
Unter solchen Bedingungen erscheint der verbissene Abwehrkampf der 18jährigen HJ-Grenadiere wie ein Wunder. Diese jungen Soldaten, gegen die ich mir mit meinen 19 Jahren wie ein Veteran vorkomme, übertreffen alles an Verteidigungswillen, was es je gegeben hat. Hier bei Caen kämpfen sie für die Heimat, für Deutschland. Niemals hört man von ihnen ein Meckern oder Mosern über die aussichtslosen Kampfbedingungen. Obwohl sie alle blasse, schmale Gesichter mit tiefschwarzen Augenrändern haben und der Erschöpfung nahe sind, brennen sie vor Kampf- und Einsatzwillen. Alles hier erinnert mich an meine Zeit in der Hitlerjugend, im Deutschen Jungvolk, und auf unseren Erkundungsfahrten treffen wir immer wieder Offiziere des Heeres, die sich als ehemalige HJ-Führer zur 12. SS-Panzerdivision „Hitlerjugend“ versetzen ließen und nun mit ihren Jungens die Trümmer der normannischen Dörfer buchstäblich bis zur letzten Patrone verteidigen.

(Wolfgang Venohr: Die Abwehrschlacht. Jugenderinnerungen 1940–1955, Berlin 2002, S. 127–130)

###

Neue Machtzentren
Ohne die Türkei versinkt die EU im Mittelmaß
Nur mit vereinten Kräften wird die EU neben den Machtzentren USA und China bestehen können. Deshalb muß sie die Türkei aufnehmen und Rußland assoziieren, schreibt Altkanzler Gerhard Schröder auf WELT ONLINE. Geschehe das nicht, würde sich die EU langfristig in eine fatale Abhängigkeit begeben.
http://www.welt.de/debatte/kommentare/article7436815/Ohne-die-Tuerkei-versinkt-die-EU-im-Mittelmass.html

Chef des OIC warnt den Westen
Der Generalsekretär der Organisation der Islamischen Konferenz (OIC), Ekmeleddin Ihsanoglu (Foto), hat den Westen vor einer Konfrontation mit den dort lebenden Moslems gewarnt. Jede Kritik ist eine Form von Islamfeindlichkeit und treibe die trotzdem hier ausharrenden Moslems auf „Kollisionskurs“. Wie friedlich das klingt!
http://www.pi-news.net/2010/05/chef-des-oic-warnt-den-westen/#more-134526

Times-Square-Bombe
Festnahme nach Anschlagsversuch in New York
Drei Tage nach dem vereitelten Autobombenanschlag am New Yorker Times Square haben die US-Behörden einen Verdächtigen festgenommen. Nach Informationen aus Sicherheitskreisen sei der gesuchte Mann gefaßt worden, als er das Land verlassen wollte. Es soll sich um einen US-Bürger pakistanischer Abstammung handeln.
http://www.welt.de/politik/ausland/article7462108/Festnahme-nach-Anschlagsversuch-in-New-York.html

New York: Attentäter festgenommen
http://www.hintergrund.de/20100506876/globales/terrorismus/new-york-attentaeter-festgenommen.html

UN-Konferenz
Ahmadinedschad provoziert Eklat mit Haßrede
Dieser Auftritt war offenbar wohlkalkuliert: Mahmud Ahmadinedschad hat auf der UN-Konferenz zum Atomwaffensperrvertrag gegen die USA und Israel gehetzt. Mehrere Delegierte verließen daraufhin den Sitzungssaal. Der iranische Präsident versicherte gleichzeitig, daß sein Land Atomenergie nur zu friedlichen Zwecken nutzen wolle.
http://www.welt.de/politik/ausland/article7456294/Ahmadinedschad-provoziert-Eklat-mit-Hass-Rede.html

Eklat auf Abrüstungskonferenz
Ahmadinedschad brüskiert USA mit Atom-Tirade
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,692801,00.html

Schlammschlacht
Erdogan wehrt sich gegen Hitler-Vergleiche
Von Boris Kálnoky
In der Türkei haben die Beratungen über weitreichende Verfassungsänderungen begonnen. Der Streit zwischen der Erdogan-Regierung und der Opposition hat mittlerweile den Charakter einer politischen Schlammschlacht. Das beliebteste Stilmittel: Vergleiche mit Hitler und Nazi-Deutschland.
http://www.welt.de/politik/ausland/article7451945/Erdogan-wehrt-sich-gegen-Hitler-Vergleiche.html

Solidarität mit unseren Soldaten und ihren Familien
http://www.solidaritaet-mit-soldaten.de/

Geheime Kriegspropaganda der CIA
http://www.spiegel.de/video/video-1062154.html

„Originaldokument“ auf WikiLeaks:
http://file.wikileaks.org/file/cia-afghanistan.pdf

Taxi-Streit in Johannesburg
Verhaßte Busse
Wenige Wochen vor dem Anpfiff der Fußball-WM in Südafrika eskaliert der Streit zwischen Taxifahrern und städtischen Bussen in Johannesburg. Acht Menschen wurden angeschossen.
http://www.sueddeutsche.de/panorama/892/510017/text/

Griechenland-Hilfen
Bundestag segnet Merkels Milliarden-Nothilfe ab
Mit deutlicher Mehrheit hat der Bundestag den deutschen Griechenland-Hilfen zugestimmt. Damit können in den kommenden drei Jahren Kredite in Höhe von mehr als 22 Milliarden Euro nach Athen fließen. Die SPD enthielt sich allerdings mehrheitlich. Beim Verfassungsgericht ging eine Klage gegen das Gesetz ein.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,693507,00.html

Bundesverfassungsgericht
Euro-Skeptiker wollen Griechenland-Hilfe stoppen
Von Dorothea Siems
Die Gegner der Hellas-Hilfe hoffen auf Karlsruhe. Am Freitag wollen der berühmte Euro-Skeptiker Joachim Starbatty und weitere Professoren die Griechenland-Hilfe gerichtlich stoppen. Sie verstoße gegen das EU-Recht und das deutsche Grundgesetz. „Deutschlands Finanzen werden unkalkulierbar“, warnt der Ökonom.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article7455070/Euro-Skeptiker-wollen-Griechenland-Hilfe-stoppen.html

Koch-Mehrin liegt voll daneben
Die Steuersenkungspartei FDP hat offensichtlich Probleme mit dem wahren Ausmaß der Schulden im Lande. In der ARD-Sendung „hart aber fair“ zum Thema Steuern antwortete die FDP-Politikerin Silvana Koch-Mehrin auf die Frage, um wieviel die Schulden des Landes während der Sendung wohl gestiegen sind: „Ich würde jetzt mal tippen: 6000 Euro.“ Moderator Frank Plasberg riet der Vizepräsidentin des Europäischen Parlaments und Vertreterin der Partei mit der angeblich höchsten Wirtschaftskompetenz daraufhin dringend vom Amt einer Finanzministerin ab: „Sie liegen dramatisch daneben.“ Tatsächlich ist die Staatsverschuldung während der 75minütigen Sendung um rund 20 Millionen Euro gestiegen. Dpa
http://www.morgenweb.de/nachrichten/politik/20100507_srv0000005791576.html

Spanien: Besonders bei den Jungen ist der Frust groß
http://www.welt.de/die-welt/politik/article7428963/.html

Enttäuschte Liebe
Warum uns Griechenlands Absturz so schmerzt
Von Berthold Seewald
Die Deutschen sind wütend auf die griechischen Demonstranten. Denn anders als wir kommen sie noch in den Genuß des ausufernden Sozialstaats. Die Wut resultiert aber auch aus dem Gefühl der enttäuschten Liebe. Denn eigentlich wollten wir immer so sein wie sie: Geistes-Heroen und Gründer der Demokratie.
http://www.welt.de/debatte/kommentare/article7451334/Warum-uns-Griechenlands-Absturz-so-schmerzt.html

„Wir müssen uns hart schinden“
Von Dieter Stein
BERLIN: Von der jüngst beschlossenen Griechenland-Hilfe sind die Deutschen wenig begeistert. Wie sieht man dies im Empfänger-Land? Ein Gespräch von JF-Chefredakteur Dieter Stein mit Panajotis Doumas von der nationalkonservativen Wochenzeitung „Eleutheros Kosmos“.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M576e5f9fb7e.0.html

Jürgen Elsässer: Der Angriff des angloamerikanischen Finanzkapitals
http://archiv.rummelsdorf.org/cgi-bin/full.cgi?key=flv&page=0&id=86694bffb9ab55f73c95232be57b8c8f

Interne Wall-Street-E-Mails
„Jetzt wird’s schmutzig“
Interne Mails belegen das zynische Geschäftsgebaren der Finanzmanager.
http://www.spiegel.de/wirtschaft/unternehmen/0,1518,692247,00.html
http://www.spiegel.de/flash/flash-23270.html

Geldanlage nach ethischen Gesichtspunkten
http://www.ethische-geld-anlage.de/

Patt-Situation
Die Linke könnte über NRW-Wahl entscheiden
Die CDU/FDP-Koalition und die SPD/Grünen-Opposition liefern sich eine Woche vor der NRW-Wahl ein Kopf-an-Kopf-Rennen. Sie kommen jeweils auf 45 Prozent. Somit könnte die Linke mit 5,5 Prozent über den Wahlausgang entscheiden. Auch die möglichen Regierungschefs, Hannelore Kraft und Jürgen Rüttgers, liegen gleichauf.
http://www.welt.de/politik/nrw-wahl/article7405429/Die-Linke-koennte-ueber-NRW-Wahl-entscheiden.html

Dany gibt den Experten ...
Cohn-Bendit über das Krisenmanagement
„Sonst ist alles futsch, tschüß Euro“
Erst im letzten Moment haben die Euro-Staaten Griechenland mit Milliarden gerettet. Ein Debakel, wettert Daniel Cohn-Bendit im SPIEGEL-ONLINE-Interview – und warnt Merkel, Sarkozy und Co. vor „ökonomischem Nationalismus“. Sonst sei der gesamte Euro-Raum in akuter Gefahr.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,693585,00.html

Anti-Neonazi-Protest
Thierse drohen Sanktionen wegen Sitzblockade
Als die Neonazis kamen, setzte er sich auf die Straße – jetzt drohen Bundestagsvizepräsident Wolfgang Thierse rechtliche Konsequenzen wegen seiner Blockadeaktion am Maifeiertag. Die Polizeigewerkschaft empört sich, sogar Berlins Innensenator Körting greift seinen SPD-Parteifreund an.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,692543,00.html

,,Würdelos‘‘: Thierse brach laut Polizeigewerkschaft das Gesetz
Die Gewerkschaft der Polizei (GdP) hat Bundestagsvizepräsident Wolfgang Thierse (SPD) für seinen Protest gegen eine Demonstration von Rechtsextremen in Berlin scharf kritisiert. Das Verhalten Thierses sei „würdelos“, erklärte die Gewerkschaft.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article7434421/Thierse-brach-laut-Polizeigewerkschaft-das-Gesetz.html#vote_7430251

Nach Sitzblockade am 1. Mai
Polizeigewerkschaft verlangt Thierses Rücktritt
Daß er am 1. Mai an einer Sitzblockade gegen rechtsextreme Demonstranten teilnahm, bringt Bundestagsvizepräsident Thierse immer mehr Ärger ein. Jetzt fordert die Deutsche Polizeigewerkschaft seinen Rücktritt. Der SPD-Politiker sei „die personifizierte Ansehensschädigung des deutschen Parlaments“.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article7445634/Polizeigewerkschaft-verlangt-Thierses-Ruecktritt.html

Thierse verteidigt Sitzblockade
http://www.zeit.de/newsticker/2010/5/6/iptc-hfk-20100506-86-24753690xml

Wowereit verteidigt Thierse
http://www.sueddeutsche.de/95N38c/3340946/Wowereit-verteidigt-Thierse.html

Thierse immun gegen Kritik
http://www.ostpreussen.de/zeitung/nachrichten/artikel/thierse-immun-gegen-kritik.html

Wolfgang Thierse: Der Bundestagspräsident und der Feuerwehrmann
Von Martin Lichtmesz
Am letzten Wochenende nahmen zwei Mitglieder der SPD an Demonstrationen zum 1. Mai teil. Der eine von beiden ist der Bundestagspräsident Wolfgang Thierse, der sich in Berlin in eine Demonstrations-Blockade „gegen Nazis“ einreihte. Laut einem Bericht der „Süddeutschen Zeitung“ stellten sich 10.000 (!) Zivilcouragierte, darunter eine erkleckliche Anzahl von Autonomen und Linksextremisten, einem Bataillon (SZ: „Aufmarsch“) von 500 (!) rechtsextremen Demonstranten entgegen.
http://www.sezession.de/14526/der-bundestagspraesident-und-der-feuerwehrmann.html


Im aktuellen Spiegel (nicht frei zugänglich) ...
ZEITGESCHICHTE – Brüder im Geiste: Ende 1989 trafen sich Gregor Gysi und François Mitterrand. Einem neuen Dokument zufolge bedauerte Mitterrand den Niedergang der DDR, Gysi haderte mit dem Mauerfall.
http://www.spiegel.de/spiegel/print/index-2010-18.html

Berlin
„Topographie des Terrors“ eröffnet
Ein grauer Palast der Erinnerung
http://www.faz.net/s/Rub117C535CDF414415BB243B181B8B60AE/Doc~EFBF270F30E27452983006553217C5AE4~ATpl~Ecommon~Scontent.html

Neu-Isenburg
Gunter Demnig verlegt eine Stolperschwelle vor der Gedenkstätte.
Als Mahnung für die Lebenden
http://www.op-online.de/nachrichten/neu-isenburg/mahnung-lebenden-750797.html

Rödermark
Steinerner Stern der Erinnerung
Gedenkstätte für ermordete und vertriebene Juden ist jetzt fertig / „Sie haben einfach dazugehört“
http://www.op-online.de/nachrichten/roedermark/steinener-stern-erinnerung-750592.html

Britische Verhältnisse ...
Wenn Kinder zu Mördern werden
Von Thomas Kielinger
Ende März wurde der 15jährige Schüler Sofyen Belamouadden an der Londoner Victoria Station von anderen Jugendlichen überfallen und erstochen. Der Vorfall ist in Großbritannien zu einem zentralen Wahlkampfthema geworden: Wieviel Gewalt kann eine Gesellschaft aushalten?
http://www.welt.de/die-welt/vermischtes/article7442530/Wenn-Kinder-zu-Moerdern-werden.html

Video-Lektion: Der alltägliche Straßen-Jihad
Im folgenden Video wird ein BNP-Kandidat mit ein paar Mann Unterstützung angegriffen. Das Video gibt einige Grundlektionen für eine solche Situation her, deshalb hier eine kurze Besprechung. (...)
http://www.pi-news.net/2010/05/video-lektion-der-alltaegliche-strassen-jihad/#more-134577

Massenproteste in USA gegen Einwanderungsgesetz in Arizona
Aus Protest gegen die Verschärfung des Einwanderungsrechts im US-Bundesstaat Arizona sind in den USA Zehntausende Menschen auf die Straße gegangen. Nach Angaben der Feuerwehr forderten allein in Los Angeles rund 60.000 Menschen die Abschaffung des umstrittenen neuen Gesetzes. Zu den Protesten in insgesamt mehr als 70 US-Städten hatten vor allem hispanische Organisationen aufgerufen.
http://de.news.yahoo.com/2/20100502/twl-massenproteste-in-usa-gegen-einwande-4bdc673.html
http://www.welt.de/politik/ausland/article7433001/Massenprotest-gegen-Arizonas-Illegalen-Gesetz.html

Gesellschaftliche Stabilität dürfte wohl wichtiger sein als dem Kurzzeitdenken folgende ökonomische Partikularinteressen ...
Zuwanderung
Australien entwickelt neue Hürden für Ausländer
Von Barbara Bierach
Seit mehr als 200 Jahren lebt Australien von und mit seinen Zuwanderern. Doch jetzt steigt der Widerstand der Einheimischen – und die Regierung knickt ein. Wer einwandern möchte, stößt neuerdings auf kaum überwindbare bürokratische Hürden. Die wirtschaftlichen Folgen für das Land könnten dramatisch sein. [Was für ein Blödsinn ...]
http://www.welt.de/wirtschaft/article7431030/Australien-entwickelt-neue-Huerden-fuer-Auslaender.html

BNP will Rückkehrprämie für Zuwanderer einführen
LONDON. Die rechtsradikale British National Party (BNP) hat angekündigt, bei einem Wahlsieg am Donnerstag eine Rückkehrprämie von 50.000 Pfund für Zuwanderer auszuloben. Das Geld sei für rund 180.000 Personen pro Jahr gedacht, „die zurückkehren und dabei helfen könnten, ihr eigenes Land aufzubauen“, sagte BNP-Chef Nick Griffin in einem Gespräch mit BBC Radio 4.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5a54199b6cd.0.html

Integration
Berlin will Migranten per Gesetz bevorzugen
Von Joachim Fahrun
Die rot-rote Regierung in Berlin plant ein „Integrations- und Partizipationsgesetz", das Migranten bei der Einstellung im öffentlichen Dienst bevorzugen soll. Auf diese Weise will Berlin seine „Rolle als Schrittmacher in der Integrationspolitik unterstreichen“. Rechtliche Hürden will die Stadt umgehen.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article7464856/Berlin-will-Migranten-per-Gesetz-bevorzugen.html

Cloppenburg
Betrunkener [Litauer] rast in Gruppe von Mai-Wanderern
Ihn störten die Feiernden auf der Straße, also trat er aufs Gaspedal: Im Landkreis Cloppenburg hat ein junger Mann seinen Wagen mutwillig in eine Gruppe gelenkt, die auf dem Weg zu einem Volksfest war. Mehrere Menschen wurden teils schwer verletzt.
http://www.spiegel.de/panorama/justiz/0,1518,692492,00.html

Frankfurt
Bahnhofsviertel
Streitschlichter mit Messer erstochen
Frankfurt/Main. Ein 21 Jahre alter Mann ist am frühen Sonntag morgen bei einem Streit im Frankfurter Bahnhofsviertel erstochen worden.
Nach Mitteilung der Polizei starb der Mann in einem Krankenhaus, nachdem er gegen 6.40 Uhr in der Münchener Straße einen Streit zwischen zwei Frauen und zwei Männern zu schlichten versucht hatte. Einer der Männer stach dabei mit einem Messer auf seinen Oberkörper ein.
Der Täter und sein Kompagnon flüchteten in Richtung Moselstraße. Sie sollen ostafrikanischer Herkunft, zwischen 30 und 40 Jahre alt und 1,75 bis 1,80 Meter groß sein. Die Mordkommission der Polizei ermittelt. (ddp)
http://www.fr-online.de/frankfurt_und_hessen/nachrichten/frankfurt/2605108_Streitschlichter-mit-Messer-erstochen.html
http://www.welt.de/die-welt/regionales/article7442344/21-Jaehriger-erstochen.html

Hamburg-Horn
17jähriger läuft nach Messerstecherei vor Auto
n der Horner Rennbahn waren zwei Gruppen in der Nacht aneinandergeraten. Zwei Männer wurden verletzt. Jetzt ermittelt die Mordkommission.
http://www.abendblatt.de/hamburg/polizeimeldungen/article1475480/17-Jaehriger-laeuft-nach-Messerstecherei-vor-Auto.html

Hier erfährt man mehr ...
Selbstjustiz nach Messerattacke auf 34jährigen
Im Streit sticht ein Jugendlicher einen 34 Jahre alten Mann nieder. Anscheinend ohne Grund. Dessen Freund nimmt anschließend Rache.
Hamburg. Mit einem Schädelbruch liegt Jalal H. derzeit auf der Intensivstation eines Hamburger Krankenhauses, versorgt von Ärzten und bewacht von Polizisten. Die Polizei befürchtet, der 17jährige könnte sich aus dem Staub machen, sobald er dazu gesundheitlich in der Lage sein wird. Jalal H. hatte gestern am späten Abend einen 34jährigen in Horn niedergestochen und lebensgefährlich verletzt. Anscheinend ohne Grund. Mindestens dreimal und ohne Ankündigung hatte der Heranwachsende nach einem einfachen Wortgefecht zwischen ihm und seinem Opfer das Messer erhoben und zugestochen.
Womit der 17jährige wohl nicht gerechnet hatte: Nach der Tat nimmt ein Begleiter des Opfers die Verfolgung auf. Er stellt Jalal H. und verletzt ihn mit einer Holzlatte schwer. Die Mordkommission des Landeskriminalamts (LKA) hat die Ermittlungen aufgenommen. Kurz vor 23 Uhr begegnen sich beide Männer, die in kleinen Gruppen unterwegs sind, nahe der Kreuzung Rennbahnstraße/Hermannstal am U-Bahnhof Horner Rennbahn.
Böse Blicke werden ausgetauscht. Sie machen Witze. Provokante Sprüche fliegen hin und her. Unvermittelt zieht Jalal, der Deutsche mit türkischen Wurzeln (sic!), der bereits wegen Raubes polizeibekannt ist, ein breites Klappmesser. Sein türkisches Gegenüber trifft er am Bein, am Bauch und am Kopf. Die Klinge durchstößt auch den Schädelknochen von Volkan K., der auf der Straße zusammenbricht. Jalal H. flüchtet.
Abrahim D., 26, ein Freund des Opfers, sprintet hinter ihm her. Auf dem Weg sammelt er eine robuste Holzlatte auf. Am Pagenfelder Platz, knapp einen halben Kilometer vom Tatort entfernt, kann er den Messerstecher stellen.
Jalal H., völlig außer Atem, ahnt wohl schon, was ihn erwartet. Mit letzter Kraft versucht er ein Auto anzuhalten, das an ihm vorbeifährt. Als der Fahrer nicht hält, klammert er sich ans Heck. Er kann sich nicht halten, rutscht ab und stürzt auf die Straße.
In diesem Moment kommt der 26jährige auf ihn zu und holt aus. Immer wieder trifft die lange schwere Holzlatte auf Jalal H., der sich auf dem Boden krümmt. Wenige Minuten später werden beide Männer festgenommen. Wie sein Opfer erleidet der 17jährige lebensgefährliche Verletzungen. Ob sie ausschließlich von den Schlägen mit der Holzlatte stammen oder ob sich Jalal H. bereits beim Sturz vom Auto schwer verletzte, untersuchen derzeit die Ermittler.
Mit Rettungswagen werden der 17jährige und sein 34 Jahre altes Opfer in die Asklepios-Kliniken Wandsbek und Barmbek gebracht. Volkan K. muß aufgrund seiner massiven inneren Blutungen sofort notoperiert werden.
Die Ermittler der Mordkommission suchen jetzt nach Zeugen der Auseinandersetzung. Wer die beiden Taten beobachtet hat, möge sich bitte unter Telefon 428 65 67 89 bei der Polizei melden. Erst vor einem Monat waren zwei 17 und 19 Jahre alte Heranwachsende durch Messerstiche lebensgefährlich verletzt worden, als zwei Gruppen vor einem Tanzlokal an der Wilstorfer Straße in Harburg aneinandergerieten. Die Täter waren zwei Männer, 29 und 30 Jahre alt.
http://www.abendblatt.de/hamburg/polizeimeldungen/article1476805/Selbstjustiz-nach-Messerattacke-auf-34-Jaehrigen.html

Berliner Schloß
Lesehilfe für ein Ding ohne Namen
Das Berliner Schloß befindet sich in der Krise: Der Bundesbauminister will die Barockfassaden nicht finanzieren, der Schloßverein kann es nicht. Wird hier ein steinernes Zeichen des Scheiterns gesetzt?
http://www.faz.net/s/RubEBED639C476B407798B1CE808F1F6632/Doc~E7AD0CB0FA58347EAA3E103C56A013D2F~ATpl~Ecommon~Scontent.html

Hebammen für Deutschland
Eine Initiative zum Erhalt des Berufsstandes
http://www.hebammenfuerdeutschland.de/

Gesundheit
An der Unfruchtbarkeit ist oft Mutti schuld
Von Jörg Zittlau
In Deutschland gibt es immer weniger Kinder. Etwa 600.000 Paare bleiben ungewollt kinderlos. Früher hat die Medizin die Ursachen dafür vor allem bei den Frauen vermutet, doch inzwischen richtet sich ihr Blick zunehmend auf den Mann. Forscher glauben jetzt, den Grund für die Unfruchtbarkeit gefunden zu haben.
http://www.welt.de/wissenschaft/medizin/article7443997/An-der-Unfruchtbarkeit-ist-oft-Mutti-schuld.html

Erbgut entschlüsselt
Wir sind alle ein bißchen Neandertaler
Von Cinthia Briseño
Ein zentrales Rätsel in der Evolution des Menschen ist gelüftet: Im Erbgut des modernen Menschen finden sich Spuren des Neandertalers – die beiden Arten haben sich vor Jahrtausenden tatsächlich gepaart. Anthropologen erhoffen sich von der nun veröffentlichten Genomsequenz neue Erkenntnisse.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,692855,00.html

Sachsen
Archäologen finden älteste Holznägel der Welt
Heimwerker gab es schon in der Jungsteinzeit. Archäologen haben nahe Leipzig die bisher ältesten Holznägel der Welt ausgegraben. Sie waren Teil einer rund 7000 Jahre alten Brunnenkonstruktion, die noch weitere spannende Funde verbarg.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,693600,00.html

US-Ölkatastrophe
Mit Gift gegen Gift
Aus New Orleans berichtet Marc Pitzke
Bisher gibt es nur eine Waffe im Kampf gegen die Ölpest im Golf von Mexiko: eine Chemikalie namens Corexit, die das Öl zersetzt. Rund eine Million Liter wurden bereits ins Meer gekippt. Doch Experten befürchten, daß die Flüssigkeit für die Umwelt schlimmer sein könnte als das Öl selbst.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,693566,00.html

Satellitenbild der Woche
Eyjafjallajökull ist wieder heiß wie ein Vulkan
Islands Vulkan Eyjafjallajökull findet zu alter Explosivität zurück: Nach einer Phase relativer Ruhe strömt wieder mehr Gletscherwasser in den Krater und führt zu heftigen Eruptionen. Ein Satellitenbild zeigt, wie die Aschewolke erneut zu riesiger Größe anschwillt.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,693563,00.html

„Survival“-Nahrung für Hartgesottene. Bear Grylls in Aktion ... ;-)
Man vs. Wild –Eating Giant Larva
http://www.youtube.com/watch?v=QuB3kr3ckYE

Neue Plattenbauten
http://www.sezession.de/14155/neue-plattenbauten.html

Griechisches Faß ohne Boden
http://www.sezession.de/14441/griechisches-fass-ohne-boden.html

Best of Netz gegen Nazis (Fundstücke 10)
http://www.sezession.de/14383/best-of-netz-gegen-nazis-fundstuecke-10.html

Michail Bulgakow: Hundeherz
http://www.sezession.de/13943/michail-bulgakow-hundeherz.html

Troisième guerre de l'opium

Troisième Guerre de l’opium

Certains critiques, particulièrement sarcastiques, affirment que la guerre en Afghani­stan est certes sans espoir, mais qu’elle protège pour le moins la culture du pavot [sur] l’Hindou Kouch. C’est ne voir cette culture que comme une conséquence de la guerre, alors qu’il apparaît clairement qu’il s’agit d’un des objectifs de guerre des Etats-Unis.

Ex: http://fortune.fdesouche.com/

Carte par provinces, combinant risques pour la sécurité (plus la couleur est foncée, plus le risque est élevé) et culture du pavot à opium (en hectares). Source : ONU

93% de l’opium cultivé dans le monde, servant à la production de morphine et d’héroïne, viennent d’Afghanistan.

En 2007, il s’agissait de 8.200 tonnes, l’année suivante on en était à 8.300 ; la récolte de l’année dernière fut moindre, du fait d’une mauvaise récolte, il n’existe pas encore de données chiffrées.

Selon les Nations Unies, 95% de l’opium afghan sont transformés en héroïne, donnant ainsi 80 tonnes d’héroïne pure. Près de la moitié, soit plus de 35 tonnes, fut introduite en 2009 en Russie (selon des sources convergentes de l’ONU et de la police des stupéfiants russe). On peut supposer – car il n’existe pas de données concrètes – qu’une bonne partie est transportée plus loin, notamment dans les centres urbains de la Répu­blique populaire de Chine.

Il est donc déposé, rien qu’en Russie, trois fois autant d’héroïne qu’aux Etats-Unis, au Canada et en Europe. Victor Ivanov, directeur du Service fédéral de contrôle de la drogue (en russe : FSKN) déclara au Conseil OTAN-Russie (COR), le 23 mars à Bru­xelles, que le déferlement de drogue venant d’Afghanistan dépasse tout ce qu’on peut imaginer.

Un million de personnes auraient succombé depuis 2001 (lorsque la guerre fut déclenchée et l’Afghanistan occupé par les troupes des Etats-Unis et de l’OTAN) du fait des produits opiacés venant de l’Hindou Kouch. Selon Ivanov : «Toutes les familles sont touchées directement ou indirectement.» 21% de l’héroïne répandue dans le monde, venant d’Afghanistan, ont été déposés sur les marchés noirs de Russie, et malgré tous les efforts entrepris par Moscou, la tendance est croissante.

Si l’on ajoute à ces 21% les données concrètes de l’ONU (production mondiale de 86 tonnes d’héroïne), on peut estimer que les consommateurs russes auraient con­sommé 18 tonnes de drogue, venues de l’héro­ïne – que 17 autres tonnes de l’héroïne pure déversée en Russie auraient été transportées en Chine.

On comprend pourquoi Moscou et Pékin conclurent, il y a trois ans, un accord de coopération transfrontalière dans la lutte contre le déferlement de drogue. Le com­merce de la drogue menace la santé publique, de même que la stabilité économique et de politique intérieure des deux Etats.

Le directeur du service de la santé russe, Dr Gennadij Onichtchenko, a déclaré qu’en Russie mouraient chaque année, du fait de la consommation de surdoses d’héroïne, entre 30.000 et 40.000 jeunes gens. A cela il fallait ajouter 70.000 décès dus aux mala­dies collatérales provoquées par une surcon­sommation de drogue (Sida, septicémie, etc.). On estime à 2 millions, voire 2 millions et demi, d’individus des jeunes générations entre 18 et 39 ans étant accrochés à la drogue, 550.000 sont enregistrés officiellement. Chaque année, 75.000 nouveaux toxicomanes apparaissent, essentiellement des étudiants et de jeunes diplômés.

Peut-on déjà parler d’une décapitation de l’élite intellectuelle de la Russie ? Les toxicomanes russes dépensent chaque année l’équivalent de 17 milliards de dollars pour se procurer de l’héroïne, selon l’agence de presse RIA Novosti. La police a démantelé, rien qu’en mars de cette année, 200 laboratoires servant à préparer l’héroïne pour la vente à ciel ouvert.

Les républiques d’Asie centrale et le Pakistan ont à souffrir des mêmes maux que la Russie. Dans ces pays, on assiste à une connexion entre la contrebande de drogue et la dissémination du sida, comme c’est le cas en Iran depuis des décennies.

L’héroïne destinée à la Russie, venant d’Afghanistan, passe par le Tadjikistan ou par l’Ouzbekhistan (les deux pays se trouvant sous l’influence des Etats-Unis).

On se permet de supposer que les services secrets américains organisent eux-mêmes ce trafic. Il est vrai qu’Ivanov avait proposé au Conseil OTAN-Russie, à Bruxelles, de faire détruire au moins 25% des surfaces afghanes de cul­ture de l’opium. Cependant, l’OTAN, dominée par les Etats-Unis, refusa. James Appathurai, porte-parole de l’OTAN, s’exprima cyniquement envers les journalistes: «Nous ne pouvons pas anéantir la seule source de revenus pour des gens qui vivent dans le deu­xième pays le plus pauvre du monde, alors que nous n’avons pas d’alternative à leur offrir.»

Un mensonge effronté. Les Etats-Unis et leurs vassaux, non seulement mènent une «guerre contre le terrorisme» dans l’Hindou Kouch (dans un intérêt géostratégique et en vue de matières premières et de transfert d’énergie), mais en plus, ils soutiennent ouvertement les bases de revenus des paysans afghans cultivant le pavot.

Avant la guerre, sous le régime des Talibans, la culture du pavot en Afghanistan était étroitement contrôlée. Le pavot n’était autorisé que comme aliment. Qui le transformait en drogue, et diffusait celle-ci, risquait la peine de mort. La part de vente d’héroïne sur le marché mondial ne dépassait pas les 5%. Cela étant, les paysans afghans n’étaient pas plus pauvres qu’aujourd’hui.

Il en alla de même lors de l’attaque soviétique et du gouvernement communiste en Afghanistan, la production de drogue étant réduite à sa plus simple expression. Elle ne prit son élan que lors de la subversion causée par les Etats-Unis (soutien et armement des Moudjahidin du peuple, ce qui donna plus tard les Talibans).

Le marché afghan vendit, l’année der­nière, du pavot pour 3,4 milliards de dollars US (source : J. Mercille de l’Université de Dublin). Les paysans n’en gardèrent que 21% ; les 75% restant furent encaissés par les alliés corrompus des Etats-Unis et par l’OTAN : des fonctionnaires gouvernementaux, la police locale, des marchands régionaux et des transitaires. 4% revinrent, comme de bien entendu, aux Talibans, sous l’œil bienveillant de l’OTAN. Car l’ennemi doit être maintenu en vie – dans l’intérêt d’une présence sans faille des Etats-Unis. Comprenne qui pourra !

La Russie en appelle en vain aux décisions de l’ONU, qui contraignent tous les Etats de s’engager contre le marché noir de la drogue. On comprend alors la colère d’Ivanov envers le secrétaire général de l’OTAN, Anders Fogh Rasmussen, à Bruxelles, l’OTAN s’étant tout simplement refusé d’entreprendre quoi que ce fût contre la culture du pavot en Afghanistan.

Cela rappelle, en plus moderne (menée cette fois-ci par les Etats-Unis), la «Guerre de l’opium», menée dans les mêmes buts que ceux des Anglais lors des première et deuxième Guerres de l’opium (1839–1842 et 1856–1860) contre l’empire chinois de la dynastie des Qing. L’imposition de l’opium à l’Empire du Milieu provoqua, comme on le sait, la désintégration totale de la société chinoise et une instabilité politique à l’intérieur du pays, dont le résultat fut la Révolte des Boxers en 1900 – la révolte souhaitée par les Européens, leur donnant le prétexte pour l’invasion.

Les Nations Unies pourraient maintenant mettre en route leur mandat FIAS, par lequel ils ont légitimé, après coup, l’intervention de l’OTAN en Afghanistan, afin de renforcer la lutte contre la culture du pavot et d’offrir une véritable alternative, par des cultures dans le sens d’une vraie aide dans la reconstruction. Cela contraindrait les forces d’occupation des Etats-Unis et de l’OTAN à faire cesser la production d’opium. Jusqu’à présent, on n’a pas vu une telle résolution. Ce qui laisse aussi rêveur.

L’opium, et son dérivé l’héroïne, attaquent les êtres humains jusque dans leurs tréfonds génétiques. Comme à l’époque dans l’empire de Chine, cela se passe aujourd’hui en Russie, dans la République populaire de Chine et chez leurs voisins. Washington et l’OTAN utilisent l’arme de la drogue, un poison qui a fait ses preuves, contre leurs deux principaux concurrents, Moscou et Pékin. C’est un combat fondamental dans la guerre d’Afghanistan, mais dont on ne parle pour ainsi dire pas ouvertement.

Horizons et débats

Léon Daudet ou "le libre réactionnaire"

Leon-Daudet.jpgArchives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1988

 

Un livre d'Eric Vatré: Léon Daudet ou  "le libre réactionnaire"

 

par Jacques d'ARRIBEHAUDE

 

Eric Vatré est en train de se faire une spécialité dans la biographie, art difficile et ingrat où les Français pa-raissent souvent légers devant les gigantesques tra-vaux d'érudition des chercheurs anglo-saxons. La personnalité de Léon Daudet est ici bien évoquée. Une des plumes les plus alertes, les plus vives, les plus cinglantes de la critique littéraire de ce premier demi-siècle. Un grand et passionné remueur d'idées et d'opinions, d'une liberté de ton absolue au service d'une pensée résolument hostile à ce qu'on a appelé depuis "l'idéologie dominante".

 

D'où le titre choisi par Vatré, à mon avis un pléonasme, car on imagine mal un réactionnaire qui ne choisirait pas librement d'être à contre-courant de ce qu'il aurait tout avantage à courtiser à longueur de colonnes, à l'exemple de l'ordinaire racaille journalistique contemporaine.

 

Vatré constate, sans vraiment l'expliquer, l'énigme d'une "Action Française" où cohabitent Maurras, apôtre farouche et sourd de la France seule et de sa prétendue supériorité intellectuelle, et Daudet, autre-ment ouvert, féru de Shakespeare, enthousiaste de Proust et de Céline, sensible à la peinture, à la musique, aux souffles poétiques venus d'ailleurs, là où Maurras, fossilisé dans ses plâtres académiques, sonne éperdument le clairon des grandeurs mortes dans le saint pré-carré du monarque introuvable.

 

Au total, Daudet, l'un des hommes au monde les moins doués pour l'action, et, en ce sens, une belle figure de cette IIIème République qu'il haïssait, et dont les ténors parlementaires ventripotents, crasseux et barbichus, si ridicules qu'ils fussent, sem-blent des aigles prodigieux comparés à nos politiciens actuels.

 

A lire et à relire avec le plus grand profit, pour plus de renseignements sur cette époque sans pareille, Les Décombres  de Lucien Rebatet.

 

Jacques d'ARRIBEHAUDE.

 

Eric VATRE, Léon Daudet ou le "libre réaction-nai-re",  Editions France-Empire, 1987, 350 pages, 110 FF.

 

 

lundi, 10 mai 2010

L'EUROMILLION grec

L'EUROMILLION GREC
Chronique hebdomadaire de Philippe Randa

greek_riots.jpgLes experts, du haut de leurs brillants diplômes obtenus à la sueur de très coûteuses études, appréhendent parfaitement la grave crise économique qui frappe la Grèce. Ils la commentent, d’ailleurs et comme toujours, fort savamment. Avec des mots, des comparaisons, des réflexions et des prévisions dont ils ont seuls le secret. Et qu’importe s’ils disent aujourd’hui le contraire de ce qu’ils affirmaient il y a peu et que les faits démentent demain leurs certitudes actuelles. Ils sauront tout aussi excellement démontrer qu’ils l’avaient annoncé et que le commun des mortels ne les a pas bien compris.
C’est que le commun des mortels n’est pas un expert, lui. Rare est celui qui partage avec eux les secrets économiques du monde. Est-ce bien d’ailleurs de sa faute puisqu’on le repaît plus facilement avec ceux des d’alcôves des princes qui nous gouvernent ?
Mais, tout de même, le commun des mortels finit par s’interroger. Comment la France dont le Premier ministre François Fillon révélait en avril 2008 que “les caisses sont vides depuis trente-trois ans”(1), qui prévoyait – ce qui ne mange jamais de pain, surtout noir – un retour à l’équilibre budgétaire en… 2012 – et dont rien ne laisse à penser qu’elles ont été remplies depuis lors – peut-elle “prêter”, sur trois ans, quelques 16,8 milliards d’euros ?
Comment ? En empruntant, bien sûr, mais des emprunts qui “ne creuseront pas les déficits publics (État, comptes sociaux, collectivités locales) déjà très lourds de la France”…
C’est peut-être vrai, mais en la circonstance, il aurait été plus honnête de reconnaître qu’on allait surtout “s’enrichir en s’endettant” contrairement aux solennelles déclarations des États qui entendent “aider” la Grèce au nom de la solidarité européenne !
Cette opération sera en effet bénéfique à la France qui empruntera à environ 3 % et prêtera à 5 % à nos bons amis hellènes. Soit un gain de quelques 150 millions d’euros !
Au Parlement européen, Daniel Cohn-Bendit a mis les pieds dans le plat en fustigeant une telle hypocrisie : “On fait de l’argent sur le dos de la Grèce. C’est intolérable”.
Intolérable sans doute… On savait déjà qu’“impossible n’est pas français”, on apprend désormais que c’est encore moins européen !
Reconnaissons alors que le plan d’aide financière à la Grèce, approuvé par l’Union européenne et le Fonds monétaire international (FMI), n’est rien d’autre qu’un plan de business financier… et on comprendra peut-être mieux pourquoi les Grecs, malgré la douteuse réputation qu’on leur prête, goûtent fort peu les derniers outrages économiques qu’on entend leur faire subir.

NOTE
(1) Interview de François Fillon, Premier ministre, à France Inter le 1er avril 2008, sur la situation financière de la France.