mardi, 06 juillet 2010
Florenskij, nozze mistiche tra fede e scienza
Florenskij, nozze mistiche tra fede e scienza
di Marcello Veneziani
Fonte: il giornale [scheda fonte]

Tornano le opere più importanti del filosofo e sacerdote russo fucilato nei gulag nel 1937 perché anti-materialista. La sua figura e i suoi scritti dimostrano come si possano conciliare i dogmi religiosi con i principi della matematica
La mente eroica di cui parlava Vico si incarna nel filosofo, scienziato e mistico russo, fucilato nell’Unione sovietica nel giorno dell’Immacolata, nel 1937, dopo anni di gulag. Ho davanti agli occhi la ristampa recente de La colonna e il fondamento della verità di Pavel Florenskij (San Paolo, pagg. 816, euro 64), il ponderoso capolavoro pubblicato nel 1914 e uscito la prima volta in Italia nel 1974 grazie a Elémire Zolla e Alfredo Cattabiani, che allora dirigeva la Rusconi libri. L’edizione italiana precedette anche quella russa del 1990, dopo la caduta del Muro. Colpisce in copertina il suo sguardo metafisico, i suoi occhi sono il riassunto esistenziale della sua fede e del suo pensiero, guardano dentro e altrove.
Fa impressione in questo testo il suo lucido e implacabile argomentare scientifico e matematico, il rigore della sua filosofia, la vastità della sua cultura, uniti a una fede assoluta in Dio, nel dogma trinitario, e una totale devozione alla Madonna. Lui presbitero della Chiesa ortodossa, padre di cinque figli e insieme autore di importanti scoperte scientifiche. Al punto da essere costretto dal regime comunista a continuare la sua ricerca scientifica tra lavori forzati, torture e gulag. Ma come egli stesso scrisse: «Il destino della grandezza è la sofferenza, causata dal mondo esterno e dalla sofferenza interiore».
Eppure Florenskij, nato in Caucaso il 1882, proveniva da una famiglia laica, di cultura positivista, e approdò con gli anni alla fede in Cristo e in Dio, quando discese in lui lo Spirito Santo, come amava dire, conservando tuttavia «la carnalità del pensiero» e l’attitudine alla matematica e alla fisica. Ma Florenskij visse tra antinomie fortemente marcate e le teorizzò alla luce della fede e del pensiero. A cominciare dalla prima radicale antinomia: «La verità è irraggiungibile - non si può vivere senza la verità». Arrivando a scegliere la Verità indipendentemente se sia possibile: «Io non so se la Verità esista o meno, ma con tutto il mio essere sento che non posso farne a meno, so che, se esiste per me è tutto: ragione, bene, forza, vita, felicità. Forse non esiste ma io l’amo più di tutto ciò che esiste... Metto nelle mani della verità il mio destino».
L’opera di Florenskij è percorsa dal pensiero simbolico («Per tutta la vita ho pensato a una sola cosa... il simbolo»), dal valore magico della parola, della bellezza e della liturgia e dal valore sacro della memoria, che è la presenza nel tempo dell’eternità. A cominciare dalla memoria dell’infanzia, che per Pavel aveva il duplice incanto di percepire integralmente la realtà e insieme di penetrare nella favola profonda del mondo. Il segreto della genialità, sosteneva, sta proprio nel saper custodire la disposizione d’animo dell’infanzia.
L’opera di Florenskij, amata in Italia da Augusto Del Noce e da Sergio Quinzio, da Padre Mancini e da Cristina Campo, ma prediletta anche da Massimo Cacciari, rivede la luce grazie al lavoro di Natalino Valentini, che ha curato anche altre opere di Florenskij dedicate al simbolo, a Bellezza e liturgia, fino alle memorie dedicate Ai miei figli o le lettere dal Gulag, dal titolo evocatore Non dimenticatemi (tutte disponibili negli Oscar Mondadori).
Resta il mistero di un matematico che fu sacerdote, di un mistico che fu uno scienziato. Come è possibile la ricerca scientifica se si è abbagliati dalla Verità divina e dal dogma trinitario, obietta il comune senso laico. Si può essere ingegneri, elettrificare la Russia e insieme sostenere che non c’è scampo tra «la ricerca della Trinità o la morte nella pazzia», studiare la Natura al microscopio e insieme pregare la Madonna “deipara”, come lui la definisce? L’opera di Florenskij sta a dimostrare che è possibile, anzi suggerisce che il pensiero di Dio può potenziare la vita e la scienza anziché mortificarli. La ricerca del mistero può suscitare la passione della ricerca scientifica perché spinge oltre i confini del risaputo. Florenskij non si accontentava delle regolarità delle leggi naturali, perché ricercava sempre l’eccezione, l’inspiegabile: la sua vocazione alla mistica, al miracolo e al mistero diventava così la molla per l’indagine scientifica, per la scoperta e per il calcolo matematico. L’amore per il soprannaturale lo spingeva a non fermarsi all’evidenza, alle leggi ripetitive della natura ma a cercare, tramite l’eccezione, l’irruzione del noumeno nel fenomeno. «Fu il Disegno Divino a educarmi alla trepidazione di fronte ai fenomeni» e alla ricerca. La fede apriva in lui gli orizzonti dell’intelligenza anziché precluderli.
Resta stridente il contrasto tra il pensiero mistico, la vita ascetica di Florenskij e il nostro mondo e il nostro tempo. Ma come egli stesso scrive: «Gli asceti della Chiesa sono vivi per i vivi e morti per i morti».
Di Florenskij in Russia non restarono neanche le spoglie. Nel luglio del 1997 furono ritrovate le fosse comuni di prigionieri delle isole Solovki dov’era detenuto Florenskij. In una delle sue ultime lettere dal gulag, Florenskij scriveva: «La vita vola via come un sogno e spesso non riesci a far nulla prima che ti sfugga l’istante nella sua pienezza. Per questo è fondamentale apprendere l’arte del vivere, tra tutte la più ardua ed essenziale. Colmare ogni istante di un contenuto sostanziale, nella consapevolezza che esso non si ripeterà mai più come tale». Pavel, Padre e Maestro.
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
00:10 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, mystique, russie, lettres russes, littérature russe, lettres, littérature | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
lundi, 05 juillet 2010
Désamorçons l'arme de la finance globaliste!
Rolf STOLZ:
Désamorçons l’arme de la finance globaliste!
L’homme ne vit pas seulement de pain. Mais il en vit! La vieille sentence qui veut que l’économie soit notre destin devient d’autant plus valide lorsqu’une chancelière, tout en dilettantisme, se révèle personnellement comme une fatalité. L’économie s’avère souvent alambiquée, pour le commun des mortels, elle est constituée d’arcanes mystérieuses. Même les grands fiscalistes et capitaines d’industrie ne peuvent la gérer que très partiellement. Pourtant aucune personne dotée de rationalité n’ira jusqu’à dire que l’économie est aussi peu influençable que la météo ou le tirage des numéros du loto.
Le citoyen lambda ne peut certes pas intervenir dans le déroulement de l’économie avec autant de poids et de capitaux que l’investisseur américain George Soros mais, malgré cela, il peut agir sur l’économie, du moins de manière indirecte ou graduelle par son engagement politique. Les fanatiques du monde unifié sous l’égide du globalisme lui diront qu’il n’y a plus possibilité, aujourd’hui, de gérer des économies limitées à une seule nation, dotées d’une forte dose d’autonomie. Cette affirmation impavide nous est assénée à longueur de journées malgré que le processus de la globalisation s’avère nettement contradictoire et incohérent et n’a pas pu créer, et ne créera pas, un monde globalisé à 100% .
Les prédicateurs qui nous annoncent le paradis néo-libéral, où il n’y aura plus que du profit à l’horizon, font usage d’un vieux truc de démagogue: ils posent l’équation entre un fait (l’imbrication mondiale par la globalisation) avec une idéologie très douteuse (celle du globalisme). La méthode ressemble à celle utilisée par les néo-staliniens: ceux-ci partent de la nécessaire orientation de l’économie vers l’action sociale pour mélanger cette nécessité à leurs idées fixes qu’ils baptisent socialisme. De cette manière, toute critique à l’encontre de leurs utopies est jugée comme l’expression d’une “absence de coeur”.
A la base du globalisme se trouve une idée dépourvue de tout développement dialectique potentiel, une idée qui veut que des ensembles économiques de plus en plus grands et de plus en plus centralisés soient une valeur en soi, que tout doit absolument être exportable, importable ou achetable et qu’un gouvernement mondial tout-puissant constitue à terme l’objectif le plus élevé à atteindre. Dans les faits, selon les tenants de cette idéologie globaliste, les Etats nationaux démocratiques, et avec eux, la démocratie en soi, devraient être réduits à exercer les seules fonctions restantes, celles qui ne relèvent pas de l’économie et sont dès lors posées comme mineures ou subalternes, non génératrices de profits. Deux camps s’opposent: ceux qui, via l’eurocratie installée à Bruxelles, via Wall Street et la Banque Mondiale, veulent faire éponger par les peuples l’éclatement de la bulle spéculative; et ceux qui entendent organiser la résistance des nations et des autonomies humaines contre le pillage des hommes, des matières premières et de la biosphère. “Nous nous sommes approchés très très près d’une implosion totale et globale de la sphère financière” a déclaré Bernanke, chef de la banque d’émission américaine lors de la débâcle de Lehman-Brothers. Ou bien les Etats parviendront à désamorcer les bombes atomiques financières qui menacent de nous exploser au nez ou bien celles-ci nous éclateront à la figure lors des prochaines guerres économiques.
Rolf STOLZ.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°26/2010).
Rolf Stolz fut l’un des co-fondateurs du mouvement des “Verts” allemands. Il vit aujourd’hui à Cologne et exerce le métier de journaliste libre de toute attache.
00:21 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : globalisme, globalisation, économie, finances, crise, politique internationale | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
Se Cioran il nichilista scopre l'amore assoluto
Se Cioran il nichilista scopre l'amore assoluto
di Mario Bernardi Guardi
Fonte: secolo d'italia
Se c'è uno scrittore che, per la sua vocazione apocalittica e il suo moralismo bruciante, cupo e derisorio, si presta a definizioni "tranchant", questo è Emil Michel Cioran. Di volta in volta battezzato "barbaro dei Carpazi", "eremita antimoderno", "esteta della catastrofe", "apolide metafisico", "cavaliere del malumore cosmico". Ma anche lui, da buon Narciso, ci ricamava sopra e sulla sua "carta di identità" scriveva cose come "idolatra del dubbio", "dubitatore in ebollizione", "dubitatore in trance", "fanatico senza culto", "eroe dell'ondeggiamento". Ora, raccontare Cioran significa fare i conti con tutti questi appellativi e prendere atto che la loro indubbia suggestione trova punti di forza in una vita per tanti versi scandalosa...
Visto che prima del Cioran "parigino"- è nel 1937 che il Nostro approda in Francia -, capace di confezionare le sue aureee sentenze nihilistico-gnostiche in un brillantissimo francese, c'è un Cioran duro e puro, di fiera stirpe rumena, che fa propri i miti del radicamento e dell'identità, simpatizzando per il fascismo di Codreanu e delle sue Guardie di Ferro, e scrivendo un bel po' di cose "compromettenti". Di questo, Antonio Castronuovo in un agile profilo pubblicato da Liguori, Emil Michel Cioran (pp.100, euro 11,90), dà solo rapidi cenni, ricordando che, comunque, Emil Michel dedica un intero capitolo del suo "Sommario di decomposizione", alla "Genealogia del fanatismo", collocandosi così "all'opposto delle fascinazioni giovanili". E cioè delle, chiamiamole così, "fascio-fascinazioni".
Ora, Castronuovo fa bene a ricordarci, con la consueta eleganza, il grande "stilista" e il grande "moralista", lo scrittore impertinente e beffardo che si interroga sul senso della vita e della morte, il chierico extravagante che cerca di stanare Dio dai suoi misteri e dai suoi abissali silenzi. E tuttavia siamo convinti che Cioran e altri "dannati" dello scorso secolo - Pound e Céline, Drieu e Heidegger, Eliade e Jünger, tanto per fare i primi nomi che ci vengono in mente - non debbano essere alleggeriti dalle loro "responsabilità" con la vecchia storia dei "peccati di gioventù", una specie di rituale giustificativo-assolutorio che li "disinfetta" e li rende "presentabili", ma toglie loro qualcosa, e cioè la "ragioni" di una scelta. Per scandalose che possano apparire alle "animule vagule blandule" del "politicamente corretto". Ed è per questo che, a suo tempo, non ci è dispiaciuto il saggio di Alexandra Laignel-Lavastine Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco nella bufera del secolo che, sia pure con una "vis" polemica non aliena da faziosità, si sforza di illuminare/documentare le stazioni di una milizia intellettuale che sarebbe sbagliato ignorare o sottovalutare. Non si può esaurire la forza testimoniale di Cioran nell'ambito delle acuminate provocazioni, immaginandone la vita come una fiammeggiante costellazione di (coltissime) invettive. Sia dunque reso merito a Friedgard Thoma che ci racconta un Cioran innamorato (Per nulla al mondo. Un amore di Cioran, a cura e con un saggio di Massimo Carloni, (L'orecchio di Van Gogh, pp.160, € 14,00), addirittura un Cioran "maniaco sentimentale": un genio dell'aforisma, ma anche un umanissimo, fragile, tenero settantenne, tutto preso da lei, giovane insegnante tedesca di filosofia e letteratura, che, folgorata dalla lettura del libro L'inconveniente di essere nati, nel febbraio del 1981 gli ha scritto una calda lettera di ammirazione. C'è da stupirsi del fatto che Cioran non fosse "corazzato" di fronte ai complimenti di una donna intelligente e affascinante? Come, lui, l'apocalittico, così inerme, così indifeso! Eppure, in Sillogismi dell'amarezza è proprio il "barbaro dei Carpazi" a invitarci a tenere la guardia alta di fronte al vorticoso nichilismo degli "apocalittici" e magari a scavarvi dentro. «Diffidate - scrive - di quelli che voltano le spalle all'amore, all'ambizione, alla società. Si vendicheranno di avervi "rinunciato". La storia delle idee è la storia del rancore dei solitari». Dunque, Cioran, uomo di idee ma anche di emozioni, compiaciuto per quella lettera affettuosa, risponde immediatamente alla sua "fan", con un mezzo invito ad andarlo a trovare a Parigi.
Lei, che ci tiene ad essere una interlocutrice culturale e cita Walser, Hölderlin e Gombrowicz, non manca di allegare alla risposta una sua foto. E siccome si tratta di una donna giovane - capelli sciolti, bocca carnosa, sguardo intenso -, le coeur en hiver di Cioran comincia a battere furiosamente. Lui stesso le confesserà un paio di mesi dopo: «Tutto in fondo è cominciato dalla foto, con i suoi occhi direi». E' una tempesta dei sensi, un'"eruzione emotiva". Ancor più incontrollabile, allorché lei decide di trascorrere qualche giorno a Parigi. Lui va a prenderla all'hotel e arriva dieci minuti prima: è «un uomo di costituzione fragile, con un ciuffo di capelli grigi, arruffati, e gli occhi dello stesso colore». Lei «cerca di apparire attraente, indossando un abito nero non troppo corto, sotto un lungo cappotto chiaro». Seguono conversazioni, passeggiate, cene, visite a musei, telefonate… Cioran vive una sorta di voluttuoso invasamento, al punto che, quando lei torna a Colonia, le scrive con spudorata audacia: «Ho compreso in maniera chiara di sentirmi legato sensualmente a lei solo dopo averle confessato al telefono che avrei voluto sprofondare per sempre la mia testa sotto la sua gonna». Poi, è lui ad andarla a trovare in Germania. «Vestita di rosso e nero», Friedgard lo accoglie alla stazione. Lui è innamorato pèrso, lei, sedotta intellettualmente, continua a sedurlo fisicamente, senza nulla concedere. Lui soffre, la chiama «mia cara zingara», le scrive: «Non capisco cosa sto cercando ancora in questo mondo, dove la felicità mi rende ancora più infelice dell'infelicità». Friedgard vuol tenere intatte "venerazione e amicizia", parlando di autori e di libri, entrando nella sua intimità, portando alla luce le sue contraddizioni. Ma confessando anche, con franchezza: «Dunque, caro: lei mi ha trascinato nell'immediatezza inequivocabile d'una relazione fisica, mentre io cercavo l'erotica ambiguità della relazione "intellettuale"». Proprio quella che a Cioran non basta. È innamorato, desidera la giovane prof. con una sensualità "vorace", le fa scenate di gelosia perché lei, ovviamente, ha un "compagno" cui è legata.
Non manca nemmeno la proposta di matrimonio. Friedgard annota: «Al telefono, Cioran si dilettava volentieri con la proposta di sposarmi, contro tutti i suoi principi, addirittura secondo il rito ortodosso ("su questo devo insistere"), il che per lui significava essere cinti entrambi da corone. Quante risate, su un sogno triste». Un sogno che, così, non poteva continuare. La non appagata, sofferta, estrema accensione dei sensi di Emil «s'incanalerà negli anni lungo i binari d'una tenera, affettuosa amicizia». Nella cui calma piatta si spengerà fatalmente la "tentazione di esistere", carne e spirito almeno una volta insieme.
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
00:11 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : france, roumanie, cioran, lettres, littérature, philosophie, lettres françaises, lettres roumaines, littérature française, littérature roumaine, pessimisme, amour, amour absolu | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
dimanche, 04 juillet 2010
La Chine se découple du dollar
La Chine se découple du dollar
Une semaine avant le sommet du G20 au Canada, la Banque Centrale Chinoise (BCC) a annoncé qu’elle assouplirait voire relâcherait les liens qui unissent le Renminbi (le Yuan) au dollar américain. La Banque centrale chinoise exclut toutefois une réévalution hâtée ou unique. Le cours des changes serait ainsi “maintenu à un niveau raisonnable et équilibré, ce qui lui apportera une stabilité fondamentale”, a dit le porte-paroles de la BCC. Les fluctuations dans le cours des changes ne pourront s’effectuer que dans un “corridor” de 0,5% par jour. Le 21 juin, le cours du change était de 6,80 renminbi pour 1 dollar américain, ce qui est un record. La semaine précédente, le cours du change était de 6,82 renminbi. Jusqu’en 2005, la Chine avait maintenu le cours de manière constante à 8,28 renminbi pour 1$, en achetant des masses de billets verts. Ensuite, dans les années qui suivirent, la BCC avait autorisé une réévaluation continuelle de la monnaie chinoise. En 2008, elle avait gelé le change à cause de la crise financière mondiale à environ 6,83 renminbi.
(source: “Junge Freiheit”, Berlin, n°26/2010).
00:15 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : politique internationale, chine, dollar, devises, finances, économie, extrême orient, asie, affaires asiatiques, etats-unis | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
Le élites di Washington sono molto préoccupate per i nuovi blocchi anti-egemonici
Le élites di Whashington sono molto preoccupate per i nuovi blocchi anti-egemonici
di Pepe Escobar - Salvador Lopez Arnal
Fonte: Come Don Chisciotte [scheda fonte]
Lentamente ma energicamente il popolo del Sud si organizza e si prepara politicamente non solo per frenare l'imperialismo militarista e bellicista degli Stati Uniti ma anche per mettere fine all'ipocrisia dell'abuso di dominazione neo-coloniale da parte delle potenze industriali europee, con le loro addormentate società civili. Frenare le ingiustizie a cui sono sottomessi numerosi popoli in pieno ventunesimo secolo, rispetto e mutua reciprocità sono i nuovi dogmi. In questa intervista, il nostro collega Pepe Escobar analizza il modo in cui alcuni paesi emergenti, come il Brasile, la Turchia o l'India, stanno organizzando una nuova era di relazioni armoniche e rispettose fra i popoli.
Domanda: in un recente articolo pubblicato da Asia Times Online [1], tradotto da Sinfo Fernández di Rebelión, lei parlava della dominatrice. Mi permetta di complimentarmi per la sua trovata terminologica. Perché lei crede che la Segreteria di Stato statunitense (Hillary Clinton) si adatti bene a questo termine? Non sono migliorate le forme di politica estera degli Stati Uniti nell'amministrazione Obama?
Pepe Escobar: Hillary è una dominatrice nel senso che è capace di soggiogare tutto il Consiglio di Sicurezza dell'ONU invece di ammettere il fallimento della sua diplomazia. Forse lo ha imparato con Bill... O forse sono tutti masochisti.
No, non è così. La ragione principale è che la Cina e la Russia si lasciarono dominare. Cina e Russia decisero che era meglio lasciare la stridula Hillary dominare il palco per qualche giorno, e lavorare in silenzio per raggiungere il loro obiettivo: porre sanzioni con il massimo sentore “light” su Teherán. Per ciò che riguarda l'Iran, gli Stati Uniti sono ciechi, lo vedono tutto rosso. Lo stesso può dirsi in relazione a Israele, lo vedono tutto bianco celestiale.
Domanda: il nodo centrale del suo recente articolo – «Irán, Sun Tzu y la dominatrix» [2] [Traduzione Comedonchisciotte N.d.r] – è l'accordo fra le diplomazie di Brasile, Turchia e Iran sul tema dello sviluppo nucleare di quest'ultimo Paese. In cosa consiste questo accordo?
Pepe Escobar: è essenzialmente lo stesso accordo proposto dagli stessi statunitensi nell'ottobre del 2009. La differenza sta nel fatto che, secondo la proposta del 2009, l'arricchimento dell'uranio si realizzava in Francia e in Russia e ora, attraverso l'accordo, si effettuerà in Turchia.
La differenza fondamentale è nel metodo. Turchia e Brasile si sono comportate con diplomazia, senza polemiche e rispettando le ragioni iraniane. Altro dettaglio fondamentale: tutto quello che hanno fatto era già stato discusso in dettaglio a Washington. Quando è stato presentato un risultato concreto, quando è stato raggiunto l'accordo con l'Iran, Washington, mi permetta la metafora bellica, ha sparato loro un colpo nelle costole.
Domanda: non è una novità nella diplomazia internazionale che Brasile e Turchia, due paesi non contrapposti agli Stati Uniti, si mettano in gioco in questa faccenda? Perché lei crede che abbiano scommesso su questa strategia autonoma? Cosa vincerebbero? L'Iran non è forse lontano, molto lontano, dal Brasile?
Pepe Escobar: ogni Paese ha i suoi motivi per espandere la propria mappa geopolitica. La Turchia si vuole proiettare come attore eccezionale, che conta davvero in Medio Oriente. Ne consegue una politica diciamo post-Ottomana, organizzata dal Ministro delle Relazioni Estere, il professor Ahmet Davutoglu.
Anche il Brasile, con una politica molto intelligente di Lula e del suo ministro Celso Amorim, vuole posizionarsi come mediatore onesto nel Medio Oriente. Il Brasile fa parte della BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) che secondo me è attualmente il vero contro-potere all'egemonia unilaterale degli Stati Uniti. Se circa due settimane fa ha discusso formalmente a Brasilia la sua adesione, la Turchia sarebbe parte del gruppo, il quale sarebbe quindi chiamato BRICT. Questa è la nuova realtà nella geopolitica globale. E, senza dubbio, le vecchie élites di Washington sono diventate livide.
Domanda: non sembra, come lei stesso segnalava, che l'accordo abbia suscitato entusiasmo nella Segreteria di Stato né nei governi europei. Perché? Vorrebbero che la strada diplomatica fallisca per proseguire con le loro sanzioni e condurci ad uno scenario bellico? Se è così, cosa guadagnerebbero con esso? Non ci sarebbero troppi fronti aperti allo stesso tempo?
Pepe Escobar: dalla prospettiva della politica interna degli Stati Uniti, quello che interessa a Washington è cambiare il regime. Ci sono almeno tre tendenze in lizza. I “realisti” e la sinistra del Partito Democratico che sono a favore del dialogo; l'ala del Pentagono e dei servizi di intelligence vogliono almeno delle sanzioni, e i repubblicani, i neocolonialisti, le lobby di Israele e la sezione Full Spectrum Dominance del Pentagono vogliono un cambio di regime sia come sia, inclusa la strada militare, se fosse necessario.
I governi europei sono cagnolini da compagnia di Bush o di Obama. Non servono a niente. Ci sono voci autorevoli in alcune capitali europee e a Bruxelles. Sanno che l'Europa ha bisogno del petrolio e del gas iraniano per non essere ostaggi di Gazprom. Ma sono una minoranza.
Domanda: lei crede che il Governo iraniano aspiri, oltre le sue dichiarazioni, a possedere un armamento nucleare? Per farsi rispettare? Per piegare Israele? Per attaccarla? Pakistan nucleare, India nucleare, Israele nucleare, Iran nucleare. Tutta questa zona non diventerebbe un'autentica polveriera?
Pepe Escobar: sono stato molte volte in Iran e mi sono convinto di quanto segue: il regime iraniano può causare rabbia ma non è un sistema suicida. Il leader supremo, in diverse occasioni, ha annunciato una fatwa affermando che l'arma nucleare è “non-islamica”. Le Guardie Rivoluzionarie supervisionano il programma nucleare iraniano, senza dubbio, ma sanno molto bene che le ispezioni e il controllo della IAEA, Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica, sono molto seri. Se punteranno a sviluppare una bomba atomica rudimentale, saranno scoperti e denunciati immediatamente.
Di fatto, l'Iran non ha bisogno di alcuna bomba atomica come elemento di dissuasione. Gli basta un arsenale militare high-tech, di tecnologia sempre più avanzata. L'unica soluzione giusta sarebbe una denuclearizzazione totale del Medio Oriente che Israele, ovviamente, con i suoi più di duecento missili nucleari, non accetterà e mai rispetterà.
Domanda: che ruolo gioca la Russia in questa situazione? Lei ricordava che l'impianto nucleare di Bushehr fu costruito dalla Russia, che lì si stanno si stanno svolgendo le ultime prove e che probabilmente si inaugurerà quest'estate.
Pepe Escobar: Bushehr deve essere inaugurata in agosto, dopo molti ritardi. Per la Russia l'Iran è un cliente privilegiato in termini nucleari e degli armamenti. Ai russi interessa che l'Iran continui in questo modo, che la situazione non cambi. Non vogliono l'Iran come potere nucleare militare. È una relazione con molti nodi, ma soprattutto commerciale.
Domanda: nel suo articolo lei cita il vecchio generale e stratega Sun Tzu. Ricorda un aforisma del filosofo cinese: “lascia che il tuo nemico commetta i suoi errori e non correggerli”. Lei afferma che Cina e Russia, maestri strateghi quali sono, stanno applicando questa massima rispetto agli Stati Uniti. Che errori stanno commettendo gli USA? Sono tanto goffi i suoi strateghi? Non hanno per caso letto Sun Tzu?
Pepe Escobar: tutti gli statunitensi ben educati nelle università hanno letto Sun Tzu. Altra cosa è saperlo applicare. Cina e Russia, in una strategia comune ai BRIC, si accordarono per lasciare gli Stati Uniti con l'illusione di condurre le sanzioni, nello stesso tempo in cui lavorarono e lavorano per minarle al massimo e approvare in ultima istanza un pacchetto di sanzioni molto “light”. Russia e Cina vogliono stabilità in Iran con il beneficio delle loro importanti relazioni commerciali. Nel caso della Cina, tenga in conto che l'Iran è un grande fornitore di gas e questo riguarda la massima sicurezza nazionale.
Domanda: siamo, lei riassume, in una situazione in cui sul tavolo dell'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica c'è un accordo di interscambio approvato dall'Iran, mentre nelle Nazioni Unite è in marcia un'offensiva di sanzioni contro l'Iran. Lei si domanda di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”. Io le domando: di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”?
Pepe Escobar: la vera “comunità internazionale”, i BRIC, i paesi del G-20, le 118 nazioni in sviluppo del Movimento dei non-allineati, insomma, tutto il mondo in sviluppo, sta con Brasile, Turchia e la loro diplomazia di non-opposizione. Solo gli Stati Uniti vogliono sanzioni e i suoi patetici, ideologici cani da compagnia europei.
Domanda: lei afferma anche che l'architettura della sicurezza globale, “vigilata da un pugno di temibili guardiani occidentali auto-nominati”, è in coma. L'Occidente “atlantista” affonda come il Titanic. Non esagera? Non confonde i suoi desideri con la realtà? Non c'è il pericolo reale che l'affondamento distrugga quasi tutto prima di affondare definitivamente?
Pepe Escobar: io ero già di fronte, con l'orrore di tutto il mondo, come per ora poter almeno credere nella possibilità di un nuovo ordine, delineato soprattutto dal G-20 e dai paesi del BRICT. Inclusa la T finale.
Il futuro economico è dell'Asia e il futuro politico è dell'Asia e delle grandi nazioni in via di sviluppo. È chiaro che le élites atlantiste rinunciano al loro potere solo dopo aver visto i propri cadaveri distesi per terra. Il Pentagono continuerà con la sua dottrina di guerra infinita. Però prima o poi non avrà come pagarla. Non nego che sia una possibilità che gli USA, in un futuro prossimo, sotto l'amministrazione di un pazzo repubblicano di estrema destra, entri in un periodo di guerra allucinata, sconvolta. Se così fosse, sarà senza dubbio la sua caduta, la caduta del nuovo Impero Romano.
Domanda: quale forte lobby degli USA è a favore della guerra infinita a cui si è appena riferito? Chi sostenta e finanzia questa lobby?
Pepe Escobar: La guerra infinita è la logica della Full Spectrum Dominance, la dottrina ufficiale del Pentagono, che include “l’encirclement” di Cina e Russia, la convinzione che questi paesi non possano emergere come ficcanaso e competitori degli USA, e inoltre fare tutti gli sforzi per controllare o almeno vigilare Eurasia. È la dottrina del Dr. Strangelove [3], però è anche la mentalità dei dirigenti militari statunitensi e della maggioranza del suo establishment. Il complesso industrial-militare non ha bisogno dell'economia civile per sostentarsi. Ha in elenco un'enorme quantità di politici e tutte le grandi corporazioni.
Domanda: lei parla della dottrina del Dr. Zbigniew “conquisteremo l'Eurasia”. Un'altra trovata, mi permetta un altro complimento. Il vecchio assessore alla sicurezza nazionale, lei segnala, sottolineò che “per la prima volta in tutta la storia umana, l'umanità si è svegliata politicamente -questa è una nuova e totale realtà- , una cosa mai successa prima”. Secondo lei è così? Che parte dell'umanità addormentata si è svegliata?
Pepe Escobar: per le élites statunitensi il dato essenziale è che Asia, America Latina e Africa stanno intervenendo politicamente nel mondo in un modo impensabile durante il colonialismo e che la decolonizzazione è, per loro, un incubo senza fine. Come dominare chi ora sa come comportarsi per non essere dominato di nuovo? È una domanda basilare.
Domanda: Washington, profondamente unilaterale, lei segnala, non esita a puntare l'indice fino al più vicino dei suoi amici. Perché? Sono per caso l'incarnazione dell'Asse del Male? Può essere raggiunta l'egemonia con procedimenti così poco gentili? Fino a quando?
Pepe Escobar: Non si può sottovalutare la crisi statunitense. È totale: economica, morale, culturale e politica. Ed anche militare perché furono distrutti in Iraq e sono al limite di un’umiliante sconfitta totale in Afganistan. Il nuovo secolo americano morì già nel 2001. L'11 settembre, oggi, si può interpretare come un messaggio apocalittico di fine.
Domanda: ma qual è uno degli attori principali della politica statunitense nel Vicino Oriente? Israele è addormentato? Quali sono i piani dei bulli di Gaza? [4]
Pepe Escobar: Israele si è convertito in quello che io chiamo “briccone” [birbante, o stato villano]. Sparta paranoica, etno-razzista, che ha la responsabilità della macchia profonda dell'apartheid. Israele sarà ogni volta più isolata dal mondo reale, protetta solo dagli USA, di cui è uno Stato-cliente. E il suo incubo, come se si trattasse di un film horror hollywoodiano, sarà il ritorno di ciò che è stato represso: la storia gli farà pagare per tutto l'orrore che ha perpetrato e continua a perpetrare contro i palestinesi.
Domanda: che opinione ha dell'azione di Israele dello scorso 30 maggio? Che senso può avere un attacco a dei pacifisti solidali con Gaza?
Pepe Escobar: fa parte della stessa logica di sempre. Abbiamo sempre ragione; quelli che sono contro le nostre politiche sono terroristi o antisemiti. Ora Israele è nella fase di difendere l'indifendibile: il blocco di Gaza.
È chiaro che ora tutto il mondo lo sa e non lo potrà più ingannare con le sue bugie, la Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele. Ma dubito, come nel caso degli Stati Uniti, che questa volta siano capaci di imparare la lezione.
Pepe Escobar [foto accanto al titolo N.d.r.], analista geopolitico. È autore di «Globalistan: How the Gbalizad World is Dissolving into Liquid War» (Nimble Books, 2007) e di «Red Zone Blues: a shapshot of Baghdad during the surge». Recentemente ha pubblicato «Obama does Globalistan» (Nimble Books, 2009), un libro che merita di essere tradotto (in spagnolo) con urgenza.
NOTE
[1] Fonte: http://www.atimes.com/atimes/Middle...
[2] http://www.rebelion.org/noticia.php..., 27 maggio 2010.
[3] Il film di S. Kubrick il cui titolo in italiano è “il Dottor Stranamore”, uno dei film preferiti di Manuel Sacristán.
[4] La domanda è stata formulata prima dell'attacco alla Flotilla della libertà e solidarietà. L'intervista termina con una domanda sull'attacco. “La Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele”, afferma Escobar.
Titolo originale: ""LA GUERRA INFINITA ES LA LÓGICA DE LA DOCTRINA OFICIAL DEL PENTÁGONO”"
Fonte: www.rebelion.org
Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=107156
04.05.2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GABRIELLA REHO
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

[Truppe statunitensi sparse per il mondo nel tentativo di ottenere una dominazione militare, oltre che economica. Il caso iracheno è esemplare. Si tratta di un’invasione per il petrolio, con il pretesto di difendersi da possibili armi nucleari che non sono mai state trovate.]
00:10 Publié dans Actualité, Entretiens, Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : entretiens, actualité, géopolitique, anti-hégémonisme, etats-unis, eurasie, eurasisme | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
samedi, 03 juillet 2010
"Deux individus contre l'histoire. Pierre Drieu La Rochelle, Ernst Jünger" par Julien Hervier
« Deux individus contre l'histoire. Pierre Drieu la Rochelle, Ernst Jünger » par Julien Hervier
L’auteur et le livre
Ce livre est la réédition revue, corrigée et augmentée d’une postface, d’un texte publié pour la première fois en 1978 et qui était lui-même la version allégée d’une thèse d’État soutenue en Sorbonne. Professeur honoraire de l’université de Poitiers, Julien Hervier est le principal traducteur de Jünger et a dirigé l’édition des Journaux de guerre dans la Pléiade, il a également traduit des ouvrages de Nietzsche, Heidegger et Hermann Hesse, et a édité de nombreux textes de Drieu, notamment son Journal 1939-1945.
Comme le souligne lui-même l’auteur dans sa postface, le contenu de son livre serait bien différent s’il devait l’écrire aujourd’hui, notamment en ce qui concerne Jünger dont l’œuvre a pris une autre ampleur, en particulier avec les cinq volumes du journal de vieillesse Soixante-dix s’efface, jusqu’à sa mort en 1998. Quant à Drieu, il faudrait « insister sur la dimension religieuse de [son] univers » plutôt que de « le réduire à son image de grand séducteur et d’essayiste politique ». Durant les quelque trente ans qui se sont écoulés entre l’édition princeps de cet ouvrage et la présente réédition, le contexte idéologico-politique a profondément changé et ce texte doit donc être lu sans jamais perdre de vue le moment où il fut écrit.
Deux écrivains individualistes et aristocratique : quatre grands thèmes
En 1978 donc, J. Hervier (JH) se propose d’étudier deux écrivains « d’esprit individualiste et aristocratique » qui ont accordé dans leur œuvre « une large place aux problèmes de la philosophie de l’histoire » qu’ils ont « transcrits en termes romanesques ». Son livre se décline selon quatre grands thèmes (la Guerre, la Politique, l’Individu et l’Histoire, la Religion), abordés sous différents aspects pour chacun des deux auteurs.
• La Guerre - Pour Jünger comme pour Drieu, la guerre est perçue comme une « loi naturelle », et la Première Guerre mondiale est « l’expérience fondamentale de leur jeunesse ». Rappelons seulement quelques titres. Pour le premier : Orages d’acier (1920), La guerre notre mère (1922), Le boqueteau 125 (1925), les journaux de guerre de 1939 à 1948… et cette sentence : « Le combat est toujours quelque chose de saint, un jugement divin entre deux idées ». Pour le second, les poèmes Interrogation (1917) et Fond de cantine (1920), et surtout le roman La comédie de Charleroi (1934). Pour Drieu, les hommes « ne sont nés que pour la guerre »
Jünger considère également la guerre comme « technique » et écrit à cet égard : « La machine représente l’intelligence d’un peuple coulée en acier », tandis que Drieu juge que « la guerre moderne est une révolte maléfique de la matière asservie par l’homme ».
Le livre de Jünger La guerre notre mère illustre parfaitement l’idéologie nationaliste qui régnait alors dans l’Allemagne meurtrie par la défaite, avec son exaltation du sacrifice suprême : mourir pour la patrie. Si, à cette époque, Drieu est sensible à cette idée de sacrifice patriotique, avec la Seconde Guerre mondiale il évoluera du nationalisme au pacifisme.
• La politique - En matière de politique, les nationalistes que sont initialement Jünger et Drieu estimeront rapidement que le nationalisme est dépassé et qu’il doit évoluer, pour l’un vers l’État universel et pour l’autre vers une Europe unie. Tous deux cependant appellent à une révolution, « conservatrice » pour Jünger et « fasciste » pour Drieu. On connaît les engagements de ces deux intellectuels, mot que Drieu définit ainsi : « Un véritable intellectuel est toujours un partisan, mais toujours un partisan exilé : toujours un homme de foi, mais toujours un hérétique ». Pour l’auteur de Gilles, l’engagement est nécessaire, mais « difficile » et « ambigu ». Pour Jünger, l’engagement est paradoxal : « Ma façon de participer à l’histoire contemporaine, telle que je l’observe en moi, observe-t-il, est celle d’un homme qui se sait engagé malgré lui, moins dans une guerre mondiale que dans une guerre civile à l’échelle mondiale. Je suis par conséquent lié à des conflits tout autres que ceux des États nationaux en lutte ». Une chose est sûre, ces deux intellectuels sont des « spectateurs engagés », mais Jünger « préfère finalement refuser l’engagement – même si un remords latent lui suggère que, malgré tout, en s’établissant dans le supratemporel, il peut réagir sur son environnement politique » (JH), tandis que l’engagement de Drieu « est placé sous le signe du déchirement et de la mauvaise conscience ».
• L’individu et l’histoire - L’individualisme est une caractéristique essentielle de la personnalité de Drieu (« Je ne peux concevoir la vie que sous une forme individuelle » avoue-t-il en 1921), comme de celle de Jünger pour qui c’est dans l’individu « que siège le véritable tribunal de ce monde ». Mais leur individualisme est à la fois semblable et différent. Le premier, « individualiste forcené » par tempérament et formation, « condamne historiquement l’individualisme comme une survivance du passé, tout en étant incapable d’y échapper dans ses réactions psychologiques personnelles » (JH), le second, individualiste exacerbé également, prononce la même condamnation historique, mais dépasse la contradiction en affirmant, par-delà le constat de la décadence de l’individualisme bourgeois, « la nécessité d’une affirmation individuelle qui fait de chacun le dernier témoin de la liberté » (id.). Devant l’Histoire, Jünger et Drieu ont des attitudes parfois proches et parfois opposées. Jünger la conçoit, à l’instar de Spengler, comme essentiellement cyclique : les civilisations naissent, se développent, déclinent et disparaissent. De fait, il s’oppose aux conceptions de l’Histoire héritées des Lumières comme à celles issues du marxisme. Il envisage cependant « une disparition probable de l’homme historique ». (JH).

Drieu est fortement marqué par l’idée de décadence, son « pessimisme hyperbolique et métaphysique » dépasse le « déclinisme » de Spengler, mais, pour lui, il existe un « courant rapide » qui entraîne tout le monde « dans le même sens » et que « rien ne peut arrêter ». Il se rapproche donc, d’une certaine manière de la conception marxiste du « sens de l’histoire », mais va jusqu’à dire que l’Histoire, c’est ce « qu’on appelle aujourd’hui la Providence ou Dieu ».
Dans leurs « utopies romanesques », Jünger (Sur les falaises de marbre, Heliopolis) et Drieu (Beloukia, L’homme à cheval) procèdent de manière radicalement différente : le premier « part de l’histoire présente pour aboutir à l’univers intemporel de l’utopie », tandis que le second « part de l’histoire passée pour aboutir à l’histoire présente » (JH). Tous deux sont déçus par le présent, mais alors que Jünger « lui substitue un monde mythique », Drieu « l’invente dans le passé ».
Face au « problème de la technique », Jünger et Drieu estiment tous deux que celle-ci a détruit l’ancienne civilisation sans lui avoir jamais trouvé de substitut. La solution, selon eux, ne réside pas dans un simple retour en arrière, mais dans la création de quelque chose qu’on n’appellera plus « civilisation » et qui relèvera de « la philosophie, de l’exercice de la connaissance, du culte de la sagesse » (Drieu)
• La religion - Après la Guerre, la Politique, l’Individu et l’Histoire, la dernière partie du livre est consacrée au rapport à la religion de Jünger et de Drieu, et c’est sans doute, pour le lecteur qui ne connaît pas l’ensemble de l’œuvre de ces deux auteurs, la plus surprenante. Un long chapitre traite de « la pensée religieuse de Drieu ». Celui-ci, vieillissant, délaissant les femmes, rejetant l’action politique, se tourne de plus en plus vers la religion. Il passe de « l’ordre guerrier » de sa jeunesse à « l’ordre sacerdotal », et écrit, aux abords de la cinquantaine, des « romans théologiques ». Il admire dans le catholicisme « un système de pensée complexe » et une religion qui « représente pour la civilisation d’Europe son arche d’alliance, le coffre de voyage à travers le temps où se serre tout le trésor de son expérience etde sa sagesse ». Toutefois, s’il vénère le christianisme sub specie æternitatis, il déteste ce qu’il est devenu, c'est-à-dire une religion « vidée de sa substance », muséifiée, et qui ne représente plus qu’« une secte alanguie », à l’image du déclin général de l’Occident. L’Église n’est plus qu’une institution bourgeoise liée au grand capitalisme. À ce « catholicisme dégénéré » (JH), Drieu oppose le christianisme « viril » du Moyen Âge, celui du « Christ des cathédrales, le grand dieu blanc et viril ». Ce dieu « n’a rien à céder en virilité et en santé aux dieux de l’Olympe et du Walhalla, tout en étant plus riche qu’eux en secrets subtils, qui lui viennent des dieux de l’Asie ». Pour Drieu, il n’y a pas de véritable antagonisme entre le christianisme et le paganisme, mais seulement une façon différente d’interpréter la Nature. À ses yeux, c’est le catholicisme orthodoxe qui a le mieux conservé l’héritage païen.. Mais, au-delà des différentes religions, païennes ou chrétiennes, Drieu croit profondément en une sorte de syncrétisme universel, celui d’« une religion secrète et profonde qui lie toutes les religions entre elles et qui n’en fait qu’une seule expression de l’Homme unique et partout le même ».
Pour Jünger comme pour Drieu, la dimension religieuse est fondamentale et « transcende toutes les autres » (JH). Mais, contrairement à Drieu, le mot même de « Dieu » est peu fréquent dans son œuvre, caractérisée pourtant par une vision spiritualiste du monde. De fait, il semble qu’il ait envisagé une « nouvelle théologie », sans lien véritable avec l’idée d’un Dieu personnel, relevant plus sûrement d’une « religion universelle », au sens où il parle d’« État universel ». L’ennemi commun des nouveaux théologiens comme des Églises traditionnelles demeure, en tout état de cause, le « nihilisme athée ». La sympathie générale qu’il éprouve pour toutes les religions relève davantage de sa philosophie de l’histoire que d’un véritable sentiment religieux, mais ne l’empêchera pas, tout au long de la Seconde Guerre mondiale, d’exprimer des préoccupations chrétiennes. Son journal de guerre comprend d’innombrables références à la Bible, dont il loue le « prodigieux pouvoir symbolique », tandis que Sur les falaises de marbre et Heliopolis mettent en scène deux importantes figures de prêtres. « Au temps de la plus forte douleur, écrit-il, le christianisme « peut seul donner vie au temple de l’invisible que tentent de reconstruire les sages et les poètes ». Pour lui, le christianisme est avant tout ce qui, dans notre civilisation, « incarne les valeurs religieuses permanentes de l’humanité » (JH). À ses yeux, le christianisme constitue un humanisme qui prône une haute conception de l’homme. Il n’en accepte pas moins le « Dieu est mort » nietzschéen qui, souligne-t-il, est « la donnée fondamentale de la catastrophe universelle, mais aussi la condition préalable au prodigieux déploiement de puissance de l’homme qui commence ». La mort de Dieu n’est pour lui que la mort des dieux personnels, elle n’est donc pas un obstacle à la dimension religieuse de l’homme. Au mot de Nietzsche, il préfère celui de Léon Bloy, « Dieu se retire », ce qui annonce l’avènement du Troisième Règne, celui de l’Esprit qui succèdera à ceux du Père et du Fils.
En matière de religion, Drieu et Jünger sont « étrangement proches et profondément différents » (JH). Tous deux défendent les religions contre le rationalisme tout-puissant, sont convaincus de l’évidence de la mort du Dieu personnel et donc de la nécessité de « reconstruire à partir d’elle une nouvelle forme d’appréhension du divin » (JH).
Un mélange détonnant
Ce qui ressort de cette étude comparative de Jünger et Drieu, « c’est le mélange détonnant qui se produit en eux entre un esprit réactionnaire incontestable et une volonté révolutionnaire ». Toutefois si Jünger est plutôt un national-bolchevique et Drieu un révolutionnaire fasciste, face au « bourgeoisisme » tous deux sont des révolutionnaires.
Julie Hervier a intitulé son travail : « Deux individus contre l’histoire ». Le mot « individu » prend ici tout son sens lorsqu’on comprend, après avoir refermé le livre, que Jünger et Drieu sont fascinés par la singularité de l’individu. Jünger incarne un individualisme métaphysique qui est le contraire de l’individualisme bourgeois que Drieu, dans sa mauvaise conscience, croit représenter. Tous deux aspirent à l’avènement d’une nouvelle aristocratie, mais pour Drieu il s’agit d’une aspiration essentiellement politique, alors que pour Jünger le but c’est la constitution d’une « petite élite spirituelle ». Dans sa postface, l’auteur de cette magistrale et admirable étude justifie a posteriori son titre de 1978 en rappelant et en se réclamant de la formule de Kafka : « Il n’y a de décisif que l’individu qui se bat à contre-courant ».
Didier Marc
11/06/2010
Julien Hervier, Deux individus contre l’Histoire. Pierre Drieu la Rochelle, Ernst Jünger. Eurédit, 2010, 550 p.
Correspondance Polémia – 22/6/2010
00:15 Publié dans Littérature, Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : littérature, lettres, lettres françaises, lettres allemandes, littérature française, littérature allemande, france, allemagne, années 30, années 40, années 20, révolution conservatrice | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
La collocazione geopolitica dell'Iran
La collocazione geopolitica dell’Iran
di Daniele Scalea
Fonte: eurasia [scheda fonte]
Quella che segue è la trascrizione dell’intervento di Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e autore de La sfida totale (Fuoco, Roma 2010), al convegno “L’Iran e la stabilità del Medio Oriente”, tenutosi a Trieste giovedì 3 giugno 2010 presso l’Hotel Letterario Victoria e co-organizzato dall’Associazione Culturale “Strade d’Europa” e da “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”.
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
Le immagini sono le stesse che, proiettate nella sala, hanno accompagnato l’intervento originale.
Quest’intervento è composto da due parti distinte. La prima, e principale, sarà un inquadramento generale dell’Iràn nel contesto geopolitico globale e in particolare eurasiatico. La seconda affronterà invece il problema delle ultime e contestate elezioni presidenziali nella Repubblica Islamica.
Cominciamo dalla prima parte e, dunque, dalla collocazione geopolitica dell’Iràn.
Questa mappa, ripresa da un volume del geografo britannico Halford John Mackinder, mostra come i geopolitici classici, in particolare quelli anglosassoni, vedessero il mondo. La geopolitica classica centra la propria attenzione sul continente eurasiatico: infatti, in Eurasia si trovano la maggior parte delle terre emerse, della popolazione umana, delle risorse; e sempre in Eurasia sono sorte le principali civiltà della storia.
Il mondo è diviso in tre fasce, che dipartono concentriche proprio dal centro dell’Eurasia. Qui si trova la “area perno” (Pivot area) o “terra-cuore” (Heartland), la cui caratteristica è di essere impermeabile alla potenza marittima. Non ha infatti sbocchi sul mare (se si eccettua l’Artico, che non garantisce però collegamenti col resto del mondo), né vi è collegata neppure per via fluviale, in quanto i principali corsi d’acqua della regione sfociano nell’Artico o in mari chiusi. Nella Terra-cuore, pertanto, la potenza continentale non è contrastata da quella marittima.
La Terra-cuore è avviluppata da una seconda fascia, la “mezzaluna interna” (Inner Crescent), che percorre tutto il margine continentale eurasiatico dall’Europa Occidentale alla Cina, passando per Vicino e Medio Oriente e Asia Meridionale: per tale ragione è detta anche “terra-margine” (Rimland). Qui la potenza continentale e quella marittima tendono a controbilanciarsi l’un l’altra.
Infine, al di fuori dell’Eurasia, si staglia la terza ed ultima fascia, la “mezzaluna esterna” (Outer Crescent), che comprende le Americhe, l’Africa, l’Oceania e pure Gran Bretagna e Giappone. Essa è la sede naturale della potenza marittima, dove quella continentale non può minacciarla.
Secondo Mackinder, che scriveva all’inizio del Novecento, l’avvento della ferrovia avrebbe neutralizzato la superiore mobilità del trasporto marittimo, riequilibrando la situazione a favore della potenza tellurica (continentale, terrestre). John Spykman, mezzo secolo più tardi, ridimensionò il peso delle strade ferrate, sostenendo che la potenza talassica (marittima) manteneva il proprio vantaggio: la Terra-cuore è sì imprendibile per la talassocrazia (l’egemone sui mari), ma non può minacciare quest’ultima senza prima occupare la Terra-margine. Compito della talassocrazia – che in quegli anni, proprio come oggi, erano gli USA – è precludere il Rimland alla potenza continentale (allora l’URSS).
La strategia del contenimento, durante la Guerra Fredda, s’accorda con la visione del mondo della geopolitica classica. Contro un avversario che occupava l’Heartland (il riferimento è ovviamente all’URSS), gli USA talassocratici hanno messo in funzione un dispositivo che mantenesse sotto controllo il Rimland, impedendo a Mosca di raggiungere le coste continentali e proiettarsi sui mari. In tale dispositivo rientrano la NATO in Europa Occidentale, la CENTO nel Vicino e Medio Oriente, la SEATO in Asia Sudorientale e l’alleanza con Corea del Sud e Giappone (e in un secondo momento anche con la Cina) in Estremo Oriente.
Della CENTO, o Patto di Baghdad, faceva parte anche l’Iràn, oltre a Turchia, Iràq, Pakistan e Gran Bretagna (in qualità di ex padrone coloniale). Dalla cartina è facile individuare nella CENTO un anello della catena di contenimento che corre lungo tutto il Rimland.
Questa cartina mostra, semplificando un po’ la situazione, quelli che erano gli schieramenti nei primi decenni della contrapposizione bipolare in Vicino Oriente. Se Egitto, Siria e Iràq si erano avvicinati all’URSS, nella regione gli USA poggiavano sulla triade di potenze non arabe: Israele, Turchia e Iràn.
La Rivoluzione Islamica del 1979 pone fine all’alleanza tra Iràn e USA, pur senza portare Tehrān nel campo sovietico. Ciò rafforza il peso dei due perni superstiti, Turchia e Israele, ed anche il maggiore appoggio che Washington garantisce ai due paesi, ed in particolare a Tel Aviv. Dal canto loro tutti i paesi arabi, ad eccezione di Siria, Iràq e Yemen del Sud, seguendo il voltafaccia egiziano prendono più o meno tiepidamente posizione per gli Stati Uniti d’America, disperando della possibilità che l’appoggio sovietico possa apportare loro grossi benefici. Preferiscono puntare sull’avvicinamento a Washington, sperando che ciò possa spezzare la “relazione speciale” tra la Casa Bianca e Tel Aviv, e quindi ricevere una più equa mediazione nei confronti dello Stato ebraico. Speranza che rimarrà delusa.
Quest’immagine, ripresa da The Grand Chessboard di Zbigniew Brzezinski, mostra la visione del continente eurasiatico da parte degli eredi della geopolitica classica nordamericana. La Federazione Russa continua a mantenere una posizione centrale, pur ristretta rispetto all’epoca sovietica, mentre la Terra-margine è divisa in tre settori. Per ognuno di essi Brzezinski suggerisce una politica regionale a Washington.
A Occidente – ossia in Europa – si trova quella che Brzezinski definisce “la testa di ponte democratica”, ossia il pied-à-terre della talassocrazia nordamericana in Eurasia. L’integrazione europea pone una sfida agli USA: se dovesse fallire restituendo un’Europa frammentata e litigiosa, o se al contrario dovesse avere grosso successo creando un’Unione Europea monolitica e strategicamente autonoma, in entrambi i casi la presenza statunitense nella regione sarebbe messa in discussione. La soluzione prospettata da Brzezinski è quella di mettersi a capo dell’integrazione europea e dirigerla in modo che non leda gl’interessi nordamericani: esattamente quanto successo, con l’espansione della NATO a precedere ed indirizzare quella dell’UE, che ha demandato la propria sicurezza e guida strategica al capoalleanza d’oltreoceano.
A Oriente gli USA hanno ulteriori basi avanzate, in Giappone e Corea, che debbono mantenere ad ogni costo. Ma Brzezinski, memore di una delle mosse che ha deciso la Guerra Fredda, consiglia pure di coltivare i rapporti con la Cina, che potrebbe diventare per gli USA una seconda testa di ponte in Eurasia, pendant dell’Europa a oriente.
Infine c’è il Meridione, corrispondente al Vicino e Medio Oriente, dal Mediterraneo all’India.
In quest’area, Brzezinski ritiene che gli alleati naturali, anche se sovente involontari, della geostrategia statunitense siano Turchia e Iràn. Coi loro intenti panturanici la prima e panislamici la seconda, si proiettano nel Caucaso e nell’Asia Centrale controbilanciando l’influenza russa e frustrandone il tentativo di riconquistare quelle regioni alla propria area d’influenza. Questi “interessi competitivi” tra Turchia, Iràn e Russia, individuati da Brzezinski, corrispondono più alla situazione degli anni ’90 che a quella del decennio appena trascorso, in cui i tre paesi hanno privilegiato la soluzione “cooperativa” su quella “competitiva”.
Spostiamoci ora dal quadro propriamente geostrategico a quello energetico. La cartina schematizza la situazione dell’energia in Eurasia, individuando quattro regioni importatrici (Europa, Asia Orientale, Asia Meridionale e Asia Sudorientale) e quattro regioni esportatrici (Russia, Asia Centrale, Iràn, Vicino Oriente). Le quattro regioni produttrici potrebbero sostanzialmente ridursi a due: l’Asia Centrale non ha sbocchi sul mare, dipende dai paesi circostanti per lo smercio delle sue risorse, ed in particolare dalla Federazione Russa in ragione della rete d’oleodotti e gasdotti retaggio d’epoca sovietica; l’Iràn invece esporta molto meno del suo potenziale, come vedremo tra poco. Rimangono dunque la Russia e il Vicino Oriente, ma quest’ultimo è diviso in una pluralità di nazioni, spesso politicamente, economicamente e socialmente fragili. Ecco perché la Russia può essere individuata come la maggiore potenza energetica del continente eurasiatico (e del mondo).
Quest’immagine mostra come la rete delle condotte energetiche esistenti faccia perno sul territorio della Federazione Russa. In particolare, l’Asia Centrale dipende quasi totalmente da Mosca per l’esportazione dei propri idrocarburi verso l’Europa.
Gli USA hanno cercato d’inserirsi nella connessione Asia Centrale-Russia-Europa. Essa, infatti, crea un rapporto di interdipendenza tra i tre soggetti. In particolare, Mosca ne riceve importanti leve strategiche nei confronti dei paesi europei e centroasiatici. Il piano di Washington consiste nel creare nuove rotte energetiche dall’Asia Centrale all’Europa che scavalchino la Russia. Il primo importante progetto in tale direzione è stato l’oleodotto Bakù-Tblisi-Ceyhan. Aperto nel 2006, ha avuto un effetto meno dirompente di quanto s’attendessero gli Statunitensi: esso ha infatti raccolto il petrolio azero, ma solo in maniera marginale quello dei paesi centroasiatici.
Negli ultimi anni il gas naturale ha acquisito un’importanza crescente nel paniere energetico, e per questo i progetti più recenti si sono concentrati proprio sul trasporto del “oro blu”. Gli USA hanno rilanciato con l’ambizioso progetto del Nabucco che, partendo dalla Turchia, dovrebbe giungere fino in Austria, rappresentando un canale alternativo al transito sul territorio russo. Mosca non è però rimasta a guardare: i Russi hanno già avviato la costruzione del Nord Stream e si preparano a lanciare quella del South Stream; i due gasdotti, passando rispettivamente sotto il Baltico e il Mar Nero, scavalcheranno l’Europa Orientale (che ha creato diversi problemi al transito di gas russo) ed accresceranno sensibilmente il volume delle forniture russe all’Europa Occidentale.
Il Nabucco ha un grave punto debole: l’incertezza riguardo i bacini d’approvvigionamento da cui dovrebbe trarre il gas per l’Europa. A parte il gas azero, è probabile che lo riceverà dall’Egitto e dall’Iràq. Tuttavia, ciò potrebbe essere insufficiente rispetto alle ambizioni per cui verrà creato. Inoltre, il suo palese scopo geopolitico è sottrarre gas centroasiatico, ed in particolare turkmeno, al transito per la Russia. Ma il gas turkmeno ha sole due vie per poter arrivare a Erzurum: un ipotetico gasdotto transcaspico (cui s’oppongono due nazioni rivierasche – Russia e Iràn – e sulla cui possibilità di realizzazione tecnica permangono numerosi dubbi), oppure un transito sul territorio iraniano.
Ma il ruolo dell’Iràn rispetto al Nabucco potrebbe non essere soltanto quello d’un semplice canale di transito del gas turkmeno. Il paese persiano è già un grande esportatore di petrolio, ma potenzialità ancora maggiori le mostra rispetto al gas naturale, avendo riserve provate che sono le seconde più vaste al mondo. E sebbene sia il quinto maggiore produttore mondiale di gas, l’Iràn è a malapena il ventinovesimo esportatore. Ciò perché gran parte del gas prodotto viene consumato all’interno. Questa è una delle principali motivazioni del programma nucleare iraniano: soddisfare il fabbisogno energetico interno col nucleare, e liberare ingenti quantità di gas per l’esportazione. Esportazione che potrebbe passare proprio per il Nabucco, se si verificasse una distensione col Patto Atlantico.
Anche per scongiurare quest’eventualità, la Russia si è prodigata a sponsorizzare il progettato gasdotto Iràn-Pakistan-India. Rivolgendo verso oriente il gas iraniano, Mosca s’assicura di rimanere la principale ed imprescindibile fornitrice energetica dell’Europa. Tehrān e Islamabad hanno già avviato la costruzione dei rispettivi tratti, mentre Nuova Dehli, complici anche le pressioni di Washington, è ancora titubante. I Pakistani hanno offerto ai Cinesi di prendere il posto degl’Indiani; per ora Pechino non ha né accettato né rifiutato.
In questa fase il Vicino Oriente sembra stia vivendo una nuova polarizzazione. Rispetto a quella della Guerra Fredda, il ruolo degli attori strategici esterni è inferiore rispetto a quello dei paesi locali, ma non per questo trascurabile. L’ascesa dell’Iràn intimorisce molti paesi arabi, in particolare quelli del Golfo, che assieme a Giordania e Egitto hanno ormai concluso un’alleanza “inconfessata” con Israele, ovviamente benedetta dagli USA. L’Iràn, oltre all’alleato siriano e ad un paio di paesi in bilico (Iràq e Libano) sembra poter contare anche sulla Turchia: un paese che possiede proprie ambizioni di egemonia regionale, ma in questa fase ha scelto la cooperazione con l’Iràn. Questo secondo blocco coltiva buoni rapporti con la Russia e la Cina.
Passiamo quindi alla seconda parte di quest’esposizione, che concerne le elezioni presidenziali iraniane del 2009. In particolare, si cercherà di capire se davvero esse siano state viziate da brogli decisivi, ovvero se la vittoria di Ahmadinejad possa considerarsi sostanzialmente genuina. Ci si appoggerà alle risultanze d’una mia ricerca più particolareggiata, di cui riporterò solo alcuni dati più significativi tralasciando i calcoli intermedi ed altre argomentazioni accessorie – che si potranno comunque leggere consultando la ricerca stessa, che sarà citata in conclusione.
Questi sono i contestati risultati ufficiali delle elezioni. La prima cosa che balza all’occhio sono gli oltre 11 milioni di voti di scarto tra Ahmadinejad ed il secondo classificato, Musavì. In un paese in cui ogni seggio vede presenta osservatori indipendenti e dei vari candidati (compresi quelli sconfitti: in particolare, Musavì aveva più osservatori di Ahmadinejad) appare estremamente improbabile se non impossibile pensare ad una manomissione tanto massiccia delle schede già nei seggi. Non a caso, gli stessi oppositori di Ahmadinejad che hanno denunciato i presunti brogli propendono sempre per la tesi che i risultati siano stati semplicemente riscritti a tavolino dalle autorità. Anche se il riconteggio parziale delle schede in alcune delle circoscrizioni dai risultati più controversi ha confermato le risultanze iniziali, l’ipotesi dei brogli ha mantenuto ampio credito in tutto il mondo.
Eppure i risultati delle elezioni erano in linea con quanto predetto dalla maggior parte degli osservatori e dei sondaggi. Pur non fidandosi dei sondaggi d’opinione iraniani, ce n’è uno, molto significativo, che è stato realizzato con tutti i crismi di scientificità da tre importanti organizzazioni statunitensi: il centro Terror Free Tomorrow (non sospettabile d’essere benevolo verso Ahmadinejad, avendo tra i suoi consiglieri anche il senatore John McCain), il prestigioso istituto New America Foundation e la ditta di ricerche di mercato KA, tra i leaders mondiali del settore. Questo sondaggio, pur registrando un alto numero d’indecisi, mostrava una propensione di voto verso Ahmadinejad relativamente più alta, rispetto aMusavì, di quella effettivamente registratasi alle elezioni.
C’è un altro dato molto significativo. Se si sostituisse Musavì del 2009 col candidato Rafsanjani che nel 2005 sfidò Ahmadinejad al ballottaggio, si scoprirebbe che i risultati delle ultime due elezioni presidenziali in Iràn sono quasi coincidenti. Si tenga presente che nel 2005 in Iràn governava Khatamì, che alle ultime elezioni ha sostenuto Musavì, proprio come Rafsanjani.
Secondo taluni commentatori, una “prova” di brogli sistematici alle elezioni del 2009 sarebbe l’eccessiva uniformità di voto da provincia a provincia. L’evidenza aritmetica, tuttavia, mostra che il voto del 2009 è stato più difforme localmente rispetto a quello del 2005 (che, ricordiamo, si è svolto sotto un governo “riformista”, retto dagli attuali avversari politici di Ahmadinejad).
La difformità locale del voto in Iràn nel 2009 è nettamente superiore a quella registratasi, ad esempio, alle elezioni italiane del 2008 – che però non per questo sono state tacciate d’invalidità.
Alì Ansari, ricercatore della londinese Chatham House, ha individuato 10 province (su un totale di 30) in cui i voti ottenuti da Ahmadinejad sarebbero improbabili rispetto ai risultati del 2005. Ansari, al pari di molti sostenitori della tesi dei brogli, adotta sempre come metro di confronto il primo turno del 2005. Ciò è scorretto, poiché il quadro politico era completamente differente. Innanzitutto, nel 2005 non c’era un presidente uscente candidato – che invece nel 2009 era proprio Ahmadinejad – e perciò la contesa appariva più plurale: nel 2005 ben cinque candidati superarono il 10% dei voti al primo turno. La situazione registratasi nel 2009, con soli 4 candidati e la netta polarizzazione di voti sui due principali, richiama palesemente il secondo turno e non il primo del 2005. Rifacendo i calcoli di Ansari basandosi appunto su un raffronto col ballottaggio del 2005, e riconoscendo a Ahmadinejad il 61,75% dei nuovi votanti (ossia la percentuale che ottenne nel 2005), si nota che in 2 delle 10 province Ahmadinejad è addirittura in calo. In altre 4 ha incrementi percentuali inferiori al 10%; solo in 4 i suoi voti sono aumentati di più del 10%, con un picco in Lorestan del 17,72%. Vanno qui fatte due precisazioni: i voti guadagnati in queste 4 province, anche volendo ammettere che siano tutti fraudolenti, ammontano a poco più di mezzo milione, a fronte d’uno scarto complessivo su Musavì d’oltre 11 milioni di voti. In secondo luogo, non è scontato che incrementi anche così significativi non possano essere genuini. Riprendendo il confronto col caso italiano, si può osservare che – ad esempio – i partiti del Centro-destra (compreso l’UDC, che nel frattempo aveva abbandonato la coalizione) nella circoscrizione “Campania 1” ebbero un incremento percentuale dei consensi pari a quasi il 10% in soli due anni (dal 2006 al 2008). I flussi elettorali esistono, e non sono necessariamente indice di brogli diffusi.
Queste sono le indicazioni per chi volesse approfondire i temi qui trattati, o conoscere le fonti delle affermazioni appena fatte.
Per un quadro generale della politica internazionale odierna e recente, si rimanda al libro, da poco edito per i tipi di Fuoco Edizioni, La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali.
* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco, Roma 2010).
00:15 Publié dans Géopolitique | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : géopolitique, moyen orient, asie, affaires asiatiques, iran | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
Fraglich, ob der G20-Gipfel die richtigen Lehren aus der Krise zieht
Fraglich, ob der G20-Gipfel die richtigen Lehren aus der Krise zieht
EU muß Finanztransaktionssteuer notfalls im Alleingang einführen – US-Kritik am Sparkurs der EU-Staaten ist offenbar von egoistischen Motiven getragen
Die Europäische Union müsse bei den am Wochenende in Kanada stattfindenden G8- und G20-Gipfeln mit Nachdruck auf eine weltweite Finanztransaktionssteuer sowie auf eine stärkere Regulierung der internationalen Finanzmärkte drängen, forderte heute der freiheitliche Delegationsleiter im Europäischen Parlament, Andreas Mölzer. „Aus der Finanzkrise, die mittlerweile zu einer Schuldenkrise geworden, sind die richtigen Lehren zu ziehen. Das internationale Spekulantentum, das zu einem Gutteil für den Ausbruch der Krise verantwortlich ist, ist in die Pflicht zu nehmen“, betonte Mölzer.
Weil aber aller Voraussicht nach beim G20-Gipfel keine Einigung über eine Finanztransaktionssteuer und stärkere Regulierung der Finanzmärkte erzielt werde, müsse die EU, so der freiheitliche EU-Mandatar, notfalls im Alleingang vorgehen. „Hier geht nach der von Ankündigungen, die in der Vergangenheit gemacht wurden, um die Glaubwürdigkeit der Europäischen Union. Die Bürger, die um ihre Arbeitsplätze zittern, erwarten sich zu Recht konkrete Ergebnisse“, erklärte Mölzer.
Weiters nahm der FPÖ-Europa-Abgeordnete zur Kritik der USA am Sparkurs der EU-Staaten Stellung: „Diese Kritik ist nicht nur unverständlich, sondern auch von egoistischen Motiven getragen. Offensichtlich geht es den Amerikanern darum, daß die Europäer auch weiterhin die US-Wirtschaft stützen. Wenn die USA mit dem Schuldenmachen fortfahren wollen, dann ist das ihre Sache – aber sie sollen es nicht von den anderen verlangen“, schloß Mölzer.
00:05 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : actualité, g20, économie, finances, globalisation, crise, crise économique, europe, affaires européennes, union européenne | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
vendredi, 02 juillet 2010
"Aristote au Mont Saint Michel: les racines grecques de l'Europe chrétienne" de Sylvain Gouguenheim
« Aristote au mont Saint-Michel : Les racines grecques de l'Europe chrétienne » de Sylvain Gouguenheim
L’ouvrage de Sylvain Gouguenheim, divisé en cinq chapitres, aborde dans l’introduction la question de la situation respective de l’Orient et de l’Occident. Il fait le point sur la survivance de la Grèce dans le vaste empire romain, devenu chrétien byzantin, où les Chrétiens s’étaient divisés en plusieurs Eglises, Nestoriens en Perse de langue syriaque, Jacobites en Syrie de langue syriaque, Melkites en Egypte et Syrie de langue grecque, Coptes en Egypte de langue issue de l’ancien parler pharaonique. Quant au monde oriental, l’hellénisme prit sa source dans l’Antiquité tardive, les auteurs néoplatoniciens plutôt que par la redécouverte du classicisme athénien. Ensuite sont passées en revue les deux opinions courantes, admises de nos jours bien que contradictoires :
- 1° procédant d’une confusion entre les notions d’« arabe » et de « musulman », la dette grecque de l’Europe envers le monde arabo-musulman aurait repris le savoir grec et, le transmettant à l’Occident, aurait provoqué le réveil culturel de l’Europe ;
- 2° procédant toujours de la même confusion, les Musulmans de l’époque abbasside (l’«Islam des lumières »), dans leur fébrilité pour la recherche, auraient découvert l’ensemble de la pensée grecque qu’ils auraient traduite en arabe, avant de la transmettre à l’Europe par le truchement de l’Espagne par eux occupée puis libérée. Parallèlement, la Chrétienté médiévale serait demeurée en retard, plongée dans un âge d’obscurantisme.
Byzance, réservoir du savoir grec
Or Byzance, la grande oubliée des historiens de l’héritage européen, fut le réservoir du savoir grec, qu’elle diffusa dans toutes ses possessions italiennes comme à Rome où la connaissance de la langue grecque n’avait jamais disparu.
Dans un premier chapitre, l’auteur étudie la permanence de la culture grecque, relayée à ses débuts par le Christianisme d’expression grecque (Evangiles et premiers textes). En outre, dès le Ve siècle, Byzance connut une grande vague de traductions du grec en syriaque, opérées par les Chrétiens orientaux, faisant coexister la foi au Christ et la paideia antique, véhiculée ensuite par des auteurs tels que Martianus Capella et Macrobe, comme l’a fort bien démontré A. Vernet, par les traductions et commentaires de Platon, composés par Calcidius (cosmologie) dès les années 400, et d’Aristote, composés par Boèce (logique et musique). La pensée grecque est aussi présente chez les Pères, chez les prélats d’Italie du sud, grands intellectuels, importée aussi par les Grecs syriaques chassés d’Orient par l’iconoclasme byzantin et par la conquête arabe, pour ne parler que des manuscrits apportés d’Orient en Sicile (Strabon, Don Cassius…), comme le démontrent les travaux de J. Irigoin : autant de régions de peuplement et de culture grecque, noyaux de diffusion à travers toute l’Europe.
• La conquête musulmane de la Sicile (827) porta un coup dur à ce mouvement : monastères et bibliothèques incendiés ou détruits, habitants déportés en esclavage, dont les rescapés vont en Campanie ou dans le Latium pour y fonder des abbayes (Grotta Ferrata). Les reconquêtes byzantines puis normandes restaureront la tradition hellénique.
• A Rome, qui avait connu une forte immigration de Grecs et de Levantins fuyant les persécutions perses et arabes, tous les papes, entre 685 et 752, seront grecs ou syriaques, et fonderont des monastères grecs. Pendant des siècles des artistes byzantins (fondeurs de bronze, mosaïstes) viennent en Italie, appelés par de grands prélats, pour orner cathédrales et abbatiales. En Germanie, la cour de l’empereur Otton II, époux de Théophano, ouvre une période de renaissance de la langue et de la culture grecques. Puis son fils Otton III attirera beaucoup de Grecs venus d’Italie du sud, qui occuperont des sièges importants dans l’Empire et l’Eglise (dont l’un des plus célèbres est Rathier de Vérone), y apportant souvent des textes de mathématique et d’astronomie : parmi eux Siméon l’Achéen, militaire byzantin, qui combattit aux côtés de Guillaume le Libérateur à La Garde-Freinet, libérant ainsi définitivement la Provence de l’invasion musulmane. Les élites du Maghreb, juifs et chrétiens, s’enfuient et se réfugient en Espagne.
• En France , les contacts entre Francs et Byzantins s’intensifient avec Pépin le Bref. Les Carolingiens reçoivent des manuscrits d’Aristote et de Denys l’Aréopagite. Leur entourage compte nombre d’hellénistes. Charlemagne lui-même comprenait le grec. Sous Louis le Pieux deux ambassades byzantines (824 et 827) apportent le corpus du Pseudo-Denys, que traduisit l’abbé de Saint-Denis, Hilduin, même si cette traduction passe pour avoir été fort médiocre ; traduction que l’empereur Charles le Chauve devra charger le savant helléniste Jean Scot Erigène, auteur lui-même de poèmes en grec, de réélaborer
Les centres de diffusion de la culture grecque en Europe
L’exposé sur les centres de diffusion de la culture grecque en Europe dans les siècles postérieurs est trop long et répétitif : les princes normands de Sicile encouragèrent le monachisme grec, et l’on pourrait ajouter que leur chancellerie expédiait leurs actes en quatre langues, grec, latin, arabe, normand. A Rome, le haut clergé parle grec. Le Latran, riche d’une immense bibliothèque, diffuse partout des œuvres grecques. Anastase le bibliothécaire, helléniste réputé, fut ambassadeur à Byzance. De Rome, la langue et la culture grecques se diffusèrent dans les pays anglo-saxons : Bède le Vénérable (+ 735) lisait le grec ; Aldhelm de Canterbury (+709), d’une très haute culture classique, enseigna la langue grecque à saint Boniface. Quant à l’Irlande, grand foyer d’hellénisme, outre Jean Scot, ses savants diffusèrent leur savoir dans toute l’Europe du nord, jusqu’à Milan. Pour l’Espagne, la Catalogne surtout offre des textes d’Aristote et des néoplatoniciens, dans les manuscrits desquels on peut remarquer des alphabets et des essais de plume en grec : ajoutons que le même phénomème s’observe aussi dans nombre de manuscrits conservés en France.
L’auteur accorde un grand chapitre à la médecine, domaine dans lequel le rôle joué par les savants musulmans a été particulièrement exalté. Raymond Le Coz, dans son ouvrage Les chrétiens dans la médecine arabe (Paris, L’Harmattan, 2006) a fait justice de cette opinion. Il souligne lui aussi le rôle primordial des chrétiens du Proche-Orient : Nestoriens, Jacobites, Melkites, Coptes, qui traduisirent les textes grecs bien avant l’arrivée de l’Islam. R. Le Coz insiste sur l’héritage byzantin qui imposa les ouvrages de Galien, la place éminente de l’Ecole d’Alexandrie dont l’une des plus grandes figures est Oribase, auteur d’une encyclopédie en soixante-dix livres, rapportant en outre de nombreux textes de ses prédécesseurs. Cette école, brillant encore avec Ammonius (VI° s.) puis Jean Philipon, fut remplacée au VIIIe siècle par celle de Bagdad où Nestoriens et Jacobites transmettront, par leurs traductions en langue arabe, aux musulmans leurs connaissance du savoir grec. Les Nestoriens seront d’ailleurs les médecins des califes de Bagdad et donneront naissance à la figure du « philosophe médecin, souvent astronome, astrologue ou alchimiste, si caractéristique de tout le moyen-âge, arabe et occidental ». Chez les Latins, dès le VIe siècle et grâce à Cassiodore, on connait les travaux de Soranos, médecin grec d’Ephèse (II° s.), Hippocrate, Galien, Dioscoride et Oribase. Puis ces textes circulent dans les abbayes d’Italie du nord et du sud, où la pratique du grec ne cessa jamais : Salerne, le Mont-Cassin, de si brillante réputation que de hauts personnages du nord de l’Europe viennent s’y faire soigner, avec les œuvres de Garipontus et Petrocellus. Quant au célèbre Constantin l’Africain (+1087), sa biographie nous informe qu’il apprit la médecine à Kairouan ou au Caire : on ne peut donc savoir quelles ont été ses sources, bien que, selon Pierre Diacre, il aurait été aussi formé aux disciplines grecques d’Ethiopie : il traduisait directement du grec ou de l’arabe en latin.
Le XIIe siècle, renouveau des études à partir de sources antiques
S’attardant sur la Renaissance carolingienne, l’Académie du Palais de Charlemagne, sur Richer de Reims qui aurait enseigné la médecine grecque, Gouguenheim, suivant un plan chronologique un peu confus, dresse un tableau de la Renaissance du XII° siècle, où le renouveau des études puise à la source de la culture antique : traductions d’œuvres scientifiques d’optique, de mécanique dans toute l’Europe, impulsées par l’Ordre de Cluny et son abbé Pierre le Vénérable. Mais pour tous ces savants, peut-on affirmer qu’ils ont tous travaillé sur des traductions directes et que leurs connaissances sont en totalité indépendantes des travaux arabo-musulmans ?
La circulation directe des textes de Byzance en Italie, vers la France et l’Empire mériterait, pour ces époques, d’être mieux connue, mieux étudiée. Quoiqu’il en soit, grâce à la réforme grégorienne, au renouveau du droit, de la philosophie politique, de la pratique rénovée de la dialectique, partout en Europe et en toutes matières, on constate un regain de l’influence et de l’imitation de l’Antique, la pratique et la découverte de textes grecs et latins. L’abbé Suger de Saint-Denis ne faisait-il pas l’admiration de ses moines grecs parcequ’il récitait de mémoire plus de trente vers d’Horace ? On découvre le livre II de la Logique d’Aristote, l’harmonie du monde de Platon à travers l’étude de la nature (Guillaume de Conches, Hugues de Saint-Victor), des œuvres de Cicéron. La mythologie païenne sert de support à la méthode allégorique d’exégèse de l’Ecriture. L’activité de traduction s’intensifie à Tolède, Palerme, Rome, Pise, Venise, en Rhénanie, à Reims, Cluny, au Bec-Hellouin, au Mont-Saint-Michel. Les Antiques sont les géants de Bernard de Chartres. Tous ces faits sont bien connus et ils témoignent d’une ouverture extraordinaire au savoir antique grec et latin, mais ils ne constituent pas une preuve exclusive d’un transfert directe de cette culture d’orient en occident.
Dans un deuxième chapitre, l’auteur revient, de façon quelque peu redondante, sur la diffusion du savoir grec par Byzance et la chrétienté d’orient, du VIe au XIIe siècle, rappelant les voies et les hommes qui ont permis la continuité avec le monde occidental depuis l’époque classite que. Le chapitre III est la justification du titre de l’ouvrage : l’Europe a recherché elle-même, et non reçu passivement l’héritage antique, grâce aux moines de ses grandes abbayes qui en firent des traductions directes. L’auteur donne une place centrale à l’abbaye du Mont-Saint-Michel où Jacques de Venise, arrivé au début du XIIe siècle, traduisit du grec en latin de nombreux textes d’Aristote, bien avant les traductions faites à Tolède à partir de textes en arabe. Une antériorité sur laquelle on aurait aimé que l’auteur insistât davantage. Le séjour de Jacques de Venise au Mont-Saint-Michel est contesté par certains historiens. Robert de Torigny, abbé en 1154, témoignera seulement de lui comme traducteur et commentateur vers 1125, mais la présence de ses traductions dans des manuscrits de la bibliothèque d’Avranches n’est sans doute pas due au hasard. La question, au reste, est de peu d’importance : son œuvre demeure et fut largement diffusée, à Chartres, Paris, en Angleterre, à Bologne et à Rome. Jean de Salisbury, dans le Metalogicon, utilise pour la première fois tous les écrits de l’Organon, peut-être dans la traduction de Jean de Venise.
Arabité et islamisme
Le chapitre IV est consacré à la nature de la réception des textes grecs par les arabes musulmans. L’opinion commune leur attribue une appropriation totale du savoir grec. Or l’auteur met de nouveau en garde, comme le fait R. Le Coz pour la médecine, contre la confusion entre arabité et islamisme. Le « monde musulman », alors dominant, comportait beaucoup de savants chrétiens, juifs, sabéens, parmi lesquels nombreux étaient des Arabes, arabisés, Persans convertis. Or auparavant les Arabes furent mis en contact dès l’époque ummayyade avec le monde grec et lui furent hostiles. Une grande partie de l’élite byzantine prit la fuite. S’il n’est pas démontré que le calife Umar II a lui-même ordonné l’incendie de la bibliothèque d’Alexandrie, du moins est-ce bien lui qui mit un terme à l’enseignement des sciences dans cette ville, « décision tout à fait conforme à ce que l’on connait du personnage » (R. Le Coz). La destruction de centres de culture aussi célèbres que le Mont Athos, Vatopédi, les raids incessants lancés par les califes en Sicile, au Mont-Cassin, à Rome et jusqu’au nord de la Gaule, aux VIII et IXe siècles, suffisent, dit l’auteur, à « démontrer le peu de goût des peuples musulmans pour la civilisation greco-latine ». Quant à la tradition de la « Maison de Sagesse », qui aurait regroupé des savants de toutes confessions et toutes disciplines, elle repose sur un texte beaucoup plus tardif rapportant la vision d’Aristote qu’aurait eue en songe le calife Al-Mamun, dont la bibliothèque ne fut ouverte, selon le témoignage d’un Musulman, qu’aux spécialistes du coran et de l’astronomie. L’auteur insiste sur les difficultés d’une traduction du grec en arabe : pour la langue, la pensée, dont les musulmans font passer les mots au filtre du coran, le raisonnement, au service exclusif de la foi. Quant à la médecine, R. Le Coz a démontré (dans Les médecins nestoriens. Les maîtres des Arabes, Paris, L’Harmattan, 2003) que l’Islam n’a rien apporté. En philosophie, la logique aristotélicienne, passée au tamis du néoplatonisme, ne fut appliquée, par le mouvement de la Falsafa, que pour une exégèse rationnelle du Coran.
Averroès, islamiste pur et dur
Le parti le plus orthodoxe de l’Islam prit, à partir du IXe siècle, un aspect guerrier, contre la Trinité des chrétiens et le Dieu vengeur des Juifs. Son meilleur représentant est Averroès, médecin et juriste, qui prêcha à Cordoue le djihad contre les chrétiens : pour lui, l’étude de la Falsafa doit obéir aux principes de la chari’a (loi religieuse). De plus, la philosophie doit être interdite aux hommes du commun. Averroès, élitiste, ne fut ni athée ni tolérant. Pour ce qui est de la science politique, jamais l’Islam n’eut recours au système juridique greco-romain. La « Politique » d’Aristote ne fut jamais traduite en arabe : elle leur fut totalement étrangère. L’Islam n’a retenu des Grecs que ce qui leur était utile et ne contrevenait aux lois du Coran : sciences naturelles et médecine, tandis que la théologie chrétienne fut peu à peu pénétrée par la philosophie qui l’amena à évoluer.
Deux civilisations, deux cultures
Au dernier chapitre, l’auteur soulève la question de l’ouverture de l’Islam aux autres civilisations. Sauf quelques rares exceptions, ce ne fut, pendant tout le moyen-âge, qu’un long face à face de deux mondes radicalement différents, le plus souvent opposés. Comme nous le rappelle R. Le Coz, les Arabes conquérants ont toujours dédaigné apprendre la langue des pays conquis, puisque leur propre langue était celle de Dieu lui-même, celle de la Révélation. Evoquant la scission en Méditerranée, opérée par l’Islam, entre l’Occident et Byzance, et l’orientation consécutive de l’Europe vers le nord, l’auteur aurait pu invoquer aussi l’origine ethnique des Francs, qui marqua fortement les changements culturels. Pour une étude comparative dans le domaine de la transmission de l’une et l’autre culture, il est évident que l’Islam n’est pas un espace défini, que ces peuples auraient occupé pour s’y fondre, mais une culture fondamentalement religieuse, constituée par conquêtes successives, dans laquelle la politique et le droit (fiqh) dépendent strictement de la religion. En outre, les longs siècles de conflits violents étaient peu compatibles avec des échanges scientifiques. Il est tout aussi indéniable que le Christianisme est né et plonge ses racines dans un univers grec. L’usage de la liturgie grecque à Saint-Jean du Latran comme dans les grandes abbayes de Germanie et de France, de toute antiquité et pas seulement à partir du XIIe siècle, en est une preuve irréfutable. Deux civilisations fondées sur des religions contradictoires à vocation universelle ne pouvaient s’interpénétrer, à moins que l’une s’impose à l’autre, comme ce fut le cas pour l’Egypte et le Maghreb. C’est pourquoi, conclue l’auteur, une culture, stricto sensu, peut à la rigueur se transmettre, non une civilisation.
En conclusion
Sylvain Gougenheim rappelle que la quasi-totalité du savoir grec avait été traduite tout d’abord en syriaque, puis du syriaque en arabe par les Chrétiens orientaux, ce que confirme R. Le Coz dans le domaine médical : « comment les Arabes ont-ils pu connaître et assimiler cette science qui leur était étrangère…il a fallu des intermédiaires pour traduire les textes de l’Antiquité et initier les nouveaux venus à des techniques dont ils ignoraient tout. Les intermédiaires nécessaires ont été les chrétiens, héritiers de Byzance, qui vivaient dans le monde soumis à l’Islam et qui avaient été arabisés ». Quant aux occidentaux, outre leur propre tradition de savoir grec, ils bénéficièrent aussi de l’apport de ces chrétiens grecs et syriaques chassés d’orient, de l’Ecole d’Alexandrie, comme le confirment les études de J. Irigoin. Toutes ces données, solidement étayées, autorisent l’auteur à inscrire les racines culturelles de l’Europe dans le savoir grec, le droit romain et la Bible.
L’annexe 1, qui fait, semble-t-il, couler beaucoup d’encre, est consacré au livre de l’orientaliste Sigrid Hunke, « Le Soleil d’Allah », polémique s’il en est, qui occupe, comme celui de M. Detienne, peu de place dans le débat dans la mesure où cet écrit, faisant écho à une idéologie aujourd’hui en vogue, n’est mû que par des arguments passionnels, voire racistes : il est donc sans intérêt.
L’héritage grec a été transmis à l’Europe par voie directe
L’ouvrage de Sylvain Gouguenheim, comme son titre l’indique, s’attache à démontrer que l’héritage grec a été transmis à l’Europe par voie directe, indépendante de la filière arabo-musulmane, tout en reconnaissant à la science musulmane la place qui lui est historiquement et chronologiquement due. Le livre est, avouons-le redondant, prolixe, parfois touffu. Partant de l’opinion commune, la démonstration se perd dans des excursus et des retours en arrière trop longs, des synthèses aussitôt reprises dans le détail, dans lesquels le lecteur a parfois du mal à retrouver le fil conducteur. L’auteur a voulu, de toute évidence, étant donnée la sensibilité du sujet, apporter le maximum de preuves à des faits qui, pour la plupart, sont irréfutables. L’ouvrage présente, il est vrai, un foisonnement cotoyant parfois la confusion. Certaines argumentations en revanche auraient mérité un plus grand développement, par exemple sur la science biblique, les Pères grecs et latins, l’Ecole d’Alexandrie. Cette étude a donc suscité de violentes polémiques, largement relayées par l’historien philosophe allemand Kurt Flasch, signataire d’une pétition la condamnant, mais reconnaissant aussitôt que « depuis 1950 la recherche a établi de façon irréfutable la continuité des traditions platonicienne et aristotélicienne. Augustin était un fin connaisseur du néoplatonisme qu’il ne distinguait pas du platonisme. Donc, le socle grec de la culture européenne et occidentale est incontestable ». Alors, où est le problème, et pourquoi cette polémique ? Elle repose, nous l’avons dit, sur plusieurs malentendus : la confusion entre « arabe » et « musulman », la notion de « racines », qui renvoie essentiellement aux hautes époques, l’absence de distinction nette entre la connaissance d’Aristote et celle de l’ensemble du savoir grec. Les musulmans abbassides promurent en leur temps et à leur tour la tradition grecque dans certaines disciplines, essentiellement scientifiques. Nulle part l’auteur ne nie que l’Islam ait conservé et fait progresser ces disciplines, cependant toujours passées au filtre du Coran, dont l’Occident a ensuite bénéficié. Cet ouvrage est un travail de grande synthèse, on ne peut lui demander d’être, dans tous les domaines, à la fine pointe de la bibliographie, laquelle est d’ailleurs sélective. Il présente, quant à la forme, quelques irrespects concernant les règles éditoriales, fautes vénielles dont nul ne peut prétendre être exempt. Quant au fond, les preuves apportées sont nécessaires et suffisantes. Celle que l’on pourrait y ajouter est fournie par la longue fréquentation des manuscrits médiévaux, et mieux encore, le fichier du contenu des bibliothèques médiévales d’occident, élaboré par A. Vernet tout au long de sa carrière et aujourd’hui déposé à l’Institut de Recherche et d’Histoire des textes : on peut y constater qu’en effet la culture européenne ne doit pas grand’chose à l’Islam.
Il faut reconnaître à Sylvain Gouguenheim le mérite d’être allé à contre-courant de la position officielle contemporaine, d’avoir fourni aux chercheurs un gros dossier qui décape les idées reçues : une étude vaste, précise et argumentée, qui fait preuve en outre d’un remarquable courage.
Françoise Houël Gasparri
Chartiste, médieviste
Auteur de nombreux ouvrages, dont notamment :
Crimes et Chatiments en Provence au temps du Roi René , Procédure criminelle au XVe siècle, Paris, éditions Le Léopard d’or, 1989 ; Un crime en Provence au XVe siècle, Paris, Albin Michel, 1991
Correspondance Polémia – 28/06/2010
Les intertitres sont de la rédaction.
Voir : « Le retour à l’identité »
Sylvain Gouguenheim, Aristote au Mont-Saint-Michel. Les racines grecques de l’Europe chrétienne. Paris, Le Seuil (l’Univers historique), 2008, 285 pages.
00:20 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : europe, philosophie, grèce antique, grèce, moyen âge | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
Le basi militari della NATO in Sudamerica: un'invasione coordinata
Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata
di Hugo Rodríguez
Fonte: eurasia [scheda fonte]

Il presente articolo espone uno sguardo più comprensivo del coordinamento militare degli USA e del Regno Unito nella regione sudamericana. Negli ultimi due anni gli analisti locali hanno molto insistito sulla presenza americana senza mai menzionare una delle basi militari più grandi del mondo appartenente agli USA (Comando Sud) e, men che meno, senza riconoscere il ruolo e la complementarità che le stesse hanno da un punto di vista storico e fattuale nei riguardi della presenza militare del Regno Unito nella nostra terra e nelle nostre acque.
In questo primo lavoro che vi presentiamo, vogliamo solo evidenziare la localizzazione di tutte le basi (attuali e storiche); lasciando per successive illustrazioni la specifica analisi del Consiglio di Sicurezza dell’UNASUR, le analisi dei Ministeri della Difesa della regione, i loro principali successi e insuccessi.
Prendendo come spunto la ricerca effettuata dall’équipe giornalistica di TeleSur e con l’informazione ufficiale del Regno Unito e del Comando Sud degli Stati Uniti, ho sviluppato il seguente schema che evidenzia tutte le basi militari della NATO attualmente presenti in Sudamerica.
Base Militare | Localizzazione | Invasore | Organo Militare Superiore |
Malvine | Argentina | GB | NATO |
George | Argentina | GB | NATO |
Sandwich | Argentina | GB | NATO |
Tristán de Cuña | Oceano Atlantico | GB | NATO |
Santa Helena | Oceano Atlantico | GB | NATO |
Ascensión | Oceano Atlantico | GB | NATO |
Estigarribia | Paraguay | USA | NATO |
Iquitos e Nanay | Perù | USA | NATO |
Tres Esquinas | Colombia | USA | NATO |
Larandia | Colombia | USA | NATO |
Aplay | Colombia | USA | NATO |
Arauca | Colombia | USA | NATO |
Tolemaida | Colombia | USA | NATO |
Palanquero | Colombia | USA | NATO |
Malambo | Colombia | USA | NATO |
Aruba | Antillas | USA | NATO |
Curaçao | Antillas | USA | NATO |
Roosevelt | Puerto Rico | USA | NATO |
Liberia | Costa Rica | USA | NATO |
Guantánamo | Cuba | USA | NATO |
Comalapa | El Salvador | USA | NATO |
Soto Cano | Honduras | USA | NATO |
IV flotta | Oceano Atlantico y Pacifico | USA | NATO |
La NATO è un trattato degli armamenti per la protezione e la cooperazione bellico-politico-economico tra gli stati membri. Fu costituito nel clima della Guerra Fredda e il suo omologo orientale è il trattato di Varsavia. La NATO è integrata dai paesi dell’Ovest europeo e dagli Stati Uniti e Canada. Questa organizzazione militare multilaterale negli ultimi anni si è dedicata a effettuare incursioni militari nei paesi che non sono membri della stessa. Ricordiamo che l’appoggio americano al Regno Unito, nel 1982, si articolò da qui.
È importante osservare con attenzione lo schema sulle basi della NATO, perché la sua parziale visione taglia di sbieco l’analisi, il fuoco dell’attenzione e anche, poiché costituisce la cosa più importante, taglia nella direzione non corretta le raccomandazioni sulle politiche di difesa regionale. Ad esempio, coloro che mettono a fuoco le nuove basi americane in Colombia, osservano a chiare lettere che, insieme alla politica mediatica dell’America del Nord, quelle basi hanno come obiettivo il Venezuela. Altri, cioè coloro che complementano questa analisi con la localizzazione della IV flotta, osservano, invece, che il centro è il Brasile. In ogni caso, tanto la dirigenza venezuelana quanto quella brasiliana si stanno dando da fare per incrementare e aggiornare il loro equipaggiamento, navi e spesa militare per essere all’altezza delle circostanze e delle basi che li circondano. Ma gli altri paesi della regione non dovrebbero cullarsi con questa analisi, in particolare, la nostra repubblica Argentina, pensando che solo quelli citati costituiscono il bersaglio di un eventuale attacco. Come osserva Lacolla (Dall’Afganistan alle Malvine), loro vengono per sfruttare le nostre risorse, principalmente il petrolio, successivamente punteranno la mira sull’acqua. Ma attualmente, la maggioranza delle analisi geopolitiche, comprese quelle del Consiglio di Difesa dell’UNASUR, hanno ignorato nei loro studi sulla regione le basi militari del Regno Unito.
Il tipo di configurazione che questo fatto impone non serve solo per prenderle in considerazione, ma anche per conoscere quale è il coordinamento storico e fattuale delle basi del Regno Unito insieme a quelle degli Stati Uniti. Per questa regione, un’analisi corretta non si deve soffermare alle sole basi stanziate in Colombia, bensì procedere e osservare con gli stessi occhi tutte le basi militari della NATO che, evidentemente, hanno un bersaglio, il quale non è così piccolo come lo possono essere due paesi e alcune isole con petrolio. L’obiettivo è il Sudamerica (e le sue risorse) ; tuttavia, la miopia di quei dirigenti o settori presuntamente rappresentativi della nostra società che ignorano e persino deridono gli avvertimenti che gli sono rivolti, potrà diventare molto dispendiosa nel breve termine.
Dal canto suo, il Comando Sud, meglio conosciuto come IV flotta, complementa le precedenti enclave imperialiste ed è una sorta di mega base militare mobile, è congiuntamente un complesso di portaerei e navi da guerra che circondano il Sudamerica. Nella cartina concernente le basi, si trova sovrapposta un’altra cartina con la dicitura « Souther Command. Area Focus », quella è la cartina ufficiale del Senato degli Stati Uniti, è il luogo dove navigano (in acque internazionali, ma non sempre), le imbarcazioni belliche del paese di Obama. La IV flotta ebbe la sua origine durante la Guerra Fredda per arrestare l’ideologia antimperialista che fiorisce come l’eritrina nelle nostre terre, in quanto naturale reazione di autodifesa da parte di qualsiasi società aggredita. Vale a dire che, stando al margine da ogni presentazione diplomatica, quelle navi compiono la funzione di reprimere ogni manifestazione antimperialista nella regione.
Ciò che deve rimanerci ben chiaro è che sono pochi i paesi dell’America latina che stanno adottando misure per salvaguardare non solo le proprie risorse ma anche per proteggere sé stessi. La nostra amata Argentina non appartiene a quella compagine.
Fonti :
Comando Sur : http://www.southcom.mil
TeleSur : http://www.telesurtv.net
Foreign and Commonwealth Office : http://www.fco.gov.uk/en
(trad. Vincenzo Paglione)
* Hugo Rodríguez è direttore del Grupo de Estudios Estratégicos Argentinos.
Fonte : http://geopoliticaargentina.wordpress.com/2010/06/21/la-otan-en-suramerica/
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
00:15 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : géopolitique, etats-unis, défense, amérique latine, amérique du sud, géostratégie, stratégie | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
Bush-Krieger Petraeus soll es richten
00:10 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : afghanistan, etats-unis, bush, défense, moyen orient, irak, asie, affaires asiatiques | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
Traditionalism: This is the Enemy!
Traditionalism: This is the Enemy!
In the circles of what we might euphemistically call the “revolutionary right,” or more broadly the “anti-liberal right,” one can observe the recurrent rise—like outbreaks of acne—of what one can only call “metaphysical traditionalism.”
Authors like Evola or Heidegger are in general the pretexts—mark my words: the pretexts—for the expression of these tendencies, many aspects of which seem to me negative and demoralizing. These authors themselves really aren’t the problem. To speak only of Evola and Heidegger, the works of neither author—whose true ideas are often extremely distant from those of the “Evolians” and “Heideggerians”—are susceptible to the criticisms that apply to their right-wing “disciples” who are in question here.
How do we characterize this “deviation” of metaphysical traditionalism, and what are the arguments against it? This mentality is characterized by three axiomatic presuppositions:
1. Social life must be governed by “Tradition,” the forgetting of which brings about decadence.
2. All that relates to our time is darkened by this decadence. The further back one goes in the past, the less decadence there is, and vice versa.
3. Ultimately, the only things that matter are “inner” preoccupations and activities, turned towards the contemplation of a certain something usually called “being.”
Without lingering over the relatively pretentious superficiality of this outlook which prefers, instead of true reflection and clarity, the facile obscurity of the unverifiable and the free play of words, which—under the pretext of depth (and even, in certain authors with strong narcissistic tendencies, of “poetry”)—ignores the very essence of all philosophy and all lyricism, one should especially recognize that this metaphysical traditionalism is in profound contradiction with the very values it generally claims to defend, i.e., counteracting the modern ideologies, the spirit known as the “European tradition,” anti-egalitarianism, etc.
Indeed, in the first place, the obsession with decadence and the dogmatic nostalgia that it induces make it seem like a reverse progressivism, an “inverted” linear vision of history: the same frame of mind, inherited from Christian finalism, of all “modern” progressivist ideologies. History does not ascend from the past to the present but descends.
Only, contrary to the progressivist doctrines, traditionalism cultivates a profoundly demoralizing pessimism toward the world. This pessimism is of exactly the same type as the naive optimism of the progressivists. It proceeds from the same mentality and incorporates the same type of vanity, namely a propensity to verbose prophecies and to set oneself up as a judge of society, history, and the like.
This type of traditionalism, in its tendency to hate and denigrate everything in the “present day,” does not only lead its authors to bitterness and an often unjustifiable self-conceit, but reveals serious contradictions that make its discourse incoherent and unbelievable.
This hatred of the present day, the “modern age,” is absolutely not put into practice in day to day life, unlike what one often sees, for example, in Christianity. Our anti-moderns can perfectly well benefit from the conveniences of modern life.
By this they reveal the true meaning of their discourse: the expression of a guilty conscience, a “compensation” carried out by deeply bourgeois souls relatively ill at ease in the current world, but nevertheless unable to get beyond it.
In the second place, this type of traditionalism usually leads to an exaggerated individualism, the very individualism that their “communitarian” vision of the world claims to denounce in modernity.
Under the pretext that the world is “bad,” that their contemporaries are patent decadents and imbeciles, that this materialist society “corrupted by science and technology” cannot understand the higher values of inwardness, the traditionalist, who always thinks of himself as standing on the mountain tops, does not deign to descend and accept the necessity of combat in the world, but rejects any discipline, any solidarity with his people, any interest in politics.
He is interested only in his hypertrophied self.
He transmits “his” thought to future generations like a bottle in the ocean—without seeing the contradiction, since they are supposedly incapable of understanding it because of increasing decadence.
This individualism thus leads logically to the very reverse of the original ideology, i.e., to universalism and implicit globalism.
Indeed, the metaphysical traditionalist is tempted to believe that the only associations that count are “spiritual,” the communication of great thinkers, which is similar throughout the world, regardless of their origin and source, provided that they seem to reject “Western modernity.” They replace the service of the people, of politics, of community, of knowledge, of a cause, not only with the service and contemplation of the self, but with the service of mere abstractions.
They defend “values,” no matter what their place of incarnation. From this, for some, comes a captivation with Orientalism; for others, a militant globalism; and for all of them, a disillusioned disinterest in the destiny of their people.
One even arrives at straightforwardly Christian attitudes—on the part of “philosophers” who usually busy themselves fighting Christianity.
Some random examples: the choice to prize the intention over the result; the choice to judge an idea or a value in terms of their intrinsic characteristics rather than their efficacy; a spiritualistic mentality that judges all cultures and projects in terms of their spiritual “value” rather than their material effects.
This last attitude, moreover, obviously has very little to do with the European “paganism” that our traditionalists often profess.
Indeed, by looking at a work, project, or culture from an exclusively “spiritual” point of view, one posits the Christian principle of the separation of matter and spirit, the dualistic dissociation between the pure idea and the concrete product.
A culture, a project, a work are nothing but products, in the concrete and dynamic sense of the term.
From our point of view there is no separation between the “value” and its “product.” The lyrical, poetic, aesthetic qualities of a culture, work, or project are intimately incorporated in its form, in its material production. Spirit and matter are one and the same thing. The value of a man or a culture lies in their acts, not in their “being” or their past.
It is precisely this idea, going back to the most ancient sources of the European tradition, that our metaphysical traditionalists—so imbued with their spiritualism and their monotheism of the “tradition” or their quest for “Being”—readily betray.
Paradox: nobody is further from European traditions than the traditionalists. Nobody is closer to the Near Eastern spirit of the monastery.
Everything that characterizes the European tradition, everything the cults from the East tried to abolish, is exactly the reverse of what today’s European traditionalists defend.
The European spirit, or that in it which is the greatest and the most civilizing, was optimistic and not pessimistic, exteriorized and not interiorized, constructivist and not spiritualistic, philosophical and not theological, open to change not settled and complacent, creator of its own traditions and forms or immutable ideas, conquering and not contemplative, technical and urban and not pastoral, attached to cities, ports, palaces, and temples and not to the countryside (the domain of necessity), etc.
In reality, the spirit of today’s traditionalists is an integral part of Western, commercial civilization, as the museums are part of the civilization of the supermarket. Traditionalism is the shadow self, the justification, the living cemetery of the modern bourgeois.
It serves as a spiritual supplement. It makes him believe that it doesn’t matter if he likes New York, television serials, and rock ’n’ roll, provided that he has sufficient “inwardness.”
The traditionalist is superficial: the slave of his pure ideas and contemplation, of the intellectual games of philosophical poseurs, at bottom he believes thought is a distraction, an agreeable but ultimately pointless exercise, like collecting stamps or butterflies—and not a means of action, of the transformation of the world, of the construction of culture.
The traditionalist believes that values and ideas preexist action. He does not understand that action precedes all, as Goethe said, and that it is through the dynamic combination of will and action that all ideas and values are born a posteriori.
This shows us the true function of traditionalist ideologies in the anti-liberal “right.” Metaphysical traditionalism is a justification to give up any combat, any concrete project of creating a European reality different from the present day’s.
It is the ideological expression of pseudo-revolutionaries. Its regressive utopias, hazy and obscure considerations, and pointless metaphysics do more than cause fatalism, inaction, and enervation. They also reinforce bourgeois individualism by implicitly preaching the ideal type of the “thinker”—if possible contemplative and disembodied—as the pivot of history. Men of action—the true historical personalities—are thus devalued.
Because the traditionalist ultimately does not support the “community,” he declares it impossible hic et nunc and turns it into a utopian and regressive fancy lost in the mists of who knows what “tradition.”
In this sense, “anti-modern” and “antibourgeois” traditionalism belongs objectively to the system of bourgeois ideologies. Like these ideologies, its hatred of the “present” is a good way, a skilful pretext, to reject as impossible any concrete historical construction, even those opposed to the present.
At the heart of its discourse, traditionalism maintains an absurd confusion between the “modernity” of European technological-industrial civilization and the “modern spirit” of egalitarian and Western ideologies (which are arbitrarily linked to each other). Thus traditionalism disfigures, devalues (sometimes to the profit of an idealized “traditional” Third World), and abandons the Western and American spirit, the very genius of European civilization.
Like Judeo-Christianity, but for different reasons, the traditionalist says “No” to the world and consequently undermines the tradition of his own culture. Ultimately, a traditionalist is someone who always already knows that there is only one tradition, as an idealist always already knows that everything is an idea.
Finally, from the point of view of “thought”—that war-horse of metaphysical traditionalism—what could be more detrimental to the spirit, more incompatible with the quality of intellectual debate and the reflection that makes one free and contemplative, than to disembody them from all “political” projects (in the Nietzschean sense) and divert them into the elitism of bibliophiles and salaried autodidacts?
Let us dare to liquidate the Evolians and Heideggerians.
But let us read Evola and Heidegger: to put them in perspective, rather than mount them on waxed paper.
“Le traditionalisme: voilà l’ennemi,” Lutte du Peuple, no. 32, 1996.
00:05 Publié dans Nouvelle Droite | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : nouvelle droite, traditionalisme, tradition, polémique, réflexions personnelles, guillaume faye | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
jeudi, 01 juillet 2010
Jonathan Littell, lecteur de Céline
Jonathan Littell, lecteur de Céline
Si le personnage principal des Bienveillantes de Jonathan Littell (1) ne faisait pas la rencontre de Céline, il serait sans doute superflu de revenir sur ce roman. Mais il se trouve qu’au début des années trente, Maximilien Aue, futur officier nazi, accompagne Céline à un concert d’une pianiste légendaire : Marcelle Meyer (1897-1958). Quelques années plus tard, Lucien Rebatet l’emmène à plusieurs reprises chez l’écrivain. Et leur ami commun, Henri Poulain, secrétaire de rédaction de Je suis partout, lui récite dans le métro des passages entiers de L’École des cadavres. Pas moins.
Paul-Éric Blanrue a consacré à ce phénomène de l’édition qu’est Littell (800.000 exemplaires vendus à ce jour) une intéressante étude (2). Selon lui, si Céline est très peu cité dans le roman, sa présence y est constante, telle une ombre tutélaire. Rien d’étonnant à cela : Littell est – on l’a appris depuis – un « grand fan de Céline » (3).
Extrait du livre de Blanrue :
« La musique comme accompagnatrice d’une tragédie ? Précisément. Telle est une des constantes de l’œuvre de Louis-Ferdinand Céline, l’un des fantômes récurrents des Bienveillantes. Le narrateur le rencontre à deux reprises, cite quelques lignes de l’un de ses pamphlets antisémites d’avant-guerre sans le nommer (il s’agit de L’École des cadavres) et se rend au concert en sa compagnie, mais le personnage n’apparaît véritablement que dans le délire de Aue, après sa blessure à la tête (dont Céline a également souffert), sous le nom halluciné du “Dr Sardine”, Littell déclare d’ailleurs : “Céline, pour critiquer le théâtre de Sartre, lui avait lancé que l’horreur n’est rien sans le songe et sans la musique ! » (L’Est Républicain).
L’auteur de Rigodon a souvent montré le caractère hypnotique de la musique, en particulier au tout début du Voyage au bout de la nuit, lorsque Bardamu, tranquille “anar” sirotant place Clichy, se décide soudain, envoûté, charmé comme un serpent, à suivre une fanfare militaire, qui le conduit tout droit à la caserne et à la guerre de 14. “Dans le récit célinien la musique intervient en des points qui mettent en scène une désarticulation du réel, qu’il s’agisse de la “folie” qui poursuit le trépané ou des histoires de folie que sont les guerres qui parcourent le vingtième siècle et dont Céline s’est voulu le “chroniqueur” […] Ainsi qu’on a pu le lire dans Mort à crédit, la singulière écoute célinienne de la musique est liée à son expérience malheureuse de la guerre, elle est en lui l’empreinte que la guerre a laissée, son sceau, blessure et détraquement du corps”, écrit François Bruzzo (Francofonia, n° 22, printemps 1992). Il en va de même dans Les Bienveillantes, où la musique indique un tracé, un chemin de fer dont il semble difficile de se détourner. »
On voit que Paul-Éric Blanrue est attentif aux aspects proprement littéraires du livre, même s’il entend avant tout avoir une démarche d’historien. Depuis une vingtaine d’années, il a entrepris un véritable travail de démystification, fondant le « Cercle zététique » qui se propose d’enquêter sur tous les sujets relevant de l’extraordinaire, tant en science qu’en histoire.
Pour conclure, relevons l’ironie du sort qui a voulu que le Prix Goncourt ait été attribué à Littell alors qu’il échappa, comme on sait, à Céline. Mieux : Littell a également décroché le Grand Prix de l’Académie française. Un hebdomadaire satirique en a fait des gorges chaudes, le français du jeune Américain laissant fortement à désirer (4). Il ne faut, en effet, pas être grand clerc pour constater que le roman est truffé de fautes de style, de barbarismes, de solécismes et surtout d’anglicismes. Mauvaise traduction ou mauvaise relecture de Gallimard ?
Marc LAUDELOUT
1. Jonathan Littel, Les Bienveillantes, Gallimard, 2006, 908 p. Nous n’avons pas consulté la réédition en poche qui est, paraît-il, débarrassée de ces scories.
2. Paul-Éric Blanrue, Les Malveillantes. Enquête sur le cas Jonathan Littel, Éditions Scali, 2006, 128 p. Voir aussi le site Internet de l’auteur : www.blanrue.com.
3. Christophe Ono-dit-Biot, « Beyrouth, Littell, l’art de la guerre », Le Point, 21 décembre 2006.
4. « Bienveillante Académie », Le Canard enchaîné, 8 novembre 2006. Voir aussi les contre-arguments de Florence Mercier-Leca, maître de conférences à l’Université de Paris IV-Sorbonne : « “Les Bienveillantes” : la confusion des genres », La Quinzaine littéraire, 1er-15 décembre 2006.
Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

Paul-Éric Blanrue a consacré à ce phénomène de l’édition qu’est Littell (800.000 exemplaires vendus à ce jour) une intéressante étude (2). Selon lui, si Céline est très peu cité dans le roman, sa présence y est constante, telle une ombre tutélaire. Rien d’étonnant à cela : Littell est – on l’a appris depuis – un « grand fan de Céline » (3).
Extrait du livre de Blanrue :
« La musique comme accompagnatrice d’une tragédie ? Précisément. Telle est une des constantes de l’œuvre de Louis-Ferdinand Céline, l’un des fantômes récurrents des Bienveillantes. Le narrateur le rencontre à deux reprises, cite quelques lignes de l’un de ses pamphlets antisémites d’avant-guerre sans le nommer (il s’agit de L’École des cadavres) et se rend au concert en sa compagnie, mais le personnage n’apparaît véritablement que dans le délire de Aue, après sa blessure à la tête (dont Céline a également souffert), sous le nom halluciné du “Dr Sardine”, Littell déclare d’ailleurs : “Céline, pour critiquer le théâtre de Sartre, lui avait lancé que l’horreur n’est rien sans le songe et sans la musique ! » (L’Est Républicain).
L’auteur de Rigodon a souvent montré le caractère hypnotique de la musique, en particulier au tout début du Voyage au bout de la nuit, lorsque Bardamu, tranquille “anar” sirotant place Clichy, se décide soudain, envoûté, charmé comme un serpent, à suivre une fanfare militaire, qui le conduit tout droit à la caserne et à la guerre de 14. “Dans le récit célinien la musique intervient en des points qui mettent en scène une désarticulation du réel, qu’il s’agisse de la “folie” qui poursuit le trépané ou des histoires de folie que sont les guerres qui parcourent le vingtième siècle et dont Céline s’est voulu le “chroniqueur” […] Ainsi qu’on a pu le lire dans Mort à crédit, la singulière écoute célinienne de la musique est liée à son expérience malheureuse de la guerre, elle est en lui l’empreinte que la guerre a laissée, son sceau, blessure et détraquement du corps”, écrit François Bruzzo (Francofonia, n° 22, printemps 1992). Il en va de même dans Les Bienveillantes, où la musique indique un tracé, un chemin de fer dont il semble difficile de se détourner. »
On voit que Paul-Éric Blanrue est attentif aux aspects proprement littéraires du livre, même s’il entend avant tout avoir une démarche d’historien. Depuis une vingtaine d’années, il a entrepris un véritable travail de démystification, fondant le « Cercle zététique » qui se propose d’enquêter sur tous les sujets relevant de l’extraordinaire, tant en science qu’en histoire.
Pour conclure, relevons l’ironie du sort qui a voulu que le Prix Goncourt ait été attribué à Littell alors qu’il échappa, comme on sait, à Céline. Mieux : Littell a également décroché le Grand Prix de l’Académie française. Un hebdomadaire satirique en a fait des gorges chaudes, le français du jeune Américain laissant fortement à désirer (4). Il ne faut, en effet, pas être grand clerc pour constater que le roman est truffé de fautes de style, de barbarismes, de solécismes et surtout d’anglicismes. Mauvaise traduction ou mauvaise relecture de Gallimard ?
Marc LAUDELOUT
1. Jonathan Littel, Les Bienveillantes, Gallimard, 2006, 908 p. Nous n’avons pas consulté la réédition en poche qui est, paraît-il, débarrassée de ces scories.
2. Paul-Éric Blanrue, Les Malveillantes. Enquête sur le cas Jonathan Littel, Éditions Scali, 2006, 128 p. Voir aussi le site Internet de l’auteur : www.blanrue.com.
3. Christophe Ono-dit-Biot, « Beyrouth, Littell, l’art de la guerre », Le Point, 21 décembre 2006.
4. « Bienveillante Académie », Le Canard enchaîné, 8 novembre 2006. Voir aussi les contre-arguments de Florence Mercier-Leca, maître de conférences à l’Université de Paris IV-Sorbonne : « “Les Bienveillantes” : la confusion des genres », La Quinzaine littéraire, 1er-15 décembre 2006.
00:15 Publié dans Littérature | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : littérature, lettres, lettres françaises, littérature française, céline | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
La "Damnatio memoriae" fruto de la memoria historica
La Damnatio memoriae fruto de la memoria histórica
Alberto Buela (*)
Cuando el historiador Ernst Nolte demostró allá por los años ochenta del siglo pasado que la historia reciente de Alemania, especialmente la de la segunda guerra mundial, se había transformado en un pasado que no pasa, el mundo académico y los voceros de la policía del pensamiento saltaron como leche hervida. Es que Nolte puso en evidencia el mecanismo por el cual la memoria histórica había reemplazado a la historia como ciencia, con lo que quedó en evidencia la incapacidad histórica de los famosos académicos y los presupuestos ideológicos-políticos que guiaban sus investigaciones.
Es sabido que la memoria es siempre la memoria de un sujeto individual o si se quiere de una persona, singular y concreta. La memoria no existe más que como memoria de alguien. Su naturaleza estriba en otorgarle al sujeto el principio de identidad. Yo soy yo y me reconozco como tal a lo largo del tiempo de mi vida por la memoria que tengo de mi mismo desde que existo hasta el presente. Si existe o no una “memoria colectiva” esta es una cuestión que no está resuelta. El gran historiador alemán Reinhart Koselleck (1923-2006) sostuvo que no. Así, en su última entrevista en Madrid, publicada póstumamente el 24/4/2007, afirma:
“ Y mi posición personal en este tema es muy estricta en contra de la memoria colectiva, puesto que estuve sometido a la memoria colectiva de la época nazi durante doce años de mi vida. Me desagrada cualquier memoria colectiva porque sé que la memoria real es independiente de la llamada "memoria colectiva", y mi posición al respecto es que mi memoria depende de mis experiencias, y nada más. Y se diga lo que se diga, sé cuáles son mis experiencias personales y no renuncio a ninguna de ellas. Tengo derecho a mantener mi experiencia personal según la he memorizado, y los acontecimientos que guardo en mi memoria constituyen mi identidad personal. Lo de la "identidad colectiva" vino de las famosas siete pes alemanas: los profesores, los sacerdotes (en el inglés original de la entrevista: priests), los políticos, los poetas, la prensa..., en fin, personas que se supone que son los guardianes de la memoria colectiva, que la pagan, que la producen, que la usan, muchas veces con el objetivo de infundir seguridad o confianza en la gente... Para mí todo eso no es más que ideología. Y en mi caso concreto, no es fácil que me convenza ninguna experiencia que no sea la mía propia. Yo contesto: "Si no les importa, me quedo con mi posición personal e individual, en la que confío". Así pues, la memoria colectiva es siempre una ideología, que en el caso de Francia fue suministrada por Durkheim y Halbwachs, quienes, en lugar de encabezar una Iglesia nacional francesa, inventaron para la nación republicana una memoria colectiva que, en torno a 1900, proporcionó a la República francesa una forma de autoidentificación adecuada en una Europa mayoritariamente monárquica, en la que Francia constituía una excepción. De ese modo, en aquel mundo de monarquías, la Francia republicana tenía su propia identidad basada en la memoria colectiva. Pero todo esto no dejaba de ser una invención académica, asunto de profesores.”
En concordancia con esto ya había reaccionado cuando el gobierno alemán decidió erigir un símil de la estatua de La Piedad en la Neue Wache para venerar a las víctimas de las guerras producidas por Alemania. Koselleck levantó su voz crítica para advertir que un monumento de connotación cristiana resultaba una "aporía de la memoria" frente a los millones de judíos caídos en ese trance. Pero también en 1997, cuando el ayuntamiento de Berlín decidió erigir un monumento para recordar el Holocausto judío, volvió a la palestra para recordar que los alemanes habían matado por igual a católicos, comunistas, soviéticos, gitanos y gays. Nadie como él, entre los historiadores, hizo tanto para desembarazar a la escritura y a las representaciones de la historia del brete a que la someten los ideólogos de la “memoria histórica”.
El reemplazo de la historia como ciencia, como conocimiento por las causas, con el manejo metodológico que exige el trabajo sobre los testimonios y materiales del pasado, por parte de la memoria histórica siempre parcial e interesada (la ideología es un conjunto de ideas que enmascara los intereses de un grupo, clase o sector) ha desembocado en la moderna damnatio memoriae o condena de la memoria.
La damnatio memoriae era una condena judicial que practicaba el senado romano con los emperadores muertos por la cual se eliminaba todo aquello que lo recordaba. Desde Augusto en el 27 a.C. hasta Julio Nepote en el 480 d.C. fueron 34 los emperadores condenados. Se llegaba incluso hasta la abolitio nominis, borrando su nombre de todo documento e inscripción. Se buscaba la destrucción de todo recuerdo. Se destruían sus bustos y estatuas. Suetonio cuenta que los senadores lanzaban sobre el emperador muerto las más ultrajantes y crueles invectivas. La intención era borrar del pasado todo vestigio que recordara su presencia.
Las damnationes se realizaban a partir del poder constituido y su presupuesto ideológico era: de aquello que no se habla no existe. Arturo Jauretche, ese gran pensador popular argentino en su necrológica de nuestro maestro, José Luís Torres, nos habla de la confabulación del silencio como mejor mecanismo de los grupos de poder. Es una manifestación de prepotencia del poder establecido, con lo que busca eliminar el recuerdo del adversario, quedando así el poder actual como único dueño del pasado colectivo.
No es necesario ser un sutil pensador para comparar estas destrucciones de la memoria y eliminaciones de todo recuerdo con lo que sucede con nuestros gobiernos de hoy. En España una vez muerto Franco comenzó una campaña de difamación contra su persona y sus obras que llegó hasta cambiarle el nombre al pueblo donde nació. En Argentina cuando cayó Perón en 1955 se prohibió hasta su nombre (por dictador), reapareció la vieja abolitio nominis. Hace poco tiempo el gobierno de Kirchner hizo bajar el cuadro del ex presidente Videla (por antidemócrata). Al General Roca que llevó la guerra contra el indio le quieren voltear la estatua (por genocida). Se le quitó el nombre del popular escritor Hugo Wast a un salón de la biblioteca nacional (por antijudío). Y así suma y sigue.
Cuando la historia de un pueblo cae en manos de la memoria colectiva o de la memoria histórica lo que se produce habitualmente es la tergiversación de dicha historia, cuya consecuencia es la perplejidad de ese pueblo, pues se conmueven los elementos que conforman su identidad.
Es que la memoria lleva, por su subjetividad, necesariamente a valorar de manera interesada lo qué sucedió y cómo sucedió. Así para seguir con los ejemplos puestos, objetivamente considerados, Franco fue un gobernante austero y eficaz, Perón no fue un dictador, Videla fue un liberal cruel, Roca no fue un genocida y Wast fue un novelista católico. Vemos que aquello que deja la memoria histórica es un relato mentiroso que extraña al hombre del pueblo sobre sí mismo.
La memoria histórica es un producto de la mentalidad y los gobiernos jacobinos, aquellos que gobiernan a favor de unos grupos y en contra de otros. Aquellos que utilizan los aparatos del Estado no en función de la concordia interior sino como ejercicio del resentimiento, esto es, del rencor retenido, dando a los amigos y quitando a los enemigos. La sana tolerancia de la visión y versión del otro acerca de los acontecimientos históricos es algo que la memoria histórica no puede soportar, la rechaza de plano. La consecuencia lógica es la dammnatio memoriae, la condena de la memoria del otro.
(*) arkegueta, eterno comenzante- Univ. Tecnológica Nacional
00:10 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, argentine, amérique latine, amérique du sud, histoire, philosophie de l'histoire | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
La lutte du Japon contre les impérialismes occidentaux
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1997
La lutte du Japon contre les impérialismes occidentaux
Intervention de Robert Steuckers, 5ième université d'été de la F.A.C.E. et de «Synergies Européennes», Varese, Lombardie, 1 août 1997
Les principales caractéristiques politiques du Japon avant son ouverture forcée en 1853 étaient:
1. Un isolement complet
2. Un gouvernement assuré par le Shôgun, c'est-à-dire un pouvoir militaire.
3. La fonction impériale du Tennô est purement religieuse.
4. La société est divisée en trois castes:
- les Daimyos, seigneurs féodaux.
- les Samouraïs, fonctionnaires et vassaux.
- les Hinin, le peuple.
Sous le Shôgun YOSHIMUNE (1716-1745), le pouvoir impose:
- des taxes sur les biens de luxe afin d'"ascétiser" les daimyos et les samouraïs qui s'amollissaient dans l'hédonisme.
- une élévation des classes populaires.
- la diffusion de livres européens, à partir de 1720 (afin de connaître les techniques des Occidentaux).
Sous le Shôgun IEHARU (1760-1786), le Japon connaît une phase de déclin:
- la misère se généralise, les castes dirigeantes entrent en décadence (les tentatives de Yoshimune ont donc échoué).
- la misère générale entraîne le déclin du Shôgunat.
- on assiste alors à une réaction nationale, portée par le peuple, qui revalorise le shintoïsme et la figure du Tennô au détriment du Shôgun.
Avant l'ouverture, le Japon présente:
1. Une homogénéité territoriale:
- Trois îles + une quatrième en voie de colonisation, soit Kiou-Shou, Shikoku, Honshu + Hokkaïdo).
- Sakhaline et les Kouriles sont simplement perçues comme des atouts stratégiques, mais ne font pas partie du "sol sacré" japonais.
2. Une homogénéité linguistique.
3. Une certaine hétérogénéité religieuse:
- le Shinto est l'élément proprement japonais.
- le bouddhisme d'origine indienne a été ajouté à l'héritage national.
- le confucianisme d'origine chinoise est un corpus plus philosophique que religieux et il a été ajouté au syncrétisme bouddhisme/shintoïsme.
- la pratique du prosélytisme n'existe pas au Japon.
- la vie religieuse est caractérisée par une co-existence et un amalgame des cultes: il n'existe pas au Japon de clivages religieux antagonistes comme en Europe et en Inde.
- aucune religion au Japon n'aligne de zélotes.
4. Une homogénéité ethnique:
(la majeure partie de la population est japonaise, à l'exception des Aïnous minoritaires à Hokkaïdo, des Coréens ostracisés et d'une caste d'intouchables nommé "Eta").
Cette esquisse du Japon d'avant l'ouverture et ces quatre facteurs d'homogénéité ou d'hétérogénéité nous permettent de dégager trois leitmotive essentiels:
1. Contrairement à l'Occident chrétien ou même à l'Islam, le Japonais n'est pas religieux sur le mode de la disjonction (ou bien... ou bien...). Il ne dit pas: “je suis protestant ou catholique et non les deux à la fois”. Il est religieux sur le mode CUMULATIF (et... et...). Il dit: "Je suis ET bouddhiste ET shintoïste ET confucianiste ET parfois chrétien...). Le mode religieux du Japonais est le syncrétisme.
2. Le Japonais ne se perçoit pas comme un individu isolé mais comme une personne en relation avec autrui, avec ses ancêtres décédés et ses descendants à venir.
3. Pour le Japonais, la Nature est toute compénétrée d'esprits, sa conception est animiste à l'extrême, au point que les poissonniers, par exemple, érigent des stèles en l'honneur des poissons dont ils font commerce, afin de tranquiliser leur esprit errant. Les poissonniers japonais viennent régulièrement apporter des offrandes au pied de ces stèles érigées en l'honneur des poissons morts pour la consommation. A l'extrême, on a vu des Japonais ériger des stèles pour les lunettes qu'ils avaient cassées et dont ils avaient eu un bon usage. Ces Japonais apportent des offrandes en souvenir des bons services que leur avaient procurés leurs lunettes.
LE JAPON ET L'EUROPE:
Premiers contacts:
- Avec les Portugais (chargé d'explorer, de coloniser et d'évangéliser toutes les terres situées à l'Est d'un méridien fixé par le Traité de Tordesillas).
- Avec les Portugais s'installent les premières missions chrétiennes, composées de Franciscains, de Dominicains et de Jésuites.
- Le Shôgun IYEYASU est bouddhiste, membre de la secte Jodo, et s'oppose au christianisme parce que cette religion occidentale:
a) exclut les autres cultes et refuse leur juxtaposition pacifique;
b) génère des querelles incompréhensibles entre Franciscains et Dominicains espagnols d'une part et Jésuites portugais d'autre part;
c) parce que les Anglais et les Hollandais, qui harcèlent les deux puissances catholiques ibériques, promettent de ne pas s'ingérer dans les affaires religieuses du Japon, de ne pas installer de missions et donc de ne pas transposer les querelles de l'Occident au Japon.
- Après l'éviction des Portugais et des Espagnols catholiques, l'influence européenne la plus durable sera la hollandaise. Elle s'exercera surtout sur le plan intellectuel et scientifique, notamment en agriculture et en anatomie.
Le JAPON FACE AUX PUISSANCES LIBÉRALES (USA/GRANDE-BRETAGNE):
- Les Japonais se désintéressent des marchandises que leur proposent les Anglais.
- Pour gagner quand même de l'argent, les Anglais vendent de la drogue (opium).
- Ils obligent ensuite les Japonais à accepter des "traités inégaux", équivalent à un régime de "capitulations".
- Ils obligent les Japonais à accepter un statut d'EXTRA-TERRITORIALITÉ pour les résidents étrangers qui sont ainsi soustraits à toute juridiction japonaise (cette mesure a été prise à la suite de la décapitation de plénipotentiaires portugais de Macao, exécutés sans jugement et arbitrairement).
- Ils obligent les Japonais à renoncer à ériger tous droits de douane et à respecter de la façon la plus absolue le principe du "libre marché".
- Sans appareil politico-administratif issu d'un mercantilisme ou d'un protectionnisme bien étayés, les Japonais sont à la merci du capital étranger.
- Face à cette politique anglaise, qui sera appliquée également par les Etats-Unis à partir de 1853, les Japonais comprennent qu'ils doivent à tout prix éviter le sort de l'Inde, de la Chine et de l'Egypte (cette dernière était un Etat solidement établi au début du 19ième siècle, selon les principes de l'"Etat commercial fermé” de Fichte).
- Le Japon se rend compte qu'il doit adopter:
a) la technologie occidentale (armes à feu, artillerie, navires de guerre).
b) les méthodes d'organisation occidentales (il adoptera les méthodes prussiennes).
c) les techniques navales occidentales.
Pour ne pas être démuni face aux puissances européennes et aux Etats-Unis. Cette volonté de s'adapter aux technologies occidentales ouvrira l'Ere Meiji à partir de 1868.
Géopolitiquement, à partir de 1868, le Japon était coincé entre la Russie et les Etats-Unis. La Russie avançait ses pions en Sibérie orientale. Les Etats-Unis transformaient le Pacifique en lac américain.
LE JAPON FACE AUX ÉTATS-UNIS:
- Date clef: 1842. Cette année-là voit la fin de la première guerre de l'opium entre la Grande-Bretagne et la Chine. Londres impose aux Chinois le Traité de Nankin, où le Céleste Empire doit accepter la clause de la nation la plus favorisée à toutes les puissances occidentales. Sur le continent américain, les derniers soldats russes quittent leur colonie de Californie (Fort Ross).
- En 1844 est signé le Traité de Wanghia entre la Chine et les Etats-Unis. Ce Traité amorce la politique commerciale américaine en direction de l'immense marché potentiel qu'est la Chine. Jamais les Américains ne renonceront à conquérir ce marché.
- Dès le Traité de Wanghia, la volonté d'expansion des Etats-Unis dans le Pacifique prend forme.
- En 1845, cette longue marche en direction de l'hypothétique marché chinois commence sur le territoire américain lui-même, par la querelle de l'Oregon. Sur ce territoire sans souveraineté claire (ni britannique ni américaine), les Etats-Unis veulent imposer exclusivement leur souveraineté, car ils considèrent que cette région est un tremplin vers les immensités océaniques du Pacifique.
- Dans la presse de l'époque, les intentions géopolitiques des Etats-Unis s'expriment en toute clarté: «L'Oregon est la clef du Pacifique». Au Congrès, un Sénateur explique sans circonlocutions: «Avec l'Oregon, nous dominerons bientôt tout le commerce avec les îles du Pacifique-Sud et avec l'Asie orientale». Finalement, les Etats-Unis imposent leur volonté aux Britanniques (qui conservent néanmoins Vancouver, surnommé depuis une dizaine d'années, "Han-couver").
- En 1847, les Etats-Unis amorcent les premières négociations avec les Russes en vue d'acheter l'Alaska et les Aléoutiennes; ils envisagent ainsi de projeter leur puissance en direction de la Mer d'Okhotsk et du Japon (en 1867, vingt ans après le début des pourparlers, l'Alaska deviendra effectivement américain).
- En 1848, après une guerre avec le Mexique, les Etats-Unis annexent le Texas, le Nouveau-Mexique et la Californie. Ils possèdent désormais une façade pacifique.
- L'objectif est clairement esquissé: c'est la création d'un "nouvel empire" américain dans le Pacifique.
Le théoricien de cette expansion pacifique est William H. Seward. Ses théories se résument en huit points:
1. Cet empire sera commercial et non militaire.
2. Il devra compenser l'insuffisance du marché intérieur américain.
3. Il devra lancer et consolider l'industrie américaine.
4. Il devra être épaulé par un flotte de guerre importante.
5. Il devra être structuré par une chaîne de comptoirs, de points d'appui et de stations de charbon (pour les navires de commerce et de guerre).
6. Il ne devra pas être colonial au sens romain et européen du terme, mais se contenter d'une collection de “Hong-Kongs” américains.
7. Il devra viser le marché chinois et éviter toute partition de la Chine.
8. Il devra faire sauter les verrous japonais.
En 1853, avec l'expédition des canonnières du Commandant Perry, la marine américaine ouvre de force le Japon au commerce international. A partir de 1853, les Etats-Unis cherchent à contrôler îles et archipels du Pacifique.
Ce seront, tour à tour, Hawaï, Samoa (où ils s'opposeront aux Allemands et perdront la première manche) et les Philippines (qu'ils arracheront à l'Espagne à la suite de la guerre de 1898).
Avec l'acquisition des Philippines, les Etats-Unis entendent s'approprier le marché chinois, en chasser les puissances européennes et le Japon et y imposer à leur profit une économie des "portes ouvertes".
Le JAPON FACE À LA RUSSIE:
- Au 19ième siècle, la Russie s'étend en Eurasie septentrionale et en Asie Centrale. Elle vise à faire du fleuve Amour sa frontière avec la Chine, afin d'avoir pour elle le port de Vladivostok (gelé toutefois pendant quatre mois par an), puis d'étendre son protectorat à la Mandchourie et d'avancer ses pions en direction de la Mer Jaune, mer chaude, et d'utiliser Port Arthur pour avoir sa propre façade pacifique.
- La Russie encercle ainsi la Corée, convoitée par le Japon et coincée entre Vladivostok et Port Arthur.
- La Grande-Bretagne et les Etats-Unis veulent maintenir la Russie le plus loin possible de la Chine et du littoral pacifique.
- Pour contenir la Russie, la Grande-Bretagne conclut une alliance avec le Japon.
- L'appui de la haute finance new-yorkaise permet au Japon de bénéficier de crédits pour mettre sur pied une armée de terre et une marine de guerre.
- Au même moment, s'enclenche dans la presse libérale du monde entier une propagande contre le Tsar, "ennemi de l'humanité". Simultanément, émerge un terrorisme en Russie, qui agit comme cinquième colonne au profit des Britanniques, des financiers américains et des Japonais (qui servent de chair à canon).
- Le Japon frappe les Russes à Port Arthur par surprise, sans déclaration de guerre.
- La Russie doit envoyer sa flotte de la Baltique à la rescousse. Mais les Anglais ferment Suez et refusent de livrer eau potable et charbon aux navires russes.
- La Russie est battue et doit composer.
- Les Etats-Unis, qui avaient cependant soutenu le Japon, font volte-face, craignant la nouvelle puissance nippone en Mandchourie, en Corée et en Chine.
- Sous la pression américaine, les Japonais sont contraints de renoncer à toutes réparations russes, alors qu'ils comptaient sur celles-ci pour rembourser leurs emprunts new-yorkais.
- Les intrigues américaines font du Japon un pays endetté, donc affaibli, et, croit-on, plus malléable.
- Dès 1907, on assiste à un rapprochement entre Russes et Japonais.
- En 1910, les Japonais s'emparent définitivement de la Corée, sans pour autant inquiéter les Russes.
- De 1914 à 1918, les Japonais s'emparent des établissements et colonies du Reich dans le Pacifique et en Chine.
- Les Japonais interviennent dans la guerre civile russe en Sibérie:
a) ils appuient les troupes de l'Amiral Koltchak qui se battent le long du Transsibérien et dans la région du Lac BaÏkal au nord de la Mongolie.
b) ils appuient la cavalerie asiatique du Baron Ungern-Sternberg en Mongolie.
c) ils tentent de pénétrer en Asie centrale, via le Transsibérien, la Mandchourie et la Mongolie.
LE RETOURNEMENT AMERICAIN ET LA « CONFERENCE DE WASHINGTON »
- Les Etats-Unis s'opposent à cette pénétration japonaise et appuient en sous-main les Soviétiques en:
a) décrétant l'embargo sur les exportations de coton vers les Japon;
b) interdisant l'importation de soies japonaises aux Etats-Unis;
c) provoquant ainsi un chomâge de masse au Japon, lequel est dès lors incapable de financer ses projets géopolitiques et géoéconomiques en Asie septentrionale (Mandchourie et Mongolie).
- En 1922, se tient la CONFÉRENCE DE WASHINGTON.
Les Américains y imposent au monde entier leur point de vue:
1. L'Angleterre est priée de retirer définitivement tout appui au Japon.
2. Les Japonais doivent se retirer de Sibérie (et abandonner Koltchak et Ungern-Sternberg).
3. Les Japonais doivent rendre à la Chine le port ex-allemand de Kiao-Tchau.
4. La Chine doit pratiquer une politique des "portes ouvertes" (en théorie, le Japon et les Etats-Unis sont à égalité dans la course).
5. Les Etats-Unis imposent un équilibrage ou une limitation des marines de guerre:
- Les Etats-Unis et la Grande-Bretagne peuvent aligner chacun 525.000 tonnes.
- Le Japon doit se contenter de 315.000 tonnes.
- L'Italie et la France se voient réduites à 175.000 tonnes chacune (Georges Valois, Charles Maurras et l'état-major de la marine française s'en insugeront, ce qui explique la germanophilie des marins français pendant la seconde guerre mondiale, de même que leur européisme actuel).
- La marine allemande est quasiment réduite à néant depuis Versailles et n'entre donc pas en ligne de compte à Washington en 1922.
- Le Japon est dès lors réduit au rôle d'une puissance régionale sans grand avenir et est condamné au "petit cabotage industriel".
- Les militaires japonais s'opposeront à cette politique et, dès 1931, une armée "putschiste", mais non sanctionnée pour avoir perpétré ce putsch, pénètre en Mandchourie, nomme Empereur du "Mandchoukuo, Pu-Yi, dernier héritier de la dynastie mandchoue et pénètre progressivement en Mongolie intérieure, ce qui lui assure un contrôle indirect de la Chine.
- Washington refuse le fait accompli imposé par les militaires japonais. C'est le début de la guerre diplomatique qui se muera en guerre effective dès 1941 (Pearl Harbour).
LE JAPON ET L'ALLEMAGNE:
C'est le facteur russe qui déterminera les rapports nippo-germaniques.
- L'Allemagne s'intéresse au Japon pour:
a) créer un front oriental contre la Russie qui se rapproche de la France.
b) créer une triplice Berlin-Pétersbourg-Tokyo.
- En 1898, au moment de la guerre hispano-américaine, le ministre japonais ITO HIROBUMI suggère une alliance eurasiatique entre l'Allemagne, la Russie et le Japon. C'est au Japon, en lisant les écrits du Prince Ito, que Haushofer a acquis cette idée de "bloc continental" et l'a introduite dans la pensée politique allemande.
- Mais en Allemagne on s'intéresse très peu au Japon et bien davantage à la Chine.
- Guillaume II est hanté par l'idée du "péril jaune" et veut une politique dure en Asie, à l'égard des peuples jaunes. Sa politique est de laisser faire les Russes.
- Par ailleurs, les diplomates allemands craignent que des relations trop étroites avec le Japon ne braquent la Russie et ne la range définitivement dans le camp français.
- L'Allemagne refuse de se joindre au Pacte nippo-britannique de 1902 contre la Russie et braque ainsi l'Angleterre (qui s'alliera avec la France et la Russie contre l'Allemagne en 1904: ce sera l'Entente).
- En 1905, la Russie, après sa défaite, quitte le théâtre extrême-oriental et jette son dévolu en Europe aux côtés de la France.
- L'Allemagne est présente en Micronésie mais sans autre atout: elle en sera chassée après la première guerre mondiale.
Les déboires et les maladresses de l'Allemagne sur le théâtre pacifique lui coûteront cher. Ce sera l'obsession du géopolitologue Haushofer.
Le DISCOURS DE LA POLITIQUE JAPONAISE:
Face à l'Europe et surtout aux Etats-Unis, à partir de la Conférence de Washington de 1922, quel discours alternatif le Japon va-t-il développer?
A. Les idéologies au Japon en général:
Pierre Lavelle, spécialiste français de la pensée japonaise distingue:
1. des formes idéologiques traditionnelles
2. des formes idéologiques néo-traditionnelles
3. des formes idéologiques modernes.
1. Les formes traditionnelles:
- Parmi les formes traditionnelles, le Shinto cherche à s'imposer comme idéologie officielle de la japonitude.
- Mais cette tentative se heurte au scepticisme des dirigeants japonais, car le Shinto éprouve des difficultés à penser le droit et la technique.
- Au cours des premières décennies de l'Ere Meiji, le bouddhisme perd du terrain mais revient ensuite sous des formes innovantes.
- Le confucianisme est revalorisé dans les milieux ultra-nationalistes et dans les milieux patronaux.
2. Les formes néo-traditionnelles:
- Leur objectif:
a) garder une identité nationale
b) cultiver une fierté nationale
c) faire face efficacement au monde extérieur avec les meilleures armes de l'Occident.
3. Les formes modernes:
- C'est d'abord la philosophie utilitariste anglo-saxonne qui s'impose au milieu du XIXième siècle.
- Après 1870, les orientations philosophiques japonaises s'inspirent de modèles allemands (ce qui perdurera).
- Vers 1895 disparaissent les dernières traces du complexe d'infériorité japonais.
- De 1900 à nos jours, la philosophie japonaise aborde les mêmes thématiques qu'en Europe et aux Etats-Unis.
- La dominante allemande est nette jusqu'en 1945.
- De 1955 à 1975 environ, le Japon connaît une période française. Michel Foucault est fort apprécié.
- Aujourd'hui, l'Allemagne reste très présente, ainsi que les philosophes anglo-saxons. Heidegger semble être le penseur le plus apprécié.
B. Le PANASIATISME (1):
L'idéal panasiatique repose sur deux idées maîtresses:
- Le Japon est puissance dominante qui a su rester elle-même et a assimilé les techniques de l'Occident.
- Le Japon est une puissance appelée à organiser l'Asie.
Dans cette optique, deux sociétés patriotiques émergent:
1) La Société du Détroit de Corée (Gen'yôsha).
2) La Société du Fleuve Amour (Kokuryûkai).
C. La “DOCTRINE D'ÉTAT”: POSITIONS ET FIGURES
Positions:
1. Centralité du Tennô/de la Maison Impériale.
2. Le Shintô d'Etat qui laisse la liberté des cultes mais impose un civisme à l'égard de l'Empereur et de la nation japonaise.
3. L'âme des sujets n'est pas distincte de l'Auguste Volonté du Tennô.
4. La vision sociale de Shibuwasa Eiichi (1841-1931):
a) subordonner le profit à la grandeur nationale;
b) subordonner la compétition à l'harmonie;
c) subordonner l'esprit marchand à l'idéalisme du samouraï.
Ce qui implique:
- des rapports non froidement contractuels;
- des relations de type familial dans l'entreprise.
5. L'idéal bismarckien d'un Etat social fort et protectionniste, s'inscrivant dans le sillage de l'école historique allemande.
6. Le développement d'un nationalisme étatique reposant, chez Inoue Testujiro (1856-1944):
a) sur une modernisation du confucianisme;
b) sur le panasiatisme;
c) sur le rejet du christianisme.
Et chez Takayama Chogyu (1871-1902) sur l'idée que le Japon est le champion des "Non-Aryens” dans la grande lutte finale entre les races qui adviendra.
7. Le développement concommittant d'un nationalisme populaire, dont les idées-forces sont:
a) le refus de l'étiquette occidentale dans les rituels d'Etat japonais.
b) la défense de l'essence nationale (kokusui).
c) la remise en cause de l'idée occidentale du progrès unilinéaire.
d) la nation est la médiation incontournable des contributions de l'individu à l'humanité.
Figures:
1. Miyake Setsurei (1868-1945):
- L'objectif du Japon doit être le suivant: il doit faire la synthèse de l'émotion chinoise, de la volonté indienne et de l'intelligence occidentale (la démarche, comme toujours au Japon, est une fois de plus CUMULATIVE).
- Le Japon doit être capable de bien faire la guerre.
- Le Japon doit éviter le piège du bureaucratisme.
- Le Japon doit adopter le suffrage universel, y compris celui des femmes.
2. Shiga Shigetaka (1863-1927):
- L'identité culturelle japonaise passe par une valorisation des paysages nationaux (Shiga Shigetaka est écologiste et géophilosophe avant la lettre).
- L'expansion dans le Pacifique doit se faire par le commerce plutôt que par les armes.
3. Okahura Tenshin (1862-1913)
- Le Japon doit prendre conscience de son asiatisme.
- Il doit opérer un retour aux valeurs asiatiques.
- Il doit s'inspirer de la démarche de l'Indien Rabindranath Tagore (1861-1941), champion de l'émancipation indienne et asiatique.
- Les valeurs asiatiques sont: le monisme, la paix, la maîtrise de soi, l'oubli de soi, une notion de la famille centrée sur la relation entre générations et non sur le couple.
4. Les nationalistes chrétiens:
Attention: les chrétiens japonais sont souvent ultra-nationalistes et anti-américains.
Pour les nationalistes chrétiens, les valeurs communes du christianisme et du Japon sont:
- la fidélité, l'ascèse, le sacrifice de soi, le dévouement au bien public, l'idée d'une origine divine de toute autorité.
Les chrétiens protestants:
a. Ebina Danjô (1856-1937):
- L'Ancien Testament doit être remplacé par la tradition japonaise.
- Le Tennô doit être adjoint à la Sainte-Trinité.
b. Uchimura Kanzô (1861-1930):
- L'Occident n'applique pas les principes chrétiens, c'est au Japon de les appliquer en les japonisant.
c. Les Catholiques:
En 1936, le Vatican s'en tire avec une pirouette: le Shintô n'est pas une religion, donc il est compatible avec le christianisme. Les Catholiques peuvent donc pratiquer les rites shintoïstes.
En conclusion, le christianisme japonais se présente comme un “christianisme de la Voie Impériale”.
Seuls les Quakers et les Témoins de Jéhovah ne s'y rallient pas.
D. L'ULTRA-NATIONALISME à partir des années 20:
Comme l'Alldeutscher Verband allemand ou la Navy League américaine, l'ultra-nationalisme japonais débute par la fondation d'une société: la SOCIÉTÉ DE LA PÉRENNITÉ (Yûzonsha).
Ses fondateurs sont: ÔKAWA SHÛMEI et KITA IKKI (1883-1937).
a. Kita Ikki:
- Kita Ikki plaide pour le socialisme et le culte de l'Etat.
- Il adhère à la "Société du Fleuve Amour".
- Il prône une solidarité avec la Chine, victime de l'Occident, dans une optique panasiatique.
- Il développe une vision "planiste" de la Grande Asie japonocentrée. Par "planisme", j'entends une vision tournée vers l'avenir, non passéiste, où la mission du Japon passe avant le culte du Tennô.
b. Ôkawa Shûmei (1886-1957):
- La pensée d'Ôkawa Shûmei est à dominante confucéenne.
- Il plaide pour une solidarité avec l'Islam.
c. Nakano Seigô (1886-1943):
- Il est le fondateur de la SOCIÉTÉ DE L'ORIENT (la Tôhôkai), qui sera active de 1933 à 1943.
- Il est le seul au Japon à se réclamer ouvertement du fascisme et du national-socialisme.
- Il plaide pour l'avènement d'un "socialisme national anti-bureaucratique".
- Dans sa défense et son illustrations des modèles totalitaires allemand et italien, il est seul car le Japon n'a jamais été, même pendant la guerre, institutionnellement totalitaire.
d. Le Général Araki Sadao (1877-1966):
- Il inscrit l'ultra-nationalisme japonais dans une perspective spirituelle et fonde la FACTION DE LA VOIE IMPÉRIALE (Kôdôha).
L'ultra-nationalisme japonais culminera pendant les années de guerre dans quatre stratégies:
- La valorisation de l'esprit (tiré des mânes des ancêtres et des dieux présents partout dans le monde) contre les machines.
- L'éradication de la culture occidentale moderne en Asie.
- La valorisation de l'"Autre Occident", c'est-à-dire l'Allemagne et l'Italie, où il mettre surtout l'accent sur l'héroïsme (récits militaires de la première guerre mondiale, pour servir d'exemple aux soldats), plutôt que sur le racisme de Mein Kampf, peu élogieux à l'égard des peuples jaunes.
- L'antisémitisme alors que le Japon n'a pas de population juive.
E. GÉOPOLITIQUE ET PANASIATISME (2):
Les sources de la géopolitique japonaise:
Les Japonais, bons observateurs des pratiques des chancelleries européennes et américaines, lisent dans les rapports de l'Américain Brooks Adams des commentaires très négatifs sur la présence allemande dans la forteresse côtière chinoise de Kiau-Tchéou, alors que les Russes se trouvent à Port Arthur.
Brooks Adams exprime sa crainte de voir se développer à grande échelle une politique de chemin de fer transcontinentale portée par les efforts de la Russie, de l'Allemagne et d'une puissance d'Extrême-Orient.
Devant une masse continentale unie par un bon réseau de chemin de fer, la stratégie du blocus, chère aux Britanniques et aux Américains, ne peut plus fonctionner.
Conclusion: Les Japonais ont été les premiers à retenir cette leçon, mais ont voulu prendre la place de la Chine, ne pas laisser à la Chine le bénéfice d'être la puissance extrême-orientale de cette future "troïka" ferroviaire.
D'où: les flottes allemande et japonaise doivent coopérer et encadrer la masse continentale russe et mettre ainsi un terme à la pratique des "traités inégaux" et inaugurer l'ère de la coopération entre partenaires égaux.
Après l'alliance anglaise de 1902 et après la victoire de 1905 sur la Russie, qui ne rapporte pas grand'chose au Japon, le Prince Ito, le Comte Goto et le Premier Ministre Katsura voulaient une alliance germano-russo-japonaise. Mais elle n'intéresse pas l'Allemagne. Peu après, le Prince Ito est assassiné en Corée par un terroriste coréen.
L'IDÉE D'UN "BLOC CONTINENTAL EURASIEN" est donc d'origine japonaise, bien qu'on le retrouve chez l'homme d'Etat russe Sergueï Witte.
F. Le PANASIATISME (3):
Quant au panasiatisme, il provient de trois sources:
1. Une lettre du révolutionnaire chinois Sun-Yat-Sen au ministre japonais Inoukaï: le leader chinois demandait l'alliance de la Chine et du Japon avec la Turquie, l'Autriche-Hongrie et l'Allemagne, pour "libérer l'Asie".
2. L'historien indien Benoy Kumar Sakkar développe l'idée d'une “Jeune Asie” futuriste.
3. Le discours de l'écrivain indien Rabindranath Tagore, exhortant le Japon à ne pas perdre ses racines asiatiques et à coopérer avec tous ceux qui voulaient promouvoir dans le monde l'émergence de blocs continentaux.
APRÈS 1945:
- La souveraineté japonaise est limitée.
- McArthur laisse le Tennô en place.
- Le Japon est autorisé à se renforcer économiquement.
Mais dès les années 80, ce statu quo provoque des réactions. La plus significative est celle de Shintaro Ishihara, avec son livre The Japan That Can Say No (1989 au Japon, avant la guerre du Golfe; 1991 dans sa traduction américaine, après la guerre du Golfe).
Dans cet ouvrage, Shintaro Ishihara:
- réclame un partenariat égal avec les Etats-Unis en Asie et dans le Pacifique.
- souligne les inégalités et les vexations que subit le Japon.
- explique que la politique des "portes ouvertes" ne réglerait nullement le problème de la balance commerciale déficitaire des Etats-Unis vis-à-vis du Japon.
- observe que si les Etats-Unis présentent une balance commerciale déficitaire face au Japon, c'est parce qu'ils n'ont jamais adapté correctement leur politique et leur économie aux circonstances variables dans le monde.
- observe que les pratiques japonaise et américaine du capitalisme sont différentes, doivent le rester et dérivent de matrices culturelles et historiques différentes.
- observe que l'imitation d'un modèle étranger efficace n'est pas un déshonneur. Le Japon a appris de l'Occident. Les Etats-Unis pourraient tout aussi bien apprendre du Japon.
- se réfère à Spengler pour dire:
a) il n'y a pas de "fin de l'histoire".
b) la quête de l'humanité se poursuivra.
c) comme Spengler l'avait prévu, la civilisation de demain ne sera possible que si se juxtaposent des cultures différentes sur la planète.
d) les différences ne conduisent pas à l'incompatibilité et à la confrontation.
- annonce que le Japon investira en Europe, notamment en Hongrie et en Tchéquie.
- suggère aux Américains un vaste programme de redressement, basé sur l'expérience japonaise.
La réponse américaine, rédigée par Meredith et Lebard (cf.) est:
- une réponse agressive;
- une réponse prévoyant une future guerre en Asie, mettant aux prises un Japon regroupant autour de lui une alliance avec l'Indonésie, Singapour, la Papouasie-Nouvelle-Guinée, les Philippines, la Malaisie, la Thaïlande, la Myanmar, l'Inde et la Chine. Cette alliance visera à contrôler à la place des Américains la route du pétrole du Golfe à Singapour et de Singapour au Japon, par un binôme marin Inde/Japon.
- Face à ce bloc est-asiatique et indien, les Etats-Unis doivent, disent Meredith et Lebard, mobiliser un contre-alliance regroupant la Corée, la Chine, Taïwan, l'Indonésie, l'Australie, les Philippines et Singapour.
- L'Indonésie et la Chine constituant les enjeux majeurs de cette confrontation.
Robert STEUCKERS,
Forest-Flotzenberg, juillet 1997.
BIBLIOGRAPHIE
Références principales:
- ISHIHARA, Shintaro, The Japan That Can Say No, Simon & Schuster, New York, 1991.
- LAVELLE, Pierre, La pensée politique du Japon contemporain, PUF, Paris, 1990.
- LAVELLE, Pierre, La pensée japonaise, PUF, Paris, 1997.
- SELLA, Piero, Da Madama Butterfly a Hiroshima. Origini e sviluppo dello scontro tra Giappone e Stati Uniti, Ed. L'uomo libero, Milano, 1996.
- WEHLER, Hans-Ulrich, Grundzüge der amerikanischen Außenpolitik 1750-1900, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1984.
- ZIEBURA, Gilbert, Weltwirtschaft und Weltpolitik 1922/24-1931, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1984.
Références secondaires:
- BAVENDAMM, Dirk, Roosevelts Krieg 1937-45 und das Rätsel von Pearl Harbor, Herbig, München, 1993.
- BREUILLY, John, Nationalism and the State, Manchester University Press, 1993 (2nd ed.) (Plus particulièrement le chapitre 11, «Reform Nationalism Outside Europe», pp. 230-253).
- BROSIUS, Hans, Fernost formt seine neue Gestalt, Deutsche Verlagsgesellschaft m. b. H., Berlin, s. d.
- COLLIN-DELAVAUD, Claude, Géopolitique de l'Asie, PUF, Paris, 1993.
- COUTAU-BéGARIE, Hervé, Géostratégie du Pacifique, Economica/IFRI, Paris, 1987.
- DONAT, Walter, «Der deutsche und japanische Reichsgedanke», in: Das Reich und Japan, Junker und Dünnhaupt, Berlin, 1943.
- ETRILLARD, Gilles & SUREAU, François, A l'Est du monde, Fayard, 1983.
- FRIEDMAN, George/LEBARD, Meredith, The Coming War with Japan, St. Martin's Press, New York, 1991.
- GOWEN, Herbert H., An Outline History of Japan, D. Appleton & Company, New York/London, 1927.
- HAMMITZSCH, Horst, «Die völkische Wiederbesinnung im Schrifttum des 18. und 19. Jahrhunderts in Deutschland und Japan, in: Das Reich und Japan, Junker und Dünnhaupt, Berlin, 1943.
- HÄNEL, Karl, Vom Sudan zum Kap, Goldmann, Leipzig, 1941 (Pour l'histoire des implantations commerciales japonaises en Afrique orientale avant 1941).
- HARDACH-PINKE, Irene, «Die Entstehung des modernen Japan und seine Wahrnehmung durch den Westen», in: HARDACH-PINKE, Irene (Hrsg.), Japan: eine andere Moderne, Konkursbuch/Claudia Gehrke, Tübingen, s.d.
- HAUSHOFER, Karl, Geopolitik der Pan-Ideen, Zentral-Verlag, Berlin, 1931.
- HAUSHOFER, Karl, «Panasien», in: HAUSHOFER, Karl (Hrsg.), Jenseits der Großmächte. Ergänzungsband zur Neubearbeitung der Großmächte Rudolf Kjellén, B.G. Teubner, Leipzig/Berlin, 1932.
- HAUSHOFER, Karl, «Panpazifischen Vorstellungen und Machtkreise», in: HAUSHOFER, Karl, Jenseits der Großmächte, op. cit.
- HAUSHOFER, Karl, «Ostasiatisches Kräftespiel», in: HAUSHOFER, Karl & FOCHLER-HAUKE, Gustav, Welt in Gärung. Zeitberichte deutscher Geopolitiker, Breitkopf & Härtel/Leipzig, Deutscher Verlag für Politik und Wirtschaft/Berlin, 1937.
- HAUSHOFER, Karl, «Erfahrungs-Lezitlinien zur Wehrgeopolitik des Indo-Pazifischen Raumes», in: HAUSHOFER, Karl, Wehr-Geopolitik, 1941.
- HAUSHOFER, Karl, Der Kontinentalblock. Mitteleuropa, Eurasien, Japan, Zentralverlag der NSDAP, Frz. Eher Nachf., München, 1941.
- HENRY, Paul-Marc, «Le Japon, les Etats-Unis et la Russie, triangle-clé du XXIième siècle», in: Géopolitique, n°37, 1992.
- HOGGAN, David L., Das blinde Jahrhundert. Erster Teil: Amerika, Grabert, Tübingen, 1979.
- JOYAUX, François, «La politique de sécurité japonaise à la croisée des chemins», in: Géopolitique, n°37, 1992.
- KOMURO, Tsuneo, «Der ostasiatische Großraum», in: Volk und Reich, Nr. 3/1942.
- KREINER, Josef (Hrsg.), Japan und die Mittelmächte im Ersten Weltkrieg und den zwanziger Jahren, Bouvier/Grundmann, Bonn, 1986. Recension: Orientations, n°11/1989.
- LEHMANN, Jean-Pierre, «The Cultural Roots of Modern Japan», in: HUTCHINSON John & SMITH Anthony D., Ethnicity, Oxford University Press, Oxford, 1996.
- LéVY, Roger, La révolte de l'Asie, PUF, Paris, 1965.
- MANDELBAUM, Jean, «Culture et Japon», in: Géopolitique, n°37, 1992.
- MAURER, Emil, Weltpolitik im Pazifik, Wilhelm Goldmann, Leipzig, 1942.
- MILZA, Pierre, Les fascismes, Imprimerie Nationale, Paris, 1985 (cf. le chapitre intitulé: «Le Japon: entre tradition et totalitarisme»).
- MORITA, Akio, Made in Japan, Fontana/Collins, 1986.
- NAOJI, Kimura, «Zur Rezeption “heroischer” deutscher Literatur in Japan 1933-1945», in: KREBS, Gerhard & MARTIN, Bernt (Hrsg.), Formierung und Fall der Achse Berlin-Tokyo. Monographien aus dem Deutschen Institut für Japanstudien der Philipp-Frantz-von-Siebold-Stiftung, Band 8, 1994.
- OKA, Yoshitake, Konoe Fumimaro. A Political Biography, University of Tokyo Press, 1983.
- OSTWALD, Paul, Deutschland und Japan. Eine Freundschaft zweier Völker, Junker & Dünnhaupt Verlag, Berlin, 1941.
- RAMMING, Martin, «Geschichtlicher Rückblick auf die deutsch-japanischen Beziehungen der älteren Zeit», in: Das Reich und Japan, Junker & Dünnhaupt, Berlin, 1943.
- ROSS, Colin, Das neue Asien, Brockhaus, Leipzig, 1942.
- ROTERMUND, Hartmut O., «Entre tradition et modernité: la religion et le Japon», in: Géopolitique, n°37, 1992.
- SCHUMACHER, Rupert von, «Panideen in der Weltpolitik», in: HAUSHOFER, Karl & FOCHLER-HAUKE, Gustav, Welt in Gärung. Zeitberichte deutscher Geopolitiker, Breitkopf & Härtel/Leipzig, Deutscher Verlag für Politik und Wirtschaft/Berlin, 1937.
- SEIGO, Nakano, «The Need for a Totalitarian Japan», in: GRIFFIN, Roger (ed.), Fascism, Oxford University Press, Oxford, 1995.
- SEIGO, Nakano, «Write Your Own Mein Kampf», in: GRIFFIN, Roger (ed.), Fascism, Oxford University Press, Oxford, 1995.
- SHILLONY, Ben-Ami, Politics and Culture in Wartime Japan, Clarendon Press, Oxford, 1991.
- WILKINSON, Endymion, «Le Japon, les Etats-Unis et l'Europe», in: Géopolitique, n°37, 1992.
- WIERSBITZKY, Kurt, «Südostasiens geopolitische Stellung in der Welt», in: HAUSHOFER, Karl & FOCHLER-HAUKE, Gustav, Welt in Gärung. Zeitberichte deutscher Geopolitiker, Breitkopf & Härtel/Leipzig, Deutscher Verlag für Politik und Wirtschaft/Berlin, 1937.
00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : japon, extrême orient, océan pacifique, asie, affaires asiatiques, panasiatisme, impérialisme, seconde guerre mondiale, deuxième guerre mondiale, histoire, histoire asiatique | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
mercredi, 30 juin 2010
Lettre à un ami, trop sensible à la propagande de CNN...

SYNERGON - SYNERGIES EUROPÉENNES
Bruxelles/Metz
Mardi 20 avril 1999
ATELIER "MINERVE"
Lettre à un ami, trop sensible à la propagande de CNN...
par Robert Steuckers,
Secrétaire Général du Bureau Européen de SYNERGIES EUROPEENNES
Mon cher Quentin,
J'ai promis de répondre par une lettre ouverte à tes questions, traduisant l'inquiétude de nos contemporains face aux problèmes qui affectent la population albanaise du Kosovo aujourd'hui. Effectivement, plusieurs personnes m'ont posé les mêmes questions que toi: pourquoi nous sommes-nous engagés de manière aussi décisive contre l'intervention de l'OTAN, apparemment sans tenir compte des tragédies humaines qui plongent le Kosovo dans les horreurs de la guerre? Nous ne l'avons pas fait pour des raisons morales, mais pour des raisons historiques et géopolitiques, que je t'explicite dans cette lettre. Les souffrances des civils ne nous laissent pas indifférents et nous souhaitons que le programme de la Croix Rouge Internationale (CICR) pourra mettre ses structures au profit de toutes les victimes de cette guerre, dans l'esprit d'impartialité qui a fait la grandeur de Henri Dunant. Sur le plan géopolitique, je reste toutefois inébranlablement fidèle à un principe: l'espace européen, notre espace civilisationnel, ne peut en aucun cas subir des interventions américaines, chinoises, turques, islamistes ou autres. Ce doit être un axiome inébranlable dans notre pensée et notre action politiques.
Dans l'un de mes derniers communiqués, j'ai dit clairement que cette guerre n'a rien à voir avec les droits de l'homme, ni même avec le Kosovo ou les Albanophones de cette province d'Europe, ni même avec les Serbes ou avec Milosevic. Mais, pour les Américains et les Européens décérébrés et félons qui servent l'OTAN, instance foncièrement anti-européenne visant la ruine de notre culture, il s'agit avant toutes choses de bloquer le Danube, de bloquer l'Adriatique, de fermer l'espace aérien dans le Sud-est européen, de contrôler à leur guise la Méditerranée orientale et, enfin, de créer et d'entretenir le chaos dans un bon quart de notre continent pendant plusieurs décennies. Je raisonne en termes géopoltiques et rien qu'en termes géopolitiques, car un cadre géographique et historique cohérent est le seul garant possible d'une convivialité politique et civilisationnelle harmonieuse. Je ne suis l'apôtre d'aucune morale toute faite, prête-à-ânonner, d'aucune éthique de la conviction qui, dans tous les cas de figure, fait la bête en voulant faire l'ange. Bien sûr, je ne vais pas aller dire que Milosevic et ses soldats sont des enfants de choeur, tout comme les combattants de l'UCK kosovar ne sont pas davantage des enfants de choeur. Mais en temps de guerre, en politique, qui ose lever le doigt et dire: "moi, m'sieur, j'suis un bon, un gentil, un tout propre". Et les généraux de l'OTAN ne font certainement pas plus partie de la confrérie des enfants de choeur que les miliciens d'Arkan ou de l'UCK. Même s'ils prétendent qu'à coups de missiles, de bombes ou de roquettes, ils vont apporter le "Bien" (avec un grand "B") dans les Balkans, comme les cloches ou le Lapin de Pâques apportent des oeufs en chocolat à nos chères têtes blondes. Croire au "kalokagathon" des militaires de l'OTAN ou du SHAPE, c'est de la pure déraison!
Au lieu de hurler avec CNN, les intellectuels auto-proclamés et la sordide canaille journalistique (dont les plus répugnants exemplaires grenouillent à Paris) feraient bien mieux de lire quelques solides bouquins sur l'histoire de la péninsule balkanique. Dans les événements de ces dix dernières années, ni les Serbes ni les Croates ni les Albanais ne sont les "coupables" en dernière instance: les malheurs et les tragédies des Balkans sont le triste résultat de 500 ans de domination ottomane. Au cours de cette période horrible, les peuples des Balkans ont été écrasés, martyrisés, des populations entières ont été expulsées de leurs patries d'origine: les Serbes ont fui les armées ottomanes pour se réfugier en Croatie; les Croates se sont repliés en Slovénie, en Carinthie, en Italie et dans tout le reste de l'Europe (en France, il y avait des régiments croates), une partie des Albanais de souche ont dû s'installer en Italie du Sud. Les Ottomans et les convertis à l'Islam ont dominé sans partage. Chaque année, 10% des garçons étaient enlevés à leur famille, déportés en Anatolie, dressés dans des écoles de janissaires, transformés en mercenaires de la "Sublime Porte". Dans notre Occident pourri de confort, on a du mal à s'imaginer la profonde horreur que fut cette domination ottomane en Albanie, en Serbie, en Bosnie et en Croatie. Très tôt, les techniques de la guerre des partisans ont été appliquées contre les occupants dans les Balkans ottomanisés: les partisans de ces siècles d'oppression s'appelaient les Haiduks; en Albanie, ils ont été conduits par un capitaine sublime, surnommé Skanderbeg. Il avait été enlevé à sa famille, éduqué pour devenir janissaire: il s'est évadé d'Anatolie pour rejoindre son peuple dans les montagnes et combattre le joug ottoman. Dans les Balkans, il y a assez de thématiques historiques pour créer un cinéma européen pendant 300 ans, avec des films autrement plus captivants que les fades historiettes de cow-boys ou les soap-operas de la sous-culture américaine! Tout le folklore croate de Dalmatie et d'ailleurs, avec ses costumes magnifiques, rappelle la lutte pluriséculaire contre les Turcs. Pendant 500 ans, les Balkans se sont insurgés contre la culture composite de l'empire ottoman, exécrable préfiguration de la multiculture qu'on cherche à nous fourguer aujourd'hui comme la panacée définitive, qui mettra un terme aux tumultes de l'histoire et dissolvera toutes nos traditions, tous les ressorts de notre identité, toutes les constantes de nos systèmes juridiques. Relis les retentissantes sottises qu'ont écrites des Bernard-Henry Lévy et des Alain Finkielkraut. Mais cette mutliculture, on est bien forcé de le reconnaître, ne peut pas fonctionner. Elle laisse des séquelles indélébiles, elle provoque des tragédies que les siècles ne parviennent pas à effacer, elle déboussole les peuples, elle ne leur procure aucun apaisement. La preuve? La succession ininterrompue des tragédies balkaniques en ce siècle.
En Espagne, quand les armées asturiennes, aragonaises, castillanes et basques prennent enfin pied en Andalousie pour ramener cette terre à la grande patrie européenne, mettre ainsi un terme à la Reconquista et faire de la péninsule ibérique un Etat viable, ils se rendent rapidement compte qu'aucune culture composite ne permettra de donner une colonne vertébrale solide à cet Etat en jachère. Ou bien l'Ibérie était musulmane et appliquait un droit dérivé du Coran (ce qui est parfaitement respectable en soi), ou bien l'Ibérie était chrétienne et appliquait un droit dérivé du droit coutumier wisigothique (en vigueur en Espagne avant l'islamisation forcée et dans les régions non conquises par les Arabes). Un mixte de droit coranique et de droit coutumier germanique ne peut fonctionner harmonieusement, donc aucune convivialité sociale ne peut surgir si des règles boiteuses et peu claires sont appliquées dans la société. Cette impossibilité d'un droit composite a scellé le sort des vaincus, qui ont dû se replier en Afrique du Nord ou dans les provinces ottomanes, jusqu'à Istanbul, où ils pouvaient vivre sous le droit coranique selon leurs voeux et leurs convictions.
Dans les Balkans, après la terrible défaite des Serbes et de leurs alliés bosniaques, croates et albanais dans la Plaine du Kosovo, au Champ des Merles en 1389, les armées chrétiennes n'ont plus pu s'imposer. Une croisade hongroise du Roi Sigismund, aidée de chevaliers français et allemands, n'a pas pu délivrer les Balkans: elle a été écrasée en 1396 par le Sultan Bayazid Yildirim. La date de 1389 marque le début d'une affreuse tragédie pour l'Europe, qui s'agravera encore par la trahison du Roi de France, François Ier, qui s'allie aux Turcs pour prendre l'Europe centrale dans une redoutable tenaille: à l'Ouest les Français, à l'Est les Turcs. Cette alliance va durer 300 ans. Qu'on en juge: en 1526, François Ier veut s'emparer de la ville impériale de Milan. Charles-Quint, Empereur, le bat à Pavie, avec l'appui, notamment, d'une troupe d'élite: les bandes d'ordonnance des Pays-Bas, regroupant les meilleurs guerriers de la noblesse du Brabant, des Flandres, du Luxembourg et du Hainaut. Mais, l'alliance franco-turque déploie déjà sa logique implacable, celle des attaques concertées et simultanées, sur deux fronts: la même année que Pavie, les Ottomans envahissent et dévastent la Croatie, après leur victoire à Mohacs. Le vieil Etat médiéval croate, havre d'une culture incomparable, cesse d'exister, connait le même sort que la Serbie en 1389. La perte de la Croatie a été une tragédie pour l'Europe. Présents en Croatie, les Ottomans peuvent menacer et envahir la Hongrie et la Basse-Autriche à leur guise. Deux fois, Vienne sera assiégée et sauvée par le courage et la tenacité de ses milices bourgeoises et des troupes impériales et polonaises (Jan Sobiesky). Chaque fois que les Ottomans attaquent à l'Est, les Français attaquent à l'Ouest. Le Reich se défendra bec et ongles pour échapper à cette tenaille, épuisant toutes ses forces.
A la fin du 17ième siècle, se constitue la SAINTE-ALLIANCE (Bavière, Saint-Empire, Autriche-Hongrie, Pologne-Lithuanie, Russie), sous l'impulsion d'un Capitaine exceptionnel, le Prince Eugène de Savoie, qui force les Ottomans à céder 400.000 km2 aux pays de cette Sainte-Alliance. L'Empire ottoman recule partout, de la Dalmatie au Caucase. Le Reich peut respirer, mais insuffisamment: Louis XIV attaque à l'Ouest, ravage la Lorraine (50% de morts ou de réfugiés parmi les autochtones), la Franche-Comté (60% de morts et de réfugiés, notamment au Val d'Aoste), le Palatinat (66% de morts et de réfugiés). Comme dans les Balkans, les ressortissants du Saint-Empire de langue romane fuyent devant les Français comme leurs infortunés confrères des Balkans fuyaient devant les Turcs. Les Lorrains ont été recasés en Allemagne, en Suisse, dans les Pays-Bas, dans le Banat serbe et roumain, en Italie (où 6000 d'entre eux mourront de paludisme en tentant d'assécher les marais pontins près de Rome, que leur avait donnés le Pape...). En 1695, le Maréchal de Villeroy, pour soulager les Turcs et attirer vers l'Ouest une parties des armées impériales, fait bombarder à boulets rouges Bruxelles, gratuitement. C'est le premier bombardement terroriste de l'histoire, la sinistre préfiguration de Coventry, Dresde, Berlin, Hambourg, et, plus récemment, Hanoi, Bagdad et aujourd'hui Belgrade, Novi Sad, etc. La Sainte-Alliance et le Saint-Empire ont certes vaincu à l'Est, mais ils ont perdu à l'Ouest de belles provinces: la Flandre méridionale, l'Artois, le Cambrésis, la Bresse, la Franche-Comté, la Lorraine et l'Alsace. Preuve, s'il en est, qu'il est impossible de guerroyer sur deux fronts. En 1718, Belgrade est libérée par un régiment de Huy, ville de la vallée de la Meuse, où les drapeaux du Sultan, prix comme trophées, ont longtemps été conservés dans la collégiale.
En 1791, les Anglais se décident à soutenir en toutes circonstances la Turquie moribonde contre TOUTES les puissances européennes s'approchant de la Méditerranée orientale, point de passage obligé pour atteindre l'Egypte convoitée, où l'on envisageait déjà de creuser le Canal de Suez, pour rejoindre plus facilement les Indes, via la Mer Rouge. Cette politique de "containment" avant la lettre est consignée dans un mémorandum remis à Pitt, Premier Ministre anglais. Les axiomes de la politique maritime de l'Angleterre y ont été fixés une fois pour toutes: les Autrichiens ne doivent pas avancer trop loin dans les Balkans; les Russes, qui occupent la Crimée depuis 1783, doivent être contenus au Nord du Bosphore et ne pas se rendre totalement maîtres de la Mer Noire. Il faut réfléchir à ce mémorandum quand on analyse les événements d'aujourd'hui. La révolution française, en envahissant les Pays-Bas autrichiens en 1792, obligent, par leur diversion, les Serbes à capituler une nouvelle fois devant les Ottomans, à abandonner leur vague autonomie, récente et précaire, parce qu'ils ne bénéficient plus de l'appui militaire autrichien, Vienne étant obligée de mobiliser ses réserves, y compris ses régiments croates, pour faire face au déferlement des sans-culottes qui pillent et assassinent à qui mieux mieux de Tournai au Rhin (la magnifique abbaye de Villers-la-Ville sera ainsi réduite en cendres et jamais reconstruite). Ces hordes "révolutionnaires" faisaient le travail des Anglais: elles allaient éliminer quelques mois plus tard un Roi qui avait fait alliance avec l'Autriche et renoncé à la calamiteuse politique des François Ier, Richelieu et Louis XIV. Louis XVI avait mis sur pied de guerre une flotte redoutable qui avait réussi à battre la Royal Navy à Yorktown en 1783, humiliant ainsi Londres. Il avait ensuite lancé des expéditions lointaines (dont celle de La Pérouse qui l'a obsédé jusqu'au pied de l'échafaud: "A-t-on des nouvelles de La Pérouse?" a demandé ce Roi sage avant d'être décapité). L'Angleterre se débarrassait machiavéliquement d'un Roi apparemment débonnaire, mais dont la politique était européenne, offensive en direction de l'Atlantique et clairvoyante. Louis XVI est mort parce qu'il avait tourné le dos à l'alliance franco-turque, renoncé à la séculaire hostilité du Royaume de France au Saint-Empire, aperçu l'avenir de son pays au Canada (ces "arpents de neige" de la Pompadour...), dans l'Atlantique, sur les océans. Face à l'Ouest, dos au Reich, comme celui-ci pouvait désormais sans craindre de coup de poignard dans le dos, faire face aux Ottomans.
Ce n'est qu'à la fin du XIXième siècle que la France et la Russie manipuleront la Serbie contre l'Autriche. Mais avant cela, il a fallu éliminer totalement en 1903 la famille régnante des Obrenovic, qui seront remplacés par les Karageorgevic, qui dénonceront tous les liens antérieurs de la Serbie avec l'Autriche, détentrice de la dignité impériale. L'attentat de Sarajevo est le triste et dramatique aboutissement de cette prise du pouvoir par les Karageorgevic au détriment des Obrenovic. Après 1919 et la révolution bolchevique, la France exsangue utilise son or pour financer les gigantesques budgets des armées polonaises et yougoslaves (serbes), afin de contenir l'Allemagne, ni la nouvelle Turquie kémaliste ni la Russie bolchevique ne pouvant ou ne voulant plus jouer ce rôle. C'est une ironie de l'histoire de voir que la Serbie a accepté le rôle d'"ersatz" de la Turquie après le Diktat de Versailles. Mais rapidement des hommes d'Etat serbes s'apercevront que cette situation est artificielle et intenable sur le long terme; elle risquait de faire de la Yougoslavie un Etat assisté, incapable de développer de manière autonome une économie viable, en harmonie avec ses voisins. En 1934, la diplomatie de Goering (décrite par les Américains comme la tentative de construire dans le Sud-Est européen "a German informal Empire") réussit une réconciliation entre l'Allemagne et le Royaume de Yougoslavie, dirigée par la poigne de l'économiste serbe Milan Stojadinovic (1888-1961), qui comprend qu'une Yougoslavie isolée de ses voisins ne peut survivre économiquement. Stojadinovic renoue avec l'Italie et la Bulgarie (ennemie héréditaire de la Serbie) et s'appuie sur les Serbes, les Slovènes et les Bosniaques musulmans; sa popularité est nettement moindre chez les Croates catholiques (qui implicitement refuse l'alliance allemande, alors qu'on leur reproche aujourd'hui d'être des germanophiles inconditionnels!). L'alliance germano-yougoslave durera jusqu'en 1941. La Yougoslavie adhèrera à l'Axe. En mars 41, un putsch pro-britannique (Colonel Simovic) renverse le gouvernement légal. Les troupes de l'Axe entrent dans le pays pour sauver une légalité qui leur convenait. Les Croates changent de camp, trouvant dans une alliance avec l'Allemagne et l'Italie une chance de quitter l'Etat yougoslave qu'ils jugent composite (comme quoi rien n'est simple dans les Balkans, où les alliances changent souvent!). Avec l'entrée des troupes allemandes, hongroises, bulgares et italiennes, une tragédie sans nom s'abat sur tous les peuples de la Yougoslavie, avec, en plus, de nouveaux tracés pour les frontières intérieures, toujours contestés par les toutes les parties aujourd'hui, tant les populations, dispersées antérieurement par la terreur ottomane vivent les unes dans les autres, sans frontières précises. De 1941 à 1945, le gouvernement serbe du Général Nedic reste en selle, assez fidèle à l'Axe malgré le chaos dans lequel il plonge les Balkans. Il s'appuie sur une armée de 10.000 hommes bien entraînés et très disciplinés, dont les militaires allemands feront l'éloge. Mais le pays est plongé dans une abominable guerre civile: ethnie contre ethnie, mais aussi Serbes contre Serbes (soldats de Nedic, tchetniks royalistes et partisans titistes dans une terrifiante lutte triangulaire), Croates contre Croates (Oustachistes contre Partisans, Tito étant, ethniquement parlant, un Croato-slovène; Tudjman, l'actuel président croate, était partisan communiste, alors que des esprits simples, mal intentionnés et mal informés en font un fasciste de toujours!), Slovènes contre Slovènes (Domobrans contre Partisans), etc.
Aujourd'hui, après la mort de Tito, après l'indépendance de la Croatie et de la Slovénie, l'alliance franco-turque de 1526 à 1792, l'alliance anglo-turque de 1791 à nos jours, fait place à un Axe américano-turc, visant à recréer une chaîne de petits Etat inféodés à l'OTAN et à la Turquie, pour faire pièce aux Européens dans le Sud-Est balkanique et y entretenir des foyers de tensions permanentes, semant la zizanie dans toute l'Europe. Ce sont essentiellement les Russes et les Allemands qui sont visés, mais aussi les Italiens qui ont toujours eu des intérêts en Méditerranée orientale (Rhodes, Cilicie), les Grecs (Chypre), les Chrétiens d'Orient (Liban, Syrie), la France (qui ne pourra plus jamais jouer son rôle de protectrice des chrétientés d'Orient). Le mémorandum adressé à Pitt est toujours d'actualité, mais c'est le Pentagone qui le concrétise dans les faits. Cette politique est inadmissible pour tous les Européens. Cette politique est anti-impériale, elle empêche l'Europe de retrouver une conscience impériale au sens de la Sainte-Alliance de 1690 à 1720. Tous ceux qui refusent de voir ce nouvel état de choses, de tirer clairement les leçons de l'histoire, sont des imbéciles. Ceux qui travaillent à occulter les leçons de l'histoire, ceux qui entretiennent délibérément l'ignorance des masses et des élites, ceux qui occupent des postes importants, ministériels ou autres, diplomatiques ou économiques, et qui ne raisonnent pas en termes d'histoire, sont de vils traîtres. Leur sort doit être mis aux mains d'une nouvelle Sainte-Vehme, tribunal occulte oeuvrant au seul salut du Saint-Empire. Et qui ne connait que deux sentences: l'acquittement ou la mort.
- Je suis un héritier spirituel des Bandes d'Ordonnance des Pays-Bas qui ont combattu contre François Ier à Pavie en 1526.
- Je suis un héritier spirituel de Don Juan d'Autriche, vainqueur à la bataille navale de Lépante en Méditerranée orientale en 1571, en tentant de reprendre Chypre aux Ottomans (puisse une flotte hispano-italo-franco-germano-croato-serbo-russo-grecque, totalement dégagée du machin OTAN, cingler très bientôt vers cette île et en faire un bastion inexpugnable de la Grande Europe!).
- Je suis un héritier spirituel du Prince Eugène de Savoie, que l'on nommait le Noble Chevalier ("Der edle Ritter").
- J'admire le long combat héroïque des Haiduks slaves et roumains et l'épopée du héros albanais Skanderbeg (tout Albanais qui ne rend pas hommage à Skanderbeg est un traître à son albanitude; tout Albanais qui ne combat pas pour son albanitude face au sud, dos au nord, n'est pas un Albanais, mais un mercenaire ottoman).
- Je place mes travaux géopolitiques sous le signe de la Sainte-Alliance de 1690 à 1720.
- Je suis un héritier spirituel des milices de la Ville de Bruxelles qui ont défendu leur ville contre les artilleurs terroristes du Maréchal de Villeroy, à côté des soldats bavarois et savoisiens de la garnison. Je te rappelle aussi, cher Quentin, qu'à l'âge de huit ans, mon cousin, de 22 ans mon aîné, m'a dit de toujours regarder la façade d'une maison de la Grand'Place de Bruxelles, sur laquelle figure un Phénix, symbolisant la cité et le Brabant résistant aux assauts du Roi Soleil et lui faisant la nique. Mon cousin m'a demandé de ne jamais oublier ce symbole. Je ne l'ai jamais oublié.
- Je suis un héritier spirituel des soldats hutois de l'armée autrichienne qui ont enlevé Belgrade en 1718, l'ont rendue à l'Europe.
- Je suis un héritier spirtuel des soldats des régiments de Baulieu, de Clerfayt, de Ligne, de Latour, qui ont tenté d'endiguer le flot des sans-culottes se déversant vers le Rhin en 1792, tandis que leurs alliés turcs reprenaient Belgrade sur le Danube et privaient les Serbes de leurs libertés.
- Je suis un héritier politique de Bismarck (et de Léopold I) qui s'opposaient à l'alliance anglo-franco-turque lors de la Guerre de Crimée contre la Russie, ancienne puissance de la Sainte-Alliance de 1690 à 1720.
- Je me souviens avec horreur de l'attentat de Sarajevo qui a coûté la vie à l'Archiduc d'Autriche et à son épouse, la Comtesse Chotek, tout comme je me souviens avec horreur du sort de la famille Obrenovic.
- Je déplore l'alliance franco-serbe d'après 1918, où la Serbie a été un "ersatz" de la Turquie ottomane et a été infidèle à son histoire.
- Je respecte rétrospectivement la politique économique et diplomatique de Milan Stojadinovic, soucieux de replacer son pays au sein de la famille des peuples de la Mitteleuropa et des Balkans.
- Je respecte l'attitude de Nedic, jeté dans un désarroi indescriptible, à l'époque la plus tragique de notre siècle.
- Je respecte tous les Yougoslaves, de quelle qu'ethnie que ce soit, qui ont combattu au cours de l'histoire du côté du Saint-Empire et de la Sainte-Alliance comme haiduks ou comme soldats réguliers, en particulier comme "granicar" (garde-frontières) le long du limes organisé par l'Autriche pour défendre l'Europe contre les Ottomans.
- Je déplore que Tito se soit laissé manoeuvrer par les Anglais contre les Allemands, les Hongrois, les Italiens et les Russes, sans pour autant condamner a priori sa politique de non-alignement (Bandoeng, etc.) et son socialisme fédéral et auto-gestionnaire, sorte de troisième voie entre le capitalisme et le panzercommunisme, à une époque où rien d'autre n'était possible.
- J'ai accepté l'indépendance de la Slovénie et de la Croatie en 1991, parce que je sais que des Etats composites sont inviables, incapables de susciter l'adhésion à des codes de droit précis (curieux que les défenseurs, en théorie, des droits de l'homme, sont ceux qui manipulent des idéologies qui nient le droit concret, seul vecteur de civilité viable!). De plus, ces deux pays offraient enfin une façade méditerranéenne-adriatique aux pays d'Europe centrale, ce que la France et l'Angleterre ont toujours voulu leur confisquer, les condamnant à l'enclavement continental (on se souviendra ici des "départements illyriens" inventés par Napoléon pour couper la Hongrie et l'Autriche de la mer, fonction que devait reprendre la Yougoslavie selon Poincaré et Clémenceau).
- Je défends l'indépendance de ces deux pays, mais sans développer de serbophobie, à la manière de certains philosophes parisiens.
- Je pense que la Serbie a droit à sa spécificité au même titre que l'Albanie illyrienne, la Bosnie bogomil, la Croatie et la Slovénie. Toutes ces identités et spécificités s'enracinent et doivent nécessairement s'enraciner dans l'esprit haiduk (ou granicar).
- Je m'oppose à l'alliance américano-turque d'aujourd'hui, tout comme Bismarck s'est opposé à l'alliance anglo-franco-turque lors de la Guerre de Crimée.
- Je demeure un fidèle lecteur de Carl Schmitt (dont les deux épouses ont été serbes!), qui a théorisé l'interdiction d'intervention des puissances extérieures à un espace donné.
- Je demeure un fidèle disciple de Carl Schmitt, car je me souviens qu'il a décrit, avec force arguments juridiques solidement étayés, la Grande-Bretagne et les Etats-Unis comme des Etats pirates.
- Je demeure encore et toujours un fidèle disciple de Carl Schmitt, dans le sens où il a toujours décrit les bons apôtres de la morale internationaliste comme de dangereux ferments de la dissolution des Etats, donc de la civilisation, de l'urbanité, de la culture et surtout du droit.
Telles sont mes positions. Je persiste et je signe. Rien ne m'ébranlera. Je suis dans la continuité historique donc dans le réel. Tant pis pour ceux qui restent en dehors de l'une et de l'autre.
Je reste à la disposition de mes lecteurs pour leur conseiller de bonnes lectures sur tout ce qui précède.
A bientôt, cher Quentin, meilleures amitiés.
Robert Steuckers.
00:05 Publié dans Affaires européennes | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : serbie, balkans, kosovo, guerre des balkans, otan, cnn? médias, manipulations médiatiques, histoire, yougoslavie, albanie | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
mardi, 29 juin 2010
Presseschau / Juni 2010/05
Presseschau
Juni 2010 / 05
Einige Links. Bei Interesse anklicken...
###
„Völker“ als vorpolitische, ethnische, kulturelle, sprachliche und religiöse Einheiten sind eine seit der Antike bekannte Größe. Der ethnos oder genos im Griechischen etwa konnte durchaus die staatlich vielfach gespaltene Einheit aller Ionier oder Dorer bezeichnen. Bei Herodot findet sich der Hinweis auf das Griechentum, das durch Blut und Sprache eine Einheit bilde, gekennzeichnet durch die gemeinsame Verehrung der Götter, die gleichen Sitten und Bräuche. Demgegenüber war der populus Romanus, also das „römische Volk“, eine ganz politisch verstandene Einheit. Schon hier zeigt sich also der Doppelsinn des Begriffs.
(...)
Völker sind historische Größen, aber sie sind, wie Tilman Mayer feststellte, „... nicht vereinbart, beschlossen, kontrahiert, gestiftet, gegründet, geschaffen, d.h. konventionell“. Das Volk ist nicht mehr Natur, aber auch nicht künstlich wie etwa der Staat künstlich ist. Es beruht oft auf „Abstammungs-“, in jedem Fall aber auf „Fortpflanzungsgemeinschaft“, und die „Ethnogenese“ ist ein in vielen Fällen durchaus rekonstruierbarer Prozeß. (...)
Die moderne Naturwissenschaft bietet ein breites Repertoire von Methoden, um „Ethnogenesen“ zu rekonstruieren, ohne Stiftungsmythen – den „Ethnogonien“ – blind zu vertrauen. Wie weit solche Konzepte führen, kann man etwa an dem Human Genome Diversity Project feststellen, das 1991 von Luigi Luca Cavalli-Sforza, einem renommierten Genetiker der Universität Stanford, begründet wurde und seitdem dessen Lebenswerk, die Rekonstruktion des menschlichen Stammbaums, zu vollenden sucht.
Damit sind ethnische Gruppen aber auch über Erbinformationen definiert und dem immer wieder unternommenen Versuch der Boden entzogen, das Vorhandensein ethnischer Identität zu leugnen. (...)
(Staatspolitisches Handbuch, hrsg. v. Erik Lehnert und Karlheinz Weißmann, Band 1: Leitbegriffe, verfaßt von Karlheinz Weißmann, Schnellroda 2009, S. 156 f.)
Ärger um Top-Soldaten
Obama feuert General McChrystal
Seine Ausfälle gegen die US-Regierung haben General Stanley McChrystal den Job gekostet. Nach einer Standpauke von Präsident Barack Obama muß der Oberbefehlshaber des Afghanistan-Einsatzes gehen – Nachfolger wird David Petraeus. Der Führungswechsel ist ein schwerer Schlag für die Mission.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,702469,00.html
Die Angst vor dem Wort „Krieg"
So wurde die Wahrheit über den Einsatz in Afghanistan verschleiert
Trotz beinahe täglicher Gefechte, trotz gefallener Soldaten und grauenvoller Verwundungen scheute sich die Politik viel zu lange davor, die Realitäten des Afghanistan-Einsatzes klar zu benennen. Krieg – das war ein verbotenes Wort...
In ihrem neuen Buch „Ruhet in Frieden, Soldaten!“ beschreiben die BILD-Reporter Julian Reichelt und Jan Meyer, wie Politik und Bundeswehr die Wahrheit über Afghanistan über lange Zeit vertuschten.
http://www.bild.de/BILD/politik/2010/06/22/bundeswehr-serie-die-angst-vor-dem-wort-krieg/so-wurde-die-wahrheit-ueber-den-afghanistan-einsatz-verschleiert.html
Bundeswehrbericht
Soldaten starben wegen schlechter Ausrüstung
Der Tod ihres Kameraden am 15. April in Afghanistan hätte verhindert werden können, davon sind Offiziere der deutschen Truppen überzeugt. Nach SPIEGEL-Informationen werfen sie der Bundeswehr eklatante Ausrüstungsmängel vor.
http://www.spiegel.de/panorama/gesellschaft/0,1518,703086,00.html
Deutsche Projekte
Wie Satelliten zu Waffen werden
Von Christoph Seidler
Fliegende Pannenhelfer sollen künftig Satelliten im All an die Angel nehmen und reparieren. Doch die Vorzeigeprojekte der deutschen Raumfahrt bergen Sicherheitsrisiken – was passiert, wenn die Roboter als Waffen mißbraucht werden?
http://www.spiegel.de/wissenschaft/weltall/0,1518,700651,00.html
Sparkurs
Bundeswehr mustert sechs ihrer zehn U-Boote aus
Die Bundeswehr muß sparen – und das bekommt auch die Marine zu spüren: Jetzt wurden sechs der insgesamt zehn U-Boote ausgemustert. Die Besatzungen der alten Boote sollen umgeschult werden.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,701959,00.html
Eklat bei Nahostreise
Minister Niebel legt sich mit Israel an
Harte Töne von einem deutschen Spitzenpolitiker: Entwicklungshilfeminister Niebel greift die israelische Regierung an, weil sie ihm die Einreise in den Gaza-Streifen verweigert. Er spricht von einem „großen außenpolitischen Fehler“, für Israel sei es im Nahost-Konflikt „fünf vor zwölf“.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,701734,00.html
Währungswette
Starinvestor Soros warnt vor Euro-Kollaps
Düstere Prognosen eines Börsenstars: Der US-Investor Soros hält einen Kollaps des Euro für möglich – und sieht die Schuld dafür bei Deutschland. Sollte die Bundesregierung ihre Sparpolitik fortführen, drohten Europa soziale Unruhen, warnt er in einem Interview.
http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/0,1518,702383,00.html
Bundespräsidentenwahl
Weizsäcker verlangt Aufhebung des Koalitionszwangs
Dieser Appell dürfte bei der Kanzlerin nicht gut ankommen: Die beiden Alt-Bundespräsidenten Weizsäcker und Herzog plädieren für eine wirklich freie Wahl des Staatsoberhaupts. Die Delegierten in der Bundesversammlung sollten unabhängig von Partei- und Koalitionszwang abstimmen.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,702966,00.html
Präsidentschaftskandidatur
Linken-Politiker Ramelow brüskiert Gauck
Harsche Kritik an Joachim Gauck: Thüringens Linke-Fraktionschef Bodo Ramelow hat den Präsidentschaftskandidaten von SPD und Grünen als „nur eingeschränkt demokratiefähig“ bezeichnet. Gauck selbst rechnet sich angesichts der Querelen mit der Linken in der Bundesversammlung kaum Erfolgschancen aus.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,703076,00.html
CDU-Politiker Bandmann fordert Wiedereinführung der Grenzkontrollen
DRESDEN. Der innenpolitische Sprecher der CDU-Fraktion im sächsischen Landtag, Volker Bandmann, hat die Wiedereinführung der Grenzkontrollen zu Polen und Tschechien gefordert.
Hintergrund ist der starke Kriminalitätsanstieg seit der Grenzöffnung im Dezember 2007 im Zuge der Schengen-Erweiterung. Vor allem Autodiebstähle nahmen in dieser Zeit rapide zu. Allein in Sachsen stiegen sie 2009 im Vergleich zum Vorjahr um 32 Prozent.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5276ecbc094.0.html
Hausverbot: NPD-Chef Voigt scheitert mit Klage gegen Hotel
FRANKFURT/ODER. Das Hausverbot eines brandenburgischen Hotels gegen den NPD-Vorsitzenden Udo Voigt war rechtmäßig. Das entschied das Landgericht Frankfurt an der Oder am Dienstag und wies eine entsprechende Klage des NPD-Chefs ab.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5616d5ab9b9.0.html
„Randalierende Burschenschaften“
Tobias Westphal
Am vergangenen Wochenende war in der Universitätsstadt Marburg mal wieder etwas los. Zum einen veranstaltete in der Studentenhochburg die Neue Deutsche Burschenschaft ihren Burschentag, ihre satzungsgemäße Jahreshauptversammlung.
Zum anderen war dies für zahlreiche „antifaschistische“ Gruppen endlich mal wieder Anlaß genug, eine Gegendemonstration unter dem Motto „Verbindungen kappen! Männerbünde auflösen!“ zu organisieren. Daß das Wochenende in Marburg nicht friedlich verlaufen würde, war also sicher.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5245cc6af48.0.html
Die „Langen Kerls“ hätten mit aufgepflanztem Bajonett gegen das Gesindel vorgehen sollen ...
Linksextremisten stören öffentliche Musterung der „Langen Kerls“
POTSDAM. Linksextremisten haben am Sonnabend eine Schaumusterung des Traditionsvereins „Potsdamer Riesengarde ‘Lange Kerls’“ gestört und für einen Abbruch der Veranstaltung gesorgt.
Die etwa 30 Demonstranten skandierten Parolen, verteilten Buttersäure auf dem Platz und zeigten Transparente mit Aufschriften wie „Lange Kerls einen Kopf kürzer machen“ und „Sabotiert preußisches Heldentum“, sagte ein Sprecher der Polizei Potsdam der JUNGEN FREIHEIT.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M559085a769f.0.html
Bayerns Grüne ...
Schwarz-Rot-Bunt: Ein Fest der Kulturen
http://blog.dieter-janecek.de/2010/06/19/schwarz-rot-bunt-ein-fest-der-kulturen/
Sophie Scholl war keine Tanzmaus
Von Ellen Kositza
Es jährte sich 2010 zum 67. Mal der Tag, an dem Roland Freisler Hans und Sophie Scholl köpfen ließ. Während über Hans Scholl als Hauptverantwortlichem der „Weißen Rose“ noch immer keine Biographie vorliegt, wurde das Leben seiner Schwester Sophie vielfach beleuchtet. Nun liegt die erste umfassende Beschreibung ihres Lebens vor.
http://www.sezession.de/15585/sophie-scholl-war-keine-tanzmaus.html#more-15585
Zur Erinnerung ...
21. Juni 1919: Selbstversenkung der Kaiserlichen Hochseeflotte in Scapa Flow
http://de.wikipedia.org/wiki/Versenkung_der_Kaiserlichen_Hochseeflotte_in_Scapa_Flow
Die Islamisierung Europas – eine reale Gefahr?
Zu diesem Thema veranstaltete die Berliner Burschenschaft Gothia am 16. Juni einen Vortragsabend mit dem studierten Soziologen und Mitarbeiter der „Jungen Freiheit“ Fabian Schmidt-Ahmad. Der Referent teilte seinen Vortrag in drei Abschnitte ein: Vorgeschichte, Charakteristik des Islams und demographische Entwicklung.
http://www.pi-news.net/2010/06/die-islamisierung-europas-eine-reale-gefahr/#more-142852
Afghanistan-Heimkehrer: Britische Soldaten geraten zwischen Islamisten und Rechtsextremisten [gemeint sind Anhänger der „English Defence League“]
http://www.spiegel.de/video/video-1070895.html
Berlin: Senat schreibt Deutschen-Diskriminierung fest
„Integrationsgesetz“: Bald darf es nicht einmal mehr christliche Feiertage geben
Von Martin Müller-Mertens
http://www.berlinerumschau.com/index.php?set_language=de&cccpage=17062010ArtikelBBMuellermertens1
Integrations- und Partizipationsgesetz für Berlin
Diskriminierung durch Integration?
Ein Gesetzentwurf für das Land Berlin will mehr Chancengleichheit für Personen mit Migrationshintergrund. Statt einer Quote definiert er Anforderungen an Bewerber auf Positionen im öffentlichen Dienst – die viele Deutsche nicht erfüllen können. Christian Oberwetter über positive Ungleichbehandlung und viel Arbeit für Arbeitsrechtler.
http://www.lto.de/de/html/nachrichten/766/Integrations--und-Partzipationsgesetz-fC3BCr-Berlin/
Frankreich: Kreuzzug mit Schwein und Wein
Rechte Franzosen wollen Muslime durch ein Gelage in Paris provozieren – es soll Schweinefleisch und Wein geben. Nicht nur der Bürgermeister rechnet mit Ausschreitungen.
http://www.sueddeutsche.de/politik/islamfeindlichkeit-in-frankreich-kreuzzug-mit-schwein-und-wein-1.959915
Les Identitaires
http://www.les-identitaires.com/
Ethnic diversity at school has a negative effect on learning
http://www.maastrichtuniversity.nl/web/Main/Sitewide/PressRelease/EthnicDiversityAtSchoolHasANegativeEffectOnLearning.htm
Frau nach WM-Spiel vergewaltigt
http://www.ksta.de/html/artikel/1276696255791.shtml
50 aggressive Türken umlagern Polizeiwache
http://www.pi-news.net/2010/06/50-aggressive-tuerken-umlagern-polizeiwache/
Berlin
Elfjähriger mit Heroinkugeln im Mund gefaßt
http://www.spiegel.de/panorama/justiz/0,1518,703098,00.html#ref=nldt
Trio erbeutet Tageseinnahmen in Offenbach
Sandwich-Lokal überfallen
http://www.op-online.de/nachrichten/offenbach/subway-ueberfall-offenbach-815264.html
Prozeß am Landgericht
Elfjährige spricht von „Beziehung“
http://www.leverkusener-anzeiger.ksta.de/html/artikel/1273823448217.shtml
Chinesische Selbstjustiz in Paris Belleville
http://www.pi-news.net/2010/06/chinesische-selbstjustiz-in-paris-belleville/#more-143518
Christlicher Orientale ermordet jungen Deutschen ...
Hamburg-Harburg: Pascal E. nach Abi-Feier getötet
http://www.abendblatt.de/hamburg/polizeimeldungen/article1545575/Angehoerige-und-Freunde-trauern-Sitzblockade-auf-Bremer-Strasse.html
„Schatz, er hat mich getroffen!“
Der 22jährige Pascal E. starb, weil er seine große Liebe Julia schützen wollte. Jetzt spricht seine Freundin über den Mord, der ihr Glück für immer zerstörte.
http://archiv.mopo.de/archiv/2010/20100625/hamburg/panorama/schatz_er_hat_mich_getroffen.html
Deutsche setzen sich im Messerkampf erfolgreich gegen Türken durch ...
18jähriger sticht Mann in der Neustadt nieder
http://www.bild.de/BILD/regional/hamburg/aktuell/2010/06/20/wieder-eine-brutale-messer-attacke/jugendlicher-sticht-mann-in-der-neustadt-nieder.html
Armin Mohler: Gegen die Liberalen (kaplaken 21)
Von Götz Kubitschek
Die neue Staffel der Reihe kaplaken ist am Montag aus der Druckerei gekommen. Darunter: Ein leicht aktualisierter Nachdruck der fulminanten „Liberalenbeschimpfung„ aus der Feder Armin Mohlers, nun aufgelegt unter dem Titel Gegen die Liberalen und mit einem Nachwort versehen von unserem Stammautor Martin Lichtmesz (80 Seiten, gebunden, 8 €).
http://www.sezession.de/16122/armin-mohler-gegen-die-liberalen-kaplaken-21.html#more-16122
Thorsten Hinz: Literatur aus der Schuldkolonie (kaplaken 20)
Von Götz Kubitschek
Das Kaplaken-Bändchen Zurüstung zum Bürgerkrieg ist das erfolgreichste der Reihe: Wir werden demnächst die 4. Auflage drucken. Nun hat der Autor Thorsten Hinz einen weiteren Essay beigesteuert und provokativ überschrieben: Literatur aus der Schuldkolonie. Schreiben in Deutschland nach 1945 (96 Seiten, gebunden, 8.50 €).
http://www.sezession.de/16133/thorsten-hinz-literatur-aus-der-schuldkolonie-kaplaken-20.html#more-16133
Erik Lehnert: Wozu Politik? (kaplaken 19)
Von Götz Kubitschek
Der Geschäftsführer des Instituts für Staatspolitik (IfS), Erik Lehnert, hat nun auch ein Bändchen zu der Reihe beigesteuert, die er für meinen Verlag mit entwickelte. Unter anderem fand er den Reihentitel Kaplaken. Dieser Begriff aus der Sprache der Seefahrt bezeichnet einen Zuschlag zur vereinbarten Heuer, die der Kapitän erhält, wenn der Reeder besonders zufrieden ist. Lehnerts Kaplaken heißt Wozu Politik? Vom Interesse am Gang der Welt (80 Seiten, gebunden, 8.00 €).
http://www.sezession.de/16141/erik-lehnert-wozu-politik-kaplaken-19.html#more-16141
Lotte in Moskau ist wieder da!
Von Martin Lichtmesz
Die „neue deutsche Halsmode“ geht in die zweite Runde. Ab sofort sind wieder die schönen Seidenschals „für ästhetische Beobachter“ des in Potsdam ansässigen Labels „Lotte in Moskau“ erhältlich. Mode-Accessoires, selbstzweckhafte Kunstwerke, Kultobjekte und experimentelle Artefakte zugleich, die sich nicht aufdrängen wollen, sondern sich im Gegenteil nur dem Liebhaber und aufmerksamen Betrachter eröffnen. Nie war Pop-Art dezenter als hier.
http://www.sezession.de/16073/lotte-in-moskau-ist-wieder-da.html
Eigentum verpflichtet nicht
Das Land Sachsen will sich nur noch um die wenigsten Denkmäler kümmern. Alle anderen kulturell wichtigen Gebäude sollen preisgegeben werden
http://jetzt.sueddeutsche.de/texte/anzeigen/506361
Sachsens geplantes Abrißgesetz: Bekannter Denkmalpfleger nimmt den Entwurf auseinander
http://www.l-iz.de/Politik/Sachsen/2010/06/Sachsens-geplantes-Abrissgesetz-Denkmalpfleger-nimmt-Entwurf-auseinander.html
Geschlechter-Forschung
Mädchen meiden den Wettbewerb
Ungleiche Konkurrenz: Jungs suchen Auseinandersetzungen, um Vorteile zu erzielen. Mädchen hingegen scheuen den Wettbewerb – deshalb verdienten sie später weniger Geld, glauben Wissenschaftler.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,702853,00.html
Umstrittene Diät
Sport vor dem Frühstück fördert Fettabbau
Beim Sport auf nüchternen Magen verbrennt der Körper besonders viel Fett, berichten Mediziner. Geeignete Diät, oder gefährliche Askese? Forscher warnen vor übermäßig viel Bewegung ohne vorherige Stärkung.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/medizin/0,1518,702807,00.html
Neue Daten für alle Regionen
Deutschlands wahres Klima
Von Axel Bojanowski
Der Süden ist die sonnigste Region der Republik, im Norden regnet es meist? Meteorologen haben für SPIEGEL ONLINE die neuesten Wetterdaten ausgewertet – mit überraschenden Ergebnissen.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,700267,00.html
Kaventsmänner
Forscher erkennen Monsterwellen-Wetter
Von Axel Bojanowski
Sie werden bis zu 30 Meter hoch, zerstören selbst große Schiffe – Monsterwellen lassen sich bisher nicht vorhersagen. Nun können Forscher immerhin zeigen, unter welchen Bedingungen die gefährlichen Wasserwände entstehen. Eine Erkenntnis: Die Kaventsmänner sind erstaunlich langlebig.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,701440,00.html
00:10 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : presse, journaux, allemagne, médias, actualité, europe, affaires européennes, politique | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
Protocole de l'allocution de R. Steuckers lors de la conférence de presse du Dr. Saïd Haidar (ambassadeur d'Irak)

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990
Protocole de l'allocution de Robert Steuckers lors de la conférence de presse du Dr. Said Haïdar, ambassadeur de la République d'Irak à Bruxelles, le vendredi 28 septembre 1990.
Excellence, Dr. Haïdar, Mesdames, Messieurs,
Depuis le déploiement des troupes américaines dans le désert arabique le long de la frontière irakienne, nous assistons à une unanimité suspecte, orchestrée par tous les médias du monde occidental, contre l'Irak et son Président. Toutes les grosses ficelles de la propagande ont été ressorties du placard et les poncifs négatifs autrefois utilisés contre Hitler, Mussolini, Staline, Nasser, Idi Amin Dada ou Khadafi ont retrouvé une nouvelle jeunesse. Ces exagérations bellicistes nous obligent à nous poser quelques questions d'ordre doctrinal. Avant-guerre, aux Etats-Unis, des intellectuels venus de tous les horizons idéologiques, s'étaient faits les avocats du «continentalisme», soit d'une doctrine de non-intervention dans les continents voisins. Pour ces hommes, l'Amérique ne devait intervenir ni en Europe ni en Asie et les Européens et les Asiatiques n'avaient rien à imposer au continent américain. Les diverses parties du monde, dans cette optique, devaient se centrer sur elles-mêmes afin de promouvoir une autonomie des grandes régions de notre planète, un organisation du monde en «grands espaces». Cette sagesse, ce bon sens, Roosevelt n'a pas voulu l'écouter et a de ce fait entraîné le peuple américain dans la guerre au nom des chimères mondialistes. L'Amérique avait, d'après Roosevelt, le devoir moral d'intervenir tous azimuts. Résultat, constaté il y a deux ou trois ans par le Professeur Kennedy: les finances américaines se sont épuisées à entretenir une machine de guerre à hauteur de cette incroyable prétention. Si l'on veut revenir au principe des «continentalistes», seule position acceptable hier comme aujourd'hui, l'Europe ni l'Amérique n'ont à intervenir dans les conflits du Proche- et du Moyen-Orient. Le conflit Iran-Irak, heureusement terminé, ou le conflit Irak-Koweit sont des affaires extérieures aux sphères européenne et américaine. La logique du bon sens voudrait donc que les Européens et les Américains n'interviennent pas dans ces conflits ou se bornent exclusivement à offrir leurs bons services de médiateurs. La morale concrète, soit une morale qui ne se base pas sur des abstractions irréalistes et désincarnées, nous impose de ne pas gaspiller des vies humaines, des vies de soldats, dans des conflits extérieurs à notre sphère vitale propre. Si l'on appliquait de tels principes concrets au lieu de s'inspirer de folies prétentieuses parées du label d'universalisme, on génèrerait de la paix partout dans le monde. L'idéologie universaliste des Américains, depuis Roosevelt, provoque des guerres mondiales, généralise l'horreur alors que le bon sens voudrait qu'on la limite par tous les moyens! Limiter volontairement nos actions à notre sphère continentale —l'européenne pour les Européens, l'américaine pour les Américains— signifie automatiquement localiser les guerres et non les étendre au monde entier.
Si un rappel du bon sens «continentaliste» est la première réflexion qui me vient en tête quand j'entends les médias aboyer leurs sornettes, la seconde réflexion qui me vient à l'esprit concerne les pétromonarchies. En se penchant sur la carte politique de la région où elles se situent, on est frappé par leur artificialité, une artificialité imposée depuis le démembrement de l'Empire Ottoman en 1918-19. Dans la région, la diplomatie britannique a pratiqué sa bonne vieille tactique: diviser pour régner. En d'autres termes, créer des Etats artificiels à l'embouchure des grands fleuves, afin de contrôler le commerce fluvial, donc l'économie de l'hinterland, et de tenir à sa merci les populations non littorales. Cette politique a été pratiquée par la France et la Suède en 1648, lors des traités de Westphalie. La création d'une Hollande sans hinterland à l'embouchure du Rhin et de la Meuse et l'occupation des embouchures de la Weser et de l'Elbe par la Suède avaient pour objectif de maintenir les Allemagnes en état de sujétion. La création de la Belgique en 1830 coupe la Confédération Germanique d'Anvers et fracasse l'unité viable du Royaume-Uni des Pays-Bas. La création du Koweit dans les années 20 de notre siècle suit la même logique: empêcher le développement optimal de la Mésopotamie irakienne, disposant d'atouts sérieux. De ce morcellement artificiel des territoires, découle une logique du blocus: si l'hinterland se montre récalcitrant, on bloque les ports, on étouffe l'économie et on affame la population.
Troisième réflexion: la création de ces petits Etats artificiels permet de concentrer les richesses en peu de mains: famille royale hollandaise, bourgeoisie belge, sheiks du Koweit. Minorités corrompues que l'on remettra en selle par tous les moyens si besoin s'en faut. Ce favoritisme exclusiviste généralise l'injustice sociale à très grande échelle. Le monde actuel vit cette anomalie très concrètement: j'en veux pour preuves les dettes immenses de l'Amérique latine et des autres zones du Tiers-Monde. Peron en Argentine, Mossadegh en Iran, Michel Aflak au Liban, en Syrie et en Irak ont voulu mettre un terme à cette aberration monstrueuse: leurs échecs relatifs ne doivent pas nous décourager. «Point n'est besoin d'espérer pour entreprendre ni de réussir pour persévérer».
Quatrième réflexion: l'illogisme américain, qui consistait hier, en 1987, à envoyer la flotte de guerre pour escorter les pétroliers irakiens et qui consiste aujourd'hui à envoyer la même armada pour les bloquer, montre bien qu'il ne s'agit pas d'une «croisade pour le droit» mais d'une volonté délibérée de maintenir toute la région sous la coupe directe des intérêts américains et d'empêcher toute puissance régionale d'organiser l'espace proche- et moyen-oriental à sa guise. Peu importe si cette puissance régionale est l'amie d'hier... Le calcul impérialiste brut est à l'œuvre ici non la vertu.
Derrière tout cela se profile en fait un grave danger pour l'Europe. Depuis la chute du Mur de Berlin et l'avènement de Vaclav Havel à la Présidence de la République fédérative des Tchèques et des Slovaques, l'Europe vivait un processus de paix. Le centre du Vieux Continent se resoudait, les soldats hongrois et autrichiens démantelaient les barbelés et les miradors, la foule est-allemande exigeait la dissolution de la Stasi, etc. L'avenir était très prometteur: un redémarrage économique s'annonçait en Europe alors que rien ne laissait prévoir une diminution du déficit américain. L'Amérique, animée par les pires folies messianiques traduites pour le bon peuple, le bétail électoral, en termes de consommation, s'est ingéniée, depuis quarante ans, à mettre en œuvre les pires poncifs éculés du libéralisme sans racines et sans ancrage. Résultat: le système d'éducation va à vau-l'eau, la société chavire dans les pires indisciplines, n'accepte plus la moindre contrainte, croit vivre le paradis et s'étiole, se disloque, se désagrège. Deux hommes d'affaires japonais, dont l'ancien directeur de Sony, ont brossé de la société américaine un tableau peu séduisant. En pariant pour le «choix individuel», en bonne logique libérale-permissive, l'Américaine a bradé son avenir, tandis que l'Allemagne et le Japon (et surtout lui) n'ont cessé d'améliorer leurs systèmes d'éducation, de valoriser le savoir-faire de leurs forces vives, de mobiliser les énergies humaines de leurs nations. Pour échapper à la honte d'être vaincue par ceux qu'elle avait vaincus à coup de tapis de bombes ou par l'atomisation de Nagasaki et Hiroshima, l'Amérique, tenaillée par ses rancunes, cherche à limiter les bénéfices que pourraient engranger dans le court terme Allemands et Japonais. En tentant de leur faire payer les frais de l'opération folle amorcée dans le désert arabique, les Américains essayent tant bien que mal de retarder encore la marche en avant de l'Europe germano-centrée et de l'espace pacifique nippo-centré, exactement comme l'avait prédit le grand juriste européen Carl Schmitt. Les Etats-Unis, même s'ils se déclarent progressistes, sont en fait les grands retardateurs de l'histoire.
Retarder l'histoire, empêcher le centrage de l'Europe et l'émergence d'une sphère de co-prospérité asiatique en Extrême-Orient, empêcher tout dialogue constructif entre nations européennes et nations arabo-musulmanes, tenter de détourner les bénéfices européens et japonais dans le gouffre sans fond du gaspillage américain, voilà la logique égoïste de l'impérialisme yankee. Logique égoïste qui est aussi pour nous un défi. Un défi qui nous somme de ne pas imiter le relâchement des mœurs à l'américaine, de ne pas imiter la désinvolture américaine en matière d'enseignement, de tout miser en conséquence sur l'éducation de notre peuple, de trouver des autres sources d'énergie, selon l'adage qui veut que la science, l'inventivité des hommes, brise les monopoles. Dans le cas du pétrole, briser celui de l'Aramco.
Robert STEUCKERS.
00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : irak, belgique, guerre du golfe, histoire, moyen orient | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
lundi, 28 juin 2010
Entretien avec Christiane Pigacé
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1990
Entretien avec Christiane Pigacé
propos recueillis par Jürgen Hatzenbichler et Helena Pleinert
Q.: Aujourd'hui, la démocratie est honorée comme un «veau d'or», disent ses adversaires. Mais est-il possible, de nos jours, de critiquer la démocratie ou de la refuser?
CP: Il faut d'abord voir ce que l'on entend par démocratie. Je crois qu'à notre époque, le politique, en fait, est saturé, comme sont saturées les institutions politiques, par les pouvoirs économiques entres autres. Donc le discours sur la démocratie est en fait un discours de légitimation, un discours de justification, qui ne fait que cacher l'absence de démocratie véritable. Il s'agit donc d'un leurre. Il y en a eu d'autres par le passé. Il y a eu des dieux, par exemple, qui cachaient les manœuvres des prêtres. De même, il n'y a pas aujourd'hui de démocratie véritable. Peut-être en Suisse, éventuellement, où il y a au moins des techniques de démocratie réelle qui sont en œuvre mais la Suisse est un tout petit Etat qui ne survit qu'à la suite d'une situation économique et politique très particulière. Les prétendues grandes démocraties actuelles, et par exemple la France, les Etats-Unis et l'Angleterre, ne sont évidemment pas des démocraties dans la mesure où, dans ces Etats, le peuple —j'entends par là l'ensemble des citoyens en état de participer au politique— ne participe pas réellement au politique puisqu'il n'a pas les moyens de participer au politique. Ni les moyens économiques ni les moyens sociaux.
Q: Donc toute démocratie réelle est «démocratie à la base» (Basisdemokratie)?
CP: Je dirais plutôt que la démocratie directe est une technique. Je veux dire qu'il s'agit d'un ensemble de techniques qui permettent au peuple de participer directement au politique. Je ne choisis aucune technique. Je préfère me référer au terme de «démocratie de base», ou «démocratie directe», qui est celui de démocratie substantielle. C'est-à-dire qu'il faut découvrir les bonnes techniques pour la bonne époque, afin que le peuple participe effectivement au politique, puisse y participer à tout moment, dans la mesure où chaque citoyen soit directement concerné par le politique et, pour cela, il faut que le peuple soit un véritable peuple, que le tissu social soit un tissu solide. Il faut aussi que chaque mouvement à l'intérieur du peuple ou à l'extérieur du peuple (contre le peuple) soit immédiatement transmis à travers les associations, à travers les différents réseaux qui construisent ce peuple, afin qu'il y ait une réaction immédiate qui n'exige même pas les techniques de la démocratie directe, qui exige simplement une adhésion, une adhésion exprimée.
Q: On peut effectivement imbriquer le concept de démocratie dans une tradition européenne, celle de la démocratie grecque, celle de la Rome républicaine, etc. Au regard de cette tradition, à quoi la démocratie actuelle devrait-elle ressembler?
CP: Vos deux exemples, celui de la Grèce et celui de Rome, sont de bons exemples. Car vous évoquez là un exemple de bonne démocratie et un exemple de mauvaise démocratie. Je crois que les Grecs ont des héritiers: ce sont les Anglo-Saxons. Et je crois que les Romains ont eu des héritiers: les peuples germaniques. La démocratie athénienne était essentiellement une démocratie formelle. Je crois que la démocratie athénienne s'est installée dans ses institutions pour amener au pouvoir une classe de marchands qui s'est opposée à une classe de propriétaires terriens. Je ne dis pas que c'était plus mal mais, enfin, ce n'était guère mieux. Alors que Rome qui ne s'est pas beaucoup préoccupée de mettre en avant le mot «démocratie», s'est, par contre, beaucoup préoccupée de mettre en avant le mot de «citoyen» et de faire en sorte que le citoyen et le peuple romain soient particulièrement respectés à l'intérieur et à l'extérieur de la Cité. Je ne voudrais pas entrer dans de trop longs développements, bien sûr, car cela ferait éclater le cadre de cette entrevue, mais dire que l'on perçoit des phénomènes tout-à-fait parallèles dans les démocraties germaniques primitives, où l'on saisit le politique de la même façon et où l'homme libre, en tant qu'il appartient au peuple, est de la même façon respecté. Parce qu'à travers lui, c'est le peuple que l'on respecte. Je crois qu'aujourd'hui il faudrait trouver des procédures pour parvenir à ce même respect et je ne pense pas que ce soit par les techniques sociales qui sont appliquées en France ou dans d'autres Etats que l'on puisse y parvenir. Au contraire, ces techniques, qui relèvent plutôt de la charité publique, n'expriment pas du tout ce droit essentiel du citoyen à être respecté et à participer à la vie publique. Donc une démocratie devrait être un lieu où existe une véritable société civile, c'est-à-dire une société où chaque citoyen soit mis en état de participer réellement à la vie publique et soit le premier personnage de cette vie publique, c'est-à-dire que l'homme politique soit un personnage qui, au contraire du citoyen, inspire immédiatement la méfiance, alors que le citoyen, a priori, ne doit inspirer que le respect.
Q: Mais qu'est-ce qui fait que l'on est citoyen dans ces modèles classiques ou germaniques? N'était-ce pas seulement les hommes libres qui avaient droit de cité, droit d'éligibilité et d'élection? Cette démocratie était donc très élitaire, très limitée...
CP: Je ne pense pas qu'elle était élitaire. Je pense que les circonstances historiques étaient différentes. On ne doit pas tant parler d'«homme libre» mais plutôt de «celui qui appartient au peuple». N'appartenaient pas au peuple ceux qui venaient en visiteurs et qui étaient reconnus comme «étrangers», avec un statut d'étranger: il s'agit des métèques à Athènes ou d'autres personnages ou les premiers plébéiens de Rome, par exemple, ou les esclaves. L'esclavage est chose reconnue dans toute l'Antiquité: je ne porterai pas de jugement de valeur sur l'esclavage ici mais j'ajouterai toutefois que l'esclavage était la contrepartie technique de la démocratie. Mais aujourd'hui il y a d'autres contreparties techniques: il y a le machinisme et la technologie qui ne nécessitent plus l'existence de l'esclavage. Donc, en fait, dans l'esprit du temps, tout membre du peuple était effectivement citoyen. L'homme libre, c'est le membre du peuple, c'est celui qui appartient au peuple. Et celui qui, appartenant au peuple, était reconnu comme libre a justement tout les devoirs et les droits du citoyen. Au demeurant, et à ce propos, je reviens à la question précédente pour donner une précision et montrer à quel point la hiérarchie entre le citoyen et l'Etat était inversée aux yeux des Anciens: dans la Rome antique, les fonctionnaires étaient souvent pris chez les esclaves ou chez les affranchis. Ce qui montre bien que le fonctionnariat n'était pas une dignité. C'était une servitude, au fond.
Q: On parle beaucoup aujourd'hui du «citoyen responsable» (mündiger Bürger), c'est-à-dire d'un citoyen capable de mesurer pleinement toutes les décisions prises à l'assemblée. Sans ce citoyen, la démocratie n'existe pas. Mais ce «citoyen responsable» existe-t-il?
CP: Si le citoyen ne tire ses droits, ses libertés et ses devoirs que du seul fait qu'il appartient au peuple, c'est-à-dire que c'est le peuple qui lui donne ses droits et ses devoirs et non l'inverse; de ce fait, le citoyen responsable n'a pas à prendre ses propres décisions, il a à participer à la décision commune, à la décision qui est prise pour le bien commun. C'est ce qui distingue l'homme libre dans le domaine privé du citoyen dans le domaine public et puis ensuite de l'homme politique lors de la crise, qui n'agit plus tout-à-fait comme un simple citoyen mais qui supportera éventuellement une responsabilité supérieure.
Q: Autre fondement de la démocratie moderne: les droits de l'homme. Ces droits de l'homme sont-ils quelque chose de réel ou relèvent-ils d'un mythe permanent?
CP: Lorsque l'on a posé cette question à René Cassin, au moment où il a mis au monde la Déclaration universelle des droits de l'Homme, lorsque, plus précisément, on lui a demandé s'il s'agissait bel et bien de droits, il a ri. Et il a répondu: «bien sûr que non, n'est-ce pas, il s'agit d'une tentative politique pour tendre vers quelque chose, mais il est évident que ce ne sont pas des droits». Et Michel Villey, qui ne peut nullement être soupçonné d'être un anti-démocrate primaire, avait formulé une critique, que je n'approuve pas sur tous les points, mais une critique très vigoureuse des droits de l'homme en tant que droits. Il est évident que les droits de l'homme sont une idéologie. Et une idéologie de justification, de légitimation, pour les Etats actuels qui se réclament de ces droits de l'homme. Mais pour que ces droits de l'homme puissent effectivement s'appliquer, il faudrait d'abord que l'on sache ce qu'est l'homme et ensuite qu'il y ait un système juridique capable de faire appliquer ces droits et qui n'existe, je crois, dans aucun Etat.
Q: Actuellement, en Allemagne, nous assistons à une discussion entre hommes de droite et anarchistes sur la question de l'Etat; les deux groupes de protagonistes critiquent la notion d'Etat au départ de la notion de peuple, de Volk. A votre avis quel est le rôle de l'Etat?
CP: L'Etat est la forme la plus élaborée de l'institution politique dans sa traduction juridique. L'Etat peut ne pas exister. Je veux dire par là que l'Etat est un phénomène récent. Le politique, en revanche, est quelque chose, que je ne qualifierais pas d'éternel —ce serait sans doute un peu excessif— mais est un phénomène presque aussi ancien que l'homme. A partir du moment où il y a eu des sociétés, ces sociétés ont eu à faire face à diverses difficultés, elles ont été, ipso facto, des sociétés politiques. Et ces sociétés ont été des sociétés politiques, parce qu'à l'intérieur de ces sociétés, il y a eu une reconnaissance, la reconnaissance de liens face à un danger commun. Et là il y a le peuple. Donc peuple et politique sont effectivement deux choses qui vont ensemble. Mais l'Etat ne va pas obligatoirement avec le peuple ni avec le politique. Parce que le politique permet l'usage de l'arbitraire, c'est la seule activité humaine où l'arbitraire soit autorisé. Or, les institutions politiques, aujourd'hui, sont figées dans l'institution étatique et ont été récupérées par des intérêts économiques et privés, ce qui induit qu'elles ne sont plus politiques par ce fait même. Et là, l'Etat est vraiment contre le peuple, parce que l'Etat se pose alors comme quelque chose d'étranger à l'intérieur du peuple. Donc je pense que, tout en demeurant fidèle à sa vocation politique, à son éventuelle vocation d'unité, d'union, de réunion communautaire face à un danger à un moment quelconque, un peuple peut fort bien se passer d'Etat.
Q: Vous affirmez donc le primat du politique contre le primat de l'économie...
CP: Non, pas réellement. Je veux dire qu'aujourd'hui, il y a primat de l'économie et l'Etat est là. Le problème, je crois, est celui de l'institution. L'institution est quelque chose de figé. Aussitôt qu'une institution est créée —je parle seulement des institutions politiques c'est-à-dire des institutions de superposition— elle se pose comme hautement symbolique par rapport à l'identité réelle d'un peuple; elle vit d'une vie propre, elle se détache peu à peu de la réalité concrète que constitue ce peuple; par là même, cette institution peut être la proie de n'importe qui; aujourd'hui, l'Etat en tant qu'institution, est la proie d'intérêts économiques. L'Etat n'a plus rien à voir avec le peuple. Et le politique n'est plus dans l'Etat. Le politique est ailleurs. Le politique peut être dans le terrorisme, dans le syndicalisme, dans la vie associative, dans la vie culturelle, parce que c'est là que le peuple se recrée mais le politique n'est certainement plus dans l'Etat parce que l'Etat, aujourd'hui, ne travaille plus qu'à défaire le peuple. Finalement, la tendance de l'Etat, on la voit très bien aujourd'hui: la tendance de l'Etat, c'est d'en arriver à une seule puissance mondiale, les Etats-Unis, entourées de puissances vassalles. Pourquoi des puissances vassalles? Parce que les Etats-Unis, seul Etat subsistant, gouvernent l'ONU. Les politologues aujourd'hui, et même les plus «démocrates», l'avouent volontiers, et pas seulement Julien Freund et Carl Schmitt avant lui. Ils avouent que tout Etat mondial serait un Etat policier et tout Etat policier est, par définition, contre le peuple.
Q: La démocratie, aujourd'hui, nous est présentée comme le bien absolu; la dictature, elle, fait désormais figure, de mal absolu. Peut-il y avoir une dictature nécessaire, qui amène au Bien?
CP: Oui. N'importe quelle forme du politique peut être bonne et nécessaire. Mais les Romains étant, pour nous, de grands instituteurs, nous retenons leur leçon: la dictature peut être excellente, à la condition expresse qu'elle dure peu et qu'elle soit associée à un objectif précis. Lorsque l'on utilise une bombe atomique, mieux vaut ne pas la faire exploser sur soi. Il faut la faire exploser aussi loin que possible, n'est-ce pas, et sur l'objectif qu'il faut détruire. Pas un autre. Donc la dictature, à un moment précis et pour une raison précise, peut se révéler nécessaire ou, plus simplement, il peut s'avérer impossible d'éviter une dictature. Mais la dictature est quelque chose qui correspond à des conditions politiques tout à fait particulières, qui ne sont pas du tout anti-démocratiques. Je veux dire qu'un régime qui empêche le peuple de s'exprimer, de s'épanouir et de survivre, comme les régimes parlementaires actuels, est beaucoup plus anti-démocratique et nocif pour le peuple qu'une dictature courte et éventuellement efficace. J'insiste: courte. Pour qu'il n'y ait pas d'ambiguïté, je pense que s'il faut une dictature, il faut savoir exécuter le dictateur aussitôt après.
Q: Pensez-vous que la démocratie moderne, qui prend son envol avec la révolution française, est fondamentalement une idée de gauche?
CP: C'est un peu complexe. La révolution française a été un événement complexe parce qu'à peu près toutes les formes de régime que nous connaissons actuellement s'y sont exprimées. Il y avait encore des partisans de la monarchie, tant constitutionnelle qu'absolue; il y avait des démocrates libéraux, constitutionnels également; il y avait des démocrates autoritaires et plébiscitaires; il y avait ensuite des partisans d'une dictature plébiscitaire. Il y avait tout cela, en quelque sorte, en vrac. Et c'est effectivement de cette époque, de façon un peu arbitraire, que l'on date l'apparition de la démocratie comme gouvernement du peuple dans notre histoire. Je répète que c'est arbitraire; à deux points de vue: parce qu'il y a eu des exemples ailleurs de gouvernement du peuple, de démocratie, avant la révolution française; ensuite, parce qu'en fait, la première chose qu'ont fait les révolutionnaires après 1794, donc après une très courte période, qui a duré un peu plus d'un an, a été d'empêcher le peuple de gouverner. Le plus grand travail des révolutionnaires français, ou plutôt des soi-disant révolutionnaires français, et de leurs successeurs, a été d'empêcher la souveraineté du peuple de s'exprimer. Notamment en détournant le terme de nation, et en faisant de la nation un terme abstrait, quelque chose de tout-à-fait subjectif, vide de contenu réel, de manière à ce que le peuple ne puisse pas se reconnaître dans la nation. Donc effectivement, la démocratie moderne, qui, pour moi, n'est pas une démocratie, trouve sa source mythique dans la révolution française, mais c'est à tort. Je pense que la révolution française est porteuse du message d'une autre démocratie, que je veux bien faire mienne, mais, de celle-là, on a très peu parlé; en France, on en a reparlé bien sûr en 1815, en 1848, au début de la IIIième République, pendant toute la fin du siècle; ces démocrates-là sont bien entendu traités de «fascistes» ou d'«hommes de droite» parce qu'ils veulent redonner la parole au peuple et parce qu'ils ne sont pas parlementaristes.
Q: Les droits de l'homme, eux aussi, ont été formulés au cours de la période révolutionnaire en France. Ne sont-ils pas revenus en Europe, après un détour par l'Amérique, à la suite de la seconde guerre mondiale. Ne peut-on pas dire que nous avons affaire, ici, à une idée de la gauche européenne, qui nous est revenue avec les forteresses volantes, les tapis de bombes et de phosphore qui ont incendié les écoles et les baraquements des réfugiés?
CP: Je crois que cette idée est partie d'Amérique et non de France. Je veux dire par là que la première «déclaration des droits» est anglo-saxonne, plus précisément américaine. C'est une déclaration des droits plus universelle puisque la déclaration française est, ne l'oublions pas, une déclaration des droits de l'homme ET du citoyen. Et très rapidement, il sera clair que ce citoyen est le citoyen français. Au regard de cela, je ne vois pas ce que vous entendez par «gauche». Si l'on veut dire par là que la déclaration des droits de l'homme et l'idéologie des droits de l'homme est une idéologie favorable au peuple et favorable à la citoyenneté et à la souveraineté du peuple, on peut dire que cette déclaration et cette idéologie n'ont pas fait leurs preuves en ce sens. Je pense que ceux qui, en France, ont lancé la première déclaration des droits, étaient des anglophiles pour la plupart; ils essayaient, en quelque sorte, de synthétiser, avec l'esprit qui est toujours l'esprit français, un ensemble d'idées qu'ils avaient prises ou croyaient avoir reprises à l'Angleterre ou aux Etats-Unis. Mais ces idées étaient en fait conservatrices, dans le sens où elles étaient inspirées des constitutionalistes anglo-saxons. De toute façon, l'idéologie des droits de l'homme connaîtra deux interprétations, en France: une interprétation nationaliste et une interprétation internationaliste, plutôt mondialiste, qui va l'emporter avec l'appoint, effectivement, des Anglo-Saxons au moment de la première guerre mondiale, lorsque Wilson imposera son point de vue. Aujourd'hui, je pense que pour l'essentiel l'idéologie des droits de l'homme est une idéologie d'inspiration anglo-saxonne.
Q: Quelle serait alors l'interprétation nationaliste des droits de l'homme?
CP: En France, les droits de l'homme ont été défendus par les nationalistes, surtout face aux marxistes. Parce qu'aux yeux des nationalistes, les droits de l'homme et du citoyen étaient des droits gagnés par le peuple français au prix de son sang durant les nombreuses révolutions que le peuple français avait faites au cours du XIXième siècle. Ces droits gagnés par le peuple français devaient être défendus par le peuple français en tant que tels. L'internationalisme pour sa part, surtout dans sa mouture marxiste, se faisait le complice du capitalisme en jouant en quelque sorte l'internationale des travailleurs, réduits à l'état de prolétaires, contre les ouvriers français, parce que ces ouvriers avaient plus de droits que les autres et que, par égalitarisme, on voulait leur ôter ses droits ou une parte de ces droits. Donc pour les nationalistes français, il fallait aider les autres nationalistes —il y avait effectivement une inter-nationale, comme le dit Barrès dans Scènes et doctrines du nationalisme— car chaque peuple devait défendre les droits qu'il avait acquis en tant que peuple. Le mot citoyen a donc une grande importance. Je vous donne une précision historique, qui est capitale: le mouvement nationaliste est issu historiquement, dans toute l'Europe, d'un événement qui est la révolution française. Mais les nationalistes français sont issus de la révolution, alors que les nationalismes, ailleurs en Europe, se sont souvent faits contre la révolution. Ce qui fait que, pour des nationalistes français, il n'était pas du tout génant de s'approprier la révolution française. Nationalistes de tous les pays peuvent se rejoindre mais en sachant qu'il y a une route historique qui n'a pas été parcourue de la même manière.
Q: L'idée de démocratie, issue de la révolution française, est couplée à une idée d'égalitarisme: tous les hommes sont pareils, pourvus des mêmes facultés et des mêmes droits, légués par Dieu. Telle est l'idée que la plupart de nos contemporains se font de la démocratie. Tout le reste, pour eux, n'est pas de la démocratie, même si, pour vous, la démocratie a de toutes autres racines...
CP: Oui, j'en suis bien consciente, mais je ne pense pas qu'il y ait, à l'heure actuelle, de démocratie en Europe occidentale. Je pense qu'il y existe des régimes qui, sous couvert de démocratie, sont en fait des oligarchies, des oligarchies économiques. Quant à la révolution française, on lui a fait dire ce que l'on a bien voulu lui faire dire. L'idée de démocratie, telle qu'elle relève de la révolution française, est une idée qui est inspirée de la déclaration des droits de l'homme, bien évidemment. Mais cette déclaration est purement fictive, illusoire. Ce n'est pas elle qui a inspiré la véritable révolution française, c'est-à-dire celle de 1793 et de 1794, qui est effectivement la véritable révolution, où l'on insiste sur les aspects dynamiques, sur le pouvoir accordé au peuple, et non pas seulement sur des droits illusoires.
Q: Les démocraties actuelles se définissent comme les pôles opposés et absolus des systèmes totalitaires, de quelqu'idéologie qu'ils relèvent. Peut-on imaginer qu'un système de démocratie formelle puisse se muer en un totalitarisme?
CP: Vous m'obligez à faire du vocabulaire. C'est-à-dire qu'on évolue entre les deux conceptions de la démocratie, celles de la démocratie formelle et de la démocratie substantielle. Je vois mal comment une démocratie substantielle, c'est-à-dire une démocratie qui est respectueuse des identités, des différences, peut devenir totalitaire. Ce serait absolument incompatible. Une démocratie substantielle, par essence, ne peut jamais devenir totalitaire. Elle ne peut jamais être soumise à un monolithisme qu'il soit culturel, politique ou religieux. Son principe est le respect des différences. Sa force naît de l'accord commun autour du respect de ces différences. Par exemple de la reconnaissance par les régions de l'autorité politique, de la reconnaissance par les communes, par les villes, par les villages, de l'autorité des régions, de la reconnaissance, à l'intérieur des différentes villes, des associations, bref, de tout ce tissu humain. Donc une démocratie substantielle, si elle est vraiment une démocratie substantielle, ne peut pas être totalitaire. En revanche, ce que l'on appelle démocratie aujourd'hui, c'est-à-dire le régime dont nous parlions et qui a remplacé le peuple, a remplacé la souveraineté du peuple par une divinité que l'on appelle l'idéologie des droits de l'homme, peut être totalitaire et elle le montre. Elle a un effet décapant et uniformisant qui est absolu et c'est même le totalitarisme absolu puisque c'est un totalitarisme qui ne construit rien mais qui détruit.
Q: Dans les écrits de la «nouvelle droite» française, on repère sans cesse le concept d'«Etat organique». A quoi ressemblerait un tel Etat sur le plan du droit et des sciences politiques?
CP: Nous savons tous ce qu'est, scientifiquement parlant, une société organique. C'est une société où les parties s'expliquent par le tout et non l'inverse. D'un point de vue juridique, institutionnel, je ne pense pas qu'il y ait de règles. La seule règle, c'est la règle du politique. C'est-à-dire qu'il faut qu'il y ait une hiérarchie des valeurs à l'intérieur de cette société, que cette hiérarchie transparaisse dans les institutions, qu'elles soient écrites ou non écrites, et que ces institutions permettent, puisqu'elles sont des institutions politiques, que la décision politique soit prise souverainement au moment venu. Je ne pense pas qu'il soit nécessaire de compliquer les choses au-delà de ce que je viens de vous dire.
Q: Parlons un petit peu de l'institution parlementaire. Dans un parlement, en théorie, siègent les représentants élus du peuple. Le parlement est de ce fait un reflet du peuple. Une assemblée où l'on prend des décisions qui vont dans le sens du bien du peuple. En réalité, nous avons souvent affaire aux représentants, non du peuple, mais des intérêts des lobbies. Comment pourrait-on réduire au minimum la représentation de ces lobbies au profit d'une représentation réellement populaire?
CP: Je pense qu'il n'y a pas de solution-miracle. On peut constater l'existence des lobbies et supprimer les lobbies. Et ensuite, le peuple se restructurera et reconstruira éventuellement ses réseaux. Mais, je le répète, il n'y a aucune solution-miracle. On peut admettre quelques freins. Par exemple, pour ce qui concerne l'élection d'un député. Un député, dans l'état actuel des choses, ne court plus aucun risque jusqu'à sa réélection. Bon, il est élu, il est très content d'être élu; ce qu'il doit alors essayer de faire: trouver d'autres électeurs pour être réélu. Et cela pourrait ne pas être les mêmes électeurs. Il est certain que si l'on pouvait prévoir des procédures a posteriori qui permettraient aux électeurs de ce député de le révoquer en cours de mandat, les risques encourus par le député seraient nombreux. C'est une procédure qui est appliquée dans certains Etats. On l'appelle la procédure de revocatio ad populum. Elle a notamment été appliqué à Rome. Elle prévoit un contrôle extrêmement étroit des activités financières de ce député ainsi que de ses faits et gestes pendant son mandat, assorti d'une sorte de procès qui lui serait fait après son mandat. Ce qui oblige le député à être plus attentif à la volonté de ses électeurs. Mais je ne crois pas que ce soit suffisant. Car s'il s'agit d'électeurs comme ceux d'aujourd'hui, c'est-à-dire des gens qui appartiennent à une société libérale ou issue du monde libéral, eh bien, ces électeurs ne seront qu'une somme d'individus qui voteront un peu au hasard. Donc, a priori, la condition indispensable à la formation d'institutions saines, c'est la réapparition d'un peuple sain, d'un véritable peuple et ce peuple, je ne peux pas le fabriquer d'un coup de baguette magique et aucune institution n'en est capable.
Q: Carl Schmitt a défini le concept du politique par celui de l'inimitié. Quel est le degré d'inimitié nécessaire à l'intérieur d'un système politique? Et comment cette inimité s'exprime-t-elle?
CP: Je pense que pour que le politique soit nécessaire, pour que l'institution politique soit nécessaire, il faut qu'effectivement un danger apparaisse. Mais je pense aussi que pour que l'institution politique apparaisse, l'amitié est au moins aussi nécessaire que l'inimitié. Parce que si l'on ne trouve pas d'amis contre l'ennemi, le politique n'apparaîtra jamais. Donc, il faut, sur ce point, compléter Carl Schmitt, par exemple par Koellreutter. C'est-à-dire compléter la notion d'ennemi par celle de «camarade dans le peuple». S'il y a un peuple qui s'ignore, parce qu'il n'a pas encore rencontré la nécessité de se manifester en tant que peuple, il aura l'occasion de se reconnaître comme tel quand l'ennemi apparaîtra. Mais s'il n'y a pas de peuple, l'ennemi peut apparaître et il n'y aura pas, je crois, de réaction politique. Donc amitié et inimitié sont nécessaires. Et l'on peut se trouver dans une société qui a tous les traits d'une société politique, durant des siècles, sans, je pense, qu'il y ait d'ennemi. C'est une chose possible. Je ne sais pas si une telle société ne tendrait pas à une certaine désagrégation.
Mais il y a beaucoup de définitions de l'ennemi. L'ennemi peut être un autre peuple, une puissance économique, un danger écologique, ou n'importe quelle sorte de danger, comme une épidémie, etc. On utilise beaucoup la façon dont Carl Schmitt a présenté, peut-être d'une manière un peu dure, sa définition de l'ennemi, pour dire: voilà il y a d'affreux fascistes qui voient des ennemis partout. Mais le fait est là: nous avons tous, tant que nous sommes, des ennemis partout. Les idéologues de gauche qui rejettent le plus vivement la pensée de Carl Schmitt sont les premiers à voir des ennemis partout à droite, chez les adversaires de l'écologie, chez les bellicistes, etc. Leur façon d'être pacifistes manifeste bien qu'ils ont un grand sens de l'ennemi, beaucoup plus vif que la plupart des nationalistes que je connais et qui cherchent au contraire à s'unir avec n'importe qui. Les gens de gauche, eux, passent leur temps à reconnaître l'ennemi.
Q: On parle beaucoup, trop même, des concepts de «gauche» et de «droite». Ils sont utilisés désormais universellement, mais ne décrivent plus guère une substance concrète. N'est-il pas temps d'introduire de nouvelles dichotomies, un nouveau vocabulaire instrumentalisable pour rendre compte de la complexité des enjeux politiques?
CP: Je pense qu'effectivement il y a tout un travail énorme à faire sur les concepts. Ce devrait être notre premier travail, peut-être. Le concept de «nationalisme», lui aussi, devrait être réétudié. De même que le concept de «socialisme». Tous ces concepts ont été forgés de façon un peu rapide au XIXième siècle. Pour la «droite» et la «gauche», de la même façon, ces concepts sont opératoires parce qu'on en connaît approximativement le sens. J'insiste: approximativement. Je crois, en effet, qu'il faudrait découvrir d'autres concepts aujourd'hui. Pas exactement les découvrir, plutôt les mettre en avant. Peut-être le concept d'«identité» que l'on pourrait opposer au concept d'«uniformisation». Ou le concept de «domination économique» que l'on pourrait opposer au concept de «solidarité politique». Mais ce ne sont là que des exemples: on pourrait en trouver beaucoup d'autres. En ce qui concerne la droite et la gauche, j'y ai réfléchi, pour un travail que j'avais à conduire il y a quelque temps sur les deux concepts; et la seule chose que je peux dire à ce sujet, c'est que, sous la révolution française, lors du vote sur le veto, les députés qui ont voté contre le veto, c'est-à-dire contre le roi, se sont mis à gauche, tandis que les autres se mettaient à droite. En France, c'est ce que nous avons de plus sûr sur la droite et sur la gauche. Après, les gens de droite ne sont devenus nationalistes que tout à la fin du XIXième siècle, alors que c'est la gauche qui était nationaliste au départ. Le socialisme était en principe à gauche mais, en fait, puisque les socialistes étaient en même temps nationalistes, on peut se demander, au regard des critères en vigueur de nos jours, s'ils n'étaient pas aussi à droite; le patriotisme s'est situé surtout à gauche aussi. Les idées sociales, par contre, ont été défendues par les contre-révolutionnaires et par les légitimistes. Ceux-ci ont été les premiers à les défendre. Il faut bien le dire, car telle est la vérité historique. Les concepts de droite et de gauche sont des concepts qui, historiquement, sont dépourvus de sens. Alors, si l'on voulait tout de même leur rechercher un sens étymologique, on pourrait se souvenir que, dans l'antiquité, et en particulier quand on lisait les augures, la gauche, c'était à la fois le mouvement et le désordre, c'est-à-dire simultanément quelque chose de positif et de négatif. Et la droite, c'était l'ordre et aussi l'immobilisme. Donc aussi, simultanément, quelque chose de positif et de négatif. Je crois que les concepts de droite et de gauche naissent de la révolution française dans la mesure où, au moment de la révolution, un grand désordre apparaît qui fait que la complémentarité nécessaire à toute société politique disparaît. En effet, à cette époque troublée de notre histoire, le mouvement et la conservation se séparent, alors que dans les sociétés humaines normales, ce sont des choses qui doivent coexister.
Q: Une dernière question: vous avez assez souvent utilisé le concept de «nationalisme», dans un sens relativement positif. Chez nous, dans le monde germanophone, le «nationalisme», et tout ce qui en relève, est tabouisé. Qu'en est-il en France? Est-ce différent?
CP: Pas tellement. Mais c'est effectivement un peu différent. Ceci dit, il y a une certaine marginalisation du nationalisme, tout de même. On doit l'admettre. Ensuite, les nationalistes ne sont pas d'accord entre eux. Ce qui complique beaucoup les choses. Ce désaccord vient du fait qu'ils ne mettent pas la même chose sous le mot «nationalisme». Ou parce que certains qui sont peut-être plus nationalistes que ceux qui se disent nationalistes, rejettent absolument cette appellation. Ce qui ne simplifie pas les choses.
Q: Madame Pigacé, merci de nous avoir accordé cet entretien.
00:05 Publié dans Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (1) | Tags : théorie politique, politologie, sciences politique, philosophie, politique, définition, entretiens | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
dimanche, 27 juin 2010
Phosphore sur Darmstadt
Phosphore sur Darmstadt
Témoignage du Lieutenant-Colonel Christiaan Hendrik Turcksin, commandeur de la “Flak-Brigade” flamande
Pour comprendre ce texte : Christian Hendrik Turcksin, figure étonnante du Brabant flamand, ancien comédien des rues, tenancier de taverne, nationaliste flamand par une sorte d’anarchisme naturel, s’engage dans la Luftwaffe de Goering dès 1940, et recrute plusieurs milliers d’hommes pour la force aérienne allemande, dont beaucoup de rampants, de troupes destinées à surveiller et défendre les aérodromes et à servir les batteries anti-aériennes de la “FLAK”. Ces troupes flamandes participeront à l’occupation des départements du Nord de la France, jadis annexés par Louis XIV. Dans ce recrutement, il aurait eu l’appui tacite de l’établissement belge, qui lui a fourni un cadre d’officiers compétents, avec la promesse de le défendre en cas d’une victoire alliée et d’un putsch communiste simultané. Les soldats de Turcksin se battront après septembre 1944 sur le front occidental (et non pas sur le front de l’Est!) et seront chargés de défendre, avec leurs camarades allemands, les villes du pays de Bade et la vallée du Neckar, notamment contre les armées de Leclerc. Turcksin sera arrêté et torturé par les Américains (la description des “interrogatoires” qu’il a subis est hallucinante!) puis livré à la Belgique qui le condamnera à perpétuité et le libèrera après 13 ans de détention. Mais en occultant soigneusement sa saga, pour qu’elle ne jette pas le trouble dans le bon peuple. Turcksin finira ses jours en Allemagne, dont il obtiendra la nationalité. Il a laissé des mémoires aux Archives Fédérales de Bonn. Le livre (références infra) tiré de ces mémoires, et paru chez l’éditeur De Krijger, a été composé par l’un de ses anciens officiers, issu du mouvement flamand et non pas de l’armée belge, l’historien Jos Vinks, aujourd’hui décédé. Ce livre désormais accessible au grand public aurait recelé une véritable bombe à retardement pour l’établissement il y a une ou deux décennies. Aujourd’hui, l’amnésie est généralisée et la confusion est totale. Donc on peut sans crainte révéler une partie des mémoires de ce phénomène inclassable que fut Turcksin.
L’offensive von Rundstedt avait échoué. Les bombardements sur les villes allemandes ne cessaient d’augmenter. Cela devenait de plus en plus une pure boucherie, dont était victime la seule population civile, des vieillards, des femmes et des enfants. Ces bombardements frappaient des villes sans importance militaire (comme Dresde), que l’on rasait sans hésiter. En plus, les chasseurs mitraillaient les routes, les villages, les champs et canardaient tout ce qui bougeait : un paysan sur son champ, une femme à vélo qui partait faire ses emplettes, des enfants qui se rendaient à l’école.
A cette époque-là, j’étais contraint de voyager régulièrement entre Wiesbaden et Germersheim et ces trajets étaient de plus en plus dangereux, à cause des chasseurs alliés qui survolaient le pays en rase-mottes. La “Flakbrigade” flamande ripostait de son mieux et récoltait des louanges pour ses actions. Pour protéger la population civile contre les “jabos” [chasseurs-bombardiers légers des forces alliées, de type “Typhoon” ou “Thunderbolt”, ndlr], nos batteries lourdes avaient reçu en renfort des pièces anti-aériennes à trois tubes, qui provenaient de la marine: on les avait démontés de leurs navires de guerre.
La chose la plus horrible que j’ai vécue à cette époque-là de la guerre, fut bel et bien le bombardement de Darmstadt. Pour échapper au danger permanent que représentaient les “jabos”, nous effectuions nos plus longs trajets de nuit. Ce jour-là, en m’approchant de Darmstadt par l’autoroute, une sentinelle me fait signe de m’arrêter, juste avant la sortie vers la ville. L’alerte maximale venait juste d’être donnée. Il n’a pas fallu longtemps pour voir, depuis l’autoroute, à cinq kilomètres de la ville, le déclenchement de gigantesques incendies. D’un coup, le ciel est passé par toutes les couleurs: bleu azur, jaune verdâtre, toutes les nuances de l’arc-en-ciel; il faisait si clair qu’on pouvait presque lire le journal.
“C’est du phosphore que lancent ces bandits” me dit alors un homme appartenant à la Croix-Rouge. “Et cela sur une ville où il n’y a que des hôpitaux”. “Il n’y a pas d’industrie, pas d’unités de l’armée”. “Maintenant, ajouta-t-il, vous devrez rester pour aider, avec votre voiture”. “Afin de conduire les blessés à Heidelberg. Ce n’est que là qu’on peut aider ceux qui ont été touchés par le phosphore”. Dès la fin de l’alerte, je me suis rangé dans la colonne de voitures qui suivait le véhicule de la Croix-Rouge. Nous n’avons pas pu aller plus loin que la gare. L’asphalte de la rue brûlait et dégageait des couleurs vives: du rouge, du vert, du jaune. Des frissons d’horreur me secouaient quand j’entendais hurler les femmes et les enfants: tous ceux qui ont entendu de tels cris s’en sont souvenu toute leur vie durant. Quant à ceux qui ont ordonné et fait exécuter un tel massacre, ils ne méritent plus le nom d’homme: ce sont des démons. Certains sont fiers d’avoir participé à ces massacres: où est leur conscience? Disent-ils, eux aussi, qu’ils n’ont fait qu’exécuter les ordres?
On désigna, pour monter dans ma voiture, une femme qui portait un enfant et tenait une petite fille par la main. Ils hurlaient de douleur. Ce n’était plus des cris, mais de véritables hurlements. J’ai demandé à l’homme de la Croix-Rouge s’il n’avait rien pour aider ces pauvres gens. “Non”, me répondit-il, “la seul chose possible, c’est de procéder à l’ablation des chairs touchées par le phosphore. Seuls ceux de la clinique universitaire d’Heidelberg peuvent le faire. Voilà pourquoi vous devez vous y rendre le plus rapidement possible”. J’ai roulé au maximum des capacités du moteur, j’ai foncé comme un fou sur l’autoroute. Je peux difficilement exprimer par des mots ce qui se passait sur la banquette arrière de mon véhicule. Pendant de nombreuses années, cette vision m’a poursuivi dans mon sommeil, a hanté mes cauchemars. Pendant le trajet vers Heidelberg, j’ai maudit intensément les responsables de cette horreur sans nom, je leur ai souhaité les pires choses, comme jamais je ne l’avais fait dans ma vie.
La femme ne cessait de m’implorer: “Monsieur l’officier, finissez-en. N’avez-vous donc aucun sentiment pour la souffrance de mes enfants? Donnez-moi votre pistolet, que je le fasse moi-même, si vous êtes trop lâche!”. Après ce voyage abominable, un médecin m’a expliqué combien douloureuses étaient les brûlures dues au phosphore. C’était dans la clinique d’Heidelberg. Le seul moyen, même s’il paraît extrêmement brutal, est de trancher la chair atteinte. Tenter de la “refroidir” ne sert à rien et rend les douleurs encore plus insupportables. Des brûlés au phosophore se sont jetés à l’eau, pensant soulager leurs douleurs, mais la moitié d’entre eux en sont morts ou sont devenus fous car le mal devenait alors insoutenable. De telles scènes se sont déroulées partout, mais, comme je l’ai appris à ce moment-là, ce fut surtout à Hambourg et à Dresde. “Essayez vous-même”, me dit le médecin d’Heidelberg, “en prenant une alumette, que vous allumez, mais en la tenant contre une partie du corps avant qu’elle ne s’enflamme. Une seule seconde suffit. Vous saurez alors ce que cela signifie d’être arrosé de phosphore”.
Ensuite, pragmatique, il me dit : “Je vais faire nettoyer votre auto, car il est probable que vous soyez vous aussi brûlé ultérieurement par ce qu’il reste de phosphore dans le véhicule”. Je me suis alors rendu près de ma voiture et j’ai attendu, parce que je voulais savoir ce qu’il était advenu de cette femme et de ses deux enfants. La femme a dû subir une amputation des deux pieds. La fillette qu’elle avait tenue par la main a connu le même sort, parce qu’elle avait marché, elle aussi [sur l’asphalte brûlant sous l’effet du phosphore, ndt]. Le jeune enfant que la mère portait a été amputé du bras droit. L’intérieur de ma voiture était brûlé: le phosphore avait continué lentement à manger la matière, cherchant toujours plus de “nourriture” à engloutir, jusqu’à l’épuisement de sa force diabolique. On a ôté tous les sièges de ma voiture et on les a enduits d’une sorte de pâte. J’ai dû utiliser une simple chaise, dont on avait scié les pieds, comme siège de conducteur!
[Extrait de Jos VINKS, De memoires van Turcksin, Uitgeverij De Krijger, Erpe, s.d., 25 Euro, ISBN 90-7254-747-0].
00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : darmstadt, bombardement, crime de guerre, allemagne, deuxième guerre mondiale, seconde guerre mondiale, guerre aérienne, flandre | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
samedi, 26 juin 2010
Les méfaits de la globalisation
Archives de Synergies Européennes - 2003
Louis VINTEUIL :
Les méfaits de la globalisation
De nos jours l’Europe, sous le masque de cette pâle caricature qu’est l’Union Européenne, est soumise à un processus d’homogénéisation dont les vecteurs et principes capitalistes et militaires sont ceux du « manu-militarisme » et du « manu-monétarisme ». En ce sens, l’Union Européenne constitue un mécanisme régional politico-économique, un maillon dans la chaîne du globalisme qui assoit sa primauté planétaire par le biais d’une cartellisation régionale du monde. Dans cette même direction, les régimes capitalistes ultralibéraux ainsi que les sociales démocraties qui sont en oeuvre dans la plupart des pays européens ne constituent que des mécanismes régulateurs des intérêts du grand capital financier regroupés dans le groupe G7. Les fondements de l’actuelle construction européenne reposent sur un système de valeurs hérité de la Renaissance : anthropocentrisme, conception technicienne et scientiste de la vie, économicisme exacerbé, obsidionalité et biosidionalité technologique qui considèrent la nature humaine comme un produit de consommation illimité. Derrière le bien être matériel universel et la prospérité globale, se cache une stratégie de développement qui n’est en fait qu’une stratégie de violence dont les pivots sont l’égocentrisme, l’anthropocentrisme et la conception de l’existence fondée sur une croissance continue indifférenciée et dont les armes sont l’exploitation illimitée des ressources naturelles et humaines à l’échelle planétaire. Cette stratégie de la croissance continue —et dont le père spirituel est Joseph Retinger— n’est au fond qu’une stratégie de la tension qui aboutit à l’utilisation entropique des hommes et de la nature et devient la forme contemporaine de l’évolutionnisme global high-tech. La première ébauche de cette Europe capitaliste, entamée à Bilderberg dans les années 50 et qui fut teintée d’un certain type de Macartysme américain, sera parachevée par la doctrine de la trilatérale qui fera de l’Europe une corporation, une chasse gardée des oligarchies financières transnationales. L’Europe transformée en un immense supermarché , grande ferme soumise au jeu du marché spéculateur.
L’idéologie globale est par essence totalitaire, affectée d’un évolutionnisme pathogène car, par la voie du manu-militarisme et du manu-monétarisme, elle entend effacer et niveler toutes les diversités, les réalités naturelles et plurielles afin de soumettre les peuples aux sacerdoces des lois du monothéisme du marché. Ce manu-militarisme et ce manu-monétarisme ne sont que les moyens pour créer une zone globale de libre échange, dominée par les cartels financiers anglo-saxons. La globalisation ne s’est jamais fixée pour but philanthropique de créer une utopie d’une communauté mondiale pacifique et fraternelle. Elle n’est qu’un processus avancé de libéralisation des marchés, de délocalisation et de dérégulation des économies ainsi qu’un instrument de conquête capitaliste dans la marche au plus grand profit. En voulant contrôler l’évolution de toute forme d’existence, le globalisme engendre une communication socio-culturelle destructive, dont l’uniformisation et le nivellement viennent détruire la communication naturelle génétique.
La manipulation mentale généralisée
Ce qui caractérise la société globale, c’est indéniablement la manipulation mentale généralisée. En effet la société globale est un vaste laboratoire où l’on s’ingénie à créer par le contrôle des esprits une société psycho-civilisée qui, grâce à la génétique, expérimente le clonage d’êtres humains, décervelés et domestiquées. C’est en quelque sorte le remake du « procédé Bokanosky » imaginé par Aldous Huxley dans le « Meilleur des mondes ». Le but est, dans l’esprit d’un Francis Fukuyama , par l’intermédiaire des biotechnologies, d’abolir le temps et les concrétudes naturelles, pour mettre un terme à l’histoire et abolir les êtres humains en tant qu’êtres concrets, pour aller au-delà de l’humain. Par les procédés de manipulation mentale on aboutit dans cette société globale à une nouvelle forme d’esclavagisme moderne. En effet, dans le passage au XXIème siècle, les nouvelles technologies, informatiques et images, bouleversent toutes les données de la vie quotidienne tout comme le champ de toutes les investigations scientifiques. L’écran devient fatal et omniprésent, comme du reste le règne du spectacle et du simulacre. C’est de l’intérieur du monde envahissant des images que peut se voir la manipulation vidéographique, se déployer le règne des artifices et des simulations, se mettre en place une sacralisation nouvelle de l’image et de sa présence. La manipulation mentale dont je parle s’apparente à celle qu’exercerait une secte globale. En effet, il y a une parenté flagrante entre la secte, exigeant le consentement intime à un groupe donné et l’adhésion au marché universel , société à la fois globale et fragmentée en cellules consuméristes rendues narcissiques. La société-bulle des cultes sectaires n’est que le plagiat microsociologique de la secte globale planétaire sommant chacun de devenir un « gentil et docile membre de l’humanité » .
Comme dans les sectes, la société globale qui se propose d’abolir le temps et l’histoire, sécrète en elle une volonté de suicide collectif refoulée, l’autodestruction étant vécue de manière indolore tel un voyage spirituel vers une autre incarnation. Il s’agit bien d’une nouvelle forme de « Karma »moderne. La révolution technologique, le règne du cyberspace, la révolution numérique, le développement des réseaux électroniques d’information provoquent un syndrome de saturation cognitive. Assommés par un flux continus d’informations et d’images, les individus sont de moins en moins en mesure de penser et de décider, donc finalement de travailler ; étant de plus en plus accablés et abrutis.
La cyber-crétinisation
Nous sommes au coeur de la cyber-crétinisation. La manipulation mentale aboutit de même à la colonisation de l’inconscient et de l’imagination, en tant qu’espace intime onirique, symbolique et archétypale. Le capitalisme traditionnel, qui se contentait jadis de la publicité, s’attaque aujourd’hui aux domaines du rêve, de l’imagination, dans les visions du monde les plus intimes. Cette colonisation de l’imagination s’opère par la diffusion de supplétifs telle la science fiction, prêt-à-porter de l’imaginaire s’adressant aux « étages intérieurs » de l’inconscient, un imaginaire standardisé, pauvre, qui se réduit le plus souvent à des formes bâtardes de vulgarisation, nulles aussi bien sur le plan littéraire qu’intellectuel. Le loisir imaginaire contemporain qui vise à instaurer une société de joie permanente se réduit à une incitation collective à l’achat. La production symbolique, autrefois ajustée à l’évolution des siècles, est devenue frénétique. Le but est ici d’aboutir à une perte d’identité et des capacité réactives. Ainsi la société globale est une vaste techno-utopie à propos de laquelle Armand Mattelart écrit « qu’elle se révèle une arme idéologique de premier plan dans les trafics d’influence, en vue de naturaliser la vision libre-échangiste de l’ordre mondial, la théocratie libérale ».
Une nouvelle forme de “racisme global”
L’Egoité, l’anthropocentrisme et le scientisme, qui font les fondements évolutionnistes du globalisme, sont les matrices d’une nouvelle forme de « racisme global ». En effet, de part sa politique ultralibérale et les discriminations culturelles et économiques qu’il implique, le globalisme tend à accroître le fossé entre le développement psychologique et social des hommes, lequel ne correspond plus à l’évolution de sa dynamique biologique. Les types classiques de cette nouvelle forme de racisme et d’eugénisme global résultent des nouvelles formes de manipulations génétiques et de clonage qui bouleversent le cours naturel et biologique des hommes alors qu’elles augmentent les disparités culturelles et économiques. Une nouvelle forme de darwinisme social postmoderne apparaît sous les traits de l’ultralibéralisme global qui ne laisse aucune chance aux peuples et aux individus. Une nouvelle forme d’hominisation globale de l’être humain apparaît avec le globalisme par la création et la promotion d’un génotype générique, docile consommateur entièrement conditionné par l’idéologie dominante.
Cette nouvelle hominisation est à l’opposé de la bio-pluralité des peuples et de la terre qui tend de plus en plus à disparaître. Le globalisme véhicule une conception anthropocentrique de la science alors que la science devrait être biocentrique. D’autre part, le globalisme n’est que l’expression de l’américanisation unilatérale du monde entier, l’américanisme comme universalisme, l’américanisme comme mondialisme, l’américanisme comme néocolonialisme moderne. Au lendemain de la révolution d’octobre, Lénine écrivait « l’impérialisme stade suprême du capitalisme ». Au seuil du troisième millénaire, le capital international fait monter la donne : le globalisme américain devient le stade suprême de l’impérialisme moderne. Avec ce globalisme sensé apporter la prospérité à l’échelon planétaire, on a vu émerger des « villes globales », des « cités globales », lesquelles ont généré un processus de paupérisation croissante qu’on peut qualifier de « bidonvillisation » accélérée à l’échelle du globe.
La formule des “3D”
Autrement dit , la fondation du village planétaire creuse davantage l’incommensurable fossé entre riches et pauvres. Nouvelle division internationale du travail, nouveaux conflits sociaux, capital spéculatif à 90%, voilà le nouveau visage de l’exploitation capitaliste des grands groupes multinationaux. En réalité ce qu’on entend par “mondialisation”, c’est la généralisation du système capitaliste à tous les Etats de la planète. Le « laisser faire, laisser passer », cher à A. Smith, s’est mué en un nouveau slogan qui charrie le démantèlement des barrières douanières, la suppression de toutes sortes de contraintes au libre déplacement des capitaux tout en exigeant la « non ingérence » des Etats dans la régulation des économies. « Tout ce que l’Etat peut faire, c’est ne rien faire », claironnent les mondialistes. D’où la formule des 3 D qui se trouve consacrée de plus en plus : désintermédiation, déréglementation et décloisonnement. La mondialisation a créé un vaste horizon économique qui reste à peu près vide sur le plan symbolique et qui s’offre dès lors à l’imagination utopique. Néanmoins on assiste paradoxalement au déclin de l’américanité comme utopie, espace de rêve et de remplacement. Plusieurs données supportent un constat d’échecs des grandes utopies américaines : la démocratie radicale, le melting pot, les mythes latino-américains indigénistes de l’hybridation ou du métissage biologique d’où devait résulter une race supérieure, sont tous autant d’utopies qui n’ont pas trouvé de traduction dans le domaine social et économique et auxquelles se sont substitués les modèles de ghettoïsation raciale et ethnique. L’idéologie globaliste est en fait un processus de falsification négative et perfide du monde.
00:05 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : globalisation, mondialisation, fibnances, crise, économie, géopolitique, géoéconomie | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
vendredi, 25 juin 2010
Dem Dollar, nicht dem Euro, droht eine grosse Krise
00:20 Publié dans Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : dollar, euro, crise, finances, monnaie, devises, économie | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
Culture et nature: un même combat pour "Synergies"

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1994
Culture et nature: un même combat pour «Synergies»
En 1971, j'adhérais, sous le numéro 1063, à la SEPANSO (Société pour la Protection de la nature dans le Sud-Ouest). A cette époque, nous étions encore peu nombreux à nous préoccuper d'écologie et ce sont nos actions qui ont contribué à la prise de conscience actuelle en faveur de l'environnement. C'est dire que le combat des responsables de SYNERGIES pour défendre la nature n'a rien de nouveau ni d'un intérêt de mode.
L'homme, le plus grand prédateur que la Terre ait jamais connu, dévaste à son profit immédiat, et sans mesure, une nature qui a construit son équilibre au cours de millions d'années. En se multipliant sans limite, en se donnant une puissance et une audace toujours plus grandes, avec ses besoins insatiables, l'homme consomme, détruit, envahit et pollue tout ce qui a le malheur de présenter le moindre intérêt pour notre appétit physiologique, technique ou financier. Ce comportement ressemble un peu à celui des termites. Nous avons transformé la Terre en gruyère, l'atmosphère en étuve et l'eau en cloaque: nous sommes donc une termitière frénétique qui crée des objet artificiels en détruisant le donné naturel.
Lorsque l'on prend conscience de la folie que représente le “progrès”, on devient un combattant mobilisant ses énergies pour obliger sa propre espèce à se contrôler, à maîtriser cette pulsion frénétique, acquisitive et destructrice, à limiter ses besoins, à se contraindre à respecter la vie végétale et animale, à respecter les millions et les millions d'années de maturation qui résident au sein de tous ces êtres vivants. Ce respect est la condition première à tout équilibre.
A l'opposé d'un certain message de la Genèse, où Yahvé dit à Adam de soumettre la Terre à son bon vouloir et à ses convenances, nous affirmons que la Terre et la Vie ne sont la propriété de personne; rien sur cette Terre ne peut être arraisonné définitivement et enclos, soustrait au Tout et régi selon des lois différentes de la loi globale, tellurique ou “gaïenne” (de “Gaia”, la Terre). La Terre est un perpétuel chantier, où les transformations s'effectuent lentement, où êtres et formes évoluent ou involuent, subissent la loi de l'entropie. Or, ayant remplacé l'unité des religions cosmiques par une dualité créationniste, les religions récentes ont dégagé dangereusement l'homme de sa filiation avec la Nature, l'ont soustrait à ses responsabilités et l'ont conduit à la catastrophe imminente qui nous guette.
SYNERGIES a donc décidé de participer à la lutte planétaire pour la sauvegarde de la nature, sans laquelle nous ne pourrions vivre biologiquement, poétiquement et spirituellement. Après avois aidé une revue écologique (Le Recours aux forêts) à se développer et à prendre un créneau, à monter sur la brèche pour ce combat nécessaire, le Directoire de Synergies a décidé d'aller plus loin et de créer une «AMICALE ÉCOLOGIQUE EUROPÉENNE». Cette amicale n'aura pas vocation à se lancer dans des opérations spectaculaires, à imiter Greenpeace, mais devra simplement relier et informer les membres de SYNERGIES qui s'intéressent aux problèmes écologiques ou qui militent dans des organisations ou des partis écologiques partout en Europe. Nous ne souhaitons pas créer un parti vert de plus, mais former une agence d'information pour soutenir l'action au quotidien de ces militants persévérants, qui trouverons dans les travaux que nous publierons ou traduirons des argumentaires pour étayer leur combat et leurs discours. Nous croyons que l'écologie ne doit pas s'enfermer dans des approches politiciennes car l'écologie concerne tout le monde, indistinctement: il s'agit de sauver notre biosphère en danger de mort.
Ainsi donc, que ceux d'entre nous qui soutiennent notre démarche nous le fassent savoir afin que nous les tenions au courant des progrès de cette «AMICALE ÉCOLOGIQUE EUROPÉENNE».
Gilbert SINCYR.
00:05 Publié dans Synergies européennes | Lien permanent | Commentaires (1) | Tags : synergies européennes, nouvelle droite, écologie, nature, culture, philosophie | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
jeudi, 24 juin 2010
Marchés criminels, un acteur global
Marchés criminels, un acteur global
M. Roudaut
Ex: http://www.scriptoblog.com/
Quand on parle du « crime organisé », on se représente une dizaine de vieux messieurs italo-américains, discutant dans l’arrière-salle d’une pizzéria à propos du découpage territorial des quartiers périphériques de Chicago.
Erreur.
L’ouvrage de M. Roudaut démontre que le « crime organisé », aujourd’hui, fait totalement partie de l’économie globalisée, et que son niveau d’intégration avec les grands acteurs de la mondialisation (Etats, entreprises multinationales, système bancaire) a largement atteint le stade symbiotique.
Les « marchés criminels », ou si l’on préfère les « marchés de l’illicite » sont désormais un acteur global, dont le poids financier est, dans certains cas, prépondérant. Il y a là un phénomène mal connu, trop souvent ignoré en tout cas, et qui pourtant explique sans doute pas mal de choses, concernant l’évolution politique et géostratégique de ces dernières décennies.
Un simple catalogue de chiffres et de faits permet de prendre la mesure de ce qui est en cours à ce niveau.
1. Les grands marchés (environ 2 000 milliards de dollars par an)
Ce sont les « vaches à lait » de l’économie criminelle. Ce ne sont pas forcément les activités les plus dangereuses pour la population (le trafic de matériaux radioactifs, par exemple, est bien plus dangereux). Mais ce sont les activités dont la surface financière est, de loin, la plus significative.
1.1 Traite des personnes (environ 400 milliards de dollars par an, prostitution incluse)
Le total des individus faisant, chaque année, l’objet de traite internationale est estimé, selon les sources, de 800.000 à 2,5 millions.
Le marché total de la traite proprement dite (prix des passages) avoisinerait de 12 à 36 milliards de dollars. Chaque année, de 500.000 à 1 million de personnes entreraient clandestinement dans la seule Union Européenne (ce qui génèrerait, en Afrique, une industrie de l’émigration clandestine pesant au minimum 300 millions d’euros par an). 12 millions de personnes seraient, de par le monde, soumises illégalement à une forme de travail forcé – presque toujours dans le cadre d’un trafic d’êtres humains. Pour avoir une idée de l’ampleur du phénomène, rappelons qu’il a fallu 4 siècles de commerce triangulaire pour déporter 12 millions d’Africains. Actuellement, nous avons donc l’équivalent d’une traite négrière tous les 5 ans, ou à peu près.
Dans ce cadre, on assiste à une véritable explosion du marché de la prostitution forcée. C’est là que se trouvent les plus gros enjeux financiers.
Il y aurait ainsi en Europe 1 à 2 millions de prostituées. En pointe sur ce marché : les mafias albanaises et les réseaux balkaniques. La traite des blanches représente probablement une bonne partie de l’économie du pseudo-Etat du Kosovo (le reste, c’est le trafic de drogues !), ou encore de la Bosnie. On estime à environ 120.000 le nombre de femmes faisant annuellement l’objet d’un trafic transitant par l’Europe balkanique.
Le pays le plus gravement touché est la Moldavie – au point qu’une aberration statistique est constatée, avec une quasi-disparition des jeunes femmes dans certaines zones. Sur le plan purement comptable (on laissera de côté ici l’aspect moral, de toute manière c’est indescriptible), une jeune Moldave « coûte » 2.000 euros à la revente, en Europe de l’Ouest, sachant qu’elle travaillera de 5 à 10 ans et rapportera, pendant cette période, peut-être 500 fois ce qu’elle a coûté à son proxénète.
En synthèse, un rapide calcul indique que le marché de la prostitution doit, en Europe, représenter au minimum 100 milliards de dollars, et peut-être le double. C’est l’ordre de grandeur du marché de l’automobile.
L’autre grand secteur « économique » du trafic d’êtres humains est le travail servile. Sur ce point, on est moins bien renseigné, parce que les centres d’exploitation ne se trouvent majoritairement pas dans les pays développés. Le marché global pourrait avoisiner 100 milliards de dollars, si l’on admet qu’un travailleur servile rapporte environ 10 000 euros par an à son employeur. Majoritairement, ces esclaves modernes sont des clandestins (dont la plus grande part se trouve en Asie du Sud-Est). Il est à noter que, bien loin de l’image du « sans-papier » venu chercher la liberté au Nord, image chère à la gauche « morale » européenne, l’immigré clandestin vers l’Europe est, dans 80 % des cas, la victime d’un réseau criminel organisé, qui lui a fait miroiter le « mirage européen » pour mieux en faire, ici, un esclave taillable et corvéable à merci.
Nombre de clandestins morts en mer en tentant de rejoindre les côtes européennes sur la dernière décennie ? Entre 13.000 et 30.000…
Enfin, secteur pour l’instant marginal mais qu’on estime « à fort potentiel » (commercialement, s’entend), le trafic d’organes. Actuellement, on estime que 10 % des transplantations rénales effectuées chaque année dans le monde sont rendues possibles par le marché noir. Les mafias indiennes (exploitation des intouchables), brésiliennes (exploitation des favelas) et israéliennes (organisation des réseaux de distribution) seraient au cœur de cette activité, mais elles ont un concurrent de poids avec… le Parti Communiste Chinois (qui revend les organes des condamnés à mort), et un autre, plus anecdotique, avec l’UCK kossovar (qui a prélevé des organes sur ses prisonniers serbes).
1.2 Marché des contrefaçons (environ 900 milliards de dollars par an)
Saisies européennes de contrefaçons : + 1000 % entre 1998 et 2004. La mondialisation, en faisant exploser les chiffres du transport de marchandises, en complexifiant de manière presque indéfinie les chaînes logistiques, a créé un immense réseau que personne, au fond, n’est capable de contrôler sérieusement.
A titre d’exemple, seulement 5 % des biens importés dans l’Union Européenne font l’objet d’une vérification physique. Tout le reste, soit 95 %, peut être constitué indifféremment de biens légaux, ou de pures contrefaçons : personne n’en sait rien. Il faut une journée entière et deux agents des douanes pour vérifier un conteneur maritime. Et dans le seul port de Rotterdam, il passe un conteneur maritime toutes les 6 secondes. Autant dire que pour les réseaux semi-légaux de la contrefaçon, le risque de saisie est infime, par rapport aux bénéfices potentiels.
Au global, on estime que le marché des contrefaçons représenterait entre 5 et 10 % du commerce mondial (ce n’est pas une faute de frappe : 5 à 10 %). Cela représente entre 600 et 1.200 milliards de dollars par an.
Il s’agit d’une vaste « zone grise », où l’économie licite et l’économie illicite s’interpénètrent totalement, créant un continuum de fait entre réseaux criminels et certaines grandes entreprises (surtout celles des pays émergents). Résultat : en Europe, on estime à 200.000 le nombre d’emplois perdus chaque année, depuis une décennie, du seul fait de l’explosion de ce « marché gris ». L’économie générale est en effet la suivante : les centres de production se trouvent principalement dans les pays émergents (Chine, Inde), ils se développement avec l’assentiment tacite des autorités locales, et les biens sont ensuite exportés vers les pays occidentaux.
1.3 Trafics de drogues (environ 700 milliards de dollars par an)
C’est, avec le trafic de personnes et la contrefaçon, le troisième pilier de l’économie criminelle globale. Les grands pays producteurs sont l’Afghanistan (production en croissance depuis l’invasion OTAN de 2002) et la Colombie (pays allié des USA). Les principales plaques tournantes sont le Mexique (pays sous domination US) et le Kosovo (occupation OTAN). Certains croient pouvoir en déduire que le trafic de drogues fait aujourd’hui partie intégrante de la géostratégie US. Déduction qu’on pourra trouver hasardeuse… ou pas.
Où l’on se souviendra en tout cas que le trafic d’opium, au XIX° siècle, fut une arme stratégique utilisée ouvertement par l’Empire Britannique pour favoriser sa pénétration en Chine (au début du XX° siècle, on estime que 20 % de la population chinoise était opiomane).
Où l’on remarquera aussi que la véritable motivation de la guerre d’Afghanistan (ou en tout cas une des motivations véritables) pourrait être tout simplement le contrôle du trafic d’opiacés.
90 % du pavot mondial est cultivé en Afghanistan. On estime que la production afghane vaut, sur le marché mondial des stupéfiants, environ 65 milliards de dollars. Les Taliban se financent en grande partie en prélevant des « impôts révolutionnaires » sur cette manne. Mais plus important encore : le prix des opiacés double à chaque franchissement de frontières – ce qui implique que la drogue afghane entrant en Europe et aux USA (et qui transite souvent par le Kosovo), « vaut » sans doute des centaines de milliards de dollars par an : un enjeu financier énorme, dont l’ordre de grandeur est tel, qu’il peut être rapproché des besoins de financement des Etats anglo-saxons financièrement très fragilisés.
En somme, pour les USA, la drogue est un moyen de justifier l’interventionnisme (guerre contre la drogue en Colombie, au Mexique, en Afghanistan), mais aussi, peut-être, un jackpot…
Des stratégies similaires existent d’ailleurs à l’échelle de puissances régionales. La culture du cannabis dans le Rif est tolérée par le régime marocain pour apaiser les tensions sociales du pays. La diffusion de cette drogue en Europe est notoirement tolérée (de fait) par les autorités européennes, pour stabiliser la situation dans certaines « banlieues sensibles ».
Il y aurait ainsi, En France, 100.000 revendeurs de drogues dans nos rues. Ce marché touche environ 1.2 millions de consommateurs réguliers. Il permet aux grossistes et semi-grossistes de toucher des revenus illicites comparables aux salaires des PDG d’entreprises moyennes (environ 50.000 euros par mois). Les dealers, par contre, ne font pas fortune : environ 800 euros par mois (pour une activité, il est vrai, peu chronophage). Banlieue : est-ce que la seule digue qui nous sépare encore de l’émeute à l’échelle du pays, c’est le trafic de cannabis ?
Situation inquiétante, en tout cas.
Ce type de stratégie (instrumentalisation du trafic de drogue par les Etats) est réversible. Certains Etats ont tellement laissé se développer l’économie souterraine des stupéfiants qu’ils sont devenus des « narco-Etats » - désormais, ce sont les cartels de narcotrafiquants qui « tiennent » l’Etat, au moins au niveau régional (Mexique, Colombie).
2. Les marchés de niche
Ce sont des marchés dont le poids financier reste marginal. Pour autant, il faut s’y intéresser, car ils peuvent constituer un danger important (écologique, en particulier) et interagir avec des problématiques géostratégiques.
2.1 Trafics de déchets
On estime à plusieurs dizaines de millions de tonnes les déchets industriels toxiques qui sont, chaque année, abandonnés, enfouis, voire « recyclés sans retraitement » (!) par les réseaux criminels, pour qui cette « industrie » (en fait : cette non-industrie) constitue désormais une source de revenus non négligeable.
Une opération menée par 13 pays européens a récemment indiqué que plus de 50 % des déchets transportés d’un pays à l’autre l’étaient en toute illégalité – ce qui donne une idée de l’ampleur du phénomène, et donc du caractère relativement théorique des normes édictées en la matière. 10 % du fret maritime mondial serait constitué de déchets toxiques théoriquement interdits à l’exportation (là encore : 10 %, ce n’est pas une faute de frappe). On parle là d’un phénomène colossal, qui implique de facto une intégration très forte entre l’économie globalisée des grandes multinationales et les réseaux criminels.
L’économie du processus est aussi simple que désastreuse : il coûte 10 fois moins cher d’exporter des déchets industriels vers un « pays poubelle » que de les retraiter. Les grands acteurs de ce « métier » seraient la « D company », crime organisé indien, et les mafias de l’ex-bloc soviétique. En comparaison des quantités traitées par ces « industriels » mafieux, les « combines » de la camorra (enfouissement des déchets de l’industrie nord-italienne dans le sud pauvre du pays) font figure d’amateurisme éclairé.
On remarquera avec intérêt que le durcissement permanent des législations sur le retraitement des déchets, dans les pays développé, a ainsi fortement contribué au développement d’une gigantesque industrie de l’illégal dans les pays pauvres. Un rapide calcul montre que le marché total de cette « zone grise » se monte probablement, à l’échelle mondiale, à plusieurs dizaines de milliards de dollars par an. Pour le seul cas où un Etat encore relativement stable a pu se livrer à une estimation (la camorra dans le sud de l’Italie), on est arrivé à la conclusion que le marché de l’enfouissement illégal de déchets représentait environ 6 milliards de dollars par an.
Il est à noter, détail croustillant, que l’Etat italien a été amené à enquêter sur cette affaire lorsqu’il s’est avéré que la camorra, ayant pris le contrôle des entreprises de dépollution du sud de l’Italie, polluait délibérément les zones où « ses » entreprises étaient ensuite engagées par l’Etat pour nettoyer. Coup double.
Amateurs, les mafieux italiens, mais amateurs éclairés…
2.2 Pillage des ressources naturelles
En Afrique, la frontière entre légal et illégal est floue. Il existe même quelques Etats (Sierra Leone, en particulier) où il n’y a en réalité pas de loi du tout, de sorte que selon les points de vue, tout est légal, ou tout est illégal.
Dans plusieurs zones du continent, les guerres tribales et autres luttes indépendantistes plus ou moins légitimes sont désormais de simples prétextes : les véritables forces agissantes sont des mafias, et un simple examen des cartes de guerre permet de vérifier que presque toujours, quand un conflit s’éternise, il y a du pétrole, des diamants, de l’or ou du bois précieux à proximité. Au Nigéria, les gouvernements régionaux plus ou moins fantoches sont financés par des multinationales, tandis que les mouvements indépendantistes ou révolutionnaires le sont… par d’autres multinationales. Le résultat est une exploitation pétrolière anarchique, donc extrêmement polluante.
Cependant, contrairement à ce qu’on pourrait croire, la matière première qui donne lieu au plus grand pillage illégal n’est pas le pétrole, pas plus que le diamant. Ces trafics très médiatisés cachent, c’est le cas de le dire, une forêt. Le plus grand pillage concerne en effet le bois : on estime à au moins 15 milliards de dollars par an la contrebande de bois. 25 % du bois sibérien est coupé illégalement. Au Gabon et en Indonésie, le taux dépasse largement 50 %.
Il est intéressant de noter que les grandes entreprises (occidentales, mais aussi chinoises) qui importent ces bois coupés illégalement se rendent coupables de recel – et si elles plaident l’ignorance, cela ne répond pas à la vraie question : elles savent très bien que plus de la moitié de leur bois a été coupé illégalement ; et que font-elles ? Rien. Arguant du fait qu’elles ne peuvent tracer le matériau, elles l’achètent, fermant les yeux sur les trafics et la catastrophe écologique que leur attitude engendre.
2.3 Trafics d’armes
Le principal danger du trafic d’armes réside dans la contrebande de matériels et de technologiques nucléaires, bactériologiques, virologiques et chimiques. A noter qu’au sein de ce risque global, le plus sérieux, n’en déplaise aux scénaristes hollywoodiens avides de sensationnalisme, n’est pas la contrebande de têtes nucléaires. Beaucoup plus probantes sont les preuves de trafic de déchets nucléaires, susceptibles de servir en particulier dans la fabrication d’une « bombe sale » (une arme conventionnelle de forte puissance, disséminant des résidus radioactifs dans un vaste périmètre).
Autre enseignement intéressant : le seul exemple probant de contrebande nucléaire à grande échelle est venu… d’Irak ? Perdu. D’Iran ? Encore perdu. De Corée du Nord ? Toujours pas ! Cet exemple est venu du Pakistan, pays officiellement allié des USA, qui organisa en 2003 une filière (démantelée depuis par le protecteur américain) à destination de la Lybie, de l’Iran et de la Corée du Nord. Apparemment, le principal mobile de ce trafic basé au Pakistan était un apport de devises à ce pays en état de faillite structurelle permanente… et, accessoirement, un « petit » bonus pour les individus organisateurs du trafic.
Cependant, si le danger principal concerne les armes de destruction massive, c’est le trafic d’armes légères qui représente l’enjeu financier principal. A ce sujet, commençons par un chiffre : nombre de personnes tuées dans le monde par des armes légères illicites : 300.000 par an (plus que dans le total des conflits interétatiques, même en 2003). La guerre, concrètement, aujourd’hui, c’est un phénomène diffus.
L’enjeu financier du trafic d’armes reste, cela dit, assez marginal par rapport à d’autres secteurs criminels. On estime le total des transactions illicites dans ce domaine à environ 1 milliard de dollars par an. Il faut dire que les prix sont cassés par les anciens pays du bloc de l’est : la Kalash s’achèterait 70 dollars la pièce, au marché noir, en Biélorussie !
A ce « petit » marché totalement illicite s’ajoute un vaste marché « gris », de l’ordre de 5 milliards de dollars par an. Il s’agit d’opérations qui sont légales du point de vue du pays vendeur, et illégales dans le pays d’importation (dans certains cas : à la limite de la légalité).
Il est patent que ces trafics d’armes se développent surtout dans les zones frontières, là où l’ordre international est fragile et les zones d’influence entre grandes puissances incertaines. L’exemple le plus frappant en est la république russophone autoproclamée de Transnistrie, en Moldavie, qui survit, aux frontières de la Moldavie (financée quant à elle par l’argent du trafic de personnes)… grâce à ses capacités de production et ses stocks d’armes ex-soviétiques (lance-roquettes antichars, armes légères en tout genre, 47.000 tonnes de munitions dont la moitié ont disparu on ne sait ni où ni comment) – et cela, bien sûr, sans toujours bien regarder à la licence d’importation de ses acheteurs.
3. Poids financier global : vers la symbiose économie spéculative / crime organisé ?
En conclusion, rappelons que pour des raisons évidentes, il n’est pas possible d’évaluer précisément le poids des activités criminelles dans l’économie mondiale. Le FMI s’y est risqué : il estime que le total des activités de blanchiment doit se trouver quelque part entre 600 et 1800 milliards de dollars.
On remarquera en premier lieu que c’est largement suffisant pour déstabiliser les marchés financiers, en injectant constamment dans l’économie spéculative des capitaux qui n’ont pas de contrepartie réelle dans l’économie productive. Il existe, de toute évidence, un lien de causalité, peut-être réciproque, entre développement des marchés criminels, explosion du blanchiment et dérèglementation tous azimuts des marchés de capitaux. Catastrophe à l’horizon ?
Un exemple a pu être observé in vivo, au Japon, dans les années 90 : la bulle de l’immobilier était largement liée au recyclage des capitaux « noirs » provenant des milieux yakuzas – on connaît les conséquences : deux décennies de stagnation pour l’Empire du Soleil Levant. Autre exemple intéressant : au pire moment de la catastrophe Eltsine, Interpol estima que 40 % du PIB russe était contrôlé par des groupes criminels (vous avez bien lu, ce n’est pas une faute de frappe : 40 %) – et que 60 % des groupes bancaires avaient été pris d’assaut par les mafias, transformant l’économie russe en une sorte d’immense blanchisseuse (d’où l’implosion cataclysmique du système Eltsine, et la crise de 1998).
D’une manière générale, la multiplication des réseaux d’entreprises fonctionnant en circuits fermés et ne produisant rien de tangible est un bon indicateur de l’existence d’une vaste activité de blanchiment dans une économie donnée – et l’on remarquera ici que cette définition colle tout à fait à la quasi-totalité des activités financières de pure spéculation, en plein boom depuis deux décennies. A l’aune de ce rapprochement, on réalise en tout cas à quel point les mafieux italo-américains, avec leur « pizza connection » (chaînes de restaurants italiens intégrant des revenus illégaux à leurs recettes) font figure de petits joueurs.
Simple dérive du système ? On peut en douter. Surtout quand l’on sait qu’un test conduit récemment a prouvé qu’il était plus facile de créer des sociétés écrans à la City de Londres que dans les centres off shore les plus exotiques (Bahamas, Cayman, etc.)…
Pour caler nos idées, rappelons encore que le PIB mondial avoisine 60.000 milliards de dollars, ce qui implique que les marchés criminels pèseraient à peu près 2 % environ du PIB mondial pour leurs seules activités donnant lieu à blanchiment, donc probablement 4 % environ si l’on inclut les activités criminelles en « zone grise », qui ne donnent pas lieu à blanchiment (contrefaçons, en particulier).
En synthèse, on peut estimer que le poids total des activités illicites doit correspondre à peu près au PIB d’une puissance économique de premier plan, l’Allemagne par exemple.
Résultat : les cartels mafieux ont un poids financier et des effectifs comparables à celui des grandes entreprises. Le plus grand clan Yakusa aurait par exemple 38.000 membres. Les stratégies déployées par ces cartels rappellent d’ailleurs, elles aussi, celles des grands groupes multinationaux : implantation globalisée, poly-activité, investissements en capital-risque couplé à des « vaches à lait » stables…
Dans quelques cas extrêmes, les réseaux mafieux ont même atteint un stade de contrôle supérieur à celui des plus grands groupes industriels ou bancaires. Cosa Nostra, par exemple, contrôlerait totalement 180.000 votes à Palerme (sur 700.000 habitants), ce qui veut dire, en pratique, que cette mafia possède une grande ville, en toute simplicité. Si l’exemple sicilien est une réplique miniature du monde que le crime organisé triomphant nous prépare, la question mérite d’être posée : dans l’avenir, les termes « Etat » et « mafia » vont-ils devenir synonymes ?
00:20 Publié dans Actualité | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : droit, criminalité, mafias, criminalité en col blanc | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook
"Voyage au bout de la nuit" brûlé par le IIIe Reich?
Voyage au bout de la nuit brûlé par le IIIe Reich ?

Prenons, par exemple, l’année 1933 pour nous intéresser à l’édition en langue allemande de Voyage au bout de la nuit. En décembre de l’année précédente, Robert Denoël a signé un contrat avec le Berliner Tageblatt pour la publication en feuilleton du roman. Il a également conclu un accord avec l’éditeur Reinhard Piper, à Munich, pour la parution du livre en volume. En février 1933, cet éditeur contacte Denoël pour lui signifier qu’il considère non satisfaisante la traduction due à Isak Grünberg, et que, par conséquent, il souhaite la confier à un autre traducteur, Ferdinand Hardekopf. Denoël s’insurge, défend le travail de Grünberg, appuyé en cela par Céline qui prend, lui aussi, fait et cause pour le traducteur juif autrichien (2). D’autant que celui-ci s’était lui-même proposé pour traduire Voyage en allemand après lui avoir consacré un article élogieux dans le Berliner Tageblatt. En réalité, précise Thyssens, l’éditeur allemand a vu le vent tourner : le parti national-socialiste est au pouvoir depuis février 1933 et cette traduction n’est plus du tout à l’ordre du jour. Aussi cède-t-il le contrat à Julius Kittls, un confrère éditeur installé à Mährisch-Ostrau, près de Prague, qui l’éditera en décembre 1933. Le 17 mai, L'Intransigeant publie un écho étonnant à propos du Voyage, mais ne cite pas ses sources. Il prélude, en tout cas, au refus du Berliner Tageblatt de publier le roman en feuilleton, conformément au contrat signé en décembre 1932 (3). Titré « Céline au bûcher », tel est cet écho : « Le Voyage au bout de la nuit, de M. Louis-Ferdinand Céline, a été, par ordre gouvernemental, retiré de toutes les librairies allemandes et brûlé la semaine dernière avec les autres ouvrages que condamne le régime hitlérien » (4). Cet autodafé de Céline par l’Allemagne hitlérienne est-il confirmé par une autre source ? Si son livre fut effectivement détruit par les nationaux-socialistes, voilà assurément un fait que Céline aurait pu mentionner dans son mémoire en défense de 1946 !
Marc LAUDELOUT
1. « Robert Denoël, éditeur » : www.thyssens.com.
2. Marc Laudelout, « Quand Céline et Denoël défendaient Isak Grünberg », Le Bulletin célinien, n° 293, janvier 2008, pp. 8-9.
3. Le 15 juin, L'Intransigeant annonce que les Éditions Denoël et Steele viennent d'assigner le Berliner Tageblatt, pour rupture de contrat. Le journal allemand, « se retranchant derrière le cas de force majeure (le changement de régime) », a renoncé à publier en feuilleton Voyage au bout de la nuit.
4. C’est effectivement le 10 mai 1933 que le ministre de la Propagande, Joseph Goebbels, préside à Berlin une nuit d’autodafé pendant laquelle des milliers de « mauvais livres » d'auteurs juifs, marxistes, démocrates ou psychanalystes sont brûlés pêle-mêle en public par des étudiants nazis ; la même scène se tiendra ensuite dans d’autres grandes villes, comme Brême, Dresde, Francfort, Munich et Nuremberg.
00:10 Publié dans Littérature | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : littérature, lettres, lettres françaises, littérature française, france, allemagne, troisième reich, national-socialisme, censure, années 30 | |
del.icio.us |
|
Digg |
Facebook