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lundi, 12 juillet 2010

Jünger, ribelle della modernità

Jünger, ribelle della modernità

di Marco Iacona

 
Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

Il 29 marzo del 1998, Ernst Jünger avrebbe dovuto compiere 103 anni. Il 17 febbraio dello stesso anno, tuttavia, si spegneva all’ospedale di Riedlingen nei pressi di Wilflingen nell’Alta Svevia, dove abitava da lungo tempo. I commenti sulla stampa dell’epoca furono quasi tutti di questo tipo: «È scomparso il testimone del Novecento». Nato nel 1895 ad Heidelberg, città dei filosofi, Jünger era stato protagonista degli eventi più importanti del secolo trascorso a cominciare dalle due guerre mondiali. Noto per esser stato parte essenziale di quella corrente di pensiero conosciuta come “Rivoluzione conservatrice tedesca”, ebbe interessi sterminati: dall’entomologia ai romanzi polizieschi di cui fu anche singolare autore (Eine Gefährtliche Begegnung – 1985). La raccolta dei suoi diari (di guerra, ma non solo), resta a detta di tutti un gioiello della letteratura del ‘900.

Una retrospettiva sull’attività del Nostro condurrebbe lontanissimo coincidendo, almeno in parte, con la storia d’Europa, fino ai primi anni del secondo Dopoguerra. Più utile una disamina sulle figure che Ernst Jünger ha saputo tratteggiare nel corso del suo interminabile percorso intellettuale. Cronologicamente è dal soldato che bisogna partire. Jünger va ricordato per averci trasmesso un’idea della guerra (ci riferiamo alla prima delle due guerre mondiali), che rimarrà come manifesto di uno spirito eroico per molti da imitare (ma a nostro giudizio inimitabile). Jünger mostra il lato della guerra che rifugge da un approccio morale; le sofferenze sono soltanto le sofferenze di un uomo in trincea, i morti non hanno nome, né famiglie ad attenderli, l’eroismo, in situazioni limite non può non prescindere dalla pietas e in sostanza dalla normalità dei sentimenti. Da questo punto di vista la sua opera più celebre e innovativa è In Stahlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), un diario-romanzo, pubblicato a due anni dalla fine della Grande Guerra. Il giovane Ernst vi appare come l’uomo dell’obbedienza e del silenzio. C’è uno Stato Maggiore da qualche parte del Reich che somministra piani di guerra ai sottoposti e c’è un protagonista solitario d’un evento e d’un libro: il soldato che sconosce le decisioni prese dai superiori e le motivazioni di respiro strategico delle azioni intraprese. In Stahlgewittern è un libro moderno, si dice, poiché mostra senza perifrasi le conseguenze dei conflitti, appunto, moderni. È un libro pensato all’interno d’un cimitero in pieno giorno, quando nessuna immagine può sfuggire allo sguardo sul filo delle lapidi.

Gli europei stanno combattendo una guerra terribile che richiama alla mente una sola parola: coraggio. Quel che importa non è la solidità delle trincee ma l’animo degli uomini che le occupano. Nell’inferno del Vecchio Continente, la scoperta della Materialschlacht (la «battaglia dei materiali») è l’evento cardine nel processo di formazione delle idee jüngeriane, il valore individuale sembra annullato dallo strapotere della tecnica. La meccanizzazione della guerra e le conseguenze che ne discendono, saranno comprese dal soldato-Jünger in tutta la loro forza epocale. Si può essere ancora men without fear? È questo l’interrogativo che conta.

 

Finisce la guerra. Inizia la parentesi della repubblica di Weimar (1919-1933). Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt (L’Operaio. Dominio e forma – 1932) è l’opera teoretica più importante di questo periodo e forse di tutta la produzione jüngeriana. Attraversando temi e stili diversi Jünger è arrivato alla seconda figura importante: il tipo dell’operaio (o milite del lavoro). Essa non appartiene ad una classe e soprattutto non ha legami di continuità con i regimi storici pre e post rivoluzionari: il lavoratore non è il quarto stato, né custodisce al proprio interno valori esclusivamente economici. Nel lavoratore Jünger vede una «forma particolare agente secondo leggi proprie che segue una propria missione e possiede una propria libertà», un tipo a se stante dunque, il protagonista della modernità destinato a sostituirsi all’individuo e alla comunità. L’avanguardia di una nuova «forma» che non subirà alcun tipo di uniformazione. Nell’era dell’operaio, la massa non sarà più un agglomerato amorfo ma un insieme composto di cellule con una propria gerarchia di quadri. La volontà dei capi sarà la volontà di tutti e quest’ultima, espressione delle volontà particolari. L’idea jüngeriana del lavoro oltre ad eliminare le contraddizioni all’interno della società borghese darà all’uomo la libertà e la forza desiderate.

Cosa unisce il combattente delle trincee, con questa figura epocale? L’interrogativo non è ozioso. C’è in proposito una ricca letteratura. Nel libretto di Delio Cantimori: Tre saggi su Jünger, Moeller van den Bruck, Schmitt, per esempio, il milite del lavoro è l’asceta costruttore di una nuova società, «la cui rinunzia ad ogni personale sentimento e ad ogni motivo d’azione individuale, il cui contegno generale posson esser paragonati solo con quelli del soldato, del milite, come s’è presentato specie verso l’ultima epoca più meccanica della guerra mondiale». In realtà l’operaio è una figura limite.

 

Esso si delinea in senso essenzialmente dualistico: erede diretto del soldato, dell’asceta guerriero e principio cardine e chiave di lettura ontologica. Figura a un tempo storica e astorica: nato ma destinato a mai perire. Il soldato è una figura empirica, occasionale, l’operaio invece è una figura quasi metafisica. Eroi entrambi. L’uno legato ai fatti di guerra, l’altro simbolo d’una nuova era.

Soldato e operaio: due figure diverse dunque. Due entità poco confrontabili, misure e tempi che non coincidono. Ma c’è una cosa in comune: lo sforzo jüngeriano di eternizzare la posa del combattente, di trasferire lo spirito della vittoria nello spirito del dominatore civile, nell’uomo moderno tout court. In questo senso possiamo considerare Der Arbeiter un libro di guerra messo su in tempo di pace.

Al soldato s’addice la “tempesta” (l’alternarsi degli elementi: comincia a tempestare, finisce di tempestare…), l’operaio è invece legato all’“acciaio”, al panorama d’una modernità tipologica al confine tra fisica e metafisica.

Ma non è tutto. C’è uno Jünger del dopoguerra (quello superficialmente conosciuto come ribelle) che attraverso saggi e romanzi (Heliopolis - 1950, tanto per cominciare e anche l’arcifamoso Der Waldgang - 1951), tratteggia una figura se vogliamo ancor più complessa dell’operaio. Si tratta dell’anarca, o di colui che va incontro al bosco. C’è una dimensione a un tempo “naturale” ed escapista nello Jünger del secondo Dopoguerra (non dimentichiamo peraltro né la sua fama di contemplatore solitario né di studioso del regno degli insetti).

 

Dopo aver rappresentato la modernità con le sue cornici teorico-pratiche, dopo averci detto che nessuno sarebbe sfuggito al destino di lavoratore e uomo massa (seppur fosse nelle sue capacità il non farsi annullare da questa), l’uomo di Heidelberg decide di abbandonare le posizioni. C’è dunque una singolarità in questo terza figura jüngeriana. Quello che è stato chiamato il ribelle è in realtà un uomo che smette la «divisa» del combattente.

Del resto dopo averci detto verso quale abisso correva il genere umano (e dopo aver esplicitato a un tempo «forma» e rimedi), Jünger ha preferito occuparsi anche d’altro.

Quel che c’era da dire era stato già detto: l’eroe di guerra ha scelto di proseguire la vita cacciando farfalle.

 

 


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dimanche, 11 juillet 2010

CIA-Geheimbericht: Deutsche öffentlichkeit soll für Afghanistan-Krieg manipuliert werden

CIA-Geheimbericht: Deutsche Öffentlichkeit soll für Afghanistan-Krieg manipuliert werden

Udo Schulze

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Mit gezielten Maßnahmen in Presse, Funk und Fernsehen will der amerikanische Geheimdienst »CIA« in Deutschland für eine höhere Akzeptanz des Afghanistan-Krieges sorgen. Das geht aus einem geheimen Bericht der »CIA« hervor, der KOPP Online vorliegt. In dem Dossier wird ein Abzug der Bundeswehr aus Afghanistan befürchtet, weil der politische Druck aus der Bevölkerung stetig wachse. Deswegen soll künftig mit der Angst der Deutschen Stimmung gemacht werden.

 

 

 

 

Ein blutiger Sommer in Afghanistan, so die Verfasser der Studie, könnte in Deutschland aus den Krieg passiv ablehnenden Bürgern aktive machen. Diese »offene Feindschaft« gelte es zu verhindern, denn heutige Apathie könne schon morgen zur Opposition führen, die sich durch Demonstrationen, Streiks und Wahlentscheidungen zeige. Bestes Beispiel dafür sei der Vorfall von Kunduz im September vergangenen Jahres, bei dem unter Leitung eines deutschen Offiziers mehrere Dutzend afghanische Zivilisten durch einen Bombenangriff ums Leben gekommen waren. Das habe die Ablehnung des Krieges innerhalb der deutschen Bevölkerung drastisch verstärkt. Deswegen schlagen die Autoren der CIA vor dafür zu sorgen, dass in hiesigen Medien verstärkt Meldungen Verbreitung finden, in denen die angeblich negativen Folgen eines Bundeswehr-Abzugs dargestellt werden. Den Deutschen müsse klargemacht werden, dass in diesem Fall ihre ureigensten Interessen berührt würden, es zu einer Flut afghanischer Drogen in deutschen Städten käme und der Terrorismus zwischen Flensburg und Garmisch überborden würde. Nahezu angewidert stellt die CIA in dem Papier fest, in Deutschland herrsche »eine Allergie gegen bewaffnete Konflikte«.

 

 

So soll frei nach dem Prinzip »Zuckerbrot und Peitsche« die öffentliche Meinung zum Krieg am Hindukusch nicht nur mit Schreckensmeldungen manipuliert werden. Auch der großen Popularität Barack Obamas hierzulande wollen sich die Strategen aus der CIA-Zentrale in Langley zunutze machen. Immerhin genieße seine Außenpolitik in Deutschland zu 90 Prozent Zustimmung, heißt es. Auf dieser Grundlage müsse der Krieg der deutschen Bevölkerung als notwendig vermittelt werden. Zudem haben sich die Schlapphüte aus den USA die deutschen Frauen als Zielgruppe ihrer Propaganda ausgesucht. Da der Gedanke der Emanzipation in der Bundesrepublik weite Verbreitung genieße, sei es unumgänglich, den Krieg nach außen hin zu humanisieren, indem afghanische Frauen in deutschen Medien über ihre durch den Konflikt erworbenen Rechte berichteten. Gleichzeitig sollen die Repressionen, unter denen sie bei den Taliban litten, sowie ihre Angst vor einem erneuten Erstarken dieser Gruppe hervorgehoben werden.

 

Nach Angaben der Deutschen Presse Agentur (DPA) ist am Freitag in der nordafghanischen Stadt Kunduz ein Deutscher bei einem Selbstmordattentat ums Leben gekommen. Der Mann arbeitete für eine private Sicherheitsfirma und befand sich im Gebäude einer Firma, die mit einer staatlichen US-Hilfsorganisation kooperiert. DPA zufolge hatten sechs Attentäter das Haus angegriffen, wobei auch zwei afghanische Zivilisten getötet und weitere 22 verletzt wurden.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le Traité du Trianon fut une catastrophe pour l'Europe entière!

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Le Traité du Trianon fut une catastrophe pour l’Europe entière!

 

 

Entretien avec Gabor Vona, président du parti “Jobbik” sur les conséquences du Traité du Trianon et sur la situation des minorités hongroises en Europe centrale

 

Q. : Monsieur Vona, il y a 90 ans, les puissances signaient le traité du Trianon. Quelles sont les conséquences de ce Traité sur la Hongrie actuelle ?

 

GV : Laissez-moi d’abord vous expliquer la terminologie de cette question épineuse : d’après moi, tout traité est le suite logique de négociations ; or ce qui s’est passé après la seconde guerre mondiale dans le château du Trianon à Versailles relève du diktat et non de négociations ; les ennemis de la Hongrie ont décidé du sort de notre pays en tablant sur des mensonges, des chiffres falsifiés et de faux rapports. L’Europe centrale, et avec elle le Royaume de Hongrie tout particulièrement, a été morcelée par la faute d’une coalition de superpuissances à courtes vues et par un groupe d’Etats avides, calculateurs et frustrés, que nous connaissons depuis sous le nom de « Petite Entente ».

 

Pour les Hongrois, le Traité du Trianon est synonyme d’une tentative de liquider purement et simplement le peuple hongrois. La perte de régions stratégiquement, culturellement et économiquement importantes et de leurs habitants signifie une perte démographique, culturelle et économique qui se ressent encore aujourd’hui dans notre pays, pour ne rien dire des dommages d’ordres psychologique et spirituel que le Traité du Trianon à infligé à notre conscience collective.

 

Mais les résultats du traité du Trianon n’ont pas été une tragédie que pour les seuls Hongrois : ce fut une tragédie pour l’Europe entière. Parce que le Traité du Trianon et les autres diktats imposés par les vainqueurs dans la région parisienne ont déstabilisé l’Europe centrale et orientale et ont été la cause de conflits non encore résolus dans la région. Tant l’effondrement général de l’ex-Yougoslavie dans la violence que la séparation pacifique de la Tchécoslovaquie en deux entités étatiques prouvent que les assises de ce Traité du Trianon étaient insensées.

 

Q. : La Hongrie a perdu plus des deux tiers de son territoire et plus de trois millions de Hongrois ont été placés sous l’autorité d’Etats voisins. Dans quelle mesure cette tragédie nationale a-t-elle transformé la mentalité des Hongrois ?

 

GV : Immédiatement après la tragédie que fut le Traité du Trianon, la Hongrie est parvenue à se consolider très rapidement pendant l’ère chrétienne-conservatrice de l’Amiral Miklos Horthy. L’ère Horthy a permis de libérer des énergies positives pour le bien de la nation hongroise : en un laps de temps très bref, la Hongrie a réussi à reconstruire ses infrastructures, son industrie, son armée et ses forces de police. Le régime de Horthy jeta les bases d’une économie saine et efficace, soutenue par l’une des monnaies les plus stables d’Europe. Ce régime mit également sur pied un système éducatif solide et apte à soutenir la concurrence. La vie culturelle était florissante. Sous Horthy, la Hongrie avait une élite nationale impressionnante et bien formée, qui poursuivait un objectif : réviser les clauses du diktat injuste du Trianon et qui était prête à défendre les minorité ethniques magyares au-delà des nouvelles frontières de l’Etat hongrois résiduaire en menant une diplomatie offensive et même, s’il le fallait, en faisant appel aux forces armées. L’objectif déclaré, réunifier la nation, a pu être atteint, du moins partiellement. Mais depuis cette époque, nous, Hongrois, n’avons plus d’élite nationale. Pendant les cinq décennies de communisme, nous avions une élite d’obédience internationaliste et, aujourd’hui, nous avons une élite qui croit à l’idéologie de la globalisation. Aucune de ces élites n’a été ou n’est capable ou désireuse de défendre les intérêts nationaux. Il faut ajouter que ces « élites » ont eu la pire influence qui soit sur la mentalité actuelle du peuple hongrois.

 

Q : Récemment, le Parlement hongrois a décidé de faire passer une loi sur la « double citoyenneté » et cela a conduit à des tensions avec la Slovaquie. Comprenez-vous les critiques émises par les Slovaques ?

 

GV : Non. Mais je ne crois pas qu’il s’agit, en ce cas précis, d’une mécompréhension du problème. la Slovaquie, en effet, se comporte comme un adolescent frustré, qui approche de ses vingt ans, développe un complexe d’infériorité et réagit de manière disproportionnée face à une loi qui est entièrement au diapason de ce que demandent le droit des gens, les conventions réglementant les droits de l’homme et les principes du Conseil de l’Europe. Il y a quelques semaines, des élections ont eu lieu en Slovaquie et, comme vous l’aurez appris, la rhétorique anti-hongroise s’y est révélée capable de rapporter le maximum de voix. Ce n’est dès lors pas un miracle qu’aucun parti slovaque n’a pu se soustraire à ce chœur anti-hongrois…

 

Q. : Plus d’un demi million de Hongrois ethniques vivent en Slovaquie où, l’an passé, le Parlement a fait passer la loi dite « de protection de la langue slovaque ». Dans quelle mesure celle loi discrimine-t-elle les Hongrois ? Pouvez-vous nous expliquer quelle est la situation de la minorité hongroise en Slovaquie ?

 

GV : La loi sur la langue slovaque a pour noyau que tous les citoyens, pour toutes les questions administratives, ne peuvent utiliser que la seule langue slovaque ; ensuite toute infraction à cette loi est passible de sanctions sévères, imposées par l’Etat. Comme les Hongrois sont la seule minorité importante en Slovaquie, il est clair que cette loi vise principalement les Hongrois ethniques. Cette loi correspond parfaitement à la rhétorique anti-hongroise récurrente et aux pratiques législatives habituelles du gouvernement slovaque. Pour comprendre l’absurdité de cette loi, il faut savoir que la majorité des Hongrois ethniques (près de 10% de la population) vit dans le sud de la Slovaquie dans une région bien délimitée. Dans cette région, on rencontre très souvent des villes ou des villages entièrement hongrois où tous parlent hongrois, y compris les fonctionnaires de l’hôtel de ville ou de l’administration municipale, de la poste ou de la police. Par cette loi, un Hongrois ethnique est désormais contraint d’utiliser la langue slovaque pour s’adresser à un autre Hongrois ethnique qui, lui, travaille, dans un bureau de poste de village où, plus que probablement, tous les clients de la journée parlent hongrois. Tout cela se passe au 21ième siècle, dans l’Union Européenne, avec l’accord tacite de l’UE…

 

Q. : L’UE garde le silence sur le traitement infligé aux Hongrois ethniques de Slovaquie. Ce comportement est-il objectif ?

 

GV : Parmi les plus importantes demandes formulées au moment où la Hongrie adhérait à l’UE, il y avait celle qui réclamait de celle-ci qu’elle ne tolèrerait pas les discriminations infligées aux Hongrois ethniques. Ensuite, il y avait une demande plus claire encore : l’UE devait accepter la disparition éventuelle de certaines frontières, de façon à ce qu’un peuple puisse, le cas échéant, se réunifier. Nous avons beaucoup entendu parler des « valeurs communes » de l’Europe, lesquelles rejetaient les discriminations et les politiques de deux poids deux mesures, pratiquées sur la base de la race ou de l’ethnie. Maintenant, nous entendons très peu d’échos de ces « valeurs », censées être contraignantes. L’Europe se tait lorsque des Hongrois ethniques sont molestés parce qu’ils parlent leur langue maternelle, lorsque des supporters du club de football de Dunaszerdahely sont attaqués brutalement par la police ou quand une loi discriminante se voit ratifiée par le Parlement slovaque.

 

Q. : Et quelle est la situation des minorités hongroises en Roumanie, en Serbie et en Ukraine ?

 

GV : Dans chacun de ces pays, la situation est différente, relève d’une histoire et d’un contexte différents. Toutefois, entre tous ces pays, un point commun : la volonté du gouvernement en place de contraindre les minorités hongroises, qui vivent sur leur territoire, à s’assimiler.

 

Q. : Jusqu’en 1921, le Burgenland, aujourd’hui autrichien, appartenait à la Hongrie. Pourquoi n’y a-t-il pas de tensions entre l’Autriche et la Hongrie au sujet de ce territoire ? Est-ce dû à la « communauté de destin » partagée par les vaincus de la première guerre mondiale ?

 

GV : Vaincus ? Pour ce qui concerne le Burgenland, l’Autriche appartient plutôt au camp des vainqueurs, puisqu’elle a reçu un territoire auparavant hongrois. Du point de vue hongrois, cela paraît étrange d’avoir perdu un territoire au profit de l’Autriche, après que nous ayons combattu côte à côte pendant une guerre. Je pense que la raison pour laquelle le Burgenland ne constitue pas un objet de tension entre nos deux Etats, c’est que l’Autriche ne considère pas la minorité hongroise comme un danger pour l’unité du peuple et de l’Etat. Malheureusement, l’hostilité aux Hongrois ethniques que l’on perçoit en Slovaquie, en Roumanie, en Serbie et en Ukraine est largement répandue.

 

Q. : Dans l’UE les frontières entre Etats perdent de jour en jour plus d’importance. L’UE ne pourrait-elle pas édulcorer les conséquences du Diktat du Trianon ?

 

GV : Non. La rhétorique de l’UE et de ses partisans ressemble très fort aux professions de foi internationalistes des communistes. Le socialisme, bien qu’axé sur une autre logique utopique, cherche, lui aussi, à annihiler l’Etat national. Si l’UE pouvait constituer une solution, alors les relations entre la Hongrie et ses voisins, également membres de l’UE, devraient sans cesse s’améliorer. Mais nos expériences indiquent exactement le contraire…

 

Q. : Pensez-vous que soient possibles une révision du Diktat du Trianon et une réunification des territoires peuplés de Hongrois dans les Etats limitrophes de la Hongrie actuelle avec celle-ci ?

 

GV : Pour que cela advienne, il faut que la Hongrie se dote d’abord d’une véritable élite nationale, au service des intérêts du peuple. C’est là une condition incontournable pour la renaissance spirituelle de notre pays.

 

(entretien paru dans « zur Zeit », Vienne, n°24/2010 ; propos recueillis par Bernhard Tomaschitz).

samedi, 10 juillet 2010

Rumänien: Im Namen des Volkes

Rumänien: Im Namen des Volkes

Niki Vogt

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

 

Rumänien wird von schweren Unruhen erschüttert. Nachdem das rigorose Sparprogramm auch Rentenkürzungen vorsah, marschierten die empörten Alten zu Tausenden überall auf die Straßen. Das Parlament hatte beschlossen, die ohnehin kargen Renten noch einmal um 15 Prozent zu kürzen, um sich mit drastischen Sparmaßnahmen für einen 20-Milliarden-Euro-Kredit des IWF zu qualifizieren.

 

 

 

 

Gleichzeitig sollten die Gehälter staatlicher Angestellter deutlich gekürzt werden und auch bei Sozialleistungen sollten drakonische Einsparungen dem Land die nötigen Pluspunkte in den Augen der Inspekteure des IWF verleihen.

 

Das höchste Gericht Rumäniens spielte aber nicht mit. Das Gesetz war kaum verabschiedet, da stellte das Verfassungsgericht innerhalb weniger Tage fest, dieses Gesetz sei nicht nur verfassungswidrig, sondern leide auch an einem unheilbaren Mangel: Es gibt kein Rechtsmittel, das dagegen eingelegt werden kann. Die rechtliche Begründung für das Gerichtsurteil soll darin liegen, dass es ein Gesetz in Rumänien gibt, das verbietet, die von den Arbeitnehmern selbst in die Kassen eingezahlten und garantierten Renten zu kürzen. Die Reduzierung der Gehälter öffentlicher Angestellter um 25 Prozent sei allerdings nicht verfassungswidrig, und stehe auch weiterhin zur Debatte.

 

In Rumänien leben etwa 9 Millionen Erwerbstätige, ca. 5,5 Millionen Rentner und ca. 850.000 Arbeitslose. Von den 9,2 Millionen Erwerbstätigen sind rund 1,4 Millionen in staatlich bezahlten Stellen tätig. Sozialhilfe und andere Empfänger sozialer Hilfeleistungen sind hier nicht eingerechnet.

 

Rumänien hat 21,5 Millionen Einwohner. Das heißt, 7,6 Millionen Rumänen erwirtschaften die Einkommen für 13,4 Millionen Mitbürger.

 

 

 

Die Entscheidung des Verfassungsgerichtes ist unanfechtbar.

 

Als Reaktion auf das Gerichtsurteil verlor die rumänische Währung Lei etwa ein Prozent an Wert und notierte mit 4,28 zum Euro und 3,49 Lei zum Dollar.

 

 

 

Der Sprecher der Rumänischen Nationalbank, Eugen Radulescu, nannte das Urteil des Verfassungsgerichtes »desaströs« für Rumänien. Es sende ein sehr, sehr schlechtes Signal aus. In einem Interview mit The Money Channel gab er Befürchtungen Ausdruck, es werde nun noch schwieriger für Rumänien, sich Kredite auf dem Weltfinanzmarkt zu besorgen.

 

Was wirklich dahinter steckt, ist die konkrete Angst, den erhofften 20-Milliarden-Euro-Kredit (24,49 Milliarden Dollar) des IWF nun nicht mehr bekommen zu können. Der Kredit soll nach Ansicht von Insidern hauptsächlich dazu dienen, den staatlichen Angestellten ihren Lohn zu garantieren. Die Wirtschaft Rumäniens war im vergangenen Jahr um 7,1 Prozent geschrumpft, und die Staatsschulden nehmen hier genauso überhand, wie in den anderen südeuropäischen Ländern.

 

 

Um den IWF-Kredit zu erhalten, muss Rumänien sein Haushaltsdefizit auf 6,8 Prozent herunterdrücken, keine leichte Aufgabe.

 

Weder die Weltbank noch das Büro des IWF in Rumänien waren bereit, hierzu eine Stellungsnahme abzugeben.

 

Premierminister Emil Boc kündigte an, alternative Konzepte auszuarbeiten, wie man die Staatsausgaben reduzieren könne und sich für den IWF-Kredit dennoch qualifizieren könne. Allerdings lehnte er es ab mitzuteilen, welche Maßnahmen er denn konkret sehe, um das zu erreichen. Erst wolle er sich mit dem IWF und der Weltbank darüber beraten.

 

Der stellvertretende rumänische Ministerpräsident Bela Marko sieht nun nur noch die Lösung, die Mehrwertsteuern und die Einkommenssteuern zu erhöhen »Meiner Meinung nach gibt es nun keine andere Möglichkeit mehr«, sagte er.

 

Der Leiter der IWF-Vertreter für Rumänien, Jeffrey Franks, äußerte sich ebenfalls recht vage dazu, wie es denn um die Auszahlung des IWF-Kredits nun stehe. Man werde das Urteil des Verfassungsgerichtes bewerten, meinte er. Allerdings wurde das für Montag anberaumte Treffen, in dem die Führung des IWF über die Auszahlung des ersehnten Kredits beschließen sollte, vorerst ausgesetzt.

 

Ein Tiefschlag. Premierminister Emil Boc konnte nur noch hilflos-freundlich und diplomatisch versteckt bettelnd, er hoffe doch, dass Rumänien weiterhin für den IWF-Kredit im Gespräch bleiben könne.

 

Während das Gericht noch tagte, sammelten sich wieder einmal wütende Bürger vor dem Präsidentenpalast, und schrien ihren Ärger über die Sparmaßnahmen hinaus.

 

Plötzlich stürmte aus einer Menge von etwa 600 Demonstranten eine Gruppe auf die umfangreichen Absperrungen zu, und trotz der aufgestellten Ordnungskräfte schafften es einige Protestler um ein Haar, den Präsidentenpalast in Bukarest zu stürmen. Anliegen der protestierenden Rumänen war, einen Gesprächstermin mit Präsident Traian Basescu zu erzwingen. Die Polizei konnte mit knapper Not die bereits errichteten Barrikaden auf dem Platz des 17. Jahrhunderts vor dem Präsidentenplast halten.

 

Wirklich interessant an diesen Vorfällen ist allerdings, dass davon überhaupt nichts in unseren Medien zu erfahren ist – Schweigen im Walde. Eine Recherche im Netz unter deutschen Suchwörtern ergab gerade mal eine Bloggerseite, die davon berichtete, das »Marktorakel«. Ansonsten: Schweigen im Walde.

 

Das ist auch gut verständlich, denn unsere Regierungen haben alle kein Interesse daran, diese Beispiele an Bürgerwut allzu publik zu machen.

 

Griechenland ist mittlerweile wieder in genau derselben Situation wie kurz vor der berühmten Griechenland-Rettung, es kann nur noch kurzfristig und zu über zehn Prozent Zinsen auf dem Weltfinanzmarkt Kredite erhalten. Der einzige Unterschied zu damals ist: Die EZB kauft die riskanten und uneinbringbaren griechischen Staatsschulden auf, und Griechenland hat nun noch 110 Milliarden Euro Schulden mehr, die ihm als Hilfsprogramm zugesichert und teilweise ausbezahlt wurden.

 

Sollten die Griechen, Portugiesen und Spanier sich ein Beispiel an Rumänien nehmen und griechische Gerichte ebenso die Partei des Volkes ergreifen, wird Europa sehr schnell komplett unregierbar.

 

Denn die Regierungen stehen allüberall vor demselben Dilemma: Entweder sie verschulden sich ungebremst weiter, um das System des sozialen Friedenserhalts durch Umverteilen von Unsummen an Geld am Laufen zu halten – was in absehbarer Zeit vor die Wand fahren wird, denn die Finanzmärkte trauen den überschuldeten Staaten nicht mehr und vergeben keine Kredite mehr …

 

Oder sie reißen das Steuer herum und führen drakonische Sparmaßnahmen ein, was unweigerlich den Wohlfahrtsstaat und die gesamten sozialen Netze zerreißt, und daher in Folge die revoltierenden, weil dann wirklich hungrigen Bürger in Marsch auf die Regierungspaläste setzen wird.

 

 

 

Quellen:

 

 

 

http://www.marktorakel.com/index.php?id=4280634288409020976

 

 

 

http://www.alertnet.org/thenews/pictures/BCR04.htm

 

 

 

http://news.yahoo.com/s/ap/20100625/ap_on_bi_ge/eu_romania_protest

 

 

 

http://irishexaminer.com/breakingnews/world/romanian-protesters-try-to-storm-presidential-palace-463015.html

 

 

 

http://www.msnbc.msn.com/id/37919941/ns/world_news-europe/

 

 

 

http://www.zerohedge.com/article/crisis-romania-constitutional-court-votes-pension-cuts-unconstitutional-imf-loan-jeopardy-pr

 

 

 

http://wko.at/statistik/eu/wp-rumaenien.pdf

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le démembrement de la Hongrie - Le Diktat du Trianon et sa révision partielle

 

Erich KÖRNER-LAKATOS :

 

Le démembrement de la Hongrie

 

Le Diktat du Trianon et sa révision partielle

 

Après la défaite de Mohacs en 1526 contre les Turcs, le Traité du Trianon est la seconde grande catastrophe subie par le peuple magyar. Le 4 juin 1920, le ministre plénipotentiaire hongrois Agoston Bénard et l’envoyé Alfred Drasche-Lazar signent, dans les salles du château de plaisance du Trianon les actes du traité fatidique pour la Hongrie. En guise de protestation contre ce Diktat imposé par les vainqueurs, les deux hommes ont signé debout. Car la délégation de Budapest avec, à sa tête, le Comte Albert Apponyi, subit en fait le même sort que les Autrichiens guidés par Karl Renner : tous ses arguments, sans exception, n’ont aucun impact. A la suite de ces vaines tentatives de négociations, les délégués hongrois sont contraints de signer le texte formulé et imposé par les vainqueurs.

 

Toute la Hongrie met les drapeaux en berne. Plus des deux tiers du territoire de l’Etat hongrois doivent être cédés, avec 60% de ses citoyens d’avant-guerre qui deviennent en un tournemain des étrangers, parmi lesquels trois millions de Magyars ethniques. La Transylvanie, la Batschka et le Banat, les « Hautes Terres » (c’est-à-dire la Slovaquie) et l’accès à la mer par Fiume : tout est perdu. Même la Pologne, amie par tradition, reçoit quelques lambeaux de sol hongrois dans les Tatras. De plus, le Royaume de Croatie tout entier, avec ses 52.541 km2, est arraché à la Hongrie, alors qu’il était lié à elle par le biais d’une union personnelle depuis le 12ème siècle et où, selon le recensement de 1910, vivaient 105.948 Hongrois. La Croatie, bon gré mal gré, devient partie intégrante du Royaume des Serbes, Croates et Slovènes. « Nem, nem, soha ! » (« Non, non, jamais » !), entend-on de toutes parts. Les uns, en songeant au rude traitement parfois infligé aux composantes ethniques non magyares avant 1914, veulent réviser le Traité du Trianon de manière minimaliste en réclamant que les régions peuplées de Magyars reviennent à la mère patrie ; les autres, plus radicaux, lancent le mot d’ordre « Mindent vissza ! » (« Tout doit revenir ! ») et réclament le statu quo ante.

 

Par le biais du Protocole de Venise et du référendum contesté dans la région d’Ödenburg, Budapest parvient en décembre 1921 à obtenir une révision très modeste du Diktat : les territoires retournés ont une superficie de 292 km2, où vivent 50.023 citoyens. A la suite d’une décision de la Commission des Frontières de l’Entente, quelques villages le long de la rivière Pinka (Nahring, Schilding, Kroatisch-Schützen, Pernau et Grossdorf) retournent sous souveraineté hongroise : en tout 67 km2. A ces villages, il faut ajouter Prostrum et Bleigraben.

 

En juin 1927, le pays entre en ébullition car le quotidien londonien « Daily Mail », dans son édition du 21 juin, fait paraître un article titré « Hungary’s Place in the Sun » (« La place de la Hongrie sous le soleil »). L’auteur de cet article n’est rien moins que le magnat de la presse Lord Rothermere, dont le nom civil est Harold Sidney Harmsworth. Ce Lord Rothermere réclame une révision du Diktat du Trianon sur base ethnique-nationale. A Budapest, les optimistes pensent qu’il s’agit d’une initiative des affaires étrangères britanniques, ce qui s’avère bien rapidement un vœu pieux. Malgré cela, des centaines de milliers de personnes exultent quand Lors Rothermere vient en Hongrie pour visiter le pays. Certes, le Lord reste loyal à l’égard de la Hongrie, sponsorise le vol transocéanique entre Budapest et le New Foundland en juillet 1931, quatre ans après le vol en solitaire de Charles Lindbergh. L’appareil porte sur ses ailes une inscription, « Justice for Hungary »,  et traverse l’Atlantique en moins de quatorze heures.

 

Mais, à ce moment-là, il n’est pas question de songer à modifier les frontières imposées par le Traité du Trianon. En pratique, la Hongrie est presque entièrement encerclée par les puissances de la « Petite Entente », l’alliance militaire entre Prague, Belgrade et Bucarest. Il faut attendre 1938 pour que la situation se modifie. En août, le Régent du Royaume, Horthy, est à Kiel en tant que dernier Commandeur de la Marine de guerre impériale et royale austro-hongroise ; il y est l’invité d’honneur d’Adolf Hitler à l’occasion du lancement du croiseur lourd « Prince Eugène » (Prinz Eugen). On en arrive à parler de la Tchécoslovaquie mais, à la grande déception de son hôte allemand, le Régent Horthy préconise une solution pacifique à la question.

 

Lors des Accords de Munich, Mussolini jette dans les débats la questions des revendications polonaises (le territoire de Teschen) et hongroises sur la Tchécoslovaquie, ce qui débouche sur le premier Arbitrage de Vienne du 2 novembre 1938, qui accorde à la Hongrie une bande territoriale le long de la frontière hungaro-slovaque. Acclamé par la foule, le Régent, chevauchant un destrier blanc, entre dans la petite ville de Kaschau, accompagné de Lord Rothermere. En mars 1939, la Tchéquie résiduaire s’effondre et les troupes de la Honvéd (l’armée nationale hongroise) occupent l’Ukraine subcarpathique jusqu’à la frontière polonaise.

 

Un autre ardent désir des Hongrois se voit exaucé, du moins partiellement, par le second arbitrage de Vienne : le retour de la partie septentrionale de la Transylvanie avec l’enclave des Szekler (13.200 km2 avec un demi million d’habitants, dont 91% de langue hongroise). Cette région se trouve sur les flancs des Carpates orientales. Le 30 août 1940, lorsque la carte des nouveaux changements de frontières est présentée dans les salons du Château du Belvédère à Vienne, le ministre roumain des affaires étrangères Mihail Manoilescu s’effondre, terrassé par une crise cardiaque.

 

L’étape suivante (la dernière) a lieu en avril 1941. A la suite de la campagne militaire menée contre la Yougoslavie, les troupes de la Honvéd entrent dans la plupart des régions de la Batschka, peuplée de Hongrois. L’armée hongroise occupe également l’île de Mur entre les rivières Drave et Mur, au nord de Varajdin. Le Banat occidental (la partie orientale de cette région avait été attribuée à la Roumanie par le Traité du Trianon), avec ses 640.000 habitants, dont un bon nombre d’Allemands ethniques (*), ne revient pas à la Hongrie malgré l’aval de Berlin, parce que la Roumanie, elle aussi, avait exigé des compensations. Pour éviter une confrontation pour la maîtrise de cette région, celle-ci restera sous administration militaire allemande pendant la durée du conflit, une situation qui ne satisfaisait aucun des protagonistes.

 

Avec le soutien allemand, la Hongrie a pu récupéré, en deux ans et demi, un ensemble de territoires de 80.000 km2 en tout, avec cinq millions d’habitants dont plus de deux millions de Magyars, vivant, depuis l’application des clauses du Traité du Trianon, sous domination étrangère. Mais les tensions entre voisins demeurent : des tirs sporadiques éclatent le long de la frontière roumaine pendant l’été 1941. La Slovaquie, à son tour, demande des compensations territoriales ou le retour de certaines terres à la souveraineté slovaque. La Croatie veut récupérer l’île de Mur. Bratislava essaye même de raviver la « Petite Entente » mais Ribbentrop parvient à apaiser les partenaires de l’Allemagne et de l’Axe. Mais la joie d’avoir récupéré les territoires perdus à la suite du Diktat du Trianon ne durera guère. A la fin de l’année 1944, les armées soviétiques déferlent sur la Hongrie, alliée à l’Allemagne. Le traité de paix du 10 février 1947, signé à Paris dans le Palais du Luxembourg, les vainqueurs réimposent le statu quo d’avant la guerre. Pire : la Hongrie doit céder trois villages supplémentaires à la république tchécoslovaque de Benes.

 

Erich KÖRNER-LAKATOS.

(article paru dans « zur Zeit », Vienne, n°24/2010 ; http://www.zurzeit.at/ ).

 

Note :

(*) Ainsi que des Lorrains et des Luxembourgeois thiois et wallons, installés là-bas à la suite des invasions françaises du 17ème siècle qui ont saccagé et ruiné la Lorraine et la Franche-Comté, « génocidant » littéralement ces provinces et forçant, comme dans le Palatinat rhénan, les populations à fuir. Dans certaines zones, ce sont les deux tiers de la population qui est purement et simplement massacrée ou qui doit fuir. On trouvera des Lorrains dans la région de Rome, où ils ont été invités à assécher les fameux marais pontins et y ont péri de malaria et de typhus. Les Franc-Comtois, dont les villages et les fermes ont été incendiés par la soldatesque française et par les mercenaires suédois au service du Roi-Soleil, se retrouveront en Suisse et surtout au Val d’Aoste. La romanité impériale a subi de terribles sévices que l’historiographie française officielle a gommé des mémoires. Une historiographie, aujourd’hui « républicaine », qui donne des leçons à autrui mais dissimule des pratiques génocidaires inavouées et particulièrement écœurantes.

 

 

 

vendredi, 09 juillet 2010

Presseschau - Juli 2010 /01

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Presseschau

Juli 2010 /01

Einige Links. Bei Interesse anklicken...

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Das Ergebnis der Rassenevolution ist die Untergliederung der Spezies in verschiedene Rassen. Rassen werden definiert als „Bevölkerungskomplexe, die sich in der Häufigkeit erblicher Merkmale von anderen Bevölkerungen unterscheiden“ (Schwidetzky 1982). Dies ist die heute gültige populationsgenetische Rassendefinition. Sie unterscheidet sich von der älteren typologischen dadurch, daß sie sich auf Bevölkerungen bezieht. Die typologische Definition faßte Rassen als Gruppen von Individuen auf, die gemeinsame Merkmale aufweisen. Da auch in rassisch einheitlichen Bevölkerungen nur eine Minderheit von Individuen gleichzeitig alle rassenkennzeichnenden Merkmale auf sich vereint, entspricht die populationsgenetische Definition besser der realen Merkmalsvariabilität. Allerdings ist die populationsgenetische, von den serologischen Polymorphismen abgeleitete Auffassung, daß Merkmale unabhängig voneinander variieren, letztlich eine genauso unzulässige Vereinfachung wie die Vorstellung homogener Typen. Tatsächlich gibt es vielfach historisch (in der Regel nicht genetisch) bedingte Korrelationen zwischen den Merkmalen. Typenvorstellungen sind durch Abstraktion aus der Merkmalsverteilung von realen Populationen gewonnen worden.
Der naturwissenschaftliche Typusbegriff schließt Variation und Dynamik nicht aus, sondern hat sie als Voraussetzung. Daher besteht auch kein grundsätzlicher Gegensatz zwischen Typus und Population; vielmehr liegt beiden Konzepten dieselbe biologische Wirklichkeit zugrunde, die weder mit „Typus“ noch mit „Population“ in all ihren Aspekten beschrieben werden kann. In diesem empirischen Sinn als Komplex geographisch und individuell korrelierender Merkmale ist es gemeint, wenn heute in der Anthropologie von Typen gesprochen wird.
Darüber, wie groß Bevölkerungsunterschiede sein müssen, damit beim Menschen von Rassen gesprochen werden kann, gibt es keine gültige Übereinkunft. So werden z.B. Europide und Mongolide je nachdem als Rassen oder als Großrassen oder als Rassenkreise bezeichnet, die wiederum in verschiedene Rassen oder Unterrassen unterteilt werden. In diesem Buch bezeichne ich die menschlichen Großgruppen der Europiden, Mongoliden und Negriden als Rassen und die Varianten unterhalb dieses taxonomischen Niveaus als Typen bzw. Subtypen (wenn die taxonomische Stellung unterhalb der Rassenebene betont werden soll) oder Populationen.
In jüngerer Zeit wird vielfach bestritten, daß es beim Menschen überhaupt Rassen gibt. Die Kritiker des Rassenbegriffs beziehen sich auf seit langem veraltete Rassendefinitionen, die eine wirkliche genetische Einheitlichkeit der Rassen annahmen, z.B. jene von Eugen Fischer, der um 1930 Rassen als genetisch einheitliche Gruppen ansah. Die populationsgenetische Rassendefinition setzt eine solche Einheitlichkeit nicht voraus, nur signifikante Häufigkeitsunterschiede. Tatsächlich beinhaltete aber auch der typologische Rassenbegriff keine „homogenen“ und „klar abgrenzbaren“ Einheiten, wie Gegner des Rassenbegriffs immer wieder zu Unrecht unterstellen. Selbst der Altmeister der Rassentypologie Egon von Eickstedt (1892–1965) definierte Rassen als „Individuengruppen mit Merkmalshäufungen, die in geographischer und individueller Hinsicht variieren und fluktuierende Übergänge zeigen“.
(...)

(Andreas Vonderach: Anthropologie Europas. Völker, Typen und Gene vom Neandertaler bis zur Gegenwart, Graz 2008, S. 22 f.)

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Das gefährliche Großmachtstreben der Türkei
Ankara schwelgt in großtürkischen Phantasien, träumt von einem neuen Osmanischen Reich. Eine Bedrohung sowohl für Europa als auch die arabischen Länder.
http://www.welt.de/debatte/kommentare/article8196827/Das-gefaehrliche-Grossmachtstreben-der-Tuerkei.html

Europäische Union wirbt um die Türkei
BRÜSSEL. Die Europäische Union (EU) hat mit der Türkei neue Verhandlungen über einen Beitritt des Landes aufgenommen. Beobachter werten dies vor allem als politisches Signal gegenüber Ankara, sich wieder mehr an die Gemeinschaft anzunähern.
In jüngster Zeit hatte die Türkei die EU immer wieder mit politischen Maßnahmen brüskiert, die als Zeichen der Entfremdung gewertet wurden. Beispielsweise hatte Ankara Anfang des Jahres die Visumspflicht für mehrere Länder des Nahen Ostens aufgehoben.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5c5b23984b4.0.html

„Wir sind nicht Luxemburg“
Die Wehrpflicht ist für die Erhaltung der Fähigkeit zur Landesverteidigung unverzichtbar. Der frühere Verteidigungsminister Rudolf Scharping hat im Gespräch mit dem „Spiegel“ auf etwas Wesentliches hingewiesen ...
Ex-Verteidigungsminister Scharping: Berufsarmee verfassungsrechtlich problematisch
Der frühere Verteidigungsminister Rudolf Scharping hat sich vehement gegen eine Abschaffung der Wehrpflicht ausgesprochen, so der „Spiegel“ (...) und auf Probleme mit dem Grundgesetz hingewiesen. „Wer der Bundeswehr die Möglichkeit nimmt, im Ernstfall Reservisten einberufen zu können, raubt ihr die Fähigkeit zur Landesverteidigung, also die verfassungspolitische Grundlage“, sagte der SPD-Politiker dem „Spiegel“. Nach dem Grundgesetz stelle der Bund Streitkräfte zur Landesverteidigung auf. „Auch wenn heute niemand mit einem Angriff gegen Deutschland rechnet, ändert das nichts an der verfassungspolitischen Grundlage“, so Scharping weiter.
http://www.xtranews.de/2010/06/20/ex-verteidigungsminister-scharping-berufsarmee-verfassungsrechtlich-problematisch/

Soldaten in Deutschland
US-Armee zieht aus Heidelberg und Mannheim ab
(und zieht dafür nach Wiesbaden)
http://www.abendblatt.de/politik/article1543273/US-Armee-zieht-aus-Heidelberg-und-Mannheim-ab.html

Geheimagenten in den USA
FBI zerschlägt russischen Spionagering
Der Fall wirkt wie ein Thriller aus dem Kalten Krieg: Jahrzehntelang sollen zehn Männer und Frauen in russischem Auftrag amerikanische Politiker mit modernster Technik ausspioniert haben. US-Ermittler waren den mutmaßlichen Agenten auf der Spur – jetzt schlugen sie zu.
http://www.spiegel.de/politik/ausland/0,1518,703433,00.html

Bundesversammlung
[Türken-]Wulff wird im dritten Wahlgang Präsident
Schwarz-Gelb ist knapp an der Katastrophe vorbeigeschrammt: Im dritten Wahlgang wurde Christian Wulff zum neuen Bundespräsidenten gewählt, sogar mit absoluter Mehrheit. Doch an dem Wahlkrimi wird die Koalition noch lange zu leiden haben – es könnte der Anfang vom Ende für Merkels Regierung sein.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,703926,00.html
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M574b343a70e.0.html

„Die Entmachtung der Bürger stoppen“
Einen „Fall illegitimer Machtausübung“ nennt der Parteienkritiker Hans Herbert von Arnim die Wahl des Bundespräsidenten vom Mittwoch.
Der renommierte Verfassungsrechtler und Publizist kritisiert im Interview mit der JUNGEN FREIHEIT (Ausgabe 27/10), daß die Vorsitzenden der Regierungsparteien versucht hätten, ihren Wahlmännern die Besetzung des Amts mit Christian Wulff (CDU) vorzugeben und so die rechtlich garantierte freie Wahl zu nehmen.
Der Gegenkandidat Joachim Gauck wäre zudem von SPD und Grünen nicht aufgestellt worden, weil sie ihn wirklich als Präsidenten wünschten, sondern nur, um die Regierung öffentlich vorzuführen, erläutert von Arnim.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5727f76738d.0.html

Regiert von Autisten
Von Michael Paulwitz
Angela Merkel kann aufatmen. Guido Westerwelle auch. Die Revolte ist überstanden, ihr Kandidat für Schloß Bellevue, der bisherige niedersächsische Ministerpräsident Christian Wulff, ist im dritten Anlauf zum Bundespräsidenten gewählt worden.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5b5d942e480.0.html

Ganz oben
Von Martin Lichtmesz
Immer, wenn wieder einmal Wahlen anstehen, und vor allem ausgehen, muß ich an die lustige Geschichte vom Frosch im heißen Wasser denken. Komisch, nicht? Auch sinkendes Niveau ist eine Frage der Akklimatisierung.  Wen juckt’s also noch, wem fällt es noch auf? Wie lange liegen die Zeiten nun zurück, in denen man es für unfaßbar gehalten hätte, daß ein Lebewesen wie Christian Wulff einmal deutsches Staatsoberhaupt werden könnte?
http://www.sezession.de/16403/ganz-oben.html

Eine geistige Kreuzung aus Armin Laschet und Maria Böhmer ...
Christian Wulff macht Integration zum Leitthema
Der neue Bundespräsident hat seinen Amtseid abgelegt. In seiner Rede forderte er einen größeren Einsatz für Integration.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article8275162/Christian-Wulff-macht-Integration-zum-Leitthema.html
http://www.welt.de/die-welt/politik/article8285814/Wulff-wuenscht-sich-bunte-Republik-Deutschland.html

Tag des Amtsantritts
Wulff will buntere Bundesrepublik
Erst die Vereidigung, später das Sommerfest: Christian Wulff ist Deutschlands neues Staatsoberhaupt. Seine ersten Stunden im Amt verliefen reibungslos, bis auf einen Versprecher. Jetzt will er das Land zum Integrations-Vorbild machen. Und die Bürger wieder für Politik begeistern.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,704335,00.html

Familie und Beruf
Karrierekiller Kind
Von Michael Kröger
In Umfragen geben sich Deutschlands Unternehmen familienfreundlich, preisen Betriebskitas und Teilzeitangebote an. Doch die Wirklichkeit sieht anders aus. SPIEGEL ONLINE dokumentiert die Erfahrungsberichte berufstätiger Frauen. Deren Fazit: Kindererziehung bedeutet oft das Ende der Karriere.
http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/0,1518,702870,00.html

Für die Freiheit ...
Supreme Court weitet Recht auf Waffenbesitz aus
Das Oberste Gericht der USA hat das in Städten wie Chicago geltende Waffenverbot für verfassungswidrig erklärt.
http://www.welt.de/politik/article8213864/Supreme-Court-weitet-Recht-auf-Waffenbesitz-aus.html

Waffenurteil in den USA: Auf Knopfdruck Vorurteile
von Jörg Janssen
US-Richter bestätigen Grundrecht auf Mittel zum Selbstschutz und der Deutsche Medien-Lamestream riecht Blut
[Lesenswerter Text. Problematisch ist allerdings die typisch libertäre Entgegensetzung von Individuum und Gesellschaft (eine regelrechte Gemeinschaftsphobie!). Als könnte es individuelle Freiheit ohne kollektive Freiheit geben ...]
http://ef-magazin.de/2010/07/01/2292-waffenurteil-in-den-usa-auf-knopfdruck-vorurteile

Waffenbesitz: Der Wilde Westen und die linke Journaille
von Andreas Tögel
USA vor dem „Kulturkrieg“?
http://ef-magazin.de/2010/06/30/2285-waffenbesitz-der-wilde-westen-und-die-linke-journaille

Versammlungsfreiheit gestärkt
Karlsruhe gibt Gegnern der Wehrmachtsausstellung recht
Mü. FRANKFURT, 10. Juni. Das Bundesverfassungsgericht hat einmal mehr das Grundrecht der Versammlungsfreiheit gestärkt. Wie schon mehrfach hob es eine Entscheidung des Oberverwaltungsgerichts Münster auf. Es hatte eine Auflage der Bielefelder Polizei für rechtmäßig erklärt, daß sich alle Teilnehmer einer Gegenveranstaltung zur Wehrmachtsausstellung vor deren Beginn durchsuchen lassen mußten. Die Versammlung 2002 stand unter dem Motto „Die Soldaten der Wehrmacht waren Helden, keine Verbrecher“. Die – später gerichtlich bestätigte – Anordnung zur Durchsuchung begründete die Polizei damit, daß es zu Auseinandersetzungen mit linken Gegendemonstranten kommen könnte. Die 1. Kammer des Ersten Senats des Verfassungsgerichts hob die verwaltungsgerichtlichen Entscheidungen auf: Sie verletzten den Beschwerdeführer in seiner Versammlungsfreiheit. Die Gerichte hätten keine hinreichenden Anhaltspunkte für eine von der Versammlung selbst ausgehende Gefahr für die öffentliche Sicherheit aufgezeigt. Daß Störungen durch gewaltbereite linke Gegendemonstranten zu befürchten waren, „hätte den zuständigen Behörden Anlaß sein müssen, zuvörderst gegen die angekündigten Gegendemonstrationen Maßnahmen zu ergreifen“. Dieses Gefahrenpotential sei der von dem Beschwerdeführer veranstalteten Versammlung nicht zurechenbar. (Aktenzeichen 1 BvR 2336/04)
F.A.Z., 11.06.2010, Nr. 132 / Seite 4

Udo Voigt ist der Neger der Bundesrepublik
Von Martin Lichtmesz
In der Juni-Ausgabe des „Merkur“ ist ein bemerkenswerter Aufsatz von Horst  Meier mit dem Titel „Sonderrecht gegen Neonazis?“ erschienen. Mit der Verschärfung des § 130, durch die seit 2005 nicht allein „Holocaust-Leugner“ mit strafrechtlichen Konsequenzen zu rechnen haben, sondern auch wer „nationalsozialistische Gewalt- und Willkürherrschaft billigt, verherrlicht oder rechtfertigt“, habe eine schleichende „fatale Ideologisierung des Grundrechts“ eingesetzt, die „schwere Kollateralschäden für die Bürgerrechte“ und die Meinungsfreiheit mit sich brächte.
http://www.sezession.de/16226/udo-voigt-ist-der-neger-der-bundesrepublik.html

Kampf gegen Rechts
Stiefelverbot für Neonazis
Was können Städte gegen Neonazis tun? Eine Studie der Ebert-Stiftung listet gute Ideen aus Behörden und Firmen auf. Ein Richter zwingt Rechte etwa zu Auftritten in Socken.
[Man beachte auch die zahlreichen kritischen Kommentare!]
http://www.taz.de/1/politik/deutschland/artikel/1/stiefelverbot-fuer-neonazis/

Hitler-Rede: Polizei verhaftet Deutschen wegen Nazi-Klingelton
http://www.netzwelt.de/news/83234-hitler-rede-polizei-verhaftet-deutschen-wegen-nazi-klingelton.html

Beim Knacken der türkisen Nuß
Von Martin Lichtmesz
Nach der in Teilen recht brauchbaren Serie über „Extremismus“ ist man auf Endstation Rechts nun wieder dabei, das zu tun, was man dort am schlechtesten kann: nämlich die anspruchsvollere Feindliteratur, etwa die aus dem Hause Antaios, zu analysieren. Dabei beißt man sich Zähne regelmäßig schon am Verständnis der Grundlagen aus.
Mathias Brodkorbs Rezension des neuen Kaplaken-Bandes von Thorsten Hinz „Literatur aus der Schuldkolonie“ ist dabei besonders kläglich geraten, und dies nicht nur wegen des offenbar ausgesprochen amusisch veranlagten Rezensenten.
http://www.sezession.de/16282/beim-knacken-der-tuerkisen-nuss.html

Wer verharmlost hier eigentlich?
Von Fabian Schmidt-Ahmad
„Verharmlosung des Hitler-Faschismus“ – die stellvertretende Linkspartei-Chefin Katja Kipping hat den Bundespräsidentschaftskandidaten Joachim Gauck scharf angegriffen. Grund für diesen massiven Vorwurf ist dessen Totalitarismus-Antipathie, die angeblich nicht genügend differenziere.
„Herr Gauck vertritt in der Öffentlichkeit immer wieder eine Position, die auf eine Gleichstellung von Links und Rechts hinausläuft“, sagte Kipping in einem Gespräch mit der FAZ. Daher habe ihre Partei mit der ehemaligen Chefredakteurin des Hessischen Rundfunks, Lukrezia Jochimsen, eine eigene „wunderbare Kandidatin“ aufgestellt.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M59f4a504f6a.0.html

Dehms Hitlervergleich beweist Godwins Law
Offenbar kommt keine Debatte ohne Hitler-Vergleich aus. In der Diskussion um die Wahl von Christian Wulff griff die Linkspartei zur Geschichtskeule.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article8264678/Dehms-Hitlervergleich-beweist-Godwins-Law.html

Dieter Dehm
Linke-Politiker nennt Wulff neuen Hitler
Handfeste Provokation bei der Bundespräsidenten-Wahl. Die Linke-Bundestagsabgeordnete Dieter Dehm verglich die Kandidaten Christian Wullf und Joachim Gauck mit Stalin und Hitler. Inzwischen entschuldigte sich der 60jährige.
http://www.berlinerumschau.com/index.php?set_language=de&cccpage=02072010ArtikelPolitik2

Bombenanschlag in Athen
Tödliches Päckchen
Im Ministerium für Bürgerschutz wird ein verdächtiges Paket entdeckt. Beim Öffnen kommt es zur Explosion, ein Polizist stirbt. Die Detonation ereignet sich nur wenige Meter entfernt vom Büro von Minister Chrysochoidis, der als erfolgreicher Terroristenjäger gilt.
http://www.sueddeutsche.de/politik/bombenanschlag-in-athen-toedliches-paeckchen-1.965189

Feminismus und Sprache
Das „Binnen-I“ – von Frauen gemeuchelt?
http://www.ruhrnachrichten.de/nachrichten/kultur/kulturwelt/art617,947108

Deutschlands Biennale-Pavillon
Mit der Faschismuskeule
Wo triftige Argumente fehlen, schlägt die Rhetorik blindlings zu: Der Präsident der Bundesarchitektenkammer hat die Schleifung des deutschen Pavillons in den venezianischen „Giardini“ gefordert, weil dessen nationalsozialistische Monumentalität nicht mit unserem heutigen Staatsverständnis zusammengehe.
Von Dieter Bartetzko
http://www.faz.net/s/Rub5A6DAB001EA2420BAC082C25414D2760/Doc~EC20DE318E52F493F8C3AC1E397FABC28~ATpl~Ecommon~Scontent.html

Konzeptkünstler Haacke gegen Abriß des deutschen Biennale-Pavillons in Venedig
http://www.dradio.de/dlf/sendungen/kulturheute/1211614/

Alan Posener muß mal wieder seinen Senf dazugeben. Jetzt will er NS-Architektur in die Luft sprengen ...
Was tun mit fantasielosen Nazi-Klötzen? Dynamit her!
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article8179484/Was-tun-mit-fantasielosen-Nazi-Kloetzen-Dynamit-her.html

Die Nazi-Bauten sind besser als ihr Ruf
http://www.welt.de/channels-extern/ipad/kultur_ipad/article8172633/Die-Nazi-Bauten-sind-besser-als-ihr-Ruf.html

Band „Rotfront“ erhält Weltmusik-Preis
(„... Katalysator für Strömungen vieler urbaner Immigrantensounds ...“)
http://www.weltmusikpreis.de/2010/globale.html

Anfang des Monats waren sie in der ARTE Lounge – Konzert und Interview können hier abgerufen werden:
http://www.arte.tv/de/content/tv/02__Universes/U2__Echapp_C3_A9es__culturelles/02-Magazines/18_20ARTE_20Lounge/01_20Diesen_20Monat/edition-2010.05.27/04_20ARTE_20Lounge_2010_20-_2008.06.2010_20RotFront/3225130.html


„Rassismus“ – IQ-Tests sorgen für Empörung
Aufregung um IQ-Tests für Einwanderer: Der Vorschlag sei „menschenverachtend“, sagte der SPD-Linke Björn Böhning WELT ONLINE.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article8207784/Rassismus-IQ-Tests-sorgen-fuer-Empoerung.html

Jugendliche Einwanderer verletzen Polizisten schwer
HAMBURG. Am späten Samstagabend sind in Hamburg mehrere Polizisten von einer Gruppe jugendlicher Einwanderer angegriffen und verletzt worden. Fünf Beamte mußten im Krankenhaus behandelt werden, einer von ihnen erlitt lebensgefährliche Kopfverletzungen.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5071e2b718b.0.html

„Unterschicht und Abschaum der Straße“
HAMBURG. Der brutale Übergriff auf Polizisten in Hamburg, bei dem einem Beamten schwerste Kopfverletzungen zugefügt worden waren, hat für Empörung unter Politikern und Standesvertretern gesorgt.
„Es ist unfaßbar, mit welcher Brutalität diese Straftäter, die nur noch als Unterschicht und Abschaum der Straße zu bezeichnen sind, gegen unsere Kollegen vorgegangen sind“, stellte der Landesvorsitzende der Deutschen Polizeigewerkschaft, Joachim Lenders, fest.
Die Gewerkschaft kritisierte, daß die Politiker nur „hilflos und desinteressiert hinter ihrer Polizei“ stünden. Den zuständigen Ressortverantwortlichen aus der CDU warf Lenders vor, sie ließen ihren „markigen Sprüchen“ keine Taten folgen. Mittlerweile sei die Union schon längst „angegrünt“.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M508722eabb3.0.html

Mahnwache für einen Deutschen
Von Götz Kubitschek
In Hamburg-Harburg ist am vergangenen Mittwoch der 22jährige Pascal E. von einem Türken erstochen worden. Gestern abend nun haben etwa 80 Angehörige und Freunde des Opfers eine Mahnwache abgehalten und kurzzeitig eine Bundesstraße blockiert. Auch auf Facebook gibt es eine wachsende Solidaristen-Gruppe. Ist es so, daß die  Stimmung jetzt gefährlich wird, wie die Regionalzeitung Der Harburger vermutet?
http://www.sezession.de/16276/mahnwache-fuer-einen-deutschen.html#more-16276

Mahnwache
Straßenblockade für Pascal
Der 22jährige war in der vergangenen Woche an der Bremer Straße erstochen worden.
Eißendorf. Rund 80 Freunde, Verwandte und Bekannte von Pascal E. haben sich am Donnerstagabend zu einer friedlichen Mahnwache an der Bremer Straße versammelt. In gemeinsamer stiller Trauer gedachten sie des 22-Jährigen, der, wie berichtet, am Mittwoch nach einer tödlichen Messerattacke in Eißendorf ums Leben kam. Sie legten Blumen nieder, zündeten Kerzen an und gaben sich gegenseitig Trost.
Aber auch Protestschilder, etwa mit der Aufschrift „Unsere Toleranz ist erschöpft“, wurden aufgestellt. Nach Auskunft der Polizei dauerte die Mahnwache von 21.20 Uhr bis Mitternacht. Bevor die Beamten eintrafen, blockierten die Teilnehmer der Mahnwache kurzzeitig und spontan die B75, lösten dann aber ihre Sitzblockade sofort auf.
http://www.han-online.de/Harburg-Stadt/article50938/Strassenblockade-fuer-Pascal.html

Hamburg: Proteste für Pascal E. gehen weiter
Die Proteste für den ermordeten Hamburger Pascal E. gehen weiter. Die Polizei, die wie berichtet ihre ganze Stärke auf das Verhindern von Protestkundgebungen der Trauernden legt, hat Gott sei Dank auf Facebook nichts zu sagen, so daß sich dort eine schon 500 Mitglieder umfassende Gruppe mit dem Namen „Gegen Gewalt in Harburg“ zusammentun konnte.
http://www.pi-news.net/2010/06/hamburg-proteste-fuer-pascal-e-gehen-weiter

Mord im Migrantenmilieu ...
Teenager in London auf Pausenhof erstochen
In einer Sonderschule in London ist es zu einer tödlichen Messerstecherei gekommen. Die Jugendgewalt in England wird schlimmer.
http://www.welt.de/vermischtes/weltgeschehen/article8279863/Teenager-in-London-auf-Pausenhof-erstochen.html

Urteil wegen Scheinehe
Hamburger SPD fordert Nachwuchspolitiker zum Austritt auf
Die politische Karriere des Hamburger SPD-Mannes Bülent Ciftlik ist beendet. Landesparteichef Scholz forderte ihn auf, aus Partei und Fraktion auszutreten. Am Tag zuvor hatte ein Hamburger Amtsgericht Ciftlik wegen Vermittlung einer Scheinehe verurteilt.
http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,703644,00.html

Der Verdacht liegt nahe, daß es sich bei den Tätern nicht um Europäer handelt ...
Frankreich
Autofahrer nach Auffahrunfall zu Tode geprügelt
Tödliches Ende einer Bagatelle: Wegen ein paar Kratzern am Auto ist ein junger Mann in Paris von mehreren Männern erschlagen worden.
http://www.welt.de/vermischtes/weltgeschehen/article8236892/Autofahrer-nach-Auffahrunfall-zu-Tode-gepruegelt.html

Die Schuldstolzen in Aktion ...
Projekt „18 Stiche“
Dresden gedenkt der ermordeten Marwa El-Sherbini
Vor einem Jahr wurde die Ägypterin Marwa El-Sherbini ermordet. Dresden gedachte heute der Toten. Dem Zentralrat der Muslime reicht das nicht.
http://www.welt.de/politik/deutschland/article8266466/Dresden-gedenkt-der-ermordeten-Marwa-El-Sherbini.html

Jahrestag
Dresden erinnert an Marwa El-Sherbini
http://www2.mdr.de/sachsen/7454241.html

Trauer in der Ferne: Gedenkfeier für Marwa - ohne ihren Ehemann
http://german.irib.ir/analysen/beitraege/item/112503-trauer-in-der-ferne-gedenkfeier-f%C3%BCr-marwa-ohne-ihren-ehemann

Dietzenbach
Kreistagsfraktionen erwarten Aufenthaltsduldung aus humanitären Gründen
Politik unterstützt Khateebs
Dietzenbach (fel) – Nachdem die vom Verein „Zusammenleben der Kulturen“ eingereichte Petition auf ein Bleiberecht der in Dietzenbach lebenden Familie Khateeb gescheitert ist, setzt sich die Politik für ein dauerhaftes Bleiberecht der achtköpfigen palästinensischen Familie aus humanitären Gründen ein.
http://www.op-online.de/nachrichten/dietzenbach/khateebs-politik-unterstuetzt-814333.html

Jugendrichterin Kirsten Heisig tot aufgefunden
BERLIN. Die Berliner Jugendrichterin Kirsten Heisig ist tot. Nach Informationen der Nachrichtenagentur dpa handelt es sich bei einer am Sonnabend in einem Wald im Norden Berlins gefundenen Frauenleiche um die seit Montag vermißte Juristin.
http://www.jungefreiheit.de/Single-News-Display-mit-Komm.154+M5c1a0941dd8.0.html

Berliner Richterin Kirsten Heisig tot aufgefunden
Die vermißte Jugendrichterin aus Berlin lebt nicht mehr: Die Polizei hat die Leiche von Kirsten Heisig bei der Suche im Tegeler Forst entdeckt.
Die für ihren konsequenten Umgang mit Straftätern bekannte Berliner Jugendrichterin Kirsten Heisig hat sich vermutlich das Leben genommen. Am Samstag wurde nach tagelanger Suche eine Frauenleiche in einem Waldstück in Berlin gefunden. Polizei und Staatsanwaltschaft gehen davon aus, daß kein Fremdverschulden vorliegt. Die Berliner Justizsenatorin Gisela von der Aue (SPD) sprach von einem möglichen Suizid. Die genaue Todesursache sollte frühestens am späten Abend nach der Obduktion feststehen. Heisig hatten offenbar Erfolg und Popularität zu schaffen gemacht.
http://www.welt.de/vermischtes/weltgeschehen/article8292091/Berliner-Richterin-Kirsten-Heisig-tot-aufgefunden.html

Die unendliche Belanglosigkeit moderner Architektur
Am „Tag der Architektur“ zeigt die deutsche Baukunst mit etlichen Beispielen ihre Schablonenhaftigkeit
http://www.welt.de/die-welt/kultur/article8187934/Die-unendliche-Belanglosigkeit-moderner-Architektur.html

Wider das heutige Bauen
Und wir nennen diesen Schrott auch noch schön
Gerade hat Deutschland den „Tag der Architektur“ gefeiert. Wieder wurde das Recht unserer Zeit auf eigenen, unverwechselbaren Ausdruck beschworen. Doch was ist all das in Beton gegossene Millimeterpapier unserer bauwütigen Epoche gegen die Schönheit der verschwindenden europäischen Stadt?
Von Martin Mosebach
http://www.faz.net/s/RubEBED639C476B407798B1CE808F1F6632/Doc~E77FA358233D54F8DB2ABF33ACCF7835A~ATpl~Ecommon~Scontent.html

Tagungsbericht Theologische Fakultät Paderborn
Das Ganze der Wirklichkeit im Blick
Wissenschaftliche Tagung der Josef-Pieper-Arbeitsstelle zum Werk von Josef Pieper und C.S. Lewis
http://www.i-basis.de/dp/ansicht/kunden/erzbistum-gemeinden/theol-fakultaet-pb/theol-fakultaet-pb/index.phtml?ber_id=2748&inh_id=32589

Älteste Breisgau-Siedlung
Archäologen graben Steinzeitdorf am Kaiserstuhl aus
Grüße von den Vorfahren: Im Breisgau haben Archäologen die Grundrisse eines 7500 Jahre alten Dorfs freigelegt. Es soll von den ersten Bauern in der Region stammen. Ausgegrabene Utensilien erlauben Rückschlüsse auf ihre Lebensgewohnheiten.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,703563,00.html

Massengrab-Fund
Römer sollen Babys von Prostituierten getötet haben
Archäologen haben in England ein Massengrab mit den Überresten von 97 Neugeborenen gefunden. Die Säuglingsleichen lagen in der Nähe eines antiken Bordells. Jetzt hegen die Forscher einen grausigen Verdacht: Die Babys waren die Kinder von Prostituierten – und wurden systematisch ermordet.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,703215,00.html

Der Tibeter hat die besseren Gene
Forscher entschlüsseln, warum die Bevölkerung nicht höhenkrank wird
von Ulli Kulke
Was hat der Tibeter, das dem Flachland-Chinesen fehlt? Die Frage stellt sich, seit die Regierung in Peking bemüht ist, durch Umsiedlungen von Menschen aus dem ganzen Land in die Himalaja-Provinz die dortigen Unabhängigkeitsbestrebungen zu unterlaufen und den Tibetern auch genetisch ihre Eigenständigkeit zu nehmen. Han-Chinesen bekommen dort oben, in ihrem neuen Wohnort auf rund 4000 Metern Höhe, regelmäßig die Höhenkrankheit. Worüber die Tibeter, dagegen offenbar gefeit, nur lachen können. Genforscher in Peking kamen nun dem Grund für diesen Unterschied auf die Spur.
http://www.welt.de/die-welt/politik/article8285809/Der-Tibeter-hat-die-besseren-Gene.html

Blitz-Evolution
Tibeter stellten ihr Erbgut in Rekordzeit auf Höhenluft ein
Evolution im Schnelldurchgang: Die tibetische Bevölkerung paßte ihr Erbgut in weniger als 3000 Jahren an das Leben in extremer Höhe an. Die Himalaja-Bewohner haben eine einzigartige Strategie entwickelt – sie reagierten auf paradoxe Weise auf den Sauerstoffmangel.
http://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/0,1518,704241,00.html

Eine sehr gute Übersicht ...
Rassentypen Europas – Versuch einer Unterteilung
http://forum.thiazi.net/showthread.php?t=105047

Die drei menschlichen (Groß-)Rassen der Europiden, Mongoliden und Negriden sowie als Vertreter der Altschichtrassen die besonders urtümlichen Australiden im Vergleich:

Europider Schädel
http://www.skullsunlimited.com/record_variant.php?id=3578

Mongolider Schädel
http://www.skullsunlimited.com/record_variant.php?id=3567

Negrider Schädel
http://www.skullsunlimited.com/record_variant.php?id=3563

Australider Schädel
http://www.skullsunlimited.com/record_variant.php?id=3577


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Hinweis auf eine aktuelle Buchveröffentlichung:

Tomislav Sunic: La Croatie: un pays par défaut?
(éd. Avatar, 2010), p. 256, 26 Euro
http://www.avatareditions.com/224/la-croatie%C2%A0-un-pays-par-defaut%C2%A0
http://www.avatareditions.com/240/sunic-tomislav-tom

Sunics neues Buch auf französisch:

In seinem neuesten Buch, La Croatie: un pays par défaut? (Kroatien: ein zufälliger Staat?), das Tomislav Sunic in französischer Sprache verfaßt hat, wird das Phänomen der „Plötzlichkeit“ und des „Zufalles“ bezüglich des Begriffes des Politischen bei den Völkern mit schwachen Staatsgefügen abgehandelt. Auf der Grundlage von vielen Zitaten deutscher, französischer, kroatischer und amerikanischer Autoren befaßt sich Sunic besonders mit dem Beispiel Kroatiens, ehe er seine Analysen mit der Beschreibung der „falschen Identitäten“ erweitert, die das Fundament des europäischen Nationalismus bilden.
Dieses wichtige Buch behandelt auch „Ersatzidentitäten“ oder Identitäten „aus zweiter Hand“. Die kommunistischen Opferlehren, begleitet von modernen Hagiographien, die von der westlichen Linken und hyperrealen Medien vermittelt wurden, waren auch Faktoren die zu der Zuspitzung des Konfliktes im ehemaligen Jugoslawien geführt hatten – und die wahrscheinlich morgen in der Europäischen Union auftauchen können.
Dem Leser werden außerdem im diesem Buche die semantischen Verschiebungen vorgeführt bezüglich der modischen Begriffe wie „Faschismus“, „Anti-Faschismus“, „Rassismus“ etc. sowie die dunkle Seite der Postmoderne, die von den Osteuropäern nachgeahmt wird.

Vorwort von Jure (Georges) Vujic

Dr. Tomislav (Tom) Sunic (
http://www.tomsunic.info) ist kroatisch-amerikanischer Schriftsteller, Übersetzer, ehemaliger Professor der Politikwissenschaft in den USA, und ehemaliger kroatischer Diplomat. Er ist Autor von Titoism and Dissidence (1991), Against Democracy and Equality: The European New Right (1991, 2002) und Homo americanus: Child of the Postmodern Age (2007). Er lebt zur Zeit in Kroatien.

Chypre: Christofias accuse la Turquie

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Andrea PERRONE:

 

Chypre: Christofias accuse la Turquie

 

Le président grec-chypriote Dimitris Christofias accuse la Turquie d’utiliser deux poids deux mesures en politique extérieure.

 

Lors d’un sommet des chefs d’Etat et de gouvernement tenu à Bruxelles, Christofias a rappelé les réactions d’Ankara à la suite du raid israélien contre la flottille pacifiste, en précisant que la politique extérieure de la Turquie n’est pas honnête parce que dans le cas  de Chypre, elle devrait adopter la même attitude que face à l’occupation des territoires palestiniens par Israël. L’île du bassin oriental de la Méditerranée demeure divisée en deux parties et les rapports bilatéraux entre Ankara et Nicosie restent tendus et difficiles. Cette crise dure maintenant depuis quarante ans, depuis qu’en 1974, l’armée turque a envahi Chypre, suite à un coup d’Etat pro-grec, et a installé une armée de 35.000 militaires dans le nord de l’île. En 1983, la Turquie a patronné la naissance d’une « République Turque de Chypre du Nord » (RTCN), entièrement tributaire d’Ankara sur les plans militaire et économique.

 

La séparation de l’île et l’obstination de la Turquie, qui refuse l’ouverture des ports et des aéroports aux Chypriotes grecs, constituent des obstacles majeurs à l’adhésion de la Turquie à l’UE.

 

A la suite des élections de février 2008 et de la formation d’un nouveau gouvernement de la République de Chypre, les premières ouvertures ont eu lieu entre les deux communautés qui ont toutes deux consenti à s’envoyer mutuellement des négociateurs le 3 septembre 2008, afin de régler une éventuelle réunification de l’île divisée, l’ensemble de ces approches étant placé sous les auspices des Nations Unies. Les pourparlers ont enregistré quelques progrès substantiels et leur objectif est d’arriver à la création d’une « Confédération bi-zonale et bi-communautaire ». Quelques mois auparavant, le 21 mars 2008, Christofias, le Président nouvellement élu des Chypriotes grecs avait rencontré celui qui était à l’époque son homologue turc-chypriote, Mehmet Ali Talat ; c’était lors des premières rencontres visant la réunification de l’île, quand les protagonistes grecs et turcs de Chypre avaient décidé d’ouvrir à nouveau à la circulation automobile le passage de la « Ledra Street » à Nicosie, jusqu’alors réservé aux seuls piétons. Mais l’élection en avril 2010 du nationaliste turc Dervis Eroglu à la présidence des Chypriotes turcs risque fort bien de mettre un terme aux négociations.

 

De son côté, Christofias a précisé que les premières rencontres avec Eroglu ont eu pour thème central les controverses sur les questions patrimoniales plutôt que sur la question plus importante de la réunification.

 

Le Président des Chypriotes grecs a accepté qu’en échange de la restitution des propriétés abandonnées par les Chypriotes grecs lors de l’invasion turque de 1974 et situées dans le nord occupé de l’île, il serait prêt à offrir la nationalité chypriote pleine et entière à 50.000 « colons » turcs, en général des couples mixtes turcs-chypriote/turcs-anatoliens avec enfants. Toutefois, cette proposition a déjà été rejetée par la partie turque. « C’est bien étrange », a déclaré Christofias, « d’entendre de la bouche même du président, du premier ministre et du ministre des affaires étrangères turcs dire qu’ils veulent trouver une solution au conflit chypriote pour la fin de l’année. Nous savons qu’ils ne veulent pas car s’ils le voulaient, ils auraient abandonner leurs positions intransigeantes et se seraient efforcer de trouver une solution ».

 

Andrea PERRONE.

( a.perrone@rinascita.eu ).

(article paru dans « Rinascita », Rome, 23 juin 2010 ; http://www.rinascita.eu/ ).

jeudi, 08 juillet 2010

Pour Vaclav Klaus, le projet européen a échoué...

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Pour Vaclav Klaus, le projet européen a échoué...

Le Président tchèque Vaclav Klaus a demandé aux pays d’Europe centrale et orientale de se méfier de toute adhésion à la zone euro. “L’Union monétaire européenne a échoué”, a écrit l’homme politique tchèque, que l’on classera comme un “libéral de droite”; il vient de s’exprimer dans les colonnes de la revue économique allemande “Wirtschaftswoche”. La zone euro, a-t-il ajouté, n’est pas un “espace monétaire optimal” car sa constitution procède en première instance d’une décision politique. Raison pour laquelle le projet de l’euro sera poursuivi en dépit de ses déboires économiques. “On a tant investi de capital politique dans la monnaie commune, destinée à devenir l’élément cimentant d’une Union Européenne orientée vers les idées de supranationalité, que l’on n’y renoncera pas, du moins, me semble-t-il, dans un avenir prévisible”, prognostiquait Klaus. Le prix à payer pour cet entêtement, selon l’homme politique tchèque, est le suivant: “Moins de croissance économique et davantage de transferts financiers pour les pays qui font face à de plus grands problèmes économiques et financiers”. De ce fait, Klaus estime que “nous, les Thcèques, n’avons pas commis l’erreur d’avoir adhéré à la zone euro”.

(source: “Junge Freiheit”, Berlin, n°26/2010).

COMMENTAIRES :

-          Il est vrai que l’euro connaît des problèmes, mais ces problèmes ne sont pas dus aux mauvaises analyses posées par ses créateurs européens dès le départ. Ces problèmes récents découlent de spéculations contre certains pays plus faibles de la zone euro et de l’aire méditerranéenne, des spéculations qui émanent de milieux financiers d’Outre-Atlantique.

 -          L’origine américaine de cette spéculation fragilisante doit appeler à une vigilance paneuropéenne contre les milieux financiers. La réponse doit donc être politique et judiciaire, avec, pour objectif, 1) de sanctionner avec la plus extrême sévérité le crime de spéculation et d’envisager une répression féroce dans les milieux bancaires, lie des sociétés dites “modernes” et 2) de maintenir au moins le statu quo, c’est-à-dire de maintenir le pouvoir d’achat des masses et la protection sociale qu’on leur a promise.

 -          La faiblesse de l’euro, et partant de l’Union Européenne, vient d’une incapacité à désigner l’ennemi américain, à médiatiser et vulgariser ce fait d’inimitié dans les masses, et de croire à la bonne foi des dirigeants de Washington. L’Europe  ne sera pas politique tant qu’elle ne désignera pas l’ennemi  (car il est impossible de faire de la politique de manière profonde et sérieuse si on ne le désigne pas), tant que ses médias ne le fustigeront pas de manière inlassable et tant que son personnel politique marinera dans la naïveté, qui consiste à croire que les Américains sont l’incarnation du “Bien”, les adjudants du Tout-Puissant sur la Terre et les “libérateurs” de l’Europe. 

 -          Cet ensemble de spéculations contre la zone euro, notamment en Grèce, survient au moment où les Etats du groupe BRIC (Brésil, Russie, Iran, Chine) ou du Concert de Shanghaï ont émis l’hypothèse de facturer leurs hydrocarbures ou matières premières en euro, afin de mettre un terme à l’hégémonie du dollar et à faire du monde une multipolarité de pôles économiques et politiques pour ne plus subir les diktats énoncés au sein de l’actuelle unipolarité. Il faut y penser. Et il faut le dire, le clamer sur toutes les ondes.

 -          Les lamentations de Vaclav Klaus participent de la désinformation, visent à ébranler la confiance des masses dans l’euro et dans la construction européenne. On sait aussi que le gouvernement tchèque est philo-atlantiste dans sa politique internationale, alors que chaque pays européen devrait envisager de se dégager de la cangue atlantiste pour construire à terme un système de défense euro-centré voire eurasien (dont les frontières se situeraient en Méditerranée, sur le littoral Arctique de l’Islande au Détroit de Bering et sur les côtes de l’Océan Indien). Dans les faits, Vaclav Klaus tente de créer une sorte de zone-tampon, un ventre mou ou une masse de manoeuvre gélatineuse et empêtrante, entre les vieux pays fondateurs du “Marché Commun” en 1957 et l’espace russo-eurasien, afin de freiner toute fusion eurasienne, démarche qui condamnera toute l’Europe au marasme sur le long terme. Cette zone-tampon est déclarée “Nouvelle Europe” et parée de toutes les vertus (libérales): dans les faits, elle est tributaire de l’hyperpuissance, fragmentée en petites puissances incapables d’assumer une véritable indépendance et les voix que ces petites puissances pourraient émettre dans les instances décisionnaires ou dans les hémicycles parlementaires européens empêchent l’éclosion d’un consensus paneuropéen et d’une véritable volonté d’union.

Chi ha provocato la II guerra mondiale?

richardcliff.jpgChi ha provocato la II guerra mondiale?

Luca Leonello Rimbotti

Ex: http://www.mirorenzaglia.org/

Questa domanda se la poneva lo storico Romolo Gobbi nel lontano 1995. E in un suo libro importante, ma debitamente ignorato dai mass-media di allora e di oggi, rispondeva: «Dunque la guerra scoppiò per una serie di errori e non per la malvagità di Hitler». Poi chiamò in causa il celebre storico inglese A. J. P. Taylor, che fin dal 1961 aveva rotto il ghiaccio, facendo con parecchio anticipo un revisionismo radicale e spostando le responsabilità dalla Germania alla Francia e all’Inghilterra, prima, e a USA e URSS, poi. Cosa “revisionava” in concreto Taylor? Semplicemente faceva vedere quanto strumentali e di comodo fossero le attribuzioni a Hitler di tutte le responsabilità per lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Ricordava che le vere istigatrici furono in realtà le “democrazie” occidentali; sottolineava che, a guerra vinta in Polonia e sul fronte occidentale, Hitler offrì svariate volte una pace equilibrata agli Alleati, addirittura garantendo la conservazione dei loro imperi coloniali, ma che questi rifiutarono, dando quindi corso alla carneficina degli anni seguenti. Taylor scrisse che «certo, la fuga nell’irrazionalità è più facile. La colpa della guerra si può attribuire al nichilismo di Hitler anziché alle deficienze e agli errori degli statisti europei…».

 

Le prove che Hitler nel 1939 non voleva la guerra sono sempre state conosciute. Solo che, a parte pochi studiosi “eroici”, nessuno le hai mai considerate. Come numerose sono le prove che a volerla furono i franco-inglesi. La divulgazione di massa, sotto la spinta di interessi di bottega, ha imposto un altro dogma, utile a garantire la coscienza pulita a chi invece aveva lungamente tramato: tutta la colpa al Terzo Reich e al pazzo fanatico di Berlino, questo l’ordine di scuderia: e al diavolo i documenti. Tanto a scrivere la storia sono sempre i vincitori e a difendere Hitler non ci penserà certo nessuno.

 

Senza volerlo, ci pensò invece Taylor, storico perfettamente democratico, che non aveva una sua tesi preconcetta da dimostrare per forza, non doveva difendere nessuno, non andava in cerca di scuse per accusare a vanvera questo o quello. Scriveva solo pagine di storia. E raggiunse le sue conclusioni soltanto attingendo dalla documentazione esistente. Senza forzature. E affermò che «Hitler era lungi dal preparare una grande guerra» a Occidente. E che…incredibile! non la voleva neppure contro la Polonia: «La distruzione della Polonia non faceva parte del suo progetto originario; al contrario, egli aveva desiderato risolvere la questione di Danzica in modo tale che i rapporti tra Germania e Polonia restassero buoni».

 

Solo dopo la garanzia della Gran Bretagna alla Polonia, dell’estate 1939, concepita appositamente come provocazione, Hitler si irrigidì e si decise a distruggere la Polonia. Che era uno Stato semi-fascista e accesamente antisemita, ricordiamolo, che in quanto a persecuzione degli Ebrei non aveva proprio nulla da imparare dalla Germania nazista, ma di cui gli Alleati si presero improvvisamente a cuore la causa, dopo aver lasciato a Hitler la Cecoslovacchia, che al contrario era uno dei pochi Stati europei dell’epoca a regime parlamentare e liberal-democratico. L’ipocrisia degli Alleati, di presentarsi come i difensori della “democrazia”, a questo punto appare in tutto il suo volto grottesco.

 

Una delle prove che la Germania non voleva una guerra allargata, ma al massimo gestire un conflitto locale, sta nel fatto che, dopo la campagna a Est del ’39, l’esercito tedesco rimase privo di riserve, e pressoché completamente scoperto a Ovest. Avesse voluto un regolamento dei conti con gli Alleati, Hitler in quel momento avrebbe mobilitato ben altrimenti la sua macchina da guerra. Queste le considerazioni di Taylor. Prontamente occultate dai padroni del pensiero.

 

Gobbi, nel suo libro, rinforzava il tutto asserendo che Hitler verso il suo nemico fu artefice di un gesto di cavalleria più unico che raro nella storia mondiale. Aveva a portata di mano la più facile e schiacciante delle vittorie, ma si astenne dal coglierla per esclusivi motivi politici, cioè per non umiliare il Regno Unito e ben predisporlo alla pace. Quando nel giugno ’40 arrestò i Panzer davanti a Dunkerque, dove centinaia di migliaia di inglesi in fuga si ammassavano per reimbarcarsi, si può dire col senno di poi che Hitler commise il suo più grande errore militare, ma lo commise per troppa generosità e per motivi di conciliazione politica: «Dunque l’aver lasciato fuggire i soldati inglesi da Dunkerque – scriveva Gobbi – non era un errore, ma una mossa per facilitare le trattative di pace…Ma da parte dell’Inghilterra giunse dopo un’ora un “no!” reciso…». È del resto noto che Churchill proibì alla radio inglese la diffusione dei vari messaggi di pace che Hitler lanciò uno dopo l’altro nel ‘40, per evitare che si formasse un’opinione pubblica favorevole alla pace…

 

Ma Gobbi, nel suo esplosivo libretto, affermò anche molte altre cose. Ad esempio, che l’Europa del Nuovo Ordine Europeo non era affatto un inferno, ma un progetto politico seguito dalle masse: «Nella mitologia antifascista tutti questi paesi risultavano oppressi dal “tallone d’acciaio” del nazi-fascismo, ma la realtà sconvolgente è che in tutta l’Europa vi era un consenso diffuso al fascismo, compresa la libera Svizzera». Frasi pesanti. Ma Gobbi andava oltre. Ricordò che la guerra nel Pacifico e nel Sud-Est asiatico venne subdolamente provocata da Roosevelt e dal suo entourage in lunghi mesi di studiata provocazione del Giappone: l’embargo al Sol Levante cui furono costrette le Indie Olandesi e i possedimenti inglesi mise in ginocchio il Giappone, lo esasperò, spingendolo a gesti disperati per sopravvivere. Proprio quello che si voleva a Londra, ma soprattutto a Washington, dove si cercava da un pezzo qualcosa che rimuovesse lo sgradito isolazionismo americano: «Anche in questo caso dunque la scelta della guerra venne fatta non da chi è tradizionalmente considerato l’aggressore e cioè il Giappone, ma da chi lo costrinse deliberatamente a farla».

 

L’attacco di Pearl Harbor, in cui morirono migliaia di marinai americani, fu la bella notizia che Roosevelt e i suoi amici armatori e industriali aspettavano. Di passata, Gobbi ricordava che la storiografia del dopoguerra – ad esempio R. E. Sherwood, sin dal ’49 – non aveva mancato di notare che Roosevelt era circondato «dalla “cricca nefasta” dei suoi stretti collaboratori composta dal giudice Felix Frankfurter, Samuel I. Rosenman e David K. Niles…tutti e tre ebrei…». Comunque sia, l’America ebbe la sua guerra e…«finalmente il ristagno dell’economia che il New Deal non era riuscito a eliminare venne completamente superato…».

 

Gobbi – che ricordiamo è storico di accesa sinistra – nel suo libro lamentava che il suo testo fosse stato rifiutato con imbarazzo da numerose case editrici, e che alla fine dovette accontentarsi di farlo pubblicare dalla piccola ma prestigiosa editrice Muzzio di Padova. C’è da capirlo. Questioni come queste, “revisionismi” come questo, sono intollerabili per chi gestisce l’opinione pubblica e dirige il conformismo a senso unico. E non tutti hanno il coraggio di perseguire la verità, specie se sgradita.

 

Oggi apriamo un altro piccolo libro, Le origini della seconda guerra mondiale di Richard Overy (il Mulino), e vi troviamo pari pari le medesime affermazioni di Gobbi. A mezza bocca, con qualche reticenza opportunistica, ma insomma la verità esce fuori: «La causa della seconda guerra mondiale non fu semplicemente Hitler: la guerra fu provocata dall’interazione tra fattori specifici»…che in soldoni riguardano il declino economico del capitalismo delle “democrazie” occidentali e il loro urgente bisogno di uscirne attraverso una guerra di proporzioni mondiali.

 

Overy, di cui in questo periodo è uscito anche Sull’orlo del precipizio. 1939. I dieci giorni che trascinarono il mondo in guerra (Feltrinelli), non è neppure lui un bieco fascista alla ricerca di notorietà. È uno storico “democratico” più onesto di tanti altri e meno disposto di loro ad occultare le evidenze documentali. Emilio Gentile, su Il Sole-24 Ore del 25 ottobre scorso, recensendo i due libri di Overy, ha ammesso a sua volta, a proposito del Führer, che «non è tuttavia provato che egli volesse deliberatamente scatenare, proprio in quel momento, una guerra europea o addirittura mondiale». E allora? Non era il pazzo che voleva dominare il mondo? Il gioco delle “grandi democrazie” viene scoperto in tutta la sua doppiezza e improntitudine da Overy, quando ricorda che Gran Bretagna e America, imperi mondiali, accusavano paradossalmente la Germania, tutto sommato piccola nazione centro-europea del tutto priva di colonie e possedimenti, di volersi appunto impadronire niente meno che del mondo. Secondo una retorica falsificatoria che ancora oggi, come tutti sanno, ha un larghissimo corso. Le classi dirigenti anglosassoni temevano una crescita della Germania e del Giappone e, nel suo piccolo, anche dell’Italia. Non perdonarono a quei Paesi di fare una politica libera. Dovevano fare una politica inglese. La classe dirigente “democratica”, di fronte alla crisi economica, preferì fare la guerra piuttosto che ridistribuire il potere mondiale con i nuovi arrivati: «Questa classe dirigente si arrogò il ruolo di giudicare gli interessi nazionali; anziché affrontare la realtà del declino, che era stato la prima causa della crisi, essa scelse una strategia di deterrenza e contenimento, e infine la guerra stessa». Viene allora da chiedersi: in tutto questo la Germania, l’Italia e il Giappone, nazioni emergenti che semmai avevano problemi di crescita e certo non di declino economico, che c’entravano?

 

Oltre a questo, per concludere un argomento tanto vasto nel breve spazio di un articolo, non possiamo non ricordare il recente libro del russo Constantine Pleshakov Il silenzio di Stalin (Corbaccio), in cui si dimostra che l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica del 22 luglio ’41 non fu per nulla il frutto della bramosia hitleriana di conquista, ma una necessità vitale: Stalin aveva intenzione di attaccare di lì a poco, approfittando che la Germania era ancora impegnata contro l’Inghilterra. Stava per questo ammassando truppe alla frontiera e venne anticipato solo di un soffio: di qui il famoso shock emotivo che paralizzò di paura il dittatore georgiano per diversi mesi. Neanche la tanto sbandierata “aggressione” tedesca alla Russia comunista, dato che fu provocata dal comportamento sovietico, sarebbe quindi da ascrivere a Hitler. Il quale pertanto, stando ai risultati di tutti questi storici, non fu colpevole di aver scatenato una guerra mondiale (Overy ricorda tra l’altro che la dichiarazione di guerra la fecero la Francia e l’Inghilterra alla Germania, e non il contrario) e, anche nel caso della guerra a Oriente, come già facevano i Romani al tempo della loro repubblica, il dittatore tedesco si limitò a veder giusto, anticipando il nemico di un minuto, non facendo insomma nulla di diverso di una delle tante, millenarie “guerre preventive” di cui sono piene le pagine di storia.

Luca Leonello RIMBOTTI. 

 

mercredi, 07 juillet 2010

Le nationalisme des "Loups Gris"

Pietro FIOCCHI:

Le nationalisme des “Loups Gris”

Rapport d’un entretien avec Ihsan Barutçu, chef du MHP d’Istanbul

Graue-woelfe.jpgQuand on les voit de près, les “Loups” ne font pas peur. Le MHP (Milliyetçi Hareket Partisi), soit le “Parti du Mouvement National”, lors des législatives de 2007, avait obtenu 14% des voix et 71 sièges au parlement unicaméral turc, qui en compremd un total de 550. Nous avons donc affaire au troisième parti du pays, après l’AKP philo-islamiste, actuellement aux affaires, et le CHP social-démocrate, une organisation politique née plus ou moins en même temps que la république, au début des années 20.

Créé à la fin des années 60 par Alparslan Türkes, le MHP a suscité un intérêt croissant auprès des électeurs turcs depuis ces dernières décennies, à l’exception d’une brève stagnation en 2002. Le sommet fut atteint en 1999 avec son actuel leader Devlet Bahçeli, avec 18% des voix et 129 sièges. Ce parti ne relève donc pas du folklore mais constitue une réalité politique et sociale qui n’a rien de marginal comme on pourrait le croire. Malheureusement, son site officiel (www.mhp.org.tr) ne présente aucun texte en une autre langue que le turc. Ceux qui veulent glaner plus d’information sur ce mouvement doivent se rabattre sur Wikipedia ou sur des blogs qui, généralement, donnent de ce parti une description apocalyptique.

Nous, journalistes italiens du quotidien “Rinascita” (Rome), sommes toujours d’emblée sceptiques face aux étiquettes de tous genres et allergiques aux lieux communs; par conséquent, nous sommes allés trouver les hommes du MHP, qui furent, de leur côté, bien contents de susciter l’intérêt d’une fraction de la presse italienne. Nous avons été reçus avec tous les honneurs au bureau d’Istanbul pour avoir un long entretien avec le leader local, Ihsan Barutçu.

Nous n’avons attendu que quelques minutes dans l’antichambre: laps de temps pendant lequel, un fonctionnaire du parti a tenu à faire une précision. Cet homme était évidemment conscient du manque d’informations dont nous disposions sur son parti: il a tenu dès lors à souligner que les Européens avaient l’habitude de faire l’équation entre le nationalisme et le racisme. Il nous a alors donné deux exemples de leaders, que nous apprécions aussi: Hugo Chavez et Evo Morales, chez qui l’idée nationaliste n’a rien à voir avec le racisme mais s’exprime sous la forme d’un socialisme national qui, ajoutons-nous, a eu des effets bénéfiques sur leurs pays, le Venezuela et la Bolivie. Après cette précision, il nous a assuré que son parti n’avait pas de base ethnique mais était ouvert à tous les citoyens de Turquie, Kurdes compris.

Dès que nous nous sommes trouvés face à face avec Ihsan Barutçu, en présence de ses collaborateurs Aydin Çetiner et Mert Toker, qui jouait le rôle d’interprète, notre première question fut spontanée: “Qu’est-ce que le MHP?”. La réponse fut concise: “Notre parti représente la tradition et l’avenir du pays”.

Justement, à props d’avenir, nous étions forcément intéressés de savoir comment ils voyaient le futur de la Turquie dans la perspective d’une adhésion à l’UE. Les membres du MHP sont convaincus que Bruxelles applique, à l’endroit d’Ankara, une politique de deux poids deux mesures, qui est somme toute une attitude dépourvue de clarté. Quant aux militants du MHP, ils demeurent intéressés à entrer dans l’Europe: l’adhésion est un pas qu’ils sont prêts à franchir mais uniquement s’ils peuvent conserver intactes leurs propres traditions, leur culture, leur unité et leur indépendance... Ce qui signifie, ajoutons-nous, adhérer à l’UE sans que Bruxelles ne leur impose trop de conditions? Exactement, nous répondent-ils. Même si l’adhésion est un objectif convoité par les Turcs, les “Loups gris” admettent qu’ils restent perplexes devant l’UE et émettent des doutes sur le mode d’économie qu’elle pratique: ils nous donnent les exemples emblématiques de la Grèce et du Portugal. L’assemblée européenne a toutes les allures d’un club de nations chrétiennes, alors que les Turcs sont musulmans et tiennent à le souligner, ce qui implique bien entendu qu’ils ont des traditions et des valeurs propres.

Dans ce cas, cherchons-nous à comprendre, pourquoi cette UE apparait-elle si importante aux yeux des Turcs? Ne vaudrait-il pas mieux qu’ils concentrent leurs efforts pour adhérer à une éventuelle union des pays turcophones? De fait, beaucoup, entre l’Anatolie et l’Asie centrale, ont entendu parler de cette hypothèse. La Turquie, nous disent nos interlocuteurs du MHP, est située entre l’Orient et l’Occident: elle doit donc regarder dans les deux directions.

Nous confrontons alors nos interlocuteurs du MHP au parcours d’obstacles qui les sépare du but, à commencer par deux cas difficiles: 1) la reconnaissance de ce que nous appelons en Europe le génocide arménien et 2) la question de Chypre et de la République turque du nord de l’île, que les Européens considèrent comme une zone occupée militairement et non pas comme une entité étatique normale. A la première question, nos interlocuteurs nous répondent comme le font généralement tous les Turcs, sans distinction d’obédience politique: “nous ne sommes pas responsables des événements survenus au cours de la première guerre mondiale et, dans tous les cas de figure, il n’y a pas eu de génocide”.

Que nous proposent-ils dès lors pour nous faire accepter leurs arguments? Ils nous expliquent qu’en Turquie vivent de nombreux Arméniens, dont beaucoup d’étudiants, et certains d’entre eux sont même candidats aux élections sur les listes du MHP. Ces Arméniens-là rejettent la théorie du génocide. Quoi qu’il en soit, il faut, disent-ils, qu’une commission d’historiens fasse les recherches adéquates et trouvent une solution. Ce n’est pas une tâche qui doit être dévolue aux membres du parlement. Pour le MHP, la question arménienne relève de mobiles politiques et ne se base pas sur des faits historiques.

 Sur Chypre également, la position du parti est celle que partage en général la plupart des Turcs: dans l’île vivent deux sociétés différentes, l’une est turque et l’autre est grecque; les uns comme les autres ont des droits égaux. L’UE ne peut affirmer que Chypre appartient aux seuls Grecs. Le MHP attend des Européens une politiques plus objective. Ils considèrent que l’intervention militaire turque de 1974 relève d’une mission légitime de pacification.

 Et le nucléaire iranien? Qu’en dit le MHP? La réponse est simple: si Téhéran a des visées belliqueuses, le parti s’oppose au nucléaire iranien car il est par définition hostile aux armes atomiques. Il suffit de se rappeler les tragédies d’Hiroshima et de Nagasaki. Si, en revanche, les Iraniens souhaitent utiliser l’atome à des fins civiles, le MHP ne formule aucune critique. Tous les pays ont le droit de développer l’énergie nucléaire comme ils l’entendent.

 Pour terminer l’entretien, nous demandons quelques explications sur ce qu’entendent les militants du MHP par “pantouranisme”. Nos interlocuteurs demeurent laconiques. C’est une longue histoire qui a ses origines dans la mythologie antique. Le thème du pantouranisme fera l’objet d’un futur débat à bâtons rompus.

 Pietro FIOCCHI.

( p.fiocchi@rinascita.eu ).

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 15 juin 2010).

(Site de “Rinascita”: http://www.rinascita.eu ).

Sobre el Nihilismo y la Rebeldia en Ernst Jünger

Sobre el Nihilismo y la Rebeldía en Ernst Jünger

 
Por Ricardo Andrade Ancic
 (Tomado de "El Valor de las Ruinas")
 
Ex: http://elfrentenegro.blogspot.com/

I

ernst_junger_en_1948.jpgErnst Jünger (1895-1998), autor de diarios claves sobre lo que se llamó la estética del horror, así como de un importante ensayo -El Trabajador- acerca de la cultura de la técnica moderna y sus repercusiones, está considerado, incluso por sus críticos más acerbos, como un gran estilista del idioma alemán, al que algunos incluso ponen a la altura de los grandes clásicos de la literatura germánica. Fue el último sobreviviente de una generación de intelectuales heredada de la obra de Oswald Spengler, Martin Heidegger, Carl Schmitt y Gottfried Benn. Apasionado polemista, nunca estuvo ajeno de la controversia política e ideológica de su patria; iconoclasta paradójico, enemigo del eufemismo, "anarquista reaccionario" en sus propias palabras, abominador de las dictaduras (fue expulsado del ejército alemán en 1944 después del fracaso del movimiento antihitlerista) y las democracias (dictaduras de la mayoría, como las llamó Karl Kraus, líder espiritual del círculo de Viena). En 1981, Jünger recibió el premio Goethe en Frankfurt, máximo galardón literario de la lengua germana. Sus obras, varias de ellas de carácter biográfico, giran sobre el eje de protagonistas en cuyas almas el autor intenta plasmar una cierta soledad y desencantamiento frente al mundo contemporáneo; al tema central, intercala disquisiciones acerca del origen y destino del hombre, filosofía de la historia, naturaleza del Estado y la sociedad. Por sobre esto, sus obras constituyen un llamado de denuncia y advertencia ante el avance incontenible y abrasador del nihilismo como movimiento mundial, a la vez que se convierten en guías para las almas rebeldes ante este proceso avasallador.

II

Pero, ¿qué es el nihilismo? Jünger, en un intercambio epistolar con Martin Heidegger, expuso sus conceptos sobre el nihilismo en el ensayo Sobre la línea (1949). Basándose en La voluntad de poder de F. Nietzsche, lo define, en primer término, como una fase de un proceso espiritual que lo abarca y al que nada ni nadie pueden sustraerse. En sí mismo, es un proceso determinado por "la devaluación de los valores supremos", en que el contacto con lo Absoluto es imposible: "Dios ha muerto". Nietzsche se caracteriza como el primer nihilista de Europa, pero que ya ha vivido en sí el nihilismo mismo hasta el fin. De esto Jünger recoge un Optimismo dentro del Pesimismo característico de este proceso, en el sentido de que Nietzsche anuncia un contramovimiento futuro que reemplazará a este nihilismo, aun cuando lo presuponga como necesario. También recoge síntomas del nihilismo en el Raskolnikov de Dostoievski, que "actúa en el aislamiento de la persona singular", dándole el nombre de ayuntamiento, proceso que puede resultar horrible en su epílogo, o ser la salvación del individuo luego de su purificación "en los infiernos", regresando a su comunidad con el reconocimiento de la culpa. Entre las dos concepciones, Jünger rescata un parentesco, el hecho de que progresan en tres fases análogas: de la duda al pesimismo, de ahí a acciones en el espacio sin dioses ni valores y después a nuevos cometidos. Esto permite concluir que tanto Nietzsche como Dostoievski ven una y la misma realidad, sí bien desde puntos muy alejados.

Jünger se encarga de limpiar y desmitificar el concepto de nihilismo, debido a todas las definiciones confusas y contradictorias que intelectuales posteriores a Nietzsche desarrollaron en sus trabajos, problema para él lógico debido a la "imposibilidad del espíritu de representar la Nada". Como problema principal, distingue el nihilismo de los ámbitos de lo caótico, lo enfermo y lo malo, fenómenos que aparecen con él y le han dado a la palabra un sentido polémico. El nihilismo depende del orden para seguir activo a gran escala, por lo que el desorden, el caos serían, como máximo, su peor consecuencia. A la vez, un nihilista activo goza de buena salud para responder a la altura del esfuerzo y voluntad que se exige a sí mismo y los demás. Para Nietzsche, el nihilismo es un estado normal y sólo patológico, por lo que comprende lo sano y lo enfermo a su particular modo. Y en cuanto a lo malo, el nihilista no es un criminal en el sentido tradicional, pues para ello tendría que existir todavía un orden válido.

El nihilismo, señala Jünger, se caracteriza por ser un estado de desvanecimiento, en que prima la reducción y el ser reducido, acciones propias del movimiento hacia el punto cero. Si se observa el lado más negativo de la reducción, aparece como característica tal vez más importante la remisión del número a la cifra o también del símbolo a las relaciones descarnadas; la confusión del valor por el precio y la vulgarización del tabú. También es característico del pensamiento nihilista la inclinación a referir el mundo con sus tendencias plurales y complicadas a un denominador; la volatización de las formas de veneración y el asombro como fuente de ciencia y un "vértigo ante el abismo cósmico" con el cual expresa ese miedo especial a la Nada. También es inherente al nihilismo la creciente inclinación a la especialización, que llega a niveles tan altos que "la persona singular sólo difunde una idea ramificada, sólo mueve un dedo en la cadena de montaje", y el aumento de circulación de un "número inabarcable de religiones sustitutorias", tanto en las ciencias, en las concepciones religiosas y hasta en los partidos políticos, producto de los ataques en las regiones ya vaciadas.

Según lo expresado en Sobre la línea, es la disputa con Leviatán -ente que representa las fuerzas y procesos de la época, en cuanto se impone como tirano exterior e interior-, es la más amplia y general en este mundo. ¿Cuáles son los dos miedos del hombre cuando el nihilismo culmina? "El espanto al vacío interior, obligando a manifestarse hacia fuera a cualquier precio, por medio del despliegue de poder, dominio espacial y velocidad acelerada. El otro opera de afuera hacia adentro como ataque del poderoso mundo a la vez demoníaco y automatizado. En ese juego doble consiste la invencibilidad del Leviatán en nuestra época. Es ilusorio; en eso reside su poder". La obra de Jünger trastoca el tema de la resistencia; se plantea la pregunta sobre cómo debe comportarse y sostenerse el hombre ante la aniquilación frente a la resaca nihilista.
"En la medida en que el nihilismo se hace normal, se hacen más temibles los símbolos del vacío que los del poder. Pero la libertad no habita en el vacío, mora en lo no ordenado y no separado, en aquellos ámbitos que se cuentan entre los organizables, pero no para la organización". Jünger llama a estos lugares "la tierra salvaje", lugar en el cual el hombre no sólo debe esperar luchar, sino también vencer. Son estos lugares a los cuales el Leviatán no tiene acceso, y lo ronda con rabia. Es de modo inmediato la muerte. Aquí dormita el máximo peligro: los hombres pierden el miedo. El segundo poder fundamental es Eros; "allí donde dos personas se aman, se sustraen al ámbito del Leviatán, crean un espacio no controlado por él". El Eros también vive en la amistad, que frente a las acciones tiránicas experimenta sus últimas pruebas. Los pensamientos y sentimientos quedan encerrados en lo más íntimo al armarse el individuo una fortificación que no permite escapar nada al exterior; "En tales situaciones la charla con el amigo de confianza no sólo puede consolar infinitamente sino también devolver y confirmar el mundo en sus libres y justas medidas". La necesidad entre sí de hombres testigos de que la libertad todavía no ha desaparecido harán crecer las fuerzas de la resistencia. Es por lo que el tirano busca disolver todo lo humano, tanto en lo general y público, para mantener lo extraordinario e incalculable, lejos.

Este proceso de devaluación de los valores supremos ha alcanzado, de algún modo, caracteres de "perfección" en la actualidad. Esta "perfección" del nihilismo hay que entenderla en la acepción de Heidegger, compartida por Jünger, como aquella situación en que este movimiento "ha apresado todas las consistencias y se encuentra presente en todas partes, cuando nada puede suponerse como excepción en la medida en que se ha convertido en el estado normal." El agente inmediato de este fenómeno radica en el desencuentro del hombre consigo mismo y con su potencia divina. La obra de Jünger, en este sentido, da cuenta del afán por radicar el fundamento del hombre.

III

Uno de los síntomas de nuestra época es el temor. Aquel temor que hace afirmar al autor que toda mirada no es más que un acto de agresión y que hace radicar la igualdad en la posibilidad que tienen los hombres de matarse los unos a los otros. A lo anterior, hay que agregar la inclinación a la violencia que desde el nacimiento todos traemos, según lo señalado en su novela "Eumeswil" (1977). . Por eso el mundo se torna en imperfecto y hostil. Su historia no es sino la de un cadáver acechado una y otra vez por enjambres de buitres. Esta visión lúgubre de la realidad, en la que se encuentra una reminiscencia schopenhaueriana, fue sin duda alimentada por la experiencia personal del autor, testigo del horror de dos guerras implacables que no hicieron más que coronar e instaurar en el mundo el culto a la destrucción, al fanatismo y la masificación del hombre. El avance de la técnica, a pesar de los beneficios que conlleva, a juicio de Jünger tiene la contrapartida de limitar la facultad de decisión de los hombres en la medida en que a favor de los alivios técnicos van renunciando a su capacidad de autodeterminación conduciendo, luego, a un automatismo generalizado que puede llevar a la aniquilación. La pregunta que surge entonces es cómo el hombre puede superarlo, a través de que medios puede salvarse. La respuesta de Jünger, en boca de uno de sus personajes principales, el anarca Venator: la salvación está en uno mismo. El anarca, que nada tiene que ver con el anarquista, expulsa de sí a la sociedad, ya que tanto de ésta como del Estado poco cabe esperar en la búsqueda de sí mismo. El no se apoya en nadie fuera de su propio ser; su propósito es convertirse en soberano de su propia persona, porque la libertad es, en el fondo, propiedad sobre uno mismo.

Aparecen en este momento dos afirmaciones que pueden aparecer como contradictorias: el hombre inclinado a la violencia desde su nacimiento, y el hombre que debe penetrar en un conocimiento interior con el fin de descubrir su forma divina. Jünger afirma que la riqueza del hombre es infinitamente mayor de lo que se piensa. ¿Cómo conciliar esto con el carácter perverso que le atribuye al mismo? Al responder esto, el escritor apela a una instancia superior a la que denomina Uno, Divinidad, lo Eterno, según lo que se colige sobre todo en su obra posterior a 1950. La relación entre el hombre y lo Absoluto, expuesta por el maestro alemán, se entiende del siguiente modo: el ser, forma o alma de cada uno de nosotros ha estado, desde siempre, es decir, antes de nacer, en el seno de la Divinidad, y, después de la muerte, volverá a estar con ella. Antes de nacer, es tal el grado de indeterminación de esa unidad en lo Uno que el hombre no puede tener conciencia de la misma. Sólo cuando el nacimiento se produce, el hombre se hace consciente de su anterior unidad y busca desesperadamente volver a ella, al sentirse un ser solitario. Es allí cuando debe dirigirse hacia sí mismo, penetrar en su alma que es la eterna manifestación de lo divino. En el conócete a ti mismo, el hombre puede acceder a la forma que le es propia, proceso que para Jünger es un "ver" que se dirige hacia el ser, la idea absoluta. Señala en El trabajador que la forma es fuente de dotación de sentido, y la representación de su presencia le otorga al hombre una nueva y especial voluntad de poder, cuyo propósito radica en el apoderamiento de sí mismo, en lo absoluto de su esencia, ya que el objeto del poder estriba en el ser-dueño... En consecuencia, en ese descubrimiento de ser atemporal e inalterable que le confiere sentido, el hombre puede hacerse propietario de éste y convertirse en un sujeto libre. En caso contrario, quien no posea un conocimiento de sí mismo es incapaz de tener dominio sobre su ser no pudiendo, por tanto, sembrar orden y paz a su alrededor. En conclusión, esta inclinación a la violencia que surge con el nacimiento del hombre, en otras palabras, con su separación de lo Uno en la identidad primordial y primigenia dando lugar a la negación de la Divinidad, puede ser dominada y contrarrestada en la medida que el hombre se convierta en dueño de sí mismo, para lo cual es fundamental el conocimiento de la forma que nos otorga sentido.

La sustancia histórica, señala Jünger, radica en el encuentro del hombre consigo mismo. Ese encuentro con el ser supratemporal que le dota de sentido lo simboliza con el bosque. En su obra El tratado del rebelde afirma: "La mayor vigencia del bosque es el encuentro con el propio yo, con la médula indestructible, con la esencia de que se nutre el fenómeno temporal e individual". Es, entonces, el lugar donde se produce la afirmación de la Divinidad, al adquirir el sujeto la conciencia misma como partícipe de la identidad con lo Eterno.

El Verbo, entendido como "la materia del espíritu", es el más sublime de los instrumentos de poder, y reposa entre las palabras y les da vida. Su lugar es el bosque. "Toda toma de posesión de una tierra, en lo concreto y en lo abstracto, toda construcción y toda ruta, todos los encuentros y tratados tienen por punto de partida revelaciones, deliberaciones, confirmaciones juradas en el Verbo y en el lenguaje", enuncia en El tratado del rebelde. El lenguaje es, en definitiva, un medio de dominación de la realidad, puesto que a través de él aprehendemos sus formas últimas, en la medida en que es expresión de la idea absoluta. En una época tan abrumadoramente nihilista como la contemporánea, el propio autor describe como el lenguaje va siendo lentamente desplazado por las cifras.

En la obra de Jünger, el hombre que no acepta el "espíritu del tiempo" y se "retira hacia sí mismo" en busca de su libertad, es un rebelde. A partir de un ensayo de 1951, Jünger había propuesto una figura de rebelde a las leyes de la sociedad instalada, el Waldgänger que, según una antigua tradición islandesa, se escapa a los bosques en busca de sí mismo y su libertad. Posteriormente, el autor desarrolla la figura del rebelde en la novela Eumeswil, publicada en 1977, definiendo la postura del anarca, tipo que encarnaría el distanciamiento frente a los peores aspectos del nihilismo actual; o como el único camino digno a seguir para los hombres de verdad libres.

IV

Como en Heliópolis, en Eumeswil, Jünger nos presenta un mundo aún por llegar: se vive allí el estado consecutivo a los Grandes Incendios -una guerra mundial, evidentemente- y a la constitución y posterior disolución del Estado Mundial. Un mundo simplificado, en que aparecen formas semejantes a las del pasado: los principados de los Khanes, las ciudades-estados. El autor marca el carácter postrero del ambiente que da a su novela, comparándola a la época helenística que sigue a Alejandro Magno, una ciudad como Alejandría, ciudad sin raíces ni tradición. De modo análogo, en la sociedad de Eumeswil las distinciones de rangos, de razas o clases han desaparecido; quedan sólo individuos, distinguidos entre ellos por los grados de participación en el poder. Se posee aún la técnica, pero como algo más bien heredado de los siglos creadores en este dominio. La técnica permite, por ejemplo -siendo esto otro rasgo alejandrino-, un gran acopio de datos sobre el pasado, pero este pasado ya no se comprende.

Se enfrentan en Eumeswil dos poderes: el militar y el popular, demagógico, de los tribunos. Del elemento militar ha salido el Cóndor, el típico tirano que restablece el orden y, con él, las posibilidades de la vida normal, cotidiana, de los habitantes. Pero se trata de un puro poder personal, informe, que ya no puede restaurar la forma política desvanecida. Por lo demás tampoco en Eumeswil se tiene la ilusión de la gran política; no se trata siquiera de una potencia, viviendo como vive bajo la discreta protección del Khan Amarillo. En suma, son las condiciones de la civilización spengleriana, las de toda época final en el decurso de las culturas. "Masas sin historia", "Estados de fellahs", como señala Jünger.

El protagonista y narrador de la novela es Martín Venator, "Manuelo" en el servicio nocturno de la alcazaba del Cóndor. Es un historiador de oficio: aplica al pasado sus cualidades de observador, y de allí las reflexiones sobre el tiempo presente. Su modelo es, sin duda, Tácito: senador bajo los Césares, celoso del margen de libertad que aún puede conservar, escéptico frente a los hombres y frente al régimen imperial.

Venator también es camarero, barman en la alcazaba: como en las cortes de otra época, el servicio personal y doméstico al señor resulta ennoblecido. El camarero suele ser asimismo un observador, y en este terreno se encuentra con el historiador.

El historiador se retira voluntariamente al pasado, donde se encuentra en realidad "en su casa", y en este modo se aparta de la política. La derrota, el exilio, han sido a veces la condición de desarrollo de una vocación historiográfica -Tucídides en la Antigüedad, por ejemplo-, pero en otras ocasiones el historiador ha tomado parte activa de las luchas de su tiempo. En la novela, tanto el padre como el hermano del protagonista también son historiadores, pero, a diferencia de éste, están ideológicamente "comprometidos": son buenos republicanos, liberales doctrinarios, cautos enemigos del Cóndor más ajenos al mundo de los hechos que éste representa. Ellos deploran que "Manuelo" haya descendido a tan humilde servicio al tirano. Servicio fielmente prestado, pero en ningún caso incondicional. Entre los enemigos del Cóndor están los anarquistas: conspiran, ejecutan atentados... nada que la policía del tirano no logre controlar. De ellos se diferencia claramente Venator: no es un anarquista, es un anarca.

V

La mejor definición para la posición del anarca pasa por su relación y distinción de las otras figuras, las otras individualidades que se alzan, cada una a su modo, frente al Estado y la sociedad: el anarquista, el partisano, el criminal, el solipsista; o también, del monarca absoluto, como Tiberio o Nerón. Pues en el hombre y en la historia hay un fondo irrenunciable de anarquía, que puede aflorar o no a la superficie, y en mayor o menor grado, según los casos. En la historia, es el elemento dinámico que evita el estancamiento, que disuelve las formas petrificadas. En el hombre, es esa libertad interior fundamental. De tal modo que el guerrero, que se da su propia ley, es anárquico, mientras que el soldado no. En aparente paradoja, el anarquista no es anárquico, aunque algo tiene, sin duda. Es un ser social que necesita de los demás; por lo menos de sus compañeros. Es un idealista que, al fin y al cabo, resulta determinado por el poder. "Se dirige contra la persona del monarca, pero asegura la sucesión".

El anarca, por su parte, es la "contrapartida positiva" del anarquista. En propias palabras de Jünger: "El anarquista, contrariamente al terrorista, es un hombre que en lo esencial tiene intenciones. Como los revolucionarios rusos de la época zarista, quiere dinamitar a los monarcas. Pero la mayoría de las veces el golpe se vuelve contra él en vez de servirlo, de modo que acaba a menudo bajo el hacha del verdugo o se suicida. Ocurre incluso, lo cual es claramente más desagradable, que el terrorista que ha salido con bien siga viviendo en sus recuerdos...El anarca no tiene tales intenciones, está mucho más afirmado en sí mismo. El estado de anarca es de hecho el estado natural que cada hombre lleva en sí. Encarna más bien el punto de vista de Stirner, el autor de El único y su propiedad ; es decir, que él es lo único. Stirner dice: "Nada prevalece sobre mí". El anarca es, de hecho, el hombre natural". No es antagonista del monarca, sino más bien su polo opuesto. Tiene conciencia de su radical igualdad con el monarca; puede matarlo, y puede también dejarlo con vida. No busca dominar a muchos, sino sólo dominarse a sí mismo. A diferencia del solipsista, cuenta con la realidad exterior. No busca cambiar la ley, como el anarquista o el partisano; no se mueve, como éstos en el terreno de las opciones políticas o sociales. Tampoco busca trasgredir la ley, como el criminal; se limita a no reconocerla. El anarca, pues, no es hostil al poder, ni a la autoridad, ni a la ley; entiende las normas como leyes naturales.

No adhiere el anarca a las ideas, sino a los hechos; es en esencia pragmático. Está convencido de la inutilidad de todo esfuerzo ("tal vez esta actitud tenga algo que ver con la sobresaturación de una época tardía"). Neutral frente al Estado y a la sociedad, tiene en sí mismo su propio centro. Los regímenes políticos le son indiferentes; ha visto las banderas, ya izadas, ya arriadas. Jünger afirma, además, que aquellas banderas son sólo diferentes en lo externo, porque sirven a unos mismos principios, los mismos que harán que " toda actitud que se aparte del sistema, sea maldita desde el punto de vista racional y ético, y luego proscrita por el derecho y la coacción." No obstante, el anarca puede cumplir bien el papel que le ha tocado en suerte. Venator no piensa desertar del servicio del Cóndor, sino, por el contrario, seguir lealmente hasta el final. Pero porque él quiere; él decidirá cuando llegue el momento. En definitiva, el anarca hace su propio juego y, junto a la máxima de Delfos, "conócete a ti mismo", elige esta otra: "hazte feliz a ti mismo".

La figura del anarca resplandece verdaderamente, como la del hombre libre frente al Estado burocrático y a la sociedad conformista de la actualidad. Incluso aparece en algunas ocasiones en forma más bien mezquina, a la manera del egoísmo de Stirner: "quien, en medio de los cambios políticos, permanece fiel a sus juramentos, es un imbécil, un mozo de cuerda apto para desempeñar trabajos que no son asunto suyo". "(El anarca) sólo retrocede ante el juramento, el sacrificio, la entrega última". "Sólo cabe una norma de conducta" -dice Attila, médico del Cóndor, anarca a su modo- "la del camaleón..."

VI

La cuestión es si el anarca se constituye en una figura ejemplar para cierto tipo de hombres que no se reconozcan en las producciones sociales últimas. Pues si el anarca es la "actitud natural" -"el niño que hace lo que quiere"-, entonces nos hallamos ante simples situaciones de hecho que no tienen ningún valor normativo ni ejemplar. Desde siempre los hombres han querido huir del dolor y buscar lo agradable; por otro lado, apartarse de una sociedad decadente y que llega a ser asfixiante es una cosa sana. Venator invoca a Epicuro como modelo; debería referirse más bien a Aristipo de Cirene, discípulo de Sócrates y fundador de la escuela hedonista, quien proponía una vida radicalmente apolítica, "ni gobernante ni esclavo", con la libertad y el placer como únicos criterios. Jünger reconoce, y muy de buena gana, que el tipo de anarca se encuentra, socialmente hablando, en el pequeño burgués, piedra de tope de más de una corriente de pensamiento: es ese artesano, ese tendero independiente y arisco frente al Estado. La figura del anarca es más familiar al mundo anglosajón, especialmente al norteamericano, con su sentido ferozmente individualista y antiestatal: del cowboy solitario o del outlaw al "objetor de conciencia". Están en la mejor línea del anarca y el rebelde contra la masificación burocrática. Se sabe, por supuesto, en qué condiciones sociales han florecido estos modelos.

Pero las sociedades "posmodernas" actuales se distinguen por el más vulgar hedonismo; su tipo no es el del "superhombre", sino el del "último hombre" nietzscheano, el que cree haber descubierto la felicidad. El tipo del "idealista" y del "militante" pertenecen a etapas ya superadas; hoy, es el individuo de las sociedades "despolitizadas", soft, que toma lo que puede y rehusa todo esfuerzo. ¿Cuál es la diferencia de este tipo de hombre con el anarca? La respuesta radica en que el segundo está libre de todas las ataduras sentimentales, ideológicas y moralistas que aún caracterizan al primero. En verdad, la figura de Venator está históricamente condicionada: aparece en una de esas épocas postreras en la cuales nada se puede ya esperar. Lo que hay que esclarecer es si efectivamente nuestra propia época es una de ellas. Pero lo dicho sobre el anarca tiene un alcance mucho más universal: en cualquier tiempo y lugar se puede ser anarca, pues "en todas partes reina el símbolo de la libertad".

La senda del anarca termina en la retirada. Venator ha estado organizando una "emboscadura" temporal -según lo que el mismo Jünger recomendaba en Der Waldgang (1951)-, para el caso de caída del Cóndor. Al final, seguirá a éste, con toda su comitiva, en una expedición de caza a las selvas misteriosas más allá de Eumeswil: una emboscadura radical, o la muerte, no se sabe el desenlace. Del mismo modo, en Heliópolis, el comandante Lucius de Geer y sus compañeros se retiran en un cohete, con destino desconocido. Pero eso sí, después de haber luchado sus batallas, al igual que los defensores de la Marina en Sobre los Acantilados de Mármol no buscan refugio sino después de dura lucha con las fuerzas del Gran Guardabosques. Pero ¿de qué se trata esta "emboscadura"?

El anarca hace lo que Julius Evola, el gran pensador italiano, recomienda en su libro Cabalgar el tigre: "La regla a seguir puede consistir, entonces, en dejar libre curso a las fuerzas y procesos de la época, permaneciendo firmes y dispuestos a intervenir cuando el tigre, que no puede abalanzarse sobre quien lo cabalga, esté fatigado de correr". Lo que Evola llama "tigre", Jünger lo denomina "Leviatán" o "Titanic".
El anarca se retira hacia sí mismo porque debe esperar su hora; el mundo debe ser cumplido totalmente, la desacralización, el nihilismo y la entropía deberán ser totales: lo que Vintila Horia llama "universalización del desastre". Jünger enfatiza que emboscarse no significa abandonar el "Titanic", puesto que eso sería tirarse al mar y perecer en medio de la navegación. Además: "Bosque hay en todas partes. Hay bosque en los despoblados y hay bosque en las ciudades; en éstas, el emboscado vive escondido o lleva puesta la máscara de una profesión. Hay bosque en el desierto y hay bosque en las espesuras. Hay bosque en la patria lo mismo que lo hay en cualquier otro sitio donde resulte posible oponer resistencia... Bosque es el nombre que hemos dado al lugar de la libertad... La nave significa el ser temporal; el bosque, el ser sobretemporal...". En la figura del rebelde, por tanto, es posible distinguir dos denominaciones: emboscado y anarca. El primero presentaría las coordenadas espirituales, mientras el segundo da luces sobre su plasmación en el "aquí y ahora". Jünger lo define más claramente: "Llamamos emboscado a quien, privado de patria por el gran proceso y transformado por él en un individuo aislado, está decidido a ofrecer resistencia y se propone llevar adelante la lucha, una lucha que acaso carezca de perspectiva. Un emboscado es, pues, quien posee una relación originaria con la libertad... El emboscado no permite que ningún poder, por muy superior que sea, le prescriba la ley, ni por la propaganda, ni por la violencia".

VII

El nihilismo y la rebeldía... La figura del anarca es la de quien ha sobrevivido al "fin de la historia" ("carencia de proyecto: malestar o sueño"). El último hombre no puede expulsar al anarca que convive junto a él. Su poder radica en su impecable soledad y en el desinterés de su acción. Su sí y su no son fatales para el mundo que habita. El anarca se presenta como la victoria y superación del nihilismo. Las utopías le son ajenas, pero no el profundo significado que se esconde tras ellas. "El anarca no se guía por las ideas, sino por los hechos. Lucha en solitario, como hombre libre, ajeno a la idea de sacrificarse en pro de un régimen que será sustituído por otro igualmente incapaz, o en pro de un poder que domine a otro poder".

El anarca ha perdido el miedo al Leviatán, en el encuentro con la médula indestructible que le dota de sentido para luego proyectarse y reconocerse en el otro, en la amada, en el hermano, en el que sufre y en el desamparado, puesto que Eros es su aliado y sabe que no lo abandonará...

La actitud del anarca puede ser interpretada desde dos perspectivas, una activa y otra pasiva. Esta última verá en la emboscadura, y en el anarca que la realiza, la posibilidad de huir del presente y aislarse en aquella patria que todos llevamos en nuestro interior; al decir de Evola, la que nadie puede ocupar ni destruir. Pero no debe confundirse la actitud del anarca como una simple huida: "Ya hemos apuntado que ese propósito no puede limitarse a la conquista de puros reinos interiores". Mas bien se trata de otro tipo de acción, de un combate distinto, "donde la actuación pasaría entonces a manos de minorías selectas que prefieren el peligro a la esclavitud". Minorías que entiendan que emboscarse es dar lucha por lo esencial, sin tiempo y acaso sin perspectivas. Minorías que, como el propio Jünger lo expresa, sean capaces de llevar adelante la plasmación de una "nueva orden", que no temerá y, por el contrario, gustará de pertenecer al bando de los proscritos, pues se funda en la camaradería y la experiencia; orden que pueda llevar a buen término la travesía más allá del "meridiano cero", y se prepare a dar una lucha en el "aquí y ahora"...

"En el seno del gris rebaño se esconden lobos, es decir, personas que continúan sabiendo lo que es la libertad. Y esos lobos no son sólo fuertes en sí mismos: también existe el peligro de que contagien sus atributos a la masa, cuando amanezca un mal día, de modo que el rebaño se convierta en horda. Tal es la pesadilla que no deja dormir tranquilos a los que tienen el poder".

mardi, 06 juillet 2010

La Turquie tourne le dos à l'Occident

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Bernhard TOMASCHITZ:

La Turquie tourne le dos à l’Occident

L’amitié étroite entre la Turquie et Israël est un fait politique qui relève désormais du passé. Ankara envisage des sanctions contre l’Etat sioniste à la suite de l’attaque israélienne contre la flotille de la paix qui faisait route vers Gaza. Si Israël refuse de satisfaire à l’exigence turque de mettre en oeuvre une commission d’enquête internationale, le gouvernement turc songe à réduire voire à rompre les relations diplomatiques et les coopérations économiques et militaires. De même, la résistance turque au sein du Conseil de sécurité de l’ONU contre tout raffermissement des sanctions contre l’Iran a conduit à un refroidissement considérable du climat entre Ankara, d’une part, Jérusalem et Washington, d’autre part. Président de la commission de politique étrangère du Parlement turc, Murat Mercan explique ce soutien apporté à Téhéran: “La Turquie a des liens historiques, culturels et religieux d’une grande profondeur temporelle avec l’Iran. En d’autres mots: les Iraniens sont non seulement nos voisins mais aussi nos amis et nos frères”.

A Washington, la nouvelle orientation de la Turquie vers la Syrie et vers l’Iran (deux “Etats voyous selon les Etats-Unis) suscite une vigilance toute particulière. Car, en fin de compte, la Turquie est un allié particulièrement important des Etats-Unis pour assurer la pacification de l’Irak. Parce que le gouvernement turc a décidé de ne pas participer aux sanctions, Robert Gates, le ministre américain des affaires étrangères, s’est déclaré “déçu”. Gates avait toutefois une explication toute faite: c’est l’UE qui est responsable de cet état de choses, vu le gel des négociations entre l’Europe et la Turquie en vue de l’adhésion de ce pays à l’Union. Les Etats-Unis mettent une fois de plus la pression sur l’Union européenne pour qu’elle accepte le plus rapidement possible la Turquie en son sein. Et cette pression ira croissant pour autant qu’Ankara n’exagère pas dans son soutien à Téhéran. Au Congrès américain, nous entendons désormais des voix qui réclament une attitude de plus grande fermeté à l’encontre d’Ankara: “Il y aura un prix à payer si la Turquie maintient son attitude actuelle et se rapproche davantage de l’Iran, tout en se montrant hostile à Israël”, a menacé le Républicain Mike Pence. Quant à la Démocrate Shelley Berkley, elle s’est adressé aux Turcs en ces termes: “Ils ne méritent pas de devenir membres de l’UE, tant qu’ils ne commencent pas à se comporter comme les peuples européens et tant qu’ils ne cessent pas d’imiter l’Iran”.

Désormais, la Turquie tourne donc ses regards vers le Proche Orient. Mais l’adoption de cette politique n’est pas vraiment une surprise. De fait, le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan et son parti gouvernemental, l’AKP de tendance islamiste, se sentent plus proches du monde musulman que des Etats-Unis ou de l’Europe. A ce sentiment d’affinité s’ajoute le concept de “profondeur stratégique”, élaboré dès 2001 par l’actuel ministre turc des affaires étrangères, Ahmed Davutoglu. Selon ce concept, la Turquie doit retrouver sa propre “identité historique et géographique”, démarche où l’Empire ottoman constitue la principale référence. Davutoglu considère son pays, la Turquie, comme un “Etat clef”, situé sur le point de rencontre de l’Europe, de l’Asie et de l’Afrique car, en effet, la Turquie est tout à la fois partie des Balkans, du Caucase, de l’espace pontique (Mer Noire), du Proche Orient et de l’espace maritime du bassin oriental de la Méditerranée, ce qui implique, ipso facto, qu’elle doit s’efforcer d’entretenir un “rapport équilibré avec tous les acteurs globaux et régionaux”.

Cette notion de “rapport équilibré” est très visible dans les relations qu’entretient aujourd’hui la Turquie avec la Syrie. Ces relations se sont remarquablement détendues, depuis que la Turquie essaye de jouer un rôle médiateur dans le conflit israélo-syrien. Avant ce travail de médiation, on évoquait fort souvent une possible “guerre pour l’eau” entre les deux pays redevenus amis, parce que la Turquie contrôlait le cours supérieur de l’Euphrate.

Quant à la “profondeur stratégique”, elle constitue le pendant en politique étrangère de l’islamisation de la Turquie en politique intérieure. La notion de “profondeur stratégique” et l’islamisation constituent deux modes de rupture avec le kémalisme, idéologie déterminante de la Turquie depuis la fondation de la République en 1923. Heinz Kramer, politologue oeuvrant à la “Stiftung Wissenschaft und Politik” de Berlin (“Fondation Science et Politique”), évoque, dans l’une de ses études, la rupture fondamentale que cette idée de “profondeur stratégique” apporte dans la praxis turque en politique étrangère: “La domination mentale exercée jusqu’ici par l’exclusivité de l’orientation pro-occidentale, considérée comme l’un des piliers de l’identité républicaine en gestation, se trouve relativisée. La Turquie, dans cette perspective, ne se perçoit plus comme un Etat en marge du système européen mais comme le centre d’une ‘région spécifique’, pour l’ordre de laquelle Ankara doit assumer une responsabilité ou une co-responsabilité politique”.

Conséquence de cette nouvelle vision en politique étrangère et de cette nouvelle conscience politique: la Turquie essaye de se positionner comme un acteur plus déterminant qu’un simple pays assurant le transport d’énergie. En juillet 2009, la Turquie a signé l’accord sanctionnant la construction du gazoduc Nabucco qui devra acheminer le gaz naturel de la région caspienne ou de l’Iran vers l’Europe centrale: cette signature est un véritable coup de maître politique. Morton Abramowitz et Henri J. Barkey, tous deux actifs pour les “boîtes à penser” américaines, écrivent à ce propos dans la très influente revue “Foreign Affairs”: “Le gazoduc Nabucco sera-t-il un jour construit? On demeure dans l’incertitude. Tant le coût de son installation que la question de savoir s’il y aura suffisamment de gaz naturel à disposition pour le remplir, sont des éléments qui restent à élucider (...). Mais le projet de gazoduc a d’ores et déjà augmenté l’influence de la Turquie aux yeux des pays de l’UE, animés par une perpétuelle fringale d’énergie”. Avec la clef énergétique, la Turquie pourrait bien s’ouvrir la porte de l’UE.

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°25-26/2010; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

Florenskij, nozze mistiche tra fede e scienza

Florenskij, nozze mistiche tra fede e scienza

di Marcello Veneziani

Fonte: il giornale [scheda fonte]

 


Tornano le opere più importanti del filosofo e sacerdote russo fucilato nei gulag nel 1937 perché anti-materialista. La sua figura e i suoi scritti dimostrano come si possano conciliare i dogmi religiosi con i principi della matematica

Meriterebbe di esistere Dio, la Verità e la Santissima Trinità e meriterebbe che la fede fosse davvero la via della salvezza eterna, anche solo per coronare la vita, la morte e il pensiero ardente di Pavel Florenskij, filosofo, matematico e sacerdote. Non merita di perdersi nel nulla e nel vuoto una vita eroica così spesa, una tensione di pensiero così potente e incandescente, un amore così colmo di sacrifici e dedizione come quello che riversò Florenskij scommettendo tutto se stesso sulla verità. Sarebbe un peccato mortale subito dall’uomo, uno spreco divino, vanificare la vita e il pensiero di Florenskij; sarebbe un oltraggio imperdonabile alla pietà e all’intelligenza umana e divina.

La mente eroica di cui parlava Vico si incarna nel filosofo, scienziato e mistico russo, fucilato nell’Unione sovietica nel giorno dell’Immacolata, nel 1937, dopo anni di gulag. Ho davanti agli occhi la ristampa recente de La colonna e il fondamento della verità di Pavel Florenskij (San Paolo, pagg. 816, euro 64), il ponderoso capolavoro pubblicato nel 1914 e uscito la prima volta in Italia nel 1974 grazie a Elémire Zolla e Alfredo Cattabiani, che allora dirigeva la Rusconi libri. L’edizione italiana precedette anche quella russa del 1990, dopo la caduta del Muro. Colpisce in copertina il suo sguardo metafisico, i suoi occhi sono il riassunto esistenziale della sua fede e del suo pensiero, guardano dentro e altrove.

Fa impressione in questo testo il suo lucido e implacabile argomentare scientifico e matematico, il rigore della sua filosofia, la vastità della sua cultura, uniti a una fede assoluta in Dio, nel dogma trinitario, e una totale devozione alla Madonna. Lui presbitero della Chiesa ortodossa, padre di cinque figli e insieme autore di importanti scoperte scientifiche. Al punto da essere costretto dal regime comunista a continuare la sua ricerca scientifica tra lavori forzati, torture e gulag. Ma come egli stesso scrisse: «Il destino della grandezza è la sofferenza, causata dal mondo esterno e dalla sofferenza interiore».

Eppure Florenskij, nato in Caucaso il 1882, proveniva da una famiglia laica, di cultura positivista, e approdò con gli anni alla fede in Cristo e in Dio, quando discese in lui lo Spirito Santo, come amava dire, conservando tuttavia «la carnalità del pensiero» e l’attitudine alla matematica e alla fisica. Ma Florenskij visse tra antinomie fortemente marcate e le teorizzò alla luce della fede e del pensiero. A cominciare dalla prima radicale antinomia: «La verità è irraggiungibile - non si può vivere senza la verità». Arrivando a scegliere la Verità indipendentemente se sia possibile: «Io non so se la Verità esista o meno, ma con tutto il mio essere sento che non posso farne a meno, so che, se esiste per me è tutto: ragione, bene, forza, vita, felicità. Forse non esiste ma io l’amo più di tutto ciò che esiste... Metto nelle mani della verità il mio destino».

L’opera di Florenskij è percorsa dal pensiero simbolico («Per tutta la vita ho pensato a una sola cosa... il simbolo»), dal valore magico della parola, della bellezza e della liturgia e dal valore sacro della memoria, che è la presenza nel tempo dell’eternità. A cominciare dalla memoria dell’infanzia, che per Pavel aveva il duplice incanto di percepire integralmente la realtà e insieme di penetrare nella favola profonda del mondo. Il segreto della genialità, sosteneva, sta proprio nel saper custodire la disposizione d’animo dell’infanzia.

L’opera di Florenskij, amata in Italia da Augusto Del Noce e da Sergio Quinzio, da Padre Mancini e da Cristina Campo, ma prediletta anche da Massimo Cacciari, rivede la luce grazie al lavoro di Natalino Valentini, che ha curato anche altre opere di Florenskij dedicate al simbolo, a Bellezza e liturgia, fino alle memorie dedicate Ai miei figli o le lettere dal Gulag, dal titolo evocatore Non dimenticatemi (tutte disponibili negli Oscar Mondadori).

Resta il mistero di un matematico che fu sacerdote, di un mistico che fu uno scienziato. Come è possibile la ricerca scientifica se si è abbagliati dalla Verità divina e dal dogma trinitario, obietta il comune senso laico. Si può essere ingegneri, elettrificare la Russia e insieme sostenere che non c’è scampo tra «la ricerca della Trinità o la morte nella pazzia», studiare la Natura al microscopio e insieme pregare la Madonna “deipara”, come lui la definisce? L’opera di Florenskij sta a dimostrare che è possibile, anzi suggerisce che il pensiero di Dio può potenziare la vita e la scienza anziché mortificarli. La ricerca del mistero può suscitare la passione della ricerca scientifica perché spinge oltre i confini del risaputo. Florenskij non si accontentava delle regolarità delle leggi naturali, perché ricercava sempre l’eccezione, l’inspiegabile: la sua vocazione alla mistica, al miracolo e al mistero diventava così la molla per l’indagine scientifica, per la scoperta e per il calcolo matematico. L’amore per il soprannaturale lo spingeva a non fermarsi all’evidenza, alle leggi ripetitive della natura ma a cercare, tramite l’eccezione, l’irruzione del noumeno nel fenomeno. «Fu il Disegno Divino a educarmi alla trepidazione di fronte ai fenomeni» e alla ricerca. La fede apriva in lui gli orizzonti dell’intelligenza anziché precluderli.

Resta stridente il contrasto tra il pensiero mistico, la vita ascetica di Florenskij e il nostro mondo e il nostro tempo. Ma come egli stesso scrive: «Gli asceti della Chiesa sono vivi per i vivi e morti per i morti».
Di Florenskij in Russia non restarono neanche le spoglie. Nel luglio del 1997 furono ritrovate le fosse comuni di prigionieri delle isole Solovki dov’era detenuto Florenskij. In una delle sue ultime lettere dal gulag, Florenskij scriveva: «La vita vola via come un sogno e spesso non riesci a far nulla prima che ti sfugga l’istante nella sua pienezza. Per questo è fondamentale apprendere l’arte del vivere, tra tutte la più ardua ed essenziale. Colmare ogni istante di un contenuto sostanziale, nella consapevolezza che esso non si ripeterà mai più come tale». Pavel, Padre e Maestro.

 


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lundi, 05 juillet 2010

Désamorçons l'arme de la finance globaliste!

Rolf STOLZ:

Désamorçons l’arme de la finance globaliste!

Stolz-Rolf210.jpgL’homme ne vit pas seulement de pain. Mais il en vit! La vieille sentence qui veut que l’économie soit notre destin devient d’autant plus valide lorsqu’une chancelière, tout en dilettantisme, se révèle personnellement comme une fatalité. L’économie s’avère souvent alambiquée, pour le commun des mortels, elle est constituée d’arcanes mystérieuses. Même les grands fiscalistes et capitaines d’industrie ne peuvent la gérer que très partiellement. Pourtant aucune personne dotée de rationalité n’ira jusqu’à dire que l’économie est aussi peu influençable que la météo ou le tirage des numéros du loto.

Le citoyen lambda ne peut certes pas intervenir dans le déroulement de l’économie avec autant de poids et de capitaux que l’investisseur américain George Soros mais, malgré cela, il peut agir sur l’économie, du moins de manière indirecte ou graduelle par son engagement politique. Les fanatiques du monde unifié sous l’égide du globalisme lui diront qu’il n’y a plus possibilité, aujourd’hui, de gérer des économies limitées à une seule nation, dotées d’une forte dose d’autonomie. Cette affirmation impavide nous est assénée à longueur de journées malgré que le processus de la globalisation s’avère nettement contradictoire et incohérent et n’a pas pu créer, et ne créera pas, un monde globalisé à 100% .

Les prédicateurs qui nous annoncent le paradis néo-libéral, où il n’y aura plus que du profit à l’horizon, font usage d’un vieux truc de démagogue: ils posent l’équation entre un fait (l’imbrication mondiale par la globalisation) avec une idéologie très douteuse (celle du globalisme). La méthode ressemble à celle utilisée par les néo-staliniens: ceux-ci partent de la nécessaire orientation de l’économie vers l’action sociale pour mélanger cette nécessité à leurs idées fixes qu’ils baptisent socialisme. De cette manière, toute critique à l’encontre de leurs utopies est jugée comme l’expression d’une “absence de coeur”.

A la base du globalisme se trouve une idée dépourvue de tout développement dialectique potentiel, une idée qui veut que des ensembles économiques de plus en plus grands et de plus en plus centralisés soient une valeur en soi, que tout doit absolument être exportable, importable ou achetable et qu’un gouvernement mondial tout-puissant constitue à terme l’objectif le plus élevé à atteindre. Dans les faits, selon les tenants de cette idéologie globaliste, les Etats nationaux démocratiques, et avec eux, la démocratie en soi, devraient être réduits à exercer les seules fonctions restantes, celles qui ne relèvent pas de l’économie et sont dès lors posées comme mineures ou subalternes, non génératrices de profits. Deux camps s’opposent: ceux qui, via l’eurocratie installée à Bruxelles, via Wall Street et la Banque Mondiale, veulent faire éponger par les peuples l’éclatement de la bulle spéculative; et ceux qui entendent organiser la résistance des nations et des autonomies humaines contre le pillage des hommes, des matières premières et de la biosphère. “Nous nous sommes approchés très très près d’une implosion totale et globale de la sphère financière” a déclaré Bernanke, chef de la banque d’émission américaine lors de la débâcle de Lehman-Brothers. Ou bien les Etats parviendront à désamorcer les bombes atomiques financières qui menacent de nous exploser au nez ou bien celles-ci nous éclateront à la figure lors des prochaines guerres économiques.

Rolf STOLZ.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°26/2010). 

Rolf Stolz fut l’un des co-fondateurs du mouvement des “Verts” allemands. Il vit aujourd’hui à Cologne et exerce le métier de journaliste libre de toute attache.

Se Cioran il nichilista scopre l'amore assoluto

Se Cioran il nichilista scopre l'amore assoluto

di Mario Bernardi Guardi

Fonte: secolo d'italia


 



Se c'è uno scrittore che, per la sua vocazione apocalittica e il suo moralismo bruciante, cupo e derisorio, si presta a definizioni "tranchant", questo è Emil Michel Cioran. Di volta in volta battezzato "barbaro dei Carpazi", "eremita antimoderno", "esteta della catastrofe", "apolide metafisico", "cavaliere del malumore cosmico". Ma anche lui, da buon Narciso, ci ricamava sopra e sulla sua "carta di identità" scriveva cose come "idolatra del dubbio", "dubitatore in ebollizione", "dubitatore in trance", "fanatico senza culto", "eroe dell'ondeggiamento". Ora, raccontare Cioran significa fare i conti con tutti questi appellativi e prendere atto che la loro indubbia suggestione trova punti di forza in una vita per tanti versi scandalosa...
 Visto che prima del Cioran "parigino"- è nel 1937 che il Nostro approda in Francia -, capace di confezionare le sue aureee sentenze nihilistico-gnostiche in un brillantissimo francese, c'è un Cioran duro e puro, di fiera stirpe rumena, che fa propri i miti del radicamento e dell'identità, simpatizzando per il fascismo di Codreanu e delle sue Guardie di Ferro, e scrivendo un bel po' di cose "compromettenti". Di questo, Antonio Castronuovo in un agile profilo pubblicato da Liguori, Emil Michel Cioran (pp.100, euro 11,90), dà solo rapidi cenni, ricordando che, comunque, Emil Michel dedica un intero capitolo del suo "Sommario di decomposizione", alla "Genealogia del fanatismo", collocandosi così "all'opposto delle fascinazioni giovanili". E cioè delle, chiamiamole così, "fascio-fascinazioni".
Ora, Castronuovo fa bene a ricordarci, con la consueta eleganza, il grande "stilista" e il grande "moralista", lo scrittore impertinente e beffardo che si interroga sul senso della vita e della morte, il chierico extravagante che cerca di stanare Dio dai suoi misteri e dai suoi abissali silenzi. E tuttavia siamo convinti che Cioran e altri "dannati" dello scorso secolo - Pound e Céline, Drieu e Heidegger, Eliade e Jünger, tanto per fare i primi nomi che ci vengono in mente - non debbano essere alleggeriti dalle loro "responsabilità" con la vecchia storia dei "peccati di gioventù", una specie di rituale giustificativo-assolutorio che li "disinfetta" e li rende "presentabili", ma toglie loro qualcosa, e cioè la "ragioni" di una scelta. Per scandalose che possano apparire alle "animule vagule blandule" del "politicamente corretto". Ed è per questo che, a suo tempo, non ci è dispiaciuto il saggio di Alexandra Laignel-Lavastine Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco nella bufera del secolo che, sia pure con una "vis" polemica non aliena da faziosità, si sforza di illuminare/documentare le stazioni di una milizia intellettuale che sarebbe sbagliato ignorare o sottovalutare. Non si può esaurire la forza testimoniale di Cioran nell'ambito delle acuminate provocazioni, immaginandone la vita come una fiammeggiante costellazione di (coltissime) invettive. Sia dunque reso merito a Friedgard Thoma che ci racconta un Cioran innamorato (Per nulla al mondo. Un amore di Cioran, a cura e con un saggio di Massimo Carloni, (L'orecchio di Van Gogh, pp.160, € 14,00), addirittura un Cioran "maniaco sentimentale": un genio dell'aforisma, ma anche un umanissimo, fragile, tenero settantenne, tutto preso da lei, giovane insegnante tedesca di filosofia e letteratura, che, folgorata dalla lettura del libro L'inconveniente di essere nati, nel febbraio del 1981 gli ha scritto una calda lettera di ammirazione. C'è da stupirsi del fatto che Cioran non fosse "corazzato" di fronte ai complimenti di una donna intelligente e affascinante? Come, lui, l'apocalittico, così inerme, così indifeso! Eppure, in Sillogismi dell'amarezza è proprio il "barbaro dei Carpazi" a invitarci a tenere la guardia alta di fronte al vorticoso nichilismo degli "apocalittici" e magari a scavarvi dentro. «Diffidate - scrive - di quelli che voltano le spalle all'amore, all'ambizione, alla società. Si vendicheranno di avervi "rinunciato". La storia delle idee è la storia del rancore dei solitari». Dunque, Cioran, uomo di idee ma anche di emozioni, compiaciuto per quella lettera affettuosa, risponde immediatamente alla sua "fan", con un mezzo invito ad andarlo a trovare a Parigi.
Lei, che ci tiene ad essere una interlocutrice culturale e cita Walser, Hölderlin e Gombrowicz, non manca di allegare alla risposta una sua foto. E siccome si tratta di una donna giovane - capelli sciolti, bocca carnosa, sguardo intenso -, le coeur en hiver di Cioran comincia a battere furiosamente. Lui stesso le confesserà un paio di mesi dopo: «Tutto in fondo è cominciato dalla foto, con i suoi occhi direi». E' una tempesta dei sensi, un'"eruzione emotiva". Ancor più incontrollabile, allorché lei decide di trascorrere qualche giorno a Parigi. Lui va a prenderla all'hotel e arriva dieci minuti prima: è «un uomo di costituzione fragile, con un ciuffo di capelli grigi, arruffati, e gli occhi dello stesso colore». Lei «cerca di apparire attraente, indossando un abito nero non troppo corto, sotto un lungo cappotto chiaro». Seguono conversazioni, passeggiate, cene, visite a musei, telefonate… Cioran vive una sorta di voluttuoso invasamento, al punto che, quando lei torna a Colonia, le scrive con spudorata audacia: «Ho compreso in maniera chiara di sentirmi legato sensualmente a lei solo dopo averle confessato al telefono che avrei voluto sprofondare per sempre la mia testa sotto la sua gonna». Poi, è lui ad andarla a trovare in Germania. «Vestita di rosso e nero», Friedgard lo accoglie alla stazione. Lui è innamorato pèrso, lei, sedotta intellettualmente, continua a sedurlo fisicamente, senza nulla concedere. Lui soffre, la chiama «mia cara zingara», le scrive: «Non capisco cosa sto cercando ancora in questo mondo, dove la felicità mi rende ancora più infelice dell'infelicità». Friedgard vuol tenere intatte "venerazione e amicizia", parlando di autori e di libri, entrando nella sua intimità, portando alla luce le sue contraddizioni. Ma confessando anche, con franchezza: «Dunque, caro: lei mi ha trascinato nell'immediatezza inequivocabile d'una relazione fisica, mentre io cercavo l'erotica ambiguità della relazione "intellettuale"». Proprio quella che a Cioran non basta. È innamorato, desidera la giovane prof. con una sensualità "vorace", le fa scenate di gelosia perché lei, ovviamente, ha un "compagno" cui è legata.
«Sono vulnerabile - le scrive - e nessuno quanto Lei può ferirmi tanto facilmente». E consolarlo, anche. Così, la immagina nelle vesti di una suora, "dalla voce sensuale però". E come uno studentello inebriato d'amore, che non rinuncia alle battute, confessa che vorrebbe morire insieme a lei: «A una condizione, però, che ci mettessero nella stessa bara». Così potrebbe raccontarle tante cose, «tante, ancora non dette».
Non manca nemmeno la proposta di matrimonio. Friedgard annota: «Al telefono, Cioran si dilettava volentieri con la proposta di sposarmi, contro tutti i suoi principi, addirittura secondo il rito ortodosso ("su questo devo insistere"), il che per lui significava essere cinti entrambi da corone. Quante risate, su un sogno triste». Un sogno che, così, non poteva continuare. La non appagata, sofferta, estrema accensione dei sensi di Emil «s'incanalerà negli anni lungo i binari d'una tenera, affettuosa amicizia». Nella cui calma piatta si spengerà fatalmente la "tentazione di esistere", carne e spirito almeno una volta insieme.

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dimanche, 04 juillet 2010

La Chine se découple du dollar

La Chine se découple du dollar

arton5770-733b0.jpgUne semaine avant le sommet du G20 au Canada, la Banque Centrale Chinoise (BCC) a annoncé qu’elle assouplirait voire relâcherait les liens qui unissent le Renminbi (le Yuan) au dollar américain. La Banque centrale chinoise exclut toutefois une réévalution hâtée ou unique. Le cours des changes serait ainsi “maintenu à un niveau raisonnable et équilibré, ce qui lui apportera une stabilité fondamentale”, a dit le porte-paroles de la BCC. Les fluctuations dans le cours des changes ne pourront s’effectuer que dans un “corridor” de 0,5% par jour. Le 21 juin, le cours du change était de 6,80 renminbi pour 1 dollar américain, ce qui est un record. La semaine précédente, le cours du change était de 6,82 renminbi. Jusqu’en 2005, la Chine avait maintenu le cours de manière constante à 8,28 renminbi pour 1$, en achetant des masses de billets verts. Ensuite, dans les années qui suivirent, la BCC avait autorisé une réévaluation continuelle de la monnaie chinoise. En 2008, elle avait gelé le change à cause de la crise financière mondiale à environ 6,83 renminbi.

(source: “Junge Freiheit”, Berlin, n°26/2010).

Le élites di Washington sono molto préoccupate per i nuovi blocchi anti-egemonici

Le élites di Whashington sono molto preoccupate per i nuovi blocchi anti-egemonici

di Pepe Escobar - Salvador Lopez Arnal

Fonte: Come Don Chisciotte [scheda fonte]





Lentamente ma energicamente il popolo del Sud si organizza e si prepara politicamente non solo per frenare l'imperialismo militarista e bellicista degli Stati Uniti ma anche per mettere fine all'ipocrisia dell'abuso di dominazione neo-coloniale da parte delle potenze industriali europee, con le loro addormentate società civili. Frenare le ingiustizie a cui sono sottomessi numerosi popoli in pieno ventunesimo secolo, rispetto e mutua reciprocità sono i nuovi dogmi. In questa intervista, il nostro collega Pepe Escobar analizza il modo in cui alcuni paesi emergenti, come il Brasile, la Turchia o l'India, stanno organizzando una nuova era di relazioni armoniche e rispettose fra i popoli.

Domanda: in un recente articolo pubblicato da Asia Times Online [1], tradotto da Sinfo Fernández di Rebelión, lei parlava della dominatrice. Mi permetta di complimentarmi per la sua trovata terminologica. Perché lei crede che la Segreteria di Stato statunitense (Hillary Clinton) si adatti bene a questo termine? Non sono migliorate le forme di politica estera degli Stati Uniti nell'amministrazione Obama?

Pepe Escobar: Hillary è una dominatrice nel senso che è capace di soggiogare tutto il Consiglio di Sicurezza dell'ONU invece di ammettere il fallimento della sua diplomazia. Forse lo ha imparato con Bill... O forse sono tutti masochisti.

No, non è così. La ragione principale è che la Cina e la Russia si lasciarono dominare. Cina e Russia decisero che era meglio lasciare la stridula Hillary dominare il palco per qualche giorno, e lavorare in silenzio per raggiungere il loro obiettivo: porre sanzioni con il massimo sentore “light” su Teherán. Per ciò che riguarda l'Iran, gli Stati Uniti sono ciechi, lo vedono tutto rosso. Lo stesso può dirsi in relazione a Israele, lo vedono tutto bianco celestiale.

Domanda: il nodo centrale del suo recente articolo – «Irán, Sun Tzu y la dominatrix» [2] [
Traduzione Comedonchisciotte N.d.r] – è l'accordo fra le diplomazie di Brasile, Turchia e Iran sul tema dello sviluppo nucleare di quest'ultimo Paese. In cosa consiste questo accordo?

Pepe Escobar: è essenzialmente lo stesso accordo proposto dagli stessi statunitensi nell'ottobre del 2009. La differenza sta nel fatto che, secondo la proposta del 2009, l'arricchimento dell'uranio si realizzava in Francia e in Russia e ora, attraverso l'accordo, si effettuerà in Turchia.

La differenza fondamentale è nel metodo. Turchia e Brasile si sono comportate con diplomazia, senza polemiche e rispettando le ragioni iraniane. Altro dettaglio fondamentale: tutto quello che hanno fatto era già stato discusso in dettaglio a Washington. Quando è stato presentato un risultato concreto, quando è stato raggiunto l'accordo con l'Iran, Washington, mi permetta la metafora bellica, ha sparato loro un colpo nelle costole.


Domanda: non è una novità nella diplomazia internazionale che Brasile e Turchia, due paesi non contrapposti agli Stati Uniti, si mettano in gioco in questa faccenda? Perché lei crede che abbiano scommesso su questa strategia autonoma? Cosa vincerebbero? L'Iran non è forse lontano, molto lontano, dal Brasile?

Pepe Escobar: ogni Paese ha i suoi motivi per espandere la propria mappa geopolitica. La Turchia si vuole proiettare come attore eccezionale, che conta davvero in Medio Oriente. Ne consegue una politica diciamo post-Ottomana, organizzata dal Ministro delle Relazioni Estere, il professor Ahmet Davutoglu.

Anche il Brasile, con una politica molto intelligente di Lula e del suo ministro Celso Amorim, vuole posizionarsi come mediatore onesto nel Medio Oriente. Il Brasile fa parte della BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) che secondo me è attualmente il vero contro-potere all'egemonia unilaterale degli Stati Uniti. Se circa due settimane fa ha discusso formalmente a Brasilia la sua adesione, la Turchia sarebbe parte del gruppo, il quale sarebbe quindi chiamato BRICT. Questa è la nuova realtà nella geopolitica globale. E, senza dubbio, le vecchie élites di Washington sono diventate livide.

Domanda: non sembra, come lei stesso segnalava, che l'accordo abbia suscitato entusiasmo nella Segreteria di Stato né nei governi europei. Perché? Vorrebbero che la strada diplomatica fallisca per proseguire con le loro sanzioni e condurci ad uno scenario bellico? Se è così, cosa guadagnerebbero con esso? Non ci sarebbero troppi fronti aperti allo stesso tempo?

Pepe Escobar: dalla prospettiva della politica interna degli Stati Uniti, quello che interessa a Washington è cambiare il regime. Ci sono almeno tre tendenze in lizza. I “realisti” e la sinistra del Partito Democratico che sono a favore del dialogo; l'ala del Pentagono e dei servizi di intelligence vogliono almeno delle sanzioni, e i repubblicani, i neocolonialisti, le lobby di Israele e la sezione Full Spectrum Dominance del Pentagono vogliono un cambio di regime sia come sia, inclusa la strada militare, se fosse necessario.

I governi europei sono cagnolini da compagnia di Bush o di Obama. Non servono a niente. Ci sono voci autorevoli in alcune capitali europee e a Bruxelles. Sanno che l'Europa ha bisogno del petrolio e del gas iraniano per non essere ostaggi di Gazprom. Ma sono una minoranza.

Domanda: lei crede che il Governo iraniano aspiri, oltre le sue dichiarazioni, a possedere un armamento nucleare? Per farsi rispettare? Per piegare Israele? Per attaccarla? Pakistan nucleare, India nucleare, Israele nucleare, Iran nucleare. Tutta questa zona non diventerebbe un'autentica polveriera?

Pepe Escobar: sono stato molte volte in Iran e mi sono convinto di quanto segue: il regime iraniano può causare rabbia ma non è un sistema suicida. Il leader supremo, in diverse occasioni, ha annunciato una fatwa affermando che l'arma nucleare è “non-islamica”. Le Guardie Rivoluzionarie supervisionano il programma nucleare iraniano, senza dubbio, ma sanno molto bene che le ispezioni e il controllo della IAEA, Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica, sono molto seri. Se punteranno a sviluppare una bomba atomica rudimentale, saranno scoperti e denunciati immediatamente.

Di fatto, l'Iran non ha bisogno di alcuna bomba atomica come elemento di dissuasione. Gli basta un arsenale militare high-tech, di tecnologia sempre più avanzata. L'unica soluzione giusta sarebbe una denuclearizzazione totale del Medio Oriente che Israele, ovviamente, con i suoi più di duecento missili nucleari, non accetterà e mai rispetterà.

Domanda: che ruolo gioca la Russia in questa situazione? Lei ricordava che l'impianto nucleare di Bushehr fu costruito dalla Russia, che lì si stanno si stanno svolgendo le ultime prove e che probabilmente si inaugurerà quest'estate.

Pepe Escobar: Bushehr deve essere inaugurata in agosto, dopo molti ritardi. Per la Russia l'Iran è un cliente privilegiato in termini nucleari e degli armamenti. Ai russi interessa che l'Iran continui in questo modo, che la situazione non cambi. Non vogliono l'Iran come potere nucleare militare. È una relazione con molti nodi, ma soprattutto commerciale.

Domanda: nel suo articolo lei cita il vecchio generale e stratega Sun Tzu. Ricorda un aforisma del filosofo cinese: “lascia che il tuo nemico commetta i suoi errori e non correggerli”. Lei afferma che Cina e Russia, maestri strateghi quali sono, stanno applicando questa massima rispetto agli Stati Uniti. Che errori stanno commettendo gli USA? Sono tanto goffi i suoi strateghi? Non hanno per caso letto Sun Tzu?

Pepe Escobar: tutti gli statunitensi ben educati nelle università hanno letto Sun Tzu. Altra cosa è saperlo applicare. Cina e Russia, in una strategia comune ai BRIC, si accordarono per lasciare gli Stati Uniti con l'illusione di condurre le sanzioni, nello stesso tempo in cui lavorarono e lavorano per minarle al massimo e approvare in ultima istanza un pacchetto di sanzioni molto “light”. Russia e Cina vogliono stabilità in Iran con il beneficio delle loro importanti relazioni commerciali. Nel caso della Cina, tenga in conto che l'Iran è un grande fornitore di gas e questo riguarda la massima sicurezza nazionale.

Domanda: siamo, lei riassume, in una situazione in cui sul tavolo dell'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica c'è un accordo di interscambio approvato dall'Iran, mentre nelle Nazioni Unite è in marcia un'offensiva di sanzioni contro l'Iran. Lei si domanda di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”. Io le domando: di chi si dovrebbe fidare la “comunità internazionale”?

Pepe Escobar: la vera “comunità internazionale”, i BRIC, i paesi del G-20, le 118 nazioni in sviluppo del Movimento dei non-allineati, insomma, tutto il mondo in sviluppo, sta con Brasile, Turchia e la loro diplomazia di non-opposizione. Solo gli Stati Uniti vogliono sanzioni e i suoi patetici, ideologici cani da compagnia europei.

Domanda: lei afferma anche che l'architettura della sicurezza globale, “vigilata da un pugno di temibili guardiani occidentali auto-nominati”, è in coma. L'Occidente “atlantista” affonda come il Titanic. Non esagera? Non confonde i suoi desideri con la realtà? Non c'è il pericolo reale che l'affondamento distrugga quasi tutto prima di affondare definitivamente?

Pepe Escobar: io ero già di fronte, con l'orrore di tutto il mondo, come per ora poter almeno credere nella possibilità di un nuovo ordine, delineato soprattutto dal G-20 e dai paesi del BRICT. Inclusa la T finale.

Il futuro economico è dell'Asia e il futuro politico è dell'Asia e delle grandi nazioni in via di sviluppo. È chiaro che le élites atlantiste rinunciano al loro potere solo dopo aver visto i propri cadaveri distesi per terra. Il Pentagono continuerà con la sua dottrina di guerra infinita. Però prima o poi non avrà come pagarla. Non nego che sia una possibilità che gli USA, in un futuro prossimo, sotto l'amministrazione di un pazzo repubblicano di estrema destra, entri in un periodo di guerra allucinata, sconvolta. Se così fosse, sarà senza dubbio la sua caduta, la caduta del nuovo Impero Romano.

Domanda: quale forte lobby degli USA è a favore della guerra infinita a cui si è appena riferito? Chi sostenta e finanzia questa lobby?

Pepe Escobar: La guerra infinita è la logica della Full Spectrum Dominance, la dottrina ufficiale del Pentagono, che include “l’encirclement” di Cina e Russia, la convinzione che questi paesi non possano emergere come ficcanaso e competitori degli USA, e inoltre fare tutti gli sforzi per controllare o almeno vigilare Eurasia. È la dottrina del Dr. Strangelove [3], però è anche la mentalità dei dirigenti militari statunitensi e della maggioranza del suo establishment. Il complesso industrial-militare non ha bisogno dell'economia civile per sostentarsi. Ha in elenco un'enorme quantità di politici e tutte le grandi corporazioni.

Domanda: lei parla della dottrina del Dr. Zbigniew “conquisteremo l'Eurasia”. Un'altra trovata, mi permetta un altro complimento. Il vecchio assessore alla sicurezza nazionale, lei segnala, sottolineò che “per la prima volta in tutta la storia umana, l'umanità si è svegliata politicamente -questa è una nuova e totale realtà- , una cosa mai successa prima”. Secondo lei è così? Che parte dell'umanità addormentata si è svegliata?

Pepe Escobar: per le élites statunitensi il dato essenziale è che Asia, America Latina e Africa stanno intervenendo politicamente nel mondo in un modo impensabile durante il colonialismo e che la decolonizzazione è, per loro, un incubo senza fine. Come dominare chi ora sa come comportarsi per non essere dominato di nuovo? È una domanda basilare.

Domanda: Washington, profondamente unilaterale, lei segnala, non esita a puntare l'indice fino al più vicino dei suoi amici. Perché? Sono per caso l'incarnazione dell'Asse del Male? Può essere raggiunta l'egemonia con procedimenti così poco gentili? Fino a quando?

Pepe Escobar: Non si può sottovalutare la crisi statunitense. È totale: economica, morale, culturale e politica. Ed anche militare perché furono distrutti in Iraq e sono al limite di un’umiliante sconfitta totale in Afganistan. Il nuovo secolo americano morì già nel 2001. L'11 settembre, oggi, si può interpretare come un messaggio apocalittico di fine.

Domanda: ma qual è uno degli attori principali della politica statunitense nel Vicino Oriente? Israele è addormentato? Quali sono i piani dei bulli di Gaza? [4]

Pepe Escobar: Israele si è convertito in quello che io chiamo “briccone” [birbante, o stato villano]. Sparta paranoica, etno-razzista, che ha la responsabilità della macchia profonda dell'apartheid. Israele sarà ogni volta più isolata dal mondo reale, protetta solo dagli USA, di cui è uno Stato-cliente. E il suo incubo, come se si trattasse di un film horror hollywoodiano, sarà il ritorno di ciò che è stato represso: la storia gli farà pagare per tutto l'orrore che ha perpetrato e continua a perpetrare contro i palestinesi.

Domanda: che opinione ha dell'azione di Israele dello scorso 30 maggio? Che senso può avere un attacco a dei pacifisti solidali con Gaza?

Pepe Escobar: fa parte della stessa logica di sempre. Abbiamo sempre ragione; quelli che sono contro le nostre politiche sono terroristi o antisemiti. Ora Israele è nella fase di difendere l'indifendibile: il blocco di Gaza.

È chiaro che ora tutto il mondo lo sa e non lo potrà più ingannare con le sue bugie, la Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele. Ma dubito, come nel caso degli Stati Uniti, che questa volta siano capaci di imparare la lezione.

Pepe Escobar [foto accanto al titolo N.d.r.], analista geopolitico. È autore di «Globalistan: How the Gbalizad World is Dissolving into Liquid War» (Nimble Books, 2007) e di «Red Zone Blues: a shapshot of Baghdad during the surge». Recentemente ha pubblicato «Obama does Globalistan» (Nimble Books, 2009), un libro che merita di essere tradotto (in spagnolo) con urgenza.

NOTE

[1] Fonte:
http://www.atimes.com/atimes/Middle...

[2]
http://www.rebelion.org/noticia.php..., 27 maggio 2010.

[3] Il film di S. Kubrick il cui titolo in italiano è “il Dottor Stranamore”, uno dei film preferiti di Manuel Sacristán.

[4] La domanda è stata formulata prima dell'attacco alla Flotilla della libertà e solidarietà. L'intervista termina con una domanda sull'attacco. “La Palestina sarà l'eterno Vietnam di Israele”, afferma Escobar.

Titolo originale: ""LA GUERRA INFINITA ES LA LÓGICA DE LA DOCTRINA OFICIAL DEL PENTÁGONO”"

Fonte: www.rebelion.org
Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=107156
04.05.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GABRIELLA REHO
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[Truppe statunitensi sparse per il mondo nel tentativo di ottenere una dominazione militare, oltre che economica. Il caso iracheno è esemplare. Si tratta di un’invasione per il petrolio, con il pretesto di difendersi da possibili armi nucleari che non sono mai state trovate.]

samedi, 03 juillet 2010

"Deux individus contre l'histoire. Pierre Drieu La Rochelle, Ernst Jünger" par Julien Hervier

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« Deux individus contre l'histoire. Pierre Drieu la Rochelle, Ernst Jünger » par Julien Hervier

 

ex: http://www.polemia.com/

L’auteur et le livre

Ce livre est la réédition revue, corrigée et augmentée d’une postface, d’un texte publié pour la première fois en 1978 et qui était lui-même la version allégée d’une thèse d’État soutenue en Sorbonne. Professeur honoraire de l’université de Poitiers, Julien Hervier est le principal traducteur de Jünger et a dirigé l’édition des Journaux de guerre dans la Pléiade, il a également traduit des ouvrages de Nietzsche, Heidegger et Hermann Hesse, et a édité de nombreux textes de Drieu, notamment son Journal 1939-1945.

Comme le souligne lui-même l’auteur dans sa postface, le contenu de son livre serait bien différent s’il devait l’écrire aujourd’hui, notamment en ce qui concerne Jünger dont l’œuvre a pris une autre ampleur, en particulier avec les cinq volumes du journal de vieillesse Soixante-dix s’efface, jusqu’à sa mort en 1998. Quant à Drieu, il faudrait « insister sur la dimension religieuse de [son] univers » plutôt que de « le réduire à son image de grand séducteur et d’essayiste politique ». Durant les quelque trente ans qui se sont écoulés entre l’édition princeps de cet ouvrage et la présente réédition, le contexte idéologico-politique a profondément changé et ce texte doit donc être lu sans jamais perdre de vue le moment où il fut écrit.

Deux écrivains individualistes et aristocratique : quatre grands thèmes

En 1978 donc, J. Hervier (JH) se propose d’étudier deux écrivains « d’esprit individualiste et aristocratique » qui ont accordé dans leur œuvre « une large place aux problèmes de la philosophie de l’histoire » qu’ils ont « transcrits en termes romanesques ». Son livre se décline selon quatre grands thèmes (la Guerre, la Politique, l’Individu et l’Histoire, la Religion), abordés sous différents aspects pour chacun des deux auteurs. 

  • La Guerre - Pour Jünger comme pour Drieu, la guerre est perçue comme une « loi naturelle », et la Première Guerre mondiale est « l’expérience fondamentale de leur jeunesse ». Rappelons seulement quelques titres. Pour le premier : Orages d’acier (1920), La guerre notre mère (1922), Le boqueteau 125 (1925), les journaux de guerre de 1939 à 1948… et cette sentence : « Le combat est toujours quelque chose de saint, un jugement divin entre deux idées ». Pour le second, les poèmes Interrogation (1917) et Fond de cantine (1920), et surtout le roman La comédie de Charleroi (1934). Pour Drieu, les hommes « ne sont nés que pour la guerre »
Jünger considère également la guerre comme « technique » et écrit à cet égard : « La machine représente l’intelligence d’un peuple coulée en acier », tandis que Drieu juge que « la guerre moderne est une révolte maléfique de la matière asservie par l’homme ».
Le livre de Jünger La guerre notre mère illustre parfaitement l’idéologie nationaliste qui régnait alors dans l’Allemagne meurtrie par la défaite, avec son exaltation du sacrifice suprême : mourir pour la patrie. Si, à cette époque, Drieu est sensible à cette idée de sacrifice patriotique, avec la Seconde Guerre mondiale il évoluera du nationalisme au pacifisme.

  • La politique - En matière de politique, les nationalistes que sont initialement Jünger et Drieu estimeront rapidement que le nationalisme est dépassé et qu’il doit évoluer, pour l’un vers l’État universel et pour l’autre vers une Europe unie. Tous deux cependant appellent à une révolution, « conservatrice » pour Jünger et « fasciste » pour Drieu. On connaît les engagements de ces deux intellectuels, mot que Drieu définit ainsi : « Un véritable intellectuel est toujours un partisan, mais toujours un partisan exilé : toujours un homme de foi, mais toujours un hérétique ». Pour l’auteur de Gilles, l’engagement est nécessaire, mais « difficile » et « ambigu ». Pour Jünger, l’engagement est paradoxal : « Ma façon de participer à l’histoire contemporaine, telle que je l’observe en moi, observe-t-il, est celle d’un homme qui se sait engagé malgré lui, moins dans une guerre mondiale que dans une guerre civile à l’échelle mondiale. Je suis par conséquent lié à des conflits tout autres que ceux des États nationaux en lutte ». Une chose est sûre, ces deux intellectuels sont des « spectateurs engagés », mais Jünger « préfère finalement refuser l’engagement – même si un remords latent lui suggère que, malgré tout, en s’établissant dans le supratemporel, il peut réagir sur son environnement politique » (JH), tandis que l’engagement de Drieu « est placé sous le signe du déchirement et de la mauvaise conscience ».

  • L’individu et l’histoire - L’individualisme est une caractéristique essentielle de la personnalité de Drieu (« Je ne peux concevoir la vie que sous une forme individuelle » avoue-t-il en 1921), comme de celle de Jünger pour qui c’est dans l’individu « que siège le véritable tribunal de ce monde ». Mais leur individualisme est à la fois semblable et différent. Le premier, « individualiste forcené » par tempérament et formation, « condamne historiquement l’individualisme comme une survivance du passé, tout en étant incapable d’y échapper dans ses réactions psychologiques personnelles » (JH), le second, individualiste exacerbé également, prononce la même condamnation historique, mais dépasse la contradiction en affirmant, par-delà le constat de la décadence de l’individualisme bourgeois, « la nécessité d’une affirmation individuelle qui fait de chacun le dernier témoin de la liberté » (id.). Devant l’Histoire, Jünger et Drieu ont des attitudes parfois proches et parfois opposées. Jünger la conçoit, à l’instar de Spengler, comme essentiellement cyclique : les civilisations naissent, se développent, déclinent et disparaissent. De fait, il s’oppose aux conceptions de l’Histoire héritées des Lumières comme à celles issues du marxisme. Il envisage cependant « une disparition probable de l’homme historique ». (JH).

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Drieu est fortement marqué par l’idée de décadence, son « pessimisme hyperbolique et métaphysique » dépasse le « déclinisme » de Spengler, mais, pour lui, il existe un « courant rapide » qui entraîne tout le monde « dans le même sens » et que « rien ne peut arrêter ». Il se rapproche donc, d’une certaine manière de la conception marxiste du « sens de l’histoire », mais va jusqu’à dire que l’Histoire, c’est ce « qu’on appelle aujourd’hui la Providence ou Dieu ».
Dans leurs « utopies romanesques », Jünger (Sur les falaises de marbre, Heliopolis) et Drieu (Beloukia, L’homme à cheval) procèdent de manière radicalement différente : le premier « part de l’histoire présente pour aboutir à l’univers intemporel de l’utopie », tandis que le second « part de l’histoire passée pour aboutir à l’histoire présente » (JH). Tous deux sont déçus par le présent, mais alors que Jünger « lui substitue un monde mythique », Drieu « l’invente dans le passé ».
Face au « problème de la technique », Jünger et Drieu estiment tous deux que celle-ci a détruit l’ancienne civilisation sans lui avoir jamais trouvé de substitut. La solution, selon eux, ne réside pas dans un simple retour en arrière, mais dans la création de quelque chose qu’on n’appellera plus « civilisation » et qui relèvera de « la philosophie, de l’exercice de la connaissance, du culte de la sagesse » (Drieu)

 

  • La religion - Après la Guerre, la Politique, l’Individu et l’Histoire, la dernière partie du livre est consacrée au rapport à la religion de Jünger et de Drieu, et c’est sans doute, pour le lecteur qui ne connaît pas l’ensemble de l’œuvre de ces deux auteurs, la plus surprenante. Un long chapitre traite de « la pensée religieuse de Drieu ». Celui-ci, vieillissant, délaissant les femmes, rejetant l’action politique, se tourne de plus en plus vers la religion. Il passe de « l’ordre guerrier » de sa jeunesse à « l’ordre sacerdotal », et écrit, aux abords de la cinquantaine, des « romans théologiques ». Il admire dans le catholicisme « un système de pensée complexe » et une religion qui « représente pour la civilisation d’Europe son arche d’alliance, le coffre de voyage à travers le temps où se serre tout le trésor de son expérience etde sa sagesse ». Toutefois, s’il vénère le christianisme sub specie æternitatis, il déteste ce qu’il est devenu, c'est-à-dire une religion « vidée de sa substance », muséifiée, et qui ne représente plus qu’« une secte alanguie », à l’image du déclin général de l’Occident. L’Église n’est plus qu’une institution bourgeoise liée au grand capitalisme. À ce « catholicisme dégénéré » (JH), Drieu oppose le christianisme « viril » du Moyen Âge, celui du « Christ des cathédrales, le grand dieu blanc et viril ». Ce dieu « n’a rien à céder en virilité et en santé aux dieux de l’Olympe et du Walhalla, tout en étant plus riche qu’eux en secrets subtils, qui lui viennent des dieux de l’Asie ». Pour Drieu, il n’y a pas de véritable antagonisme entre le christianisme et le paganisme, mais seulement une façon différente d’interpréter la Nature. À ses yeux, c’est le catholicisme orthodoxe qui a le mieux conservé l’héritage païen.. Mais, au-delà des différentes religions, païennes ou chrétiennes, Drieu croit profondément en une sorte de syncrétisme universel, celui d’« une religion secrète et profonde qui lie toutes les religions entre elles et qui n’en fait qu’une seule expression de l’Homme unique et partout le même ».
Pour Jünger comme pour Drieu, la dimension religieuse est fondamentale et « transcende toutes les autres » (JH). Mais, contrairement à Drieu, le mot même de « Dieu » est peu fréquent dans son œuvre, caractérisée pourtant par une vision spiritualiste du monde. De fait, il semble qu’il ait envisagé une « nouvelle théologie », sans lien véritable avec l’idée d’un Dieu personnel, relevant plus sûrement d’une « religion universelle », au sens où il parle d’« État universel ». L’ennemi commun des nouveaux théologiens comme des Églises traditionnelles demeure, en tout état de cause, le « nihilisme athée ». La sympathie générale qu’il éprouve pour toutes les religions relève davantage de sa philosophie de l’histoire que d’un véritable sentiment religieux, mais ne l’empêchera pas, tout au long de la Seconde Guerre mondiale, d’exprimer des préoccupations chrétiennes. Son journal de guerre comprend d’innombrables références à la Bible, dont il loue le « prodigieux pouvoir symbolique », tandis que Sur les falaises de marbre et Heliopolis mettent en scène deux importantes figures de prêtres. « Au temps de la plus forte douleur, écrit-il, le christianisme « peut seul donner vie au temple de l’invisible que tentent de reconstruire les sages et les poètes ». Pour lui, le christianisme est avant tout ce qui, dans notre civilisation, « incarne les valeurs religieuses permanentes de l’humanité » (JH). À ses yeux, le christianisme constitue un humanisme qui prône une haute conception de l’homme. Il n’en accepte pas moins le « Dieu est mort » nietzschéen qui, souligne-t-il, est « la donnée fondamentale de la catastrophe universelle, mais aussi la condition préalable au prodigieux déploiement de puissance de l’homme qui commence ». La mort de Dieu n’est pour lui que la mort des dieux personnels, elle n’est donc pas un obstacle à la dimension religieuse de l’homme. Au mot de Nietzsche, il préfère celui de Léon Bloy, « Dieu se retire », ce qui annonce l’avènement du Troisième Règne, celui de l’Esprit qui succèdera à ceux du Père et du Fils.
En matière de religion, Drieu et Jünger sont « étrangement proches et profondément différents » (JH). Tous deux défendent les religions contre le rationalisme tout-puissant, sont convaincus de l’évidence de la mort du Dieu personnel et donc de la nécessité de « reconstruire à partir d’elle une nouvelle forme d’appréhension du divin » (JH).

Un mélange détonnant

Ce qui ressort de cette étude comparative de Jünger et Drieu, « c’est le mélange détonnant qui se produit en eux entre un esprit réactionnaire incontestable et une volonté révolutionnaire ». Toutefois si Jünger est plutôt un national-bolchevique et Drieu un révolutionnaire fasciste, face au « bourgeoisisme » tous deux sont des révolutionnaires.

Julie Hervier a intitulé son travail : « Deux individus contre l’histoire ». Le mot « individu » prend ici tout son sens lorsqu’on comprend, après avoir refermé le livre, que Jünger et Drieu sont fascinés par la singularité de l’individu. Jünger incarne un individualisme métaphysique qui est le contraire de l’individualisme bourgeois que Drieu, dans sa mauvaise conscience, croit représenter. Tous deux aspirent à l’avènement d’une nouvelle aristocratie, mais pour Drieu il s’agit d’une aspiration essentiellement politique, alors que pour Jünger le but c’est la constitution d’une « petite élite spirituelle ». Dans sa postface, l’auteur de cette magistrale et admirable étude justifie a posteriori son titre de 1978 en rappelant et en se réclamant de la formule de Kafka : « Il n’y a de décisif que l’individu qui se bat à contre-courant ».

Didier Marc
11/06/2010

Julien Hervier, Deux individus contre l’Histoire. Pierre Drieu la Rochelle, Ernst Jünger. Eurédit, 2010, 550 p.

Correspondance Polémia – 22/6/2010

La collocazione geopolitica dell'Iran

La collocazione geopolitica dell’Iran

di Daniele Scalea

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

Quella che segue è la trascrizione dell’intervento di Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e autore de La sfida totale (Fuoco, Roma 2010), al convegno “L’Iran e la stabilità del Medio Oriente”, tenutosi a Trieste giovedì 3 giugno 2010 presso l’Hotel Letterario Victoria e co-organizzato dall’Associazione Culturale “Strade d’Europa” e da “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”.
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Le immagini sono le stesse che, proiettate nella sala, hanno accompagnato l’intervento originale.


 

Quest’intervento è composto da due parti distinte. La prima, e principale, sarà un inquadramento generale dell’Iràn nel contesto geopolitico globale e in particolare eurasiatico. La seconda affronterà invece il problema delle ultime e contestate elezioni presidenziali nella Repubblica Islamica.

Cominciamo dalla prima parte e, dunque, dalla collocazione geopolitica dell’Iràn.


 

Questa mappa, ripresa da un volume del geografo britannico Halford John Mackinder, mostra come i geopolitici classici, in particolare quelli anglosassoni, vedessero il mondo. La geopolitica classica centra la propria attenzione sul continente eurasiatico: infatti, in Eurasia si trovano la maggior parte delle terre emerse, della popolazione umana, delle risorse; e sempre in Eurasia sono sorte le principali civiltà della storia.

Il mondo è diviso in tre fasce, che dipartono concentriche proprio dal centro dell’Eurasia. Qui si trova la “area perno” (Pivot area) o “terra-cuore” (Heartland), la cui caratteristica è di essere impermeabile alla potenza marittima. Non ha infatti sbocchi sul mare (se si eccettua l’Artico, che non garantisce però collegamenti col resto del mondo), né vi è collegata neppure per via fluviale, in quanto i principali corsi d’acqua della regione sfociano nell’Artico o in mari chiusi. Nella Terra-cuore, pertanto, la potenza continentale non è contrastata da quella marittima.

La Terra-cuore è avviluppata da una seconda fascia, la “mezzaluna interna” (Inner Crescent), che percorre tutto il margine continentale eurasiatico dall’Europa Occidentale alla Cina, passando per Vicino e Medio Oriente e Asia Meridionale: per tale ragione è detta anche “terra-margine” (Rimland). Qui la potenza continentale e quella marittima tendono a controbilanciarsi l’un l’altra.

Infine, al di fuori dell’Eurasia, si staglia la terza ed ultima fascia, la “mezzaluna esterna” (Outer Crescent), che comprende le Americhe, l’Africa, l’Oceania e pure Gran Bretagna e Giappone. Essa è la sede naturale della potenza marittima, dove quella continentale non può minacciarla.

Secondo Mackinder, che scriveva all’inizio del Novecento, l’avvento della ferrovia avrebbe neutralizzato la superiore mobilità del trasporto marittimo, riequilibrando la situazione a favore della potenza tellurica (continentale, terrestre). John Spykman, mezzo secolo più tardi, ridimensionò il peso delle strade ferrate, sostenendo che la potenza talassica (marittima) manteneva il proprio vantaggio: la Terra-cuore è sì imprendibile per la talassocrazia (l’egemone sui mari), ma non può minacciare quest’ultima senza prima occupare la Terra-margine. Compito della talassocrazia – che in quegli anni, proprio come oggi, erano gli USA – è precludere il Rimland alla potenza continentale (allora l’URSS).


 

La strategia del contenimento, durante la Guerra Fredda, s’accorda con la visione del mondo della geopolitica classica. Contro un avversario che occupava l’Heartland (il riferimento è ovviamente all’URSS), gli USA talassocratici hanno messo in funzione un dispositivo che mantenesse sotto controllo il Rimland, impedendo a Mosca di raggiungere le coste continentali e proiettarsi sui mari. In tale dispositivo rientrano la NATO in Europa Occidentale, la CENTO nel Vicino e Medio Oriente, la SEATO in Asia Sudorientale e l’alleanza con Corea del Sud e Giappone (e in un secondo momento anche con la Cina) in Estremo Oriente.


 

Della CENTO, o Patto di Baghdad, faceva parte anche l’Iràn, oltre a Turchia, Iràq, Pakistan e Gran Bretagna (in qualità di ex padrone coloniale). Dalla cartina è facile individuare nella CENTO un anello della catena di contenimento che corre lungo tutto il Rimland.


 

Questa cartina mostra, semplificando un po’ la situazione, quelli che erano gli schieramenti nei primi decenni della contrapposizione bipolare in Vicino Oriente. Se Egitto, Siria e Iràq si erano avvicinati all’URSS, nella regione gli USA poggiavano sulla triade di potenze non arabe: Israele, Turchia e Iràn.


 

La Rivoluzione Islamica del 1979 pone fine all’alleanza tra Iràn e USA, pur senza portare Tehrān nel campo sovietico. Ciò rafforza il peso dei due perni superstiti, Turchia e Israele, ed anche il maggiore appoggio che Washington garantisce ai due paesi, ed in particolare a Tel Aviv. Dal canto loro tutti i paesi arabi, ad eccezione di Siria, Iràq e Yemen del Sud, seguendo il voltafaccia egiziano prendono più o meno tiepidamente posizione per gli Stati Uniti d’America, disperando della possibilità che l’appoggio sovietico possa apportare loro grossi benefici. Preferiscono puntare sull’avvicinamento a Washington, sperando che ciò possa spezzare la “relazione speciale” tra la Casa Bianca e Tel Aviv, e quindi ricevere una più equa mediazione nei confronti dello Stato ebraico. Speranza che rimarrà delusa.


 

Quest’immagine, ripresa da The Grand Chessboard di Zbigniew Brzezinski, mostra la visione del continente eurasiatico da parte degli eredi della geopolitica classica nordamericana. La Federazione Russa continua a mantenere una posizione centrale, pur ristretta rispetto all’epoca sovietica, mentre la Terra-margine è divisa in tre settori. Per ognuno di essi Brzezinski suggerisce una politica regionale a Washington.

A Occidente – ossia in Europa – si trova quella che Brzezinski definisce “la testa di ponte democratica”, ossia il pied-à-terre della talassocrazia nordamericana in Eurasia. L’integrazione europea pone una sfida agli USA: se dovesse fallire restituendo un’Europa frammentata e litigiosa, o se al contrario dovesse avere grosso successo creando un’Unione Europea monolitica e strategicamente autonoma, in entrambi i casi la presenza statunitense nella regione sarebbe messa in discussione. La soluzione prospettata da Brzezinski è quella di mettersi a capo dell’integrazione europea e dirigerla in modo che non leda gl’interessi nordamericani: esattamente quanto successo, con l’espansione della NATO a precedere ed indirizzare quella dell’UE, che ha demandato la propria sicurezza e guida strategica al capoalleanza d’oltreoceano.

A Oriente gli USA hanno ulteriori basi avanzate, in Giappone e Corea, che debbono mantenere ad ogni costo. Ma Brzezinski, memore di una delle mosse che ha deciso la Guerra Fredda, consiglia pure di coltivare i rapporti con la Cina, che potrebbe diventare per gli USA una seconda testa di ponte in Eurasia, pendant dell’Europa a oriente.

Infine c’è il Meridione, corrispondente al Vicino e Medio Oriente, dal Mediterraneo all’India.


 

In quest’area, Brzezinski ritiene che gli alleati naturali, anche se sovente involontari, della geostrategia statunitense siano Turchia e Iràn. Coi loro intenti panturanici la prima e panislamici la seconda, si proiettano nel Caucaso e nell’Asia Centrale controbilanciando l’influenza russa e frustrandone il tentativo di riconquistare quelle regioni alla propria area d’influenza. Questi “interessi competitivi” tra Turchia, Iràn e Russia, individuati da Brzezinski, corrispondono più alla situazione degli anni ’90 che a quella del decennio appena trascorso, in cui i tre paesi hanno privilegiato la soluzione “cooperativa” su quella “competitiva”.


 

Spostiamoci ora dal quadro propriamente geostrategico a quello energetico. La cartina schematizza la situazione dell’energia in Eurasia, individuando quattro regioni importatrici (Europa, Asia Orientale, Asia Meridionale e Asia Sudorientale) e quattro regioni esportatrici (Russia, Asia Centrale, Iràn, Vicino Oriente). Le quattro regioni produttrici potrebbero sostanzialmente ridursi a due: l’Asia Centrale non ha sbocchi sul mare, dipende dai paesi circostanti per lo smercio delle sue risorse, ed in particolare dalla Federazione Russa in ragione della rete d’oleodotti e gasdotti retaggio d’epoca sovietica; l’Iràn invece esporta molto meno del suo potenziale, come vedremo tra poco. Rimangono dunque la Russia e il Vicino Oriente, ma quest’ultimo è diviso in una pluralità di nazioni, spesso politicamente, economicamente e socialmente fragili. Ecco perché la Russia può essere individuata come la maggiore potenza energetica del continente eurasiatico (e del mondo).


 

Quest’immagine mostra come la rete delle condotte energetiche esistenti faccia perno sul territorio della Federazione Russa. In particolare, l’Asia Centrale dipende quasi totalmente da Mosca per l’esportazione dei propri idrocarburi verso l’Europa.


 

Gli USA hanno cercato d’inserirsi nella connessione Asia Centrale-Russia-Europa. Essa, infatti, crea un rapporto di interdipendenza tra i tre soggetti. In particolare, Mosca ne riceve importanti leve strategiche nei confronti dei paesi europei e centroasiatici. Il piano di Washington consiste nel creare nuove rotte energetiche dall’Asia Centrale all’Europa che scavalchino la Russia. Il primo importante progetto in tale direzione è stato l’oleodotto Bakù-Tblisi-Ceyhan. Aperto nel 2006, ha avuto un effetto meno dirompente di quanto s’attendessero gli Statunitensi: esso ha infatti raccolto il petrolio azero, ma solo in maniera marginale quello dei paesi centroasiatici.


 

Negli ultimi anni il gas naturale ha acquisito un’importanza crescente nel paniere energetico, e per questo i progetti più recenti si sono concentrati proprio sul trasporto del “oro blu”. Gli USA hanno rilanciato con l’ambizioso progetto del Nabucco che, partendo dalla Turchia, dovrebbe giungere fino in Austria, rappresentando un canale alternativo al transito sul territorio russo. Mosca non è però rimasta a guardare: i Russi hanno già avviato la costruzione del Nord Stream e si preparano a lanciare quella del South Stream; i due gasdotti, passando rispettivamente sotto il Baltico e il Mar Nero, scavalcheranno l’Europa Orientale (che ha creato diversi problemi al transito di gas russo) ed accresceranno sensibilmente il volume delle forniture russe all’Europa Occidentale.


 

Il Nabucco ha un grave punto debole: l’incertezza riguardo i bacini d’approvvigionamento da cui dovrebbe trarre il gas per l’Europa. A parte il gas azero, è probabile che lo riceverà dall’Egitto e dall’Iràq. Tuttavia, ciò potrebbe essere insufficiente rispetto alle ambizioni per cui verrà creato. Inoltre, il suo palese scopo geopolitico è sottrarre gas centroasiatico, ed in particolare turkmeno, al transito per la Russia. Ma il gas turkmeno ha sole due vie per poter arrivare a Erzurum: un ipotetico gasdotto transcaspico (cui s’oppongono due nazioni rivierasche – Russia e Iràn – e sulla cui possibilità di realizzazione tecnica permangono numerosi dubbi), oppure un transito sul territorio iraniano.


 

Ma il ruolo dell’Iràn rispetto al Nabucco potrebbe non essere soltanto quello d’un semplice canale di transito del gas turkmeno. Il paese persiano è già un grande esportatore di petrolio, ma potenzialità ancora maggiori le mostra rispetto al gas naturale, avendo riserve provate che sono le seconde più vaste al mondo. E sebbene sia il quinto maggiore produttore mondiale di gas, l’Iràn è a malapena il ventinovesimo esportatore. Ciò perché gran parte del gas prodotto viene consumato all’interno. Questa è una delle principali motivazioni del programma nucleare iraniano: soddisfare il fabbisogno energetico interno col nucleare, e liberare ingenti quantità di gas per l’esportazione. Esportazione che potrebbe passare proprio per il Nabucco, se si verificasse una distensione col Patto Atlantico.


 

Anche per scongiurare quest’eventualità, la Russia si è prodigata a sponsorizzare il progettato gasdotto Iràn-Pakistan-India. Rivolgendo verso oriente il gas iraniano, Mosca s’assicura di rimanere la principale ed imprescindibile fornitrice energetica dell’Europa. Tehrān e Islamabad hanno già avviato la costruzione dei rispettivi tratti, mentre Nuova Dehli, complici anche le pressioni di Washington, è ancora titubante. I Pakistani hanno offerto ai Cinesi di prendere il posto degl’Indiani; per ora Pechino non ha né accettato né rifiutato.


 


In questa fase il Vicino Oriente sembra stia vivendo una nuova polarizzazione. Rispetto a quella della Guerra Fredda, il ruolo degli attori strategici esterni è inferiore rispetto a quello dei paesi locali, ma non per questo trascurabile. L’ascesa dell’Iràn intimorisce molti paesi arabi, in particolare quelli del Golfo, che assieme a Giordania e Egitto hanno ormai concluso un’alleanza “inconfessata” con Israele, ovviamente benedetta dagli USA. L’Iràn, oltre all’alleato siriano e ad un paio di paesi in bilico (Iràq e Libano) sembra poter contare anche sulla Turchia: un paese che possiede proprie ambizioni di egemonia regionale, ma in questa fase ha scelto la cooperazione con l’Iràn. Questo secondo blocco coltiva buoni rapporti con la Russia e la Cina.


 


Passiamo quindi alla seconda parte di quest’esposizione, che concerne le elezioni presidenziali iraniane del 2009. In particolare, si cercherà di capire se davvero esse siano state viziate da brogli decisivi, ovvero se la vittoria di Ahmadinejad possa considerarsi sostanzialmente genuina. Ci si appoggerà alle risultanze d’una mia ricerca più particolareggiata, di cui riporterò solo alcuni dati più significativi tralasciando i calcoli intermedi ed altre argomentazioni accessorie – che si potranno comunque leggere consultando la ricerca stessa, che sarà citata in conclusione.


 


Questi sono i contestati risultati ufficiali delle elezioni. La prima cosa che balza all’occhio sono gli oltre 11 milioni di voti di scarto tra Ahmadinejad ed il secondo classificato, Musavì. In un paese in cui ogni seggio vede presenta osservatori indipendenti e dei vari candidati (compresi quelli sconfitti: in particolare, Musavì aveva più osservatori di Ahmadinejad) appare estremamente improbabile se non impossibile pensare ad una manomissione tanto massiccia delle schede già nei seggi. Non a caso, gli stessi oppositori di Ahmadinejad che hanno denunciato i presunti brogli propendono sempre per la tesi che i risultati siano stati semplicemente riscritti a tavolino dalle autorità. Anche se il riconteggio parziale delle schede in alcune delle circoscrizioni dai risultati più controversi ha confermato le risultanze iniziali, l’ipotesi dei brogli ha mantenuto ampio credito in tutto il mondo.


 


Eppure i risultati delle elezioni erano in linea con quanto predetto dalla maggior parte degli osservatori e dei sondaggi. Pur non fidandosi dei sondaggi d’opinione iraniani, ce n’è uno, molto significativo, che è stato realizzato con tutti i crismi di scientificità da tre importanti organizzazioni statunitensi: il centro Terror Free Tomorrow (non sospettabile d’essere benevolo verso Ahmadinejad, avendo tra i suoi consiglieri anche il senatore John McCain), il prestigioso istituto New America Foundation e la ditta di ricerche di mercato KA, tra i leaders mondiali del settore. Questo sondaggio, pur registrando un alto numero d’indecisi, mostrava una propensione di voto verso Ahmadinejad relativamente più alta, rispetto aMusavì, di quella effettivamente registratasi alle elezioni.


 


C’è un altro dato molto significativo. Se si sostituisse Musavì del 2009 col candidato Rafsanjani che nel 2005 sfidò Ahmadinejad al ballottaggio, si scoprirebbe che i risultati delle ultime due elezioni presidenziali in Iràn sono quasi coincidenti. Si tenga presente che nel 2005 in Iràn governava Khatamì, che alle ultime elezioni ha sostenuto Musavì, proprio come Rafsanjani.


 


Secondo taluni commentatori, una “prova” di brogli sistematici alle elezioni del 2009 sarebbe l’eccessiva uniformità di voto da provincia a provincia. L’evidenza aritmetica, tuttavia, mostra che il voto del 2009 è stato più difforme localmente rispetto a quello del 2005 (che, ricordiamo, si è svolto sotto un governo “riformista”, retto dagli attuali avversari politici di Ahmadinejad).


 


La difformità locale del voto in Iràn nel 2009 è nettamente superiore a quella registratasi, ad esempio, alle elezioni italiane del 2008 – che però non per questo sono state tacciate d’invalidità.


 


Alì Ansari, ricercatore della londinese Chatham House, ha individuato 10 province (su un totale di 30) in cui i voti ottenuti da Ahmadinejad sarebbero improbabili rispetto ai risultati del 2005. Ansari, al pari di molti sostenitori della tesi dei brogli, adotta sempre come metro di confronto il primo turno del 2005. Ciò è scorretto, poiché il quadro politico era completamente differente. Innanzitutto, nel 2005 non c’era un presidente uscente candidato – che invece nel 2009 era proprio Ahmadinejad – e perciò la contesa appariva più plurale: nel 2005 ben cinque candidati superarono il 10% dei voti al primo turno. La situazione registratasi nel 2009, con soli 4 candidati e la netta polarizzazione di voti sui due principali, richiama palesemente il secondo turno e non il primo del 2005. Rifacendo i calcoli di Ansari basandosi appunto su un raffronto col ballottaggio del 2005, e riconoscendo a Ahmadinejad il 61,75% dei nuovi votanti (ossia la percentuale che ottenne nel 2005), si nota che in 2 delle 10 province Ahmadinejad è addirittura in calo. In altre 4 ha incrementi percentuali inferiori al 10%; solo in 4 i suoi voti sono aumentati di più del 10%, con un picco in Lorestan del 17,72%. Vanno qui fatte due precisazioni: i voti guadagnati in queste 4 province, anche volendo ammettere che siano tutti fraudolenti, ammontano a poco più di mezzo milione, a fronte d’uno scarto complessivo su Musavì d’oltre 11 milioni di voti. In secondo luogo, non è scontato che incrementi anche così significativi non possano essere genuini. Riprendendo il confronto col caso italiano, si può osservare che – ad esempio – i partiti del Centro-destra (compreso l’UDC, che nel frattempo aveva abbandonato la coalizione) nella circoscrizione “Campania 1” ebbero un incremento percentuale dei consensi pari a quasi il 10% in soli due anni (dal 2006 al 2008). I flussi elettorali esistono, e non sono necessariamente indice di brogli diffusi.


 


Queste sono le indicazioni per chi volesse approfondire i temi qui trattati, o conoscere le fonti delle affermazioni appena fatte.


 


Per un quadro generale della politica internazionale odierna e recente, si rimanda al libro, da poco edito per i tipi di Fuoco Edizioni, La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali.


* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco, Roma 2010).

Fraglich, ob der G20-Gipfel die richtigen Lehren aus der Krise zieht

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Fraglich, ob der G20-Gipfel die richtigen Lehren aus der Krise zieht

 

EU muß Finanztransaktionssteuer notfalls im Alleingang einführen – US-Kritik am Sparkurs der EU-Staaten ist offenbar von egoistischen Motiven getragen

Die Europäische Union müsse bei den am Wochenende in Kanada stattfindenden G8- und G20-Gipfeln mit Nachdruck auf eine weltweite Finanztransaktionssteuer sowie auf eine stärkere Regulierung der internationalen Finanzmärkte drängen, forderte heute der freiheitliche Delegationsleiter im Europäischen Parlament, Andreas Mölzer. „Aus der Finanzkrise, die mittlerweile zu einer Schuldenkrise geworden, sind die richtigen Lehren zu ziehen. Das internationale Spekulantentum, das zu einem Gutteil für den Ausbruch der Krise verantwortlich ist, ist in die Pflicht zu nehmen“, betonte Mölzer.

Weil aber aller Voraussicht nach beim G20-Gipfel keine Einigung über eine Finanztransaktionssteuer und stärkere Regulierung der Finanzmärkte erzielt werde, müsse die EU, so der freiheitliche EU-Mandatar, notfalls im Alleingang vorgehen. „Hier geht nach der von Ankündigungen, die in der Vergangenheit gemacht wurden, um die Glaubwürdigkeit der Europäischen Union. Die Bürger, die um ihre Arbeitsplätze zittern, erwarten sich zu Recht konkrete Ergebnisse“, erklärte Mölzer.

Weiters nahm der FPÖ-Europa-Abgeordnete zur Kritik der USA am Sparkurs der EU-Staaten Stellung: „Diese Kritik ist nicht nur unverständlich, sondern auch von egoistischen Motiven getragen. Offensichtlich geht es den Amerikanern darum, daß die Europäer auch weiterhin die US-Wirtschaft stützen. Wenn die USA mit dem Schuldenmachen fortfahren wollen, dann ist das ihre Sache – aber sie sollen es nicht von den anderen verlangen“, schloß Mölzer.

vendredi, 02 juillet 2010

"Aristote au Mont Saint Michel: les racines grecques de l'Europe chrétienne" de Sylvain Gouguenheim

« Aristote au mont Saint-Michel : Les racines grecques de l'Europe chrétienne » de Sylvain Gouguenheim

 

Ex: http://www.polemia.com/

gouguenheim.jpgL’ouvrage de Sylvain Gouguenheim, divisé en cinq chapitres, aborde dans l’introduction la question de la situation respective de l’Orient et de l’Occident. Il fait le point sur la survivance de la Grèce dans le vaste empire romain, devenu chrétien byzantin, où les Chrétiens s’étaient divisés en plusieurs Eglises, Nestoriens en Perse de langue syriaque, Jacobites en Syrie de langue syriaque, Melkites en Egypte et Syrie de langue grecque, Coptes en Egypte de langue issue de l’ancien parler pharaonique. Quant au monde oriental, l’hellénisme prit sa source dans l’Antiquité tardive, les auteurs néoplatoniciens plutôt que par la redécouverte du classicisme athénien. Ensuite sont passées en revue les deux opinions courantes, admises de nos jours bien que contradictoires :

  • 1° procédant d’une confusion entre les notions d’« arabe » et de « musulman », la dette grecque de l’Europe envers le monde arabo-musulman aurait repris le savoir grec et, le transmettant à l’Occident, aurait provoqué le réveil culturel de l’Europe ;
  • 2° procédant toujours de la même confusion, les Musulmans de l’époque abbasside (l’«Islam des lumières »), dans leur fébrilité pour la recherche, auraient découvert l’ensemble de la pensée grecque qu’ils auraient traduite en arabe, avant de la transmettre à l’Europe par le truchement de l’Espagne par eux occupée puis libérée. Parallèlement, la Chrétienté médiévale serait demeurée en retard, plongée dans un âge d’obscurantisme.

Byzance, réservoir du savoir grec

Or Byzance, la grande oubliée des historiens de l’héritage européen, fut le réservoir du savoir grec, qu’elle diffusa dans toutes ses possessions italiennes comme à Rome où la connaissance de la langue grecque n’avait jamais disparu.
Dans un premier chapitre, l’auteur étudie la permanence de la culture grecque, relayée à ses débuts par le Christianisme d’expression grecque (Evangiles et premiers textes). En outre, dès le Ve siècle, Byzance connut une grande vague de traductions du grec en syriaque, opérées par les Chrétiens orientaux, faisant coexister la foi au Christ et la paideia antique, véhiculée ensuite par des auteurs tels que Martianus Capella et Macrobe, comme l’a fort bien démontré A. Vernet, par les traductions et commentaires de Platon, composés par Calcidius (cosmologie) dès les années 400, et d’Aristote, composés par Boèce (logique et musique). La pensée grecque est aussi présente chez les Pères, chez les prélats d’Italie du sud, grands intellectuels, importée aussi par les Grecs syriaques chassés d’Orient par l’iconoclasme byzantin et par la conquête arabe, pour ne parler que des manuscrits apportés d’Orient en Sicile (Strabon, Don Cassius…), comme le démontrent les travaux de J. Irigoin : autant de régions de peuplement et de culture grecque, noyaux de diffusion à travers toute l’Europe.
• La conquête musulmane de la Sicile (827) porta un coup dur à ce mouvement : monastères et bibliothèques incendiés ou détruits, habitants déportés en esclavage, dont les rescapés vont en Campanie ou dans le Latium pour y fonder des abbayes (Grotta Ferrata). Les reconquêtes byzantines puis normandes restaureront la tradition hellénique.
• A Rome, qui avait connu une forte immigration de Grecs et de Levantins fuyant les persécutions perses et arabes, tous les papes, entre 685 et 752, seront grecs ou syriaques, et fonderont des monastères grecs. Pendant des siècles des artistes byzantins (fondeurs de bronze, mosaïstes) viennent en Italie, appelés par de grands prélats, pour orner cathédrales et abbatiales. En Germanie, la cour de l’empereur Otton II, époux de Théophano, ouvre une période de renaissance de la langue et de la culture grecques. Puis son fils Otton III attirera beaucoup de Grecs venus d’Italie du sud, qui occuperont des sièges importants dans l’Empire et l’Eglise (dont l’un des plus célèbres est Rathier de Vérone), y apportant souvent des textes de mathématique et d’astronomie : parmi eux Siméon l’Achéen, militaire byzantin, qui combattit aux côtés de Guillaume le Libérateur à La Garde-Freinet, libérant ainsi définitivement la Provence de l’invasion musulmane. Les élites du Maghreb, juifs et chrétiens, s’enfuient et se réfugient en Espagne.
• En France , les contacts entre Francs et Byzantins s’intensifient avec Pépin le Bref. Les Carolingiens reçoivent des manuscrits d’Aristote et de Denys l’Aréopagite. Leur entourage compte nombre d’hellénistes. Charlemagne lui-même comprenait le grec. Sous Louis le Pieux deux ambassades byzantines (824 et 827) apportent le corpus du Pseudo-Denys, que traduisit l’abbé de Saint-Denis, Hilduin, même si cette traduction passe pour avoir été fort médiocre ; traduction que l’empereur Charles le Chauve devra charger le savant helléniste Jean Scot Erigène, auteur lui-même de poèmes en grec, de réélaborer

Les centres de diffusion de la culture grecque en Europe

L’exposé sur les centres de diffusion de la culture grecque en Europe dans les siècles postérieurs est trop long et répétitif : les princes normands de Sicile encouragèrent le monachisme grec, et l’on pourrait ajouter que leur chancellerie expédiait leurs actes en quatre langues, grec, latin, arabe, normand. A Rome, le haut clergé parle grec. Le Latran, riche d’une immense bibliothèque, diffuse partout des œuvres grecques. Anastase le bibliothécaire, helléniste réputé, fut ambassadeur à Byzance. De Rome, la langue et la culture grecques se diffusèrent dans les pays anglo-saxons : Bède le Vénérable (+ 735) lisait le grec ; Aldhelm de Canterbury (+709), d’une très haute culture classique, enseigna la langue grecque à saint Boniface. Quant à l’Irlande, grand foyer d’hellénisme, outre Jean Scot, ses savants diffusèrent leur savoir dans toute l’Europe du nord, jusqu’à Milan. Pour l’Espagne, la Catalogne surtout offre des textes d’Aristote et des néoplatoniciens, dans les manuscrits desquels on peut remarquer des alphabets et des essais de plume en grec : ajoutons que le même phénomème s’observe aussi dans nombre de manuscrits conservés en France.

L’auteur accorde un grand chapitre à la médecine, domaine dans lequel le rôle joué par les savants musulmans a été particulièrement exalté. Raymond Le Coz, dans son ouvrage  Les chrétiens dans la médecine arabe  (Paris, L’Harmattan, 2006) a fait justice de cette opinion. Il souligne lui aussi le rôle primordial des chrétiens du Proche-Orient : Nestoriens, Jacobites, Melkites, Coptes, qui traduisirent les textes grecs bien avant l’arrivée de l’Islam. R. Le Coz insiste sur l’héritage byzantin qui imposa les ouvrages de Galien, la place éminente de l’Ecole d’Alexandrie dont l’une des plus grandes figures est Oribase, auteur d’une encyclopédie en soixante-dix livres, rapportant en outre de nombreux textes de ses prédécesseurs. Cette école, brillant encore avec Ammonius (VI° s.) puis Jean Philipon, fut remplacée au VIIIe siècle par celle de Bagdad où Nestoriens et Jacobites transmettront, par leurs traductions en langue arabe, aux musulmans leurs connaissance du savoir grec. Les Nestoriens seront d’ailleurs les médecins des califes de Bagdad et donneront naissance à la figure du « philosophe médecin, souvent astronome, astrologue ou alchimiste, si caractéristique de tout le moyen-âge, arabe et occidental ». Chez les Latins, dès le VIe siècle et grâce à Cassiodore, on connait les travaux de Soranos, médecin grec d’Ephèse (II° s.), Hippocrate, Galien, Dioscoride et Oribase. Puis ces textes circulent dans les abbayes d’Italie du nord et du sud, où la pratique du grec ne cessa jamais : Salerne, le Mont-Cassin, de si brillante réputation que de hauts personnages du nord de l’Europe viennent s’y faire soigner, avec les œuvres de Garipontus et Petrocellus. Quant au célèbre Constantin l’Africain (+1087), sa biographie nous informe qu’il apprit la médecine à Kairouan ou au Caire : on ne peut donc savoir quelles ont été ses sources, bien que, selon Pierre Diacre, il aurait été aussi formé aux disciplines grecques d’Ethiopie : il traduisait directement du grec ou de l’arabe en latin.

Le XIIe siècle, renouveau des études à partir de sources antiques

S’attardant sur la Renaissance carolingienne, l’Académie du Palais de Charlemagne, sur Richer de Reims qui aurait enseigné la médecine grecque, Gouguenheim, suivant un plan chronologique un peu confus, dresse un tableau de la Renaissance du XII° siècle, où le renouveau des études puise à la source de la culture antique : traductions d’œuvres scientifiques d’optique, de mécanique dans toute l’Europe, impulsées par l’Ordre de Cluny et son abbé Pierre le Vénérable. Mais pour tous ces savants, peut-on affirmer qu’ils ont tous travaillé sur des traductions directes et que leurs connaissances sont en totalité indépendantes des travaux arabo-musulmans ?
La circulation directe des textes de Byzance en Italie, vers la France et l’Empire mériterait, pour ces époques, d’être mieux connue, mieux étudiée. Quoiqu’il en soit, grâce à la réforme grégorienne, au renouveau du droit, de la philosophie politique, de la pratique rénovée de la dialectique, partout en Europe et en toutes matières, on constate un regain de l’influence et de l’imitation de l’Antique, la pratique et la découverte de textes grecs et latins. L’abbé Suger de Saint-Denis ne faisait-il pas l’admiration de ses moines grecs parcequ’il récitait de mémoire plus de trente vers d’Horace ? On découvre le livre II de la Logique d’Aristote, l’harmonie du monde de Platon à travers l’étude de la nature (Guillaume de Conches, Hugues de Saint-Victor), des œuvres de Cicéron. La mythologie païenne sert de support à la méthode allégorique d’exégèse de l’Ecriture. L’activité de traduction s’intensifie à Tolède, Palerme, Rome, Pise, Venise, en Rhénanie, à Reims, Cluny, au Bec-Hellouin, au Mont-Saint-Michel. Les Antiques sont les géants de Bernard de Chartres. Tous ces faits sont bien connus et ils témoignent d’une ouverture extraordinaire au savoir antique grec et latin, mais ils ne constituent pas une preuve exclusive d’un transfert directe de cette culture d’orient en occident.
Dans un deuxième chapitre, l’auteur revient, de façon quelque peu redondante, sur la diffusion du savoir grec par Byzance et la chrétienté d’orient, du VIe au XIIe siècle, rappelant les voies et les hommes qui ont permis la continuité avec le monde occidental depuis l’époque classite que. Le chapitre III est la justification du titre de l’ouvrage : l’Europe a recherché elle-même, et non reçu passivement l’héritage antique, grâce aux moines de ses grandes abbayes qui en firent des traductions directes. L’auteur donne une place centrale à l’abbaye du Mont-Saint-Michel où Jacques de Venise, arrivé au début du XIIe siècle, traduisit du grec en latin de nombreux textes d’Aristote, bien avant les traductions faites à Tolède à partir de textes en arabe. Une antériorité sur laquelle on aurait aimé que l’auteur insistât davantage. Le séjour de Jacques de Venise au Mont-Saint-Michel est contesté par certains historiens. Robert de Torigny, abbé en 1154, témoignera seulement de lui comme traducteur et commentateur vers 1125, mais la présence de ses traductions dans des manuscrits de la bibliothèque d’Avranches n’est sans doute pas due au hasard. La question, au reste, est de peu d’importance : son œuvre demeure et fut largement diffusée, à Chartres, Paris, en Angleterre, à Bologne et à Rome. Jean de Salisbury, dans le Metalogicon, utilise pour la première fois tous les écrits de l’Organon, peut-être dans la traduction de Jean de Venise.

Arabité et islamisme

Le chapitre IV est consacré à la nature de la réception des textes grecs par les arabes musulmans. L’opinion commune leur attribue une appropriation totale du savoir grec. Or l’auteur met de nouveau en garde, comme le fait R. Le Coz pour la médecine, contre la confusion entre arabité et islamisme. Le « monde musulman », alors dominant, comportait beaucoup de savants chrétiens, juifs, sabéens, parmi lesquels nombreux étaient des Arabes, arabisés, Persans convertis. Or auparavant les Arabes furent mis en contact dès l’époque ummayyade avec le monde grec et lui furent hostiles. Une grande partie de l’élite byzantine prit la fuite. S’il n’est pas démontré que le calife Umar II a lui-même ordonné l’incendie de la bibliothèque d’Alexandrie, du moins est-ce bien lui qui mit un terme à l’enseignement des sciences dans cette ville, « décision tout à fait conforme à ce que l’on connait du personnage » (R. Le Coz). La destruction de centres de culture aussi célèbres que le Mont Athos, Vatopédi, les raids incessants lancés par les califes en Sicile, au Mont-Cassin, à Rome et jusqu’au nord de la Gaule, aux VIII et IXe siècles, suffisent, dit l’auteur, à « démontrer le peu de goût des peuples musulmans pour la civilisation greco-latine ». Quant à la tradition de la « Maison de Sagesse », qui aurait regroupé des savants de toutes confessions et toutes disciplines, elle repose sur un texte beaucoup plus tardif rapportant la vision d’Aristote qu’aurait eue en songe le calife Al-Mamun, dont la bibliothèque ne fut ouverte, selon le témoignage d’un Musulman, qu’aux spécialistes du coran et de l’astronomie. L’auteur insiste sur les difficultés d’une traduction du grec en arabe : pour la langue, la pensée, dont les musulmans font passer les mots au filtre du coran, le raisonnement, au service exclusif de la foi. Quant à la médecine, R. Le Coz a démontré (dans  Les médecins nestoriens. Les maîtres des Arabes, Paris, L’Harmattan, 2003) que l’Islam n’a rien apporté. En philosophie, la logique aristotélicienne, passée au tamis du néoplatonisme, ne fut appliquée, par le mouvement de la Falsafa, que pour une exégèse rationnelle du Coran.

Averroès, islamiste pur et dur

Le parti le plus orthodoxe de l’Islam prit, à partir du IXe siècle, un aspect guerrier, contre la Trinité des chrétiens et le Dieu vengeur des Juifs. Son meilleur représentant est Averroès, médecin et juriste, qui prêcha à Cordoue le djihad contre les chrétiens : pour lui, l’étude de la Falsafa doit obéir aux principes de la chari’a (loi religieuse). De plus, la philosophie doit être interdite aux hommes du commun. Averroès, élitiste, ne fut ni athée ni tolérant. Pour ce qui est de la science politique, jamais l’Islam n’eut recours au système juridique greco-romain. La « Politique » d’Aristote ne fut jamais traduite en arabe : elle leur fut totalement étrangère. L’Islam n’a retenu des Grecs que ce qui leur était utile et ne contrevenait aux lois du Coran : sciences naturelles et médecine, tandis que la théologie chrétienne fut peu à peu pénétrée par la philosophie qui l’amena à évoluer.

Deux civilisations, deux cultures

Au dernier chapitre, l’auteur soulève la question de l’ouverture de l’Islam aux autres civilisations. Sauf quelques rares exceptions, ce ne fut, pendant tout le moyen-âge, qu’un long face à face de deux mondes radicalement différents, le plus souvent opposés. Comme nous le rappelle R. Le Coz, les Arabes conquérants ont toujours dédaigné apprendre la langue des pays conquis, puisque leur propre langue était celle de Dieu lui-même, celle de la Révélation. Evoquant la scission en Méditerranée, opérée par l’Islam, entre l’Occident et Byzance, et l’orientation consécutive de l’Europe vers le nord, l’auteur aurait pu invoquer aussi l’origine ethnique des Francs, qui marqua fortement les changements culturels. Pour une étude comparative dans le domaine de la transmission de l’une et l’autre culture, il est évident que l’Islam n’est pas un espace défini, que ces peuples auraient occupé pour s’y fondre, mais une culture fondamentalement religieuse, constituée par conquêtes successives, dans laquelle la politique et le droit (fiqh) dépendent strictement de la religion. En outre, les longs siècles de conflits violents étaient peu compatibles avec des échanges scientifiques. Il est tout aussi indéniable que le Christianisme est né et plonge ses racines dans un univers grec. L’usage de la liturgie grecque à Saint-Jean du Latran comme dans les grandes abbayes de Germanie et de France, de toute antiquité et pas seulement à partir du XIIe siècle, en est une preuve irréfutable. Deux civilisations fondées sur des religions contradictoires à vocation universelle ne pouvaient s’interpénétrer, à moins que l’une s’impose à l’autre, comme ce fut le cas pour l’Egypte et le Maghreb. C’est pourquoi, conclue l’auteur, une culture, stricto sensu, peut à la rigueur se transmettre, non une civilisation.

En conclusion

Sylvain Gougenheim rappelle que la quasi-totalité du savoir grec avait été traduite tout d’abord en syriaque, puis du syriaque en arabe par les Chrétiens orientaux, ce que confirme R. Le Coz dans le domaine médical : « comment les Arabes ont-ils pu connaître et assimiler cette science qui leur était étrangère…il a fallu des intermédiaires pour traduire les textes de l’Antiquité et initier les nouveaux venus à des techniques dont ils ignoraient tout. Les intermédiaires nécessaires ont été les chrétiens, héritiers de Byzance, qui vivaient dans le monde soumis à l’Islam et qui avaient été arabisés ». Quant aux occidentaux, outre leur propre tradition de savoir grec, ils bénéficièrent aussi de l’apport de ces chrétiens grecs et syriaques chassés d’orient, de l’Ecole d’Alexandrie, comme le confirment les études de J. Irigoin. Toutes ces données, solidement étayées, autorisent l’auteur à inscrire les racines culturelles de l’Europe dans le savoir grec, le droit romain et la Bible.

L’annexe 1, qui fait, semble-t-il, couler beaucoup d’encre, est consacré au livre de l’orientaliste Sigrid Hunke, « Le Soleil d’Allah », polémique s’il en est, qui occupe, comme celui de M. Detienne, peu de place dans le débat dans la mesure où cet écrit, faisant écho à une idéologie aujourd’hui en vogue, n’est mû que par des arguments passionnels, voire racistes : il est donc sans intérêt.

L’héritage grec a été transmis à l’Europe par voie directe

L’ouvrage de Sylvain Gouguenheim, comme son titre l’indique, s’attache à démontrer que l’héritage grec a été transmis à l’Europe par voie directe, indépendante de la filière arabo-musulmane, tout en reconnaissant à la science musulmane la place qui lui est historiquement et chronologiquement due. Le livre est, avouons-le redondant, prolixe, parfois touffu. Partant de l’opinion commune, la démonstration se perd dans des excursus et des retours en arrière trop longs, des synthèses aussitôt reprises dans le détail, dans lesquels le lecteur a parfois du mal à retrouver le fil conducteur. L’auteur a voulu, de toute évidence, étant donnée la sensibilité du sujet, apporter le maximum de preuves à des faits qui, pour la plupart, sont irréfutables. L’ouvrage présente, il est vrai, un foisonnement cotoyant parfois la confusion. Certaines argumentations en revanche auraient mérité un plus grand développement, par exemple sur la science biblique, les Pères grecs et latins, l’Ecole d’Alexandrie. Cette étude a donc suscité de violentes polémiques, largement relayées par l’historien philosophe allemand Kurt Flasch, signataire d’une pétition la condamnant, mais reconnaissant aussitôt que « depuis 1950 la recherche a établi de façon irréfutable la continuité des traditions platonicienne et aristotélicienne. Augustin était un fin connaisseur du néoplatonisme qu’il ne distinguait pas du platonisme. Donc, le socle grec de la culture européenne et occidentale est incontestable ». Alors, où est le problème, et pourquoi cette polémique ? Elle repose, nous l’avons dit, sur plusieurs malentendus : la confusion entre « arabe » et « musulman », la notion de « racines », qui renvoie essentiellement aux hautes époques, l’absence de distinction nette entre la connaissance d’Aristote et celle de l’ensemble du savoir grec. Les musulmans abbassides promurent en leur temps et à leur tour la tradition grecque dans certaines disciplines, essentiellement scientifiques. Nulle part l’auteur ne nie que l’Islam ait conservé et fait progresser ces disciplines, cependant toujours passées au filtre du Coran, dont l’Occident a ensuite bénéficié. Cet ouvrage est un travail de grande synthèse, on ne peut lui demander d’être, dans tous les domaines, à la fine pointe de la bibliographie, laquelle est d’ailleurs sélective. Il présente, quant à la forme, quelques irrespects concernant les règles éditoriales, fautes vénielles dont nul ne peut prétendre être exempt. Quant au fond, les preuves apportées sont nécessaires et suffisantes. Celle que l’on pourrait y ajouter est fournie par la longue fréquentation des manuscrits médiévaux, et mieux encore, le fichier du contenu des bibliothèques médiévales d’occident, élaboré par A. Vernet tout au long de sa carrière et aujourd’hui déposé à l’Institut de Recherche et d’Histoire des textes : on peut y constater qu’en effet la culture européenne ne doit pas grand’chose à l’Islam.

Il faut reconnaître à Sylvain Gouguenheim le mérite d’être allé à contre-courant de la position officielle contemporaine, d’avoir fourni aux chercheurs un gros dossier qui décape les idées reçues : une étude vaste, précise et argumentée, qui fait preuve en outre d’un remarquable courage.

Françoise Houël Gasparri
Chartiste, médieviste
Auteur de nombreux ouvrages, dont notamment :
Crimes et Chatiments en Provence au temps du Roi René , Procédure criminelle au XVe siècle, Paris, éditions Le Léopard d’or, 1989 ; Un crime en Provence au XVe siècle, Paris, Albin Michel, 1991

Correspondance Polémia – 28/06/2010

Les intertitres sont de la rédaction.

Voir : « Le retour à l’identité »

Sylvain Gouguenheim, Aristote au Mont-Saint-Michel. Les racines grecques de l’Europe chrétienne. Paris, Le Seuil (l’Univers historique), 2008, 285 pages.

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Le basi militari della NATO in Sudamerica: un'invasione coordinata

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

di Hugo Rodríguez

Fonte: eurasia [scheda fonte]

 

Le basi militari della NATO in Sudamerica: un’invasione coordinata

Il presente articolo espone uno sguardo più comprensivo del coordinamento militare degli USA e del Regno Unito nella regione sudamericana. Negli ultimi due anni gli analisti locali hanno molto insistito sulla presenza americana senza mai menzionare una delle basi militari più grandi del mondo appartenente agli USA (Comando Sud) e, men che meno, senza riconoscere il ruolo e la complementarità che le stesse hanno da un punto di vista storico e fattuale nei riguardi della presenza militare del Regno Unito nella nostra terra e nelle nostre acque.

In questo primo lavoro che vi presentiamo, vogliamo solo evidenziare la localizzazione di tutte le basi (attuali e storiche); lasciando per successive illustrazioni la specifica analisi del Consiglio di Sicurezza dell’UNASUR, le analisi dei Ministeri della Difesa della regione, i loro principali successi e insuccessi.

Prendendo come spunto la ricerca effettuata dall’équipe giornalistica di TeleSur e con l’informazione ufficiale del Regno Unito e del Comando Sud degli Stati Uniti, ho sviluppato il seguente schema che evidenzia tutte le basi militari della NATO attualmente presenti in Sudamerica.


 

Base Militare

Localizzazione

Invasore

Organo Militare Superiore

Malvine

Argentina

GB

NATO

George

Argentina

GB

NATO

Sandwich

Argentina

GB

NATO

Tristán de Cuña

Oceano Atlantico

GB

NATO

Santa Helena

Oceano Atlantico

GB

NATO

Ascensión

Oceano Atlantico

GB

NATO

Estigarribia

Paraguay

USA

NATO

Iquitos e Nanay

Perù

USA

NATO

Tres Esquinas Colombia

USA

NATO

Larandia

Colombia

USA

NATO

Aplay

Colombia

USA

NATO

Arauca

Colombia

USA

NATO

Tolemaida

Colombia

USA

NATO

Palanquero

Colombia

USA

NATO

Malambo

Colombia

USA

NATO

Aruba

Antillas

USA

NATO

Curaçao

Antillas

USA

NATO

Roosevelt

Puerto Rico

USA

NATO

Liberia

Costa Rica

USA

NATO

Guantánamo

Cuba

USA

NATO

Comalapa

El Salvador

USA

NATO

Soto Cano

Honduras

USA

NATO

IV flotta

Oceano Atlantico y Pacifico

USA

NATO


 

La NATO è un trattato degli armamenti per la protezione e la cooperazione bellico-politico-economico tra gli stati membri. Fu costituito nel clima della Guerra Fredda e il suo omologo orientale è il trattato di Varsavia. La NATO è integrata dai paesi dell’Ovest europeo e dagli Stati Uniti e Canada. Questa organizzazione militare multilaterale negli ultimi anni si è dedicata a effettuare incursioni militari nei paesi che non sono membri della stessa. Ricordiamo che l’appoggio americano al Regno Unito, nel 1982, si articolò da qui.

È importante osservare con attenzione lo schema sulle basi della NATO, perché la sua parziale visione taglia di sbieco l’analisi, il fuoco dell’attenzione e anche, poiché costituisce la cosa più importante, taglia nella direzione non corretta le raccomandazioni sulle politiche di difesa regionale. Ad esempio, coloro che mettono a fuoco le nuove basi americane in Colombia, osservano a chiare lettere che, insieme alla politica mediatica dell’America del Nord, quelle basi hanno come obiettivo il Venezuela. Altri, cioè coloro che complementano questa analisi con la localizzazione della IV flotta, osservano, invece, che il centro è il Brasile. In ogni caso, tanto la dirigenza venezuelana quanto quella brasiliana si stanno dando da fare per incrementare e aggiornare il loro equipaggiamento, navi e spesa militare per essere all’altezza delle circostanze e delle basi che li circondano. Ma gli altri paesi della regione non dovrebbero cullarsi con questa analisi, in particolare, la nostra repubblica Argentina, pensando che solo quelli citati costituiscono il bersaglio di un eventuale attacco. Come osserva Lacolla (Dall’Afganistan alle Malvine), loro vengono per sfruttare le nostre risorse, principalmente il petrolio, successivamente punteranno la mira sull’acqua. Ma attualmente, la maggioranza delle analisi geopolitiche, comprese quelle del Consiglio di Difesa dell’UNASUR, hanno ignorato nei loro studi sulla regione le basi militari del Regno Unito.

Il tipo di configurazione che questo fatto impone non serve solo per prenderle in considerazione, ma anche per conoscere quale è il coordinamento storico e fattuale delle basi del Regno Unito insieme a quelle degli Stati Uniti. Per questa regione, un’analisi corretta non si deve soffermare alle sole basi stanziate in Colombia, bensì procedere e osservare con gli stessi occhi tutte le basi militari della NATO che, evidentemente, hanno un bersaglio, il quale non è così piccolo come lo possono essere due paesi e alcune isole con petrolio. L’obiettivo è il Sudamerica (e le sue risorse) ; tuttavia, la miopia di quei dirigenti o settori presuntamente rappresentativi della nostra società che ignorano e persino deridono gli avvertimenti che gli sono rivolti, potrà diventare molto dispendiosa nel breve termine.

Dal canto suo, il Comando Sud, meglio conosciuto come IV flotta, complementa le precedenti enclave imperialiste ed è una sorta di mega base militare mobile, è congiuntamente un complesso di portaerei e navi da guerra che circondano il Sudamerica. Nella cartina concernente le basi, si trova sovrapposta un’altra cartina con la dicitura « Souther Command. Area Focus », quella è la cartina ufficiale del Senato degli Stati Uniti, è il luogo dove navigano (in acque internazionali, ma non sempre), le imbarcazioni belliche del paese di Obama. La IV flotta ebbe la sua origine durante la Guerra Fredda per arrestare l’ideologia antimperialista che fiorisce come l’eritrina nelle nostre terre, in quanto naturale reazione di autodifesa da parte di qualsiasi società aggredita. Vale a dire che, stando al margine da ogni presentazione diplomatica, quelle navi compiono la funzione di reprimere ogni manifestazione antimperialista nella regione.

Ciò che deve rimanerci ben chiaro è che sono pochi i paesi dell’America latina che stanno adottando misure per salvaguardare non solo le proprie risorse ma anche per proteggere sé stessi. La nostra amata Argentina non appartiene a quella compagine.


 

Fonti :

Comando Sur : http://www.southcom.mil

TeleSur : http://www.telesurtv.net

Foreign and Commonwealth Office : http://www.fco.gov.uk/en


 

 

(trad. Vincenzo Paglione)

 

 

* Hugo Rodríguez è direttore del Grupo de Estudios Estratégicos Argentinos.

Fonte : http://geopoliticaargentina.wordpress.com/2010/06/21/la-otan-en-suramerica/


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Bush-Krieger Petraeus soll es richten

Bush-Krieger Petraeus soll es richten

Wolfgang Effenberger

 

Patraeus-Afghanistan-Pakistan-1-theater.jpgAuf Wunsch von US-Präsident Barack Obama musste der bisherige Afghanistan-Befehlshaber Stanley McChrystal seinen Hut nehmen. Grund waren despektierliche Äußerungen des Generals über die Administration in Washington. Nachfolger wurde General David Petraeus. Brisant, denn das von ihm verfasste Feldhandbuch gilt als radikalste Militärdoktrin der Gegenwart. Nun muss er sich auf den Pulverfässern von Irak und Afghanistan beweisen.

 

 

 

US-Präsident Barack Obama feuerte nach einem Vier-Augen-Gespräch im Oval Office am 23. Juni 2010 seinen Afghanistan-Befehlshaber Stanley McChrystal wegen dessen »höhnischer Bemerkungen« über die Washington-Administration.

Die kritischen Äußerungen sind in einem Porträt über McChrystal im US-Musikmagazin Rolling Stone enthalten (1). Unter dem Titel »The Runaway General« (übersetzt »Der abtrünnige General«) werden abfällige Bemerkungen des Generals über einige Top-Mitarbeiter der Obama-Administration wiedergegeben.

 

Mit scharfer Kritik wurden Vizepräsident Joe Biden, der US-Botschafter in Kabul, Karl Eikenberry, Obamas Sicherheitsberater James Jones sowie der Sonderbeauftragte für Afghanistan und Pakistan, Richard Holbrook, überzogen. Letzteren hält McChrystal für einen Wichtigtuer, dessen E-Mails er als lästig empfand. In Jones sieht der geschasste General einen Clown, dessen Weltsicht zum Jahr 1985 passt, während er sich von Eikenberry verraten fühlt. Für Vizepräsident Joe Biden blieb nur Spott: »Bite me« (Auf Deutsch: »Leck mich«). Schon im vergangenen Herbst hatte McChrystal die Anti-Terror-Strategie von Biden als »kurzsichtig« bezeichnet. Sie würde in ein »Chaos-Istan« führen. Und Barack Obama selbst? »Uninteressiert« und »uninformiert« – so McChrystals Einschätzung nach dem ersten zehnminütigen Treffen zwischen dem Afghanistan-Kommandeur und seinem Oberbefehlshaber. Besonders enttäuschend empfand es McChrystal, dass der Präsident und Oberbefehlshaber nichts über seine Person gewusst und sich auch nicht sonderlich engagiert gezeigt habe.

 

Was mag diesen spartanischen General, den zähen Ausdauersportler und ehemals loyalen Feldkommandeur Obamas bewegt haben?

 

Wie tief mussten also die Meinungsverschiedenheiten zwischen der Politik in Washington und der Armeeführung in Kabul sein, dass ein Vier-Sterne-General diesen Weg wählt, um auf den Bruch aufmerksam zu machen? Was sagt uns das über den Zustand der Mission in Afghanistan und Pakistan?

 

Die Despektierlichkeiten waren für den Präsidenten eine außerordentliche Herausforderung durch einen militärischen Führer – jedoch noch vor der Grenze zur Insubordination: Das US-Magazin stellt den General als einsamen Kämpfer dar, der sich von den Entscheidern in Washington alleingelassen fühlt. Das hätte den Präsidenten zum Nachdenken anregen müssen.

 

McChrystal hatte erst im Juni vergangenen Jahres den Oberbefehl über die westlichen Truppen in Afghanistan übernommen. Seinen Vorgänger, General David McKiernan, hatte die Regierung gefeuert, weil sie mit dessen Strategie nicht zufrieden war.

 

Binnen Minuten präsentierte Obama als Nachfolger für den gefeuerten ISAF-Kommandeur keinen geringeren als dessen Vorgesetzten, General David Petraeus, bis dato Befehlshaber des wichtigsten US-Regionalkommandos CENTCOM! 

Flankiert von Vizepräsident Joe Biden, Verteidigungsminister Robert Gates und Admiral Mike Mullen, Vorsitzender der Joint Chiefs of Staff, erklärte Obama diesen Schritt im Rosengarten des Weißen Hauses: »Aber Krieg ist größer als jeder Mann und jede Frau, größer als ein Gefreiter, ein General oder ein Präsident …« (2). Anschließend forderte Obama den Senat auf, die Ernennung von Petraeus zügig zu bestätigen: »Dies ist eine Änderung in der Personalentwicklung, es ist aber keine Veränderung der Politik«, betonte Obama.

Von Personalentwicklung kann jedoch keine Rede sein. Wie groß müssen die Schwierigkeiten sein, wenn kein geeigneter ISAF-Kommandeur aufgebaut werden kann und sich Obama des Befehlshabers von CENTCOM bedienen muss? Militärisch gesehen ist dies für Petraeus ein Abstieg und für Obama ein Offenbarungseid.

Nun soll Petraeus seinen irakischen Lorbeeren noch afghanische hinzufügen.

Im Irak-Krieg kommandierte er die 101. Luftlandedivision und begann nach der Zerschlagung des Regimes von Saddam Hussein, die neuen irakischen Sicherheitskräfte aufzustellen und auszubilden (3).

In die Vereinigten Staaten zurückgekehrt, übernahm er am 20. Oktober 2005 das Kommando über das US Army Combined Arms Center (CAC). Während dieser Zeit war er für die Erstellung des Feldhandbuchs FM 3-24 zuständig. Eine der Autoren des Handbuchs ist die Anthropologin Montgomery McFate, Schöpferin des vom Pentagon initiierten Programms »Operationssystem der Feldhumanforschung« und Beraterin des Verteidigungsministeriums. McFate zeichnet sich durch ihre Parteinahme aus, mit der sie die enge Zusammenarbeit zwischen Anthropologen und Militärs in asymmetrischen Kriegen, die Verletzung der elementarsten Menschenrechte und der grundlegendsten Prinzipien der UNO, rechtfertigt. Sie konnte die Counterinsurgency-Strategen davon überzeugen, dass die Anthropologie eine wirkungsvollere Waffe als die Artillerie sein kann.

 

Am 5. Oktober 2007 veröffentlichte die New York Times einen Artikel von David Rohde über die Überlegung von US-Militärs einer neuen entscheidenden Waffe in den Aufstandsbekämpfungsoperationen: »eine mit Anthropologen und anderen Gesellschaftswissenschaftlern ausgestattete Mannschaft zum permanenten Einsatz in den Kampfeinheiten der US-Besatzungstruppen in Afghanistan und im Irak« (4). Rohde berichtet, dass diese einzigartige Verwicklung der Gesellschaftswissenschaften in die Kriegsanstrengungen der USA ein erfolgreiches experimentelles Programm des Pentagons darstellt. Dieses Programm wurde, als es im Februar 2007 begann, vehement von den Kommandierenden des Kriegsschauplatzes empfohlen. Im September desselben Jahres autorisierte der Verteidigungsminister Robert M. Gates einen zusätzlichen Posten über 40 Millionen Dollar, um jeder der 26 Brigaden in den beiden erwähnten Ländern ähnliche Gruppen zuzuweisen.

 

Diese offene Komplizenschaft der Hochschulkreise mit den Militärs rief bei unabhängigen US-Intellektuellen eine Welle der Kritik hervor. Sie verurteilten die Mitarbeit der Hochschullehrer bei diesem Handbuch, das zur Verfolgung, Folter und Ermordung von Menschen bestimmt ist, und das der militärischen Besatzung von Ländern in den »dunklen Winkeln der Welt« dient, in denen die USA ihre Interessen durchsetzen wollen.

 

Seither gilt das Feldhandbuch FM 3-24 als Richtlinie der US Army für die »Aufstandsbekämpfung« (counterinsurgency). In dieser Doktrin sieht die Bundeswehr die radikalste Militärdoktrin der Gegenwart (5). Sie stellt viele traditionelle Paradigmen der US-Kriegsführung auf den Kopf und liefert gleichwohl auch eine praxisorientierte und detaillierte Handlungsanweisung. In ihm manifestiert sich das Konzept von US-General David Petraeus, wonach der Sicherheit und dem Wohlstand der Zivilbevölkerung im Einsatzland die höchste Priorität einzuräumen ist – so die Einschätzung der Bundeswehr. 

Vom 10. Februar 2007 bis zum 16. September 2008 versuchte dann Petraeus als Kommandeur der Multi-National Force Iraq (MNF-I) diese Doktrin umzusetzen. Jedoch nicht vollkommen – wie die letzten großen Anschläge im Irak beweisen. Ebenso verfolgte McChrystal in Afghanistan diese Counterinsurgency-Strategie. Danach sollen die alliierten Truppen nur zurückhaltend »tödliche Gewalt« anwenden, also etwa auch die Zivilbevölkerung bedrohende Luftschläge anfordern. Aber auch hier blieben die Erfolge aus. Dafür eskalierten die Verluste.

 

So erschütterte am 10. Mai 2010 die bisher schwerste Anschlagsserie des Jahres den Irak. Über 100 Menschen starben bei Attentaten in mehreren irakischen Städten, rund 350 wurden zum Teil schwer verletzt. Die Anschläge reihen sich ein in eine Phase erhöhter Gewalt im Umfeld der am 7. März stattgefundenen Parlamentswahlen.

 

In dieser Situation sind die Erwartungen an Petraeus besonders hoch. Vor allem für Obama. Denn noch ist nicht klar, wie viel von der Affäre an ihm hängen bleibt.

__________

Anmerkungen

(1) Michael Hastings: »The Runaway General«, in Rolling Stone, 22. Juni 2010, S. 1, unter www.rollingstone.com/politics/news/17390/119236

This article appears in RS 1108/1109 from July 8-22, 2010, on newsstands Friday, June 25

 

(2) Jennifer Loven / Anne Gearan: »General McChrystal Relieved Of Command: Obama Takes General Off Top Afghan Post«, in Huffington Post, 23. Juni 2010

 

(3) Damit erhielt er als Erster das Kommando über das Multi National Security Transition Command Iraq.

 

(4) David Rhode: »Army Enlists Anthropology in War Zones«, in The New York Times, 5. Oktober 2007, unter www.nytimes.com/2007/10/05/world/asia/05afghan.html

 

(5) Bundeswehr, unter

 

http://www.readersipo.de/portal/a/sipo/kcxml/04_Sj9SPykssy0xPLMnMz0vM0Y_QjzKLN7KI9zUJBslB2f76kZiixsFIokEpqfre-r4e-bmp-gH6BbmhEeWOjooA2cvujg!!/delta/base64xml/L2dJQSEvUUt3QS80SVVFLzZfMjhfTTVI?yw_contentURL=/01DB131300000001/W27UUB6G987INFODE/content.jsp

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Traditionalism: This is the Enemy!

Traditionalism: This is the Enemy!

Guillaume Faye 
 
Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Greg Johnson

In the circles of what we might euphemistically call the “revolutionary right,” or more broadly the “anti-liberal right,” one can observe the recurrent rise—like outbreaks of acne—of what one can only call “metaphysical traditionalism.”

Authors like Evola or Heidegger are in general the pretexts—mark my words: the pretexts—for the expression of these tendencies, many aspects of which seem to me negative and demoralizing. These authors themselves really aren’t the problem. To speak only of Evola and Heidegger, the works of neither author—whose true ideas are often extremely distant from those of the “Evolians” and “Heideggerians”—are susceptible to the criticisms that apply to their right-wing “disciples” who are in question here.

How do we characterize this “deviation” of metaphysical traditionalism, and what are the arguments against it? This mentality is characterized by three axiomatic presuppositions:

1. Social life must be governed by “Tradition,” the forgetting of which brings about decadence.
2. All that relates to our time is darkened by this decadence. The further back one goes in the past, the less decadence there is, and vice versa.
3. Ultimately, the only things that matter are “inner” preoccupations and activities, turned towards the contemplation of a certain something usually called “being.”

Without lingering over the relatively pretentious superficiality of this outlook which prefers, instead of true reflection and clarity, the facile obscurity of the unverifiable and the free play of words, which—under the pretext of depth (and even, in certain authors with strong narcissistic tendencies, of “poetry”)—ignores the very essence of all philosophy and all lyricism, one should especially recognize that this metaphysical traditionalism is in profound contradiction with the very values it generally claims to defend, i.e., counteracting the modern ideologies, the spirit known as the “European tradition,” anti-egalitarianism, etc.

Indeed, in the first place, the obsession with decadence and the dogmatic nostalgia that it induces make it seem like a reverse progressivism, an “inverted” linear vision of history: the same frame of mind, inherited from Christian finalism, of all “modern” progressivist ideologies. History does not ascend from the past to the present but descends.

Only, contrary to the progressivist doctrines, traditionalism cultivates a profoundly demoralizing pessimism toward the world. This pessimism is of exactly the same type as the naive optimism of the progressivists. It proceeds from the same mentality and incorporates the same type of vanity, namely a propensity to verbose prophecies and to set oneself up as a judge of society, history, and the like.

This type of traditionalism, in its tendency to hate and denigrate everything in the “present day,” does not only lead its authors to bitterness and an often unjustifiable self-conceit, but reveals serious contradictions that make its discourse incoherent and unbelievable.

This hatred of the present day, the “modern age,” is absolutely not put into practice in day to day life, unlike what one often sees, for example, in Christianity. Our anti-moderns can perfectly well benefit from the conveniences of modern life.

By this they reveal the true meaning of their discourse: the expression of a guilty conscience, a “compensation” carried out by deeply bourgeois souls relatively ill at ease in the current world, but nevertheless unable to get beyond it.

In the second place, this type of traditionalism usually leads to an exaggerated individualism, the very individualism that their “communitarian” vision of the world claims to denounce in modernity.

Under the pretext that the world is “bad,” that their contemporaries are patent decadents and imbeciles, that this materialist society “corrupted by science and technology” cannot understand the higher values of inwardness, the traditionalist, who always thinks of himself as standing on the mountain tops, does not deign to descend and accept the necessity of combat in the world, but rejects any discipline, any solidarity with his people, any interest in politics.

He is interested only in his hypertrophied self.

He transmits “his” thought to future generations like a bottle in the ocean—without seeing the contradiction, since they are supposedly incapable of understanding it because of increasing decadence.

This individualism thus leads logically to the very reverse of the original ideology, i.e., to universalism and implicit globalism.

Indeed, the metaphysical traditionalist is tempted to believe that the only associations that count are “spiritual,” the communication of great thinkers, which is similar throughout the world, regardless of their origin and source, provided that they seem to reject “Western modernity.” They replace the service of the people, of politics, of community, of knowledge, of a cause, not only with the service and contemplation of the self, but with the service of mere abstractions.

They defend “values,” no matter what their place of incarnation. From this, for some, comes a captivation with Orientalism; for others, a militant globalism; and for all of them, a disillusioned disinterest in the destiny of their people.

One even arrives at straightforwardly Christian attitudes—on the part of “philosophers” who usually busy themselves fighting Christianity.

Some random examples: the choice to prize the intention over the result; the choice to judge an idea or a value in terms of their intrinsic characteristics rather than their efficacy; a spiritualistic mentality that judges all cultures and projects in terms of their spiritual “value” rather than their material effects.

This last attitude, moreover, obviously has very little to do with the European “paganism” that our traditionalists often profess.

Indeed, by looking at a work, project, or culture from an exclusively “spiritual” point of view, one posits the Christian principle of the separation of matter and spirit, the dualistic dissociation between the pure idea and the concrete product.

A culture, a project, a work are nothing but products, in the concrete and dynamic sense of the term.

From our point of view there is no separation between the “value” and its “product.” The lyrical, poetic, aesthetic qualities of a culture, work, or project are intimately incorporated in its form, in its material production. Spirit and matter are one and the same thing. The value of a man or a culture lies in their acts, not in their “being” or their past.

It is precisely this idea, going back to the most ancient sources of the European tradition, that our metaphysical traditionalists—so imbued with their spiritualism and their monotheism of the “tradition” or their quest for “Being”—readily betray.

Paradox: nobody is further from European traditions than the traditionalists. Nobody is closer to the Near Eastern spirit of the monastery.

Everything that characterizes the European tradition, everything the cults from the East tried to abolish, is exactly the reverse of what today’s European traditionalists defend.

The European spirit, or that in it which is the greatest and the most civilizing, was optimistic and not pessimistic, exteriorized and not interiorized, constructivist and not spiritualistic, philosophical and not theological, open to change not settled and complacent, creator of its own traditions and forms or immutable ideas, conquering and not contemplative, technical and urban and not pastoral, attached to cities, ports, palaces, and temples and not to the countryside (the domain of necessity), etc.

In reality, the spirit of today’s traditionalists is an integral part of Western, commercial civilization, as the museums are part of the civilization of the supermarket. Traditionalism is the shadow self, the justification, the living cemetery of the modern bourgeois.

It serves as a spiritual supplement. It makes him believe that it doesn’t matter if he likes New York, television serials, and rock ’n’ roll, provided that he has sufficient “inwardness.”

The traditionalist is superficial: the slave of his pure ideas and contemplation, of the intellectual games of philosophical poseurs, at bottom he believes thought is a distraction, an agreeable but ultimately pointless exercise, like collecting stamps or butterflies—and not a means of action, of the transformation of the world, of the construction of culture.

The traditionalist believes that values and ideas preexist action. He does not understand that action precedes all, as Goethe said, and that it is through the dynamic combination of will and action that all ideas and values are born a posteriori.

This shows us the true function of traditionalist ideologies in the anti-liberal “right.” Metaphysical traditionalism is a justification to give up any combat, any concrete project of creating a European reality different from the present day’s.

It is the ideological expression of pseudo-revolutionaries. Its regressive utopias, hazy and obscure considerations, and pointless metaphysics do more than cause fatalism, inaction, and enervation. They also reinforce bourgeois individualism by implicitly preaching the ideal type of the “thinker”—if possible contemplative and disembodied—as the pivot of history. Men of action—the true historical personalities—are thus devalued.

Because the traditionalist ultimately does not support the “community,” he declares it impossible hic et nunc and turns it into a utopian and regressive fancy lost in the mists of who knows what “tradition.”

In this sense, “anti-modern” and “antibourgeois” traditionalism belongs objectively to the system of bourgeois ideologies. Like these ideologies, its hatred of the “present” is a good way, a skilful pretext, to reject as impossible any concrete historical construction, even those opposed to the present.

At the heart of its discourse, traditionalism maintains an absurd confusion between the “modernity” of European technological-industrial civilization and the “modern spirit” of egalitarian and Western ideologies (which are arbitrarily linked to each other). Thus traditionalism disfigures, devalues (sometimes to the profit of an idealized “traditional” Third World), and abandons the Western and American spirit, the very genius of European civilization.

Like Judeo-Christianity, but for different reasons, the traditionalist says “No” to the world and consequently undermines the tradition of his own culture. Ultimately, a traditionalist is someone who always already knows that there is only one tradition, as an idealist always already knows that everything is an idea.

Finally, from the point of view of “thought”—that war-horse of metaphysical traditionalism—what could be more detrimental to the spirit, more incompatible with the quality of intellectual debate and the reflection that makes one free and contemplative, than to disembody them from all “political” projects (in the Nietzschean sense) and divert them into the elitism of bibliophiles and salaried autodidacts?

Let us dare to liquidate the Evolians and Heideggerians.

But let us read Evola and Heidegger: to put them in perspective, rather than mount them on waxed paper.

“Le traditionalisme: voilà l’ennemi,” Lutte du Peuple, no. 32, 1996.

jeudi, 01 juillet 2010

Jonathan Littell, lecteur de Céline

Jonathan Littell, lecteur de Céline

Ex: http://lepetitcelinien.blogspot.com/

 

Si le personnage principal des Bienveillantes de Jonathan Littell (1) ne faisait pas la rencontre de Céline, il serait sans doute superflu de revenir sur ce roman. Mais il se trouve qu’au début des années trente, Maximilien Aue, futur officier nazi, accompagne Céline à un concert d’une pianiste légendaire : Marcelle Meyer (1897-1958). Quelques années plus tard, Lucien Rebatet l’emmène à plusieurs reprises chez l’écrivain. Et leur ami commun, Henri Poulain, secrétaire de rédaction de Je suis partout, lui récite dans le métro des passages entiers de L’École des cadavres. Pas moins.
Paul-Éric Blanrue a consacré à ce phénomène de l’édition qu’est Littell (800.000 exemplaires vendus à ce jour) une intéressante étude (2). Selon lui, si Céline est très peu cité dans le roman, sa présence y est constante, telle une ombre tutélaire. Rien d’étonnant à cela : Littell est – on l’a appris depuis – un « grand fan de Céline » (3).
Extrait du livre de Blanrue :
« La musique comme accompagnatrice d’une tragédie ? Précisément. Telle est une des constantes de l’œuvre de Louis-Ferdinand Céline, l’un des fantômes récurrents des Bienveillantes. Le narrateur le rencontre à deux reprises, cite quelques lignes de l’un de ses pamphlets antisémites d’avant-guerre sans le nommer (il s’agit de L’École des cadavres) et se rend au concert en sa compagnie, mais le personnage n’apparaît véritablement que dans le délire de Aue, après sa blessure à la tête (dont Céline a également souffert), sous le nom halluciné du “Dr Sardine”, Littell déclare d’ailleurs : “Céline, pour critiquer le théâtre de Sartre, lui avait lancé que l’horreur n’est rien sans le songe et sans la musique ! » (L’Est Républicain
).
L’auteur de Rigodon a souvent montré le caractère hypnotique de la musique, en particulier au tout début du Voyage au bout de la nuit, lorsque Bardamu, tranquille “anar” sirotant place Clichy, se décide soudain, envoûté, charmé comme un serpent, à suivre une fanfare militaire, qui le conduit tout droit à la caserne et à la guerre de 14. “Dans le récit célinien la musique intervient en des points qui mettent en scène une désarticulation du réel, qu’il s’agisse de la “folie” qui poursuit le trépané ou des histoires de folie que sont les guerres qui parcourent le vingtième siècle et dont Céline s’est voulu le “chroniqueur” […] Ainsi qu’on a pu le lire dans Mort à crédit, la singulière écoute célinienne de la musique est liée à son expérience malheureuse de la guerre, elle est en lui l’empreinte que la guerre a laissée, son sceau, blessure et détraquement du corps”, écrit François Bruzzo (Francofonia, n° 22, printemps 1992). Il en va de même dans
Les Bienveillantes, où la musique indique un tracé, un chemin de fer dont il semble difficile de se détourner. »
On voit que Paul-Éric Blanrue est attentif aux aspects proprement littéraires du livre, même s’il entend avant tout avoir une démarche d’historien. Depuis une vingtaine d’années, il a entrepris un véritable travail de démystification, fondant le « Cercle zététique » qui se propose d’enquêter sur tous les sujets relevant de l’extraordinaire, tant en science qu’en histoire.
Pour conclure, relevons l’ironie du sort qui a voulu que le Prix Goncourt ait été attribué à Littell alors qu’il échappa, comme on sait, à Céline. Mieux : Littell a également décroché le Grand Prix de l’Académie française. Un hebdomadaire satirique en a fait des gorges chaudes, le français du jeune Américain laissant fortement à désirer (4). Il ne faut, en effet, pas être grand clerc pour constater que le roman est truffé de fautes de style, de barbarismes, de solécismes et surtout d’anglicismes. Mauvaise traduction ou mauvaise relecture de Gallimard ?

Marc LAUDELOUT

1. Jonathan Littel,
Les Bienveillantes, Gallimard, 2006, 908 p. Nous n’avons pas consulté la réédition en poche qui est, paraît-il, débarrassée de ces scories.
2. Paul-Éric Blanrue, Les Malveillantes. Enquête sur le cas Jonathan Littel, Éditions Scali, 2006, 128 p. Voir aussi le site Internet de l’auteur : www.blanrue.com.
3. Christophe Ono-dit-Biot, « Beyrouth, Littell, l’art de la guerre », Le Point, 21 décembre 2006.
4. « Bienveillante Académie », Le Canard enchaîné, 8 novembre 2006. Voir aussi les contre-arguments de Florence Mercier-Leca, maître de conférences à l’Université de Paris IV-Sorbonne : « “Les Bienveillantes” : la confusion des genres », La Quinzaine littéraire, 1er-15 décembre 2006.